Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

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(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA CULTURA

ED I MEDIA

QUARTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

     

  

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Scienza è un’opinione.

L’Anti-Scienza.

Alle origini della Vita.

L’Intelligenza Artificiale.

I Benefattori dell’Umanità.

Al di là della Luna.

Viaggiare nello Spazio.

Gli Ufo.

La Rivoluzione Digitale.

I Radioamatori.

Gli Hackers.

Catfishing: la Truffa.

La Matematica.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Libero Arbitrio.

Il Cervello Allenato.

Il Cervello Malato.

La Sindrome dell'Avana.

Le Onde Celebrali.

Gli impianti.

La disnomia.

La nomofobia.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Geni.

Il Merito.

Ignoranti e Disoccupati.

Laureate e Disoccupate.

Il Docente Lavoratore.

Decenza e Decoro a Scuola.

Una scuola “sgarrupata”.

Gli speculatori: il caro-locazione.

Discriminazione di genere.

La Scuola Comunista.

La scuola di Maria Montessori.

Concorso scuola truccato.

Concorsi truccati all’università.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tutti figli di…Neanderthal (nord) e Sapiens (Sud).

Come si usano.

Sapete che…?

Epifania e Befana.

Il Carnevale.

Gioventù del cazzo.

Gli Hikikomori. 

La Vecchiaia è una carogna…

Gemelli diversi.

L’Ignoranza.

La Rimembranza.

La Nostalgia.

Gli Amici.

La Fiducia.

Il Sesso.

Il Nome.

Le Icone.

Il Linguaggio.

La Fobia.

Il Tatuaggio.

Il Limbo.

Il Potere nel Telecomando.

Gli incontri casuali di svolta.

I Fantozzi.

Ho sempre ragione.

Il Narcisismo.

I Sosia.

L’Invidia.

L’Odio.

Il Ghosting: interruzione dei rapporti.

Gli Insulti.

La Speranza.

Il Dialogo.

Il Silenzio.

I Bugiardi.

Gli stolti.

I Tirchi.

Altruismo.

I Neologismi.

Gli Snob.

I Radical Chic.

Il Pensiero Unico.

La Cancel Culture.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

La P2 Culturale.

L’Utopia.

Il Cinema di Sinistra prezzolato.

Il Consenso.

I Negazionismi.

I Ribelli.

Geni incompresi.

Il Podcast.

Il Plagio.

Ladri di Cultura.

Il Mecenatismo.

I Beni culturali.

Il Futurismo.

I Bronzi di Riace e di San Casciano dei Bagni.

I Faraoni.

La Pittura.

Il Restauro.

Il Collezionismo.

La Moda.

Il Cappello.

Gli Orologi.

Le Case.

La Moto.

L’Auto.

L’emoticon.

I Fumetti.

I Manga.

I Giochi da Tavolo.

I Teatri.

Il direttore d’orchestra.

L’Arte in tv.

La Cultura Digitale.

Dalla cabina al selfie.

I Social.

La scienza, la cultura ed i social. I Divulgatori.

La Capitale della Cultura.

Oscar made in Italy.

I Balbuzienti.

Cultura Stupefacente.

I pseudo intellettuali.

Le lettere intellettuali.

L’Artistocrazia.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Achille Bonito Oliva.

Alberto Angela.

Aldo Busi.

Aldo Nove.

Alessandro Baricco.

Alessandro Manzoni.

Alfred Hitchcock.

Amy Sherald.

Andy Warhol.

Andrea Camilleri.

Andrea G. Pinketts.

Andrea Palladio.

Andrea Pazienza.

Annie Ernaux.

Antonella Boralevi.

Antonio Canova.

Antonio de Curtis in arte Totò.

Antonio Pennacchi.

Arturo Toscanini.

Banksy.

Barbara Alberti.

Billy Wilder.

Carlo Emilio Gadda.

Carlo Levi.

Carlo Linati.

Carmen Llera e Alberto Moravia.

Cesare Pavese.

Charles Baudelaire.

Charles Bokowski.

Charles M. Schulz.

Chiara Valerio.

Crocifisso Dentello.

Dacia Maraini.

David LaChapelle.

Dino Buzzati.

Donatello.

Elisa De Marco.

Emil Cioran.

Emilio Giannelli.

Emilio Lari.

Ennio Flaiano.

Ernest Hemingway.

Espérance Hakuzwimana. 

Eugenio Montale.

Eva Cantarella.

Ezra Pound.

Fabio Volo.

Federico Fellini.

Federico Palmaroli. 

Fernanda Pivano.

Francesca Alinovi.

Francesco Guicciardini.

Francesco Tullio Altan.

Francisco Umbral.

Franco Branciaroli.

Franco Cordelli.

Franz Peter Schubert.

Franz Kafka.

Fulvio Abbate.

Gabriel Garcia Marquez.

Gabriele d'Annunzio.

Georges Bataille.

George Orwell.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel.

Giacomo Leopardi.

Gian Paolo Serino.

Gian Piero Brunetta.

Giampiero Mughini.

Giordano Bruno Guerri.

Giorgio Forattini. 

Giorgio Manganelli.

Giovanni Ansaldo.

Giovanni Verga.

Giuseppe Pino.

Giuseppe Prezzolini.

Giuseppe Ungaretti.

Giuseppe Verdi.

Grazia Deledda.

Guido Gozzano.

Guido Harari.

Ian Fleming.

Ignazio Silone.

Indro Montanelli.

Italo Calvino.

Jane Austin.

John Le Carré.

John Williams.

José Saramago.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Lawrence d'Arabia.

Leonardo da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Leopoldo (Leo) Longanesi.

Luciano Bianciardi. 

Luchino Visconti.

Louis-Ferdinand Céline.

Marcel Proust.

Mariacristina Savoldi D’Urcei Bellavitis.

Marcello Marchesi.

Marco Giusti.

Mario Picchi e Aldo Palazzeschi.

Mario Praz.

Massimiliano Fuksas.

Maurizio Cattelan.

Maurizio de Giovanni.

Melissa P.: Melissa Panarello.

Michel Houellebecq.

Michela Murgia.

Michele Rech, in arte Zerocalcare.

Nietzsche.

Oliviero Toscani.

Oriana Fallaci.

Orson Welles.

Pablo Picasso.

Pier Paolo Pasolini.

Pietrangelo Buttafuoco.

Pietro Scarpa.

Renzo Piano.

Riccardo Muti. 

Richard Wagner.

Roberto Benigni.

Robert Byron.

Roberto Giacobbo.

Roberto Saviano.

Sacha Guitry.

Saint-John Perse.

Salvatore Quasimodo.

Sebastián Matta.

Sergio Leone.

Staino.

Stephen King.

Susanna Tamaro.

Sveva Casati Modignani.

Tiziano.

Truman Capote.

Umberto Boccioni.

Umberto Eco.

Valentino Garavani.

Vincent Van Gogh.

Virginia Woolf.

Vittorio Sgarbi.

Walt Disney.

Walt Whitman.

William Burroughs.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.

La Sociologia Storica.

Il giornalismo d’inchiesta.

I Martiri.

Se questi son giornalisti...

Il Web e la Legione di Imbecilli.

Gli influencer.

Le Fallacie.

Le Fake News.

Il Nefasto Amazon.

I Censori.

Quello che c’è da sapere su Wikipedia.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

Gli Oscar comunisti.

Lo Streaming.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Pizzo di Stato.

Mediaset.

Il Corriere della Sera.

Il Gruppo Editoriale Gedi.

Primo: la Verità del Il Giornale.

Alberto Matano.

Alda D'Eusanio.

Aldo Cazzullo.

Alessandra De Stefano.

Alessandra Sardoni. 

Alessandro Giuli.

Andrea Scanzi.

Andrea Vianello.

Beppe Severgnini.

Bernardo Valli.

Bianca Berlinguer.

Bruno Longhi.

Bruno Vespa.

Camillo Langone.

Carlo De Benedetti.

Cecilia Sala.

Cesara Buonamici.

Claudio Cerasa.

Corrado Formigli.

Davìd Parenzo.

Diego Bianchi in arte Zoro.

Elisa Anzaldo.

Emilio Fede.

Ennio Simeone.

Enrico Mentana.

Enrico Varriale.

Enzo Biagi.

Ettore Mo.

Fabio Caressa.

Fabio Fazio.

Federica Sciarelli.

Filippo Ceccarelli.

Filippo Facci.

Fiorenza Sarzanini.

Franca Leosini.

Francesca Fagnani.

Francesco Giorgino.

Gennaro Sangiuliano.

Giacinto Pinto.

Gian Paolo Ormezzano.

Gianluigi Nuzzi.

Gianni Minà.

Giorgia Cardinaletti.

Giovanna Botteri.

Giovanni Floris.

Giovanni Minoli.

Giovanni Tizian.

Giuliano Ferrara.

Giuseppe Cruciani.

Guido Meda.

Ivan Zazzaroni.

Julian Assange.

Hoara Borselli.

Lamberto Sposini.

Laura Laurenzi.

Lilli Gruber.

Lina Sotis.

Lucio Caracciolo.

Luigi Contu.

Luisella Costamagna.

Marcello Foa.

Marco Damilano.

Marco Travaglio.

Maria Giovanna Maglie.

Marino Bartoletti.

Mario Calabresi.

Mario Giordano.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Massimo Gramellini.  

Maurizio Costanzo.

Michele Mirabella.

Michele Santoro.

Michele Serra.

Milo Infante.

Mimosa Martini.

Monica Setta.

Natalia Aspesi.

Nicola Porro.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo del Debbio.

Paolo Zaccagnini.

Pierluigi Pardo.

Roberto D'Agostino.

Roberto Napoletano.

Rula Jebreal.

Salvo Sottile.

Selvaggia Lucarelli.

Sigfrido Ranucci.

Tiziana Alla.

Tiziana Panella.

Vincenzo Mollica.

Vincenzo Palmesano.

Vittorio Feltri.

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

QUARTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Achille Bonito Oliva.

Achille Bonito Oliva  per Robinson - la Repubblica il 19 settembre 2022.

Il museo è un'istituzione che esegue la sua espropriazione in nome di un'astratta collettività che dovrebbe così usufruire della contemplazione socializzata e pubblica dell'arte. In realtà essa funziona per nome e per conto di un mandante che è la classe egemone che detiene tutto il potere, anche quello di produrre e aggiornare i significati di un linguaggio, doppio rispetto a una realtà che già manipola.

Il mercato e il collezionismo sono mossi da istanze private e di accumulazione economica, di promozione culturale e di identificazione con l'opera. Il collezionismo agisce in nome di un amore per l'arte che la feticizza e la privilegia al di sopra di altri oggetti della produzione.

Il collezionista assegna all'artista il primato ed il compito di produrre significati specializzati, ottenuti cioè attraverso l'impiego di tecniche e linguaggi che appartengono al sistema e alla storia dell'arte.

Ma se non è possibile psicoanalizzare il mercato, per la sua impersonalità strutturale, è invece possibile analizzare a livello delle motivazioni profonde, il comportamento del collezionista, individuato nella persona di chi accumula opere e oggetti d'arte. In realtà il collezionista proietta e delega la propria creatività all'artista che la gestisce e la oggettiva in forme che, dietro un compenso economico, ritornano al delegante.

Il collezionista è colui che rinuncia ad esercitare le proprie pulsioni profonde e segrete e accetta una vita bidimensionale, senza rischi, in cui le opere diventano la possibilità di una avventura, che egli non può e non vuole correre, e l'impossibilità divenuta reale, vissuta per interposta persona. 

Se l'arte è produzione del desiderio, di impossibili possibilità, produzione di inconscio (come dicono Deleuze e Guattari), allora il collezionismo è la copia del desiderio, irrisolto e divenuto nostalgia, coltivata attraverso l'artificiale accumulazione di opere d'arte.

L'attaccamento libidico e sacrale del collezionista ai propri oggetti corrisponde all'attaccamento del bambino alle proprie feci, risarcimento e gratificazione per un'impotenza procurata, proprio, dalla delega della propria creatività. Le opere diventano la coniugazione di un'esistenza che crede nella frantumazione del lavoro e dell'attività produttiva. 

All'arte viene assegnato un valore inizialmente astratto e, successivamente, concreto che si identifica con la singola opera. Privatizzare l'opera significa la possibilità di introiettare detto valore, quello della creatività, e riparare la perdita iniziale. Significa, per il collezionista, ritrovare una fittizia unità che la sua iniziale delega gli aveva fatto perdere.

La collezione, l'esibizione ordinata delle opere nella casa privata o nel museo, in cui vengono accolte spesso le collezioni private, è l'ostentazione infantile di chi si illude di aver riparato la perdita attraverso il denaro-fallo. Il denaro diventa il prolungamento di un eros interdetto, deviato dal suo esercizio diretto e risolto, mediante la contemplazione, in voyeurismo che si accontenta della rassicurante e statica presenza dell'oggetto, al posto di una pratica della processualità: perché l'arte è un processo creativo, dell'arte. 

Il collezionista, con il suo comportamento, ha contraddetto il luogo comune che lo vuole innamorato delle belle forme, della universalità e immortalità dell'arte. Nell'ambito della cosiddetta avanguardia, egli è disposto a tutto, colleziona anche l'effimero. Il collezionista di Duchamp aveva già, all'inizio del secolo, comprato dall'artista l'aria di Parigi, custodita in una ampolla.

Con la produzione dell'anti-form, arte processuale, body-art, arte concettuale e land-art, egli si accontenta di tesaurizzare anche i detriti, materiali volgari e deteriorabili, fino alle scatole di merda di Manzoni, le foto del mongoloide di de Dominicis e dell'incesto di Vettor Pisani. 

Perché il collezionista ha investito l'artista di un potere egemone, quello di una produzione immaginativa che tutto giustifica e promuove a valore: il corpo dell'artista e i suoi dintorni sono, per lui, il tempio dell'arte.

Egli, il collezionista, ha invidia dell'artista, della fantasia-pene e cerca di evirarlo mediante l'accattivante proposta del collezionismo. Il collezionismo diventa il luogo narcotico in cui egli sposa, nel ruolo femminile, l'immaginazione maschile di chi è riuscito a procreare, adottandone alla fine l'opera-prole. Si instaura allora un rapporto fondato sul desiderio inconscio, da parte del collezionista, di eseguire una sorta di rito cannibalesco, quello di mangiare attraverso l'opera colui che si è mostrato più potente e sottile. 

Da qui il collezionismo che accetta ogni sfida, di collezionare tutto, anche sé stesso, di catalogare l'impalpabile, l'odore, il rumore e il fumo del sigaro di Duchamp.

La copia del desiderio nasconde allora il desiderio di non essere copia, l'impulso di non accettare l'azione per interposta persona e a provare nostalgia per un ruolo interdetto. Così il collezionista adopera l'arte come una macchina di Roussel: prova il brivido di una realtà fantasmatica diversa, il conforto e il privilegio di uno spettacolo.

Achille Bonito Oliva per “Robinson - la Repubblica” il 13 agosto 2022.

È da tempo ormai che l'arte vive su un sistema vitale di relazioni articolate in una triade: opera, pubblico e mercato. Una vitalità che nasce dal bisogno di comunicare e di contattare il pubblico con i propri problemi. Per questo oggi " avanguardia" è una parola patetica e abusata. L'avanguardia presuppone la possibilità e la presunzione della rottura e della novità. 

All'inizio del Novecento, quando la situazione storica permetteva ancora all'artista l'illusione di poter fare dell'arte uno strumento di lotta e di trasformazione della realtà, allora effettivamente l'avanguardia era autorizzata dai fatti stessi a esistere. 

Infatti lo scandalo era il segno che l'operare artistico diventava una effettiva trasgressione alle regole che reggevano il sistema dell'arte e il sistema sociale nel suo insieme. Oggi invece il sistema riesce a inglobare qualsiasi tentativo di rottura e di novità, sia che si tratti di gesti diretti come la politica che di gesti indiretti come la cultura. 

Non esiste avanguardia perché pensare in questi termini significa avere dell'arte una visione darwinistica, evoluzionistica nel senso più ottimistico del termine, come se l'arte si evolvesse in maniera coerente e in un suo progressivo sviluppo al di fuori delle contraddizioni. 

Ma quali sono queste contraddizioni? Naturalmente quelle tipiche del sistema dell'arte e dunque del sistema in generale. Il sistema dell'arte dunque è costituito, ricordiamolo, da tre elementi: opera, pubblico e mercato.

Nell'arte contemporanea l'opera si presenta sempre con un suo aspetto sperimentale, in quanto è messa alla frusta dalla competizione che essa deve subire da parte delle tecniche di riproduzione meccanica che hanno una capacità di cogliere il vero e di tradurlo in termini di immediatezza, compito che prima spettava alle arti figurative. 

Da qui per l'arte (le arti figurative) la strategia dell'impurità: scelta di materiali e di tecniche inedite, non contemplate dalla tradizione e dalla storia dell'arte. Dall'impressionismo ad oggi l'artista ha trasgredito varie regole canoniche: la prospettiva rinascimentale che serviva a dare allo spettatore l'illusione di una profondità ottica nel quadro, il mito della simmetria e della proporzione e le categorie di pittura e scultura.

A un mondo in cui egli non riconosce, stravolto da un'industrializzazione che vive sotto il segno del profitto e dell'avvento della civiltà di massa, l'artista risponde attraverso la negazione degli altri due elementi della triade: pubblico e mercato.

Infatti il pubblico, abituato ad essere "massaggiato" e confortato da un'arte che inseguiva ancora il mito della bellezza, si trova, senza alcuna mediazione, di fronte a opere che lo respingono, perché basate, intenzionalmente, sull'apologia dell'eccentrico, dell'ermetico e dell'inconsueto.

In una parola tutti elementi che, in luogo della tradizionale visione tranquillizzante della realtà, creano nello spettatore disagio e una iniziale impossibilità di lettura. A un'arte "materna", che ci spiega tutto e ci consola dalle brutture della vita quotidiana, subentra un'arte «che punisce e mortifica le aspettative del pubblico, per distillare i veleni del dubbio». 

Così all'inizio anche il museo, istituzione che ha la funzione (raccogliendola, selezionandola e catalogandola) di socializzare l'arte e di tramandarla, respinge tali prodotti. E il mercato funziona soltanto attraverso l'intelligenza (culturale ed economica) di pochi collezionisti privati e l'intraprendenza di alcuni mercanti, i quali, strumentalizzando l'emarginazione di tali opere, agiscono come previdenti imprenditori investendo con un minimo di prezzo e di rischio in sicuri capitali in ascesa.

In questa maniera è facile comprendere che allora esisteva, sì un mercato, ma non era nato ancora l'abnorme problema della mercificazione. Il mercato era il luogo dello scambio eventuale del (non ancora accertato) valore artistico con un reale valore economico (il denaro). 

Il mercato, dunque, non faceva ancora domanda dei prodotti dell'arte, ma si limitava ad accoglierli. Ovviamente l'arte d'avanguardia svolgeva anche un ruolo di promozione culturale e di identificazione sociale.

Il mecenate era il ricco borghese, qualche volta un compagno di strada, che acquistando un'eccentrica opera d'arte affermava le proprie affinità elettive con l'artista che l'aveva prodotta e dunque si riconosceva come partecipe del suo milieu sociale e culturale. Anzi, spesso l'incomprensione del salotto, costituito dalle persone del suo ambiente, lo rassicurava come tra i pochi depositari dell'intelligenza dell'opera d'arte.

Con felice cinismo l'artista d'avanguardia ha utilizzato questi tic del collezionismo, per sopravvivere e dare continuità alla propria ricerca. Una ricerca che, quasi per statuto, poggiava all'inizio su tre bisogni primari: la rottura del linguaggio tradizionale, la novità delle tecniche e dei materiali adoperati e il conseguente scandalo.

Spesso le avanguardie del Novecento hanno praticato una sorta di "schiaffo al pubblico", al gusto medio dello spettatore che veniva profanato e oltraggiato da queste opere impure. Ma con il tempo il pubblico ha acquistato come un muscolo, una capacità di assorbire i colpi bassi dell'arte senza più spaventarsi, accettando anche nello spazio sacro del museo esposizioni d'avanguardia. Come ho già scritto altrove, il filtro del museo garantiva ora l'autenticità di un'arte che, se avallata appunto dal museo, doveva pure avere un suo valore. 

Anzi, più l'arte d'avanguardia cercava di uscire dalla storia dell'arte più erano i suoi tentativi eversivi, più essa veniva pedinata dal museo e dal mercato. Per museo non intendiamo solo lo spazio fisico dell'esibizione ma lo spazio culturale e mentale in cui avviene la contemplazione dell'opera da parte del pubblico.

Inoltre, col progredire delle strutture produttive, il mercato scopriva che la rottura, la novità e lo scandalo diventavano incentivi che davano all'arte quella pubblicità che ne imponeva la presenza e il valore. Anzi, l'intelligenza pratica del mercato si spingeva fino al punto di scoprire che la cosiddetta poetica (la fedeltà alle proprie immagini, alle proprie tecniche, ai propri materiali) garantiva all'opera un marchio di riconoscimento. 

Un riconoscimento che le permetteva un'immediata cattura e assorbimento.

Quando l'artista d'avanguardia scopre che la propria poetica più è ossessiva, nel senso che ricorre alla stessa immagine, più è mercificabile, tenta una tattica ulteriore: quella della contraddizione e della diversificazione del prodotto. Crea opere l'una diversa dall'altra adoperando ogni volta materiali diversi.

Ma anche questa alla fine è risultata una fuga in avanti, in quanto il mercato si è adeguato anche a questa condizione. Qui nasce il problema della mercificazione. La caduta a merce dell'opera d'arte, assorbita non per la sua qualità, ma per il suo puro valore di quantità e di appartenenza a quel mondo mitico che è quello della creazione artistica. 

Paradossalmente il mercato artistico cerca di ribaltare e di riqualificare il ruolo negativo della mercificazione, presentando come ineluttabili i fenomeni accidentali della creazione artistica e come universale la produzione, storicamente delimitata, dell'arte.

Noi sappiamo che le tradizionali qualità dell'opera d'arte sono: l'universalità, la necessità e l'oggettività. Ora questi caratteri vengono assunti in proprio dal mercato che, nel suo sistema di relazioni e dunque nella sua struttura globale, propone un paradosso: il mercato come opera d'arte. 

Un ingranaggio lucido e perfetto che afferma la propria universalità attraverso la distribuzione internazionale del prodotto artistico, la propria ineluttabilità attraverso l'assicurazione (seppur mistificatoria) di sopravvivenza e di sostentamento economico dell'artista, la propria oggettività attraverso la coscienza cinica (nel nostro sistema neo-capitalistico) di dare statuto di esistenza e riconoscimento all'opera d'arte.

·        Alberto Angela.

Mario Ajello per “il Messaggero” il 21 aprile 2022.

Alberto Angela è un profondo e appassionato conoscitore della storia di Roma, come tutti sanno vedendo le sue trasmissioni televisive e leggendo i suoi libri. 

Angela, oggi come ogni 21 aprile si celebra il Natale di Roma, una grande avventura cominciata nel 753 avanti Cristo. Che cosa significa questa ricorrenza?

«Al di là della data un po' simbolica della fondazione, quello che importa a tutti è che l'età romana ha plasmato il nostro modo moderno di vivere: dall'arte all'abitudine del buon cibo e ai piaceri conviviali, dalla moda all'arredamento, dalle lingue alla genetica delle popolazioni. Perfino la religione che c'è in Europa ha avuto un forte impulso dall'età romana.

I caratteri che noi usiamo sullo smartphone sono romani. Parigi e Londra, così come tante altre città europee, sono state fondate dai romani. Il made in Italy è stato inventato nell'Urbe». 

Un mondo intero cresciuto sulle spalle dei giganti, in seguito al tempo mitico della fondazione?

«Roma era riuscita a far vivere un impero che inglobava quelli che poi sono diventati più di 50 Stati e più di un quarto delle nazioni del pianeta. L'impero coinvolgeva quasi tre continenti e noi, oggi, spesso fatichiamo a mettere d'accordo i 27 Stati membri dell'Unione Europea». 

I romani erano più bravi?

«Mettere d'accordo 450 milioni di persone è più difficile che metterne d'accordo 50 o 60 milioni, quanti erano al tempo dell'impero romano. La verità è che era un premio, per i non romani, essere considerati dei cittadini di Roma. E poi c'era una questione d'identità e di coesione.

Tu nascevi all'interno di qualcosa di molto definito e che si opponeva al mondo esterno, in cui c'erano i barbari. Roma era un punto che ti faceva sentire unito agli altri, capace di amalgamare tramite il commercio, la cultura, le lingue. Nella Ue, viceversa, ognuno nasce con una lingua diversa, un piatto diverso, tradizioni diverse. E dunque è più difficile unire genti che hanno così tante differenze». 

Però non c'è alternativa, non crede?

«Siamo ancora molto giovani. Roma ha impiegato generazioni e generazioni, secoli e secoli, a raggiungere quella che è diventata l'unità dell'impero. Che era attraversato da ogni tipo di diversità ma riusciva a far sentire tutti parte di una stessa entità». 

L'attuale guerra in Ucraina non può aiutarci a riconoscerci di più e meglio, tutti insieme, come europei?

«Io sono fiducioso. La nostra unione sarà sempre più stretta. Dobbiamo risolvere i problemi interni ma soprattutto, guardando fuori, riconoscere non che cosa ci separa tra di noi ma che cosa ci unisce. In questo momento di tensioni internazionali, riusciamo a capire l'importanza di questa unione. Se fossimo stati Paesi sparsi e non accomunati in un vincolo, ci troveremmo oggi in una situazione molto più difficile».

In questa fase storica, più che mai, il Natale di Roma può essere la festa di tutti?

«Segnò l'inizio di una civiltà che ha determinato il nostro presente. Per questo motivo ci riguarda tutti. L'eco di quella storia arriva dappertutto e attraversa pure l'Atlantico. Pensiamo a Capitol Hill. 

O, per tornare in Europa, alle aquile di Napoleone. E ancora: la parola Cesaree si è trasformata in kaiser e in zar, si è cercato insomma di ispirarsi alla grandezza di Roma in epoche successive anche da parte dei sovrani. Ma è in generale l'ordine e il sistema romano che riecheggiano lungo i millenni nelle varie parti del mondo. Roma è riuscita a creare il suo impero e la sua civiltà globale senza avere un computer né il web né un telefonino. 

Ciò significa grande organizzazione e grande efficienza nel farla funzionare. E pensare che tutto questo è partito da noi italiani. 2000 anni fa, l'Italia era una superpotenza che non solo dominava ma insegnava agli altri a vivere. La cosa che a noi tutti impressiona è che eravamo noi italiani a dettare l'efficienza e a costruire un mondo ammirato e condiviso da tutti, un modello a cui ispirarsi». 

Qui non stiamo parlando dei lati oscuri del modello romano che pure erano tanti. Ce ne può indicare qualcuno?

«La schiavitù. Le pulizie etniche alle frontiere. Il fortissimo classismo. E potrei continuare». 

Perché oggi è la disunità a dominare?

«Guardi, la storia si ripete. Quello che vediamo oggi in Ucraina lo abbiamo già avuto in casa 80 anni fa. Con le stesse tragedie e gli stessi orrori contro i civili. 

Bisogna conoscere la storia perché aiuta a capire il presente e a indirizzare il futuro. Le risposte del futuro in gran parte si trovano nel nostro passato». 

Nel futuro immediato, e parliamo del 2025, cioè dietro l'angolo, c'è a Roma il Giubileo. Mentre voi sabato sera su Rai1, a Ulisse, parlerete del Giubileo della regina Elisabetta.

 «Sì, è un periodo di giubilei, laici e religiosi. Elisabetta festeggia i 70 anni di regno. Quando salì sul trono, nel 1952, il mondo era completamente diverso. Non si era neppure andati nello spazio. I giubilei, compreso quello di Roma 2025, servono a dare coesione e identità attorno a qualcosa o a qualcuno. Danno un senso comunitario. Uniscono il passato al presente e sono uno stimolo al ragionamento sui nostri tempi». 

E intanto, la fondazione di Roma che tipo di rifondazione potrebbe ispirare?

«Mi piacerebbe che venisse riportata un po' di quella efficienza che c'era in età romana. Perché, vorrei ricordare, i romani eravamo noi». 

Da "Oggi" il 23 marzo 2022.

Alberto Angela, che l’8 aprile compie 60 anni, si racconta al settimanale OGGI, nel numero in edicola da domani, e mostra una foto inedita della sua giovinezza. 

«Non mi sento sessantenne. Se ci penso, questo numero mi sorprende. Io mi percepisco come se ne avessi 30-40. Per energia ed entusiasmo, mi vedo come un ragazzo», dice a proposito del compleanno.

Prossimamente, il conduttore sarà su Rai 1 al sabato sera con la nuova stagione di «Ulisse - Il piacere della scoperta» e parla con OGGI del suo rapporto con il padre Piero, dei tre figli, Riccardo, Edoardo, Alessandro, nati dal suo matrimonio con Monica («Sono molto soddisfatto di loro») e della dinastia Angela in tv: «Io, fino a 27-28 anni, ho fatto il paleontologo e non avrei mai immaginato di lavorare televisione. I miei figli ora sono tra i 18 e i 23 e fanno quello che ho fatto io alla loro età: studiano, sono entusiasti dei loro impegni. Anche loro sono appassionati di scienza, di ricerca».

Alberto Angela a OGGI svela anche lati segreti di sé, di fotografo e vignettista. E un sogno: andare sulla Luna. Senza dimenticare il nonno Carlo, Giusto tra le nazioni, che ricorda con queste parole: «Penso che il suo esempio sia arrivato, come patrimonio di valori, a mio padre, a me e anche ai miei figli».

E aggiunge: «La cultura è il miglior antidoto contro la tirannia… specialmente in tempo di guerra, con la conoscenza si riesce a ragionare e a frenare le brutture della storia».

Il compleanno di Alberto Angela: 60 anni dell'esploratore che non ha paura del tempo che passa. Silvia Fumarola su La Repubblica l'8 aprile 2022.  

Il celebre papà Piero Angela, la moglie, tre figli, una festa in famiglia. "Accetto la sorpresa ma niente cose speciali: per me è un giorno come un altro".  

Da ragazzino considerava il padre Piero il suo Emilio Salgari. “Abbiamo fatto tanti viaggi con la famiglia", racconta Alberto Angela, "ma le storie più belle erano quelle di papà, le sue avventure perché mi raccontava cose incredibili, era bellissimo ascoltarlo”. Oggi è lui a raccontare storie, esplorare, a guidare gli spettatori in luoghi affascinanti e a incuriosire il pubblico “perché ci sono tesori vicini che devono essere solo scoperti”. Alberto Angela compie 60 anni oggi, 8 aprile. Per il web è un sex symbol, lui ride quando glielo dicono, ma ha un buon rapporto con l’età. “Mi sento venti anni, forse trenta”  spiega “sono fortunato, sto bene e mi mantengo in forma. Quando l’età arriverà, arriverà”. Nuota (“Mi rilassa”), ama la montagna, quando faceva gli scavi ha passato mesi nei luoghi più sperduti “dove non c’era niente, ma felice anche solo di vedere un tramonto”. Sposato con Monica, tre figli – Alessandro, Riccardo e Edoardo, appassionati di scienza come lui - Angela è una persona curiosissima e riservata.

Festeggerà in famiglia, “non ho chiesto di niente di particolare per il compleanno” spiega “accetto la sorpresa ma non organizzeremo cose speciali. Per me è un giorno come un altro”. Da Albatros al primo programma fatto insieme al padre, Il pianeta dei dinosauri, Superquark, Passaggio a Nord Ovest, Stanotte a…, Ulisse - Il piacere della scoperta, Meraviglie. “Il cognome” ha spiegato “è un'arma a doppio taglio. Ho avuto la fortuna di cominciare a fare questo mestiere quando non c'era il web. Devi essere irreprensibile dal punto di vista scientifico, non apparire troppo, essere comprensibile, saper parlare a tutti. La telecamera non mente, racconta chi sei. Se al cinema non saprai mai se un attore è simpatico, la tv restituisce la persona. Le basi sono l'educazione e il rispetto del pubblico”.

Nato a Parigi nel 1962, cresciuto a Roma, studi allo Chateaubriand, confessa di essere stato ispirato dai racconti del padre Piero Angela, volto del Tg1, inviato di guerra e corrispondente, il più grande divulgatore della nostra tv. “Non mi ha mai detto: ‘Fai questo’ o ‘Non fare questo’, è lo stesso metodo che uso con i miei figli. Ci sono gli esempi, poi ognuno sale sulla barca a vela e va. La cosa che ho imparato – dote che certamente ha papà – è l'umiltà, l'etica del lavoro. Devi lavorare sodo. Avevo un cognome, con il tempo mi sono fatto un nome”.

Da ragazzo sognava di diventare un oceanografo e di studiare gli squali. “Il mio mito, più che Indiana Jones, era Jacques Cousteau”. Ha sempre detto di essere diventato un’icona pop suo malgrado: continua a sentirsi una persona normale, malgrado il successo dei suoi programmi. “Il successo” ripete “nasce dal lavoro, la televisione va fatta bene, con cura”.

Secchione felice, attento ai dettagli, nella sua lunga carriera – trenta anni - da divulgatore, ha vissuto le avventure più incredibili e rischiose. Il rapimento in Niger nel 2002, “quindici ore da incubo nelle mani dei banditi”, poi, cercando scheletri di dinosauri, ha attraversato un fiume su una zattera in compagnia di un cannibale. “Ho scoperto che era un cannibale dopo la traversata” ha ricordato. “Una loro caratteristica è affilarsi i denti a triangolo, tipo quelli dello squalo. Prendo lo zaino, dico una cosa stupida in francese e questo ragazzo sorride: i denti erano appuntiti. Sul momento mi sono sentito a disagio, ma era una persona dolcissima, faceva il pastore".

Non ha rimpianti, ripete che la cultura è l’unico antidoto contro il male. Tornerà su Rai 1 con la nuova edizione di Ulisse - Il piacere della scoperta, la prima puntata è dedicata al naufragio del Titanic. Non smette di leggere, viaggiare, essere curioso. Cosa conta davvero per vivere bene? “Accettare la vita nel suo complesso, con le cose belle e quelle meno felici. Tutte le luci nella giornata hanno il loro perché, dall’alba al tramonto. Non bisogna tenere solo i muscoli allenati, ma si deve tenere in forma il cervello con stimoli nuovi. Ho la stessa curiosità di quando avevo sei anni: è una delle cose che davvero aiuta”.

Alberto Angela compie 60 anni: 8 cose che non sapete di lui. Renato Franco su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.

Personaggio cult, icona sexy (per etero e gay), l’esordio in tv sulla Svizzera Italiana: quello che spesso non si conosce del conduttore tv. Che da tempo non più soltanto il figlio di Piero.

Figlio di papà a chi?

Chi è, chi non è e chi si crede di essere. Ecco la vera storia di Alberto Angela. L’accusa più superficiale: è in tv grazie al padre, Piero. In realtà Alberto Angela (che oggi, venerdì 8 aprile compie 60 anni) non è un semplice divulgatore scientifico, ma un paleontologo. Per oltre 10 anni, negli anni Ottanta, ha svolto attività di scavo e di ricerca sul campo nell’ex Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), in Tanzania, Oman, Etiopia e Mongolia

L’esordio in Svizzera

Volto della tv italiana, Alberto Angela era un capitale all’estero: il suo esordio in video vero e proprio fu grazie alla Televisione Svizzera Italiana nel 1990. Il debutto in Rai invece avviene tre anni dopo su Rai1 con il padre con il programma Il pianeta dei dinosauri

Il rapimento in Niger e l’isola di Pasqua

Nel 2002 Alberto Angela e la sua troupe sono stati vittime di un rapimento lampo in Niger, l’esperienza più brutta della sua vita: «Mitra puntato addosso, stavo per essere ucciso». L’isola di Pasqua invece il ricordo più bello: «Una piccola terra che emerge dal nulla, in mezzo all’Oceano, tra vento e silenzio, dove si innalzano queste incredibili statue alte 5-6 metri, unico lascito di una civiltà scomparsa e monito per gli esseri umani del XXI secolo. In qualche modo la Terra è un’isola di Pasqua nell’universo»

Collezionista di sabbia

Alberto Angela colleziona sabbia: «Ho iniziato anni fa, quando partivo per le mie spedizioni da paleontologo, prima di cominciare con la tv. Riempivo con la sabbia i rullini fotografici poi, tornato in Italia travasavo il materiale nelle boccette di vetro. Ne ho più di una ventina, e dai colori riesco sempre a identificare il deserto di provenienza»

Un asteroide e una specie marina

Gli sono stati dedicati un asteroide (80652 Albertoangela) e una rara specie marina (Prunum albertoangelai) dei mari della Colombia. Il Museo di Storia Naturale di New York gli ha chiesto di prestare la sua voce per la versione italiana di un filmato sull’esplorazione dell’Universo. Per la versione inglese sono stati ingaggiati personaggi come Tom Hanks, Harrison Ford, Jodie Foster, Liam Neeson

La sua donna ideale è la Gioconda

La sua donna ideale è La Gioconda: «Monna Lisa ha tutto quello che una donna dovrebbe avere: dietro l’eleganza e la compostezza della sua figura, gli occhi scintillano di gioia e voglia di vivere, il suo sorriso ineffabile esprime sicurezza in se stessa e calore interiore. Credo sia questo il suo segreto: in ogni epoca, le persone vedono in lei i propri desideri e le proprie fantasie»

Icona sexy

Gentiluomo colto ed educato, Alberto Angela piace a destra e sinistra, a etero e gay. Così ormai è diventato un personaggio cult. Si favoleggia anche sulle sue doti e i social network abbondano di gif animate («come rimorchia Alberto Angela») e meme

Il suo credo: la tv non mente

«Nei dieci anni in cui ho lavorato come ricercatore ho sempre sentito che mancava un intermediario e mi sono chiesto: perché queste cose devono rimanere confinate nei libri o nei circoli scientifici e culturali e la gente non le sa? Se vuoi fare divulgazione, su un qualsiasi argomento devi fare le stesse domande che farebbe chiunque: il tuo barista, il notaio. E a quelle devi rispondere, entrando nel cuore delle persone attraverso la mente. Certo, la credibilità devi conquistartela sul campo: né io né mio padre, ad esempio, abbiamo mai fatto pubblicità né ospitate in qualche programma per sparare sentenze. La tv non mente: se un conduttore è simpatico, lo è anche nella vita»

 Silvia Fumarola per "Il Venerdì di Repubblica" l'11 marzo 2021. Alberto Angela non trova parcheggio, avvisa che ha qualche minuto di ritardo. Il perfezionista è umano. Arriva trafelato, dolcevita cammello, giacca di tweed. Modi impeccabili, cordiale ma riservatissimo, il ricercatore prestato alla tv, così ama definirsi, festeggia trent'anni di divulgazione. Da piccolo non catturava le lucertole, sognava gli squali. Anni avventurosi (l'Africa, le sparatorie in Etiopia, il sequestro in Niger, l'incontro con un cannibale, un ippopotamo non proprio amichevole), poi la carriera in Rai. Lo dice subito, a scanso di equivoci: "Non lo avrei mai immaginato, il successo non esiste, esiste il lavoro: sono una persona normale". Non se la può cavare così: i fan club si moltiplicano, c'è chi lo elegge sex symbol e chi, in piena crisi di governo, nei meme lo aveva già immortalato salvatore della patria accanto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il padre, Piero Angela, che lui chiama Piero, ha fatto la storia della tv. Parlando con Alberto, 58 anni, si capisce che è legatissimo alla madre Margherita, signora riservata dai grandi occhi azzurri. "In questo periodo li vedo poco, per il Covid, ma ci sentiamo sempre". Sta lavorando a Ostia Antica per la nuova edizione di Ulisse-Il piacere della scoperta. E nel secondo libro che fa parte della trilogia su Nerone (uscirà a primavera con HarperCollins), si concentra sul grande incendio, le nove giornate che hanno sconvolto Roma.

Trent'anni da divulgatore, che impressione le fa?

"Non avrei mai immaginato di fare questo mestiere e di arrivare a questo punto. Nella vita ho fatto tante cose. Sognavo di fare l'oceanografo, volevo studiare gli squali".

Perché gli squali?

"Non saprei, è un animale preistorico e ha personalità rispetto agli altri che vivono nell'acqua. Il mio mito era Jacques Cousteau, ero attratto dall'esplorazione. Poi a Napoli vedo un ricercatore giapponese chino su un microscopio ottico che guardava le alghe. Ho capito che fare l'oceanografo non voleva dire solo fare immersioni. Da ragazzino disegnavo uomini preistorici e dinosauri, mi sono laureato in Scienze naturali alla Sapienza e ho indirizzato gli studi alla Paleontologia umana. Gli amici andavano a divertirsi, io partivo volontario nelle spedizioni".

Mai pensato di fare il giornalista?

"Mai. Mi considero un ricercatore prestato alla televisione, ho avuto la fortuna di fare gli scavi con i più grandi archeologi, sono andato in Africa, mi ero iscritto a un'associazione che forniva volontari. In Congo ho volato sui vulcani in eruzione, ho convissuto con le formiche legionarie. Ti trovi in luoghi dove l'orologio non ha senso, devi solo stare attento: tutto punge morde o taglia".

Cosa le hanno insegnato quelle spedizioni?

"Lo spirito di gruppo, la psicologia, come sono importanti i dettagli, le battute per smorzare la tensione. Le persone con cui lavori diventano una famiglia, vedevo più loro che i miei".

Più che Cousteau voleva diventare Indiana Jones?

"Esiste il paleontologo da laboratorio e quello da campo, Indiana Jones ha il suo fascino. Devi saper estrarre, imparare a trovare le cose. Io non vedo mai l'insieme ma i dettagli: se cade qualcosa di minuscolo sotto il tavolo, la trovo".

La svolta?

"La definirei la chiamata del destino. Facendo gli scavi trovo un osso, la tempia di un ominide: tutti a festeggiare. Mi offrono il PhD a Berkeley, come fare un gol. Di fronte a un tramonto, era il 1988, seduto su un bidone, comincio a pensare che il mio futuro non può essere lontano dall'Italia. Poi si scopre che si erano sbagliati a analizzare il reperto: l'osso trovato non era di un ominide, apparteneva a un babbuino gigante. C'era stato il gol, ma poi il Var: anche una cosa brutta ti indica la via".

Vuol dire la via per la tv?

"Grazie al centro studi Ligabue comincio a lavorare, scrivo un programma che si chiamava Albatros, roba da pionieri, prendevo le foto dalle enciclopedie. Tv del Canton Ticino, poi Andrea Melodia l'ha comprato e l'ha messo a Telemontecarlo".

Ha avuto dubbi quando ha iniziato a lavorare con suo padre?

"Ma certo, sai che sei visto malissimo. Anche Piero non era convinto. Al primo grande programma sul corpo umano non mi ha voluto. Poi lo convinse proprio Melodia, che era a Rai 1. Devi dimostrare sul campo di essere bravo, un po' come Maldini. Mi sono detto: "È un problema nella testa degli altri. Hai un cognome e adesso ti fai un nome"".

Il segreto del divulgatore?

"Le parole. Non devi seguire uno spartito ma fare una jam session, utilizzare il movimento: io cammino, non mi fermo mai. E parlo".

La popolarità cambia la vita?

"La televisione non mi ha cambiato, cerco di mantenermi normale. Sono come Ulisse che si mette la cera nelle orecchie. Lavoro, studio, il resto è un mondo di plastica. Ma siamo animali sociali, ci pettiniamo la mattina per essere accolti nel gruppo, le dinamiche di gruppo sono fortissime".

Le sue quali sono?

"Non sono mondano, sento la falsità di certe situazioni. Apparire non mi piace, si basa tutto su cosa diranno gli altri di te. Il mio ideale sarebbe fare questo lavoro e avere l'anonimato quando cammino per strada".

Sono nati i fan club, è stato promosso sex symbol: da ragazzo la corteggiavano?

(ride) "Scherza? No, nessuno diceva che ero bello. Nella comunicazione vale l'insieme, l'aspetto fisico non è fondamentale. Conta la lunghezza d'onda che crei, la parola chiave è empatia".

Va bene, ma i complimenti le faranno piacere.

"Non devi cadere nella trappola "ora cavalco l'onda". Molta gente è cambiata. Sì, alcune cose mi fanno piacere, oggi i social amplificano tutto. Nella mia vita, però, più passi indietro che avanti. E silenzio. Parla il lavoro con la mia squadra formidabile".

Come si definirebbe?

"Una persona normale. Se sono sulla Terra non posso pensare di stare sulla Luna, sono nato in una famiglia normale. Mi sento bene così".

Normale e speciale. Dei suoi figli parla poco, li protegge?

"Altri decidono di fare le foto con i figli, io no. I miei genitori sono stati un esempio, l'atmosfera che ho respirato a casa... Preferisco una carbonara alla nouvelle cuisine".

Quanto ha contato sua madre? 

"Potrei dire che sono molto più figlio di mamma. Piero mi ha guidato nel mondo del pensiero, lei in quello dell'arte e dell'armonia. Si sono sposati giovanissimi, si sono trovati a vivere a Parigi, anni difficili. Credo che questo li abbia uniti ancora di più".

Ha detto che suo padre è stato il suo Salgari: lei lo è per i suoi figli?

"Per farli addormentare raccontavo loro le cose che avevo visto. I miei tre ragazzi hanno un'apertura mentale che è un po' il marchio di famiglia. Sono dotati di creatività e distacco, vedono le cose in modo riflessivo, hanno anche loro un approccio alla vita esplorativo. Edoardo studia Nanotecnologie all'Imperial College a Londra, da lui imparo. Riccardo è laureato in Biologia, ha già due master, stesso entusiasmo del sapere. Il piccoletto, Alessandro, ha diciassette anni. Anche lui è pieno di curiosità".

Diamo un po' di merito anche a sua moglie Monica?

"Certo, merito diviso in due".

Che padre è?

"Mai stato severo. Un padre non deve dire le cose, deve comportarsi bene. Fine. Ho sempre applicato questa idea nella vita: "Le persone che sono accanto a te, sei tu"".

La più grande lezione ricevuta?

"Quando un sopravvissuto di Hiroshima e Nagasaki, con la benda nera sull'occhio, il viso pieno di cicatrici, mi ha detto: 'Prendersi carico della sofferenza altrui, questa è la pace'. Poteva odiare il mondo, invece no".

È ottimista?

"Quando guardo i ragazzi sì".

Elvira Serra per il "Corriere della Sera" il 18 marzo 2021.

Dov' era la sera del 18 marzo di quarant' anni fa?

«Eh, be', lo ricordo molto bene... Eravamo andati tutti insieme a vedere il programma a casa di uno degli autori, intrecciando le dita perché era una novità per l' epoca. Però andò molto bene: avevamo fatto 9 milioni di spettatori».

Ed era una seconda serata!

«Sì, prima di noi c'era Dallas. La televisione allora era molto diversa, anche le prime serate con i grandi spettacoli di varietà duravano un' ora. La terza serata cominciava alle 22.30».

Alberto Angela: 20 anni di "Ulisse", sempre dalla parte del pubblico. "Mai temere il futuro". Pubblicato martedì, 15 settembre 2020 su La Repubblica.it da Silvia Fumarola. Il divulgatore torna da domani su Rai 1 con uno dei programmi più amati. "Faccio le domande che farebbero gli spettatori. Per il Covid non abbiamo potuto viaggiare, ma voliamo con la fantasia". Si parte con Roma dall'alto, poi Raffaello, la regina Elisabetta e JFK. Vent’anni di divulgazione, in un panorama televisivo che è cambiato: Ulisse-Il piacere della scoperta festeggia un compleanno importante; torna dal 16 settembre su Rai 1 con Alberto Angela sempre più entusiasta: “Diciamo che lo scafo prende bene l’acqua, il programma esiste e resiste perché rappresenta la curiosità della gente”, spiega “fa immedesimare lo spettatore. Mi faccio le stesse domande del pubblico e ho la possibilità di approfondire un argomento per due ore, che è un grande privilegio. Oggi nel panorama televisivo in cui i programmi offrono varietà di argomenti, sono rapidi, saltano da un tema all’altro, io mi faccio trasportare da una storia e porto con me lo spettatore”. Pubblico fedelissimo “che abbiamo abbracciato e non facciamo mai sentire solo, specie in questi tempi difficili”, Ulisse dal sabato trasloca il mercoledì. Le regole anti Covid-19 hanno penalizzato il programma, che ha fatto di necessità virtù: la prima puntata è dedicata a Roma vista dall'alto, poi sarà la volta dell'omaggio a Raffaello per i 500 anni dalla morte, quindi due ritratti d'eccezione, quello della regina Elisabetta II e di John Fitzgerald Kennedy (puntata che andrà in onda a ridosso delle elezioni americane). Alberto Angela, torna "Ulisse": dopo Roma vista dall'alto, tre grandi personaggi: Raffaello, Elisabetta II e Kennedy.

Angela, che effetto fanno i vent’anni di Ulisse?

“Non eravamo partiti con l'idea di durare vent'anni, è stata una grande avventura, noi ce l’abbiamo messa tutta, tutta la cura possibile, la curiosità. Ma abbiamo avuto dalla nostra parte il pubblico, che è cresciuto. La nostra storia parte da lontano, se pensa che Passaggio a Nord ovest sta per festeggiare i 23 anni...”.

Avete girato dopo il lockdown, da giugno ad agosto: niente viaggi, niente visite speciali. Come avete lavorato?

“Essendo un programma di viaggi siamo stati penalizzati. Durante il lockdown avevamo fatto molti progetti, discusso molte idee senza sapere in quale situazione ci saremmo trovati. Il nostro gruppo di lavoro può contare su troupe corpose, facciamo riprese in 4 k e 6 k, per capirci abbiamo due operatori su una telecamera, una tecnologia che richiede una certa cura. Non puoi esporre nessuno al rischio covid il primo pensiero è stata la messa in sicurezza di tutto il gruppo, quindi abbiamo costruito le puntate viaggiando con la fantasia. Senza viaggiare”.

Partite dal cielo di Roma: avete usato i droni?

“Quando ero sulle cupole di Venezia e vedevo piazza San Marco, uno dei luoghi più popolati, c’era una pace. Dall’alto vedi le città con un’angolazione diversa. Vedere Roma dall’alto è un’esperienza, scoprirla volando con elicotteri e i droni alti e bassi è meraviglioso. Daremo la sensazione di volare stando seduti in poltrona, di trasformarsi in una rondine o in un passerotto per volare non sulle nuvole ma tra i tetti. E noi porteremo gli spettatori lassù, per vedere la città con una prospettiva diversa passando da Trinità dei Monti a Piazza del popolo a Piazza Navona, per scendere con i movimenti verticali e riprendere il volo verso un’altra zona, come Peter Pan”.

Poi la puntata dedicata all’arte, a Raffaello a 500 anni dalla morte.

“Tutti lo conoscono ma mentre per Michelangelo ti vengono subito in mente le opere, quando si parla di Raffaello devi fare mente locale: cosa ha fatto? Alla gente un po’ sfugge invece è stato un artista a tutto tondo, a 15 anni ha dipinto una Madonna sulla parete della cucina di casa sua”.

Cosa ha scoperto della regina Elisabetta?

“Che attraverso il modo in cui porta la borsetta lancia segnali...  Curiosità a parte, è una straordinaria testimone del 900, una donna che si è trovata in una situazione straordinaria e ha accettato con incredibile spirito di sacrificio di dedicare la sua vita alla nazione. Una storia da film: durante il viaggio di nozze in Kenya con Filippo viene richiamata a Londra, il padre muore: sale sull’albero principessa a scende regina. Dovevamo andare a Londra, non abbiamo potuto e quindi abbiamo portato Londra da noi. Abbiamo usato il chroma key, sembra di stare in una grande vasca tutta verde e puoi muoverti come se fossi nei luoghi dove le cose accadono. La telecamera grazie a una serie di sensori entra nell’immagine”.

Avete usato la stessa tecnica per la puntata dedicata a Kennedy?

“Sì. In altre parole abbiamo filmato la zona dell’attentato a Kennedy per poi girare intorno alla macchina. ‘Entri’ nell’azione. Racconteremo la famiglia, il padre di JFK che sogna la Casa Bianca, la vita con Jackie. Raccontando JFK viene fuori lo spirito degli anni 60, la voglia di costruire. Oggi  il futuro fa paura. Ricordo sempre un discorso del presidente Ciampi che spiegava ‘i ragazzi di oggi non sono più come noi, Livorno era distrutta dopo la guerra, ma tutti si sono rimboccati le maniche. Ogni epoca ha le sue brutture e le sue bellezze, ma il passato si ci insegna che qualunque sia la tua epoca hai l’obbligo di credere nel futuro”.

Qual è la sua sfida dopo vent’anni?

“Incuriosire il pubblico, volevamo conquistare giorno dopo giorno la nostra sopravvivenza, abbiamo pensato a ogni passo più che alla meta. Quando ti accorgi che un programma comincia a far parte della storia di tutti, hai raggiunto lo scopo. Non me l’aspettavo ma lo speravo. Se ogni puntata è una pagina, tu speri che venga fuori un romanzo: in questo caso è il racconto della scienza e dell’arte. Il titolo che abbiamo scelto, Ulisse, non è casuale. E’ una figura che affronta l’ignoto usando la razionalità e un guizzo di creatività”.

La stagione è appena iniziata: cosa prevede?

“Abbiamo dovuto interrompere Stanotte a Napoli e a novembre, se tutto va bene, siamo pronti a ricominciare, poi c’è ancora Ulisse ma mai come questo anno stiamo navigando a vista, con molta prudenza. Basta che si ammali un tecnico e tutto si ferma. Ci vuole la massima cautela, è il tempo della pazienza e dell’attesa. Non si devono fare cose avventate”.

Le fa paura il Covid?

“Mi fa paura la reazione di certa gente, perché l’importante è mantenere il fronte unito. Non è un’emergenza che durerà a lungo, sono fiducioso che progressivamente scomparirà ma di nuovo stiamo entrando in una situazione pericolosa per comportamenti irresponsabili. Questo è il momento della responsabilità per se stessi e per gli altri. Non bisogna scordarsi di Bergamo e delle persone che non ci sono più, dobbiamo rispettarle e ricordarle. In confronto agli altri paesi l’Italia si sta comportando bene, se vedo com’è messa la Francia.  La pandemia non è uno scherzo, adesso deve prevalere il buon senso”.

Riceve manifestazioni di affetto, è un idolo dei social: la fiducia è anche una responsabilità?

“Mi fa tanto piacere ma non perché sono un conduttore televisivo ma umanamente. Siamo passeggeri di un secolo: quando ti accorgi che riesci a trasmettere il bagaglio delle tue conoscenze e a unire nei momenti di difficoltà, cosa puoi volere di più? Vedo la nostra cultura come un inno nazionale, quello mi fa piacere, mi ritengo un servitore della conoscenza, della ricerca. I grandi eroi sono quelli che stanno nei laboratori. Io posso gettare la luce sul loro lavoro. Al di là dei risultati è importante andare in prima serata e esserci. Vale come testimonianza”.

Alberto Angela: svelo i segreti di Cleopatra, la Lady Gaga dell'antichità. Pubblicato lunedì, 08 giugno 2020 su La Repubblica.it da Silvia Fumarola. Il potere e la suggestione della parola per raccontare la Storia: Alberto Angela ha realizzato per Audible il podcast del suo libro Cleopatra donna e regina in cui racconta "il potere di una donna moderna, che parlava le lingue, ha segnato il corso degli eventi. Nella figura di Cleopatra" spiega il divulgatore "vedo tante cose positive, la prima è la condizione della donna nella società; quando ha gli stessi diritti di un uomo automaticamente ti cambia la storia. A quell'epoca era qualcosa di rivoluzionario. Cleopatra era un'abilissima stratega di politica internazionale, con colpi di teatro che solo Lady Gaga riuscirebbe a fare". Insieme a Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino, e a Marco Azzani country manager Audible per l'Italia, Angela racconta come ha lavorato a un progetto che non è la lettura del libro, ma un racconto "come a cena tra amici" spiega "quando inizi un discorso trasmettendo le tue emozioni. Il podcast è una lente di ingrandimento. Vorrei vivere mille anni per raccontare le storie in versione podcast, aiutano a calarti nelle situazioni anche se tecnicamente è strano, non hai un pubblico e devi stare immobile perché la voce è fondamentale. All'inizio non è stato facile, un po' come quando debutti davanti alla telecamera: non vedi gli occhi delle persone, l'obiettivo ti mette a disagio. Così col podcast ci sei tu e la tua voce, poi cominci a sentire te stesso, tiri fuori le frasi. L'immagine televisiva è quello che vedi, mentre stavolta chi ascolta immagina, è lasciato libero, diventa lo sceneggiatore del racconto". Christian Greco, sottolinea come gli oggetti e i reperti storici parlino, come una visita nel museo sia un'esperienza straordinaria. "È vero" dice Angela "Quando leggi un papiro è un podcast, e lo fa un singolo visitatore quando legge le didascalie accanto agli oggetti di un museo. Riuscire a stabilire un legame col passato è straordinario. Nel podcast ho voluto mettere le suggestioni: se sono nella rada di Alessandria si devono sentire i gabbiani, come il suono metallico delle truppe. L'emozione dipende dai sensi, il nostro cervello lavora. Il miglior effetto speciale è la nostra immaginazione, è emozionante perché il rapporto col pubblico è più intimo". "Fondiamo il nostro successo sulla parola", dice Azzani di Audible "per noi è fondamentale, nel caso nel podcast di Alberto è stata una sfida, abbiamo reinventato il modo di comunicare la Storia. Sappiamo che il podcast è ascoltato dal pubblico under 30 che - come ci dice l'Istat - ha scarsa frequentazione con i libri di carta e i musei, questo è un formato veloce che puoi ascoltare con lo smartphone e con Alexa, in momenti diversi della giornata. Con gli audiolibri è successo così, non sono alternativi ai libri classici ma attirano un pubblico nuovo: lo stesso cerchiamo di fare coi podcast. Con Alberto pensiamo anche ad altri progetti". Per Angela un'esperienza interessante. "Ripeto, non è la lettura dei capitoli ma reinterpreti le pagine. Le prime cento sono dedicate all'uccisione di Giulio Cesare: ho cercato di far emergere le persone, le atmosfere e i luoghi, di dare una suggestione". Racconta di aver registrato prima del lockdown "un'esperienza unica, perché dovevi stare attento a un nemico invisibile, con tutte le incertezze del caso. Le repliche del mio programma su Rai 1 hanno tenuto compagnia a tanta gente che aveva bisogno di non sentirsi sola. Le parole sono anche sentimenti, e le repliche sono state importanti".  E a proposito di sentimenti, si capisce che il divulgatore più riservato della tv per Cleopatra nutre una vera passione. "Il nome Cleopatra, significa "gloria del padre" in greco. Non era egizia, teneva i capelli raccolti in una crocchia, Alessandria d'Egitto era una città greca, la troviamo in un periodo della storia in cui unisce il mondo romano e quello egizio. Con la sua morte Augusto lancia l'idea dell'Impero. Se avesse vinto lei, il mondo sarebbe greco-orientale". "Era una donna diversa dalle altre" dice Angela molto ispirato, "era colta, aveva frequentato l'università, parlava molte lingue: era una mamma una regina una sovrana a seconda del momento della giornata. Appena metti una donna moderna in un'epoca antica ti cambia la storia della civiltà. Il suo volto preciso non è chiaro, abbiamo chiamato i Ris, nel Museo Egizio di Torino è conservato un busto che potrebbe essere quello di Cleopatra. Forse non era neanche così bella ma era potente, forte, una figura unica. Anche la sua tomba non si trova ma a duemila anni di distanza riesce ancora a conquistare le prime pagine".

Giulio Pasqui per ilfattoquotidiano.it il 22 febbraio 2020. Alberto Angela come non l’avete mai visto, protettivo e battagliero per il figlio. Il divulgatore scientifico più famoso d’Italia è stato fotografato dal settimanale Oggi mentre discute apertamente con un paparazzo, tale Mattia Brandi, che lo aveva pizzicato insieme con il figlio Alessandro. Le foto non erano altro che semplici scatti in cui padre e figlio passeggiano assieme per le vie di Roma, ma la situazione tra il divulgatore e il fotografo (sempre secondo quel che racconta il settimanale) sarebbe degenerata. Alberto Angela non avrebbe apprezzato quegli scatti e avrebbe quindi chiesto al paparazzo di poter cancellare le foto incriminate. Da qui l’incredulità di Mattia Brandi, che al settimanale ha raccontato: “Gli ho spiegato che non avevo fatto nulla di male, che lui è un personaggio pubblico, ci trovavamo in un luogo pubblico e la legge consente di scattare. Continuava a chiedermi di cancellare, dicendo che il figlio è minorenne. Gli ho assicurato che sono un professionista da vent’anni, so bene che non si può pubblicare il volto di un minore e infatti l’avrei “pixelato”. Ma lui insisteva: ‘Che ne so io se poi queste foto finiscono sui social o nel deep web?’. Ero stupefatto, non mi è mai successo che un vip reagisse così…”. Alla fine, per placare gli animi, è dovuta intervenire la polizia. Una volta prese le generalità delle persone coinvolte, i poliziotti se ne sono andati.

Alberto Angela torna su Rai1: 9 cose che non sapete su di lui. Pubblicato sabato, 04 gennaio 2020 su Corriere.it da Renato Franco. 9 cose che non sapete su Alberto Angela. Personaggio cult, icona sexy (per etero e gay), l’esordio in tv sulla Svizzera Italiana: quello che spesso non si conosce del conduttore tv. Che da tempo non più soltanto il figlio di Piero. Torna Alberto Angela con la terza edizione di Meraviglie, stasera alle 21.20 su Rai1 . Ma chi è, chi non è e chi si crede di essere Angela jr? Ecco la sua vera storia.

L’accusa più superficiale: è in tv grazie al padre, Piero. In realtà Alberto Angela non è un semplice divulgatore scientifico, ma un paleontologo. Per oltre 10 anni, negli anni Ottanta, ha svolto attività di scavo e di ricerca sul campo nell’ex Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), in Tanzania, Oman, Etiopia e Mongolia.

L’esordio in Svizzera. Volto della tv italiana, Alberto Angela era un capitale all’estero: il suo esordio in video vero e proprio fu grazie alla Televisione Svizzera Italiana nel 1990. Il debutto in Rai invece avviene tre anni dopo sui Rai1 con il padre con il programma Il pianeta dei dinosauri.

Il rapimento in Niger e l’isola di Pasqua. Nel 2002 Alberto Angela e la sua troupe sono stati vittime di un rapimento lampo in Niger, l’esperienza più brutta della sua vita: «Mitra puntato addosso, stavo per essere ucciso». L’isola di Pasqua invece il ricordo più bello: «Una piccola terra che emerge dal nulla, in mezzo all’Oceano, tra vento e silenzio, dove si innalzano queste incredibili statue alte 5-6 metri, unico lascito di una civiltà scomparsa e monito per gli esseri umani del XXI secolo. In qualche modo la Terra è un’isola di Pasqua nell’universo».

Collezionista di sabbia. Alberto Angela colleziona sabbia: «Ho iniziato anni fa, quando partivo per le mie spedizioni da paleontologo, prima di cominciare con la tv. Riempivo con la sabbia i rullini fotografici poi, tornato in Italia, travasavo il materiale nelle boccette di vetro. Ne ho più di una ventina, e dai colori riesco sempre a identificare il deserto di provenienza».

Un asteroide e una specie marina. Gli sono stati dedicati un asteroide (80652 Albertoangela) e una rara specie marina (Prunum albertoangelai) dei mari della Colombia. Il Museo di Storia Naturale di New York gli ha chiesto di prestare la sua voce per la versione italiana di un filmato sull’esplorazione dell’Universo. Per la versione inglese sono stati ingaggiati personaggi come Tom Hanks, Harrison Ford, Jodie Foster, Liam Neeson.

Caffé e piscina. Due i riti a cui non rinuncia. La mattina «due espressi, uno di seguito all’altro. E quando sono all’estero mi porto sempre il caffè dall’Italia, non riesco a farne a meno, ovunque mi trovi». L’altro rito è la piscina: «Pratico molto nuoto, con costanza, e mi faccio sempre un chilometro e mezzo».

Icona sexy. Gentiluomo colto ed educato, Alberto Angela piace a destra e sinistra, a etero e gay. Così ormai è diventato un personaggio cult. Si favoleggia anche sulle sue doti e i social network abbondano di gif animate («come rimorchia Alberto Angela») e meme.

Moglie e figli. Etero e gay però pare si debbano mettere l’anima in pace. Una fede al dito non è sicurezza di fedeltà, ma certo garanzia di impegno. Alberto Angela — per alcuni il Chuck Norris della cultura, per altri l’Indiana Jones della tv — è sposato con Monica dal 1993 e ha tre figli maschi: Riccardo, Edoardo e Alessandro.

Il suo credo: la tv non mente. «Nei dieci anni in cui ho lavorato come ricercatore ho sempre sentito che mancava un intermediario e mi sono chiesto: perché queste cose devono rimanere confinate nei libri o nei circoli scientifici e culturali e la gente non le sa? Se vuoi fare divulgazione, su un qualsiasi argomento devi fare le stesse domande che farebbe chiunque: il tuo barista, il notaio. E a quelle devi rispondere, entrando nel cuore delle persone attraverso la mente. Certo, la credibilità devi conquistartela sul campo: né io né mio padre, ad esempio, abbiamo mai fatto pubblicità né ospitate in qualche programma per sparare sentenze. La tv non mente: se un conduttore è simpatico, lo è anche nella vita».

Il misterioso caso di Alberto Angela, il divulgatore diventato sex symbol. A furia di guardare le Meraviglie il pubblico ha attribuito la bellezza delle cose mostrate a chi le presenta. Eppure il figlio d'arte è sempre abbastanza simile all'imitazione cult che ne fece Neri Marcorè. Beatrice Dondi il 4 maggio 2020 su La Repubblica. Quando è accaduto esattamente che Alberto Angela ha smesso di essere l’imitazione di Neri Marcorè e si è trasformato un’icona sexy universalmente riconosciuta? A un certo punto la percezione del personaggio imitato, pur conservando quegli stessi identici caratteri che avevano fatto nascere l’interpretazione comica meglio riuscita degli ultimi vent’anni, ha trasformato il ridicolo in seducente. Come è potuto succedere? Una domanda appassionante (sempre nei limiti per carità), quasi come quelle che puntualmente propone il figlio d’arte della divulgazione scientifica. Ma che resta lì, appesa come una gruccia in tintoria. All’improvviso testate autorevoli hanno cominciato a descriverlo come il Chuck Norris della cultura, l’Indiana Jones della tv, i suoi capelli sono diventati “boccoli dei serafini”, la sua voce “soave”, la sua immagine “da marito ideale incapace di tradimenti” e sono spuntate miriadi di pagine Facebook come “Sexy Alberto Angela & Friends” ( dove in un Giudizio universale formato social di Dio Piero tocca il dito del figlio ovviamente nudo), “Aggiornamenti giornalieri sull’attività sessuale di Alberto Angela”, fino alla deriva porno il cui esempio più casto è “Sesso selvaggio nell’antica Roma con Alberto Angela”. Eppure lui è sempre lo stesso, derivato eccellente della creazione firmata Ottavo nano del lontano 2001. Con l’incedere morbido e quella gestualità didascalica che da anni accompagna le sue trasmissioni da record. «Vedete?» dice sottolineando col dito nell’aria. E senza interrompere il flusso linguistico semplice, gentile e alla portata di tutti chiede mostrando una statua: «Le sue dita sono spezzate. E voi vi chiedere perché ? Perché si sono rotte». Con la medesima armonia descrittiva usa un’aggettivazione senza particolari guizzi, secondo la quale le atmosfere di Firenze sono indimenticabili, Matera ha una storia plurimillenaria, Venezia sembra incantata. Quindi non resta che immaginare che all’improvviso a furia di guardare un programma bello come le “Meraviglie” lo spettatore abbia traslato il concetto e che McLuhan ci perdoni, percepito come meraviglia il medium stesso. In questo caso il bell’Alberto. A cui si può incolpare ben poco, visto che la sua attività è costellata di meriti, non ultimo quello di distogliere pubblico dall’inutilità del sabato sera per portarlo nella cappella Sistina. E il fatto che sia diventato un sex symbol probabilmente è più un macigno che pesa sulla sua sahariana che un vanto. Ma il mistero di questo invaghimento fisico collettivo resta. Chissà, magari prima o poi ci dedicherà una puntata.

·        Aldo Busi.

Aldo Busi, "scomparso" da 10 anni. Finita in disgrazia: "Grazie zio, non lo vogliamo". Tremenda delusione privata. Libero Quotidiano il 04 gennaio 2022. La triste fine di Aldo Busi. Lo scrittore, intellettuale, "agitatore" e provocatore culturale più amato dalla tv fin dagli anni Ottanta, capace di spaziare tra l'alto e il basso (anzi, il trash) senza perdere un grammo di acume, è sparito dalla scena pubblica da 10 anni. In auto-esilio, per realizzare quello che dovrebbe essere il suo libro definitivo. O forse doveva, visto che al momento pare che il volume non riesca a trovare chi sia disposto a pubblicarlo. 

Busi, scrive Paolo Landi in un articolo per Doppiozero.com ripreso da Dagospia, ha lavorato al suo Seminario sul postmortem ininterrottamente dal 2010 all'autunno 2020, "con un incessante lavoro di limatura che continua tuttora". Il volume è già stato "stampato in 850 pagine ordinatamente impilate su un tavolo da lavoro", e ironicamente Busi gli ha posto la dicitura "Romanzo senza neppure i posteri", visto che nessuno pare interessato. 

Lo scrittore 73enne, gay dichiarato, aveva esordito con Seminario sulla gioventù (significativo il rimando della sua ultima opera) nel 1984 e salito alla ribalta con Vita standard di un venditore provvisorio di collant, ha passato questi ultimi 10 anni tra il ritiro privato e qualche comparsata in tv, da Otto e mezzo a Piazzapulita fino a La pupa e il secchione, incursione nei reality che fa il paio con la partecipazione breve e clamorosa a L'Isola dei famosi nel 2007. Dice di essersi imbattuto "in sconosciuti tipografi/editor curiosi, ridicoli, ignorantissimi e vili che se la tirano per dei perché misteriosi" e ha svelato di "essere rimasto basito quando, convocando i suoi eredi a casa per consegnare loro il manoscritto da pubblicare postumo, si è sentito rispondere: 'Grazie zio, ma non lo vogliamo'".

Paolo Landi doppiozero.com il 03 gennaio 2022. Un romanzo non pubblicato sarà un sacco di preliminari e niente orgasmo, dice Woody Allen, mentre Federico Fellini piantò dopo quasi trent’anni la sceneggiatura del mai realizzato Viaggio di G. Mastorna preso da un attacco di superstizione: il film parlava dell’aldilà, meglio non sfidare la sorte. 

Il buonumore di Aldo Busi mentre si concede per pochi minuti al telefono fa pensare che questo Seminario sul postmortem (iniziato nel 2010 e terminato nell’autunno del 2020, con un incessante lavoro di limatura che continua tuttora) sia destinato a rimanere natura morta, stampato in ottocentocinquanta pagine circa ordinatamente impilate su un tavolo da lavoro, e in versione digitale in un file archiviato, dice Busi, sotto la dicitura “Romanzo senza neppure i posteri”.

Lui di certo non lo propone a nessuno, ha fatto qualche pseudo tentativo-trabocchetto, dice di essersi imbattuto in sconosciuti tipografi/editor “curiosi, ridicoli, ignorantissimi e vili che se la tirano per dei perché misteriosi”, resta semmai scandalizzato, ma appena appena, che nessun editore glielo abbia ancora chiesto e racconta di essere rimasto basito quando, convocando i suoi eredi a casa per consegnare loro il manoscritto da pubblicare postumo, si è sentito rispondere: «Grazie zio, ma non lo vogliamo». 

La sua risata sdrammatizzante echeggia nello smartphone che registra tuttavia, poco dopo, questo sms: “Ma io sono il primo a nutrire affetto esistenziale per me, resto tuttora ammirato e ammaliato dalle mie paganissime incursioni televisive, mi dispiace solo la troppa censura patita, mi si scatena l’odio per me solo quando scrivo, lo devo fare ma non me lo perdono, e così ingrasso, non mi muovo, a volte per anni, non vado di corpo, sono irascibile, fintamente generoso e seriamente fatalista fino al masochismo più idiotico pur di sbarazzarmi al più presto dei rompicoglioni, talvolta paraistituzionali, che si ammassano alla mia porta, per fortuna che intanto la vita se ne va, di quella, data la mia naturale intelligenza radicalmente anticlericale e antimafiosa e antifascista e antimassonica, non ho mai saputo cosa farmene – a parte buttarla via con grazia malgrado la mancanza di un’alternativa, umani mai una sola volta all’altezza della mia eleganza psichica e civile in generale, potevo essere l’ultimo granchio di una specie estinta e stare su uno scoglio senza altra vita e non sarebbe cambiato granché nella memoria che ho del mio passato e della gente in cui mi sono imbattuto.

Del resto il primo capitolo non a caso si intitola ‘’Gli uomini non sono desiderabili, la vita è sopravvalutata e il rame non è infinito’’. Il sequel di Seminario sulla gioventù resta quindi, per ora, il romanzo perfetto, che nessuno ha letto e leggerà, composto come sotto dettatura, perché preesistente a Busi stesso, già scritto insomma da lui nelle oltre ventimila pagine di tutti i libri pubblicati, il girotondo omerico delle migliaia di personaggi che postmortem lo guardano e lo giudicano. 

Quanto agli altri scrittori, ecco un esempio del pensiero estetico-linguistico di Busi: “A me Philip Roth non m’incanta: i suoi personaggi, persino amanti ventennali e coniugi centenari e bidelle senza istruzione, parlano come libri stampati, ecco, e nessuno sembra accorgersene, e Roth men che meno. Non si interrompono mai, non si fraintendono mai, e, udite!, parlano per rivelare di sé all’altro più che possono, non come noi comuni mortali che parliamo per nascondere più che possiamo a noi stessi per primi”.

La non pubblicazione di mille pagine è quindi il giro di vite perfetto nel cerchio di ferro che si stringe attorno a Busi, che sempre rivela quando scrive l’oscurità del nostro profondo, e lo tortura. Ma la vita non ha mai il sopravvento su di lui che, mentre si impegna a gettarla via, non le permette mai di fare di lui ciò che vuole perché, generoso e avido com’è, la doma come si farebbe con un cavallo che deve abituarsi al morso.

Vince sempre lui, anche quando parla da morto con la voce di Delfina Unno Pastalunghi, nei suicidi dovuti, o nelle morti dell’anima dei suoi personaggi che sono tutti lui senza essere mai lui, nell’orchestrazione perfetta di un’opera unica e coerente, sia nella forma romanzata, in quella di saggio, nel reportage di viaggio, nei volumetti di galateo scoppiettanti di vita, sempre e tutti impregnati di allegria e di dolore, e di un senso civico altissimo. 

Questo scrittore, che da quasi un decennio ha scelto l’isolamento volontario pressoché assoluto, per il quale vita e opera non contano, né l’una né l’altra, se non per l’occasione (sprecata, dice lui) di farne un tutt’uno, non ha mai rinunciato a prendere posizione per i diritti calpestati, contro le sventure razziali, smascherando la politica del tornaconto, la corruzione della giustizia, gli assolutismi propagandati da pulpiti vari.

Seminario sul postmortem avrà perciò bisogno di un editore coraggioso perché la voce del polemista avrà la grana del linguaggio chirurgico di chi preferisce usarlo come arma di difesa, ma quando offende lo fa con la precisione dello scrittore, demolendo demagogia, approssimazione, luoghi comuni con l’arma della letteratura, che ferisce a morte i politici di twitter, i magistrati-megafono, i mafiosi che credono di passare inosservati, gli intellettuali ridotti in miseria dal politicamente corretto.

Questo libro cela nel titolo l’essenza stessa del romanzo, perché l’arte vera si compie nel silenzio, esercitata ascoltando nient’altro che il proprio istinto, quando proclama che la letteratura è la realtà e insieme il giudizio finale. Sarà forse uno di quei capolavori nascosti di cui vorremmo un giorno godere, come vorremmo ammirare i Rembrandt o i Matisse dell’Ermitage, dove non siamo mai stati. 

Seminario sul postmortem è il libro essenziale, di uno scrittore famoso, ma che nessuno può leggere, come se già esistesse in ognuno di noi. Busi, guardandosi da fuori, artefice della sua opera ma allo stesso tempo, forzatamente, anche giudice, ricaverà da questa autocontemplazione l’inutilità di un altro tipo di bellezza, esteriore e forse superiore all’opera stessa, alla quale donerà una unità, una grandezza di cui magari non era neppure priva.

L’idea che i libri o i quadri più belli siano quelli che non abbiamo ancora letto o visto muove la nostra immaginazione: un libro costretto a non essere materia, perché non stampato e non venduto, è come un quadro nascosto nei sotterranei di un museo, esistono ambedue, ma invisibili ai nostri occhi. 

Chi non pubblica Seminario sul postmortem ha la grande responsabilità di costringere Busi a un ruolo che non gli si attaglia per nulla, quello del grande scrittore incompreso, mentre l’assenza del manoscritto trasformato in volume sugli scaffali delle librerie e su Amazon diventa sempre più ingombrante e l’orgasmo che rilascia endorfine per la soddisfazione di un desiderio esaudito resta in standby.

·        Aldo Nove.

Elisabetta Rosaspina per il Corriere della Sera il 15 giugno 2022.

Il mare del suo rifugio a Palmi, in Calabria, la chitarra, il profumo, i sogni di un alchimista, anche; poi l’ineluttabile ironia in agguato, ma forse un po’ più malinconica del solito; e ingombranti dosi di rabbia, una malcelata dolcezza e ancora tanta, tantissima poesia. Ecco che cosa c’è di nuovo — e di antico — nella vita del «cannibale», 25 anni dopo. 

Aldo Nove ne compirà il prossimo mese appena 55, e intanto se ne sta, sulla difensiva, nel suo splendido aventino a nord di Reggio Calabria. È in convalescenza. E avrebbe preferito che non si tornasse a parlare di lui per il vitalizio che il governo accorda, nel nome di Riccardo Bacchelli, a «cittadini illustri», scrittori, artisti, artigiani, scienziati, musicisti, in grave affanno economico e di salute, come lo fu quasi quarant’anni fa l’autore de Il mulino del Po. 

Non importa che in quell’asfissiante stato di necessità sia stato preceduto da monumenti della letteratura italiana come Anna Maria Ortese, Roberto Rebora, Guido Ceronetti e Alda Merini, o eroi di guerra, come Giorgio Perlasca, con i quali il Paese rimarrà sempre, a prescindere da qualunque contributo finanziario, in debito culturale o storico.

Dopo aver pubblicato 35 opere, fra romanzi, saggi, raccolte di poesie, sceneggiature, le biografie di Mia Martini e di Franco Battiato, dopo aver marcato una generazione e scandalizzato la precedente, Nove patisce l’intempestività dei messaggi e delle telefonate che si accumulano a centinaia sul suo cellulare nei giorni successivi all’annuncio ufficiale di questo riconoscimento da parte del ministro per la Pubblica amministrazione, Renato Brunetta. Li subisce, a tratti, come un’intrusione molesta: «Che cosa vogliono? Le mie radiografie?».

Né la malattia né la disattenzione di gran parte del mondo editoriale gli hanno impedito negli ultimi anni di continuare a scrivere, a produrre, a pubblicare. A sperimentare, soprattutto. 

Come a metà degli anni Novanta quando, dopo una laurea in Filosofia morale, il ragazzo di Viggiù, orfano a 15 anni di entrambi i genitori, spiazzò la critica ed entusiasmò il pubblico, in particolare quello più giovane, con i racconti Woobinda e altre storie senza lieto fine (1996, Castelvecchi), seguiti due anni dopo da Superwoobinda (Einaudi, 1998). Uno dei suoi incipit è diventato un classico della narrativa: «Ho ammazzato i miei genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo, Pure & Vegetal…». Era nata una «corrente» nuova, «per lo stile accattivante, il linguaggio crudo e i temi violenti», certifica la Treccani. Ma anche per una visione della società e dei suoi difetti che ne anticipava le successive degenerazioni.

Erano sbarcati i «cannibali», «il pulp del pulp», si cercavano definizioni per la prosa di Tiziano Scarpa, Niccolò Ammaniti, Alda Teodorani, Aldo Nove, alias di Antonio Centanin. Una generalità che è una citazione. Anzi, un omaggio alla Resistenza: «Aldo dice 26 x 1» fu il messaggio in codice diffuso dal Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (Clnai) per indicare il giorno (il 26 aprile) e l’ora (l’una di notte) fissati per l’insurrezione. Aldo e 2+6+1 fa Aldo Nove. 

«Ma adesso sto provando a cambiare nome» annuncia. 

Peccato, ha un suo valore commemorativo.

«Sì, ha un suo valore, ma mi sono stufato di questo pseudonimo». 

Una volta ha detto di avere un ego psicotico: lo pensa ancora?

«Forse. L’ego, cos’è? Già Arthur Rimbaud, un bel po’ di tempo di tempo fa, ci raccontava che è qualcosa di molto complesso. Franco Battiato ricordava che da bambino aveva rifiutato di svolgere il tema assegnato e si era scelto un altro titolo: io chi sono? L’ego è un palloncino gonfio di elio che serve a farlo andare in alto e che poi esplode. Ecco, l’ego è un pallone gonfiato». 

È vero che è un appassionato di oroscopi?

«Gli oroscopi? L’esoterismo, piuttosto. Che si avvicina agli studi sull’alchimia. E l’alchimia alla chimica. Come il profumo. Ho seguito dei corsi e ho scritto un libro sull’argomento (All’inizio era il profumo, Skira 2016, n.d.r.). Mia madre sarebbe stata una profumiera, se non fosse rimasta incinta da giovane. La nostra era una famiglia povera, con un’edicola a Viggiù». 

Dunque ha imparato a fare i profumi?

«Sì, negli ultimi anni. È una procedura complessa. Si avvicina a quella dell’alchimia, che è considerata un’antenata ingenua della chimica, che invece è giudicata sacra. Ma la radice delle due parole è la stessa e significa trasformazione. Anche il profumo parte da un’idea e le dà una materialità».

Per esempio?

Estrae un flacone con un’etichetta apparentemente artigianale e la scritta «Terroni»: «Qui l’idea è di comprendere attraverso l’olfatto una sintesi del Sud» continua serio. «In fondo è un procedimento prossimo alla poesia: invece delle parole si utilizzano le essenze. È diverso il mezzo che le porta al cervello: il naso. L’olfatto è un senso trascurato, invece è molto importante nel rapporto con il mondo. Ignorarlo può essere pericoloso. Un odore cattivo segnala che c’è qualcosa che non va». 

Cos’altro sta imparando?

«Ho iniziato da poco a suonare la chitarra. Una persona molto cara e geniale vicina a me mi ha proposto di iniziare un corso. 

Avendo dedicato quasi tutta la mia vita alla poesia, che è musica e matematica, mi è sembrato che fosse giunto il momento di rapportarmi alla musica. Sto studiando le scale musicali. Sa, vorrei diventare una rockstar internazionale, ma non posso. Mi toglierebbero la legge Bacchelli», stavolta ironizza di sicuro, ma sempre senza sorridere. 

Ha appena pubblicato i suoi sonetti sulla rivista «Poesia», fondata e diretta da Nicola Crocetti, e in settembre nella collana bianca di Einaudi. Crocetti è stato forse il suo editore più devoto da quando Milo De Angelis ha scoperto il suo talento, vero?

«Se non fossimo entrambi eterosessuali, chiederei a Crocetti di sposarmi. Conoscerlo è uno dei doni che mi ha fatto la vita» si lascia andare finalmente a una breve risata. «Il titolo, Sonetti del giorno di quarzo, è un’espressione tratta dalla poesia di Milo De Angelis. Ma prima di lui, mi aveva già scoperto Silvio Raffo, il più grande traduttore italiano di Emily Dickinson. E poi io ho fatto in modo di farmi conoscere da Nanni Balestrini, capofila del Gruppo 63 e il più importante dei miei maestri». 

E lei chi ha scoperto?

«Ho scoperto parecchi autori, ora in auge. Più donne che uomini, devo dire. Capita che arrivino testi che meritino di essere presi in considerazione ed è bello promuoverli». 

Scrittura, musica, mare: che cosa le manca?

«La vita è la costante mancanza di qualcosa. È tale proprio in quanto manca qualcosa. Nel 1966, un anno prima di nascere, non mi mancava nulla, no? E verrà un momento in cui non mi mancherà più nulla. Ma è la mancanza che ci porta a stare qui». 

Quindici anni fa lei ha scritto «Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese»: un testo profetico per le generazioni di oggi.

«Con una caporedattrice di “Liberazione”, ai tempi in cui lavoravo per quel giornale, ci eravamo accorti che era in corso una mutazione, che stava scomparendo un mondo, salvo per qualche privilegiato. Quello è stato il primo libro sul precariato, quando ancora non si teorizzava la flessibilità come una nuova forma di lavoro. Certo, per chi è ricco di famiglia il passaggio alla flessibilità non è tragico. Ma come ha scritto Mark Fisher nel Realismo capitalista: l’umanità finirà, il capitalismo no». 

Non è troppo pessimista?

«Che vuol dire essere ottimista?» 

Coltivare un po’ di speranza, magari?

«Nella sua ultima intervista a Enzo Biagi, Pier Paolo Pasolini disse: la parola speranza è completamente cancellata dal mio vocabolario. Non avere speranze è il modo migliore per non restare delusi: è una forma di saggezza, come sosteneva Schopenhauer. Oggi non so se potrebbe esistere un Pasolini. Avrebbe forse un blog, censurato in continuazione».

·        Alessandro Baricco.

Alessandro Baricco, la leucemia e il legame con la sorella Enrica che gli darà le staminali. Paolo Coccorese su Il Corriere della Sera il 23 Gennaio 2022.

Lo scrittore ha annunciato di avere una leucemia mielomonocitica cronica. Preso si sottoporrà al trapianto di cellule staminali del sangue donate dalla sorella. L’amica della Scuola Holden: «Per mesi un guerriero, voleva dirlo per primo» 

Alessandro ed Enrica Baricco

Neanche questa volta, nel periodo più complicato della sua vita, Alessandro Baricco ha rinunciato alla sua natura più profonda, quella affabulatrice. «Ehm, c’è una notizia da dare e questa volta la devo proprio dare io». Così, inizia il messaggio Facebook con cui lo scrittore ha annunciato al mondo la sua malattia prendendo di sorpresa i tanti ammiratori. Non gli amici più stretti. Come Antonella Parigi, signora della cultura torinese, ex assessora regionale e storica presidente del Circolo dei Lettori, il salotto dei libri cittadino, che con «Sandro» ha costruito la Scuola Holden, l’università delle parole fondata dall’autore di Oceano Mare e Seta. «Siccome in tanti oramai erano a conoscenza della sua situazione, ha preferito parlarne lui per primo», racconta Parigi. «In questo modo, ha dimostrato di essere un grande guerriero. A lui e alla sorella Enrica, mia amica da quando eravamo ragazzine, va il mio incoraggiamento».

La leucemia

Baricco ha scoperto di essere affetto dalla leucemia cinque mesi fa. La diagnosi dei medici è stata accolta con rabbia. Sentimento che poi ha lasciato il posto alla speranza. A offrirgli la scialuppa di salvataggio, con la donazione di cellule staminali, è la sorella Enrica. Architetto, nel 2005 ha fondato la CasaOz, onlus che aiuta le famiglie dei bambini costretti a lunghe degenze negli ospedali torinesi. Con il fratello divide la grande villa sulla collina, dove lo scrittore vive da anni con la compagna, la pianista Gloria Campaner. È lontano dalla città, circondato dal verde del grande giardino, che Baricco nelle ultime settimane si è sottratto alla solita vita, immerso in letture e musica classica. Tra la grande libreria, immortalata in alcuni scatti, decorata dalla citazione shakespeariana «Oh, se fosse dato all’uomo di conoscere la fine di questo giorno che incombe!», cara a Geoffrey Holiday Hall. E la televisione che ha permesso allo scrittore di non rinunciare al tifo per il Torino, la squadra del cuore, come ha ricordato lui stesso sui social.

Tifoso granata

«Sandro è uno dei miei maestri, ci siamo conosciuti allo stadio, con la sciarpa granata al collo, più di dieci anni fa», spiega Mauro Berruto, l’ex allenatore della nazionale di pallavolo che, una volta abbandonata la palestra, è stato per qualche anno l’amministratore delegato della Scuola Holden di Baricco. «In questi giorni ci siamo tenuti in contatto con qualche messaggio. Lui è ottimista. Penso sia il modo migliore per superare questo inciampo. Spero di riabbracciarlo presto. Allo stadio? No, alla Scuola, tra i suoi ragazzi, quello è il suo ambiente, il suo mondo».

I progetti

Nei mesi scorsi, «l’università della scrittura» aveva messo in cantiere un possibile sbarco a Roma, con una nuova sede. Un progetto molto caro al fondatore che non si è mai tirato indietro davanti alle sfide. La notte di Capodanno, con l’incubo della malattia in agguato, Baricco ha deciso di rileggere Novecento, il suo celebre monologo teatrale, per trasformalo in un’opera d’arte digitale Nft. È stata l’ultima notizia divulgata prima dell’annuncio del ricovero. Complice la malattia, invece, pochi mesi prima erano caduti nel vuoto gli inviti a scendere in campo nelle ultime elezioni comunali di Torino. In un confronto tra i candidati, il sindaco Pd Stefano Lo Russo e lo sfidante Paolo Damilano, noto imprenditore del vino e delle acque minerali, era stato «battezzato» come perfetto assessore alla Cultura. «Quella è stata una battuta, durante la trasmissione, niente di più», sottolinea Damilano. «Ci siamo incontrati tante volte allo stadio, lui è uno di quei tifosi che si immedesima nella partita per tutti i novanta minuti. Spero di vederlo presto. Gli sono vicino».

Post di Baricco dalla clinica: "Vi racconto la mia leucemia". Nino Materi il 23 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Lo scrittore: "La diagnosi 5 mesi fa, ora il trapianto. Mi conforta l'affetto dei familiari e il successo del Toro".

Di pagine, Alessandro Baricco, se ne intende.

La sua vita è sfogliare capitoli avvincenti. Uno per ogni anno che passa: 63, finora. Che nell'esistenza di un uomo sono tanti; e marcano, col gesso dei bilanci, la linea di confine tra ciò che si fatto e quanto resta ancora da fare. Spazzando via la polvere fastidiosa dei rimpianti.

Nel libro - privatissimo - di Baricco, il capitolo 63esimo ha riservato a tutti una manciata di righe che avremmo preferito non leggere mai. Anche se, a scriverle, è stato uno come Baricco, abituato ad accarezza la penna con la stessa incisiva soavità con cui Maradona sfiorava il pallone.

Eccola allora la pagina, ineditamente social, firmata con gli «abbracci» di «AB»: «Ehm, c'è una notizia da dare e questa volta la devo proprio dare io, personalmente. Non è un granché, vi avverto. Quel che è successo è che cinque mesi fa mi hanno diagnosticato una leucemia mielomonocitica cronica. Ci sono rimasto male, ma nemmeno poi tanto, dai. Quando hai una malattia del genere la cosa migliore che puoi fare è sottoporti a un trapianto di cellule staminali del sangue, cosa che farò tra un paio di giorni (be', non è così semplice, ci stiamo lavorando da mesi, è un lavoro di pazienza). A donarmi le cellule staminali sarà mia sorella Enrica, donna che ai miei occhi era già piuttosto speciale prima di questa avventura, figuriamoci adesso. Molto altro non mi verrebbe da aggiungere. Forse, ecco, mi va ancora di dire che percepisco ogni momento la fortuna di vivere tutto questo con tanti amici veri intorno, dei figli in gamba, una compagna di vita irresistibile, e il miglior Toro dai tempi dello Scudetto. Sono cose, le prime tre, che ti cambiano la vita. La quarta certo non te la guasta. Insomma, la vedo bene. Per un po' non contate su di me, ma d'altra parte non abituatevi troppo alla cosa perché i medici che si sono ficcati in testa di guarirmi hanno tutta l'aria di essere in grado di riuscirci abbastanza in fretta. Abbracci, AB».

«Racconto» integrale. Perché, questa «pagina» (in realtà un post su Istagram inviato dall'ospedale, con accanto pc e volume di Dickens), pare strappata da uno dei suoi romanzi migliori: quelli dove l'insidia del destino che scopri improvvisamente avverso, si stempera nella capacità di neutralizzarla con un tocco di umorismo.

E poi quella voglia sperimentale di spingersi oltre o - come da lui dichiarato al Corriere della Sera - «scollinare in una nuova vallata». Da pochi giorni, ad esempio, aveva lanciato il progetto «Novecento. The Source Code», ovvero, l'audio della sua lettura ad alta voce del monologo teatrale registrato a Capodanno e che aveva deciso di trasformare in un pezzo unico digitale. Una prospettiva visionaria ancorata però a valori antichi. E chissà se nel suo ironico (ma neanche tanto) riferimento social al «miglior Toro dai tempi dello Scudetto», c'è da parte dello scrittore un implicito riferimento a un calciatore come Sinia Mihajlovi che del Toro è stato allenatore, incarnandone al meglio lo spirito battagliero. Una forza con cui Mihajlovi (e tanti altri) hanno sconfitto lo stesso avversario che ora sfida Baricco.

E nella vita, come nel calcio, avere il «Cuore Toro» è sempre una carta vincente. Nino Materi

Luigi Mascheroni per “Il Giornale” il 23 gennaio 2022.

La malattia annunciata in pubblico - leucemia - non è un gioco, anche se ormai tutto, sulla tastiera del pc di Alessandro Baricco, diventa qualcosa che ha a che fare con The Game, il nuovo mondo dominato dal web e dagli algoritmi di cui lo scrittore, raccontatore di storie conquistato dallo storytelling digitale, ha ricostruito nascita e senso, bestseller del 2018. Tesi: la Rete non è solo una rivoluzione tecnologica, ma un'insurrezione mentale. Tutto è una sfida. In fondo anche una patologia può diventare una partita da vincere.

E accettare il gioco significa sfruttare al meglio The Game. E così, scrivendo un bollettino medico che per stile letterario sembra una breve prova d'autore, Alessandro Baricco - romanziere, drammaturgo, sceneggiatore, critico musicale, conduttore televisivo e radiofonico e incidentalmente il primo autore letterario italiano a generare un Nft attraverso la tecnologia blockchain a partire da una sua opera, Novecento - nell'ora più difficile sceglie di affidarsi alla forza e alla visibilità dei social. Messaggio in bottiglia nell'Oceano mare di Internet. 

Affetti, notizia shock e un post su Facebook. Per raccontare la battaglia della vita basta una breve didascalia sopra la foto del comodino d'ospedale con un pc aperto su Spotify e una copia del capolavoro di Charles Dickens Il Circolo Pickwick, che diede il titolo alla sua più famosa trasmissione sui libri. Seta, City e Open source. «All'età mia, sarà un gran colpo, questo è certo - è scritto nel Circolo Pickwick -; ma io son duro parecchio, questo è che mi consola, come disse il vecchio tacchino quando il pollaiolo gli disse che temeva di dovergli tirare il collo per portarlo al mercato».

Duro, Baricco è duro di suo. E la consolazione arriva dai commenti al post, che su Twitter, nel pomeriggio di ieri, era già in tendenza. Con Baricco - autore mai così amato come ora - stanno giocando tutti. #ForzaAlessandro è qualcosa più di un hashtag. Si dice «condivisione», e non solo nel senso di un post. In tanti gli hanno offerto un abbraccio digitale. «Ci sono ancora tante storie da raccontare e troppe pagine da scrivere». A manifestare vicinanza: moltissimi giornalisti delle testate con cui collabora: La Repubblica, da Ezio Mauro in giù, e La Stampa. Poi mezza La7, a partire da Enrico Mentana: «Forza Alessandro».

La Rai, dove tra gli anni Novanta e Duemila ha portato i suoi programmi sui libri, fra show e reading letterari. Curiosamente pochissimi colleghi scrittori, con la dovuta eccezione di Fulvio Abbate. «Ogni bene, Alessandro»: (l'invidia in Rete attecchisce bene). E poi perfino la politica, da Matteo Renzi, che è lo storytelling baricchiano declinato in politica, a Stefano Bonaccini, che è la politica che tende a sprofondare nel romanzesco. E ancora. I compagni di avventura della sua Scuola Holden, università dello storytelling e di arti performative.

E l'account del Premio Campiello, che Baricco ha vinto l'anno scorso «alla carriera». E quello ufficiale del Torino Football Club, cuore granata e Le mucche del Wisconsin: «Il Toro sarà ancora più bello quando tornerai con noi allo stadio!». E i suoi amici, come Luca Bizzarri, che ha letto, per un podcast, gli articoli di Baricco sul Post. The Game continua... Speruma an bin. Baricco ce la farà, di sicuro. Col Circolo Pickwick accanto al letto e tanta gente che ti fa coraggio online, non c'è nulla che possa andare male. E poi - siamo sicuri - proprio da qui nascerà il tuo libro più bello. 

Paolo Coccorese per il "Corriere della Sera" il 24 gennaio 2022.

Le migliaia di messaggi di vicinanza e di incoraggiamento, scritti sul web dagli amici e dai tanti ammiratori una volta appreso della malattia, hanno scaldato il cuore di Alessandro Baricco e dei suoi familiari. 

«Ne ha sentito la forza. Gli stanno donando l'energia e la grinta per affrontare con maggior coraggio questo momento. Sandro ringrazia tutte le persone che gli hanno dedicato un pensiero».

Gloria Campaner è la compagna dello scrittore che ha condiviso sui social l'ultima sua sfida, la più importante della vita: il trapianto di cellule staminali a cui sarà sottoposto per sconfiggere la leucemia mielomonocitica cronica diagnosticatagli cinque mesi fa.

Sabato, con un breve testo pubblicato su Facebook, l'autore di Oceano Mare e Seta ha dato la notizia del tumore del sangue. «Quando hai una malattia del genere - ha scritto Baricco - la cosa migliore che puoi fare è sottoporti a un trapianto di cellule staminali, cosa che farò tra un paio di giorni (be', non è così semplice, ci stiamo lavorando da mesi, è un lavoro di pazienza). A donarmele sarà mia sorella Enrica».

La donna, che ha trascorso gli ultimi due giorni vicino al fratello ricoverato all'Istituto di Candiolo, rinomato centro oncologico torinese, ha scelto di sostenerlo in questo momento così difficile anche con un messaggio pubblicato su Linkedin. 

«Già. Eccoci qui», scrive la signora che a Torino guida CasaOz, onlus che si dedica all'accompagnamento delle famiglie dei bambini ricoverati negli ospedali della città. Enrica è molto legata al fratello con cui condivide la villa sulla collina dove abitano con le loro rispettive famiglie.

«Io e te accomunati anche da questa avventura - aggiunge la sorella -. Lotteremo. E lo sappiamo fare bene. Si dice, e nostro padre lo diceva spesso, che se nella vita succedono cose difficili, succede anche che ti arrivi la forza per affrontarle. Ed i primi a sorprenderci siamo noi. Concentriamoci su quella forza fratello! Avanti tutta!».

Non è ancora stato deciso quando avverrà il trapianto. «La decisione sarà presa dai medici in base ai risultati del processo di donazione delle cellule. Avverrà in questi giorni, dipende dagli esiti della parte affidata alla sorella Enrica», puntualizza Gloria Campaner, la compagna dello scrittore.

La diagnosi della malattia ha preso in contropiede lui e i suoi cari. «È arrivata qualche mese fa, all'improvviso», spiega la partner di Baricco che ringrazia la sorella Enrica e i medici per l'impegno in questa sfida. 

Lo scrittore sta affrontando la leucemia con positività. Campaner racconta: «Abbiamo sempre vissuto con allegria e non abbiamo mai smesso di ridere neanche adesso, nelle videochiamate con cui ci teniamo in contatto anche in questi giorni di ricovero a Candiolo».

Da corriere.it il 15 febbraio 2022.

Dopo il trapianto di cellule staminali, Alessandro Baricco, 64 anni, ha lasciato l’ospedale. «A casa, finalmente — ha scritto lo scrittore su Facebook —. Grande gioia. Devo ringraziare lo staff medico e paramedico dell’Istituto di Candiolo (Torino, ndr): da loro ho solo ricevuto cura, attenzione e gentilezza. 

È andato proprio tutto liscio, con il trapianto, e so che se questo è successo è anche per l’ondata di affetto e energia che tante persone mi hanno mandato, spesso da lontano. A loro va tutta la mia gratitudine, la più sincera. Ora si tratta di andare avanti a ricostruire, con pazienza e disciplina, sperando di vedere arrivare presto l’ora dei festeggiamenti. Nel caso, intendo farli durare per anni».

Era stato lo stesso Baricco — autore tra gli altri di «Oceano mare», «Novecento» e «The Game» — ad annunciare sui social, lo scorso 22 gennaio, che gli era stata diagnosticata la leucemia mielomonocitica cronica.

·        Alessandro Manzoni.

Quello strano "morbo" che infettò casa Manzoni. Mattia Rossi il 22 Marzo 2022  su Il Giornale.

"Aveva orrore della folla, da cui troppo temeva d'esser stretto: orrore al vuoto, perché temeva di cadere: soffriva di vertigo e d'insonnia".

«Aveva orrore della folla, da cui troppo temeva d'esser stretto: orrore al vuoto, perché temeva di cadere: soffriva di vertigo e d'insonnia». Così Carlo Emilio Gadda descrive l'agorafobia e nevrosi di cui soffriva Alessandro Manzoni. In una sua lettera, il canonico Dunoyer riporta il ricordo del cardinal Billet: «Manzoni aveva l'impressione di essere al bordo di un abisso e, per calmare la paura che provava di precipitarvi, aveva cura, essendo a tavola, di mettere vicino a sé una sedia su cui appoggiare la mano».

Sulle patologie che afflissero la mente dello scrittore uscì, anni fa, un illuminante libro di Paolo D'Angelo, Le nevrosi di Manzoni (Il Mulino, 2013). Ma quelli mentali non furono i soli disturbi che tormentarono lo scrittore dei Promessi sposi e la sua famiglia: la moglie, Blondel, morì a 42 anni, ben sei delle sette figlie non arrivarono ai 30 anni, a 42 anni morì il figlio Filippo... Cosa li colpì? La risposta è una conferenza organizzata dalla Scuola della Cattedrale di Milano nel 2020, i cui interventi sono confluiti nel libro Le malattie di casa Manzoni (BookTime, pagg. 68, euro 7) con i contributi di Angelo Stella, Paolo Mazzarello, Mariella Goffredo, Emanuela Sartorelli, Gianantonio Borgonovo e Armando Torno. Cuore del volume è, naturalmente, lo scritto di Mazzarello, medico e docente di Storia della medicina all'Università di Pavia, che getta luce sulla mente e sul corpo di Manzoni, «bambino non desiderato, nato per caso e subito lasciato alla sua solitudine», tratteggiandone una cartella clinica redatta anche grazie all'insostituibile contributo dei carteggi familiari: ansia anticipatoria, agorafobia, attacchi di panico, disturbi psichici e poi lei, la tubercolosi, la principale causa di morte, secondo il medico, di tutta la famiglia.

Da ultimo, non slegata dalla sua salute è la religiosità di Manzoni. Come nota Mazzarello «tramite la fede Manzoni incontrò in quel momento anche un argine alle sue fragilità». E che il milanese non avesse fiducia nei medici quanto piuttosto nella preghiera lo fa dire a Renzo ormai malato di peste: «Si curò da sé, cioè non fece nulla; né fu in fin di morte, ma la sua buona complessione vinse la forza del male».

·        Alfred Hitchcock.

Lorenzo Peroni per artslife.com il 5 marzo 2022.  

Alfred Hitchcock, prima di tutto, è autore di sé stesso. Un artista inquieto, che negli anni della sua carriera ha costruito la propria leggenda, diventando così il primo regista superstar conosciuto a livello mondiale, trasformando la sua persona in un brand. Il suo nome, film dopo film, diventa un marchio di qualità, la gente va al cinema per vedere i film di Hitchcock, non di questo o di quell’altro attore, lui impara a conoscere il “suo pubblico” e lo sfama a dovere, mai troppo, mai troppo poco. 

Impossibile osservarlo e raccontarlo attraverso un solo punto di vista, una sola angolatura non basta, Edward White nel suo libro, Le dodici vite di Alfred Hitchcock (Il Saggiatore), decide così di farsi strada tra le diverse facce di questo regista mitico, raccontandole tutte, anche quelle più contraddittorie (anzi, soprattutto quelle), tra biografia, film, cronaca e fantasia (non si può mai sapere).

Il libro si compone di dodici ritratti, ognuno riprende Hitchcock sotto una luce diversa, ognuno rivela qualcosa di fondamentale su di lui, sulla figura pubblica che ha costruito attorno a sé e sulla creatura leggendaria che è diventato. Non solo quindi una ricostruzione biografica, ma un’indagine sui ruoli che l’autore di Psycho e Caccia al ladro ha deciso di incarnare. Tra queste dodici personificazioni troviamo l’Hitchcock eterno bambino, l’innovatore, il pioniere, il buontempone, l’artista trasgressivo, il marito, il donnaiolo, il padre di famiglia, l’intrattenitore pieno di contraddizioni. Scopriamo così aspetti inediti e leggiamo in un nuovo contesto quelli più celebri, in un racconto approfondito, ricchissimo e dettagliato.

Le dodici vite di Alfred Hitchcock è un gustoso mosaico che cerca di ricostruire i confini sfuggenti di un protagonista fondamentale del cinema contemporaneo, facendo leva sulle contraddizioni che lo caratterizzano, partendo dalle incongruenze e valorizzandole. 

Un ragazzino spaventato da preti e poliziotti, ansioso e col terrore dell’abbandono, le sue ossessioni artistiche risalgono tutte alla sua infanzia e alla sua adolescenza: gli aneddoti sul padre che lo fa mettere in prigione per scherzo, le punizioni corporali dei gesuiti, nell’arco della sua carriera il regista ha raccontato molto dell’origine dei suoi “mostri”, ma ogni volta i dettagli cambiano un po’, forse perché la memoria non è sempre affidabile, oppure per via della sua malcelata consuetudine di trasformare tutto in una possibile sceneggiatura, la propensione per la suspense e per il melodramma sono insiti in lui. 

“Il padre, William – scrive Edward White – sembrava riuscire a rilassarsi solo a teatro. Hitchcock ricordava: «Credo si preoccupasse parecchio. Vendere prodotti che vanno a male in un solo giorno deve essere snervante». Tipico del suo atteggiamento, trovare un aspetto melodrammatico anche nel ciclo vitale di una sardina, infondere suspense nella vendita di pesce, frutta e verdura (il padre aveva due pescherie)”.

Ma sarebbe quantomeno riduttivo guardare a Hitchcock solo come un eterno bambino segnato dalle ansie infantili. In lui hanno convissuto un ego quanto mai ingombrante e un’estrema insicurezza, aveva grandissima considerazione di sé eppure provava disgusto per sé stesso, sicurissimo del suo talento e delle sue idee era sempre in cerca di rassicurazioni. Molti lo hanno visto come un uomo pieno di nevrosi, altri come freddo professionista, per molti innamorato e devoto alla figura femminile, per altri un mostro di misoginia (marito fedele o farfallone?).

Senza dubbio Hitchcock è stato (fra le altre cose) un pioniere. La sua filmografia va dal cinema muto al sonoro, dal bianco e nero al colore, dal melodramma all’horror, dal noir alla commedia (lavorando perfino in 3D). I suoi film muti sono pieni di idee innovative e trovate tecniche ingegnose, nel sonoro sfrutta al massimo la potenzialità della colonna sonora e nel doppiaggio, e primo fra tutti capisce l’importanza della pubblicità, del marketing – arrivando a promuovere sulla stampa e in un suo film (I Prigionieri dell’Oceano) la dieta che gli aveva fatto perdere 30 chili (Alfred, il golosone collezionista di menù). 

Nel 1955 l’agente di Hitchcock riesce a convincerlo a lavorare per la TV, il regista accetta la sfida (primo grande autore a farlo), fonda una propria compagnia (cosa che gli permette di avere il controllo sulla produzione e sui guadagni), e chiama a sé i suoi collaboratori più fidati, gli scrittori, gli sceneggiatori e gli attori che più amava. La serie fa anche da banco di prova per Vera Miles, che – protagonista del primissimo fra tutti gli episodi della serie, Vendetta – torna poi a lavorare per Hitchcock sul grande schermo, prima con Il Ladro e poi con Psycho. 

La sfida viene vinta su tutti i fronti, gli ascolti ottimi e la popolarità del maestro del brivido schizza alle stelle, rendendolo il primo regista realmente famoso a livello mondiale, nonché indipendente da qualsiasi altro impegno e il regista più ricco di Hollywood. 

Nel privato però, nonostante il successo, il regista è tormentato da una perenne insoddisfazione, guarda il mondo come dall’esterno, afflitto da grandi difficoltà emotive. E allora, chi era questo chiacchieratissimo Maestro del brivido? Hitchcock: l’eterno bambino, l’assassino, l’autore, il donnaiolo, il grassone, il dandy, il padre di famiglia, il voyeur, l’intrattenitore, il pioniere, il londinese, l’uomo di Dio. 

·        Amy Sherald.

Antonio Riello per Dagospia il 3 novembre 2022.

L'artista Amy Sherald ha una mostra nella sede londinese della galleria Hauser & Wirth, quella che si trova nella famosa via dove si trovano i più prestigiosi sarti da uomo della città (Saville Row). Amy dipinge pazzescamente bene e con il suo pennello, sa davvero raccontare epiche storie. E' pittura appunto, ma sembrano spezzoni di un film americano: frammenti di una La La Land Afroamericana. 

Il nome di questa pittrice, nata a Columbus (Stato della Georgia) nel 1973, è legato per molti ad un celebre ritratto di Michelle Obama da lei fatto qualche anno fa. La sua capacità di essere "impegnata" (sul fronte delle rivendicazioni razziali) non le impedisce affatto di fare una pittura incredibilmente seducente. E' Arte Visiva con la colonna sonora incorporata, come se si potesse ascoltare (mentre ci si muove con aria seria nella silenziosa e azzimata galleria) un funky rock. 

Amy ha un trucco tutto suo: le figure umane (tutte Afroamericane) sono sempre dipinte con toni di grigio. Non dipinge la pelle nera in maniera naturalistica, ha invece affinato una tecnica personalissima che rende le sue donne e i suoi uomini degli esseri particolari. Forse degli speciali Avatar. Sono da considerarsi piuttosto degli archetipi di un processo evolutivo sociale. Ex comparse di secondo ordine diventate finalmente protagoniste sulla scena Americana.

Le posture dei suoi soggetti sono particolarmente fresche e naturali seppure possano essere facilmente inquadrate all'interno di una eleganza quasi neoclassica. Un neoclassicismo addirittura canoviano si potrebbe dire. Sì, un(a) Canova american(a) del XXI Secolo che dipingendo ferma in pose plastiche i gesti di questo tempo, degli Stati Uniti e della propria comunità. Ma che anche procede, filologicamente, fino alla base autentica della Classicità dove, come ormai sappiamo tutti, le statue non erano bianche ma coloratissime. Come quelle di plastica/resina che vediamo nei  Luna Park. Il (vero) mondo Classico era esageratamente Pop, al limite del Kitsch. E, d'altra parte, gli accesi riferimenti visivi della cultura Pop Americana hanno costituito, negli ultimi decenni, il "Canone Classico" dell'universo estetico occidentale. Amy Sherald tutto questo sembra averlo ben chiaro nel suo lavoro. La Storia dell'Arte aleggia attorno ai suoi quadri in tutta la sua contraddittoria magnificenza.

I gioielli, i vestiti, gli oggetti (i trattori, le moto e le auto ad esempio) che accompagnano - anche chiassosamente - le figure di questa pittrice non sono mera decorazione ma il bagaglio sostanziale che definisce con precisione la natura e lo status dei suoi soggetti, tutti dipinti con l'ambizione di farne dei poderosi monumenti di emancipazione sociale/razziale.

Qualcosa che ha delle affinità, tanto per restare a Londra, con il ritratto del sarto di Giovan Battista Moroni (1565), dove ad un membro delle classi inferiori (un artigiano) viene concesso probabilmente per la prima volta di entrare nel ristretto novero, preminentemente aristocratico, dei soggetti della grande pittura. 

The World We Make 23 Savile Row, Londra W1S 2ET fino al 23 Dicembre 2022

·        Andy Warhol.

Il senso religioso di Andy Warhol. DEMETRIO PAPARONI su Il Domani il 22 settembre 2020.

Famoso a livello mondiale come colui che ha portato nell’arte l’estetica dell’effimero e dei beni di consumo, teneva rigorosamente nascosta la sua vita privata e il legame con le sue radici cattoliche

Andy Warhol è stato un grande artista e un geniale promotore di sé stesso e di quanti hanno lavorato con lui. Negli anni Sessanta e Settanta essere ritratto da lui certificava l’appartenenza alle alte sfere dello star system.

Facendo parte dello star system, Warhol sapeva che non avrebbe giovato alla sua immagine pubblica se si fosse saputo che teneva un libro di preghiere sul comodino, un crocifisso accanto al letto a baldacchino, immagini sacre alle pareti e una cappella privata nella sua casa a New York.

Il 3 giugno del 1968 la sua vita cambia: Valerie Solanas cerca di ucciderlo senza riuscirci. Non è da escludere che Warhol abbia pensato di essersi miracolosamente salvato grazie alle preghiere che quella mattina, come ogni giorno, aveva recitato con la madre prima di uscire di casa.

È famoso a livello mondiale come colui che ha portato nell’arte l’estetica dell’effimero, dei beni di consumo, dei rotocalchi, della moda, di un sistema che crea oggetti del desiderio. Attento ad alimentare la sua fama, Andy Warhol voleva si pensasse a lui come a un assiduo frequentatore di locali notturni, a un instancabile organizzatore di feste, a un mondano amico delle star, ma anche a un produttore capace di trasformare una persona qualunque in un divo nella New York che conta, città di cui incarnava lo spirito.

Negli anni Sessanta e Settanta essere ritratto da lui certificava l’appartenenza alle alte sfere dello star system e, poiché la sua attenzione era rivolta alle celebrità, furono in molti in seguito a pagare pur di sentirsi parte di quel pantheon che includeva personaggi come Marilyn Monroe, Elvis Presley, Marlon Brando, Jackie Kennedy, Liz Taylor.

Frequentare negli anni Sessanta la Factory o apparire in uno dei suoi film era sufficiente a far percepire come una superstar anche l’ultimo degli sfigati. Eppure i suoi film, pane per i denti della critica che a ragione ha versato fiumi di inchiostro per analizzarne le implicazioni, mettono a dura prova la resistenza dei fan più accaniti.

Warhol, però, non è stato solo un grande artista e un geniale promotore di sé stesso e di quanti hanno lavorato con lui. Quella era l’immagine che voleva dare di sé. Teneva rigorosamente nascosta la sua vita privata, segnata da un rapporto viscerale con la religiosissima madre Julia, che rappresentava anche il legame con le sue radici cattoliche. Facendo parte dello star system, Warhol sapeva che non avrebbe giovato alla sua immagine pubblica se si fosse saputo che teneva un libro di preghiere sul comodino, un crocifisso accanto al letto a baldacchino, immagini sacre alle pareti e una cappella privata nella quale recitava ogni mattina le preghiere insieme alla madre quando lei viveva in casa sua a New York.

A metà pomeriggio si fermava spesso a pregare nella chiesa di Saint Vincent Ferrer di Lexington Avenue e accendeva una candela. Donava con regolarità il suo tempo a una mensa di senzatetto e di bisognosi e provava grande orgoglio nel finanziare gli studi del nipote in seminario.

Nella Pasqua del 1986, mentre serviva cibo ai senza tetto alla church of the Heavenly Rest, notò che molte di quelle donne in miseria somigliavano alla madre. Considerate le origini e le vicissitudini della famiglia, segnata dalla morte del padre, Warhol non ha mai perso di vista che sarebbe potuta andare male anche a lui: vedere la madre in quei diseredati significava vedere tra loro anche sé stesso.

Nell’elogio funebre del primo aprile 1987 che tenne nella cattedrale di Saint Patrick, a New York, il suo amico John Richardson, storico dell’arte e responsabile di Christie’s, si è soffermato sulla religiosità di Warhol, chiarendo che «la conoscenza di questa pietà segreta muta inevitabilmente la nostra percezione di un artista che aveva ingannato il mondo facendogli credere che le sue sole ossessioni fossero il denaro, la fama, il glamour, e che potesse essere disinvolto fino all’insensibilità più totale». Solo gli amici più stretti erano a conoscenza della sua religiosità. La parrucca argentea e il modo artefatto di parlare erano la sua maschera. Ancora oggi si preferisce vederlo come egli voleva essere visto, quasi che mettere a nudo gli aspetti più intimi della sua personalità possa togliere tensione al personaggio che si era costruito.

Così, nonostante la spiritualità abbia un forte peso nella definizione della personalità di Warhol, dunque del suo lavoro, sono soltanto due le mostre a lui dedicate che hanno messo in luce questo particolare aspetto della sua dimensione umana. La prima, curata da Gianni Mercurio, uno dei maggiori esperti europei di Warhol e della pop art, si è tenuta a Roma nel 2006 al chiostro del Bramante con il titolo Pentiti e non peccare più!, titolo preso a prestito da una frase riportata su una tela di Warhol della metà degli anni Ottanta: «Repent and sin no more!» 

La frase esprime in maniera emblematica l’ossessione di Warhol per il momento del giudizio. La seconda mostra Personal Jesus: The Religious Works of Keith Haring and Andy Warhol, curata dall’allora direttore del The Andy Warhol Museum, Thomas Sokolowski, metteva a confronto due diversi modi di accostarsi alla religione: idealista quella di Haring, che vedeva in Gesù «il ragazzo della porta accanto», ben più tradizionale quella di Warhol, che lo portava a vivere con una certa preoccupazione il suo rapporto con il mondo magico della superstizione.

Il suo timore di offendere Dio era tale che nel novembre del 1967, dopo aver presentato a New York il film Imitation of Christ, al quale aveva lavorato circa un anno, lo ritirò subito dalla circolazione senza dare spiegazioni. Vedendo una relazione causa-effetto tra piccoli eventi della sua vita quotidiana e il proprio stato di salute, arrivò a scrivere sul suo diario «sono sicuro che l’altro giorno mi sono ammalato come punizione per aver urtato quella signora».Sappiamo anche che si era affidato a un chiropratico che gli aveva suggerito di far bollire dei cristalli nell’acqua in cui cucinava l’avena, mentre un altro chiropratico aveva cercato tra i numeri di telefono che aveva in tasca le cause dei suoi malesseri. Viveva tuttavia queste pratiche superstiziose con una certa inquietudine, tant’è che, come ricorda Wayne Koestenbaum nella biografia a lui dedicata nel 2001, fu rincuorato nello scoprire che l’uso dei cristalli non era in conflitto con il cristianesimo.

Fëodor Dostoevskij, che a ventisette anni si ritrovò dinanzi a un plotone d’esecuzione da cui si salvò per la grazia concessa dallo zar ai condannati a dimostrazione della sua benevolenza, da quel momento cambiò il suo modo di rapportarsi all’esistenza. Così è stato anche per Andy Warhol dopo quel maledetto 3 giugno del 1968 in cui si trovò puntata contro la calibro 32 automatica che la ventottenne Valerie Solanas aveva comprato per ucciderlo. Femminista radicale, afflitta da schizofrenia paranoide, Solanas era l’autrice di Scum (feccia), il manifesto di un mai nato movimento di cui rimase unica esponente, che mirava allo smantellamento di una società dominata dai maschi. Solanas vide in Warhol colui che più di ogni altro rappresentava in ambito artistico il sistema dominante dei maschi che voleva distruggere.

A quel tempo la Factory, che si trovava al secondo piano di un edificio di Union Square, era un porto di mare. Vi si accedeva dall’ascensore che si apriva direttamente nel grande spazio in cui Warhol, oltre a lavorare alle sue tele e ad allestire set fotografici, disegnava vestiti, progettava grafica pubblicitaria, copertine di vinili, film, spettacoli teatrali e musicali. In tanti si presentavano senza essere stati invitati e Warhol si era ritrovato a doversi liberare di aspiranti attori, di artisti scontenti e, peggio ancora, di fricchettoni dai comportamenti alterati dall’assunzione di droghe che avevano perso ogni freno inibitorio. Qualcuno, rancoroso per le aspettative deluse, si era spinto a minacciarlo. Tra questi c’era per l’appunto anche Valerie Solanas, alla quale Warhol aveva affidato una parte nel film I, a man (Io, un uomo), ma alla quale non aveva mai dato una risposta su un copione che lei gli aveva sottoposto per trarne un film intitolato Up your ass (In culo a te).

Quel pomeriggio del 1968 Valerie si presentò alla Factory intrufolandosi nell’ascensore insieme a uno degli assistenti di Warhol. Andy non si aspettava di trovarsela davanti e la liquidò con poche parole andando alla sua scrivania per rispondere al telefono. Attirato dalle persone un po’ folli perché creative, le aveva ritenute (fino a quel momento) capaci di far del male solo a sé stesse, per questo non si curò molto della sua presenza. Valerie gli si avvicinò ed estrasse la pistola da un sacchetto di carta. Warhol capì cosa stava per accadere, la implorò di non sparare. Lei fece fuoco due volte. Colpito, cercò riparo sotto la scrivania dove lo raggiunse un terzo colpo, quello che avrebbe dovuto finirlo. Assistettero atterriti alla scena Mario Amaya e Fred Hughes, rispettivamente il compagno e il manager di Warhol. Convinta di aver ucciso Warhol, Valerie indirizzò l’arma verso Amaya e sparò ancora colpendolo a un fianco. Puntò poi la pistola contro Hughes. Anche lui come Warhol la supplicò di non sparare. Lei tentennò, indietreggiò, ma una volta vicina all’ascensore premette il grilletto. L’arma si inceppò e lei fuggì.

In ospedale Warhol venne dichiarato clinicamente morto. I proiettili gli avevano perforato i polmoni, l’esofago, la milza e il fegato. Sarà un medico di origine italiana a capo dell’emergenza del Columbus Hospital, Giuseppe Rossi, a tentare il possibile in sala operatoria e a riuscire a salvarlo.

Se è vero che in situazioni come queste ti passano davanti agli occhi i momenti più salienti della vita, Warhol si sarà rivisto bambino a Pittsburgh nella chiesa cattolica bizantina di St. John Chrysostom. Quella chiesa, fondata da emigrati devoti provenienti dalla regione transcarpatica nell'Europa orientale, era frequentata dalla famiglia Warhola che proprio a Pittsburgh era giunta da una piccola cittadina oggi al confine tra Slovacchia, Romania e Polonia.

Chissà che impressione deve aver fatto al piccolo Andy trovarsi con la madre in quella chiesa dinanzi alla iconostasi, la parete di icone di diverse dimensioni i cui soggetti, in primo piano su un luminoso sfondo monocromatico risaltano netti perché li si possa vedere anche da lontano. Con la loro essenzialità e ripetitività seriale mantenuta per secoli, le icone, contrariamente alla pittura italiana o fiamminga coeva, concentrata sui dettagli come il drappeggio, la qualità delle stoffe o sull’espressione dei volti, avrebbero lasciato il segno nell’immaginario di quel bambino da tutti ricordato come timido e anche un po’ impacciato. Nessuno avrebbe immaginato che sarebbe divenuto il famoso autore di ritratti caratterizzati da soggetti in primo piano, perlopiù frontali, subito riconoscibili anche da lontano, dai dettagli ridotti ai minimi termini e dai colori netti. Lo stile di uno dei protagonisti più rappresentativi dell’arte occidentale moderna affonda dunque le sue radici in una delle espressioni più significative dell’arte bizantina e dell’est europeo: l’icona. Questo riferimento è stato rimarcato dallo stesso Warhol nei ritratti della prima metà degli anni Sessanta di Marilyn, Jackie o Marlon Brando, raffigurati (santificati) in primo piano su uno sfondo oro.

Chissà se in quella manciata di secondi in cui si è ritrovato la pistola di Valerie puntata contro, Andy si sarà visto bambino nella casa di Pittsburgh a osservare con occhi amorevoli la madre mentre colora a matita vecchie fotografie di famiglia in bianco e nero (ce se sono alcune esposte nel museo a lui dedicato a Medzilaborce, una cittadina slovacca non distante dal luogo d’origine della sua famiglia), oppure piangere ancora quattordicenne la morte del padre. Avrà rivissuto lo strappo del suo trasferimento nel 1949 da Pittsburgh a New York. Aveva ventuno anni e stava già perdendo i capelli, un piccolo trauma che accentuerà la sua timidezza e, incredibile a dirsi, la difficoltà a relazionarsi con gli altri.

Non è da escludere che Warhol abbia pensato di essersi miracolosamente salvato grazie alle preghiere che quella mattina, come ogni giorno, aveva recitato con la madre prima di uscire di casa. Di quelle ferite avvertì per tutta la vita le conseguenze sia fisiche sia psicologiche. Da allora, giurano quanti lo hanno conosciuto, Warhol non è stato più lo stesso. Ha cominciato a diffidare degli altri, era sempre all’erta come se dovesse difendersi da un pericolo imminente. Solanas rivendicò orgogliosa il suo gesto, ma grazie al rifiuto di Warhol di deporre contro di lei, fu condannata a soli tre anni di carcere per tentato omicidio, aggressione e detenzione abusiva d’arma da fuoco. Warhol non la perdonò, ma non volle infierire.

Le biografie di Warhol si susseguono. A quelle di Victor Bockris, (1989) e di Wayne Koestembaum (2001) si aggiunge adesso quella di Blake Gopnik, spacciata per «la biografia definitiva», un po’ come si fa per lanciare l’ennesimo best off di una rock band di successo. La caccia allo scoop non si è mai arrestata. Qualche perla qui è là però affiora in altri libri di cui non è il protagonista. Racconta di Warhol John Giorno nella sua autobiografia appena pubblicata negli Usa con il titolo Great Demon Kings: A Memoir of Poetry, Sex, Art, Death, and Enlightenment. Poeta underground italoamericano (la famiglia era originaria della provincia di Matera) Giorno è stato un innovatore nel modo di presentare la poesia al pubblico, tanto che le sue letture erano considerate delle vere e proprie performance. Nel suo libro Giorno, che di Warhol è stato il fidanzato tra il 1963 e il 1964 (dopo di lui lo è stato anche di Robert Rauschenberg e dopo ancora di Jasper Johns) afferma di essere stato non solo la prima “superstar” di Warhol, ma anche la prima superstar di cui Warhol si è sbarazzato, come avrebbe del resto fatto «con sadismo e crudeltà» con altri attori coinvolti nei suoi film, che «sfruttava ed eliminava».

Giorno non nasconde l’inquietudine e la sofferenza provata quando Warhol smise di rispondere alle sue telefonate. Morto nell’ottobre dell’anno scorso, Giorno divenne noto nella scena newyorkese per aver recitato (si fa per dire) nel 1963 nel film di Warhol Sleep, di cui era l’unico attore. Mentre dormiva, la cinepresa di Warhol ha ripreso diverse parti del suo corpo. La durata del film, cinque ore e venti minuti di immagini in bianco e nero fisse, silenziose, ripetitive e ripetute che includono anche i fotogrammi finali vuoti delle bobine, mette a dura prova gli spettatori. Ma Warhol era già Warhol e quel film fece di Giorno, che allora per vivere lavorava a Wall Street, una star. Per quanto sia stato un poeta apprezzato, per quanto abbia collaborato con poeti e scrittori del calibro di Allen Ginsberg, William Burroughs, Charles Bukowski e sia entrato in sala di registrazione per prestare la sua voce e i suoi versi a musicisti come Frank Zappa, Laurie Anderson, i Sonic Youth, quando si parla di lui si finisce per ricordarlo soprattutto per il ruolo in Sleep.

Supposto che le affermazioni di Giorno siano veritiere, sarebbe riduttivo pensare a Warhol come a un uomo cinico, crudele, opportunista. Altre testimonianze sulla sua vita privata, tenuta a lungo gelosamente nascosta, stridono con questa descrizione e aprono altri scenari interpretativi del suo lavoro. DEMETRIO PAPARONI

Enrico Pitzianti per repubblica.it il 25 ottobre 2022.

Nel 1974 Luciano Anselmino, importante mercante d'arte italiano, commissionò ad Andy Warhol una serie di opere per un compenso, pattuito in anticipo, di un milione di dollari. L'artista all'epoca era già affermato, e per quella cifra avrebbe potuto scegliere di non rischiare e raffigurare nuovamente i soggetti che lo avevano reso celebre, come i divi di Hollywood o i prodotti commerciali riprodotti in serie. Invece fece una scelta anticonformista: dedicare un'intera serie di ritratti a persone che famose non erano. Di più, le modelle scelte appartenevano a una categoria stigmatizzata ed emarginata: le persone transessuali. 

Due aiutanti di Warhol furono mandati al Gilded Grape  -   un locale notturno di New York, all'epoca molto frequentato dalla comunità gay - per trovare rare bellezze da ritrarre. Volti che appartenevano a persone costrette a prostituirsi, sofferenti e abituate a subire una forte riprovazione sociale. Quei ritratti sono di una bellezza e di una dignità sorprendenti. E rivelano il bisogno insopprimibile che Warhol aveva avuto di rappresentare una realtà sofferente, tormentata come lui stesso era nell'intimo.

Andy Warhol è per il mondo l'artista che meglio di tutti ha rappresentato il glamour e il successo, il newyorkese geniale che ebbe per primo l'intuizione di trasformare in arte i volti dei divi del jet set. Oltre a elevare a opere d'arte gli oggetti commerciali più comuni della classe media occidentale, dalle zuppe in barattolo alle bottiglie di Coca-Cola. Tutto vero, ma questo è solo l'aspetto più noto di quello che la critica considera - a ragione - uno degli artisti più influenti del Novecento: appena sotto la superficie, ecco un Warhol completamente diverso.

Un artista ansioso, sofferente, assediato da ombre e contraddizioni, ma anche cagionevole e introverso sin dall'infanzia, quando fu a lungo costretto a letto a causa di una dolorosa malattia non ancora diagnosticata. Fu allora che sua madre Julia, pittrice anche lei,  lo convinse a passare il tempo a colorare e disegnare figure e ritratti. 

Il titolo che Warhol diede alle opere sui transessuali fu Ladies and Gentlemen. Questa serie dedicata alla bellezza del diverso sarà visibile da domani 22 ottobre a Milano, quando verrà inaugurata Andy Warhol. La pubblicità della forma, mostra curata, con la collaborazione di Edoardo Falcioni, da Achille Bonito Oliva. Cioè da chi per primo in Italia coinvolse Warhol in un'esposizione. E che considera l'artista americano "il Raffaello della modernità", colui che "ha saputo dare profondità e classicità al consumismo di matrice anglosassone".

Eventi come questo (con oltre 300 opere) ci ricordano quanto la figura del re della Pop Art viva tutt'ora un'apparente contraddizione: essere "un artista classico", come lo definisce lo stesso Bonito Oliva, ma anche un pioniere e un innovatore incredibilmente attuale. È stato Warhol ad avere l'idea di utilizzare per la prima volta la serigrafia nell'arte contemporanea. È stato sempre lui a creare migliaia di opere con un approccio produttivo simile a quello industriale servendosi della sua Factory e diventando ricchissimo. Oggi, a 35 anni dalla morte, sono sue le opere vendute a cifre da record (l'ultima, un ritratto di Marilyn Monroe, è stata battuta all'asta per 184 milioni di euro). 

Ma nella mostra milanese si scoprono anche i lavori meno conosciuti, pochissimo visti, più cupi, espressione di quello che fu un aspetto della sua stessa vita. È l'altra faccia dell'artista, oscura e traumatica. L'attaccamento morboso a sua madre Júlia, che portò a vivere con lui a New York. E la sofferenza di sentirsi un escluso e un diverso: da bambino per essere figlio di migranti cecoslovacchi, incapace di parlare correttamente in lingua inglese; poi per la sua omosessualità e l'iniziale difficoltà a far accettare il suo gusto estetico eccentrico e anticonformista; infine per le sofferenze causate dalle troppe operazioni chirurgiche. 

Nel 1968 Warhol fu vittima di un attentato da cui si salvò per miracolo. Valerie Solanas, autrice e femminista radicale che diventerà poi molto famosa, cercò infatti di ucciderlo: un colpo di calibro 32 sparato a bruciapelo lacerò l'addome dell'artista. Il trauma avrebbe segnato Warhol per il resto dei suoi giorni, rendendolo fragile nel corpo e nella mente, terrorizzato dalla morte e dipendente dai farmaci contro il dolore.

Ma ci fu anche altro che sempre lo fece soffrire. Lui, il re Mida del pop, proveniva in realtà da una famiglia molto modesta. Pittsburgh, dove Andy nacque, era una città industriale e, di conseguenza, operaia. Qui suo padre, Andrew, lavorava in una fabbrica d'acciaio a pochi passi dalla riva del fiume Monongahela. Fu così che il futuro artista delle celebrities crebbe tra le tensioni politiche respirando l'aria del movimento socialista del tempo: forse è per questo che oltre a Elvis, a Mick Jagger e Man Ray dipinse anche i volti di Mao e di Lenin? Sembrano scelte apparentemente contraddittorie, e invece sono probabilmente soltanto il frutto di una vita passata alla ricerca del proprio riscatto.

TIMOTHY GREENFIELD-SANDERS PER DOMANI il 9 maggio 2022.

Nel 1967, il mio vago interesse per Andy Warhol esplose con l’uscita del primo album dei Velvet Underground. Warhol era il produttore del disco.

Negli anni ho letto molti degli innumerevoli libri su di lui. La maggior parte era confusa e disorientante. Finalmente, con la pubblicazione della biografia scritta da Blake Gopnik, abbiamo un capolavoro degno di Warhol. 

Il libro mi è piaciuto così tanto che ho contattato Blake Gopnik per questa intervista. La prima domanda che gli ho rivolto riguarda il suo interesse per Warhol e in che modo questo interesse si è trasformato in un progetto di otto anni e in un libro di più di 900 pagine.

«La mia precoce dedizione a Warhol – mi dice – inizia nel bagno di casa della mia infanzia. Avevamo un poster di una Marilyn di Warhol alla parete. Così ho trascorso un tempo considerevole, dall’età di sei anni, seduto a guardare una Marilyn di Warhol. In seguito, diventato critico d’arte, non è stato più possibile evitare Warhol: ti ritrovi a scrivere di lui almeno due volte l’anno. Ero interessato a lui ed ero più indulgente nei confronti dell’ultimo lavoro e di alcune sue opere non classiche di quanto non lo fossero altri critici. 

All’inizio del 2012 mi è apparso chiaro che era necessaria una seria, solida biografia. Non c’era una biografia realmente completa, perché i documenti non erano mai stati resi disponibili. Nel 2010 mi sono reso conto che i documenti erano consultabili – gli archivi non sono stati catalogati, più che altro inventariati. Era l’occasione per fare la biografia più completa di Warhol». 

Ti è stato dato accesso illimitato?

Al Warhol Museum, che custodisce gli archivi, erano entusiasti della mia idea. Così ho trascorso un numero incalcolabile di giorni, settimane, lì in archivio, che è uno dei posti più incredibili del pianeta. 

La ricerca per il libro ti è sfuggita di mano?

Non ci avrei messo circa otto anni a scriverlo, dalla prima ideazione alla pubblicazione. Non pensavo di essere un fanatico o un appassionato di Warhol. Quando ho iniziato, pensavo semplicemente che sarebbe stato interessante, e che lui lo meritava. La reale portata del suo genio mi è apparsa mentre lavoravo.

Un pericolo che corrono i biografi è quello di finire per canonizzare il personaggio che stanno studiando, ma può accadere anche l’opposto, che finisci per odiarlo. Andy non era sempre un essere umano perfetto, ma era sempre un artista perfetto. Ritengo che fosse più intelligente di quanto si pensi. 

Io sono un suo grande fan. Ho sempre creduto che fosse più intelligente di quanto si ritenga. Aveva una straordinaria capacità di parlare per enigmi, con tali sfumature di significato! Non era come il giardiniere interpretato da Peter Sellers in Oltre il giardino.

Ogni qualvolta è stato necessario far prendere alla sua arte una direzione interessante, ha intuito che cosa fare. Ci sono stati dei tempi morti nella sua carriera, ma era così incredibilmente intelligente da immaginare che cosa era interessante e cosa non lo era. È di questo che si tratta.

Inizi il libro con la coinvolgente descrizione di Andy a cui hanno sparato e che rischia di morire. Non avevo mai letto i dettagli dell’operazione. Raccontami del medico italiano, Giuseppe Rossi, e di come ha salvato la vita a Andy.

È una storia incredibile. Ho avuto la fortuna di essere invitato da John Ryan, uno storico della chirurgia, a un’intervista con il dottor Rossi, il medico che salvò la vita a Warhol. Quando siamo entrati in casa di Rossi, sulla parete c’erano sette serigrafie di Marilyn! Rossi era arrivato negli Stati Uniti subito dopo la Seconda guerra mondiale e aveva avuto una straordinaria formazione nel nuovo campo della chirurgia a cuore aperto.

Rossi aveva un forte accento italiano e in pratica nessuno lo avrebbe assunto. Ecco, un immigrato italiano che non parla bene inglese… primi anni Cinquanta. Finisce per fare il medico a tempo determinato a Harlem, dove vede molte ferite da arma da fuoco. 

Rossi diviene uno specialista sia in chirurgia toracica sia in ferite da arma da fuoco.

Warhol viene portato in ospedale dopo essere stato colpito, intorno alle 4:30 del pomeriggio del 3 giugno del 1968. Casualmente Rossi è lì che visita un altro paziente, quando l’interfono si accende per un codice blu. Rossi si precipita al pronto soccorso per vedere se può essere d’aiuto. Tutti gli specializzandi pensano che Warhol sia morto. Rossi dice: «No, questo tizio è ancora vivo, le sue pupille stanno reagendo».

Sei stato proprio il primo a parlare con Rossi dell’operazione?

I giornalisti hanno parlato un po’ con lui subito dopo l’operazione, ma non aveva mai raccontato la storia nei dettagli. La verità è che non è stato merito mio. Non sapevo cosa chiedere. Ci sono andato con il dottor Ryan che era in grado di capire ogni taglio fatto sul suo corpo. Ryan era un illustre chirurgo in pensione, un chirurgo toracico, nientemeno, che poi è diventato uno storico della chirurgia che ha fatto ricerche su grandi operazioni, perciò sapeva cosa chiedere a Rossi. 

E questo è stato fondamentale. Ryan aveva le foto delle cicatrici e diceva: «Perché hai tagliato qui? Questo non ha senso». E Rossi rispondeva: «Beh, non avevo idea da dove partisse l’emorragia. Dovevo solo aprire quel tizio. Pensavo fosse sul lato sinistro e ho aperto lì, ma era su quello destro».

Il corpo e le cicatrici di Warhol ci sono ben noti grazie alle fotografie.

Il corpo di Warhol è importante per capire. Già dall’infanzia, quando soffriva di alcuni sintomi di corea di Sydenham, si portava dietro la coscienza del proprio corpo. Si potrebbe scrivere un intero libro sugli effetti di questo sul suo lavoro. 

A proposito di corpi, quale corpo di opere di Warhol pensi sia stato il più radicale?

Tutto comincia con le lattine di Campbell’s Soup. Nel luglio del 1962 questi quadri erano molto più radicali di quanto non lo siano state le Brillo Boxes nella primavera del 1964. Il mondo dell’arte si muoveva così rapidamente in quei giorni che già nella primavera del 1964 la gente capiva quale fosse il significato di quell’azione. Ma nel luglio del 1962, mostrare 32 dipinti della Campbell’s Soup, che erano immagini completamente prive di commento, fu una mossa davvero radicale, ed è lì che tutto ha avuto inizio.

Si potrebbe dire che per Picasso era Guernica e per Warhol le Campbell’s Soup? Se Picasso ne avesse un’altra, diciamo Les Demoiselles d’Avignon, quale sarebbe la seconda opera più radicale di Warhol?

Se ce ne fosse una seconda, potrebbero essere i cosiddetti Race Riot. I lavori sulla morte e i disastri sono molto importanti, perché dimostrano che nell’arte di Warhol c’è qualcosa in gioco che va ben al di là del divertimento.

Quale corpo di opere diresti che è il peggiore? A me in pratica piace tutto.

Non mi piace tutto. Ma dipende da quello che intendi dire, perché è un errore vedere Warhol essenzialmente come un artista estetico, un artista retinico. È un concettualista, e talmente intelligente da far percepire la sua peggior arte come arte importante giocando con l’espediente dell’arte su commissione e facendo pensare che il suo lavoro fosse sempre sold out. 

E che mi dici dei ritratti su commissione? Come li giudichi?

I ritratti su commissione sono buoni in senso tradizionale perché penso che siano come quelli di Goya. Le persone pensano che siano lusinghieri, ma ritengo che non lo siano affatto. Mettono in mostra la superficialità attraverso immagini superficiali.

Quindi, in risposta alla mia domanda: qual è il lavoro peggiore?

Le peggiori potrebbero essere le toys prints dell’ultimo periodo. 

Terribili. I colori sono orrendi. Eppure mi piacciono!

Beh, sì, Warhol non aveva paura di usare colori brutti. Ma il fatto è che sono oggetti di scena molto importanti nella sua performance da artista che fa il sold out, che è sempre stata solo una performance. E a presentarsi così inizia presto.

La gente pensa che il suo lavoro abbia fatto sold out nel ‘62, con la pop art, ma allora non guadagnava un centesimo: la pop art è stata un business fallimentare. In realtà la maggior parte delle cose che ha fatto, compresa Interview Magazine, era in passivo quasi tutti gli anni, ma gli ha permesso di fingere di essere un artista che fa sold out. Il che è una cosa piuttosto strana da voler fingere. 

Sei convinto che questa fosse la sua intenzione? Che ci fosse un disegno nel presentarsi in questo modo?

Beh, è complicato. Le intenzioni di un artista sono sempre difficili da capire o scoprire. Penso avesse un tipo particolare di intelligenza, l’intelligenza artistica. Quindi si può affermare che sapeva cosa stava facendo. 

Il tuo libro mi ha dato la sensazione che Warhol fosse molto indulgente. Alcune persone come Gerard Malanga, Brigid Polk Berlin e altri, che si erano allontanate, Warhol le lasciava tornare, come se nulla fosse.

Talvolta poteva essere geloso e complicato. Ma Warhol era estremamente indulgente verso l’eccentricità, perché amava gli eccentrici. Capiva che era quello che rendeva la vita interessante.

Nel tuo libro non hai permesso di farla franca a nessuno di quelli che hanno detto qualcosa di Andy solo perché pensavano che fosse vera. Hai controllato ogni dettaglio. Nella nuova produzione di Netflix che ho visto, vengono dette molte scemenze. La verifica dei fatti è ben scarsa.

La memoria umana è ben strana. Quello che ho scoperto intervistando queste persone è che avevano creato una serie di miti che hanno legato alla loro stessa esistenza. Miti che hanno assorbito come fatti che sono stati capovolti nel corso degli anni e di cui sono state dimenticate alcune parti. Tutti quelli che ho intervistato e che avevano già parlato molte volte di Warhol avevano raccontato la stessa storia in venti modi diversi, con fatti sostanzialmente diversi.

Per inciso, ho appena terminato di leggere Watergate: A New History di Garrett Graff, un libro straordinario. Graff è stato scrupoloso nel controllare e ricontrollare, constatando che molti dei libri scritti dalle persone finite in galera erano pieni di errori.

In Warhol tutto è mito. Non avevo proprio intenzione di demolire il mito. Volevo presentarli per quel che erano: miti di vitale importanza. 

Ti soffermi molto sulla vita sessuale di Andy, e in modo molto esplicito.

Beh, farlo era estremamente importante per combattere una sorta di omofobia latente che ritengo circondi Warhol. L’idea che fosse asessuale è, secondo me, completamente omofoba. Semplicemente la gente rifiuta come ripugnante l’idea di due uomini a letto insieme.

È stato importante per me precisare che aveva degli amanti e riportare alcuni dettagli. Devo dirti che avrei potuto riportare molto di più. Essere gay, essere queer, era fondamentale per la sua arte e per il suo modo di essere nel mondo. Quindi avevo davvero bisogno di riportare questo aspetto con la stessa accuratezza di qualsiasi altra cosa. 

Ci sono stati altri libri che ti hanno incoraggiato a muoverti in questa direzione?

C’è un’enorme quantità di letteratura di teoria queer su Warhol. Per ovvi motivi è un eroe della cultura gay. Sono stato fortunato a parlare con le persone con cui è andato a letto negli anni Cinquanta, persone fantastiche che erano ancora vive. 

Hai avuto modo di parlare con Robert Pincus-Witten prima che morisse? Robert era uno dei miei più cari amici. Era tipico di Robert raccontare della vita sessuale di Andy.

Robert era una persona intelligente, davvero intelligente. E Andy, chiaramente, non era asessuale. 

Il capolavoro di Lou Reed, Songs for Drella, riesce a raccontarci tanto di Andy con una dozzina di canzoni. L’hai ascoltato molto?

Non direi che fa parte della mia riflessione. In realtà è molto importante per mia moglie, che è un’artista. Sono principalmente un tipo da Bach e Mozart. Penso che Songs for Drella sia spesso frainteso come negativo riguardo ad Andy. Penso che, nel complesso, non ci si accorga che Lou aveva una visione molto positiva di Andy. 

Lou è stato molto chiaro con me su quanto amasse e rispettasse Andy. Songs for Drella è un ottimo esempio della capacità di Lou di prendere grandi idee e sintetizzarle in concetti più semplici. Small Town, Style it Takes, Work, Open House entrano nel cuore di Andy.

The Velvet Underground sono incredibilmente importanti, anche più di quanto la gente capisca. Li vedo come una parte molto importante dell’avanguardia degli anni Sessanta. Andy capì che non erano solo una rock band amatoriale. Si rese conto che erano interessanti tanto quanto lui.

Che genere di collezionista era Andy?

La gente pensa alle biscottiere, ma Andy era un serio collezionista di grande arte. Ha comprato alcuni dei primi Richard Serra, Chris Burden e Joseph Kosuth. Collezionava proprio l’arte d’avanguardia più radicale degli anni Sessanta nello stesso momento in cui veniva realizzata. E di questo si è proprio persa traccia alla grande. 

Jasper Johns non ha comprato Andy agli inizi?

Andy ha comprato Jasper e poi Jasper ha comprato Andy. Ha capito quanto fosse valida l’arte di Andy. 

Una volta sono andato a trovare Jasper a casa sua e mi è piaciuto molto vedere le Brillo Boxes di Andy posate lì sul pavimento. Jasper le aveva comprate alla prima mostra.

Sì, ne è stato davvero un collezionista della prima ora. Incredibilmente, Jasper fu l’unico ad acquistare uno dei dipinti Rorschach quando Andy era in vita. Uno bianco su bianco.

Che ne pensi della docuserie di Netflix The Andy Warhol Diaries?

Sono rimasto piacevolmente sorpreso, fermo restando che praticamente ogni singolo fatto e intuizione che contiene è riportato nel mio libro pubblicato due anni prima. Ma non è questo il punto. Ho pensato che mostrasse che Andy era per certi versi più normale di quanto crediamo. Era un romantico. Voleva amore. Voleva le stesse cose che molti di noi vogliono. 

La docuserie è molto precisa riguardo a lui come persona in quell’epoca. Ciò che tralascia, ovviamente, è il brioso Andy, il divertente Andy, la figura non tragica, che è altrettanto importante. Tralascia il suo grande talento artistico. Non credo che dia davvero un’idea del suo genio.

Come non dà il senso della sua arte.

No, non si occupa dell’arte. Ma ci sono abituato. È un difficile equilibrio. Anche il mio libro volevo che si occupasse molto di più dell’arte, ma si trattava di una biografia. Quando si fa una serie documentaristica è complicato trovare un equilibrio. Ma è importante che quelle storie sulla sua sessualità siano raccontate. 

Ho pensato che l’intervista a Bob Colacello fosse straordinaria.

Sì, appare come la persona più intelligente lì. In realtà è diventato sempre più saggio. Alcuni intervistati erano imbarazzanti. Alcune delle persone che fingevano di conoscere Andy, in realtà, avevano avuto a malapena contatti con lui. 

Jeff Deitch ripete la storia che Jasper e Bob Rauschenberg erano imbarazzati da Andy, la femminuccia. Da dove nasce questa scemenza?

La si deve tutta a Emile de Antonio. Poi è stata inclusa in Popism, un libro che non si basa sul pensiero di Andy. È una raccolta di interviste successivamente volte in prima persona. Quindi qualcuno dice: «Bob e Jasper hanno sempre pensato che fosse troppo checca» e questo in Popism viene trasformato e presentato come voce di Andy: «Hanno detto che ero troppo checca», dopodiché, diventa ufficiale. Emile de Antonio in realtà era un po’ omofobo. Quindi era lui quello che trovava Andy troppo checca.

Era gay?

No, per niente. Piuttosto il contrario. È stato sposato sei volte o giù di lì. Ci sono appunti di Emile de Antonio su Andy e quel mondo che sono notevolmente omofobi. Ho intervistato Jasper su quella frase e ha detto che era assolutamente falsa. 

La gente guarda i documentari come questo che diventano parte della storia di Andy Warhol.

Cose del genere cerco di togliermele dalla mente in fretta perché altrimenti impazzisco. Se mi preoccupassi di tutte le imprecisioni dette su Andy Warhol, semplicemente diventerei pazzo. 

Ok, questa è la citazione perfetta!

Andy non se ne preoccupava! Perché dovrei farlo io? 

L’ultimo lavoro di Warhol sono i dipinti The Last Supper che furono esposti in Italia.

The Last Supper era una commissione. È stata un’idea di Alexander Iolas. Fu il primo dealer di Warhol, e poi l’ultimo. Iolas stava morendo di Aids proprio in quel periodo. Voleva convincere un gruppo di artisti contemporanei a lavorare sul tema dell’Ultima cena di Leonardo perché aveva uno spazio disponibile proprio di fronte all’originale. Uno spazio enorme. Andy è stato l’unico artista a mostrare interesse, quindi Andy ha realizzato il progetto da solo. 

Ne ho visti alcuni nello spazio di Peter Brant vicino al Guggenheim Soho anni fa ed erano magnifici.

Come in tutto ciò che Andy ha fatto, c’è in essi un elemento di critica. Non rappresentano Andy, il fervente cattolico che si avvicina a Dio alla fine della sua vita. Tra l’altro non sapeva di essere alla fine della sua vita. Guardare le fotografie della sala originale, la sala in cui le espose, è esilarante perché mostra solo un’infinità di Ultime cene. Quindi le svuota di significato tanto quanto aggiunge loro significato. 

Com’era percepito in Italia Warhol?

In Europa, Italia compresa, hanno preso Andy molto più sul serio di quanto non lo abbiano fatto negli Stati Uniti, in parte perché, penso, avevano minor accesso allo sciocco Warhol dei media. Qui da noi la gente è stata sommersa da Warhol con il dito sulle labbra che fa il finto tonto. Penso sia avvenuto meno in Europa. 

Inoltre avevano una lettura di sinistra, e ritengo una corretta lettura di sinistra, di gran parte del suo lavoro. Dopotutto, il consumismo era in discussione in Europa, e il consumismo americano era in discussione in Europa in un modo in cui non lo era negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti una piccola élite ha messo in discussione la mercificazione. In Europa erano i maggiori partiti comunisti a metterla in discussione. 

Ci sono state altre importanti sue mostre in Italia che tu ricordi?

La serie Ladies and Gentlemen è un’altra commissione italiana, questa volta di Luciano Anselmino.

È la serie che include l’attivista trans Marsha P. Johnson?

Sì. È stato un progetto straordinario che ora sta ricevendo molta attenzione. C’è una spaccatura tra chi ritiene che sia assolutamente riverente e chi pensa che prenda in giro i soggetti. Io penso che sia totalmente riverente. 

Quando mi sono trasferito a New York nel 1970, sono stato introdotto alla “scena” dalla superstar di Warhol, Tally Brown, un’amica di famiglia. Attraverso Tally ho incontrato Warhol, Candy Darling, Holly Woodlawn, Jackie Curtis, Taylor Mead e Jack Smith. Tally aveva recitato in molti dei primi film di Warhol, insieme a Jack Smith, e parlava sempre di quanto fosse importante per lei far parte di quella comunità artistica. Non si trattava mai di soldi. Era quello lo spirito di allora.

C’è un mito che non viene mai demolito quanto dovrebbe: l’idea che Warhol non pagasse abbastanza le persone. Se parliamo degli attori dei suoi film d’avanguardia degli anni Sessanta, l’idea che qualcuno potesse essere pagato un centesimo è assurda. Quello era un lavoro che non avrebbe mai incassato un centesimo e apparire in un film underground in bianco e nero non era qualcosa che si faceva per soldi. A nessuno è mai passato per la mente che sarebbe stato pagato. 

Anni dopo, la tariffa per la serie Ladies and Gentlemen fu molto più alta di quella che veniva pagata normalmente ai modelli. Ho calcolato che era dieci volte superiore alla tariffa media percepita dai modelli nel mondo dell’arte. È semplicemente ridicolo lamentarsi del fatto che Warhol non fosse generoso con i suoi modelli.

Quale strada di New York dovrebbe essere intitolata a Andy Warhol?

Ottima domanda. Dovrebbe esserci almeno una targa dove c’era la Silver Factory sulla Quarantasettesima strada... che oggi è un parcheggio dietro un gigantesco edificio. Certamente quell’isolato della Quarantasettesima tra la Seconda e la Terza avenue dovrebbe prendere il nome da Andy Warhol! La Silver Factory è proprio il luogo in cui Warhol divenne Warhol.

Valeria Arnaldi per “il Messaggero” il 23 marzo 2022. 

Iconica. Per soggetto, firma, storia e ora anche per prezzo. Eseguita da Andy Warhol nel 1964, Shot Sage Blue Marilyn andrà all'asta da Christie' s a New York a maggio e, con un valore stimato di duecento milioni di dollari, pare destinata a diventare l'opera d'arte del XX secolo più costosa mai venduta all'incanto. Un traguardo non da poco. Anzi due. 

A consegnare il lavoro, basato su un fotogramma promozionale del film Niagara di Henry Hathaway, alla casa d'aste è stata la Fondazione Thomas e Doris Ammann di Zurigo: tutti i proventi andranno a beneficio dell'ente che si dedica a migliorare la vita dei bimbi di tutto il mondo, con programmi di assistenza sanitaria ed educativa.

Così, la vendita del lavoro, che misura 101,6 x 101,6 centimetri, potrebbe costituire l'asta benefica con l'incasso più alto da quella che fu ribattezzata l'asta del secolo, nel 2018, per The Collection of Peggy and David Rockefeller. Alex Rotter, presidente di Christie' s 20th and 21st Century Art, non ha dubbi: «Il dipinto trascende il genere del ritratto in America, superando arte e cultura del Novecento. Accanto alla Nascita di Venere di Sando Botticelli, alla Gioconda di Leonardo Da Vinci e a Les Demoiselles d'Avignon di Pablo Picasso, Marilyn di Warhol è categoricamente uno dei più grandi dipinti di tutti i tempi».

A trentacinque anni dalla morte di Warhol e, soprattutto, a sessanta dalla tragica fine della diva, Marilyn continua a conquistare sguardi e riflettori. E a far sognare. Qui, in particolare i collezionisti, ma non solo. È questione anche di miti.

«Se dovessimo chiudere gli occhi e dire l'opera più iconica di Warhol, sarebbe proprio la Marilyn a venirci in mente. E se dovessimo indicare un'immagine di Marilyn, penseremmo al lavoro di Warhol commenta il critico d'arte Luca Beatrice, grande esperto di Warhol cui ha dedicato più studi, che recentemente ha curato la mostra Andy Warhol & Friends di Arthemisia, a Bologna La fortuna dell'immagine deriva anche dal fatto che Warhol ha realizzato centinaia, se non migliaia, di esemplari, con l'idea di farne alcuni straordinariamente esclusivi, altri poco più che poster. Marilyn è stata rappresentata da molti artisti dell'epoca, da Mimmo Rotella a Richard Hamilton. Rappresenta l'hic et nunc degli anni Sessanta».

L'ATTENTATO

Warhol ha iniziato a creare serigrafie della diva dopo la sua morte. Nel 1964 ha sviluppato una tecnica più raffinata - e dispendiosa, che poi abbandonò - con cui ha eseguito una serie di suoi ritratti. Il resto lo ha fatto la storia. «La vicenda dell'attentato a Warhol da parte di Valerie Solanas e dei proiettili che hanno colpito una Marilyn ha contribuito ad alimentare la suggestione». Al mito dell'attrice si aggiunge quello dell'artista.

«Warhol è l'artista che ha riscritto il calendario dell'arte del secondo Novecento, come i Beatles hanno riscritto quello della musica. È morto nel 1987, eppure è come se fosse qui tra noi. Se fosse vivo, oggi sarebbe molto più cool di Chiara Ferragni sui social e metterebbe i suoi video su TikTok perché ha sempre anticipato i tempi», dichiara Beatrice.

«Chi viene dopo Warhol? Basquiat è morto troppo giovane, non c'è la controprova della maturità. Jeff Koons forse, ma non ha lo stesso grado di notorietà. Banksy? Non sappiamo neppure che faccia abbia. La lezione di Warhol è insuperata e insuperabile. Il fatto che su Netflix, oggi, nel 2022, ci sia una serie dedicata alla sua figura, The Andy Warhol Diaries, con tanto di voce ricostruita al computer, ne è la controprova».

L'asta, dunque, si fa misura del mito, ma non solo. «Con il ricavato della vendita a favore della Fondazione Thomas e Doris Ammann, l'eredità dei fratelli continuerà nella tradizione di generosità che avrà un impatto sulla vita dei bimbi per generazioni», dice Georg Frei, presidente del CdA, nel rispetto della volontà dei fondatori della Thomas Ammann Fine Art, storica galleria di Zurigo. Il valore da record dell'opera potrebbe aprire nuovi orizzonti anche al mercato.

«Ogni volta che un'asta tocca una cifra record per un maestro impressionista o post-impressionista, c'è una ricaduta a pioggia afferma Beatrice potrebbe verificarsi anche ora, con Warhol, per i grandi maestri della pop art americana». Intanto, Marilyn, quasi come una moderna Gioconda, sorride.

Dagotraduzione da Entertainment Weekly il 27 Febbraio 2022.

Andy Warhol ha sempre sognato di diventare una macchina. The Andy Warhol Diaries, la nuova serie di documentari Netflix sull'artista, onora questo desiderio utilizzando una tecnologia di intelligenza artificiale all'avanguardia per far risorgere il fascino della voce di Warhol per la narrazione. Puoi vedere quella voce in azione tramite il trailer esclusivo qui sopra. 

Diretta da Andrew Rossi (Page One: Inside the New York Times) e prodotto da Ryan Murphy, la serie in sei parti ripercorrerà la vita di Warhol dalla sua infanzia a Pittsburgh attraverso i giorni di gloria della Factory negli anni '60 fino alla sua relazione con Jean -Michel Basquiat negli anni '80. I diari di Andy Warhol conterranno interviste con amici, collaboratori e ammiratori (una formazione diversificata che include sia John Waters che Rob Lowe), nonché letture dai diari con la voce di AI di Warhol. 

Per creare la voce, Rossi dice a EW di aver collaborato con la società Resemble AI per creare un algoritmo di sintesi vocale che utilizzasse l'accento e la cadenza dei nativi di Pittsburgh, come era Warhol. Rossi ha quindi chiesto all'attore Bill Irwin di registrare le battute e quella performance è stata combinata con la voce digitale per avvicinarsi il più possibile a Warhol.

«Andy Warhol era notoriamente guardingo riguardo ai suoi pensieri e alle opinioni personali», dice Rossi. «Questa è una delle ragioni per cui i suoi Diari sono una finestra così rara e affascinante; poteva essere incredibilmente crudo ed emotivo mentre parlava con il suo diarista al telefono. Per apprezzare appieno la vulnerabilità radicale che Andy condivide nei Diari, ho sentito che dovevamo ascolta le parole con la voce di Andy».

Rossi continua: «Sentivo che la voce dell'IA avrebbe onorato due tratti distintivi della vita e della pratica artistica di Andy, derivanti dal suo desiderio di 'essere una macchina'. Andy ha ammirato il fatto che "le macchine hanno meno problemi", diceva di "provare sentimenti, ma vorrei non averli". Durante la sua vita si è persino fatto trasformare in un robot e in un ologramma e ha detto: "il motivo per cui dipingo in questo modo è che voglio essere una macchina". Quindi ho pensato che clonare la voce di Andy potesse funzionare come un ritratto warholiano e la Fondazione [Andy Warhol] ha approvato».

La maggior parte delle cronache di Warhol si concentra su quel periodo d'oro degli anni '60 con i Velvet Underground e Campbell's Soup Cans e così via. Pur non rifuggendo da quella roba famosa, Rossi ha voluto onorare l'intera ampiezza della vita e del lavoro del suo soggetto. 

«La maggior parte delle storie si concentra sull’Andy Warhol degli anni '60, quando gestiva la fabbrica d'argento e coltivava un mito come un robot asessuato. Ma i Diari rivelano i desideri romantici e il lato spirituale di Andy come un gay vivente e che respira», dice Rossi. «Volevo intrecciare le parole e le immagini di Andy per esplorare come quella vita emotiva si riflette nelle opere d'arte che ha creato durante il suo ultimo decennio. All'epoca ha realizzato alcune delle immagini più forti della sua carriera, eppure il suo lavoro è stato spesso ignorato».  

Rossi continua: «Sono stato anche in grado di trovare materiale d'archivio mai visto prima che fornisca prove delle relazioni intime e talvolta segrete di Andy, comprese lettere, poesie, film in Super 8 e altri media che non erano stati restaurati o ampiamente visti fino ad ora. Il mio obiettivo è che questo collage di arte e giornalismo rappresenti i lati di Andy che non hai mai visto o sentito prima. Questa è la chiave della mia missione di regista in generale: cerco di portare i soggetti iconici con i piedi per terra e di comprenderli a livello umano». The Andy Warhol Diaries arriverà su Netflix il 9 marzo.

·        Andrea Camilleri.

Andrea Camilleri, falsario di talento. Da Boccaccio a Sciascia, lo scrittore sapeva come imitare i colleghi (e non solo). Alessandro Gnocchi il 19 ottobre 2022 su Il Giornale.  

Il falsario non è sempre un imbroglione. Anzi, l'arte del falso, più o meno dichiarato, richiede un talento notevole ed è un gioco letterario estremamente raffinato. Luca Crovi dedica un divertente pamphlet a Copiare / Reinventare. Andrea Camilleri falsario (Oligo, pagg. 78, euro 12).

Il popolare inventore del commissario Montalbano amava immedesimarsi nei panni di altri autori. Fra gli scrittori che ha «falsificato e reinventato ci sono Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, Boccaccio», scrive Crovi, e addirittura Caravaggio del quale non è rimasta alcuna traccia scritta. Se poi un documento (falso) era funzionale alla trama, tanto meglio: Camilleri se lo inventava di sana pianta o si ispirava a carte vere, cambiandone il significato.

Nella Scomparsa di Patò ha un ruolo fondamentale la burocrazia con il suo linguaggio incomprensibile e i suoi complicati adempimenti. Il romanzo, che prende spunto da A ciascuno il suo di Leonardo Sciascia, si presenta come un dossier in cui sono raccolte carte ufficiali. Ma siamo sicuri? Andrea Camilleri: «Mi sono inventato tutto, lo confesso. È possibile qualche coincidenza di nomi e cognomi, ma si tratta, lo ripeto, di dannate coincidenze». Del resto, nel libro, a un certo punto, appare un tale che si chiama Andrea Camilleri. Beffarda spiegazione d'autore: «Caso di omonimia, dato che la storia si svolge nel 1890».

Il re di Girgenti è forse il falso dei falsi. Camilleri ha raccontato di aver trovato in una libreria romana, nel 1994, un volumetto dal titolo Agrigento. All'interno si narrava un episodio avvenuto nella città di Girgenti, oggi Agrigento.

Il popolo d'Agrigento, cacciata la guarnigione sabauda che presidiava la città in nome di un re scomunicato dal papa, aveva eletto come suo sovrano Zosimo, un contadino. Il nuovo re passò subito alle maniere forti, facendo giustizia sommaria di amministratori e funzionari fedeli ai Savoia. Poi però fu sconfitto dal ritorno dei soldati sabaudi. Camilleri, incuriosito, si mise in contatto con Antonino Marrone, l'autore del libretto, il quale gli raccontò che egli aveva attinto a un'opera intitolata Memorie storiche agrigentine di Giuseppe Picone edite nel 1866. Tramite un amico, Camilleri ebbe in regalo una copia anastatica nella quale però non era chiara quale fosse stata la fine di Zosimo, re di Girgenti, definito dall'autore «una belva feroce». Camilleri trovò altre brevissime notizie di Zosimo nei tre volumi di Luigi Riccobene Sicilia ed Europa edito da Sellerio nel 1996. Qui si legge la particolare dieta di Zosimo, stomaco forte, che si nutriva «di vino mescolato a polvere da sparo». A questo punto Camilleri decise di scrivere la biografia di Zosimo re di Girgenti. Spunto vero. Tutto il resto invece è falso, inclusi alcuni documenti apocrifi pubblicati a conclusione del libro.

Fino a qui si tratta di falsificazione di documenti. Ma Camilleri ha imitato per intero lo stile di altri autori celebri. Nel 2007, salta fuori La novella di Antonello da Palermo che Boccaccio avrebbe portato al Nord quando nel 1351 era stato invitato come ambasciatore di Firenze in Tirolo. Il racconto era stato trovato da Giovanni Bovara, nel 1916, poco prima di morire nella Prima guerra mondiale. In seguito, se ne era persa la memoria. Camilleri spiega di essere entrato in possesso del manoscritto e ipotizza, da filologo, i motivi per i quali la novella fu esclusa dal Decamerone. Tutto falso (dichiarato, purtroppo).

Nel Colore del sole, altro libro del 2007, Camilleri annuncia una scoperta clamorosa. In un casale abbandonato è stato ritrovato un antico diario. L'autore è Michelangelo Merisi detto il Caravaggio. La biografia dell'artista, come è noto, presenta molti aspetti oscuri. Per fortuna il diario ritrovato permette di far luce sulla vita di Caravaggio, oltre a svelare le circostanze nelle quali sono state realizzate le sue opere: «Hodie, a veder la scopritura della Decollazione con lo Gran Maestro...». E così per intere pagine di questo falso diario, completamente inventato.

Andrea Camilleri non è certo il primo scrittore «falsario», ed è sufficiente pensare che il romanzo italiano per eccellenza, I promessi sposi di Alessandro Manzoni, prende le mosse da un falso documento storico. Giacomo Leopardi, invece, prendeva in giro i grecisti con poesie falsamente antiche. Qualcuno ha provato a imitare Arthur Rimbaud, senza successo ma con grande clamore. Qualcun altro ha sfornati falsi diari di veri dittatori, rovinando la carriera di più d'uno storico ansioso di accreditarsi la scoperta. È stato il caso di Benito Mussolini e soprattutto di Adolf Hitler.

La palma del documento storico falso più importante di tutti i tempi spetta probabilmente alla Donazione di Costantino con la quale l'imperatore avrebbe donato, nel 314, al Papa Silvestro I, la giurisdizione civile su Roma, sull'Italia e sull'intero Occidente. Di fatto, è la base sulla quale fu costruito il potere temporale della Chiesa. Nel XV secolo, il grande umanista Lorenzo Valla scoprì che la Donazione era un falso fabbricato probabilmente nel periodo 750-850 a Roma o all'abbazia di Saint-Denis.

Copioni, testi e lettere: ecco il Fondo Camilleri. Redazione Cultura l'8 Giugno 2022 su Il Giornale.

Un "tesoro" di 120 faldoni con testi diversi fra loro, di cui 60 regie, 30 copioni teatrali, foto di sala, di scena, recensioni, corrispondenze con gli autori delle opere.

Un «tesoro» di 120 faldoni con testi diversi fra loro, di cui 60 regie, 30 copioni teatrali, foto di sala, di scena, recensioni, corrispondenze con gli autori delle opere; e poi 300 sceneggiature, adattamenti radiofonici e televisivi, oltre naturalmente alle sceneggiature di Montalbano. È il Fondo Andrea Camilleri, così come lo spiega, in sintesi, Antonio Sellerio, storico editore dello scrittore siciliano (Porto Empedocle, 1925 Roma, 2019). Una raccolta inaugurata ieri a Roma, alla presenza del ministro della Cultura Dario Franceschini, che ha voluto ribadire il suo «Grazie grazie grazie», uno per ciascuna delle tre figlie di Andrea Camilleri, per «questo regalo fatto al Paese».

Franceschini ha ricordato Camilleri e in particolare le «chiacchierate bellissime che ho fatto con lui sia sulla parte narrativa e poi quella politica, con la passione che ci metteva anche con tono duro, molto critico». Il ministro ha paragonato il Fondo al «download del cervello» dello scrittore: «Guardando la sua casa pensavo: ma che universo ha dentro? Cosa aveva dentro la testa, che mare infinito di ricordi, passioni, amori, tensioni? Si arriverà forse un giorno a fare il download del cervello, l'archivio in fondo è questo». Il ministro ha preso un impegno per l'attività del Fondo e anche per la casa di Camilleri: «Ragioniamo alle forme che consentono al Fondo di proseguire la sua attività e poi un domani alla casa, che è un pezzo che resta di più degli scrittori. Ne ho viste tante scomparire, andarsene con lo scrittore, invece dovrebbero essere conservate». Di qui l'invito/promessa: «Lavoriamo insieme perché sia continuativa l'attività del Fondo e non pesi solo su di voi». Nell'archivio, ricostruito grazie all'impegno delle tre figlie Andreina, Elisabetta, Mariolina e di una archivista, sono custoditi anche un centinaio di poesie, per lo più inedite, 40 racconti sul teatro, interventi a convegni e 5 o 6 romanzi appuntati a mano. E poi corrispondenze personali con editori, esponenti di cultura come Orazio Costa, Vitaliano Brancati, Primo Levi, Leonardo Sciascia, Raffaele La Capria, Angelo Ripellino. Infine, la corrispondenza familiare, dal suo arrivo a Roma e la prima regia.

·        Andrea G. Pinketts.

Andrea G. Pinketts, i romanzi al bar e le notti tra artisti: «Mio figlio, un genio timido e generoso. Mi tuffo ancora nei suoi libri». Luca Caglio su Il Corriere della Sera il 12 agosto 2022.

Allo scorso Ambrogino è stato insignito della Medaglia d’oro alla memoria. Gli fosse stata consegnata in vita, l’onorificenza per i cittadini milanesi più illustri, Andrea G. Pinketts sarebbe salito sul palco del teatro Dal Verme improvvisando un discorso lucido e geniale. Perché «G. sta per Genio». Svelando magari di avere scritto molte pagine dei suoi romanzi al bar, tra fumo di sigaro e fiumi di birra, ispirato dalla varia umanità che si confessa al bancone. Poi sarebbe tornato a «Le Trottoir alla Darsena», il locale-studio con sala dedicata, per un giro di brindisi in vista dell’ennesima notte tra artisti, avventori, amici e ammiratrici. Rincasando all’alba a bordo di un taxi. Come Lazzaro Santandrea, l’alter ego letterario fedele al suo stile di vita. Il personaggio con cui ha attraversato e raccontato Milano.

La bellezza, il lusso di un grande scrittore accessibile a tutti, uomo distinto e d’istinto, autore de Il senso della frase che ne definisce la cifra stilistica, capace infine di lavorare al suo ultimo libro (E dopo tanta notte strizzami le occhiaie) da una stanza dell’ospedale Niguarda dove il 20 dicembre 2018 è morto per un carcinoma alla gola.

Nella Milano d’agosto che si svuota per le ferie, il vuoto umano lasciato da Pinketts somiglia a quello di un’opera d’arte trafugata, ma attenuato da una bibliografia noir sempre visitabile: l’omonima associazione culturale ne sta curando l’archivio e la ripubblicazione delle opere con l’aggiunta di contenuti speciali, inediti, grazie allo scrittore Andrea Carlo Cappi ed Elisabetta Friggi, da sempre «il braccio tecnologico» dell’autore. A presiederla c’è la madre di Pinketts, Mirella Marabese (91 anni), che del figlio continua a parlare al presente e che sulla lapide ha fatto scrivere «Senza tempo». Il 12 agosto, il Genio compie 62 anni.

Celebrando l’anniversario della nascita di suo figlio, signora Mirella, lei scrive che il tempo non è un grande medico. «Il dolore resta immenso. Tra me e Andrea c’era un rapporto simbiotico, d’amore. Mi telefonava più volte al giorno, abitavamo a cento metri di distanza, veniva sempre a mangiare da me. Essergli stata madre, un privilegio. Non gli ho mai detto addio, e viceversa: una forma di rispetto per ripararci dalla sofferenza. Se mi tuffo nei suoi libri torno a vivere. Ne avverto l’essenza spirituale. Forse un’anima non può avere futuro, ma uno scrittore sì. Andrea vivrà».

Come si passa un giorno così? «Da sola, schiscia schiscia, raccolta in un silenzio assoluto. Ricordando i dolori del parto, l’Andrea bambino. Sono immagini anche dolci. Mi ha telefonato la proprietaria del Trottoir, Michelle Vasseur, per porgere gli auguri a mio figlio. Non sono gesti scontati, la memoria umana è labile, figurarsi per i compleanni dei non parenti, ma lui è rimasto scolpito. Ho ereditato tutti i suoi amici. Andrea, geniale e generoso. È un altro giorno, comunque, a mandarmi in difficoltà».

Quale? «La festa della mamma. Quando mi portava sempre una gardenia in regalo. Se oggi ne vedo una, la compro, poi la porto sul balcone. Ne sento il profumo. Non è un modo per consolarmi, non esiste consolazione. Mentre esiste l’impegno con l’associazione per divulgare i suoi romanzi, per ingigantire la sua figura. La gente dimentica: quanto si parla oggi di Buzzati? Andrea ha scritto anche poesie, era sensibile e timido».

Timido? «Se mi sentisse, mi sgriderebbe. Non lo avrebbe ammesso. Si presentava in modo roboante, poteva vestirsi da saltimbanco, ma si trattava di una maschera esibita in pubblico. La sua parte esteriore. E quando parlava, come se fosse a teatro, tutti ascoltavano in silenzio. Anche il bere, l’alzare il gomito, gli serviva per smorzare una fragilità definita dall’animo sensibile. Delicato. C’era inoltre un tentativo di emulare scrittori a lui cari come Hemingway e Bukowski, con il vizio dell’alcol. Ma anche Vittorio Gassman era sempre ubriaco».

Che rapporto aveva con il denaro? «Pessimo, nel senso che non gli interessava. Lo regalava, a volte lo smarriva: davanti a una persona povera apriva il portafoglio. A un certo punto gli ho fatto un po’ da amministratrice. Sa, però, cosa lo colpiva in assoluto? I ragazzi handicappati. Quando ne vedeva uno, i suoi occhi diventavano liquidi».

Lo stile Pinketts è una dichiarazione d’intenti. «Un libro di Pinketts si riconosce dalle prime righe. C’è l’ironia, la profondità, la sorpresa. Sono scritti impegnativi. Aveva la mania delle parole, non vacillava, le sceglieva con sicurezza. Anch’io ho scritto un libro durante il lockdown, s’intitola Quando mi punge vaghezza. E leggo ancora molto, fino alle 2 di notte».

Andrea e le donne. Una debolezza? «Non direi. La letteratura era una debolezza. Le donne gli davano la caccia, ma non ha mai avuto un grande amore, semmai un harem di devote. Era narcisista come tutti i grandi uomini. Ha visto quanto era bello? Una statua greca. E poi aveva una cultura enciclopedica, poteva parlare di tutto eccetto che di sport».

E tutti potevano parlare con lui. «Aiutava i colleghi meno fortunati, si spendeva con gli editori, risparmiava le critiche. Arrivo a dire che Andrea formava gli artisti. Era anche un animo ingenuo, più scoperto alle brutture della vita, ma non mi ha mai parlato dei grandi drammi. Era come se volesse dare una giustificazione a chiunque. Noi due, insieme, non ci siamo mai annoiati».

Il pensiero di Mirella Marabese per l’amato figlio Andrea G. Pinketts «È il dodici di agosto. La tua Milano, la nostra Milano, è avvolta in un silenzio irreale. Sembra immersa in una nuvola. Non ti piaceva il silenzio, Andrea. Dove sei ora, credo che il silenzio non esista. È animato da un trionfo di ricordi, dalle presenze, dalle mille voci che danno vita all’etere e lo rendono palpitante come un cuore che pulsa. Sei tu, Andrea, con tutti gli affetti, gli amori, che hanno dato spazio alla tua vita? Lo scintillio delle stelle. Non si spengono queste stelle, bambino mio. La loro voce è abbacinata come i ricordi di chi ti ha amato, come il rimpianto di chi è rimasto, come la nostalgia che fa male al cuore. Non passa, sai, la nostalgia. Io credevo, come è facile credere e illudersi, che quella mancanza lascerà il posto a un tranquillo dolore senza spine. Non esiste, è un luogo comune che il tempo sia un grande medico, una mano presa come una carezza leggera rendendo i suoi spazi accettabili, come sopiti. Vedi, invero, il tempo invece acuisce le distanze, affila i suoi aculei penetrando nelle ferite lacerandole senza pietà e senza la possibilità di essere rimarginate. Lo sgomento nel quale ci hai lasciati, la perdita della tua vitalità vivifica, l’eco trionfante della tua voce, delle tue risate, come amavi ridere! Nella tua filosofia di vita, come tu la volevi, come l’hai vissuta. Oggi, dodici agosto, la nostalgia ha prevalso sullo sgomento, sulla mancanza. È un pozzo senza fondo. Perdonami. Che il cielo ti doni, della mamma i sospiri, della tua quiete la nostra quiete».

·        Andrea Palladio.

Francesca Bonazzoli per il "Corriere della Sera" il 25 dicembre 2021. È sempre andata così: per costruire la sua celebre cupola, Firenze ha avuto bisogno della complicità fra Brunelleschi e la potente corporazione dell'Arte della Lana; nemmeno la cappella Sistina sarebbe stata quella che è se l'indole di Michelangelo non fosse stata forzata dalle smisurate ambizioni di Giulio II, Clemente VII e Paolo III. E per dar vita alle delizie della Farnesina ci voleva l'incontro fra due supremi bons vivants: Agostino Chigi e Raffaello. Anche per Vicenza, la sorella minore di Padova e Verona, per non dire di Venezia o Mantova, c'è voluta la sintonia fra l'oscuro figlio di un facchino di cereali e un ceto industriale e mercantile diventato nel Cinquecento ricco, intraprendente e colto. In un reciproco vantaggioso scambio di gloria fra Palladio e i Trissino, i Thiene, i Chiericati, Vicenza ebbe così la sua Basilica, il teatro Olimpico, un gran numero di palazzi cittadini e residenze di campagna. Non è un caso se il trattato che ebbe immenso successo «I quattro libri dell'architettura» (1570) è una celebrazione di Vicenza non solo attraverso le illustrazioni della Basilica e dei tanti palazzi e ville progettati, ma anche un elogio dei suoi cittadini illustri elencati per nome. Palladio lo confessa esplicitamente: «Io sarò tenuto molto avventurato, avendo ritrovato gentiluomini di così nobile e generoso animo et eccelente giudizio c'abbiano creduto alle mie ragioni e si siano partiti da quella invecchiata usanza di fabbricare senza grazia e senza bellezza alcuna». La chiave del linguaggio armonico fu per Palladio l'antico. A plasmare la sua mente verso questa inclinazione era stato un uomo dell'aristocrazia di Vicenza: Giovan Giorgio Trissino (1478-1550), un erudito con la passione per il greco antico, l'architettura e la missione di migliorare il mondo. Trovò il suo pupillo ideale nel povero ma intelligentissimo Andrea di Pietro della Gondola, il figlio di un trasportatore di cereali di Padova. Trissino ne diventò la guida e l'educatore facendosi accompagnare in una serie di viaggi a Roma. Gli impose anche il nome, greco, ovviamente: Palladio, da Pallade Atena, la dea della civiltà, protettrice delle scienze e delle arti. Il ragazzo orfano di madre (registrata solo come «la zoppa»), a 13 anni era stato messo dal padre nella bottega dello scalpellino Bartolomeo Cavazza da Sossano che lo sottoponeva a tali angherie da indurlo a tentare la fuga e finalmente riuscire a conquistare la vicina città di Vicenza a 16 anni. Quel piccolo ignorante dalle mani rovinate e le unghie spezzate provò come forse nessun altro ammirazione e rispetto per le antichità del passato e come gli antichi, sentì altissimo il valore civile dell'architettura. Quel ragazzo che parlava solo dialetto e faceva la fame, riusciva a cogliere nelle rovine di Roma un significato etico, il senso della civiltà e del buon governo. Trissino lo introdusse nell'aristocrazia vicentina dopo averlo probabilmente visto lavorare, intorno al 1537, nella bottega di Pedemuro dove disponeva di un misero pagliericcio e dove rimase fino al matrimonio, nel 1534, con Allegradonna, la figlia di un carpentiere che gli darà cinque bambini. Fino ai 32 anni vivrà nell'ombra, faticando a mantenere la numerosa famiglia al punto che fu costretto a presentare domanda di ammissione del proprio primogenito al collegio per giovani indigenti di Padova. Ma dopo il secondo viaggio a Roma col Trissino, Andrea ottenne una clamorosa vittoria con il progetto per la risistemazione della Basilica. Finalmente arrivò la celebrità. Prima a Vicenza; poi, dagli anni '60, anche nel palcoscenico di Venezia. Ma fu Vicenza, città fino ad allora nota per le faide e le vendette, a vivere la metamorfosi in farfalla assieme al misero figlio del facchino. Insieme fecero volare il nome del Palladio in tutto il mondo, fino alla bianca cupola di Capitol Hill. 

·        Andrea Pazienza.

Giorgiana Cristalli per ansa.it il 16 luglio 2022.  

Disegni inediti di Andrea Pazienza realizzati con bombolette spray blu e rosso sulle pareti della casa delle vacanze a San Menaio, sul Gargano, appartenuta fino al 2003 alla sua famiglia. 

E' il ritrovamento inatteso, nel corso di una ristrutturazione, di un murale su tre pareti, firmato Paz 72, realizzato quando, a 16 anni, quello che sarebbe diventato il genio del fumetto, morto all'improvviso a 32 anni nell' '88, si divertiva a "sporcare" le pareti della camera più piccola della casa di famiglia. 

Nel 2003, raschiando l'intonaco, venne alla luce una parte del disegno ma i proprietari decisero di nasconderla con alcune tele. 

Oggi, il padrone di casa, Michele D'Errico, che lavora nel campo dell'edilizia, ha iniziato a rimuovere con cura l'intonaco, un pezzetto alla volta, della parete più grande della stanza, tutta bianca, scoprendo un'immagine maschile che tiene in bocca la testa di una donna, una figura intera di una donna nuda e la scritta Good Bye. Un'altra parte di intonaco è ancora da rimuovere e chissà che cosa rivelerà.

Il protagonista di buona parte del murale finora scoperto, è il professor Sandro Visca, ritratto più volte, il suo insegnante di disegno al Liceo Artistico di Pescara destinato a diventare l'amico di una vita di Andrea. 

Lo prendeva in giro ma gli voleva bene, ricambiato. Il loro legame era speciale. Pazienza raccontava di trascorrere i pomeriggi con gli amici e i professori, "gli stessi che la mattina mi sbattevano fuori dalla classe: erano costretti a farlo, io ne approfittavo, buttandoli nel ridicolo, ingaggiavo con loro delle vere e proprie bagarre scolastiche". 

Visca aveva intuito subito di avere di fronte il talento un fuoriclasse. Con i folti baffi neri, lo sguardo stralunato e un profilo che ricorda un fascio littorio, con una svastica, la caricatura, tenera e crudele, del professore è divenuta poi soggetto di molti fumetti di Pazienza.

Il prof è citato nel murale anche in una nuvoletta con la scritta in stampatello 'Hasta la Visca!'. In una sovrapposizione di disegni e frasi, spuntano alcune esclamazioni come 'Good bye', 'Uhm', 'Love', 'W Fiorenzo' e una frase, 'Ca t pozzn accid', in sanseverese, il dialetto della città in provincia di Foggia in cui era nato il padre Enrico e in cui Andrea è sepolto a terra con una lapide con la sua firma 'Paz', proprio accanto al genitore, come da sua volontà. 

Nato nelle Marche a San Benedetto del Tronto (e morto in Toscana, a Montepulciano), Andrea Pazienza, irriverente e provocatorio, è una icona assoluta di genialità e creatività. Le sue opere, disegni d'impeto realizzati con velocità e precisione, e la sua satira sono straordinariamente attuali.

Milo Manara lo ha definito 'il Caravaggio dei giorni nostri', 'il James Joyce del fumetto' per Pier Vittorio Tondelli mentre Roberto Benigni, che gli ha dedicato dopo la morte il film 'Il piccolo diavolo', diceva di Andrea "Era eclettico ed anche molto bello: aveva la gioia di vivere negli occhi. 

Era inimitabile, un talento irripetibile". Le pubblicazioni, gli omaggi, le vie, le piazze e le scuole a lui intitolate, a partire dal lungomare di San Menaio, e le citazioni di Pazienza e dei suoi personaggi, da Zanardi a Pentothal, sono innumerevoli. 

Andrea ha trascorso la sua infanzia tra San Severo e la casa di San Menaio. A pochi passi dal mare, l'appartamento, molto spazioso, venduto dai Pazienza alla famiglia D'Errico, di San Severo, era composto da due grandi stanze da letto, bagno, cucina, un soggiorno in cui tuttora campeggia un camino, e la piccola camera, non più di 5-6 mq, con le pareti "imbrattate" e intonacate e una finestra che affaccia sul balcone. 

La camera in cui Andrea amava rifugiarsi era "la stanzetta del lupo", raccontano i proprietari riportando un racconto della mamma di Andrea. L'appartamento è ritratto anche nel fumetto 'Il partigiano', dedicato a Sandro Pertini. Nessuno immaginava che, 50 anni dopo, quella stanza potesse restituire, quasi intatti, i suoi primi disegni nascosti dall'intonaco.

Un regalo inatteso che lascia in eredità al suo Gargano, un'opera che non si può trasportare altrove, una delle tante sorprese di questo folletto geniale che a 12 anni, come ha raccontato la mamma, aveva già disegnato anche il suo funerale, presagio di una morte prematura che ha consegnato per sempre Andrea Pazienza, con il suo tratto fulmineo e i suoi personaggi strappati alla realtà, all'Olimpo delle rock star. 

·        Annie Ernaux.

 

DAGOREPORT il 9 ottobre 2022.

Dopo la batosta presa con la vittoria di Giorgia Meloni alle elezioni, il Premio Nobel per la Letteratura a Annie Ernaux fa prendere una bocca d’aria alle femministe au caviar de noantri. Dopo che movimenti come “La 27ma ora”, “Il Tempo delle donne” ed editorialiste varie & avariate hanno dichiarato per un decennio che solo una premier donna avrebbe rotto il “soffitto di cristallo”, ora che la Meloni (con articolo) si appresta a esserlo tra loro serpeggia sconcerto, malumore, senso della beffa. 

Già, perché non era una donna che doveva romperlo, bensì una donna di sinistra stile Boldrini/Cirinnà (senza articolo), meglio se lesbisca e con tre passaporti (israeliano, americano e svizzero) come l’attivista obamiana Elena Ethel Schlein (ora Elly). L’essere di destra, infatti, annulla l’essere donna per cui la Meloni è una donna travestita (no, travestita non si può dire). 

Sul premio Nobel alla Letteratura alla Ernaux, però, le nostre femministe au caviar e addentellate si sono un po’ rifatte. La prima che prende una boccata d’aria è “la parigina” Michela Marzano su “Repubblica”, per la quale Ernaux “ha contribuito come nessun’altra a stravolgere i canoni letterari tradizionali”.

La sua scrittura “è un atto politico, un modo per denunciare i privilegi di nascita…” e su questo punto Marzano ne sa davvero qualcosa visto che nel suo “Stirpe e vergogna” non fa che parlare del nonno (“come me”) deputato, mentre quello della Ernaux era operaio. Quindi, a generare il senso di colpa nella Ernaux sarebbero proprio le figlie di… come (la) Marzano. Invece no. Marzano ci vede un parallelo tra lei e Ernaux: in fondo, anche Marzano si sente francese e ha una colpa da lavare: il nonno era fascista.

Per Silvia D’Onghia (“migrante di adozione”, aspirante ballerina), “ognuno di noi è Annie Ernaux” scrive su “il Fatto” (del resto ciascuno di noi è anche berlinese, newyorkese, donna, migrante, ecc ecc ecc). Ernaux parla di “femminismo, ma anche di aborti clandestini” ed “era ora che l’Academia svedese riconoscesse a questa immensa scrittrice il premio più ambito” (perché parla di aborti?). Sulla Stampa è Elena Stancanelli (Einaudi e Feltrinelli imprinting) a dirci che Ernaux è “molto nota”. 

Stancanelli, prima ancora di leggerla, restò colpita “dalla confezione, dalla copertina, dalla carta e dai caratteri” dei libri della Ernaux (ci siamo col fighettismo ztl).  Ciò che più esalta lei e tutte le femministe nate bene, è il “disgusto per le origini” (povere) della Ernaux (“La vergogna”, 2018) una ferita non risarcibile, che richiama nella mente di tutte i consueti pseudo-traumi dell’infanzia.

Da qui l’incipit “indimenticabile” del romanzo “Gli anni”: “Tutte le immagini scompariranno. La donna accovacciata che, in pieno giorno, urinava dietro la baracca di un bar al margine delle rovine di Yvetot, dopo la guerra, si risistemava le mutande con la gonna ancora sollevata…”.  Ciò che importa è che la scrittrice abbia dichiarato “Lotterò fino all’ultimo respiro per l’aborto”: basta questo per leggerci una polemica (sebbene la Meloni abbia dichiarato che non voler cambiare la legge 194). 

In esaltazione alla Ernaux il “Corriere” schiera il suo collaboratore frou-frou Marco Missiroli che nei suoi libri, come “Fedeltà” (naturalmente Einaudi), fa molto il parigino. Solo che Missiroli è così pieno di sé che parla di se stesso più che della Ernaux: “mi scrisse una mail”, “mi specificò l’indirizzo” e via con la prima persona… Il “Manifesto” apprezza la scrittrice “engagée” cantrice della “emancipazione femminile”, ma le rimprovera una “ostinata autobiografia sociologica”.

Sul “Foglio” si scatena Annalena Benini che parla di “riconoscimento per tutte le donne” e finisce con il paragonarla a Virginia Woolf (entrambe hanno scritto un libro intitolato “Gli anni”; ma anch’io ho preso il tram come Gadda…). Elisabetta Rasy sul “Sole 24 ore” ricorda il sostegno della Ernaux a Melenchon e scrive di un Nobel che, al solito, riguarda anche la “militanza per stanare la coltre di ingiustizia che grava sulla condizione femminile”. Adesso aspettiamo la coppia Ciabatti&Gamberale su “7” e poi abbiamo finito, o quasi, il giro. Va bene una boccata d’aria dopo la Meloni, ma la Letteratura dov’è?

 

La storia siamo io. È una vita che pago le bollette parlando di me, ed è più facile che scrivere l’Iliade. Guia Soncini  su L'Inkiesta l'8 Ottobre 2022.

Da quando mi hanno definito «una strenua biografa di sé stessa» mi chiedo se questa è la frase che voglio sulla mia lapide e, soprattutto, perché nessuno dice la verità sull’autofiction

Accadono cose che sono come domande, scriveva quel piemontese che s’occupò della formazione culturale di chi aveva vent’anni negli anni giusti. La prima cosa che è accaduta ve la dico dopo. La seconda è un’intervista che ha dato proprio quel piemontese lì, un mese fa.

A Raffaella De Santis che lo intervistava girando intorno all’elefante nella stanza, dicendo «autofiction», cercando di non sembrare morbosa, «come giudica», Alessandro Baricco, consapevole che quel che tutti volevano sapere era «insomma, ha avuto il cancro, pensa di scriverne o cosa», aveva dato questa risposta qui: «Carrère è un grande, uno scrittore che ammiro moltissimo, gli invidio il giro di frase, la vitalità, ma confesso che a volte mentre leggo i suoi libri mi vergogno per lui».

Il Baricco di quando avevo vent’anni, cui piaceva avere un lessico simile a quello della prima traduzione del Giovane Holden, la mia reazione a questa frase l’avrebbe sintetizzata in un solo aggettivo: stecchita.

Ci ho ripensato per settimane. Un giorno ne stavo parlando con un editore e dicevo che ero scissa. Una vita a dire che «todo lo que uno escribe es autobiográfico», mica dice «io» solo chi dice «io», Il brutto anatroccolo era autobiografico perché Andersen s’era piazzato a casa di Dickens e dopo un po’ nessuno lo sopportava più ed era prima che esistessero gli psicanalisti e il rifiuto lo elaboravi scrivendo fiabe in cui come un vero mitomane non eri un ospite indesiderato ma un cigno incompreso.

Una vita a dire che insomma, lo dice pure Borges che anche «c’era una volta un re che aveva tre figli» è autobiografico, e lascia stare che io Borges non l’abbia mai letto, vale uguale perché lo citava Guccini che ha scritto in forma di canzoni l’autobiografia sentimentale d’una nazione, e però ora arriva quello e dice che di «io» bisognerebbe avere pudore e io temo che tuttissimi i torti non li abbia.

L’editore mi ha detto: sì, vabbè, e allora Francesco Piccolo? Io ho risposto: sì, vabbè, e allora io?

La terza cosa che in realtà era una domanda è stato l’annuncio del Nobel per la Letteratura ad Annie Ernaux. La vita, come ci aveva promesso il piemontese sarebbe accaduto, ha risposto. E la risposta è stata: io.

C’erano, su Instagram e sui giornali, più foto con la Ernaux di quante ce ne fossero col morto del giorno quando il morto del giorno era Ennio Morricone. Ernaux viene spesso in Italia, e quando viene in Italia incontra scrittori, e quindi tutti gli scrittori, anche quelli che se recensiscono un libro lo fanno affettando impersonalismi, potevano finalmente parlare di io, esporre la foto con io, essere io al centro dell’attenzione. Le Nobel, c’est moi.

Ci hanno spiegato che «io» deriva dai social, anzi no, deriva dall’identità fragile e frammentata dell’evo contemporaneo, anzi no, deriva dalla fine dei partiti, della politica, della collettività, della rava e della fava. Nessuno – almeno nessuno di quelli che ho letto, che fossero quelli che anche loro scrivono «io», o quelli che ritengono di parlare a nome delle testate per cui scrivono e quindi recensiscono romanzi usando frasi lunari quali «a noi sembra che» – nessuno ha detto: è perché è più facile.

Ve lo dico da protagonista di questa performance: è una vita che pago le bollette scrivendo «io». È più facile. Che non vuol dire che non sia interessante complesso doloroso faticoso – decidete voi se per chi scrive o per chi legge. Ma è più facile. Non è una cosa di cui possiamo discutere, davvero, ne so più di voi, ho ore di volo ai comandi di «io» che non accumulerete in una vita, fidatevi: è ovvio ed evidente come il fatto che dal rubinetto blu esca l’acqua fredda.

Scrivere del mio aborto o delle mie bocciature o dei ragazzini che al liceo mi buttarono in un cassonetto o del miliardario che mi querelò facendomi passare il Natale col conto in banca pignorato o di mio padre che mi menava o del bambino che mi baciò prima di andare a vedere Ritorno al futuro, quale che sia la mia vita e la mia megalomania nel farne opera letteraria, è più facile che scrivere l’Iliade, o Via col vento, o Delitto e castigo.

Una volta, commentando una qualche polemica culturale contro il romanzo classico, Nadia Terranova mi disse una cosa che mi è rimasta impressa quanto la vergogna di Baricco per conto Carrère: «Non capisco cos’abbiano contro il romanzo classico, a parte che è difficile scriverlo».

Non si tratta solo di cambiare i nomi, che è ormai praticamente l’unica cosa che differenzia chi non dichiara di narrare di sé. Se racconto il mio cancro, la mia crisi mistica, la mia infanzia problematica, cambiando nome alla protagonista, allora mica è autobiografismo. Se la faccio anche di Modena, poi, ’sta tizia chiaramente protagonista di romanzo di finzione, ’sta tizia dall’esistenza del tutto fantasiosa, nessuno deve permettersi di pensare che «io» sia «io».

(Che poi io è sempre un altro, e non solo perché abbiamo tutti letto Rimbaud al liceo, ma perché abbiamo tutti avuto un diario col lucchetto sul quale tenevamo una postura letteraria sapendo che il lucchetto sarebbe stato scassinato dai familiari con una forcina e che di segreto, nel diario segreto, non c’era nulla. Elias Canetti, che si chiedeva cosa ci dicesse di Pavese il fatto che la sua opera migliore fossero i diari, era l’unico a illudersi che i diari uno li scriva per sé. Scriviamo sempre e comunque per un pubblico, essere sé stessi è una posa come un’altra).

E sì, lo so che state pensando che Dostoevskij era Raskolnikov, Omero era Achille e Margaret Mitchell era Rhett (almeno spero: mica sarà stata Rossella, santiddio). Però intorno si sono presi il disturbo di costruirci un mondo, che è una brutta fatica.

La prima cosa che è successa, la prima domanda, è di qualche mese fa. Claudio Giunta aveva compilato una ricognizione di chi fa ridere tra gli italiani che scrivono. Quando m’includono in queste cose penso sempre che sia perché sono arrivati alla fine e si sono accorti con terrore che non c’è neanche una donna e ora li linciano – ma la domanda non era questa. Nell’includermi, Giunta mi aveva definita «strenua biografa di sé stessa», ed è quindi da allora che mi chiedo se questa è la frase che voglio sulla mia lapide. E mi pare evidente che, pur essendo l’unica italiana senza una foto con Ernaux, il Nobel è la risposta.

Dagospia il 7 ottobre 2022.PARACULA DA NOBEL: PRENDERE IL CAZZO (GIOVANE) PER POI DIRE CHE IL PIACERE PIÙ GRANDE È LA SCRITTURA – L’INCIPIT DEL NUOVO ROMANZO DI ANNIE ERNAUX, PREMIO NOBEL PER LA LETTERATURA, CHE USCIRÀ IN ITALIA IL 9 NOVEMBRE - "SPESSO HO FATTO L’AMORE PER OBBLIGARMI A SCRIVERE. VOLEVO TROVARE NELLA FATICA, NELLA DERELIZIONE CHE SEGUE AL SESSO, DELLE RAGIONI PER NON ASPETTARE PIÙ NIENTE DALLA VITA” - INTANTO SE LO E’ SCELTO BENE IL RANDELLO: “ERA UNO STUDENTE CHE MI SCRIVEVA DA UN ANNO, ERA DI QUASI 30 ANNI PIÙ GIOVANE DI ME. APPENA METTEVA PIEDE IN CAMERA...”

L'incipit de "Il ragazzo" di Annie Ernaux pubblicato da la Stampa (il libro uscirà in Italia il 9 novembre)

Facevo l’amore per provare che il piacere più grande è la scrittura 

Cinque anni fa ho passato una notte impacciata con uno studente che mi scriveva da un anno e aveva voluto incontrarmi. 

Spesso ho fatto l’amore per obbligarmi a scrivere. Volevo trovare nella fatica, nella derelizione che ne segue, delle ragioni per non aspettare più niente dalla vita. Speravo che la fine dell’attesa più violenta che ci sia, l’attesa di godere, mi facesse provare la certezza che non esiste piacere superiore a quello della scrittura di un libro. È stato forse proprio il desiderio di mettere in moto la scrittura di un libro - che esitavo a cominciare a causa della sua ampiezza - che mi aveva spinto a proporre ad A. di venire da me per bere qualcosa dopo una cena al ristorante durante la quale, per timidezza, aveva a malapena aperto bocca. Era di quasi trent’anni più giovane di me. 

Ci siamo rivisti nei weekend, durante la settimana ci mancavamo sempre di più. Mi chiamava ogni giorno da una cabina telefonica per non insospettire la ragazza con cui viveva. 

Né lei né lui, presi com’erano tra le abitudini di una convivenza precoce e le preoccupazioni per gli esami, avevano mai immaginato che fare l’amore potesse essere qualcos’altro rispetto al soddisfacimento più o meno dilatato di un desiderio. Essere una sorta di continua creazione. Il fervore che manifestava di fronte a questa novità mi legava ancora di più a lui. Progressivamente, l’avventura era diventata una storia che avevamo voglia di portare fino in fondo, senza nemmeno sapere bene cosa questo significasse. 

Quando, con mia soddisfazione e sollievo, si è separato dalla sua ragazza, e lei ha lasciato l’appartamento, ho preso l’abitudine di andare da lui il venerdì per restarci fino al lunedì mattina. Abitava a Rouen, la città in cui anch’io ero stata studentessa negli anni Sessanta e che in seguito per lungo tempo mi ero limitata ad attraversare quando mi recavo al cimitero di Y per visitare la tomba dei miei. Appena arrivavo, abbandonate in cucina senza nemmeno toglierle dai sacchetti le provviste che avevo portato, facevamo l’amore. Nello stereo era già pronto un cd, partiva nel momento in cui mettevamo piede in camera, nella maggior parte dei casi i Doors. A un certo punto smettevo di sentire la musica.

Gli accordi marcati, enfatici, di Love Street, e la voce di Jim Morrison tornavano a raggiungermi. Restavamo sdraiati sul materasso poggiato direttamente sul pavimento. A quell’ora il traffico era intenso. I fari proiettavano bagliori sulle pareti della stanza attraverso le ampie finestre senza tende. Mi sembrava di non essermi mai alzata da un letto, lo stesso letto da quando avevo diciotto anni, ma in luoghi differenti, con uomini diversi e indistinguibili l’uno dall’altro.

Traduzione di Lorenzo Flabbi

Il Nobel alla scrittrice delle piccole vite. E l’autobiografia si fa universale tra "lotta di classe" e ricerca delle radici. L’autrice francese scende nella dimensione sociale attraverso romanzi, sentiti come una missione, ma che dividono. Ecco le caratteristiche che hanno portato questa "ragazza del popolo" a vincere il premio letterario più ambito. Stefania Vitulli il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Scendere nella dimensione sociale, far riguadagnare alla scrittura quella dimensione politica o, alla francese, quell'engagement, che da tempo non si vedeva nella letteratura, «vendicare la sua razza» grazie a una forma di scrittura che ha ribattezzato «autobiografia impersonale»: sono le diverse declinazioni della missione di Annie Ernaux come scrittrice, missione in senso vero, esplicitamente vocazionale, come più volte dichiarato dall'autrice stessa, che sta al cuore di ogni sua opera. Ed è arrivato il Nobel: per questa professoressa francese di lettere - con fortissimi legami con la sociologia e in particolare con Pierre Bourdieu, di una decina d'anni più anziano, legami che le hanno permesso di individuare il «malessere sociale» da cui è afflitta fin dagli anni della scuola - classe 1940, nata l'1 settembre a Lillebonne, è il coronamento di anni di «lotta» letteraria, in cui ha scritto, come lei sostiene, «per far accadere qualcosa, dentro e fuori di sé».

Scrittrice «felice» si è dichiarata subito dopo aver appreso del riconoscimento: «Il discorso sarà occasione per esprimermi... Sono fiera», ha detto rispondendo ai cronisti assiepati dinanzi alla sua casa di Cergy-Pontoise, ad ovest di Parigi. E nella sua casa editrice, nel «Salon Bleu» di Gallimard, ha proseguito: «Responsabilità significa continuare a lottare contro le ingiustizie, di qualunque forma esse siano. Tutto quello che è una forma di ingiustizia rispetto alle donne, rispetto a quelli che chiamo i dominati, come diceva Pierre Bourdieu... Sento una responsabilità nuova». E poi: «Lotterò fino al mio ultimo respiro affinché le donne possano scegliere se essere madri o meno: la contraccezione e il diritto all'aborto sono un diritto fondamentale» ha proseguito. «La letteratura può avere un'azione, seminando tra i lettori». Con lei la Francia diventa il Paese che ha preso più Nobel per la letteratura nella storia del Premio (ma lei è la prima donna) e Macron ha twittato: «Da cinquant'anni, Annie Ernaux scrive il romanzo della memoria collettiva e intima del nostro Paese. La sua voce è la voce della libertà delle donne e dei dimenticati del secolo. Attraverso questa consacrazione si unisce alla grande cerchia di Nobel della nostra letteratura francese». Lo stesso Presidente cui la Ernaux, sul modello della canzone Il disertore di Boris Vian, scrisse una lettera di fuoco, a marzo 2020, per criticare il modello liberare e la gestione «bellica», anche a livello linguistico, del Covid 19: «Lo Stato conta i soldi, noi conteremo i morti... Sappia, egregio Presidente, che non vi permetteremo più di rubarci la vita, è l'unica che abbiamo, e come dice un'altra canzone, questa volta di Alain Souchon, niente vale la vita. Né vi lasceremo imbavagliare a lungo la nostra libertà democratica».

La motivazione per il premio all'autrice di romanzi, memoir e saggi amatissimi oppure odiatissimi dai lettori (la via di mezzo, con la Ernaux, non si dà: in chi la legge, è incapace di suscitare indifferenza) come Il posto, Gli anni, L'evento, La vergogna, L'altra figlia oppure l'ultimo in ordine di traduzione (è arrivato in Italia quest'anno, ma è del 2014), Guarda le luci, amore mio (tutti editi da L'Orma, come la maggior parte delle sue opere in Italia) per un totale di una ventina di volumi, risiede infatti nel «coraggio e l'acutezza clinica con cui svela le radici, gli allontanamenti e i vincoli collettivi della memoria personale». Molti dei suoi libri sono anche diventati film, tra questi L'Événement di Audrey Diwan, uscito in Italia con il titolo La scelta di Anne - L'evento, vincitore del Leone d'Oro alla Mostra del Cinema di Venezia 2021, e Passion simple di Danielle Arbid (L'amante russo, 2021). Nel 2008 Patrick-Mario Bernard e Pierre Trividic hanno diretto L'autre, film tratto dal romanzo L'Occupation, mentre lei stessa ha realizzato un video autobiografico per Les Années Super-8, co-diretto con David Ernaux-Briot e nel 2014 ha sceneggiato Mon week-end au centre commercial di Naruna Kaplan de Macedo.

Cresciuta in Normandia, a Yvetot, dove i suoi genitori si sono trasferiti quando era ancora piccola per aprire una drogheria, frequenta una scuola privata cattolica dove lo stare fianco a fianco con ragazze provenienti da un ambiente molto più agiato del suo le fa sperimentare molto presto un profondo imbarazzo di classe, che la abbandonerà solo molto tempo dopo, e non grazie alla scrittura, ma alla lettura e a quei nomi della letteratura a cui non ha mai smesso di ispirarsi: «Ho sentito con forza la vergogna di essere nata in una classe popolare intorno ai 16, 17 anni, ma allora non volevo vedere, la coscienza è arrivata solo 10 anni dopo, alla morte di mio padre», ha dichiarato qualche anno fa in una lunga intervista a Io Donna. «In quel momento ho capito che appartenevo a quel mondo, ho guardato negli occhi la realtà e il mio desiderio di affrancarmi. E non ho mai smesso di guardare al mondo da dove vengo, anche grazie ai grandi romanzi americani Hemingway, Steinbeck che parlano dell'umanità ordinaria. Mi irritavano le altre ragazze, borghesi, che non trovavano niente in quella letteratura».

È a 18 anni, alla fine degli anni Cinquanta, che sperimenta per la prima volta la distanza dalla famiglia per partire da sola e andare a lavorare in una colonia estiva. È l'esperienza che darà vita al suo Memoria di ragazza (L'Orma, 2017): la sessualità, la vita in comune, una indipendenza economica che sostiene e si compenetra con quella psicologica e sociale, anche grazie al suo soggiorno a Finchley, alla periferia di Londra, dove arriva come ragazza alla pari nel 1960, prima di decidere di studiare Lettere all'Università di Rouen. È il periodo in cui compone il suo primo manoscritto, che non arriverà mai alla pubblicazione, perché in effetti la Ernaux si è poi dedicata esclusivamente alla letteratura molto tardi, solo nel 2000. Gli anni seguenti di fatto sono quelli del matrimonio, della nascita dei suoi due figli, degli anni trascorsi ad Annecy, dove è insegnante nelle scuole secondarie e della morte del padre, nel 1967, quando torna in Normandia, a far visita ai genitori.

È del 1974 la sua prima opera pubblicata, e pubblicata da uno dei primi editori di Francia, Gallimard: Gli armadi vuoti (da noi tradotto da Rizzoli nel 1996), in cui si cimenta per la prima volta in quella particolare forma di autofiction che le ha poi conferito la fortuna di cui gode. Nel romanzo si narra dell'aborto clandestino cui la stessa Ernaux si sottopose nel 1964 (aborto che poi ritorna in L'evento), inquadrato in quella già citata traiettoria personale di «transfuga di classe». A renderla nota ad un pubblico considerevole, tuttavia, sarà un libro apparso soltanto dieci anni dopo all'incirca, ovvero Il posto, pubblicato sempre da Gallimard (a cui nel frattempo aveva chiesto di eliminare dalle copertine dei suoi libri ogni riferimento a qualsiasi genere letterario) nel 1983 e tradotto in Italia nel 2014. Nel frattempo si era trasferita nella regione parigina con la famiglia, aveva lasciato l'insegnamento classico a scuola per quello a distanza, aveva cominciato a scrivere articoli femministi per Le Monde («È sempre stata dalla parte delle donne. Non userei la parola femminista, ormai legata a una ideologia che non c'è più» ha detto Dacia Maraini commentando l'attribuzione del premio) e assistito alla morte del padre, figura che è al centro di questo racconto, da molti considerato il suo capolavoro (dedicherà poi Una donna, 1988, alla perdita della madre).

I ruoli di un uomo, da contadino a gestore di un negozio, la pressione e la predeterminazione sociale, e il senso di colpa di sua figlia per l'iniziale disprezzo delle sue origini operaie sono i cardini attorno a cui ruota Il posto, ma che vengono, in un modo o nell'altro, ripresi anche nei successivi romanzi, in un continuo tentativo di compilare quella «autobiografia collettiva» di cui forse Gli anni sono l'esempio più compiuto: la scrittura si fa del tutto neutrale, gli eventi biografici sono «fatti» in cui «lei» può diventare impersonale o plurale, la lotta contro l'invisibilità sociale si è definitivamente trasformata nella riscoperta di una «voce popolare».

Con lei l'autofiction è un'arte. Il mondo culturale francese presenta una continuità che mai potremmo cercare in Italia. Luca Doninelli il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Il mondo culturale francese presenta una continuità che mai potremmo cercare in Italia. Da Re Sole a Annie Ernaux la strada è una sola, chiara, con tanto di origini, successioni, confutazioni, pedigree. La letteratura francese è un immenso circolo o società culturale, diffusa nel tempo e nello spazio, la cui attività consiste in un'infinita conversazione comprensiva di polemiche, inimicizie, partiti presi ma sempre e comunque una. Con un evento centrale a fare da boa: Marcel Proust. Il Nobel 2022 a Annie Ernaux potrà suscitare polemiche, ma non sul piano letterario, perché la Ernaux è una grande scrittrice. Fin da Sartre, e poi con i Yourcenar, Butor, Duras, Robbe-Grillet, Serraute (cito in ordine disordinato), la letteratura d'Oltralpe ha elaborato una complessa revisione, talora pro talora contro Proust, del rapporto tra presente e memoria. Da un lato la parte intrattabile delle lettere francesi (Céline, Artaud, Bataille, Blanchot, Klossowski) che ne ha condizionato il mainstream; dall'altro l'impatto dell'ideologia marxista e post: Foucault per esempio, o Pierre Bourdieu. Ernaux e altri - giusto citare almeno Pierre Michon - raccolgono questa eredità, che non è solo di pensiero, ma di tecnica letteraria. Se da noi la pratica della nonfiction e dell'autofiction è diventata maggioritaria (quasi nessuno cerca ancora grandi storie) il suo sapore occasionale, imitativo, senza troppe radici, è ancora prevalente. Non così in Francia, dove la memoria personale, per esempio in Ernaux, si è fatta archivio di una storia comune, e dove la dimensione individuale, intima, emotiva - il «vissuto» - si stempera in eventi che, letti oltre la barriera del ricordo, si confondono con la Storia di tutti e le sue complesse leggi. Nella mirabolante struttura de Gli anni, il suo romanzo più celebre, non ci sono concessioni al sentimento o all'emozione; i fatti scorrono chiari, oggettivati, la parola «io» si fa problematica, incerti i suoi confini. Tutti riconosciamo, in quegli eventi lontani da noi, qualcosa di profondamente nostro. Ed è un riconoscimento amaro, perché nessuna speranza, nessuna luce irraggia dagli archivi della Ernaux, nessuna salvezza. Non perché l'autrice sia priva di speranza (questo non lo so), ma perché il metodo della letteratura non lo consente, perché Dio non abita la letteratura.

Però di nuovo è un premio all'ideologia. Niente da dire sulla scelta letteraria dell'Accademia di Svezia: Annie Ernaux è una maestra nel raccontare di sé senza fissarsi sul proprio ombelico. Eleonora Barbieri il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Niente da dire sulla scelta letteraria dell'Accademia di Svezia: Annie Ernaux è una maestra nel raccontare di sé senza fissarsi sul proprio ombelico, ha uno stile assolutamente riconoscibile e ha perfino sancito la nascita di un genere. Niente da dire, anche, sulla scelta popolare: finalmente il Nobel per la letteratura viene assegnato a una autrice amata e famosa in tutto il mondo, tanto che il suo nuovo libro, Il ragazzo, in Francia è stato un caso editoriale da centomila copie. Tutte cose che possono suonare banali ma le quali, negli ultimi anni, dalle parti di Stoccolma sembravano un crimine, come se le parole letteratura e copie non potessero abbinarsi. Se uno scrittore ha un pubblico di migliaia di lettori, e se i suoi libri addirittura vendono, beh, allora vuol dire che non merita un premio «alto» come il Nobel... Sulla cui altezza, peraltro, nessuno discute, anche se «altezza» dovrebbe riferirsi alla letteratura e non, per esempio, all'allineamento all'ideologia dominante, o alla ricerca spasmodica di una eccezione. Due principi che talvolta possono collimare. Niente da dire, anche, sulla gioia per la casa editrice L'orma (anche qui, qualità letteraria), che festeggia dieci anni proprio in questi giorni e che, fin da subito, ha portato nelle librerie italiane Annie Ernaux. Tutto a posto, quindi? I signori del Nobel sono riusciti a far trionfare la letteratura? Una risposta è: sì. Un'altra è: sì, ma non solo quella. Perché occorre essere sinceri: l'assegnazione a Annie Ernaux è ideologica. Lo confermano le sue stesse parole e la sua storia: ha subito detto che «responsabilità significa continuare a lottare contro le ingiustizie», in particolare quelle contro le donne e «i dominati», è stata paladina del MeToo, ha fatto del racconto sociale il fulcro delle sue storie, è stata subito applaudita dall'estrema sinistra (Mélenchon era in lacrime, ieri). Insomma è, ancora una volta, un Nobel politico, e di una politica che si accoda alle solite cause che, benché giuste e condivisibili, sono già sbandierate e sostenute ovunque. Per fare un esempio, anche premiare Salman Rushdie sarebbe stato un gesto politico ma, in questo momento, più coraggioso e, forse, incisivo. La letteratura che lotta per la libertà e contro il fanatismo: non male, no? Forza, accademici di Svezia, fateci sognare. Magari l'anno prossimo...

Nobel della letteratura a Annie Ernaux: una voce dalla parte delle donne. «Il mio aborto clandestino? Un evento che mi ha cambiata per sempre». Confermate le previsioni della vigilia. L'annuncio è stato dato nella sede dell'Accademia svedese. Giusi Marchetta il 4 Ottobre 2022 su L'Espresso.

La scrittrice francese 82enne vince il Premio Nobel per la letteratura. Confermate le previsioni della vigilia. Ernaux è autrice di romanzi incentrati su temi forti declinati al femminile a partire da corpo delle donne e dai diritti negati. In questa intervista, che vi riproponiamo, il suo racconto autobiografico a partire dal libro L’Evento ambientato nella Francia, 1963: una giovane studentessa rimane incinta e fa di tutto per interrompere la gravidanza. Il racconto autobiografico della grande scrittrice. Da questo libro è stato tratto il film “L’Evento”, Leone d'oro alla 78ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.

“L’evento” di Annie Ernaux, appena uscito in Italia per i tipi de L’orma, trova origine in una dolorosa vicenda autobiografica: nella Rouen del 1963 una giovane studentessa rimane incinta e cerca disperatamente di abortire in modo clandestino. Traducendo in scrittura questa esperienza l’autrice riporta alla luce una ferita collettiva: mentre ripercorre con uno stile asciutto e prodi-gioso quei giorni terribili, infatti, costringe chi legge a pensare a tutte le donne che ancora oggi non si vedono riconosciuto il diritto di disporre di se stesse. Nonostante l’esistenza della legge 194, nel nostro Paese il dibattito sull’aborto è ancora aperto non solo per la complessità del tema ma anche per le limitazioni della stessa legge che ne ostacolano troppo spesso l’effettiva applicazione. 

A monte di ogni discussione in merito, comunque, resta il quadro di una società in cui la parità di genere è ancora un obiettivo da raggiungere in troppi ambiti. Dall’urgenza di affrontare questi temi già in età scolare è nata l’esperienza del Tavolo delle ragazze, che mette a confronto donne di diverse generazioni su femminismo e diritti umani. In occasione dell’uscita de “L’evento” anche Annie Ernaux ha accettato di sedersi a un tavolo comune insieme a Gloria Napolitano, 16 anni, studentessa del Primo Liceo Artistico di Torino, Chiara Sed, 20 anni, studentessa di Medicina alla Sapienza e Silvia Grasso, 29 anni, specializzanda in Filosofia a Pavia, per rispondere alle domande delle ragazze e per condividere con loro una storia che ci riguarda tutte.

Nel libro racconta un groviglio di emozioni relative all’evento, sue e influenzate dal comportamento delle altre persone. Pensa che sia stato più grande il dolore prima e durante l’aborto o il sollievo successivo?

«Ritengo che i due dolori siano assolutamente connessi perché occorre comprendere che il periodo che intercorre dal momento in cui si apprende di essere incinta al momento dell’aborto è una sorta di corridoio, un corridoio cieco in cui nessuno sa cosa troverà alla fine, una sensazione che ti fa sentire peggio che all’inferno.

Il passaggio successivo ti dà l’impressione di avercela fatta, di essertela cavata, provi semplicemente sollievo. Non so onestamente cosa sia peggiore tra i due momenti». 

Che valore ha avuto per lei questo evento a confronto col resto della sua vita?

«Questa è una domanda molto complessa. Possiamo tranquillamente dire che questo evento ha cambiato profondamente la mia vita e mi ha dato la possibilità di essere più consapevole di che cosa significhi veramente avere un corpo di donna. Prima di questo momento non ne avevo la piena consapevolezza. Questo evento ha inoltre modificato completamente il mio punto di vista e la mia prospettiva sulla vita. Ho toccato nello stesso momento la vita e la morte e questo mi ha fatto velocemente evolvere da una ragazzina a una adulta». 

Lei crede che le donne soffrano, esperiscano il proprio dolore fisico, come gli uomini o in modo diverso? E quali implicazioni personali, sociali e politiche ha la sua posizione?

«Ritengo che le donne non abbiano assolutamente lo stesso rapporto che hanno gli uomini con il proprio corpo, soprattutto rispetto al dolore. La vita di una donna è ciclicamente costellata da eventi fisicamente dolorosi che sfuggono al nostro controllo come ad esempio l’avvento delle mestruazioni o il primo rapporto sessuale che in alcuni casi si rivela origine di sofferenza fisica e psicologica o ancora il parto. Questi sono alcuni esempi che ci fanno comprendere la diversità e il grado di comprensione del dolore perché talvolta gli uomini non capiscono il dolore delle donne forse perché su di loro mal lo sopportano». 

Si parla spesso dell’aborto in termini di perdita. A lei invece cosa ha lasciato?

«Per me l’aborto è stata un’esperienza totalizzante e questo lo scrivo anche nel libro. In quel periodo si trattava di un’esperienza sociale, di un’esperienza che aveva a che vedere con la mia condizione ed è stata anche una rivelazione su che cosa rappresentasse per me l’idea di maternità. In fondo non mi era mai capitato di pensare di poter avere dei figli fino a quel momento. Mi sono poi resa conto che cosa significasse e rappresentasse essere madre, cosa che se avessi avuto la volontà di avere dei figli allora - avendo o meno subito un aborto - mi avrebbe, ad esempio, portata a pensare magari del problema di poterne avere o non poterne avere più in futuro». 

La protagonista vive in completa solitudine quello che le accade come se fosse una cosa che sta succedendo solo a lei; in particolare gli uomini sono incuriositi, sedotti o indifferenti o addirittura complici nel negarle l’aiuto. Oggi qualcuno sostiene che sull’aborto è necessario dare voce a tutti, uomini compresi. Lei che ne pensa?

«In Francia, nonostante l’aborto sia legale sussiste lo stesso tipo di atteggiamento di silenzio. Tutti ne parlano vagamente e gli uomini in particolar modo se ne stanno alla larga, non vogliono saperne perché non vogliono partecipare alla scelta delle donne qua lunque essa sia. Ad esempio non accompagnano le donne in clinica o in ospedale, se la donna deve prendere la pillola del giorno dopo non sono mai presenti. Credo che invece gli uomini debbano davvero partecipare di più a tutto questo. In passato l’aborto provocava una curiosità malsana, perché l’aborto era considerato un tabù, ma un tabù affascinante, un atto talmente pericoloso che, appunto, arrivava al punto di affascinare. Mentre invece ora è il contrario. L’aborto è diventato un atto da banalizzare. Gli uomini non se ne occupano mai perché semplicemente pensano sia solo una faccenda da donne e che non valga la pena interessarsene. E invece penso proprio che debba essere il contrario: bisognerebbe non solo occuparsene ma parlarne e l’aborto non deve restare un tabù e soltanto una faccenda di donne». 

Solo dopo l’evento la protagonista riprende a scrivere la sua tesi perché il mondo è tornato normale. Ogni scrittura è possibile solo dopo che il corpo ha smesso di imporre la sua presenza?

«Sì, scrivere così come qualsiasi altra attività della mente presuppone il silenzio del corpo. La gravidanza è, per definizione, un periodo di silenzio in cui si ripensa a se stesse, perché il ventre aumenta, il corpo viene completamente invaso e quindi l’intelletto e lo spirito si addormentano e l’anima è un po’ “dopata” come diciamo in Francia». 

Prima di interrompere la gravidanza, lei era religiosa? Aveva fede? Come il suo rapporto con la religione ha influito sulle sue decisioni? E come è cambiato dopo questo evento?

«Ero cattolica praticante per abitudine e all’epoca parlai con un prete che mi disse che quello che avevo fatto non costituiva reato. Però l’esperienza dell’aborto mi ha recato quasi una forma di misticismo, come se quello che vivessi fosse così grande da essere più grande della fede stessa in Dio. La stessa sensazione la riscontro quando ascolto la Passione di San Giovanni di Bach, scorgo questo sentimento di grandezza e di sacrificio mistico che riempie ogni cosa. L’aborto mi ha fatto uscire dal “torpore mistico”, per me è stato un passaggio e rimane un passaggio molto peculiare, un passaggio che in fondo, mi ha fatto toccare il mistero della vita e della morte». 

Che cosa vuol dire vedere questo libro che viene pubblicato in Italia per la prima volta dopo tanti anni, qual è il suo rapporto con il pubblico italiano e che cosa significa adesso per lei riguardare al passato, al momento in cui ha scritto il libro.

«Parlando di questo evento parlo di un ricordo perché il libro è una cosa che rimane a latere rispetto al fatto: un libro che non mi appartiene più, che non è più mio, un libro diverso rispetto a me». 

C’è stata una latenza di quasi 40 anni tra l’evento e la narrazione dell’evento, come mai è passato così tanto? Esiste una correlazione tra il passare del tempo e la possibilità di narrare questa esperienza?

«Per me è una questione ancora aperta. Negli anni ’70 in Francia si è condotta una grande battaglia per ottenere la legalizzazione dell’aborto così come in Italia e mi chiedo ancora oggi quanto l’influenza del Vaticano sia forte come un tempo, così come lo era in Francia, dove ci sono ancora delle sacche di resistenza culturali al fenomeno, ma che mi sembrano minori rispetto a quelle di casa vostra». 

In conclusione Annie, qual è il suo rapporto con il pubblico italiano?

«Adoro il pubblico italiano così come adoro l’Italia. Avevo anche pensato di fare un titolo ad hoc per il vostro Paese e avevo pensato a “Che guaio!”. È un’espressione che mi diverte molto».

Giusi Marchetta è scrittrice e ideatrice del Tavolo delle ragazze.

Traduzione di Lorenzo Flabbi e Paolo Maria Noseda

Annie Ernaux: "Mi racconto dunque sparisco". La scrittrice Valeria Parrella incontra l'autrice francese di culto. Per la sua arte di parlare di sé nascondendosi allo stesso tempo. Un colloquio sulla memoria, la famiglia, il tempo. E sulla difficoltà di essere donna e scrivere. Valeria Parrella il 19 luglio 2016 su L'Espresso.   

Villa Medici, sede dell’Accademia di Francia, il lunedì è chiusa al pubblico. Militari che presiedono in mimetica imbracciando i mitra, lunga attesa alla portineria, e poi su per le scale ovoidali, statue marmoree e giardino pensile affacciato sui tetti di Roma. 

Siamo in pochi al Caffè Colbert: qualche studioso, qualche ragazzo in residenza, un piccolo buffet con pasta scotta. Poi dentro, nella controra, in un irreale silenzio, vedo Annie Ernaux. È seduta al tavolo, immersa in conversazione con un signore. Mancano venti minuti al nostro appuntamento e siamo solo io e lei: l’ufficio stampa de L’Orma, il suo editore, mi tiene aggiornata via sms dei progressi nel traffico romano, l’editore stesso, (anche traduttore) Lorenzo Flabbi, disperso in moto, ma arriverà. 

Così mi prendo questo tempo per osservarla, e non credo sia mitomania, quanto piuttosto il tentativo di vederci chiaro: ho letto tre dei suoi libri, gli unici tradotti in italiano, mi ci sono incantata, ci ho pianto, mi hanno fatto arrabbiare, li ho invidiati. 

Sono storie famigliari, di operai e contadini, di infanzie e relazioni annodate tra di loro che la scrittura tenta di dipanare. “Il posto” (che è la place , il luogo dove si dispiega l’esistenza, ma anche il posto fisso, di lavoro, quello che l’esistenza la assicura), romanzo che le diede la prima notorietà in Francia. “Gli anni”, romanzo-mondo dal dopoguerra a oggi, che le ha dato notorietà internazionale, e “L’altra figlia”, l’ultimo suo racconto lungo pubblicato in Italia. 

Questi libri, queste storie, quella memoria ripetuta senza pudore e per questo offerta con grande rispetto, sono passati attraverso il corpo di Annie Ernaux, attraverso i suoi occhi, sì, ma dico proprio il corpo: perché gli scrittori hanno un corpo, e le scrittrici di più. 

Uno sguardo dentro di sé

La guardo. Attraversa il salone con un passo sicuro nella direzione e incerto per l’età: è bella. Ha il volto delle donne che scrivono: quello con gli occhi rivolti all’interno; e tutto ciò che pare stia guardando fuori è poco più di una traccia per non inciampare: per andare al bar o al bagno, coordinare il resto della vita: quella che sta fuori dai libri, che costituisce un raccordo tra un libro e un altro. È con “Gli anni”, la storia dei suoi anni rintracciati in sé stessa, nelle fotografie (prima le sbiadite, lontane, ingiallite, poi, a mano a mano, le più recenti: quelle nitide: per immagine e per portato), che tra qualche ora vincerà il Premio Strega Europeo, 16 voti su 24 votanti, praticamente un plebiscito. 

E sì che la cinquina quest’anno era bellissima: giocavano (perché un premio è sempre solo un gioco) Ricardo Salmón, Mircea Cartarescu, Kerry Hudson e Ralf Rothmann. Si fa l’ora e ci siamo solo io e lei, le faccio ciao con la manina per segnalarle che sono puntuale all’appuntamento, ma non quello dell’intervista, (ché quello è facile: basta prendere la metro): quello della lettrice folgorata da una storia, della scrittrice ammirata da tanta maestria: la possibilità di dirsi senza emergere, dire io scomparendo. 

Il piccolo miracolo dell’opera di Ernaux, ottenuto senza mettere un io “finzionale”, senza starsela a menare sulla differenza tra autobiografia e autobiografismo, senza tema della critica «si-guarda-l’ombelico» (come se quell’ombelico non fosse poi attaccato al cordone ombelicale del mondo per trarre da esso nutrimento). E invece Ernaux scrive sempre parlando di una scrittrice, dalla prima all’ultima opera racconta di sé e della propria famiglia, e spesso tira in ballo proprio il libro che sta scrivendo: nel mezzo della narrazione quasi la interrompe per dire di quanta fatica le comporti scrivere in quel momento. Quelle pagine, quelle righe che stiamo leggendo: ci riporta la difficoltà dell’averli scritti. 

Ha sempre fatto così, diventando in qualche modo il personaggio stesso delle sue opere, con le vicissitudini dell’esistenza, l’emancipazione da una condizione di partenza socio culturalmente depressa, lo strappo che l’investimento nella vita borghese comporta, il cambio di linguaggio che la fa diventare ciò che è: al prezzo altissimo di non avere più una koinè che la leghi alle origini. Origini cercate, sondate, fatte rinascere nella pagina: finalmente riconquistate. «Quell’io» - mi spiega - «è un incrocio di pensieri e sensazioni che mi hanno attraversato».

Lavoro di scavo

È in fondo un percorso comune a quello di altre scrittrici della stessa generazione, mi vengono in mente i racconti di Lucia Berlin in cui la verità dell’opera è trapunta di verità oggettiva, o “Chi ti credi di essere” di Alice Munro, scritto in terza persona quello, ma con la stessa meta: di giungere a ciò che si è: una scrittrice che ha attraversato se stessa e i suoi anni per fondarsi. 

Mette a fuoco: «non penso di me nel mondo ma del mondo in me»: soggetto e oggetto coincidono. Scrive: «È solo nella finzione dei libri o dei film che si ritrova la memoria», così arriviamo al vero oggetto della sua scrittura: la memoria. Quella memoria che quindi non esiste come verità, ovvero come verità è infondata, e ciò che la fonda è chi la racconta. 

Come lavora? Come un’archeologa: «è una sorta di discesa dentro di me che mi permette di chiarire le idee nel marasma dello spirito (“cosa intendi per spirito?” “la coscienza”), faccio questo per tre ore al giorno circa perché è faticosissimo, intanto prendo solo appunti. Ma poi, perché tutto si realizzi, ho bisogno di star seduta a un tavolino, ovvero la memoria si realizza mentre scrivo». 

Il tempo della stesura è relativamente breve, e anche quello appuntato con meticolosità alla fine dei libri. Ne “Il posto” storia di suo padre e della sua emancipazione dalla famiglia: novembre 1982-giugno 1983. De “L’altra figlia” Ernaux segna la data di conclusione, ottobre 2010. Storia particolarissima questa, forse dal punto di vista degli accadimenti la più inquietante: la storia di come a dieci anni abbia scoperto, per caso, di avere avuto una sorella, morta piccola di difterite prima che lei nascesse. Del silenzio che ha avvolto la realtà dell’accaduto e anche la sua tardiva notizia. 

Un libro scritto in forma di lettera, quindi con un “tu”: «non avevo voglia di scrivere di mia sorella, ma nel diario, il diario su cui annoto tutto c’erano passaggi che facevano riferimento a lei. Però è stato solo quando è arrivata la proposta dell’editore di scriverla come lettera che ho iniziato. Il primo titolo era “Lettera a mia sorella morta”». Ci penso: «“L’altra figlia” è più bello», le dico sinceramente. Mi sorride e continua: «A questo punto mi sono applicata e ho capito che l’Editore ha intercettato un mio desiderio profondo e questo espediente del referente mi ha permesso di scrivere direttamente a qualcuno». 

In realtà vi è un brevissimo accenno alla storia della sorella già nel libro scritto trent’anni prima. Un accenno mai più ripreso, un azzardo che trova la sua ragione trent’anni dopo in un altro libro. Ecco, quell’azzardo di dire una cosa lasciandola poi cadere, senza preoccuparsi che il lettore capisca di cosa si parli, senza sapere se poi si sarebbe davvero scritto di quell’argomento, io lo chiamo coraggio, o strafottenza, che poi in arte sono la stessa cosa. 

Cioè non preoccuparsi del lettore mai. «Non l’ho calcolato da un punto di vista narrativo, non ho una strategia di narrazione che faccia in modo di anticipare qualcosa». È la risposta che mi aspetto, quella che voglio: in realtà tutto il tempo di questo incontro è un tentativo di chiederle scusa per l’incontro stesso: di giustificarmi per farle delle domande la cui risposta è già nei suoi libri, ad avere occhi per leggerli, e io vorrei davvero che lei pensasse che li posseggo, quegli occhi. Le dico che sono sicura che tutto ciò che io le dico sui suoi libri lei non lo sa. Cioè che sono sicura che i suoi libri si creino in una zona di sospensione dal controllo (è quello che credo del talento). Certo poi ci sono la tecnica, l’esperienza, il mestiere: ma vengono solo dopo. L’editore/traduttore teme che questa affermazione suoni offensiva, io insisto «ma no, dille proprio così: che di quello che diciamo sui suoi libri lei non ne sa nulla». Traduce. Annie Ernaux si rilassa, risponde: «è così». 

La parola “scrittrice”

Accade dunque che, poiché ciò che lega i libri tra di loro è lei stessa, a leggerli si incontrano in qualche modo sempre gli stessi personaggi. So per esempio che il padre e la madre (che sono Monsieur e Madame Ernaux certo, ma anche il nome padre e il nome madre) hanno un negozietto, che la loro casa ha una scala interna, so come vedono la vita, cosa pensano per il bene della loro figlia, che valore danno ai clienti. Insomma so delle cose di loro perché diventano dei “personaggi”. Come accade a leggere Salinger per intero: Franny e Zoey, Seymour, Buddy, sono tutti personaggi della famiglia Glass presenti in libri diversi. «Io non ho l’intenzione di farne dei personaggi, né ho l’impressione che lo siano. Ok, accetto che ci siano dei personaggi come figure ricorrenti, ma se prendiamo per esempio “L’altra figlia”… io di lei non racconto tanto, forse perché non so tanto di lei. È solo un pretesto per parlare di assenza, di morte, di patrimonio famigliare e della scrittura. So che c’è una coerenza nei miei libri, anche perché la critica la ha sottolineata, ma è involontaria…». 

Ne “L’altra figlia” compaiono delle fotografie. Sono fotografie di luoghi, una casa normanna, la stessa, credo, che il padre imbiancò come segno di modernità nel romanzo del 1983, le stesse foto descritte con cura ne “Gli anni”. Che ruolo hanno nella ricomposizione della memoria? «Io non parto dalle foto bensì le foto sono incluse nel mio percorso perché sono un elemento archivistico». E poi: «la memoria è sempre la memoria di qualcuno». L’incontro sta per concludersi, arriva una giornalista di un’altra testata, qualcuno scatta una foto ricordo, le chiedo ancora una cosa che mi interessa: se in Francia, oggi, ha senso parlare di questione femminile nella scrittura. Se viene stigmatizzata, come fu per Annamaria Ortese, se bisogna difendersi, come forse fece Elsa Morante autodefinendosi «uno scrittore». Ernaux ne è convinta: accusa con una smorfia antica, mentre mi risponde, le critiche sessiste che la sommersero ai principi della carriera. «Anzi, voi siete fortunati ad avere la parola scrittrice, noi diciamo di tutti l’écrivain , esiste il femminile écrivaine ma è malvisto e poco utilizzato perché l’idea del mondo culturale francese è che la vera letteratura è quella fatta dagli uomini. Sì, ci sono scrittrici molto famose: poche, molto famose, e questo cela le ineguaglianze che ci sono dietro. Vale anche per i premi letterari: prendiamo i più importanti e facciamo una short list : ci sono sempre più uomini che donne».

Un piccolo correttivo può essere il Premio Strega Europeo, o la raccolta dei suoi romanzi in un unico volume dell’editore Gallimard, ma intanto mi congedo con un rimpianto che non so spiegarmi, un’anticipazione di nostalgia che mi commuove e sorprende: le chiedo l’autografo. Mi scrive «avec amitié» (sì, sì: è mitomania dirlo qui).

Michela Marzano: «Il libro che più di ogni altro mi ha liberato? “La vergogna” di Annie Ernaux». Michela Marzano il 2 dicembre 2021 su L'Espresso.

La scrittura per frugare nella propria storia. Da un romanzo una lezione di emancipazione

Ogni libro libera. Le parole mettono ordine nel mondo e ci aiutano a nominare non solo tutto ciò che ci circonda, ma anche quello che ci portiamo dentro: sogni, paure, incertezze, speranze e incubi che spesso non riusciamo a esprimere finché non inciampiamo su un personaggio o su una storia che parlano di noi, sebbene le gioie e i dolori raccontati siano diversi dai nostri.

Se dovessi però scegliere il libro che, più di ogni altro, mi ha liberato, si tratta senz’altro di uno dei romanzi di Annie Ernaux, “La vergogna”, tradotto di recente in italiano, ma disponibile in francese sin dal 1997. Partendo dal racconto di uno scatto d’ira che aveva avuto suo padre nei confronti della mamma, e che era poi degenerato in violenza, la scrittrice ripercorre gli anni cruciali della propria infanzia: le raccomandazioni della madre e le regole da rispettare; i silenzi del padre e i segreti di famiglia. Soffocata dal falso perbenismo della provincia, Annie si vergogna. Non solo e non tanto della violenza improvvisa del litigio, quanto dell’ipocrisia, della meschinità, dei battibecchi e delle recriminazioni che osserva e ascolta nella sua famiglia.

La scrittrice inizia a sentirsi inadeguata, diversa dalla maggior parte delle ragazzine della sua età, sola di fronte a due genitori che non riescono a diventare quel punto di riferimento di cui tanto sente il bisogno. Come si fa d’altronde a crescere quando non ci si può identificare con una delle due figure genitoriali? Come ci si può proiettare nel mondo quando si fa fatica anche solo a respirare? «Nella vergogna c’è questo: la sensazione che possa accaderci qualsiasi cosa, che non ci sia scampo, che alla vergogna possa seguire soltanto una vergogna ancora maggiore». 

“La vergogna” è stato il primo romanzo di Annie Ernaux che ho letto. Ero appena arrivata in Francia e non la conoscevo ancora. Esattamente come non sapevo che, a forza di leggere e rileggere i suoi libri, mi sarei pian piano liberata dalla paura di utilizzare anch’io la scrittura per frugare all’interno della mia storia familiare. Sono passati molti anni da allora. Anni durante i quali ho fatto di tutto per capire cosa volesse dire la scrittrice francese quando spiegava che la scrittura autobiografica le aveva permesso di andare molto più lontano di quanto non le fosse successo quando scriveva romanzi di pura fiction. Fino a che, anche grazie alla lingua scarna, essenziale e rarefatta di Ernaux, sono riuscita pure io a trovare il coraggio di raccontare l’origine della mia personale vergogna. 

Alienazione, seduzione, solitudine. I supermercati raccontano come siamo. Come in tanti film, romanzi, poesie, da Allen Ginsberg a Cormac McCarthy. E come nell’ultimo libro della scrittrice francese, dove un Auchan diventa osservatorio privilegiato delle nostre esistenze.  L'Espresso il 21 marzo 2022.

La prima volta che Annie Ernaux ha oltrepassato la soglia di un supermercato era il 1960. Si chiamava semplicemente Supermarket e si trovava in un sobborgo di Londra dove lei faceva la ragazza alla pari in casa di una signora che le aveva messo in mano una lista e un carrellino della spesa. Fino ad allora, lo sanno bene i suoi lettori, la giovane - non ancora - scrittrice francese aveva vissuto a Yvetot, un paesello rurale della Normandia dove i genitori gestivano una bottega. I supermercati, per lei, avevano la stessa realtà dei dischi volanti.

Inizia così, con un ricordo, “Guarda le luci, amore mio” (L’Orma editore, 112 pp. € 13), un diario che Ernaux tenne, tra il 2012 e il 2013, sulle visite fatte all’Auchan di Cergy, il sobborgo a 30 chilometri da Parigi nel quale abita. Il racconto continua: dopo «una certa apprensione» iniziale nei confronti di un posto di cui le erano estranei meccanismi e linguaggio, si era per la verità abituata molto in fretta, vinta da tutti quegli yogurt, merendine, Smarties, insomma tutto il ben di dio che è il motore ultimo dell’irrisolta ambivalenza dei nostri sentimenti – un po’ alienazione (sempre meno), un po’ seduzione (sempre più) – verso i luoghi del commercio di massa. Alla fine, la giovane Annie aveva iniziato a frequentarlo regolarmente assieme a un’amica con la quale, ogni tanto, aveva anche tralasciato di passare alla cassa. 

Il primo supermercato self-service della storia è stato il Piggly Wiggly che aprì nel 1916 a Memphis, in Tennessee, e che ben presto divenne il modello per migliaia di posti simili in tutti gli Stati Uniti (oggi la sua fedele ricostruzione è un’attrazione del Museo della scienza e della storia della città).

La storia della grande distribuzione è interessante perché racconta molto di come siamo. Persino una come Joan Didion, che di mestiere faceva proprio quello – raccontarci come siamo -, mentre lavorava a Vogue aveva seguito con estremo interesse un corso di Teoria dei centri commerciali.

La memoria è da sempre il polo verso il quale Ernaux è orientata, lo spago con il quale ha cucito tutti i suoi libri. Nel frequentare quel luogo acquatico e cangiante, ha ripercorso le varie fasi della propria vita – dall’infanzia (“L’altra figlia”) alla figlianza (“Una donna”, “Il posto”), dal diventare donna (“Memorie di ragazza”) all’aborto (“L’evento”, che è anche diventato un film) solo per citare alcuni titoli – fino ad arrivare a ricostruire la storia della Francia in quello che per molti è il suo capolavoro, “Gli anni”. Negli anni, appunto, l’ago della sua scrittura si è spostato verso un tipo di autobiografia sociale che alcuni critici hanno, contro il suo parere, definito auto-fiction. Eppure, di invenzione, nei suoi testi, non c’è praticamente traccia. In “Scrivere è dare forma a un desiderio”, rifacendosi al sociologo Pierre Bourdieu, dice che non potrebbe mai immaginare una forma letteraria slegata dai rapporti sociali: prefiggendosi di fare entrare il lettore nel “reale”, il suo obiettivo è di restituire a ogni essere umano il posto che ha nella vita. Ed è esattamente in questo programma che si inscrive “Guarda le luci, amore mio”, dove un Auchan di periferia diventa osservatorio privilegiato del mondo: «Quante storie di vita si potrebbero scrivere anche solo attraversando da una parte all’altra uno dei centri commerciali che frequentiamo». Non solo funzione domestica, quindi, ma sociale e, quindi, politica: «In nessun altro spazio, pubblico o privato che sia, agiscono e convivono individui tanto differenti, per età, reddito, cultura, origine geografica ed etnica, stile di abbigliamento. In nessun altro spazio chiuso ci si può trovare decine di volte l’anno in presenza dei propri simili, con l’opportunità di farsi un’idea sul modo di essere e di vivere degli altri».

Eppure, nota Ernaux, i supermercati «stanno cominciando soltanto ora a figurare tra i luoghi degni di avere una loro rappresentazione». Le spiegazioni che propone sono due. La prima è che, rientrando nello spettro delle attività femminili (fare la spesa è «un’estensione del dominio femminile»), siano restati sostanzialmente invisibili «come d’altronde lo è anche il lavoro domestico che le donne svolgono. Ciò che non ha valore nella vita non ne ha nemmeno in letteratura». La seconda è che, fino agli anni Settanta, gli scrittori francesi fossero appartenuti principalmente a élite che vivevano a Parigi dove la grande distribuzione non era ancora arrivata.

È raro in effetti trovarne, in letteratura, una narrazione diffusa. Nel 1955, Allen Ginsberg nella poesia “A supermarket in California” aveva immaginato di passeggiare con Walt Whitman tra le corsie ragionando sulle direzioni prese dalla loro amata America: a tema c’erano l’artificialità materialistica del consumo di massa in opposizione alle cose “naturali”. Nel 1963, in “Marcovaldo al supermarket”, Italo Calvino aveva proiettato il suo adorabile antieroe, con la sua famiglia di squattrinati, nella classica situazione da invidia da acquisti (guardare gli altri che comprano diventa “spettacolo”): presi da un raptus consumistico, avevano riempito i carrelli fino all’orlo e, per evitare le casse, erano riusciti a fuggire attraverso un buco nel muro per poi dare in pasto l’intero il bottino a una gru. Lo stesso sguardo straniato si ritrova in “La vita agra” (1962), dove Luciano Bianciardi osservava il nascente consumismo descrivendo causticamente le “donnette ipnotizzate” che si accalcavano nel “bottegone nuovo”, una delle prime Esselunga, e snocciolando mirabolanti merceologie annichilatrici. Luogo “panottico”, nel quale si è costantemente osservati, e di lavaggio del cervello è anche il super che Don De Lillo racconta in “Rumore bianco” (1985), che diventa il fulcro di quel loop inesauribile, acquisto-consumo-distruzione, che appaga e frustra nello stesso momento.

Assimilata la “rivoluzione delle merci”, nei decenni successivi i toni si fanno via via più sfumati, meno paranoici e più introspettivi, e da osservatore esterno colui che scrive diventa a sua volta un consumatore. Addirittura in “La strada” di Cormac McCarthy (2006), a sopravvivere all’apocalisse è proprio un carrello del supermercato che, sottratto al suo scopo primario e in una rinnovata attribuzione di senso, diventa inaspettatamente un aiuto per la sopravvivenza dei protagonisti. Nel 2012 esce il memoir “Aftermath” dove Rachel Cusk parla del proprio divorzio e dove, a proposito del supermercato in fondo alla strada, scrive: «I suoi spazi illuminati al neon sono così impersonali ed eterni da emanare contemporaneamente benessere e alienazione. Lì dentro ci si può scordare che non si è soli, o che lo si è», che sono le parole scelte da Ernaux come esergo del suo libro.

Forse invogliati da evidenti ragioni estetiche, sono stati film e serie tv ad avere raccontato più volentieri la realtà del supermercato. Che, lo avevano già suggerito i Clash con la loro “Lost in the Supermarket”, può essere alienante, come per la giovane killer “Nikita” del film di Besson del 1990 che, di ritorno dall’addestramento, va a fare la sua prima spesa ed è talmente spaesata da non riuscire a riempire da sola il proprio carrello. Oppure luogo di seduzione, come per l’euforica Anne Hathaway che, in uno degli episodi più belli della serie “Modern Love”, rimorchia un uomo stupendo davanti al reparto delle pesche, o come per la strepitosa Monica Vitti che, nell’esilarante video di “Ma chi è quello lì?” di Mina (1987), impazzisce per improbabili energumeni, che si ostinano a ignorarla, individuati tra le cozze e il banco dei peperoni. Tra le tante scene di comicità straniante, ricordiamo anche il delizioso Macaulay Culkin che mette sul nastro della cassa detersivi e buoni sconto come un piccolo adulto in “Mamma ho perso l’aereo” (1990), la mitica entrata in scena di Drugo, accappatoio, occhiali da sole e ciabatte, di fronte al reparto dei freschi ne “Il grande Lebowski” (1997) e anche la ex mite Kathy Bates che, al grido di «Towanda», tampona ripetutamente l’auto di due tipe che l’hanno derisa in “Pomodori verdi fritti alla fermata del treno” (1991).

“Guarda le luci, amore mio”, il cui titolo è la frase pronunciata da una mamma mentre indica al figlio gli addobbi natalizi, è in definitiva il tentativo di inscrivere il supermercato, in quanto «grande appuntamento umano», non solo nella letteratura, ma anche nella memoria collettiva. Il modo in cui Ernaux riesce a farlo è sostanzialmente privo di pregiudizi, quel «vedere diversamente» che mette al centro della sua opera, attraverso se stessa, le persone. A differenza di altri narratori, come Zola in “Al paradiso delle signore”, si attribuisce una duplice identità: di chi, con o senza lista in mano (a volte anche per pura distrazione, «per dimenticare l’insoddisfazione della scrittura mescolandomi all’andirivieni delle persone»), fa parte della folla, e di chi, scrittrice, si interroga sui luoghi degni di rappresentazione. E non mancano nemmeno i momenti di indignazione di fronte all’esposizione “sessuata” dei giocattoli («Fremo per la rabbia e il senso di impotenza. Penso alle Femen, è qui che dovete venire [...]. Vi darei una mano»), ma anche per l’umiliazione inflitta da certi prodotti troppo cari che suggeriscono, a chi non può permetterseli, «tu non vali niente».

«È stato senza esitare», scrive ancora «che per “raccontare la vita”, la nostra, oggi, ho scelto come oggetto gli ipermercati».

L'edizione 2022 va alla scrittrice francese. Annie Ernaux Nobel per la letteratura, nei suoi romanzi la libertà delle donne. Angela Azzaro su Il Riformista il 7 Ottobre 2022 

Una bellissima sorpresa: ha vinto il premio Nobel per la Letteratura 2022 Annie Ernaux. Non era tra i soliti nomi favoriti che circolavano alla vigilia come Salman Rushdie e Michel Houellebecq. Ottantadue anni, femminista, è la prima scrittrice francese a vincerlo, la diciassettesima donna da quando esiste il prestigioso premio. “Per me – ha detto – è un grande onore e una grande responsabilità”.

Ha vinto un’autrice di grande intensità, che ha raccontato la sua vita, e attraverso la sua vita, quella di molte donne, senza retorica, in maniera scarna, inventandosi un suo stile, in cui memoria, storia, riflessione si mescolano. Uno stile moderno in cui i confini tra i generi letterari vanno a farsi benedire. Secondo l’accademia Svedese Ernaux merita il Nobel “per il coraggio e l’acutezza clinica con cui scopre le radici, le estraneità e i vincoli collettivi della memoria personale”. “Nei suoi scritti, Ernaux esamina con coerenza e da diverse angolazioni una vita segnata da forti disparità di genere, lingua e classe. Il suo percorso verso la scrittura è stato lungo e faticoso”.

In Italia era stata pubblicata la prima volta negli anni Ottanta senza ottenere il successo meritato. Ripubblicata da Lorenzo Flabbi (che è anche il bravissimo traduttore) per la casa editrice Le Orme, Ernaux ha finalmente conquistato un nuovo pubblico: alla casa editrice Le Orme ci hanno creduto quando nessuno o quasi credeva che i suoi scritti potessero avere un pubblico più ampio. Invece proprio attraverso la ripubblicazione in tante e tanti sono venuti a conoscere le sue opere e la sua storia. Una storia che ne racchiude molte altre. Da Il posto a Gli anni, il suo libro più famoso e importante, per arrivare a L’evento da cui è tratto anche il film che ha vinto nel 2021 il Leone d’oro, la scrittrice francese è come se girasse attorno allo stesso nucleo tematico. La sua storia intrecciata a quella della sua famiglia. Il genere, la classe sociale, le aspirazioni tutto viene percorso, nei diversi libri, e proposto da angolazioni diverse.

Coraggiosa, come dice la motivazione del premio, sicuramente lo è stata: per come ha messo a nudo la sua vita, per come ha raccontato il suo senso di colpa rispetto alla famiglia, per come ha raccontato i suoi cari con amore ma senza edulcorare. I genitori da operai aprono, in provincia, una piccola attività, lontani anni luce dalla vita intellettuale che Ernaux conduce. Romanzo dopo romanzo – che forse hanno ogni tanto il rischio della ripetitività – ci ha condotto ad esplorare il suo animo, le sue angosce e le sue aspirazioni più profonde. La letteratura di Ernaux costruisce un Noi a partire dalla capacità di attraversare la vita con consapevolezza.

Lo fa quando parla del padre e della madre e del rapporto che avevano. Lo fa quando parla della morte della madre, dell’amore che la legava a lei e dei sensi di colpa che non la hanno mai abbandonata. Lo fa quando racconta l’aborto in una Francia in cui era vietato. Una storia singola che per questa capacità di andare a fondo, di analizzare le pieghe della memoria e del dolore, costruisce una sorta di romanzo collettivo in cui più generazioni di donne si possono riconoscere. Ma è nello stile, in questa grande fiducia nella letteratura, che Ernaux trova il proprio riscatto. La parola per quanto approssimativa, per quanto sempre alla ricerca di una nuova prospettiva – forse per questo c’è da parte della scrittrice il riproporre alcuni nuclei tematici, alcuni nodi del passato – è l’unica possibilità che si ha di uscire dall’indistinto, di costruire passo dopo passo, capoverso dopo capoverso una narrazione che racchiuda anche la grande storia.

Non si può non pensare come i suoi libri oggi siano un puntello, un muro pacifico ma non valicabile contro chi vuole a tutti i costi farci tornare indietro, contro chi sui diritti delle donne, sulla loro libertà di scelta sta rialzando la cresta. Ernaux, tutto il suo lavorio, la sua fatica e coraggio nell’andare oltre le apparenze, raccontano come faticosamente si è costruita la libertà femminile, quanti conti abbiamo dovuto fare a partire dal rapporto con quelle madri che ci restituivano un’altra storia, un’altra idea di noi. Quanto le abbiamo dovute amare, ma allo stesso tempo quanto ce ne siamo dovute allontanare. «Niente del suo corpo è sfuggito al mio sguardo. Credevo che crescendo sarei diventata lei.»

Scrive così nell’incipit di Una donna. La storia di sua madre, del loro rapporto, un libro straziante perché vive della consapevolezza che per andare avanti la protagonista deve guardare oltre, deve superare quell’immagine, quel corpo che pure conosce così bene e che ha tanto amato. Il lavoro da operaia, poi la piccola attività commerciale, la malattia. Ma è ne Gli anni, libro del 2008, pubblicato nel 2015 da Le Orme, che questa materia incandescente diventa biografia di una generazione, quella nata negli anni 40 e che decennio dopo decennio conquista nuove consapevolezze, nuove libertà. Quando si parla di diritti dietro c’è tutta questa fatica, c’è la messa in discussione di ciò che è stato ereditato, c’è un percorso individuale che negli anni Sessanta e Settanta ha incrociato le scelte di molte. Le soggettività che irrompono sulla scena con il femminismo sono l’intreccio di tutte queste appartenenze, di tutte queste contraddizioni.

Il premio a Ernaux ci riporta a questa complessità: i suoi romanzi dispiegano l’intreccio tra classe e genere, ci svelano come solo scavando dentro se stesse si possano costruire nuove identità. La letteratura ha questa forza, questa opportunità: non creare certezze ma seminare quesiti, indicare percorsi. Con Ernaux quello della libertà femminile. Le sue parole subito dopo la notizia del premio lo ribadiscono: “Lotterò fino al mio ultimo respiro affinché le donne possano scegliere se essere madri o meno: la contraccezione e il diritto all’aborto sono un diritto fondamentale, la matrice della libertà delle donne”. Parole, che scrive l’Ansa, si riferiscono alla vittoria di Giorgia Meloni in Italia. Grazie, Ernaux!

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

Nero su bianco. Ogni libro di Annie Ernaux è un pezzo di storia di tutti noi. Nadia Terranova su Linkiesta il 7 Ottobre 2022.

La scrittrice francese premio Nobel per la Letteratura 2022 scrive di sé e del mondo in un modo che è diventato straordinariamente iconico: una donna che ha fatto letteratura di ciò che le è successo, anche del femminismo, inventando una sua personale postura di militanza letteraria

Accendo il telefono appena atterrata da un volo internazionale e Annie Ernaux ha vinto il premio Nobel. In quest’ora trascorsa dalla partenza all’atterraggio si è rifondato il mondo, è successa una cosa bellissima ed epocale, e le prime cose che penso sono lallazioni che pigio su questo telefono, dato che non ho con me nemmeno un computer: Ernaux è una donna che scrive di sé e del mondo, come tante, certo, eppure in un modo che è diventato straordinariamente iconico.

Ogni volta che appare un suo libro è come se fosse restituito un pezzo di storia, non di storia delle donne ma della storia di tutti, raccontata però da una donna. Una donna che ha fatto letteratura di ciò che le è successo, anche del femminismo, inventando una sua personale postura di militanza letteraria che discende da Simone de Beauvoir ma la tradisce in una nuova forma e anche in una nuova epoca.

Ernaux è una scrittrice che ha capovolto ogni casella in cui è stata incastrata, a partire dalla sua scrittura, frettolosamente definita chirurgica o, peggio ancora, fredda da chi non riesce a vedere quanto fuoco ci sia dentro la ricerca viscerale e inesausta della parola giusta. Non la più bella, non la più d’effetto, ma la parola che arriva al termine di una ricerca carnale e razionale insieme. Ernaux scrive con il corpo, un corpo che è stato di figlia, di madre, di non-madre, di amante, di moglie.

Un corpo venuto al mondo in sostituzione di un’altra bambina morta, come lei stessa ha raccontato (L’altra figlia); un corpo che ha attraversato l’adolescenza ritenendo doveroso inondarla di spudoratezza e di vergogna (Memoria di ragazza); che ha interrotto una gravidanza quando era illegale farlo (L’evento) e che si è messo nei panni, quindi nei corpi, di entrambi i genitori, la madre (Una donna) e il padre (Il posto), per ripercorrerne la storia attraverso gli stessi passi, ma all’indietro, con l’esattezza e la colpa di chi ha tradito la propria classe sociale.

Perché Ernaux, altrettanto erroneamente scambiata per una narratrice dell’intimismo, è in realtà una scrittrice che non prescinde mai dalla consapevolezza, oggi non così frequente, della specificità delle classi sociali e delle possibilità grandi ma schiaccianti della mobilità tra esse. Così Annie Ernaux polverizza la retorica, l’epica del riscatto sociale. La scrittura non è riscatto: è un tradimento del posto da cui si viene, eppure se non ci fosse non ve ne sarebbe racconto.

Scrivo queste righe su di lei, lo ammetto, presa da una gioia elettrizzante, quella di quando si festeggia insieme una grande scrittrice e una grande persona.

Nel 2016, quando il mio primo romanzo, “Gli anni al contrario”, uscì in Francia, chiesi all’editore francese di inviarlo ad Annie Ernaux. Era un sogno che ritenevo più che altro un po’ infantile, un desiderio mio di poter sognare che la mia scrittrice contemporanea preferita sfiorasse un mio libro anche solo per cestinarlo. Poi non ci pensai più. Non avrei mai pensato che lei potesse davvero leggerlo e rispondermi con un biglietto scritto di suo pugno. Mai. E invece accadde esattamente questo, pochi mesi dopo.

Così quando poi nel 2018 scrissi il mio secondo romanzo, “Addio fantasmi”, chiesi con un po’ più di coraggio di farglielo avere in anteprima. Mi accolse a casa sua, vicino Parigi, e discutemmo a lungo in un bellissimo dialogo che fu pubblicato sull’inserto culturale di un quotidiano.

Avevo incontrato tanti scrittori fino a quel momento e in nessuno avevo incontrato una simile attitudine alla curiosità e all’ascolto. Ernaux viveva in una casa accogliente e discreta, immersa nel verde, piuttosto isolata, lontana dalla città ma non così tanto da porsi presuntuosamente come eremita. Viveva nel mondo, ma distaccata quanto bastava per osservarlo con la giusta distanza.

Nella sua biblioteca c’erano diversi autori contemporanei, anche italiani. Parlammo soprattutto di Cesare Pavese, condividendo l’amore per la sua lucida tristezza, e parlammo anche di come guardare dentro la vergogna può portare al punto più vertiginoso della scrittura. Ridemmo anche molto, per piccole cose confidenziali: raramente mi sono sentita così a mio agio con qualcuno così importante, anche se poco prima di partire per la Francia ero talmente emozionata che corpo e psiche mi avevano fatto uno scherzo facilmente decifrabile. Mi era del tutto sparita la voce. Avevo preso l’aereo imbottita di cortisone, ma il mio parlare era comunque “sbrafato”, come si direbbe in siciliano.

Sono qui in aeroporto, in mezzo alla folla e ai rumori, un po’ troppo per scrivere qualcosa di sensato. Nell’attesa della coincidenza chiudo gli occhi e scandisco la mia vita attraverso i libri di Annie Ernaux.

Ce n’è uno solo che mi manca tra quelli tradotti in italiano, è l’ultimo e ho voluto conservarmelo per un momento speciale. Lo inizierò domani, o forse stanotte, ora che tutto brilla e anche quel titolo si può scandire dandogli un significato completamente diverso: guarda le luci, amore mio.

Un evento. Annie Ernaux ha saputo raccontare le donne e le ha liberate dalla vergogna. Benedetta Barone Linkiesta il 6 Ottobre 2022.

Dall‘adolescenza alla maternità all‘aborto, la scrittrice vincitrice del premio Nobel per la Letteratura ha disinibito esperienze femminili rimaste finora vittima del rigido protocollo morale in cui viviamo

Durante l’ultima edizione del Salone del libro di Torino, sotto i soffitti dei capannoni della fiera Lingotto, una asettica e compatta folla di persone sostava davanti alla Sala Azzurra, in trepidazione, come in attesa di una star del cinema.

E in effetti, già allora Annie Ernaux era un’icona per il pubblico letterario, una figura dai tratti quasi mitici di cui conosciamo ogni più recondito segreto, ogni svincolo esistenziale da lei raccontato, ripetuto e esposto nei suoi libri – privi tuttavia degli echi morbosi che di solito suscita chiunque parli di sé in prima persona con quella disarmante onestà, soprattutto se donna. «È lei, è qui», si vociferava in un’eco smorzata.

Quando poi è apparsa – bionda, lenta, a prima vista fragilissima, l’aria vagamente spaesata – si sono alzate verso l’alto fila di braccia nel tentativo di porgerle un saluto, di attirare la sua attenzione, il suo sguardo.

L’intera redazione de L’orma – la casa editrice che dal 2014 la pubblica in Italia – ha dovuto farle scudo per consentirle un accesso, un corridoio, serrato a destra e a sinistra da pareti di cellulari puntati nella sua direzione. Era lì per ricevere il Premio Mondello e già allora si pettegolava a proposito del Nobel, partivano pronostici, scommesse. Ieri su Instagram abbondavano le griglie di percentuali che puntavano sui presunti vincitori: sarà Rushdie? Murakami? Houellebecq? O lei?

Chissà perché poi tanta affezione collettiva per l’autrice di punta di una patria con la quale siamo storicamente in competizione, quasi volessimo contendercela, attribuirle un nostro marchio, una nostra radice. A inserirla nell’immaginario nazionale sono state senz’altro le copertine ruvide dai toni pastello, i laconici titoli in grassetto e soprattutto il traduttore Lorenzo Flabbi, che ha avuto il merito di lanciarla nel nostro Paese e che lei quel giorno a Torino seguiva, cercava come un’ombra.

Il 7 marzo è uscito in libreria “Guarda le luci, amore mio” e a luglio del 2021 un saggio di Simone de Beauvoire dal titolo “La femminilità, una trappola” con in calce uno scritto di Annie Ernaux: “Il «filo doppio» che mi lega a Simone de Beauvoir”, ribadendo il concetto già espresso in diverse sue opere, quell’eredità evidente per chiunque le abbia lette entrambe, riconoscibile nello stile oggettivo e chirurgico delle studiose e al tempo stesso ridondante di echi autobiografici.

Sia Ernaux che de Beauvoire sono figlie delle proprie esperienze, non riescono a prescinderne al punto da elevarle a depositi cognitivi dell’epoca che abitano. Le loro infanzie, le loro adolescenze confluiscono rispettivamente in “Memoria di una ragazza perbene” apparso in Francia nel 1958 e in “Memorie di ragazza”, pubblicato dall’editore francese di Ernaux nel 2016.

La condizione femminile di cui prendono coscienza affonda gli albori in contesti insospettabili, reazionari, cattolicissimi, proletari nel caso di Ernaux: il bar-drogheria nel quale è cresciuta è scivolato ormai in una comune memoria, potremmo descriverne gli infissi, il tavolo da lavoro su cui la madre faceva di conto a fine giornata, la scala che portava alle camere da letto, il banco su cui gli avventori si fermavano a bere un bicchiere, i rumori, gli stralci delle conversazioni, il cigolio della bilancia che pesava gli alimenti.

Ecco, forse abbiamo un debito nei suoi confronti. Attraverso una scrittura raffinata, altera, severissima, Annie Ernaux ha liberato un vissuto tormentato, contraddittorio, altalenante e comune a tutte le donne. E se lo strascico è stato entusiasta in Italia più che altrove, lo dobbiamo al clima moralista e censorio nel quale siamo immersi ancora oggi nostro malgrado.

Descrive i suoi tentativi di emancipazione dal nucleo famigliare e soprattutto materno con la prima esperienza fuori casa, in una colonia estiva, a soli diciotto anni, l’incontro con l’altro sesso e la ricerca di consensi maschili.

Analizza i pericoli e i rischi che ha sfiorato in questa fase, dove in lei trionfa l’identificazione con un ideale femminile frivolo, fintamente disinibito e invece carico di subalternità: «Quella che H avrebbe trovato alla colonia l’estate successiva sarebbe stata una ragazza diversa sotto ogni punto di vista, bella e brillante, che l’avrebbe lasciato di sasso facendolo innamorare al primo sguardo, cancellando il ricordo di colei che, nelle settimane trascorse tra la prima e l’ultima notte passata assieme, era saltata da un ragazzo all’altro. […](Riscontro qui il primo manifestarsi di un’aspirazione all’inaccessibilità che nella mia vita amorosa è sempre giunta troppo tardi). Per piacergli, per farmi amare, bisognava diventare qualcuno di radicalmente diverso, essere quasi irriconoscibile».

La dipendenza dalla propria immagine e il rifiuto di essa sfocia in un disturbo alimentare mai diagnosticato: «Vent’anni dopo, sfogliando per caso in biblioteca un volume sui disturbi alimentari […] avrei dato un nome a ciò che è stato lo sfondo della mia esistenza per mesi – a quell’oscenità, quel piacere inconfessabile che produce grassi ed escrementi da evacuare, sangue prosciugato – a quella forma mostruosa, disperata, del voler vivere a qualunque prezzo, anche a costo del disgusto di sé e del senso di colpa: la bulimia».

La rivendicazione cercata nello studio e nella filosofia, quella «filò» che ai tempi salvò anche Simone de Beauvoire, contesa allo stesso modo tra la sottile linea di rasoio della dispersione di sé e il rigore, la passione, l’ambizione feroci.

Il racconto spietato del proprio aborto ne “L’evento” (2019) quando ancora significava attraversare il calvario composto dall’eventuale, rara magnanimità dei medici e più spesso al supplizio fisico inferto dalle mammane, assumendosi così il merito e l’onere di esibire la condizione in cui le donne interrompevano le gravidanze prima del 1975 in Francia – 1978 in Italia.

La scomposizione del matrimonio col padre del suo unico figlio ne “La donna gelata” (2020), in cui coinvolge chiunque la legga nel più scomodo dei quesiti, nella più antica delle perplessità: come mai una donna, dal momento che diventa moglie e madre, è tenuta a rinunciare automaticamente a tutto, compresa la carriera intellettuale, anche se è sposata a un altro intellettuale? Perché è vittima inconsapevole del proprio ruolo biologico che le impone di entrare nei supermercati, amministrare la cucina, i pasti, l’accudimento di un figlio, mentre il proprio compagno ne è per le stesse, sotterranee ragioni, esentato?

«Bisogna toccare il fondo della desolazione, mangiare il più possibile fino a sera per riprendere il digiuno di buon mattino, caffè nero e nient’altro».

«È assurdo quanto la filosofia possa renderci ragionevoli. A furia di pensare, ripetere, scrivere che gli altri non ci devono servire da strumenti ma da fine, che siamo esseri razionali e, pertanto, l’incoscienza e il fatalismo sono degradanti, quella donna mi ha tolto il gusto di flirtare».

«In classe mi applico con un’energia nuova, bruta. […] Leggo Sartre, Camus, naturalmente. Quanto mi paiono meschini i problemi di vestiario, di appuntamenti deludenti. Letture liberatorie, che mi allontanano una volta per tutte dai romanzi a puntate e dai libri scritti per le donne. Che questi, invece, siano libri scritti da uomini e con protagonisti sempre maschili è un dettaglio cui non presto alcuna attenzione”.

«Perché non mi ha accompagnata al supermercato? Finisco per comprare una quiche già pronta al bancone della gastronomia, formaggio e pere. Quando sono rientrata l’ho trovato che ascoltava la musica. Ha scartato tutto con un entusiasmo da ragazzino. Le pere erano mezze marce, “ti sei fatta fregare”. Lo odio. Non mi sposerò».

Annie Ernaux ha cominciato un processo sommesso, culminato con un nuovo e diverso «Me too» ribadito a gran voce a tutte le latitudini geografiche e che oggi viene coronato dall’assegnazione del premio Nobel. Se le donne che l’hanno letta potessero parlarle, le direbbero: «Anch’io». Restituire possibilità espressiva a esperienze prima obbligate a perire dietro una coltre di imbarazzo è una conquista che riempie sempre di gratitudine.

«Prima dei pannolini, del secchiello e della paletta in spiaggia, degli uomini che non vedo più, delle riviste dei consumatori per non farsi fregare, del suo piatto preferito, il cosciotto di agnello, del reciproco calcolo delle libertà perdute. Un periodo in cui si può cenare con uno yogurt, preparare la valigia in mezz’ora per un fine settimana improvvisato, passare una notte intera a parlare. Leggere tutta la domenica sotto le coperte. Impigrirsi in un bar, guardare le persone entrare e uscire, sentirsi galleggiare tra quelle esistenze anonime. Tenere il muso senza remore quando ci si sente giù di corda. […] Tutte le ragazze l’hanno vissuto, quel periodo lì, più o meno lungo, più o meno intenso, ma guai a ripensarci con nostalgia. Che vergogna!».

Annie Ernaux, “er Nobel” dei salotti buoni. Max Del Papa su Nicolaporro.it il 7 Ottobre 2022.

“Scioè, hai sentito, hanno dato il Nobbel a la letteratura”. “Ma davero e a chi?”. “Anni Ernò”. “Chi?”. “Eh, ce o so, anch’io ho faticato per capì chi era. Però adesso famo tutte le esperte, co’ sta Meloni nun se po’ perde un colpo ahò”. “Abbà, fammaa scercà su uiki”. “Sì ma cerca bbene, se scrive Annie Ernaux eh”. “Eccola, trovata. Ah, bbene. Femminista, de sinistra, me piasce! Disce che la maternità nun je frega ncazzo, me piasce pure deppiù”. “Nun solo, vedi ‘mpo’, disce che guai a chi tocca l’abborto; e pure che non scoperebbe mai co’ ‘n fascista ma manco uno de destra moderata”. “Ma perché, tu lo conosci uno de destra moderata?”. “Ah, in Italia no, in Francia poesse”.

“Comunque allei je piasce Battisti”. “Ma chi, er cantante morto?”. “Mannò, che scema, er terrorista, sai, quello de li Pacche”. “I pacchi?”. “Mannò, oh ma sei ignorante eh, ma che te credi, da esse la Meloni? La Santachè? La Rauti?”. “No: Elodie hahahaha!”. “Disce che l’omo vero è Cesare Battisti il terrorista”. “Ah, sì, spetta, ma nun era quello che era esule perché la maggistratura italiana lo torturava?”. “Sììì, ‘o disceva pure Sansonetti. È stato in Francia, in Brasile… ‘Na vita avventurosa!”. “Ficooo, ahò”. “Sì ma poi alla fine quando l’hanno catturato a Bahia ha confessato, disce che li aveva ammazzati tutti pe’ davero quelli”. “E Annì Ernò ce ‘o sapeva?”. “Ce ‘o sapeva sì, ma oh, pure da noi: i wu minghe, Saviano… Te risulta che uno dico uno abbia detto ‘na cosa?” “None”. “E allora perché dovrebbe lei? Poi pure ‘a collega, quella, come se chiama, Fred Vargasse, pure lei era nnammorata de Scesare e mica s’è mai pentita”. “Maddeché ahò, ma pentisse de che? D’avè ammazzato quattro fasci?”.

“Abbà, aho, pure te: nun hai sentito ‘a direzzione der Piddì, s’ha da esse moderati, sinnò a le donne nun je lascieno spazio”. “Eh, abbà, cde ‘o sapemo, però pure noi, manco na scrittrice c’avemo…”. “Come no! E allora Michela Murgia?”. “Tzk. Non lo so, nun me fido tanto, troppo casinara, chettedevo da dì: a me me piascerebbe una regolare, scioè che c’ha er bechraum, come Annì”. “Eh, abbà, quelle oh, qui te ‘e sogni!”. “Qui c’avemo Littizzetto…”. “Però hai sentito che disce Annalena Benini de Annì: che parla dell’io e dà voce alla vita della voce… nun ho capito ‘n cazzo!”. “Abbà, ma quella le cose ce ‘e sa, fidamose”. “Sì però a me me pare, scioè io so annata a legge quarcosa ieri appena annunciata, de Annì, no, ebbè, me pare che sta sempre a parlà de sé, de le sue scopate, co quelli de sinistra, scioè, nun è che…”. “Zitta! Pazza! Nun le devi dì ‘ste cose! Manco penzà le devi! Oggi se deve parlà bbene di Annì, perché er personale è collettivo… no, aspè, come che se diceva? Er personale è… sosciale… Ah no ecco! Er perzonale è politico!”.

“Cioè me voi dì che Annì parlando de li cazzi sua fa politica?”. “È regolare!”. “Abbà, ma allora pure Rula. Allora pure te e io”. “Essì, bbrava, ma quella è un Nobbel!”. “Eh ma je l’hanno dato perché parla de li cazzi sua però…”. “Ahò, quanto rompi però. Senti, prova ‘sta tisana alla ortica e gramigna, che magari te calmi. Disce che la beve pure Monica Cirinnà, è ‘na mano santa! È l’urtimo grido a Prati-Parioli-Salario e pure a Capalbio. A proposito, ma secondo te, alla fine der congresso, ‘a direzzione jela danno a Elli Schlèn o richiamano a Rosi Bbindi?”. “Mah, secondo me ce rimettono ‘n’rartra vorta un omo”. “Armeno fosse fludio, tanto pe’ salvasse: oh ma possibile che ar Piddì ‘na donna de responsabbilità mai, mai, mai?”. Max Del Papa, 7 ottobre 2022

·        Antonella Boralevi.

Edoardo Semmola per corriere.it il 24 maggio 2022.

«Non posso dire di aver proprio “inventato” io la crisi del maschio moderno. Però posso dire di averla anticipata, almeno come tema di dibattito». 

Nei suoi libri ci sono sempre donne molto forti e determinate, Antonella Boralevi. Ma da qui ad aver «ucciso» la virilità, ce ne passa di acqua sotto i ponti… 

«Non mi riferivo tanto ai romanzi, quanto al lavoro in televisione. Anche se ho voluto portare sullo schermo la mia natura di scrittrice. Pensavo a quando, nel 1994, ho inventato un talk show di approfondimento dedicato ai temi “dell’anima” che all’epoca non esisteva. Si chiamava Uomini, su Rai2. E trenta anni fa gli uomini non parlavano quasi mai dei propri sentimenti più intimi. Era considerata una cosa troppo femminile».

Con lei gli uomini si aprivano?

«In una puntata Luciano Pavarotti mi raccontò che non voleva più stare con sua moglie (Adua Veroni, la prima moglie), in un’altra Maurizio Costanzo mi disse che avrebbe voluto un figlio da Maria De Filippi... e lo disse prima a me che a lei. Se faccio la scrittrice è perché credo negli altri, nei sentimenti degli altri. È quello che voglio raccontare». 

Nel suo ultimo romanzo, «Magnifica creatura» (La Nave di Teseo) le due sorelle protagoniste sono figure emblematiche rispetto a questo ragionamento: c’è il rapporto tra loro, quello con gli uomini, il loro ruolo nella società… Ma è ambientato oltre mezzo secolo fa. Oggi il mondo è cambiato.

«La mia materia di studio è il cuore umano, da sempre. Sono profondamente interessata alle relazioni, ai sentimenti, soprattutto a quelli che non si dicono, a quella parte di emozioni che spesso teniamo segreta anche a noi stessi. Credo in quello che sosteneva il filosofo Epitteto: che il carattere di una persona ne è il destino. Questo vale per me, forse vale per tutti, sicuramente vale per i miei personaggi. Sentimenti ed emozioni cambiano in funzione di te stesso e non dell’epoca in cui hai vissuto. Ciò che cambia è la storia. E arriva il momento nella vita in cui la storia ti batte sulla spalla e ti costringe a cambiare, è il momento in cui ti ci devi confrontare. Senti le stesse cose di prima ma reagisci e agisci in modo differente. Negli anni Cinquanta e Sessanta alle donne veniva assegnato un solo destino, il matrimonio. Ma era un’Italia che credeva nei sogni e i sogni si potevano. Oggi veniamo messi alla prova diversamente».

Il tema di fondo è: credete in voi stessi. E lo è in tutti i suoi libri.

«Il saper tirare fuori la Magnifica creatura che hai dentro. Per questo ho scelto questo titolo». 

Quand’è che Antonella Boralevi ha iniziato a credere in se stessa?

«Ricordo bene quel giorno. Avevo dieci anni, stavo giocando una partita di tennis alle Cascine. E stavo perdendo 5-0 il primo set. Durante il cambio campo passo davanti alla panchina dove sedevano mio padre e il padre della mia avversaria. Sento quest’ultimo dire a sua figlia una frase tipo “ormai te la sei mangiata” e ho incrociato lo sguardo con il mio di genitore. Mi guarda fisso ed è come se gli leggessi nella mente queste parole: “Ma davvero tu glie la vuoi dare vinta”? Lì ho capito. Ci ho creduto. E non solo ho rimontato quel set fino a vincere per 7-5, ma ho anche vinto gli altri due set per 6-0 e 6-0. Perché ho sentito che lui credeva in me e quindi anch’io potevo credere in me».

Con un’immagine del genere in testa, il tennis sarà diventato importantissimo nella sua vita...

«Eccome. E infatti ci gioco ancora, anche se molto saltuariamente, per piacere e basta. Vado anche a sciare e, in mare, a vela. Ma considero queste attività solo un modo di stare bene tra amici».

E quando ha capito che sarebbe diventata una scrittrice?

«Ho sempre pensavo e immaginato di voler scrivere. Quando ero in quinta elementare, e passai dalla scuola privata a quella pubblica, fu un anno terribile, sembravo destinata alla bocciatura. Poi un giorno la maestra dette un tema sui ricordi dell’estate, e quello che scrissi mi catapultò di colpo da essere la reietta della classe all’alunna il cui tema veniva letto in tutte le sezioni. Una specie di modello per tutti gli altri. Raccontai la mia estate al Forte dei Marmi concludendo con la frase “e il mare continuò a bagnare i ciottoli sulla sabbia”. Fu allora che capii che scrivere era la mia natura. Ma i miei figli, che ho avuto molto giovane, ancora oggi mi chiedono di sintetizzare i concetti».

Aveva le idee chiare fin da piccola…

«Appena laureata in filosofia del linguaggio, una disciplina nuovissima dentro il corso di Storia della lingua italiana, il professor Giovanni Nencioni mi dette la possibilità di entrare a far parte di un gruppo di ricerca alla Normale di Pisa. Ma nel frattempo facevo la hostess a Pitti e per questo vedevo le sfilate in anteprima. Una sera mi venne di scrivere un pezzo su una di queste sfilate e andai a lasciarlo all’albergo dove sapevo che erano ospitati tutti i giornalisti. Una di loro, dopo averlo letto, mi fece una proposta di collaborazione. Quando mi trovai alla Normale e mi sedetti davanti al professor Nencioni gli dissi col cuore in gola: lascio la Scuola, voglio fare la giornalista».

Come reagì?

«Ricordo ancora la luce che lo illuminava da destra e la sua faccia. Era così bello, alto, elegante... mi guarda e dice: “Ah, ti hanno chiamato al Corriere della Sera?” Io riuscivo a fissare solo il suo calamaio, non avevo il coraggio di guardarlo in faccia. Presi forza e risposi: “No, alla rivista dei calzaturieri di Santa Croce sull’Arno”. Il mio primo pezzo si intitolava Ritrovata a Certaldo la scarpa del Boccaccio?». 

Ha avuto un bel coraggio.

«Quando decisi che volevo fare la giornalista sul serio, presi un appuntamento con il direttore di un giornale fiorentino. Il colloquio avvenne in una stanza in cui c’erano lui, il critico teatrale e una delle principali firme di prima pagina. Erano tre uomini di 50 anni. E io ne avevo 22. Rappresentavano l’establishment del giornalismo fiorentino. Ci rimango un po’ spiazzata dall’idea di incontrare tre persone, non faccio neanche in tempo a mettermi a sedere e il direttore dice agli altri due: “Eccola quella che vuol fare la giornalista, ah ah ah”. Ride eh. Ride. A quel punto dimostrare che quell’umiliazione sarebbe stata l’inizio di qualcosa di importante divenne il mio cruccio».

Qual è stato il momento in cui, guardandosi indietro, ha detto: non sono mai stata così tanto coraggiosa?

«Quando ho aspettato per tre giorni di essere ricevuta da Giovanni Minoli in un corridoio della Rai, per avere la possibilità di fare Uomini. Aspettai tutta una mattina, un intero pomeriggio, poi un’altra mattina, un altro pomeriggio... Finché a un certo punto mi ha aperto la porta. Disse di aver pensato “questa deve avere davvero qualcosa da dirmi, sennò non sarebbe così caparbia”». 

E il momento in cui guardandosi indietro ha pensato: non sono mai stata così tanto codarda?

«Non è mai successo. Mai avuto un momento di debolezza. Mi sono sempre presa tutti i rischi». 

E il momento in cui ha pensato di essersi illusa?

«Gli uomini non mi hanno mai illusa. Ma alcune donne sì: sembravano amiche ma erano in grado di farmi davvero male, nella carriera. E lo hanno fatto. Ricordo una redattrice che di punto in bianco smise di pubblicare le mie interviste, e alla quarta volta andai a protestare dal direttore. Per dimostrargli che questa persona mi stava boicottando, che voleva distruggere la mia reputazione».

Gli uomini non l’hanno mai illusa, ma l’amore?

«La parola amore non la considero “neutrale”, ed è troppo abusata in quest’ultimo ventennio, la adoperiamo per mascherare ogni tipo di bassezza, dall’omicidio al tradimento dei principi e della fiducia. Non ho mai avuto delusioni d’amore, casomai delle aperture mentali: mi hanno fatto capire che in una relazione il rapporto non è con l’altro ma con te stessa».

Scelga un anno, nel corso della sua vita, che per qualche motivo considera uno spartiacque.

«Quando sono venuta a vivere a Milano, lasciando Rai 2 per andare a Rete 4, che allora era solo il canale delle telenovelas e volevano farla diventare una rete di approfondimento con il programma Linee d’ombra, un talk show sui temi del perdono, della malattia, della solitudine, dell’amore e del tradimento, in cui si parlava di padri e di figli, di adozioni, dove sono venuti la mamma di Marta Russo e l’uomo che portava il suo cuore nel petto. Siamo alla fine degli anni Novanta e scoprii che la vita milanese era molto diversa da quella fiorentina. Perché quando lavoravo in Rai a Roma rimanevo comunque a vivere a Firenze. Poi, non fu più possibile».

·        Antonio Canova.

Antonio Riello per Dagospia il 27 novembre 2022.

Museo Civico Piazza Garibaldi 34, Bassano del Grappa fino al 26 Febbraio 2023 

Il Museo Civico di Bassano del Grappa, diretto da Barbara Guidi, dedica una mostra ad Antonio Canova (1757-1822) nato a Possagno, un piccolo paese della provincia di Treviso che dista pochi kilometri. 

Un personaggio originario della provincia oscura che diventerà estremamente popolare tra le èlite europee del tempo. Un artista di assoluto prestigio: corteggiato, riverito, coccolato e ben pagato.

Ci si può azzardare di definirlo, in poche parole, "un Jeff Koons" di fine Settecento. Un artista raramente lirico, sempre concretamente legato ai materiali e alla loro lavorazione. Nel suo lavoro non c'è molto posto per il dramma, tutto sembra in qualche modo gestibile e illuministicamente ragionevole. Per gente come lui il duro lavoro e l'ingegno sembrano capaci di vincere qualsiasi sfida. Anche se passa molto tempo a Roma e a Vienna rimane un figlio della sua terra. 

La "composta perfezione" neoclassica finisce per assomigliare molto a quel senso di calmo understatement che accompagna il vissuto di molti Veneti. E fa immaginare il miracolo economico del Nord Est con circa due secoli di anticipo. Canova era un genio creativo con uno spiccato senso degli affari e al talento sapeva associare una attitudine decisamente prosaica.

Aveva organizzato, per la prima volta nelle vicende dell'Arte, un sistema per far recapitare dei cataloghi con le sue opere (dove evidentemente c'erano delle incisioni al posto delle fotografie) ai potenziali committenti. Sviluppa insomma tecniche di marketing artistico all'avanguardia. Sapeva parlare fluentemente sia l'Inglese che il Francese. Il suo studio romano, in Via delle Colonnette, diventa una delle tappe consigliate di Roma per gli stranieri che potevano permettersi il privilegio del cosiddetto Grand Tour. Lo stesso Stendhal ne tesse generosamente le lodi.

Canova è un artista per tutte le stagioni. lo stile sopraffino che inventa risulta molto plastico rispetto ai poteri costituiti. Con sorprendente sincerità sa essere credibile per la laica e parsimoniosa aristocrazia Veneziana e poi, senza alcuna difficoltà, anche per la fastosa ed esigente corte papale di Roma. Rapidamente si adegua al vento della Storia e diventa l'artista di famiglia dei Buonaparte, senza peraltro mai "tradire" veramente i potenti Asburgo d'Austria con cui flirta a lungo fino a diventarne, dopo la sconfitta di Napoleone, l'artista di fiducia. Il tutto ovviamente senza trascurare affatto le vigne e gli affarucci che continua ad avere nella natia Possagno. 

La mostra di Bassano raggruppa un bel malloppo canoviano (che proviene da tutto il Mondo) di disegni, bozzetti, sculture in gesso e in marmo. La  scultura in marmo della "Maddalena Giacente", proveniente dal Regno Unito, costituisce una vera novità per il pubblico italiano. A complemento ci sono anche dei magnifici quadri fatti da altri artisti dell'epoca come, ad esempio, quelli che raffigurano Napoleone in vesti imperiali (di Francois Gérard) e Giuseppina Beauharnais (sempre di Gérard). E soprattutto un bel ritratto di Canova stesso fatto dalla collega Angelica Kauffmann (1741-1807).

I disegni e i piccoli bozzetti in terracotta del Canova sono espressioni spontanee e vibranti, meno controllate e rifinite di altre tipologie di lavori. 

Molto più in sintonia con il nostro attuale gusto. Un'atmosfera da "non-finito" che sembra virtuosamente allontanarsi dalla apollinea perfezione dominante. Ma certo anche le statue dei due enormi pugilatori  ("Damosseno" e "Creugante", quasi "brutalisti e direttamente ispirati dalle statue Romane di Montecavallo), sono in qualche modo più vicini alla nostra sensibilità rispetto alla levigata statuaria che rappresenta lo standard neoclassico per eccellenza.

Di rassegne sul Canova ne sono state fatte parecchie in passato. Questa, che sa essere nel contempo spettacolare e informativa, trova la sua principale ragion d'essere nel trattare aspetti poco celebrati della sua attività. 

L'artista infatti era anche un intellettuale a tutto campo, un collezionista d'arte ed un bibliofilo. Si possono vedere alcuni dei quadri che possedeva. Superbo l'ovale di GianBattista Tiepolo (conservato nelle Gallerie dell'Accademia di Venezia). Sono presenti sue lettere, diari e libri della sua biblioteca personale. Dimostra di aver una visione che andava ben oltre le logiche artistiche accademiche. 

 La sua avventura come diplomatico/plenipotenziario del Metternich al Congresso di Vienna per recuperare le opere d'arte sottratte dalle truppe napoleoniche all'Italia (e portate a Parigi) è altrettanto interessante e poco nota. I Cavalli di San Marco sono tornati a Venezia grazie a lui. Non ce l'ha fatta invece con l'enorme tela di Paolo Veronese che era nel cenacolo di San Giorgio Maggiore, "Le Nozze di Cana" (1563) che continuano ad essere ospiti del Louvre. Alcune opere recuperate in questo contesto si possono ammirare a Bassano. Notevoli i quadri di Agostino Carracci e la deposizione di Paolo Veronese. Davvero m-a-g-n-i-f-i-c-o un dipinto di Guido Reni: "La Fortuna" (1623). 

La Modernità dell'Arte è iniziata con Canova? Forse è eccessivo attribuirgli questo titolo. Ma si può dire, con una certa sicurezza, che Canova con la sua laboriosa tranquillità ha contribuito a traghettare l'Arte Europea fuori dalle secche accademiche e polverose nelle quali da tempo era arenata. E' stato senz'altro il prototipo dell'intellettuale-artista brillante e di respiro internazionale.

Così gli amori di Canova si trasformavano in capolavori di marmo. Il saggio di Vittorio Sgarbi ricostruisce il percorso del controverso genio neoclassico. Vittorio Sgarbi il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.

Fu nel marzo del 2017. Ero a Cremona, per vedere alcune opere in una casa di campagna a San Felice. La bella architettura neoclassica a fianco del Santuario era ricca di notevoli decorazioni e di quadri, ma era nei modesti ambienti di servizio del piano superiore che mi attendeva una inattesa quanto sorprendente scultura. Davanti a me era, di incredibile nitore, in marmo statuario di Carrara, un busto di donna, con i capelli raccolti in un nastro, firmato sul retro ANT. CANOVA. F. A. 1811.

Un'opera del tutto inedita del grande scultore, al tempo della Venere italica che aveva fatto dire a Ugo Foscolo: «Io dunque ho visitata, e rivisitata, e amoreggiata, e baciata, e, ma che nessuno il risappia, ho anche una volta accarezzata, questa Venere nuova... Se la Venere dei Medici è bellissima dea, questa ch'io guardo e riguardo è bellissima donna; l'una mi faceva sperare il paradiso fuori di questo mondo, e questa mi lusinga del paradiso anche in questa valle di lacrime».

Alla Venere italica fu riservato con tutti gli onori il posto del capolavoro perduto degli Uffizi, la Venere Medici. Sebbene fosse stata spedita per sicurezza da Firenze a Palermo, e affidata in custodia ai Borboni di Napoli, l'Afrodite Medici, tra le più celebrate statue della Grecia classica (la sua presenza è documentata per la prima volta nel 1638 a Roma, a Villa Medici, da cui il nome) era stata sottratta dai commissari francesi del Direttorio che la inviarono a Parigi per volere di Napoleone. Inizialmente, il re d'Etruria, Ludovico I di Borbone, valutò di commissionare a Canova una semplice copia ma l'artista preferì eseguire un'opera nuova e del tutto originale, secondo il precetto condiviso con Andrea Chénier: «Facciamo versi antichi su pensieri nuovi». Una Venere rinnovata, non duplicata. E quando la Venere Medici tornò a Firenze, la nuova Venere di Canova venne trasferita a Palazzo Pitti, dove ancora si trova.

La scultura cremonese appartiene, dunque, al momento più alto della maturità di Canova che, l'anno dopo, nel 1812, iniziò anche le Tre Grazie.

Nella stessa primavera del 1812, Canova conobbe la giovane Minette Armendariz nella primavera del 1812, a Firenze. L'immediata affinità con la donna spinse il marito di lei, il barone Armendariz, a proporre lo scioglimento del loro matrimonio. Il proposito declinò di fronte alle incertezze di Canova, restio ai legami duraturi, anche se i due coltivarono fino alla fine una intensa corrispondenza.

«Lei era una giovane donna, lo scultore invece aveva già cinquantacinque anni. Tra i due ci fu senz'altro un legame. Minette si innamorò, mentre è probabile che Canova la considerasse semplicemente come la figlia che non aveva mai avuto», scrive Francesco Leone nella sua recente monografia sull'artista. Il 24 settembre di quell'anno Canova rivelò a Cicognara che aveva soggiornato a Firenze: «Ed io vi porto invidia alla cara compagnia... di Minette. Oh! Perché non lo seppi io per tempo, che vi avrei pregato a studiare e penetrare nel più intimo seno di quell'anima di paradiso! A voi, che siete appassionato per le belle e virtuose creature, avrebbe fatto tenerezza e meraviglia la cognizione interna delle virtù e delle adorabili qualità di cuore di quella nostra carissima amica. Per me vi giuro che non ne ho trovata l'eguale; e ci giocherei anche la vostra amicizia che non v'è al mondo una creatura che la sorpassi in candore e bontà veramente di angelo».

Ma, prima di partire nel 1812 per Firenze, Canova fu attratto da un'altra donna, Delphine de Custine, arrivata a Roma nei mesi del carnevale. I biglietti manoscritti di lei, conservati nel Museo di Bassano, iniziano nel febbraio e durano fino al 1816, sempre pieni di fervidi sentimenti.

Un'altra donna infiammò in quegli anni il cuore di Canova. Considerata la donna più bella di Francia e immortalata da David nel celebre ritratto, Juliette Récamier era stata costretta da Napoleone a lasciare Parigi nel 1811, anche per la sua amicizia con Madame de Staël. La Récamier arriva a Roma nella Pasqua del 1813. Nelle sue Memorie d'oltretomba Chateaubriand scrive che Canova la accolse la prima volta nel suo studio, «comme une statue grecque que la France rendait au Musée Vaticain». Iniziò così una frequentazione quotidiana: ogni mattina Canova le recapitava un sonetto del suo fratellastro, Sartori¬Canova. Le lettere della Récamier sono oggi nel Museo di Bassano e testimoniano il legame immutato tra i due, anche dopo che la donna si volse all'amore per Benjamin Constant e Chateaubriand.

Canova, che la frequenta e l'accompagna, le propone un ritratto che esegue nell'inverno 1814 (modello originale in gesso a Possagno; marmo, come Beatrice, ai Musei di Lione). Benché Sainte-Beuve scriva che «le marbre de celui¬ci... cette fois, pour être idéal, n'eut qu'à copier le modèle», la prova non finì bene per Canova, perché la vanitosa Récamier non gradì affatto il busto. In effetti il ritratto della Récamier, forse perché così sentito dall'autore, è un capitolo particolare, in un certo senso preromantico, nella ritrattistica canoviana. Attenuata l'idealizzazione spersonalizzante, Juliette è stata raffigurata non come una dea olimpica, ma come una rubiconda matrona romana, quasi un Pompeo al femminile. Il leggendario collo della donna, lungo e sottile nel ritratto di David, si è accorciato e appesantito nel busto di Canova. Certo, la Récamier non era più la ragazzina di oltre dieci anni prima; da un Canova innamorato, se non era proprio la maturità fisica di Juliette ad attrarlo, pareva comunque lecito attendersi qualche disponibilità all'idealizzazione.

In questa temperie, nel volgere degli anni della sua coerente ispirazione muliebre, nasce il busto di donna per Gaetano Bolzesi, di intatta purezza espressiva, con il vario agitarsi dei capelli: i riccioli che scendono sulla fronte e sulle tempie dalla scriminatura, il denso e disordinato muoversi delle ciocche raccolte dal nastro, con una naturalezza raggiunta dopo diverse prove. C'è un coerente idealismo che convive con un'inedita sensualità in questa invenzione particolarmente viva.

Canova, in quel 1811, eletto principe dell'Accademia di San Luca, al culmine dei pubblici riconoscimenti, sembra turbato dal richiamo dei sensi e dal riaffacciarsi nella piena maturità, dopo averlo soffocato nella operosa giovinezza, del piacere «il più dolce e a lui più desiderabile di riamare amanti donne». E questa condizione rispecchia nella nuova scultura, mentre timidamente si riaccendono i sensi per fantasmi femminili che hanno, di volta in volta, in quel tempo ritrovato, il volto di Minette, di Delphine, di Juliette. L'amore agita e anima quel marmo. A queste si aggiunge ora felicemente la testa ideale per Gaetano Bolzesi.

Bicentenario dalla morte: così Canova torna a vivere. Vittorio Sgarbi il 17 Luglio 2022 su Il Giornale.

Lo scultore neoclassico fu stroncato da Longhi. Ecco il lungo percorso per riuscire a salvarlo.

Nel 1947, Roberto Longhi, il più grande critico d'arte di quel tempo, scrive una seconda Officina ferrarese, dieci anni dopo: è il Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, che è il modo in cui lui viene commentando le opere esposte da Rodolfo Pallucchini nella grande mostra a Venezia del 1946. Pallucchini ha tirato fuori dai depositi le opere, come La tempesta di Giorgione, che erano state protette con i sacchi, e nascoste a Sassocorvaro e altrove, per salvarle dalla violenza della guerra. Longhi nel suo libro dice cose bellissime su molti artisti Bellini, Rosalba Carriera, Canaletto, Bassano e cose bruttissime su Tintoretto e su Tiepolo. Ma il giudizio peggiore è per Canova: «E alla fine, tutto finito, non resta che Antonio Canova, lo scultore nato morto, la cui mano è all'Accademia, il cui cuore è ai Frari, e il resto non so dove». Un epitaffio. Ucciso Canova per sempre. In effetti la mano di Canova è all'Accademia, il cuore è ai Frari nel monumento suo, e il resto non sappiamo dove sia, sarà sepolto a Possagno. Ecco, quest'uomo è spezzato, distrutto come la sua gipsoteca. Che fare? Come mettersi contro Longhi? A quel tempo aveva già insegnato a Bologna e stava per andare a Firenze; era il più prestigioso critico d'arte, amato dai giovani, ed era stato vicino anche alle avanguardie futuriste. Il fascismo aveva guardato alla rivalutazione del mondo classico con un'attenzione forse convenzionale, ma senza discussione, anche per Canova. Ora la tempesta improvvisa, peggio delle bombe: Canova viene ucciso da Longhi.

Dieci anni dopo questa stroncatura, nel 1957, si celebra il centenario della nascita di Canova, nato nel 1757, con una mostra ai Musei Civici di Treviso. La mostra è concepita sotto lo spettro di Longhi, tra fantasmi e maledizioni, e il direttore Luigi Coletti deve trovare una soluzione. Che troverà impaginando una mostra di fotografie. Solo fotografie, non le opere.

La mostra era costituita di fotografie di marmi prevalentemente e di gessi, fatte dallo studio del fotografo Fini, ed esposte nel Salone dei Trecento. Era un modo per riassumere come in un sussidiario l'arte di Canova senza spostare il fondo di Possagno, senza poter far arrivare marmi dai vari luoghi del mondo, dall'Inghilterra, dalla Russia, da Roma, rappresentando però compiutamente la sua opera. L'allestimento fa una certa tenerezza. Siamo nel 1957. Ci sono le tende, queste grandi fotografie, e poi piantine per terra da salotto borghese.

È singolare, perché se c'è un autore che è adatto ai fotografi questo è Canova, che trova la quasi inevitabile continuazione della sua visione così ferma. La fotografia rende immobile l'immagine e la ferma come in una condizione di morte. Se vediamo una fotografia mia di trent'anni fa sono un altro. Lo diceva Leonardo Cremonini: la pittura rappresenta la vita, vedi gli Impressionisti, vedi Bellini, Venere, vedi un pittore del Cinquecento, vedi Tiziano. È viva, quella Venere. La fotografia immobilizza il tempo e lo ferma in un momento che è quello. L'ultimo, rigoroso, è stato Mimmo Jodice, che ha ritratto le forme con un atteggiamento molto solenne e abbastanza funerario. L'ultimissimo, appassionato, è Fabio Zonta, che ha stabilito una fonte sola di luce, creando una possibilità di lettura attraverso la fotografia che insiste su un fatto: anche se tu fai una foto a colori di Canova, risulta in bianco e nero. Il bianco e nero è il colore di Canova. Prima di lui Paolo Marton inventò qualcosa quasi di psichedelico, delle strane luci rosa, viola, che sono anticanoviane ma che in qualche modo lo attualizzano. E poi, le foto tormentate di Luigi Spins, e le foto di Aurelio Amendola, grande fotografo di Michelangelo che io ho voluto applicare alle sculture di Canova.

Coletti, nel discorso pronunciato allora, ma non pubblicato, all'inaugurazione del 15 settembre del 1957, ora raccolto e trascritto da Fabrizio Malachin, fa riferimento al precedente momento celebrativo, il primo, quello del 1922, all'inizio del fascismo. Non era in discussione la grandezza di Canova, anzi funzionava abbastanza con il fascismo, quindi quella celebrazione, di cui non so lo sviluppo espositivo, dovette andare bene. Il secondo andò male perché, tra il 1922 e il 1957, c'era stata la ghigliottina longhiana. E Coletti dice: «Sono passati trentacinque anni da quando fu celebrato il primo centenario della morte di Antonio Canova con solenni manifestazioni». Siamo nel 1922, cioè esattamente cento anni fa, con le celebrazioni del primo centenario della morte. Il secondo centenario della nascita è invece quello dell'imbarazzo. Qui comincia l'ansia, la malinconia. Quest'uomo elegante, nel suo doppiopetto, che non sa cosa fare e non sa cosa dire e ha davanti il giudizio severissimo, mortale, crudele, sadico, cinico, di Longhi. «E tuttavia il centenario odierno cade in un momento che vorrei dire di inquietudine critica, lo scultore nato morto, per una recente sentenza sommaria, più che di condanna di scherno, ciò che forse è anche peggio, di apprezzante disinteressamento. Giudizio che potremmo anche fingere di ignorare se non fosse pronunciato da uno studioso che non è solo uno dei critici più geniali e più quotati, ma anche uno dei direttori di gusto più ascoltati oggi, specialmente dai giovani. Giudizio che non ripeto perché altri già hanno risposto con autorità. Vi ha risposto indirettamente la Bassi». Elena Bassi era una studiosa veneta, più corretta di Longhi, molto tradizionale, legata alle ricerche d'archivio e alla pubblicazione di cose inedite. «Vi ha risposto il Lavagnino», altro studioso importante, «nel mettere così vigorosamente in rilievo la figura del maestro. Vi ha risposto soprattutto apertamente il Fallani, nel suo libro chiaro, con una coscienza tranquilla, con il titolo di un capitolo: Lo scultore nato vivo». Certo, era il modo per rispondere allo scultore nato morto. Il gioco di parole su cui si scontrano due posizioni. «Eppure quella voce che certo non si può spendere col solo entusiasmo apologetico», cioè la voce di Longhi, «ci punge e ci inquieta onde, quasi turbati nella fede, cerchiamo il solito fondamento di un razionabile obsequium, non temendo di porci la domanda: fu vera gloria?». Quindi nel 1957 stavano per dire «ma chi è questo Canova?». «Fu vera gloria? Il problema è ancora aperto. Non attendetevi da me pertanto un panegirico di circostanza, ma un tentativo di riesame critico, un'indagine quanto più è possibile serena e obiettiva della quale troverete le prove nella mostra che tra poco visiteremo», precisa il Coletti.

È questo il momento in cui comincia il riscatto canoviano, cioè quella fortuna critica che ha portato, tornando ancora indietro, al 1911, la prima storica monografia di Vittorio Malamani, una monografia importante, solenne, un po' retorica, che comunque dava a Canova il rilievo di un grande artista antico; poi, nel 1922, alle prime celebrazioni. Nel 1946 c'è stato Longhi, nel 1957 la mostra trevigiana, e poi si arriva alla seconda metà del secolo scorso con una serie di avanzamenti molto significativi. Mario Praz fu il primo a studiare non soltanto Canova ma anche il gusto neoclassico e ad aprire un'interpretazione moderna tutta favorevole a Canova, contro Longhi. Lo accompagnò un grande studioso, seppur più teoretico che conoscitore, Giulio Carlo Argan, il quale ebbe l'intuizione di indicare, cioè che la modernità di Canova è nell'aver inventato una forma, un'idea che poi si può moltiplicare all'infinito, ovvero l'inizio del design appunto. E poi altri studiosi, fra i quali Ottorino Stefani, sulla scorta di Argan, tentarono un salvataggio dell'artista dal giudizio negativo, dividendo fra le opere fredde, quelle in marmo, le opere finite, distanti ma sublimi, legate a una visione ideale, e invece le terrecotte, di esecuzione molto più veloce e immediata, e in cui si sentiva la poesia. Quindi le terrecotte, i bozzetti, sono il primo viatico, il primo modo per rispondere a Longhi e per restituire l'idea della vita, la naturalezza, la capacità di far vibrare la materia, di Canova. È una via d'uscita, ma di lì a poco anche questo compromesso, questo tentativo di salvare il salvabile, di indicare dove Canova ha una creatività istintiva, cioè l'istinto e non lo studio, e di riferire alla attività degli allievi le opere che lui finisce ma che sono in qualche modo riproducibili, viene superato da alcuni studiosi, soprattutto non italiani, come Hugh Honour, che scrivono di Canova a tutto tondo, senza contrapposizioni, con grande attenzione e rispetto, tutto quello che oggi è il punto di riferimento di una storiografia che gli ha restituito gloria e onore. Fino a due studiosi che, su posizioni diverse, continuano e consacrano in tempi attuali la grandezza di Canova: Giuseppe Pavanello, pieno d'impegno, anche partecipando all'edizione degli scritti di Canova, e Fernando Mazzocca, altro canoviano illustre. Oggi il suo allievo, Francesco Leone, ha pubblicato l'ultima e completa monografia su Canova per Officina Libraria.

Si può dire che negli ultimi anni la critica abbia voltato le spalle a Longhi e la storiografia lo abbia riconsacrato. Dopo Honour tutti gli studiosi, a partire da Elena Bassi, danno a Canova il più alto grido. E così la vicenda finisce. È nata in maniera un po' drammatica, e oggi, con le celebrazioni del 2022, si chiude questa apoteosi di riscatto dall'onta longhiana. Abbiamo salvato Canova.

Pierluigi Panza per il Corriere della Sera il 7 maggio 2022.

L'Italia deve ad Antonio Canova (1757-1822) la restituzione di molti capolavori che erano stati sottratti da Napoleone e nel secondo centenario della sua morte ciò rende celebrare il maggior scultore europeo dell'Ottocento ancor più doveroso. In questi giorni sono almeno quattro le mostre che si possono visitare su di lui, tanto che si può parlare di un Supercanova, sebbene si debba lamentare la lentezza con la quale procede l'edizione nazionale dei suoi scritti.

Canova e il dolore. 

Le stele Mellerio, il rinnovamento della rappresentazione sepolcrale (sino al 5 novembre, Museo Gypsotheca di Possagno, a cura di Stefano Grandesso e Francesco Leone) nasce dall'idea di Vittorio Sgarbi di riunire i due bassorilievi funerari che, tra il 1962 e il 1975, furono rimossi dalla cappella di villa Mellerio al Gernetto di Lesmo, oggi di proprietà di Berlusconi. Le stele riapparvero a Palermo nel 1978 con richiesta di esportazione in Germania. La richiesta fu bloccata dalla Soprintendenza e finirono al Museo di Palazzo Ajutamicristo di Palermo. Ora sono state ricomposte a Possagno (dove si conservano i due gessi) anche con i successivi bassorilievi che il conte Mellerio fece eseguire dallo scultore De Fabris dopo la morte di Canova, portati anch' essi a Villa Gernetto da dove furono rimossi nell'Ottocento.

Il risultato è un risarcimento monumentale sul quale si vorrebbe aprire il dibattito se possa essere stabilmente mantenuto. Canova lavorò a questi bassorilievi funerari dal 1812 e nell'agosto del 1814 li inviò a Lesmo. Interpretò, foscolianamente, il tema della morte con due donne in piedi come personificazioni della Pietas. In quella a lei dedicata è scolpita Elisabetta Castelbarco, moglie di Giovanni Battista Mellerio, il cui padre fu il primo amministratore della Scala. L'altra stele fu realizzata in memoria dello zio del conte Mellerio, Giambattista. 

Sgarbi, che è presidente del Museo Gypsotheca di Possagno, ha promosso anche una seconda operazione. Ha prestato il gesso della Pace di Canova, la cui versione in marmo è a Kiev (ora nascosta per evitare che venga bombardata), a Firenze. Sarà in mostra a Palazzo Vecchio dal 10 maggio in Antonio Canova. La pace di Kiev, l'arte vince sulla guerra .

«Quest' opera - racconta Sgarbi - indica una contraddizione, perché è stata concepita da Canova nel 1811-1812, realizzata nel 1815 per un principe di San Pietroburgo che è morto prima di vederla e che se l'è fatta realizzare avendo ammirazione per Napoleone. 

E Napoleone cosa ha fatto? Ha attaccato la Russia, come ha fatto oggi Putin con l'Ucraina». La scultura in marmo restò a San Pietroburgo fino al 1953 quando Krusciov, che era ucraino, la spostò a Kiev. Canova è stato un artista apprezzato in tutta Europa e che, pur con oscillazioni, ha cercato di porsi al servizio della pace. 

Nell'instabile scenario di primo Ottocento fu apprezzato dai Papi, da Napoleone, da inglesi, austriaci e russi. Nato a Possagno in provincia di Treviso, la sua terra lo celebra dal 13 maggio (fino al 25 settembre) nel Nuovo Museo Bailo di Treviso con l'esposizione Canova gloria trevigiana. Dalla bellezza classica all'annuncio romantico , a cura di Fabrizio Malachin. Qui si ricostruisce l'interno di Palazzo Papafava con i quattro grandi gessi di Canova e bottega (copia dall'Apollo del Belvedere , Perseo , Gladiatore Borghese , Creugante ) e lo scultore viene interpretato come grande riferimento dell'arte trevigiana e non solo, perché sono esposte anche opere di Francesco Righetti (il bronzetto di Napoleone come Marte pacificatore di Canova ad Apsley House e a Brera) e di Andrea Appiani.

Inoltre, è sempre in corso al Museo civico di Bassano del Grappa, dove il fratellastro di Canova, il medico Sartori, lasciò le carte dello scultore (ora digitalizzate), la mostra Canova. Ebe (sino al 30 maggio). Ebe, simbolo dell'eterna giovinezza, è risorta dalle ceneri ovvero dai frammenti che all'indomani del bombardamento alleato su Bassano dell'aprile 1945 vennero raccolti come reliquie. Questi frammenti sono rimasti nei depositi per più di 70 anni perché la loro ricomposizione è stata a lungo ritenuta impossibile. Poi, la messa a punto di nuove tecnologie applicate al restauro ha permesso alla mitica Ebe di Bassano di ritrovare vita.

La “Maddalena giacente” di Antonio Canova ritrovata in Inghilterra. Vale 8 milioni di euro. Carlo Franza il 21 marzo 2022  su Il Giornale.

La notizia è del Daily Mail, e ha fatto il giro del mondo. E’ stata ritrovata in Inghilterra la Maddalena giacente di Antonio Canova. La scultura era stata acquistata vent’anni da una coppia a 6 mila euro per arredare il giardino, poi, incuriositi da alcune voci che l’attribuivano al grande e illustre scultore italiano, l’hanno fatta controllare e hanno scoperto che valeva 8 milioni di euro.

Quando una coppia di inglesi ha acquistato la statua che per vent’anni ha arredato il suo giardino, ha pensato che valesse di più del prezzo pagato, 5.170 sterline (6.200 euro). Oggi la loro intuizione si è rivelata vera: l’opera infatti è stata identificata come il capolavoro “La Maddalena giacente” di Antonio Canova, e andrà all’asta da Christie’s per 8 milioni di euro.

L’opera fu commissionata al grande scultore nel 1819 dall’allora primo ministro Lord Liverpool per 1.200 ghinee (oggi circa 130.000 euro). Fu una delle ultime opere del maestro italiano. La scultura in marmo, lunga 1,8 metri, fu venduta dalla famiglia di Lord Liverpool più di 20 anni dopo la sua morte, finì in una casa signorile che però fu devastata da un disastroso incendio. Anni dopo, un’eccentrica imprenditrice di Kensington, a ovest di Londra, la comprò; la statua fu ancora venduta negli anni ‘60 e infine finì agli attuali proprietari, che desiderano restare anonimi.

I due hanno deciso di far controllare la statua dopo aver sentito alcune voci che l’attribuivano a Canova, e l’hanno sottoposta a un processo di otto mesi costato “migliaia” di sterline per riportarla all’antico splendore. Ora, colleghi esperti del Canova hanno detto che era un “miracolo” che la scultura fosse stata trovata dopo che gli studiosi avevano trascorso decenni a cercarla; “È la conclusione di una storia molto particolare degna di un romanzo, di un marmo di notevole valore storico e di grande bellezza estetica prodotto dal Canova negli ultimi anni della sua attività artistica”.

Infine, resta oggi che “La Maddalena  giacente” sarà venduta da Christie’s a Londra il 7 luglio 2022. Sarà in mostra a Londra prima di andare in tournée a New York e Hong Kong. Carlo Franza

·        Antonio de Curtis in arte Totò.

Totò con la «cimice» fascista sul bavero? Dopo l’8 settembre rifiutò le proposte di Salò. Ranieri Polese su Il Corriere della Sera il 6 Settembre 2022.

Il principe Antonio de Curtis probabilmente fu costretto dal regime ad appuntarsi quel distintivo sulla giacca: pagava le sue audaci prese in giro di Mussolini nel teatro di rivista. Anche se prove non ce ne sono

Gran parte delle firme storiche del Corriere della Sera hanno scritto articoli che fanno parte della storia di questo giornale e del Paese. Dall’Archivio storico del Corriere vi proponiamo questo intervento di Ranieri Polese ripubblicato sul numero di 7 in edicola il 9 settembre

Con una smorfia carica di scetticismo e di perplessità (il classico guardare dal sotto in su di quando dice «ma mi faccia il piacere») Antonio de Curtis, in arte Totò, compare sulla quarta di copertina della rivista «Film». Sull’ampio risvolto sinistro della giacca elegante, ecco spuntare dall’occhiello il distintivo fascista, la «cimice». È la primavera del ‘43, e il giornale annuncia così il film Due cuori fra le belve di Giorgio Simonelli, interpretato dall’«irresistibile Totò, l’attore dagli scatti sorprendenti». Ora quella foto ( la vedete sotto al titolo. ndr) viene riprodotta nel libro di Alberto Anile, Il cinema di Totò (1930-45), pubblicato dalle edizioni Le Mani di Genova. Scrive Anile: «Totò è costretto a farsi fotografare con la “cimice” fascista all’occhiello».

Perché così - argomenta l’autore di questa puntigliosa ricerca sul periodo meno studiato del Totò cinematografico (sei pellicole contro le tantissime del dopoguerra) - si voleva punire l’audacia del comico che, proprio nelle riviste recitate in quei mesi, metteva alla berlina il regime di Mussolini e gli alleati tedeschi. Come? Per esempio in Volumineide (1942), dove Totò-Pinocchio ripete a Lucignolo la filastrocca del paese dei balocchi: «Qui le teste son di legno / ch’è proibito avere ingegno / chi ragiona in questo regno / non è degno di campà». O nell’ Orlando curioso (1943), dove Totò-pazzariello annunzia al popolo che «il padrone» è diventato pazzo.

SECONDO ALCUNI L’ATTORE FINANZIAVA ADDIRITTURA LA RESISTENZA DA ANTIFASCISTA MILITANTE. MA ANCHE QUI, NESSUNA CERTEZZA. SICURO È IL SUO NO ALLA CHIAMATA A VENEZIA PER LA NUOVA CINECITTÀ REPUBBLICHINA: LASCIÒ CHE CI ANDASSERO VALENTI E FERIDA

Ovviamente, questa di Totò costretto a mettere il distintivo, è solo un’ipotesi. Non ci sono prove. Così come di ipotesi, di supposizioni è fatta la versione di un Totò antifascista militante, anzi addirittura finanziatore della Resistenza.

Certo, l’idea che dietro quel ritratto ci sia un’intenzione malvagia può autorizzarla l’identità del fotografo, il tedesco Euigenio Haas, che dopo la liberazione di Roma sarebbe stato indicato come «ufficiale delle SS, spia della Gestapo, il quale celava dietro un sorriso servile la sua rabbia di belva nazista». E se è vero che la “cimice” aveva finito da molto tempo di essere un segno inconfondibile di appartenenza e riconoscimento, certo, vicino al luglio del ‘43, quelli che la portavano non erano più tantissimi. Quindi, vedere una foto col distintivo in quei mesi un po’ d’effetto lo doveva pur fare.

Un’immagine dei due attori simbolo dell’epoca fascista, Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, felicemente abbracciati a Venezia, dove parteciparono alla creazione della Cinecittà sulla Laguna della Repubblica di Salò. Alla caduta del regime furono fucilati dai partigiani a Milano il 30 aprile 1945. Lei era incinta al 4° mese

Da qui la supposizione di una costrizione, una forzatura. Era comunque innegabile il fatto che Totò, sul palcoscenico, non risparmiasse frecciate e allusioni ai detentori del potere. Si ricordano molti interventi della censura che cambiava battute del testo, che magari il comico ripristinava a dispetto mandando il pubblico in delirio. Di certo, la vera resistenza che oppose Totò al regime fu quella di rifiutare il trasferimento a Venezia dopo l’8 settembre. Quando la Repubblica di Salò aveva cercato di ricreare Cinecittà in laguna. E gli irriducibili in camicia nera (Valenti, la Ferida) erano accorsi subito al richiamo. Totò era atteso per un ambizioso progetto di film musicale, Arcobaleno, che però non vide mai la luce. E lui fece di tutto per non andare.

Molti anni dopo, nel ‘65, in un’intervista Totò ricordava: «Reagivo come potevo, col mezzo a mia disposizione. E di questo ne sono fiero...». Insofferente delle prepotenze, delle arroganze del potere, reagiva allora come avrebbe reagito nei film degli anni ‘50 e ‘60, quando a esser presi di mira erano i vizi dell’era democristiana. Antifascista, dunque, Totò? In senso lato, sì. Ma certo non di sinistra. Semmai conservatore, tendenzialmente monarchico. Non va infatti dimenticato che, proprio nei giorni in cui finiva la guerra nel mondo, Antonio de Curtis festeggiava una sua personalissima vittoria. Quella di esser riconosciuto legittimamente dal Tribunale di Napoli erede dell’impero di Bisanzio.

L’AUTORE. Giornalista e scrittore, Ranieri Polese nacque a Pisa nel 1946 ed è morto a Milano a 75 anni nell’agosto 2021 dopo una lunga malattia. Scrisse per la Nazione e l’Europeo prima di approdare, nel 1989, alle pagine culturali del Corriere della sera, pagine che avrebbe poi diretto. Sul Corriere scrisse fino al giugno 2021. Tra i suoi libri Tu chiamale se vuoi..., E per un bacio d’amor sul mondo delle canzonette. Curò l’Almanacco Guanda: nel 2013 quello dedicato alla bugia; un’arte italiana, imbrogli privati, menzogne politiche.

·        Antonio Pennacchi.

Antonio Pennacchi a un anno dalla morte: le terre di «Canale Mussolini» non dimenticano. IDA BOZZI su Il Corriere della Sera l'1 Agosto 2022.

Politica e vita privata nei temi dello scrittore «fasciocomunista» scomparso il 3 agosto 2021. Con il suo romanzo ambientato nell’Agro Pontino vinse il Premio Strega 2010

Il 3 agosto 2021 moriva a Latina, dov’era nato nel 1950, Antonio Pennacchi, stroncato a 71 anni da un infarto dopo quello che già lo aveva colpito nel 1996. Scrittore di rabbie e di delusioni, personali, generazionali e storiche, raccontò almeno due mondi, quello della propria stagione d’impegno politico, che attraversò la «contestazione» tra gli anni Sessanta e i Settanta, e la storia dell’Agro Pontino (e del resto d’Italia), dagli inizi del Novecento fino al dopoguerra e al boom economico.

La sua storia di narratore iniziò in fabbrica, nell’allora Fulgorcavi di Latina, dove l’operaio Pennacchi scrisse a penna, di notte, a fine turno, quello che sarebbe diventato il suo romanzo d’esordio, «Mammut», sulla lotta di un sindacalista e l’epica difficile del lavoro: quasi (ma non ancora) un’autobiografia, destinata a vagare tra i rifiuti degli editori (ben 33) prima di essere pubblicata nel 1994 da Donzelli. Ma Pennacchi, iscritto prima al Msi, poi al Psi, al Pci, alla Cgil — sempre insoddisfatto e spesso espulso —, decise di affondare ancora di più la penna nell’autobiografia e nella trasformazione della classe operaia, raccontando l’inquieta parabola politica personale e del Paese in un romanzo diventato celebre, «Il fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi» (Mondadori, 2003), dal quale nel 2007 fu tratto un film di successo, Mio fratello è figlio unico, diretto da Daniele Luchetti.

Ma la storia dell’Agro Pontino, delle sue genti e delle sue «rabbie», veniva da più lontano, dal primo Novecento, con la bonifica delle Paludi Pontine negli anni Venti ma anche con le grandi migrazioni dalla Bassa Padana nel territorio bonificato: il romanzo che Pennacchi pubblicò nel 2010, e con il quale vinse il Premio Strega nello stesso anno, «Canale Mussolini» (Mondadori), non è solo l’epopea di un luogo, ma un racconto dell’Italia prima e durante il Ventennio: narra le vicende di una famiglia veneta, impoverita dall’economia mussoliniana e da campagne come la «quota 90» imposta dal regime (il progetto di rivalutazione per raggiungere il cambio di 90 lire per una sterlina inglese). La famiglia in rovina viene convinta a emigrare in una terra nata dalla bonifica, ma la nuova realtà si rivela non meno difficile di quella vecchia, fino alla distruzione della guerra e alla difficile ricostruzione.

Appunto «Quota 90» è il sottotitolo di un festival che quest’anno celebra l’anniversario della morte di Antonio Pennacchi, la rassegna «Milagro» a Latina: la citazione ricorda i 90 anni dalla fondazione della città pontina (che nacque come Littoria nel 1932), ma rende omaggio anche all’affresco letterario e storico di Canale Mussolini. Mercoledì 3 agosto all’Arena del Museo Cambellotti di Latina (il museo civico in cui fu allestita la camera ardente dello scrittore), alle ore 21, il festival propone l’evento «Antonio Serata D’onore», con la proiezione video di Letture dal Canale, l’opera teatrale allestita in forma di oratorio, al Teatro d’Annunzio, il 18 dicembre del 2010, anno in cui il romanzo vinse il Premio Strega: nello spettacolo l’autore propose letture di brani del libro con gli artisti della città.

L’anniversario della scomparsa riporta in libreria anche l’ultimo libro di Antonio Pennacchi, «La strada del mare», per la prima volta proposto negli Oscar Mondadori. Riprendendo le storie di Canale Mussolini, segue la nuova generazione della famiglia Peruzzi attraverso gli anni del boom e della ricostruzione: i discendenti dei vecchi immigrati partecipano alla costruzione della «strada del mare», che collega Latina al litorale tirreno, mentre nella vicina capitale si respira la «Dolce vita» degli anni Cinquanta. Quest’anno Mondadori ha ripubblicato altri titoli di Pennacchi negli Oscar: ad aprile Canale Mussolini, parte prima e seconda, mentre a maggio sono stati riproposti il romanzo d’esordio Mammut e i racconti della raccolta «Shaw 150», in cui compaiono molti temi cari a Pennacchi, le lotte operaie, l’epopea delle bonifiche, destinati a confluire nel suo romanzo maggiore.

 Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 2 marzo 2020. A passeggiare per Latina con Antonio Pennacchi si rischia la pelle in vari modi. Perché a un passante che impreca per fatti suoi lui indirizza un «ma vaffa' tu» o perché si ferma in mezzo alla strada al culmine di un' invettiva partita dalla necessità di superare l' antifascismo e approdata all' Iliade , a Priamo e Achille «vittime e carnefici che si abbracciano, piangendo ambedue sul dolore del mondo». Maestro, azzardo timidamente, quell' auto ci stava venendo addosso. Niente. Pennacchi resta lì. «Priamo piange pensando a suo figlio Ettore ucciso da Achille, Achille lo abbraccia e piange pensando a suo padre, al suo amico Patroclo morto e pure a Ettore, che lui ha ucciso, e a se stesso, che verrà ucciso. E quindi insieme piangono sulla condizione umana, che è la stessa, a prescindere dalla parte in cui stai». Io: maestro, siamo sempre in mezzo alla strada. Pennacchi, però, sta pensando a sé «fasciocomunista» come nel titolo di un suo celebre libro, e alle botte, vere e metaforiche, date e prese stando da una parte o dall' altra. «Capisce? Io ero Achille e ho dovuto fare Achille. Tu eri Ettore e hai fatto Ettore, ma siamo uguali. È il polemos , è la legge del più forte. Allora, questo Paese deve non perdonare, ma elaborare. Invece, nel 2020, siamo ancora al paradigma antifascista». S' avvia al marciapiede, scuote il capo, avvilito. «Io parlo, parlo, e lei chi sa che scrive». Andare in giro per Latina con lo scrittore che nel 2010 ha vinto lo Strega raccontando in Canale Mussolini Latina e la sua gente, quei migranti venuti qui a domare paludi, è come trovarsi in un romanzo dal vivo. Ti mostra la Banca d' Italia dove nel '44 i tedeschi fecero saltare il caveau che suo zio svuotò con la carriola, fregando sia i tedeschi sia gli americani, e questa è la scena che apre Canale Mussolini parte seconda . Ti porta nelle piazze dove ha manifestato prima da fascista, poi da sindacalista, quando per trent' anni è stato operaio in fabbrica, e ti porta nel triangolo di vie dove si picchiava col fratello, che si chiamava Gianni, ma è Manrico nel Fasciocomunista e nel film Mio fratello è figlio unico , interpretato da Riccardo Scamarcio mentre Elio Germano fa Antonio e sempre la gente s' affacciava: «Guarda, guarda: so' i due fratelli che vanno a menasse ». Famiglia contadina, la loro. Sette figli. A Latina con Pennacchi, t' imbatti in Filippo Cosignani, che sta qui in carne e ossa e in Camerata Neandertal , nel memorabile momento in cui il Federale Finestra impone le mani sullo scrittore in sedia a rotelle e gli dice: alzati e cammina. Pennacchi ricorda: «Finestra mi aveva espulso dal Msi nel '67, perché avevo manifestato a favore del Vietnam. L' ultima volta, lo vidi qua in piazza, nel '68. Io stavo con gli studenti, ce le demmo. Dopo trent' anni, scrivo Palude in cui lo piglio in giro e lui mi manda un biglietto: "Libro stupendo". Abbiamo fatto pace».

Lei era davvero rissoso come nei libri?

«Mia madre diceva che non ero un attaccabrighe, ma un catabrighe. Catare, in veneto, significa trovare. Io uscivo e trovavo le brighe».

La volta che ne prese di più?

«A Trieste, da fascio. Sa Trieste libera, la Zona B? Mi ero portato due catene chiodate, ma i carabinieri menavano col fucile».

La Cgil la espulse perché picchiava i capireparto.

«Direi che fu perché adottavo forme di lotta che non ritenevano democratiche».

Deduco che non si è pentito .

«Senta: stavo nel Consiglio di fabbrica della Fulgorcavi, rispondevo agli operai che rappresentavo e facevo quello che dovevo fare».

La volta che ne ha date di più?

«Le ho sempre prese e ormai sono non violento. L' ultima volta, feci a botte quando m' iscrissi all' università a 40 anni. Oggi, sarei persino vegano, se non rimanessi un uomo del vecchio mondo uso a mangiare abbacchio».

Come diventò comunista?

«Finestra m' aveva cacciato, ma avevo 17 anni e l' anno dopo era il '68. Se permette, sono andato dove facevano casino. Ho fatto tutta la trafila: movimento studentesco; marxisti e leninisti; poi, Servire il popolo; Psi, Pci, Cgil».

È stato un buon operaio?

«Sono stato un bravo sindacalista. Bravo operaio lo sono diventato. I primi anni, pensavo che la priorità fosse la lotta di classe».

Oggi per chi vota?

«Turandomi il naso, ho votato Leu. Però di là c' era ancora Matteo Renzi».

Renzi non le piaceva?

«Io considero uguali tutti gli esseri umani. Credo ci sia scintilla divina anche nel filo d' erba e identità sostanziale fra me, il filo d' erba, Matteo Renzi e persino Matteo Salvini».

Che c' entra l' erba con Renzi e Salvini?

«Tutto il bene e il male che c' è in me sta pure dentro di loro. L' avversario non è un mostro alieno. La sinistra non capisce che la gente va da Salvini non per cattiveria o razzismo, ma perché al banco del mercato lui avrà pure frutta pompata, ma il Pd ce l' ha fradicia. Successe lo stesso col biennio rosso: i socialisti non avevano fatto né rivoluzione né riforme e la gente andò da Mussolini. Invece, la storia scritta dai vincitori dice che lo seguirono costretti con la violenza, ma finché ce la raccontiamo così, non capiremo nulla dagli errori del passato».

Le stanno simpatiche le Sardine?

«Sono andato in piazza, sardina fra le sardine, perché sto dalla parte degli ultimi. So che le Sardine, come prima i 5 Stelle, sono il segno di una crisi, ma ormai ho 70 anni... Debbo solo raccontare le mie storie».

Finito Canale Mussolini , disse che era il libro per cui era venuto al mondo e si chiese «e ora che campo a fare?». Che si è risposto?

«Campo perché quella storia non è finita. Sto scrivendo il capitolo tre, ma va per conto suo e vuole diventare altro, e manca il quarto, che però ha il titolo: Declainendfoll , tutto attaccato e italianizzato da Decline and fall of the Romain Empire di Edward Gibbon. Il progetto è scrivere cent' anni di storia. Però lavoro per senso del dovere. In realtà, mi sono stufato».

Perché mai?

«Scrivere non mi piace. È una condanna. È come se quando sono nato mi fosse stato dato il compito di raccontare la mia famiglia, il podere, la nostra storia. Lo capii nel '56, in prima elementare».

E tuttavia inizia a scrivere solo a 36 anni.

«Evitavo. Non volevo. Poi, è morto mio padre, forse fu quello».

Ha detto che Canale Mussolini gliel' hanno dettato i morti: «Le voci mi arrivavano da dentro e a volte mi facevano piangere».

«Ero come posseduto da percezioni extrasensoriali. I morti facevano avanti e indietro e mi dicevano cose. Morti di famiglia, morti mai conosciuti e Gianni che se n' era appena andato. Era squassante. Ma hanno smesso».

In Camerata Neandertal scrive che la liberò un esorcismo.

«Don Mario chiamò gli angeli e gl' intimò di tornare in cielo e lasciarmi stare. A me, ordinò di nascondere le foto dei miei morti. Prima di tutto di Gianni. Ora, non è che ci credo, non so come stanno le cose nell' aldilà... Insomma, non vorrei passare per scemo, ma è per dire che la mia opera è dare voce a chi non c' è più».

Dice che non ha idea dell' aldilà, ma da bambino era felice di stare in seminario.

«Volevo diventare santo, ma con la pubertà scoprii che mi piacevano le ragazze e lasciai. Oggi so solo che l' inferno è questo qua».

Fu per le voci che andò in analisi?

«No, fu per l' infarto dopo Palude . Mio fratello diceva che era psicosomatica, io dico che è il mio tributo alla scrittura. Ogni romanzo è un malanno: Mammut due ernie, Fasciocomunista secondo infarto e tre bypass, Canale Mussolini una vertebra rotta e barre di titanio nella schiena. Però, ci sono i libri di pancia o di testa. Con i saggi non mi succede niente».

Adesso come sta?

«Pensavo che Storia di Karel , essendo fantascienza, fosse un libro di testa. Ma sempre coloni erano e scavavano canali, conquistavano la terra... Insomma: sempre Latina è. Mi è venuta l' infiammazione del tunnel carpale, la mano duole e non posso più usare il bastone».

Quanto le manca suo fratello?

«Tanto. Era un testa di... Però era forte. Aveva un bel cervello. Forse, diventai comunista per sfidarlo sul suo campo. Era una sfida continua e lui era nato cocco di mamma».

Sua madre la picchiava come nei libri?

«Non mi ha mai capito. Era sempre "Gianni sì, Antonio invece...". A volte, ancora mi chiedo chi sarei stato se mamma mi avesse voluto bene. Lasciamo perdere, va'».

Mi racconti di sua moglie.

«La vidi a un picchetto davanti a una fabbrica occupata, 45 anni fa. Le ragazze non volevano far passare un camion della ditta. Allora, il camion ingrana la marcia e parte. Tutte scappano, eccetto Ivana, che gli si butta davanti. Pensai: questa è la donna della vita mia».

Quanto ci ha messo a conquistarla?

«Parecchio: le parevo matto. Ma abbiamo tirato su, io e lei da soli, in dieci anni, la nostra casa. Abbiamo due figli e due nipoti che sono la mia gioia. Mi è stata vicina quando stavo in cassa integrazione e mi sono laureato e quando ho scritto Mammut e siamo andati con la 127 a lasciarlo a mano agli editori, a Milano».

Ricevette 55 rifiuti.

«Mi sono serviti per riscriverlo e imparare».

Sua moglie le accende una luce in viso.

«Mi toglie ogni ansia. A stare insieme s' impara. All' inizio, c' è la passione, poi devi creare le aderenze all' altro, rinunciare a parti di te».

Lei a che ha rinunciato?

«Io mi affido per ogni scelta a mia moglie».

Che papà è stato?

«Non lo so. Sono un buon nonno però».

Come è fatto un buon nonno?

«Deve essere amato dai nipoti».

Le fa più paura invecchiare o morire?

«Mi fa paura solo il dolore del mondo».

(ANSA il 3 agosto 2021) E' morto questa sera nella sua casa di Latina, all'età di 71 anni, lo scrittore Antonio Pennacchi, vincitore del premio Strega 2010 con Canale Mussolini. Lo conferma la casa editrice Mondadori. (ANSA).

Lite Salvini-Pennacchi a Ballarò: "Io fesso? Lei un fesso e mezzo". su La Repubblica il 03 agosto 2021. Nervi a fior di pelle in diretta a "Ballarò". Ospiti della trasmissione di Massimo Giannini il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, e lo scrittore Antonio Pennacchi, invitati in studio a discutere di razzismo. "Dire che gli italiani sono razzisti è una fesseria" esordisce Salvini rispondendo a Pennacchi. Ma il premio Strega 2010 non ci sta e contrattacca: "Ne dice tante lei... Io fesso? Lei un fesso e mezzo".

Addio Pennacchi l'unico vero fasciocomunista. Vittorio Macioce il 4 Agosto 2021 su Il Giornale. Se ne è andato di botto, quasi fosse un dispetto, senza neppure dire arrivederci, con quel cuore da bastian contrario, che non smetteva mai di dare calci al mondo. Se ne è andato di botto, quasi fosse un dispetto, senza neppure dire arrivederci, con quel cuore da bastian contrario, che non smetteva mai di dare calci al mondo, un posto dove non puoi stare tranquillo se sei nato con l'animaccia da galantuomo. Antonio Pennacchi ha preso l'ultima scorciatoia mentre stava parlando al telefono con la persona che amava e stimava di più, sua moglie. È la donna con cui ha passato la vita perché come lui sapeva di vero e qualche volta brontolando diceva che era anche l'unica in grado di sopportarlo. La realtà è che ne conosceva la dolcezza. I Pennacchi sono ruvidi e imprevedibili. Ti spiazzano, ma sanno essere generosi. Danno tutto, se ne vale la pena. Era così anche suo fratello Gianni, un maestro di giornalismo. È quello con cui Antonio passava il tempo a litigare e a riabbracciarsi, e lo ha fregato perché si è messo in viaggio prima di lui senza aspettare le feste di Natale. È il fratello che gli fa da controcanto nel Fasciocomunista. È la vita scriteriata di Accio Benassi, incazzato, ribelle, attaccabrighe, goffo, innamorato, illuso, ingenuo, arrogante, disubbidiente, sentimentale. È quello stare fuori dal pentagramma della musica di moda, svirgolando tra seminario, sezione del Msi e gruppettari maoisti, senza tradire nessuno, senza davvero riconoscersi in una bandiera. Ci ricava pure un film con Riccardo Scamarcio e Elio Germano. La regia è di Daniele Lucchetti. Il titolo è preso in prestito da una canzone di Rino Gaetano: Mio fratello è figlio unico. Benassi come Benassa, il protagonista del suo primo romanzo. Quello scritto mentre lavorava in fabbrica, alla Fulgorcavi di Latina. Ci è rimasto trent'anni. Mammut è il manoscritto che gli editori rispedivano al mittente, probabilmente senza neppure leggerlo. Ha collezionato 55 rifiuti e dopo il successo si divertiva a ricordarlo. Ecco, non era mica scontato quello che è successo con Canale Mussolini. Le saghe familiari non erano ancora tornate così di moda, con quella scrittura che parla direttamente al lettore, con lo stile di chi ti sta semplicemente raccontando una storia, ma lo fa con la ricchezza di chi ha letto milioni di libri e un po' si diverte a farti credere che è capitato lì per caso, come se in una notte troppo lunga gli fosse venuto il vezzo di narrarti le vicende di una famiglia dell'agro pontino. È gente venuta da su, dal Veneto, contromano, con la speranza di trovare la terra promessa dove un tempo c'erano le paludi, bonificate dal Duce per dare la terra ai braccianti e l'idea un po' megalomane di forgiare un nuovo popolo. Pennacchi, libertario nel midollo e probabile predestinato al confino, non è che stravedeva per il «capoccione», ma quel pezzo di ventennio lo ha raccontato senza imbarazzo, sfidando pure i nipoti di quelli che con il fascismo sono stati classe dirigente o nel gregge delle camice nere. Si divertiva a irridere i recensori. «Angelo Guglielmi ha scritto: troppe citazioni: come se l'autore volesse far vedere che ha studiato. E non ha capito che le citazioni erano false. Era un gioco. Gli ho mandato una lettera: guardi che le citazioni me le sono inventate». È finita che con Canale Mussolini si è preso il lusso di scalare le classifiche di vendita e di vincere perfino lo Strega. Anche i Benassa, o i Peruzzi, qualche volta vanno in paradiso, poi però si affrettano a scendere, non per ingratitudine o blasfemia, ma perché proprio non ce la fanno a sopportare la compagnia. Certo, un po' ci ha giocato con il successo. Si è lasciato tentare da un'avventura politica: Pennacchi per Latina. Sottotitolo: Futuro e libertà. È la sua stagione finiana. La saga dei Peruzzi continua con un Canale Mussolini. Parte seconda. È un seguito meno spontaneo. Troppo ragionato. Quel pezzo d'Italia creato a tavolino torna con il delitto di Cori, i due fidanzati ammazzati con 170 coltellate. È il mistero di Nuvola rossa, dove spiega l'inquietudine della sua gente. L'Agro Pontino è un pezzo di Valpadana; dove sembra che parliamo il romanesco, ma a pensare e a sognare si continua in veneto. Noi non ci siamo mai sentiti del Lazio. Il Lazio è Sud. Ci è completamente estraneo. Alieno. Dopo ancora 70 anni». È qui che c'è il senso della filosofia umana di Pennacchi. È lo straniamento. È quel ritrovarsi costantemente al confine di qualcosa, senza sapere bene perché. Il dover lottare per trovare un posto, con la sensazione di non raggiungerlo mai, come se un destino pesasse su quelli come te, estranei per qualche strana faccenda a quello che ti circonda. I Pennacchi, i Benassa, i Peruzzi sono fatti per resistere al flusso della storia e si dannano per cercare un motivo del perché si sono acquartierati da qualche parte in questo mondo. Pensano, fuggono, maledicono, si perdono e si divertono a fare i conti con la propria inquietudine. Si portano sulle spalle la maledizione di Giobbe senza neppure averne la fede. Quello che li spinge ad andare avanti è la certezza che da qualche parte esiste una terra dove gli sfiniti trovano pace. Vittorio Macioce

Antonio Pennacchi, morte improvvisa a 71 anni: le ultime toccanti parole dello scrittore fasciocomunista. Libero Quotidiano il 03 agosto 2021. Antonio Pennacchi si è spento a 71 anni nella sua casa a Latina. Non si conoscono ancora le cause della morte, ma intanto anche la casa editrice Mondadori ha confermato la notizia. Vincitore del premio Strega 2010 con Canale Mussolini, era conosciuto come lo scrittore “fasciocomunista” per il romanzo autobiografico scritto nel 2003 e intitolato appunto “Il fasciocomunista: vita scriteriata di Accio Benassi”, da cui nel 2007 è stato tratto il film “Mio fratello è figlio unico”. Nato a Latina nel 1950, Pennacchi era stato operaio all’Alcatel Cavi. Prima della carriera letteraria, si era dedicato parecchio alla politica: inizialmente nelle file del Msi, successivamente in quelle del partito marxista-leninista italiano. Tra gli anni settanta e ottanta aveva aderito al Psi e ai sindacati: prima la Cgil e poi la Uil. Negli anni novanta ha iniziato la sua carriera nel mondo della scrittura, dopo essersi laureato in lettere e filosofia approfittando del tempo sospeso della cassa integrazione. "Io non scrivo per la voglia di scrivere che anzi non ne ho per niente, ma perché devo raccontare delle storie", diceva poche settimane fa a una giornalista de La Stampa che lo doveva intervistare. “Apprendo con grande tristezza dell’improvvisa scomparsa dello scrittore Antonio Pennacchi - ha dichiarato il sindaco di Latina, Damiano Coletta - una enorme perdita non solo per la città di Latina ma per tutto il Paese. I suoi racconti hanno reso il nostro territorio un luogo letterario, dalla Fondazione ai giorni nostri. È una vera e propria icona di Latina”.

L'autore di "Canale Mussolini" e del "Fasciocomunista". È morto Antonio Pennacchi, lo scrittore Premio Strega: stroncato da malore a telefono con la moglie. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Agosto 2021. È morto Antonio Pennacchi. Lo scrittore, 71 anni, aveva vinto il Premio Strega nel 2010 con Canale Mussolini. Secondo quanto scrive l’AdnKronos sarebbe stato colto da un malore mentre era a telefono con la moglie. Si trovava nella sua casa di Latina. “Quello che è stato è stato, e non c’è niente da fare. L’unica – per un uomo – è andare avanti. Tenersi il dolore nelle viscere e continuare a fare quel che s’ha da fare: fino all’ultimo istante di nostra vita. Ciao Antonio”, il saluto sui social network della casa editrice Mondadori. Era nato a Latina nel 1950. Era stato operai dell’Alcatel Cavi e si era dedicato alla politica prima nelle file dell’Msi e poi in quelle del partito marxista-leninista italiano. Aveva aderito tra gli anni ’70 e ’80 a PSI e ai sindacati della CGIL e della UIL. Si laureò in Lettere e filosofia durante un periodo di cassa integrazione. L’esordio nella letteratura nel 1995 con Mammut. Ha pubblicato nel 2003 Il fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi, romanzo autobiografico da cui nel 2007 è stato tratto il film Mio fratello è figlio unico, diretto da Daniele Luchetti, con Riccardo Scamarcio ed Elio Germano. Canale Mussolini, del 2010, è stato finalista al Premio Campiello e vincitore dello Strega. L’ultimo suo romanzo è stato Le strade del mare, edito da Mondadori. In un’intervista recente a Rolling Stone rifletteva così sulla sua morte, su come l’avrebbe voluta: “A volte penso nel sonno. E soprattutto senza lasciare conti in sospeso. Andarmene sereno. Possibilmente senza soffrire troppo. Non mi mette paura la morte. Parte del mio dovere l’ho fatta. Mi considero nella fase finale della mia vita e se la parte migliore di me se ne è andata, anche la peggiore è alle spalle. Perché non sono sempre stato una persona perbene, da ragazzo non ero un bravo ragazzo, non sono stato un bravo figlio e neanche un bravo padre. Ora sono un bravo nonno. E ho reso testimonianza e onore ai miei morti, così mi sono riconciliato con mio padre e mia madre”. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Operaio, attivista, ribelle. Chi era Antonio Pennacchi, lo scrittore Premio Strega con “Canale Mussolini” morto a 71 anni. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Agosto 2021. Secondo le prime informazioni, i primi pettegolezzi battuti delle agenzie, sarebbe stato colto da un malore mentre era a telefono con la moglie. Antonio Pennacchi, 71 anni, scrittore irregolare e imprendibile è morto a casa sua, a Latina, dov’era nato, oggi. Cordoglio unanime, della cultura e della letteratura, del mondo anche della politica, per l’autore di Canale Mussolini e de Il fasciocomunista. Operaio e attivista e politicante e dissidente. In un’intervista recente a Rolling Stone rifletteva così sulla sua morte, su come l’avrebbe voluta: “A volte penso nel sonno. E soprattutto senza lasciare conti in sospeso. Andarmene sereno. Possibilmente senza soffrire troppo. Non mi mette paura la morte. Parte del mio dovere l’ho fatta. Mi considero nella fase finale della mia vita e se la parte migliore di me se ne è andata, anche la peggiore è alle spalle. Perché non sono sempre stato una persona perbene, da ragazzo non ero un bravo ragazzo, non sono stato un bravo figlio e neanche un bravo padre. Ora sono un bravo nonno. E ho reso testimonianza e onore ai miei morti, così mi sono riconciliato con mio padre e mia madre”. Pennacchi era nato a Latina il 26 gennaio del 1950. Era figlio di coloni dell’agro pontino: padre umbro e madre veneta. Si era iscritto al Movimento Sociale Italiano da giovane, venne espulso per una manifestazione anti-americana contro la guerra in Vietnam. Aderì allora ai marxisti-leninisti di Servire il Popolo e quindi al Psi, nella Cgil, nella Uil, nel Pci e nella Cgil ancora. È stato operaio per quasi 30 anni alla Fulgorcavi di Latina. Fu espulso da Sergio Cofferati dalla Cgil nel 1983. Durante un periodo di cassaintegrazione, nel 1994, a 44 anni, si iscrisse e si laureò in Lettere con una tesi su Benedetto Croce. E pubblicò il suo esordio, Mammut, rifiutato in otto anni da 33 editori diversi per 55 volte. Da allora avrebbe pubblicato decine di titoli. Canale Mussolini, per Mondadori, si aggiudicò nel 2010 il Premio Strega e arrivò finalista al Premio Campiello. Nel 2011, in occasione delle elezioni comunali di Latina tornò alla politica attiva sostenendo Futuro e Libertà e ottenendo l’1,05% delle preferenze. Pennacchi ha pubblicato per diverse riviste, come Limes, Micromega, Nuovi Argomenti, La Nouvelle Revue Française tra gli altri. L’ultima uscita, sempre per Mondadori, nel 2020 con La strada di casa. È diventato uno degli scrittori più letti e apprezzati degli ultimi decenni in Italia, eppure non ha mai smesso di pensare e di sognare anche la fabbrica. “La vita di ognuno di noi è costellata più dai dolori che dalle gioie – disse sempre a Rolling Stone – Per cui, l’unica cosa che può salvarci è il senso del dovere. Non abbandonarci al dolore ma lottando per cercare di uscirne, io per esempio sublimandolo nella letteratura. Per fare questo provo a giocare anche con l’ironia, senza prendermi troppo sul serio e soprattutto considerando che il destino tragico dell’esistenza non riguarda solo noi stessi, ma è destino comune dell’essere umano. Quindi l’unica cosa che possiamo fare è riconoscerci completamente negli altri. Non c’è scampo fuori dall’empatia”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

È morto Antonio Pennacchi: l’autore di “Canale Mussolini” stroncato da un malore a 71 anni. Redazione martedì 3 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia. Antonio Pennacchi è morto improvvisamente oggi pomeriggio nella sua casa di Latina. Lo scrittore, vincitore del Premio Strega con Canale Mussolini, aveva 71 anni. Secondo le prime ricostruzioni, Antonio Pennacchi è morto mentre stava parlando al telefono con la moglie. Nato a Latina, Pennacchi si dedica alla politica sin da giovanissimo, ma, a differenza dei fratelli, che aderiscono tutti alle organizzazioni di sinistra, si iscrive al MSI. Ben presto entra in contrasto con i vertici del partito e viene espulso. Dopo una lunga riflessione si avvicina al marxismo, aderisce ai maoisti dell’Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti) e partecipa alla contestazione del Sessantotto. Nel frattempo inizia a lavorare come operaio all’Alcatel Cavi di Latina (all’epoca chiamata “Fulgorcavi”), dove rimarrà per oltre trent’anni. Alla fine degli anni Settanta entra nel PSI, quindi nella CGIL, dalla quale viene espulso. Entra allora nella UIL, passa al Partito Comunista Italiano e di nuovo alla CGIL, da cui è espulso nuovamente nel 1983. Lascia quindi la politica e si laurea in lettere all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” sfruttando un periodo di cassa integrazione. Inizia così l’attività di scrittore. Il suo romanzo di esordio è Mammut. Nel 1995 arriva Palude, vincitore del Premio Nazionale Letterario Pisa, dedicato alla sua città, e Una nuvola rossa (1998), in cui narra una vicenda ispirata al delitto dei fidanzatini di Cori, avvenuto l’anno prima nell’omonima cittadina laziale e che aveva avuto grande risalto sulla cronaca nazionale. Nel 2001 lascia l’editore Donzelli e passa alla Mondadori. Nel 2003 esce l’autobiografico Il fasciocomunista, vincitore del Premio Napoli. Dal romanzo è stato poi tratto il film Mio fratello è figlio unico, per la regia di Daniele Luchetti, con Riccardo Scamarcio ed Elio Germano. Dello stesso anno è la raccolta di saggi Viaggio per le città del Duce (Asefi). Del 2005, invece, i saggi de L’autobus di Stalin (Vallecchi). Nel giugno del 2006 esce la raccolta di racconti Shaw 150. Storie di fabbrica e dintorni. Pennacchi collabora alla rivista Limes. Suoi scritti sono apparsi anche su Nuovi Argomenti, MicroMega e Nouvelle Revue Française; frequenta inoltre l’Anonima Scrittori. A partire dal 2007, l’autore è impegnato in un progetto, insieme all’Anonima Scrittori, che prevede la scrittura del romanzo Cronache da un pianeta abbandonato, attraverso la partecipazione e la collaborazione di autori sconosciuti. Sempre nel 2007 si iscrive al Partito Democratico. Nel 2008 è uscito il saggio Fascio e Martello, in cui descrive le città di fondazione del fascismo in tutta l’Italia. Il 2 marzo 2010 esce Canale Mussolini, romanzo sulla bonifica dell’Agro Pontino. Il libro, definito dall’autore come “l’opera per la quale sono venuto al mondo”, vince il 2 luglio la 64^ edizione del Premio Strega, il Premio Acqui Storia come “romanzo storico dell’anno”, il Premio “Libro dell’Anno” del TG1 ed è finalista al Premio Campiello. Il romanzo conquista gran parte della critica e sale in testa alle classifiche di vendita. Nel 2012 si lancia in un nuovo progetto: Pianura Blu per il recupero dei canali di bonifica dell’Agro pontino e per la creazione di una rete ciclonavigabile, con il sostegno della Sapienza Università di Roma e di diverse amministrazioni locali. Sempre nel 2012, partecipa attivamente alla tournée in Germania, per promuovere l’edizione tedesca di Canale Mussolini. Il 20 novembre esce il suo primo romanzo di ambientazione fantastica, Storia di Karel, storia di fantascienza edita da Bompiani. In questo romanzo Pennacchi abbandona la sua Latina e l’Agro pontino per stabilire il suo racconto in una lontana galassia dell’universo dove i coloni, centro dell’opera, spinti da audaci personaggi si ribellano al loro misero destino. Nel 2015 esce Canale Mussolini, parte seconda, pubblicato sempre da Mondadori. Nel 2018 pubblica, con la stessa casa editrice, il libro Il delitto di Agora – una nuvola rossa, in cui modifica e corregge alcune parti del suo romanzo del 1998 Una nuvola rossa, sempre ispirato al delitto di Cori.

Antonio Pennacchi, le parole drammatiche nell'ultima intervista: "Per 15 euro pensano ai funerali. Dopo due infarti..."Libero Quotidiano il 04 agosto 2021. Fa un certo effetto rileggere oggi l'ultima intervista concessa da Antonio Pennacchi al Corriere della Sera. Lo scrittore, Premio Strega nel 2010 con Canale Mussolini, è infatti scomparso ieri, martedì 3 agosto, a 71 anni. A portarlo via, pare, un infarto. Un lutto per la cultura italiana, che saluta un personaggio vulcanico e fuori dagli schemi. Nella lunga intervista che potete leggere integralmente cliccando qui, il Corsera chiedeva: "Sua madre chiamava lei, Pennacchi, catabrighe, che in veneto vuol dire uno che le liti se le va a cercare. Lei si picchiava pure con suo fratello e poi di questi scontri ha fatto un libro, Il Fasciocomunista". E lui: "Ma adesso sono vecchio, ho settantuno anni, mi sono iscritto ad un’associazione che, se versi un tot all’anno, mi pare quindici euro, poi penserà ai tuoi funerali. Mi tranquillizza", rimarcava. Dunque, gli si faceva notare: "Ma come, uno come lei che ha fatto tante battaglie operaie, pensa alla morte?". E Pennacchi rivelò: "Sono stato missino prima e comunista dopo, nessuno potrà mai dire che non ho seguito la coscienza. Oggi, dopo diversi libri, un paio di infarti e tre bypass, posso riposarmi e pensare un poco alle mie nipoti?", concluse. Quindi raccontava delle sue strane abitudini: "Vado a letto alle sette del mattino, dormo fino al pomeriggio e scrivo di notte". Quando gli chiedevano se con le nipoti, Asia e Lucrezia, parlava mai di politica, rispose: "No, perché do per scontato che voteranno a sinistra. Il problema è un altro". Qual è? "Non so se io voterò a sinistra la prossima volta", concluse Antonio Pennacchi

Antonio Pennacchi, lo scrittore operaio delle saghe familiari. Si è spento ieri uno dei maggiori autori italiani che si è imposto con il suo stile vivo, una lingua che rinviava alla parlata, una narrazione che rifletteva anche nella forma l'ironia, la rabbia, le emozioni. Paolo Delgado su Il Dubbio il 4 agosto 2021. Quando nel 1994 uscì Mammut, il primo romanzo di Antonio Pennacchi, scomparso ieri a 71 anni, se ne accorsero in pochi e ancora oggi quel romanzo d’esordio, scritto 7 anni prima approfittando della cassa integrazione, è tra i meno considerati e i meno ricordati nella sua produzione. Del resto prima che Donzelli si decidesse a pubblicarlo aveva collezionato un record di rifiuti rivangato anni fa in un’intervista da quello che nel frattempo era diventato uno dei principali autori italiani: «È andata avanti così per otto anni. Non naturalmente che io per otto anni – vuoi da solo o vuoi con tutta la famiglia – abbia continuato a presentarmi di persona a suonare ai campanelli delle case editrici. “Ma chi è, ancora quello?”, pare facessero tutti quanti. No, oramai m’ero fatto furbo e glielo spedivo per posta. E ogni volta che tornava indietro, glielo rimandavo. Certo gli cambiavo il titolo, mica ero stupido. Ma tu immagina quelli, quando rileggevano le prime pagine: “Ancora questo?”. Per otto anni. Loro a rispedirmelo e io a rimandarglielo. 55 rifiuti alla fine, da 33 editori diversi. Tutti gli editori italiani dai più grossi ai più piccoli. Nessuno escluso». Invece in quel libro c’era già tutto Pennacchi. Uno dei pochi veri romanzi operai italiani, ambientato nella stessa fabbrica dove l’autore lavorava, la Supercavi di Latina-Borgo Piave, lottava, s’incazzava, vedeva e registrava nel suo bellissimo romanzo il declino di quella che un tempo era stata “la centralità operaia” sostituita dalla marginalità operaia, dall’obsolescenza di un’intera classe sociale. Pennacchi parlava del suo mondo, come poi ha sempre continuato a fare, ma con la capacità di individuare al suo interno le tracce di un’esperienza generale, collettiva, storica e dunque epica. Era il suo stile: popolaresco ed epico. Non era solo questione di temi e narrazioni. Pennacchi ha lavorato sul linguaggio come pochi altri scrittori, tanto più in un panorama in cui il conformismo nello stile è d’obbligo come la cravatta nei palazzi della Istituzioni, e non meno desolante, dove tutti, anche i più ribelli in superfice, scrivono guardando sempre, magari con la coda dell’occhio all’accademia. L’ex operaio della Supercavi voleva uno stile vivo e vitale, una lingua che rinviasse a quella parlata, una narrazione che riflettesse anche nella forma l’ironia, la rabbia, le emozioni.

Per questo il suo Il fasciocomunista, libro che nel 2003 ne decretò la definitiva affermazione è probabilmente il migliore scritto su quegli anni a cavallo tra la fine dei 60 e l’inizio dei 70 che hanno segnato per intero e per sempre la generazione che ne è stata protagonista. In quella storia autobiografica e famigliare, un fratello star di estrema sinistra, una sorella brillante altrettanto impegnata e il narratore, più piccolo, che quasi per reazione si schiera invece con l’estrema destra e poi si sposta ma senza mai degenerare nell’antifascismo etnico, da catechismo, ci sono più che in quasi tutti gli altri libri su quell’epoca la sua verità, le sue passioni, il suo intreccio inestricabile di pubblico e privato. E c’è anche il peso che ebbe su quella generazione l’eredità condizionante di un passato ancora vicino, quello che alla fine Pennacchi avrebbe ripreso nel capolavoro Canale Mussolini, di nuovo una storia vera e finta insieme, una saga famigliare che sta alle origini del Fasciocomunista. Si finisce sempre, parlando di Antonio, per citare “i Pennacchi”: lo scrittore, ma anche il fratello Gianni, il Manrico del romanzo, scanzonato e brillante, uno dei giornalisti politici più conosciuti e amati, scomparso tragicamente, la sorella Laura, economista e dirigente dei Ds. Ma anche il Lazio della palude Pontina bonificata dagli immigrati arrivati o fatti arrivare soprattutto dal Veneto, tra cui la stessa famiglia veneto-umbra dello scrittore, quello di Latina e Sabaudia, dell’architettura dell’urbanistica fascista. Quella famiglia e quel mondo Antonio Pennacchi li ha raccontati nel particolare per renderli universali e ha raggiunto l’obiettivo. Basta e avanza per farne uno dei pochi grandi scrittori dell’Italia contemporanea.

Mirella Serri per "la Stampa" il 4 agosto 2021. Aveva 71 anni lo scrittore-operaio Antonio Pennacchi che si è spento ieri a Latina, la sua città natale. Poco tempo fa aveva dichiarato: «A settant' anni ho perduto l'innocenza ma anche gli entusiasmi e le speranze. Il miglior tempo mio se n'è andato, mi restano gli anni della discesa e della riflessione». Il vincitore del Premio Strega 2010, con Canale Mussolini, è deceduto per un improvviso malore. Apparteneva a una numerosa famiglia. Erano sette figli, tra cui il giornalista Gianni e l'economista Laura; i genitori, provenienti dal Veneto, si erano trasferiti durante il fascismo nell'agro pontino in corso di bonifica. Per molti anni Antonio aveva lavorato all'Alcatel Cavi, aveva partecipato alle lotte sindacali e aveva una grande passione sia per la politica che per la letteratura. Quelli che l'hanno conosciuto lo ricordano quando interveniva veemente nelle assemblee, con la sigaretta sempre in mano, prendendo di petto i dirigenti politici e sindacali con un linguaggio colorito e dal forte accento laziale, bacchettando le strategie di lotta. Dapprima Pennacchi aveva militato nel Movimento sociale italiano. Successivamente fece un gran salto nella sinistra, a partire dalle fila dell'estremismo marxista-maoista per poi approdare alla sinistra più moderata. Nei primi anni Ottanta, approfittando della cassa integrazione, Pennacchi si iscrive a Lettere e si laurea. Comincia a dedicarsi alla narrativa. La sua prima opera, Mammut, viene pubblicata nel 1994 dopo essere stata proposta e respinta 55 volte da 33 editori diversi, una vera via crucis, come racconterà lui stesso. Un anno più tardi appare Palude, dedicato alla sua città, Latina. Dopo qualche anno e altri libri, lascia l'editore Donzelli e si trasferisce alla Mondadori. Nel 2003 pubblica uno dei suoi libri di maggior successo, Il fasciocomunista, lavoro sostanzialmente autobiografico riscritto più volte nel corso di una decina di anni. Accio Benassi, il protagonista, fa parte dapprima dei Volontari del Msi di Arturo Michelini per poi passare a condividere le idee rivoluzionarie del comunismo. All'indomani della bomba di Piazza Fontana, Accio rinnega il suo estremismo e il fratello Manrico, ucciso durante uno scontro a fuoco. Da questo romanzo sarà tratto il film Mio fratello è figlio unico diretto da Daniele Lucchetti, con Elio Germano e Riccardo Scamarcio. La pellicola non piacque molto a Pennacchi, uomo fortemente polemico, perché riteneva che il film non rispettasse la sua storia. Canale Mussolini (a cui seguirà un secondo volume) gli porta un'ulteriore grande affermazione: non solo con l'alloro dello Strega ma anche con l'ingresso nella cinquina del Campiello. Il libro, saga della famiglia Peruzzi, si snoda dagli anni Dieci del Novecento fino alla seconda guerra mondiale: qualcuno ha sottolineato che Pennacchi è stato il primo a narrare un'Italia dimenticata. I Peruzzi sono mezzadri poveri, provenienti dalla bassa pianura padana, tra Rovigo e Ferrara. Diventano assegnatari di un podere dell'Opera Nazionale Combattenti che si trova vicino a Borgo Podgora e al Canale Mussolini, una delle principali opere della bonifica pontina. Nel 2011 Pennacchi, in occasione delle elezioni comunali a Latina, si schiera con una lista locale di destra che avrebbe dovuto sostenere un candidato di sinistra: il progetto, che in parte rifletteva l'utopia che da sempre lo accompagnava, però fallì anche se aveva ottenuto grande attenzione da parte dei mezzi di comunicazione. Soprattutto negli ultimi anni, lo scrittore abbandonò il realismo delle opere precedenti. In Camerata Neanderthal, dedicato alle ricerche di protostoria dell'agro pontino, ricompaiono come fantasmi personaggi già presenti in altri suoi libri. Per converso, in Storia di Karel, Pennacchi approda alla fantascienza e racconta le vicende di Colonia, un lembo di terra ai confini della galassia dove gli abitanti sono sottoposti a un potere invisibile e oppressivo. Anche in questo caso lo scrittore conferma l'aspirazione antiautoritaria di tutta la sua opera.

Pietrangelo Buttafuoco per il "Corriere della Sera" il 4 agosto 2021. Antonio Pennacchi che Latina la chiama Littoria perché la storia così vuole - come così volle Benito Mussolini piegando la palude pontina - è l'unico ad aver saputo fare epica senza far ridere. È l'artista che ha saputo fare quello che solo Riccardo Bacchelli, col Mulino del Po , seppe consegnare alla viva magia dell'immedesimazione tra scrittore e popolo. Artista puro, sfiancato dalla fatica della scrittura, Pennacchi che sa distinguere tra l'acciaio e il ferro s' è fatto carico della memoria delle donne e degli uomini di vanga e zappa per farne canto. Forte di sé stesso - alla testa della sua gente, nel nome dei suoi morti Pennacchi è parola e voce di una saga che mai se ne scivola indietro nel calendario della retorica. Seduto sul sellino della Moto Guzzi, Pennacchi ripercorre la via che da Roma porta al mare, verso la Pontina. Lui sta dietro, guida Benito Mussolini. Sempre così s' immaginava la scena. In incognito per controllare i lavori della Pontina, la consolare del popolo d'Italia. Pennacchi che dice Littoria e non Latina per rigore filologico disinnesca ogni nostalgia prossima al ridicolo. La sua opera - ben oltre i titoli che ne decretano il successo - è il monumento al sudore immacolato delle fabbriche. Se c'è un volto da indovinare nel Quarto Stato di Pellizza da Volpedo, ecco: quella faccia è la sua. Lo squadrista sul camion dipinto nelle tele di Ottone Rosai è lui. E lui è il nostro Novecento, l'Italia proletaria fascio-comunista che s' erge nella conquista delle stelle: la modernità innanzitutto, la coscienza della tecnica, l'urgenza della scienza, la Civiltà delle Macchine e - nella dolcezza della sconfitta - il lutto di tutte le illusioni.

Dagospia il 4 agosto 2021. Giancarlo Dotto per “Gioia” (2012). Scosta la tenda e si affaccia come un Papa dalla finestra della sua camera da letto, in canotta di lana e probabili mutande, ma la sua non è una benedizione e nemmeno un benvenuto: “Peggio di quelli che arrivano in ritardo, ci sono solo quelli che arrivano in anticipo”. Sarà la prima e ultima volta che lo vedo senza il berretto d’ordinanza. Sulla scia del padrone, ci abbaia contro anche il cane, Lupetto, che di vezzoso ha solo il nome. Il primo istinto è di darsela a gambe per l’agro pontino, io e il fotografo. Ci soccorre Ivana, la moglie, donna cristiana che, dopo aver placato uomini e cani, ci ospita in casa: “Il 2010 ci ha portato il premio Strega e Asia”, fa lei orgogliosa. Asia è la nipotina, il premio Strega è lui, Antonio Pennacchi in persona, 61 anni, ex operaio incazzoso alla Fulgorcavi, oggi scrittore di successo, non per questo meno incazzoso. Siamo dentro la sua tana, una villetta alle porte di Latina, Borgo Podgora, terra di coloni veneti e di paludi bonificate. Qui scorre, si fa per dire, Canale Mussolini, il Gange del luogo e titolo del romanzo che ha spinto qualcuno a mettere Pennacchi nella stessa teca del Manzoni. Si è nel frattempo vestito, Pennacchi. Coppola blu, sciarpa rossa, jeans, camicia celeste, giacca e cravatta. Il bastone di legno gli scivola in continuazione di mano. Ogni volta è un “vaffanculo” che parte. Sono le due del pomeriggio. “Una levataccia per colpa vostra...”. Pennacchi è un uccello notturno. Vive, scrive, chissà cos’altro, nelle ore dei vampiri. “Da quando lavoravo in fabbrica e facevo i turni di notte... Sai una cosa, questa casa che vedi l’abbiamo costruita Ivana ed io con le nostre mani. Lei da sotto legava il mattone alla fune, io sopra tiravo la fune e gettavo il cemento”.  Quando declama, parla un italiano scolpito, vagamente littorio, altrimenti è vernacolo puro, travolgente. L’avermi decifrato come tifoso della Roma e amico di Falcao ci fa intimi. Lui ti dà del “tu” per insultarti meglio, che è il suo modo di volerti bene. “Andiamo a farci due fettuccine...Ecco, ficcate qua dentro. Una volta questi locali si chiamavano dispense, perché dispensavano il chinino al tempo della malaria....Vediamo se ce danno a quest’ora un piatto de pasta”. 

Ma come, sei un premio Strega, l’orgoglio locale, vuoi che non ti diano un piatto di pasta?

Stai scherzando...Questa è gente de palude. Qui non si chiama l’invidia, si chiama la ‘nvidia. 

Ti ho visto dalla Bignardi qualche sera fa. Faceva fatica a capire.

Non è che faceva fatica a capire, è che non gliene fregava un cazzo di quello che dicevo.

(accende una Ms).

I medici non ti hanno proibito di fumare?

Ho fatto due infarti. Devo smettere... Allora, per me fettuccine al ragù, mezza fettina di manzo con i broccoletti e un bicchiere di rosso buono. Devo restare nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, che stasera ho una presentazione al Palazzo della Cultura con Lucio Caracciolo.

Parliamo del fasciocomunismo a Latina, un’invenzione poetica che è diventata progetto politico.

Ma no, parliamo invece di Paolo Roberto Falcao. 

Hai dedicato “Mammut”, il tuo primo romanzo ripubblicato in questi giorni da Mondadori, a Falcao e a Pruzzo.

Pruzzo era basso ma saltava de testa come un ascensore, restava in aria...Non guardo più una partita da anni. Non me lo posso permettere, per via dell’infarto. È una disgrazia essere romanisti. Non hai idea di quello che soffre mio figlio Gianni.   

Adesso parliamo di “Mammut”, quando tu facevi ancora l’operaio e il sindacato era unito contro il padrone.

Tutti voi a scrivere che Falcao è stato una carogna a non tirare quel calcio di rigore. Non è così. 

Se mi presento al giornale con un’intervista a Pennacchi su Falcao, me la tirano dietro.

Ma che ve dice il cervello? Stiamo parlando di uno dei più grandi geni mai passati negli ultimi cinquant’anni in Italia. 

E comunque lui si è pentito. Tornasse indietro, lo tirerebbe quel rigore.

Perché gli avete fatto due coglioni così. Non è giusto dare la croce a nessuno per quella finale persa, era destino. 

Da queste parti si sprecano le belle donne.

Merito degli incroci. Se parli con un agronomo, ti spiega che la caratteristica fondamentale degli incroci è il lussureggiamento dei caratteri. 

Il lussureggiamento dei caratteri?

È genetica. In potenza ci sono tutti i caratteri, poi, mano a mano se ne eliminano alcuni, e con l’ibrido tu hai appunto il lussureggiamento di tutti i caratteri, viene valorizzato il patrimonio genetico dell’uno e dell’altro.

La bellezza del meticciato.

Una delle bellezze più folgoranti che si vedeva in televisione era Kay Rush, madre giapponese e padre svizzero-tedesco-statunitense, anche se la mia preferita resta Ursula Andress. Noi a Latina abbiamo tutte le razze. 

Donne famose di Latina. Manuela Arcuri.

Era l’amica di mia figlia. Forse non è una grande attrice drammatica, però è bella. Manuela è Manuelona, tanta roba, grossa e simpatica, non se la tira. Sai chi è invece una stronza? Francesca Dellera. Si vergognava di dire che era di Latina, diceva che era di Roma. Vaffanculo, va! Scancellata.  (brindiamo a Falcao e a Ursula Andress)

Anche a Ursula Andress piaceva Falcao.

La conferma che è una gran donna. 

Sei un passatista. Ti piace Ursula Andress e celebri Falcao invece che Totti.

Mi è simpatico Totti, però le gerarchie so’ gerarchie. 

Torniamo a Pennacchi. Sei stato qualunque cosa, delfino di Almirante, estremista di sinistra, poi militante pidiessino. Quella volta che, giovane fasciocomunista, sei finito dentro per vilipendio di capo di Stato.

Avevamo esposto con un amico lo striscione “Johnson = Hitler”. L’allora mio cognato Rocco Brienza, avvocato e filosofo, disse al commissario: “Ma quale dei due è il capo di Stato offeso, Lyndon o Adolf?”. Un altro po’, mettevano dentro pure lui. Ero matto da giovane, ma pure lui non scherzava.

Aggiornami sulla vicenda politica locale.

Ma no, stavamo tanto bene a parlare di Falcao. 

Che pastiglie prendi?

Questa è per il colesterolo e la pressione... Ti presento mio cugino, maresciallo dell’aeronautica in pensione, mai lavorato in vita sua. L’unico maresciallo dell’aeronautica comunista. Veneto pure lui.

Sono tanti i veneti da queste parti.

Io mi sento più veneto che umbro. Il figlio da noi è proprietà della madre, anche se poi nel corso degli anni quello che mi manca di più è mio padre, me lo sogno in continuazione.

Sono cambiati i veneti, dal dopoguerra a oggi. Erano i moldavi e i romeni di oggi. Sono sempre massa ignorante.

Adesso, con i soldi, più ignoranti ancora.

Pure Tiziano Ferro è di Latina. Lui ha fatto coming out.

Ma sì, vaffanculo! Ha fatto bene per sé e per gli altri. L’omosessualità è ancora una dimensione del dolore. In qualunque asilo o scuola elementare i ragazzini dicono ancora: “a frocio, recchione!”. Pensa lui, come deve aver sofferto quando era ragazzo in giro per Latina. Aveva successo e c’era chi diceva: sì è bravo, ma è frocio. Invece tu lo rivendichi e vaffanculo, va! Diventa una liberazione. So’ così, ve piace? No? Arrangiateve. Senti a me, i pregiudizi non muoiono mai, hai sentito Berlusconi? 

Che c’entra Berlusconi?

I giudici lo perseguitano sulla Mondadori e lui dice: “Ma io l’ho levata a De Benedetti”. Lo dice come fosse un grande merito e sai perché? Perché De Benedetti è ebreo. Devi ragionare sul subliminale. In lui che parla e soprattutto nel popolo che ascolta scatta a livello subliminale la stessa associazione. De Benedetti comunista ed ebreo, dunque diverso. La stessa cosa vale per il frocio e lo zingaro.

Scrivi i tuoi libri con il computer?

Ora sì, ma il primo, Mammut, venticinque anni fa, l’ho scritto con la penna stilografica comprata alla Standa. Con il computer è tutta un’altra scrittura, altissima produttività però cambia tutto. I versi continuo a scriverli a mano...’Mazza che belli sti broccoletti. 

Del Pennacchi poeta si sa meno.

Come fai? Dopo che leggi Caproni, dici ma dove cazzo vado girando io? E pensare che lui non si percepiva come un grande, si credeva che Luzi era meglio e invece non c’è proprio paragone.

Chi ti atterrisce per la sua bravura?

M’atterrisce tanto l’Inferno di Dante, forse Machiavelli, non certo Petrarca. Mi piacciono Beppe Fenoglio, Piero Chiara, i russi, ma non Dostoevskij. Due coglioni così. L’unico suo capolavoro è Il giocatore. A Delitto e castigo je poi leva’ tranquillamente duecento pagine. Tornando alla scrittura. Con il computer il passaggio dal pensiero alla parola scritta è più rapido, non perdi niente, ma la scrittura è meno sorvegliata.

Quando la scrittura ti viene più fluida?

Tra le quattro e le cinque del mattino. 

L’Odissea per vendere Mammut. Letteratura o tutto vero?

Chiedi a mia moglie. Partivamo con la nostra 127 gialla, da Latina a Milano, a prendere calci sui denti da tutti gli editori. 55 rifiuti da 33 editori diversi. 

Quante copie ha venduto Canale Mussolini?

Ci ho fatto parecchi soldini. Stiamo comprando un appartamento a Latina. Per la prima volta in vita mia non ho più paura del mese prossimo. Io poi avrei diritto a 1500 euro al mese di pensione, dopo vent’anni di esposizione all’amianto, ma me ne danno solo 600 perché, scrivendo, c’è il cumulo. A noi ci ha ammazzato la riforma monetaria. Me sento male quando dicono “richiamiamo Prodi”. Manco alli cani. 

Se la storia dell’euro fosse successa negli anni caldi...

E chi li reggeva? Non sarebbe stato possibile. Gli avrebbero sparato prima. 

Marchionne sarebbe stato possibile?

Scherziamo? Marchionne è il demonio, ha spaccato gli operai.

A giorni si vota qui a Latina, il Paese vi guarda. C’è la tua lista fasciocomunista, una provocazione o il laboratorio dell’Italia che verrà?

E’ la lista “Pennacchi per Latina” insieme a “Futuro e libertà”. Dentro ce stanno un po’ de fasci, un po’ de comunisti, qualcuno iscritto a Rifondazione comunista. 

La politica nazionale fa fatica a capire.

No, è diverso, fanno finta de non capi’ perché je rompi er giocarello. Fascisti e comunisti non possono stare insieme, sono nemici, se devono mena’ per forza. Questo serve a Berlusconi, ma serve anche alla sinistra. I voti dei fasci li vogliono, ma sottobanco. 

Se passa la tua lista, diventa un precedente.

E’ finita l’epoca dei tatticismi. Il nostro Paese è finito. L’unico modo che hai per resuscitarlo è azzerare tutto, fare un nuovo patto costituzionale. Dicono tutti che il Novecento è finito e allora se è così perché dobbiamo stare nei vecchi recinti? Costruiamo un nuovo pensiero forte collettivo. Una nuova etica.

Non ho ancora capito se sei pre-moderno o post-moderno. Forse le due cose insieme.

Sono morte le ideologie totalitarie, ma non è morta l’ingiustizia. Questo che c’è adesso non lo devi caccia’ perché va a mignotte ma perché, dopo vent’anni ha impoverito il paese. Ha tolto ai poveri per dare ai ricchi. Io continuo a credere nel valore dell’eguaglianza. Il figlio dell’operaio deve avere le stesse condizioni di partenza del figlio del dirigente. 

A parte te, un altro fasciocomunista?

Italo Bocchino è il capo dei fasciocomunisti. E pensare che quando l’ho conosciuto, più di 15 anni fa, mi sembrava un po’ coglione, uno contento di fare il numero due a vita. Anche Fabio Granata e Livia Perina hanno capito.

Fini ha capito?

Con Fini ci parlo e lui mi ascolta. 

Un’altra pastiglia?

Questa è la mezza aspirina. Me serve pe’ scioglie er sangue. Ma tu ce l’hai già avuto l’infarto? 

No. Ho la faccia da infartuato?

Io c’ho tre bypass, per via dei due infarti, tutti e due silenti. I peggiori, vaffanculo. L’ultimo nel 2002. 

Avercela fatta come scrittore ti dà pace?

Mi dà pace avere scritto Canale Mussolini. Era la mia mission, come si dice adesso. Fatto questo, posso morire pure adesso.

Ti sei scoperto un po’ di umana vanità?

Quella c’è, però non più di tanto, essendo arrivata in tarda età quando ormai non ci contavo più. Mi fosse arrivata quando avevo trentacinque, quarant’anni, chi cazzo me teneva... Parcheggia qua e metti il soldo del parchimetro. 

Ma come, sto con il premio Strega e mi multano?

Mamma mia, allora non capisci, de più...C’è il mare qua vicino, senti l’aria? Una volta negli anni Sessanta passavano di qua i romani per andare a Sabaudia. Pasolini e Moravia si fermavano sempre al bar Poeta per un caffè. Pasolini era stronzetto, cercava la lite, una volta a Latina l’hanno corcato de botte. Lui provocava, era uno violento. Alternava momenti di grandissima dolcezza con altri di grande aggressività.

Se la lista vince?

Continuo a fare lo scrittore. Se faccio politica, me moro dopo un giorno. Non sopporto più d’essere contrariato, m’incazzo subito. Questa volta mi sono speso perché se nel 2011 poni ancora la questione fascismo o comunismo i casi sono due: o sei un coglione o sei un figlio di mignotta che pensa al suo orticello. Se non la facevo io, con la mia storia, chi cazzo altro la poteva fare la lista fasciocomunista? 

Quando la scrivi la tua biografia?

I romanzi sono la mia biografia. Ci sono rabbie, dolori antichi che tu hai tenuto lì e non li hai potuti guardare, per superarli devo cercare di trasformarli in poesia. A sessantuno anni ho vinto lo Strega e per molti, comprese le mie sorelle, sono ancora Antoniaccio. Ma vaffanculo! A me la sinistra per quarant’anni m’ha sempre trattato con sufficienza: “Il popolo sì, ma non entra’ troppo dentro che ce sporchi il salotto”, e questo perché so’ stato fascio. Dico la sinistra fighetta di Bianca Berlinguer, Serena Dandini. La Dandini non m’ha mai chiamato, Fabio Fazio nemmeno. Ma vaffanculo la Dandini, vaffanculo Fazio, va!    

Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 3 agosto 2021.  “Ex praecordiis ecfero versum” lo traduce in “dalle budella tiro fuori i versi”. Parafrasando il poeta Lucilio, anche Antonio Pennacchi più che la ragione o il cuore – che comunque non mancano – nei suoi libri riversa soprattutto quella condanna che sente di dover scontare nel raccontare. Non si diverte, anzi, ne soffre. Più soffre e più ne scrive. È una fortuna per noi, che abbiamo il privilegio di leggerlo. E anche di incontrarlo, visto che nonostante sia uscito con un nuovo e bellissimo romanzo, La strada del mare (Mondadori), ha scelto di non esporsi. Non certo in tv, perché «mi rifiuto di andare in quei teatrini, mi hanno rotto i coglioni» e quindi è sempre più appartato nella sua Latina, città di cui è il cantore attraverso le gesta dei Terruzzi, che in larga parte è la storia della sua famiglia, che l’hanno fondata strappandola alla palude malarica dopo l’emigrazione degli anni ‘30. Per questo ci confida, a margine dell’intervista, «in fin dei conti sono il più grande scrittore veneto vivente. Invece al Campiello se ne scordano sempre». Pennacchi, 71 anni, già vincitore del Premio Strega nel 2010 con Canale Mussolini, a pochi giorni dall’annuncio della cinquina del prestigioso premio letterario confessa: «Io ci sarei andato, ma non mi ci hanno voluto» e così il suo voto andrà a Donatella Di Pietrantonio. Ma con lo scrittore è stata anche l’occasione per ripercorrere tutta la sua vita. Partendo dall’ultima fatica letteraria «che è un romanzo storico, più che di formazione» alla perdita del senso del dovere «illudendoci, sbagliando, di perdere anche il dolore», ma è certo che da questa crisi ne usciremo come sempre: «Già Cicerone ad Attico scriveva che “non sono più i tempi di una volta”». Dopo 35 anni di fabbrica ancora sogna che lo richiamino a lavorare: «Ci avrà fatto pure ammalare, però ci ha dato da campare a noi e alle nostre famiglie» e rivede in parte la classe operaia nei rider e nei facchini della logistica: «Ma devono unirsi, perché ci sarebbe da incazzarsi sul serio». Passata la pandemia vuole re-iscriversi alla quarta ginnasio «per studiare il greco e la storia dell’arte», intanto combatte con l’ennesimo acciacco dopo la pubblicazione di un libro: «Appena consegnato ho cominciato ad avere cali di pressione, vertigini e poi mi è esplosa una ragade anale che mi fa patire le pene dell’inferno». D’altronde, la sua scrittura viene dalle budella, quindi «non esce dalla bocca, ma da sotto…». Nonostante tutto, politicamente continua a considerare la sua casa il PD: «Ah regà, io sono classe operaia! Ma che, scherzi davvero?», ma il vero problema, semmai, per lui parte dalla base, cioè dalla Costituzione: «Sarà la più bella del mondo, ma è datata, ha ormai fatto il suo tempo». E se musicalmente è fermo al ’79 («sono ancora in lutto per lo scioglimento dell’Equipe84») e continua a sperare nel Nobel («candidatemi voi di Rolling Stone») su una cosa non intende arretrare di un millimetro, e cioè smettere di fumare: «Pure quello devo fà? Abbiate pazienza, andatevene un po’ affanculo!».  

Pennacchi, innanzitutto com’è il suo umore? 

Non me lo chiedere, guarda, già quando sono nato ero di “umore rovescio”. Immagina se posso mai essere di buonumore adesso. Anche perché sono dolorante. 

Sugli acciacchi che le vengono dopo ogni sua pubblicazione ci torneremo. Intanto le lancio una provocazione: come va il “romanzo di formazione” La strada del mare?

Chi lo dice che è un romanzo di formazione?

I critici.

Io sono uno dei pochi marxisti ancora in circolazione, per cui sull’estetica sono crociano. Quindi contrario alla critica dei generi. Non esistono i generi letterari, esistono i libri belli o i libri brutti.  

E quindi come dobbiamo considerare il suo nuovo romanzo?

Se proprio lo vogliamo inserire per “utilità pratica” in una classificazione mi sembra riduttivo definirlo “romanzo di formazione”. Fa parte del ciclo dei Teruzzi, per cui è un romanzo storico. Contiene diversi temi. Una componente del romanzo di formazione, visto che parla di ragazzi che nascono e crescono, ma soprattutto di formazione di una città, di una comunità che trae le sue origini nel 1904 a Copparo, in Emilia, raccontate in Canale Mussolini, poi l’esodo nell’Agro Pontino e la trasformazione di un territorio da parte di un crogiolo di razze che prima non esisteva. 

È l’origine della sua famiglia? 

La storia dei Teruzzi è la storia di Latina e dell’Agro Pontino, che fino al 1930 era un deserto paludoso malarico con continui flussi migratori, prima dei veneti, dei ferraresi e dei friulani e poi di tutti gli altri, che si mischiano e diventano un popolo che costruisce la città e poi si lancia nella crescita verso l’espansione del boom economico. 

Cosa ha rappresentato quel periodo? 

La ricostruzione dopo la guerra e l’esplosione del miracolo economico ha significato un passaggio di civiltà in fatto di condizioni di vita materiali, sociali e culturali. Prima eravamo poveri, ma poveri poveri… Si stava attenti a quello che si mangiava. Poi siamo diventati ricchi. Tutto questo nasce in quegli anni e io lo racconto. Poi scusa, se vogliamo giocare con i generi si può spaziare. 

In che modo?

Allora si può ritrovare pure un romanzo di avventura, con echi dickensiani e i rimandi ai bambini poveri e alle loro sofferenze, ma per me rimane sostanzialmente un romanzo storico. Poi fate come vi pare, l’importante è che vi piaccia. 

È anche una storia di grande dedizione per il lavoro, in particolare nella narrazione della costruzione della strada che finalmente unirà la città al mare. 

Era la dedizione di tutto il popolo italiano per uscire dalla guerra, dai suoi disastri e dalla povertà e arrivare al benessere. Mio fratello Otello a Latina partecipò alla costruzione della strada del mare, ma parallelamente mio zio Torello in Belgio lavorava nelle miniere e gli altri parenti nelle fabbriche di Torino della Fiat. È tutto legato.  

Senza dimenticare i dolori familiari, che lei descrive però in secondo piano rispetto al senso del dovere. 

Ecco, c’è anche il romanzo familiare. Le grandi famiglie di una volta che ti davano sicurezze e protezioni in certi casi, ma in altri ti opprimevano pure. C’è sia il dramma di crescere che la gioia dell’esistenza. 

Si è perso oggi quel senso del dovere?

Ipse dixisti… lo hai detto tu. Sì, forse quello si è perso illudendosi che insieme a quello si può perdere il senso del dolore. Invece no, non è che non si soffre più. Non è che l’infanzia di oggi sia più felice, perché i bambini soffrono sempre. La crescita è sofferenza, perché legata all’esistenza stessa. Siamo gettati in un mondo di dolore, fin da quando usciamo dal ventre materno. La vita è dolore, per tutti.  

Non le sembra una visione troppo pessimistica?

No, perché la vita di ognuno di noi è costellata più dai dolori che dalle gioie. Per cui, l’unica cosa che può salvarci è il senso del dovere. Non abbandonarci al dolore ma lottando per cercare di uscirne, io per esempio sublimandolo nella letteratura. Per fare questo provo a giocare anche con l’ironia, senza prendermi troppo sul serio e soprattutto considerando che il destino tragico dell’esistenza non riguarda solo noi stessi, ma è destino comune dell’essere umano. Quindi l’unica cosa che possiamo fare è riconoscerci completamente negli altri. Non c’è scampo fuori dall’empatia.  

C’è chi oggi prospetta dopo la pandemia una grande crisi, mentre altri si aspettano un nuovo boom economico. Lei che futuro vede davanti a noi?

L’uomo è sempre lo stesso, siamo sempre gli stessi. Passiamo queste fasi cicliche, dove a un certo punto ci sembra di essere preda della crisi. Ma lo dice la parola stessa in greco, nella crisi sono insiti anche gli elementi per uscirne. Se va a leggere le lettere le epistole che Cicerone inviò ad Attico, già allora si lamentavano “che non sono più i tempi di una volta”, “che le rape non hanno più lo stesso sapore” e che “non ci sono più le stesse stagioni”.  

E quindi su cosa dovremmo concentrare i nostri sforzi? 

Dopo la Seconda guerra mondiale e i totalitarismi, abbiamo sviluppato l’individuo e i suoi diritti mettendoli al primo posto, ma ci siamo dimenticati i diritti delle collettività, delle masse, dei popoli. E non ci sono solo i diritti degli individui, ma anche i doveri di riconoscersi negli altri, di lavorare insieme, di darsi fiducia e darsi da fare. Usciremo anche da questa crisi, come ne siamo usciti dalle altre. Però con tutto il dramma che ha portato il coronavirus, sia per le condizioni materiali che culturali e sociali, non possiamo dire di essere nelle stesse condizioni di 40-50 anni fa. Non c’è paragone. 

Qui la trovo più ottimista. 

Poi bisogna capire che il dover morire fa parte della vita. Oggi forse si è persa questa consapevolezza. Se uno muore a 90 anni i parenti fanno causa alla sanità perché è colpa loro. Ma prima o poi devi morì, c’è poco da fare, inutile che fai tante storie…  

Ha sempre detto che lei non scrive per piacere, ma è una condanna. Quando finirà?

Finirà quando me ne andrò. O quando con la testa e non sarò più in grado di lavorare. Anche se mi sono stufato, avrei tanta voglia di smettere… Non è un piacere scrivere, ma dolore. Il piacere viene dopo aver assolto il mio dovere. Anzi, a metà, perché come diceva mia madre quando facevo le cose fatte per bene: «Bravo, ma hai fatto metà del tuo dovere».  

E quindi dopo ogni romanzo un acciacco. Questa volta cosa le è successo? 

Non me ne parlare! Ho finito il libro consegnando le ultime bozze e il giorno dopo ho cominciato a sentirmi male. Cali di pressione, vertigini e soprattutto l’insorgere di una ragade anale che poi è esplosa e ora sono mesi che sto patendo le pene dell’inferno. Non sono a rischio di vita, certo, però finora non mi sono potuto operare a causa del Covid. Io cito sempre Lucilio: «Dalle viscere tiro fuori i miei versi». Dalle budella, quindi non escono dalla bocca, ma escono da sotto…

Sogna ancora che la chiamino a lavorare in fabbrica?

Oh mamma mia! Non hai idea… In continuazione … sogno mio padre e i miei compagni di fabbrica. Anche perché io non sono quello che si può definire un intellò, cioè uno di quegli intellettuali che stanno nei giri romani. Io sono fuori da tutto, sono a Latina. Sono un narratore, ma prima di tutto un operaio che si è fatto scrittore. La mia pensione di 1500 euro l’ho maturata con 35 anni di contributi in fabbrica, compresi 20 anni di esposizione all’amianto. Io resto quello.  

Eppure, da dieci anni è uno degli scrittori più famosi e venduti in Italia. 

Eh però io rimpiango la fabbrica, ne ho nostalgia. Sogno i miei compagni, soprattutto quelli che non ci sono più. Mi ricordo Palude, al quale avevo dedicato un libro omonimo. La sera prima di andarsene, perché era malato, a un certo punto mi disse: «La fabbrica ci avrà fatto pure ammalare, però ci ha dato da campare a noi e alle nostre famiglie».  

Quando si trovò in cassa integrazione si iscrisse all’università. Quanti crede che oggi farebbero una scelta simile?

Dovrebbero farla tutti! Anzi, appena passa questa emergenza ho l’intenzione di andare dalla preside del liceo classico di Latina a chiederle di istituire dei corsi serali perché vorrei re-iscrivermi alla quarta Ginnasio. Io frequentai l’istituto per geometri, ho studiato il latino però mi mancano il greco e la storia dell’arte. Vorrei tornare a studiare. Ahò, c’ho 71 anni, però anche Beniamino Placido in pensione si mise a imparare l’aramaico.  

Per caso rivede la sua classe operaia di allora nei rider che portano nelle case il cibo e nei facchini della logistica di oggi? 

Il lavoro in fabbrica era diverso. Questi, poverini, lavorano ognuno per conto proprio. Per noi invece il lavoro era strettamente legato dall’uno all’altro. Però sì, qualche elemento comune lo vedo, così come in chi ha quei contratti interinali. Ci trovo un arretramento della classe operaia e del movimento dei lavoratori in generale. Prima o poi sarà necessario che loro si organizzino e che il sindacato riscopra le sue vere funzioni. Ma negli impianti fissi il lavoro resterò fondamentale.

A cosa si riferisce?

Quelli sono servizi non produzione di ricchezza, che si fa trasformando la materia. L’industria manifatturiera deve restare e resterà fondamentale nel nostro Paese. Le fabbriche sembrano più pulite, ma manca la consapevolezza che tu sei solo un pezzo di tutto il sistema e che il tuo lavoro deve essere collegato a quello che viene prima e che viene dopo. Si è persa questa socialità. Poi, porca puttana quando li vedo girare con quelle biciclette… ci sarebbe da incazzarsi sul serio! 

In questa sua forza di indignarsi nonostante tutto e di rimanere fuori dai “salotti buoni” mi ricorda uno scrittore come Giovannino Guareschi. Si ritrova nel papà di Peppone e don Camillo? 

Ho una grande stima di Guareschi come costruttore di storie. Ma è nel cinema che mi sembra abbia dato il meglio di sé. Alle sceneggiature partecipava anche lui. Nei libri invece è più frammentario, non ci trovo un’opera corale. Mentre nelle pellicole che vuoi dire, a distanza di 60 anni ancora lo danno in tv e fa sempre il pieno. Il motivo è che sono di valore. Le nostre storie individuali sono diverse, perché lui era un intellettuale, non aveva fatto l’operaio ed era sostanzialmente un uomo della destra liberale. Però, effettivamente, trovo simile a me quell’ansia di unità popolare, di empatia, la facilità di mettersi nei panni degli altri, anche quelli di che consideri diverso da te, dei tuoi “nemici”. Come me metteva al primo posto quello che unisce rispetto a quello che divide. E poi abbiamo in comune la capacità di perdonare.

Visto che ha la capacità di perdonare, ha perdonato chi non l’ha chiamata al Premio Strega quest’anno?

Se fosse per me ci sarei andato, ma non mi ci hanno voluto.  

Non mi dirà anche lei che il Premio Strega è combinato? 

Lei chiede a uno che ha vinto lo Strega di parlare male dello Strega. Non sarebbe delicato. Tenga presente che la mia vittoria nel 2010 con Canale Mussolini dovrebbe smentire quelle accuse. Quando partecipai la Mondadori mi avvisò: «Non lo vinciamo perché l’abbiamo già vinto da tre anni consecutivi» e invece ho sovvertito il pronostico. E c’erano libri di valore, di Matteo Nucci, di Alessandro Pavolini, di Silvia Avallone.  

“La strada del mare” non meritava di essere almeno fra i 12 candidati?

I premi sono così… La storia della letteratura e la costruzione del canone non possono fare a meno dei premi letterari. Era già così nell’antica Grecia. Scrivevano, poi andavano a teatro e c’era la competizione con il pubblico che applaudiva e se non lo faceva erano fuori. Ma già allora c’era qualcuno che si organizzava le claque. C’è l’opera letteraria e poi c’è l’industria culturale che ci gira intorno. Pensi che quando Benvenuto Cellini scrisse “Vita” lo sottopose a quelli che allora erano gli intellettuali del tempo e gli dissero: «Lascia perdere che è una schifezza». Solo duecento anni dopo è stato riscoperto da Giuseppe Baretti. Quel libro è un grande capolavoro, ma nell’industria culturale a volte funziona così.  

Dei candidati 2021 chi apprezza? 

Trovo bellissimi i libri di Donatella Di Pietrantonio, compreso quello candidato Borgo sud che avrà il mio voto. Non la conosco di persona, ma è bravissima. E ho molta stima di Emanuele Trevi. 

Politicamente vota ancora a sinistra? 

Oddio, gli ultimi anni sono stati tosti nel PD. Voterò a sinistra, certo. Vedremo quale sarà l’offerta. 

La sua casa è ancora nel PD?

Ah regà, io sono classe operaia! Ma che, scherzi davvero? Certo che quella è la mia casa, sarebbe bene se lo ricordassero pure loro. L’ultima volta ho votato Liberi e Uguali, ma insomma la casa è quella. Vengo dal movimento dei lavoratori, non me lo posso scordare.  

Tanti della classe operaia oggi votano Lega o Fratelli d’Italia.

Questo è un problema che si dovrebbe porre il PD. Perché non si sentono più rappresentati? Non è sufficiente dare la colpa alla gente e dire che non capisce un cazzo. Forse sono loro che si sono staccati dal popolo, anche con il tradimento degli intellettuali e dei ceti dirigenti.  

Lei ha mai avuto la tentazione di votare Lega o Fratelli d’Italia?

No, no, no, questa tentazione non c’è. Resto amico di tante persone che conosco e a cui ho voluto bene, ho stima personale di alcuni e anche di Giorgia Meloni ma io voto “classe operaia”. Il massimo che posso fare a Latina, se alle prossime amministrative mi candidano qualcuno che non mi piace, è non andare a votare. Mai voterò per quegli altri. Ma vuoi sapere la verità?

Mi dica.

Il problema vero è che la crisi dopo questa pandemia si è innestata su una crisi che già c’era del sistema politico e rappresentativo in Italia. L’ha esasperata. È il modo di stare insieme in questa democrazia che andrebbe riformato. La Costituzione che abbiamo sarà la più bella del mondo ma è datata, ha ormai fatto il suo tempo. Finché ha retto la Guerra fredda e c’erano i grandi partiti di massa aveva un senso, poi non ha retto più. Non è vero che siamo nella terza Repubblica, siamo ancora nella prima.  

Cosa l’ha più indignata durante questa pandemia? 

Quello che mi fa incazzare sono tutti quei talk show in tv, con i virologi e i politici che fanno un gran chiacchiericcio, chi racconta una cosa e chi un’altra. Non li sopporto più. Infatti, sono più di due anni che mi rifiuto di andare in quei teatrini. Mi hanno rotto i coglioni! E poi sul fumo…  

Sul proibizionismo delle sigarette? Effettivamente, da quando abbiamo iniziato l’intervista ne ha fumata una dopo l’altra.

Questa cosa mi fa incazzare come una bestia, come a Milano che proibiscono di fumare anche per strada. Quando è intervenuto il mio amico Antonio Scurati volevo farlo anch’io, poi mi sono trattenuto. A morì bisogna morì prima o poi o no? Non è che chi non fuma non muore, sbaglio? Quindi non state a rompe li coglioni! Quando moriranno quelli che non fumano, vorrei essere lì a dirgli: hai visto? Che cazzo hai campato a fare? Manco hai fumato! Però non mi ha chiesto una cosa che mi aspettavo…

Cosa?

Che io sono ancora in lutto per lo scioglimento dell’Equipe84.  

Dal 1979 non se ne è ancora fatto una ragione? 

No, era la mia band preferita. Resto legato a quella musica lì degli anni ’60 e mi arrabbio quando cambiano gli arrangiamenti. Non solo, devo ancora riprendermi dal dolore per la separazione tra Gianni Morandi e Laura Efrikian. Sono un nostalgico, come nel calcio. Un romanista che più di Totti porta nel cuore Falcão. 

Al Nobel ci pensa ancora?

Sì, ma non mi vogliono più allo Strega figuriamoci al Nobel. Candidatemi voi di Rolling Stone!  

L’ho trovata particolarmente moderato in questa chiacchierata.

È che ho 71 anni, le energie vengono a mancare. Fino a dieci anni fa mettevo le sedie in piazza a fare i miei comizi volanti con il megafono, a chiedere questo o quello, però non mi ascolta nessuno manco a Latina. Alla fine, uno si stufa. E allora sai cosa vi dico? Fate un po’ come ve pare… io scrivo i libri. Ma le cose che mi fanno incazzare sono tantissime, non ne ha un’idea. 

Come le piacerebbe morire? 

A volte penso nel sonno. E soprattutto senza lasciare conti in sospeso. Andarmene sereno. Possibilmente senza soffrire troppo. Non mi mette paura la morte. Parte del mio dovere l’ho fatta. Mi considero nella fase finale della mia vita e se la parte migliore di me se ne è andata, anche la peggiore è alle spalle. Perché non sono sempre stato una persona perbene, da ragazzo non ero un bravo ragazzo, non sono stato un bravo figlio e neanche un bravo padre. Ora sono un bravo nonno. E ho reso testimonianza e onore ai miei morti, così mi sono riconciliato con mio padre e mia madre. 

E si accende un’altra sigaretta. A smettere di fumare non ci pensa?

Eh vabbè, pure quello devo fà? Abbiate pazienza, andatevene un po’ affanculo! 

Maria Berlinguer per “La Stampa” il 3 agosto 2021. A che ora la posso chiamare per l'intervista? «Meglio mai. Ma se proprio non ne può fare a meno dopo le 16». Antonio Pennacchi, il fascio-comunista, non smentisce la sua fama. E come uno dei Peruzzi, la sua famiglia, partita dal poverissimo Veneto per approdare alle paludi pontine e ai fasti di Littoria, è uno che non le manda a dire, fiero della sua ascendenza contadina, operaia (trent' anni) e della sua terra, l'agro Pontino.

 «Io non scrivo per la voglia di scrivere che anzi non ce ne ho per niente, ma perché devo raccontare delle storie. Non mi piace fare interviste se vuole parliamo del mio libro "La strada del mare" o della Roma, io sto con Dzeko non con Fonseca». Invece, alla fine, parla di politica.

Ha scritto una lettera a Giorgia Meloni perché accetti un governo con tutti dentro. Per lei è un ritorno alle origini?

«Non diciamo cazzate. Cominciamo male. La situazione è tragica, ci sono morti, c'è una pandemia sociale ed economica. Il dramma vero è che tutto questo si innesca su una crisi del sistema democratico e di rappresentanza che già c'era. Il blocco dell'economia e degli ascensori sociali c'erano prima del Covid. Tutto è cominciato col crollo del muro di Berlino, il sistema è andato in crisi. Voi giornalisti vi ostinate a scrivere cazzate sulla seconda e la terza Repubblica che non ci sono mai state. Noi stiamo vivendo l'agonia della prima: la fase terminale».

E quindi?

«La prima Repubblica è stata costruita su un patto tra le forze cattoliche, comuniste socialiste. Mica erano d'accordo su tutto no? Anzi. Non si potevano vedere. Però sono riusciti a collaborare e ricostruire il Paese. Quando si dice la fine delle ideologie ci si riferisce solo al comunismo e al fascismo. E invece no, è entrata in crisi anche la democrazia liberale. La rappresentanza. La sola ideologia che è accettata è quella dei diritti umani».

Che sono fondamentali...

«Certo che lo sono ma qui si parla solo dei diritti del singolo individuo. Poi ci sono i diritti dei popoli e delle masse. Mazzini parla dei diritti e dei doveri. Perché i diritti sociali non sono altrettanto importanti? Ci si riempie la bocca di sovranismo. Che vuol dire? Si rompono le scatole alla Cina e a Putin, giusto. E i paesi Arabi, rispettano i diritti umani? Ma l'America continua a vendergli le armi mentre noi non possiamo dialogare con cinesi e russi. È cambiato tutto e noi dobbiamo costruire una nuova Italia, non solo uscire dal Covid. Anche io non posso più definirmi comunista. Certo, noi in Italia siamo stati comunisti del bene... Però ti devi assumere anche la responsabilità di quello che succedeva in Unione sovietica».

Da qui Meloni il salto è lungo. Quindi un nuovo governo con la stessa maggioranza del Conte bis non le piace?

«Non si esce da questa crisi a colpi di maggioranza risicate. Ma qualcuno ci pensa al futuro? Vogliamo almeno provare a immaginare di non lasciare alle nuove generazioni solo i buffi? Non si può decidere il futuro a colpi di Dpcm, non può essere solo uno a decidere come spendere questi soldi. I debiti che ti assumi per il popolo italiano li devi discutere con tutti. Se spendiamo male questa montagna di quattrini il Paese scuffia. Meloni, Salvini, tutti devono mettere da parte giochini e interessi di parte e sedersi a un tavolo per riscrivere le regole. Vale anche gli altri. Non possiamo continuare a lavorare su una storia chiusa 76 anni fa».

Vede questa possibilità con la nostra classe dirigente.

«Uno dei più grandi filosofi contemporanei, Vujadin Boskov (ex allenatore della Roma, ndr) diceva "questi sono giocatori che io ho". Lavorando in buona fede si può fare. Quelli fecero la Costituzione mettendosi tutti a tavolo. Certo eravamo usciti dalla guerra ma gli effetti della crisi possono essere peggiori per il Paese. Dopo la guerra un minimo di solidarietà l'avevamo trovata. E comunque l'intervista me l'ha estorta».

Antonello Piroso per La Verità – 31 ottobre 2017.  Quel rissoso, irascibile, carissimo Antonio Pennacchi. Scrittore vincitore del premio Strega con Canale Mussolini, 67 anni, ironico e autoironico, di professione è un ex: ex operaio ed ex studente (in quest' ordine, visto che si è laureato a 44 anni mentre a Latina, sua città natale, lavorava davanti a una macchina che sfornava cavi elettrici all' Alcatel Cavi), ex fascista, ex marxista-leninista («ma forse lo sono ancora», e ride), ex sindacalista, ex pugile («volevo diventare campione mondiale dei pesi massimi, ma non c' avevo il fisico») «ed ex rugbista».

Questa mi mancava...

«Eh sì: quando fui espulso dal Msi, mi buttarono fuori anche dalla squadra della Fiamma». 

Perché fu accompagnato alla porta?

«Avevo manifestato davanti all' ambasciata americana contro la guerra in Vietnam». 

Ma gli Usa in Estremo Oriente combattevano il comunismo.

«Non ho mai sopportato l'acquiescenza nei confronti dello strapotere yankee». 

Da camerata a compagno: il romanzo che le ha regalato notorietà è Il fasciocomunista, da cui nel 2007 è stato ricavato anche un film, Mio fratello è figlio unico, regia di Daniele Luchetti, da cui lei si è dissociato.

«Io nel libro (di cui ho appena curato una nuova edizione per Mondadori) presentavo i fascisti anche come persone, non solo come agitatori politici. Cosa che ai realizzatori del film non interessava. Hanno preferito gli stereotipi, e del resto concentrare la trama di un libro in meno di due ore è complicato. Comunque è stata la Mondadori a vendere i diritti, e regista e sceneggiatori non mi hanno fatto neanche una telefonata».

Già: la Mondadori, casa editrice dell'inviso Silvio Berlusconi, grazie alla quale nel 2010 ha vinto lo Strega. Sul Corriere della Sera il critico Franco Cordelli scrisse che se lei non avesse avuto alle spalle la Mondadori con la sua potenza di fuoco, lo Strega l'avrebbe visto con il binocolo...

«Com' è che si chiama il capo indiano che citavi in quella trasmissione che facevi con Adriano Panatta e Fulvio Abbate su La 7, dove sono stato ospite?»

Estiqaatsi, ma l'hanno inventato Lillo e Greg.

«Vabbè, chi è stato è stato. 'Sto Cordelli si preoccupasse dei libri, dei lettori e dei premi suoi». 

Ma com' è che lei non ha pubblicato, che so, con Feltrinelli, editore dal lignaggio di sinistra a 24 carati?

«Senti, io ho mandato il mio primo romanzo, Mammut, a 33 editori, ricevendo 55 rifiuti...». 

Scusi, i conti non tornano.

«Ad alcuni l'ho spedito più di una volta cambiando il titolo o il mio nome come autore.

Poi fu pubblicato nel 1994 da Donzelli. La Feltrinelli mi ha sempre rimbalzato, non mi ha mai risposto, neanche al telefono. Quel mondo lì non mi si è inc... di pezza, come si dice a Roma. Né loro, né quelli della sinistra fighetta di Rai 3, Serena Dandini, Fabio Fazio, Corrado Augias. Non m' hanno mai inc...». 

Le assicuro che il messaggio è arrivato, Pennacchi.

«E quindi io che avrei dovuto fare: pubblicare i miei libri con il ciclostile e venderli con il porta a porta?».

Quali sono stati i libri della sua formazione?

«Quelli che costavano meno sulle bancarelle dell'usato, che si trovavano tra la stazione Termini e piazza Esedra. I classici: Omero, Virgilio, Dante, Ugo Foscolo, Alessandro Manzoni. Gli americani: John Steinbeck di Furore, Hermann Melville (ma non Moby Dick: Benito Cereno, che si occupa della tratta degli schiavi). I russi: Una giornata di Ivan Denisovi di Aleksandr Solzenicyn, Le anime morte di Nikolaj Gogol. E poi Beppe Fenoglio, forse il più grande del Novecento, Il generale Della Rovere di Indro Montanelli, Tempo di uccidere di Ennio Flaiano. Ai giorni nostri, Silvia Avallone (più che per Acciaio, per Marina Bellezza e Da dove la vita è perfetta), Paolo Nori, Antonio Pascale e Fabio Genovesi. Scrittori non rassicuranti, non fanno sconti: se ti sta bene, le cose sono così, sennò vattene a fanc...». 

Nel 2013 c' è stata una sua incursione nella fantascienza con Storia di Karel.

«Quando scrivo, il mio universo di riferimento è sempre Latina. Diciamo che era una vicenda con la mia città trapiantata nello spazio. Solo che i lettori del Canale si sono detti: che c' entra Pennacchi con la fantascienza? La stessa domanda che, sul versante opposto, si sono posti i cultori di Ray Bradbury (autore di Cronache marziane e di Fahrenheit 451, nda): che c' entra Pennacchi con la fantascienza? Per questo mi sono dato ai gatti...». 

Non mi sarà diventato un fanatico animalista, magari vegano, pure lei...

«Primo: io non sono nemmeno vegetariano. Il mio piatto preferito sono le salsicce con i fagioli in umido, e ho detto tutto. Poi ti dico però che, se c' è una scintilla divina in me e pure in te, perché non dovrebbe esserci anche nei nostri fratelli e sorelle animali? Parlo da possessore di cani e di gatti, li ho avuti entrambi e, credimi, l'ho percepito. Ma io mi riferivo a una favola nera danese». 

Prego?

«Brutto gatto maledetto! è una fiaba di cui ho scritto un adattamento, e che narra la storia di un nonno che in una notte buia e tempestosa, adotta un povero felino allo sbando. La dolce creaturina si rivela un vandalo ingrato, di cui allora il nonnino si mette in testa di liberarsi, dimenticando che i gatti hanno sette vite...». 

Una metafora di qualche carriera politica?

«Piroso, ma lo sai che hai una mente contorta? Macché. Un regalo per le mie nipotine: Lucrezia, 14 anni, e Asia, di 7, figlie di mia figlia Marta». 

Scusi la domanda diretta, Pennacchi: è in crisi creativa?

«No, è da due anni che sto facendo un lavoro di ricerca e mi sto arrovellando su un progetto, ma è come se risentissi di una forma di sospensione». 

Indotta o provocata da cosa?

«Dalla privazione del senso? Dal fatto che si è placata la rabbia? Che sono appagato?

Non lo so: forse un combinato disposto di questi elementi, o forse altro ancora. Cui si aggiunge anche il distacco da questa politica ripiegata su sé stessa, incapace di risvegliare una vera tensione ideale». 

Che fa, mi rimpiange le chiese ideologiche del Novecento?

«No. Ma non sarà un caso che al crollo delle ideologie abbia corrisposto un crollo dell'etica, con un colossale harakiri della sinistra, che da un lato si è impiccata all' ipocrisia del politicamente corretto, dall' altro si è ritrovata a inseguire la destra sul suo terreno. Si finirà come a Capalbio». 

A Capalbio? E che c' entra la piccola Atene del Tirreno, secondo la definizione del professore palindromo Alberto Asor Rosa?

«Certa cosiddetta intellighenzia prima predica l'integrazione, poi quando tocca a lei farsi carico degli extracomunitari, ti dice: eh, ma mica intendevo a casa mia. Guarda l'indecoroso balletto cui hanno dato vita sullo ius soli». 

Lei è favorevole o contrario?

«Favorevole. La mia famiglia, mia madre veneta, mio padre umbro, è venuta a bonificare l'Agro Pontino. Una terra di immigrati. Abbiamo imparato sulla nostra pelle cos' è la migrazione, sia pure interna, senza dimenticare la diaspora che costrinse i veneti a sciamare nel mondo. Per questo non tollero chi, per calcoli di bottega politica, fa leva sugli istinti più bassi, instillando nelle persone la paura aprioristica del diverso, caricandosi di un'enorme responsabilità morale». 

Ho come l'impressione che lei abbia in mente un identikit specifico, a proposito di questi «speculatori». 

«Ma non lo vedi Matteo Salvini? Fisicamente sembra un giostraio sinti. Ma poi in Italia chi può rivendicare il sangue puro, con tutte le invasioni e gli incroci che storicamente ci sono stati? Se ti fai un giro in provincia, e vai a Cisterna, incontri ragazzi nati qui, figli di congolesi e ghanesi integrati, che sono più italiani di me e di te».

Va ancora in analisi?

«Sì, da 21 anni. Non ti guarisce, ma ti insegna ad accettarti. Ho cominciato dopo il mio primo infarto». 

Arrivato se non ricordo male dopo Palude, il suo libro del 1995. Somatizza lo stress dopo ogni lavoro importante.

«Dopo Mammut ho fatto due ernie del disco. A ruota della prima stesura di Il fasciocomunista giunse il secondo infarto e mi misero tre by pass. Poi, rottura di una vertebra. Quindi sedia a rotelle dopo una nuova operazione alla schiena, sei bulloni di titanio».

Pensa mai al momento del trapasso?

«Senza paura. Temo di più il dolore e la solitudine. Siamo particelle scagliate nel cosmo.

Quando sono giù, per fortuna c' è mia moglie Ivana che mi prende per mano, di notte nel letto. Senza di lei non sarei riuscito a concludere nulla». 

Nessun Dio ci salverà?

«La salvezza come fatto individuale legata al Cristo è nella visione dei cattolici, come il mio amico Franco Cardini. Io penso che se ci salveremo, lo faremo su questa terra come genere umano. Quanto a Dio, se c' è è malato e soffre. E siamo noi povere creature mortali che possiamo lenire il suo dolore».

·        Arturo Toscanini.

Amori e follie (erotiche) del genio Toscanini. Mattia Rossi il 25 Marzo 2022 su Culturaidentia.it su Il Giornale.

25 marzo 1867: oggi nasceva Arturo Toscanini, grandissimo direttore d’orchestra e Maestro del Novecento, uomo e artista poliedrico, dal temperamento focoso e ardente. Durante una tournée in Sudamerica, nell’Aida di Verdi, prese la bacchetta, chiuse lo spartito e incominciò a dirigere l’opera a memoria: Toscanini inizia così la carriera di direttore a soli 19 anni. Ha diretto nei maggiori teatri italiani le opere del grande repertorio, il Teatro alla Scala di Milano è stato il “suo” teatro e gli USA la sua seconda Patria (diventa direttore del Metropolitan di New York) e proprio Milano sarà la città che gli darà l’ultimo saluto, con una folla immensa prima della sepoltura al cimitero monumentale: (muore il 16 gennaio 1957). Per tributare questo grande italiano CulturaIdentità vi propone l’articolo che l’ottimo Mattia Rossi ha scritto tempo addietro in occasione dell’approfondimento di una parte consistente della fortuna critica e saggistica sul Maestro, in un pezzo dove sviscera quell’aspetto del carattere  o meglio “caratteraccio” di Toscanini che lo ha reso un grande uomo e un grande musicista (Redazione)

«Ieri sera non t’ho scritto perché ero arrabbiato come un cagnino e non mi sentivo bene… In quel maledetto 2° atto della Bohème cori e orchestra m’hanno fatto dannare l’anima – Ho piantato la prova e son scappato a letto». È il 20 agosto 1896 e l’autore della lettera, «arrabbiato come un cagnino», è il grande direttore d’orchestra Arturo Toscanini.

Toscanini aveva proprio un caratteraccio: Harvey Sachs, suo biografo, lo descrive come uomo dallo «smisurato orgoglio» e, soprattutto, un artista incapace di tollerare «il “far musica” in modo superficiale o trascurato». «La specialità di Toscanini era la scontentezza», ricorda Sachs. Tutto questo emerge chiaramente nelle parole scritte dal maestro stesso: in occasione del 150mo anniversario della sua nascita (25 marzo 1867) è stata riedita tutta la produzione epistolare di Toscanini (Lettere, Il Saggiatore, pp. 597, euro 40).

Nel corposo volume emerge il Toscanini uomo e artista con tutte le fisime psicologiche alle quali era solito. In primis, come abbiamo detto, il suo perfezionismo: «Sono ancora a letto con un male di gola terribile… Iersera mi sono arrabbiato moltissimo coll’orchestra – ho gridato quindi come un ossesso», scrive il 31 ottobre 1896 da Voghera dove si trova per una tournée. Da lì passerà a Bologna dove, il 26 novembre, si ripeterà lo stesso copione: «Iersera dopo la prova non t’ho scritto che son corso a letto subito arrabbiato come un cane. Alle dieci ero già a letto. Ho piantato la prova dopo neanche tre quarti d’ora che era cominciata». 

Dopo Bologna, Torino: «Ho finito la prova generale da una mezz’ora che non è andata niente affatto bene – L’orchestra è stata disattenta al punto da costringermi, per castigarla, ad ordinare un’altra prova per domattina» (5-6 gennaio 1897). E così via… Inutile dire, per inciso, che tutte le esecuzioni toscaniniane si rivelarono dei successi.

Dalle Lettere emergono anche molti suoi giudizi sui colleghi. L’avversione per la nuova musica, ad esempio: «La moderna non mi entra, né nella testa – né nel cuore. Sere sono udii alla radio la musica di Petrassi… Gran brutto scherzo! Quella sì è gente da confinare. E Molinari è entusiasta di quel giovane rammollito?» (19 luglio 1939). Toscanini amava, invece, Verdi: «Io ho sempre adorato Verdi fin dalla mia adolescenza». E di Verdi, Toscanini, si diverte anche a rivelare particolari scabrosi e la passione del maestro di Busseto per il sesso orale: «Se gli piacevano le donne che male c’è? Ha scritto a ottant’anni il Falstaff – a settantaquattro l’Otello – con quel po’ po’ di fibra vuoi che si accontentasse di dire della Ave Marie? Verdi amava esageratamente le donne, non solo ma questo contadino possidente e sboccato [un vecchio amico di Verdi che Toscanini conobbe a 19 anni, ndr] diceva d’aver appreso da Verdi ad amare certi baci che fino allora non aveva dato a nessuna donna» (7 novembre 1936).

Eh già, il sesso. Una vera ossessione che permea la vita (e molte pagine epistolari) di Toscanini, come quando scriveva ad Ada Mainardi: «Ada, amo la tua bocca e tuoi baci […] possederti – sprofondato in te – uno solo […] Quando potremo possederci interamente – avvinghiati – sprofondati uno nell’altro – colle bocche anelanti – unite in attesa della voluttà suprema nell’istesso momento?». Talvolta, il maestro, arrivava anche alla blasfemia, come quando parla della «Sacra Sindone», ovvero il suo fazzoletto irrorato del sangue mestruale della Mainardi: «Gelosamente nascosta in tasca ho diretto il concerto… fu tutto un’ispirazione». Un feticismo che lo portava a scriverle, il 7 marzo 1937, impaziente: «I tuoi giorni di grazia non sono ancora arrivati? E i fiorellini del giardinetto della piccola Ada?» (i «giorni di grazia» erano i giorni mestruali, i «fiorellini del giardinetto» i peli pubici).

L’artista e l’uomo, dunque, l’uomo con le sue amicizie – come quella con Gabriele d’Annunzio, ad esempio: «Sabato mi vedrai, e vedrai sul mio volto la gioia che non ti so esprimere in questo momento. Bisogna vederci più di frequente», gli scrive il 27 settembre 1934 – e le sue idee politiche  – Toscanini fu fervido antimonarchico e, sebbene cattolico, antipapalino: «Mussolini – il Re Imperatore e il Papa. Porci tutti quanti…», scrive il 12 marzo 1937 -.

Lettere di Arturo Toscanini è, insomma, un libro “off”, che racconta il grande direttore italiano, uomo e musicista,  in un modo davvero insolito e underground. In una parola, è un libro imperdibile.

·        Banksy.

Banksy ostaggio delle offshore: le opere di denuncia sociale finiscono nei paradisi fiscali. Un trust anonimo in Nuova Zelanda. Con una collezione di tele e graffiti del più famoso artista di strada. A controllarle segretamente è un manager italiano in affari con l’ex dirigenza del Monte dei Paschi. La nuova inchiesta de L’Espresso e del consorzio internazionale Icij sui patrimoni culturali trasferiti in tesorerie private a tassazione zero. Paolo Biondani e Leo Sisti su L'Espresso il 28 Gennaio 2022.

Una piccola storia di soldi all'estero può raccontare più di tanti grandi discorsi il potere del capitalismo finanziario. Il protagonista, suo malgrado e a sua insaputa, è Banksy, il più famoso artista di strada, autore di celebri e beffarde opere di denuncia sociale, protesta contro la guerra e l'imperialismo, contestazione delle banche e dei padroni dell'economia.

Una ventina di anni fa, quando era ancora sconosciuto al grande pubblico, due gallerie di Londra hanno cominciato a comprare i suoi lavori, a prezzi bassissimi rispetto ai valori attuali.

·        Barbara Alberti.

Giulia Cazzaniga per “La Verità” il 28 novembre 2022.

Scrittrice - il suo libro più recente è Amores, edito da Harper Collins -, irriverente, da sempre di sinistra, giusto?

«Antifascista e libertaria, mettiamola così. Sono cresciuta nel dopoguerra, e ho respirato quel sentimento di pericolo». 

Succede che mentre tante donne di sinistra la vedono con il fumo negli occhi, sembra che Barbara Alberti oggi, invece, proprio contro Giorgia Meloni non è

«Mi è sembrato imbarazzante che la prima donna presidente del Consiglio appartenesse alla destra, tradizionalmente ultraconservatrice, e non alla sinistra, dove non mancano donne formidabili come Michela Murgia, che però credo ci tenga troppo alla libertà assoluta del suo pensiero, per mettersi a far politica. Ma il fatto che ci sia un governo di destra, non mi preoccupa di meno perché guidato da una donna».

Succede anche che una delle ministre più contestate dalla sinistra oggi, e cioè Eugenia Roccella, abbia citato lei, Barbara, per le sue posizioni sull'aborto in questi giorni.

«Non lo sapevo. E mi spiace se le mie parole sono state usate a rovescio: rivendicavo il diritto di decisione. L'aborto è un atto terribile. Costa molto, a una donna, e anche per questo la decisione spetta solo alla madre. Nessuno può mettersi fra noi e il figlio che è stato concepito». 

Il suo commento pubblicato dall'Espresso iniziava così:  «Gli antiabortisti dicono che l'aborto è un assassinio. Hanno ragione». Roccella ha ribadito che non si vuole cancellare la 194.

«L'aborto è un diritto incontestabile. Solo noi donne sappiamo cos' è. C'è quella favola cattiva secondo la quale la libertà di aborto spingerebbe le donne all'imprudenza, tante ragazze si darebbero al sesso più spensierato e se restano incinte non importa, tanto c'è l'aborto. 

Niente di grave, come cavarsi un dente. Papa Francesco parlando dell'aborto lo definì come la tragedia delle donne. Nelle sue parole c'era pietà per quell'atto di violenza che comprende madre e figlio. Sentiva il dolore della madre non madre. Le donne hanno in abominio l'aborto, più del Papa».

Sul tema l'attuale esecutivo è stato fortemente attaccato.

«Credo che l'unica cosa seria sia partire dalla realtà. Siamo accerchiati dalla retorica. Nell'esprimere le mie posizioni non parlo a nome delle donne, non ne ho nessun titolo, parlo a nome mio. E penso che l'aborto sia un grande peso e un grande dolore, e che appartenga a noi sole. Non rappresento nessuno, a malapena me stessa. Con la quale sono spesso in disaccordo». 

Lei è contraria anche all'utero in affitto.

«Sì. È una nuova schiavitù. Dicono: "È un atto d'amore". Si è mai vista una ricca americana compiere questo "atto d'amore" per far felice una marocchina indigente? È un affare miliardario che toglie il disturbo ai ricchi. Figliare è diventato un atto servile. Il ricco compera il povero. 

È un atto d'amore se c'è un rapporto affettivo fra i genitori.

Conosco persone che hanno fatto un figlio in tre, volendosi bene. Due gay con l'amica del cuore, ad esempio. Storie di maternità e paternità amorevoli, avventurose e consapevoli.

Ma fare un figlio è un atto sacro». 

Un giudizio laico?

«Non credo in nessun Dio. Esiste una sacralità laica. Non voglio seguire un mondo formalista, che addormentando il linguaggio vuole negare la complessa realtà delle passioni umane. C'è questa illusione infantile e disperata, assolutamente reazionaria, che con le parole si possa rimediare ai fatti, e finisce che non si fa che mentire, e si cambiano le parole per non cambiare la realtà». 

Da sinistra cosa le dicono quando si esprime su certi temi?

«Ma veramente non mi si fila nessuno. Solo la ministra Roccella. Se c'è qualche commento non mi arriva, sto poco attenta. Meno mi penso meglio è. Ognuno di noi è la cosa più pericolosa per sé stesso. Siamo tutti nevrotici dell'affermazione di un io, ma i momenti perfetti sono quando riusciamo a perderci sollevandoci da noi stessi. Nell'arte, nell'amore, nella lotta per un'idea». 

Sempre Roccella notava che di questi tempi sembra che quel che conta sia attaccare la libertà di parola, criminalizzare chi la pensa diversamente. C'è oggi libertà di parola secondo Barbara Alberti?

«Credo che la ministra dica il vero. È un continuo attentato alla libertà di parola. Siamo nella cultura dei social, che sono diventati una forma di tremenda censura e un modo di sragionare. Quanto al linguaggio sono gaddiana, e vorrei che ne inventassimo più di parole, invece che cancellarle. Sono il respiro del pensiero, e si sta creando uno slang del conformismo. Tutti con la smania di proibire, di punire. Tutti giudici, tutti boia. Si tende a censurare tutto, un'euforia di castrazione dell'idea. L'uomo crea invenzioni prodigiose, e le usa contro sé stesso. Siamo animali suicidi perché sappiamo di morire? La nostra finitezza ci porta a una cruenta smania di affermazione». 

Sono tempi di guerra.

«Anche un bambino, soprattutto un bambino, penserebbe che ci dovrebbe essere una coscienza mondiale del fatto che i massacri sono un suicidio, e che la guerra la perdono tutti, oltre a inquinamento e crisi energetica. Invece si spreca. Uomini, energie. Si fa una gara di stoltezza, antieconomica, tragica e ridicola. Carmelo Bene diceva che lo studio della storia è istigazione alla strage». 

Torno alla questione delle donne. Su cui si spendono fiumi di inchiostro. Lei femminista in senso stretto non lo è mai stata, giusto?

«Mio padre era un maschio-madre. Quelli che ti accolgono. Un uomo giusto e aperto. Sono sempre stata totalmente dalla parte dei diritti delle donne. Ricordo bene quando eravamo proprietà del maschio. Le corna del marito erano un vanto, quelle femminili ostacolavano la vita. Padre, fratello e marito avevano il diritto di uccidere. Anche ridere era sospetto: si diceva "donnina allegra", "ragazza seria". Una grande conquista delle donne è stata di poter fare le comiche senza essere vecchie o brutte. Allora, per guadagnarsi il diritto alla comicità, la donna doveva far ridere di sé. Ora si può anche essere bellissime. Da Sabina Guzzanti a Virginia Raffaele». 

Cose ormai superate, no?

«Grazie alla rivoluzione femminista di questi 50 anni. Finalmente abbiamo conquistato il lavoro, ma a nostre spese. Fare figli non riguarda solo le madri, e dare bonus è una beffa. Le giovani madri oggi sono martiri, costrette a fare le cose per sé la notte, quando tutti dormono».

Il premier italiano porta con sé in viaggio la figlia e apriti cielo, le ha lette le critiche?

«Ciascuno può contestare il pensiero di un altro, il guaio è che ormai non si fa altro». 

C'è chi ha scritto che anche far passare il mito della donna wonder-woman danneggia le donne.

«Come siamo barocchi. Ci interessano solo i fronzoli. Passiamo il tempo a setacciare il nulla. Forse la realtà ci spaventa troppo e vogliamo distrarci, forse è un esorcismo. Ma oscura la mente. Meloni ha fatto un gesto umano normale, e non è possibile perdere tempo a discettarne. Si ammazzano 100 donne all'anno, e si crede che essere femministi sia dissipare giorni di battage mediatico per azzuffarsi su bambina sì bambina no?». 

Alla sua sinistra manca la passione?

«Manca solo in politica. La sinistra è vivissima nel pensiero e nelle arti. Maestri della lingua, grandi registi, giornalisti, disegnatori satirici e scrittori». 

Consigli di lettura?

«Michele Mari, Carlo D'Amicis, Michela Murgia, Chiara Barzini, Roberto Saviano, Stefano Massini, Michele Serra, Ermanno Cavazzoni, Lucetta Scaraffia, Lidia Ravera... mi fermo, sono in tanti. Nel cinema poi...».

Ultimi film visti?

«Un giovane maestro e sommo visionario, Luca Guadagnino. Marco Bellocchio, sempre più illuminante. Gianni Zanasi, con War, l'ha visto? Bellissimo e profetico. E tanti altri. Ma non è un elenco, quel che voglio farle». 

Ma...

«Solo un esempio della magnifica vita delle idee, di una sinistra parallela a quella esangue della politica. Per commuoverci, dobbiamo tornare a Enrico Berlinguer: le sue parole erano espressione di bellezza, potenza, sacrificio, onestà e slancio. Ogni passione è trascendenza, e senza trascendenza si muore. Essere di sinistra è una cifra esistenziale, sa?». 

Cose solo di sinistra?

 «No. Massimiliano Parente, assolutamente unico nella folle provocazione stilistica che è la sua letteratura, nell'umorismo, gemello indissolubile del pessimismo cosmico e fastoso, nemico di tutti ma amico mio, disumano per troppa umanità. Insieme a tante jatture, qualcosa di meraviglioso sta accadendo. Speriamo che non sia come nella Repubblica di Weimar - Bertold Brecht, Kurt Weill, Otto Dix - un esercito di artisti intellettuali prodigiosi, meravigliosa fioritura dell'arte e del pensiero. Poi la catastrofe, il nazismo».

Estratti da “Amores”, di Barbara Alberti (ed. HarperCollins) pubblicati dal “Fatto quotidiano” il 10 settembre 2022.  

L'amore è per i coraggiosi, tutto il resto è coppia. 

Gli uomini vogliono solo quella cosa: parlare, e che nessuno li interrompa. L'organo sessuale più ambito dal maschio è l'orecchio. 

Con la droga è facile. Basta pagare, basta uccidere. Ma in amore è uno solo lo spacciatore - e se non vuole!"Non so come dirglielo". Allora sta' zitto. 

A me piacciono solo i baci. Il resto si fa perché si usa. 

Ma perché gli attori del cinema in bianco e nero - Cary Grant, Gary Cooper, Clark Gable - restano affascinanti nei secoli anche per una ragazza d'oggi? Perché non li abbiamo mai visti in mutande. Né in un amplesso con dettagli...

Nei vecchi film tutto era sensuale - quelle camicie da notte di seta, quelle vestaglie di raso. In quei film in bianco e nero c'era l'elemento più importante dell'erotismo: c'era la castità... Io adesso quando girando col telecomando vedo qualche scena di sesso cambio, con un senso di pietà. 

Quelle scopate quanto sono brutte! 

Se non sei sincero a letto, quando mai lo sarai? Dalle bugie del corpo non si torna indietro.

Scrivi "non me l'ha data", come fosse un pezzo smontabile.

"Oh, peccato! Oggi l'ho lasciata a casa" (Cinzia Leone). 

"Mio marito va con le mistress poi torna tutto sconocchiato, graffi, bruciature, e io lo devo rattoppare".

Gli uomini picchiano le mogli gratis, poi vanno a farsi picchiare a pagamento. O sotto, o sopra. Alla pari proprio non ci sanno stare. 

Peccato che coi soldi si possa comprare solo il sesso. Magari si potesse comprare anche l'amore! Non mi ami? Ti compro. Avanti, fa' tu la cifra. 

Quanto, per un sorriso?

Curiosando nel suo pc, ho scoperto che mi tradisce. Che devo fare?

Impara la discrezione, somaro! 

"Ho scoperto che mio figlio è gay, e ho paura che soffra". Perché, se si innamorasse delle donne non soffrirebbe? 

Maschi, siate più affascinanti, siate più antichi. 

Lui mi ha lasciato per l'amante. Ora ci vediamo di nascosto in un alberghetto. Che gioia!

Ora sono l'altra. 

Barbara Alberti: «Basta con la storia del sesso a 80 anni. Amedeo Pagani? Non so più se siamo separati o divorziati». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 3 settembre 2022.

La scrittrice racconta le relazioni degli altri - e le proprie. «Se mi sono mai innamorata di una donna? Certo, ma è sempre andata malissimo. Il Grande Fratello Vip? Una benedizione: ti pagano tantissimo solo per esistere» 

Barbara Alberti, 79 anni, di Umbertide, laureata in Filosofia, è scrittrice, giornalista, opinionista. Ha partecipato alla quarta edizione del «Grande Fratello Vip» (Getty)

La casa di Barbara Alberti si nasconde dietro un boscoso giardino, in uno dei quartieri romani dall’eleganza colta, abitato da scrittori, giornalisti, sceneggiatori. Una casa su due livelli, dove la disposizione dei piani risponde a una precisa architettura sentimentale: al secondo piano abita lei, quasi 80 anni, scrittrice puntuta e dall’intelligenza sempre indocile. Al primo, invece, c’è Amedeo Pagani, storico produttore cinematografico e marito-non marito di Alberti.

Da quanto tempo siete separati?

«Trentacinque anni».

Separati o divorziati?

«Non me lo ricordo. Anzi, proprio qualche giorno fa mi hanno chiesto lo stato civile e allora ho fatto questa domanda a lui. Mi ha risposto con un gigantesco “boh”. Ora che ci penso: se avessimo divorziato me lo ricorderei, o almeno ricorderei la trafila legale. Chissà».

Però continuate a vivere sotto lo stesso tetto. Per abitudine o per dispetto?

«Perché in fondo stiamo bene così. Viviamo di fatto in due appartamenti separati, però ci ritroviamo per fare cose che ci piacciono. Per dire, io gli leggo libri. Insieme abbiamo riletto quasi tutto Steinbeck. Ci siamo appassionati a Platonov. La lettura condivisa è una forma di affetto».

Una forma d’amore, si potrebbe dire, visto che lei è una scrittrice che ha analizzato a lungo i sentimenti.

«E adesso esce anche Amores , per HarperCollins (ndr. in libreria dal 9 settembre), dove parlo degli amori soprattutto degli altri, però, sì, è vero, ogni coppia trova una propria dimensione, anche quando l’amore tradizionalmente inteso non esiste più».

«LE CORNA MI FANNO IMBESTIALIRE PERCHÉ L’AMORE È TOTALIZZANTE, PERÒ È VERO CHE A VOLTE TI SALVANO LA VITA. IL PUNTO È: COME FAI A SOPPORTARLE?»

Perché vi siete lasciati?

«Perché io l’ho tradito».

Lei, che non sopporta le corna.

«Mi fanno imbestialire. Ma qualche volta ti salvano la vita. Una volta, tanti anni fa, stavo con un tipo insopportabile. A un certo punto lui mi dice che va a giocare a carte a casa di Lina Wertmüller. Bene, io telefono lì ma lui non c’era. Scopro che si vede in gran segreto con un’altra. Mai stata più felice in vita mia. Lo caccio via immediatamente».

Perché non sopporta le corna?

«Perché l’amore è totalizzante, ha una forza altissima perché inspiegabile, l’ultimo grande mistero che ci avvolge. Quando tu sei mossa da questa forza sovrumana, come fai a sopportare un tradimento? Non è possibile».

Nel libro lei parla anche degli amori tardivi, quelli che arrivano a una certa età. Non è che stiamo insistendo un po’ troppo con questa faccenda di fare sesso anche a cento anni?

«Non se ne può più. Il problema è che da anni non siamo più poveri cristi ma consumatori. Bisogna consumare tutto: cibo, moda, sesso. E siccome da un po’ si sono accorti che noi vecchi abbiamo tempo e — mediamente — più soldi: ecco allora che cercano di convincerci a scopare. Poi, per carità, succede di tutto. Un tempo avevamo due vecchini vicini di casa che noi credevamo in limine mortis , ma poi abbiamo scoperto che lo facevano tutti i giorni».

Barbara Alberti all’inizio della carriera, accanto alla locandina del suo lavoro teatrale «Ecce Homo» nel 1974

Più in generale il sesso sembra diventato un obbligo, o, quantomeno, un problema.

«Prima c’era il confessore che ti chiedeva: “Quante volte lo hai fatto?”. E dovevi dire la penitenza. Oggi c’è il sessuologo che ti chiede: “Quante volte non lo hai fatto?”. E se non sei nella norma, dice che sei malato».

Lei cura lo spazio delle lettere sull’amore da anni sui giornali. Che idea si è fatta degli amanti di oggi?

«Sono infelici».

Perché?

«Ma perché la gente si mette con persone che non ama, va a letto con chi non gli piace e poi finisce dallo psicologo o scrive a me. Ma io dico: perché non lo fate con qualcuno che vi eccita davvero? Fa bene alla salute».

Ma l’amore non è anche compromesso, costruzione, evoluzione?

«Sì, però l’amore è per i coraggiosi, tutto il resto è coppia».

E che cosa diventa la coppia, dopo una certa età?

«Uh, per gli uomini un disastro. Abbiamo uno Stato peloso e ipocrita che permette che le donne vengano ammazzate ogni giorno senza fare una piega, ma poi, quando si tratta di divorzio, cerca di riparare al danno dando sempre ragione alle ex mogli. Così oggi ci sono decine di miei coetanei che assieme a me hanno fatto le battaglie per il divorzio negli anni Settanta e che oggi si ritrovano con due o tre mogli da mantenere. Grazie al divorzio. Buffo, no?».

E per le donne?

«Oggi le donne sono bellissime anche a cinquanta, sessanta o settant’anni. Guardi Rita Rusic, tanto per fare un nome. Ma io penso che sia anche per questo che gli uomini ci odiano: non sono pronti a questo modello sempreverde, pensano di essere ancora negli anni Cinquanta, quando l’ultimo cretino di paese si sentiva in diritto, alla sera, di picchiare la moglie a casa. Moglie che a soli quarant’anni doveva evitare di vestire di rosso o di truccarsi».

E la gelosia cambia, negli amori tardivi?

«È sempre la stessa. Feroce, divoratrice. Anche l’innamoramento è sempre lo stesso. Qualche anno fa mi è capitato di innamorarmi e la scintilla è stata identica a quella che mi incendiò all’epoca della mia prima cotta, quando ero ancora all’asilo».

«IL PUDORE È IL DETONATORE DELLA SESSUALITÀ. PERCHÉ DIVENTIAMO ANCORA MATTE PER CARY GRANT? PERCHÉ NON LO ABBIAMO MAI VISTO IN MUTANDE»

Il problema negli over, dunque, è il sesso?

«La natura è più clemente della pubblicità, esistono le stagioni. L’immagine di due vecchi corpi congiunti non evoca l’erotismo, evoca la morte».

Barbara...

«Lo so, sono provocatoria. Però io non ne posso più di questo dover misurare il sesso, fissarlo in tabelle di marcia: signori, ecco come copulare a venti, quaranta, sessanta, ottant’anni. Ogni età, poi, viene classificata con le regole da seguire, come su un manuale. Il sesso è la cosa più libera che esista, quella meno controllabile. Ognuno faccia quello che vuole, ma per l’amor del cielo, recuperiamo il pudore».

Il pudore?

«Sì, il più grande detonatore della sessualità. Ma lei si chiede mai perché ancora oggi noi donne diventiamo matte per Cary Grant? Perché non lo abbiamo mai visto in mutande. Oggi si parla troppo di sesso e lo si fa poco. I giovani, poi, pochissimo».

Perché, secondo lei?

«Ma perché fanno tutto sul cellulare. Il problema è che online è tutto levigato, filtrato, perfetto. Quando poi i maschi giovani, oggi, vedono una donna in carne e ossa notano solo peli, smagliature, ogni minimo difetto».

È anche per questo che ci siamo lanciati in una corsa a segnalare i difetti fisici delle donne più famose? Penso a Vanessa Incontrada e al costante richiamo ai chili di troppo ogni volta che si parla di lei.

«Quella secondo me è più una questione di invidia sociale. Vi siete mai accorti che i social ci hanno trasformato in una comunità di tricoteuses , cioè di sferruzzatrici? Siamo diventati tutti delle acide beghine che stanno lì, guardano gli altri e aspettano che cada qualche testa. È agghiacciante. Facebook, Instagram e tutti gli altri ci hanno convinto che quelli che hanno un briciolo di fama, di riconoscimento o semplicemente di successo perché abili nel loro lavoro, in realtà siano degli ignobili usurpatori che ci stanno portando via qualcosa».

Lei si è mai innamorata di una donna?

«Certo, mica l’amore guarda la carta di identità. Ma ogni volta è andata malissimo. Soprattutto perché quelle che incontravo mettevano al primo posto l’orgoglio lesbico. E io che posto avevo? Però ancora oggi penso che le donne siano fatte per le donne. Io ho tanti amori platonici femminili: ho amiche bellissime e le amo tutte».

La prima volta a letto?

«A diciannove anni. Terribile. Ma lo avevo fatto solo per dispetto a mia madre. Non mi chieda chi era, era uno qualunque».

E l’ultima volta che si è innamorata?

«Qualche anno fa. A distanza. Elettrizzante, magnetico. È finita. Ci ha salvato il fatto che viviamo in due città diverse».

Perché? Lei è separata, è libera.

«Eh» (pausa, silenzio, non-detto).

Barbara, lei è stata al Grande Fratello Vip . Lo rifarebbe?

«È stata una benedizione. Cose così ti strappano alla vita di tutti i giorni, ti catapultano in un posto dove c’è la piscina, la Nutella e tante storie umane. E poi ti pagano (tantissimo) solo per esistere».

Che cosa non le piace delle femministe di oggi?

«Che ci vogliono tutte come madonnine offese: e la differenza tra ministro e ministra, e lo schwa. Le vere femministe facevano paura, erano delle streghe e cambiavano le leggi. Adesso mi pare un trionfo del perbenismo e delle questioni inutili».

Se dovesse capitarle di innamorarsi di nuovo...

«Sì, del becchino».

Lucia Esposito per “Libero quotidiano” il 17 giugno 2022.

Barbara Alberti è come molti dei suoi trentasei libri: imprevedibile e spiazzante fino all'ultima parola. Se c'è una strada diritta lei la evita e ti conduce nelle vie tortuose e poco frequentate del suo pensiero. Le chiediamo un commento sugli insulti che molte donne di sinistra hanno scaricato addosso a Giorgia Meloni dopo la vittoria alle elezioni e il trionfo nei sondaggi sul gradimento dei leader. 

«Non sono al corrente di questi insulti. A me, che sono di sinistra, preoccupa la crescita della destra e mi duole enormemente l'assenza della sinistra. Ci sono tante brave persone ma non vedo nessuno che abbia la passione e la convinzione di un Berlinguer. La crescita della destra è dovuta alla morte della sinistra. Non condivido nulla di quello che dice la Meloni ma riconosco che crede in ciò che dice». 

Condanna la sinistra perché non ha più passione?

«Non condanno nessuno. Mi dispiaccio per i miei figli, per i miei nipoti e bisnipoti che non vivono in un mondo come quello che ho conosciuto io in cui c'era una sinistra che portava avanti le sue battaglie. E vorrei che oggi da sinistra ci fosse qualcuno che contrastasse tutto questo perbenismo di facciata che rende inutili omaggi alle donne». 

Faccia qualche esempio.

«Se uno dice "bona" per strada scoppia un putiferio, se tocca un culo accade il finimondo, dopodiché ti rendi conto che viviamo in un Paese dove è in atto una strage da quando le femministe esistevano davvero e la Lagostena Bassi passò dodici anni della sua vita per eliminare dal codice Rocco il delitto d'onore.

Oggi ci ammazzano, ci pagano meno e non ci aiutano a fare figli. Non servono bonus, ma un Paese civile dovrebbe dare alle donne la possibilità di stare con il proprio figlio per un anno senza riduzione dello stipendio. Le femministe di allora hanno cambiato le leggi, oggi non c'è un leader ed è disperante l'uso edulcorato del linguaggio». 

Possiamo quindi chiamarla vecchia e non anziana?

«Se elimini la parola vecchia mi offendi perché vuol dire che rappresento qualcosa di disgustoso. Anni fa la mia amica del Camerun, Geneviève Makaping, docente di antropologia, faceva la portiera d'albergo e quando vide Sgarbi disse: "Voi che andate in tv chiamatemi negra. Bianco non è una parolaccia, perché deve esserlo negro"?». 

Non pensa che tra donne, al di là degli schieramenti, ci dovrebbe essere quella che le femministe chiamano «sorellanza», un'alleanza che supera le barriere dell'ideologia?

«Il sessismo non lo voglio neanche negli insulti. Se devo insultarti lo faccio se sei maschio o se sei femmina. Non mi interessa la retorica delle donne che devono essere amiche per forza. Penso però che la rivalità femminile l'abbiano inventata i maschi a loro vantaggio». 

Quindi lei ritiene che una donna di sinistra possa insultare Meloni perché la pensa diversamente da lei?

«Secondo lei non dovrebbero insultarla come avversaria politica solo perché è donna? Questa è retorica».

 Lei è contraria all'utero in affitto...

«Trovo agghiacciante che la sinistra appoggi e consideri libertario che un ricco possa inseminare una povera per risparmiarsi il disturbo di fare un figlio. Nessuna schiavitù, forse solo quella dei neri americani, era come questa. 

Non sono contraria a "combinazioni affettive" ma un figlio deve essere frutto di un rapporto affettivo, non di un accordo economico. Una sinistra che appoggia l'utero in affitto ha perso il diritto a chiamarsi sinistra». 

Lei è critica anche con il body shaming.

«Sono stata grassa e sono felicissima che le persone non vengano insultate per il loro aspetto. Però da qui a far credere che se pesi 80 chili piaci come Sharon Stone no. È solo ipocrisia». 

Il metoo è stato un aiuto o un danno per le donne?

«Il metoo ha scoperchiato una marmitta disgustosa che è la tassa che noi donne dobbiamo pagare per lavorare. Un'imposta che non capita solo alle attrici ma anche alla donna che guadagna 700 euro al mese e magari ha un figlio paraplegico e se il padrone del negozio le tocca il culo ci deve stare per forza.

Non è il sesso che spinge questi "capi" ma il potere. Il metoo ha scoperchiato questo ripugnante pedaggio che le donne devono pagare, dopodiché ha virato in un perbenisimo spaventoso. Quell'anno non assegnarono il Nobel per la Letteratura perché il marito di una giurata aveva molestato una donna. A rimetterci è sempre l'arte». 

Cosa direbbe alle donne che hanno accettato di pagare quella tassa per lavorare?

«Direi: "il tuo successo sei tu, non viene dai maschi" e non aver detto quel "vaffanculo" è una mortificazione». 

L'Italia è pronta per un leader donna?

«Solo la retorica è pronta. Non è una questione di sesso ma di competenze e di idee». 

·        Billy Wilder.

Steve Della Casa per “La Stampa” il 28 marzo 2022.

«Avete fabbricato un capestro di parole per soffocare il cinema». Norma Desmond, la diva del muto che cerca disperatamente di riconquistare un ruolo e una visibilità nel capolavoro Viale del tramonto, chiosa in questo modo la notizia che sarà lo scrittore William Holden a cimentarsi nel costruire una storia che le consenta il grande ritorno.

Una amara considerazione per una donna che è convinta sia stato l'avvento del sonoro a spingerla immeritatamente nella zona grigia dei dimenticati nel mondo dello spettacolo. Ma quella battuta, messa in bocca a una donna disturbata di mente, è anche la spia di quanto sia importante per Billy Wilder la parola, alla quale conferisce in tutti i suoi film un ruolo fondamentale. 

I virtuosismi con la cinepresa, infatti, non gli interessano e per quanto riguarda le inquadrature sceglie sempre quelle più semplici, più lineari. Noah Isenberg, che ha curato una splendida raccolta di scritti del grande regista austriaco (Billy Wilder. Inviato speciale, edito da La Nave di Teseo, con la cura per l'edizione italiana di Alberto Pezzotta), sostiene a ragione che questa attenzione di Wilder per la parola risalga ai suoi primi avventurosi anni come giornalista, quando negli Anni 20 operava prima a Vienna e poi a Berlino, e che in quella sua attività si può trovare in nuce tutto ciò che porterà Wilder a una fama mondiale.

Nei primi tempi il suo nome era Billie Wilder (l'americanizzazione Billy Wilder sarà un omaggio successivo alla sua patria d'adozione) e lo troviamo in calce a cruciverba che si divertiva a creare, ma anche come ballerino fantasista apprezzato nell'albergo dove si esibiva, perché sapeva fare gli interessi di chi lo pagava oppure come giornalista specializzato in interviste ai grandi dello spettacolo che sapevano essere al tempo stesso scoppiettanti e ciniche.

Inutile dire che si trovano accennati tanti temi che ritroviamo nei suoi film migliori, dalla compagnia di spettacolo itinerante di A qualcuno piace caldo fino ai giornalisti solo in apparenza diversi tra loro di L'asso nella manica e di Prima pagina. I reportages di Billy Wilder non sono solo articoli, sono vere e proprie storie con all'interno personaggi tridimensionali. 

Wilder si reca a Genova e identifica la casa dove ha vissuto Cristoforo Colombo. La descrive in tutta la sua attuale decadenza fatta di incuria, di sporcizia e di bottiglie abbandonate lì vicino. Ci descrive con cura dove il giovane scopritore delle Americhe giocava a biglie (il termine è scritto proprio così, in italiano). 

Poi ci ripropone due brevi chiacchierate, una con una bambina che non sa assolutamente chi sia Colombo e si cura solo del recipiente con il latte che sta trasportando, poi di un americano sovrappeso che fantastica di comprare la casa stessa, trasportarla in America, aprirla al pubblico a mezzo dollaro il biglietto e corredarla con un'ancora originale del grande navigatore che lui sa essere custodita a Philadelphia e rimpiangendo il fatto che il famoso «uovo di Colombo» sia ormai definitivamente marcito... Altrettanto gustoso è il rapporto con la padrona della casa dove Wilder vive, che ha una passione (non condivisa dal futuro regista) per la naftalina con la quale intende tutelare i capi di abbigliamento.

O di come un acquazzone estivo su una Berlino insolitamente oppressa dall'afa possa favorirlo in una più approfondita conoscenza della ballerina con la quale aveva condiviso pochi passi di danza. O quando racconta di un grossista di frutta che assume una persona grassa e dotata di dentatura sana solo perché conferisca un tono ottimista alle attività del suo magazzino.

O ancora quando sostiene (in modo paradossale) che spesso ci sia una mano femminile dietro le pessime ristrutturazioni che hanno snaturato per sempre alcuni caffè della capitale tedesca, sostenendo che per le mogli dei proprietari l'arredamento di un locale è come un vestito vecchio, che deve essere gettato via. O infine quando la rosa di Gerico dalle presunte doti miracolose si rivela una truffa, anche se il successivo cambio con un cactus gli consente di risolvere il problema di un regalo di compleanno per una vecchia zia (e forse il miracolo consiste proprio in quello). 

Ogni racconto è cosparso di arguzie e di un'attenzione maniacale per i dettagli: tutte doti che ritroveremo puntualmente nelle storie che Wilder scriverà per il cinema. Le battute che tutti noi ricordiamo come il «nessuno è perfetto» su cui finisce A qualcuno piace caldo non arrivano dal nulla, e lo stesso vale per Walter Matthau, cinico assicuratore in Non per soldi ma per denaro e poi direttore altrettanto spietato in Prima pagina. Li possiamo ricostruire passo passo leggendo articoli che sono un vero e proprio capolavoro dell'arte di narrare.

Estratto da “Billy Wilder – Inviato speciale. Cronache da Berlino e Vienna tra le due guerre” (ed. La nave di teseo), pubblicato da “La Stampa” il 28 marzo 2022. 

Nel Vecchio Mondo, dove nacque Cristoforo Colombo. Genova, febbraio. Nulla domus titulo dignior heic paternis in aedibus christophorus columbus pueritiam primamque iuventam transegit. Questa iscrizione è incisa su una targa di marmo installata sopra due finestre da cui, circa quattrocentottanta anni fa, venivano appesi ad asciugare i pannolini di Cristoforo Colombo.

Ignoro se l'illustre navigatore avesse fratelli e sorelle o fosse figlio unico. Non importa: la famiglia Colombo sembra avesse bisogno di poco spazio; la casetta, a un centinaio di passi da piazza De Ferrari, è larga appena quattro metri, lunga sette e alta cinque; è di pietra grigia, ha il tetto piatto ed è mezzo diroccata. 

Gli edifici ai lati sono stati abbattuti, per liberare la struttura originaria dell'edificio in cui vide la luce l'uomo che scoprì l'America; e dà su un giardinetto chiuso da un'alta rete metallica dove crescono pochi alberi rachitici e l'erbaccia è costellata da lattine e bottiglie rotte; in fondo i resti di un portico romano, venuti alla luce durante la costruzione della Banca d'Italia.

A quanto pare era lì che si nascondevano il piccolo Cristoforo e i suoi amici quando giocavano a guardie e ladri. La targa appena menzionata e le sue finestre sono gli unici ornamenti della casetta, a parte due massicce porte di ferro appena verniciate di verde scuro e una ghirlanda appesa sotto il tetto, così rovinata dalle intemperie che ci vorrebbe un botanico per identificare i fiori. Le altre facciate sono cieche. Il viaggiatore curioso scopre che le due porte sono chiuse. 

È ancora abbastanza presto, piove a intermittenza, e un forte vento infierisce contro i rampicanti che salgono lungo i muri, Una ragazzina con gli zoccoli attraversa la strada con una brocca pieno di latte. «È sempre chiuso?»; «Sì, signore». «Chi ha le chiavi?»; «Perché me lo chiede, signore?»; «Perché è qui che è nato Colombo»; «E chi è Colombo?».

La ragazzina non aspetta la risposta ma procede, dondolando la brocca e scomparendo in un vicolo. Un tassista genovese che ogni tanto porta in giro qualche straniero, sembra meglio informato. «La casa di Colombo è aperta durante l'estate. Ci sono due stanze con i mobili dell'epoca». Nella casa davanti, che non sembra molto più recente, c'è un'osteria; al piano di sopra sono appesi due costumi da Pierrot, un giallo e uno nero: è una ditta che affitta costumi; di fianco ci sono un veterinario e una scuola di musica che promette un mandolino gratis a chi paga in anticipo un semestre di lezioni (a 25 lire al mese).

Per raggiungere Porta Sant' Andrea, costruita nell'anno Mille, passo davanti a una ventina di edifici cadenti e abbandonati, con vicoli ciechi e scale che non portano da nessuna parte. Accanto ci sono i resti delle vecchie mura. Alla loro ombra sicuramente Cristoforo Colombo giocò a biglie: le palline colorate già note ai bambini babilonesi, e ancora oggi usate da quelli di Metropolis. 

All'Hotel Miramare è l'ora del tè. Un americano sovrappeso con le guance paffute mi offre una Camel. Cominciamo a chiacchierare, e dopo mezz' ora mi racconta: «Ero a Sanremo e una botta di fortuna mi ha portato qui a Genova. Una vera botta di fortuna. Di certe faccende di lavoro sarebbe meglio non parlare, si sa, ma voglio fidarmi di lei. Ho scoperto la casa dove è nato Cristoforo Colombo. Ed è una scoperta che vale milioni di dollari. 'E com' è possibile?' mi dirà lei. Glielo spiego. Appena torno a casa fondo una società che compra la casa, la mette su una nave e la porta a New York.

·        Carlo Emilio Gadda.

Carlo Emilio Gadda, la vita come uno gnommero di pensieri. SILVIA PERUGI su Il Quotidiano del Sud il 28 Novembre 2022

Carlo Emilio Gadda è scrittore a sé. Unico. Complesso e stratificato. Indecifrabile. In quest’ultima caratteristica è racchiusa tutta la difficoltà che qualunque lettore incontra nell’approcciarsi alla sua opera, e al tempo stesso proprio in essa si nasconde la sorprendente bellezza della sua letteratura. Gadda si perde continuamente nella matassa dei pensieri – e il lettore qualunque con lui – senza riuscire a venirne fuori con un’idea netta di realtà. Le riflessioni si attorcigliano su loro stesse senza soluzione. Le circonvoluzioni della mente si complicano sempre di più. Eppure, proprio qui è custodito il segreto della sua unicità: in questa incessante esplorazione del mondo, che non rinuncia ad andare avanti pur non arrivando ad alcun approdo.

Gadda è stato definito il maggiore scrittore italiano del pieno Novecento – e il suo romanzo La cognizione del dolore è considerato da tanti il più grande capolavoro della nostra letteratura del secolo passato. Non c’è unanimità, però. Alcuni faticano addirittura a chiamarlo narratore: poiché il vero passo del racconto – sostengono – è sviluppo e non ingorgo.

La narrativa gaddiana – sottratta alla logica della consequenzialità, alla necessità della trama, all’obbligatorietà della conclusione – si rivela nel suo garbuglio inestricabile la più simile alla vita. Non sono le cose che ci accadono, una di fila all’altra, a determinarci, è piuttosto come le percepiamo – e cioè come ne facciamo esperienza – ognuno secondo i propri tic, le proprie manie, le proprie ossessioni. In una parola, ognuno secondo il proprio carattere: nostra più atroce condanna o nostra più immensa fortuna. Il groviglio originale sta tutto lì: nell’ingorgo del pensiero che si crea nella nostra testa. È quello che rende ogni cosa bella o brutta, facile o difficile.

C’è solo un altro grandissimo scrittore capace di reggere il paragone con Gadda, è James Joyce: la dimostrazione che nessuna letteratura, se non la nostra, ha formulato una pseudo legge secondo cui tensione stilistica e tensione narrativa sarebbero inversamente proporzionali. Se Joyce è un romanziere – e non c’è alcun dubbio che lo sia – allora anche Gadda lo è: è un narratore “espressionista” – come in Italia non ne abbiamo avuti altri – che segue un moto contrario a quello del solito narrare che va dall’esterno all’interno. Gadda procede all’opposto: dall’anima alla realtà, dallo spirito alla materia. Non è il racconto delle cose per come sono, è il racconto delle cose per come l’autore le vede e le vive. Ed effettivamente esistono pensieri che stanno solo nella nostra testa e nelle pagine dei suoi libri.

A rendere unico lo stile di Gadda contribuisce soprattutto il linguaggio: forse l’elemento più tangibile di una poetica così profondamente basata sull’introiezione del mondo. Anche la lingua di Gadda è a sé. Un idioletto solo suo. Un impasto variegato di parole colte e arcaicizzate, gergali e dialettali, a cui si mescolano e si accumulano termini stranieri. Una polifonia che mima da vicino la molteplicità sfuggevole da cui lo scrittore era ossessionato. Quella pienezza irraggiungibile da chi, per carattere, è inesorabilmente portato a perdersi nei dettagli pur aspirando a cogliere l’insieme, a inglobare il mondo. Come si può giungere a una soluzione finale mentre la realtà si smaterializza e si ricompone di continuo, in una serie di aggregazioni alternative? Gadda aggroviglia scrittura e pensieri senza giungere mai a tirare le fila del discorso. Le sue opere non concludono, non hanno forma stabile. Sono magmatiche, lavorate ostinatamente.

I RITRATTI DI SILVIA PERUGI

C’è un elemento stilistico ulteriore – accanto a quello strutturale e a quello linguistico – che va preso in considerazione nella prosa gaddiana: sono sue, appartengono tutte a lui, le emozioni che vengono riversate nel racconto. Sono queste che dilagano nella pagina, non quelle dei personaggi. A modulare o perturbare quel canale comunicativo che si instaura tra autore e lettore. E cosa ancor più singolare sono emozioni in continua oscillazione: ira, sdegno, furore, dolore, amarezza, malinconia, commozione, ilarità, euforia; con tutti i relativi registri: sarcastico, ironico, elegiaco, sublime, tragico, comico. Ciò rende con certezza Gadda il più umorale dei nostri scrittori – che ride nel pianto – capace di cambiare tono bruscamente, nel giro di una sola frase. Totalmente incoerente. Completamente contraddittorio. Sempre agognante, bramoso di interezza. È in un simile miscuglio di pensieri, registri ed emozioni che si sostanzia la rappresentazione più caotica e vera dell’inestricabile flusso vitale.

Non importa stabilire se Gadda sia il più grande scrittore italiano del Novecento. Gadda è imprescindibile. Questo è sufficiente. Imprescindibili sono le sue opere, tre su tutte – così diverse e così simili – La cognizione del dolore (1963), L’Adalgisa (1950) e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957) – in cui è francamente impossibile trovare qualcosa di superfluo o superato.

Conosciamo di Carlo Emilio Gadda le nevrosi, le paranoie, le ossessioni, le manie, i complessi, i rimorsi, il male immedicato e immedicabile, il buio orrido di un’anima ingarbugliata nei suoi pensieri, avida, invidiosa, lacerata. Non ne fa mistero alcuno. Anzi, è ciò di cui scrive. E allora, viene da chiedersi, acquisita una certa consapevolezza di ciò che si è, perché non tentare di liberarsi di tale triste configura? Conoscere le proprie nevrosi non significa essere capaci di separarsene.

Scrive Gadda: “Non c’è magistero per le anime sbagliate, le loro piaghe non conoscono cipria”. A voler seguire il viluppo vorticoso delle circonvoluzioni mentali, ciò che noi sappiamo di Gadda, che è ciò che lui crede di sé, non è che il frutto distorto delle sue nevrastenie. Di quel desiderio mai sazio di pienezza che fa i conti con errori e mancanze. – Anche la percezione che abbiamo di noi stessi è alterata dal carattere.

In fondo, cosa siamo senza le nostre nevrosi? Compagne contraddittorie, ricercate e respinte. Nostra dolorosa costrizione, nostro consolatorio riparo. La monotona rissa di ogni giorno perderebbe il fascino dei suoi contrastanti colori. Senza di esse Gadda avrebbe perso la sua intensità: in lui nulla è lieve, effimero, futile, tutto finisce per avvilupparsi in un nodo, in un groviglio, in uno “gnommero” folto, denso, impenetrabile, dove convergono passato, presente, futuro, la realtà, il sogno, il tragico, il comico. In cui niente può essere dimenticato o cancellato. Da questa intensità nasce la sua unicità.

·        Carlo Levi.

Il pensiero dell'autore. Carlo Levi e l’eterno fascismo tra passato e presente. Filippo La Porta su Il Riformista il 10 Novembre 2022

Torniamo a parlare – per l’ultima volta! – di fascismo. Al di là di anacronismi storici e di paure insensate di nuove marce su Roma il fascismo esiste, eccome! Solo che non va identificato con una parte politica, con una ideologia (o almeno: non solo con una parte politica). Credo che bisognerebbe rimeditare in proposito la riflessione di Carlo Levi, giellista e azionista, considerato dai comunisti “anarcoide e qualunquista” e dalla destra un “utile idiota dei comunisti”.

Già nei primi anni ’30 scriveva sulle pagine del giornale di “Giustizia e libertà” che occorrerebbe “combattere il fascismo dentro di noi”. Vi ricordate Gaber: “Mi fa paura non Berlusconi in sé ma Berlusconi in me!”. Nel Cristo si è fermato a Eboli parla di “un eterno fascismo italiano”, riecheggiando “l’autobiografia della nazione” gobettiana. Ma cosa dobbiamo intendere con questo concetto? Si tratta del fascismo come antropologia e mentalità, dunque trasversale. Proviamo ad approfondire questo concetto. Nello stesso libro Levi suggerisce la celebre dicotomia tra “luigini” (dal nome del podestà fascista di Aliano, il paesino lucano del confino) e “contadini”. Ora, i “contadini” sono per lui non soltanto i contadini, anzi possono esserlo anche gli industriali, gli operai, gli artigiani, i medici, i matematici, etc., insomma tutti “quelli che fanno le cose, che le creano, che le amano, che se ne contentano”. Mentre i “luigini” – cioè i fascisti – sono “quelli che dipendono e comandano, e amano e odiano le gerarchie, e servono e imperano”. Ora, la mossa straordinaria di Carlo Levi, che pure combatté concretamente il fascismo storico (e dal regime venne arrestato e confinato), è quella di concludere che in ognuno di noi c’è una parte contadina e una parte luigina, tra loro in contrasto (così come negli anni Trenta ebbe a dire che occorre anzitutto sconfiggere il fascismo dentro di noi).

Solo un ricordo autobiografico in proposito, spero non del tutto abusivo. Nel ’68 il presidente Mao, che pure era stato responsabile di una modernizzazione forzata dell’economia cinese (negli anni ’50) che costò milioni di vittime tra i contadini, e poi della sciagurata Rivoluzione Culturale nei ’60 (con centinaia di migliaia di morti), scrisse un aureo libretto, credo fondamentale per la mia generazione: “Sulla contraddizione” (tra l’altro una leggenda metropolitana vuole che non avesse mai letto Marx ma che conoscesse la dialettica hegeliana!). Bene in quelle pagine si leggeva che in ogni rivoluzionario agiscono spinte controrivoluzionarie, e che dentro ognuno di noi comincia la battaglia politica. Qualche anno dopo la straordinaria rivoluzione femminista nel nostro paese si dovette ricordare di quella intuizione. Il critico Matteo Marchesini ha recentemente attaccato un mito caro a Carlo Levi, e dopo di lui a Elsa Morante e Pasolini. Il mito, per tutti loro confortevole, di una segreta parentela tra artisti e reietti, di una affinità tra i poeti e gli ultimi. Un mito fondato su una illusione e su una indebita proiezione personale. Levi si sentiva prossimo ai contadini lucani, Pasolini ai borgatari, la Morante agli analfabeti. Tutti e tre immaginano questa invisibile alleanza con soggetti sociali estranei alla Storia, depositari di una vitalità incorrotta e infantile, depositari di una verità premorale (feroci e innocenti, brutali e autentici), uniti insieme contro la classe media, contro una piccola borghesia amorfa, spenta, mediocre.

Già Franco Fortini volle prendere le difese nel 1964 di quella povera giornalista che intervista Pasolini, da lui definita una “maledetta cretina” nella poesia “Una disperata vitalità”. Confesso che anche a me venne voglia di parteggiare per la ragazza che in “Palombella rossa” intervista Nanni Moretti – la freelance di qualche squallida TV locale – e che solo per aver osato usare un termine come “trendy” viene da lui schiaffeggiata! Insomma: è ben altro il conformismo che bisognerebbe combattere! La critica di Marchesini coglie nel segno, però qui bisognerebbe distinguere tra Carlo Levi da una parte, e Pasolini e Morante dall’altra. Vorrei obiettargli che dentro l’opera di Carlo Levi si trovano gli stessi anticorpi che possono aiutarci a smontare quel mito. Come abbiamo visto la sottolineatura del dualismo sotteso alla persona – in ognuno c’è la parte contadina e quella luigina – lo protegge dalle mitologizzazioni estetizzanti di Pasolini e Morante, dal loro populismo aristocratico e dal loro malcelato disprezzo per la gente comune. Il conflitto avviene nella coscienza di ogni individuo. Certo, poi Levi identifica i “luigini” con la “sterminata, informe, ameboide piccola borghesia”, i politicanti, gli industriali assistiti dallo stato, i parassiti, i letterati dell’eterna Arcadia… Però a ben vedere queste due “civiltà” coesistono dentro la nostra interiorità. Perciò Levi non poteva consentire alla separazione manichea tra “uomini e no”.

Ma per chiarire il suo concetto di “eterno fascismo” ripassiamo quell’altra dicotomia, che incontriamo nel suo ultimo libro, il Quaderno a cancelli, scritto nel 1973 durante una convalescenza (a causa del diabete, e di una retinopatia, perse la vista per qualche mese). Ed è quella tra “diabetici” e “allergici”. Sentite come definisce, metaforicamente, i due tipi umani che corrispondono alle due patologie. Il “diabetico” si apre dolcemente e fraternamente al mondo, non ritiene che “un po’ di zucchero conti nell’armonia della natura” né che pensar male degli altri ci renda più sagaci, si fida del prossimo, crede a quello che si dice, non chiude le porte neanche di notte, vorrebbe abolire le frontiere (i “diabetici” hanno inventato il socialismo umanitario e anarchico, di ispirazione evangelica). “L’allergico” (ahinoi, la maggioranza) vive blindato, si difende continuamente da tutto, cerca sempre un colpevole, mobilita contro lo “straniero” un “immenso esercito immunitario”, è intollerante e paranoico, opera sempre contro qualcuno e contro l’altro. Vi ricorda qualcuno? Filippo La Porta

Non si è fermato a Eboli. La grandezza di Carlo Levi è essere un artista non etichettabile. Elena Loewenthal  su L'Inkiesta il 12 Febbraio 2022.

Il poeta, scrittore e pittore antifascista rimane una figura quanto mai attuale anche a 120 anni dalla sua nascita. La Fondazione Circolo dei Lettori di Torino lo ricorda con una serie di iniziative per far riscoprire al pubblico di oggi la sua inesauribile poliedricità.

Difficile immaginare una figura più refrattaria agli schemi, più poliedrica e meno convenzionale di Carlo Levi. Come definirlo? Medico, scrittore, pittore, intellettuale militante (la definizione di “intellettuale” non gli andava affatto a genio)? Ma anche poeta, pescatore, amante accanito, politico disilluso eppure tenace, viaggiatore.

Era nato a Torino il 29 novembre del 1902, e per i suoi cento e venti anni – che nell’immaginario ebraico sono il massimo e più ambito traguardo cui possa ambire una vita umana, raggiunto per ora solo dal biblico Mosè – la Fondazione Circolo dei Lettori lo ricorda ma soprattutto lo riscopre con una serie di iniziative che tentano, ma forse invano, di tenere fede a una poliedricità che è la sua vera, inimitabile cifra. Si tratta, insomma, di decifrare quel che nasconde, ma anche svela, quel suo sorriso vagamente ironico eppure sempre gentile, e quello sguardo che si spinge sempre un po’ più in là perché “Tutta la vita è lontano”, come scrive in una poesia del 1935, durante il tempo del confino in Lucania.

L’unicità, e il fascino di Carlo Levi stanno già tutti lì, in quel suo rapporto di amore e dolcezza verso i luoghi dove viene esiliato dal regime fascista a seguito di una condanna per attività sovversiva e dopo due passaggi di qualche mese in carcere, l’ultimo a Regina Coeli fra il maggio e il luglio del 1935. Basti pensare a come lo patirono Cesare Pavese e Natalia Ginzburg, il confino rispettivamente in Calabria e Abruzzo: per il primo una stagione cupa da dimenticare e basta, per l’altra una sorta di spedizione forzata in una realtà parallela, un altro e primitivo pianeta disperatamente lontano anni luce.

Per Carlo Levi, invece, la Lucania diventa quasi subito qualcosa d’altro, di diverso: un oggetto di amore, il luogo di una vera – e laicissima – rivelazione: «Per me, sia che io ci vada, sia che ci ritorni con il ricordo, o che qualche immagine me la rammenti, essa mi pare, più di ogni altra, un luogo vero, uno dei luoghi più veri del mondo, tanta vi è l’evidenza delle parole, dei gesti, delle condizioni umane, la rivelatrice espressività della vita. Qui ritrovo la misura delle cose, la concretezza dei pensieri e delle immagini, e, in quella brulla prigione di pietra, il senso della sempre nascente libertà».

Qui sta parlando di Matera, ma in realtà così si esprime anche per Grassano, Aliano, i brulli calanchi: tutto quello che, insomma, viene dopo Eboli.

In altre parole, Carlo Levi riesce a fare dell’esperienza del confino, durata fra l’altro neanche un anno, il momento fondativo del proprio pensare e agire, ma soprattutto della propria inesausta curiosità del mondo. La Lucania è vera, è viva, è misura delle cose: poetiche, politiche, sociali. Scoprire la Lucania, i contadini, la durezza di quelle esistenze ma anche la loro luce, diventa per lui la chiave di lettura del presente, delle diseguaglianze e delle provvidenziali differenze. E se non fu mai (né probabilmente ci teneva a esserlo) un meridionalista in senso stretto, certo è che il pensiero di Carlo Levi sull’Italia, sul rapporto fra Nord e Sud, apre orizzonti ancora tutti da esplorare ed è lo strumento migliore per analizzare – e immaginare il nostro Paese. Più che mai in questo presente in cui la pandemia ha stravolto anche gli equilibri geografici, in fondo. 

Il fatto è che pochi scrittori e intellettuali sono stati connessi al territorio come lo era lui: i luoghi, e l’umanità che li abita, sono la prima fonte di ispirazione, per lui, e anche l’oggetto primo del raccontare: non solo “Cristo si è fermato a Eboli” ma anche “Le parole sono pietre” (viaggio in Sicilia), “Tutto il miele è finito” (Sardegna), passando per lo splendido e ormai introvabile “La doppia notte dei Tigli”, diario di un’avventura in Germania nel 1959. E poi i suoi reportages da Russia, India, Cina, dalla Calabria e da tanti altri altrove. Carlo Levi è dunque uno scrittore profondamente legato alla materia dei luoghi, che ai luoghi si lega con una curiosità intelligente e un cuore pensante. 

Quando dipinge o scrive la Lucania, la sua Aliano e anche Grassano (in uno splendido “Grassano come Gerusalemme”), lo fa perché c’è qualcosa di profondo e fondamentale di cui esser grato all’esperienza di quel confino e di quei luoghi: la scoperta di una verità poetica niente affatto astratta, ma profondamente umana. 

Esiliato su un monte

Rituale e feroce

Guardo con occhi aperti un mondo antico

E gli usati concerti

Dentro il chiuso orizzonte senza voce

L’indifferente intrico

Dell’estraneo destino

Sperai provvidenziale, come un ponte

Fra il passato e il futuro

Libero e nostro: amico era il confino…

Questa sua straordinaria capacità di affrontare e conciliarsi con la complessità del reale – tale per cui un’esperienza straniante come quella del confino diventerà il cuore stesso del suo pensiero e della sua militanza politica e intellettuale, la tessitura di un legame profondo che durerà per tutta la sua vita – sono lo specchio della strabiliante poliedricità di Carlo Levi. Sin dagli inizi.

Nasce infatti a Torino in una famiglia della borghesia ebraica colta – soprattutto per parte della madre, Annetta Treves, sorella di Claudio Treves, giornalista e politico antifascista –  frequenta il liceo Alfieri ma già a quindici anni, mtaurato, si iscrive a Medicina. Diventa brillantemente medico ma non eserciterà mai – se non in Lucania, anche se gli era proibito, e saltuariamente su commissione, soprattutto della sua compagna di vita Linuccia Saba (figlia di Umberto), che lo interpella per le questioni di salute del marito Nello. Decenni di un poliamore ante litteram non senza burrasche…

Ben presto si scopre pittore, ma non soltanto.

Fondamentale è in quegli anni per lui la conoscenza e l’amicizia di Piero Gobetti. La sua rivoluzione liberale sarà in fondo il filo conduttore di tutta l’attività politica e civile di Carlo Levi che anche da senatore della sinistra sarà sempre un indipendente di nome e soprattutto di fatto, piuttosto allergico tanto ai dogmatismi del partito comunista quanto ai bizantinismi del sistema Italia, quello che ha nell’immediato dopoguerra impedito un vero ricambio della classe dirigente e favorito invece una letale continuità con il regime fascista. Tutto questo Carlo Levi lo colse molto bene, più con disillusione che con rabbia, come racconta nel suo romanzo romano, “L’Orologio”.

Dopo Torino arrivano presto anche altri luoghi per lui: Parigi, città rifugio e città d’ispirazione, Firenze dove rimase nascosto nel tempo dell’occupazione tedesca e della caccia all’ebreo e dove, su pressante invito di Anna Maria Ichino, che lo teneva nascosto, scrisse il “Cristo si è fermato a Eboli”. E Alassio, dove c’è la casa di famiglia che d’estate si riempie di bambini e adulti e dove Carlo Levi è preda di una ispirazione pittorica a fasi alterne: capita che dipinga due quadri al giorno ma anche che preferisca andare a pescare i delfini in mare dall’alba a notte fonda. E poi la Lucania, patria di adozione dove tornerà tante volte dopo la guerra, per nostalgia e per costruire un nuovo Sud: fu anche il suo ultimo viaggio, poco prima di morire, il 4 gennaio del 1975.

Altri luoghi e tanti legami: amicizie che durano una vita intera, come quella con Renato Guttuso. E amori tutti molto poco convenzionali: da Paola Levi sposata Olivetti, che andrà a trovarlo al confino, alla misteriosa Vitia Gourevitch, una ballerina affascinante e dalla vita travagliata, a Linuccia Saba che gli fu amante, amica, segretaria, confidente, un po’ madre e anche un po’ figlia. 

Una vita, insomma, meravigliosamente fuori da ogni schema senza però mai una nota di astio, di rivendicazione di alcunché. Carlo Levi era così per natura non per militanza: originale, libero, eclettico, straordinariamente appassionato alla vita.

·        Carlo Linati.

Carlo Linati, l'irregolare che schernì il "green" prima della moda "green". Davide Brullo l'11 Luglio 2022 su Il Giornale.

Lo scrittore lombardo nel 1906 raccontò ironicamente gli eccessi di certo ecologismo.

Stava sulle labbra di Ezra Pound e di James Joyce. Tanto per capire il personaggio. «C'è qualche italiano che sappia scrivere? Spero ancora di incontrare Linati a Milano... Chiederò a Linati qualche breve nota sulla mancanza di una letteratura italiana moderna», scrive, l'8 maggio del 1920, «a mano», da Venezia, Ezra Pound a Joyce. Incalza, qualche giorno dopo, da Sirmione, «Potremmo tentare anche Linati con un invito a cena a stare la notte...» (i materiali si trovano in Ezra Pound, Lettere a James Joyce, il Saggiatore, 2019). Segue, dall'Hotel Eden, Sirmione, cartolina di Pound, incontenibile pontefice, costruttore di eresie letterarie, di rapporti dorati da una furia esclamativa: «Dear Linati, Joyce arrived here last night». Non gli pareva vero di conoscere un italiano competente, versato nella letteratura anglofona, con un orecchio speciale per il linguaggio.

Carlo Linati e Ezra Pound avevano un'affinità, per così dire, sportiva: entrambi audaci, autodidatti in tutto, tutto corpo, verbo che si fa carne. Nato a Como nel 1878 da famiglia abbiente il papà era ingegnere, cresciuto a Milano, affetto scrive lui da «rosolia letteraria», Linati è lettore onnivoro e studente disordinato (si laurea all'Università di Parma nel 1906; a Torino più che ai corsi di Giurisprudenza, cui era iscritto, era interessato alle lezioni di Cesare Lombroso). Ama i viaggi nei luoghi inesplorati e inespressi, spesso compiuti in bicicletta; i reportage scritti per il Touring Club Italiano hanno un'ineguagliata freschezza. Per questo, di Pound carpisce subito la fisicità del sabotatore, di chi vuole rovesciare le sorti della letteratura, «Mentre il buon Pound parlava io fissavo la sua figura lunga svelta sportiva, dal viso aguzzo terminante in una barbetta a punta, un vero viso yankee temperato di dolcezza latina...», scrive, in un'intervista pionieristica, dal titolo «Fuoriusciti», pubblicata sul Corriere della Sera il 10 luglio del 1925 (ora in Ezra Pound, È inutile che io parli. Interviste e incontri italiani, De Piante, 2021). Con il «mio amico Ezra Pound, il poeta americano che vive a Rapallo» la sintonia è totale: su La Stampa, il 29 marzo 1929, Linati ricorda la visita fatta insieme a William Butler Yeats: «È un poeta, un saggio, e, come tale, un poco un indifferente»; nel 1923, dopo l'annuncio del Nobel per la letteratura, Yeats telefona alla moglie, crede che il premio valga pressappoco duecento sterline, che «se lo sarebbe goduto subito».

Proprio a Yeats, Linati deve la fama di traduttore raffinato. Sbarcato in Irlanda nel 1913, grazie all'amico musicista Franco Leoni aveva conosciuto gli autori della «Irish Renaissance»: John Millington Synge, Isabella Augusta Gregory, William B. Yeats, di cui, tra il 1914 e il 1919, con estro eroico traduce i drammi più importanti. Da qui, il 31 ottobre 1918, via Zurigo, la lettera di James Joyce, che si complimenta con Linati, personalità dall'acume insolito, coraggioso, ai «romanzi melensi che divora il pubblico inglese» ha anteposto i nuovi scrittori d'Irlanda. Sarà l'inizio di un rapporto autentico, sdoppiato, complesso: di Joyce, Carlo Linati preferirà tradurre Exiles (nel 1920, in prima battuta), Stephen Hero (1944), e un brandello dell'Ulisse (1926), ritenendo quel romanzo «di una difficoltà stragrande per non dire insormontabile».

Eppure, Carlo Linati non è stato soltanto il destinatario del cosiddetto «Schema Linati», la bussola per orientarsi nella lettura dell'Ulisse. Scrittore impaniato di humour torbido, di sgargiante verbosità, amato da tanti Sergio Solmi, Enrico Falqui, Giovanni Papini su tutti e sostenuto da pochi; autore di libri remoti, Nuvole e paesi, Amori erranti, Storie di bestie e fantasmi, connessi a una «linea» nordica autentica e autarchica (di cui è re, prima che Manzoni, Carlo Dossi), a tratti inavvertita, inventariata su vetri e nebbie, per lo più ineguagliabile (percorsa da autentici giganti: i Gadda-Testori-Arbasino...). Insomma, Linati, morto nel dicembre del 1949, era già «uno scrittore dimenticato» nel 1960 (così il titolo di un servizio di Arnaldo Bocelli pubblicato sul Mondo), figuriamoci oggi, un oggi in cui resistono, a sprazzi, le sue traduzioni, nota sul margine di un secolo smangiato dall'oblio, arreso a una dissacrante impazienza. «Spirito troppo fermentante per essere antico... Linati aveva l'ambizione di voler conciliare la novità con l'autorità della tradizione», scrisse di lui Cesare Angelini; esordì nel 1906, con una fiaba satirica, Il tribunale verde, stampato in cento copie numerate dalle Officine Grafiche E. De Castiglione. Il testo «frutto delle mie prime esaltazioni mistico-ironiche nella natura», scriverà, anni dopo, Linati ritorna, nel 1909, nella raccolta di racconti Cristabella, è recepito nel 1919 in Natura ed altre prose selvatiche. Ora il testo è tra noi in edizione definitiva, annotata che impila, minutamente, varianti, edizioni, sensi sottesi e disattesi a cura di Ermanno Paccagnini (Aragno, pagg. XLVIII+40, euro 15).

Il racconto è esile ed esilarante. Il protagonista, di mattina, «divinamente felice», mentre «il sole diluviava attraverso gli spazi cosmici», abbraccia, «con irresistibile tenerezza», una betulla. Gesto sconsiderato: «due terribili pungitopi» che si esprimono in «spiccato accento siciliano» arrestano il nostro eroe, accusato di aver abusato di una pianta. Segue processo intentato dal fatidico «tribunale vegetale»...

Il testo è brillante, sagace, corrosivo, un estroso controcanto alla natura matrigna di Leopardi, non adatto ai neo-vegani, ai neo-panteisti, a chi vuole proteggere la natura senza sporcarsi le mani. «Noi ci arrampichiamo sui vostri rami, vi cantiamo, vi dipingiamo e facciamo di voi solide casse da morto e ottime panche da scuole», dice il protagonista al cospetto degli alberi, arcigni. Alcuni passi rasentano la poesia: «Io amo l'onesto merlo, questo calunniato Amleto del bosco».

Troppo impegnato nell'intensità della vita, Linati non seppe progettarsi un futuro da burocrate letterato. Scrisse, con gioia, di tutto; firmò, con noia, l'antimanifesto degli «intellettuali non fascisti». Nel 1932, con l'avallo di Pound, pubblicò per Vallecchi una serie di ritratti di Scrittori anglo-americani d'oggi: vi spicca, ovviamente, «Ez», insieme a Hemingway, Virginia Woolf, Aldous Huxley. Nel 1903, con Filippo Tommaso Marinetti e Umberto Notari, aveva fondato Verde e Azzurro, una «rivista illustrata del movimento cosmopolita». Il lancio letteralmente fu folle: 300mila copie gettate ai passanti dai palazzi su piazza Duomo. Il foglio fallì presto. Era così, Linati, un estremista, uno scapestrato, un olimpionico del bello. Sorrideva spesso, cosa non comune tra gli scrittori.

·        Carmen Llera e Alberto Moravia.

Antonio D’Orrico per “Sette – Corriere della Sera” il 28 luglio 2022.

IL ROMANZO D’AMORE di questa estate cominciò nel 1935 quando scoppia la passione tra Elsa Morante, 23 anni, e Beautiful, come la scrittrice chiamava Richard T.M., un bellissimo diplomatico inglese. 

Lui adora la sua «Elsie», la sua «sposina», la sua «tiny» (minuscola), ma sospetta che si faccia pagare dai numerosi amanti che ha. 

DUE ANNI DOPO Elsa si innamora di Alberto Moravia, già famosissimo. Richard si batte come un leone contro quel «rovescio di D’Annunzio». Scrive a Elsa: «Sig. M. certamente non ti ama. Due che si amano non si vedono sempre al Caffè!». 

Lui non è uno da Caffè: «Io bacio i tuoi piedini e gambe e ginocchia, e bacio te dentro come un pazzo da farti gridare e mordermi d’amore come una tigre». A letto con Elsa, Beautiful non è più inglese ma «napolitano». La ama come si ama nelle canzoni napoletane: «E amara comme sî, te voglio bene. / Te voglio bene e tu mme faje murí». 

MORAVIA PENSA CHE ELSA sia una grande scrittrice. Richard no, la sua è «letteratura per signorine». Ma lui la amerà lo stesso e la lascerà coltivare il suo sogno. Tanto: «La terra è piena di stampe inutili».

POI GLI SALTANO I NERVI. Le scrive: sei «bugiarda e puttana». Se ne pente e le porge scuse ufficiali dandole solennemente del lei. Ma fa peggio ancora (eppure era un diplomatico!): «Dicendo così volevo significare che siete una troia». 

Tre giorni dopo questa lettera, il 10 giugno 1940, l’Italia entra in guerra e finisce in maniera eclatante l’amore tra Beautiful e Tiny. Lui torna in Inghilterra. Un anno dopo Elsa e Alberto celebrano il matrimonio più importante nella storia della letteratura italiana. 

PERÒ C’È UN FINALE ALTERNATIVO. Altrettanto eclatante. Moravia racconta che Beautiful aveva un’altra amante a Venezia (figlia di un gondoliere!) e, essendo bisessuale, stava pure con un tipo «strisciante e abietto».

Ecco la versione del Sig. M.: «Elsa era scappata di casa e si era innamorata di un inglese, un omosessuale che ammazzò davanti a lei il proprio amante. Lo ammazzò sotto i suoi occhi durante una festa. L’amante gli disse: “Spara, spara”. E l’inglese sparò». In qualche modo riuscì a farla franca. Qualche conto forse non torna, ma si tratta di uno splendido romanzo d’amore e morte. 

C’È UN TERZO FINALE. Elsa narrò ad Alberto la storia dell’omicidio. Poi ritrattò: se l’era inventata (era una romanziera o no?). Moravia non le credette. E una sera di quarant’anni dopo Elsa, parlando come per caso, gli confidò di aver sempre amato i triangoli composti da un amante anche omosessuale e dall’amante di questi. 

Una mezza ritrattazione della ritrattazione? Un’altra menzogna? L’estremo sortilegio narrativo degli ex coniugi? Prima nella mia hit parade dell’estate è la biografia Elsa Morante. L’incantatrice di Rossana Dedola (Landau). Il suo ultimo, bellissimo romanzo.

Lettera di Carmen Llera Moravia a Dagospia il 28 maggio 2022. 

Ho visto Nostalgia di Mario Martone e una certa identificazione poteva esserci. Nel romanzo di Rea, Felice Lasco torna a Napoli, rione Sanità, per assistere l'anziana madre dopo 45 anni di assenza. Scopriremo che è fuggito quindicenne per motivi loschi.

Arriva parlando un’altra lingua e osserva la sua città con occhi attenti e meravigliati, man mano che passano i giorni tornano i ricordi, riconosce i luoghi, le abitudini, gli accenti.

Ha nostalgia della giovinezza, si immerge nella nuova vita e si rende conto che nulla è cambiato.

Muore la madre ma lui decide di restare e di far venire la moglie egiziana. Sappiamo come andrà a finire. Anch'io ho lasciato il mio paese d'origine 45 anni fa ma è stata una scelta. Amavo l'Italia e la sua cultura, avevo un contratto di lavoro con l'Università di Palermo, poi  Roma. Non ho mai avuto nostalgia della mia città, tantomeno della mia giovinezza. In realtà non conosco la nostalgia, so vivere solo il presente. Non so se sia un bene. Ci penso perchè poco dopo ho visto Lettera a Franco di Amenabar (Mientras dure la guerra)

Mi sono trovata immersa nel mio passato, come dicono i francesi " le passé te rattrape toujours".

Forse.

Ecco Miguel de Unamuno, rettore dell'Università di Salamanca, intellettuale basco repubblicano, figura fondamentale nella mia formazione. Siamo nel 1936 e il generale Francisco Franco risalendo dalla sua postazione in Marocco conquista lentamente la Spagna. All'inizio sembra un uomo mite, timido, un cristiano amante della sua famiglia, " un poveretto" che diventerà in poco tempo El Generalissimo. 

Un fascista ossessionato dalla congiura giudaico-massonica, dopo tre anni di guerra civile (basterebbe guardare il Guernica di Picasso per capirne l'orrore ) resterà al potere fino al 1975. La reazione di Unamuno fu immediata, destituito dalla sua carica morì lo stesso anno d'infarto. Sono nata e vissuta sotto il franchismo per 22 anni

Due film che mi hanno fatto riflettere sulla vita, sulla responsabilità dei nostri atti, sulla morte. Da vedere, solo in sala. Carmen Llera Moravia

·        Cesare Pavese.

La fine di Pavese: «Non fate pettegolezzi». L’addio due mesi dopo aver vinto lo Strega. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Agosto 2022.

Un trafiletto in terza pagina su La Gazzetta del Mezzogiorno del 29 agosto 1950 annuncia una tragica notizia: «Ieri sera a tarda ora in una camera dell’albergo Roma Rocca Cavour, in piazza Carlo Felice, è stato rinvenuto morto lo scrittore Cesare Pavese. Alla sera, visto che la porta della sua camera era ancora chiusa e lo scrittore non era stato visto da alcuno, fu deciso di forzare l’uscio e si constatò che il Pavese aveva tirato il chiavistello di entrambe le porte. Cesare Pavese giaceva sul letto, vestito. Egli si era tolto soltanto la giacca e pareva assopito in uno stato di profondo torpore, a quel corpo era ormai freddo.

Sul tavolino da notte era aperto un libro, la sua ultima opera Dialoghi con Leucò e sul frontespizio erano vergate con mano sicura le parole: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate molti pettegolezzi». Su una mensola dell’attigua stanza da bagno l’autorità giudiziaria rinveniva 28 cartine aperte. Altri tubetti di un potente sonnifero si trovavano sul tavolino da notte, non ancora aperti. L’annuncio della pietosa fine dello scrittore veniva dato, con riguardosa cautela, alla sorella che accorreva immediatamente con la figlia a lui particolarmente cara. Fra lo strazio delle uniche superstiti della sua famiglia, essendo egli orfano, la spoglia di Cesare Pavese veniva trasportata all’Istituto di medicina legale per l’autopsia. La notizia del suicidio ha sorpreso e costernato gli amici che egli contava numerosi nelle redazioni dei giornali cittadini».

Pavese morì a 43 anni: era nato nel 1908 a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo. Aveva trascorso la sua giovinezza a Torino, città in cui aveva frequentato il leggendario liceo Massimo D’Azeglio. Si era formato, così, alla «scuola antifascista» di Augusto Monti, insieme a Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Giulio Einaudi e altri illustri intellettuali piemontesi. Laureato in Lettere con una tesi su W. Whitman, si avvicinò presto alla letteratura americana. Per i suoi rapporti con il movimento clandestino di Giustizia e Libertà fu arrestato tra il 1935 e il 1936 e inviato per un breve periodo al confino a Brancaleone Calabro. Collaborò fin dagli esordi con la casa editrice fondata da Giulio Einaudi: rifugiatosi nel Monferrato, in casa della sorella, assistette alla guerra di Liberazione senza prendervi parte. Nel dopoguerra lavorò stabilmente come direttore editoriale e si dedicò alla scrittura in versi e in prosa: furono anni di lavoro intenso, in cui pubblicò le sue opere di maggior successo. Due mesi prima di morire, il 24 giugno 1950, Pavese vinse il premio Strega con La bella estate.

·        Charles Baudelaire.

Il "vero" Baudelaire? Troppo maledetto per essere raccontato. Stenio Solinas il 23 Marzo 2022 su Il Giornale.

Jean Teulé propone un ritratto del poeta tutto basato sull'eccesso. Però esagera...

Maledetto Baudelaire!, di Jean Teulé (Neri Pozza, pagg. 317, euro 18, traduzione di Riccardo Fedriga) è un «romanzo», come viene definito in copertina, o una «biografia romanzata», come nella quarta della stessa lo presenta un breve estratto del quotidiano francese Libération?

La domanda non è banale, e ha a che fare con la disinvoltura con cui i romanzieri, partendo dall'idea che nulla gli sia artisticamente precluso, spaziano in campi che non dovrebbero essere i loro. Interrogato su cosa sia un romanzo, Julian Barnes ha risposto che è «il raccontare delle menzogne belle e ben confezionate che racchiudono verità crudeli e precise». Suo logico corollario è che i suoi protagonisti sono «gente che non esiste, non è mai esistita, e in caso contrario saremmo di fronte a loro semplici copie, simulacri convincenti per un breve lasso di tempo». Noi, dice in sostanza Barnes, crediamo che Emma Bovary viva e muoia, che Amleto uccida Laerte; non è mai successo, non sarebbe mai potuto succedere, «ma noi crediamo il contrario» e sta qui l'essenza del romanzo, la sua grandezza e la sua specificità. Nella sua Commedia umana, Balzac giunge a creare minuziosamente delle biografie immaginarie grazie alle quali riempie e spiega la vita reale della Francia del suo tempo, come se ci volesse dire: non ho bisogno di deformare e/o caricaturare l'esistente, la mia creatività basta e avanza. E vale di più.

Nei giorni scorsi, sul Corriere della sera, Romana Petri ha definito la «biografia romanzata un malinteso». Spesso, questa è la sua tesi, chi scrive «racconta la storia di persone che ha conosciuto o delle quai ha solo sentito parlare ma che hanno suscitato il desiderio di fare carta della loro vita». Sono persone non note, aggiunge, «dunque niente dubbi per nessuno: l'opera è certamente un romanzo». Ne deriva che «molti romanzi possono essere biografie romanzate nascoste» e quindi «è molto più semplice definire ogni opera narrativa un romanzo e lasciare le biografie a chi si attiene ai fatti, produce documenti e non si inventa nulla».

La soluzione è elegante, ma aggira l'ostacolo piuttosto che superarlo: in Maledetto Baudelaire! Teulé ringrazia, «per la loro collaborazione più o meno involontaria», biografi di Baudelaire quali Asselineau, Nadar, Gautier, Troyat, Pascal Pia, nonché critici vari e lo stesso Baudelaire... Più o meno surrettiziamente, ci vuole far capire che non si è inventato niente, pur se, in quanto romanziere, può legittimamente dire di essersi inventato tutto. È il Baudelaire di Teulé, insomma, ma il sottinteso è che quello è il vero Baudelaire. Ma è davvero così? E che senso ha un'operazione del genere?

Il filo rosso che guida questo romanzo e/o questa biografia romanzata, è l'eccesso, l'eccesso in tutto, va da sé, nell'ottica di una vita condotta all'insegna dell'oltraggio. C'è la gigantessa esotica, Jeanne Duval, c'è la sua preferenza per le donne «vili, sporche, mostruose», come Sarah la strabica, c'è lo sperpero dell'eredità paterna, e insieme l'abuso di droga, milleseicento gocce di laudano al giorno, anziché le sette prescrittegli dal medico per curare la sifilide, c'è la stravaganza del vestire e dell'apparire, boa di piume di struzzo fucsia al collo, una pecora rosa al guinzaglio... E naturalmente, c'è l'amore in eccesso per la madre, Caroline Archimbaut-Dufays, l'odio in eccesso per il patrigno, quel colonnello Aupick a cui avrebbe voluto sparare come a un coniglio durante le barricate della rivoluzione del 1848... Infine, c'è l'eccesso di morire «sfinito dalla fatica, dalla noia e dalla fame in una vita di miserie, dopo aver usato e abusato di tutto».

Esausto di eccessi, giunto all'ultima pagina il lettore chiude il romanzo. Sono duecento anni che Baudelaire è morto, non sarà un eccesso di troppo a preoccuparlo. Resta però il problema. Teulé ha scelto di romanzare Baudelaire: se non fosse così si sarebbe inventato qualcun altro, un altro poeta maledetto a cui dare un'anima e una vita proprie. Ma il suo Baudelaire è meglio dell'originale, di quello vero che emerge dalle sue poesie, dai suoi scritti, dalle sue lettere, di quello che chi lo conobbe ha ricordato, con tutti i difetti che ogni ricordo e ogni interpretazione porta con sé, ma senza la frenesia di inchiodarlo in un'immagine, una posa, un eccesso, appunto. La risposta, purtroppo, è no.

Intendiamoci, il libro non è brutto, Teulé conosce il mestiere, ma basta aprire i Fiori del male a caso per capire il perché. «Bientôt nous plongerons dans les froides ténèbres/ Adieu, vive clarté de nos étés trop courts»... Oppure: «La musique souvent me prend comme une mer!/ Vers ma pâle étoile, () Je mets à la voile». O ancora: «D'autre fois/calme plat, grand miroir de mon désespoir». E infine: «O Mort, vieux capitaine, il est temps! Levons l'ancre!/ Ce pays nous ennuie, ô Mort! Appareillons». Non c'è nemmeno bisogno di tradurre...

Più in generale, nulla nell'eccesso di Maledetto Baudelaire! eguaglia il ritratto dei Goncourt: «Senza cravatta, il collo nudo, la testa rasata, in una vera toilette da ghigliottinato, con una sola ricercatezza: le mani perfettamente lavate, curate, ripassate con l'allume». Né il ritratto fotografico di Nadar, con quegli occhi che, come ha ben scritto Gesualdo Bufalino, «ricordano il santo, lo spiritista e l'omicida: gli occhi, se vogliamo far nomi, del Loyola, di Mesmer, di Lacenaire»...

Puntando sull'eccesso e sull'oltraggio, Teulé dimentica oltretutto un aspetto per nulla secondario in Baudelaire, quel suo essere stato segnato dal massacro dei rivoltosi del '48, quel suo essere stato un cittadino umiliato dalla restaurazione borghese di Napoleone III, un intellettuale, prima che un poeta, cresciuto fra utopisti, rivoluzionari, esoteristi, femmes galantes e pazzi di ogni genere, in una Parigi che il piccone demolitore di Haussmann andava mutando radicalmente nel nome di un capitalismo rutilante che un ventennio dopo si sarebbe infranto nella sconfitta e nella umiliazione di Sedan.

Allo stesso modo scompare il reazionario spregiatore del progresso positivista, «la fede nel progresso è una dottrina da pigri», il dandy nauseato dai manifesti, dalle cariche, dalla democrazia e dai governi di qualsiasi tipo, convinto che non esistessero che tre esseri rispettabili: «Il prete, il guerriero, il poeta. Sapere, uccidere e creare». Quanto al suo amore, un amore devoto, sino alla fine, per la bella e selvaggia, quanto ignorante Jeanne Duval, «la negresse», cosa lo spiega di più del suo: «Noi amiamo le donne quanto più ci sono estranee. Amare le donne intelligenti è un piacere da pederasta».

Si dirà, ma questo è il tuo Baudelaire, non quello di Teulé. Nient'affatto, questo è Baudelaire. E non è una differenza da poco.

·        Charles Bokowski.

"Ho sprecato la vita in biblioteca. Le mie pagine non urlano!" Esce il carteggio tra Charles Bukowski e Sheri Martinelli, la modella amica dei Beat. Pagine di vita, bevute e poesia. Charles Bokowski il 14 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Cara Sheri Martinelli, è sacrosantamente possibile che non ci sia potenza in me e nelle mie poesie. Posizione degradante e disgustosa, perennemente invisa agli dèi per non dire abbastanza cose o abbastanza bene o a modo loro. Cristo, ho letto i tuoi classici, ho sprecato la vita in biblioteca, voltando pagine, cercando sangue. A me sembra che non sia stata svuotata ABBASTANZA immondizia, le pagine non urlano; la solita dignità esibita e i so-tutto-io e pagine secche bruciate dal sole ma impalpabili come farina.

A proposito, i tuoi cosiddetti moderni devono proprio scrivere io io io io senza maiuscola? Tempo fa faceva colpo ma adesso è solo un lento morire.

Pound? Parti di Pound non erano male, naturalmente, ma troppo circo e chiacchiere sciocche, maestro che seminava errori di stampa e menava pugni, l'effetto del fare, sembra camminare dritto mentre se ne sta sdraiato. Io non ho baffi, mi lavo i denti, ma non ubbidisco a dettami cinesi, ubbidisco ai miei dettami e odio gli sbirri perché sono quasi tutti giovani e si vestono di nero e hanno gli sfollagente e le pistole e sculettano i presuntuosi sederini e non capiscono Beethoven o Mahler o Chopin o nessuno dei compositori e scrittori russi. C'è molta verità in quello che dici e cioè che io più che altro faccio elenchi sulla vita ed è vero che non dico granché e che dico troppo in senso soggettivo, che c'è un po' di spazzatura, ma con la zavorra dei classici e la consapevolezza che non sto scrivendo bene, non riesco a liberarmi. Il mio lavoro deve trovare la sua conclusione partendo da me e soltanto da me stesso, devo liberarmi da ciò che è successo o da quello che hanno fatto gli altri. In agosto ne compio 40 e sto ancora, forse, vivendo come un bambino e sto anche scrivendo come uno di loro ma questo andrà avanti finché per me farlo sarà una cosa naturale.

I critici tendono a sovrastimare o sottostimare un lavoro scavando in profondità, valutando i versi in sforzando in relazione alla loro storia. Se Dio pisciasse, qualcuno la chiamerebbe benedizione gialla mentre altri prenderebbero le cerbottane ringhiando nel bicchiere di vino.

Ho avuto tempo per riflettere mentre ero steso mezzomorto nel reparto dei poveri o in piedi sotto il sole dell'ippodromo o a letto con grasse puttane, con i piedi sudati schiacciati sul mio cuore. Leggere ormai non mi serve più a niente, il meccanismo si è fulminato, non accetterebbe una facciata fasulla. Preferisci che elimini totalmente l'esperienza dalle mie poesie? A Li Po piaceva bruciare le sue e restare a guardarle mentre fluttuavano lungo il fiume, e anche a LP piaceva il vino. Non posso cambiare il mio flusso creativo in base alle critiche. Non mi piacciono le mie poesie, anzi le detesto quasi tutte, del resto non vado in visibilio o faccio salti mortali per il gusto di farlo. Ricordo molte poesie cinesi sulla donna che attende che il suo uomo torni dalla guerra, si strugge d'amore e attende, il tremendo vuoto dell'attesa, guardando la collina, i fiori che si muovono al sole e nessuno all'orizzonte, pur comprendendo e avendo la volontà di sacrificare il suo uomo agli dèi. Poesie di 5 o 6 versi, esperienza eccome, eppure, lasciami usare quella parola vuota: bellissime. Ah, lo so, sì sì sì, tutto questo nella forma classica. No, no, no. Esperienza. Non mi piace la gente che dice che tutto questo è già successo, non si può scrivere. Sta succedendo adesso. ADESSO. I morti sono morti, e che tu ci creda o no, proprio perché sono morti le loro parole, in un certo senso, sono anch'esse morte. Milton cieco non è così tragico come quando era in vita. L'arte ne conserva solo una parte ed è sopravvalutata. Vedo le mie dita sui tasti, di fronte a me una pianta mezza morta con una foglia come l'orecchio di un coniglio piegata a sinistra, le donne del mondo mi camminano nel cervello, un ratto mi rosicchia lo stomaco e scalcia le zampette, passa un furgoncino dei gelati bing bing bing bong bing bong bong, e l'Arte, l'Arte non è nulla, sono le mie dita sui tasti ORA che incidono e piangono Chopin e musica e ribellione, al diavolo i classici, al diavolo la forma, al diavolo Pound, esci, esci e sanguina, sanguina all'infinito contro la massa, mezzaRoma, mezzapoesia, mezzofuoco, mezzobacio. Esci, esci, esci.

·        Charles M. Schulz.

Il papà di Charlie Brown. Il secolo di Charles M. Schulz. Maurizio Stefanini su L’Inkiesta il 26 Novembre 2022.

Il fumettista di origini tedesche e norvegesi nel 1950 creò un personaggio a sua immagine e somiglianza, timido e introverso, con tanto di cane al seguito, innamorato di una ragazzina dai capelli rossi. Le strisce dei Peanuts sarebbero diventate il passaporto per una fama mondiale

Il 26 novembre del 2002 a Saint Paul, nel Minnesota, nacque un bambino che le foto ci mostrano con la grande testa tonda, i capelli biondi e gli occhioni chiari. Insomma, esattamente come Charlie Brown. Pure come Charlie Brown sui chiamava Carlo, aveva il padre barbiere (di origine tedesca) e la madre casalinga (di origine norvegese), il suo miglior amico era un cane, era innamorato di una ragazzina dai capelli rossi, e aveva un carattere timido e introverso.

Non era però Charlie Brown, ma colui che lo creato: come evidente derivazione di sé stesso, anche se in realtà nei primi disegni i personaggi avevano piuttosto la testa ovale tipo pallone di rugby. Charles Monroe «Sparky» Schulz, che se non fosse morto il 12 febbraio del 2000 per un attacco cardiaco farebbe 100 anni.

Più di metà di questo secolo, e quasi i due terzi della sua vita terrena, li passò come fumettista. A 21 anni, poco dopo la morte della amatissima madre per un cancro ai polmoni nascosto fin quasi alla fine, era stato soldato nella Seconda Guerra Mondiale.

Sergente della ventesima divisione corazzata e comandante di una squadra di mitraglieri, partecipò a una sola azione di guerra, in cui puntò la sua arma contro un soldato tedesco, ma quando sparò si accorse che aveva dimenticato di caricare. Prima che potesse farlo il nemico alzò le mani, e così il papà di Charlie Brown finì la guerra senza avere nessun morto sulla coscienza. Però grazie disegni realizzati per le lettere dei commilitoni poté in compenso rendersi conto che la sua passione per il disegno era un talento.

Fece anche l’insegnante e predicatore laico della pentecostale Chiesa di Dio, come ricordò anche Umberto Eco nella prefazione al volume Arriva Charlie Brown: «Non beve, non fuma, non bestemmia. Vive modestamente ed è lay preacher (predicatore laico), in una setta detta la Chiesa di Dio; è sposato e ha, credo, quattro bambini. Gioca a golf e a bridge e ascolta musica classica. Lavora da solo. Non ha nevrosi di alcun genere. Quest’uomo dalla vita così sciaguratamente normale si chiama Charles Schulz».

Tre anni dopo aver iniziato a disegnare, il 2 ottobre del 1950 creò il personaggio che lo rese famoso in tutto il mondo. Comparso su oltre 2600 testate, tradotto in più di venti lingue, pubblicato in oltre settanta nazioni, letto da 355 milioni di persone. Già nel 1952 era uscita la prima raccolta, e già nel 1955 il trentatrenne Schulz aveva vinto il premio Reuben, sorta di Oscar dei fumetti.

«Peanuts» è in realtà il nome della serie. Letteralmente significa arachidi: «Noci piselli». Ma in gergo, nell’inglese degli Stati Uniti dell’epoca, indicava nel teatro la sezione con i posti più economici, e a volte era usato anche per indicare il pubblico composto da bambini. Una liberissima traduzione in italiano potrebbe forse essere «le scartine», l’autore ne fu contrariato e in un’intervista molto successiva, nel 1987, lo definì «un nome totalmente ridicolo, non ha significato, crea confusione e non ha dignità – e io credo che il mio umorismo abbia dignità».

Ma lo accettò, e ne fece anzi un punto di forza, rendendo lo spazio ridotto e l’aspetto austero un modo per rendeva l’alienazione di alcuni personaggi. Che sono tantissimi: ne sono stati contati oltre una quarantina. Ma alcuni evidentemente più centrali.

Innanzitutto lo stesso Charlie Brown: scolaro di quarta elementare di nove anni e mezzo, il fatto di essere considerato un perdente non gli impedisce di dare prova di infinita determinazione e testardaggine. Ma è dominato dalle sue ansie e manchevolezze, e suoi compagni approfittano di lui. Migliore esempio di ciò è la squadra di baseball di cui è instancabile organizzatore e lanciatore, ma che perde sempre con punteggi tremendi. Ha anche una grande passione per gli aquiloni, che finiscono sempre su un albero «mangia-aquiloni».

Ma c’è poi il cane Snoopy, tanto dinamico quanto il suo padroncino è rinunciatario, e impegnato in continue sfide oniriche con l’eroe della Grande Guerra Barone Rosso; l’amico con la coperta Linus, cui nel 1965 fu dedicata una rivista italiana; la sua bisbetica e autoritaria sorella maggiore Lucy; il pianista Schroeder; lo sporchissimo Pig-Pen; la sorellina Sally, innamorata di Linus; l’uccellino Woodstock; il negretto Franklin; la tenera Piperita Patty.

Citatissima è la Ragazzina dai Capelli Rossi di cui Charlie è innamorato, ma che non appare mai. Neanche gli adulti si vedono mai, ma quei bambini in perpetuo sospesi tra ricerca di identità e integrazione sociale, la relativa sconfitta e la conseguente nevrosi diventano metafora della condizione umana, e della sua fragilità.

Protagonisti di una serie di cartoni animati, di due lungometraggi animati e di una commedia musicale nel 1967, i Peanuts hanno avuto anche una serie interminabile di tentativi di imitazione. L’unico all’altezza dell’originale, probabilmente, Mafalda, dell’argentino Quino.

Nel 1983 a Charlie Brown è stato pure dedicato un parco divertimenti sul modello di Disneyland. Esaltato da magazine e intellettuali, malgrado il successo la serie avrebbe continuato a essere disegnata dal solo Schulz per quasi mezzo secolo. Senza nessun assistente neanche per il testo o la colorazione, fino a quel novembre del 1999, quando dopo una serie di piccoli ictus e l’occlusione di un’aorta gli fu trovato un cancro al colon ormai entrato in metastasi.

Un po’ per la chemioterapia, un po’ perché non riusciva più a vederci bene, il 14 dicembre del 1999 annunciò che smetteva di disegnare. Aveva però tenuta riservata un’ultima vignetta. Su sua richiesta, la morte fu comunicata dai giornali in quell’ultima striscia il giorno dopo la morte. Al cane Snoopy il compito di congedarsi dai lettori con poche parole battute sulla sua macchina da scrivere. «Cari amici, ho avuto la fortuna di disegnare Charlie Brown e i suoi amici per quasi cinquant’anni. È stata la realizzazione del sogno che avevo fin da bambino. Purtroppo, però, ora non sono più in grado di mantenere il ritmo di lavoro richiesto da una striscia quotidiana. La mia famiglia non desidera che i Peanuts siano disegnati da qualcun altro, quindi annuncio il mio ritiro dall’attività. Sono grato per la lealtà dei miei collaboratori e per la meravigliosa amicizia e l’affetto espressi dai lettori della mia striscia in tutti questi anni. Charlie Brown, Snoopy, Linus, Lucy… non potrò mai dimenticarli…».

Dopo l’annuncio di Snoopy, un necrologio apparve poi il 14 febbraio del 2000, giorno di San Valentino, sul quotidiano londinese The Times. «Charles Schulz lascia una moglie, due figli, tre figlie e un piccolo bambino dalla testa rotonda con uno straordinario cane».

Nel 2002 a Santa Rosa, in California, gli è stato intitolato un museo.

·        Chiara Valerio.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 28 novembre 2022.

Funziona così. Per dire. Chiara Valerio chiama Teresa Ciabatti, la quale poi ricambia intervistandola per quattro pagine su «7» del Corriere della sera, a pubblicare nella collana «PassaParola» che dirige per Marsilio, dove ospita, tra gli altri, sia Carlotta Vagnoli (con la quale colloquia su l'Espresso e che presenta al Salone del libro di Torino) sia Michela Murgia (dalla quale viene intervistata sull'Espresso e insieme alla quale mette in scena lo spettacolo Istruzioni per l'uso al teatro Carcano di Milano, la cui direzione artistica è di Lella Costa, che prima o poi pubblicherà per «PassaParola») sia Annalisa De Simone, che a sua volta invita Chiara Valerio e Teresa Ciabatti all'Italian Pavilion per la mostra del cinema di Venezia, istituzione con cui lavora Chiara Tagliaferri (moglie di Nicola Lagioia e amica di podcast di Michela Murgia), e dove quest' anno era in giuria Nadia Terranova, mentre su Radio 3 Chiara Valerio invita nella sua rubrica «L'isola della sera» sia Carlotta Vagnoli sia Michela Murgia sia Teresa Ciabatti e tutte insieme scrivono un racconto per l'antologia Le Nuove Eroidi e uno per l'antologia I figli che non voglio, tirando dentro anche Nadia Terranova e Loredana Lipperini, e così mentre su Repubblica e la Stampa si recensiscono a vicenda- la Murgia scrive del libro della Ciabatti la quale invece parla di quello della Valerio che viene intervistata dalla Lipperini - poi tutte scrivono dei libri che escono da Solferino, cinghia di trasmissione editoriale della sinistra di penna e di potere, e intanto fanno una settimana estiva in vacanza al festival dell'Istituto Italiano di Cultura di New York e una invernale alla Nuvola di Roma per la fiera della piccola e media editoria, ma in realtà una sorta di convention ombra del Pd, «Più libri più liberi». Curata da Chiara Valerio.

La domanda a questo punto è: ma chi è Chiara Valerio? 

Originaria di Minturno-Scauri, stazione ferroviaria sulla tratta Roma-Formia-Napoli (si parte dalla provincia e si conquista la Città delle donne, fermata a Trastevere con dependance veneziana a Dorsoduro) per avere 44 anni in effetti ha già fatto moltissimo. Forse troppo. 

È matematica, con un dottorato all'Università Federico II di Napoli sul tema del calcolo delle probabilità, insegnante (lei si auto considera «un eccellente prodotto della scuola italiana»), scrittrice, giornalista, traduttrice, direttrice artistica, curatrice editoriale, conduttrice radiofonica, è nel Comitato editoriale della rivista Nuovi Argomenti, lavora per il teatro, ha diretto la collana «narrativa.it» per Nottetempo- casa editrice per un femminismo senza confini - ha scritto il soggetto di un film di Nanni Moretti e uno di Gianni Amelio il grande cinema di tinelli e di silenzi - ha diretto la prima edizione del Salone del libro di Milano, uno dei più tragici fallimenti dell'editoria in Italia, ed è il motivo per cui adesso le hanno affidato la fiera di Roma (in nome dello stesso principio per cui in Italia chi fa fallire un giornale viene promosso per azzopparne un altro), ha pubblicato dodici libri di cui cinque con Silvio Berlusconi (Einaudi) e oggi è editor-in-chief del settore Narrativa di Marsilio, co-autrice di Concita De Gregorio, curatrice del programma Ad alta voce di Rai Radio 3, è invitata in tv, scrive per Vanity Fair, per il mensile Amica, collabora con l'Espresso, Domani, la Repubblica e la Stampa...

Ernst Jünger, che è morto a 102 anni, ha fatto meno cose. 

Ma cosa è Chiara Valerio? Per Mario Desiati, premio Strega, suo amico - che come lei ha trovato nella fluidità di genere il viatico per interpretare lo spirito dei tempi, e fare carriera - Chiara Valerio è la mente più brillante della cultura italiana (l'ha scritto su il Post, quotidiano online noto per la leggerezza con cui passa i pezzi), mentre per il Sole24Ore, altra testata con cui in passato ha lavorato, «è una delle persone più nascostamente influenti della sua generazione». Ecco, la parola giusta è «influente». Di fatto, un upgrade di influencer. 

Avatar femminile di Walter Veltroni, cuspide dell'amichettismo intellettuale romano proiettato su scala nazionale, Chiara Valerio - estetica del pulloverino, outfit giansenista, occhialino da studentessa di teologia e abilissima nelle relazioni sociali - negli anni ha occupato tutti i gangli della comunicazione culturale sull'asse minimum fax - Nazione Indiana - Nuovi Argomenti - Nicola Lagioia - Radio 3- Repubblica - Einaudi e oggi è la sciamana dell'agro pontino, sacerdotessa della grande chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino all'amica Teresa, passando per Paolo Repetti e Sandra Petrignani arriva a Propaganda Live e va avanti fino all'Einaudi, nonostante Berlusconi. 

Se la sinistra romana è il salottismo della cultura italiana, l'inner circle di Chiara Valerio ne è il privé. 

Ospiti del suo «Più libri più libri», dove se per sbaglio invitassero uno scrittore di destra verrebbe giù l'EUR: Roberto Saviano, Lisa Ginzburg, Carlotta Vagnoli, Nicola Lagioia, Edoardo Albinati, Zerocalcare, Ascanio Celestini, Michela Murgia, Zoro, Gipi, Fumettibrutti, Elly Schlein - che è il corrispettivo politico di Chiara Valerio, Lesbo is fantastic, pi-greco e buonismo a chilometro zero - Teresa Ciabatti, Nadia Terranova, Igiaba Scego, Monica Cirinnà, Miguel Gotor, Ginevra Bompiani, Valeria Parrella, Marino Sinibaldi, Loredana Lipperini, Jonathan Bazzi, Viola Ardone e soprattutto Paolo di Paolo, di Paolo, di Paolo, di Paolo, di Paolo... 

Nume tutelare: Serena Dandini.

Almeno Christian Raimo nel suo radicalismo ha mantenuto una coerenza intellettuale, mentre Chiara Tagliaferri sembra più compiaciuta del suo phon che di qualsiasi opzione politico-ideologico. 

Perché l'amichettismo e lo spoil system non vanno bene a destra, ma a sinistra sono un assioma. La matematica è politica. 

Però la politica, è questo matematico, apre tutte le porte, i festival, i giornali, i talk show, le rassegne, i premi, le collane... 

Come dice il mio amico di Spritz al Select, «una volta gli schwrittori guardavano solo al proprio ombelico, oggi al loro ombrello». 

Look queer, maîtresse-à-penser, terzomondismo di seconda scelta e romanzi dell'ioioio.

Chiara Valerio che sforna prefazioni. Chiara Valerio che firma editoriali. Chiara Valerio in visita di cortesia sul set del film di Nanni Moretti. Chiara Valerio che presenta Gian Arturo Ferrari. 

Chiara Valerio che difende la Murgia che difende Saviano.

Chiara Valerio che cita Lady Oscar come chiave di lettura del disvelamento omosessuale di Pasolini (sic), «Chiara Valerio ricorda Patrizia Cavalli», Chiara Valerio ospite della notte stellata al Maxxi - non c'è manifestazione cui manchi sotto il cielo romano - Chiara Valerio ospite a Positano, ospite al Festival della Filosofia, ospite a Romaeuropa, ospite all'Auditorium con Serena Dandini, ospite al Circolo dei lettori con Mario Calabresi... 

Se in Italia c'è un festival nel raggio di un gettone di presenza, il calcolo della probabilità dice che Chiara Valerio ci sarà.

Gin tonic, abuso di emoticon su Instagram, spocchia mascherata da simpatia e Gita al faro di Virginia Woolf. Là dove non può Nadia Terranova arriva Viola Ardone. Là dove non arriva la Murgia, arriva Chiara Valerio. 

E adesso scusate, noi andiamo a rileggere il pezzo su il Post in cui Chiara Valerio e Mario Desiati raccontavano di quanto - loro siano colti e intelligenti. «Un vero ritratto dell'amicizia». E soprattutto dell'intellighenzia italiana.

·        Crocifisso Dentello.

Teresa Ciabatti per il “Sette - Corriere della Sera” il 24 aprile 2022.

Al suo terzo romanzo, Crocifisso Dentello, 44 anni, spiazza e commuove. Tuamore (La nave di Teseo) è un memoir, ma anche un’ammissione di diversità (una diversità che le contiene tutte: la solitudine), un atto di disvelamento o, come lo definisce l’autore stesso «mettere la testa fuori dalla finestra e gridare». 

Gridare cosa? Il dolore per la morte della madre. Quel dolore che lui non vuole smettere di sentire perché «i morti muoiono davvero quando nessuno li ricorda più», e dunque mamma Melina non finisce finché ci sarà lui a ricordarla. Dopo una vita vissuta insieme, poiché Crocifisso ha abitato dalla nascita nella stessa casa, coi genitori, mentre il fratello e la sorella crescevano, se ne andavano, mettevano su famiglia. 

 Lui no, per lui la famiglia è stata solo quella di origine. Tuamore è un libro misurato e insieme spudorato, che supera nuovi limiti dell’indicibile. Straziante, bellissimo, in alcune pagine addirittura insopportabile per chi tanta solitudine non vuole vederla. La solitudine di quel bambino che fino alla quinta elementare non ha parlato. 

Nessuna parola?

«Le maestre mi facevano fare le verifiche scritte: banco in corridoio, fronte bagno. L’unico modo per capire se avessi imparato qualcosa». 

A casa parlava?

«Tantissimo». 

La sua vita sociale?

«Non esisteva». 

Ovvero?

«Mai avuto un amico, una ragazza. Mai un primo bacio, una cotta». 

Infanzia e adolescenza?

«Lasciate passare come treni in velocità». 

Che faceva?

«Giocavo a carte con mia madre, guardavo la televisione con lei, le telenovela, C’è posta per te . Nelle giornate di sole lei mi spingeva fuori, non si capacitava di come un bambino non fosse interessato al mondo». 

L’impedimento?

«Timidezza, paura. Ricordo un giorno in un bar coi miei cugini: non sono riuscito ad andare al banco dei gelati a chiedere un ghiacciolo». 

Paura di?

«Delle prese in giro, a scuola mi chiamavano “ritardato”, “frocio”, non capivano cos’ero. Mi davano spinte per farmi cadere a terra». 

Reazione di Melina?

«Le vietavo di venirmi a prendere proprio perché non vedesse le angherie a cui ero sottoposto, sapevo che l’avrebbero fatta soffrire». 

La diversità di Crocifisso?

«Non partecipavo alle attività sportive, alle partite di pallone. Alle recite - con grande rammarico di mia madre». 

Tranne?

«Una recita: dovevo attraversare a carponi la palestra attaccato a un cartonato a forma di pecora, insomma, nessuno mi vedeva. L’unica a sapere che la pecora fossi io era Melina». 

La quale?

«Al mio passaggio scatta in piedi, e urla: “Meglio un minuto da pecora che cento anni da leone”». 

Meglio un minuto da pecora?

«Per natura io sono mite. Non reagisco alla violenza. I compagni di classe mi buttavano a terra, e io non dicevo niente, il che li incattiviva. La debolezza incattivisce».

E lo spavento aumenta.

«Certi giorni chiedevo a mia madre di non andare a scuola, ogni tanto lei me lo concedeva». 

Melina la spronava?

«A quindici anni, un sabato sera, lei e mio padre mi mettono alla porta: “C’è un mondo là fuori”». 

Lei?

«Rimango sul pianerottolo». 

Quanto tempo?

«Qualche ora. Quindi, guardando dallo spioncino, mia madre si accorge che sono ancora lì, non mi sono mosso da lì. Allora apre». 

Non aveva suonato il campanello?

«No». 

Oggi?

«Grazie alla scrittura, ai libri, mi sono un po’ aperto, eppure si continua a vedere che in me c’è qualcosa di strano». 

Esempio?

«Se si parla d’infanzia e di adolescenza, io rimango in silenzio. Avendo vissuto poco, non ho niente da raccontare». 

In questo libro racconta Melina.

«Siciliana, emigrata al Nord coi genitori, padre carpentiere, mamma donna delle pulizie. Una volta una signora concede a mia nonna di farsi il bagno nella vasca, peccato che lei, per l’emozione, al posto del bagnoschiuma metta il Vim dei pavimenti. Si fa il bagno nel Vim». 

Torniamo a Melina.

«Lei e mio padre sono cugini di primo grado. Da piccolo io non riuscivo a capire come le mie nonne potessero essere sorelle, non mi entrava in testa». 

Un’unica famiglia.

«Secondo la cultura popolare se due cugini si uniscono viene sangue guasto. Ecco, io mi sentivo sangue guasto». 

In che modo?

«”Questo tuo figlio inetto”, dicevo a mia madre».  

Tentativi di cambiamento?

«Siccome vedevo che lei soffriva, crescendo ho iniziato a dire bugie». 

Una bugia?

«Dicevo che mi ero fatto degli amici e dovevo uscire con loro». 

Nella realtà?

«Passavo qualche ora ai giardinetti, a leggere un libro. Oppure prendevo un treno per Milano Cadorna, scendevo, e riprendevo il treno per Cesano Maderno. Tornavo a casa, e dicevo a mia madre di aver passato una bella giornata». 

Reazione?

«Non so se ci credesse davvero, lì per lì comunque era sollevata. Mi diceva: “Vedi che fuori stai bene?”». 

Capodanno 2000?

«Mia zia fa una festa coi parenti. Per convincere mia madre ad andare, per non essere di peso, dico di avere un veglione». 

Invece?

«Alle 22.30 prendo il treno per Milano Cadorna. Le strade piene di gente in festa. Resto un po’ sulla panchina, poi per non farmi vedere solo, ero l’unico solo, m’infilo nella cabina delle foto tessera: lì faccio arrivare la mezzanotte». 

La vacanza a Cesenatico.

«Per convincere i miei ad andare in vacanza, dico che anch’io sarei partito con degli amici. Prenoto una pensione a Cesenatico». 

Quindi?

«Passo tre settimane in camera a leggere». 

Non esce?

«Scendo per mangiare. Ma essendo circondato da tavoli di famiglie, e coppie, a un certo punto inizio a non scendere più, salto il pranzo». 

Il mare?

«Mai andato in spiaggia. Se chiamava mia madre, salivo sul terrazzino della pensione, in modo che lei sentisse il vociare della strada e mi credesse in compagnia». 

Il mare nell’infanzia?

«Raramente, e tenevo la maglietta. In alternativa prendevo il sole a pancia sotto, difatti avevo la schiena spesso ustionata. Il bagno non lo facevo, è capitato di sera, con la spiaggia deserta».

Perché?

«Essere grasso è stato sempre motivo di vergogna. Anche mia madre era sovrappeso, almeno però lei aveva il senso del limite, io no. Così quando andavamo nei negozi si innervosiva». 

Cioè?

«Magari provavo un maglione che mi andava stretto, e lei si arrabbiava: “Finisci come i santoni indiani, con le tuniche”». 

Sempre andato nei negozi con Melina?

«Da adulto le dicevo: “Accompagnami, che magari i commessi mi fregano”». 

Prima volta dopo la morte di Melina?

«Sono rimasto dentro ore, incapace di decidere quale maglione scegliere». 

Pensieri?

«Se non avessi avuto proprio lei, quella mamma, come bambino e come adolescente sarei sprofondato in una voragine». 

Al contrario?

«Quanti viaggi in treno e in autobus, attese in posta e dal medico, file al supermercato. Tutto insieme».  

Il significato di essere insieme?

«Lei è stata il mio unico interlocutore, il centro affettivo della mia esistenza». 

Eppure.

«Non era una forma di chiusura, io guardavo il mondo coi miei e i suoi occhi sommati. La sua personalità era fondamentale, lei rappresentava ciò che non riuscivo a essere io». 

Nel romanzo parla di periodi di «miseria vera».

«La mia è una famiglia dignitosa, papà muratore e mamma casalinga, domestica. Malgrado questo, abbiamo avuto momenti difficili nei quali l’unica possibilità era l’oratorio, riempire un cedolino per avere lattine di piselli, succhi di frutta, biscotti, vaschette di prosciutto cotto».

Lei ha cercato di aiutare?

«Mi sono venduto i libri. Qualche Pirandello, qualche Calvino». 

Rabbia?

«L’unica rabbia è che proprio adesso che la situazione è migliorata, che avrei potuto dare una vecchiaia serena a mia madre, lei non c’è più». 

Un regalo che le avrebbe fatto?

«Una vacanza in un posto di mare». 

Dove?

«La Spezia, lei amava La Spezia. Per il venticinquesimo anniversario di matrimonio io e mia sorella le abbiamo regalato una settimana a Roma». 

2001: Melina si ammala, tumore (prima recidiva nel 2015, seconda nel 2018).

«Per me è stato difficile vederla diminuita».

Diminuita come?

«Nel corpo e nello spirito. Non riusciva a scherzare, la voce flebile, non era più la sua». 

Se ne è occupato lei?

«Lo strazio maggiore è stato il senso di impotenza: potevo darle da bere, da mangiare, sistemarle il cuscino, ma nei momenti in cui lei urlava di dolore, non potevo fare niente». 

Prendersi cura della propria madre.

«Mia mamma era una donna siciliana, all’antica. Prima della malattia non l’avevo mai vista nuda. Farsi lavare da suo figlio per lei è stata una profonda umiliazione. Si mortificava, nonostante io la rassicurassi. Le dicevo: “Mamma, è normale”». 

Ma?

«La malattia umilia il corpo, e umiliando il corpo umilia la dignità». 

Il presente di Crocifisso Dentello?

«Vivo nella stessa casa, con mio padre. Provo grande tenerezza se lo vedo ai fornelli, perché ho sempre visto lei, mia madre». 

Suo contributo in casa?

«Fin da bambino aiutavo mamma nei mestieri. Quando pulivo il bagno, strofinavo, lo facevo per renderla orgogliosa. Oggi, senza di lei, senza il suo sguardo, i gesti domestici hanno meno valore».

Cosa ha tenuto di Melina?

«Gli oggetti personali, riposti in una biscottiera». 

Quali?

«Gli occhiali da vista, il cellulare Nokia con lo schermo rigato, la tessera delle Ferrovie del Nord, il biglietto da visita del suo parrucchiere di fiducia, il santino della Madonna di Fatima, la stampa di un prelievo Bancoposta, l’ultima copia della Settimana enigmistica compilata per metà, non ha fatto in tempo. Un foglietto sui cui ha scritto una frase presa non so dove». 

La frase?

«Che cos’è la felicità? Una casa con dentro le persone che ami».

·        Dacia Maraini.

Riccardo Bruno per il “Corriere della Sera” il 27 maggio 2022.

La frase è citatissima su internet, condivisa continuamente sui social. Inizia così: «Il berlusconismo è la più grande catastrofe culturale del nostro tempo». Ma Dacia Maraini, la scrittrice a cui viene attribuita, non è per nulla contenta: «Quelle parole non le ho mai pronunciate. Non userei mai quel linguaggio». Da anni si batte per farsi riconoscere il diritto a non essere associata a espressioni che non sono le sue. Finora senza risultati. Anzi, ha scoperto da poco che si è aggiunta un'altra frase contro Mediaset e Fininvest. «Ancora più brutale, un linguaggio che mi fa orrore». In questa, se la prenderebbe con i «talkshit» e con i «giornali fake». S' indigna: «A parte la volgarità, io uso sempre l'italiano, anche per la difesa della nostra lingua».

La prima volta che seppe di quelle citazioni fu nel 2018: «Io non frequento i social. Fu Joi, la figlia di mia sorella, a segnalarmela. Con l'avvocata Teresa Gigliotti presentai una denuncia, ma dopo tre anni seppi che il pubblico ministero aveva archiviato perché era impossibile identificare i responsabili». È un caso particolarmente insidioso, perché i concetti espressi non sono lontani dalla cultura della Maraini.

 «Di certo non difendo Berlusconi, ritengo pericolosa la cultura espressa dalle sue televisioni. Ma non mi esprimerei in quel modo. La mia è una battaglia di pulizia del linguaggio, di educazione, di gentilezza. Serve rispetto, anche nei confronti dell'avversario». Ha intenzione di presentare una nuova denuncia. «Non è possibile che qualcuno si possa appropriare dell'identità altrui, che va intesa anche come identità linguistica. E credo che sia necessaria una riforma dei social».

Dove ho già visto questa scena? Alla Cineteca di Bologna una mostra ripercorre le «citazioni artistiche» nei film di Pier Paolo Pasolini. Da Caravaggio e Piero della Francesca, alla ricerca delle folgorazioni dei grandi maestri. FRANCESCA AME' su vanityfair.it l' 11 marzo 2022. 

Sapete che cosa sono i tableaux vivant? Si chiamano anche quadri viventi e sono un genere che, ciclicamente, torna di moda. Ogni tanto qualche museo lancia anche su Instagram una gara a chi sa riprodurre meglio un quadro famoso impersonando questo o quell’altro personaggio. 

Pier Paolo Pasolini su quest’idea dei quadri viventi messi in scena da persone reali ci ha costruito gran parte della sua filmografia tra gli anni Sessanta e Settanta (che è davvero densa: gli imperdibili sono Accattone, Mamma Roma, Il Vangelo secondo Matteo, Uccellini uccellacci, Decameron) . La Cineteca di Bologna si è messa d’impegno e in Pier Paolo Pasolini – Folgorazioni figurative (nel sottopasso di piazza Re Enzo, fino al prossimo 16 ottobre) è riuscita ad allestire uno dei più interessanti progetti espositivi in circolazione dedicati a PPP, a cent’anni esatti dalla nascita (il 5 marzo del 1922, proprio a Bologna).

Di libri freschi di stampa e di eventi dedicati a Pasolini ce ne sono davvero molti, vista l'importante ricorrenza, ma questa mostra ha un sapore speciale, perché racconta la viscerale passione per l'arte dell’intellettuale ucciso il 2 novembre del ‘75 sul litorale di Ostia, in circostanze non del tutto chiarite. Avremmo avuto un Accattone, una Medea, una Mamma Roma  diversi se PPP non si fosse nutrito, fin dai banchi dell’Università di Bologna e grazie alle lezioni del professor Roberto Longhi (il «re dei critici d’arte» dell’epoca) di arte medievale, rinascimentale e barocca?

Longhi era un prof tosto e si era inventato un metodo tutto nuovo per insegnare la storia dell’arte ai suoi allievi: ne prendeva pochi e selezionati, li portava in via Zamboni 33 e proiettava su uno schermo in una piccola aula dei vetrini che riproducevano dei dettagli di alcune opere d’arte. L’occhio dei ragazzi doveva concentrarsi solo su quel particolare: solo così avrebbero imparato a riconoscere la mano e lo stile proprio di ogni autore. Erano i primi anni 40 e PPP fu folgorato da quelle lezioni. Vent’anni dopo, quei ricordi riemergeranno sempre più vividi quando deciderà di cimentarsi con il cinema, dopo aver scritto, nel ‘55, il suo primo romanzo, Ragazzi di vita, ed essere già uno degli intellettuali più noti (e meno omologati) del Paese.  

Sul grande schermo PPP riporta quei vetrini che il Longhi gli aveva mostrato, quei frammenti di realtà, quei dettagli che rendono unica la scena: «Ogni film di Pasolini è progressivamente la costruzione di una bellezza che saccheggia ampie zone dell’arte italiana o europea per ridare dignità espressiva a ciò che non la avrebbe. I suoi film disegnano una storia dell’arte in forma di cinema» (le parole di Marco Antonio Bazzocchi, che firma l’introduzione al catalogo della mostra dicono tutto). 

Non c’è forma d’arte che non abbia incuriosito PPP. Nelle sue pellicole c’è la ruvidezza di Caravaggio, la drammaticità di El Greco, l’armonia di Giotto, i colori di Pontormo, le forme di Piero della Francesca, i rossi di Rosso Fiorentino e poi l’arte etnica e persino quella contemporanea.

La mostra è ampia (che «Babele figurativa» aveva in testa PPP!) e non ha senso qui svelarne tutto il percorso, costruito su continui confronti tra riproduzioni di opere d'arte e fermo-immagine delle pellicole di Pasolini.  Davanti alle riproduzioni fotografiche della Cappella Brancacci di Masaccio accostate ad alcuni frame di Accattone, davanti all’immagine della Deposizione di Rosso Fiorentino e della stessa scena in film come La ricotta si rimane folgorati per davvero (guardate le immagini per credere). 

Dacia Maraini: «Parlo in sogno con Pasolini. Era innamorato della Callas, ma la respinse: in ogni donna vedeva la madre». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 05 marzo 2022. 

Maraini, cent’anni fa nasceva Pier Paolo Pasolini. Nel suo nuovo libro lei racconta che le accade spesso di sognarlo. «Sì, ed è sempre il giovane cinquantenne che frequentavo: bello, piccolo, ben fatto. Ora vive solo dentro i miei occhi».

Nei sogni vi parlate. «Forse è un retaggio della mia infanzia giapponese. In Italia i morti sono morti e basta, se tornano sono fantasmi che fanno paura. In Giappone i morti sono presenze benefiche. Si offre loro il cibo. Si chiedono consigli».

Lei parlava giapponese? «Certo. A sei anni scappai di casa perché papà mi aveva accusata ingiustamente di aver versato l’inchiostro su uno dei suoi libri. Mi trovarono in questura che parlavo con i poliziotti nel dialetto di Kyoto. Purtroppo l’ho dimenticato».

Qual è il suo primo ricordo? «La neve. A Hokkaido, dove mio padre Fosco studiava gli Hainu, i cacciatori di orsi dai volti dipinti, c’erano due metri di neve. Mia madre Topazia mi tirava sullo slittino».

E la guerra come la ricorda? «Dopo l’8 settembre i miei rifiutarono di firmare per Salò. Per i militari giapponesi eravamo traditori della patria. Ci chiusero in un campo, con una ciotolina di riso al giorno. Mi ammalai: scorbuto, beriberi, anemia perniciosa. La fame è terribile, non vedi più, perdi i capelli, i denti. Io per fortuna perdevo i denti da latte».

Celebre il gesto di suo padre, che per protesta si tagliò un dito. «Si chiama Yubikiri. È un’antica usanza dei samurai, che crea un obbligo: la persona contro cui getti il dito amputato non può più considerarti un vigliacco. Così ci diedero la capretta».

Una capretta? «Il suo latte ci salvò».

Poi arrivarono gli americani. «Angeli. Eroi. Il Natale 1945 è uno dei più bei ricordi della mia vita: fiori, dolci e fuochi d’artificio».

Nel Natale 1946 era in Sicilia. «A Bagheria, da mia madre. Povertà arcaica. Le donne vestite di nero già a quarant’anni, i contadini con l’asino».

È vero che lavorava come hostess? «Sì. Vinsi il concorso alla Pan Am».

Come conobbe Alberto Moravia? «Avevo scritto il primo romanzo e lo proposi a un piccolo editore, Lerici, che mi disse: “Bimba mia, se vuoi che te lo pubblichi devi procurarti la prefazione di un grande scrittore”».

Elsa Morante non fu gelosa di lei? «Elsa e Alberto non erano più insieme da tempo. Lei ebbe altri amori. Luchino Visconti, che era bisessuale; e Alberto notava che per amor suo Elsa, che era romana, parlava con l’accento milanese. Bill Morrow, il pittore: bello, omosessuale, drogato, si gettò dall’Empire State Building».

Una vita terribile. «Elsa aveva il culto della verità. Una volta con Alberto incontrò un amico comune, un poeta, e gli gridò: “Ciao, ho letto il tuo libro, è bruttissimo!”. Ma non si deve pensare Elsa come disperata. Ad esempio amava molto giocare. A Natale organizzava la pesca dei regali. Poteva capitarti un semplice portaspille o una sciarpa preziosa. Le sono rimasta vicina sino alla fine. Sul letto di morte voleva ancora giocare».

A cosa? «A un gioco che si chiamava “se fosse”. Se fosse un albero, cosa sarebbe? Se fosse un cibo, cosa sarebbe? Il personaggio da indovinare era Pier Paolo. Non indovinai».

Lei era gelosa di Moravia? «Se capitava... E capitava, perché Alberto era corteggiatissimo, le donne gli si infilavano in casa... Ma anche dopo siamo rimasti amici. Il giorno in cui morì avrei dovuto portarlo a Sabaudia. Fu Enzo Siciliano ad avvisarmi: “Alberto non c’è più, passo a prenderti tra cinque minuti”. Non è mai venuto».

Chi c’era nel vostro gruppo? «Ci vedevamo a Roma da Rosati, che allora era un caffè popolare, non di lusso come oggi. Arrivavi il tardo pomeriggio e trovavi Fellini, Citati, Giorgio Bassani, Cesare Garboli, Dario Bellezza, Bernardo Bertolucci, Natalia Ginzburg. E poi i poeti».

Ungaretti com’era? «Un uomo molto dolce».

Sandro Penna? «Delizioso. Viveva di notte. Quando chiudeva l’ultimo bar andava a chiacchierare con i farmacisti di turno».

Anche Montale era delizioso? «Eugenio Montale era cattivissimo. Parlava male di tutti gli altri poeti, vivi e morti».

Dario Bellezza? «Anche lui un carattere difficile. Si riconobbe in un personaggio de La Storia, e aspettava Elsa sotto casa per chiederle che le pagasse i diritti».

Gadda? «Ispido. Viveva da solo con la madre. Aveva annunciato di essersi messo a dieta, ma una domenica Parise lo incontrò sul lungotevere, in mano un vassoio di paste. Vistosi scoperto, Gadda gettò le paste nel fiume».

Flaiano? «Gran conversatore, con questo dolore dentro della figlia malata, di cui non parlava mai. Lo stesso dolore che straziava Natalia Ginzburg».

Arbasino? «Molto snob. Frequentava solo principesse e miliardari. Il Gruppo 63 fu ingiustamente feroce con Bassani, uomo dolcissimo, e con Cassola, che era un grande scrittore. Eppure oggi del Gruppo 63 non resta nulla».

Resta Umberto Eco. «Sì, grazie ai suoi romanzi. Ma loro avevano teorizzato la morte del romanzo».

È vero che Tinto Brass ci provò con lei? «Lo dissuasi con lo sguardo».

Cosa fa Pasolini nei suoi sogni? «Vuole riprendere a fare cinema. Nel sogno compaiono anche i suoi tecnici, Alessandro, Marcello, che mi dicono: Dacia digli che è morto e non può lavorare. Ma Pier Paolo insiste con il suo bell’accento friulano: lo so che sono morto, questa morte mi ha fatto perdere anni di lavoro, ma ora torno in vita e voglio ricominciare a fare film...».

Di cosa parlavano Moravia e Pasolini? «Parlava quasi sempre Alberto, che era un grande affabulatore. Pier Paolo non parlava quasi mai. Ogni tanto spariva. Una volta in Africa lo vedemmo tornare tra due poliziotti: “Il vostro amico è ubriaco!”. Rispondemmo che non era possibile, Pier Paolo non beveva».

Era astemio? «Aveva l’ulcera. Una volta in un’osteria del ghetto ebbe una crisi, uscì dal bagno in un lago di sangue, lo presi in braccio, credevo stesse morendo. Al posto del vino beveva latte. Temo che detestasse il latte. Ogni volta che lo beveva faceva una piccola smorfia, spesso gli rimanevano due piccoli baffi bianchi all’angolo delle labbra...».

Dov’era finito Pasolini in Africa? «In un quartiere proibito, dove si rapinava e ci si accoltellava».

Spariva per cercare giovani uomini? «Pier Paolo Pasolini non era un predatore sessuale. Non era un dominatore. Il suo approccio non aveva nulla di violento. Era ludico. Con i ragazzi giocava a pallone, scherzava, rideva. Cercava se stesso bambino. Poi, certo, faceva l’amore. Aveva scoperto la sua omosessualità a sei anni, l’avevano perseguitato e irriso per questo».

Amava anche le donne? «Moltissimo, ma solo in modo platonico. In ogni donna lui vedeva la madre: possederla sarebbe stato come un incesto. Una volta facevamo il bagno a Sabaudia, un’onda accostò i nostri corpi, e lui d’istinto mi respinse, come se stesse consumando un sacrilegio. Di una donna però poteva innamorarsi. Pier Paolo e Maria Callas erano innamoratissimi».

Innamoratissimi? «Era il Natale 1969, partimmo per un viaggio in Africa: Senegal, Costa d’Avorio, Mali. A Bamako l’albergo aveva solo due stanze. La Callas ci provò: “Io dormo con Pier Paolo!”. Lui fu fermissimo: “Dacia e Maria dormono insieme, io da solo”».

Com’era la Callas? «Pier Paolo me la presentò a Parigi, dove lei cantava nella Sonnambula. In scena era un genio assoluto: entrava lei e gli altri sparivano, mai vista una cosa del genere. Nella vita era tenera, affettuosa, insicura, fragilissima. Ci raccontava la crudeltà con cui l’aveva trattata Onassis. Non era intellettuale, ogni tanto le scappava un’ingenuità, e Pier Paolo la rimproverava, bonario: Mariaaa... La ricordo all’aeroporto, jeans stracciati, camicetta, valigia: una bambina greca».

Com’era la vostra Africa? «In un villaggio, sotto un baobab, trovammo un morto. Lo stregone lo interrogava strattonandolo: chi è stato a ucciderti? È stato lui? Se la testa cadeva a destra, voleva dire no, se cadeva a sinistra, sì. Mangiavamo scatolette da tre giorni, e incontrammo un vecchio che vendeva uova. Ne comprammo venti. Alla sera le aprimmo pregustando una frittata: erano piene di sabbia. Il vecchio ci aveva ingannati. Da allora, per indicare una delusione o una truffa, dicevamo “uova di sabbia”».

Nella di Pasolini c’erano la Callas e Piera Degli Esposti, che divenne la sua migliore amica. «Piera mi raccontò la sua storia. La madre andava in letargo d’inverno, si chiudeva in casa vittima di terribili depressioni, e con la primavera usciva alla ricerca di amanti, spesso in compagnia della figlia. La chiusero in manicomio, Piera vide le sedute di elettrochoc... Ne nacque un libro. Venne a presentarlo Marco Ferreri, e disse a malapena due parole svogliate: un disastro. Il giorno dopo mi chiamò: il libro mi ha sconvolto, ne farò un film. E lo fece davvero, con Hanna Schygulla e Isabelle Huppert».

Com’era Susanna, la madre di Pasolini, la Madonna della Passione secondo Matteo? «Una bambina. Non aveva nulla di materno, pareva la figlia di Pier Paolo, e lui era molto protettivo nei suoi confronti; forse anche al pensiero di come Susanna aveva perso l’altro figlio, Guido...».

Partigiano bianco, assassinato dai partigiani comunisti a Porzus. «È così. Una sera in Congo, dopo duecento chilometri di pista, arrivammo distrutti nel rifugio per soldati dove avremmo dormito (evitavamo i grandi alberghi). Pier Paolo voleva telefonare alla madre, ma il telefono non c’era. Fece altri cinquanta chilometri pur di sentire la sua voce, di sapere come stava».

Almeno stava bene? «Aveva un gran mal di testa. Pier Paolo ebbe mal di testa due giorni. Per simpatia con la madre».

E il padre? «Era un militare, si chiamava Carlo Alberto. Da bambino Pier Paolo l’aveva amato molto. Ma in guerra fu fatto prigioniero in Africa, e quando tornò era un uomo diverso. Irascibile, disperato, violento. E alcolizzato. Anche per questo Pier Paolo non beveva. Ed evitava qualsiasi espressione di rabbia, qualsiasi gesto di stizza».

Poteva essere un uomo molto duro, però. «Solo nelle polemiche pubbliche. Allora diventava provocatorio. Bravissimo a suscitare collere, odio, ansia di vendetta. Ma nella vita privata era l’uomo più mite che abbia conosciuto. Non gli ho mai sentito alzare la voce».

Sui set di Pasolini c’era Ninetto Davoli. «Il suo grande amore. Pier Paolo soffrì moltissimo quando lui si sposò con Patrizia. Tentò in ogni modo di dissuaderlo: “Il matrimonio fa schifo, finirai per detestarla...”».

Come andò? «Si sposò lo stesso ed ebbe due figli, che chiamò Pier Paolo e Guido, come il fratello ucciso. Anche Ninetto adorava giocare. Giravamo in Yemen, allora Paese medievale: non c’erano carceri, per strada trovavi i condannati che trascinavano una palla di ferro legata al piede. Per Il Fiore delle mille e una notte affittammo un leone. Ninetto cominciò a giocare con il leone affittato, che gli saltò addosso, gli ficcò le zanne nelle spalle e rimase così. Pensavamo lo volesse mangiare e chiamammo il domatore. Il domatore assicurò che pure il leone voleva solo giocare».

Lei, Moravia e Pasolini dividevate anche la casa di Sabaudia. «Due appartamenti e un terrazzo in comune. Quando la notte sentivamo i passi dei suoi stivaletti da gaucho capivamo che Pier Paolo era tornato, e dormivamo più tranquilli. Anche adesso mi accade di sognare il ticchettio dei suoi stivaletti da gaucho».

Com’erano le giornate? «Alberto il mattino scriveva, il pomeriggio andava a scegliere il pesce che io cucinavo la sera, quasi scondito: un po’ di limone, un pugno di cumino. Pier Paolo mangiava pochissimo. Al contrario di Mastroianni...».

Che ricordo ha di lui? «Marcello era un uomo pigro e adorabile. Una sera cenammo insieme da Giovanna Cau, che era l’avvocata di entrambi, e lui mi rubava il cibo dal piatto: dai Dacia prendi un’altra forchettata di spaghetti, dai Dacia prendi un’altra fetta di torta...».

«Maraini e Pasolini, scrittori pornografi». Finiste insieme su una storica copertina del . «Pier Paolo ricevette più di ottanta denunce, tutte ingiuste: oscenità, perversione, offesa alla religione. Proprio lui, che era profondamente cristiano».

Non era comunista? «A modo suo. Anarcoide. Non parlava di massa ma di moltitudine, non di operai ma di umili».

Lei Dacia cosa aveva combinato? «Avevo scritto una poesia sul seme maschile. Ho anch’io una piccola collezione di denunce per oscenità; per fortuna ci mandavano sempre assolti. Pier Paolo però era molto odiato. In Sicilia ci contestarono al premio Zafferana, ci tirarono i finocchi. Non ho mai capito se erano estremisti di destra che ce l’avevano con noi, o estremisti di sinistra che contestavano il premiato: Ezra Pound».

Come reagì Pound? «Rimase impassibile. Non disse una parola, anche perché non parlava mai: si era inflitto il silenzio come castigo per l’adesione al nazismo. Se voleva dire qualcosa si rivolgeva alla moglie, che parlava al posto suo».

È vero quel che raccontano, che Pasolini cercava la morte? «È una sciocchezza. Amava la vita, e cercava il pericolo. Come Messner in Tibet, o Hamilton in Formula Uno: non vuole morire, vuole vincere la sfida».

Che idea si è fatto sul suo assassinio? «Non può essere stato Pino Pelosi da solo. Pelosi era un ragazzino; Pier Paolo era forte, allenato. L’hanno ucciso altre persone che poi hanno comprato o imposto il silenzio a Pelosi».

Lei andò a trovarlo al minorile, subito dopo l’omicidio. «Volevo farlo parlare. Non c’era stata una vera inchiesta, visto che c’era un reo confesso. Ma Pelosi non mi disse una sola parola umana. Soltanto da adulto rivelò che non era lui l’assassino».

Crede a un delitto politico? «Pier Paolo diceva di sapere chi aveva ucciso Enrico Mattei, ma di non avere le prove. Perché ha intitolato il suo ultimo libro Petrolio, anche se di petrolio nel libro non si parla? Cosa c’era nei due capitoli spariti? Fatto sta che neppure oggi sappiamo con precisione chi uccise Enrico Mattei».

Al funerale Moravia disse: «Abbiamo perso un poeta, e un poeta dovrebbe essere sacro...». «...Ne nasce uno ogni secolo... Alberto era la ragione, Pier Paolo l’istinto. Al ritorno dall’India ognuno scrisse un libro. Moravia lo intitolò Un’idea dell’India, Pier Paolo L’odore dell’India. Mi ricordo il suo...».

Com’era l’odore di Pasolini? «Eravamo a Khartoum, andai a chiamarlo il mattino presto. Bussai, aprì. Sentii un odore di bocca amara, sapone alla violetta, dopobarba al tabacco. L’avevo svegliato bruscamente ma lui ebbe un sorriso dolce: Dacia, arrivo. Poi attese che mi allontanassi, per non farmi lo sgarbo di chiudere la porta davanti a me».

·        David LaChapelle.

Francesca Amè per “Vanity Fair” il 7 maggio 2022.

«Credo nei miracoli, ci credo fortemente». Da Los Angeles David LaChapelle parla attraverso lo schermo: sorride sempre, non bada al tempo che passa, generoso nelle parole. 

«Ogni piccolo atto di gentilezza può provocare enormi cambiamenti», dice e cita passi della Bibbia, che legge ogni giorno e tiene al suo fianco. Non c’è da rimanerne troppo sorpresi: LaChapelle, 59 anni, ex ragazzotto impacciato del Connecticut diventato a New York enfant prodige grazie ad Andy Warhol che lo assunse nella sua factory e da li stella nell’olimpo della fotografia d’autore e di moda, da tempo vive in disparte in una fattoria alle Hawaii.

«Nel 2006 mi sono messo in pausa: ben prima del Covid ho capito che dovevo rallentare.

Ero un workaholic: avvertivo un’enorme responsabilità nei confronti dei miei genitori, perchè non avevo finito il college ed ero stato un ragazzo complicato e volevo dimostrare di valere. 

Un giorno, durante un matrimonio di amici in California, ho realizzato che quello era il primo momento di pausa che prendevo da 11 mesi. Mi ero perso, ero drogato di lavoro: dovevo tornare “da me”». 

In questi anni alle Hawaii infarciti di viaggi, mostre e collaborazioni prestigiose in mezzo mondo ha potenziato la sua ricerca personale, spirituale e fotografica. «Non sono un profeta: la mia lingua e la fotografia. I miei scatti dimostrano che i miracoli esistono».

Li contempliamo ora in Italia in David LaChapelle. I Believe in Miracles, al Mudec di Milano fino all’11 settembre: prodotta da 24 ORE Cultura, curata da Reiner Opoku e Denis Curti insieme allo studio LaChapelle, presenta oltre 90 opere tra grandi formati, produzioni inedite (che abbandonano i caratteristici colori saturi e approdano a una luce più realista) e una video installazione. 

Oltre ai lavori di repertorio ultrapop e ai ritratti delle star (da Madonna a Kim Kardashian), molte foto denunciano la vulnerabilità del pianeta e l’umana fragilità. Davanti agli ultimi struggenti scatti realizzati durante la pandemia si resta senza parole: le foto di LaChapelle si aprono alla speranza.

Come fa a restare ottimista, nonostante tutto?

«Grazie alla fede. Seguo le notizie dall’Ucraina e prego. Facciamo enormi progressi tecnologici e nessun progresso spirituale: questa guerra mi colpisce particolarmente». 

Perche?

«Mia madre e lituana, e stata profuga a Berlino. Parla lituano, tedesco, russo: i confini delle terre in cui e vissuta sono cambiati molte volte. Ha ricordi talmente terribili della Seconda guerra mondiale che non e mai voluta tornare in quella parte d’Europa. Sento questo conflitto sotto la mia pelle e credo che la fotografia abbia un dovere morale». 

Che sarebbe?

«Il fotogiornalismo deve mostrare la verità». 

La sua fotografia pero fa altro: ci porta «altrove», in altri mondi e in altri spazi.

«Perchè questo e il compito dell’arte. Di che cosa si nutrono oggi i nostri occhi? Sfogli il catalogo di Netflix e conti quanti film, serie, documentari parlano di morte. Siamo ossessionati dal male: sangue, omicidi, gialli, horror sono il nostro intrattenimento preferito. Lo sono fin dai tempi dei Romani, nel Colosseo, a dire il vero: cerchiamo distrazioni con spettacoli terribili. Ma dobbiamo stare attenti a cosa esponiamo i nostri occhi. Io non voglio nutrire “la bestia”». 

Prego?

«La bestia e questa tecnologia piena di cose oscure, spaventose e noi artisti siamo chiamati a mostrare alternative. Organizziamo viaggi su Marte e non ci rendiamo conto che il tesoro e qui: e questa Terra che stiamo trascurando. Essere buoni e compassionevoli l’uno con l’altro e con la natura e l’unico strumento che abbiamo per evolverci». 

E sempre stato così saggio?

«Non sarei quello che sono se non fossi sopravvissuto per miracolo a tante guerre personali». 

La prima battaglia quando e stata?

«Alle superiori ero un ragazzino bullizzato: c’era un gruppetto di ragazzi che mi aspettava fuori da scuola, alzavano le mani, mi umiliavano di continuo. Ci sono stati giorni in cui pensavo di uccidermi tanto questo era intollerabile. Poi – è difficile da spiegare agli altri, solo tu sai esattamente quel che succede nella tua testa in quel momento, perchè questo e il miracolo, avviene in un clic – ho trovato dentro di me una forza che non pensavo di avere. Ho lasciato la scuola, ho preso un biglietto per New York: li ho scoperto “la mia gente” e tutto e cambiato. Ma un’altra guerra mi aspettava». 

A New York? Andy Warhol sostenne presto il suo talento: in pochi anni era già un fotografo famoso, la sua carriera decollava.

«Mentre vedevo morire il mio fidanzato di 24anni. L’Aids e stato il mio Vietnam. I miei amici si ammalavano e morivano: ero certo che sarei morto presto anch’io. Devastato, mi sentivo impotente. E’ stato allora che ho avuto come una visione e ho cominciato a capire: un altro miracolo».

Quale?

«Ho giurato che se fossi sopravvissuto avrei dedicato la vita a mostrare attraverso la fotografia come potrebbe apparire l’anima e i nostri occhi sapessero riconoscerla. Mi sono interessato alle pose dei Santi, a lasciarmi sedurre dal sovrannaturale e dal mondo spirituale, ho sperimentato colori saturi, irreali, iperbolici provenienti da un Altrove che dobbiamo imparare ad accogliere dentro di noi».

La pandemia ha cambiato il suo modo di fotografare?

«Mi sono lasciato ispirare di più da Madre Terra, dai campi attorno alla mia fattoria, dagli animali di cui mi prendo cura: ho cercato la verità della loro luce, il miracolo di un possibile mondo nuovo, dopo tutta questa sofferenza. Ho testato questo sguardo nelle serie dedicate ai fiori e in paesaggi urbani come Revelations, che è un bacio tra due anziani in un contesto post-apocalittico. Sara cosi il futuro? La vita sarebbe noiosa

se conoscessimo tutte le risposte: lasciamoci sorprendere».

·        Dino Buzzati.

Le pagelle inedite di Dino Buzzati: bravo in latino e greco, ma alla maturità «spicca» un 6 in italiano. Giovanna Maria Fagnani su Il Corriere della Sera il 15 Novembre 2022.

Lo scrittore frequentò il liceo classico Parini a Milano dal 1919 al 1924. Nell'archivio dell'istituto ritrovati i suoi voti. Fu pioniere del nuovo esame di Stato introdotto dalla riforma Gentile: passarono in 26 su 74 maturandi

Si diplomò con voti modesti: 6 in italiano e in matematica, storia, filosofia, scienze. E con sette, invece, in greco, latino, storia dell’arte. Ma ciò non gli impedì di entrare nella storia della letteratura, di essere studiato da generazioni di studenti a venire di essere amato da una miriade di lettori in tutto il mondo. Dino Buzzati, scrittore, giornalista al Corriere della Sera, pittore e drammaturgo, frequentò il liceo classico Parini, che allora aveva sede in via Fatebenefratelli 11 (oggi è in via Goito) dal 1919 al 1924. 

Mercoledì la sua scuola lo omaggia con il convegno, riservato agli studenti, «Buzzati e il mistero. L’eclettismo di Dino Buzzati tra racconti, graphic novel e pittura», con ospiti e esperti. È stato proprio svolgendo ricerche per questo appuntamento che, nell’archivio del Parini, le professoresse Laura Zaninelli e Teresa Summa hanno scoperto le pagelle di Buzzati, finora inedite. Documenti che svelano una carriera scolastica lineare e con voti medio-alti, ma che non fu premiata all’esame di Stato. Del resto, l’autore de «Il deserto dei Tartari» e i suoi 73 compagni di sessione al Liceo Manzoni (sede d’esami per più istituti della città) furono i pionieri del nuovo esame di Stato introdotto dalla riforma Gentile. 

Gli alunni dovevano prepararsi in tutte le materie, sui programmi del triennio e venivano giudicati da commissioni composte solo da professori esterni, tra cui docenti universitari. Dei 74 maturandi, solo 26 (lui compreso) passarono l’esame. Altri 27 riuscirono a diplomarsi nella sessione di riparazione a ottobre. Anche negli anni precedenti alla maturità, in caso di insufficienze si veniva rimandati, ma le sessioni di riparazione erano ben due. I bocciati venivano definiti «riprovati». Scorrendo i registri affiora la predilezione di Buzzati per il greco e il latino (una media dell’8 in tutti gli anni) e per la storia, con voti tra l’8 e il 9. In italiano passa dall’8 della quarta ginnasio (il primo anno) al 7 degli ultimi anni. Anche in francese, matematica, scienze naturali, le medie annuali viaggiano sempre fra il 7 e l’8. Probabilmente il nuovo esame di Stato fu per lui uno scoglio davvero notevole. Meglio fece l’amico di una vita: Arturo Brambilla che conquistò cinque 8. 

Tra le curiosità di Buzzati, un insolito 6 in condotta, nel secondo trimestre della prima liceo. Il Parini era a due passi da casa: sua madre, Alba Mantovani, di origini veneziane, aveva scelto una casa su via San Marco, il Naviglio Martesana formava un laghetto. Ma la famiglia visse anche al civico 28 di piazza Castello, come riportano i registri. «Nei programmi spesso non si arriva a trattare Buzzati. Noi abbiamo scelto di proporlo come lettura fuori programma, senza testarne l’apprendimento. Loro si sono incuriositi. Hanno trovato in lui un eclettismo moderno» racconta Teresa Summa. «Chi esce dal classico non può non sapere nulla di Calvino, Pasolini, Buzzati. Nei suoi racconti c’è la percezione dell’ignoto, una soglia da attraversare, che affascina l’uomo fin dai tempi antichi. L’attesa, esplorata nel Deserto dei Tartari è un sentimento che c’è in tutti noi, l’uomo aspira alla soddisfazione dell’anima» dice il preside del Parini Massimo Nunzio Barrella».

·        Donatello.

Donatello regalò un’anima anche al bronzo e al marmo. Francesca Pini su Il Corriere della Sera il 23 Marzo 2022.  A Firenze, a Palazzo Strozzi e al Museo del Bargello, dopo 36 anni, una mostra-evento riunisce tra le 130 opere esposte una cinquantina di capolavori del grande artista fiorentino che nel Rinascimento sconvolse i canoni della scultura, innovando il genere. 

Non c’è materia che sia marmo, legno, pietra, bronzo, stucco, rame sbalzato, cartapesta, paste vitree, ceramiche, terracotta (anche policroma e dorata come quella straordinaria Madonna Vettori venduta nel 1881 dall’antiquario fiorentino Stefano Bardini al direttore del Louvre) in cui il grande scultore Donatello non abbia eccelso. Legatissimo a Cosimo de’ Medici, che alla sua morte lasciò in eredità all’anziano scultore un podere che gli diede però così tanti grattacapi da restituirlo ben presto al “mittente”, fu però conteso da un’altra grande città delle arti, quella Padova di Giotto, dell’università plurisecolare e del culto di Sant’Antonio, dove la statua equestre del Gattamelata davanti alla Basilica è un massimo esempio di monumentalità (a seguito di un progetto conservativo verrà oggi sostituita con una copia), mentre per la chiesa eseguì per l’altar maggiore numerose opere come i santi , il rilievo in bronzo il Miracolo del figlio pentito (potente e affollata scena in cui una splendida architettura dorata fa da sfondo alla narrazione), e poi Il miracolo della mula, tra i prestiti ottenuti.

Il trionfo della maternità

Però è naturalmente Firenze il luogo dove l’azione dell’artista si sviluppò nella sua massima pienezza. E che oggi lo celebra a distanza di 36 anni dall’ultima mostra con un vero evento a Palazzo Strozzi e al Museo nazionale del Bargello (custode del più importante nucleo di opere al mondo) di grandissimo respiro internazionale, voluto dai rispettivi direttori Arturo Galansino e Paola D’Agostino, in collaborazione con gli Staatliche Museen di Berlino e il Victoria &Albert Museum di Londra. Entrambe le capitali ospiteranno la mostra dopo l’inaugurazione fiorentina. Sono quattordici le sezioni della mostra Donatello e il Rinascimento (curata da Francesco Caglioti, dal 19/03 al 31/07), che raccoglie 130 opere, anche di altri artisti coevi come Desiderio da Settignano, Masaccio, Mantegna, Giovanni Bellini, Andrea del Castagno, poi Michelangelo. Intrecciando così più aspetti dell’arte del Quattrocento che ebbe nel fiorentino Donatello (1386 circa-1466), uno dei massimi fautori, riscoperto nell’800 dagli storici dell’arte stranieri. Le Madonne sono tra i capolavori che vedremo. Nel raffigurarle, Donatello v’infonde un moto dell’anima e degli affetti (vera novità nella scultura). Tra le tante basta soffermarci sulla Madonna Pazzi da Berlino o sulla Madonna delle nuvole (1425/1430 circa), proveniente dal Museum of Fine Arts di Boston. Un piccolo rilievo in marmo (33x32 centimetri) in cui l’artista, nel formato della devozione domestica, racchiude a figura intera sia la Vergine che il Bambino, riuscendo a rendere meravigliosamente tenero il rapporto tra lei (di profilo) e il Bambino che, con le manine, si aggrappa alla Santa Mamma, il cui panneggio delle vesti è un solo fluire di pieghe. L’influsso di Donatello, e in particolare di quest’opera, si farà poi sentire nella Madonna della scala di Michelangelo (qui esposta). Diversamente dolce è la Madonna Dudley (dal Victoria &Albert Museum), il cui capo è sormontato da un’aureola schiacciata. Non è la sola invenzione che Donatello introdusse via via nella sua opera, innovando e reinventando diversi generi, reinterpretando anche lo spirito della scultura antica, greca o romana. Secondo il curatore Caglioti, Donatello era talmente conscio della sua bravura da potersi permettere qualsiasi licenza, stravolgendo i canoni finora rispettati dagli artisti, come quando scolpisce quella Madonna con il Bambin Gesù che da le spalle all’osservatore.

Restauri

L’immagine del Cristo morto, sorretto dagli angeli, è presente con uno struggente marmo (il viso dell’angelo alla sinistra è così realistico nel suo dolore da commuovere) dal Victoria & Albert, poi con un bronzo parzialmente dorato (prestito della Basilica di Sant’Antonio di Padova) e a queste due opere vengono associate opere di altri autori, come la tempera su tavola Imago Pietatis di Giovanni Bellini. e quella di Marco Zoppo. Il Convito di Erode commissionato nel 1423 (per il fonte battesimale del Battistero di Siena), e dopo il restauro eseguito ad hoc per questa mostra, viene qui presentato per la prima volta fuori dal suo contesto. È un bassorilievo in cui l’artista fa magistralmente ricorso alla prospettiva entro cui costruire, con un preciso punto focale e con sapienza drammaturgica, la scena della consegna della testa mozzata del Battista (episodio già dipinto nel 1320 da Giotto nella Cappella Peruzzi in Santa Croce a Firenze e da Pietro Lorenzetti nella chiesa dei Servi a Siena nel 1340). Donatello aveva di certo osservato i due riferimenti trecenteschi, lui però, con questo bronzo dorato, ci mette di fronte a un nuovo realismo visivo, a una modernità del sentire, che gli altri due artisti, figli della loro epoca, non avevano allora realizzato. Lo stesso soggetto del Convito viene da lui ripreso nel 1435, con un nuovo impianto scenico, in un bassorilievo di marmo, oggi a Musée des Beaux-Arts di Lille. La chiusa finale della mostra ci proietta nella monumentalità con il Protome di cavallo del 1456, frammento per il mnoumento equestre (incompiuto) per Alfonso d’Aragona, re di Napoli. A chi non bastasse questa mostra che è un unicum irrepetibile per la qualità e quantità di prestiti, può vedere altre sue meraviglie al museo dell’Opera del Duomo, o andare a zonzo per Firenze. Così vedrete il Profeta e la Sibilla sulla Porta della Mandorla della Cattedrale di Santa Maria del Fiore, nella Basilica di Santa Croce l’Altare Cavalcanti, o a Orsamichele, in alcune nicchie, le copie delle statue che furono commissionate a Donatello dalle corporazioni fiorentine.

·        Elisa De Marco.

Federico Rocca per “Vanity Fair” il 10 ottobre 2022.

Trucràim non è il suo cognome. Ma Elisa De Marco – 33enne di origini torinesi, come l’accento denuncia nitidamente – da quel True Crime addizionato al nome di battesimo non si separa mai. Né per il suo canale YouTube da 650 mila iscritti, né per il suo profilo Instagram, né per il suo podcast che è riuscito a svettare in tutte le classifiche di streaming, superando da destra voci ben più popolari. Un successo clamoroso, acciuffato in un paio di anni, da quando nel 2020, in pieno lockdown, ha aperto un canale di video nel quale raccontava storie di nera dal suo appartamento di Shanghai.

«Ci siamo trasferiti lì da Hong Kong per il lavoro di mio marito, che faceva il direttore commerciale per una catena d’abbigliamento. Una settimana dopo il nostro arrivo è scoppiato il covid. Per me era impossibile lavorare: già normalmente, lì, è complicato per i visti, si figuri durante la pandemia. Non sono una abituata a stare con le mani in mano: seguivo molti canali americani di storie criminali, ma quando volevo raccontare a mio marito le vicende che mi avevano colpito di più, lui non ne voleva sapere. Gli mettevano troppa ansia, diceva. Ho pensato: “Sai che c’è? Mi troverò un pubblico che voglia ascoltarle”. E così è stato. Mi è sempre piaciuto, fin da piccola, raccontare storie. Per me tutto può essere una storia». 

Suo marito ora la ascolta?

«Quando abbiamo capito che le cose potevano funzionare, siamo diventati partner in crime. Si è licenziato, ora si occupa del montaggio dei video e di marketing».

 E non vivete più a Shanghai.

«Stiamo a Fuerteventura». 

Niente male. Una vita in vacanza, praticamente.

«Sì, era quello l’obiettivo. Lavoriamo da casa, potevamo vivere dove volevamo e abbiamo scelto un posto al mare molto bello». 

Fa un lavoro che le piace, ha successo, si autogestisce, vive in un posto da sogno.

«È così». 

E nonostante questo la gente non la odia.

«Sembrerebbe proprio di no». 

È giovane – ma non giovanissima – ed è la dimostrazione del fatto che in qualsiasi momento ci si può inventare un lavoro e, soprattutto, reinventare una vita.

«Una situazione complicata mi ha permesso di capire che cosa mi piacesse davvero fare, mi ha lasciata libera di esplorare quello che poteva essere un mio talento, al quale non avevo mai pensato. La famosa difficoltà che diventa opportunità.

Ma quando abbiamo cominciato, ci siamo buttati in quest’avventura dicendoci: “Come va va, godiamoci il momento senza troppe aspettative”». Parliamo da una decina di minuti; cresce, lenta ma inesorabile, la sensazione che il successo di Elisa True Crime sia clamoroso proprio perché, apparentemente, inspiegabile. Brillante, ma pacata, forse distaccata, tutt’altro che esuberante. Una ragazza incredibilmente normale. 

Dunque si guadagna bene raccontando storie?

«Si può guadagnare bene, ci viviamo in due». 

Come si definisce? Podcaster, youtuber, creator digitale, influencer?

«Su Instagram ho scritto storyteller, è quello che faccio: racconto storie. Influencer? Bah… Influenzo le persone con quello che dico? In un certo senso sì, sento una responsabilità. Mi interessa diffondere consapevolezza». 

In che senso?

«Cerco di trarre una morale dalle storie di cui mi occupo, faccio delle riflessioni, metto in guardia da certi atteggiamenti. Spesso riconosco gli stessi campanelli d’allarme in molti criminali che finiscono per compiere gesti atroci. Chi mi ascolta immagazzina queste informazioni e diventa più “vigile”. Ricevo spesso messaggi di ragazze che grazie a me riescono a riconoscere una relazione tossica nella quale sono finite, e a uscirne. Faccio quello che faccio per questo motivo». 

Una specie di missione?

«Anche». 

Nella prima stagione del suo podcast, ha raccontato storie di donne, vittime o carnefici. Che idea si è fatta delle donne killer?

«Ha il valore di una generalizzazione – e quindi pochissimo – ma credo che di solito i killer uomini siano più impulsivi, agiscano di pancia. Le donne sono più calcolatrici, forse più fredde». 

Le donne sono più complicate degli uomini?

«Sono più ponderate, potremmo dire». 

Che cosa la affascina di queste storie?

«Il loro risvolto psicologico, la mente dei carnefici. Provo sempre a capire che cosa possa scattare, a un certo punto, nelle loro teste. Ma non lo si capisce mai davvero». 

Carlo Lucarelli, Franca Leosini, l’immenso Corrado Augias di Telefono giallo… Ha dei modelli di riferimento?

«Loro sono dei miti, hanno una capacità affabulatoria straordinaria. Il mio modo di parlare è più terra terra». 

Che cosa la rende diversa dagli altri?

«Credo il propormi come l’amica che ti racconta una storia, in modo semplice, dalla sua cameretta. YouTube in questo aiuta, rispetto alla tv. Mi interessa accorciare le distanze». 

Che cosa prova nello stare in vetta alle classifiche?

«Incredulità: gliel’ho detto, non ho mai grandi aspettative. I miei genitori mi mandavano gli screenshot di Spotify». 

Adesso qualche aspettativa può farsela.

«Sto lavorando per la seconda stagione del podcast, nella quale tratterò più casi italiani. Per il canale YouTube vorrei collaborare ancora di più con le famiglie delle vittime». 

La tv le piacerebbe?

«Non lo so, sono felice di ciò che sto facendo».

·        Emil Cioran.

Così Cioran spalancò una "Finestra sul nulla". Gli ultimi testi in romeno dell'autore degli anni 1943-45. Un concentrato di pessimismo radicale. Massimiliano Parente l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

All'inizio degli anni Novanta c'erano due libri che avevano creato due mode intellettuali, due fazioni, entrambi editi da Adelphi, entrambi con dei titoli che da soli attraevano il lettore inquieto: uno era L'insostenibile leggerezza dell'essere, di Milan Kundera, uscito qualche anno prima, l'altro L'inconveniente di essere nati, di Emil Cioran.

Fu così che, in quel decennio, si crearono due fazioni: i kunderiani e i cioraniani. Uno ceco, l'altro rumeno, entrambi dell'Europa dell'Est, scelsero due espressioni diverse: Kundera, a differenza di Cioran, declinò un pessimismo esistenziale dentro romanzi che però avevano una natura di ribellione politica, l'amore come una speranza. Io ero cioraniano, per una ragione: Cioran, esule in Francia, toccava l'assoluto, il disagio esistenziale, senza altre ragioni esterne. Per lui l'esistenza era davvero insostenibile, a prescindere dai regimi, dalle situazioni contingenti, dalla religione, dalla politica, da tutto (ma pretese che il suo nome fosse pronunciato alla francese, da qui riconoscete i veri cioraniani - che pronunciano sioran - dai finti).

Esce adesso di Emil un libro giovanile, inedito, fatto di frammenti, tenendo conto che comunque tutti i libri di Cioran sono fatti di frammenti, il romanzo non era per lui, e d'altra parte l'opera filosofica più importante che abbiamo è lo Zibaldone di Leopardi, che odiava I promessi sposi di Manzoni e non ha mai scritto un romanzo.

Il titolo scelto da Adelphi è quanto di più cioraniano, Finestra sul nulla, e considerando che i frammenti furono scritti tra il 1943 e il 1945 rende ancora più importante questo testo: in piena Seconda guerra mondiale, quando scriveva ancora in rumeno, Cioran era già Cioran. Vedeva l'insensatezza dell'esistenza in tempo di guerra come l'avrebbe vista sempre dopo, nell'appartamento parigino dove si era recluso.

Nessun accenno a quanto stava accadendo intorno a lui, solo il dolore esistenziale di esserci, di essere nati, perché «ogni dolore è universale». Nel dolore si prova l'unica sensazione umana che ci porta a sentirci nulla nell'universo, un nulla sofferente, materia senziente, che toglie senso a ogni possibile felicità, che viceversa è sempre un inganno. È uno dei pensieri espressi anche recentemente da Piero Angela poco prima di morire, quando gli hanno chiesto cosa fosse per lui la morte: «Siamo stati morti da sempre prima di nascere, lo saremo dopo. L'unica cosa da fare è godersi la vita finché c'è». Per Emil non era così, l'unica cosa da fare era esprimere la tragedia della vita nella scrittura.

Era ancora giovane ma «a volte mi sento più vecchio di ogni possibile vecchio». Cioran, a differenza di Kundera, non poteva trovare una via d'uscita nell'amore, perché amare davvero significa soffrire ancora di più, perché prima o poi l'amore si trasformerà in sofferenza. L'amicizia, a differenza dell'amore, sarebbe possibile, ma è resa impraticabile dalla menzogna, insita nell'essere umano: «Di tutte le codardie che rendono possibili i rapporti tra gli esseri umani, la più delicata resta comunque l'amicizia. La sincerità totale è compatibile solo con il monastero o l'assassinio».

Illusioni, perdute fin da subito, fin da questi frammenti postumi: «Dal lato negativo, la vita è una perpetua messa funebre, celebrata in ricordo dell'illusione; dal lato positivo, è l'atto di non morire». Come poi Samuel Beckett, non poter continuare, continuare. Disgusto totale per ogni forma di impegno sociale, anche per questo Cioran non è mai piaciuto ai comunisti (né ai fascisti), il suo sguardo verso l'umanità era quello di un etologo della disperazione, un enorme formicaio senza senso. Perfino osservando un formicaio, non si immedesima nelle operose formiche che contribuiscono al proseguimento della propria specie, anzi, pensa a quello che sarebbe una formica veramente intelligente: «La formica che si tenesse a distanza dal suo formicaio e considerasse con pietà lo zelo insensato delle sue compagne entrerebbe - ipotizzando di conoscerla - nella storia del pensiero».

Nessuna simpatia per nessuno, elogio della misantropia come forma di intelligenza superiore, perché «la grandezza di un uomo si misura dal grado di disprezzo per i propri simili». In seguito ha scritto molto anche del suicidio, senza mai uccidersi, ma impedendo ad altri di farlo, come gli scrissero molti lettori che trovarono nella sua voce un compagno, una salvezza dall'inconveniente di essere nati.

Estratti di "Finestra sul nulla" (ed. Adelphi), libro inedito di Emil Cioran, pubblicato dal “Fatto Quotidiano” il 30 Agosto 2022.

L'imbecille fonda la sua esistenza solo su ciò che è. Non ha scoperto il possibile, finestra sul Nulla... L'imbecillità è il radicamento supremo, innato, un'indistinzione dalla natura che trae la propria reputazione dall'ignoranza dei pericoli. Perché nessuno è meno oppresso dell'imbecille, e l'oppressione è il segno di un destino lontano dalla mollezza e dall'anonimato della felicità. 

I gelosi soffrono di un eccesso di immaginazione. Si compiacciono in ciò che non vedono. La gelosia non è che il tormento dei sensi nell'invisibile. Niente la disturba più della certezza.

Un geloso assolutamente sicuro di non essere ingannato non può amare, perché non riuscirebbe a fare niente senza la tortura del probabile. In un'epoca di supplizi nella quale la tentazione della donna non definisse il suo respiro sarebbe un martire. Giacché la gelosia è il desiderio di soffrire a ogni costo. 

Nella sessualità il minimo pensiero denota insincerità. Le donne sanno fin troppo bene perché aborrono i filosofi... 

La maggior parte delle persone dal linguaggio depravato nascondono in tal modo la vergogna che provano a dire "cuore". Sguazzano nella pornografia per eccesso di pudore. Ho trovato più lacrime tra i cinici che tra coloro che hanno il sogno sulle labbra.

Camminando per strada, mi chiedo spesso se non sia uno sforzo culturale a risparmiare ai mortali gli sputi di disgusto o di pietà che ispirano, e mi domando se la creanza non sia il peggior nemico della sincerità... 

L'amore è la demenza delle narici. Profumo effimero di carne e di putrefazione... Ma senza quello, respirare sarebbe una depravazione indicibile. 

Più che in tutti i cimiteri della terra, il sentimento della mia scomparsa l'ho provato accanto alle donne. Ecco perché sono ricorso a ogni argomento per scusare questa creatura accidentale, contro l'evidenza del vuoto. 

All'infuori di Bach, qualsiasi impeto sonoro assomiglia a una strofetta farfugliata. 

Degli scenari della vita ho assaporato soltanto piaceri illegittimi. Non mi sono mai considerato altro che il suo figlio bastardo.

La salute è una malattia incompleta. 

Niente sminuisce come l'assenza di follia. 

Quelle ore del pomeriggio quando, per non piangere, ci si rifugerebbe in qualsiasi cosa: nella follia, nel chiasso, nella Bibbia o nell'omicidio. 

La cultura si riduce a un impiego raffinato dell'aggettivo. 

La putredine interiore è tollerabile solo sotto una maschera lirica; nella sua verità, nella sua forma pura la si ritiene un qualcosa di spregevole. Così i poeti sono riusciti a dare un senso alle ultime decomposizioni senza insultare nessuno.

Magari fossi nato schiavo da qualche parte nell'Impero agonizzante, e mi avessero condotto a Roma a insinuarvi dubbi e interiezioni, a intrattenere le orecchie degli ultimi dominatori con bisbigli di deliquescenza! Ah, l'elegante decadenza che accompagna le orge della carne e dello spirito! 

Chi non prova un'immensa pietà di se stesso non può odiare gli uomini. 

La voluttà ci rivela i limiti della carne, l'amore quelli dell'anima. 

Tutti gli abusi concepiti dalla crudeltà o dall'immaginazione impallidiscono davanti alla tirannia della noia. 

La paura del ridicolo vieta la poesia, ma non impedisce l'assurdo.

Ogni passo avanti trascina con sé un'equivalente degradazione. Al suo limite, l'essere umano dovrebbe nuotare nel cielo come nel pus.

Dopo ogni incontro con qualcun altro, uomo o donna, saggio o cretino, le domande sono sempre le stesse: perché non si uccide| Come fa a non contemplare il suicidio| Com' è possibile che ignori sino a che punto egli sia inutile|! Sfuggire a tutti gli altri è il desiderio segreto di ogni uomo. 

La vita? Un'ingiuria in mezzo a una preghiera. 

I cuori troppo maturi imputridiscono nei versi.

Coloro che non avvertono il bisogno di tormento non scopriranno mai il vizio, né l'infinito cui si accede nel crollo doloroso provocato dal suo pericoloso piacere. 

Per quanto amiamo Mozart, dobbiamo riconoscere che non sa tutto. Esiste una musica meno carica di Peccato| Ciò che non raggiunge la feccia dell'anima resta escluso dalla Conoscenza. 

Sull'albero della vita l'amore è il frutto più putrido. 

I poeti e gli amanti hanno eretto la rosa a simbolo dell'amore per farci dimenticare che prima che ne assaporassimo il profumo, le sue spine ci hanno insanguinato il corpo e l'anima. 

(c) Editions Gallimard, Paris, 2019(c) 2022 Adelphi Edizioni S.p.A. Milano.

·        Emilio Giannelli.

Giannelli, trent’anni d’ironia. LUCIANO FONTANA su Il Corriere della Sera il 13 novembre 2022.

La scelta della vignetta di Emilio Giannelli da pubblicare ogni giorno sulla prima pagina del «Corriere della Sera» è uno dei riti quotidiani della vita del giornale. Quando fui assunto, nel 1997, Giannelli era già lì, con le sue telefonate, le sue bozze pomeridiane inviate via fax, la sua ultima stesura pronta per la stampa. Ero uno dei caporedattori centrali del giornale, e avevo il compito di sentirlo nel primo pomeriggio per raccontargli le notizie principali della giornata, i fatti e i personaggi che stavano emergendo. Colloqui rapidi, perché Giannelli è fulminante nelle sue intuizioni, tanto veloce da dirti già al telefono quale poteva essere il disegno e quale la battuta che lo avrebbe accompagnato. Ti lasciava sempre stupito, anche se qualche volta intuivi subito che il giorno seguente avrebbe provocato la telefonata di un politico arrabbiato.

«Un’Italia da vignetta» di Emilio Giannelli, con Paolo Conti (pp. 240), sarà dal 18 novembre in libreria (euro 17,50) e in edicola (euro 14 più il prezzo del quotidiano)Quando poco dopo arrivava la vignetta (di solito in brevissimo tempo, salvo per quelle corali con tanti personaggi o quelle composte da molte scene come un fumetto da scorrere) lo stupore diventava doppio: per i tratti irriverenti, ma soprattutto divertenti, dei personaggi, l’abilità per mezzo di un tratto di matita e di china di cogliere le posture, la camminata, il modo di gesticolare, l’atteggiamento verso gli altri. A me piaceva e piace ancora moltissimo, per esempio, il ritratto di Berlusconi con le sue scarpe rialzate, il doppiopetto d’ordinanza, il sorriso aperto da ragazzino impertinente che ne sta combinando un’altra. Tutto accompagnato quasi sempre da una battuta o una frase che vale l’editoriale del giorno.

Avere una vignetta quotidiana in prima pagina, dal 1991 a oggi, ha infatti un significato preciso. Affida a Giannelli il commento, a modo suo e con il linguaggio della satira, di quello che è il fatto del giorno. Completa gli editoriali delle firme più importanti del «Corriere». Il suo è uno sguardo ironico ma preciso, puntuale, che svela il lato nascosto di una notizia, ne esalta un’interpretazione, la offre al lettore senza tanti giri di parole, in un modo diretto: come a dire, ecco cosa c’è davvero dietro la scena, ecco cosa ti nasconde un politico o un importante leader mondiale. Scherziamoci pure su, ma non farti raggirare.

Paolo Conti è editorialista del «Corriere della Sera» Emilio Giannelli conosce la politica e i suoi caratteri come pochi altri, ma soprattutto sa esaltare i dettagli: dei fatti, dei comportamenti, dei pregiudizi. Non è mai cattivo, ma ha il gusto toscano della battuta, che spesso lascia spaesati nei faccia a faccia privati e pubblici con tanti personaggi. Un gusto irresistibile che nessuno può frenare. Il risultato finale è qualche arrabbiatura, qualche incidente raro, come con i reali d’Inghilterra. Ma sono tantissimi quelli che lo adorano e chiamano il giornale per chiedere l’originale della vignetta per poterla incorniciare nel loro studio. Mi è capitato tante volte di ricevere la richiesta di leader, personalità istituzionali, capi d’azienda. Ricordo ancora lo sguardo divertito di papa Ratzinger quando in Vaticano gli consegnammo, con Massimo Franco, due disegni preparati per lui da Giannelli.

Ma soprattutto Giannelli è amato e guardato ogni mattina con avidità da tutti i lettori del «Corriere». Una prima pagina senza Giannelli è inconcepibile, è come se il giornale uscisse senza il titolo d’apertura. Questo rito Emilio lo ha rispettato sempre, senza saltare un giorno, organizzandosi anche nei momenti in cui sembrava per lui impossibile.

Il libro di Paolo Conti che iniziate a leggere e a sfogliare vi racconta la storia incredibile dell’intreccio tra la vita di un dirigente di banca e quella del vignettista nelle ore libere della giornata. Il suo arrivo al «Corriere» e i trent’anni attraversati, dall’avvento di Berlusconi all’esperienza di Draghi. E pubblica una selezione delle sue vignette che fanno ripercorrere, con il sorriso, trent’anni della storia nazionale e globale. Con il suo lato divertente, ma spesso anche tragico. Alla fine ci spinge tutti a non prenderci mai troppo sul serio, a non fare, come direbbe Emilio, «i bischeri».

Il percorso

Dalla prima caricatura del re Vittorio Emanuele III, disegnata a 5 anni, alle vignette di oggi. Emilio Giannelli (1936) si racconta e raccoglie i lavori più belli, inclusi molti inediti, in «Un’Italia da vignetta» (Solferino). Avvocato all’ufficio legale del Monte dei Paschi di Siena, ex direttore generale della Fondazione Monte dei Paschi di Siena, e disegnatore per passione, fu chiamato da Giorgio Forattini a collaborare all’inserto satirico de «la Repubblica». Nel 1991 passa al «Corriere della Sera», di cui è il vignettista di punta. Ha collaborato con periodici quali «Epoca», «L’Espresso», «Panorama».

Emilio Giannelli: «Ho fatto undicimila vignette... Quando Montanelli mi disse: lei non è bischero, è trischero». Giangiacomo Schiavi su Il Corriere della Sera il 18 settembre 2022.

Emilio Giannelli, premio Montale fuori di casa: per le vignette sul Corriere, per il garbo della sua satira, per l’irriverenza che strappa un sorriso. Più di trent’anni in prima pagina. Un record, o no? «Dal novembre 1991 ad oggi sono 31 anni e qualche mese. Non so se sia un record, il tempo è volato».

E quante vignette? «360 all’anno per 31 fa più di 11 mila».

Le cestinate? «Sono abbastanza, ma mi accontento...».

La preferita? «Quella che mi ha dato più pensiero: si parlava in Inghilterra delle difficoltà economiche, delle spese di Buckingham Palace e della crisi agricola legata alla mucca pazza; io feci una vignetta con il Principe di Edimburgo che diceva “Dio salvi la Regina”. Il mio intento era di commentare la situazione con riferimento alla monarchia, senza riferimento alla persona. Al Corriere si rischiò quasi una crisi diplomatica...».

Quella che non si dimentica più? «La stessa di cui sopra. Non volevo essere irridente».

Con Elisabetta ha rimediato, mandandola in cielo con un «Salve, Regina»... «Spero di sì».

È difficile essere Giannelli? «Per me sarebbe difficile non esserlo».

Dicono che la sua penna è diventata più morbida... «Non so se è vero, credo che in questi ultimi anni la satira deve sempre più fare i conti con un osso duro: il politicamente corretto».

La realtà oggi supera la sua fantasia? «La realtà supera sempre la fantasia».

Che cosa pensa dei politici su TikTok? «La politica si adegua a tutto, anche a TikTok , una cosa da ragazzi».

La Meloni è la lepre di questa campagna elettorale?

«Corre sicuramente più degli altri. Mi sembra abile, cerca di accreditarsi come democratica ed europeista. Vedremo se i sondaggi sono veritieri».

Come la vede? «C’è molto da vignettare...».

E Letta? «È senz’altro una persona di cultura e di grande onestà; non mi sembra che abbia centrato la campagna elettorale».

Ha fatto una vignetta western sul loro confronto al «Corriere», una sfida all’O.K. Corral... «Un confronto con le pistole caricate a salve».

E se fosse come il Palio? «Nel Palio è bello far perdere l’avversario».

Cosa dice del Terzo polo? « Tertium non datur, almeno per me».

E della diaspora dei Cinque Stelle? «Credo fosse inevitabile, tutte e cinque insieme non potevano brillare».

Berlusconi è sempre lo stesso? «Non è sempre lo stesso, nonostante i vari lifting».

Una sua vignetta del 2011 era intitolata Berluskamen... «Più che un amen è stato un prosieguo, un arrivederci».

Salvini le ricorda qualcosa di Bossi? «Non credo che Salvini possa essere considerato l’erede di Bossi, che era una fonte inesauribile per chi fa satira politica. Salvini ha meno fantasia ed ha una fisionomia difficile, cambia spesso espressione».

Ha disegnato più Andreotti, Craxi, De Mita o D’Alema? «Tra questi il più disegnato credo sia stato Andreotti. Quando gli inviai un libro in cui erano molte le vignette che lo riguardavano, mi rispose con un biglietto in cui diceva: “La ringrazio per il libro e le auguro tutto ciò che si merita”».

Era più facile fare satira nella Prima Repubblica? «Nella Prima Repubblica c’erano più protagonisti e più dibattito; oggi solo un leader di partito e la sua posizione».

Chi si arrabbiava di più? «Non saprei dirlo, anche perché le proteste provenivano più dai fan che dal diretto interessato».

È stata dura con Renzi? Un senese e un fiorentino come si pigliano? «Tra me e Renzi c’è di mezzo la battaglia di Montaperti, senza che scorra il sangue».

Qualcuno le ha tolto il saluto? «Il problema non si pone: non conosco nessuno dei politici satireggiati».

Come ha conciliato il suo ruolo di avvocato nell’ufficio legale del Monte dei Paschi con quello del vignettista? «Dal punto di vista del tempo l’ho potuto conciliare poiché la vignetta la realizzavo a tarda sera, quando il lavoro di legale era terminato; ho cercato di non creare conflitti di interesse, ed il mio lavoro di legale al Mps mi ha dato molte soddisfazioni».

Qualche nostalgia? «La nostalgia è sicuramente per la gioventù, ma oggi più che nostalgia provo molto dispiacere per come si trova ora il Monte dei Paschi; quando lo lasciai nel 2000 era una potenza».

I lettori dicono: la vignetta di Giannelli è già un editoriale. Pesa questa responsabilità per chi deve far sorridere? «Che la vignetta sia un editoriale mi sembra un’esagerazione; ha soltanto il pregio di essere una sintesi di ciò che un editoriale dice più approfonditamente e con più precisione».

È vero che i vignettisti si portano dentro una vena di tristezza? «Per quanto mi riguarda, disegnare per fare satira politica non mi dà tristezza; la tristezza me la dà la politica».

È vero che a scuola quando disegnava veniva bacchettato dalla maestra? «No, venivo bacchettato perché essendo mancino scrivevo con la sinistra e facevo le lettere al contrario; il disegno rappresentava la mia libertà».

La sua vignetta è un tiro mancino. «Non so; è il disegno di un mancino».

È stato conteso tra Scalfari, Stille e Montanelli. «Sulla Repubblica di Scalfari (a cui sono riconoscente per avermi consentito di iniziare l’attività di disegnatore satirico) non potevo essere in prima pagina, dove pubblicava la sua vignetta Giorgio Forattini; per quanto riguarda Montanelli, pur con la stima e l’affetto per il grande giornalista, temevo — come ebbi a dirgli — di collaborare ad un giornale con un editore di cui non mi fidavo».

E alla fine ha vinto Stille. Come la convinse? «Optai per il Corriere della Sera per la stima e la simpatia verso Stille, nonché per il prestigio del giornale che dirigeva».

Come l’hanno presa gli altri? «Scalfari mi scrisse un biglietto in cui diceva “lo immaginavo, ma mi dispiace lo stesso”. Montanelli, quando rifiutai l’elevato compenso che mi aveva offerto mi disse: “Giannelli, lei non è un bischero, è un trischero”».

Che cosa spera ogni mattina quando esce la sua vignetta sul «Corriere»? Biagi diceva: oggi chi abbiamo fatto arrabbiare?... «Non mi preoccupo di chi eventualmente ho fatto arrabbiare, ma che — a pubblicazione avvenuta — si noti qualche errore nel disegno o nella battuta».

I giovani come la vedono? Frequenta i social? «Si può capire consultando Capire Giannelli. I giovani mi vedono come sono: un ottantaseienne che usa ancora il fax e che disegna le persone e soprattutto le cose come erano decenni fa».

C’è un giovane vignettista sulla buona strada? «Almeno due: Natangelo e Makkox».

Le giro la domanda di un lettore: ha mai sognato che le sue vignette possano prendere vita? «È accaduto con il Palio, dopo la vittoria del Drago, la mia contrada. Ho dipinto i cavalli e le facce di duemila persone assiepate. Un bravo regista ha fatto un video e ha fatto rivivere quelle persone. Emozionante. Una bambina ha detto: quel pittore è un mago».

Perché non lo fa con qualche vignetta? «Non ci penso, qualcuno mi potrebbe dare un ceffone... e poi certa gente non bisogna farla vivere a doppio».

Premio Montale: è un poeta che ama? «Certamente, anche come pittore».

Se dovesse disegnarsi, vignetta e battuta, come si immagina Emilio Giannelli il 19 settembre 2022? Si sente un po’anche lei un osso di seppia? «Mi immagino con la matita in mano e non mi sento un osso di seppia: preferirei essere un’upupa».

Alla fine, siamo più uomini o caporali? «Spero uomini, anche se dubito».

Viviamo alla giornata tra acqua santa e acqua minerale, diceva Leo Longanesi... «Meglio che bere il vino per dimenticare».

Che cosa possiamo attenderci, dopo le piaghe degli ultimi anni? «Purtroppo potrebbe accadere anche di peggio... Ma speriamo di no».

·        Emilio Lari.

Luca Pallanch per “La Verità” il 5 dicembre 2022.

Emilio Lari ha lasciato un segno indelebile nella fotografia e nel cinema. Le foto di centinaia di film che sono passate di fronte ai nostri occhi portano la sua firma. Ha immortalato star e starlette, stabilendo un ponte tra Cinecittà e Hollywood, con una tappa a Londra, dove ha realizzato la sua impresa più memorabile: catturare l'immagine dei Beatles agli inizi della loro trionfale ascesa. E tramandarla per sempre. 

Come ha cominciato a fare il fotografo?

«Ho avuto un interesse particolare per la fotografia fin da bambino. Quando avevo cinque-sei anni, le truppe americane si erano piazzate con la tenda a Villa Borghese e i miei fratelli, siccome non c'era niente da mangiare, rubarono uno zaino sperando che ci fosse qualcosa di buono invece conteneva solamente delle maschere antigas e una scatola con una carta arrotolata bianca che, esposta al sole, diventava nera. Io vi appoggiavo la mano sopra e, quando la toglievo, rimaneva l'impronta: avevo cominciato a capire il negativo. E da lì è partito tutto». 

Come ha coltivato questa passione? 

«Mio padre mi comprò, a dieci-undici anni, una macchina fotografica, solo che io la vendetti di nascosto per andare a Ostia. Non avevo mai visto il mare! A casa se ne accorsero subito perché, con i soldi avanzati, mi ero comprato un pallone e una maglia della Roma. 

Come mamma mi ha visto con il pallone ha capito che c'era qualcosa che non andava: "Dove ha preso i soldi?" e mi hanno menato tutti! Poi però mia sorella, che era la segretaria di Angelo Rizzoli, chiese a Pierluigi Praturlon, il fotografo de La dolce vita di Fellini, di prendermi con lui. Allora, a parte i giornali e le riviste, il vero business era stampare la fotobusta che veniva spedita a tutti gli esercenti per invogliarli a proiettare i film». 

Quindi ha cominciato come stampatore?

«Sì, ero diventato talmente bravo che, in tre-quattro persone, stampavamo ottocento fotografie al giorno. Però dopo sei mesi mi tolsi il grembiule bianco e andai da Pierluigi: "Guarda che io voglio fare il fotografo, non voglio fare lo stampatore". "Allora vattene". Gli tirai il grembiule e me ne andai».

E Pierluigi?

«Non feci in tempo ad arrivare a casa che mi telefonò: "Domani devi andare in Calabria con un giornalista dell'Europeo". Partimmo per Rossano, dove era successa una storia incredibile: uno sceicco era stato mandato in esilio dopo un colpo di Stato e aveva messo incinta una donna sposata. 

Poi era stato reintegrato nel Paese d'origine e alla sua morte aveva lasciato molti soldi al figlio, che faceva il pastore. Questi era andato a ritirarli, però la ricchezza gli aveva dato la testa ed era rimasto a vivere lì, lasciando moglie e due figli in Calabria. In paese avevano fatto una sottoscrizione per pagarle il viaggio, ma quando lei lo aveva raggiunto, lui si era accorto che era incinta di tre-quattro mesi e l'aveva cacciata.

Quando entrai nella stalla per fotografare la donna dello sceicco, nel passaggio dal sole cocente al buio quasi assoluto, sentii uno scricchiolio sulla testa, scattai e la colsi con il secchio per il latte, di alluminio pesante, intenta a colpirmi. Se mi avesse presa, mi avrebbe ammazzato!». 

Come andò questo reportage?

«Benissimo. Naturalmente Pierluigi non mi disse niente, però il giornalista commentò: "Questo è forte...". A quel punto, siccome parlavano tutti dei Beatles, decisi di andare a Londra. Partii da Roma con una Fiat 600, tre giorni di viaggio, con una sosta a Parigi».

Com' è riuscito ad agganciarli?

«Una sera era a casa dell'attore Laurence Hardy, il quale mi chiese: "Che sei venuto a fare qua?". "Per imparare l'inglese e per fotografare i Beatles". "Io conosco il regista del loro film A Hard Day' s Night [Tutti per uno, ndr], Richard Lester" e mi diede il suo indirizzo. Era sabato e mi misi in cerca della casa del regista. Non parlando inglese, mi fermavo per strada, mostravo l'indirizzo e quando mi facevano il verso di girare dicevo: "Thank you", svoltavo e chiedevo di nuovo a un altro passante. Pioveva, non ti dico com' ero ridotto!». 

Alla fine riuscì a trovare la casa di Lester?

«Con grande fatica. Suonai e venne proprio lui ad aprirmi. Cominciai a impapocchiare una storia: gli raccontai che ero venuto dall'Italia per conto de L'Europeo per fotografarlo mentre girava. Naturalmente lui non mi credette, lo capivo dal suo sguardo, ma, vedendo che ero tutto fracico e apprezzando la mia intraprendenza, mi diede un asciugamano e mi offrì un tè. 

Poi mi disse: "Vieni domani perché giriamo in una stazione della metropolitana che si chiama Marylebone". Io lo ringraziai e uscii. "Marylebone?", una stazione con un nome francese?! Non ci credevo. Allora sai cosa ho fatto? Mi misi con la macchina davanti al cancello di casa sua e rimasi a dormire lì». 

La mattina dopo?

«A un certo punto sentii battere sulla macchina con un bastone. Era lui: "Devo andare a lavorare". Non poteva uscire dal cancello. Lo seguii e arrivai davanti a Marylebone Station, che, tra l'altro, stava a duecento metri dalla pensione dove soggiornavo! Quando arrivai sul set, lui rideva come un matto per questa storia e tutta la troupe pensò che fossi un suo amico, quindi tollerò la mia presenza tutto il giorno.

Rispettai l'idea originale di fotografare Lester che dirigeva i Beatles. Il giorno dopo andai in un'agenzia e quando il proprietario seppe che avevo fotografato i Beatles cambiò espressione. Sviluppammo le foto e la sera stessa il servizio fu venduto per ventimila sterline. Io prendevo centoventi pound al mese! 

Lavoravo per Pierluigi, il quale venne da Roma per prendersi la sua parte e a me offrì una cena in un ristorante italiano a Soho, poi da sotto il tavolo mi allungò cinquanta pound. Ci rimasi male. Gli dissi: "Allora facciamo una cosa: io lavoro per conto mio, tu vendi le foto e ti tieni il trentacinque per cento". Così cominciai a fare il freelance e per dieci anni proseguì la collaborazione con Pierluigi in questi termini. Comunque come fotografo Praturlon era un mostro». 

Poi ha lavorato sul successivo film dei Beatles...

«Mandai a Lester una serie delle fotografie scattate, lui le apprezzò e quando doveva girare Help!, mi fece rintracciare per invitarmi una settimana sul set. Quelle foto le ho vendute in tutto il mondo e ho pubblicato due libri». 

Com' erano i quattro musicisti caratterialmente? 

«John Lennon era serissimo, Paul McCartney era molto divertente, scherzava continuamente, mi cercava mettendosi in posa. George Harrison era anche lui serio e, secondo me, l'unico che suonava veramente bene, Ringo Starr, invece, era un miracolato perché non era un grande batterista. Opinione personale».

Ha continuato a lavorare in film internazionali, a cominciare da Candy di Christian Marquand, con un cast incredibile.

«Mi telefonò un tipo con un vocione e l'accento texano, il quale mi disse che gli avevano fatto il mio nome. 

Pensai fosse uno scherzo del mio amico Stefano Libotte, che era un imitatore perfetto. Mi invitò a incontrarlo al Grand Hotel ed effettivamente si presentò un texano, alto due metri, e riconobbi il vocione. Mi disse che stavano preparando un film con un elenco lunghissimo di nomi: Marlon Brando, James Coburn, Richard Burton, John Huston, Walter Matthau, Ringo Starr... Pensai: "Questo è Stefano che ha organizzato uno scherzo dei suoi: ma è mai possibile che facciano un film con dodici attori protagonisti?".

Lui mi chiese: "Ma quanto prendi a settimana?". Io, pensando fosse uno scherzo, sparai: "Duemila e cinquecento dollari". Nessuno me li aveva mai dati! "Devi essere il più bravo di tutta Italia". "Sì, so' il più bravo di tutti". "Bene. Oggi pomeriggio, alla Dear, cominciamo i provini delle ragazze".

Ci andai: c'erano Peppino Rotunno e alle luci Giuseppe Maccari, poi arrivarono una quarantina di ragazze, una più bella dell'altra, tra le quali spiccava Sydne Rome, che sarebbe diventata mia moglie. Era tutto vero! Cominciai a fare il simpatico e recuperai piano piano la situazione». 

Poi ha lavorato su Il Padrino di Francis Ford Coppola.

«Avevo conosciuto Coppola a Los Angeles attraverso la fidanzata di John Milius che era la migliore amica di Sydne. Quando venne a Roma per Il padrino, siccome non gli permettevano di portare il fotografo dall'America, fece una lista di nomi che voleva, tra i quali c'ero pure io. 

Il primo giorno di lavorazione Francis venne da me: "Dovresti fotografare bene la faccia di Al Pacino". C'erano una ventina di comparse, vestite tutti da pastori. Mi sono avvicinato: "Chi è Al Pacino?". Non sapevo chi fosse perché non era ancora conosciuto. A un certo punto mi si mise davanti un uomo piccolo che disse sottovoce: "Al Pacino sono io". "Senti, vattene, per favore, ho da fare".

Coppola vide la scena e accorse da me: "Guarda che è Al Pacino!". "È Al Pacino questo? Ma che glie famo fa' er protagonista a 'sto qua?!". Poi anche in questo caso ho recuperato! Ho fatto anche la parte italiana de Il padrino 2 e tutto Il padrino 3, tranne le prime due settimane». 

Un'altra perla della sua filmografia è Toro scatenato di Martin Scorsese.

«Nel 1960 Pierluigi mi mandò a fotografare un incontro di boxe al Palazzetto dello Sport e mi diede una macchina americana con nove scatti, mai vista prima. Ho cercato di cogliere l'istante dell'impatto del pugno, quando arriva al volto e poi torna indietro. Sono venute fuori nove fotografie straordinarie: si vedeva il pugno fermo, la testa che arretrava e il sangue che schizzava. 

Fecero il giro del mondo. Il direttore dell'ufficio pubblicità della United Artists Saul Cooper se ne ricordò a distanza di anni e mi chiamarono per scattare le foto di scena degli incontri del film di Scorsese.

Robert De Niro, che conoscevo dai tempi de Il padrino, si sorprese quando mi vide sul ring: "Come sei arrivato qua?". Poi feci un reportage sul processo di invecchiamento al quale si sottoponeva al trucco tutte le mattine su C'era una volta in America di Sergio Leone.  

La sera andavamo a cena con gli amici e lui aveva ancora addosso il trucco da vecchio! Mi sono sempre divertito, ma ti confesso che il più grande divertimento è stato girare per il mondo con Massimo Boldi, Christian De Sica e gli altri comici dei film dei fratelli Vanzina. Succedeva di tutto!».

·        Ennio Flaiano.

Paolo Conti per il “Corriere della Sera” il 22 novembre 2022.

Per ritrovare il più autentico, disincantato Ennio Flaiano, occorre partire dalla sua inimitata capacità di polverizzare in una battuta le illusioni umane. Appunto numero 327 del 1969 nel postumo Diario degli errori , raccolta di fogli sparsi pubblicata nel 1976: «Il bello dell'innamorarsi è il principio. Ti sembra tutto nuovo. Dopo un anno non riesci a capire perché tutto ti sembrava nuovo». 

Flaiano dedicherebbe certamente il suo corrosivo sarcasmo ai riti di questo cinquantesimo anniversario della sua morte, avvenuta a Roma il 20 novembre 1972 per un secondo infarto dopo il primo del 5 marzo 1970. In poco più di 62 anni (nasce a Pescara il 5 marzo 1910) colleziona tante identità, tutte a eccellenti livelli:

letterato, giornalista, epigrammista, critico cinematografico e teatrale, autore di teatro, soggettista e sceneggiatore, traduttore (Il corvo di Edgard Allan Poe nel 1936 quando è impegnato nella guerra d'Etiopia), persino attore (appare nel 1946 in minimi ruoli sia in Mio figlio professore di Renato Castellani che in Roma città libera di Marcello Pagliero, di cui firma soggetto e sceneggiatura). Una produzione vastissima tra scritti, appunti, progetti realizzati o incompiuti (un Proust immaginato nel 1965 per il regista René Clément).

Ha radici pescaresi mai dimenticate (un baratro lo separa dal concittadino Gabriele D'Annunzio) ma qualsiasi racconto su Flaiano sarebbe impossibile senza Roma, autentico snodo esistenziale. Parte in treno per la Capitale la sera del 26 ottobre 1922 diretto al Collegio Nazionale e per uno di quei casi davvero da film si ritrova tra i fascisti della marcia su Roma. Il 5 novembre 1972, pochi giorni prima della morte, esce sul Corriere della Sera un elzeviro intitolato proprio La mia marcia . Si rivede dodicenne e descrive l'euforia di un gruppo di fascisti pescaresi «inebriati dall'avventura che li attendeva». Ma la natura del satiro riporta subito «il forte odore di frittate, cotolette, pollo arrosto e vino scuro» che si sprigiona di notte nei vagoni. 

Flaiano disprezzerà sempre il regime per i suoi aspetti antropologici più che politici («il fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità»). Così come sarà anticomunista convinto in un universo di intellettuali legati al Pci (Appunto 36 del 1955 sempre nel Diario degli errori : «Alberto Moravia, Renato Guttuso, Carlo Levi: tre casi di narxcisismo»). Celeberrima la sua proposta su «Il Mondo» alla fine del 1956 di introdurre nelle scuole un esame di comunismo senza il quale «niente diplomi, niente licenze, niente lauree».

Roma è lo scenario amato-odiato, studiato senza sospetti di mitizzazione: «Vivere a Roma è un modo di perdere la vita», appunta mentre lavora con Federico Fellini a La dolce vita , uno dei suoi aforismi più citati. La Capitale è il palcoscenico della sua dolorosa vita privata e di tutte le sue scelte di lavoro dal 1938, da quando prende casa in via dei Greci e diventa amico del poeta Vincenzo Cardarelli e del pittore Orfeo Tamburi. Lavora per «Oggi» di Mario Pannunzio come critico teatrale e cinematografico. 

Nel 1940 sposa Rosetta Rota e nel 1942 comincia a lavorare per il cinema come consulente artistico del regista Romolo Marcellini per Pastor Angelicus , documentario su Pio XII. In quel periodo nasce sua figlia Luisa, anzi Lelè. La felicità diventa dolore perenne dopo la gravissima encefalopatia infantile che segna Lelè e devasta i Flaiano: difficoltà a camminare, afasia e disabilità intellettiva. Lui e Rosetta, dirà Flaiano, hanno per quella infelice figlia «un amore purissimo».

L'ombra non lo lascia fino alla fine, in tanti hanno letto le sue molte avventure femminili come un modo di reclamare vita e felicità. Ma, nella morte, Ennio, Rosetta morta a 92 anni nel 2003, e Lelè, scomparsa nel 1992, si ritroveranno in una candida tomba a Maccarese, a un passo dall'amata Fregene, altro sfondo della sua vita romana. 

Flaiano nel 1947 vince il primo Premio Strega (contro Libero Bigiaretti, Gianna Manzini, Giuseppe Berto e Corrado Alvaro) con Il tempo di uccidere , romanzo commissionato da Leo Longanesi, ambientato nella vissuta guerra d'Etiopia. 

Mario Pannunzio lo chiama al vertice de «Il mondo» come capo redattore («cupo redattore» ironizza lui) lavorando con Sandro De Feo, Vitaliano Brancati, Mino Maccari (il giornalismo ritma la sua vita, la collaborazione col «Corriere della Sera» comincia nel 1956 e si conclude con la sua morte). A Parigi incontra Jean Cocteau e Raymond Queneau. Una così solida e raffinata struttura intellettuale lo conduce al cinema che in quel momento vive in Italia una stagione di irripetibile qualità e vitalità.

L'incontro con Fellini nel 1950 produce un binomio-mito che si conclude nel 1965: Luci del varietà ('50), Lo sceicco bianco ('52), I vitelloni ('53), La strada ('54), Il bidone ('55), Le notti di Cabiria ('57), La dolce vita ('60), il capitolo felliniano Le tentazioni del dottor Antonio nel film a episodi Boccaccio '70 ('62), 8 e ½ ('63), Giulietta degli spiriti ('65), tra sceneggiature e soggetti co-firmati. Sarebbe ingiusto ma soprattutto ridicolo ridurre il Flaiano cinematografico all'universo felliniano: lavora con Mario Monicelli, Luigi Zampa, con il William Wyler di Vacanze romane , con Dino Risi, Michelangelo Antonioni, Roberto Rossellini, Pietro Germi, Elio Petri, Marco Ferreri. 

Ma i tre dei quattro Oscar di Fellini che portano anche la firma di Flaiano ( La strada , Le notti di Cabiria , 8 e ½ ) lo collocano nella storia del cinema e nella cultura diffusa accanto a Federico. Rapporto complesso, anche per la evidente disparità dei livelli intellettuali, come nota Aldo Grasso nel 2020 riguardando su Rai Movie La dolce vita . Flaiano vede nel 1960 alcune scene appena girate proprio di quel film e parla di «gongorismo» di Fellini, di un «museo delle cere».

Ma in una lettera a Fellini nel 1969 cambia parere dopo aver rivisto il film col distacco del tempo («bellissimo per l'abbondanza e la precisione dei motivi, dei personaggi e delle storie che si intrecciano un romanzo, non un racconto»). L'intricato rapporto tra i due si incrina e finisce per il famoso viaggio in aereo che conduce tutti negli Stati Uniti per le nomination all'Oscar per 8 e ½ : Flaiano e Tullio Pinelli (anche loro nominati come miglior sceneggiatura) in classe turistica, gli altri in business. 

Un incidente organizzativo che Flaiano non digerisce e fa emergere il malessere del soggettista-sceneggiatore così simile quello di Cesare Zavattini, rintracciabile nei diari appena usciti per La nave di Teseo a cura di Valentina Fortichiari e Gualtiero De Santi (23 novembre 1948, sul successo di Ladri di biciclette registrato dai giornali: «Nessuno o quasi parla di me parlano di "mondo di De Sica" e non c'è una virgola che, nel testo, non abbia inventato io, e sullo schermo c'è tutto e solo il mio testo»).

Racconterà nel 2010 Tullio Pinelli parlando nel film documentario Flaiano. Il meglio è passato di Giancarlo Rotondi e Steve Della Casa: «Sopportava molto meno di me questa predominanza di Fellini, che sicuramente la collaborazione nostra l'ha sempre tenuta un po' in ombra». Nello stesso film, così Vaime: «Ennio non ne poteva più, si sentiva considerato male, ingiustamente accantonato». 

L'indubbia grandezza di Flaiano si ritrova, a ridurla in una battuta come amava lui, nel finale della versione teatrale di Un marziano a Roma del '60, clamoroso insuccesso sulle scene nonostante il protagonista Vittorio Gassman. Il marziano all'inizio è il centro dell'attenzione. Poi Roma lo divora, lo metabolizza, lo ridicolizza: «Aoh! Er marziano. Guarda/ Pija er fresco, sotto le feste/ Quant' è buffo, me fa ride'». Certo è Roma. Ma è anche la profezia di una contemporaneità che tritura ogni novità in pochi istanti. Chissà cosa avrebbe scritto del web.

Flaiano, l’amico di Fellini che decifrò la Dolce Vita e i «cretini specializzati». Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 15 Novembre 2022.

Abruzzese a Roma, coi suoi scritti essenziali folgorava un mondo in scomposizione: «Il peggio per un genio? Essere compreso». Erano due caratteri turbolenti, e la loro amicizia decennale s’infranse sul volo che li portò a Los Angeles per l’Oscar

«Giugno ’58. Sto lavorando con Fellini e Pinelli a rispolverare una nostra vecchia idea per un film, quella del giovane provinciale che viene a Roma a fare il giornalista. Fellini vuole adeguarla ai tempi che corrono, dare un ritratto di questa società dei caffè, che folleggia fra l’erotismo, l’alienazione, la noia, l’improvviso benessere. Salta agli occhi che questa non è più una strada, ma una spiaggia. I caffè che straripano sui marciapiedi, quanti sono? Sei? Sette? Hanno ognuno un tipo diverso di ombrellone per i loro tavoli, come gli stabilimenti balneari di Ostia: e non sono ombrelloni da strada, ma da festa galante, alcuni hanno nappe e festoni di paglia, come alle Hawaii». Stava nascendo La dolce vita e così annotava Ennio Flaiano nei suoi Fogli di Via Veneto.

Il tempo dei vitelloni

Se non ci fosse stato lui, La dolce vita, idolatrato film simbolo di un’epoca, non ci sarebbe stato. O sarebbe stato diverso. Perché Flaiano, con la sua teoria del vitellone di provincia e con il suo amore per Roma e la sua flanerie che lo portava a vagare con occhio scrutante fra le strade della Capitale, era arrivato al culmine della sua collaborazione con il divino e capriccioso Fellini proprio con La dolce vita. Il regista e lo sceneggiatore, un’amicizia che si muoveva sul filo del rasoio di due caratteri potenti e ombrosi, nata negli Anni 50 e arrivata trionfante fino al 1965, da Lo sceicco bianco a La strada, fino a 81/2 quando si infranse il sodalizio perché, secondo leggenda, nel volo transoceanico che portava i due a celebrare l’Oscar a Los Angeles, Fellini stava in prima seduto vicino al produttore Angelo Rizzoli e Flaiano si ritrovava in economica, solo.

Talento versatile

«Era un miscuglio di complicità, di solidarietà, di permalosità...» scriveva Fellini, mentre l’altro si sentiva derubato come «una lattina di Coca Cola, vengono qui, intingono la cannuccia e tirano»; ma la stima non venne mai meno. A Roma era approdato dall’Abruzzo, il minore di 7 fratelli con infanzia randagia, e ha fatto di tutto. Oltre al cinema, la letteratura e il giornalismo: dopo varie peregrinazioni l’approdo al Mondo di Mario Pannunzio, nato nel suo stesso giorno. Intellettuale innamorato dello scritto essenziale, nelle sue varie collaborazioni, dal Corriere all’ Europeo, Flaiano ha lasciato frammenti di lucida folgorazione, forse la cifra più adatta per decifrare un mondo che si stava scomponendo e rifasando come in un caleidoscopio. «L’immaginazione al potere. Ma quale immaginazione accetterà di restarvi?». «L’evo moderno è finito. Comincia il medio-evo degli specialisti. Oggi anche il cretino è specializzato». «Il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso».

Si era definito «scrittore minore satirico nell’Italia del benessere» nonostante il suo unico romanzo, Tempo di uccidere, vincesse subito il neonato premio Strega. La sua natura umbratile si scioglieva solo a volte in famiglia, con la figlia Lelè, disabile per una malattia infantile: «Quello che ho io per mia figlia, o quello che ha mia moglie per mia figlia, è un amore purissimo». Lontano dalla società «sguaiata, che esprime la sua voglia di vivere più esibendosi che godendo realmente la vita», ma sulla quale ha tenuto i riflettori accesi fino al congedo, il 20 novembre 1972.

Tommaso Pincio per “il Venerdì di Repubblica” l’11 novembre 2022.

 Flaiano, Roma, l'estate. Sono questi i temi ricorrenti di un diario che ho tenuto per caso, anzi per una telefonata. È un giorno di inizio marzo - l'inizio marzo di un anno fa. Vago come mio solito per l'Esquilino, il rione in cui abito da tanto di quel tempo che mi sembra di esserci nato. Il telefono squilla e - nemmeno io so perché - rispondo. È un editore. Mi chiede se ho voglia di pensare qualcosa per una collana - in effetti gustosa - di guide letterarie, libri in cui la vita e l'opera di uno scrittore fanno da mappe ideali per i luoghi del mondo. 

L'editore ha anche pensato a un paio di possibilità adatte a me. Autori americani, luoghi americani. Io ascolto, in attesa soltanto del momento buono per piazzare un no grazie, sono lusingato, grazie davvero ma no. E tuttavia, quando il momento arriva, anziché limitarmi a un cortese rifiuto, dico che su Flaiano e Roma qualcosa potrei scrivere. Lo dico d'istinto e senza ragione, senza avere mai pensato in vita mia a un libro su Flaiano e Roma.

Ma ormai il danno è fatto. Di lì a pochi giorni ricevo un contratto. Leggo la data di consegna e per un attimo mi chiedo cosa mi sia saltato in mente. Poi, siccome l'estate del 2022 è ancora lontana, firmo. È la mia natura: tutto mi sembra sempre lontanissimo.

Neanche ora che l'estate del 2022 mi sembra preistoria, neanche ora che ricorre il cinquantenario della morte di Flaiano, neanche ora che il libro è scritto - stento a crederlo ma è scritto, anche se ha preso la forma imprevista di un diario - neanche ora so spiegarmi la reazione di quel giorno. 

L'ipotesi più ovvia è che lo amo, Flaiano. Ovvia e per nulla originale. C'è forse qualcuno che non lo ama? Solo poche settimane fa, in un'intervista apparsa sulle pagine di Repubblica, Franco Cordelli diceva che «Flaiano è stato tutto quello che avrei voluto essere». Qualcosa di simile può valere per i tanti che sono affetti da quella che Giovanni Russo chiamava flaianite, ovvero la tendenza a citare o attribuire, non di rado a sproposito, aforismi e arguzie dello scrittore.

Vale però soprattutto per chi non si ferma alle sue battute e ne conosce i lati meno appariscenti, quel suo disincanto verso gli uomini, disincanto che spesso lo immalinconiva ma senza renderlo un cinico. E poi il rifiuto di tutto ciò che odorasse di trito e banale. Per non parlare dell'insicurezza cronica dovuta probabilmente al fatto di essere l'ultimo di nove figli, venuto al mondo quando nessuno lo aspettava più, «a tavola ormai sparecchiata, alla frutta». 

Un'insicurezza che è stata la sua fortuna e la sua condanna. Fortuna perché ha fatto di lui uno scrittore dalla lingua attenta e mai ostentata, tra le più limpide e belle del Novecento.

Condanna perché la cronica insoddisfazione lo ha portato a diventare uno scrittore controvoglia, a disperdersi in tanti rivoli, tra articoli racconti sceneggiature, a preferire la forma breve al romanzo, a non identificarsi fino in fondo con la sua vocazione, come diceva Fellini, che gli rimproverava anche di essere pigro, di scrivere soltanto quando era costretto, quando aveva bisogno di soldi. 

La presunta pigrizia è un tratto che sembra peraltro accomunarlo alla sua città di elezione. «Nulla è più curioso della assoluta repugnanza del romano per il lavoro» osservava Massimo d'Azeglio da bravo torinese operoso. Ennio Flaiano veniva però da Pescara e gli abruzzesi conoscono una sola morale, il lavoro.

A Roma ci arrivò dodicenne, nel giorno della marcia su Roma, un giorno funesto e piovoso che gli lasciò addosso un senso di umidità e una tristezza smisurata alla vista della «folla spenta» dei romani che applaudivano i marciatori, dei negozianti che cinicamente già si adattavano ai tempi esponendo piccoli busti di Mussolini o profilattici marca Fascio.

Diversa la Roma del dopoguerra in cui visse da adulto, una città presa dall'euforia nonostante le macerie. 

Quando pensiamo all'Italia riemersa dall'incubo del fascismo, le prime immagini che vengono alla mente sono quelle simbolo del miracolo economico, le automobili che cominciano a intasare strade e piazze prima deserte. Dimentichiamo però che il primo vero boom fu la stampa, la quantità impressionante di giornali e rotocalchi che invase le edicole. 

Un boom che fece di Roma la capitale dei fotografi, dei fotoreporter, dei paparazzi. Alcuni venivano anche da lontano, come William Klein che arrivò dagli Stati Uniti per collaborare con Fellini sul set delle Notti di Cabiria e si ritrovò a girovagare per Roma, a scattare foto accompagnato da Pasolini, Moravia e lo stesso Flaiano.

Erano ovviamente anche gli anni del cinema, della Hollywood sul Tevere, della dolce vita e di via Veneto, la strada in cui le persone sembravano - e in fondo erano - bagnanti, tanto che le conversazioni assumevano un tono barocco e scherzoso, balneare perfino.

«Manca che ci si spruzzi o che si giochi col pallone» dice Flaiano, che racconta di averci trovato perfino una conchiglia, in via Veneto, al termine di una passeggiata notturna.

Non per niente l'estate era la sua stagione prediletta: 

«L'autunno la ricorda, l'inverno la invoca, la primavera la invidia e tenta puerilmente di guastarla». Superfluo aggiungere che l'estate era per lui una disposizione dell'anima, prima ancora che una stagione astronomica. La stagione del malinconico che non vuole arrendersi alla propria natura e si ostina a credere nell'esistenza della felicità. La stagione di chi a Roma si è sentito sempre un po' straniero anche dopo averci passato una vita intera. 

Uno straniero come il protagonista del suo racconto più noto, Un marziano a Roma, comica e triste parabola di un extraterrestre che scende in città con la sua astronave e viene accolto con tutti i trionfi ma solo per poco, perché «dopo sei mesi finisce come me e come te».

Finire come me e come te, per Flaiano, voleva dire misurarsi con un luogo che fa perdere ogni fede in se stessi, misurarsi con Roma cioè, «con l'indifferenza delle sue fontane, delle sue donne, delle sue mura». Ma se è così, perché restiamo? Per insicurezza? Per abitudine? O per paura di ciò che ci aspetterebbe qualora dovessimo ripensarci e tornare?

Scrive ancora Flaiano: «So di persone che, allontanatesi per sempre, ci tornarono pentite, dopo anni, e trovarono gli amici al caffè che non s' erano accorti di niente. A un tale, ch' era stato dieci anni in Cina, dissero: "Hai cambiato caffè?"». Rido sempre fino alle lacrime, quando leggo del tale tornato dall'Oriente. Ma quanto fa male riderne. Che non ci sia proprio questo all'origine del mio Diario di un'estate marziana: il male di ridere?

Luigi Mascheroni per “il Giornale” l'1 novembre 2022.

Aggettivi qualificativi di Ennio Flaiano. Marginale (lo è stato a lungo nel canone letterario del nostro '900). Frammentario (l'opera è fatta di pensieri, racconti, aforismi, epigrammi, parentesi, divagazioni... il sontuoso reporter della quotidianità minima). Notturno (il diario, le notti ai caffè, i vitelloni a zonzo di notte...). 

Solitario (il satiro, la realtà osservata con lo sguardo di uno che è «di fuori», da solo... la solitudine come condizione morale, «la chiave dell'esistenza»). Romano (un Flaiano a Roma, Ennius Flaianus, il discendente dei grandi poeti satirici della latinità...). Malinconico (ironia amara, disillusione, disincanto e una delicatezza d'animo ferita...). E poi: alieno. 

Si intitola Ennio l'alieno (Mondadori), sottotitolo: «I giorni di Flaiano», ed è il libro fra biografia e atto d'amore che Renato Minore e Francesca Pansa dedicano, a quattro mani e all'unisono, al più brillante, cinico, citato, timido, sarcastico, affabulatore della nostra letteratura recente.

Flaiano: il maggiore dei minori. Si parte da qui: Ennio Flaiano è il minore dei suoi fratelli, ultimo figlio della seconda moglie del padre, e nono complessivo, infanzia piuttosto infelice, trascurato dai genitori, in una famiglia dove è un peso, non voluto, esule a 12 anni: i fratelli lo guardano di tanto in tanto per accertarsi che purtroppo esiste ancora. «Sono il figlio minore. Forse nessuno mi aspettava più, ormai. Sono arrivato, come si dice, a tavola sparecchiata, alla frutta». 

La città è Pescara, la casa è sull'altro lato della via rispetto a quella di D'Annunzio. Poi, Roma: il suo mondo. Lì arriva, lì vive, lì ritorna dopo le scuole ufficiali al Nord e la guerra d'Etiopia: con il romanzo Tempo di uccidere, commissionatogli da Leo Longanesi, è il primo vincitore del neonato Premio Strega, nel 1947. 

Poi il giornalismo: Flaiano, che è il vero artigiano del Mondo di Pannunzio, collabora con decine di quotidiani e riviste: Omnibus, Oggi, L'Italia letteraria, Corriere della sera, L'Europeo... E del resto l'articolo, il ritratto, il bozzetto sono la sua misura. E il cinema: fra soggetti e sceneggiature lavora in 98 film. Domanda: senza Flaiano, ci sarebbe stata La dolce vita? Forse. Ma non così.

Scherno e grande schermo.

Baffi, sigaro, cappotto e caffè, con la sua opera frammentaria, notturna e solitaria Ennio Flaiano è stato il miglior antropologo dell'Itaglia, con la «g», degli anni Cinquanta e Sessanta, un po' moderna, un po' antica, cafona, cattolica, comunista, aristocratica, volgare, esemplare. 

Flaiano la amava, e la mal sopportava. Però si sentiva straniero in un Paese con le pezze al culo. Ed ecco la satira contro ogni stupidità. «Tutto viene preso sul serio in questo benedetto Paese eccetto le cose serie». 

Sotto la maschera dell'umorista, Renato Minore e Francesca Pansa - fra i pochi a potere davvero chiamare Ennio uno scrittore che ha avuto più amici da morto che da vivo - ritrovano e ci consegnano un personaggio difficilissimo da imbrigliare in una logica sequenza di fatti, proprio perché è lo stesso Flaiano il primo a mischiare carte e pagine.

Dietro il sipario, ecco i successi pubblici e le inquietudini private, le amicizie (ambigua quella con Federico Fellini, vera quella con Nicola Chiaromonte), passioni, delusioni, grandissimi dolori (da leggere le pagine finali su Rosetta, sua moglie, e la figlia Lè-Lè, colpita da una gravissima malattia a otto mesi e vissuta cinquant' anni senza mai parlare né camminare). 

Luoghi comuni da sfatare: che Flaiano fosse pigro e lavorasse a singhiozzo. In realtà scrisse, pensò, lesse e parlò moltissimo. 

Confessioni: la migliore è sul cinema. «Preferisco fare il filmaccio qualsiasi invece del film d'arte pretenzioso e sbagliato. Il filmaccio non intacca la mia coscienza, lo si fa per vivere, ma il film d'arte deve rispondere esattamente al concetto che ho dell'arte e della verità» (lettera a Luciano Emmer, 1954).

Timori: che lo prendessero per un umorista. «Spiritoso è parola che può rovinare una reputazione. Per esempio, Moravia dice che Gadda (che se lo mangia dieci volte) è un grande umorista, per escluderlo, per non elogiarlo» (lettera a Cesare Zavattini, 1956). 

Risposta: quella che diede in una lettera mai spedita a Giorgio Bocca, che lo aveva accusato di essere un tipo disimpegnato da caffè. Ne sono orgoglioso - disse - perché dopo sono venuti quelli da snack bar, cioè quelli protetti da chiese e partiti, gente con cui lui sente di non avere nulla a che spartire. 

Nemici: nessuno, perché Flaiano è sorridente - «celioso» lo definiscono gli autori - genuino. Conversatore (e conservatore) sottile e polemico cordiale. Amici: veri, pochi. Mino Maccari, Andrea Emo, Totò, Tonino Guerra. 

Scrittori amati: Balzac, Swift, Manzoni, Kafka, Laforgue, Renard, Valéry, Casanova, Leopardi, Boccaccio, il Machiavelli delle commedie, e prima ancora Giovenale, Persio. E Marziale! 

Progetti non realizzati: tanti. Tra cui trarre un film da Tempo di uccidere (lo fece Giuliano Montaldo nel 1989, protagonista Nicolas Cage, senza tener in alcun conto il trattamento che aveva lasciato Flaiano); e soprattutto girare lui stesso un film, il suo film americano: il soggetto s' intitolava About a Woman ma il produttore Carlo Ponti non si fidava di lui e lui non voleva imposizioni, così tutto naufragò.

Dal soggetto nascerà il romanzo breve Melampus, da cui a sua volta Marco Ferreri trarrà La cagna, nel 1972, che però Flaiano non volle riconoscere. E così ci siamo persi il Flaiano regista... In realtà ci siamo persi anche un pezzo del Flaiano intervistatore: quando era in Canada per preparare Oceano Canada, un documentario Rai per la regia di Andrea Andermann realizzato nel 1971 e trasmesso nel '73, lo scrittore aveva fissato un incontro con Marshall McLuhan, il famoso teorico della comunicazione.

L'intervista saltò perché McLuhan chiedeva troppi soldi. Ed è un peccato. Chissà cosa gli avrebbe chiesto Flaiano, il quale a proposito del celebre slogan «Il medium è il messaggio» una volta commentò: «Bene, significa che quando mi consegneranno una lettera, leggerò il postino». 

Epitaffi: tanti, ma soprattutto un auto epitaffio. Quello dettato per un'immaginaria enciclopedia «del 2050» nel 1972, pochi mesi prima dell'infarto fatale: «Giornalista e sceneggiatore, autore anche di un romanzo, Tempo di morire (concediamo a quest' ipotetica enciclopedia una citazione inesatta). Scrittore minore satirico nell'Italia del Benessere». E tanto basta.

SENZA CULTURA L’ITALIA SAREBBE FINITA IN MANO AI CRETINI, CI DISSE FLAIANO. ROBERTA ERRICO il 22 ottobre 2018 su thevision.com.

Nel 1954 Ennio Flaiano, scrisse il racconto breve “Un marziano a Roma”. Il racconto, inserito nell’antologia di aforismi Diario notturno, è un ironico avvertimento rivolto ai suoi contemporanei e alle generazioni future: ci annunciò la fragilità della modernità e il cinismo della società dei consumi. Flaiano nacque a Pescara nel 1910 ma, per sua stessa ammissione come scrisse nel libro postumo La solitudine del satiro, fu un italiano atipico. Non si sentiva legato alla città in cui era nato, aveva scelto Roma per vivere: la raggiunse nel 1922 e lì morì nel 1972. Non si sentiva né fascista né comunista né democristiano.

Odiava il gioco del calcio, la cronaca nera e la vita mondana. Considerava quella italiana “Più una professione che una nazionalità.” Flaiano fu sui generis anche se paragonato alle mode letterarie dell’epoca: in totale antitesi con il romanzo-fiume novecentesco e con il neorealismo imperante, si esprimeva in elzeviri, aforismi e racconti brevi perché meglio si adattavano alla sua visione acre della vita. Ma come ogni grande artista anche lui viveva di eccezioni, e il suo unicum fu il romanzo È tempo di uccidere, vincitore della prima edizione del Premio Strega nel 1947. Era maestro della satira soprattutto quando era rivolta nei confronti degli ambienti borghesi che frequentava abitualmente. Un tema preminente della sua poetica fu infatti la discussione sul ruolo dell’intellettuale nella società di massa, un disagio che viveva quotidianamente sulla sua pelle. È indimenticabile la risposta tranchant che diede a chi gli chiedeva se secondo lui radio e televisione abbassassero il livello culturale degli spettatori: “No, penso che se mai abbassano il livello culturale degli intellettuali.” La sua grande forza è sempre stata il lucido e onesto distacco con il quale riusciva a descrivere il mondo in cui viveva, senza snobismo ma con serena analisi critica. Il club di intellettuali di cui Flaiano era un illustre esponente poteva contare al suo interno nomi del calibro di Fellini, con il quale scrisse le sceneggiature de La Dolce vita, La strada e 8½ , ma anche Monicelli, Petri, Antonioni, Pietrangeli, Rossellini, Germi e De Filippo. Diario notturno è la sintesi più completa del suo pensiero e “Un marziano a Roma”, di cui successivamente venne elaborata una trasposizione teatrale e una cinematografica, è la sua presa in giro definitiva sulla società di massa, sulle sue contraddizioni e la sua ostile indifferenza.

Il racconto è scritto in forma di diario. Il 12 ottobre un’astronave atterra sul prato del galoppatoio di Villa Borghese e ne discende un marziano dai modi gentili e dalle sembianze umane, suscitando il visibilio in tutta la città di Roma. Il diario è così verosimile che l’autore racconta le reazioni dei suoi illustri amici. Incontra Fellini che, “Sconvolto dall’emozione”, lo abbraccia piangendo. “Le prospettive sono immense e imperscrutabili”, dice il regista. “Forse tutto: la religione e le leggi, l’arte e la nostra vita stessa, ci apparirà tra qualche tempo illogico e povero”. La città eterna applaude commossa all’avvento di una nuova epoca. La tecnologia che ha condotto il marziano sulla terra è la prova che l’universo è differente da come lo abbiamo sempre immaginato, che i limiti che pensavamo di avere non sono che una condivisa finzione, anche un po’ grottesca: “Tornando a casa mi sono fermato a leggere un manifesto di un partito, pieno di offese per un altro. Tutto mi è sembrato di colpo ridicolo. Ho sentito il bisogno di urlare”, confessa Flaiano nel racconto. Lo scrittore racconta della deferenza che la città riserva al marziano Kunt: il Presidente della Repubblica lo accoglie al Quirinale, il Papa lo aspetta in Vaticano. Tutti, dalla persona più umile alla più colta, sentono finalmente di appartenersi. “Ogni cosa ci appare in una nuova dimensione,” scrive, “Quale il nostro futuro? Potremo allungare la nostra vita, combattere le malattie, evitare le guerre, dare pane a tutti? Non si parla d’altro”. Il popolo ritrova il vero significato delle parole democrazia, libertà e fratellanza grazie al pacifico confronto con lo straniero. 

I giorni passano e un impensabile meccanismo si innesca. Il marziano è gentile, disponibile a presenziare a tutti gli eventi più importanti, permette addirittura che si visiti la sua astronave e che venga pagato un biglietto il cui incasso è devoluto in beneficenza. Ma è Roma a cambiare il marziano e non viceversa. La città lo assorbe nella sua melliflua indolenza. Anzi, la purezza di Kunt diventa una caratteristica stucchevole agli occhi degli umani e Flaiano stesso non si sottrae al gioco, scrivendo di aver pensato che gli sembrava un placido anziano, uno di quelli: “Che nel loro fanciullesco sorriso svelano una esistenza trascorsa senza grandi dolori e lontana dal peccato, cioè totalmente priva di interesse ai miei occhi”. Dopo neanche tre mesi dall’arrivo dell’astronave, tutto è cambiato. Il marziano non è più la novità, Roma ha masticato e digerito questo straniero ed è tornata al suo conformismo, prendendosi addirittura gioco di un povero esule senza più patria né amici. La colpa più grave Flaiano l’addossa agli intellettuali e quindi, scevro di ogni moralismo, anche a se stesso. Le persone di cultura hanno, tra gli altri, il compito di interpretare gli accadimenti della vita: attraverso il processo artistico e l’analisi critica i sentimenti, le emozioni, le passioni vengono rese fruibili passando dalla sfera strettamente individuale a quella sociale, cioè comprensibili a tutti. Quando, però, anche gli intellettuali non riescono a esimersi dal seguire le mode del momento riguardo, ad esempio, il tipo di linguaggio da usare per avere maggior seguito oppure i temi da trattare per accattivarsi l’attenzione del grande pubblico, l’intera società diviene insensibile persino al progresso, perché sarà continuamente distratta da altri argomenti, spesso dal contenuto più frivolo e effimero. Di lì a poco Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale dissidente friulano, avrebbe descritto nella sua raccolta di articoli Scritti corsari la differenza tra sviluppo e progresso: il primo, è appannaggio degli industriali che producono beni superflui e si configura come apripista di un’industrializzazione selvaggia e illimitata votata solo al profitto; il secondo, è un concetto ideale: “Lo vogliono coloro che non hanno interessi immediati da soddisfare.” Pasolini contestava alla società italiana di essere progredita sulla via dello sviluppo e non del progresso e questo aveva generato un’ideologia da lui definita “edonismo consumistico” che non aveva risparmiato nessuno, intellettuali compresi. Pasolini e Flaiano erano certamente diversi sia per esperienza politica sia per produzione artistica e, a detta dei commentatori dell’epoca, non si stavano neanche molto simpatici, ma la loro laicità in contrapposizione alla religione del consumismo ha consegnato ai posteri immagini tra loro speculari e allarmanti sulla tanto osannata modernità. 

Pasolini la criticava dall’esterno della società, da dove aveva dichiarato guerra alla borghesia, mentre Flaiano la indagava dall’interno. Gli intellettuali, oggigiorno, sono schiacciati dalla mercificazione delle proprie opere, e quindi tralasciano di adempiere il loro ruolo nella società per intercettare i gusti di una platea perlopiù distratta e ingorda, e i social network hanno amplificato questa gara al ribasso. Un esempio drammatico della mancanza di intellettuali capaci di condurre riflessioni utili ad evolvere come comunità, sono le strazianti tragedie che avvengono nel Mar mediterraneo. Ognuno di questi dolorosi avvenimenti è contraddistinto dall’indifferenza dell’opinione pubblica, dovuta alla diffusa assenza di empatia. L’empatia è la capacità di comprendere pienamente lo stato d’animo dell’altro ed è l’arte che, spesso, fornisce gli strumenti per rafforzarla.   Un naufragio in particolare è stato emblematico, quello del 3 ottobre 2013 al largo delle coste di Lampedusa dove morirono 368 persone. Quella tragedia commosse tutti: l’allora presidente della Commissione europea Manuel Barroso si recò a Lampedusa per portare le sue condoglianze, il Consiglio dei ministri proclamò una giornata di lutto nazionale e un anno dopo l’Unione europea diede il via all’operazione Mare nostrum, una missione umanitaria che aveva il fine di prestare soccorso ai migranti prima che potessero ripetersi altri tragici eventi. Solo cinque anni dopo, l’Italia chiude i porti alle navi che soccorrono i naufraghi e Mare nostrum non esiste più. Una grande emozione svanita nel nulla, come in “Un marziano a Roma”. Poteva essere l’inizio di una nuova stagione all’insegna dell’integrazione e dell’arricchimento reciproco, un momento di riflessione che, se guidato adeguatamente da uomini dal pensiero libero, sia nella politica sia nel dibattito pubblico, si sarebbe rivelato un’opportunità. E invece è stata un’altra occasione persa. La società di massa è sempre pronta a creare miti per poi avere il gusto di abbatterli. È un gioco perverso le cui regole, però, sono considerate indiscutibili. Ed è qui che emerge la forza di tutti i liberi pensatori che si ribellano quotidianamente a questo ricatto. Flaiano utilizzò l’umorismo per distruggere i luoghi comuni del consumismo e infondere nei suoi lettori uno spirito critico che, oggi più che mai, deve essere alimentato per combattere il servilismo verso la macchina culturale. Se molti intellettuali hanno abdicato alla guida dell’evoluzione sociale, le persone comuni, che a differenza del passato appartengono ad una società con più informazioni a disposizione, devono essere d’impulso per invertire la tendenza. Bisogna porsi continuamente domande e avere la pazienza di soffermarsi sui ragionamenti, perché è impensabile che si rimanga indifferenti a tantissimi contenuti di importanza fondamentale per il nostro progresso, del quale abbiamo un disperato bisogno.

·        Ernest Hemingway.

Terry Mc Donell per “Sette - Corriere della Sera” il 26 settembre 2022.

Nella foto, Ernest Hemingway calcia in aria una lattina su una strada di campagna innevata, con un movimento atletico e aggraziato di cui sembra compiacersi. L’istantanea fu realizzata da John Bryson per la rivista Life il 1° febbraio 1959 lungo il fiume Big Wood vicino alla casa dello scrittore nei dintorni di Ketchum, Idaho. 

Sembra un gesto estemporaneo e l’immagine ha un che di intimo, ma in realtà fu uno scatto in posa, frutto di un’idea di Bryson. Ernest stava recitando, ma dichiarò di aver agito spontaneamente e si prese tutto il merito. È questo il problema con lo scrittore: ci sono troppe cose che vorresti non sapere.

La traccia letteraria

A quel tempo, Ernest veniva da due serie disastrose di elettroshock terapeutici e due anni dopo si sarebbe suicidato. Era l’epoca in cui qualunque uomo desiderasse approcciarsi alla scrittura in America doveva fare i conti, in un modo o nell’altro, con il tema della virilità che caratterizzava l’opera di Hemingway, con tutta la sua fallibilità e con l’ironia a sfondo sessuale. 

Generazioni di aspiranti scrittori come noi che non si limitavano a leggere i suoi romanzi, ma li dovevano studiare a fondo per andare oltre il mero significato delle parole. Leggendo Fiesta (Il sole sorgerà ancora) ci siamo innamorati di Lady Brett. Come Jake Barnes avevamo perso fiducia nei valori che avrebbero dovuto dare senso alla vita. Amavamo quella cupa disillusione. Ma fu la semplicità de I racconti di Nick Adams a rapirci e farci credere di poter diventare anche noi scrittori. È da lì che tutto cominciò, alimentando un mix di durezza e semplicità, nel desiderio di scrivere seriamente e fare arte in modo virile: un atteggiamento che portava avanti la rovina della mascolinità americana, ridotta ormai a un’arma spuntata.

Nell’ultimo de I racconti di Nick Adams, Padri e figli, Nick ripercorre i ricordi che mostrano Ernest come un uomo debole che ha tradito sé stesso. Nick lo ha amato comunque e si strugge tra i ricordi d’infanzia finché non capisce di poter venire a patti con il padre scrivendo di lui. La storia riecheggia continuamente nel nuovo romanzo: Dear Papa: The Letters of Patrick and Ernest Hemingway. 

Una eccentrica tribù

Patrick era il secondo dei tre figli che Ernest ebbe dalle due mogli. John Hadley Nicanor, chiamato poi Jack, era il primogenito: sua madre era Hadley Richardson e le sue madrine furono Gertrude Stein e Alice B. Toklas. Patrick Miller Hemingway e il fratello minore, Gregory “Gigi” Hancock, erano i figli che Ernest ebbe da Pauline Pfeiffer. Questo era tutto ciò che sapevo su Ernest in quanto padre quando, nel 1995, fui ingaggiato per scrivere una miniserie basata su Fiesta, diretta e prodotta dalla nipote, Mariel Hemingway. 

Il padre di Mariel, Jack-“Bumby” o “il Sig. Bumby”, come viene chiamato 11 volte nel memoir - era l’unico testimone vivente di quel periodo della vita di Ernest. Ci incontrammo a cena nella casa di famiglia a Ketchum, con la sua prima moglie Puck (madre di Mariel) e la sorella maggiore di lei, Muffet. C’era tensione nell’aria, e quando fu aperta la seconda bottiglia di vino Mariel non nascose il proprio disappunto. Muffet era triste, a quanto pare le era vietato bere alcolici. 

Non rimasi sorpreso: avevo già sentito dire che fosse difficile per Mariel far parte di una famiglia così eccentrica, con Muffet che faceva camminate nella neve completamente nuda e lo zio Gregory a svolgere la professione di medico in abiti da donna in lungo e in largo per il Montana orientale. Quando conobbi Jack era gentile e disponibile: mi parlò del musicista preferito di Ernest (Fats Waller), delle sue abitudini di lettura (quattro o cinque libri alla volta), e così via. 

L’archivio fotografico

Mi mostrò tantissime fotografie e notai che il privilegio minimizzato così fortemente da Ernest nella sua autobiografia veniva smentito dal gran numero di persone nella sua cerchia in possesso di una macchina fotografica, o che comunque sembravano essere sempre intente a farsi immortalare. Le immagini che raffigurano Jack a tre anni in Austria, sulla neve del Vorarlberg insieme ai genitori, giovani e belli, si trovano infatti in numerose biografie di Hemingway. 

Vidi anche diverse fotografie dei tre fratelli Hemingway, solitamente sorridenti con il padre, spesso con fucili o canne da pesca, mentre catturano pesci enormi o mostrano con orgoglio il bottino di una battuta di caccia. Alcuni scatti ritraggono Patrick e Gregory in abiti da marinaio mentre mostrano i denti sorreggendo le mascelle spalancate di uno squalo. 

Altre immagini realizzate dal reporter di guerra Robert Capa mostrano i due ragazzi più piccoli intenti a cacciare uccelli insieme al padre vicino a Sun Valley nel 1940, quando Ernest era sposato con Martha Gellhorn, anche lei presente negli scatti dove tutti bevono birra e i ragazzi hanno 9 e 12 anni. Ancora più rivelatrice fu una serie di foto scattate prima, sulla Pilar, la barca da 12 metri di Ernest, quando Jack aveva 12 anni: Ernest dorme sulla poppa con in mano un drink e reggendo la mitragliatrice Thompson che usava per sparare agli squali, con Jack appoggiato al suo ginocchio. In altre immagini Jack sta sparando con la mitragliatrice scolandosi il rum di Ernest. 

Il “signor topo”

È difficile immaginare un padre così noncurante e allo stesso tempo affettuoso nei confronti del figlio, un tema ricorrente nelle lettere. Patrick viene chiamato “Topo”, “Signor Topolino”, “Carissimo topo”, “Topolino”, “Topo dei topi”, “Alce”, “Sig. Alce”, “Messicano”, “Vecchio messicano” , “Vecchio beone” e “Tesoro.” Ernest è sempre “Papà”, all’inizio fin troppo affettuoso e attento. All’inizio del libro Patrick scrive al padre dalla Canterbury School in Connecticut, chiedendogli se può andare a trovarlo per il Ringraziamento. Ernest gli risponde dalla sua Finca Vigía, a Cuba, scrivendogli che è impegnato, e lamentandosi del tempo: «Ragazzo mio, oggi non è giornata da Daiquiri ghiacciato, ci vorrebbe più un whisky Old Taylor ‘s servito caldo». È come se fossero due coetanei. 

Le lettere sono in ordine cronologico e vanno dagli anni in cui Patrick frequentava il college (Harvard) al periodo in cui si trasferì nell’allora Tanganica (oggi Tanzania), dove visse per 25 anni lavorando come agricoltore e guardiacaccia. Sia lui che il padre scrivono meravigliosamente di paesaggi, uccelli, caccia e pesca, emozionandosi nell’esprimere l’uno la mancanza dell’altro. Con il passare degli anni, papà dispensa consigli e opinioni su vari temi, quali sport, istruzione, donne, ex mogli, pittura, come evitare il servizio militare, denaro e compravendita di terreni. 

L’ultima dimora

Nell’estate del 1996 andai a Ketchum con i miei figli più piccoli per festeggiare il 4 luglio al rodeo di Hailey, e per completare alcuni lavori per la miniserie. La mattina del primo giorno facemmo visita alla tomba di Ernest nel cimitero nei pressi della Highway 75, appena fuori città. La lapide era posata in orizzontale nell’erba tagliata, circondata da quattro pini alti e imbrattata da bottiglie vuote di vino da quattro soldi, lasciate da qualcuno che aveva fatto baldoria al cimitero. 

Il nostro programma prevedeva anche una visita alla casa di Ernest. Non avevo detto ai miei figli che era l’anniversario del suo suicidio. L’abitazione si trovava su una collina ripida che sormonta il fiume Big Wood ed era su tre piani, realizzata in cemento modellato in modo da sembrare legno. Il balcone verde scuro e la finitura verde sulla grande finestra le conferivano un aspetto vagamente modernista.

L’ingresso principale era attraverso un piccolo atrio con le piastrelle consumate, dove Ernest si sparò in bocca e morì in accappatoio. Al piano superiore, sopra un camino di pietra grigia campeggiavano come trofei teste di impala e kudu provenienti da un safari degli inizi degli Anni 50. Vicino al caminetto c’era un televisore RCA in bianco e nero, sul tavolino delle riviste del 1961, mentre in cucina sull’anta del frigo erano attaccate con lo scotch delle etichette di vino. Un poster dozzinale di una corrida adornava la parete della tromba delle scale che portavano alla camera padronale, dominata da una grande testa di gazzella. 

Ernest lavorava in una camera da letto rivestita con pannelli in noce, seduto a una piccola scrivania rivolta verso la finestra affacciata sulle Sawtooth Mountains. Sebbene la casa non fosse più come lo scrittore l’aveva lasciata, l’ente di protezione dell’ambiente Nature Conservancy non aveva ancora allestito il set, con tanto di macchina da scrivere Royal sulla scrivania. Sembrava un bel luogo dove lavorare, se si riusciva a non pensare al rumore assordante dello sparo nell’atrio. Più tardi quel pomeriggio venimmo a sapere che Margaux, sorella di mezzo di Mariel e nipote di Ernest, era stata trovata morta in un monolocale a Santa Monica.

Io e i miei figli ci unimmo ai famigliari quattro giorni dopo, quando le sue ceneri vennero deposte vicino a Ernest, contrassegnate da un’altra lastra rettangolare di granito posta a livello del terreno nella pineta. Incontrammo sia Patrick che Gregory alla funzione. Patrick, dall’aria marcatamente riflessiva, arrivò dal Montana, dove stava trascorrendo gli anni della pensione dedicandosi a correggere le bozze di Vero all’alba, che Ernest aveva messo da parte. 

Greg si presentò: era piccolo e parlava a voce bassa. Ci ringraziò per la visita, chinandosi verso i miei figli, ripetendo i loro nomi e stringendo loro la mano, con un atteggiamento accogliente e umile allo stesso tempo, portando nel cuore il peso di un altro suicidio in famiglia, il quinto in quattro generazioni. 

Il figlio coscienzioso

In Dear Papa non c’è alcun riferimento al suicidio eccetto che nella nota scritta da Patrick in epilogo e nella descrizione del funerale in bara chiusa di Ernest: «Nella bara c’era tutto fuorché la grazia di una morte serena». In tutte le lettere Patrick è un figlio di mezzo coscienzioso che cerca di appianare i problemi tra i fratelli e il padre. Ernest è sempre incoraggiante, ma diventa via via più esigente e critico, vantandosi di inviare loro del denaro per poi lamentarsene, criticando le loro fidanzate e mogli.

Nel 1954 Ernest scrisse a Patrick da Londra: «Tra i miei figli tu sei stato l’unico fratello per me; il Signor Bumby è ammirevole, ma non particolarmente intelligente, e il Signor Gigi meraviglioso, ma sempre strano e fuori di testa come un petardo bruciato. Forse ritornerà in sé: lo spero sempre, ma desidero non vederlo mai più». 

La fine di Gregory e Gloria

Quando morì, nel 2000, Gregory si faceva chiamare Gloria, si definiva un travestito e cercava di disintossicarsi dall’alcol; era affetto da disturbi maniaco depressivi e si trovava in una cella della sezione femminile di una prigione di Miami, dopo essere stato arrestato cinque giorni prima sul Key Biscayne Boulevard, visibilmente ubriaco, nudo, con in mano un abito estivo di colore rosa e scarpe con il tacco alto.

Dal 1952 non vedeva, né rivolgeva la parola al padre, ma era presente al cimitero di Ketchum nel 1961. Disse al Washington Post, «Mi sono sentito estremamente sollevato quando hanno sepolto mio padre e ho capito che era morto veramente, che non avrei più potuto deluderlo, né ferirlo». Come se questo non fosse abbastanza straziante, Gregory affermò inoltre che Patrick «fu assolutamente distrutto da mio padre, al punto di non riuscire a combinare nulla nella vita». 

Papa: A Personal Memoir, scritto da Gregory nel 1976, fu un tentativo elegante quanto doloroso di spiegare il rapporto con il padre(...) Gregory aveva 10 anni quando Ernest lo sorprese mentre si provava i collant di seta della matrigna, Martha Gellhorn. Ernest scrisse a Pauline che il loro figlio minore aveva «il più grande lato oscuro della famiglia, a parte me e te». Più avanti gli disse, «Gigi, io e te proveniamo da una strana tribù». 

Nelle lettere di Patrick non c’è traccia della stranezza di quella tribù, che emerse invece nel romanzo postumo di Ernest, Il giardino dell’Eden, in cui l’eroe classico e sempre più noioso di Hemingway viene soppiantato da un nuovo personaggio con la passione per l’androgino che va ben oltre i rapporti d’amore tradizionali. Questo accadde anni prima dello sviluppo delle politiche sull’identità di genere, e in tale ambito le migliori biografie di Hemingway ( Ernest Hemingway, di Mary Dearborn, ed Hemingway’s Boat, di Paul Hendrickson) concordano nell’affermare che l’eroismo di Ernest consiste nell’aver affrontato ciò che presumibilmente lo tormentava e imbarazzava, forse proprio un’indeterminatezza che vedeva in se stesso. 

L’alcol

La miniserie non vide mai la luce, senz’altro anche a causa di alcuni aspetti eccentrici del mio copione. Un altro scrittore provò a riprenderlo in mano. Non ci rimasi male, se non per l’aspetto economico. Quando fui ingaggiato non sapevo che Ernest aveva iniziato tutti i suoi tre figli all’alcol quando non erano ancora adolescenti, né che aveva accompagnato Jack in un bordello a 13 anni, né che Ernest e Pauline avevano lasciato Patrick e Gregory da soli per molti mesi, né che ciascuno dei due aveva detto ai figli che avrebbero preferito una bambina.

Ero all’oscuro di tante cose. La mania di Ernest lo travolse a tal punto da battersi il petto, con un comportamento rozzo che rifletteva tutta la violenza della mascolinità che aveva creato non solo per sé stesso, ma anche per i suoi figli. Patrick lo amava comunque e scrive nell’epilogo che Ernest cercò in tutti i modi di essere un buon padre. Nelle lettere del papà i toni si fanno via via più rancorosi. Quelle di Patrick sono molto diverse e rivelano la volontà di essere il più possibile un bravo figlio, un uomo migliore di quanto non sia stato Ernest nel suo giorno più bello.

Simona Siri per “la Stampa” il 22 settembre 2022.

C'è un racconto di tre pagine, in cui F. Scott Fitzgerald diventa un pugile scadente, che lascia il ring malconcio e sfigurato, ma alla fine vittorioso. C'è la bozza di un libro che non scriverà mai, A New Slain Knight, che viene definito un «romanzo picaresco per l'America», in cui il protagonista viene seguito attraverso la fuga dalla prigione, una rapina in banca e molte situazioni noir. Ci sono tre pagine di meditazione sulla morte e il suicidio risalenti al 1926, 35 anni prima che si togliesse la vita. 

«Per così tanti anni ho avuto paura della morte ed è molto comodo stare senza quella paura. Naturalmente potrebbe tornare di nuovo in qualsiasi momento», parole scritte due anni prima che suo padre si uccidesse, e che lasciano intendere che l'ideazione suicida dell'autore è forse iniziata prima ed è stata forse più profonda di quanto gli studiosi hanno valutato. 

C'è uno scatolone con la calligrafia della madre: dentro ci sono una ciocca dei suoi capelli, le sue scarpette da neonato e la testa del suo giocattolo preferito, "Doggie", con cui ha dormito fino all'età di sei anni e mezzo. Poi ci sono le fotografie: quelle del safari in Africa nel 1933, quella con il braccio rotto nel 1931, quelle del febbraio 1936, quando un incontro di box tra adolescenti durante un'esibizione tra cubani e americani per la «Settimana della gioia» di Key West che commemora l'indipendenza cubana.

C'è quella di lui, giovanissimo, 18 anni, con indosso l'uniforme della Croce Rossa americana, rannicchiato in una trincea con altri cinque soldati italiani durante la Prima guerra mondiale. Sorride alla macchina fotografica, l'unico del gruppo: pochi giorni dopo rimarrà ferito da un colpo di mortaio e mitragliatrice, l'esperienza da cui trarrà ispirazione per scrivere Addio alle armi. C'è anche l'uniforme indossata in quella foto. 

Racconti, bozze di manoscritti, centinaia di fotografie, fascicoli di corrispondenza e scatole di effetti personali: è il tesoro che Hemingway aveva abbandonato allo Sloppy Joe' s Bar di Key West, in Florida, il suo posto preferito per bere e scrivere e che, dopo la fine del suo del secondo matrimonio con Pauline Pfeiffer nel 1939, era diventato anche l'involontario deposito di così tanta documentazione.

Da oggi anche gli studiosi e il pubblico possono vederlo, dal momento che il tutto si trova in un nuovo archivio recentemente aperto presso la Penn State University. Il nome tecnico è Toby and Betty Bruce Collection di Ernest Hemingway e per gli esperti questa collezione di materiale così biografico è destinata a rimodellare la percezione pubblica e accademica di un artista la cui vita e il cui lavoro hanno definito un'epoca.

Dallo Sloppy Joe alla Penn University il percorso non è stato comunque facile: dopo la morte di Hemingway, la sua quarta moglie, Mary Welsh, esaminò il materiale, imballò ciò che voleva tenere per sé e diede il resto agli amici di lunga data Betty e Telly Otto Bruce, noto come Toby, «che faceva parte della cerchia ristretta di Hemingway, non solo come suo braccio destro, ma anche come suo appaltatore, meccanico e talvolta autista», come racconta il New York Times. Il tesoro ha poi trascorso decenni non catalogato in scatole di cartone e contenitori di fortuna, sopravvivendo a uragani e inondazioni. Anni fa, il figlio di Betty e Toby, Benjamin Bruce (noto come Dink) e uno storico locale, Brewster Chamberlin, iniziarono a creare un inventario in consultazione con la studiosa Sandra Spanier. È stata lei, direttore dell'Hemingway Letters Project e professore di inglese alla Penn State, che ha lavorato per far sì che l'archivio fosse acquistato dall'Università, cosa che è avvenuta nel 2021.

«Solo da semplice fan, mi dà i brividi toccare la sua uniforme della Prima guerra mondiale o sfogliare le sue lettere», ha detto Spanier al New York Times. «Toccando la carta, da studiosa sento una connessione elettrica sia dal punto personale, oltre che intellettuale. È un piccolo lampo di viaggio nel tempo. La storia prende vita per un minuto e puoi vedere esattamente cosa stava vivendo in un determinato giorno». 

Difficile che questi materiali contribuiranno a capovolgere l'immagine pubblica di uno scrittore così amato e influente, ma sicuramente contribuiranno a mantenerne vivo il mito. Non che ne abbia bisogno: tra il documentario di Ken Burns già uscito, il film Di là dal fiume e tra gli alberi, appena girato a Venezia con protagonista Liev Schreiber e, forse, una miniserie diretta da Robert Zemeckis, la leggenda di Ernest Hemingway è più viva che mai.

Carlo Nordio per “il Messaggero” il 26 giugno 2022.  

Il 2 luglio del 1961 Ernest Hemingway, il massimo scrittore americano del secolo scorso, si chiuse in camera nella sua casa di Ketchum, nell’Idaho, e si sparò con la sua carabina preferita. Oppresso dalle malattie e avvilito dal deterioramento psichico, decise di porvi fine non con un semplice pugnale, come sospirava Amleto, ma, da vecchio cacciatore, con un'arma da fuoco. Era nato il 21 luglio 1899 a Oak Park, Illinois, in una famiglia di tranquilla borghesia provinciale. Ma il giovane era di carattere irrequieto e di curiosità insaziabile, e. quando, nel 1917, gli Stati Uniti entrarono in guerra con la Germania, si arruolò volontario.

Arrivò in Veneto con il compito, non eroico ma comunque pericoloso, di guidare le autoambulanze, fu ferito, ottenne un encomio e fu curato da una gradevole infermiera. Da entrambe le esperienze, amore e guerra, trasse il romanzo Addio alle armi. Nel 1921 si sposò con Hadley Richardson, e si trasferì a Parigi. Furono probabilmente i suoi anni migliori, descritti in una pubblicazione postuma intitolata Festa Mobile. Protagonista è proprio l'effervescente capitale: non quella dei quartieri alti di Balzac o dei bassifondi di Zola, e nemmeno quella di Montmartre che vent' anni prima aveva accolto e affascinato Utrillo, Toulouse Lautrec e il giovane Picasso.  

Era la Parigi della rue Muffetard e di Place de la Contrescarpe, dei gioiosi mercatini e delle mansarde complici, dove il ventiduenne sposino si dedicava all'innamorata e alle corrispondenze con qualche giornale, che permettevano ai due di sopravvivere, squattrinati ma felici. Spesso, munito di carta e matita, scriveva seduto al caffè, come anni dopo avrebbe fatto, con maggior sussiego e corteo di sicofanti, nel raffinatissimo Flore, il corrucciato Jean Paul Sartre. Era anche la Parigi della lost generation, quella generazione perduta e sopraffatta dagli orrori della guerra e dalle delusioni della pace.

Una folta schiera di giovani americani aveva costituito una colonia che ruotava attorno a Gertrude Stein e a Sylvia Beach, la titolare della libreria Shakespeare and Company che esiste ancora, quantunque privata della sua patina gloriosa. Il loro quartier generale, era al carrefour Vavin, dividendosi tra i quattro caffè che ne limitavano gli angoli: il Select, la Coupole, il Dome e la Rotonde. Lì vicino Modigliani era morto da poco, logorato dalla tisi, e la sua donna, non reggendo al dolore, si era suicidata.

IL FERVORE 

Non si respirava il fervore ideologico che il dopoguerra successivo avrebbe infiammato Saint Germain des Prés, ma piuttosto lo scetticismo corrosivo, la trasgressione ribelle e il vizio estetizzante. Si potevano incrociare la spregiudicata Kiki, che pagava il pranzo esibendo le parti intime, il suo mentore Man Ray, espressionisti stravaganti come Chaim Soutine e reduci menomati come Blaise Cendrars. 

La comunità anglosassone era la più viva e vitale, dominata da personalità come Joyce e Ezra Pound: Hemingway ne assorbì il vigore innovativo che si tradusse nel suo inconfondibile stile letterario secco, essenziale e apparentemente inaccurato. Nel suo primo libro Fiesta descrive efficacemente quella irripetibile atmosfera parigina.

Tuttavia la sua irrequietezza, e la sete di avventura prevalsero sulla programmazione disciplinata che contrassegna quasi tutti i geni della letteratura. Hemingway alternò i safari africani con la pesca d'altura nei Caraibi, matrimoni e divorzi con relazioni effimere, rapide successioni di capolavori con intervalli di sterile apatia. Nel 37, scoppiata la guerra civile spagnola, vi cercò un ennesimo rimedio contro il logorìo della depressione. Si schierò, ovviamente tra gli antifranchisti, e ne descrisse più o meno obiettivamente le operazioni. Ma poco dopo tornò nella sua Cuba, con i suoi divertimenti, il suo oceano e i suoi liquori.

Nel giugno del 44 assistette allo sbarco in Normandia: vide da lontano la carneficina di Omaha beach e la descrisse come se fosse stato in prima linea. In agosto gli Alleati liberarono Parigi, e Hemingway vi arrivò con altri giornalisti su tre scoppiettanti automobili, giusto per fiondarsi al Ritz dove l'allegra brigata requisì due suites e, racconta Dan Frank, svuotò il bar.  

Successivamente il dinamico scrittore si vantò di aver contribuito alla liberazione della capitale, tra le sghignazzate dei testimoni delle sue sbronze. In seguito descrisse efficacemente l'avanzata nella foresta di Hurtgen e la battaglia delle Ardenne. Per questi suoi vividi affreschi gli fu conferita la medaglia di bronzo. A differenza del conflitto precedente, Hemingway finì la guerra incolume in tutto tranne che nella cirrosi e nel diabete.

Fu di nuovo assalito dalla depressione, alimentata anche dalla morte degli amici; in pochi anni se n'erano andati Ford, Fitzgerald, Anderson, Joyce e infine Gertrude Stein. Questa marche funèbre accelerò la sua dipendenza dall'alcol, e minò il suo già precario organismo. Viaggiò in Italia, e a Venezia si invaghì di una diciannovenne contessa che rievocò nel romanzo Di là dal fiume e tra gli alberi. La blanda accoglienza della critica stimolò le ultime energie del vecchio leone malato, che reagì scrivendo, in otto settimane, il suo capolavoro, Il vecchio e il mare. 

Vi si narra l'ossessione di un anziano pescatore per catturare un grosso Merlin. Quando finalmente lo prende, e quasi gli si affeziona, i pescecani se lo mangiano durante il tragitto di ritorno. Per questo inno alla sconfitta umana Heminghway vinse vari premi. Nel 1954 ottenne il Nobel per la letteratura che pare abbia commentato con un «troppo tardi!», e che fu ritirato in sua vece dall'ambasciatore a Stoccolma.  

Si rifugiò nei suoi consueti analgesici, l'avventura estrema , e l'abuso di alcolici. La prima gli procurò vari incidenti. Il secondo lo portò al disfacimento fisico e cerebrale. Soffrì di tutte le ansie della persona depressa: patofobie, vuoti di memoria, mania di persecuzione. 

 Era convinto di essere pedinato dall'FBI, di essere arrestato dallo sceriffo locale e di essere povero in canna. Fu ricoverato in varie cliniche e curato con l'elettroshok, che ovviamente peggiorò la situazione. Ma era ancora abbastanza lucido per comprendere la sua mancanza d lucidità. Così, a soli sessantadue anni, decise di farla finita.

 Seguì il consiglio di Seneca, che la Legge Eterna ci ha dato una sola via di entrata alla vita, ma molte vie di uscita, e che e lecito e talvolta doveroso scegliere quella che preferiamo quando questa diventa un'insopportabile prigione. Scelse il metodo più cruento, l'impiego dell'arma con cui aveva ucciso elefanti e leoni, forse per identificarsi con le sue vittime, forse per espiare le colpe di tante stragi, o forse semplicemente perché lo ritenne il sistema

·        Espérance Hakuzwimana. 

Espérance Hakuzwimana: «La candeggina, i trucchi della mamma: da bambina anch’io volevo essere bianca». Giulia Caminito su Il Corriere della Sera il 4 Settembre 2022.

La scrittrice di origini ruandesi, cresciuta in Italia, con il suo primo romanzo prova a costruire una diversa narrazione delle adozioni internazionali. «Sono andata in profondità per raccontare che significa stare nel mezzo. E riuscire a starci» 

Espérance Hakuzwimana è nata in Ruanda nel 1991. Sopravvissuta al genocidio, è stata adottata da una famiglia bresciana. Dal 2015 vive a Torino

Espérance Hakuzwimana esordisce nel romanzo con Tutta intera (Einaudi 2022) portando nella letteratura italiana i temi del razzismo banale e quotidiano, del trauma dell’adozione, del linguaggio delle nuove generazioni, della ricerca della propria identità al di là dell’idea di bianchezza che la società vuole importi. La protagonista è Sara, una giovane donna nera adottata da bambina da una coppia bianca, due genitori amorevoli ma incapaci di spiegarle come essere sé stessa e non “Saranostra”, la bambina acquisita e salvata. Sarà l’incontro con una classe di adolescenti di seconda generazione a cambiare lo sguardo di Sara, nella durezza della loro indifferenza prima e della loro determinazione dopo.

Il romanzo si apre con una scena forte: Sara da bambina cerca di sbiancarsi la pelle con la candeggina.

«Questa scena porta con sé un carico di violenza grandissimo, ma allo stesso tempo ho messo nel gesto di Sara uno spiraglio di speranza. Sara, infatti, spera e prega di poter essere come i genitori e chi la circonda, nel crescere vuole impegnarsi in ogni modo per essere simile agli altri. Può adattarsi in tutto ma l’unica cosa che non può controllare è il colore della pelle, sente che è un pezzo mancante. In questo gesto atroce ci vedo comunque della fiducia: la candeggina forse potrà salvarla. Varie persone mi hanno raccontato di aver sperato la stessa cosa e mi sono resa conto di quanti modi ho cercato anche io da bambina per diventare bianca, come per esempio picchiettarmi il viso con i trucchi di mia madre. Ognuno di noi ha cercato di acquisire la bianchezza che non è solo la pelle, ma il suo significato».

La copertina del primo romanzo di Espérance Hakuzwimana (Einaudi). La scrittrice sarà a Mantova il 7/9 alle 21.30 al Museo diocesano e a Pordenone il 16/9 ore 19 allo Spazio Gabelli

Cosa ci racconta Sara del mondo poco noto delle adozioni?

«Il tema è vastissimo e molto sfaccettato. Con Sara ho cercato di fare un lavoro di pulizia e ho operato una scelta netta, non sappiamo infatti neanche le origini di Sara, la sua vita prima dell’adozione. Era importante per me raccontare il dopo, perché la narrazione maggiore che c’è in Italia è quella dell’attesa dei genitori e dell’obiettivo raggiunto, aspettare e poi finalmente portare a casa il bambino, raggiungere la grande gioia di una famiglia completa. Poi però passano gli anni, i servizi sociali non ti accompagnano più, e volevo chiedermi cosa succedesse nella testa di chi è stato adottato. Guardare dentro alla testa di Sara significa per me dar voce alla bambina adottata, la vera protagonista di questa esperienza che dura tutta la vita».

Quali sono le paure dei bambini adottati?

«Non se ne parla mai e per questo ho scelto di scrivere anche dell’infanzia. La paura più grande sta proprio nel non sapere tirare fuori il negativo, avere timore di creare conflitti e cortocircuiti nella famiglia adottiva. È difficile per molti pensare che al di là dell’atto d’amore possano esserci dei traumi. Per questo fin dall’inizio ho voluto una storia italiana con una protagonista adottata a cui mettere a disposizione il bene e il male dell’esperienza. Da quello che ho compreso delle adozioni internazionali e interrazziali, bene e male vanno di pari passo. Accettare entrambi farà sempre parte della tua identità».

La copertina del saggio d’esordio di Espérance Hakuzwimana, uscito per People nel 2019

Secondo te come mai certi temi, come quello dell’adozione, vengono poco trattati nella letteratura italiana rispetto ad altri Paesi?

«La prima vera generazione di adottivi adesso ha 30 anni in Italia, ci sono state persone adottate prima ma non sono state riconosciute. Gli enti che si occupano di adozione portano al loro interno i bambini che hanno fatto adottare, e si crea una narrazione circolare. La presa di coscienza dei propri conflitti si rallenta moltissimo. E così anche la formazione dell’identità. In più in Italia manca l’interesse verso ciò che è nuovo, a causa dell’ imprinting del pensiero cattolico che non vuole mai staccarsi dall’idea di gratitudine. Per me è una voragine questa mancanza. In Italia per parlare di certi temi si lavora molto sulla testimonianza, cosa che io capisco ma non condivido: c’è bisogno di una narrazione che vada oltre l’ autofiction e diventi storia».

Metti a tema nel romanzo il problema dei nomi e delle loro pronunce, soprattutto quando Sara incontra gli alunni del corso pomeridiano di cui deve occuparsi. Quanto conta saper pronunciare bene un nome e riconoscerlo?

«È uno dei temi più importanti per me. Ho deciso di pubblicare col mio nome e cognome d’origine e mi sono imposta. So che usare nome e cognome stranieri in copertina a un romanzo può essere più difficile per una scrittrice italiana, ma ho insistito lo stesso. Per me non usare il cognome della famiglia adottiva è un atto politico e di consapevolezza emotiva. Una delle pagine più importanti del libro è il dialogo tra Sara e il padre, in cui lei gli riferisce che a scuola le hanno detto che non ha la faccia da Sara. Il nome ci identifica, ci rappresenta, se lo sbagliano già mozzano la nostra identità. In famiglia chiamano Sara con il soprannome di “Saranostra” che ricorda una preghiera, ma diventa come una catena. Sara lo capisce ancora di più conoscendo questi ragazzi che sono consapevoli del valore dei loro nomi e quanto vengano invalidati dal mondo esterno. Tutti i cognomi degli alunni sono presi dal mondo letterario dei loro Paesi d’origine. Mi piaceva l’idea che ci fossero delle connessioni letterarie. Volevo ricordarmi quanto sia importante chiamare nel modo giusto le persone».

I ragazzi e le ragazze di seconda generazione che Sara incontra sono perfettamente italiani e insieme anche sé stessi, con il bagaglio culturale delle famiglie mischiato alla loro vita. Come ne hai voluto parlare nel romanzo?

«Ho voluto tenermi lontana da una narrazione morbosa perché spesso quando si parla di seconde generazioni ci si concentra sulle origini, sui dettagli somatici, sui pregressi familiari, io volevo andare in profondità e parlare di cosa significa stare nel mezzo, cosa vuol dire riuscire a starci. Questi ragazzi hanno la lucidità straordinaria di chi ha imparato a vivere in un mondo dove è considerato diverso. E nonostante questo riesce a stare nel mondo. Per me è come se avessero dei superpoteri. All’inizio si proteggono da Sara ma poi ognuno di loro le porta un pezzetto della propria consapevolezza e lei viene travolta come da una valanga».

Hai anche deciso di non tradurre le parole che gli alunni e le alunne dicono in altre lingue parlando tra di loro, sono parole che vanno scoperte.

«Non ho tradotto le loro frasi in italiano perché volevo sottolineare il senso di disagio di Sara, che non capisce il linguaggio segreto dei ragazzi. Per chi non è abituato a frequentare giovani di seconda generazione può essere difficile seguire certi scambi, perché non si conoscono le sfumature. Il linguaggio delle seconde generazioni andava raccontato, per raccontare la loro normalità e verità. Questa scelta nasce dalle mie amicizie, dalle esperienze di frontiera e in giro per l’Italia, una Italia che esiste e che spesso viene raccontata senza darle parola».

Com’è stata la scrittura di questo primo romanzo, dopo il tuo saggio E poi basta. Manifesto di una donna nera italiana (People 2019)? In cosa hai sperimentato?

«Sapevo che questo libro sarebbe stato un romanzo, ma è cambiato molto in questi sei anni di scrittura. Ho iniziato a scriverlo con una carica di rabbia fortissima che nelle varie stesure è stata canalizzata in tante altre declinazioni. Il romanzo ha una trama lineare, semplice, ma le tematiche sono dense, tante e complesse e ho voluto asservire le mie parole proprio a questa complessità. Sapevo di voler scrivere una storia con una protagonista afrodiscendente alle prese con la ricerca della libertà, libertà dal proprio peso portato fin dall’infanzia, il suo lungo percorso di scoperta personale. Ho usato sempre il presente sia per l’infanzia che per l’età adulta, perché il passato di Sara per lei è vivido, pulsa talmente tanto che non può essere tenuto distante. C’è un continuo rimando tra l’infanzia e l’età adulta, ogni episodio dell’infanzia ricorda a Sara il perché, è un reminder di cosa significa essere cresciuta come persona nera in una realtà che ti ha presentata e voluta come persona bianca. La gioia e il dolore che ho provato, il lavoro mentale ed emotivo-psicologico che ho affrontato per superare certe scene sono stati grandissimi. Ho dovuto trovare un equilibrio in tutto per poter scrivere una storia dolorosa e faticosa, ma che racconta anche uno spiraglio di speranza».

E a livello metalinguistico?

«Ho usato metafore e riferimenti continui. Per me è importante la sottotrama, ciò che si riesce a trovare in un romanzo anche a una seconda lettura».

Per te scrivere è parte della tua militanza? Scrivere vuol dire anche impegno politico?

«Un anno fa ti avrei detto che per me scrivere è combattere ed è la mia arma. Andare in giro con i miei libri era militanza per me. A diciannove anni ho iniziato a leggere con foga, avevo una fame infinita di lettura e cercavo nei libri le mie stanze e le mie battaglie, volevo stimoli e spunti a me vicini. Mi volevo sentire impegnata, mi volevo dare un valore. Lavorare a questo romanzo negli ultimi due anni invece mi ha portata oltre. La potenza della storia che stavo raccontando mi ha schiacciata da una parte ma anche liberata e mi ha permesso di recuperare l’amore verso la letteratura. Non cerco più nei libri quello che penso di conoscere già, cerco qualcosa che non so, che non c’entra niente con me, per leggere e basta. Leggere sembra un verbo semplicissimo, ma per me vuol dire ascoltare e io avevo smesso di ascoltare. Scrivere e leggere prima significava combattere ma adesso combattere è poter leggere e scrivere liberamente. Essere altro oltre che nera. Senza dover dimostrare niente né a me stessa né agli altri».

Cosa ti fa più arrabbiare della società italiana?

«Tutti vedono il presente, sanno che le cose sono cambiate nei fatti, ma se ne sbattono perché non vogliono guardarle. È una cosa triste del nostro Paese, c’è chi per ignoranza si perde tanto e resta aggrappato a ciò che sa, anche se ormai è fuori tempo massimo».

·        Eugenio Montale.

Estratto da “Interviste a Eugenio Montale (1931-1981) a cura di Francesca Castellano” di Giorgio dell’Arti (ed. Società Editrice Fiorentina) pubblica da “Il Fatto Quotidiano” il 14 settembre 2022.  

Sei lire

“Quando uscì il libricino degli Ossi di seppia nel 1925 mio padre avrebbe voluto comprarne una copia, ma rinunciò non appena seppe che costava sei lire”.

Giornalista

Montale diventa giornalista quando ha già 52 anni. “Era il 30 gennaio del ’48, ero di passaggio a Milano e andai a far visita al direttore, Emanuel, che ancora non conoscevo personalmente. Lo trovai nervoso e preoccupato. Sul suo tavolo c’era la strisciolina di carta di un flash d’agenzia con la notizia dell’assassinio di Gandhi. Cercai quasi di nascondermi in un angolo della stanza.

Capivo di essere arrivato al giornale in uno di quei momenti in cui non c’è tempo per i convenevoli, e me ne sentivo in colpa. Emanuel mi fissò. Poi disse: me le scriverebbe lei quattro o cinque cartelle su Gandhi? Dissi di sì, mi accompagnarono in una stanza. Dopo due ore l’articolo era pronto. Uscì senza firma né sigla. Era intitolato Missione interrotta”. Emanuel lo assunse la sera stessa. “Con il minimo dello stipendio”.

Cantante

Come mai non riuscì a fare il cantante? “Forse non ero abbastanza stupido. Per riuscire occorre un misto di genialità e cretineria”. 

Disoccupati

“Fra qualche anno l’Italia sarà piena di disoccupati intellettuali, forniti di titoli di studio che non varranno più nulla... Nessuno si rassegna più alla propria condizione, l’autorità religiosa e del pater familias diminuisce ogni giorno, la filosofia è morta, siamo guidati da gente mediocre, la società ha bisogno di uomini di modesta levatura che sappiano fare un mestiere e basta” (a Giovanni Grazzini, 30.01.1973).

Avvenimenti

Qual è, professionalmente, l’avvenimento cui rimpiange di più di non avere assistito? “Nessuno: quando si deve fare un servizio tutti gli avvenimenti sono egualmente spiacevoli”. 

Fascismo

“Certo il fascismo fu una tirannia, ma solo per quelli che si occupavano attivamente di politica. Tutti gli altri hanno vissuto prosperando alle ombre del regime. Solo pochi si opposero, perciò mi hanno fatto sempre ridere quelli che dopo la Liberazione si sono ammantati di meriti mai vissuti” (1975).

Amore

Preferisce essere amato, ammirato, indifferente o addirittura antipatico? “Amato, ma molto da lontano”. 

Spaventi

Quali cose nella vita la spaventano di più? “L’istruzione obbligatoria, il suffragio universale, e il voto alle donne (tutte cose, purtroppo, necessarie)”. 

Nobel

Ricevuta la notizia del Nobel, e pranzato con riso all’olio e due polpette, dichiarò: “Dovrei dire cose solenni, immagino. Mi viene un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch’io? 

Donne

“Personalmente, non trovo nulla di male nel fatto che una o più donne vogliano fare una carriera che non sia quella della prostituta o della moglie”. 

Novecento

“L’Ottocento ha dato di più”. 

Scuola

“Una volta si mandavano i bambini a scuola per farli uscire dalla famiglia. Oggi succede esattamente il contrario: è la famiglia che entra nella scuola! È una cosa oscena! Le madri nella scuola!... L’Università è malridotta. Non si insegna più niente. Conosco una ragazza laureata in Psicologia. Che significa? Farà l’assistente sociale” (1975). 

Aldiquà

“Per credere nell’aldilà bisognerebbe avere alcune basi, dei punti di partenza più sicuri. Per esempio, esiste veramente il tempo? O il mondo? Io non lo so. Ecco, non conoscendo l’aldiquà finisco per avere scarsa curiosità anche per l’aldilà”. 

Notizie tratte da “Interviste a Eugenio Montale (1931-1981)”, a cura di Francesca Castellano, Società Editrice Fiorentina, pagg. 1.172, 90,00€

·        Eva Cantarella.

Roberta Scorranese per corriere.it il 23 settembre 2022.

Elegantissima, Eva Cantarella porta i suoi 85 anni con la stessa leggerezza delle collane colorate che indossa e del misto lino bianco che abbina alle scarpe di corda. Che fascino, professoressa. «Una volta, forse. Eravamo eleganti davvero a Milano. Ma lo sa che io e Miuccia (Prada, ndr) siamo andate a un mucchio di feste assieme?» 

Una generazione di donne sfolgoranti. Belle e consapevoli, forse controcorrente.

«Può dirlo forte. Papà era un grecista, da Messina andò a insegnare a Napoli e poi Milano. Lo seguimmo. Un giorno dissi in casa che volevo fare Legge. Mamma sgranò gli occhi: “Ma non puoi, alcuni giorni al mese tu stai male”». 

Pochissime donne a Giurisprudenza, alla Statale?

«Una manciata. E peraltro fino al 1963 le donne non potevano entrare in Magistratura. Figuriamoci ambire a una cattedra universitaria. E infatti, non appena mi laureai, nel 1961, era libero un posto di assistente ma mi venne candidamente detto che sarebbe stato assegnato a un collega, perché tanto “Eva, tu ti devi sposare”. Si rende conto?».

Nasce qui la sua allergia diffusa al matrimonio?

«Forse. Ma quando conobbi Guido Martinotti a tutto pensavo fuorché a sposarmi. Lui era sociologo, affascinante, arguto. Ci siamo lasciati e ripresi ma allora si faceva così. La fedeltà era una scelta, si discuteva dei valori e, soprattutto, si faceva l’amore. Io adesso vedo una certa ritrosia da parte dei più giovani nei confronti del sesso: si fanno un sacco di problemi, boh». 

Ma alla fine con Martinotti vi siete sposati, no?

«Ho tentato di tutto fino all’ultimo per evitarlo. Andai anche da un parente vescovo dicendo che Guido, in gran segreto, non era credente, che era sconveniente sposare un “infedele”. Non mi credette. E la mia suocera la ebbe vinta». 

Che matrimonio è stato?

«Divertente, allegro, senza figli. Lo seguii a Berkeley, dove lui aveva vinto una borsa di studio. Arrivammo poco dopo che avevano ucciso Kennedy. Fu nella biblioteca di quella università che mi appassionai al diritto greco. Lì ho incontrato Allen Ginsberg e Gregory Corso. Una stagione felice, ma sentivo di dover intraprendere una strada mia».

incarichi accademici a Milano, siamo alla fine degli anni Sessanta, vero?

«Ma in parallelo scrissi due libri che fecero scandalo, L’ambiguo malanno e Secondo natura. Il primo era un trattato sulla discriminazione millenaria delle donne e il secondo osava parlare della bisessualità nel mondo antico». 

E che cosa accadde?

«Accadde che mi spedirono a Camerino, Pavia e Parma. Quindici anni prima di poter tornare a Milano. E allora non c’erano mica i treni veloci. Ricordo che un pezzetto di strada fino a Camerino lo dovevo fare a bordo di un camioncino che consegnava i giornali, quando tornavo da Milano. Il punto era che parlare di certi temi, anche nella liberale e apertissima Milano era complicato. Specie se eri donna». 

Meno male che c’era l’amato Guido.

«Ma poi divorziammo».

Ah.

«Ma non perché non ci amassimo più, anzi. Divorziammo per posizione ideologica, per difendere la legge sul divorzio quando fecero il referendum abrogativo nel 1974. Ci sembrò un’assurdità, un insulto alla libertà di tutti. Lui nicchiava, ma io lo convinsi: “Guido dobbiamo farlo”. Alla fine prendemmo due testimoni, dicemmo che eravamo separati da due anni e ce la facemmo. Manco a dirlo, io e Guido continuavamo a vederci. Ogni tanto io gli dicevo “Ma non sarebbe ora di risposarci?”. Lui si mise a nicchiare anche quella volta. Alla fine però ci risposammo».

Formidabili quegli anni.

«Pensi che nella parentesi in cui eravamo “divorziati”, di nascosto dai rispettivi amanti ci vedemmo in Grecia. Ci scoprirono: che scenate!».

Come si vivevano gli anni della ribellione a Milano?

«Io li ho vissuti certamente da un’angolazione particolare, cioè da donna che frequentava circoli intellettuali, ma c’era di tutto. E di ogni colore. Mario Capanna e Ignazio La Russa. Ma c’erano anche uomini come Francesco Micheli che in testa avevano altro, cioè si stavano costruendo una carriera basata sì, sulla finanza, ma anche sull’arte e sulla cultura. Era questo il tratto caratteristico di molti miei coetanei: ogni professione era sempre accompagnata da un profondo interesse per le arti. Medici, avvocati, banchieri: il mito del palco alla Scala o del biglietto al Piccolo era parte della formazione. Molti erano infervorati dalla politica: c’era pure Achille Occhetto, che noi prendevamo in giro dicendo che ogni mattina baciava la bandiera rossa del traffico. C’era Carlo Basso, il figlio di Lelio, un amico». 

Alla fine per Eva Cantarella era arrivata la cattedra a Milano. Lei è stata la prima professoressa a Legge?

«No, credo che prima ci sia stata Luisa Riva Sanseverino, ma guardi, non che è la mia memoria sia perfetta. Quel che è certo è che ho insegnato Istituzioni di diritto romano e di Diritto greco fino al 2010, ho scritto numerosi libri di divulgazione. Ora, molti in Italia storcono il naso davanti a questa parola, ma io sono convinta che se si facesse migliore divulgazione, sia la scuola che il mondo del lavoro starebbero meglio». 

Lei frequentava i circoli femministi di Milano?

«No, al massimo andavo a qualche riunione di autocoscienza. Penso questo: il femminismo è stata l’unica vera rivoluzione riuscita in Italia, perché ha cambiato — almeno in parte — sia gli uomini che le donne. Io non dimenticherò mai che cosa era l’Università Cattolica ai miei tempi: si entrava con il grembiule, c’era un rigore insostenibile. Oggi non è più così, però manca un tassello: il mondo rimane degli uomini e, al massimo, le donne vengono inserite, “accettate”». 

Nella mitologia greca Pandora, essere femminile, è il simbolo dell’origine di tutti i mali. Crede che ci sia ancora molta strada da fare?

«Il mito di Pandora è una sciagura che la dice lunga su come ci hanno viste per millenni. Aristotele diceva che una donna non possiede il logos. Oggi per fortuna molte battaglie le vinciamo, ma ora tocca a quelle più giovani».

·        Ezra Pound.

La faccia italiana dello "Zio Ezra". Le foto mai viste e i primi sette canti nella versione di Patrizia Valduga. Luigi Mascheroni il 18 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

La conoscenza dei grandi libri, quando non si padroneggia in ogni sfumatura la lingua in cui sono scritti, passa dai grandi traduttori. E I Cantos di Ezra Pound, capolavoro assoluto del '900, sono forse il caso emblematico di quanto la qualità della traduzione sia determinante per cogliere tutta la bellezza del poema. Ecco perché i Canti I-VII tradotti e annotati da Patrizia Valduga (Mondadori), che vengono pubblicati dopo tre anni di studio e di lavoro, rappresentano un esempio di armonia perfetta tra l'originale inglese e il suo specchio italiano. Che non significa solo - ed è già tantissimo - un poeta tradotto da una poetessa. Ma un poema raccontato da una appassionata e vorace lettrice, che ci porta dentro la «fucina del Gran Fabbro».

Lasciamo ai poeti e ai traduttori il compito di elogiare lo straordinario lavoro di Patrizia Valduga. A noi cronisti giusto quello di indicare alcuni piccoli scoop. Esempi. La «faccia» di ragazza che appare all'inizio del terzo Canto viene identificata da Patrizia Valduga con quella di Iseult Gonne, la figlia di Maud Gonne, amante di Yeats. Il «piede ad artiglio» del divano del quarto Canto è rubato dalla pubblicità di una poltrona Morris Chair, Chicago Illinois che girava sui giornali dei primi del '900. E poi c'è il nome di Hugh Selwyn Mauberley: che scopriamo avere un legame «morboso» con Mario Praz... E ci fermiamo qui. Ma l'imponenza delle note non vale nulla davanti alla meraviglia del verso nudo e della sua traduzione: «And then went down to the ship,/ Set keel to breakers, forth on the godly sea, and/ We set up mast and sail on that swart ship...», «E poi alla via della nave,/ Dar chiglia ai flutti, in sul mare divino, e/ Alberi e vele demmo all'atra nave...».

E a proposito di navi. Tra gli eventi che celebrano i cinquant'anni della morte di Ezra Pound (1885-1972) il più originale è forse la piccola mostra A proposito di Ezra Pound aperta al museo Maga di Gallarate (fino al 4 dicembre) a cura di Lorena Giuranna che raccoglie una trentina di fotografie mai viste del poeta, se non forse sui quotidiani italiani dell'epoca. Si tratta di una serie di scatti che documenta il suo arrivo a Genova, sbarcato dal transatlantico Cristoforo Colombo in arrivo da New York (lo stampiglio sul retro certifica che le immagini furono scattate per conto dell'Agenzia Leoni, genovese) al momento del rientro in Italia, nel luglio del 1958, dopo dodici anni passati in un ospedale psichiatrico a Washington con l'accusa di alto tradimento per via dei suoi radio discorsi contro gli Stati Uniti.

Ed eccolo qui, Pound: ha 72 anni, da lì a poco andrà nella sua Rapallo, ed è appena passato da Napoli - dove aveva salutato romanamente i giornalisti che lo attendevano al molo - «criniera di capelli un tempo rossicci, la barba aguzza, gli occhi acuti blu, il cappellaccio sempre in testa, l'eleganza tipica del dandy anglosassone trasandato», come scrive nel catalogo Angelo Crespi. E nelle foto compare anche Marcella Spann, giovane segretaria, se non qualcosa in più, di Pound, mentre in altre si riconoscono Anna e Martino Oberto, artisti dell'avanguardia genovese che consegnano al poeta un fascicolo del numero zero di Ana Eccetera, la loro rivista di poesia visuale dove erano stati pubblicati - e rieccoci al poema - brani dai Cantos tradotti da Enzo Siciliano.

Ecco come (non) si devono leggere i "Cantos" di Ezra Pound. Luca Gallesi scrive una guida per aiutare i lettori a districarsi nella selva di simboli, fonti e citazioni del poema. Senza però rimanere schiavi della filologia...Luca Gallesi il 18 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

Chi si aspetti un poema epico nel senso a cui ci hanno abituato gli anni del liceo, con la frequentazione più o meno appassionata dei capolavori di Omero, di Dante Alighieri, di Ludovico Ariosto e degli altri classici del canone della letteratura universale, sappia che rimarrà deluso. I Cantos non hanno uno svolgimento lineare, non si sviluppano in ordine cronologico, non seguono le vicende di uno o più personaggi principali, né rispettano quello che per Aristotele era un ineludibile obbligo per ogni dramma: l'unità di tempo, di azione e di luogo.

Divisi in varie sezioni che sono state pubblicate come libri indipendenti nell'arco di più di mezzo secolo, I Cantos sono un'opera infinita, nel duplice significato di non finita e non finibile, sia perché Ezra Pound (1885-1972)ha lasciato aperta la conclusione, sia perché tratta davvero di inesauribili argomenti, luoghi, personaggi, storie dell'intero scibile umano.

Inoltre, tanto per rendere la lettura più complicata, l'autore si è sempre rifiutato di aiutare il lettore, evitando di frapporsi tra lui e il testo: never explain era il suo motto preferito, invitando, come gli antichi alchimisti, a leggere e rileggere: lege, lege, relege et invenies. Se aggiungiamo a questo la profonda antipatia provata e manifestata da Pound verso i letterati di professione, «i filologi che oscurano con le loro note il testo», è chiaro che questa, che vorrebbe essere una introduzione generale al poema, sarebbe un'iniziativa presuntuosa e irrispettosa se non si trattasse semplicemente di un omaggio a un gigantesco poeta che ha segnato con la sua vita e le sue opere il Novecento, e che non merita, quindi, di rimanere tra gli autori più citati che letti, ma dovrebbe, almeno in Italia, essere approfondito e discusso, apprezzato e criticato, in una parola: conosciuto, anche al di fuori del circuito degli specialisti, per raggiungere il pubblico che potrebbe trovare i suoi Cantos anche «divertenti».

«Ma qvesto è divertente!» esclama, infatti, Mussolini quando Pound gli dona la lussuosa edizione di A Draft of XXX Cantos in occasione dell'udienza a Palazzo Venezia il 30 gennaio 1933; come riportato all'inizio del Canto XLI, il poeta è folgorato da questa reazione, perché il Boss ha colto il punto assai prima degli esteti. In più di una occasione Pound ha ricordato come l'arte non possa che rendere felici, e quindi debba evitare solennità pompose e seriosità ipocrite.

Una breve introduzione ai Cantos che non voglia perdersi nelle complicate esegesi per specialisti né, tantomeno, attribuire loro una superficiale chiave di lettura ideologica, ma intenda soltanto rendere più accessibile il poema per il lettore colto, deve iniziare proprio da questa affermazione: i Cantos sono anche divertenti.

Pound aveva uno straordinario e spesso incompreso senso dell'umorismo, come sanno coloro che lo hanno frequentato, amici o corrispondenti che fossero, e come hanno imparato anche i suoi lettori meno paludati, che non si sono scandalizzati per i nomignoli affibbiati a chiunque, storpiandone il nome o gli attributi: gli italiani sono wops (guappi), i francesi frogs (mangiarane), i russi Tovarisch, il suo amico Ubaldo degli Uberti diventa «Ub2» (Ub al quadrato), il suo editore americano, «New Directions», diventa, visto che la pronuncia è la stessa, «Nude Erections» e così via.

Va infine ricordato che l'opera non è un trattato di storia o di economia, anche se di tali argomenti tratta con serietà e competenza, ma rimane, sempre e comunque, un poema, e come tale va letta. Si tratta di un viaggio non a caso inizia proprio così verso la conoscenza, qualunque cosa si intenda con questo vocabolo.

·        Fabio Volo.

Fabio Volo: «Le vacanze con i miei? Non c’erano soldi, ci andavo con l’oratorio». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 30 Luglio 2022.

Scrittore, attore, speaker e bresciano, di mamma bergamasca e nonno cremonese: «Io, fuori dai circoli: mai ricevuto un premio letterario. A casa ora colleziono statue di Gesù»

Fabio Volo è bresciano, di mamma bergamasca e nonno cremonese. E vive a Milano. «Questo fa sì che mi senta profondamente lombardo. Noi lombardi non abbiamo quella cosa dei siciliani, dei pugliesi e dei sardi che si identificano nella loro regione e quando si incontrano all’estero si riconoscono. No, noi non diciamo mai: ‘Ciao, sono lombardo’. Ci identifichiamo di più nella città, nel comune: siamo milanesi, bergamaschi, di Sondrio. O di Brescia, come me».

Milano, però, le ha dato tanto.

«Sono cresciuto a Brescia e mi sento bresciano. Non mi sento milanese perché non sono nato qui, ma la difendo come se fosse la mia città. Ed è vero, mi ha dato tantissimo. Anche quando ho avuto la possibilità di lavorare da altre parti ho scelto di restare a Milano».

Per esempio quando?

«Quando ho avuto la possibilità economica di rallentare: abbandonando la tv sei più libero. Nel cinema le riprese durano 6-7 settimane e puoi andare avanti e indietro. Un libro puoi scriverlo dove vuoi. Anche la radio puoi farla da qualsiasi posto».

Il suo cibo lombardo preferito?

«Da parte bresciana, lo spiedo con la polenta, che è un piatto nostro tipico bresciano. È fatto con tanti tipi di carne, che cucina per ore e ore. La versione originale sarebbe con gli uccelli, da bambino mangiavo quella». 

Lo sa preparare?

«L’ho fatto con chi lo sapeva fare. In compenso so preparare uno dei miei piatti preferiti da milanese: il risotto con lo zafferano».

Il cinema che ha reso omaggio alla Lombardia?

«Tanti film. L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, tutto in dialetto bergamasco. Miracolo a Milano di Vittorio De Sica è un altro capolavoro. Gli stessi film di Aldo Giovanni e Giacomo mostrano una bella Milano e poi Il ragazzo di campagna, Lui è peggio di me. Li ho amati tutti. Pozzetto mi faceva molto ridere. Ho fatto un film a Cremona, La febbre, dove Cochi era mio padre. È stato bello».

Qual è il suo tratto più «lombardo»?

«Noi lombardi siamo poco mediterranei, più vicini ai tedeschi. La cultura mediterranea ha un ritmo di vita più lento e lamentoso, mentre noi siamo più vicini al pragmatismo tedesco. Se ci succede qualcosa, cerchiamo subito di risolvere il problema, abbiamo una grande velocità di reazione alle avversità, non pensiamo mai “è colpa di...”, non attendiamo che qualcuno risolva il problema al posto nostro. Più che fare leva sul talento che non so di avere, non so nemmeno quale sia di preciso, nella vita mi ha salvato l’atteggiamento pratico che riconosco come lombardo».

Quali sono i suoi luoghi del cuore?

«Ne ho tantissimi. Da bambino andavo a Bazena, a Passo Crocedòmini, sopra i tre laghi. Ci andavo con l’oratorio in vacanza estiva. I miei genitori non andavano mai in vacanza, la mia era quella organizzata dall’oratorio per le famiglie bisognose. Sono rimasto legato a quella zona, ci porto i miei figli. Noi bambini eravamo ospiti in una casa di proprietà degli alpini. Mia madre, poi, è del lago d’Iseo e ci ho trascorso l’infanzia. Ma sono legato anche al lago di Garda, alle montagne. Ci sono tanti posti belli qui, la Franciacorta...».

La facevo più tipo da mare.

«Il lago è il mare dei tristi, mette molta calma rispetto al mare. A me viene la malinconia». 

Lei è un lombardo cittadino del mondo.

«New York è la città in cui mi sento a casa quando lascio Milano. È un posto dove ho amici, conosco i negozianti, ho una specie di vita sociale anche là, oltre a un appartamento che spiega perché mi capiti di andarci spesso».

Dove?

«A Manhattan».

Negozianti, amici. Cerca una dimensione cittadina anche nella metropoli per antonomasia.

«È la provincia che mi porto dentro. Le città grandi in fondo sono città piccole, perché poi vivi nei quartiere. Io nel West Village a New York sto per settimane senza nemmeno muovermi fino alla Quattordicesima, i miei amici mi prendono in giro. Vale anche per Roma. Mi piace stare il più possibile in mezzo alla vita normale. Anche a Milano porto i bambini a scuola, vado in latteria, al Carrefour, cerco di vivere nel tessuto sociale il più possibile, mi salva da tante cose».

Perché dice così?

«È la mia condizione. Sono diventato famoso a 30-31 anni, ero già formato, avevo già il mio stile di vita e i miei equilibri. Sono diventato riconoscibile quando avevo una personalità. Ho portato la mia persona dentro questa situazione e mi sento molto più sano, più strutturato emotivamente rispetto a quei colleghi che si perdono».

È il rischio di essere al centro dell’attenzione.

«L’invadenza è così forte che poi il mondo esterno comincia a far parte del tuo mondo interno. In Kill Bill David Corradine spiega la differenza tra Spiderman e Superman, che diventano supereroi quando indossano il loro vestito. Ecco, quando io quando vado a New York lascio il vestito di Fabio Volo a Malpensa, non ho bisogno di sapere che sono Fabio Volo per andare da qualche parte. Una volta ho incontrato una persona famosa che mi ha detto: “Non vado lì perché non mi riconoscono e non so come mi devo comportare”».

Invece lei non si prende sul serio.

«Gliel’ho detto. Sono arrivato già grande in questa cosa, io ci entro ed esco continuamente. Vivo in una casa dove colleziono statue del Sacro Cuore di Gesù, non ho foto mie appese sui muri di casa, ho altari e candele dove prego e medito ogni giorno, la mattina e la sera. Non solo non mi identifico con Fabio Volo, ma nemmeno con Fabio».

Le piacerebbe vincere l’Ambrogino d’Oro?

«Mi piacerebbe vincerlo per aver fatto qualcosa di bello. Ma non ho la mensola con i premi, non li vinco mai. Dovrei fare un discorso lungo su questo, ma poi sembrerebbe la storia della volpe e l’uva. Non sono andato a scuola per tanto tempo e non si è mai strutturata in me la forma mentis che quando fai una cosa una persona ti dà un voto: vali il 5, il 7, il 9 del prof. Io ho avuto la formazione professionale con mio padre: il forno è la coscienza, se hai fatto bene le cose il forno te lo dice».

E torniamo a Brescia, alla provincia.

«Il mio metro di valore è quanto mi sono impegnato. Se mi sono impegnato al massimo e il risultato è scarso accetto che più di così non potevo fare. È quello il mio premio. Se mi sono impegnato tanto mi do 10, al di là del risultato. Se sono stato pigro so che dentro di me c’è poco da godere. Alla fine i miei premi sono i risultati, le cose che ho fatto di lavoro fino a oggi».

Undici libri, otto milioni di copie, quattordici film. Anzi, quindici.

«Sì, ho appena finito di girare Una gran voglia di vivere, tratto dal mio penultimo romanzo: la regia è di Michela Andreozzi. E sto iniziando a lavorare alla sceneggiatura di Una vita nuova, l’ultimo, perché voglio fare un film anche di questo. Poi a settembre mi metterò a lavorare al prossimo romanzo».

E il regista non lo vorrebbe fare?

«Eh no, quello del regista è un lavoro vero e io sto cercando di evitarlo il più possibile».

A giugno ha portato i suoi figli sul set per la prima volta. Ha postato le foto su Instagram.

«Ero un po’ preoccupato perché dovevamo girare la scena in cui partivo per la prima volta in vacanza con il mio figlio del film: non sapevo come l’avrebbero presa. Invece si sono messi a giocare subito e sono diventati amici. È stato emozionante per me. Sebastian ha otto anni e mezzo, quasi nove, Gabriel otto. Non li avevo mai coinvolti prima».

Si rendono conto che lei è un personaggio pubblico?

«Non mi conoscono tanto come personaggio pubblico. Io ho avuto due grandissime forze trainanti: una la situazione economica della mia famiglia, che era devastante, quasi traumatica; l’altra un padre che lavorava sempre, dunque l’assenza del padre. Ogni tanto penso che i miei figli non hanno né l’una né l’altra. Credo di aver trascorso più tempo con loro di quello passato con mio padre tutta la vita. Loro non hanno mai sentito la mancanza del padre o della madre».

Danno per scontato l’agio in cui stanno crescendo?

«No, sia io che la mamma siamo attenti a dare valore alle cose».

È riuscito a portare i suoi figli allo stadio? L’ultima volta che l’ho intervistata, a dicembre, doveva ancora farlo.

«Sì e li ho portati l’anno giusto, quando il Milan ha vinto lo scudetto. Adesso possiamo aspettare per altri 15 anni».

Ma lei è un tifoso anche del Brescia.

«Il Brescia mi ha fatto sperare fino all’ultimo, non è una squadra che ti chiede di rinunciare. È sempre una sofferenza infinita».

Lì, i bambini, li ha portati?

«No, loro cerco di lasciarli meno legati alla mia vita. È la nostalgia che di solito spinge i genitori a far fare ai figli gli stessi passi».

Prima abbiamo parlato dell’Ambrogino. Ma invece non le piacerebbe vincere un premio letterario?

«Sarei anche contento, ma non appartengo a nessun circolo. Forse mi daranno un premio alla carriera quando avrò 80 anni. Non mi hanno mai dato nemmeno le “Cuffie d’oro”, che sono i premi per la radio, molto meno intellettuali del cinema e della letteratura. Eppure faccio da 20 anni un programma che è veramente bello. Però non ho la faccia di uno che prende i premi, non tendo a essere simpatico».

Vittorio Feltri per "Libero Quotidiano" il 4 gennaio 2022. Non posso affermare di essere un lettore vorace di Fabio Volo, scrittore bergamasco che vive a Brescia, il quale da molti anni spopola nelle librerie italiane. Ignoro il motivo per cui l'ho sempre preso sottogamba, forse perché ha un aspetto trasandato, forse perché da ragazzo ha lavorato come panettiere, forse perché quando l'ho ascoltato in televisione mi è risultato sciatto.

Tutto questo per confessare che anche io come tanti sono schiavo di pregiudizi sciocchi. Chissà per quale ragione molti, io compreso, pensano stupidamente che soltanto gli intellettuali col birignao siano autorizzati a pubblicare storie di successo.

Con questo articolo faccio ammenda, riconosco di aver preso un granchio. Avendo letto, inizialmente non senza ribrezzo, il suo ultimo lavoro, Una vita nuova, debbo ammettere che l'ex prestinaio ha talento da vendere.

Non è un bischero qualsiasi che è passato abusivamente dalla panificazione all'editoria. Niente affatto. È uno che sa il fatto suo e merita l'interesse dei lettori disposti a togliersi le fette di salame dagli occhi.

Attualmente il suo romanzo è molto in alto nella classifica dei volumi più amati dalle folle. E non può essere un caso e neanche un casino. I libri di Volo sono graditi al pubblico per una semplice motivazione: sono avvincenti, coinvolgenti, densi di episodi che acchiappano l'attenzione di chi infatti li divora.

Non trascuriamo il suo stile basico eppure molto efficace. La sua è una prosa liscia, egli adopera un linguaggio scevro di compiacimenti, arriva al cuore della gente comune, cioè di tutti noi, che abbiamo anzitutto bisogno di capire immediatamente il senso delle frasi, preferendo quelle che colpiscono il nostro animo. In poche parole Fabio Volo è bravo, non sarà Alessandro Manzoni, ma neppure l'ultimo arrivato come affermano copiosi critici incapaci di tenere la penna in mano.

Mondadori, editore affermatissimo, ha fatto benissimo a dare alle stampe Una vita nuova, che narra vicende in cui è agevole identificarsi. Quanto alla biografia dell'ottimo autore ritengo sia inutile soffermarsi, siamo di fronte a un fenomeno e non a un bluff. Nella presente circostanza mi piace evidenziare che quest' uomo ancora giovane è entrato prepotentemente nel novero dei narratori di maggior spicco.

E mi scuso con lui se per tanto tempo l'ho sottovalutato e talvolta preso in giro senza averlo studiato. Volo merita di volare in quanto, come pochi, è in grado di analizzare le passioni umane, e trasmetterci emozioni forti. 

A differenza di numerosi libri insipidi che tracimano dalla mia scrivania, il suo sprizza autenticità in ogni pagina. D'ora in poi, caro Fabio, non ti perderò di vista. Fai bene a scrivere, perché scrivere è come vivere due volte.

·        Federico Fellini.

Prefazione di Milan Kundera a “Dizionario Intimo” di Federico Fellini (Piemme), pubblicata da “la Repubblica” il 5 novembre 2019. Il mio amore per i film di Fellini è senza limiti. Il nome di Fellini è sempre grande, ammirato, celebre, è diventato perfino un simbolo. Amarcord è stato tuttavia il suo ultimo film la cui bellezza poetica ha messo tutti d' accordo. Poi l' immaginazione di Fellini si è scatenata ancora di più e il suo sguardo si è fatto ancora più acuto: la sua poesia è diventata antilirica, il suo modernismo antimoderno. I sette film dei suoi ultimi quindici anni sono stati un ritratto implacabile del mondo in cui viviamo. Il Casanova, l'immagine di una sessualità esibita, condotta fino ai suoi limiti estremi, grottesca; Prova d' orchestra ; La città delle donne ; E la nave va, un addio all' Europa la cui nave, accompagnata da alcune arie operistiche, se ne va verso il nulla; Ginger e Fred; Intervista, grande addio al cinema, all'arte moderna, all' arte in generale; La voce della luna, addio finale. Nel corso di quegli anni, irritati dalla sua estetica molto esigente e dallo sguardo disincantato che poneva sul mondo contemporaneo, i salotti, la stampa, il pubblico e anche i produttori se ne sono allontanati; non dovendo più nulla a nessuno, Fellini allora assapora la «gioiosa irresponsabilità» lo cito «di una libertà fino a quel momento sconosciuta». Qualche giorno fa io e mia moglie Vera abbiamo rivisto Intervista . Alla fine del film ci siamo detti: «Sapeva già tutto». L' ultimo periodo dell' arte di Fellini ha rappresentato la vetta delle vette, la fusione del sogno e della realtà di cui sognavano i surrealisti. Fellini l' ha realizzata nei suoi ultimi film con una forza incomparabile, effettuando allo stesso tempo un' analisi lucidissima del mondo contemporaneo. I film di Fellini dell' ultimo periodo rappresentano l'apice dell' arte moderna, l' immagine più rivelatrice che conosco del nostro mondo così com'è. Negli ultimi decenni, dopo Picasso, dopo Stravinskij, dove possiamo trovare un' opera più bella, di un' immaginazione più potente? Dove possiamo trovare un'opera più importante in grado di interrogare, domanda dopo domanda, tutto il destino europeo, le viscere stesse di questo destino? Quando ho saputo che Fellini aveva deciso di girare America di Kafka, ho avuto la strana impressione di una sorpresa che non era tale: la cosa mi è parsa tanto inattesa quanto logica e necessaria. Infatti, solo Fellini poteva, grazie alla sua interpretazione, svelare in modo brutale l'essenza (sempre trascurata, elusa, non compresa) della grande rivoluzione estetica di Kafka: la liberazione radicale dell' immaginazione che, con la facilità del sogno, trasgredisce tutte le regole della verosimiglianza. L' arte moderna, per me, è la storia di questa immaginazione, che Fellini ha condotto verso cime inaccessibili (e forse verso il suo compimento, il suo compimento orgiastico).

Maurizio Porro per il “Corriere della Sera” il 13 dicembre 2019. Oltre a essere un regista che ha rivoluzionato il modo di far cinema, che è diventato un aggettivo e un sinonimo di qualità italiana nel mondo, oltre a essere l' artista di 8½ , film che ha portato al massimo livello espressivo i mezzi artistici del cinema, come Joyce e Proust che fingeva di non aver letto, oltre a essere colui che divise l' Italia in due a parlare della Dolce vita (non si può credere cosa fu l' uscita di quel film), Federico Fellini era anche un uomo di grande spirito, di umorismo raffinato e profonda gentilezza, il meno vanitoso che abbia calcato Cinecittà e dintorni, il genio che più amava nascondersi. Forse consapevole, ma lo teneva per sé. Ma 8½ è un film che non riesce a fare, come Proust nella Recherche arriva all' ultima pagina per dirsi pronto. Casi junghiani di sincronicità. Sono invitato ad andare sul personale e confesserò quindi che col Fellini che ho conosciuto io, per caso un pomeriggio molestandolo al teatro Nuovo per un' intervista laggiù nel '72 o giù di lì, finendo per accompagnarlo a un appuntamento stipandolo nella mia non linda 500, era arduo parlare dei suoi film. Sorrideva, scantonava, assentiva, ma era anestetizzato di fronte a qualunque elogio. Io lo tormentavo su come 8½ potesse cambiare la vita e il mio modo di vedere il cinema, ripetendo un rosario di complimenti che sapeva a memoria, ma a lui piaceva parlar d' altro. Parlava come nessuno, l' accostamento e la scelta dei vocaboli erano personali e originali, faceva dell' impressionismo col linguaggio, disegnava con parole e aveva ragione Orson Welles che nella Ricotta dice: «Egli danza». Gli piaceva andare a zonzo in auto senza meta, gustare il famoso risotto giallo, assaggiare piatti, sguardi, stare al riparo dalla popolarità usa e getta, sentirsi a casa. Era curioso di tutto, venne una sera nello stupore di una platea rockettara a vedere Rocky horror picture show , nel defunto cine teatro Cristallo, e sembrava un musical sulle sue misure immaginifiche. E raccontava di Rol e dei suoi prodigi di sdoppiamento, sempre con humour e quando era con la Masina parevano proprio la coppia italiana medio borghese, quanto di più lontano in realtà fossero. Naturalmente amava, quando nascevano per caso, chiacchierando, i ricordi e ne aveva pronti all' uso alcuni magnifici, sulla sua prima esperienza all' opera, col timpano offeso da un acuto, mentre stava in braccio a papà (magari era meno grave, ma lui era spettacolo) e di ritorno dal Giappone era sconvolto perché «in un dischetto non ci crederai ci sono tutti i miei film». Lo portai una sera, lui e Mastroianni, a sfogliare vecchi programmi di teatro, trovando non a caso quelli di Zio Vanja e del Commesso viaggiatore , spettacoli di Visconti interpretati dal suo, nostro, attore preferito. Fu un irresistibile inseguimento di memorie e aneddoti che restituivano il sapore dello spettacolo nel suo farsi e tramandarsi, il quotidiano del corpo del mestiere, qualcosa che andava oltre qualunque professorale giudizio di merito che sta dall' altra parte della barricata. Ridevano come bambini. Fellini era sempre il primo a fare gli auguri a Natale, anche in orario da insonne cronico come quando telefonava per raccomandare un libro che magari aveva letto durante la notte (ricordo la Tamaro) e mi pento di non aver conservato un suo affettuoso messaggio dall' ospedale: cancellai il nastro per portargli fortuna, ma dovevo capire che era quasi un salutino in finale di partita. Ripensando ai film, credo che Fellini sia stato davvero un profeta, nel senso biblico del termine. Nella Dolce vita aveva intuito senza sentenze tutto il peggio che sarebbe arrivato, dalla moda dei paparazzi (una delle tante parole finite nei dizionari) quindi della vita rubata, fotografata e virtuale, alla teocrazia dell' immagine televisiva alla crisi dell' intellettuale, allo strapotere della cronaca, a quello del sesso. Ma soprattutto in quasi tutti i suoi film c' era la richiesta gentile di fare un po' di silenzio. È l' ultima battuta della Voce della luna ma già prima ci aveva avvertito, inascoltato. Era profetico il suo sguardo sul mondo, quando aveva anticipato la guerra balcanica nella Nave va , le moto selvagge in corsa alla fine di Roma , l' amore con la ballerina meccanica robot in Casanova , nel Bidone i trafficoni diventati di moda; quando scopriva facce sconosciute (Nico, la musa di Warhol nella Dolce vita , dove c' era anche Celentano, Pina Bausch nella Nave ) e quando chiedeva appunto di ascoltare solo il rumore dentro, quello che lui riusciva a esprimere nelle immagini di un suo rumoroso e inimitabile teatrino.

Natalia Aspesi per “Robinson - la Repubblica” il 17 dicembre 2019. Me lo ricordo il Fellini che incontravo per le interviste, forse ai tempi della Città delle donne o anche prima: un uomo gentile, affettuoso, un tesoro per un giornalista perché evocava cose sorprendenti e l' articolo si faceva da solo: un uomo stanco, grassoccio, seduto in un angolo, con quella vocetta infantile, un fiume fantasioso di parole e di immagini; noi arpie del giornalismo detto chissà perché di costume lo adoravamo per la dolcezza con cui voleva farci credere, ma non lo credevamo, quanto ci stimasse. Ci appariva molto accogliente, piacevole, ma del tutto privo di fascino di quel tipo là, e un po' ne ridevamo, pentendoci subito perché chiunque fossero le femmine vere che accoglieva o spingeva in un letto, o quelle di fantasia che raccontava sullo schermo, i suoi film, una parte dei suoi film, sarebbe stata meravigliosa per sempre. Si può a 27 anni dalla sua morte, nel centenario della sua nascita, in un tempo, oggi, smemorato e capovolto, chiedersi ancora delle sue donne, vere o immaginarie, dopo che negli anni, a ogni occasione ne è spuntata una che si è dichiarata la sua donna, e lui pazzo d' amore, e lei pazza di lui: ne vivono ancora con questa medaglia, signore a cui in passato se si chiedeva, E la Masina?, sempre rispondevano, Contenta. Tutto ormai è evaporato nella leggenda e non conta più, e sono certo più reali le donne della fantasia che quella vere ormai defunte o tuttora parzialmente vegete. Per esempio la Carla di 8 e 1/2, la bionda burrosa e sempre sorridente a cui Guido alzandosi dal letto chiede di fare la faccia da porca, e lei pigola, nella sua adorabile scemenza, voglio scrivere a mio marito; oppure Fanny di Giulietta degli spiriti, amante ideale delle fantasie maschili d' epoca, polposa e un po' ridicola, tutta in bianco con velo come una sposa, ma già in mutande. Oggi, più di mezzo secolo dopo, Sandra Milo, una settantina di film e qualche apparizione sconcertante in tivù tipo Isola dei Famosi, deve la sua gloria ai soli due film con Fellini, l' uomo che è stato il suo distratto amato amante per 17 anni: senza che lei mai lasciasse marito e figli anche se in certe interviste ha sostenuto che a un certo punto lui, marito di ferro della sua Giulietta, le aveva comunque chiesto di sposarlo. Certo i film di Fellini e forse davvero anche la sua vita, sono zeppi di donne, madri, puttanoni, spose, beghine, fanciulle, serve, sante, cori di belle sciocchine maliziose e inafferrabili con i visi vacui incorniciati da meravigliosi e stupidi cappelli: che raccontano l' ossessione italiana e ancor più, forse, romagnola di allora per una femminilità divisa in due: quella di una moglie poco vistosa che ogni giorno all' alba si alza per tirare la pasta fresca e rimestare un indigeribile ragù, mentre su una spiaggia, in una tabaccheria, in un vicolo, in un letto a baldacchino, lo attende ubbidiente e indifferente, una bellissima donna, un corpo sontuoso e muto: oppure una sua degenerazione, una Gradisca, una Gigantessa, una Rosina, una Tabaccaia, una Paciocca, una Saraghina, una mostruosità cattiva e inesistente, due palloni al posto del seno, una montagna al posto del sedere, un viso diabolico: come nei disegni preparatori per i suoi film ( I disegni di Fellini di De Santi, Laterza) che rivelano il disprezzo, e la paura che può suscitare quel costante mistero che è la femmina. Ma poi c' è La Moglie, che è per sempre, che non si cambia, almeno per Federico, e quindi non ha bisogno di quegli orpelli carnali perché il suo ruolo è un altro, vuoi angelo del focolare ma anche mamma inflessibile che ti soccorre, che ti controlla, che ti urla se bevi troppo, se mangi troppo, se un' amante ti ha piantato: non è stato proprio così il ruolo di Giulietta Masina, sposata, tutti e due ventenni, tutti e due emiliano-romagnoli, quando Fellini era ancora magro magro (secondo Alberto Sordi che gli era già amico, per fame) e con una gran capigliatura nera: bello, come una volta accasato è stato per poco, da quasi subito infedele come era ovvio, la moglie però non addomesticata secondo tradizione, sua musa e interprete per i personaggi angelicati, sia di piccola barbona come Gelsomina, sia di ingenua prostituta come Cabiria. E quanto alla fedeltà obbligatoria della Moglie, non ne esistono prove certe, anzi, Roma pullulava in quegli anni, di immensi intrecci di corna. In Anita Ekberg Fellini aveva trovato la splendida rara immagine della bellezza eterna da lui sognata: esuberante, ridente, lattea, dispensatrice di felicità, tutto ciò che una dolce vita può dare, e che rimase gelida nei suoi confronti, giudicandolo dal suo moralismo nordico, un provinciale, una donnetta, un despota, un invidioso, come rivelò in varie interviste. Anche un' altra signora che lui voleva in Casanova, questa volta con sprezzo anglointellettuale lo atterrò in una intervista a Leonetta Bentivoglio: stravaganza felliniana perché Germaine Greer, femminista bellicosa e autrice dell' epocale L' eunuco Femmina, se lo portò a letto tanto per passare una serata o due, rimanendone delusa. «Quando si infila nel letto col pigiama di seta, telefona subito alla moglie mandandole bacini» concludendo dopo una serie di dispregiativi, «di atleti del sesso ce ne sono tanti e a buon mercato». A Roma si sapeva del vero grande amore di Federico Fellini, che lui portava nei ristoranti e ovunque senza che, fantastica ipocrisia italiana, la cosa fosse considerata vera: non un tradimento coniugale insomma, ma una casualità imposta dalle regole della sopravvivenza: per 36 anni Anna Giovannini fu la sua amante segreta, un' altra moglie, la realtà di quell' amore carnale che scorreva come un sogno nei suoi film. Una luminosa bellezza formosa e grande, incontrata casualmente in una pasticceria, che vestita di rosso e molto scollata, lo aveva folgorato per sempre. Era il 1957, dopo Il bidone e Federico non riusciva a liberarsi da una delle sue depressioni. Due anni dopo la morte del regista, la signora che allora aveva 79 anni (4 più di lui) concesse una intervista ad Adele Cambria, per rivelarsi, finalmente: «Federico era molto geloso, non voleva che la nostra storia venisse inquinata dalle chiacchiere». Anche perché il rifugio della passione clandestina gli consentiva un' altra serie di vite senza fastidi: professionale, sociale, di coppia ufficiale e certo di corna. In casa ho trovato questo librino di carta povera e già ingiallita, Caro Federico, edito da Rizzoli nel 1982, sulla copertina azzurra, sotto il solito immenso cappello rosa, occhiali neri e gesto stupidino, Sandra Milo, l' autrice, con probabile ghost writer; quando il suo Fellini, ormai perduto per lei, stava preparando E la nave va. Una specie di romanzo, gentile e spiritoso in terza persona, in cui la protagonista si chiama Selana. A pagina 61: camera da letto di gusto barocco, lenzuola di lino ricamate, lui nudo si stende sul letto, le fa indossare un mantello nero e sotto niente: «Ti senti la castellana che nel buio raggiunge il cavaliere errante che le ha chiesto asilo per la notte? È un cavaliere o uno stregone? Ti amerà o farà un crudele incantesimo? Sì così, fai quella bella bella faccia da porca, mostrami la lingua». Tutte le donne si innamoravano di lui, ricorda Sandra: in ogni caso da quel passato di multiple e roventi passioni, mai un eco di molestie. Insomma contente tutte, più o meno.

Gloria Satta per “il Messaggero” il 24 novembre 2019. L' umanità è condannata ad avere la memoria sempre più corta? Non sembrerebbe: a cent' anni dalla nascita, il mondo intero si prepara infatti a celebrare per tutto il 2020 Federico Fellini scomparso il 31 ottobre 1993 dopo aver firmato film-capolavoro come La strada, Le notti di Cabiria, La Dolce Vita, Otto e mezzo, Giulietta degli spiriti, Prova d' orchestra, La voce della Luna, vinto cinque Oscar (record imbattuto) e segnato l' estetica cinematografica e la cultura del Novecento, in una parola l' immaginario del nostro tempo. L' omaggio-kolossal si snoda in quattro tappe. La prima è il convegno internazionale Ricordiamo il maestro promosso dal Comune di Milano a Palazzo Reale il 20 gennaio 2020, giorno della nascita di Fellini: accanto a intellettuali e cineasti ci sarà Donald Sutherland, l' indimenticabile Casanova felliniano. Seguirà (marzo-dicembre) la mostra itinerante sostenuta dal Ministero degli Esteri in 10 città del mondo: San Paolo del Brasile - dove il Banco do Brasil ha prestato la propria sede - Berlino, Mosca (nel Museo della Musica), San Pietroburgo, Toronto, Tirana, Vilnius, Buenos Aires, Lubiana - dove inaugurerà la Cineteca Nazionale Slovena - Hong Kong. Da settembre a novembre si terrà poi a Palazzo Reale di Milano la monumentale esposizione del centenario Fellini, le donne, i film curata da Vincenzo Mollica e Alessandro Nicosia con Francesca Fabbri Fellini, erede del maestro, e con la collaborazione di Simonetta Tavanti, nipote di Giulietta Masina. C' è poi il libro Federico Fellini - Dizionario Intimo a cura di Daniela Barbiani con prefazioni di Milan Kundera e Pietro Citati, in uscita da Piemme: raccoglie le parole, le espressioni, gli amori e i ricordi del grande regista in 203 voci destinate a restituirne l' immagine sfrontata, geniale, sempre viva.

IL COMITATO. Regista delle celebrazioni del centenario è Alessandro Nicosia, 500 mostre all' attivo in oltre 30 anni di attività e numerosi eventi dedicati proprio al maestro di Rimini: la prima esposizione in assoluto da lui curata a Roma nel 1995 con Mollica e Lietta Tornabuoni, l' omaggio del 2003 al Guggenheim di New York, il tributo ospitato dall' Academy a Los Angeles e quello del Puskin di Mosca. «Il nome di Fellini, che ho avuto il privilegio di conoscere, suscita tuttora un' enorme emozione nel mondo intero», spiega Nicosia che ha riunito per l' occasione un comitato di eredi, amici ed estimatori del regista in cui spiccano i nomi di Milo Manara, Giuseppe Tornatore, Rosita Copioli, Citati, Kundera, Mario Longardi, Sutherland, Milena Vukotic, Fiammetta Profili, Carlo Patrizi. E aggiunge: «Organizzare oggi, con l' amico fraterno Mollica, le celebrazioni del centenario significa mantenere viva la memoria del regista e farlo conoscere ai giovani che, nell'era di internet e della cultura usa-e-getta, rischiano di dimenticarlo».

I DOCUMENTI. Molti saranno gli inediti della mostra in programma a Palazzo Reale e incentrata su disegni, schizzi, documenti, fotografie, molte delle quali scattate da Gideon Backman, frammenti di film mai montati, oggetti di scena, manufatti, indumenti, curiosità. Tra le chicche, il disegno che il regista regalò all' amico Giulio Andreotti per i suoi 70 anni, il pianoforte verticale di casa Fellini su cui Nino Rota accennava le sue celebri colonne sonore, i biglietti di auguri spediti da Federico alla nipote e i ritratti degli amici, le immagini del futuro genio del cinema da bambino con i fratelli Riccardo e Maddalena. Si vedranno per la prima volta anche alcuni spettacolari costumi confezionati da Danilo Donati per Casanova (e ci sarà una grande testa di cartapesta realizzata per il film) nonché le mutandine e i reggiseni indossati dalle interpreti de La città delle donne e restaurati per la mostra. Ciliegina sulla torta, i disegni che Fellini e Charles M. Schultz si scambiarono in occasione della mostra organizzata a Roma nel 1992 da Nicosia in onore del padre dei Peanuts di cui il regista era un fervente estimatore. Tanto da esclamare, osservandolo disegnare in una saletta dell' Hotel Hassler: «Mi sento come quel piccolo manovale che guardava Michelangelo mentre dipinge la Cappella Sistina».

Dagospia il 24 novembre 2019. Estratto della prefazione di Milan Kundera a “Dizionario Intimo di Federico Fellini” a cura di Daniela Barbiani (Piemme). Il mio amore per i film di Federico Fellini è senza limiti. L' ultimo periodo dell' arte di Fellini ha rappresentato la vetta delle vette, la fusione del sogno e della realtà di cui sognavano i surrealisti. Fellini l' ha realizzata nei suoi ultimi film con una forza incomparabile, effettuando allo stesso tempo un' analisi lucidissima del mondo contemporaneo. I film di Fellini dell' ultimo periodo rappresentano l' apice dell' arte moderna, l' immagine più rivelatrice che conosco del nostro mondo così com' è. Negli ultimi decenni, dopo Picasso, dopo Stravinskij, dove possiamo trovare un' opera più bella, di un' immaginazione più potente? Dove possiamo trovare un' opera più importante in grado di interrogare, domanda dopo domanda, tutto il destino europeo, le viscere stesse di questo destino?

Il 31 ottobre del 1993 ci lasciava Federico Fellini, uno dei più grandi registi della storia del cinema. Pubblicato mercoledì, 01 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Fallai. Era nato a Rimini il 20 gennaio 1920. Considerato uno dei maggiori registi della storia del cinema, vincitore di 5 premi Oscar (4 per il miglior film straniero, uno alla carriera) nell’arco di quasi quarant’anni - da Lo sceicco bianco del 1952 a La voce della Luna del 1990 - ha «ritratto» in decine di lungometraggi una piccola folla di personaggi memorabili. Definiva se stesso «un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo». Da Rimini Fellini arrivò a Roma diciannovenne con la scusa di frequentare l’università, ma non sostenne neanche un esame. La sua ambizione era fare il giornalista, uno dei suoi sogni fare il fumettista. Riuscì a fare entrambe le cose dal 1939 sul Marc’Aurelio, la principale rivista satirica italiana, nata nel 1931 e diretta da Vito De Bellis. Il successo nel Marc’Aurelio gli offrì inaspettate occasioni di lavoro. Fellini fa conoscenza con personaggi a quel tempo già noti. Comincia a scrivere copioni e gag di sua mano, per Macario e Aldo Fabrizi. Scrive anche per la radio dove incontra e si lega affettivamente a Giulietta Masina. Grazie a Renzo Rossellini, Fellini collabora alle sceneggiature di Roma città aperta e Paisà, film che aprono, la stagione del Neorealismo. L’esordio alla regia cinematografica avviene nel 1950 con Luci del Varietà (insieme ad Alberto Lattuada) Due anni dopo Le luci del varietà, Fellini giunge all’esordio assoluto come regista, con Lo sceicco bianco, con Antonioni coautore del soggetto, Ennio Flaiano coautore della sceneggiatura e una grande interpretazione di Alberto Sordi. Nasce anche la collaborazione con Nino Rota che scriverà le musiche per diciassette suoi film. Il film viene bocciato dalla critica e snobbato dal pubblico. Il successo arriva col successivo I vitelloni che racconta la vita di provincia di un gruppo di amici a Rimini. Il film conquista il Leone d’argento alla Mostra del cinema di Venezia del 1953. La consacrazione internazionale arriva nel 1954 con La strada che nel 1957 vincerà l’Oscar come miglior film in lingua straniera, istituito per la prima volta in quella edizione. Dopo l’insuccesso de Il bidone, Fellini torna vincere nel 1958 l’Oscar come miglior film in lingua straniera con Le notti di Cabiria. È del 1960 il più celebre film di Fellini, La dolce vita, campione d’incassi in Italia e all’estero, opera che ha segnato profondamente la storia del cinema. Il film è interpretato da Marcello Mastroianni, giornalista-scrittore in crisi morale fra i locali notturni e i monumenti di Roma. Indimenticabile la scena di Anita Ekberg che fa il bagno nella fontana di Trevi, mentre il personaggio Paparazzo darà il nome alla categoria dei fotografi di gossip. Il film ottenne innumerevoli premi tra cui la Palma d’Oro a Cannes e un Oscar per i migliori costumi. Nel 1963 è la volta di 8½, altro capolavoro che gli permette di ottenere un nuovo Oscar. Nel 1965 Fellini passa al colore col film Giulietta degli spiriti. La produzione successiva di Fellini vede I clowns (girato per la TV, 1970), Roma (1972) e Amarcord (1973) sono tutti incentrati sul tema della memoria. E con Amarcord (mi ricordo, in dialetto romagnolo) vince nuovamente l’Oscar per il miglior film straniero. L’ultima fase della sua vita artistica lo vede firmare E la nave va (1983), Ginger e Fred (1986), Intervista (destinato alla TV, 1987), e il lavoro dell’addio al cinema: La voce della luna (1990), liberamente tratto da Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni. Nel 1993 l’Academy di Los Angeles decide di conferire a Federico Fellini il premio Oscar alla carriera. Morirà il 31 ottobre. Cinque mesi dopo morirà anche Giulietta Masina, con cui è stato sposato per cinquant’anni. Come ha scritto Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera il suo mito continua a dominare incontrastato il cinema italiano. E non solo. Non ci sono altri nomi, né vivi né scomparsi, che possano insidiare questo suo privilegio. Forse solo Rossellini, ma nel circoscritto mondo della cinefilia critica, tra gli addetti ai lavori e per giunta nemmeno tanto giovani. Per tutti gli altri, in excelsis c’è Fellini. In un complice ritratto su Epoca, nel 1974, Cesare Garboli scriveva che «si possono anche discutere i film di Fellini. Ma nessuno come lui, con la macchina da presa, riesce a vedere “tutto”, e a far vedere tutta la “vanità” di ciò che si vede [...] Fa esistere le cose nello spazio di un prodigio, afferrandole un momento prima che si affloscino, a un passo dalla loro apparenza. Più di Bergman, più dello stesso Buñuel. Fellini “è” il cinema».

Aldo Grasso per il Corriere della Sera il 22 maggio 2020. Steiner si rivolge a Marcello con una battuta tipica di Ennio Flaiano: «Io sono troppo serio per essere un dilettante, ma non abbastanza per diventare un professionista». A 60 anni esatti dalla Palma d’oro, Rai Movie ha trasmesso La dolce vita per inaugurare il ciclo «Federico Fellini, realista visionario». Più passa il tempo, più si rivede il film e più la distanza tra Fellini e Flaiano prende corpo. Non tanto per lo sgradevole incidente che avrebbe rotto il sodalizio (il famoso viaggio in aereo a Los Angeles che vede Fellini seduto in prima classe con Angelo Rizzoli e Flaiano in economica), quanto perché tra i due c’era una profonda distanza culturale che, tra le pieghe, il film lascia trasparire. Ne La solitudine del satiro, Flaiano scrive: «Sto lavorando, con Fellini e Tullio Pinelli, a rispolverare una nostra vecchia idea per un film, quella del giovane provinciale che viene a Roma a fare il giornalista… Il film avrà per titolo La dolce vita… Uno dei nostri luoghi dovrà essere forzatamente via Veneto... Il giovane provinciale è già ben piazzato, guadagna, e uno di quei giornalisti prodotti dalla civiltà della sensazione, cioè racconta gli scandali, le fesserie che fanno gli altri. Si è lasciato adottare da quella stessa società che lui disprezza». Ma quando Flaiano vede in proiezione alcune scene del film commenta: «Il gongorismo, l’amplificazione di Fellini nel ritrarre quel mondo di via Veneto fa pensare al museo delle cere, le immagini dei quaresimalisti quando descrivono la carne che si corrompe e imputridisce… Fellini quaresimalista? É un’ipotesi tentatrice». Una delle tante chiavi di lettura del film potrebbe essere proprio questa: il contrasto tra la scrittura barocca, composita, grondante metafore di Fellini e lo stile aforistico di Flaiano, tra il mondo «caricaturale» del regista e quello intellettuale dello scrittore (e del gruppo del Mondo, cui apparteneva).

Giulia Zonca per ''La Stampa'' l'11 settembre 2020. Si ride a Venezia. Succede quasi alla fine e con un nome che chiama deferenza, Rossellini: voce che si abbassa subito sotto tonnellate di fama. Pura storia del cinema, la mostra celebra due maestri in un giorno solo. Fellini con La verità su la Dolce Vita e The Rossellinis, il titolo che capovolge il Festival. Via i timori, le ansie da prestazione, i confronti: il documentario elaborato per cinque anni dal nipote di Roberto Rossellini, Alessandro, è una liberazione. Non è da vedere per la saga che racconta un pezzo di Italia (e di mondo) ma per quello che dice sulla famiglia di ognuno di noi. «In casa di chiunque c' è uno più bello, uno autorevole, uno che incute timore». Alessandro non fa il regista di professione e forse è logico che l' unica voce lieve in un coro di drammi e spremute di problemi sia di qualcuno che sta fuori dal cinema. Pure essendoci nato più dentro di chiunque altro. Alessandro Rossellini, quasi 57 anni, passato complicato da anni di tossicodipendenza superati «con un lungo e attento ricompattamento». Mancava solo un pezzo, la tribù e lui l' ha rimessa insieme in un documentario che ha un nome troppo importante per reggere pure un soggetto serioso. Lo sguardo è autoironico e gioca sul fatto che ogni essere umano abbia la stessa sindrome: «la rossellinite», declinata in qualsiasi modo. Tutti colpiti dallo struggente bisogno di sentirsi amati e approvati, tutti intenti a reggere, superare o stracciare aspettative, a riannodare relazioni. I Rossellini sono figli e nipoti di tante passioni: «mi sono trovato in difficoltà, la morale oggi è aperta, ma diversa e il giudizio sul maschio è feroce». Un uomo che abbandona, fa il despota e richiama figli di matrimoni infranti per avere il controllo riceverebbe acidi commenti ora «io non posso proprio dire che nonno era un maschilista. Non era monogamo, era ancora padre e padrone e ci ha amato molto. A 11 anni mi ha spiegato il sesso dicendomi che prima di chiedere piacere a una donna bisogna darne due volte tanto a lei». Età sbagliata magari per un discorso così, però nei Rossellinis tutto è confuso. Per fortuna. Radici miste, parenti sparpagliati tra gli Usa, Roma, il Qatar, la Svezia e poi si scopre che questi rapporti non erano poi un continuo Vulcano. Eruzioni al momento dei tradimenti e poi tranquillità ricomposta con una continua estensione della stessa sicurezza: «Basta un colpo di genio». Motto del capostipite Rossellini e tormento per la dinastia: «Come se ognuno potesse tirare fuori una Roma città aperta all' improvviso». No, pure se il padre di Alessandro ha fatto il regista, se la zia Isabella si è tolta ogni sfizio di notorietà tra la carriera di modella e quella di attrice, niente sarebbe stato abbastanza per essere come Roberto Rossellini e Ingrid Bergman. E nel documentario si scopre che nessuno voleva seguire orme così definite. Oggi i Rosselinis sono una famiglia allargata e più che multietnica. Alessandro ha una madre afroamericana, «la hanno allontanata, non perché nera, allora era alcolista e umorale ma lei e mio padre si sono voluti bene davvero», c' è il ramo indiano con Raffaella che è diventata musulmana e si chiama Nur «e c' è questo strano sguardo su di noi che io non avevo mai visto prima». La vena malinconica non è nel film è nelle inevitabili considerazioni che si fanno guardandolo: «Eccoci lì: meticci, mulatti, misti, atei e convertiti, etero e gay, c' è tutto in una sola unitissima famiglia eppure la gente mi guarda storto quando entro in un negozio. Fino a che non tiro fuori al carta di credito». Se ognuno curasse la propria «rossellinite» forse sarebbe un po' più semplice.

Marco Giusti per Dagospia il 10 settembre 2020. In una delle scene più di culto, ma assolutamente vere, della docu-fiction che Giuseppe Pedersoli ha messo in scena sulla vita e sul ruolo fondamentale di suo nonno Peppino Amato sulla costruzione della Dolce Vita di Federico Fellini, “La verità su la Dolce Vita”, mostrato a Venezia oggi, vediamo il produttore napoletano come prima mossa andare da Padre Pio a Pietrelcina e chiedergli se faceva bene o no a produrre il film. Cosa gli disse davvero, il vecchio Alvaro Mancori, amico fraterno di Amato che era presente all’incontro, non riuscì a afferrarlo, ma certo da lì in poi il produttore prese il film come una missione da portare a termine. Personaggio leggendario già negli anni dei Telefoni Bianchi, “Pareva un dio”, ricordava Paolo Stoppa, “faceva cadere le cose dall’alto”, ricordava Aldo Fabrizi, “ma ci aveva l’occhietto clinico”, Peppino Amato, che si chiamava in realtà Giuseppe Vasaturo, nato a Napoli nel 1899, aveva dedicato l’intera vita al cinema. Star sulle scene del cinema muto napoletano dal 1914 agli anni ’20, protagonista di film come “Pupatella”, “Reginella”, “Napule ca se ne va”, era diventato produttore nei primi anni ’30 legandosi a registi come Mario Bonnard, Carmine Gallone, Gennaro Righelli, e a un finanziatore forte come Angelo Rizzoli, che ritroveremo proprio su “La Dolce Vita”, a uomini di partito illumnati come Luigi Freddi. La sua prima fissa fu di portare i De Filippo dal teatro al cinema, pensando, forse ingenuamente, di far diventare Eduardo e Peppino i nuovi Stanlio e Ollio. Li fa esordire in “Tre uomini in frac”, e arriva al grande successo popolare con “Il cappello a tre punte” di Mario Camerini, malgrado fosse stato attaccato dallo stesso Mussolini, che interruppe la visione a metà, criticando il film per il suo antifascismo. Malgrado i tanti tagli che si fecero per renderlo meno duro contro il potere, il film andò benissimo e aprì la strada alla non così breve stagione cinematografica dei De Filippo. Al tempo stesso produsse film importanti come “Batticuore”, “Grandi magazzini”, “Una romantica avventura”, “La cena delle beffe” di Alessandro Blasetti con celebre seno nudo di Clara Calamai. Produsse nel 1940  il primo film da regista di Vittorio De Sica, “Rose scarlatte”, che codiresse soprattutto per le parti tecniche. Ma Giuseppe Porelli ricordava che sul set, dovendo spiegare all’attrice francese Renée Saint-Cyr cosa voleva che facesse se ne uscì con un imbarazzante “Je voudrai vos fesses”, cioè “Voglio le vostre chiappe”, che scandalizzò l’attrice. Dopo aver lanciato De Sica regista, che ritroverà dopo la guerra come produttore di un capolavoro del neorealismo come “Ladri di biciclette”, lanciò Aldo Fabrizi con “Avanti c’è posto” e “Campo de’ Fiori” diretti da Bonnard, veri film che già odorano di neorealismo. A Fabrizi offrì 70 mila lire più l’opzione per un secondo film. Ma è dopo la guerra che inizia la sua grande stagione, producendo appunto “Ladri di biciclette” di De Sica, “Francesco giullare di Dio” di Roberto Rossellini, una delle primissime commedie all’italiana, “Natale al campo 119”, “Parigi è sempre Parigi” di Luciano Emmer e, soprattutto, “Umberto D” di De Sica. Da regista e produttore diresse Totò nel suo primo film dramatico, “Yvonne la Nuit” con Olga Villi e la bellissima Linda Darnell in “Donne proibite”. Finanziato da Angelo Rizzoli produsse “Don Camillo” e “Il ritorno di Don Camillo” con Gino Cervi e Fernandel ottenendo un incredibile successo internazionale grazie alla distribuzione della Dear di Roberto Haggiag. Per lo stesso Haggiag fu produttore esecutivo di “La contessa scalza”, che Joseph Mankiewicz girò in Italia con Ava Gardner. In un’Italia che stava cambiando arriviamo a film drammatici importanti come “Un maledetto imboglio” di Pietro Germi, “Nella città l’inferno” di Renato Castellani e “La Dolce Vita” di Federico Fellini, un film considerato infernale, impossibile, pericoloso da tutti i produttori italiani. Per farlo, visto che era di Dino De Laurentiis, lo scambiò con “La grande guerra” di Mario Monicelli, che portò un Leone d’Oro a Venezia al produttore. Ma, certo, non era “La Dolce Vita”. Il documentario di Giuseppe Pedersoli racconta appunto il calvario di Peppino Amato per arrivare alla fine di quello che oggi salutiamo come un capolavoro, ma che costò al produttore napoletano un infarto e un budget che esplose dai 400 milioni di lire previsti agli 800 milioni di lire effettivi. Pedersoli tra fuori dai cassetti del nonno le lettere che Amato scambiò con Fellini, i documenti sulla lievitazione dei costi e i mille intoppi che ci furono. Ma il film non è solo questo, perché Pedersoli, figlio del celebre Carlo Pedersoli alias Bud Spencer, che aveva sposato una delle tre figlie, Maria, di Amato, cerca anche di restituire al nonno la dignità del grande uomo di cinema che era, al di là delle battute che Ennio Flaiano e il mondo del cinema italiano avevano fatto per anni sul suo buffo modo di parlare e sugli svarioni anche molto divertenti che faceva, raccolti proprio da Flaiano col titolo “Catalogo Peppino Amato” (“Apriamo una paralisi”, “In quanto ad idee politiche io e lei siamo agli antilopi”, o un completo d’inferiorità, ecc). Abbandonato da Rizzoli proprio dopo l’esplosione del budget, non aiutato da Fellini, che ha sempre visto i produttori come il nemico, Peppino Amato si trovò solo a affrontare una situazione di disastro produttivo che solo il grande successo immediato del film salvò. Ma la grande fatica per arrivare alla fine della “Dolce Vita” in qualche modo gli fu fatale, visto che morirà di infarto nel 1964, avendo portato a termine solo altri due film.

Arianna Finos per “la Repubblica” il 6 settembre 2020. La verità su La dolce vita era nascosta in quattro scatoloni pieni di muffa e ragnatele. Migliaia di fogli, telegrammi, contratti, note, bozze, ricevute, ingiunzioni, cambiali. Soprattutto un carteggio a tre colori: l'inchiostro rosso usato da Federico Fellini, la firma in verde di Angelo Rizzoli e il sobrio carattere scuro di Giuseppe Amato, produttore caduto nell'ombra del capolavoro di sessant' anni fa. A scoprire il tesoro di memorie è stato è stato il nipote materno Giuseppe Pedersoli (figlio di Carlo, in arte Bud Spencer, la madre è Maria Amato, figlia di Giuseppe), facendone la base per il docufilm La verità su La dolce vita , fuori concorso alla Mostra di Venezia il 10 settembre e poi in sala. «Mi sono sempre chiesto perché nonno, dopo aver prodotto La dolce vita , non ne avesse cavalcato il successo e a 64 anni, poco tempo dopo le vicissitudini del film, fosse venuto a mancare», non prima di aver depositato un soggetto dal titolo La verità su La dolce vita , «forse la sua versione sul capolavoro ». Studiando quei documenti, rimettendoli a posto cronologicamente, racconta Pedersoli, «ne è scaturita una sceneggiatura naturale basata sul carteggio a tre intercorso tra l'estate del 1958 fino al 1960, con l'uscita del film: Fellini che era autore del progetto, Amato che lo aveva apprezzato quando tutti gli altri produttori lo avevano rifiutato e Angelo Rizzoli, socio storico di Amato». La storia parte con il viaggio di Amato a San Giovanni Rotondo per avere la benedizione da Padre Pio, per dipanarsi lungo l'infernale avventura produttiva. Alcuni personaggi, tra cui Amato, sono interpretati da attori, ad altri le voci sono prestate da doppiatori. E poi i video di uno strepitoso duetto Vittorio De Sica - Amato, le testimonianze di Marcello Mastroianni, Sandra Milo e Dino De Laurentiis. Per Pedersoli si tratta anche di restituire verità alla figura del nonno, che «all'epoca molti descrivevano come un guappo napoletano ignorante, basti pensare al ritratto che ne fa Carlo Lizzani in Celluloide , che ha offeso mia madre e le sue sorelle». Attore famoso del cinema muto, conquistatore di dive hollywoodiane, produttore e distributore - ha fatto arrivare lui in Italia i disneyani Cenerentola e Bambi , ha portato sullo schermo il teatro dei fratelli De Filippo, ha tenuto a battesimo il debutto alla regia Vittorio De Sica, l'unica volta che Amato ha rivelato scarso fiuto è stato in famiglia: «Nonno si lamentava perché i colleghi avevano le grandi stelle in casa - Loren e Mangano - e lui doveva pagarle. Non sapeva che suo genero, mio padre Carlo Pedersoli, pochi anni dopo sarebbe diventato un attore popolare. Mio padre ha anche lavorato per nonno nella produzione e nella gestione degli studi cinematografici dal '59 al '62. Mio padre descriveva nonno come un uomo elegante, che non si fermava davanti a nessun ostacolo e così è stato per La dolce vita ». Eppure quel film, sofferto e complicato al di là degli aspetti economici (costò il doppio del preventivato), finì per costargli la salute: «Continuò a lottare malgrado un primo infarto lo avesse colto durante i primi mesi della post produzione. Una sua collaboratrice dichiarò: "Peppino Amato è morto a causa della Dolce vita ". Ad amareggiarlo più che gli scontri con Fellini, «entrambi personalità fortissime, ma sapevano di lottare entrambi per il bene del film», fu quello che considerò un tradimento dell'amico e socio Rizzoli, «che prospettando il fallimento del film gli chiese indietro i soldi e lo mise in ginocchio. Nonno è stato dimenticato, è bello oggi poter restituire la sua impresa a chi non lo ricorda o non lo conosce».

Carlo Verdone per “la Lettura - Corriere della Sera” il 6 settembre 2020. Il miglior giudice resta e resterà sempre il tempo. Il tempo farà brillare un'opera ingiustamente declassata alla sua apparizione, il tempo condannerà senza appello un'opera troppo esaltata dalla maggior parte della critica di quel tempo. L'affidabilità del critico, dello storico del cinema (in questo caso, visto che l'argomento è La dolce vita di Fellini), è quello di afferrare al volo la novità narrativa, il coraggio di esplorare sentieri inediti proposti dal regista e, non ultimo, di liberarsi dall'«ideologia» che pone un ostacolo insormontabile nel percepire la verità, l'autenticità poetica e drammatica del tema sviluppato dall'autore.  Se c'è un film che spaccò in due il mondo della critica e la platea degli spettatori in modo nevrastenico, parossistico, questo fu La dolce vita del 1960. Per comprendere bene il terremoto che provocò mi è venuto in aiuto un libro, un grosso volume, conservato nella biblioteca di mio padre Mario dal titolo La dolce vita. Raccontato dagli Archivi Rizzoli a cura di Domenico Monetti e Giuseppe Ricci, edito dal Centro Sperimentale di Cinematografia e dalla Fondazione Federico Fellini. Sono quasi ottocento pagine in cui si raccolgono tutte le recensioni su quello che oggi definiamo un capolavoro assoluto. Iniziando a sfogliare il libro, si resta attoniti dal putiferio che scatenò quella pellicola. Questi i primi titoli che appaiono voltando le pagine: «Film confezionato con gli elementi più deteriori della pornografia», «Pattumiera cinematografica», «La sporca vita del culturame sinistro», «Povera vita, povera capitale», «Il Centro cattolico cinematografico bolla La dolce vita tra i film esclusi», «Verso il sequestro della Dolce vita ?», «Forse il Papa vedrà La dolce vita », «Lo scrittore Staino chiede il sequestro de La dolce vita », «Basta! Basta!», titola enorme «L'Osservatore Romano», «La nobiltà e la borghesia accusano Fellini», «Il Centro cattolico chiede il licenziamento in tronco del critico del "Quotidiano"». Mio padre. «Il critico del "Quotidiano" licenziato su due piedi». Fu così che papà rimase senza lavoro per aver scritto: «Le prime qualità del film sono nella fantasia sfrenata, nell'ambientazione scavata con lo stesso ardire e la stessa succulenza di uno Stroheim e di uno Sternberg nel modo sorprendente della evocazione, come una favola surreale di Hoffmann; ma tutto quel che Fellini ci mostra è rigorosamente vero, còlto in alcuni ambienti della Roma notturna...». Papà e Fellini erano già amici, si stimavano a vicenda e avevano una passione comune: la storia del circo e dei clown. Quando Federico seppe del licenziamento di papà rimase molto avvilito e gli propose di entrare come ufficio stampa in quella che doveva essere la sua prima casa di produzione: la Federiz (nata da un'alleanza con la Rizzoli). Progetto che fu chiuso dopo circa un anno. In ogni caso papà era già impiegato al Centro Sperimentale e non avrebbe potuto accettare. Ma rimase molto commosso dal gesto di Fellini, da vero amico. Sarebbe comunque ingiusto non ricordare altri critici e scrittori che invece compresero il coraggio di raccontare un mondo che esisteva e che molti non volevano vedere nelle sue fragilità, nei suoi vizi, nella depressione, nell'euforia, nell'immoralità e direi anche nella sua spiritualità. Il cardinale Siri se ne accorse e comprese la grandezza del film. Padre Taddei, sacerdote intellettuale, idem (rimosso per questo dall'incarico di capo della comunicazione e della cultura nella Compagnia di Gesù) e poi Giuseppe Marotta, Tullio Kezich, Pietro Bianchi, Sergio Frosali, Pasolini e Moravia e altri. La dolce vita , non seguendo gli schemi di una pura dottrina neorealista e marxista, volando invece nella totale libertà dell'autore (mai schierato), pagò duramente l'attacco che gli venne scatenato dai più oltranzisti. Lo storico del cinema Guido Aristarco in prima fila (al quale Fellini mandò per Natale un biglietto: «Auguri stronzetto!»). Ma, alla fine, vinse lui. Il tempo lo risarcì di ogni offesa. Il pubblico affollò le sale. Fellini si apprestava a diventare tra i più grandi registi che il cinema abbia mai avuto. Quel film aveva aperto la pagina su una nuova era. Un affresco rappresentato con assoluta verità e impressionante sensibilità.

«La dolce vita» e la distanza di pensiero tra Fellini e Flaiano. Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 su Corriere.it da Aldo Grasso. Steiner si rivolge a Marcello con una battuta tipica di Ennio Flaiano: «Io sono troppo serio per essere un dilettante, ma non abbastanza per diventare un professionista». A 60 anni esatti dalla Palma d’oro, Rai Movie ha trasmesso La dolce vita per inaugurare il ciclo «Federico Fellini, realista visionario». Più passa il tempo, più si rivede il film e più la distanza tra Fellini e Flaiano prende corpo. Non tanto per lo sgradevole incidente che avrebbe rotto il sodalizio (il famoso viaggio in aereo a Los Angeles che vede Fellini seduto in prima classe con Angelo Rizzoli e Flaiano in economica), quanto perché tra i due c’era una profonda distanza culturale che, tra le pieghe, il film lascia trasparire.

Ne La solitudine del satiro, Flaiano scrive: «Sto lavorando, con Fellini e Tullio Pinelli, a rispolverare una nostra vecchia idea per un film, quella del giovane provinciale che viene a Roma a fare il giornalista… Il film avrà per titolo La dolce vita… Uno dei nostri luoghi dovrà essere forzatamente via Veneto... Il giovane provinciale è già ben piazzato, guadagna, e uno di quei giornalisti prodotti dalla civiltà della sensazione, cioè racconta gli scandali, le fesserie che fanno gli altri. Si è lasciato adottare da quella stessa società che lui disprezza». Ma quando Flaiano vede in proiezione alcune scene del film commenta: «Il gongorismo, l’amplificazione di Fellini nel ritrarre quel mondo di via Veneto fa pensare al museo delle cere, le immagini dei quaresimalisti quando descrivono la carne che si corrompe e imputridisce… Fellini quaresimalista? É un’ipotesi tentatrice». Una delle tante chiavi di lettura del film potrebbe essere proprio questa: il contrasto tra la scrittura barocca, composita, grondante metafore di Fellini e lo stile aforistico di Flaiano, tra il mondo «caricaturale» del regista e quello intellettuale dello scrittore (e del gruppo del Mondo, cui apparteneva).

"La dolce vita", 60 anni fa la Palma d'oro a Cannes. Valeria Ciangottini: "Un film e un set irripetibili". Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 da Rita Celi su La Repubblica.it. L'attrice ricorda il suo esordio nel capolavoro di Fellini in cui interpreta la ragazzina che sogna di fare la dattilografa. "C'erano quattromila giovanissime che volevano quel ruolo. Appena mi ha vista, il regista ha detto subito: "è lei". Il cinema all'epoca era così". Era il 20 maggio del 1960 quando Federico Fellini vinceva la Palma d'oro a Cannes con La dolce vita, il film con Marcello Mastroianni diventato il manifesto dell'epoca, tra paparazzi e star nella Roma di via Veneto. Il finale è su una spiaggia dove il protagonista ritrova la giovane cameriera che un giorno in trattoria gli aveva confessato il suo sogno di diventare dattilografa. Il rumore del mare copre le parole della ragazzina, lui la saluta da lontano e va a raggiungere gli amici. Lei rimane a guardarlo, e su quel sorriso si chiude il film. Valeria Ciangottini aveva 14 anni quando girò quella scena, non sapeva nulla del cinema e degli strani personaggi che ci lavoravano. Per i suoi occhi di adolescente La dolce vita era un film bellissimo, un'esperienza che ricorda ancora con gioia a sessant'anni di distanza. All'epoca non sapeva che il suo volto avrebbe chiuso il film. "Quando abbiamo girato sulla spiaggia, la macchina da presa era abbastanza lontana quindi non mi sono resa conto", ricorda l'attrice. "Quando poi mi sono vista sullo schermo, mi sono impressionata a vedere il mio faccione" dice ridendo. Il ruolo di Paola, la cameriera umbra, aveva solo due sequenze e quindi ha potuto vivere al meglio il suo debutto cinematografico. "Ho girato solo due scene con Mastroianni e ho frequentato poco il set. Sapevo che c'erano stati dei problemi, però quando ho girato erano ormai gli ultimi giorni di lavorazione. Eravamo alle ultime riprese e l'atmosfera era rilassata, anche molto piacevole. Fellini era una persona stupenda, chiamava tutti con nomignoli, Marcellino, e mi chiamava Paolina, come il mio personaggio, era molto dolce". Valeria Ciangottini è stata scelta tra migliaia di ragazzine. "Era uscito una specie di messaggio sui giornali in cui si diceva che Fellini cercava una ragazzina dai 12 ai 14 anni. Poi lo disse anche in una rubrica di cinema alla Rai e intorno a me tutti mi dicevano che ero la persona giusta e che dovevo provare. Ho convinto mia madre e siamo andate. Appena mi ha vista, Fellini ha detto subito: "è lei". Poi ho fatto comunque i provini e dopo un po' sono stata scelta. C'erano quattromila ragazzine che volevano quel ruolo. Il cinema all'epoca era così". Ricorda ancora la folla alla prima proiezione a Roma e poi a Milano. "A Roma è andata abbastanza bene, i fischi erano pochi rispetto agli applausi, a Milano invece è stato un disastro, fischi, urla, insulti, una cosa vergognosa. Ero sbalordita, io lo trovavo un film bellissimo e il fatto che reagissero così male non riuscivo a capirlo. Era una reazione violenta, esagerata". Dopo La dolce vita ha continuato a studiare e ha iniziato a fare l'attrice girando molti film negli anni 60. È stata diretta da Valerio Zurlini in Cronaca familiare, incontrando di nuovo Mastroianni, e da Roger Vadim in Il vizio e la virtù. È stata anche la fidanzata del figlio di Peppone in Don Camillo monsignore... ma non troppo. "Ho un ricordo bellissimo del set di Fellini, erano tutti dolci e gentili ma non è che sia stato sempre un idillio lavorare nel cinema, però da ragazzina è andato tutto bene. Dopo Vadim ho fatto altri film di respiro internazionale, ho lavorato parecchio in Francia e in Germania, poi ho capito che dovevo fare teatro, avevo voglia di crescere artisticamente. Ho fatto una scuola di teatro e da quel momento in poi quella è stata la mia vita". È stato comunque un debutto travolgente per la giovanissima Ciangottini. "La dolce vita è stato un film folgorante a livello internazionale, c'erano proiezioni continue dalla mattina all'una di notte, sempre con la fila ai botteghini. Un esordio così, oggi sarebbe impensabile, però speriamo che capiti di nuovo alla prossima ragazzina cui faccio tutti i miei auguri, perché tutto sommato mi considero una persona fortunata. Quel film è stato un grande trampolino, fondamentale anche nelle mie scelte successive: aver fatto l'attrice per tutta la vita mi dà gioia, sono contenta per quello che ho fatto".

Prefazione di Milan Kundera a “Dizionario Intimo” di Federico Fellini (Piemme), pubblicata da “la Repubblica” il 5 novembre 2019. Il mio amore per i film di Fellini è senza limiti. Il nome di Fellini è sempre grande, ammirato, celebre, è diventato perfino un simbolo. Amarcord è stato tuttavia il suo ultimo film la cui bellezza poetica ha messo tutti d' accordo. Poi l' immaginazione di Fellini si è scatenata ancora di più e il suo sguardo si è fatto ancora più acuto: la sua poesia è diventata antilirica, il suo modernismo antimoderno. I sette film dei suoi ultimi quindici anni sono stati un ritratto implacabile del mondo in cui viviamo. Il Casanova, l'immagine di una sessualità esibita, condotta fino ai suoi limiti estremi, grottesca; Prova d' orchestra ; La città delle donne ; E la nave va, un addio all' Europa la cui nave, accompagnata da alcune arie operistiche, se ne va verso il nulla; Ginger e Fred; Intervista, grande addio al cinema, all'arte moderna, all' arte in generale; La voce della luna, addio finale. Nel corso di quegli anni, irritati dalla sua estetica molto esigente e dallo sguardo disincantato che poneva sul mondo contemporaneo, i salotti, la stampa, il pubblico e anche i produttori se ne sono allontanati; non dovendo più nulla a nessuno, Fellini allora assapora la «gioiosa irresponsabilità» lo cito «di una libertà fino a quel momento sconosciuta». Qualche giorno fa io e mia moglie Vera abbiamo rivisto Intervista . Alla fine del film ci siamo detti: «Sapeva già tutto». L' ultimo periodo dell' arte di Fellini ha rappresentato la vetta delle vette, la fusione del sogno e della realtà di cui sognavano i surrealisti. Fellini l' ha realizzata nei suoi ultimi film con una forza incomparabile, effettuando allo stesso tempo un' analisi lucidissima del mondo contemporaneo. I film di Fellini dell' ultimo periodo rappresentano l'apice dell' arte moderna, l' immagine più rivelatrice che conosco del nostro mondo così com'è. Negli ultimi decenni, dopo Picasso, dopo Stravinskij, dove possiamo trovare un' opera più bella, di un' immaginazione più potente? Dove possiamo trovare un'opera più importante in grado di interrogare, domanda dopo domanda, tutto il destino europeo, le viscere stesse di questo destino? Quando ho saputo che Fellini aveva deciso di girare America di Kafka, ho avuto la strana impressione di una sorpresa che non era tale: la cosa mi è parsa tanto inattesa quanto logica e necessaria. Infatti, solo Fellini poteva, grazie alla sua interpretazione, svelare in modo brutale l'essenza (sempre trascurata, elusa, non compresa) della grande rivoluzione estetica di Kafka: la liberazione radicale dell' immaginazione che, con la facilità del sogno, trasgredisce tutte le regole della verosimiglianza. L' arte moderna, per me, è la storia di questa immaginazione, che Fellini ha condotto verso cime inaccessibili (e forse verso il suo compimento, il suo compimento orgiastico).

Maurizio Porro per il “Corriere della Sera” il 13 dicembre 2019. Oltre a essere un regista che ha rivoluzionato il modo di far cinema, che è diventato un aggettivo e un sinonimo di qualità italiana nel mondo, oltre a essere l' artista di 8½ , film che ha portato al massimo livello espressivo i mezzi artistici del cinema, come Joyce e Proust che fingeva di non aver letto, oltre a essere colui che divise l' Italia in due a parlare della Dolce vita (non si può credere cosa fu l' uscita di quel film), Federico Fellini era anche un uomo di grande spirito, di umorismo raffinato e profonda gentilezza, il meno vanitoso che abbia calcato Cinecittà e dintorni, il genio che più amava nascondersi. Forse consapevole, ma lo teneva per sé. Ma 8½ è un film che non riesce a fare, come Proust nella Recher che arriva all' ultima pagina per dirsi pronto. Casi junghiani di sincronicità. Sono invitato ad andare sul personale e confesserò quindi che col Fellini che ho conosciuto io, per caso un pomeriggio molestandolo al teatro Nuovo per un' intervista laggiù nel '72 o giù di lì, finendo per accompagnarlo a un appuntamento stipandolo nella mia non linda 500, era arduo parlare dei suoi film. Sorrideva, scantonava, assentiva, ma era anestetizzato di fronte a qualunque elogio. Io lo tormentavo su come 8½ potesse cambiare la vita e il mio modo di vedere il cinema, ripetendo un rosario di complimenti che sapeva a memoria, ma a lui piaceva parlar d' altro. Parlava come nessuno, l' accostamento e la scelta dei vocaboli erano personali e originali, faceva dell' impressionismo col linguaggio, disegnava con parole e aveva ragione Orson Welles che nella Ricotta dice: «Egli danza». Gli piaceva andare a zonzo in auto senza meta, gustare il famoso risotto giallo, assaggiare piatti, sguardi, stare al riparo dalla popolarità usa e getta, sentirsi a casa. Era curioso di tutto, venne una sera nello stupore di una platea rockettara a vedere Rocky horror picture show , nel defunto cine teatro Cristallo, e sembrava un musical sulle sue misure immaginifiche. E raccontava di Rol e dei suoi prodigi di sdoppiamento, sempre con humour e quando era con la Masina parevano proprio la coppia italiana medio borghese, quanto di più lontano in realtà fossero. Naturalmente amava, quando nascevano per caso, chiacchierando, i ricordi e ne aveva pronti all' uso alcuni magnifici, sulla sua prima esperienza all' opera, col timpano offeso da un acuto, mentre stava in braccio a papà (magari era meno grave, ma lui era spettacolo) e di ritorno dal Giappone era sconvolto perché «in un dischetto non ci crederai ci sono tutti i miei film». Lo portai una sera, lui e Mastroianni, a sfogliare vecchi programmi di teatro, trovando non a caso quelli di Zio Vanja e del Commesso viaggiatore , spettacoli di Visconti interpretati dal suo, nostro, attore preferito. Fu un irresistibile inseguimento di memorie e aneddoti che restituivano il sapore dello spettacolo nel suo farsi e tramandarsi, il quotidiano del corpo del mestiere, qualcosa che andava oltre qualunque professorale giudizio di merito che sta dall' altra parte della barricata. Ridevano come bambini. Fellini era sempre il primo a fare gli auguri a Natale, anche in orario da insonne cronico come quando telefonava per raccomandare un libro che magari aveva letto durante la notte (ricordo la Tamaro) e mi pento di non aver conservato un suo affettuoso messaggio dall' ospedale: cancellai il nastro per portargli fortuna, ma dovevo capire che era quasi un salutino in finale di partita. Ripensando ai film, credo che Fellini sia stato davvero un profeta, nel senso biblico del termine. Nella Dolce vita aveva intuito senza sentenze tutto il peggio che sarebbe arrivato, dalla moda dei paparazzi (una delle tante parole finite nei dizionari) quindi della vita rubata, fotografata e virtuale, alla teocrazia dell' immagine televisiva alla crisi dell' intellettuale, allo strapotere della cronaca, a quello del sesso. Ma soprattutto in quasi tutti i suoi film c' era la richiesta gentile di fare un po' di silenzio. È l' ultima battuta della Voce della luna ma già prima ci aveva avvertito, inascoltato. Era profetico il suo sguardo sul mondo, quando aveva anticipato la guerra balcanica nella Nave va , le moto selvagge in corsa alla fine di Roma , l' amore con la ballerina meccanica robot in Casanova , nel Bidone i trafficoni diventati di moda; quando scopriva facce sconosciute (Nico, la musa di Warhol nella Dolce vita , dove c' era anche Celentano, Pina Bausch nella Nave ) e quando chiedeva appunto di ascoltare solo il rumore dentro, quello che lui riusciva a esprimere nelle immagini di un suo rumoroso e inimitabile teatrino.

Federico Fellini, 100 anni fa la nascita: oggi è un genio del nostro tempo, ma all’epoca gli diedero del «grossolano»...Pubblicato sabato, 18 gennaio 2020 su Corriere.it da Paolo Beltramin e Maurizio Porro. Un’intervista inedita a Tullio Kezich, grande critico del “Corriere”: “Per anni fu osteggiato dai marxisti, poi dalla destra e dai cattolici”. Tra le poche voci fuori dal coro, Montanelli. «Questa non l’ho mai raccontata a nessuno», mi scrisse a un certo punto, «ma è una storia proprio divertente...». I fogli con le risposte battute a macchina mi arrivarono dentro una busta. Era il 2002 e Tullio Kezich, il grande critico cinematografico del Corriere che sarebbe scomparso nel 2009, aveva accettato di farsi intervistare da me, giovane studente dell’Università di Padova impegnato in una tesi in Storia del cinema. A quasi dieci anni dalla morte di Federico Fellini, di cui era stato amico e biografo, Kezich tornò con la memoria agli inizi della carriera del regista. Anni complicati. Perché è facile dire adesso che è stato un gigante del cinema mondiale, forse il più grande di tutti. Allora le cose andarono diversamente. I guai cominciarono già con la prima opera tutta sua, Lo sceicco bianco. «Un film talmente scadente per grossolanità di gusto, deficienze narrative, convenzionalità di costruzione, da rendere legittimo il dubbio se tale prova di Fellini regista debba considerarsi senza appello» (Nino Ghelli, Bianco e nero, settembre-ottobre 1952). Ma il vero disastro fu La strada: l’autore «non si è reso conto nell’involucro della sua decantata solitudine, di aver portato, con questo suo film, l’attacco più a fondo, dall’interno, al realismo cinematografico italiano. E per realismo intendiamo umanità, solidarietà, affetto e interesse per la vita, senso di responsabilità nel contribuire, con l’arte, alla comprensione dei nostri simili» (Ugo Casiraghi, l’Unità, 8 settembre 1954). Meno male che con La strada Fellini avrebbe vinto il primo dei suoi cinque Oscar. Poi arrivò nelle sale Il bidone. «L’assurdità della trama, la narrativa sghemba e slegata, la volgarità dei fatti rappresentati si sommano in un’opera totalmente mancata. Che è tra le più sgradevoli e infelici di tutta la storia della cinematografia» (così Umberto Barbaro, sommo critico di vocazione marxista e tra i fondatori del Centro Sperimentale di Cinematografia, su «Vie Nuove», settembre 1955). Quindi uscì nelle sale Le notti di Cabiria. «Siamo di fronte a caricature di personaggi, caricature di emozioni, simulazioni di poesia» (Corrado Terzi, «l’Avanti!», 12 maggio 1957). Ma a Hollywood è un altro Oscar. La prima della Dolce vita, il 5 febbraio 1960 al Capitol di Milano, finì sui giornali nelle pagine di cronaca. «Un tale mi ha sputato sul collo — raccontò l’indomani Fellini al Giorno — e quando mi sono voltato mi ha gridato in faccia: “Si vergogni! Si vergogni!”». Palma d’oro a Cannes, La dolce vita diventa anche il maggiore successo di pubblico nella storia del cinema italiano. Ma questo è l’editoriale del Secolo d’Italia del 7 febbraio: «Che cos’è dunque questa Dolce vita? Sarebbe facile dire, e dicendo il vero, che è una menzogna e un insulto e, per usare il linguaggio del film stesso, una “schifezza”. Ma questo film merita più paziente attenzione. Perché è un film importante, come è importante un attentato alla nazione, alla società, alla morale». «Basta!», è il titolo dell’editoriale dell’Osservatore Romano l’8 febbraio, primo di una serie di articoli (tutti non firmati) contro il film, scritti secondo alcuni dal direttore, conte Giuseppe Della Torre, e per altri da un collaboratore illustre, Oscar Luigi Scalfaro. Tullio Kezich nel 1960 aveva 32 anni ed era già una firma di peso nel dibattito culturale, oltre che sceneggiatore e commediografo. Durante le riprese della Dolce vita era stato accanto a Fellini praticamente ogni giorno. «Vista la fama di disimpegno che circondava Federico — rifletteva 42 anni dopo —, La strada fu bollato sull’Unità e dintorni come film spiritualista criptocattolico. Del resto anche Miracolo a Milano di De Sica, avversatissimo a destra, fu accolto con sospetto da una certa sinistra in quanto pareva che le favole non dovessero avere diritto di cittadinanza nel mondo reale; e che ai sottoproletari si dovesse opporre la figura dell’“operaio cosciente”. I marxisti non capirono che l’opera di Fellini, anche sotto il profilo dei modi di produzione, era filiazione diretta del neorealismo rosselliniano, la loro fu vera ottusità critica. L’opposizione clerico-fascista a La dolce vita ebbe in un altro momento motivazioni più serie: gli scribi della destra sentirono che quel film rifletteva il cambiamento della società che avrebbe visto la fine del potere reazionario e ridicolizzato le smanie di bigotti e nostalgici». Non tutti per fortuna seguivano la corrente. Montanelli dopo aver visto La dolce vita scrisse: «Non siamo più nel cinematografo, qui. Siamo nel grande affresco. Fellini secondo me non vi tocca vette meno alte di quelle che Goya toccò in pittura, come potenza di requisitoria contro la sua e la nostra società». Giudizi indigesti per i critici militanti dell’epoca. «Chi ballava da solo, ispirandosi a esperienze e scelte personali, in quegli anni era guardato con sospetto — ricordava Kezich nell’intervista — : bastava non essere onnipresenti nella campagna delle proteste e delle firme, o non concedersi facilmente alle frequenti mobilitazioni della sinistra o della destra, per venire iscritti d’ufficio nel partito opposto. In ogni epoca il lavoro culturale rischia di impigliarsi nei luoghi comuni: è compito degli artisti veri quello di ignorare o rovesciare i canoni correnti». E la rivalità con Visconti, quanto si detestavano davvero? «Ai tempi la guerra fra Fellini e Visconti fu una cosa seria, con cazzottature e interventi della polizia. Fu uno sfogo di antipatia provvisoria e un gran divertimento per i gazzettieri che ci intingevano il pane. Certo, le poetiche di Federico e Luchino erano agli antipodi, tant’è vero che anche dopo la riconciliazione (sulle prime forse poco convinta, poi caratterizzata da improvvisa stima e affetto reciproco) ognuno restò della sua opinione. Visconti criticava i film di Fellini e Fellini evitava di vedere i film di Visconti; e anche quelli di quasi tutti gli altri colleghi, a eccezione (ma non sempre) di Kurosawa e Bergman». Nel libro «La dolce vita con Federico Fellini», Kezich descrive le riprese della scena della conferenza stampa di Anita Ekberg, girata improvvisando, con veri giornalisti a interpretare se stessi e il regista a inventare domande surreali: «È vero che lei fa il bagno nuda nel ghiaccio?», «Le piacciono gli uomini con la barba?». In realtà le domande le scrisse Kezich. «Sì, non l’avevo mai fatto ma è arrivato il momento di confessare: ero su un praticabile sovrastante il salone dell’albergo ricostruito a Cinecittà, e su richiesta di Fellini improvvisavo le domande annotandole su foglietti che buttavo dall’alto. Divertito come tutte le volte che il lavoro diventava un gioco, Federico leggeva ad alta voce i messaggi e sceglieva quelli che gli piacevano. A un certo punto suggerii di far chiedere a un finto giornalista: “Per Cinema Nuovo: il neorealismo italiano è vivo o morto?”. Federico chiese ad Anita di restare perplessa, consultarsi smarrita con l’interprete, e dopo l’imbeccata (“Say: alive!”) rispondere intensamente: “Oh... alive!”».

Marco Giusti per Dagospia il 25 gennaio 2020. Mai sentito parlare di un film intitolato I cavalieri del deserto? Aveva anche altri titoli, Gli ultimi tuareg, I predoni del Sahara, i predoni del deserto… Girato in piena guerra, nell’autunno del 1942 da non si sa bene chi tra un gruppo di non registi come Osvaldo Valenti, doveva essere la sua opera prima, e il montatore Gino Talamo. Ma, forse, si dice, pare, anche da un giovanissimo Federico Fellini, che firma il film come sceneggiatore assieme al prestigioso  “Tito Silvio Mursino”, anagramma guarda un po’ di Vittorio Mussolini, cioè il figlio del Duce, che del film è anche produttore come direttore dell’A.C.I., società specializzata soprattutto in film di propaganda militare, come è direttore, da pochissimo, del Centro fotocinematografico della Real Aeronautica, che fornirà supporto aereo per riprese e spostamenti. Fellini lavora, tra il 42 e il 43, proprio all’ufficio soggetti dell’A.C.I. di Vittorio Mussolini. E’ lì che conosce per la prima volta Roberto Rossellini, già co-sceneggiatore di Luciano Serra Pilota di Goffredo Alessandrini, del 1938, e regista, proprio nel 1942, di Un pilota ritorna, prodotto dall’A.C.I., sceneggiato da Michelangelo Antonioni e Massimo Mida da un soggetto di Tito Silvio Mursino alias Vittorio Mussolini. In pratica tutto il grande cinema italiano del dopoguerra lavorava per Vittorio Mussolini su film di propaganda militare. Siamo in guerra, e, dopo anni di telefoni bianchi e di commedie più o meno riuscite, sono lo stesso Mussolini padre assieme al ministro della cultura Alessandro Pavolini, a chiedere film di propaganda, anzi “tutto un cinema di guerra o per meglio dire in guerra. In guerra cioè con gli ebrei di Hollywood, con l’asservimento pellicolare per cui maniere di vita a noi estranee si imponevano a casa nostra attraverso gli schermi” (“Corriere della Sera, 13 febbraio 1942). Ecco così che il cinema italiano, attraverso soprattutto l’A.C.I. e la figura di Vittorio Mussolini, si scatena con storie di piloti e marinai coraggiosi o con film anticomunisti o antiamericani. Cosa che non aveva fatto prima. Già alla Mostra di Venezia nell’agosto del 1942, troviamo parecchi film di propaganda, da Noi vivi di Goffredo Alessandrini a Bengasi di Augusto Genina, lanciato come “grande affresco propagandistico” e vincitore della Coppa Mussolini, ma ci sono anche I tre aquilotti di Mario Mattoli con un giovane Alberto Sordi, dedicato ai cadetti dell’aeronautica, sempre su soggetto di Tito Silvio Mursino alias Vittorio Mussolini che è anche produttore con l’A.C.I. Lo stesso Vittorio è il supervisore anche di Gente dell’aria diretto da Esodo Pratelli, prodotto dalla Cines e ideato prima da Mussolini padre in persona, poi, caduto il figlio pilota Bruno (7 agosto 1941), attribuito come ideazione e sceneggiatura proprio a lui. Insomma. All’interno dell’A.C.I., tra tanti progetti e film di propaganda militare di un gruppo di grandi futuri cineasti, ma un po’ imboscati in questo ufficio soggetti in Via Francesco Crispi a Roma, nel 1942 parte anche questo strampalato progetto tratto da un romanzo di Emilio Salgari e sceneggiato dal giovane Federico Fellini e da Tito Silvio Mursino alias Vittorio Mussolini. Sul listino dell’A.C.I., 1 luglio 1942, il titolo è I predoni del Sahara, la regia è di Roberto Rossellini, che se la scampa andando a girare altro, i protagonisti sono Adriana Benetti e Folco Lulli. Ma giò al 4 luglio 1942, con lo stesso titolo, la regia passa a Paolo Moffa, un modesto tuttofare che seguiterà a fare film avventurosi anche nel dopoguerra e, infine, ma siamo già al 25 settembre del 42, allo stesso protagonista Osvaldo Valenti, che è già in Libia assieme alla sua compagna e coprotagonista Luisa Ferida, a attori come Guido Celano, Luigi Pavese, Piero Lulli e al pugile Erminio Spalla. Ma ci sono anche il direttore di produzione Luigi Giacosi, responsabile anche dei precednti film di guerra dell’A.C.I. Notizia subito smentita sul “Corriere” del 26 settembre dove il film viene attribuito al montatore Gino Talamo. Nell’ottobre ’42 diventa Gli ultimi Tuareg e il 25 novembre, leggiamo sulla rivista “Cinema”, che col titolo I cavalieri del deserto (Gli ultimi tuareg), dopo un mese di riprese in Libia, il film ha spostato il suo set in italia per proseguire le riprese degli interni nello stabilimento dell’A.C.I. della Farnesina a Roma. Sarà vero? Mah…Guido Celano, uno dei pochi a sapere la storia, che nel film faceva il capo dei Tuareg, padre della Ferida, racconta in “Cinecittà Anni Trenta”, al critico Francesco Savio, figlio di Corrado Pavolini, parte della storia in altro modo. Intanto Valenti non era in grado di fare la regia, che era passato di mano in mano fino al montatore del film, Gino Talamo. “Poi Talamo si ammalò, anzi ebbe un incidente automobilistico… e allora tra me e Valenti cercavamo di fargli fare la regia a Fellini”. Fellini, pensiamo con quanta voglia, parte per Tripoli pronto a diventare regista e salvare il film. Perché lo fa? Ce lo ricorda Tullio Kezich nella sua biografia di Fellini: “solo per ottenere l’ennesima proroga dal richiamo alle armi: dovendo ormai raggiungere il reparto sul fronte greco, sceglie l’alea non meno inquietante di un volo in Africa con un aereo della LAI in partenza dall’aeroporto Salario”. Così scende a Tripoli accolta da Luigi Giacosi come un salvatore. Ma Tripoli è bombardata giorno e notte. “La troupe”, scrive Kezich grazie ai ricordi di Fellini”, dovrebbe girare nel deserto a una ventina di chilometri, ma passa la maggior parte del tempo nei rifugi sotterranei del Grand Hotel. La Ferida incinta è in preda a crisi isteriche, Valenti si consola con la cocaina e Celano si esercita a fare l’irlo dello sciacallo. I registi sono diventati tre: l’ex montatore Gino Talamo, un certo Barboni e l’organizzatore generale Franco Riganti che non ha perso la speranza di salvare il film”. Fellini comunque qualcosa gira, almeno nei ricordi di Celano. “Venne a girare le prime scene… Facemmo questa roba di fantasia con i cavalli, con gli arabi, con me”. Ma, a parte bombe e cannoni che si fanno sentire tutti i giorni, manca la pellicola, infuria il ghibli, gli inglesi sono “a venti centimetri”, come ricordava Fellini, e  Giacosi, non reggendo più la situazione, va dal generale Bastico, al comando di Tripoli che gli dice che devono andar via perché sono sbarcati gli Americani a Bona. Si prepara la fuga. Rapidamente. Ma nell’ultimo aereo per Roma da Tripoli, che cadrà nel gennaio ’43, ci sono solo 26 posti. Non bastavano per tutti. Fellini, Celano, Giacosi e un ispettore di produzione si rifiutano di partecipare a un sorteggio su chi si doveva salvare e restano a terra. Prenderanno un aereo militare tedesco. Ma fu un viaggio disastroso. Ricorda Celano: “gli Spitfires mitragliavano e noi dovevamo volare a fior d’acqua”. Sul momento Fellini “si rammarica solo di aver abbandonato in Africa un carico di ciabatte di pelle, braccialetti e tappeti comperato per rivenderlo a Roma”. I quattro vengono sbarcati dai tedeschi a Castelvetrano, in Sicilia, e lì parte una nuova avventura, perché il viaggio dura un’enormità e si svolge in un’Italia in piena guerra dove è quasi impossibile muoversi. Solo da Reggio Calabria a Roma ci vogliono dieci giorni di viaggio. Un po’ di questa non così eroica avventura la racconterà lo stesso Fellini il 14 novembre del 1942 sulle pagine del “Marc’Aurelio” in un articolo intitolato “Il primo volo”, che inizia più o meno così: «….Volavo, ero in cielo, e le case, le strade, gli amici, la macchina da scrivere, il giornale, voi tutti restavate piccini e dimenticati su questa cosa rotonda che si chiama terra».. Curiosamente, e non posso che dare ragione a Tullio Kezich, tutta la situazione del film continuamente interrotto e l’aereo dove è possibile morire da un momento all’altro, sembrano quasi la fonte dell’ispirazione per il grande progetto mai realizzato di Fellini, Il viaggio di G. Mastorna. Di tutto il cast, solo Guido Celano era rimasto a raccontare la storia. Osvaldo Valenti e Luisa Ferida moriranno fucilati a Milano dai partigiani il 30 aprile del 1945. Gino Talamo diresse altri tre film, ma in Brasile, per poi tornare il Italia nel 1959. Il direttore della fotografia, Angelo Jannarelli figura nel 1945 tra gli operatori di Giorni di gloria, il documentario sulla Liberazione girato da Giuseppe De Santis, Luchino Visconti, Mario Serandrei e Marcello Pagliero. Fellini, tra il 1942 3 il 1943, ha occasione di lavorare come sceneggiatore a una serie di film che verranno più o meno interrotti e malamente ripresi. Quanto a I cavalieri del deserto non se ne è saputo più niente. Nessuno lo ha visto perché, come pensa Tatti Sanguineti, non si è mai finito. Probabilmente nel viaggio, assieme alle ciabatte di pelle di Federico sono state scordate anche le pizze di pellicola del girato a Tripoli e dintorni. 

Andrea De Carlo per lastampa.it il 6 novembre 2020. È interamente dedicato a Federico Fellini, nel centenario della nascita, il numero di novembre di Linus, in uscita lunedì prossimo. Nella rivista - oltre a disegni, fumetti e testi inediti del regista (tra cui un progetto sull’Inferno dantesco, reinterpretazione in chiave comica delle proposte che gli arrivavano di continuo da parte dei produttori americani per convincerlo a trasformare la Divina Commedia in un kolossal hollywoodiano), un contributo di Andrea De Carlo, che nel 1983, poco più che trentenne, gli fece da assistente per il film del 1983 E la nave va. Ne anticipiamo un ampio stralcio. La preparazione di E la nave va si era rivelata un processo lunghissimo, perché mettere insieme un film di Fellini era estremamente complicato, oltre che costoso da far paura. La sua scarna sceneggiatura iniziale di poche decine di pagine si arricchiva giorno dopo giorno di annotazioni, appunti, schizzi a matita e a pennarello, disegni più elaborati, fotografie che si allineavano su un tabellone di sughero appeso a una parete del suo ufficio al primo piano del Teatro Cinque, il più grande di Cinecittà, dove lui aveva girato gran parte dei suoi film. [...] Per identificare gli attori del suo film Fellini si basava su sogni, disegni, chiacchierate con collaboratori e amici, convocazioni, segnalazioni di agenzie, consultazioni con maghi, viaggi di ricerca. Lo stesso processo discontinuo ma inarrestabile valeva per le scenografie, i costumi, le musiche. I costi dell’impresa salivano di giorno in giorno con il mutare delle sue idee, i produttori alternavano distacco a fatalismo a pessimismo nero. Le giornate della preparazione si dilatavano tra discussioni convulse, liti, distrazioni, perplessità, telefonate interrotte da escursioni in carovane di macchine verso un ristorante dei Castelli Romani, dove la nostra corte felliniana consumava pasti interminabili. A un certo punto avevo calcolato con sgomento che tra pranzo e cena passavamo ogni giorno dalle cinque alle sei ore seduti a tavola; d’altra parte la tavola era uno dei luoghi in cui Fellini si dedicava più volentieri all’arte del racconto, rielaborando vecchie storie e creandone di nuove, mescolando verità, immaginazione e bugie con stupefacente, inarrestabile capacità affabulatoria. Ho continuato a fargli da assistente e testimone per mesi e mesi, mentre la sua idea di cosa dovesse essere E la nave va continuava a evolversi e le costruzioni andavano avanti. Il set principale consisteva nel ponte di una nave a grandezza naturale montato su quattro giganteschi pistoni idraulici costruiti in Svezia, che lo facevano rollare e beccheggiare come il ponte di una nave vera. I produttori avevano tentato in tutti i modi di convincere Fellini che sarebbe stato infinitamente più semplice muovere la macchina da presa invece dell’intera scena, ma lui era irremovibile, continuava a ripetere che solo un ponte rollante e beccheggiante avrebbe dato agli attori la sensazione di essere su una nave. Il che era paradossale, considerando quanto poco gli importava delle sensazioni degli attori, e quanto poco realistica fosse la rappresentazione della crociera funebre che aveva in mente, con un cielo finto e un mare di plastiche azzurre smosse dagli attrezzisti per simulare le onde. In realtà lo divertiva avere a disposizione un giocattolo gigantesco, che forse avrebbe potuto suggerirgli idee interessanti e inaspettate. L’ispirazione dell’ultimo minuto e l’improvvisazione erano fondamentali nel suo modo di fare film: utilizzava attori, comparse, scenografie, luci come un pittore che afferra pennelli e colori a seconda dell’estro del momento. Mi ricordo il suo sguardo trionfante e beffardo quando l’ho visto per la prima volta lassù in alto, appoggiato al parapetto del ponte della finta nave raggiungibile solo con una lunga scala retrattile su cui dovevano avventurarsi ogni volta tecnici, attori e comparse. Non ho idea di come fosse stato possibile assicurare un set così assurdamente pericoloso, ma quando si trattava di Fellini c’era sempre la possibilità di un’eccezione alle regole. Il cast non avrebbe potuto essere più eterogeneo, una miscela di tipi strani e mezzi matti che si presentavano a ogni convocazione, gente presa dalla strada, professionisti collaudati, attori di nome trovati attraverso le più importanti agenzie europee. I raffinati interpreti inglesi del teatro di Shakespeare oscillavano tra sgomento e incredulità quando si rendevano conto di non avere quasi battute da imparare a memoria, e di dover recitare insieme a personaggi scelti unicamente in base al loro aspetto, a cui Fellini faceva pronunciare numeri perché muovessero le labbra. Del resto per lui gli attori erano soprattutto facce e corpi, maschere da usare nella sua commedia: la loro abilità era quasi irrilevante, tutti sarebbero stati doppiati a montaggio finito. Bastava che riuscissero a replicare i gesti e le espressioni che lui mimava durante le riprese, mentre gridava «Guarda in su, guarda in là, in là! Gira quella capoccia, sorridi, sorridi!». Una volta mi aveva fatto vedere un disegno in cui si era ritratto come un gigantesco burattinaio che teneva appesi ai fili sua moglie Giulietta e Marcello Mastroianni. Ogni cambio di scena richiedeva laboriosi, lentissimi spostamenti dei riflettori da migliaia di watt attaccati alle impalcature. Attori e comparse scivolavano nel vuoto di attese interminabili, vestiti e truccati in modo da non essere più sé stessi, e restavano in quello stato di sospensione fino al momento in cui Fellini li avrebbe richiamati in vita, mentre meccanici ed elettricisti si indaffaravano e il direttore della fotografia inseguiva la luce giusta. A seconda dei giorni e dei momenti il set era un circo, un teatro dell’arte, un sogno guidato, un incubo, un luogo di psicodrammi, un contenitore di rivelazioni miracolose. Al centro c’era sempre lui, con il suo cappello, la sua sciarpa, il suo grande cappotto e il megafono in mano, come un domatore che tiene a bada i leoni con la frusta, come un Nerone che suona la lira mentre Roma brucia, come un compagno di viaggio illimitatamente comprensivo, come un dio greco che passa con naturalezza assoluta dalla benevolenza alla crudeltà, stupito lui stesso del suo potere sugli altri e dell’attenzione che suscitano le sue azioni, assorto in quello che fa e distaccato, tremendamente serio e sempre pronto a una battuta smitizzante, pronunciata a bruciapelo con il più straordinario senso del tempo. 

«Amarcord Fellini», un alfabeto visionario. In viaggio nell’universo di Federico Fellini con il libro di Iarussi: ne pubblichiamo la premessa per gentile concessione dell’Editore. Oscar Iarussi il 18 Gennaio 2020. È nelle librerie per i tipi del Mulino, «Amarcord Fellini. L’alfabeto di Federico» del giornalista e critico cinematografico della «Gazzetta». «Il visionario è l’unico vero realista». È un magnifico paradosso di Federico Fellini, come la sua esistenza affollata di incontri e ricca di onori, eppure segnata dalla solitudine di una perenne ricerca: nello specchio dell’infanzia e nei labirinti del desiderio, non meno che nella realtà quotidiana di un’Italia in radicale trasformazione che egli fu tra i pochi a saper cogliere e raccontare in divenire. Un’opera, la sua, spesso incompresa o avversata, puntualmente equivocata sotto il segno della presunta nostalgia goliardica, laddove invece illumina il presente o addirittura capta il futuro. Un’opera, infine, prepensionata dal mercato cinematografico, non più interessato a produrla. Fellini nasce a Rimini il 20 gennaio 1920 e muore a Roma all’età di 73 anni, il 31 ottobre 1993. Era il giorno dopo il cinquantesimo anniversario delle nozze con Giulietta Masina, che sarebbe mancata solo pochi mesi più tardi, il 23 marzo 1994.

«Dolce come Verlaine, come Beatrice

e maledetto come James Dean

casto della purezza di Euridice

intelligente come Rin Tin Tin.

M’han detto che era morto, ebbi uno shocche

come se fosser morte le albicocche».

Fellini come le albicocche: frutto della terra, dono della natura, delizia dei sensi. È la chiosa del poetico commiato di Roberto Benigni, cui Federico il Grande consegna una sorta di lascito testamentario chiamandolo a interpretare, nel 1990, il personaggio di Ivo Salvini in La voce della luna: «Eppure credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire...». Un invito a tacere tanto profetico quanto disatteso, considerando il caos e la mancanza di pudore che oggi imperano. L’autore italiano più amato nel mondo, vincitore nel corso del tempo di cinque premi Oscar, è stato un raffinato antropologo del Novecento nel suo farsi e disfarsi. Egli colse la prevalenza dell’abnorme, del beffardo, del bizzarro, di un onirismo/onanismo di massa che discende dal «virus dannunziano» diagnosticato da Alberto Savinio o dal fascismo come eterna adolescenza (vedi Amarcord), una tentazione con ogni evidenza mai sopita. Tale primato del grottesco scandisce il progressivo – meglio, regressivo – declino di una società invecchiata e impecorita, rassegnata e stanca, forse paga del ricordo o della pallida imitazione, spesso parodistica, della sua fioritura leggendaria nelle stagioni del boom anni Sessanta, ovvero della Dolce vita. D’altronde, Fellini per il suo Casanova (1976) sceglie quale protagonista il canadese Donald Sutherland – «un candelone spermatico», lo definisce –, scatenando discussioni a non finire sulla presunta lesa maestà del Grande Seduttore veneziano. Si radicalizza allora la vena funerea di Fellini, più palpabile in Prova d’orchestra (1979), concepito all’indomani dell’omicidio dello statista democristiano Aldo Moro per mano delle Brigate rosse, in cui il Nostro e il compositore Nino Rota tessono l’apologo dell’innocenza perduta di un paese che non riesce più ad accordare i suoni e i toni. È la prima elegia di un «lungo addio» visionario: E la nave va, Ginger e Fred e La voce della luna. Fellini aveva indovinato tutto dell’Italia entrata nel terzo millennio, come se fosse il terzo secolo avanti Cristo: all’insegna del fescennino in salsa «bunga bunga» (il Fellini Satyricon tratto da Petronio è del 1969). Un gigantesco passatempo da Bar Sport on line «per legioni di imbecilli» – disse Umberto Eco – scandisce questa deriva, che Silvio Berlusconi ha interpretato per primo con l’irruenza mercantile e la libido senile che sappiamo. Poi, sono arrivati i giovanotti. Fellini confidava sardonico e rassegnato: «Mio babbo voleva che facessi l’avvocato e mia mamma sperava che facessi il dottore, ma io ho fatto l’aggettivo: il felliniano». Eppure, Federico non fu mai felliniano, a dispetto del talento da neologista: vitellone e paparazzo, dolce vita e amarcord. Anzi, Fellini tentò di sottrarsi allo stereotipo di situazioni e personaggi caricaturali, eccessivi o carnascialeschi. Caso mai satireggiava le macchiette erotomani e le signore prosperose da Anita Ekberg alla Saraghina, dalla Tabaccaia alla Gradisca, sebbene con la tenera complicità che, per altri versi, riservava alla Masina. Fanno testo le quattro lettere inedite di Federico alla moglie del 1992, pubblicate nel 2018 da «Famiglia Cristiana»: «Giuliettina mia adorata, sei sempre una ragazzetta in gambissima e insieme con il tuo vecchierello faremo ancora qualche pastrocchio. Con te vicino sono ancora capace di fare capriole. Coraggio». Senza le struggenti invettive di Pasolini contro la modernità e senza alcun moralismo, il Riminese è un lungimirante testimone sul campo delle metamorfosi sociali. Intervistato dall’amico Georges Simenon, Fellini confessa: «In fin dei conti lei e io abbiamo sempre raccontato delle sconfitte. Ma voglio, devo riuscire a dirle... Credo che l’arte sia questo, la possibilità di trasformare la sconfitta in vittoria, la tristezza in felicità. L’arte è un miracolo...». Nella nostra realtà mosaicata, eterogenea, contraddittoria, vige la disperata ricerca di un insieme, di una speranza, di un appiglio contro la solitudine, sì, forse di «un miracolo». Metaforicamente, siamo tuttora sull’ultima spiaggia nel finale di La dolce vita con Mastroianni. Al cospetto del mostro marino arenato, Marcello non riesce a cogliere le parole della ragazzina nel vento e le risponde con un sorriso impotente. Oggi come minimo sarebbe oggetto di una serie di tweet sarcastici con l’hashtag #machestaiadì? Abbiamo cercato le parole per dire di Fellini e di noi rispetto al suo cinema. Una parola-chiave per ogni lettera dell’alfabeto, o quasi, dalla A di Amarcord alla Z di Zampanò. Un «alfabeto di Federico» che non ha pretese di completezza, né mai potrebbe, considerando oltretutto che la vastissima bibliografia felliniana è continuamente alimentata da studiosi di ogni dove. Meno vividi, purtroppo, sono i suoi film agli occhi del pubblico più giovane, ma confidiamo che le iniziative nel centenario della nascita ne favoriscano la conoscenza. Anzi, per cominciare, provate a trovare su YouTube alcune delle scene qui citate e vedrete se non vi assale la voglia di recuperare l’intero film, perché un’opera d’arte è tale solo nella sua integrità (e in certe condizioni di visione, ma questo è un altro discorso). Per ogni voce del nostro dizionarietto portatile abbiamo fatto scelte soggettive, quindi opinabili, guidati dalle suggestioni, dalle emozioni o dai ricordi personali. Un esempio? La lettera K è stata «in ballo» tra Kafka, perché Fellini lo amò e coltivò l’idea di realizzare una trasposizione del suo romanzo incompiuto America (secondo il semiologo Paolo Fabbri in realtà l’ha realizzata, eccome, in Intervista), e Kubrick o Kurosawa, colleghi di pari rango con i quali echeggia talvolta un dialogo a distanza. Ma al dunque la K è di Kezich, critico cinematografico, biografo e amico di Federico, i cui «diari» contribuiscono a guidare lo spettatore nel labirinto... kafkiano delle sue immagini. Ricordiamo però, con Fellini, che il filo di Arianna non è mai uno solo, come nella vita quotidiana del nostro tempo così incerto. Anche nel corpo delle singole lettere dell’alfabeto abbiamo seguito percorsi non canonici, assecondando ora l’affresco dell’ambiente culturale o lo stralcio storico-sociale; ora l’analisi di una sequenza felliniana poco nota ovvero celeberrima, dal prologo di I clowns all’apparizione del piroscafo Rex lungo il filo dell’orizzonte di Rimini, girata a Cinecittà.

Da “Avvenire” il 18 gennaio 2020. Pubblichiamo la confessione inedita del grande cineasta romano al collega francese Gérald Morin, che di Federico fu aiuto regista «A 18 anni scrissi un film sulla mia giovinezza, però Federico fu più veloce di me e uscì il suo primo capolavoro» Proponiamo in questa pagina due inedite confessioni rilasciate nel lontano 1977 al regista Gérald Morin, storico collaboratore di Federico Fellini, da Sergio Leone e da Alberto Lattuada. Della rivelazione a Morin del cineasta romano, reso famoso soprattutto dai cosiddetti "spaghetti western" e di cui sono appena ricorsi i novantanni dalla nascita e i trent' anni dalla morte, riportiamo qui un ampio stralcio riguardante l' inizio della propria carriera e il primo contatto con il collega riminese. Nell' altro articolo viene riportata, a firma dello stesso Morin, una intervista a Lattuada che con Fellini ebbe una lunga e proficua collaborazione negli anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta. Devo dire che io ho incontrato lui, ma Fellini non ha incontrato me, in quanto la prima volta che l' ho visto, fui invitato da un montatore a vedere, a Cinecittà, La dolce vita. Mi ricordo che uscendo, me lo presentarono. Fu una presentazione fugace, io non avevo ancora fatto niente, ero un giovane aiuto regista, e uscendo mi fermai con la macchina, stavo con mia moglie, davanti all' Istituto Nazionale Luce, dopo aver fatto pochi metri e dissi: «Mio povero Federico, ma che farà d' ora in avanti?», perché ebbi la sensazione, specialmente in quel periodo (oggi forse rivedendolo accusa un po' di tempo), che in quel film c' era tutto; c' erano tutti i concetti, eppure espressi magicamente. Questa era una certa posizione limitativa, in quanto mi sembrava che ci fosse la magia del cinema dentro, tutti i sentimenti, tutte le percezioni, tutti gli umori di quel periodo che attraversavamo. Poi io con Federico ho una certa congenialità, perché lei deve sapere che Federico è in un certo qual modo il primo personaggio che mi ha fatto piangere. Perché io a 18 anni scrissi un film che era il film della mia giovinezza, della mia infanzia, che si chiamava Viale Glorioso, e stranamente questo nome è alle pendici del Gianicolo vicino a Villa Sciarra, dove io ho passato tutta la mia infanzia. Era di una ingloriosità totale, perché c' eravamo mescolati a tutti i ragazzi trasteverini, proprio al milieu, un certo milieu trasteverino, ladri, ecc. ... e facevamo una specie di doppia vita come il Dr. Jekill e Mr. Hyde, a casa e fuori; e quindi scrissi questa storia che era la storia di sette, otto ragazzi, io compreso, autobiografica, che era i Vitelloni a Roma. La scrissi contemporaneamente a lui, ma poi quando la finii, io ero ancora troppo giovane per poter affrontare la regia a quei tempi, e me l' ero riservato come il mio primo film, il film del debutto; invece poi uscì I vitelloni; e ho pianto di rabbia perché poi soprattutto gli umori erano gli stessi, anche se il luogo diverso. C' era dentro tutto, il mio leggermente più drammatico, che finiva con la morte di uno di questi ragazzi, ma l' atto del film era quasi identico. Stranamente, senza conoscerci; nessuno dei due aveva raccontato qualcosa all' altro, dunque senza possibilità di fuga di idee; avevamo pensato tutti e due allo stesso modo di cominciare la carriera.

Natalia Aspesi per “Robinson - la Repubblica” il 17 dicembre 2019. Me lo ricordo il Fellini che incontravo per le interviste, forse ai tempi della Città delle donne o anche prima: un uomo gentile, affettuoso, un tesoro per un giornalista perché evocava cose sorprendenti e l' articolo si faceva da solo: un uomo stanco, grassoccio, seduto in un angolo, con quella vocetta infantile, un fiume fantasioso di parole e di immagini; noi arpie del giornalismo detto chissà perché di costume lo adoravamo per la dolcezza con cui voleva farci credere, ma non lo credevamo, quanto ci stimasse. Ci appariva molto accogliente, piacevole, ma del tutto privo di fascino di quel tipo là, e un po' ne ridevamo, pentendoci subito perché chiunque fossero le femmine vere che accoglieva o spingeva in un letto, o quelle di fantasia che raccontava sullo schermo, i suoi film, una parte dei suoi film, sarebbe stata meravigliosa per sempre. Si può a 27 anni dalla sua morte, nel centenario della sua nascita, in un tempo, oggi, smemorato e capovolto, chiedersi ancora delle sue donne, vere o immaginarie, dopo che negli anni, a ogni occasione ne è spuntata una che si è dichiarata la sua donna, e lui pazzo d' amore, e lei pazza di lui: ne vivono ancora con questa medaglia, signore a cui in passato se si chiedeva, E la Masina?, sempre rispondevano, Contenta. Tutto ormai è evaporato nella leggenda e non conta più, e sono certo più reali le donne della fantasia che quella vere ormai defunte o tuttora parzialmente vegete. Per esempio la Carla di 8 e 1/2, la bionda burrosa e sempre sorridente a cui Guido alzandosi dal letto chiede di fare la faccia da porca, e lei pigola, nella sua adorabile scemenza, voglio scrivere a mio marito; oppure Fanny di Giulietta degli spiriti, amante ideale delle fantasie maschili d' epoca, polposa e un po' ridicola, tutta in bianco con velo come una sposa, ma già in mutande. Oggi, più di mezzo secolo dopo, Sandra Milo, una settantina di film e qualche apparizione sconcertante in tivù tipo Isola dei Famosi, deve la sua gloria ai soli due film con Fellini, l' uomo che è stato il suo distratto amato amante per 17 anni: senza che lei mai lasciasse marito e figli anche se in certe interviste ha sostenuto che a un certo punto lui, marito di ferro della sua Giulietta, le aveva comunque chiesto di sposarlo. Certo i film di Fellini e forse davvero anche la sua vita, sono zeppi di donne, madri, puttanoni, spose, beghine, fanciulle, serve, sante, cori di belle sciocchine maliziose e inafferrabili con i visi vacui incorniciati da meravigliosi e stupidi cappelli: che raccontano l' ossessione italiana e ancor più, forse, romagnola di allora per una femminilità divisa in due: quella di una moglie poco vistosa che ogni giorno all' alba si alza per tirare la pasta fresca e rimestare un indigeribile ragù, mentre su una spiaggia, in una tabaccheria, in un vicolo, in un letto a baldacchino, lo attende ubbidiente e indifferente, una bellissima donna, un corpo sontuoso e muto: oppure una sua degenerazione, una Gradisca, una Gigantessa, una Rosina, una Tabaccaia, una Paciocca, una Saraghina, una mostruosità cattiva e inesistente, due palloni al posto del seno, una montagna al posto del sedere, un viso diabolico: come nei disegni preparatori per i suoi film ( I disegni di Fellini di De Santi, Laterza) che rivelano il disprezzo, e la paura che può suscitare quel costante mistero che è la femmina. Ma poi c' è La Moglie, che è per sempre, che non si cambia, almeno per Federico, e quindi non ha bisogno di quegli orpelli carnali perché il suo ruolo è un altro, vuoi angelo del focolare ma anche mamma inflessibile che ti soccorre, che ti controlla, che ti urla se bevi troppo, se mangi troppo, se un' amante ti ha piantato: non è stato proprio così il ruolo di Giulietta Masina, sposata, tutti e due ventenni, tutti e due emiliano-romagnoli, quando Fellini era ancora magro magro (secondo Alberto Sordi che gli era già amico, per fame) e con una gran capigliatura nera: bello, come una volta accasato è stato per poco, da quasi subito infedele come era ovvio, la moglie però non addomesticata secondo tradizione, sua musa e interprete per i personaggi angelicati, sia di piccola barbona come Gelsomina, sia di ingenua prostituta come Cabiria. E quanto alla fedeltà obbligatoria della Moglie, non ne esistono prove certe, anzi, Roma pullulava in quegli anni, di immensi intrecci di corna. In Anita Ekberg Fellini aveva trovato la splendida rara immagine della bellezza eterna da lui sognata: esuberante, ridente, lattea, dispensatrice di felicità, tutto ciò che una dolce vita può dare, e che rimase gelida nei suoi confronti, giudicandolo dal suo moralismo nordico, un provinciale, una donnetta, un despota, un invidioso, come rivelò in varie interviste. Anche un' altra signora che lui voleva in Casanova, questa volta con sprezzo anglointellettuale lo atterrò in una intervista a Leonetta Bentivoglio: stravaganza felliniana perché Germaine Greer, femminista bellicosa e autrice dell' epocale L' eunuco Femmina, se lo portò a letto tanto per passare una serata o due, rimanendone delusa. «Quando si infila nel letto col pigiama di seta, telefona subito alla moglie mandandole bacini» concludendo dopo una serie di dispregiativi, «di atleti del sesso ce ne sono tanti e a buon mercato». A Roma si sapeva del vero grande amore di Federico Fellini, che lui portava nei ristoranti e ovunque senza che, fantastica ipocrisia italiana, la cosa fosse considerata vera: non un tradimento coniugale insomma, ma una casualità imposta dalle regole della sopravvivenza: per 36 anni Anna Giovannini fu la sua amante segreta, un' altra moglie, la realtà di quell' amore carnale che scorreva come un sogno nei suoi film. Una luminosa bellezza formosa e grande, incontrata casualmente in una pasticceria, che vestita di rosso e molto scollata, lo aveva folgorato per sempre. Era il 1957, dopo Il bidone e Federico non riusciva a liberarsi da una delle sue depressioni. Due anni dopo la morte del regista, la signora che allora aveva 79 anni (4 più di lui) concesse una intervista ad Adele Cambria, per rivelarsi, finalmente: «Federico era molto geloso, non voleva che la nostra storia venisse inquinata dalle chiacchiere». Anche perché il rifugio della passione clandestina gli consentiva un' altra serie di vite senza fastidi: professionale, sociale, di coppia ufficiale e certo di corna. In casa ho trovato questo librino di carta povera e già ingiallita, Caro Federico, edito da Rizzoli nel 1982, sulla copertina azzurra, sotto il solito immenso cappello rosa, occhiali neri e gesto stupidino, Sandra Milo, l' autrice, con probabile ghost writer; quando il suo Fellini, ormai perduto per lei, stava preparando E la nave va. Una specie di romanzo, gentile e spiritoso in terza persona, in cui la protagonista si chiama Selana. A pagina 61: camera da letto di gusto barocco, lenzuola di lino ricamate, lui nudo si stende sul letto, le fa indossare un mantello nero e sotto niente: «Ti senti la castellana che nel buio raggiunge il cavaliere errante che le ha chiesto asilo per la notte? È un cavaliere o uno stregone? Ti amerà o farà un crudele incantesimo? Sì così, fai quella bella bella faccia da porca, mostrami la lingua». Tutte le donne si innamoravano di lui, ricorda Sandra: in ogni caso da quel passato di multiple e roventi passioni, mai un eco di molestie. Insomma contente tutte, più o meno.

Gloria Satta per “il Messaggero” il 24 novembre 2019. L' umanità è condannata ad avere la memoria sempre più corta? Non sembrerebbe: a cent' anni dalla nascita, il mondo intero si prepara infatti a celebrare per tutto il 2020 Federico Fellini scomparso il 31 ottobre 1993 dopo aver firmato film-capolavoro come La strada, Le notti di Cabiria, La Dolce Vita, Otto e mezzo, Giulietta degli spiriti, Prova d' orchestra, La voce della Luna, vinto cinque Oscar (record imbattuto) e segnato l' estetica cinematografica e la cultura del Novecento, in una parola l' immaginario del nostro tempo. L' omaggio-kolossal si snoda in quattro tappe. La prima è il convegno internazionale Ricordiamo il maestro promosso dal Comune di Milano a Palazzo Reale il 20 gennaio 2020, giorno della nascita di Fellini: accanto a intellettuali e cineasti ci sarà Donald Sutherland, l' indimenticabile Casanova felliniano. Seguirà (marzo-dicembre) la mostra itinerante sostenuta dal Ministero degli Esteri in 10 città del mondo: San Paolo del Brasile - dove il Banco do Brasil ha prestato la propria sede - Berlino, Mosca (nel Museo della Musica), San Pietroburgo, Toronto, Tirana, Vilnius, Buenos Aires, Lubiana - dove inaugurerà la Cineteca Nazionale Slovena - Hong Kong. Da settembre a novembre si terrà poi a Palazzo Reale di Milano la monumentale esposizione del centenario Fellini, le donne, i film curata da Vincenzo Mollica e Alessandro Nicosia con Francesca Fabbri Fellini, erede del maestro, e con la collaborazione di Simonetta Tavanti, nipote di Giulietta Masina. C' è poi il libro Federico Fellini - Dizionario Intimo a cura di Daniela Barbiani con prefazioni di Milan Kundera e Pietro Citati, in uscita da Piemme: raccoglie le parole, le espressioni, gli amori e i ricordi del grande regista in 203 voci destinate a restituirne l' immagine sfrontata, geniale, sempre viva.

IL COMITATO. Regista delle celebrazioni del centenario è Alessandro Nicosia, 500 mostre all' attivo in oltre 30 anni di attività e numerosi eventi dedicati proprio al maestro di Rimini: la prima esposizione in assoluto da lui curata a Roma nel 1995 con Mollica e Lietta Tornabuoni, l' omaggio del 2003 al Guggenheim di New York, il tributo ospitato dall' Academy a Los Angeles e quello del Puskin di Mosca. «Il nome di Fellini, che ho avuto il privilegio di conoscere, suscita tuttora un' enorme emozione nel mondo intero», spiega Nicosia che ha riunito per l' occasione un comitato di eredi, amici ed estimatori del regista in cui spiccano i nomi di Milo Manara, Giuseppe Tornatore, Rosita Copioli, Citati, Kundera, Mario Longardi, Sutherland, Milena Vukotic, Fiammetta Profili, Carlo Patrizi. E aggiunge: «Organizzare oggi, con l' amico fraterno Mollica, le celebrazioni del centenario significa mantenere viva la memoria del regista e farlo conoscere ai giovani che, nell'era di internet e della cultura usa-e-getta, rischiano di dimenticarlo».

I DOCUMENTI. Molti saranno gli inediti della mostra in programma a Palazzo Reale e incentrata su disegni, schizzi, documenti, fotografie, molte delle quali scattate da Gideon Backman, frammenti di film mai montati, oggetti di scena, manufatti, indumenti, curiosità. Tra le chicche, il disegno che il regista regalò all' amico Giulio Andreotti per i suoi 70 anni, il pianoforte verticale di casa Fellini su cui Nino Rota accennava le sue celebri colonne sonore, i biglietti di auguri spediti da Federico alla nipote e i ritratti degli amici, le immagini del futuro genio del cinema da bambino con i fratelli Riccardo e Maddalena. Si vedranno per la prima volta anche alcuni spettacolari costumi confezionati da Danilo Donati per Casanova (e ci sarà una grande testa di cartapesta realizzata per il film) nonché le mutandine e i reggiseni indossati dalle interpreti de La città delle donne e restaurati per la mostra. Ciliegina sulla torta, i disegni che Fellini e Charles M. Schultz si scambiarono in occasione della mostra organizzata a Roma nel 1992 da Nicosia in onore del padre dei Peanuts di cui il regista era un fervente estimatore. Tanto da esclamare, osservandolo disegnare in una saletta dell' Hotel Hassler: «Mi sento come quel piccolo manovale che guardava Michelangelo mentre dipinge la Cappella Sistina».

Dagospia il 24 novembre 2019. Estratto della prefazione di Milan Kundera a “Dizionario Intimo di Federico Fellini” a cura di Daniela Barbiani (Piemme). Il mio amore per i film di Federico Fellini è senza limiti. L' ultimo periodo dell' arte di Fellini ha rappresentato la vetta delle vette, la fusione del sogno e della realtà di cui sognavano i surrealisti. Fellini l' ha realizzata nei suoi ultimi film con una forza incomparabile, effettuando allo stesso tempo un' analisi lucidissima del mondo contemporaneo. I film di Fellini dell' ultimo periodo rappresentano l' apice dell' arte moderna, l' immagine più rivelatrice che conosco del nostro mondo così com' è. Negli ultimi decenni, dopo Picasso, dopo Stravinskij, dove possiamo trovare un' opera più bella, di un' immaginazione più potente? Dove possiamo trovare un' opera più importante in grado di interrogare, domanda dopo domanda, tutto il destino europeo, le viscere stesse di questo destino?

Riccardo De Palo per il Messaggero l'8 gennaio 2020. Dove comincia la realtà e finisce il sogno? La domanda che si pone Daniel Pennac, nel suo ultimo romanzo La legge del sognatore (dal 16 in libreria per Feltrinelli), è la chiave per leggere questo libro labirintico, onirico, accattivante, che ha un solo, vero, protagonista: Federico Fellini. L'autore francese (all'anagrafe, Daniel Pennacchioni), ammette di non aver mai avuto occasione di conoscere il suo «regista preferito», di cui si celebra il prossimo 20 gennaio il centenario dalla nascita; ma è attraverso film come Amarcord e 8½ che è cresciuto, e questo libro rappresenta un omaggio alla sua impareggiabile capacità creativa, alla sua fervida immaginazione.

LA PSICANALISI. Il libro (uscito lo scorso 3 gennaio in Francia, edito da Gallimard, che abbiamo letto nella versione originale), è dedicato non a caso a un amico psicanalista dello scrittore, Jean-Bertrand Pontalis, scomparso qualche anno fa; e, naturalmente, la storia inizia proprio da un sogno. Tutto da interpretare. Pennac si ritrova, bambino di dieci anni, nella casa di montagna dei genitori, con il suo amico immaginario Louis. Il padre gli ha spiegato le meraviglie dell'energia idroelettrica; e fatalmente, mentre sta per addormentarsi, rivela al compagno che «la luce è acqua»; così, d'incanto, si accorge che una lampada comincia a colare come se ne contenesse veramente. Presto tutte le sorgenti di luce cominciano a presentare il medesimo problema, e a inondare il paese come durante un'alluvione, fino a trascinare con sé auto e detriti. Ma dov'è finito Louis? Dove sono i genitori?

IL DISEGNO. «Lo spettacolo cominciava appena chiudevo gli occhi». I ricordi (veri? sognati) si susseguono, da quella camera da letto con un disegno felliniano alla nuotata in un lago, più di cinquant'anni più tardi, alla ricerca della fondatezza di quel sogno. Dove è inevitabile trovare un intero universo che si credeva perduto. In fondo cosa c'è in un ricordo, falsato irrimediabilmente dalla distanza, dalla fantasia, dall'emozione di un tempo? Siamo veramente fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni? E, soprattutto: «Sappiamo veramente quando comincia un sogno?» Le coincidenze diventano piccole illuminazioni, tracce da seguire, indizi che prendono la forma di punti segnati in una mappa; alla ricerca di una pista inconscia, di una verità nascosta. C'è posto anche per una visione onirica nata da un incidente: quando Pennac cade e rimane per ore in coma, in seguito al colpo ricevuto. Al risveglio si chiede, da romanziere: qual è la proporzione di realtà dei sogni, e quindi del libro? Al massimo, un dieci per cento.

INDELEBILI. In fondo, ammette Pennac, ci si dimentica sempre di ciò che è «utile», mentre i sogni più antichi restano ricordi indelebili. Ma è Fellini ad averci aperto la «caverna favolosa delle sue immagini», ed è sempre il grande regista romagnolo ad averci regalato le sue visioni, che annotava ogni giorno appena sveglio, e che prendevano corpo in forme disegnate febbrilmente sulla carta - raccolte poi in un altro volume memorabile, Il libro dei sogni. Quando Fellini cominciò a faticare a trovare produttori - ma come, possibile? Davvero non andavano più a vedere i suoi film? - si rese conto, con amarezza, di non riuscire ormai neanche a sognare; e Pennac si chiede se non sia morto proprio per questo, il 31 ottobre del 1993. Un uomo che trasformava le sue fantasie oniriche in set cinematografici aveva perduto, d'un tratto, la sua ragione di vivere, la sua bacchetta magica.

RITORNO AL REALE. Finzione a parte, la cosa più vera del libro, ammette l'autore, è proprio lo spettacolo che bisogna mettere in piedi per «resuscitare» il regista; sempre ammesso che il maestro lo voglia, che possa «sopportare questa prova». Pennac vorrebbe intitolarlo Federico Fellini è pronto a ricevere tutti coloro che vogliono vederlo, come quelle grandi adunate al mitico Studio 5 di Cinecittà, in cui si faceva ressa per avere udienza con il maestro. 

GLI AMICI. Dal sogno alla realtà, il passo è breve. Così Pennac ha contattato gli amici italiani di sempre del centro Funaro di Pistoia, la regista teatrale Clara Bauer, la figlia compositrice Alice Pennacchioni, e tanti altri. Il risultato è uno spettacolo, ancora da mettere a punto, prodotto da Intesa Sanpaolo, che debutterà il 20 al Piccolo teatro Giorgio Strehler di Milano, giorno in cui, se fosse ancora vivo, Fellini avrebbe compiuto cent'anni (ricordiamo anche la tappa a Bologna, il 19, con Silvia Avallone alla Biblioteca Salaborsa per incontrare i lettori). Come in precedenti show dell'autore francese, si tratta di mettere in tre dimensioni il testo sulla carta, con qualche attore sulla scena e lo stesso Pennac sul palco. L'evento si sposterà il giorno dopo a Torino, presso l'Auditorium del grattacielo Intesa Sanpaolo, per approdare il 22 a Rimini, al Teatro Galli, nell'ambito della settimana di festeggiamenti per il compleanno del maestro romagnolo. Nato da un sogno, da un libro dei sogni, lo spettacolo celebrerà la definitiva risurrezione di Fellini.

Dagospia il 20 gennaio 2020. Tratta da ''Gli Antipatici'' di Oriana Fallaci, Oscar Mondadori, Milano 1963 e pubblicato oggi da Giorgio Dell'Arti nella sua rassegna stampa ''Anteprima'', oltre che da libreriacristinapietrobelli.it. Conosco Fellini da molti anni, ad esser precisa da quando lo incontrai a New York per la prima americana del suo film Le notti di Cabiria e diventammo un po’ amici infatti andavamo spesso a mangiare le bistecche da Jack’s o le caldarroste in Times Square dove si poteva anche sparare al tirassegno. A volte, poi, capitava nell’appartamento che dividevo in Greenwich Village con una ragazza di nome Priscilla per chiedermi un caffellatte: il caffellatte alleviando, non ho mai capito perché, le nostalgie della patria e la lontananza della moglie Giulietta. Entrava massaggiandosi affranto un ginocchio, «Quando son triste mi fa sempre male il ginocchio: Giulietta! Voglio Giulietta!» e Priscilla correva a vederlo come io sarei corsa per veder Greta Garbo. Inutile dire che, a quel tempo, Fellini non aveva nulla di Greta Garbo, non era il monumento ch’è oggi. Mi chiamava Pallina, si faceva chiamare Pallino, in certi casi Pallone, si abbandonava a stravaganze innocenti come piangere al bar del Plaza Hotel perché il critico del New York Times aveva scritto male di lui, o passare da prode. Frequentava infatti la bionda di un gangster e questi gli telefonava ogni giorno all’albergo dicendo «I will kill you», ti ammazzerò. Lui non sapeva l’inglese e rispondeva «Very well, very well»: alimentando la fama di prode. La fama durò fino a quando io non gli spiegai che «I will kill you» vuol dire «Ti ammazzo». Mezz’ora dopo la spiegazione, Fellini era sopra un aereo e viaggiava alla volta di Roma. Faceva anche altre cose come girare la notte in Wall Street, esaminare con l’aria di un ladro le banche, indurre al sospetto i poliziotti più sospettosi del mondo che finalmente gli chiesero i documenti, lo arrestarono perché non li aveva, e lo chiusero fino alle sei del mattino in una cella dove rimase a gridare l’unica frase che conoscesse in inglese: «I am Federico Fellini, famous Italian director».  Alle sei del mattino un poliziotto italoamericano che aveva visto non so quante volte La strada lo udì: "Se sei davvero Fellini, esci fuori e fischia il motivo de La strada". Fellini uscì fuori e con un filo di voce, lui che non distingue una marcia da un minuetto, fischiò tutta la colonna sonora del film. Un trionfo. Con affettuosi pugni allo stomaco che lo indussero a bere brodini per almeno due settimane, i poliziotti gli chiesero scusa, lo riaccompagnarono in albergo scortandolo con motociclette ed auto blindate, lo salutarono con uno strombettare di clacson che si udì fino ad Harlem. A quel tempo Fellini era proprio simpatico. Quando lo avvicinai per questa intervista lo era un po’ meno sebbene mi salutasse, com’è sua abitudine, sollevandomi in un ardentissimo abbraccio, palpandomi dal collo ai ginocchi, giurando che se non fosse stato sposato a Giulietta avrebbe sposato subito me. «A proposito, perché non ci amammo a New York? Ah, quanto fosti cattiva a negarti!». E fingeva di scordare, s’intende, che nemmeno una volta durante le nostre scorribande a New York m’era giunto da lui un romantico cenno, una adulterina proposta che ci distraesse dai reciproci flirt. Aveva girato La dolce vita, un film per cui lo paragonavano a Shakespeare, stava per presentare Otto e mezzo, un film di cui si parlava senza averlo visto come della Divina Commedia, e pur non confessandolo era conscio della gloria che lo illuminava: il suo volto aveva un piglio quasi mussolinesco, i suoi occhi eran gravi, si capiva che non avrei più potuto chiamarlo Pallino o Pallone. Del resto, esauriti gli abbracci, me lo fece capir quasi subito. M’aveva ricevuto, disse, solo perché io ero io; aveva pochissimo tempo e l’unico modo di far l’intervista era farla mangiando. M’invitava per questo nel ristorante dove in quel momento entravamo. Tentai di distoglierlo da un così orrendo progetto. Il magnetofono funzionava elettricamente, la presa di corrente non c’era, se c’era non era vicino alla tavola: non servì a niente. O al ristorante mentre mangiavamo o in nessun altro luogo e mai più. Cercai dunque una tavola accanto a una presa di corrente, sistemai il magnetofono fra i piatti e i bicchieri, il vassoio degli antipasti, cominciai l’intervista che subito interrotta da innumerevoli telefonate proseguì con la lievità di uno zoppo che corre; tra un rumore di forchette, bottiglie, masticazioni volgari. Riascoltandola risultavano frasi come la seguente «Con questo film ho inteso narrare... tu vuoi il prosciutto o il salame? Io piglio il salame. Quelli che parlano di dialettica metafisica... no, le pastasciutte non le voglio, fanno ingrassare. Una bistecca senza sale, ecco quello che prendo... è così stupido chiudere gli occhi al mistero... crack! din din..., il silenzio che ti circonda e diventa chiarore... le patatine! Perché non mangi le patatine?» Nessun dubbio che bisognava ripeterla. E sospirando, gemendo, Fellini rispose d’accordo: poiché io ero io sarebbe venuto l’indomani alle dieci al mio albergo. «Ma in albergo non stiamo tranquilli, Federico». «Lo saremo. Salirò in camera tua». La mia camera all’Excelsior non era grandissima e un letto a due piazze la riempiva fino a sfiorar le pareti. Conoscendo la seduzione che i letti esercitano su Federico Fellini, per addormentarvicisi è chiaro, chiesi al manager un appartamento con salotto: «Aspetto Fellini». «Fellini, signorina Fallaci? Oh! Ma certo! Ma sì». E mi dettero l’appartamento dove avevano abitato lo scià di Persia e Soraya: con un salotto che era piuttosto un salone da ballo. Qui mi trasferii, con violentissima spesa, e alle nove e mezzo del mattino seguente ero già pronta a riceverlo: con le sigarette su un tavolo, i fiori su un altro tavolo, un cameriere pronto a portarci il caffè: «Al signor Fellini piace forte e caldo, mi raccomando». Sembravo un seduttore che aspetta la sua nuova vittima per rivelarle le meraviglie del sesso, non mancava che un poco di musica. Ma le dieci vennero e di Fellini nemmeno la traccia. Vennero anche le undici e poi mezzogiorno, l’una, le due, ma di Fellini neanche la voce. Il telefono suonò che eran le tre e mezzo passate ed io inghiottivo insieme alla mortificazione un tè coi biscotti. «Tesorino, amorino, Orianina, bambina, è da stamani che chiamo per dirti che sono in ritardo. Ma dove sei, dove vai, perché non stai mai in albergo. Be’, ti perdono, e alle cinque sono da te: non un minuto più tardi». Deposi convinta il ricevitore: era un bugiardo ma sarebbe venuto. Scesi a prendere aria. «E Fellini?» chiese con un indefinibile sorriso il portiere. «Sarà qui alle cinque» risposi spavalda. Ma le cinque giunsero e Fellini non venne. Non venne neppure alle sei, neppure alle sette, neppure alle otto, e mentre il buio calava sul salone dove aveva abitato Reza Pahlevi, sulla mia attesa delusa, sul mio prestigio schiacciato, sull’impazienza sempre più irritante del mio direttore che da Milano chiamava dicendo allora a che punto siamo, allora è venuto?, suonò liberatore il telefono. «Tesorino, amorino, Orianina, bambina...» Una complicazione imprevista gli aveva impedito, materialmente impedito, di venire da me. Ne era addolorato, confuso, ma lo sapevo che era un uomo con mille impegni. A chiunque altro avrebbe detto non posso, era già molto che non si negasse e rimandasse l’impegno. Comunque mi avrebbe visto quella sera stessa alle undici alla proiezione privata del film in via Margutta. «Guarda, Federico, che sono in ritardo, un ritardo di almeno due giorni, il direttore è arrabbiato, le pagine aperte, guarda Federico...» «Ah! Come osi dubitare di me? Come puoi pensar che non vengo?!? È offensivo, malvagio...». Eccomi dunque, alle undici di sera, che col mio magnetofono aspetto su un portone di via Margutta Federico Fellini, famous Italian director. So che alle undici non verrà: ma lo aspetto. So che non verrà neppure a mezzanotte: ma lo aspetto. So che non verrà nemmeno all’una: ma lo aspetto. Il film, in sala di proiezione, è incominciato da un’ora, da un’ora e mezzo, da due, da due e mezzo, è finito, la gente esce, si ferma al rinfresco, è finito anche il rinfresco, la gente va via, qualcuno chiude il portone, io mi sposto sul marciapiede, continuo ad aspettare, con gli occhi che mi si chiudono, le gambe che mi si piegano, i teddy boy che mi molestano, continuo ad aspettare: finché passa un tassì e ci salgo. È ormai l’una e mezzo del mattino, rientrando dico al portiere di prenotarmi il primo aereo per Milano. In camera, cado sfinita sul letto. Mi addormento di colpo. Mi risveglio col suono del telefono e una melliflua voce che canta: «Tesorino, amorino, Orianina, bambina, ma perché non sei venuta?!» «Perché parto» rispondo. «Dovevo far le valige: il mio aereo parte domattina alle otto». «Ma è il mio aereo! Anch’io parto alle otto! Non è straordinario? Comodissimo? Parleremo in aereo». Inutile dire che perse l’aereo. Oh, il biglietto l’aveva, e anche la prenotazione. Quel volo era il suo, a Milano lo aspettavano cronisti e fotografi, perché non lo perdesse il suo produttore gli aveva mandato la Cadillac con l’autista. Ma perse l’aereo lo stesso. E quando esso giunse a Linate, i fotografi corsero alla scaletta, sulla scaletta c’ero io che scendevo e due americani dell’Oklahoma, quattro francesi di Nimes, due industriali lombardi di Concimi Chimici e Affini. Fellini giunse a mezzogiorno col mio benvenuto rilasciato a un amico: che andasse all’inferno, e ci restasse. Ammesso che anche all’inferno non fosse sgradito. Italiani e cinesi, norvegesi e cileni, messicani e francesi, indiani e groenlandesi, popoli tutti della terra, ricordate. Non si manda all’inferno Federico Fellini sennò Federico Fellini si arrabbia, si arrabbia come una bestia e vi telefona insultando il babbo, la mamma, la zia, la nonna, i cognati, i nipoti, i cugini, e vi ricorda che lui è un grande regista, un artista, un grandissimo artista, e in virtù di questo può mancare a tutti gli appuntamenti che vuole, perdere tutti gli aerei che vuole, anzi gli aerei farebbero bene ad aspettarlo perché Federico Fellini si aspetta, ciascuno di noi è nato per aspettare Federico Fellini eccetera eccetera, amen. Ero al giornale quando telefonò e gridava tanto che tutti lo udirono mentre mi ricordava che Federico Fellini è un grande regista, un artista, un grandissimo artista, tirando fuori una voce che avrebbe fatto morir di spavento il gangster che aveva fatto morir lui di spavento, insultandomi a morte mentre immaginavo il suo piglio mussolinesco, la sua saliva che copriva come rugiada il telefono, il suo faccione sudato d’ira ed orrore per la blasfemia che avevo osato commettere. Tentai di girare con garbo gli insulti, di spiegargli quel che pensavo in quel momento di lui. Non mi udì, non mi udiva. E mentre tutti ridevano commentandone gli urli, dolcemente deposi il ricevitore. Cominciò allora una crisi: giacché non è cattivo, lo giuro. Gli è andata male ad andar così bene, ecco tutto: nemmeno sant’Antonio resisterebbe alla sciagura di tanta fortuna, e ciò sveglia la violenza emiliana che cova sotto quell’aria di pacifico gatto. Però dopo gli dispiace moltissimo, fino alle lacrime, è capace di chiamar cento persone per dirvi che il suo cuore è straziato, che vi vuol bene come a Giulietta, che vi ha sempre voluto un gran bene, che ve ne vorrà finché resta al mondo eccetera eccetera, amen. Finché, come un ipnotizzato o un sonnambulo, vi trovate a salire sulla Cadillac che vi ha inviato per andare da lui, a percorrer la strada pensando che la colpa è vostra e non sua, a entrare in ascensore dicendovi come farà a perdonarmi, infine ad aprire la porta della sua stanza d’albergo col volto di Giuda che ha venduto Gesù. Qui trovarlo disteso come Ibn Saud sopra un letto, beato, ronfante, che dice con la sua vocetta melliflua «Tesorino, amorino, Orianina, bambina...», poi essere stretti in un abbraccio sinistro e ascoltarlo durante una ancor più sinistra serata. L’intervista che segue Fellini volle rileggerla e la rilesse tre volte: ogni volta apportando alle sue risposte correzioni diverse, opinioni nuove, pentimenti improvvisi. È l’intervista meno genuina di tutta la serie, non una frase di essa è stata scritta senza pensarci e ripensarci. Il Codice napoleonico e la Costituzione americana costarono certo meno fatica di questo documento prezioso. Io gli volevo bene davvero a Federico Fellini. Dopo quel tragico incontro gliene voglio assai meno, ho anche smesso di dargli del tu. Lui può anche negarlo. Ma, come dice Jeanne Moreau un po’ più in là, egli è un tale bugiardo che la menzogna diventa alla sua buona fede verità sacrosanta.

Oriana Fallaci. Allora facciamoci coraggio, signor Fellini, e parliamo di Federico Fellini: tanto per cambiare. Le costa fatica, lo so: lei è così schivo, così segreto, così modesto. Ma parlarne è nostro dovere: anche di fronte al paese. Ancora un poco e la storia della sua vita, il significato della sua arte diventeranno materia di insegnamento in tutte le scuole della repubblica: come la matematica, la geografia, la religione. I libri di testo, non esistono già? Federico Fellini, Storia di Federico Fellini, Il mistero di Fellini... Nemmeno su Giuseppe Verdi s’è scritto tanto. Eh, sì: a pensarci bene lei è il Giuseppe Verdi dell’Italia d’oggi. Vi assomigliate perfino: nel cappello. No, la prego: perché nasconde il cappello? Giuseppe Verdi lo portava proprio così: nero, a tese larghe...

Federico Fellini: «Disgraziata. Screanzata. Ballista. Maleducata».

Perché? Anche Verdi era bravo, sa? Per la prima delle sue opere accadeva esattamente quello che accade per le prime dei suoi film. Io credo che solo per La Traviata gli italiani abbiano fatto il fracasso che hanno fatto per il suo Otto e mezzo: con le poltrone prenotate da mesi, le signore con l’abito nuovo, i critici che intrecciano corone di alloro...

«Già. Come se Lo Sceicco Bianco non fosse stato un insuccesso clamoroso, e Il bidone non fosse stato accolto con freddezza glaciale, e La strada non avesse ricevuto sghignazzate e insolenze. E La dolce vita? Cosa credi, ragazzi’, che abbia avuto solo lusinghe ed elogi?»

Oddio! A Milano volò uno sputacchio. A Roma venne la Celere. Ma anche a Verdi gettavano ogni tanto verdura e uova fresche. Signor Fellini! Non sarà mica preoccupato? Mi scusi, sa: ma a vederlo così placidamente disteso sul letto, con la sua aria da gatto soriano, mi sembrava tanto tranquillo...

«Son tranquillissimo. Dopotutto ho fatto quel che avevo in testa di fare: riesco a non preoccuparmi troppo che il film possa piacere o no. L’attesa non mi lascia indifferente, è ovvio. Ma non mi emoziona nel senso che puoi credere tu: l’ansia e la trepidazione che provo sono le stesse di quando feci il primo film. Voglio dire che i successi precedenti non mi danno l’affanno di pensare: aiuto, ora pretendono da me il triplo salto mortale. Non è presunzione se ti dico che l’unica inquietudine può venirmi dal timore che il film sia equivocato: non certo dall’idea che la gente si aspetti da me più di quanto io possa dare. Perché dovrei preoccuparmi di non deludere quei tipi che mi guardano come una soubrette che ogni volta deve salire un gradino più alto ed esibire altre piume?».

Signor Fellini, guardiamoci negli occhi: per uno cui non importa un bel niente lei ha fatto abbastanza rumore. Tutto quel mistero sulla trama perché la gente morisse di curiosità, quel fare a nascondino coi giornalisti, quel tacere perfino agli attori la parte che stavano recitando, insomma quella segretezza che era diventata come gli occhiali di Greta Garbo...

«Ah sì? Ognuno paga lo scotto dell’ambiente in cui vive: è il cinematografo che traduce tutto in forme volgari».

Tesorino mio: sono abbastanza abile da inventare storie e se avessi voluto ricorrere ad accorgimenti pubblicitari... Se non ne parlavo era perché non sapevo che dirne: nemmeno oggi so cosa dirne. Non è un film di cui si possa raccontare la trama. Quando mi chiedono la trama io mi stringo nelle spalle e rispondo ecco, fai conto che una sera incontri un amico in vena di confidenze e questo amico ti narra sgangheratamente, disordinatamente, quello che fa, quello che sogna, i suoi ricordi d’infanzia, i suoi disordini sentimentali, le sue incertezze professionali, e tu lo stai a sentire, e alla fine hai ascoltato una creatura umana, e forse viene voglia anche a te di cominciare a raccontare qualcosa... Capito? È una chiacchierata confusa, caotica, una confessione fatta con abbandono, a volte perfino insopportabile...»

Sì, in fondo c’è qualcosa di proustiano. Proust tradotto in cinema puro.

«Proust? Mah! Io sono molto ignorante... Che vergogna, eh? Una sana, vasta, solida, coriacea ignoranza. Non so nulla di nulla. E il discorso non vale solo pei libri. Vale anche pei film».

Lo so, lo so. Lei non va a vedere che i film di Federico Fellini. Quelli degli altri mai, vero? «È così vero che ho il coraggio di dirlo. Non riesco a organizzarmi per il rituale che esige lo spettacolo uscire di casa, salire in macchina, sedersi fra tante persone, star lì a farsi solleticare da emozioni collettive. Se esco di casa per andare al cinema o a teatro, stai sicura che durante il tragitto vedo qualcosa che mi interessa di più. Se poi vedo il film di un altro e mi accorgo che quest’altro ha realizzato una cosa che volevo realizzare io... ci resto male. Certo ho visto i film di Charlot: che artista favoloso. Ma per i quarantenni come me Charlot appartiene alla mitologia della nostra vita: il babbo, la mamma, la maestra, il prete, Charlot. Charlot... l’ho incontrato una volta a Parigi. Aveva visto La strada: mi fece, credo, complimenti a mezza voce. Mi parve piccolissimo, con due manine piccine piccine. Parlava un francese che non capivo, lui non capiva il mio inglese: mi sentivo a disagio, in soggezione...»

Lasciamo stare Charlot: siamo qui per Fellini. Il protagonista di Otto e mezzo...

«L’hai visto? T’è piaciuto?»

Certo che m’è piaciuto. Che film triste, però. Tutti quei vecchi, tutti quei preti, quell’aria di disfacimento e di morte... Sono morti anche i vivi, in quel film. «Ma allora hai capito poco, non è un film triste. È un film dolce, aurorale. Malinconico, semmai. Però la malinconia è uno stato d’animo nobilissimo: il più nutriente e il più fertile...»

Se le fa piacere: diciamo pure che ho capito poco.

«Tesorino, hai fame? Hai sete? Vuoi sdraiarti un po’?»

Non ho fame, non ho sete, e non voglio sdraiarmi per niente. Mi lasci continuare, la prego. Dunque dicevo: il protagonista del film ha quarantatré anni, è un regista, ed è Federico Fellini. Anche se lei lo ha chiamato Guido Anselmi...

«Davvero non hai bisogno di nulla? Un caffè...»

Non ho bisogno di nulla. Per favore, signor Fellini: lasci stare il mio magnetofono. Se continua a toccarlo, lo rompe. Perché vuole romperlo? Tanto lo sappiamo tutti, ormai, che il suo film è autobiografico: sfacciatamente, indiscutibilmente autobiografico. Perfino il cappello di Guido Anselmi è identico al suo. Perfino il modo di buttarsi il cappotto sulle spalle, di camminare, di sorridere. Lasci stare il mio magnetofono. Perfino...

«Ma quello è un regista fallito, che sta fallendo. Oh, bimba!? Ti sembro un regista fallito, io? Guido Anselmi ha quarantatré anni come me, va bene, ma potrebbe averne quarantuno o quarantasette o trentacinque come quell’altro grande regista. “Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai in una selva oscura / ché la diritta via era smarrita”. È un uomo perduto in una boscaglia intricata e buia...... perfino nella stessa capacità di dire bugie. «Menti come respiri», gli dice sua moglie. Oddio: non che a somigliargli lei faccia una gran bella figura. Il ritrattino è spietato: «Pulcinella ipocrita e vigliacco». «Debole, abulico e mistificatore». «Presuntuoso, incerto e imbroglione». «Un tipo che non vuol bene a nessuno». E, per finire, quella ammissione terribile: «Non ho proprio nulla da dire ma lo dico lo stesso».

«E va bene. E con questo? Con questo non si può certo dire che il film sia autobiografico: in senso spicciolo. E se anche lo fosse? Non voglio fornire allo spettatore una interpretazione in chiave aneddotica, biografica. In chiave biografica il film diventerebbe solo una inutile, fastidiosa esibizione narcisistica.

Magari lo è. Una splendida, impudica chiacchierata narcisistica.

«Mi dispiace, ma non credo che sia così. È la storia di un uomo come ce ne sono tanti: la storia di un uomo giunto a un punto di ristagno, a un ingorgo totale che lo strozza. Io spero che dopo i primi cento metri lo spettatore dimentichi che Guido è un regista, cioè un tipo che fa un mestiere insolito, e riconosca in Guido le proprie paure, i propri dubbi, le proprie canagliate, viltà, ambiguità, ipocrisie: tutte cose che sono uguali in un regista come in un avvocato padre di famiglia».

Senta, signor Fellini: l’avvocato padre di famiglia potrà anche riconoscersi in Guido, però resta il fatto che Guido è Fellini. Ma via: sembra un atto testamentario, quel film, un tirare le somme. A parte il fatto che tirare le somme della propria vita a quarantatré anni mi sembra un po’ esagerato.

«Perché? Meglio tirarle presto che tirarle tardi: quando non c’è più tempo di cambiar nulla. Quarantatré anni non sono un’età precoce per tirare le somme della propria vita. Proprio per questo il film mi ha fatto un gran bene: mi sento come liberato, ora, con una gran voglia di lavorare. È un film testamentario, hai ragione, eppure non mi ha svuotato. Al contrario, mi ha arricchito: fosse per me, ricomincerei a farne un altro domattina. Davvero. E certo se mi dicono che bravo Fellini, che ingegno, mi fa un gran piacere: ma non sono i complimenti che cerco con Otto e mezzo. Vorrei... vorrei che questo senso liberatorio si trasmettesse a chi lo va a vedere, che dopo averlo visto la gente si sentisse più libera, avesse il presentimento di qualche cosa di gioioso...».

Oddio, signor Fellini: non mi venga a dire che a lei importa della gente che va a vedere il suo film. Se c’è un uomo che se ne frega del prossimo e non ha spiriti evangelici, questo è proprio lei. Lasciamo perdere, per carità, e prendiamo atto dell’importante ammissione: le somme che tira in Otto e mezzo sono quelle della sua vita e non di un personaggio fantastico.

«Uffa, che noiosina. Ma cosa vuoi che ti dica? Tante cose... si capisce... son vere. Quello che è successo nel film è successo un po’ a me... a un certo punto non sapevo più cosa fare, non mi ricordavo più niente. Lavoravo con Flajano, Pinelli, Rondi, senza convinzione. Avevo l’episodio della Saraghina, quello del cardinale, ma erano cose staccate, che nuotavano nel vuoto: e non mi ricordavo più niente, davvero. Quelli della produzione stavano lì, mi guardavano con occhi imploranti, sospettosi, e io avevo una gran voglia di dire al produttore lasciamo perdere, non facciamolo più questo film. Poi m’è sembrato che questo smarrimento fosse un invito, l’aiuto di un collaboratore invisibile che mi diceva racconta la verità, racconta questo. E così m’è venuta l’idea di fare un film su un regista che vuol fare un film e non se lo ricorda più. Sì, Guido Anselmi non fa che vivere ciò che ho vissuto in parte anch’io in questo film. E la conclusione, se conclusione si può chiamare, è questa: non bisogna accanirsi nel capire ma tentar di sentire, con abbandono. Bisogna accettare se stessi: io sono questo e sono contento di essere questo. Voglio smetterla di costruire miti sopra di me, voglio vedermi come sono: bugiardo, incoerente, ipocrita, vile... Voglio piantarla di problematizzare la vita, voglio mettermi in condizioni di amarla, di saper amare tutto. Parlo sempre di Guido, s’intende... E insomma lo dice anche sant’Agostino: “Ama e fai quello che vuoi”. Be’, non dice proprio così ma quasi...»

Per uno che non ha letto nulla, mica male la citazione di sant’Agostino.

«È che ogni tanto mi capita di entrare in libreria, di aprire un libro e di buttare gli occhi sopra una pagina che dice una cosa così. Poi, magari quella cosa così non la capisco neanche, subito...»

Bugiardo. Mi dica piuttosto come mai non ha più scelto Laurence Olivier per il ruolo di Federico, pardon, di Guido. Sarebbe stato perfetto.

«Laurence Olivier... Un inglese, un baronetto, un grandissimo attore. Come si fa? Ti intimidisce. Io avevo bisogno di un italiano, di un amico che accettasse con umiltà di essere come un’ombra rispettosa, che non venisse fuori in modo eccessivo. Così ho preso Mastroianni, lo conoscevo già, ed è stato bravissimo: così allusivo, discreto, simpatico, antipatico, tenero, prepotente. C’è e non c’è. Perfetto».

Già, lei si affeziona agli attori che adopra. E Giulietta? L’ha persa per la strada, Giulietta?

«Ho un paio di film in testa: che derivano da Otto e mezzo come la pera dal pero. Nel prossimo c’è anche Giulietta. Giulietta per me è un personaggio evocatore di un mondo che non si è scolorito o intiepidito: riprenderò quel personaggio con nuova voglia, nuova fantasia. Girerò questi due film in Italia... In America continuano a rivolgermi inviti, a offrirmi somme da capogiro, ma perché dovrei andare fuori?

Non ho bisogno di stimoli esteriori: il mio paese, le mie campagne, la gente che conosco è ancora sufficiente a stimolarmi, che ci vo a fare a New York o a Bangkok. Sono un pessimo viaggiatore, quando viaggio tutto diventa un caleidoscopio di colori e di suoni, non capisco nulla, torno sempre con un dettaglio inutile o straziante. E poi come ci si può abbandonare a un viaggio se devi dare notizie a chi è rimasto, e infine devi tornare indietro? Forse mi piacerebbe andare in Egitto, in India: ma ci penso stando seduto. Il mio posto è in questa Italia cattolica».

Sì, in fondo lei è un inguaribile cattolico: o, almeno, assai più legato al cattolicesimo di quanto si creda. Lo si capisce bene anche da questo film su cui le autorità ecclesiastiche non han trovato a ridire.

«Ma tu conosci qualche italiano che sia completamente laico?! Io no. Ma come è possibile? Ce l’abbiamo nel sangue, il cattolicesimo, da secoli. Quanti? Il tentativo di liberarsene è un tentativo necessario, nobilissimo, che tutti dobbiamo fare: ma dimostra che l’ammaccatura esiste, evidente. Se non esistesse l’oggetto della rivolta, perché dovremmo ribellarci? Guido è una vittima di un cattolicesimo medievale che tende a umiliare l’uomo anziché restituirlo alla sua grandezza divina, alla sua dignità: quel cattolicesimo che ha riempito manicomi e ospedali e cimiteri di suicidi, che ha mostruosamente partorito una umanità infelice, separato lo spirito dal corpo che invece sono una cosa sola. Insomma quel cattolicesimo degenerato che questo Papa combatte in maniera così eroica e stupenda. Ti è piaciuto l’episodio del bambino e di Saraghina?».

È indiscutibilmente il più bello del film. La punizione del bambino, soprattutto. Quei preti gelidi, senza pietà. M’è sembrato di rivedere certi disegni del Goya: l’Inquisizione, la strega martoriata... Tanto più patetico in quanto la strega, qui, era un bambino. Era lei quel bambino?

«In un collegio a quel modo non ci sono mai stato, un’estate però sono stato in un convento di salesiani ed era press’a poco così. Sai, questa educazione basata sulla mortificazione del corpo, le bacchettate sui geloni, che male, l’esser costretto a inginocchiarsi sul granoturco, che male, e quel sentirsi continuamente giudicati da Dio... Tu credi d’essere solo, ti ripetono, ma Dio ti vede, ti vede sempre. Sai, queste in un bambino sono vere ferite e se ne guarisce a fatica. No, non riesco a scindere dalla mia vita il ricordo delle chiese, delle monache, dei preti, le voci dal pulpito, le voci dal confessionale, i funerali... Ma quale italiano può fare a meno di questo paesaggio, di questa coreografia?»

Eppure, malgrado questa educazione spietata, terrorizzante, lei riesce ancora a pregare. Vero?

«Certamente. Ché tu non preghi? La preghiera è un colloquio con se stessi, con la tua parte più segreta, più genuina, più misteriosa, e quando ti rivolgi a quella c’è sempre il caso che venga fuori qualcosa di buono perché chiedi aiuto a ciò che v’è di più prezioso in te, di più vergine... Oddio, piantiamola: dette così certe cose diventano ridicole. Io volevo dire soltanto che non capisco come una non possa pregare, non essere affascinata dal mistero, è così stupido chiudere gli occhi al mistero, così disumano, un atteggiamento da bestie. Il mistero di tutto... il silenzio che ti circonda e diventa chiarore... Oria’! Ma che mi fai dire?!»

Io nulla: è lei che parla. E sa chi mi ricorda quando parla così? Ingmar Bergman. Straordinario quanto vi sia in comune tra lei e Bergman: lei così romagnolo, Bergman così nordico, lei così sanguigno, Bergman così ascetico. A parte i vostri film, che mi sembra abbiano molti punti in contatto, anche lui non riesce a far niente fuori del proprio paese, anche lui è un peccatore ossessionato dal peccato...

«Bergman, sì: di lui ho visto anche un film, Il volto. Mi è piaciuto moltissimo. Bergman è il più grande autore cinematografico che esista oggi».

Dopo Fellini? Prima di Fellini? O contemporaneamente a Fellini?

«Mascalzona, che ne so? Come faccio a dirlo? Per me è un fratello. Egli è ciò che deve essere un uomo che parla agli altri: la tonaca del profeta, e in testa il cilindro coi lustrini del pagliaccio. Ecco: Bergman ha tutti e due: la tonaca e i lustrini».

E Federico Fellini?

«Mah! Forse io ho meno tonaca e più lustrini».

Interessante: quando intervistai Bergman, anche lui mi parlò a lungo di lei. Voleva sapere un mucchio di cose: come viveva e come parlava...

«E tu, le solite balle: chissà che gli hai detto. Le mie bugie mischiate alle tue... Oddio! Mi piacerebbe conoscerlo, Bergman. Fino ad oggi ci siamo scritti soltanto. C’è un produttore simpatico e irresponsabile che voleva fare un film a episodi con me, Bergman e Kurosawa: quello straordinario regista di I sette samurai. Mi pregò di scrivere a Bergman al quale del resto avevo sempre mandato saluti attraverso giornalisti svedesi. Così gli scrissi caro Bergman, ti ammiro tanto e ti voglio bene come ad un fratellino, c’è questo produttore che vuol fare questa cosa, secondo me è un progetto un po’ avventato ma proprio perché pazzo vale la pena di tentare. Bergman mi rispose una bellissima lettera dove diceva che avrebbe fatto questa cosa con gioia e infatti non s’è fatto ancora nulla».

Un’altra caratteristica di Bergman è che se ne frega completamente di ciò che scrivono i critici su di lui: ma in questo non vi assomigliate. So che lei ci bada parecchio a certe critiche con le parole difficili che finiscono in ismi, asmi, e parlano di dialettica, etica, estetica... Qualcosa del genere: legga un po’  questo articolo.

«Ma che dice questo qui? Ma che vuole? Non ha mai capito i miei film nonostante gli piacciano: ne sono sicuro. E a dirtela chiara mi dispiace che gli piacciano. Io ho un vocabolario scarso, dinanzi a queste parole resto sconfortato. Del resto il cinema, tranne cinque o sei confortanti eccezioni, ha la critica che si merita: è un’arte giovane, sgangherata. Tutti fanno la critica in senso libresco, mai umanisticamente, ma che me ne importa? Io non sono uno di quelli che corrono all’edicola per sapere cosa ha scritto il critico Tale; a proposito, cosa ha scritto Marotta di Otto e mezzo? Io leggo volentieri quelli che parlano bene di me. So bene che anche la critica negativa può essere costruttiva, ma la sola che capisco è quella materna, fatta di bacetti, di carezze, di paroline lusinghiere...»

Infatti, nel film, quel rompiscatole che non le dà i bacetti finisce impiccato. Quante volte ha sognato di impiccare chi non le dice che è bravo, signor Fellini?

«Tante volte. La critica espressa così è per me pericolosissima perché uccide la spontaneità».

Io mi chiedo cosa avrebbe potuto fare lei se il cinema non fosse esistito, insomma se fosse nato quando il cinema non esisteva. Il confine tra fantasia e realtà è così labile in lei...

«Cosa avrei potuto fare? Non lo so davvero. Scrivere, no. Scrivere è una disciplina ascetica, lo scrittore deve essere circondato di solitudine, di silenzio: a ciò non potrei abituarmi. Di sicuro mi sarei dedicato a qualcosa che avesse avuto a che fare con lo spettacolo o avrei tentato di inventare il cinematografo. Il cinema mi piace perché col cinema ti esprimi mentre vivi, racconti il viaggio mentre lo fai. Sono fortunatissimo, anche in questo: sono stato portato per mano a scegliere un mestiere che è l’unico mestiere per me, l’unico che mi permetta di realizzarmi nella forma più gioiosa, più immediata...»

Certo non lo vedo un Fellini nascosto, pensatore solitario. Noi dei giornali abbiamo inventato la divinizzazione dei registi: ma a pochi tale divinizzazione si addice quanto a lei. Lei ha sempre bisogno di un palcoscenico che la illumini, di un’orchestra che le suoni una marcetta.

«Può anche darsi che esista questa componente di vanità: d’altra parte lo spettacolo si fa coi riflettori accesi. Però ti dirò che sono assai timido. Sì, lo sono anche se non ci credi e sghignazzi, proprio timido. E ne sono contento perché non credo che possa esistere un artista senza la timidezza, la timidezza è una sorgente di ricchezza straordinaria: un artista è fatto di complessi».

 E quell’altra ricchezza? Quella terrestre, volgare, fatta di un delizioso conto in banca? Lei è ricco, ormai.

«No, e poi no, e poi un’altra volta no. Tesorino mio, ma quante volte devo ripeterti che il produttore della Dolce vita non sono io? Sai, a me importa poco dei soldi. Mi servono, ecco tutto. Che me ne faccio di una villa con la piscina? L’importante è non aver debiti».

Senta, signor Fellini: il cardinale del film dice una agghiacciante realtà. «Nessuno viene al mondo per essere felice». Lei è felice? È almeno soddisfatto?

«Felice? Mah!... Sì... Sto volentieri al mondo, sto volentieri con gli altri. Mi interessa quel che mi succede, lavoro volentieri: tanto più che il mio non mi sembra neanche un lavoro. Soddisfatto... Mah! Spero di non essere mai completamente soddisfatto: perché allora sarebbe la fine. M’è andata benissimo, certo. Ma è andata come doveva andare».

Vuol dire che le sembra giusto avere avuto il successo che ha avuto? Vuol dire che non ha alcun dubbio sulla legittimità di questo successo? Vuol dire che non giudica con nessuna modestia il fatto d’essere esaltato come «il fenomeno cinematografico più importante del nostro tempo»? Che insomma trova sacrosanto il trionfo della Dolce vita, questa venerazione da Greta Garbo che la circonda, il particolare che basti un annuncio sul giornale perché orde di pazzi le vengano a offrire pei suoi film nonne moribonde, zie paralitiche, mogli virtuose?

«Come faccio io a dire fino a che punto questo è giusto o ingiusto? I dubbi ce li ho durante il lavoro e sono i dubbi di uno che crea, che inventa. Dopo, quando il film è finito, non riesco ad oggettivarmi, a tenere un atteggiamento distaccato. Sarebbe come se tu mi invitassi a parlare della mia vita, di un amore, di una avventura, di un viaggio. Come la giudico? Mah! Non giudico, dico che mi era necessario. Tutto ciò che ci è capitato di bene e di male era necessario. La dolce vita è un film che ho fatto tanti anni fa: mi è stato più faticoso liberarmene perché era una specie di mostro, che continuava a crescere. Se il suo successo è giustificato non lo so: evidentemente il film aveva una carica che giustificava tale emozione. Quanto alle nonne moribonde, alle zie paralitiche che mi offrono pei film... Io sono un romantico: mi piace vedere la vita sempre in chiave di fantasia. Potrei dunque dire che il cinema è una sirena dalla seduzione infinita e per questo gli regalano le nonne moribonde. Invece mi piace pensare che la gente me le porta per aiutarmi a fare un film. Toh! Piglia».

Che sublime diplomatico. Che celestiale mistificatore. Questa non è risposta. Recentemente, se ben ricordo, noi due abbiamo avuto un violento scontro telefonico: in seguito al quale le risponderò sempre col lei. E in quell’occasione sì che mi ha dato una risposta. Io le ho ricordato che i giornalisti l’hanno sempre trattata con stima ed affetto e lei ha replicato che i giornalisti l’avevano sempre trattata come si merita perché lei è Federico Fellini ed un grande artista.

«Disgraziata. Screanzata. Ballista. Maleducata».

Maestro, queste parolacce bisognerà toglierle dai testi scolastici quando i bambini delle elementari studieranno la vita di Giuseppe Verdi. Pardon, di Federico Fellini.

Geniale, "finto", nostalgico. Fellini, l'italiano perfetto. Un dizionario racconta il grande regista. La cui vita e film svelano il meglio e il peggio del nostro carattere. Luigi Mascheroni, Martedì 21/01/2020, su Il Giornale. Cento anni di Federico Fellini - a proposito, «Auguri» - e cento possibili modi di raccontarli. Saggi, nuove biografie e vecchie interviste, mostre, cataloghi, convegni, rassegne cinematografiche, francobolli (ieri il ministero dello Sviluppo Economico ne ha emesso uno appartenente alla serie «Le Eccellenze italiane dello spettacolo», valore 1,10 euro), speciali televisivi...E ricordi, quanti ricordi. Amarcord. Ognuno ha il suo. Chi conobbe bene il Maestro, chi lo incontrò appena, chi ci lavorò, chi ci litigò. Fellini visse 73 anni (1920-93), ne avrebbe compiuti cento ieri, ma l'immaginario che ha creato, diventato parte della nostra quotidianità, non ha tempo. È strano. La sua opera non è così vista ormai: Amarcord - per esempio - non si vede in prime time dal 2001. Eppure Fellini è uno degli autori italiani in assoluto più amati e famosi all'estero. La dolce vita non è solo un film: è il cinema italiano nel mondo. Di più: è il modo italiano di vivere, per il mondo. E «Paparazzo» non è soltanto uno dei suoi neologismi più fortunati, ma il nome di centinaia di negozi, ristoranti e attività varie, ovunque. «Marcello, come here!». L'Italia di Fellini è un marchio turistico - «Stranieri, venite qui!» - e Fellini è l'italiano perfetto. Tutta l'italianità, nel bene e nel male, sta dentro Fellini e il suo cinema. Così come Fellini e il suo cinema hanno dentro di sé i vizi e il genio del carattere italiano. Per l'anniversario felliniano sono usciti e continueranno ad arrivare molti libri. Ma, in qualche modo, nell'«alfabeto» compilato dal critico cinematografico Oscar Iarussi dal titolo Amarcord Fellini (il Mulino), fra curiosità, aneddoti e riflessioni che incrociano arte e vita, c'è tutto: dalla «A» di Amarcord, appunto, alla «Z» di Zampanò, passando per la «B» di Borgo (cioè Rimini, cioè la spiaggia degli stranieri d'Italia), la «C» di Clown (il senso italiano per la comicità...), la «D» di Dolce vita, la «E» di Ekberg (Anita, la straniera più italiana di tutte), la «F» di Flaiano (il più grande antitaliano d'Italia)... e c'è soprattutto l'idea (ma non è detto che l'autore del dizionarietto federiciano sia d'accordo: è una lettura nostra) che Fellini sia persino più che un «antropologo del '900», «un testimone sul campo delle metamorfosi sociali» del Paese. Ma che lui stesso - il suo corpus e il suo spirito - sia addirittura l'autobiografia di un popolo. Il nostro. Ecco perché F.F., Federico Fellini (i francesi hanno B.B.), piace tanto agli stranieri e inquieta molto gli italiani, ai quali guardare i suoi film fa l'impressione di rivedersi su un grande specchio. Fellini è pigro e sognatore, mammone e puttaniere, fedifrago e attaccatissimo alla famiglia. Visionario inguaribile e feroce realista, provinciale e hollywoodiano. E poi moderatamente cinico, disincantato, nostalgico, anche se non sa neppure lui bene di cosa...Fellini è il prototipo dell'italiano sempre circondato da tanta, troppa gente: da compagni di giovinezza e di avventure, Vitelloni e colleghi, fan, adulatori, falsi amici - e ancora: vagabondi, saltimbanchi, matti e lunatici - tutte persone divertentissime, ma che ti fanno sentire perso in una solitudine indefinibile. Ecco, forse, perché adoriamo feste, marcette, circhi, trenini e girotondi. Cose bellissime e tristi. Le sue donne - senza le quali il «Pianeta Fellinia», per usare una definizione di Gian Piero Brunetta, perderebbe una «fonte energetica» fondamentale - sono le nostre donne, burrose (come Gradisca, il cui ruolo in un primo momento doveva essere di Edwige Fenech, poi Fellini ci ripensò: «Scusami, mai sei troppo magra, ti dispiace se dò la parte a un'altra?», le chiese), donne materne e generose, donne da amare e dalle quali fuggire, da inseguire e da temere. Il suo borgo - Rimini, el bôrg, che doveva essere il titolo di Amarcord, poi cambiato - è uno dei mille campanili d'Italia, la provincia da cui scappi per poi tornarci, anche solo con il ricordo. E se pure il regista fu di casa a Hollywood, vincendo cinque Oscar, «la sua vena aurea non potrebbe essere più italiana e provinciale, più estranea al cuore dell'Impero», come ammette anche Iarussi. E del resto quando Vittorio De Sica vide La dolce vita, sbottò: «È una cafonata, il sogno di un provinciale». Fellini è come Marcello, il suo Marcellino, e viceversa. Cioè come tutti noi vorremmo sentirci, e un po' ci illudiamo di essere, da italiani: scanzonati, scettici, autoironici, seduttori (Il Casanova di Federico Fellini, 1976), ma alla fine così pigri, rinunciatari, in balia del colpo di genio, che vaghiamo tra feste immobili e decadenti. È la grande bellezza del suo cinema. Fellini è così autentico, come l'Italia e gli italiani, perché l'arte è sempre più vera della realtà. Artifici, prospettive, barocchismi, sogni, illusioni e inganni: con questa roba ci abbiamo a che fare da secoli... Nei film di Fellini la quasi totalità delle scene di mare e della riviera adriatica è girata sul Tirreno o a Cinecittà. L'unica cosa vera del «Rex» è il fumo dei fumaioli. E la strada più famosa del cinema italiano, via Veneto, fu ricostruita in studio. Come sanno illuderti e illudersi gli italiani, nessuno. «Non è necessario che le cose mostrate siano autentiche. In genere è meglio che non lo siano. Ciò ce dev'essere autentico è l'emozione nel vedere e nell'esprimere» amava dire il «dottor» Fellini, che non prese mai la laurea. Fellini e il suo cinema, a partire dagli anni Cinquanta, accompagnano il passaggio - scandito dalle musiche di Nino Rota - dell'Italia povera e contadina, cattolica e comunista, all'Italia modana e del boom, laica e benestante. Dall'Italietta fascista al fascino del cinema. Dux et Rex. E anche in questo Fellini è l'italiano perfetto: da ragazzo pubblica un po' di cose su un settimanale fascista di Firenze e disegna vignette satiriche per il Marc'Aurelio, poi però riesce a scampare la tragedia della guerra, un po' per questioni di studio un po' di salute, e alla fine le delusioni del Ventennio, complice la magia del cinema, diventano speranze antifasciste. Anche se tutto sommato a Fellini - come agli italiani - la politica non interessa così tanto. L'importante è lo spettacolo, che da noi di solito coincide con la vita stessa. Naturalmente restandone sempre «più grande».

Gianmaria Tammaro per lastampa.it il 30 agosto 2020. Federico Fellini, dice Milo Manara, era un uomo estremamente libero, e viveva la sua libertà nel cinema, nelle cose che faceva, nel mondo che ogni volta costruiva e decostruiva, metteva insieme, demoliva, provava a rievocare. Il cinema di Fellini era sempre sospeso, sempre a metà: tutti i suoi film parlavano di viaggi (fisici, interiori, mentali) e di sogno. Perché «non c’è niente di più sincero di un sogno», spiegava. In “Fellini degli spiriti” di Anselma Dell’Olio, al cinema con Nexo Digital il 31 agosto, l’1 e il 2 settembre, quello che viene raccontato non è solo il regista o il poeta o il visionario; è soprattutto l’uomo con la sua fede e le sue convinzioni, con la sua visione unica, immensa, del mondo. È un mosaico di interviste e di confessioni. Stupendo, enorme, travolgente. Fatto di voci che sfumano, di particolarità, di aneddoti, di un’onestà che sa di amicizia. La cosa più vera la dice Vincenzo Mollica all’inizio. «Era un grande seguace della casualità». E la casualità sorprendeva Fellini, sottolinea il giornalista; proprio come voleva farsi sorprendere dalla vita. Spiriti e spiritualità, psicologia e fede, uomini e donne: sono tutte facce di una medaglia multiforme, infinita, piena di spicchi e di angolature, piena di significati e di essenze, e soprattutto piena di Fellini, di ciò che amava, di ciò che lo incuriosiva, di quello che voleva mettere in scena e offrire al suo pubblico. Era il primo di molti: il primo a farsi certe domande, il primo a provare a rispondere, il primo a dubitare. Un profeta, per qualcuno. Un mago, per qualcun altro. Come dice Nicola Piovani: non è di socialismo o di lotte politiche che parlava. Nei suoi film, c’è una fitta rete di simboli e di riferimenti, di Madonne candide ed innocenti, di estrema umanità e di una bellezza – per quanto assurdo possa suonare – bruttissima. Fellini vedeva, immaginava e sognava. E poi raccoglieva tutte queste cose – le strade e le persone delle sue passeggiate senza meta, le intuizioni ad occhi aperti, l’altro mondo in cui viveva quando dormiva – nelle sue opere, nella sua poetica, nella sua filosofia. Era un seguace di Jung, dell’interpretazione del subconscio, delle cose che non succedono ma che si sentono (o forse, proprio perché si sentono, succedono?). «Un uomo», diceva Fellini, «quando parla di una donna non fa altro che parlare della sua parte più oscura». E quindi non fa altro che parlare di sé stesso, di quello che non si vede, che non si conosce, che non si può toccare con mano. Fellini immortalava le cose nella loro doppia esistenza: quella di ogni giorno, dell’uso quotidiano, e quella ultraterrena, sospesa, incapsulata anch’essa nel concetto di viaggio. Gli piacevano le stazioni dei treni e gli aeroporti. Gli piaceva meno doverli prendere gli aerei e sospendersi sulle teste degli altri. Era radicato nella sua realtà, nella sua Italia, nel suo mondo, e diceva: ogni volta che parto, non imparo niente di nuovo; vengo travolto da cose molto spesso inutili, che so già, vengo schiacciato dalla confusione, e non faccio nessuna scoperta. Con il suo documentario (prodotto da Mad Entertainment con Rai Cinema, in collaborazione con Walking the dog, Arte e Rai Com), Dell’Olio riesce nella missione difficile, ma non impossibile, di mostrare aspetti inediti di uno dei registi più amati e più celebrati, e in un certo senso, con la sua eredità, con le interpretazioni che vengono costantemente date delle sue opere, delle sue scelte, del suo sguardo, più discussi di sempre. Quando si parla di Fellini, si parla dei suoi film, degli alter-ego che vivevano nei suoi attori, di Mastroianni, delle donne; si parla del successo (e poco del successo contestato, urlato, preso d’assalto dalla Chiesa e dall’opinione pubblica, a cui, invece, la Dell’Olio concede grande spazio), e del talento. Resta comunque un angolo nascosto, oscuro, lontano dalle luci e dai racconti, che in “Fellini degli spiriti” viene magnificamente fotografato. Il documentario stesso, con la sua struttura fatta di scatole cinesi, di argomenti che si uniscono ad argomenti, di concretezza che sconfina sempre di più nell’immateriale e nello spirituale, è un viaggio. Partiamo subito, al primo minuto, con i titoli di testa animati; e non sappiamo dove ci stiamo dirigendo. È un viaggio bellissimo, ricco di testimonianze e di piccoli dettagli (e Fellini, come dimostrano i video d’epoca, era attentissimo ai dettagli: contava i respiri, i gesti, misurava i movimenti dei suoi attori, li riprendeva come un maestro di scuola se non erano come li aveva immaginati). Anche se incastonato in una cornice precisa ed elegante, in “Fellini degli spiriti” resiste una dimensione intima, di memorie e sincerità, in cui Fellini non è quasi mai il grande maestro – spesso grande poeta, spesso geniale indovino – ma sempre l’uomo, sempre il curioso, quello delle sedute spiritiche, dell’oroscopo («ho preso tutti i difetti del Capricorno e dell’Acquario»), l’amico che ti costringeva a gare assurde; che ti trascinava in giro per Roma e che poi ti chiedeva di fermarti davanti a San Pietro, davanti all’abbraccio del colonnato e di ascoltare; quello che vedeva e sentiva mille presenze nei vicoli più bui, che nell’umanità verace cercava le risposte alle domande più alte. Nell’esistenza Fellini voleva sapere della non-esistenza, e i suoi film, così straordinari, così potenti, facevano da testa di ponte, un po’ qua e un po’ là, un po’ radicati nel vivo, nel concreto, nel mondano, e un po’ rivolti agli spiriti, alle sfumature, alle sensazioni, ai dubbi. Fellini sapeva e non sapeva, vedeva e non vedeva; e come un pittore – lui che aveva iniziato come vignettista al Marc’Aurelio – dipingeva, colorava e disegnava ciò che sentiva, ciò che voleva, ciò che, specialmente, cercava. Il cinema era il suo viaggio, il suo percorso, non la sua meta; e nel cinema, come dice Manara, riversava tutta la sua libertà. “Fellini degli spiriti” apre uno scorcio nella fitta coltre di celebrazioni e di frasi tutte uguali, di ritornelli critici e servili, e porta la luce dove, per tanto tempo, c’è stata solo l’ombra: su Federico e non solo, e semplicemente, su Fellini.

Ilaria Ravarino per “il Messaggero” il 4 settembre 2020. «Sono pentita. Forse non dovevo scriverlo». Si rigira il suo libro tra le mani, Marina Ceratto Boratto, con lo sguardo fisso all' uomo in copertina: Federico Fellini, il genio e l' amico, come recita il sottotitolo del volume pubblicato a maggio e su cui, adesso, ha qualche dubbio. Per tutti il Maestro, per i collaboratori il Faro, per Marina che lo conobbe a 16 anni grazie alla madre, la bellissima Caterina Boratto, la Signora Misteriosa di 8 e mezzo Fellini fu qualcosa di più. Un padre, una guida. Un sensitivo. «Federico era un mago bianco», dice Boratto inseguendo l' ombra di un ricordo nella sua bella casa ai Parioli, a Roma, lei che di Fellini fu la cartomante (questo il titolo del volume: La cartomante di Fellini). Fellini «vedeva oltre le persone», Giulietta Masina no. Fellini amava le donne, Giulietta solo lui. Fellini, scrive Boratto, la tradiva. Giulietta soffriva. Beveva. Lo insultava. Nell' anno del centenario della sua nascita, è un' immagine di rottura quella che di Fellini emerge dalle 470 pagine del libro di Boratto, per anni alla corte di un genio che lei stessa descrive satiro e dominatore, tormentato dai fantasmi e narciso. Sperimentatore di Lsd. Pessimo cuoco. Superstizioso. Ma affascinante «come un dio».

Perché è pentita?

«Per quello che ho scritto su Giulietta. Spero che si capisca che il rapporto tra loro, anche se travagliato, aveva qualcosa di sacro e misterioso. Quando facevo le carte a Federico mi chiedeva sempre di fare un giro anche per lei. Era preoccupato che non la facessero lavorare, ne era ossessionato. Per lui era come una madre e una figlia. Invece era la moglie».

La tradiva?

«Voleva essere libero di vivere le esperienze erotiche di un adolescente in ritardo anagrafico. Giulietta era mortificata e ferita dalle bugie che le raccontava, ma sapeva che non l' avrebbe mai lasciata. Fellini poteva essere molto crudele. Con le donne era disinibito: le pacche sul sedere erano una consuetudine tollerata».

Ha conosciuto le sue donne?

«Si era innamorato della Cardinale, aveva un' ossessione per la sua segretaria di edizione, la Viperetta. Sandrocchia, Sandra Milo, per lui era una donna-totem. Masina fu gelosa di Francesca Dellera e di Anna Magnani. E poi c' era Anna Giovannini, la farmacista, detta la Paciocca. Un giorno entrai nel suo negozio e lo sorpresi con lei. Lui mi disse: hai visto che hai dei poteri magici? E mi volle come cartomante. Anna era diversa da Giulietta: in casa sua non trovavi nemmeno un cespo di insalata, doveva cucinare tutto lui. Faceva delle frittate inimmaginabili, indigeribili. Invece, quando con mamma andavamo a trovare i Fellini a Fregene, Giulietta viveva in cucina».

Le piaceva?

«Sì. Una volta successe un casino con Tognazzi. Ugo, che era una persona molto positiva, decise di mettersi a cucinare a casa loro. Giulietta odiava le intromissioni. Ma lui iniziò a spadellare, usando tonnellate di panna. Osò mettere in discussione la pasta e fagioli di Giulietta. Pensava di creare atmosfera, finì che i coniugi Fellini lo piantarono in asso lasciando Fregene».

Lo facevano spesso?

«Fellini dava delle buche clamorose. Alle cene arrivava sempre in ritardo. A volte si negava al telefono: lo chiamavi e faceva la voce della governante. Oppure imitava Giulietta e diceva che non era in casa. Altre volte era adorabile, nemmeno aprivi bocca e già indovinava che giornata avevi avuto. Era sensitivo».

Com' era il suo quadro astrale?

«Capricorno in Saturno. Molto malinconico, ma dotato di una personalità fortissima».

Lo ha mai visto arrabbiato?

«Una volta su un set chiese una spada e gli portarono una scimitarra. Si arrabbiò parecchio».

Ha mai mentito facendogli le carte?

«Non potevo. Anche lui le sapeva leggere. Gli dissi che non sarebbe mai riuscito a girare Il viaggio di Mastorna. Il problema con le carte è che non è detto che gli altri ti credano. Feci i tarocchi anche a Pasolini: gli dissi che vedevo una grande minaccia per lui nascosta nella notte».

Perché Fellini era attratto dall' occulto?

«Era superstizioso. Quando poteva passava sempre in via Lutezia, la strada in cui aveva incontrato Giulietta. Pensava gli portasse fortuna. Quando ha cambiato l' ufficio a Roma, ha fatto fare il giro delle sette chiese ai furgoni con tutti i mobili. Per Giulietta degli spiriti girò l' Italia, conoscendo maghi, medium e sensitivi. Quando nel 1963 provò l' Lsd, sotto la guida di uno psicoterapeuta, disse di aver parlato per delle ore con gli spiriti. Ma non ricordava nulla».

Con i soldi che rapporto aveva?

«Era generosissimo, Giulietta più concreta. Gli dava una paghetta giornaliera che lui disperdeva quasi immediatamente».

Ma Giulietta lo tradiva?

«Aveva questo amico, Salvato Cappelli, che era più presente di Federico. Fellini si rilassava con i massaggi e la sauna, Salvato faceva le flessioni in giardino nella loro villa a Fregene. Ma non credo ci sia mai stato molto fra loro».

E lei con Fellini è mai stata?

«No. Diffidavo profondamente. Ero tra rapimento, estasi e blocco. C' erano 27 anni fra noi: poteva essere mio padre. Mi corteggiò Alberto Sordi, un altro gigante. Mi fece un po' di corte, mandandomi a casa scatole di cioccolatini, sempre più piccole man mano che lo respingevo. Era un po' come nei suoi film».

Fellini aveva amici?

«Mastroianni. Fu lui a ricomporre l' incidente diplomatico tra Giulietta e Ugo. Lo dipingono tutti come un dandy, ma veniva da una fame nerissima, un' infanzia terribile. Per questo il lavoro è diventato centrale nella sua vita. Per Federico era indispensabile. Anche a livello emotivo. Si completavano l' un l' altro. La mamma di Marcello veniva spesso sul set».

Era così terribile, Fellini?

«Era una persona straordinaria, ma spiazzante. Quanto lo sentivi vicino, era invece lontanissimo. Quando lo pensavi lontano ti chiamava. Dovevi abituarti ai suoi cambiamenti, velocissimi. Poteva stare un mese senza telefonarti, e poi imputava a te il fatto. È difficile accettare che sia stato, anche e soprattutto, un uomo».

Ha secondo lei un erede?

«No. Ci sono dei registi bravissimi come Paolo Sorrentino, che ha subito molto l' influenza di Federico. Ma lui è Paolo Sorrentino. Federico era un mare, un lago, un tramonto. Era tutto».

Cinzia Romani per "Il Giornale" il 21 agosto 2020. Non cominciava un film se, prima, non aveva consultato la cartomante di fiducia. Si sa che la gente di cinema è superstiziosa, ai limiti del grottesco, ma Federico Fellini, il Mago di Rimini del quale ricorre il centenario della nascita, faceva sul serio. Egli aveva, cioè, un severo approccio olistico a quanto non è dato vedere e studiava con scrupolo ogni enigma, o qualsiasi avventura senza soluzione: i suo film, zeppi di figure femminili inspiegabili, lo dimostrano. E procedeva da visionario illuminato attraverso la propria esistenza, perché la magia, i poteri paranormali e le atmosfere soprannaturali lo avevano sempre attratto. Fino al punto di affrontare un viaggio, lui pantofolaio e pigrotto, in California e in Messico, alla ricerca del romanziere-guru Carlos Castaneda, che l'aveva affascinato con i suoi racconti. Peccato che l'uso delle droghe avesse messo fuori gioco l'autore di A scuola dello stregone, ma per Fellini la vita avrebbe avuto sempre il colore del sogno. A disvelare tale lato oscuro del regista riminese arriva adesso un bel film documentario di Anselma Dell'Olio, intitolato Fellini degli spiriti, che il 23 agosto verrà presentato, in anteprima internazionale, al XXXIV Festival del Cinema Ritrovato, a Bologna. «Se pensate che tutto sia stato detto sul grande riminese di Roma, dovete vedere Fellini degli spiriti, perché vi farà scoprire un Fellini nuovo, intimo e più vicino ad ognuno di noi», dice Gian Luca Farinelli della Cineteca di Bologna. Tra l'altro, il docufilm uscirà nelle sale, con Nexo Digital, il 31 agosto e l'1 e il 2 settembre. Attraverso straordinari materiali d'archivio di Rai Teche e Istituto Luce, tra immagini dei film felliniani e interviste esclusive, il docufilm racconta la profondità della passione di F.F. per quello che egli definiva «il mondo non visto». E indagando altre dimensioni e altri viaggi dello spirito, Anselma Dell'Olio illumina esperimenti e Tarocchi, il gusto per la pratica I Ching e l'incontro con il grande veggente Gustavo Rol, conosciuto durante le riprese di Giulietta degli spiriti, i segreti dell'inconscio, inizialmente indagati con lo psicanalista junghiano Ernst Bernhard e le più intime cose di un artista non dimenticabile. Selezionato dal Festival di Cannes «Cannes Classics Sélection officielle 2020» e prodotto da Mad Entertainment, con Rai Cinema, Walking the Dog, Arte e Rai Com, questo ritratto di Fellini aggiunge un elemento importante alla conoscenza di un autore che il mondo ci invidia. Così William Friedkin, intervistato dalla Dell'Olio, si sofferma a lungo sull'attrazione per le leggi dell'aura e sulla tecnica per guardare dentro alle persone che il cineasta americano avrebbe appreso dallo studio dei film di Fellini. Confermando la tesi di un altro grande genio visionario, Edgar Allan Poe, secondo il quale quanto più l'assunto di una storia è pazzesco, tanto più bisogna saperla raccontare in modo che i dettagli risultino credibili e convincenti. Anche Nicola Piovani, che ha scritto le musiche di diversi film felliniani, è convinto che Fellini fosse un mago, o un profeta. Mentre sorprende venire a sapere che il compositore Nino Rota, storico collaboratore del Mago di Rimini, fosse uno dei più importanti collezionisti italiani di libri esoterici. Ne La voce della luna c'è una scena ispirata a una teoria del musicista, il quale sosteneva che determinate sequenze di note operano miracoli sulla materia. Certo, la Roma dei Sessanta del secolo scorso pullulava di spunti misteriosi, colti al balzo da Fellini che spesso infilava pretini levitanti e suorine nei suoi film, quasi a ribadire un afflato più alto. Tanto Giulietta Masina, amatissima moglie di F.F., era solidamente ancorata alla concretezza della vita quotidiana, quanto il regista aspirava a scoprire il mondo dell'invisibile. Infilandosi nei retrobottega dei ciarlatani e frequentando Gustavo Rol, il medium che lo iniziò all'evocazione degli spiriti, dopo che lo scrittore Dino Buzzati glielo aveva fatto conoscere. E furono quadri che si dipingevano da soli, mani che trapassavano le porte come fossero burro, tavoli che sparivano fino a diventare gelatinosi, materializzazioni di persone scomparse. A Rol Fellini chiedeva sempre «la formula», finché Rol gli disse: «È semplicissimo: il colore verde, la quinta musicale e il calore».

Alessandra Levantesi per “la Stampa” il 21 luglio 2020. Sebbene il titolo in terza persona possa sviare, La cartomante di Fellini è la stessa Marina Ceratto Boratto, autrice di un libro tanto affascinante quanto impossibile da definire. Un ritratto ravvicinato del maestro riminese? Un'autobiografia celata fra le righe di un'altrui biografia? Un flusso di coscienza? Lo spaccato di un momento magico del cinema italiano? Una confessione, una sorta di terapia junghiana? Fluviale e appassionato, La cartomante di Fellini (Baldini+Castoldi) è tutte queste cose. E pur procedendo nel tempo e nello spazio per scarti, ricordi, assonanze, parentesi, è ondivago solo in apparenza: perché non perde mai di vista il suo baricentro, o meglio il suo Faro, ovvero Federico. La cornice è la Roma in gran fermento artistico e culturale degli anni Sessanta, l'io narrante una timida studentessa della scuola prestigiosa cattolica Cabrini, così religiosa che pensa di farsi suora. Il deus ex machina è l'incontro del destino fra Fellini e la mamma di Marina, l'attrice Caterina Boratto ritiratasi dalle scene per via del matrimonio con il gelosissimo Armando Ceratto, proprietario della clinica Sanatrix di Torino. Colpito dalla bellezza incontaminata di Caterina, il Maestro le inventa un ruolo, La Signora Misteriosa, nel film che si appresta a girare. Ed è così che, con indosso un tubino verde smeraldo degno dell'occasione, Marina approda sul set di 8 e mezzo, nei corridoi del Palazzo delle Civiltà dell'Eur dove le si palesa un uomo alto, magro, la giacca nera sbadatamente gettata sulla spalla che subito la abbraccia e apostrofa con i nomignoli «tesorino, Marinella, Marinotta, pastrocchia, bambocciona» con cui la chiamerà sempre. All'adolescente il maestro appare: «Un testimone, un profeta o un apprendista stregone al primo incontro, lo ammetto, sospettai che fosse il diavolo incarnato». Ma è subito amore, seppur un amore sublimato: su quel set-harem orchestrato dal regista con piglio di giocoliere e popolato di divi, attori, comparse e straordinari collaboratori come Nino Rota, Gianni di Venanzo, Piero Gherardi, Marina capisce che «accetterà Fellini per sempre, difetti inclusi». Nel corso di quasi cinquecento pagine, che tuttavia volano, la Ceratto annota tutto quel che ha visto e sentito sull'arco di una frequentazione interrotta solo dalla scomparsa di Fellini - il metodo di lavoro e gli insanabili contrasti con Giulietta (Masina), i complicati rapporti umani e le scivolate depressive - delineando la figura di un seduttore esplosivo, vitalissimo, spiazzante, poetico, dietro il quale si cela un uomo umbratile, tormentato, saturnino. Poco a poco, Marina scopre di condividere con l'adorato regista la sensibilità per l'arcano, il magico, il trascendente, l'analisi junghiana; e Federico, perennemente circondato da maghi (a partire da Gustavo Rol) e indovini, la nomina sua lettrice di tarocchi. «Sopravvalutando le mie facoltà di sensitiva» scrive lei, ma è proprio grazie al suo radar di percettiva che un giorno entra nella farmacia di Anna Giovannini, la compagna segreta di Fellini. «Occhi turchini, fisico da signora grandi firme, voce melodiosa e avvolgente», Annina è una donna dalla sensualità materna che Federico ama in modo esclusivo e possessivo: ogni volta che può va da lei, quando lavora la inonda di telefonate e bigliettini. Nella sua esistenza di «traditore seriale», l'amante Anna così come la moglie Giulietta rappresentano punti fermi e inamovibili: «C'è qualcosa di eterno e necessario nell'unione di due esseri» confida; le donne sono un pianeta misterioso su cui non cessa di proiettare sogni e incertezze. E del resto per Fellini la vita stessa è sostanzialmente materia artistica, «un'amalgama incandescente» da esorcizzare e tradurre visionariamente sullo schermo. Vuoi in film «sortilegio» come 8 e mezzo, in film mai realizzati come il Mastorna; o in quel viaggio archetipo nella Roma antica che è il Satyricon. Un'opera, quest' ultima, dalla lunga e difficile lavorazione nel corso della quale Fellini «smantella gran parte del suo calore» nei riguardi di Marina. Lei ne soffre; ma se quella sorta «di pugno ricevuto in pieno volto» le da la spinta per affrancarsi, l'ammirazione e l'affetto rimangono intatti. Come si evince dalla lettura di questa torrenziale lettera d'amore che, restituendo con vividezza di Fellini il contraddittorio carisma, aiuta a penetrane lo straordinario mondo poetico. Un esempio? «Gli piacevano le stazioni ferroviarie adorava il mare d'inverno, perder tempo nei ristoranti deserti, meditare nelle chiese vuote e cos' altro gli piaceva? Il suono delle campane, i letti molto alti, i fratelli Marx, Buster Keaton, John Ford, Bunuel, James Bond, Matisse, Piero della Francesca i romanzi di Simenon e Dickens, le ciliegie amava attendere anche se invano la donna che desiderava».  

Franco Giubilei per “la Stampa” il 21 luglio 2020. Sondare il mondo magico di Fellini è un po' come avventurarsi nell'inconscio del maestro, la cui fascinazione per il mistero e l'occulto risale all'infanzia, quando i suoni della campagna riminese si trasformavano nelle strane visioni di Federico bambino. Episodi che sono stati raccontati dallo stesso regista, segni precoci di una passione che non lo lascerà mai più e che ispirerà tutta la sua produzione, nella ricerca di un senso delle cose in cui immaginazione e realtà si sovrappongono continuamente. Ora questo aspetto, centrale nella sua opera come nella sua biografia, viene esplorato nel documentario Fellini degli spiriti di Anselma Dell'Olio che sarà presentato in anteprima dalla Cineteca di Bologna il 23 agosto alla rassegna «Il cinema ritrovato». Selezionato dal Festival di Cannes nella sezione «Classics Sélection officielle», dal 31 agosto sarà distribuito nelle sale da Nexo Digital. Fra i protagonisti ci sono la cartomante che Fellini consultava regolarmente, Marina Ceratto, e poi Giuditta Mascioscia, la sensitiva che porta direttamente a un altro personaggio fondamentale in questo viaggio nei rapporti del maestro con il soprannaturale, cioè Gustavo Rol: «Fellini lo conobbe nel 1965 (l'anno di Giulietta degli spiriti, ndr), durante il viaggio di Dino Buzzati in cui lo scrittore raccontava per il Corriere l'Italia del mistero, e ne restò affascinato - spiega Marco Leonetti, direttore della Cineteca di Rimini -. Di fatto, Rol, che era un noto sensitivo, nella sua vita prese il posto dello psicanalista junghiano Ernst Bernhard, morto poco tempo prima e figura molto rilevante per lui». Un ruolo importante, quello giocato dall'occultista torinese nella vicenda umana e artistica del regista: «Rol è stato decisivo nel dare una svolta al film Casanova, la cui lavorazione, prolungatasi per tre anni, si era impelagata nelle difficoltà di Fellini con un personaggio che detestava - aggiunge Leonetti -. Grazie ad alcune sedute spiritiche col sensitivo, in cui sarebbe stato evocato Giacomo Casanova, il maestro sarebbe riuscito a trovare la chiave giusta per raccontarlo. Sarà ancora Rol a convincere Fellini ad abbandonare il progetto del film su Mastorna». Il documentario di Dell'Olio chiama in causa anche collaboratori e amici stretti del regista, oltre a colleghi come William Friedkin (autore de Il braccio violento della legge e L'Esorcista) e Damien Chazelle (Oscar per La La Land), tutti contributi alternati a preziosi materiali d'archivio di Rai Teche e Istituto Luce. Il fil rouge resta lo sguardo di Fellini verso quell'Oltre che affiora puntualmente nella sua opera sotto forma di apparizioni enigmatiche e strettamente imparentate col sogno, un'altra dimensione tanto amata dal nostro da trasformarsi nell'omonimo Libro, che raccoglie i disegni delle sue visioni notturne: «Nei film di Fellini compaiono come Epifanie, in un incrocio fra visibile e invisibile - conclude Leonetti -, si tratti dell'immagine del Rex in Amarcord come di Sordi in altalena nello Sceicco bianco o del Cristo trasportato dall'elicottero della Dolce vita: sono cancelli di comunicazione con un mondo altro».

Federico Fellini, il mito in 100 tappe: ecco chi era l'uomo dietro al genio. Aneddoti, curiosità e informazioni: 100 cose da sapere su Federico Fellini. Con la consapevolezza che lui stesso diceva: "Mi sono inventato quasi tutto: un'infanzia, una personalità, nostalgie, sogni, ricordi per il piacere di poterli raccontare". Chiara Ugolini il 19 gennaio 2020 su La Repubblica.

1. È nato il 20 gennaio del 1920 in Via Dardanelli a Rimini alle ore 21.30, Capricorno ascendente Vergine.

2. La mamma, romana, era casalinga, il padre, romagnolo, era commesso viaggiatore per una ditta di dolci.

3. Aveva due fratelli, Riccardo di un anno più giovane di lui e Maddalena, nata sette anni dopo.

4. Il primo film di Fellini è Luci del varietà, realizzato a quattro mani con Alberto Lattuada.

5. Il progetto iniziale di Lattuada doveva essere una sorta indagine di costume su Miss Italia ma poi diventa una commedia su un capocomico interpretato da Peppino De Filippo.

6. Lo sceicco bianco, primo film a firma solo sua, all’uscita andò malissimo: boicottato dagli editori dei fumetti, non vinse nulla a Venezia. Ora è un film di culto e torna in versione restaurata.

7. Per il centenario tornano in sala anche I vitelloni, 8 e ½ e Amarcord.

8. Fellini e Alberto Sordi erano amici prima del cinema. Dopo aver sposato Giulietta Masina Fellini andò a vederlo a teatro e dal palco Sordi disse al pubblico: “Non sono andato alle nozze di questo mio amico perché stavo qua, fategli un regalo che costa poco: un applauso”.

9. Galeotta fu la radio. Fellini incontrò Masina nel ’43: interpretava Pallina, personaggio ideato proprio da Federico, nella commedia radiofonica Le avventure di Cico e Pallina.

10. Nel 1945 ebbero un bambino che morì a poche settimane.

11. Insieme hanno realizzato sette film: il primo ruolo fu per Lo sceicco bianco, una prostituta di nome Cabiria che avrà poi il film tutto suo.

12. L’ultimo è stato Ginger e Fred del 1986, in cui Giulietta torna a lavorare con il marito a vent'anni da Giulietta degli spiriti.

13. Per Le notti di Cabiria Fellini dovette ricorrere all’aiuto di un cardinale molto potente, dopo che la censura aveva proibito il film.

14. Giulietta è morta cinque mesi dopo Fellini.

15. La tomba di Fellini, a Rimini, è sovrastata da una scultura di Arnaldo Pomodoro, Le vele, ispirata al film La nave va.

16. Il primo amore di Fellini è stato a 16 anni: la sua dirimpettaia 14enne Bianca, un amore osteggiato dai rispettivi genitori.

17. Tra le sue letture preferite di ragazzo c’erano Robinson Crusoe, Oliver Twist e L’isola del tesoro.

18. Fellini è stato qua e là anche attore: una delle prime apparizioni sul grande schermo è con Anna Magnani in un film a due episodi di Rossellini, L’amore.

19. Nei primi tempi a Roma, insieme all'amico pittore Riccardo Geleng, Fellini per guadagnare qualcosa lavorò come comparsa nell'Aida alle Terme di Caracalla.

20. Assistente volontario di Rossellini su Paisá e Roma città aperta diceva: "Rossellini mi ha insegnato a girare un film come fosse una gita in campagna con amici”.

21. Dopo l’insuccesso de Lo sceicco bianco Fellini si prese una grande rivincita. L’anno dopo, 1953, portò I vitelloni alla Mostra del Cinema di Venezia e vinse il Leone d’Oro.

22. A causa però del flop dello Sceicco i produttori non vollero che nei poster e nelle prime venti copie del film sui titoli di testa ci fosse il nome di Alberto Sordi.

23. I vitelloni ebbe successo anche all’estero: fu campione di incassi in Argentina.

24. Quattro dei suoi film hanno vinto l’Oscar come miglior film straniero. Sono La strada, Le notti di Cabiria, 8½ e Amarcord.

25. Nel 1993, pochi mesi prima di morire, ha ricevuto l’Oscar alla carriera dalle mani di Sophia Loren e Marcello Mastroianni.

26. Il giorno dell’annuncio al posteggio dei taxi di piazza del Popolo un gruppo di autisti è uscito dalle macchine, ha circondato Fellini che passava di lì e invece di dirgli “sei bravo” dissero “Federi’, siamo forti” e si sono congratulati fra loro.

27. Il suo discorso sul palco dell’Academy terminò con “Giulietta, don’t cry” rivolto alla moglie che in sala non smetteva di piangere.

28. Fellini ha iniziato la sua carriera nel mondo dei fumetti. A soli 19 anni ha iniziato a lavorare al Marc’Aurelio, la principale rivista satirica di quegli anni.

29. Ancora a Rimini aveva lavorato come caricaturista per il gestore del cinema Fulgor, che gli commissionava i ritratti degli attori più famosi per appenderli in sala.

30. Al cinema Fulgor Fellini ha visto il suo primo film, Maciste all’Inferno, seduto sulle ginocchia di suo padre.

31. A sette anni era fuggito di casa sperando di unirsi al circo esaltato dall’esibizione del clown Pierino.

32. Nell'estate del 1937, Fellini fondò insieme al pittore Demos Bonini la bottega Febo, dove i due eseguivano caricature per i turisti.

33. A Roma si era trasferito con la scusa di iscriversi a Giurisprudenza all’Università, ma non diede mai esami.

34. Fellini ha vissuto a Rimini dal gennaio 1920, quando è nato, al gennaio 1939, quando è partito per Roma.

35. Topolino nel 1991 ha dedicato al regista una storia intitolata La strada, disegnata dal maestro Giorgio Cavezzano. Si raccontava di Fellini che arrivava a Hollywood a ritirare l’Oscar.

36. Gelsomina e Zampanò erano Topolino e Minnie. Del fumetto Disney Fellini fu così contento che volle regalare a Topolino uno suo schizzo di ringraziamento.

37. Aveva una vera adorazione per Walt Disney che aveva conosciuto a Hollywood quando era andato a ritirare l'Oscar per La strada. Per lui e Giulietta il mago dell'animazione aveva organizzato una piccola festa a Disneyland con una banda che suonava il motivo del film.

38. Fellini aveva una passione per le vignette erotiche: una serie di personaggi che mettono a nudo i propri genitali - sempre enormi, esagerati, irrefrenabili - protagonisti di giochi di parole e significato, tra doppi sensi e metafore.

39. “Anche io disegno per mostrare come voglio qualcosa in un mio film, ma Fellini disegnava per comunicare con sé stesso”. Parola di Wes Anderson in Fantastic Mr. Fellini.

40. Di disegni e appunti è fatto anche il Libro dei sogni, l’album dove su suggerimento dell'analista junghiano Ernst Bernhard, ha trascritto per quasi trent’anni le proprie visioni notturne.

41. Per i suoi disegni Fellini utilizzava solo i pennarelli giapponesi Tombow, che ordinava con mesi di anticipo.

42. Dopo il fumetto la scuola successiva per Fellini fu quella dell’avanspettacolo: scriveva per comici di successo come Macario e Aldo Fabrizi.

43. “Solitamente Fellini dava appuntamento alle 8 di mattina da Canova e riceveva le persone a piazza del Popolo. Il bar diventava il suo ufficio quando lui non poteva essere a Cinecittà”: parola di Fiammetta Profili, per 13 anni segretaria del regista.

44. Per La strada il budget era basso per cui Anthony Quinn, che interpretava Zampanò, accettò un cachet ben inferiore agli standard ma non se ne pentì mai.

45. Quando uscì La strada il regista ricevette molte recensioni negative dai critici di sinistra che lo accusarono di aver tradito il neorealismo.

46. Amarcord in un primo tempo il film avrebbe dovuto intitolarsi È Bourg (il borgo): “Se si uniscono amare, core, ricordare e amaro, si arriva a Amarcord”, diceva Fellini.

47. La notizia della vittoria dell’Oscar per Amarcord gli arrivò mentre era sul set de Il Casanova. Fellini decise di non andare a ritirare il riconoscimento che venne consegnato al produttore.

48. Per Il Casanova Donald Sutherland aveva letto tutto quello che era stato scritto sul personaggio, ma Fellini gli chiese di dimenticare tutto perché non era la figura storica che voleva.

49. Per interpretarlo l’attore ha dovuto indossare 40 costumi, 10 parrucche e 300 nasi finti.

50. Fellini non rivedeva mai i suoi film. “Appena ho terminato il lavoro il film se ne va per la sua strada e io per la mia” diceva.

51. Quasi tutti i suoi film sono stati girati allo Studio 5 di Cinecittà.

52. Allo Studio 5 aveva due camere, bagno e cucina: ci dormiva, si faceva cucinare, ci mangiava. Era come una seconda casa.

53. Anche la camera ardente si è svolta in quegli stessi studi.

54. 8 e ½ nasce da una crisi di ispirazione. Fellini stava andando dal produttore Angelo Rizzoli per comunicargli che era ad un punto morto col film, quando a Cinecittà un capo macchinista invitò il regista a festeggiare il compleanno di un collega. E lì, mentre tutti gli facevano gli auguri per il nuovo film, Fellini ha un'illuminazione: farà un film su un regista che deve fare un film ma non sa più quale.

55. Claudia Cardinale racconta che sul set di 8 e ½ non c’erano copioni: solo dei pezzettini di carta con qualche battuta che arrivava all’ultimo momento.

56. Un attimo prima di girare il regista si metteva al posto di Mastroianni, parlava e improvvisava, Cardinale gli rispondeva e quello diventava il dialogo del film.

57. Paul McCartney avrebbe voluto Fellini per il video di una nuova canzone alla fine degli anni '80, ma poi per questioni di marketing saltò tutto.

58. Fellini diresse Totò solo per una scena, quella finale di Dov'è la libertà?, perché Rossellini si era ammalato.

59. Rivelò poi che avrebbe voluto farlo recitare nel film mai realizzato Viaggio di G. Mastorna.

60. Viaggio di G. Mastorna è il film non realizzato più famoso della storia cinema italiano: il protagonista avrebbe dovuto essere Paolo Villaggio.

61. L’ultimo film di Fellini, La voce della luna, con Roberto Benigni valse a Paolo Villaggio un David di Donatello.

62. Con Benigni Fellini girò solo quel film, il regista lo chiamava Pinocchietto.

63. Da ragazzino la passione più grande di Fellini era stare in piedi su una sedia, il Corriere dei Piccoli contro il vetro della finestra e sopra un foglio per ricopiare le illustrazioni.

64. Del rapporto con il disegnatore Milo Manara sono rimaste diverse testimonianze tra cui i manifesti di Intervista e La voce della luna.

65. Fellini aveva un cane che si chiamava Arcibaldo che era uguale allo Snoopy di Schultz e quando il regista faceva riunioni di sceneggiatura stava sempre ad ascoltarle.

66. Ha lavorato tutta la carriera con il commediografo Tullio Pinelli, morto a 101 anni.

67. Giulietta Masina ne La strada è stata chiamata un Charlot al femminile ma non dai critici bensì dallo stesso Chaplin: un complimento a cui sia Masina che Fellini tenevano tantissimo.

68. Negli anni in tanti gli avevano chiesto il significato di 8 e ½, così un certo punto cominciò a dare questa risposta: “Parla di te, proprio di te, del tuo mestiere, di quello che fai, dei tuoi sogni, dei tuoi rapporti con le donne”.

69. Dal suo cognome è nato il termine 'felliniano', del quale diceva: “Essere felliniano è il ruolo più difficile perché nonostante sia lusingato di essere diventato anche un aggettivo, non so cosa voglia dire”.

70. A Rimini in piazza Cavour per fargli festa ci sarà la Torta dei sogni, alta due metri, realizzata dal maestro pasticcere Roberto Rinaldini che ha personalmente reinterpretato il dolce più amato dal regista: la zuppa inglese.

71. Nella sua carriera ha anche realizzato spot pubblicitari, tra cui uno del 1985 per Barilla in cui la protagonista ordina "rigatoni" al cameriere che decanta i piatti della Nouvelle Cuisine.

72. Fellini era un buongustaio: amava le polpettine di bollito con uvetta, gli spaghetti al tonno e il polletto alla cacciatora che faceva sua mamma.

73. Giulietta era una gran cuoca e cucinava in quantità industriali perché il marito era capace di chiamare alle 9 e dire "non siamo quattro a cena ma 15".

74. Il lungo rapporto con l'analista junghiano Ernst Bernhard iniziò per caso: il numero di telefono del dottore rimase nelle tasche del regista finché un giorno lo chiamò credendo che si trattasse di una tale Maria.

75. Per anni poi il regista lo avrebbe frequentato nel suo studio di via Gregoriana, a Roma.

76. Con La dolce vita, nel febbraio del 1960, il cinema arriva per la prima volta in prima pagina su un quotidiano. È Il Giorno, che titola sugli applausi e i fischi.

77. La scena più famosa, quella di Anita Ekberg che fa il bagno nella fontana di Trevi, fu girata a febbraio. Faceva talmente freddo che Mastroianni aveva una muta da sub sotto il vestito.

78. Il film vinse la Palma d’Oro a Cannes. In occasione della presentazione al festival si tenne una festa in piscina dove le ospiti si buttavano in acqua vestite, in omaggio alla Ekberg.

79. La dolce vita avrebbe dovuto essere prodotto da Dino De Laurentiis ma sulla scelta del protagonista, Mastroianni, produttore e regista litigarono: De Laurentiis avrebbe voluto Paul Newman.

80. Il termine 'paparazzi' deriva da un personaggio di nome Paparazzo, un giornalista che fotografava le celebrità, interpretato da Walter Santesso.

81. Il personaggio di Paparazzo era ispirato a Tazio Secchiaroli, fotografo a via Veneto e amico di Fellini. Dopo quel film lo seguì su tutti i set.

82.  Il dolcevita, il maglioncino a collo alto, fu ribattezzato così dopo che Mastroianni lo indossò nel film, vincitore dell'Oscar per i migliori costumi creati da Piero Gherardi.

83. Il film Prova d’orchestra (1979), racconto delle prove di un concerto sinfonico interrotto da proteste sindacali e infine da un'enorme palla di ferro che sfonda i muri, Fellini decise di girarlo quando seppe dell’assassinio di Aldo Moro.

84. Per tutta la lavorazione di 8 e ½ tenne un’etichetta "ricordati che è un film comico” come monito applicato macchina da presa.

85. Arrivato a Roma voleva fare il giornalista ma la causa era sempre il cinema. "Avevo visto tanti film americani in cui i giornalisti era personaggi affascinanti".

86. Per Roma fece costruire a Cinecittà un pezzo del grande raccordo anulare.

87. Amava molto il circo e diceva che se il cinema non fosse esistito avrebbe voluto essere direttore di circo.

88. Quando i giornalisti lo chiamavano a casa spesso faceva finta di essere la cameriera, camuffava la voce e diceva “il maestro non è in casa”.

89. Nel cinema di Fellini il circo è molto presente, completamente dedicato a quel mondo è un documentario per la tv del 1970, I clowns.

90. Nino Rota ha scritto la musica di gran parte della filmografia del regista: le sue colonne sonore sono entrate nella storia, ma ancor più stretto è stato il rapporto personale fra regista e compositore.

91. Dopo la morte del musicista Fellini scelse di far comporre le colonne sonore dei suoi film a Nicola Piovani, che riconosceva come erede di Rota.

92. Nel 1990 ricevette il Praemium dell’Imperatore del Giappone, in un viaggio con Giulietta a Tokyo che lo lasciò entusiasta del paese e dell’accoglienza.

93. Uno dei film preferiti di Fellini era Uomini contro di Francesco Rosi.

94. Il logo di Fellini 100, che raccoglie tutte le iniziative per il centenario del regista, mostra il regista con in mano una frusta (sul set  di 8 e ½): lo ha disegnato Paolo Virzì.

95. Per il compleanno si inaugura lunedì a Roma Federico Fellini, Ironico, beffardo e centenario: la mostra fotografica è visibile fino al 28 febbraio presso la Biblioteca l'Angelica.

96. Cinecittà omaggia il maestro con un'esposizione speciale: la palazzina a lui nominata verrà allestita dallo scenografo Dante Ferretti – che lavorò con lui in cinque film – e Francesca Lo Schiavo.

97. Lunedì dalle 10 del mattino fino a mezzanotte alla Cineteca di Bologna si avvicenderanno per raccontarlo Marco Bellocchio, Franco Maresco, Giorgio Diritti, Gianni Zanasi, lo scrittore e sceneggiatore Ermanno Cavazzoni, che con Fellini ha lavorato all’ultimo film, La voce della luna, il pianista e autore di colonne sonore Daniele Furlati.

98. Esce Federico Fellini, Dizionario Intimo per parole e immagini, di Daniela Barbiani, nipote di Federico Fellini e sua assistente alla regia dal 1980 al 1993, negli ultimi suoi quattro film: E la nave va, Ginger e Fred, Intervista, La voce della luna.

99. Sempre lunedì la Rai dedica una programmazione che propone su tutte le reti grandi film (da Ginger e Fred a E la nave va, da La città delle donne al Casanova), reportage, interviste e riletture dell’immaginario felliniano e dei suoi protagonisti, come quella di Eugenio Cappuccio con immagini delle Teche Rai in Fellini fine mai.

100. Per il centenario sarà stampato un francobollo che riproduce  un autoritratto di Federico Fellini dal Libro dei sogni.

Prefazione di Milan Kundera a “Dizionario Intimo” di Federico Fellini (Piemme), pubblicata da “la Repubblica” il 5 novembre 2019. Il mio amore per i film di Fellini è senza limiti. Il nome di Fellini è sempre grande, ammirato, celebre, è diventato perfino un simbolo. Amarcord è stato tuttavia il suo ultimo film la cui bellezza poetica ha messo tutti d' accordo. Poi l' immaginazione di Fellini si è scatenata ancora di più e il suo sguardo si è fatto ancora più acuto: la sua poesia è diventata antilirica, il suo modernismo antimoderno. I sette film dei suoi ultimi quindici anni sono stati un ritratto implacabile del mondo in cui viviamo. Il Casanova, l'immagine di una sessualità esibita, condotta fino ai suoi limiti estremi, grottesca; Prova d' orchestra ; La città delle donne ; E la nave va, un addio all' Europa la cui nave, accompagnata da alcune arie operistiche, se ne va verso il nulla; Ginger e Fred; Intervista, grande addio al cinema, all'arte moderna, all' arte in generale; La voce della luna, addio finale. Nel corso di quegli anni, irritati dalla sua estetica molto esigente e dallo sguardo disincantato che poneva sul mondo contemporaneo, i salotti, la stampa, il pubblico e anche i produttori se ne sono allontanati; non dovendo più nulla a nessuno, Fellini allora assapora la «gioiosa irresponsabilità» lo cito «di una libertà fino a quel momento sconosciuta». Qualche giorno fa io e mia moglie Vera abbiamo rivisto Intervista . Alla fine del film ci siamo detti: «Sapeva già tutto». L' ultimo periodo dell' arte di Fellini ha rappresentato la vetta delle vette, la fusione del sogno e della realtà di cui sognavano i surrealisti. Fellini l' ha realizzata nei suoi ultimi film con una forza incomparabile, effettuando allo stesso tempo un' analisi lucidissima del mondo contemporaneo. I film di Fellini dell' ultimo periodo rappresentano l'apice dell' arte moderna, l' immagine più rivelatrice che conosco del nostro mondo così com'è. Negli ultimi decenni, dopo Picasso, dopo Stravinskij, dove possiamo trovare un' opera più bella, di un' immaginazione più potente? Dove possiamo trovare un'opera più importante in grado di interrogare, domanda dopo domanda, tutto il destino europeo, le viscere stesse di questo destino? Quando ho saputo che Fellini aveva deciso di girare America di Kafka, ho avuto la strana impressione di una sorpresa che non era tale: la cosa mi è parsa tanto inattesa quanto logica e necessaria. Infatti, solo Fellini poteva, grazie alla sua interpretazione, svelare in modo brutale l'essenza (sempre trascurata, elusa, non compresa) della grande rivoluzione estetica di Kafka: la liberazione radicale dell' immaginazione che, con la facilità del sogno, trasgredisce tutte le regole della verosimiglianza. L' arte moderna, per me, è la storia di questa immaginazione, che Fellini ha condotto verso cime inaccessibili (e forse verso il suo compimento, il suo compimento orgiastico).

Maurizio Porro per il “Corriere della Sera” il 13 dicembre 2019. Oltre a essere un regista che ha rivoluzionato il modo di far cinema, che è diventato un aggettivo e un sinonimo di qualità italiana nel mondo, oltre a essere l' artista di 8½ , film che ha portato al massimo livello espressivo i mezzi artistici del cinema, come Joyce e Proust che fingeva di non aver letto, oltre a essere colui che divise l' Italia in due a parlare della Dolce vita (non si può credere cosa fu l' uscita di quel film), Federico Fellini era anche un uomo di grande spirito, di umorismo raffinato e profonda gentilezza, il meno vanitoso che abbia calcato Cinecittà e dintorni, il genio che più amava nascondersi. Forse consapevole, ma lo teneva per sé. Ma 8½ è un film che non riesce a fare, come Proust nella Recherche arriva all' ultima pagina per dirsi pronto. Casi junghiani di sincronicità. Sono invitato ad andare sul personale e confesserò quindi che col Fellini che ho conosciuto io, per caso un pomeriggio molestandolo al teatro Nuovo per un' intervista laggiù nel '72 o giù di lì, finendo per accompagnarlo a un appuntamento stipandolo nella mia non linda 500, era arduo parlare dei suoi film. Sorrideva, scantonava, assentiva, ma era anestetizzato di fronte a qualunque elogio. Io lo tormentavo su come 8½ potesse cambiare la vita e il mio modo di vedere il cinema, ripetendo un rosario di complimenti che sapeva a memoria, ma a lui piaceva parlar d' altro. Parlava come nessuno, l' accostamento e la scelta dei vocaboli erano personali e originali, faceva dell' impressionismo col linguaggio, disegnava con parole e aveva ragione Orson Welles che nella Ricotta dice: «Egli danza». Gli piaceva andare a zonzo in auto senza meta, gustare il famoso risotto giallo, assaggiare piatti, sguardi, stare al riparo dalla popolarità usa e getta, sentirsi a casa. Era curioso di tutto, venne una sera nello stupore di una platea rockettara a vedere Rocky horror picture show , nel defunto cine teatro Cristallo, e sembrava un musical sulle sue misure immaginifiche. E raccontava di Rol e dei suoi prodigi di sdoppiamento, sempre con humour e quando era con la Masina parevano proprio la coppia italiana medio borghese, quanto di più lontano in realtà fossero. Naturalmente amava, quando nascevano per caso, chiacchierando, i ricordi e ne aveva pronti all' uso alcuni magnifici, sulla sua prima esperienza all' opera, col timpano offeso da un acuto, mentre stava in braccio a papà (magari era meno grave, ma lui era spettacolo) e di ritorno dal Giappone era sconvolto perché «in un dischetto non ci crederai ci sono tutti i miei film». Lo portai una sera, lui e Mastroianni, a sfogliare vecchi programmi di teatro, trovando non a caso quelli di Zio Vanja e del Commesso viaggiatore , spettacoli di Visconti interpretati dal suo, nostro, attore preferito. Fu un irresistibile inseguimento di memorie e aneddoti che restituivano il sapore dello spettacolo nel suo farsi e tramandarsi, il quotidiano del corpo del mestiere, qualcosa che andava oltre qualunque professorale giudizio di merito che sta dall' altra parte della barricata. Ridevano come bambini. Fellini era sempre il primo a fare gli auguri a Natale, anche in orario da insonne cronico come quando telefonava per raccomandare un libro che magari aveva letto durante la notte (ricordo la Tamaro) e mi pento di non aver conservato un suo affettuoso messaggio dall' ospedale: cancellai il nastro per portargli fortuna, ma dovevo capire che era quasi un salutino in finale di partita. Ripensando ai film, credo che Fellini sia stato davvero un profeta, nel senso biblico del termine. Nella Dolce vita aveva intuito senza sentenze tutto il peggio che sarebbe arrivato, dalla moda dei paparazzi (una delle tante parole finite nei dizionari) quindi della vita rubata, fotografata e virtuale, alla teocrazia dell' immagine televisiva alla crisi dell' intellettuale, allo strapotere della cronaca, a quello del sesso. Ma soprattutto in quasi tutti i suoi film c' era la richiesta gentile di fare un po' di silenzio. È l' ultima battuta della Voce della luna ma già prima ci aveva avvertito, inascoltato. Era profetico il suo sguardo sul mondo, quando aveva anticipato la guerra balcanica nella Nave va , le moto selvagge in corsa alla fine di Roma , l' amore con la ballerina meccanica robot in Casanova , nel Bidone i trafficoni diventati di moda; quando scopriva facce sconosciute (Nico, la musa di Warhol nella Dolce vita , dove c' era anche Celentano, Pina Bausch nella Nave ) e quando chiedeva appunto di ascoltare solo il rumore dentro, quello che lui riusciva a esprimere nelle immagini di un suo rumoroso e inimitabile teatrino.

Natalia Aspesi per “Robinson - la Repubblica” il 17 dicembre 2019. Me lo ricordo il Fellini che incontravo per le interviste, forse ai tempi della Città delle donne o anche prima: un uomo gentile, affettuoso, un tesoro per un giornalista perché evocava cose sorprendenti e l' articolo si faceva da solo: un uomo stanco, grassoccio, seduto in un angolo, con quella vocetta infantile, un fiume fantasioso di parole e di immagini; noi arpie del giornalismo detto chissà perché di costume lo adoravamo per la dolcezza con cui voleva farci credere, ma non lo credevamo, quanto ci stimasse. Ci appariva molto accogliente, piacevole, ma del tutto privo di fascino di quel tipo là, e un po' ne ridevamo, pentendoci subito perché chiunque fossero le femmine vere che accoglieva o spingeva in un letto, o quelle di fantasia che raccontava sullo schermo, i suoi film, una parte dei suoi film, sarebbe stata meravigliosa per sempre. Si può a 27 anni dalla sua morte, nel centenario della sua nascita, in un tempo, oggi, smemorato e capovolto, chiedersi ancora delle sue donne, vere o immaginarie, dopo che negli anni, a ogni occasione ne è spuntata una che si è dichiarata la sua donna, e lui pazzo d' amore, e lei pazza di lui: ne vivono ancora con questa medaglia, signore a cui in passato se si chiedeva, E la Masina?, sempre rispondevano, Contenta. Tutto ormai è evaporato nella leggenda e non conta più, e sono certo più reali le donne della fantasia che quella vere ormai defunte o tuttora parzialmente vegete. Per esempio la Carla di 8 e 1/2, la bionda burrosa e sempre sorridente a cui Guido alzandosi dal letto chiede di fare la faccia da porca, e lei pigola, nella sua adorabile scemenza, voglio scrivere a mio marito; oppure Fanny di Giulietta degli spiriti, amante ideale delle fantasie maschili d' epoca, polposa e un po' ridicola, tutta in bianco con velo come una sposa, ma già in mutande. Oggi, più di mezzo secolo dopo, Sandra Milo, una settantina di film e qualche apparizione sconcertante in tivù tipo Isola dei Famosi, deve la sua gloria ai soli due film con Fellini, l' uomo che è stato il suo distratto amato amante per 17 anni: senza che lei mai lasciasse marito e figli anche se in certe interviste ha sostenuto che a un certo punto lui, marito di ferro della sua Giulietta, le aveva comunque chiesto di sposarlo. Certo i film di Fellini e forse davvero anche la sua vita, sono zeppi di donne, madri, puttanoni, spose, beghine, fanciulle, serve, sante, cori di belle sciocchine maliziose e inafferrabili con i visi vacui incorniciati da meravigliosi e stupidi cappelli: che raccontano l' ossessione italiana e ancor più, forse, romagnola di allora per una femminilità divisa in due: quella di una moglie poco vistosa che ogni giorno all' alba si alza per tirare la pasta fresca e rimestare un indigeribile ragù, mentre su una spiaggia, in una tabaccheria, in un vicolo, in un letto a baldacchino, lo attende ubbidiente e indifferente, una bellissima donna, un corpo sontuoso e muto: oppure una sua degenerazione, una Gradisca, una Gigantessa, una Rosina, una Tabaccaia, una Paciocca, una Saraghina, una mostruosità cattiva e inesistente, due palloni al posto del seno, una montagna al posto del sedere, un viso diabolico: come nei disegni preparatori per i suoi film ( I disegni di Fellini di De Santi, Laterza) che rivelano il disprezzo, e la paura che può suscitare quel costante mistero che è la femmina. Ma poi c' è La Moglie, che è per sempre, che non si cambia, almeno per Federico, e quindi non ha bisogno di quegli orpelli carnali perché il suo ruolo è un altro, vuoi angelo del focolare ma anche mamma inflessibile che ti soccorre, che ti controlla, che ti urla se bevi troppo, se mangi troppo, se un' amante ti ha piantato: non è stato proprio così il ruolo di Giulietta Masina, sposata, tutti e due ventenni, tutti e due emiliano-romagnoli, quando Fellini era ancora magro magro (secondo Alberto Sordi che gli era già amico, per fame) e con una gran capigliatura nera: bello, come una volta accasato è stato per poco, da quasi subito infedele come era ovvio, la moglie però non addomesticata secondo tradizione, sua musa e interprete per i personaggi angelicati, sia di piccola barbona come Gelsomina, sia di ingenua prostituta come Cabiria. E quanto alla fedeltà obbligatoria della Moglie, non ne esistono prove certe, anzi, Roma pullulava in quegli anni, di immensi intrecci di corna. In Anita Ekberg Fellini aveva trovato la splendida rara immagine della bellezza eterna da lui sognata: esuberante, ridente, lattea, dispensatrice di felicità, tutto ciò che una dolce vita può dare, e che rimase gelida nei suoi confronti, giudicandolo dal suo moralismo nordico, un provinciale, una donnetta, un despota, un invidioso, come rivelò in varie interviste. Anche un' altra signora che lui voleva in Casanova, questa volta con sprezzo anglointellettuale lo atterrò in una intervista a Leonetta Bentivoglio: stravaganza felliniana perché Germaine Greer, femminista bellicosa e autrice dell' epocale L' eunuco Femmina, se lo portò a letto tanto per passare una serata o due, rimanendone delusa. «Quando si infila nel letto col pigiama di seta, telefona subito alla moglie mandandole bacini» concludendo dopo una serie di dispregiativi, «di atleti del sesso ce ne sono tanti e a buon mercato». A Roma si sapeva del vero grande amore di Federico Fellini, che lui portava nei ristoranti e ovunque senza che, fantastica ipocrisia italiana, la cosa fosse considerata vera: non un tradimento coniugale insomma, ma una casualità imposta dalle regole della sopravvivenza: per 36 anni Anna Giovannini fu la sua amante segreta, un' altra moglie, la realtà di quell' amore carnale che scorreva come un sogno nei suoi film. Una luminosa bellezza formosa e grande, incontrata casualmente in una pasticceria, che vestita di rosso e molto scollata, lo aveva folgorato per sempre. Era il 1957, dopo Il bidone e Federico non riusciva a liberarsi da una delle sue depressioni. Due anni dopo la morte del regista, la signora che allora aveva 79 anni (4 più di lui) concesse una intervista ad Adele Cambria, per rivelarsi, finalmente: «Federico era molto geloso, non voleva che la nostra storia venisse inquinata dalle chiacchiere». Anche perché il rifugio della passione clandestina gli consentiva un' altra serie di vite senza fastidi: professionale, sociale, di coppia ufficiale e certo di corna. In casa ho trovato questo librino di carta povera e già ingiallita, Caro Federico, edito da Rizzoli nel 1982, sulla copertina azzurra, sotto il solito immenso cappello rosa, occhiali neri e gesto stupidino, Sandra Milo, l' autrice, con probabile ghost writer; quando il suo Fellini, ormai perduto per lei, stava preparando E la nave va. Una specie di romanzo, gentile e spiritoso in terza persona, in cui la protagonista si chiama Selana. A pagina 61: camera da letto di gusto barocco, lenzuola di lino ricamate, lui nudo si stende sul letto, le fa indossare un mantello nero e sotto niente: «Ti senti la castellana che nel buio raggiunge il cavaliere errante che le ha chiesto asilo per la notte? È un cavaliere o uno stregone? Ti amerà o farà un crudele incantesimo? Sì così, fai quella bella bella faccia da porca, mostrami la lingua». Tutte le donne si innamoravano di lui, ricorda Sandra: in ogni caso da quel passato di multiple e roventi passioni, mai un eco di molestie. Insomma contente tutte, più o meno.

Gloria Satta per “il Messaggero” il 24 novembre 2019. L' umanità è condannata ad avere la memoria sempre più corta? Non sembrerebbe: a cent' anni dalla nascita, il mondo intero si prepara infatti a celebrare per tutto il 2020 Federico Fellini scomparso il 31 ottobre 1993 dopo aver firmato film-capolavoro come La strada, Le notti di Cabiria, La Dolce Vita, Otto e mezzo, Giulietta degli spiriti, Prova d' orchestra, La voce della Luna, vinto cinque Oscar (record imbattuto) e segnato l' estetica cinematografica e la cultura del Novecento, in una parola l' immaginario del nostro tempo. L' omaggio-kolossal si snoda in quattro tappe. La prima è il convegno internazionale Ricordiamo il maestro promosso dal Comune di Milano a Palazzo Reale il 20 gennaio 2020, giorno della nascita di Fellini: accanto a intellettuali e cineasti ci sarà Donald Sutherland, l' indimenticabile Casanova felliniano. Seguirà (marzo-dicembre) la mostra itinerante sostenuta dal Ministero degli Esteri in 10 città del mondo: San Paolo del Brasile - dove il Banco do Brasil ha prestato la propria sede - Berlino, Mosca (nel Museo della Musica), San Pietroburgo, Toronto, Tirana, Vilnius, Buenos Aires, Lubiana - dove inaugurerà la Cineteca Nazionale Slovena - Hong Kong. Da settembre a novembre si terrà poi a Palazzo Reale di Milano la monumentale esposizione del centenario Fellini, le donne, i film curata da Vincenzo Mollica e Alessandro Nicosia con Francesca Fabbri Fellini, erede del maestro, e con la collaborazione di Simonetta Tavanti, nipote di Giulietta Masina. C' è poi il libro Federico Fellini - Dizionario Intimo a cura di Daniela Barbiani con prefazioni di Milan Kundera e Pietro Citati, in uscita da Piemme: raccoglie le parole, le espressioni, gli amori e i ricordi del grande regista in 203 voci destinate a restituirne l' immagine sfrontata, geniale, sempre viva.

IL COMITATO. Regista delle celebrazioni del centenario è Alessandro Nicosia, 500 mostre all' attivo in oltre 30 anni di attività e numerosi eventi dedicati proprio al maestro di Rimini: la prima esposizione in assoluto da lui curata a Roma nel 1995 con Mollica e Lietta Tornabuoni, l' omaggio del 2003 al Guggenheim di New York, il tributo ospitato dall' Academy a Los Angeles e quello del Puskin di Mosca. «Il nome di Fellini, che ho avuto il privilegio di conoscere, suscita tuttora un' enorme emozione nel mondo intero», spiega Nicosia che ha riunito per l' occasione un comitato di eredi, amici ed estimatori del regista in cui spiccano i nomi di Milo Manara, Giuseppe Tornatore, Rosita Copioli, Citati, Kundera, Mario Longardi, Sutherland, Milena Vukotic, Fiammetta Profili, Carlo Patrizi. E aggiunge: «Organizzare oggi, con l' amico fraterno Mollica, le celebrazioni del centenario significa mantenere viva la memoria del regista e farlo conoscere ai giovani che, nell'era di internet e della cultura usa-e-getta, rischiano di dimenticarlo».

I DOCUMENTI. Molti saranno gli inediti della mostra in programma a Palazzo Reale e incentrata su disegni, schizzi, documenti, fotografie, molte delle quali scattate da Gideon Backman, frammenti di film mai montati, oggetti di scena, manufatti, indumenti, curiosità. Tra le chicche, il disegno che il regista regalò all' amico Giulio Andreotti per i suoi 70 anni, il pianoforte verticale di casa Fellini su cui Nino Rota accennava le sue celebri colonne sonore, i biglietti di auguri spediti da Federico alla nipote e i ritratti degli amici, le immagini del futuro genio del cinema da bambino con i fratelli Riccardo e Maddalena. Si vedranno per la prima volta anche alcuni spettacolari costumi confezionati da Danilo Donati per Casanova (e ci sarà una grande testa di cartapesta realizzata per il film) nonché le mutandine e i reggiseni indossati dalle interpreti de La città delle donne e restaurati per la mostra. Ciliegina sulla torta, i disegni che Fellini e Charles M. Schultz si scambiarono in occasione della mostra organizzata a Roma nel 1992 da Nicosia in onore del padre dei Peanuts di cui il regista era un fervente estimatore. Tanto da esclamare, osservandolo disegnare in una saletta dell' Hotel Hassler: «Mi sento come quel piccolo manovale che guardava Michelangelo mentre dipinge la Cappella Sistina».

Dagospia il 24 novembre 2019. Estratto della prefazione di Milan Kundera a “Dizionario Intimo di Federico Fellini” a cura di Daniela Barbiani (Piemme). Il mio amore per i film di Federico Fellini è senza limiti. L' ultimo periodo dell' arte di Fellini ha rappresentato la vetta delle vette, la fusione del sogno e della realtà di cui sognavano i surrealisti. Fellini l' ha realizzata nei suoi ultimi film con una forza incomparabile, effettuando allo stesso tempo un' analisi lucidissima del mondo contemporaneo. I film di Fellini dell' ultimo periodo rappresentano l' apice dell' arte moderna, l' immagine più rivelatrice che conosco del nostro mondo così com' è. Negli ultimi decenni, dopo Picasso, dopo Stravinskij, dove possiamo trovare un' opera più bella, di un' immaginazione più potente? Dove possiamo trovare un' opera più importante in grado di interrogare, domanda dopo domanda, tutto il destino europeo, le viscere stesse di questo destino?

Giuseppe Culicchia per “Oggi” il 20 marzo 2022.

Gustavo Adolfo Rol morì a Torino – ormai novantunenne – il 22 settembre 1994, ma la sua figura non divenne leggendaria soltanto dopo la sua scomparsa: per molti, infatti, lo era già. Basti pensare che tra coloro che lo avevano voluto incontrare c’erano stati i presidenti Luigi Einaudi e Giuseppe Saragat, la Regina Elisabetta II e John Fitzgerald Kennedy, Gianni Agnelli e Cesare Romiti, ma anche Marcello Mastroianni e Walt Disney. 

Il giorno dei suoi funerali, visto il numero di persone convenute per l’occasione, la strada dove abitava nel quartiere San Salvario venne chiusa al traffico. Oggi lì dove viveva, al numero 31 di via Silvio Pellico, sulla facciata di un edificio che ricorda un poco il Liberty, una lapide gli rende omaggio con queste parole: «L’uomo dell’impossibile e dell’incredibile, una “LUCE” costante nella nostra vita».

Il suo appartamento, pieno di quei cimeli napoleonici che collezionava, nel frattempo è stato venduto; i mobili, battuti all’asta. Tuttavia, in città la figura di quest’uomo straordinario – proprio nel senso di fuori dall’ordinario – non è stata dimenticata. Da parte mia, non ebbimai occasione di incontrarlo; ma un giorno una persona che lo aveva conosciuto, stimatissima nel mondo dell’editoria, mi assicurò – dopo averne rievocato la gentilezza e il magnetismo dello sguardo – di avere visto coi propri occhi “prodigi” inspiegabili col metro della razionalità.

Quando le chiesi di che cosa si trattasse, ottenni in risposta un lungo elenco, comprendente fenomeni quali la chiaroveggenza (ossia la lettura di libri chiusi, o la visione di cose che accadevano o erano altrove), la telecinesi (lo spostamento di oggetti a distanza), la precognizione (la previsione di eventi futuri), la bilocazione (il trovarsi in due luoghi diversi nel medesimo istante). «L’ho visto attraversare una parete», aggiunse la mia interlocutrice. «Non so come, eppure l’ha fatto».

Di questo personaggio senz’altro misterioso esisteva finora una biografia, scritta da Remo Lugli all’indomani della sua scomparsa: Gustavo Rol. Una vita di prodigi. Ma tra i primi a occuparsene dopo Dino Segre, in arte Pitigrilli, che ne aveva scritto nel 1952, erano stati nel 1978 Enzo Biagi e Dino Buzzati. Il primo nel volume E tu lo sai?: «Vive a Torino un sensitivo capace di imprese che non hanno nulla di normale e che è impossibile interpretare.

È in grado perfino di fare viaggi nel tempo, e di conversare con entità che hanno raggiunto l’oltretomba da secoli». Il secondo, nel suo Misteri d’Italia: «Colpisce in Rol, che a 62 anni ne dimostra almeno dieci di meno, una vitalità straordinaria, e gioiosa. Insisto sulla serenità e l’allegrezza che ne emanano. Qualcosa di benefico si irraggia sugli altri». Lo stesso Buzzati tuttavia ne aveva scritto anche in precedenza.

Nel 1964 riportando la confidenza del proprietario dell’Hotel du Cap di Antibes: che a Rol doveva la vita, perché lo aveva convinto a rinunciare a un viaggio aereo conclusosi con un disastro. E nel 1965 intervistando Federico Fellini sulle ricerche compiute in vista della realizzazione del film Giulietta degli spiriti. «Il personaggio di gran lunga più interessante», gli aveva raccontato il cineasta, «il più portentoso è il dottor Gustavo Rol... un signore civilissimo, colto, spiritualmente raffinato, che ha fatto l’università, dipinge, si è dedicato per anni all’antiquariato. Ma dispone di tali poteri che non si capisce come non sia famoso in tutto il mondo. Chissà, forse non è ancora venuto il suo momento. Quel che Rol sa fare è pauroso. Chi assiste prova la sensazione di uno che sprofonda in un abisso marino senza scafandro. È la testimonianza fascinosa e provocatoria di una trascendenza».

Ora è Franco Rol, in Fellini & Rol. Una realtà magica (edito da Reverdito), a raccontare il rapporto di amicizia e di stima che unì il regista a suo cugino, ponendo però una premessa fondamentale: «Giornalisti e autori distratti continuano ancora a definire Rol come sensitivo, medium, mago, addirittura illusionista». 

Ma se ci si rifà alla storia delle religioni, Rol «va considerato come un illuminato, vale a dire un individuo che ha raggiunto l’illuminazione, la conquista più alta dell’elevazione spirituale, infinitamente al di sopra delle categorie ancora molto terrene e limitate di sensitivo, medium, mago eccetera, uno stato psico-fisico coincidente al nirvana, al samadhi, al satori della tradizione orientale».

Una condizione tale da conferire a chi la raggiunge «possibilità paranormali che appaiono stupefacenti al nostro mediocre stato di coscienza, ma che sono normalità per quello stato. Sono i carismi e i doni dello spirito della tradizione cristiana, le siddhi di quella indiana». 

Il rapporto tra Rol e Fellini, iniziato probabilmente già nel 1953 a Parigi, proseguì a partire dal 1963 – quando tra i due si stabilì una frequentazione vera e propria – fino alla morte del regista, che quando si trovava a Torino passava sempre a salutare Rol, e gli telefonava prima di prendere una decisione importante. 

Stando a  Guido Ceronetti, «la frequentazione di Gustavo Rol era per Fellini un appuntamento quasi morboso». Lo stesso Fellini del resto ebbe a riconoscere: «La mia vita si divide in “prima di Rol e dopo Rol”». Come ricordato un paio di anni fa dal Torino Film Festival in occasione di una rassegna dedicata proprio a Rol, fu questi per esempio a sconsigliare Fellini dal girare Viaggio di G. Mastorna detto Fernet, definito da Vincenzo Mollica «il film non realizzato più famoso della storia del cinema», salvo diventare poi un fumetto grazie al Viaggio a Tulum di Milo Manara.

Il produttore Dino de Laurentiis non la prese molto bene: ma dopo averne parlato con Rol, Fellini decise che quel progetto concepito come il viaggio di un clown nell’oltretomba non sarebbe diventato realtà. Comunque: grazie a questo volume documentatissimo, ricco di interviste, testimonianze e citazioni che dimostrano l’enorme lavoro condotto dall’autore in un continuo dialogo tra la spiritualità e il cinema, è possibile ricostruire oggi la lunga relazione tra i due.

E chi ama Fellini e la sua vera e propria adorazione per il fantastico, la sua fiducia nel potere smisurato dell’immaginazione può comprendere l’importanza che ebbe per lui l’incontro con Rol: un uomo fuori dall’ordinario che per tutta l’esistenza si sottrasse alla celebrità, preferendo condurre una vita ritirata. Ma che, ciò nonostante, per chiunque l’abbia incrociato resta indimenticabile. «Non so come, eppure l’ha fatto». Già.

 Chi era Gustavo Rol. Massimo Novelli per il “Fatto quotidiano” il 16 settembre 2019. Non poteva che nascere e vivere a Torino, che, secondo una certa tradizione, farebbe parte, assieme a Lione e a Praga, del cosiddetto triangolo della magia bianca. Nella città della Sindone e del Museo Egizio, d' altronde, ci passarono Nostradamus e il leggendario conte di Saint-Germain, che vi sarebbe addirittura sepolto, oltre a Giuseppe Balsamo detto il conte di Cagliostro e all'alchimista Fulcanelli, quello del Mistero delle Cattedrali. Gustavo Adolfo Rol (Torino, 1903-1994), tuttavia, non amava essere chiamato sensitivo o veggente, e tantomeno medium. A Roberto Gervaso, che lo intervistò nel dicembre del 1978 per il Corriere della Sera e che gli chiese di dare una definizione di se stesso, rispose di essere "un essere molto più alla buona, meno importante, ma diverso". E aggiunse di non possedere poteri paranormali, ma "possibilità", che si manifestavano attraverso la telepatia, la chiaroveggenza, la precognizione, la levitazione, la telecinesi e la materializzazione di oggetti. Una signora, Domenica Fenoglio, che lo aveva frequentato a lungo, raccontò a un giornalista di Novella: "Una volta andai da lui mentre dipingeva. Il pennello si mosse da solo, si alzò fino al soffitto e tornò nelle sue mani. Hai paura?, mi chiese. No, gli risposi; mi disse 'brava' e continuò a dipingere". Eppure non volle mai sottoporre i suoi "prodigi" a controlli di tipo scientifico. E a chi, per questa ragione, metteva in dubbio quelle facoltà oltre il normale, come lo scienziato Tullio Regge, Rol replicò in una lettera, il 6 luglio del 1986: "Lei invoca, a giusta ragione, controlli rigorosi ma chiede la presenza di 'prestigiatori professionisti di alto calibro capaci di scoprire immediatamente qualsiasi trucco del ciarlatano di turno'. Io mi domando a che cosa servono queste persone nel caso specifico che il ciarlatano non esista. Quel rapporto della mente col meraviglioso al quale accennavo verrebbe immediatamente turbato col risultato facilmente intuibile: la distruzione in partenza dell'esperimento". Amato da Federico Fellini e dall'avvocato Gianni Agnelli, da Franco Zeffirelli e da Cesare Romiti, da Pittigrilli e da Dino Buzzati, l'uomo che aveva quelle "possibilità", e che anche Walt Disney volle conoscere, nel 1942 fu convocato da Benito Mussolini a Villa Torlonia. Il Duce gli disse: "Mi dicono che fate delle previsioni. Come va la guerra?". Dopo avere indugiato per qualche secondo, Rol parlò: "Duce, per me la guerra è perduta". Mussolini lo incalzò: "E il Duce?". E Rol: "Gli italiani lo allontaneranno nella primavera del 1945". Mussolini, allora, diede un gran pugno sul tavolo e ordinò di congedarlo. Gustavo Adolfo Rol è morto venticinque anni fa, il 22 settembre del 1994, a Torino, dove era nato in un famiglia borghese benestante il 20 giugno del 1903. Tre lauree, antiquario e pittore, scoprì le sue facoltà, secondo quanto raccontava, quando volle provare a indovinare tutte le carte di un mazzo. Cadeva il 28 luglio 1927, era a Parigi. Sulla agenda annotò: "Ho scoperto una tremenda legge che lega il colore verde, la quinta musicale ed il calore. Ho perduto la gioia di vivere. La potenza mi fa paura. Non scriverò più nulla!". Ad apprezzarlo, tra i primi, ci furono il giornalista Renzo Allegri, Dino Buzzati e Federico Fellini. Rammentava l'autore de Il deserto dei Tartari: "Ma 'il personaggio di gran lunga più interessante' racconta Fellini che sta a sé, completamente fuori di questa galleria di fenomeni più o meno patologici, il personaggio portentoso è il dottor Gustavo Rol, di Torino. Anche lei certo ne ha già sentito parlare. Non si tratta di un mago più dotato degli altri. È un signore civilissimo, colto, spiritualmente raffinato, che ha fatto l' università, dipinge, si è dedicato per anni all' antiquariato. Ma dispone di tali poteri che non si capisce come non sia famoso in tutto il mondo". Sempre Buzzati, negli anni Sessanta, sul Corriere della Sera narrò che "un altro prodigio avvenne in un ristorante, pure a Torino. Avevano finito di pranzare, era già stato pagato il conto. "Andiamo?" propose Fellini. "Andiamo pure" rispose Rol. Fellini fece per avviarsi all' uscita ma si accorse che Rol stava seduto. "Non ti alzi?" gli chiese. "Ma io sono già alzato" fece Rol. "Io sono in piedi". Fellini guardò meglio: Rol era alzato, infatti, ma aveva la statura di un nano. Il dottor Gustavo Rol, che sfiora il metro e ottanta, non era più alto di un bambino di dieci anni. Qualcosa di folle, di allucinante: come Alice nel paese delle meraviglie. "Su, andiamo, andiamo" fece Rol a Fellini annichilito". Piero Angela, invece, ha sempre messo in dubbio le sue "possibilità", e soprattutto i "fenomeni" che ne scaturivano. Le dimostrazioni di Rol, a cui Angela aveva assistito, dall'utilizzo di carte da gioco alla lettura in libri chiusi, per lui erano probabili trucchi illusionistici. "Per decenni Rol", ha sostenuto Angela, "si è prodotto nei salotti torinesi, davanti (come lui stesso afferma) a "scienziati, medici, letterati, artisti, religiosi, atei, filosofi, militari, uomini politici, capi di stato e di governo, gente di ogni classe sociale", ecc.: cioè tutte persone incompetenti in trucchi! Perché invece non ha mai voluto fare i suoi esperimenti sotto l'occhio di un esperto? Neanche una volta?". Della stessa opinione era Tullio Regge. Quando Rol morì, scrisse su La Stampa: "Personalmente io ho visto solamente esperimenti fatti con carte da gioco e non ho rilevato di certo facoltà paranormali: in molti casi usò in modo ovvio le forzature dei prestigiatori". Anche se "rimane il ricordo", concludeva Regge, "di una personalità eccezionale, e inimitabile, veri o falsi che fossero i suoi esperimenti".

Da Gustavorol.org il 17 settembre 2019. Gustavo Rol, nato nel 1903 da una famiglia della ricca borghesia torinese, è stato un personaggio fuori dal comune: amante delle arti e pittore egli stesso, colto e carismatico, dopo aver lavorato come giornalista e bancario si è dedicato per tutta la vita alla sua grande passione, l’occulto. I suoi sostenitori gli hanno attribuito proprietà paranormali, i suoi critici hanno parlato di “mentalismo”, ma Gustavo Rol si è sempre dichiarato semplicemente un ricercatore e sperimentatore, con l’unico obiettivo “di incoraggiare gli uomini a guardare oltre l’apparenza e a stimolare in loro lo spirito intelligente”. Un uomo che ha attraversato il Novecento lasciando una traccia profonda nell’immaginario collettivo e nelle numerose personalità internazionali con cui è entrato in relazione: da Walt Disney a Marcello Mastroianni, da alcuni presidenti della Repubblica Italiana, come Giuseppe Saragat e Luigi Einaudi, al presidente John Fitzgerald Kennedy fino alla Regina Elisabetta II. Federico Fellini lo definisce “sconcertante”, legandosi a lui con una profonda amicizia. (tratto da: Allegri, R., "Così ho viaggiato nel paranormale", rivista "Chi" del 25/07/2001, p. 139) 

Una delle caratteristiche di Rol era quella di essere, quando era di buon umore, un gran burlone, e poteva fare degli "scherzi" abbastanza impressionanti, con un fine dimostrativo per i presenti e una eventuale lezione (esplicita o implicita) per i destinatari dello scherzo. Ad esempio, Giuditta Miscioscia ha raccontato quanto segue: «Tornavamo da Savona verso Torino, in macchina sull’autostrada. Arrivati sul passo del Turchino ci fermammo all’autogrill a pranzare. Al tavolo accanto al nostro c’era una coppia. Lei, grossa, enorme.  Erano già al gelato. Dovevano aver mangiato molto e la signora sorbiva il gelato lentamente, con difficoltà, perché era troppo sazia, ma si capiva che il gelato le piaceva molto. Rol la sbirciava da lontano e i suoi occhi scintillavano. Capii che voleva divertirsi.  Quando la signora ebbe finito il gelato, piegò la testa sulla spalla del marito e mormorò sfinita ma soddisfatta: “Ce l’ho proprio fatta, l’ho mangiato tutto”. “Facciamogliene mangiare un altro”, mi sussurrò Rol. “No, per carità, la fai morire”, supplicai, ma era tardi: Rol era già intervenuto, la coppa del gelato della signora era di nuovo misteriosamente colma. Il marito della donna, dopo aver sentito la frase “Ce l’ho proprio fatta”, aveva guardato la coppa che non era affatto vuota, ma piena e disse alla moglie: “E quello?”. Lei guardò e sbiancò. “Chi lo ha portato?”, chiese con un filo di voce. “È il tuo”, rispose il marito. “Impossibile, l’ho appena finito”, mormorò lei. “Ti sembrava di averlo finito”, disse l’uomo ridendo. La signora era smarrita. Si guardava intorno pallida. Riprese a mangiare adagio adagio, con fatica. Quando finalmente ebbe finito, sospirò verso il consorte tenendosi le mani sullo stomaco: “Non ne posso proprio più”. “Ancora, ancora”, ripeté sottovoce Rol come se desse ordini a una presenza invisibile, e la coppa del gelato della signora apparve di nuovo piena. Questa volta fu il marito a sbiancare. “Non è possibile”, lo sentii mormorare desolato e si guardava intorno sospettoso. Poi prese la coppa di gelato e cominciò a ispezionarla attentamente. Alla fine disse alla moglie: “Questo te lo mangio io”. Sorbì il gelato in silenzio, era nervoso. Appena finito scattò in piedi, ma Rol velocissimo aveva di nuovo ripetuto “Ancora, ancora” e la coppa era di nuovo piena. “Andiamo via, qui ci sono cose che non vanno”, e spinse la moglie verso la cassa del ristorante. Rol rideva a crepapelle, come un ragazzino».

Giuditta Miscioscia: «Una sera eravamo in casa di un famoso parrucchiere di Torino. Oltre a noi c’erano altri ospiti, persone molto importanti che desideravano conoscere Rol e vederlo in azione. Il padrone di casa si dichiarava scettico. (...). [Segue un esperimento con le carte, quindi Rol...] Cominciò a guardarsi in giro ostentatamente per attirare l’attenzione. Guardava soprattutto verso il soffitto e disse forte: “C’è tanta polvere lassù”. Il padrone di casa, un po’ imbarazzato, balbettò: “Sì, forse, non saprei”. “Ah c’è un solo modo per accertarsi se lassù vi è della polvere” disse Rol, “andare a vedere”. Eravamo in sette persone sedute intorno a un tavolo pesante e massiccio. Rol si concentrò fissando il soffitto. Dopo qualche attimo, tutti noi presenti, tavolo e sedie compresi, cominciammo ad alzarci per aria, ondeggiando lentamente. Ci guardavamo in faccia impalliditi e guardavamo Rol che era sempre concentrato. Salimmo fino a raggiungere il soffitto, poi scendemmo, quindi di nuovo risalimmo al soffitto e poi planammo a terra. “Sì”, disse Rol sorridente “lassù c’è molta polvere: l’avete vista anche voi”. C’era un grande silenzio in salotto, ma gli sguardi ironici erano completamente scomparsi».

Chiara Bologna: «Rol e mia nonna si trovavano in un appartamento. Ad un certo punto ha visto Rol alzare un piede come se dovesse scavalcare un piccolo ostacolo. Invece Rol ha lasciato il piede sospeso nell’aria, a circa 20 centimetri dal suolo. Ha quindi tirato su l’altro piede, portandolo un po’ più in alto del primo, che era rimasto sospeso là dove si era fermato. Rol ha iniziato a salire dei gradini invisibili, camminava nell’aria»

Remo Lugli (Marisa Guasta/Catterina Ferrari): «E’ il 21 giugno [1994], l’indomani del suo novantunesimo compleanno. Gustavo e Catterina sono lì a San Marzano da ieri, hanno dormito nella villa [del professor Guasta] e al pomeriggio si accingono a partire per far ritorno a Torino. L’amico professore si è dovuto assentare e Gustavo raggiunge l’auto accompagnato da Catterina e Marisa Guasta che lo affiancano dandogli il braccio. Racconta Marisa: “Quando si è girato per entrare in macchina si è afflosciato ed è andato a terra senza che potessimo trattenerlo. Rol pesava ottanta chili e quando abbiamo provato a prenderlo per le ascelle per sollevarlo abbiamo capito che non saremmo mai riuscite a tirarlo su, le nostre forze erano assolutamente inadeguate. Eravamo preoccupate, agitate, ci chiedevamo cosa fare, ma altre persone nelle vicinanze non c’erano. Lui ci ha calmate: “Aspettate un momento” ha detto, “provate, quando ve lo dico”. Un attimo ancora e poi ha ordinato: “Adesso”. Noi lo abbiamo tirato su, ma senza nessuno sforzo. Si è raddrizzato come se fosse spinto dal di sotto. Ha esclamato: ‘Sia ringraziato il Signore’ e si è fatto il segno della croce”. Catterina, che negli ultimi tempi lo doveva aiutare a salire e a scendere dal letto, svestirsi e vestirsi, dice che a volte lui le dava il comando adesso, “e per qualche attimo pesava come un bambino”. E allora rideva, contento».

Gabriele Romagnoli per “la Repubblica” il 19 settembre 2019. L'ultimo mistero di Rol non ha niente a che fare con l'esoterismo. Forse. Sennò, che mistero sarebbe? Di certo c' è che salvò due vite, ma nessuno può testimoniare come: con un trucco, un intervento paranormale o una mossa assolutamente normale? La verità è sepolta, come tutti quelli che c' erano. È un ricordo sbiadito, raccolto prima che svanisse, 17 anni fa. I fatti si svolsero 76 anni fa durante l' occupazione tedesca. Gustavo Adolfo Rol è morto 25 anni fa (22 settembre 1994), lasciandosi dietro una scia di nebbia fosforescente quanto la sua personalità. Il dibattito sulle sue potenzialità è stato più spesso ispirato dal pregiudizio che dal giudizio, talora al di sotto della sua studiata eleganza e sempre, tutto sommato, vano. Rol non chiese niente, si limitò a mostrare, e a pochi selezionati. Contano gli effetti, tranne quelli speciali, e in quel lontano 1943 ne ebbe. Si accenna all'episodio in uno dei numerosi libri a lui dedicati, Rol e l'altra dimensione, di Maria Luisa Giordano. Scrive: «Durante l'occupazione tedesca salvò molte vite umane, fece liberare partigiani e civili, ostaggi dei nazisti». Dove? Quando? Ma soprattutto, come? Nel 2002, volendo liberamente ispirare il personaggio di un romanzo alla figura di Rol, andai a Torino per raccogliere testimonianze e verificare quell'affermazione che si faceva più specifica indicando un fatto avvenuto a San Secondo di Pinerolo dove Rol e la sua famiglia erano sfollati e dove si trova oggi la sua tomba. Incontrai molte persone che l'avevano conosciuto. Tutte avevano comuni caratteristiche: erano scettici, non credenti, con professioni pratiche (chi fabbricava caminetti, chi dirigeva alberghi), eppure raccontavano con naturalezza: «L'ho visto aumentare di statura in ascensore» o «Fece apparire un dipinto completo sulla tela in pochi secondi». Il più attendibile mi parve Remo Lugli, ex inviato della Stampa, amico personale di Rol, ma capace di raccontarlo da cronista in Una vita di prodigi. Conosceva l'episodio di San Secondo, ma solo indirettamente. Sorrise e disse: «Avrà dato al comandante tedesco un assegno inesistente, come quello che fece apparire a noi». Si riferiva a un "esperimento" condotto in casa sua, alla presenza delle due mogli e dei coniugi Gaito e Innocenti. Rol fece dire quattro numeri e venne fuori 1943. Si mise a parlare con una presunta presenza invisibile: un uomo fucilato in quell' anno che avrebbe voluto pagare per evitarlo. Infine disse: «L'assegno è arrivato». Il dottor Gaito se lo ritrovò nella tasca interna della giacca, a lui intestato, datato 10 novembre 1943 per la somma di un milione. Il numero corrispondeva alle prime sei carte del mazzo sul tavolo. Mancava l' indicazione del conto di provenienza. Rol non ha mai tratto o prodotto un beneficio economico. Se non pagò, come salvò i condannati di San Secondo? Lugli mi diede due indicazioni: l'ultima compagna di Rol e sua esecutrice testamentaria, Catterina Ferrari, e un uomo del paese, un cavaliere del lavoro che mi avrebbe accompagnato a cercare superstiti del tempo di guerra. La dottoressa Ferrari, ex farmacista, ha trascritto quel che sostiene essere il ricordo di Rol sull'argomento: «La mattina del 30 settembre una donna venne a cercarmi di buon mattino...». Il comando tedesco aveva ricevuto una denuncia anonima e perquisito la casa di un certo Paschetto, che viveva con moglie, due figlie e due figli, trovando due pistole e un fucile nascosti nel porcile. I fratelli furono condannati all' esecuzione in piazza alle dieci della domenica seguente. Rol accolse l'invito della donna e si recò dal maggiore Werner, a capo degli occupanti, supplicando clemenza: «Intanto mi lavoravo il suo aiutante, tenente Utesh. Offrii loro due libri napoleonici di grande valore». Tre ore di "lavorazione" (qualunque cosa intendesse) e ottenne la commutazione della pena: deportazione in Germania. Intuì che la morte per i due sarebbe stata solo rinviata. E non di molto. Chiese di visitarli. Avevano un aspetto terribile. Uscì e tornò portando con sé, ben nascosto, un asciugamano inzuppato del sangue di una gallina che aveva fatto intanto uccidere. Lo diede a uno dei prigionieri, suggerendogli in dialetto di tossire platealmente e dichiararsi tubercolotico per impietosire i suoi carcerieri. Poi: «Nella notte, dinanzi a 14 ufficiali, perorai la causa di quei poveri disgraziati. Mi valsi perfino dei miei esperimenti di coscienza sublime per cattivarmi le simpatie di quei Teutoni! Lavorai sino all' alba. Finalmente, con la complicità di un giovane medico, venne steso un rapporto disastroso sullo stato di salute dei condannati. L'indomani il maggiore Werner portò l' ordine di liberarli e si congratulò: siete un buon italiano, un uomo di cuore». E bruciò le altre denunce anonime, di cui tuttavia conosceva l'autore. Anni dopo, annota la Giordano, l'ex ufficiale tedesco gli scrisse da Roma, dicendogli che in Germania aveva perso tutti i suoi cari e trovato solo distruzione e morte: era tornato in Italia per farsi frate domenicano. Anche di questo non esiste prova, come dei fatti accaduti quella notte. Sembra paradossale, almeno nei termini, che Rol possa aver evocato la "coscienza sublime" davanti a 14 nazisti che stavano incendiando l' Europa e progettando lo sterminio di un popolo. Eppure. Arrivato a San Secondo il cavaliere mi prese in consegna. Era un uomo schietto e provato. Suo figlio si era suicidato per un amore non corrisposto. Anche lui come gli altri che avevo incontrato non aveva propensioni per l' esoterismo, nemmeno per riallacciare un legame con chi aveva valicato la linea d' ombra prematuramente. Gli episodi della guerra sono spesso esagerati dal telefono senza fili della storia orale, taciuti i più straordinari. Mi condusse in un casolare abitato da una donna anziana. Era la vedova di uno dei fratelli Paschetto, i due ragazzi scampati alla fucilazione. Parlava solo in dialetto, la lingua delle istruzioni sul sangue della gallina. Il cavaliere tradusse. Suo marito le aveva raccontato, ovviamente, di quella notte aspettando la morte e di Rol. Lo ricordava senza aggettivi meravigliati, né un angelo né un illusionista, un uomo deciso, autorevole, capace di farsi rispettare: un negoziatore per conto della vita. Che cosa poi avesse fatto per convincere 14 nazisti era, resta e resterà un mistero. Un mistero benefico, come in fondo la sua esistenza. Non trasse profitti, dispensò regali, fossero anche illusioni, intrattenne i potenti ma fu vicino agli umili. Giocò molto e volentieri. Ma se salvò due vite, come ci viene spesso ricordato citando un testo sacro, salvò il mondo.

Federico Gazzola per “Nuova cronaca” il 21 settembre 2019. “Non era un impostore”. Il commento, laconico, correda un articolo online volto a smontare le doti di Gustavo Rol, relegando le sue facoltà a semplici trucchi di prestidigitazione. Parole da cui affiora anche l’affetto per una figura che ha saputo legare al proprio nome mistero e indubbie qualità umane. Gustavo Adolfo Rol nasce a Torino nel 1903 da genitori facoltosi. Cresce frequentando le famiglie dell’alta borghesia. Ottiene tre lauree: in Giurisprudenza, Economia e Biologia clinico-medica. Dopo aver trascorso un decennio come dipendente della Banca Commerciale Italiana, nel 1934 lascia il lavoro per aprire un negozio di antiquariato. Un’attività senza dubbio più consona alle sue inclinazioni: amante dell’eleganza e delle arti, Rol, uomo di sconfinata cultura, dipingeva e suonava violino e pianoforte. Ma proprio durante uno dei suoi viaggi come dipendente di banca Rol vive un’esperienza cruciale. Fin da piccolo interessato alla dimensione spirituale, inizia a interrogarsi, a leggere, ad approfondire. E a sperimentare. Partendo dalle carte da gioco: “Perché non dovrebbe essere possibile conoscere il colore di una carta coperta?”. Per anni prova e riprova, senza alcun successo. Fino al 1927. Durante un soggiorno a Parigi scrive parole enigmatiche sul suo diario. Sostiene di aver scoperto una legge che lega il colore verde, la quinta nota musicale e il calore. Una legge che definisce “tremenda”, che gli avrebbe tolto la voglia di vivere. Da quel viaggio, Gustavo Rol torna cambiato. Consapevole delle proprie capacità, mantiene viva la propria fede in Dio. Si definisce una “grondaia” attraverso la quale l’acqua, dal tetto, raggiunge il terreno. Una sorta di tramite tra una dimensione elevata e il piano materiale. Rifiuta però definizioni come mago, veggente, indovino. Detesta l’interesse della parapsicologia nei suoi confronti e rifiuterà sempre di sottoporsi a esperimenti tecnici da parte di esperti del settore: una volgarizzazione di ciò che riteneva espressione delle più alte vette spirituali mai raggiunte dall’uomo. Dopo la sua morte, avvenuta  sempre nella sua Torino nel 1994, proprio questa sua volontà lascerà, da una parte, la sua figura avvolta nel mistero, dall’altra campo aperto agli scettici che lo riterranno un impostore particolarmente abile nei giochi di prestigio. In realtà Rol non disdegnava dimostrazioni in presenza di uomini di scienza, figure che avrebbero potuto facilmente smentire le sue facoltà extrasensoriali. Ad assistervi furono personaggi del calibro di Albert Einstein ed Enrico Fermi. Ma anche gli scettici trovarono libero accesso, tra tutti Piero Angela, fondatore del Cicap, il Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulle pseudoscienze: quest’ultimo, in effetti, parlò di Rol come di un abile mentalista, e nient’altro. Ma Rol andò su tutte le furie: durante la dimostrazione, infatti, Angela non avrebbe mosso alcuna obiezione in merito alle sue doti. Salvo poi metterne in dubbio la veridicità in alcuni scritti successivi all’incontro. Versione smentita, è bene specificarlo, dallo stesso Piero Angela. Ma esistono uomini di scienza che, al contrario, non hanno mai negato il proprio stupore. Testimonianze raccolte dal cugino Franco Rol che per anni ha lottato per “difendere” la reputazione del familiare. Interessante in questo senso è l’aneddoto del medico chirurgo Luigi Giordano che racconta di quando Rol accettò di essere “studiato” dal fisico Tullio Regge, membro del Cicap, che si presentò insieme a due assistenti in tre occasioni diverse. Spiega Giordano: “Dopo la terza sera i tre hanno detto che non sarebbero più tornati, perché non trovando una spiegazione logica a quanto capitava, non potevano permettersi di sovvertire tutte le leggi della fisica”. Altrettanto interessante è l’intervista a Carlo Castagnoli, datata 1972, anno in cui il celebre luminare era professore di Fisica Generale all’Università di Torino. Scettico, Castagnoli incontrò Rol proprio per interesse scientifico: “Ho visto cose che francamente non ho capito sulla base delle consuete spiegazioni ordinarie” sottolinea Castagnoli. Il professore racconta di quella volta in cui lui e Rol si trovavano a casa di amici. Castagnoli vide un libro di Wolfgang Pauli e da buon fisico lo estrasse per osservarlo. Rol, a quel punto, improvvisò uno schema con le carte da gioco arrivando a individuare un numero chiave, 85. Subito dopo iniziò a scrivere su un foglio. Erano le prime dieci parole proprio di pagina 85 di quel volume. Corrette, precise. Un libro non di sua proprietà, che Castagnoli aveva scelto senza alcun preavviso. Un altro episodio è raccontato da Gianluigi Marianini, professore di Lettere al Collegio Rosmini di Torino e studioso di scienze esoteriche e filosofia. Prima di un appuntamento con il mago, Marianini si fermò ad acquistare due mazzi di carte da gioco regolarmente sigillate. Giunto all’abitazione di Rol, quest’ultimo intimò all’ospite di non avvicinarsi. Non voleva avere contatti di alcun tipo con i due mazzi per non sollevare dubbi su presunti trucchi di prestidigitazione. “Quale carta preferisci?”, domandò. “Fante di fiori”, rispose l’amico senza pensarci. A quel punto Marianini, su invito di Rol, aprì i due mazzi scoprendo con meraviglia che entrambi contenevano solo fanti di fiori. Secondo i detrattori, Rol rifiutò di farsi esaminare da prestigiatori professionisti, per il timore che i propri trucchi potessero essere scoperti. Non corrisponde a realtà. Rol rifiutò di incontrare Silvan perché non provava simpatia nei suoi confronti. Ma allo stesso tempo accettò di essere “osservato” da illusionisti altrettanto celebri come Elio De Grandi, meglio noto come Alexander. Quest’ultimo racconta, in un’intervista a History Channel: “L’illusionismo consiste in tecniche ripetibili. Onestamente ho visto Rol compiere azioni che vanno oltre tutto ciò. Il famoso vaso lanciato attraverso una stanza e che improvvisamente si smaterializza, scomparendo invece di infrangersi contro il muro. Io conosco molto bene il mio mestiere, ma questo effetto non saprei riprodurlo”. Le capacità di Rol furono apprezzate anche da imprenditori, politici, celebri artisti. Si dice che, per esempio, il grande regista Federico Fellini lo avesse scelto come sorta di consulente per i propri progetti cinematografici. Lo stesso regista raccontò di una passeggiata attraverso un parco di Torino. A un certo punto i due videro un pappagallo, fuggito da qualche gabbia. “Rol lo chiamò - racconta Fellini - e il giorno dopo lo riconsegnò alla sua proprietaria. Una donna che prima d’allora non aveva mai visto né conosciuto”.

Barbara Giannini su Vanillamagazine.it il 24 settembre 2019. Il 28 luglio 1927, Gustavo Rol scrisse sul suo diario, con una matita rossa, “Ho scoperto una tremenda legge che lega il colore verde, la quinta musicale e il calore. Ho perduto la gioia di vivere. La potenza mi fa paura. Non scriverò mai più nulla.” E, in effetti, nelle pagine successive si legge solo “INCUBI… INCUBI… INCUBI”. Gustavo Adolfo Rol era nato a Torino nel 1903 da una famiglia agiata. Fu un ragazzo e un uomo colto e curioso del mondo: conseguì tre lauree, in economia, in legge e in biologia medica, parlava fluentemente sei lingue ma, oltre che per la sua cultura, egli fu famoso soprattutto per le sue straordinarie doti di sensitivo. Tuttora considerato uno tra i più grandi veggenti mai vissuti, molte sono le testimonianze di chi assistette ai prodigi di cui era capace, definiti spesso come autentici fenomeni paranormali. Grazie alle sue intuizioni e ai suoi esperimenti, stupì l’Italia e il mondo per settant’anni. Tra i suoi estimatori più entusiasti ricordiamo Fellini, Zeffirelli, Buzzati, Gianni Agnelli, e vollero incontrarlo anche Ronald Reagan, J. F. Kennedy ed Einstein, il quale pare applaudisse entusiasta come un bambino assistendo ai suoi prodigi. In tempo di guerra, nel 1939, Rol fu chiamato alle armi come capitano degli Alpini, e nel 1942 qualcuno disse a Benito Mussolini che a Torino c’era un alpino in grado di prevedere il futuro che faceva catastrofiche previsioni sulla guerra in atto, nonostante in quel momento – ricordiamolo – tutto lasciasse presagire il contrario. Pitigrilli, scrittore e probabilmente all’epoca già collaboratore dell’OVRA, scrisse una lettera a Rol in cui gli comunicava “Gustavo, si parla in altissimo luogo di te” e poco dopo seguì una convocazione ufficiale a Villa Torlonia. Quando fu al suo cospetto, Benito Mussolini chiese senza troppi preamboli: “Mi dicono che Voi fate delle previsioni. Come va la guerra? Parlate pure liberamente”. Rol, agitato, iniziò a tergiversare. “Vi ho chiesto di riferirmi quello che andate dicendo ad altri. Parlate liberamente. Vi garantisco che non Vi sarà fatto alcun male”, incalzò Mussolini. Allora Rol infine rispose: “Duce, per me la guerra è perduta”. “E il Duce?”, chiese ancora Mussolini. “Gli italiani lo allontaneranno nella primavera del 1945”. A questo punto, Mussolini batté un violento pugno sul tavolo e si alzò in piedi: “Vedremo! Ora vada”, e lo congedò…

·        Federico Palmaroli. 

Francesca D'Angelo per “Libero quotidiano” il 25 luglio 2022.

Due anni in un'ora. Se non è classificabile come il primo miracolo di Osho, poco ci manca: il 31 luglio, al Parco della Casa del Jazz di Roma, il celebre vignettista Federico Palmaroli, in arte Osho, proverà a riassumere questi ultimi due annidi pandemia, scazzi politici, guerra e complottismi epocali, nel giro di una sola ora. Lo spettacolo si chiama #LepiùbellefrasidiOsho, si ispira ovviamente alle sue vignette e «sarà a velocità 5 Giga», come scherza Palmaroli. 

Tu ridi, ma secondo me mica ce la fai. Un'ora è troppo poco

«Ce la faccio, ce la faccio! Parto più o meno dal primo lockdown per raccontare i vari patti politici, i divieti sanitari e come abbiamo affrontato, ma soprattutto aggirato, le varie limitazioni». 

Insomma, Conte superstar?

«Be' certo».

Qualcosa mi dice che, artisticamente, devi molto ai Cinque stelle...

«Sì, le loro giravolte spaziali mi offrono sempre tantissimi spunti. Anche la parentesi Conte 2 è stata interessante perché si è trasformata in una specie di sit com tra lui e Casalino. Al contrario, Draghi è più difficile da decifrare umoristicamente, perché è un uomo molto compassato, defilato, che appare poco in tv». 

Ora Draghi ce lo siamo giocato. Cosa pensi della crisi di governo?

«Questa legislatura è stata surreale: eravamo arrivati già al terzo governo con maggioranze assolutamente eterogenee, che ormai non riflettevano più la volontà del popolo. A questo punto, sono contento che si vada a votare».

A Zelensky quindi resta solo Biden?

«Sarà un caso, stadi fatto che chi appoggiava Zelensky non ha poi trovato un grande consenso. Alle ultime elezioni Macron se l'è vista bruttina, Boris Johnson è saltato, l'addio di Draghi è notizia di questi giorni... A Zelensky resta giusto Biden ma non credo che, dopo le ultime performance, gli americani abbiano ancora grande fiducia nel Presidente. È diventato come il nonno che ti porti appresso alle feste perché non puoi lasciarlo a casa da solo...». 

Alcuni anni fa lamentavi di essere un po' ostracizzato come vignettista, per via delle tue simpatie a destra. È ancora così?

«Nel mio piccolo, credo di aver rotto un po' gli steccati perché, al di là delle ipocrisie, c'era di fatto una sorta di egemonia a sinistra e continua a esserci. Sono quindi felice di quello che sono riuscito a ottenere: la gente che mi legge se ne frega della mia appartenenza ideologica. In fondo se una cosa fa ridere, fa ridere: punto. Persino Corrado Guzzanti mi segue e mi apprezza. Vero è che, se vieni da certi ambienti, devi faticare il doppio per emergere». 

La tua è un'ironia democratica: a turno prendi in giro tutti. Si tratta solo di onestà intellettuale oppure le differenze tra destra e sinistra sono scomparse?

«Per definizione, il bersaglio della satira è il governo: in Italia siamo andati avanti con un governo marmellata dove c'erano dentro tutti. Giusto Fratelli d'Italia era fuori. Quindi, vuoi o non vuoi, ho preso in giro tutto l'arco costituzionale». 

C'è chi ti rimprovera di essere molto tenero con la Meloni...

«È per causa di forza maggiore: ho iniziato a fare satira politica nel 2018 e in questi anni i governi sono stati sempre di determinati colori. Prima c'era Salvini con i Cinque stelle, poi Cinque stelle e Pd, poi Pd, Forza Italia e Cinque Stelle... Di fatto Meloni non ha mai preso decisioni e quindi non poteva diventare oggetto di battute». 

Lei però ti piace?

«Ho un buon rapporto con la Meloni, così come con alcuni esponenti di sinistra. Comunque sì, mi piace: è una delle poche leader donne, è preparata, ha studiato». 

Da romano, invece, cosa pensi dell'operato del nuovo sindaco Gualtieri?

«È ancora presto per giudicare però, come tutti quelli che lo hanno preceduto, dovrebbe evitare di fare promesse che non può mantenere. Aveva assicurato di liberare Roma dai rifiuti entro lo scorso Natale, e non mi pare che ci siamo... Ora invece dice che nel giro di due anni trasformerà la Capitale in un borgo trentino. Ecco, fossi in lui sarei più prudente nelle dichiarazioni». 

Chi salvi delle precedenti gestioni?

«Rutelli e Veltroni avevano fatto bene, anche se c'è stato un dispendio di risorse ed energie che forse non potevamo permetterci. E ora lo stiamo pagando». 

È vero che a un certo punto qualcuno ha chiesto anche a tedi entrare in politica?

«Ma', sì, è successo... Ogni tanto ci sono dei velati abboccamenti, è normale, ma mica perché io abbia doti da politico: interessa il seguito che potrei portare in dote». 

Quindi?

«Quindi niente. Ho sempre rifiutato. La politica deve farla chi conosce il mestiere. Direi che abbiamo avuto la dimostrazione lampante che le improvvisazioni non portano nulla di buono».

Ma se proprio dovessi scegliere, quale ministero vorresti?

«Forse quello dell'agricoltura». 

Perché le tue sarebbero braccia rubate alla terra?

«Un po' sì! (ride) Inoltre sono molto attratto dal mondo della campagna». 

Ho letto che lavori ancora come impiegato. Scusami, ma perché non molli?

«Considero il lavoro da vignettista ancora come un hobby. Mi fa bene concepirlo così: mi permette di essere più umano nella scrittura». 

Dite si sa molto poco. Sei sposato?

«No». 

Hai figli, legittimi o illegittimi?

«Illegittimi non lo so: per ora ancora nessuno si è presentato». 

Sei credente?

«Sono convinto che esista Qualcosa, che guida le nostre esistenze, ma non saprei dargli un nome».

Calcio: Lazio o Roma?

«Lazio, ovvio». 

Totti è l'ottavo re di Roma?

«Ma proprio no! Godevo come un riccio a ogni suo gol sbagliato. Francamente credo che avrei altri modelli anche se fossi romanista». 

Perchè usi le foto per le tue vignette?

«Non so disegnare». 

La tua verve ironica è da romano verace. Però vivi a Prati, una Roma un po' fighetta...

«Mano, a Prati c'è di tutto, anche zone popolari. Però il mio riferimento è Trieste-Salario». 

Io comunque sogno una challenge (oggi si dice così) tra te e Zerocalcare: un freestyle tra Roma Nord e Roma Sud. Come la vedi?

«Mi piacerebbe tantissimo, lo stimo molto e sarebbe bello riuscire a creare una sintesi tra i due nostri registi. Però non credo che lui sia altrettanto interessato...».

Zerocalcare partirebbe comunque avvantaggiato: anche lui, comete, ha fatto una serie tv, ma mica sulla popolana RaiPlay. La sua va su Netflix, una piattaforma più figa.

«È vero anche se sarebbe dovuto accadere il contrario visto che è lui l'uomo di sinistra e di Roma Sud». (ride) 

A proposito della tua serie tv, ci sarà una seconda stagione de Il santone?

«La stiamo scrivendo. Sono molto contento di quest' adattamento, perché racconta la periferia da un punto di vista inedito». 

Hai praticamente fatto tutto: libri, serie tv, teatro. Cos' altro ti manca?

«Il calendario sexy. Battuta a parte, mi piacerebbe molto fare un programma tv, magari di nicchia, come per esempio una rassegna stampa ironica, in stile Osho». 

“Io e il santone Osho…che non sapevo neanche chi fosse” Di  Edoardo Sylos Labini su Culturaidentita.it il 9 Giugno 2022

Oggi “Osho” compie 49 anni. Federico Palmaroli è il creatore di “Le più belle frasi di Osho”, tra le pagine social più seguite e apprezzate (oltre un milione di like su Facebook e 400 mila follower su Instagram). Il suo estro creativo ci ha regalato la copertina del mensile di maggio 2020 e una pagina di vignette futuriste, pubblicata sul numero di gennaio 2022, dove lui, amante del Futurismo, trasporta Filippo Tommaso Marinetti al Quirinale. Come ha detto al direttore di CulturaIdentità Edoardo Sylos Labini nell’intervista che oggi vi proponiamo in occasione del suo compleanno, Federico Palmaroli è ormai diventato il re della satira italiana: un percorso iniziato dalla gavetta, anzi dalle retrovie futuriste, come tiene a ricordare lui stesso, che ha tatuato su un avambraccio il fondatore del Futurismo Filippo Tommaso Marinetti. Con Edoardo Sylos Labini, il nostro Osho condurrà una delle serate del Festival di CulturaIdentità a Senigallia.(Redazione).

Com’era Federico Palmaroli liceale?

Puntava alla salvezza, nel senso che facevo il minimo indispensabile per superare l’anno scolastico! Però mi ricordo che quando facevo “sega” a scuola (spesso!), invece di andare in sala giochi andavo al Foro Romano: già lì emergeva la mia natura. Di questi tempi, invece, i ragazzi anziché marinare la scuola marinano la famiglia e non vedono l’ora di tornare in classe.

Hai mai fatto parte di movimenti giovanili, cosa ne pensi?

Non mi hanno mai attratto, non ho mai avuto una militanza politica. Mi sono avvicinato invece ad associazioni culturali più che ai vari collettivi.

Da adolescente che professione immaginavi per il tuo futuro?

Mi sarebbe piaciuto molto fare il macellaio perché amavo l’odore della carne cruda e toccarla (lo so, sembro un maniaco), poi ho anche pensato di fare il giornalista. Alla fine, come accadeva all’epoca, ho seguito un po’ il gregge e infatti la mia vera vena è uscita in età molto adulta.

Come nasce Osho?

Per caso, non sapevo nemmeno chi fosse. Vedendo la gente sui social che condivideva continuamente i pensieri di questo santone, ho avuto l’idea di appiattirlo sulle questioni quotidiane e di farlo parlare come se ce lo avessi accanto in giro per Roma. Tanti sannyasin, i seguaci di Osho – quel nome mi divertiva. Mi faceva pensare che si comprassero gli abiti a via Sannio – se la sono presa per la parodia e mi hanno fatto una vera e propria guerra attraverso la Fondazione che fa capo a Osho.

Spiegaci meglio

Iniziavano ad arrivare comunicazioni da studi legali con una carta intestata che solo a riceverle facevano paura. Quindi ho sospeso l’utilizzo, anche perché non mi avrebbe portato da nessuna parte a livello professionale. È stato un momento difficile perché vedevo quell’esperienza terminata invece è stata un’opportunità perché ho swichato sulla satira politica e da lì mi sono arrivate tutte le collaborazioni.

Qual è lo stato della satira in Italia?

Nel caso della vicenda Scotti/Hunziker, ha fatto bene Ricci a non chiedere scusa. Perché altrimenti si fa il gioco di questo politicamente corretto spinto alle estreme conseguenze. Oramai c’è una moralità costruita in modo artificiale che non consente più di esprimersi liberamente, anche in termini di satira come invece era prima. Vi ricordate la locandina di Un cinese in coma di Verdone? Purtroppo ci sono gli algoritmi che lavorano al posto della morale comune e agiscono in automatico. Per chi fa satira sul web è un problema ed è pericoloso perché si va verso l’appiattimento, un limite enorme alla creatività.

La tua avventura, per certi versi, ricorda molto quella del Bagaglino, nato con esponenti che non facevano parte di quel mondo dell’intellighenzia di sinistra

Ho confuso un po’ le acque perché il linguaggio che usavo era molto popolare e secondo certi stereotipi, poteva era assimilato a un tipo di satira di sinistra. C’è stato un cortocircuito quando dichiarai di non essere di sinistra. Appartenere ad un’area diversa da quella dell’egemonia culturale, pensavo mi avrebbe creato de- gli ostacoli invece la stima è arrivata da tutte le parti. Anzi, spero di avere rotto gli steccati e aver fatto capire che puoi farti una risata ed essere apprezzato anche se una cosa viene da destra. La mia satira è ficcante ma mai offensiva e colpisce i governi. Se il centrodestra andrà mai al governo, menerò sulla destra. Chi pensa il contrario, rimarrà deluso.

Scanzi ti diede del “fascio”

Sì, fra l’altro utilizzando una battuta trita e ritrita. Poi uno si mette sempre sulla riva del fiume ad aspettare il cadavere e credo sia molto peggio fregarsi un vaccino anziché partecipare a una cena elettorale. Detesto chi moralizza troppo perché pensa di essere al di sopra di ogni sospetto, proprio come i Cinque stelle che si sono presentati al grido di morte al re e adesso si ritrovano a governare col PD. Meglio fare un passo indietro prima perché poi quando sbagli vieni distrutto.

E l’amicizia con Di Battista? Cosa ne pensi del suo percorso politico fino a qui?

È stato lungimirante. Si è tirato fuori in un momento in cui iniziava la deriva e oggi viene visto come un salvatore di quell’idea originaria. Poi chissà forse capiterà anche a lui di dover scendere a compromessi.

Oggi è più difficile far ridere?

Quando c’era Conte al governo le contraddizioni sono state uno stimolo per fare satira, adesso che sono praticamente tutti al governo è più difficile perché non ci sono quei contrasti che ti offrono gli spunti giusti.

In pochi conoscono la tua passione per il Futurismo.

Mi innamorai del Futurismo nel 2001 per una mostra al palazzo delle Esposizioni. Cito spesso un discorso di Marinetti a Montecitorio dove fu portato via dalle forze dell’ordine e il giorno dopo D’Annunzio gli scrisse complimentandosi. Oggi quelle figure ci mancano più che mai.

Cosa vorresti dire ai giovani?

Sono preoccupato da questo andamento, vedo un appiattimento culturale. Se avessi dei nipoti li stimolerei a riscoprire le radici delle grandi figure del passato.

Raccontaci un episodio trash della tua carriera.

L’aneddoto più curioso è legato a Osho. Nel pieno dell’utilizzo di quel personaggio, da un resort dell’India mi mandarono una foto che ritraeva la gigantografia di una mia vignetta all’ingresso del villaggio, probabilmente per dare il benvenuto a degli ospiti italiani. Riportava la scritta “Ciò che non ci uccide, te rompe li cojoni”, hanno scoperto solo dopo cosa c’era scritto! Anche se secondo me è una grande verità che potrebbe avere detto anche Osho. Che pensi delle riaperture? Tra regole assurde e inspiegabili, come il coprifuoco alle 22.00, si rischiano di creare discriminazioni inaccettabili. Mi auguro, poi, che consentano anche ai ristoranti che non hanno spazi all’aperto di riaprire comunque con i distanziamenti, altrimenti per questi imprenditori sarà la mazzata finale. Il pericolo è generare una lotta all’interno già di un’altra lotta. In pratica, le scatole cinesi delle lotte sociali.

·        Fernanda Pivano.

Articolo di Fernanda Pivano del 18 aprile 1987 ripubblicato da “Sette” il 10 Giugno 2022.

Sono stata sollecitata in varie occasioni a fare un accostamento tra il suicidio di Pavese e quello di Primo Levi. Ma come è possibile tentare un simile confronto? Il suicidio è la più misteriosa, segreta, inaccessibile delle decisioni umane: nessuno saprà mai l’ultimo pensiero, l’ultimo sguardo, l’ultima angoscia dell’essere umano che rinuncia alla vita, si sottrae ai soprusi, si dichiara sconfitto. 

Il muro della vita privata non è mai così invalicabile come nel momento estremo. Per questo non mi pare si possano fare confronti, e anzi mi sembra imbarazzante il pensare di farne; in questo caso poi, dove una persona immersa nella incomunicabilità e nella solitudine come Pavese è totalmente diversa da un uomo che adorava la sua famiglia e ne era adorato.

Da Pavese non credo proprio abbia imparato l’idea del suicidio. È più facile che abbia imparato da lui a leggere Dante e i poeti del Trecento italiano, in quei pochi mesi che ci toccò il privilegio di averlo a farci lezione al liceo D’Azeglio. 

Con Levi eravamo compagni di classe, e Pavese ci dava bellissimi voti e soprattutto bellissimi commenti, rinfrancandoci nelle nostre precoci ansie politiche. Questo avveniva in quella che allora si chiamava una prima liceo, dove Pavese insegnò per qualche mese indimenticabile prima di venir arrestato e portato al confino: Levi stava tipicamente in un banco indistinto, nel mezzo della classe.

Quelle lezioni erano il nostro premio, un premio di cui ci accorgemmo quando Pavese fu sostituito da un professore in regola col fascismo e coi programmi scolastici, che non ci faceva più studiare sulla storia di Attilio Momigliano e di De Sanctis ma su un testo gradito a quello che allora si chiamava il Regime. Alla fine dell’anno la classe venne divisa: si fece una sezione per i ragazzi e una per le ragazze. Da allora Levi lo vidi solo alle lezioni di chimica (allora si chiamavano di «scienze»), dove era bravissimo, mentre io ero proprio un disastro e presa un po’ di mira da una strana professoressa, di cui ho rimosso (come direbbe uno psicanalista per dire dimenticato) il nome, ma di cui ricordo benissimo le lezioni criptiche, nelle quali invece Levi si muoveva con sorprendente disinvoltura.

Levi accettava la sua supremazia silenzioso, sommesso, ritraendosi dal nostro stupore davanti alla sua bravura, come restava silenzioso quando Pavese ci leggeva brani dei suoi componimenti. Era schivo, modesto, sorridente, come se fosse preoccupato di mortificare gli altri con la sua superiorità; e credo che questo modo di essere non lo abbia abbandonato mai. Nessuno poteva immaginare allora che quella bravura alle lezioni di chimica gli avrebbe salvato la vita ad Auschwitz.

La sua attitudine all’understatement si rivelò clamorosamente quando ci diedero la buffa e imprevedibile notizia che noi due eravamo stati rimandati a settembre in tutte le materie perché all’esame di italiano alla maturità classica un professore di Brescia (mi pare, ma non ne sono sicura, che si chiamasse Pasero) rivelando un brillante intuito critico aveva giudicato il nostro tema d’italiano con un 3, dunque escludendoci secondo il regolamento di allora dagli esami orali: fummo gli unici due allievi del D’Azeglio a subire questo trattamento.

Quel giorno che ci diedero la notizia fu l’ultima volta che lo vidi: io ero sconvolta, lui calmo e ironico, bravissimo di fronte all’assurdità e all’ingiustizia come rimase sempre. Agli esami di settembre lo intravidi appena e poi non lo incontrai più. Da lontano, con gioia, seppi del suo ritorno dalla tragedia del lager e con gioia seguii i suoi successi letterari e la sua affermazione con le sue doti di comprensione e di generosità umana, la sua assenza di animosità e di risentimenti, la sua capacita di dedizione e di amore nella famiglia e nella professione. 

Quando diedero il Nobel della pace a Elie Wiesel anche per i suoi meriti nella divulgazione del dramma ebraico dell’Olocausto pensai a un’altra ingiustizia: pensai che Levi si era trovato di fronte a un altro 3 di italiano dato da un professore di cui non si conosce neanche il nome.

Ma ancora una volta Levi non protesto e si ripiego con silenziosa modestia sul suo lavoro, senza lamentarsi e senza chiede- re niente a nessuno, continuando a scrivere, andare ogni giorno dal suo editore, che con tipica lealta non abbandono nei momenti di crisi, quando Giulio Einaudi precipito nel disastro. Anche all’ingiustizia del Nobel assistei da lontano, pensando che forse col tempo Levi avrebbe ricevuto il Nobel della letteratura, che viene assegnato con cosi imperscrutabili criteri. 

Ruppi il silenzio di tanti anni quando mi chiesero di proporre due scrittori per la nomination del premio Hemingway, quello che assegnano ogni anno all’hotel Ritz di Parigi. Telefonai a Levi, gli chiesi quale libro gli avessero pubblicato in America nel 1986, mi accertai che la nomination non lo infastidisse. Fu gentilissimo come era sempre, leggendariamente, gentile con tutti.

Parlammo un po’ della nostra bocciatura, un po’ di quella professoressa di chimica che per punirmi non si sa bene di cosa mi faceva soffiare con una cannuccia in un polmone di bue appena macellato (provocandomi un trauma non ancora superato), un po’ di Pavese, naturalmente. Aveva un tono distaccato, come se le cose del mondo non lo interessassero più, ma pensai che dipendesse dalla mia proposta di un premio che non considerava importante. Forse per non darmi questa impressione mi parlo della malattia di sua madre e della sua depressione, disse che la stava curando, che sperava di ricominciare presto a scrivere.

Lo lasciai preoccupata di averlo disturbato; ora sono felice di avergli offerto il poco di cui disponevo, di avergli confermato la mia stima. Mi resi conto che doveva stare male davvero quando non lo vidi a Firenze coi vecchi amici a festeggiare Einaudi. Della sua assenza si parlo; abbassando la voce parlammo della sua depressione. 

Ma nessuno quella sera immagino quello che sarebbe successo, che stava per succedere a un uomo che rappresentava un esempio di forza e di sopportazione per tutti noi. Un uomo capace di «resistere e sopravvivere», come diceva Faulkner, che senza conoscerlo sembra si sia ispirato a lui per certi suoi personaggi immortali.

·        Francesca Alinovi.

Dagospia il 22 febbraio 2022. Il 23 febbraio il Museo Maxxi di Roma dedica una giornata a Francesca Alinovi, per raccontare una delle protagoniste del clima di sperimentazione artistica degli anni 80.

Nella videogallery del museo verrà inoltre proiettato un video documentario su di lei, dal titolo ‘’I’m not alone away’’, scritto e diretto da Veronica Santi. Intervista a Marcello Jori di Massimo Giacon per Dagospia. 

Negli anni ’80 frequentavo con una certa assiduità gli ambienti bolognesi legati alla musica, al fumetto e al Dams.

Ero molto giovane, ma riuscivo a capire che dopo il Movimento del ‘77 quella città stava producendo qualcosa di nuovo, che proveniva da quella stagione, ma che si stava trasformando in qualcosa di indefinito e interessante. Quella città apparentemente sonnacchiosa era diventata in pochi anni un laboratorio politico, creativo e culturale. 

Dentro quella cupola svettava la personalità di Francesca Alinovi, che in pochissimi anni diventò una figura di riferimento per l’arte contemporanea, portando per la prima volta autori di fumetti nelle gallerie, e facendo conoscere in Italia gli artisti della scena dei graffiti di New York. 

Viene assassinata troppo giovane e troppo presto. Non ho fatto tempo a conoscerla, se non attraverso due mostre fondamentali curate da lei: quella che comprendeva anche Andrea Pazienza alla Galleria di Arte Moderna a Bologna, e quella sui graffitisti, in collaborazione con la galleria Holly Solomon di New York.

Ricordo di averla vista ad alcune inaugurazioni. Avevo quasi paura ad avvicinarmi, e così ho fatto conoscenza con la punta dei suoi capelli, da lontano, peccato che oggi ci si ricordi soprattutto dell’omicidio, complice anche un fortunato episodio della trasmissione televisiva Blu Notte di Carlo Lucarelli, ma nei media non si sottolinea mai abbastanza quanto fosse brillante, anticipatrice, acuta. 

Ne parlo con chi la conosceva bene, e che l’ha frequentata fino alla fine, Marcello Jori: artista, autore di fumetti, designer, scrittore. 

Come vi siete conosciuti?

Io ho conosciuto Francesca alla fine degli anni ‘70.  Si era laureata con Renato Barilli, che aveva appena curato la mia prima mostra personale e in quel periodo era decisamente la sua collaboratrice prediletta. All’inizio il nostro era un rapporto fra due giovani promesse, un giovane artista e una giovane curatrice, poi nel tempo è cresciuta  un’amicizia di lavoro e poi una collaborazione appassionata che ha portato a mostre e a un suo testo, per quanto mi riguarda, commovente. Abbiamo condiviso molte esperienze indimenticabili. Una per tutte, forse la più emozionante,  la mostra che agli inizi degli anni 80 curò da Holly Solomon, una delle galleriste in quel momento più importanti di New York. C’era anche Salvo e Ontani… Fu bellissimo esserci.

Quello che mi interessava capire è quanto Francesca Alinovi sia stata una delle prime ricercatrici ad interessarsi a qualcosa che all’epoca veniva percepito come un percorso parallelo e laterale dell’arte ufficiale, come un certo tipo di musica, o i fumetti.

Francesca non distingueva fra cultura bassa e cultura bassa, nè fra arte di serie A e di serie B…per lei esisteva solo l’arte vera o la “non arte”. Era una delle pochissime, se non la sola prima critica d’arte militante che si potesse definire internazionale (all’epoca non si chiamavano nemmeno curatori, il termine proprio non esisteva). 

Nessuna donna della sua età poteva vantare un rapporto di scambio così felice con l’America. Allora, per un’italiana era una qualità rarissima. Esistevano solo Celant con l’Arte Povera e Achille Bonito Oliva che in quel momento stava imponendo la Transavanguardia in Europa e in America. 

In questo contesto si era inserito Barilli, che tra i suoi molti meriti aveva quello di aver portato a Bologna una importantissima rassegna intitolata: “La Settimana della Performance” , con artisti provenienti da tutto il mondo, dall’Abramovich con Ulai,  alla prima Laurie Anderson (molto prima dei riconoscimenti musicali “pop”), ed è lì che Francesca conobbe Demetrio Stratos , che ormai non cantava più con gli Area, e rappresentava la Voce, con quella voce possente, unica al mondo, che lui sforzava talmente tanto da morirci: morì di leucemia fulminante all’improvviso. pare dovuta ai farmaci o chissà cos’altro che prendeva per calmare l’irritazione della gola, stressata oltre l’umana possibilità.

Era scoppiato un amore travolgente fra loro due, cosa che penso sappiano in pochi. Una bellissima storia d’amore, il classico colpo di fulmine. Lei si era innamorata perdutamente, avevano deciso di andare a vivere insieme. Francesca aveva preparato le valigie per andare a convivere quando arrivò la telefonata di Demetrio che diceva di un problema momentaneo… “mi tengono in ospedale qualche giorno”… 

Non l’ha più sentito. Non è mai tornato, era morto senza riuscire a salutarla. Per lei fu una tragedia terribile, uno dei grandi dolori della sua vita. Andammo in vacanza insieme ma fu impossibile consolarla… Per tanto tempo ha portato i fiori sulla sua tomba. Questi momenti tragici si fondevano con la sua attività di militante delle emozioni. Lei non sapeva separare la vita dal lavoro. 

Ha sempre avuto rapporti molto intensi con gli artisti, scambi di vita, viaggi condivisi con chi l’arte la creava... In questo senso lei inaugurò una figura di curatore che ancora non c’era. Ebbe la fortuna di essere molto apprezzata da Holly Salomon, che a detta stessa di Leo Castelli era una delle gallerie “simbolo” della New York di quegli anni. Mi ricordo dell’entusiasmo con cui portò in Italia graffitisti come Rammelzee, Sharf, Haring, Futura 2000. La amavano moltissimo. 

Questa sua trasversalità, la sua curiosità come veniva vista dal mondo ufficiale della critica, all’epoca?

Il suo era un modo di lavorare assolutamente nuovo. In questo io e lei ci siamo ritrovati. Io avevo cominciato nell’arte cosiddetta di serie A esponendo in gallerie e musei e all’improvviso mi sono imbattuto nel fumetto. Ho incontrato Andrea Pazienza e con cui era esplosa una amicizia inarrestabile. E poi tutto il gruppo Valvoline. Provavo un’attrazione irresistibile per quell’arte diversa che all’inizio degli anni 80 attirava talenti formidabili, grandi artisti che avevano scelto il fumetto come mezzo di espressione.

Lì trovavo un’energia capace di reggere il confronto con i più grandi visionari del mondo. Non riuscendo a rinunciare a nessuna delle due cose, passavo dalla frequentazione di artisti come Ontani e Nitsch, Paolini e Salvo, a quella di Pazienza, Igort, Mattotti. Anche per Francesca questo vagare per le arti stupidamente ancora chiamate alte e basse era diventato irresistibile.

Si interessava di musica, arte e fumetto, e quando è stato il momento di fare una grande mostra alla GAM di Bologna ha scelto di portare artisti e fumettisti insieme, credo per la prima volta. Lei condivideva con me la consapevolezza che l’arte importante in quel momento si stava facendo su riviste come Frigidaire in Italia e altre in Francia e America… Anche nel design e nella moda. 

Io mi ricordo proprio un suo articolo sui nuovi graffitisti americani proprio su Frigidaire. Ed era stata una cosa abbastanza singolare perché non era su una rivista come Flash Art, per esempio.

Si ma ci andavano in molti su quel giornale lucente di nuovo talento e di nuova vita sconosciuta. Dentro a Frigidaire c’era anche stato Achille Bonito Oliva che si era spogliato nudo per la rivista. Il problema di Francesca era che non aveva il senso del pericolo. Aveva l’incoscienza e il coraggio di andare al cinema da sola e di sera nel Bronx. Mi ricordo ancora il racconto che mi fece a voce alta in un ristorante di un nero che l’aveva aggredita durante una proiezione…

Secondo te che cosa è rimasto del suo lavoro nel mondo della critica d’arte?

Ha sicuramente influenzato diversi giovani curatori, senza fare nomi, che si sono completamente ispirati a lei. Stava diventando un’icona quando è stata fermata. 

Se Francesca Alinovi oggi fosse viva (cosa che ci saremmo auspicati, dato che è stata davvero una grave perdita per a cultura italiana), come la vedresti? Cosa farebbe? Sarebbe un personaggio mediatico e televisivo?

Sarebbe sempre stata più avanti agli altri. La sua irrequietezza cronica la portava sempre ad andare a caccia del nuovo che stava nascendo da qualche parte nel mondo.

E per lei il mondo era anche l’Italia, era anche casa sua dove il suo viaggiare è arrivato al capolinea. 

Fra tutti gli artisti che ha frequentato non posso dimenticarmi il più raffinato. Un amore felice finito ancora una volta dolorosamente in India. L’artista era Richard Tuttle, una specie di Fausto Melotti americano, che lavora sulla fragilità dei materiali, un artista così diverso da tutti e poetico…. Lei passava dall’aggressività dei graffitisti alle delicatezze di Tuttle senza scomporsi, aperta a tutti i sapori di un catalogo infinito.

Oggi sarebbe un po’ più in là del presente e appena prima del futuro a cercare quello che inseguiva da sempre: la scossa emotiva del ricercatore che scopre l’arte nascente. Si annoiava velocemente, si stancava molto presto delle persone che si ripetevano. Evitava i lavori troppo espliciti, non amava arrivare dove tutto il mistero di un’opera era già stato rivelato. 

Francesca non ha fatto in tempo a partecipare ai fasti della così detta Arte Muscolare. Non so dirti se avrebbe amato Cattelan e compagni.  Non ha fatto in tempo a scoprirli e forse li avrebbe costeggiati senza attraccare. Si trattava di artisti che preferivano scoprirsi da soli destinati a usare i curatori più che a farsi guidare.

Francesca, senza filtri e ipocrisie e a costo della vita, dimostra che gli anni 80 non erano poi quella gran festa della gioia e della creatività che per alcuni è diventata leggenda. In parte lo erano, ma erano anche una festa della morte. Andrea Pazienza morì di overdose, Pier Vittorio Tondelli fu uno dei primi morti di HIV.  Francesca morì per amore imprudente. Queste tre morti avevano spento le luci della festa. Ma la leggenda era cominciata.

Il territorio dell’arte è quello spazio dove non vale il detto: “Ciascuno è sostituibile!” Sostituendo qualcuno come Francesca, sostituisci il destino del tempo. 

·        Francesco Guicciardini.

Francesco Guicciardini, il Cinquecento nelle sue lettere. PAOLO DI STEFANO su Il Corriere della Sera il 29 Maggio 2022.  Che bella sorpresa le lettere di Francesco Guicciardini, non solo per le turbolenze storiche che raccontano dall’interno, ma anche per lo stile: precisione del lessico e perfetta adesione della sintassi al ragionamento. Si direbbe che la prima regola sia sempre per lui, anche nello scrivere, la «discrezione»: termine con cui definì la necessità di distinguere e di adottare ogni volta una diversa strategia per comprendere i casi della vita e le cose del mondo. È evidente, leggendo le lettere, come la «discrezione», per Guicciardini, sia non solo una legge dello storico che interpreta gli eventi ma una necessità dello scrittore nello scegliere, ogni volta, lo stile più adatto al contesto «particulare».

Francesco Guicciardini, «Lettere (1499-1540)», a cura di Paola Moreno, Einaudi (pp. 339, euro 30) Giurista, avvocato, diplomatico, funzionario, politico, uomo d’azione, oltre che storico, filosofo e scrittore, diversamente dal «popolano» Machiavelli, che fu suo amico, Guicciardini proveniva da una famiglia aristocratica fiorentina fedele ai Medici, il che gli permise di trattare con i potenti del suo tempo, principi e papi compresi, senza alcuna soggezione. Allevato «santamente» da un padre seguace di Savonarola, studente di giurisprudenza, ben presto avviato alla carriera politica, ambasciatore in Spagna, governatore di Modena e Reggio per conto di Papa Leone X, capo dell’esercito pontificio alla conquista di Parma nel 1522, consigliere di Clemente VII e ideatore della Lega di Cognac che schiera gli Stati italiani e la Francia contro Carlo V di Spagna, luogotenente dell’esercito papale nelle campagne lombarde. Nel 1527 Guicciardini fa esperienza del fallimento più amaro, quello dovuto al Sacco di Roma con la conseguente sconfitta della politica antimperiale del Papa, da Guicciardini fortemente sostenuta.

Il «Ritratto di Francesco Guicciardini» eseguito da Giuliano Bugiardini (1540 circa, Yale University Art Gallery); Guicciardini (Firenze, 6 marzo 1483 - Arcetri, 22 maggio 1540) fu scrittore, storico, politico, avvocato Per smaltire l’amarezza e l’accusa di malversazione, si ritira nella villa di Finocchieto, nei pressi di Firenze, dove constata come si possa precipitare dalle stelle alle stalle (sempre dorate), ovvero «da uno estremo eccessivo di onori, di riputazione, di faccende grandissime (…) in un altro estremo di uno vivere ozioso, abbietto, privatissimo, sanza dignità, sanza faccende, inferiore nella sua città a ogni piccolo cittadino». L’ultimo suo decennio è un periodo di cadute e di riprese: la fuga a Roma, presso il Papa, imposta dai repubblicani fiorentini più accesi giunti al potere; il ritorno in città e il governo di Bologna (sempre su incarico del pontefice), le diverse fortune vissute sempre al seguito (e in difesa) dei Medici. Infine, con l’arrivo del duca Cosimo, Guicciardini viene riempito di onori al preciso scopo di essere esautorato: infatti nel 1537, cinquantaquattrenne, si allontana dalla vita attiva per ritirarsi, questa volta per sempre, nella Villa di Santa Margherita in Montici, vicino ad Arcetri, e dedicarsi alla stesura della monumentale Storia d’Italia.

La vita attiva, tanto gloriosa quanto travagliata, è presente nelle lettere accanto alle vicende private, ai rapporti familiari e di amicizia: due orizzonti, quello pubblico e quello domestico, che sono strettamente connessi, specie quando Guicciardini, operando lontano (in Spagna), avverte l’esigenza di avere informazioni sulla sua città. L’eccezionalità della corrispondenza sta nella varietà, nello stile e nel numero, come ci informa Paola Moreno nell’introduzione alla raccolta che ha curato per Einaudi (Lettere). Una raccolta necessariamente selettiva (intesa come «vita attraverso le lettere») se è vero che il corpus completo delle epistole scritte e ricevute dal Guicciardini consta finora di oltre cinquemila documenti che occupano l’intera vita dell’autore, dall’autunno 1499 fino al 20 aprile 1540, pochi giorni prima della morte: «Si tratta di un momento importantissimo della storia d’Italia e d’Europa, che le lettere del fiorentino riflettono fedelmente, in presa diretta, per così dire, sia che Guicciardini si ponga come osservatore disincantato, sia che invece egli agisca e rifletta sul presente, come protagonista e pensatore politico».

L’aspetto più interessante per lo studioso è il presentarsi delle lettere come una sorta di palestra linguistica e concettuale, un laboratorio a cui Guicciardini attinge di continuo in funzione delle sue opere storiografiche, dei discorsi politici e anche dei Ricordi, raccolta di massime ad uso privato, la cui stesura occupò diversi decenni, benché non fosse destinata alla pubblicazione. Moreno sceglie, per estrema chiarezza, di disporre la sua selezionatissima antologia di lettere (una cinquantina) in ordine tematico-cronologico aprendo con gli anni della formazione: in latino la corrispondenza anche scherzosa con il giovane compagno di studi Alessio Lapaccini. Si prosegue seguendo le varie funzioni professionali svolte dal Guicciardini: l’ambasciatore, il mercante, il governatore, il consigliere del Papa, il riformatore, lo storiografo…

In una lettera inviata da Valladolid nel 1513 al fratello Luigi, compare il riferimento alle nuove rotte oceaniche aperte da Vasco da Gama, da cui consegue la prospettiva di alcune opportunità commerciali per la propria famiglia insieme con la preoccupazione per lo strapotere del sovrano spagnolo (un nuovo Carlo Magno) sempre più ricco grazie all’oro importato dalle Indie occidentali. È la stessa lettera che contiene una serie di forestierismi relativi alle merci giunte dall’Oriente, a cominciare dalle spezie, la noce moscata, il macis, il pepe, il cubebe, i chiodi di garofano («gherofani»), il rabarbaro («riobarbero»), la cannella, lo zenzero («gengovi»), oltre ai tessuti (la «seta fine»), la lacca («lachera buona»), il «verzino», il «legno aloè», lo «stagno più fine di quel di Londra» eccetera. Più in là troviamo l’avvocato alle prese con un presunto assassino: è il giovane conte modenese Uguccione che, sorpreso in un incontro adulterino con una nobildonna locale, in fuga con il servo ferisce a morte il marito di lei appostato con il suocero. La sorpresa è che, trattandosi di delicata questione ereditaria relativa ai potentati locali, la lettera è diretta al Papa e lascia intravedere un tentativo di «composizione» alquanto discutibile.

Si tratta sempre, per Guicciardini, di ricucire strappi, di mettere pezze, di rivendicare l’importanza del proprio status e ruolo di mediatore. La corrispondenza con i Medici tratta temi più istituzionali talvolta con toni di confidenza: la riscossione delle entrate a Modena, il contesto deplorevole in cui deve gestire i parmigiani «strachi» e «inviliti totalmente», la frustrazione per la mancanza di mezzi economici, la generale «conditione de’ tempi» e il trovarsi «nel più pazo laberintho» della sua carriera, avendo a che fare con «gente passionata e sanza ragione» (nella Rocca parmense di San Secondo). E poi: la necessità di agire sempre con «dextreza» e «prudentia», i suggerimenti di alleanze strategiche per rivolvere questioni locali e internazionali, consigli e appelli rivolti al Papa e ai suoi collaboratori.

Ha un rilievo notevole il carteggio di messer Francesco con Machiavelli, che Paola Moreno definisce «una delle pagine più belle dell’epistolografia italiana». Nei mesi in cui Guicciardini condusse la guerra per conto della Lega, il rapporto tra i due si intensificò grazie a una missione futile affidata a Machiavelli dalle autorità fiorentine presso i frati minori di Carpi, zona controllata dall’amico: la confidenza tra i due fu tale che dopo aver ricevuto la lettera in cui Francesco esprimeva la sua meraviglia per quell’incombenza vana, Niccolò gli scrisse: «Io ero in sul cesso quando arrivò il vostro messo et appunto pensavo alle stravaganze di questo mondo…». Innestando un gioco scherzoso e anche un po’ scurrile, compreso un «Cazzus!» sfuggito dalla penna del segretario. In altri momenti lo scambio si estende dal piano familiare alle riflessioni filosofico-politiche e ai confronti sui rispettivi testi.

È nella ricca sezione dei commenti che Moreno illustra le singole ragioni storiche e gli agganci: per esempio sulla drammatica lettera del dicembre 1529 ai magistrati fiorentini in cui Guicciardini, accusato di tradimento e ribellione contro lo Stato, si appresta a un doloroso esilio. E la curatrice ci tiene a segnalare quanto questa seconda stesura si presenti «quasi convulsa», carica com’è di cancellature e ripensamenti. Siamo nei pressi del 1534, l’anno in cui si chiude la Storia d’Italia, ricostruzione delle vicende non solo italiane ma anche europee avviate in quel 1494 che segna la fine dell’età dell’oro e l’inizio della tragica «perturbazione» delle armi…

Il volume si conclude con le epistole a familiari, amici e confidenti, dove il tono grave indulge di rado alle affettuosità, come quando dalla Spagna messer Francesco accenna alla nascita della prima figlia, oppure quando evoca la morte della cognata o il problema di maritare degnamente le figlie, per cui chiede consiglio al Machiavelli. Alla moglie Maria, Guicciardini dedica «pudiche parole» in una lettera del 1524 al parente Iacopo Salviati in cui il governatore della Romagna confessa di non voler più lasciare sola la consorte, afflitta da «una mala dispositione di homori malinconici che ha facta per li dispiaceri delli anni passati». In un’altra missiva, un anno dopo, rinuncia a trasferirsi a Roma «per rispecto della mogle», in preda a «humori maninconichi, che è stata per lasciarvi la vita, come sa tucto Firenze». Quel che sa tutta Firenze, in realtà, è che Maria è afflitta dal non avere avuto figli maschi. Guicciardini lo scrive in una lettera, ma poi decide di cancellarlo.

·        Francesco Tullio Altan.

Paolo Griseri per “la Stampa” il 6 luglio 2022.

Cipputi in giuria.

Per aggiudicare il premio a lui intitolato, che il 14 e il 15 luglio a Bologna sceglierà il miglior film dedicato ai temi del lavoro. Dal 2021 la rassegna, nata a Torino per iniziativa della Fiom e del suo animatore, Cosimo Torlo, si è trasferita in Emilia perché l'allora direttore del Torino Film Festival, Stefano Francia di Celle, non aveva più ritenuto di sostenerla. 

Altan, trasloco forzato quello di Cipputi?

«A Bologna mi trovo benissimo. Ricordo che due anni fa mi chiamò questo direttore del festival di Torino e mi disse che i nostri costi non erano sostenibili». 

Costavate molto?

«Bah, una notte di albergo. Credo che fosse una scusa.

Ho capito che non ci volevano più. E me ne sono andato. A Bologna ho trovato ospitalità nella manifestazione "Sotto le stelle del cinema" e sono molto soddisfatto».

Parliamo di cose più serie: come sta Cipputi?

«Bisognerebbe chiederlo a lui». 

Lei non lo incontra?

«Ogni tanto, quando passa». 

Una volta lo vedeva più spesso?

«Una volta era al centro della società, tutti parlavano di lui». 

E oggi?

«Beh diciamo che è un po' più defilato». 

Diciamolo: oggi l'operaio Cipputi non conta una cippa Mi scusi il gioco di parole.

«Beh è davvero cambiato tutto. Anche lui ha modificato il suo modo di pensare. Una volta c'era la classe. Lui era la classe. Esprimeva il punto di vista di un soggetto collettivo». 

Oggi?

«Tutto si è frantumato. Ciascuno è solo, anche sul posto di lavoro. I Cipputi sono tantissimi e pensano cose diversissime. L'unità sindacale è andata in pezzi. Il mondo è cambiato intorno a lui, come potrebbe rimanere lo stesso?». 

Cipputi ha nostalgia del tempo che fu?

«No, direi proprio di no. Cipputi non è un nostalgico». 

Però la classe, essere al centro dell'attenzione, tutte cose che fanno piacere...

«Certo, ma Cipputi non è mai stato un nostalgico. Quando ha compiuto 10 anni è stato scritto che lui era il simbolo di coloro che fanno bene il loro lavoro, precisi, meticolosi». 

Come l'ha incontrato?

«Non me lo ricordo molto bene. E' arrivato insieme a molti altri personaggi. E piano piano ha preso vita autonoma». 

Che cosa ha detto nella prima vignetta?

«Non so se fosse la prima. In una delle prime un compagno di lavoro gli chiede: 'E il costo della vita?'. E lui risponde: 'Dipende, a venderla o a comprarla?"». 

Tema di una certa attualità ancora oggi

«Vero, ma rispetto ad allora, tutto è diverso». 

Cipputi le ha mai parlato della guerra?

«La guerra è una schifezza, bisogna farla finire». 

E chi non sarebbe d'accordo? Ma come?

«Questo è un grossissimo problema. Non ho la soluzione». 

Che cosa pensa Cipputi? Che paghiamo di più il gas per difendere l'Ucraina?

«So che qualcuno la pensa così. Io non posso immaginare che si possano mettere sullo stesso piano le vite dei bambini ammazzati e la bolletta del gas. E credo che nemmeno Cipputi lo pensi». 

Chi è oggi Cipputi? Dove vive, che cosa fa?

«Beh non è più al tornio. Ha una certa età, è in pensione. 

Più facile trovarlo al bar». O alle feste dell'Unità?

«Eh, quante volte a quelle feste mi avvicinavano per dirmi: "Confessa, Cipputi sono io"». 

Oggi, politicamente, con chi sta Cipputi?

«Oggi Cipputi è un fedele».

 A chi?

«Ma al Pd». 

In passato ha avuto degli sbandamenti?

«Beh, come tutti». 

E' stato grillino?

«No, quello no assolutamente». 

E perché mai? Non gli piace il campo largo?

«Abbiamo detto all'inizio che lui è un professionista, è uno meticoloso, preciso.

Non gli piacciono i dilettanti, non si metterebbe mai con loro». 

E verso chi ha sbandato in questi anni? I leghisti?

«Non credo, ma bisognerebbe chiederlo a lui». 

Beh, non restano molte possibilità. Marco Rizzo, quello del rinato partito comunista, che peraltro lo ha recentemente espulso?

«Nooo, non credo che si conoscano». 

E Renzi? Sinistra riformista, l'ideale per un operaio specializzato...

«No, Cipputi ha una certa età e una certa esperienza. E' troppo anziano per farsi incantare da Renzi». 

I tecnici tipo Monti e Draghi?

«Beh, sono proprio di un'altra famiglia rispetto alla sua. Ma in caso di necessità un'alleanza con loro l'accetta. Diciamo che deve essere una necessità molto forte, ecco». 

Beh, i personaggi politici sono finiti. Non resta che il Papa. Che cosa pensa Cipputi del Papa?

«Ah il Papa, questo Papa, gli piace molto. Molto, molto. Papa Francesco gli è particolarmente simpatico». 

Però, però... sull'aborto è in testa alla battaglia contro le leggi che lo consentono...

«Beh, certo, è un Papa, che si pretende? Anche un Papa ha i suoi problemi. Ma rispetto agli altri questo fa cose diverse che a Cipputi piacciono». 

Il pensionato Cipputi parla di calcio al bar? Ha una passione, tifa per qualche squadra?

«Ne abbiamo parlato poco in questi anni. Ma credo che sotto sotto lui una squadra ce l'abbia». 

Dobbiamo tirare a indovinare? La Juve?

«No, assolutamente no, lo escluderei». 

Eppure anche Gramsci tifava per la Juve...

«Eh, ma erano altri tempi. Poi sono successe una sacco di cose». 

Allora per chi? Per il Bologna?

«Ecco, sì, potrebbe tifare per il Bologna». 

Non attribuisca a Cipputi le passioni calcistiche che invece sono sue

«E' vero, confesso, mi ha scoperto, io tifo per il Bologna». 

Come trascorrerà l'estate?

«Non lo so, non me lo ha detto e poi, mi scusi, questa intervista rischia di diventare troppo intima». 

Bene, torniamo alla politica. E' in programma il decisivo incontro tra Conte e Draghi per capire se i 5 stelle rimangono e in che forma, nell'area di governo. Cipputi è preoccupato?

«Non mi pare proprio che sia preoccupato dall'esito di quell'incontro. In questi giorni diciamo che ha dormito benissimo». 

Che cosa non lo fa dormire allora?

«Una cosa serissima, la guerra. Quella non lo fa dormire». 

Una parte della sinistra in Italia sembra avere remore con chi schierarsi, perché pensa che Putin sia la prosecuzione dell'Unione Sovietica con altri mezzi

«E' una stupidaggine. Putin e l'Unione Sovietica sono due storie diverse. Putin è un despota. Con i despoti non si discute, anche se poi, purtroppo, si deve. Questa è la contraddizione che toglie il sonno a Cipputi. La pace è una bella parola, tutti la vogliamo. Il problema sono i dettagli». 

Alla fine di questa intervista sarebbe utile avere da Cipputi una sintesi, un punto di vista politico che riassuma la sua storia «Provo a chiederglielo. Ecco, mi ha risposto. Ha detto così: "Da dove veniamo non lo so, su chi sono e dove andiamo non è chiaro"». Grazie, chiarissimo. Meglio di un discorso di Conte.

·        Francisco Umbral.

Davide Brullo per "il Giornale" il 6 marzo 2022.

Come tutti i grandi libri, anche questo comincia di sera, in un caffè, e si chiude con un funerale, in un giorno «crepuscolare e ventoso», dal «freddo violaceo». Come tutti i grandi libri, questo libro comincia con l'ambizione, ferina, e si chiude sull'erma del disincanto, celebra la mistica della chiacchiera e il mistero della poesia, è un'elegia sgraziata della giovinezza che s' incaglia nel cadavere, racconta il crollo e la carne, l'amore e la morte, l'amare fino alla morte.

Il morto è Ramón Gómez de la Serna, superbo scrittore spagnolo che «con ostinazione infantile» cullò l'idea, bellissima e fatale, dello scrittore come «uomo al di là che non si sporca con la volgarità del mondo». Invece, il mondo è mera cloaca, becero anelare nel vento, e scrivere non salva nessuno, il poeta è cronachista del piscio, geologo tra ziggurat di merda; la letteratura, infine, resta «il più mediocre degli impegni con la storia».

Francisco Umbral - nome che nasconde un francescanesimo di ombre - è stato, semplicemente, il più audace stilista della lingua spagnola recente, un poligrafo, un provocatore, un generoso bastardo. Della sua prosa da carmelitano della lussuria, viscerale, voluttuosamente scabra e selvatica - «mi hanno sempre annoiato i classici di qualunque epoca e di tutte le culture», scrive lui, che a Cervantes, «a volte enfatico, retorico e pesante», preferiva Nietzsche, «pensatore distruttivo e spaventosamente lucido»-, in Italia, per atavica disattenzione, c'è quasi nulla, il libro dedicato al figlio morto, Rosa e mortale (edito da Jaca Book nel 1997), estratto da un'opera muscolare, esorbitante, che svaria tra romanzo, saggio al vetriolo, biografia (quelle dedicate a Lord Byron e al poeta maldito García Lorca, ad esempio), reiterate raccolte di articoli.

Amava Carlo Emilio Gadda, era apprezzato da Jorge Luis Borges e genericamente odiato da quasi tutti gli intellettuali spagnoli che, scrisse alcuni anni fa, su El País, «continuano ad aggrapparsi al mantello del principe, che oggi è il politico. Per questo non vado più alle riunioni degli intellettuali: sono isterici, hanno perso ogni potere sulla storia, ogni legame con la società».

Di recente, gli è stato dedicato un documentario, Anatomía de un Dandy: fa il giro dei festival del cinema, fa il verso a un libro che Umbral, morto nel 2007, ha dedicato a Mariano José de Larra, esagitato, straordinario poeta spagnolo vissuto nel XIX secolo. I titoli dei suoi libri sono sornioni e guerreschi - Las ninfas; Los alucinados; Spleen de Madrid; Mis queridos monstruos; Capital del dolor; Diario de un snob -; più che un dandy, Umbral è stato un uomo solo nell'arena, un elegante eversivo, un dionisiaco disperato, uno che limava il verbo per uccidersi.

La notte che arrivai al Café Gijón (pubblicato nel 1977, tradotto per le Edizioni Settecolori da Giuliana Calabrese, pagg. 300, euro 26; con una prefazione di Carlos D'Ercole) è, semplicemente, un grande libro: comincia con un'ammissione - «tutti andavamo al Café Gijón per sentirci qualcuno» - finisce con un cadavere, cioè con la fine della spensieratezza e delle speranze «Con Ramón moriva il mio sogno arcadico» -; racconta, soprattutto, l'epoca in cui era bello vanificare una vita inseguendo un bel verso, una sferica bugia che avrebbe fatto "notizia", una donna dal viso esotico e dal profumo inesorabile.

Rigurgita di donne, in effetti, questo libro, di muse passeggere, a volte sadiche, spesso superbe, perché la protervia della carne dilaga in sordide nostalgie: c'è Sandra, «asturiana di Buenos Aires, anima femminea e vivace della notte, diavolo dalle unghie laccate», c'è Holanda, «la ninfa americana» dalla «pelle chiara e opaca», e uno sciame di modelle, «liriche gru, fenicotteri femmina, dalle gambe sottili e con le gambe fragili, dagli occhi misteriosi e il collo musicale». Ah, «le donne del Gijón», dalla «consistenza sfocata e transeunte», che «arrivavano, passavano, davano soldi o li chiedevano, facevano l'amore e poi sparivano».

È un grande libro, questo, pie no di iniziazioni, di illazioni e di agnizioni, pieno di alienati, di poeti, di fallimenti e di falliti. Dire che la letteratura del secolo scorso si è fatta in una manciata di café- il Giubbe Rosse a Firenze, il Café de Flore a Parigi, il Tortoni a Buenos Aires... - è perfino un cliché: oggi si fa, piuttosto, leccando il didietro di un editor e sperando nell'invito in tivù («Toda la televisión es putrefacta», diceva, a proposito, don Francisco). 

Umbral ha raccontato, del Gijón di Madrid, il fiore, l'arcano, la verità e la vanità. Fino a trarne una morale, di saturo stoicismo: «Sembra che imparare a vivere... debba essere fatto di grandi scoperte e profonde ed elaborate verità. E invece no. Pare proprio di no. Sembra proprio che imparare a vivere voglia dire apprendere piccoli dettagli, cose di poco conto. Dare, una dopo l'altra, pennellate rapide e precise all'immagine di noi stessi».

Umbral è stato un giornalista dal talento inesorabile, uno scostumato censore dei costumi. Le cronache mondane pubblicate su El País - reperibili nell'archivio digitale del quotidiano spagnolo - sono spesso miliari: il «Ché», per dire, «era un Byron col berretto da guerrigliero, ha immesso nel clima biondo della nostra giovinezza una galassia di ferocia. Ha vissuto sulle pareti delle stanze adolescenti insieme a una riproduzione del Guernica di Picasso e all'icona di Alice, quella dei Lewis Carrol, il prete» (17 ottobre 1987); Picasso «è stato per quasi un secolo la novità assoluta perché ha rappresentato la tradizione assoluta...

Ha genialmente plagiato l'arte di tutti i tempi» (25 ottobre 1986); di fronte a una confessione di Pedro Almodóvar, «Non mi sento desiderato, ed è terribile», Umbral reagì con candore al vetriolo: «Ora è finita, suppongo. Almodóvar ha avuto successo con un cinema segretamente terzomondista, che sublima il terzomondismo... tutti a Madrid si sentono riassunti e assunti da Almodóvar, e sono felici» (27 febbraio 1988). 

Soggiogati dall'immaginario americano, in estro per Joan Didion, celebriamo i fasti del New Journalism e di quello Gonzo, ci galvanizza il gergo di Truman Capote, la mise di Tom Wolfe: Francisco Umbral, barocco, sgargiante, osceno e aggressivo, non è da meno, è l'antidoto europeo alla missilistica melassa statunitense. In una fotografia scattata parecchi anni fa, Umbral è nudo, peloso, i consueti occhiali, capelli lunghi, fissa un teschio, che sorregge con la sinistra; una Olivetti, messa di sbieco, copre le vergogne. Quanto al resto, fu geniale e svergognato.

·        Franco Branciaroli.

Maurizio Caverzan per la Verità l'8 marzo 2022.

Altro che intervista, per raccontare Franco Branciaroli servirebbe un romanzo. Infatti, l’ha scritto lui: il primo, a 74 anni. Oltraggioso. Estremo. Disturbante. Volgare. Poco autobiografico, però. Branciaroli ha 50 anni di teatro nelle corde vocali, ha lavorato con Aldo Trionfo e Carmelo Bene, con Luca Ronconi e Giovanni Testori; senza dimenticare il cinema con Tinto Brass. 

 Nel romanzo, scritto in una lingua che a qualche critico ha ricordato quella di Carlo Emilio Gadda e Alberto Arbasino, c’è altro. Il titolo, La carne tonda (Nino Aragno editore), descrive il corpo di una donna incinta, ossessione erotica di un impiegato import-export milanese in pensione.

Poi ci sono un ex compagno di scuola dalle numerose e indecifrabili identità, un amico con moglie malata di sclerosi multipla e altri personaggi minori. Più che un pugno, è un calcio nello stomaco. Il campionario di perversioni e acrobazie alternato alle chiacchiere da bar su comunismo, Papa, maschilismo islamico, metamorfosi di Milano e prestanza dei neri compongono l’anatomia di una rivolta, pornografica e scorretta. Nella quale, alla fine, vince la maternità. 

Perché, Branciaroli, un romanzo adesso e di questo tenore?

«Il perché è una voglia di libertà creativa. In teatro non sei completamente libero perché dipendi dai direttori, dal regista e dall’autore dell’opera che si mette in scena. Tu sei solo un attore. 

Per realizzare un tuo progetto dovresti essere anche autore e regista. Con il passare degli anni questo stato può alimentare una sorta di frustrazione. Il vantaggio della letteratura è la libertà assoluta. Con una risma di fogli e due biro puoi fare quello che vuoi».

Si è scoperto scrittore a 74 anni?

«Rispondo con un esempio. Paragoni a parte, questo è bene sottolinearlo, Theodor Fontane ha scritto Effi Briest a 70 anni. Prima aveva scritto nulla d’importante. Solitamente ho un altro modo di sfogarmi. Quando non basta più, tutto quello che hai letto e pensato, può trasformarsi in un’altra forma espressiva. Che per me è la scrittura». 

Qual è la molla di questo sfogo?

«L’idea è che cos’è una donna gravida. La maternità è la vera protagonista della storia. Infatti, l’ho dedicato a mia madre». 

È viva?

«No, si chiamava Angela». 

Se lo fosse cosa direbbe di questo romanzo?

«Glielo nasconderei. Se lo scoprisse si sconvolgerebbe per le parti pornografiche. Però farei presto a spiegarle come va il mondo. Questo libro è in linea, il Pil di internet è la pornografia». 

I critici hanno molto apprezzato lo stile.

«Questo modo di scrivere non so da dove arriva. La lingua è dentro, un dono, un mistero. Io ho imparato prima il dialetto dell’italiano. Sono lombardo, come Gadda e Arbasino. 

Testori scrive pensando ai suoni. Il romanzo è tutto al presente, il protagonista non è uno che racconta, è uno che fa. Non so perché molti ridano quando gli attori scrivono. Ho letto e mandato a memoria migliaia di pagine di capolavori, non capisco lo stupore. Nella scrittura trovo una forma di voluttà artistica, spero di produrla anche nei lettori».

Gliel’hanno accettato subito o ha subito qualche rimbalzo?

«So che c’è stato qualche rifiuto, ma non me ne sono occupato direttamente. Ho trovato un editor che l’ha proposto ad Aragno, editore di lusso, che pubblica senza l’affanno delle vendite. Mi ha telefonato Aragno in persona, dicendomi che lo pubblicava perché gli piaceva lo stile. Lo benedico». 

È un romanzo contro?

«Indubbiamente. Ma è soprattutto un romanzo a favore della carne, che di questi tempi è molto bistrattata». 

Non c’è contraddizione in un cattolico che scrive un romanzo pornografico?

«Nessuna contraddizione. Se superiamo il moralismo, vale la massima che dice: “Ho conosciuto dei farabutti che erano anche dei moralisti, ma non ho mai conosciuto un moralista che non fosse farabutto”. Dopodiché questo paradosso è cristiano perché è l’esaltazione della carne. Il cristianesimo è l’unica religione che esalta la carne, l’incarnazione. Come scrive Michel Henry: “La carne è il dolore”».

Non mancano gli eccessi.

«Paragoni a parte, sottolineo, di quelli di Philip Roth, nessuno dice nulla». 

Da chi è bistratta la carne?

«In particolare dal femminismo notarile, a causa del quale il sesso si trasforma in un contratto, un protocollo. Non ci rendiamo conto che il politicamente corretto è il trionfo dello spirito bianco». 

Deprime la carne e la rende standard?

«Esatto. L’amore, la carne, il sesso: tutto diventa meccanico, solipsistico. Alla sinistra americana la vita carnale fa orrore. È costruzionista. Ma questa è la dimostrazione patetica dell’origine bianca del movimento».

Il bianco eterosessuale però ne è spesso il bersaglio.

«Solo il bianco ha questi problemi. È dei bianchi essere politicamente corretti». 

Scrive negri e negre al posto di neri e nere.

«Così si esprime il protagonista, non io... Ne fa una questione di pronuncia. “Negra con quella gr così potente” è più bello da pronunciare. È una geografia, “nera si può dire di una scarpa”. Rasenta la pesantezza e la volgarità, però è vitale. Racconto il ceto medio degli anni d’oro, prima che diventassimo tutti transgender, vegetariani, vegani, green. La classe media soprattutto americana è questa roba qui». 

I neri sono più prestanti: invidia non razzismo?

«Il libro è un’esaltazione della potenza sessuale dei neri. Rappresentano il futuro e generano invidia. Il protagonista immagina che l’Europa diventerà tutta nera». 

Per opporsi al dominio della Cina?

«Ma soprattutto per procreare. Raddoppieremmo la popolazione nel giro di 15 anni». 

Scenario apocalittico.

«La carenza di nascite è il problema di tutti, anche della Cina. È vero che l’assenza di procreazione diminuisce la popolazione, ma aumenta la quota di vecchi. Chi li mantiene?».

I musulmani prolificano, noi abbiamo l’aborto, la pillola, i preservativi, i gay. Ci domineranno anche numericamente?

«È il pensiero del protagonista. Ma è un fatto evidente che non nasce più nessuno. Nella visione del romanzo, il parto si trasforma in amplesso, esperienza di piacere. La maternità senza dolore si rivitalizza». 

Scrive culattoni invece di gay.

«È il linguaggio di quella classe media milanese». 

Romanzo reazionario?

«Definirlo reazionario è un equivoco femminista, mentre esalta le donne. Non che me ne freghi niente, ma è uscito così. Caso mai è un cicinin apocalittico. Tra reazionario e conservatore c’è differenza. Il reazionario vuole distruggere ciò che c’è, il conservatore vuole mantenerlo. Il romanzo è né questo né quello, più complesso di quel che sembra».

Quanto c’è di autobiografico?

«Non molto, le parti dell’infanzia, il bar di famiglia. Il resto è inventato o aggiustato». 

Ci sono anche i fotoromanzi, stagione rimossa.

«Da bambino ero addetto alla vendita dei fotoromanzi e delle sigarette. Quelle osterie erano come dei drugstore. Stavo su un seggiolone con i Grand Hotel e i pacchetti di sigarette che si scartocciavano per venderne 5 o 10. I fotoromanzi erano la possibilità di sognare. Pubblicavano foto a tutta pagina dei divi di Hollywood che ritagliavo e conservavo». 

Lei ha una moglie affetta da sclerosi multipla.

«Sì, ho una moglie così. Lì la vicenda è estremizzata. Ho immaginato cosa può passare una persona che ha difficoltà economiche, che io non ho, davanti a un problema del genere. 

È una condizione nella quale i soldi sono ancora più discriminanti: da uno standard normale alla disperazione. Non abbiamo un’organizzazione pubblica all’altezza, devi fare da solo. Lo Stato non si occupa di questi cittadini. Il contributo pubblico è di 350 euro al mese, più 700 per l’accompagnatore. Uno che ha una persona così e lavora, come fa?».

Che cos’è per lei la ricchezza?

«È fondamentale. Se lavori, avere una persona così vuol dire badanti. Ma nel nostro Paese sono considerate un lusso come le cameriere perché il loro costo non è detraibile dalle tasse. Detraibili sono le infermiere, che però costano 200 euro al giorno. Le badanti poi hanno dei retrovita complessi, figli e mariti distanti, nei quali ti coinvolgono. In Italia i disabili sono 4 milioni, aggiungici i parenti: non capisco perché non facciano un partito». 

In questi mesi è in tournée con Umberto Orsini, 88 anni, con una storia di due amici: è una sintesi della sua carriera, lei ha spesso stretto grandi sodalizi artistici?

«L’opera di Nathalie Serraute, madrina del nouveau romance francese, s’intitola Pour un oui ou pour un non e si basa sugli equivoci del linguaggio che, con la sintassi rozza dei messaggini, riportano a galla vecchi malintesi fino a generare a catena la crisi del rapporto. È un gioco molto sofisticato e divertente». 

Dicevamo dei suoi sodalizi con i mostri sacri del teatro: erano fratelli maggiori, maestri, padri?

«Sono esperienze fatte in età diverse. Trionfo l’ho incontrato quando ero molto giovane. Dirigeva Carmelo Bene e me e nel Faust di Christopher Marlowe. Carmelo era più vecchio ma di poco, il fratello maggiore e complice». 

Luca Ronconi?

«Il maestro, ascoltandolo imparavo cose che non sapevo. Un maestro senza volerlo essere, tra i maggiori a livello mondiale. Molti fanno teatro, ma non lo conoscono in profondità». 

Giovanni Testori?

«Lui era un autore, ho provato la sensazione di un drammaturgo che lavorava apposta per me. Un’esperienza eccitantissima: c’è uno che scrive delle opere pensando a te». 

Cosa comportava la complicità con Carmelo Bene?

«A parte il principio di obesità dovuta all’alcol, abbiamo trascorso due anni in tournée. Un giorno si presentò al ristorante con un occhio nero, regalo del fidanzato di un’attrice che aveva tentato di sedurre. Invano. Oltre all’insuccesso, le botte. Anche il fidanzato era un attore. ‘Ma Carmelo’, gli dissi, ‘non sapevi che ha l’asma, ti bastava metterti a correre e non ti avrebbe mai preso’». 

Questo romanzo è un copione per Tinto Brass?

«Qualche scena potrebbe esserlo. Ma il cinema è crudele perché quando si inizia un film bisogna firmare le polizze assicurative. Se non si è in ottima salute non ti fanno più fare niente». 

Come ha vissuto il periodo acuto della pandemia?

«Malissimo. Prima dei vaccini dovevo proteggere e controllare tutto e tutti, un disastro. Chi è già malato e vecchio non doveva prendere il virus. Sono rimasto chiuso un anno, non dormivo, ho sfiorato la depressione. Fortuna che ho un piccolo pezzo di terra. Parlavo con le piante…».

·        Franco Cordelli.

Antonio Gnoli per Robinson- La Repubblica il 15 ottobre 2022.

In quel libro di onesta dissimulazione che è Tao 48 (nessun riferimento a faticose e iniziatiche vie orientali) Franco Cordelli scodella la propria vita ricoperta dal velo delle allusioni. 

Verrebbe da chiedere a questo maestro della reticenza che cosa sia la verità. Guardo l'uomo, dai tratti fini, nel suo veleggiare verso gli ottant' anni. Critico temuto delle scene teatrali, colto nelle disseminate letture; dotato, sospetto, di quella punta di narcisismo che gli insaporisce l'io senza però guastarlo, e rivedo quei vecchi intellettuali tutti di un pezzo, un tempo chini sulla Storia e oggi immersi nel loro privato. 

C'è un cambio radicale di scena. Del resto chi ha più la forza di comprendere dove va il mondo se non capisci dove stai andando tu? Cordelli si è tuffato nei ricordi come in un mare di nebbia: donne, amori, risentimenti, amicizie, libri, film, insegnanti, case, luoghi e soprattutto Roma. La Roma toponomastica, inseguita, amata, tra infanzia, adultità e vecchiaia che incombe come un'amante storica mai dimenticata.

Cos' è questa città per te?

«Al di là dei cinghiali e della spazzatura, Roma è i posti in cui ho abitato: piazza Alessandria, vicino al mercato coperto, piazza Bologna dove ho trascorso la mia infanzia. Con mio fratello andavamo oltre la ferrovia a scontrarci con altre bande. Ora, come vedi, abito dalle parti di Ponte Milvio. Nella casa dove vivo ci sono tornato per mia madre, dopo un periodo milanese. È un luogo occupato da libri. Ti potrei al massimo offrire un caffè, non cucino, non faccio la spesa.

Il frigorifero è uno spazio dove metto i libri. Mangio fuori, pranzo e cena. Sono le mie uscite, per il resto sto a casa a leggere e a scrivere. Rimango un animale notturno, memore dei miei trascorsi: la Roma degli anni Sessanta e Settanta, quando l'avanguardia teatrale si era imposta sulla scena mondiale. Mi chiedi cos' è questa città per me. È una passione, forse un po' storta e gratuita, ma non potrei pensarmi altrimenti che romano». 

Hai fatto qui i tuoi studi.

«Fino a tutto il liceo e parte dell'università. Seguivo le lezioni di americanistica di Elémire Zolla e quelle di letteratura di Giacomo Debenedetti. Chiesi a quest' ultimo la tesi di laurea. Mi disse "non dò tesi a chi al mio esame ha preso ventotto". Fu un trauma. Decisi di smettere. Per tre anni lontano dall'Università. Poi, su insistenza di mia madre, ripresi il corso degli studi. Questa volta a Urbino. 

La scelsi perché i miei nonni vivevano a Cantiano, a pochi chilometri. Dormivo da loro e frequentavo la facoltà di lettere. Mi laureai in letteratura americana con Alfredo Rizzardi, fu lui a tradurre e a curare i Canti pisani di Ezra Pound. Un tipo interessante Rizzardi. 

Chi sono stati i tuoi riferimenti?

«Ovviamente Debenedetti, malgrado il rifiuto. Poi Zolla, che seguii un paio d'anni. Faceva corsi sui libri meno conosciuti di autori importanti. Ricordo L'orso di Faulkner. Di Zolla avevo letto Eclisse dell'intellettuale, un grande libro, mi pare del 1964. Poi presi in mano Volgarità e dolore. Mi irritò che parlasse male del cinema. Per me è difficile trascorrere una sera senza vedere un film». 

Come guardi un film?

«Cerco di abbandonarmi al flusso delle immagini. Ora che ho perso l'abitudine di andare al cinema, li guardo in dvd o nei canali on demand. Non è più come quando la famiglia si metteva nel tinello davanti al piccolo schermo in religiosa aspettativa». 

Altri tempi. I tuoi che facevano?

«Mio padre lavorava in banca, mia madre, quando noi figli siamo diventati autonomi, andò a lavorare all'Unire, un ente che si occupa del patrimonio ippico italiano. Fu mio zio, che possedeva una scuderia importante, a fondarla. Un suo cavallo, Nuccio, vinse "L'Arc de Triomphe". Ho sempre in testa una foto che lo zio aveva in casa: si vede una bilancia, su un piatto Nuccio e sull'altro una montagna di soldi. A fianco lo zio sorridente e l'Aga Khan, che comprò il cavallo». 

Ti piacciono i cavalli?

«Mi fai venire in mente una frase che mi disse mio padre: ricordati Franco che i veri giocatori scommettono nelle corse al trotto, non in quelle al galoppo. Intendeva che con i cavalli da corsa rischi di farti male. Insomma, bisogna stare con un piede sulla soglia del successo, mai oltrepassarla». 

Un certo successo ti arrise con il Festival dei poeti a Castelporziano. Tu che c'entravi con la poesia?

«Tutta la mia adolescenza l'ho passata leggendo i testi dei poeti più disparati. Poi arrivò la neoavanguardia e decretò che la poesia, un certo tipo di poesia, era morta. Ma come? Avevo passato anni dentro quel mondo. Con Alfonso Berardinelli per reazione confezionammo un'antologia di poeti. Nel 1977 invitai al Beat '72 un gruppo di poeti a recitare le proprie poesie. Fu un successo clamoroso. Dissi a Simone Carella, regista dello spettacolo, che dovevamo replicare quei recital, ma questa volta in riva al mare». 

Così nacque Castelporziano?

«Era il 1979, Roma sussultava sotto la vena embolica di Renato Nicolini. Alzammo un catafalco sulla sabbia. La prima sera accadde il finimondo. Sul palco arrivò di tutto. Il pubblico ci mitragliò con pomodori, bucce di anguria, torsi di mela, ortaggi vari. La seconda sera volarono sedie e bottiglie. Finì tutto sulle pagine dei giornali. Ma nella serata conclusiva sotto il palco c'erano trentamila persone. Il pubblico si divise tra fascinazione e rifiuto. 

Fu una cagnara pazzesca. Fino a quando Allen Ginsberg seduto con le gambe incrociate presentò se stesso e gli altri poeti e poi cominciò il suo mantra, una litania che mise tutti d'accordo. Il successo di quella tre giorni resta per me inspiegabile». 

Avevi creato il populismo poetico.

«Ma sì, uno vale uno. Tutti si sentivano autorizzati a salire sul palco per declamare le proprie stupidaggini».

Che cosa pensi dei poeti, quelli veri, intendo?

«Ho smesso di leggere poesia da un bel po'. Cosa penso? Sono animali sulfurei. Hanno lo zolfo sottotraccia. Ogni tanto si avverte l'odore delle uova marce. È il loro modo di protestare». 

Non capisco.

«Diversamente dagli scrittori non sono quasi mai al centro della scena letteraria. I loro libri non vanno in classifica, non li vedi in televisione. La poesia è l'arte meno influente che esista». 

Forse perché è la più allusiva e dunque remota. Anche tu però, nei tuoi romanzi, pratichi l'arte dell'allusione.

«Trovi?».

Dietro "Il Duca di Mantova" c'è Silvio Berlusconi.

«Era un romanzo scherzoso, che invece di parlare di politica descriveva una mutazione antropologica dell'Italia. Quella degli anni Ottanta e Novanta». 

Subisti un processo.

«E lo vinsi».

Anche il tuo nuovo romanzo "Tao 48" è tutto una trasfigurazione.

«La trasfigurazione richiede una certa lontananza dalla cronaca, dai luoghi, dai personaggi e perfino dai tuoi traumi. Ci sono, ma appunto trasfigurati. Letti da una certa distanza. Per me è anche un modo di tenere a bada la vanità. Il vero compito dello scrittore è cercare di controllare la propria vanità. È un lavoro religioso e improbo. Perché la scrittura, nello stesso tempo, si scontra con la vanità e rappresenta il fuoco che la scalda. Una lotta senza quartiere». 

Fammi un esempio.

«Penso che Cechov, più di ogni altro, abbia combattuto con successo la propria vanità. Non l'ho mai visto mettere al centro della scena il proprio io orgoglioso».

Cosa che invece riusciva benissimo a Giorgio Strehler, al quale alludi pesantemente in "Tao 48".

«Non mi è mai piaciuto. Era un concentrato di vanità e potere. I suoi allestimenti, per quanto interessanti e autorevoli, andavano in una direzione opposta a quell'avanguardia alla quale mi sono sempre sentito legato: Bob Wilson o Peter Brook, per citare due nomi di pubblico dominio». 

Anche con Carmelo Bene hai avuto un rapporto burrascoso.

«Nel 1974 quando, dopo una parentesi di cinema, tornò al teatro, scrissi un articolo in cui lo criticavo non come attore ma come un uomo avido di soldi. Mi sfidò a duello. Rifiutai sostenendo che non potevo accettare uno scontro con chi sapevo aveva preso lezioni di scherma. Per lungo tempo non parlai più dei suoi spettacoli. 

Anni dopo, un po' per sfregio e provocazione, recensii il suo Lorenzaccio senza averlo visto. Fu un atto abbastanza infame da parte mia, ma volevo sottolineare una certa sua prevedibilità sulla scena. Come se ogni volta rifacesse il verso a se stesso. E poi accadde una cosa inaspettata».

Cosa?

«Mi telefonò una sera, era la vigilia di Natale del 1994. Ti vorrei vedere, disse. Quando? Chiesi. Subito, rispose. Ci incontrammo il giorno di Natale. Andai a casa sua e restammo a parlare dalle 10 del mattino alle 8 di sera. Quella lunga seduta servì a cambiare radicalmente il nostro rapporto». 

Non ti chiedo cosa pensi del suo teatro.

«Non ce n'è bisogno. Ha sfiorato il kitsch ma non c'è mai caduto dentro. Recentemente ho scoperto, ed è curioso, che Carmelo andò a trovare Aldo Braibanti. E in seguito commentò quell'incontro dicendo: ho imparato molto da quel genio straordinario. Credo sia stata la prima e forse unica ammissione di umiltà di Carmelo». 

Come sei diventato critico teatrale?

«Fu Elio Pagliarani, su segnalazione di Walter Pedullà, a chiamarmi. Gli serviva un collaboratore per la rubrica teatrale che teneva su Paese Sera. Cominciò così il mio rapporto con il teatro. A Elio devo indirettamente la mia amicizia con Ingeborg Bachmann. Abitava a via Margutta, accanto alla casa dove la scrittrice viveva con Max Frisch. La incontrai in un paio di occasioni. Una volta la trovai sdraiata sullo zerbino della porta di casa. Frisch l'aveva lasciata fuori.

Rividi la Bachmann a Vienna a un pranzo di nozze di mia cugina e sedetti allo stesso suo tavolo. Era incantevole, dolorosamente incantevole. Appresi che si era separata da Frisch. A Roma uscimmo qualche volta assieme. Scoprii la sua vita disordinata, l'esatto opposto della sua scrittura che resta straordinaria. Avevo 27 anni. Morì in maniera drammatica tre anni dopo. Era il 1973. Quella fine, lei avvolta dalle fiamme, mi fece soffrire per mesi». 

In "Tao 48" affronti il tema della malattia e della morte. Tra l'altro "Tao" è l'acronimo di un posto dove a Roma sei stato curato.

«Della morte non ho paura. Mi auguro solo che non ci sia il degrado fisico, quello non lo sopporterei. Ho trascorso mesi in ospedale ed è stato come scoprire un'altra dimensione di me».

Quale?

«Non la rassegnazione, ma una quiete profonda. Non vivo di nostalgia. Del passato non mi frega niente. Eppure mi mancano certe albe che vedevo dalla finestra dell'ospedale. Pensavo davvero che la vita rinascesse ogni giorno. Come un omaggio sincero a un'esperienza che si ripete». 

Ho trovato singolare, a proposito di omaggio, quello che nel libro rivolgi a Ennio Flaiano, così diretto ed esplicito.

«È vero, ma in fondo Flaiano è stato tutto quello che avrei voluto essere. Mi piacerebbe aver scritto libri come li ha scritti lui».

Perché, come li ha scritti?

«Con una consapevolezza che sfiora il disincanto. Lo sentivi in trattoria esclamare: "A Cesare che voi? Ma vattela a pià in quer posto!". Questo era Flaiano: scettico verso il genere umano. E dolorosamente umano verso i dubbi che lo attanagliavano. Il dialogo finale con lui è la mia personalissima utopia. Non ho potuto essere Flaiano, ma posso essere quello che per un momento lo riporta in vita. In fondo anche questo rientra nei compiti della scrittura».

Giampiero Mughini per Dagospia il 15 ottobre 2022.

Caro Dago, leggo sull’ultimo numero del “Robinson” la consueta gran bella intervista di Antonio Gnoli - questa volta a Franco Cordelli - e vengo invaso da una dolorosa nostalgia. Di quel tempo dello scorso millennio in cui molti di noi collaboravano al quotidiano comunista “Paese Sera”, e c’eravamo Franco Cordelli, Bimba De Maria (la più bella giornalista italiana dei Settanta), il giovane Daniele Del Giudice, Giorgio Dell’Arti, oltre che il sottoscritto. 

Ed era il tempo in cui quando scrivevi un articolo su quel quotidiano, tutti coloro che incontravi a Roma lo avevano letto, e questo perché i giornali di carta erano come l’aria che respiravamo, e non come adesso che chi mi incontra per strada mi dice che mi riconosce dalla montatura degli occhiali con cui mi ha visto in tv, e non gli passa neppure per la testa di star dicendo qualcosa di offensivo.

Ripenso a quella Roma, a quelle nostre abitudini di allora, alle nostre topografie sentimentali e morali di allora, e mi sembra di star pensando a qualcosa che è remota da noi quanto la civiltà etrusca. 

Penso ai cinemini in cui ci imbucavamo tutte le volte che potevamo, alle librerie in cui entravamo un giorno sì e l’altro pure (oggi ahimè il mio rapporto con la compera dei libri passa tutto quanto da Amazon), alle trattorie che frequentavamo badando a non spendere mille lire in più perché di mille lire in tasca ne avevamo pochissime.

Mi ricordo come fosse ora del piacere che mi dava la compagnia di Franco, il più letterato di tutti noi, fors’anche più di Daniele, che comunque letterato lo era in modo diverso. Daniele è morto, al funerale di Bimba siamo andati io e Michela, saranno trent’anni da quando ho visto per l’ultima volta Franco e me ne dolgo assai. Lo so che è un orso, che se ne sta rintanato in quella sua casa di famiglia tappezzata di libri, e pur tuttavia trovo sconcertante, se non dolorosissimo, il silenzio sopravvenuto tra noi due, come del resto con tanti altri di quella nostra generazione. 

Sconcertante. Come forse ogni aspetto e particolare del nostro odierno campare, dominato com’è dal ronzio bastardo dei social e da null’altro che questo. Da null’altro di reale, intendo. Da voci e volti di persone. Dai loro occhi. Niente di tutto questo.

·        Franz Peter Schubert.

Ricordando Schubert. Redazione L'Identità il 19 Novembre 2022 di Benedetta Basile

Per gli amanti della musica il 19 novembre è una nota ricorrenza. Ben 194 anni fa, a soli 31 anni, morì il noto compositore austriaco Franz Peter Schubert. Nonostante la giovane età, il musicista ci ha lasciato un numero decisamente importante di composizioni, la maggior di loro furono però conosciute molti anni dopo la sua morte.

La possibilità di ascoltare la musica di Schubert, infatti, finché era in vita, era circoscritta ad un numero molto ristretto di amici e ammiratori per lo più viennesi, che apprezzavano in particolare modo i suoi “Lieder”, di cui tutt’oggi è indiscutibilmente il più grande maestro.

Scrisse anche molta musica da camera, per il pianoforte, musiche di scena, musica sacra e, soprattutto, undici sinfonie, di cui ben tre rimasero incompiute.

Franz Peter Schubert nacque il 31 gennaio 1797, nella casa detta “Zum roten Krebsen, ovvero al granchio rosso, a Lichtental, un sobborgo di Vienna, da Elisabeth Vietz e Franz Theodor Schubert. I suoi genitori si sposarono il 17 gennaio 1785 e lui era il dodicesimo di quattordici figli, di cui solo cinque però raggiunsero l’età adulta. Il padre fu il suo primo insegnante.

Studiò canto, organo, pianoforte, e armonia seguito da Michael Holzer organista e maestro del coro parrocchiale del suo quartiere. Il suo stesso maestro ripetè più volte di non aver mai avuto a che fare con un allievo dotato di così tanto talento. Era solito contemplarlo con le lacrime agli occhi, dicendo: “In che posso essergli utile? Quando voglio insegnargli qualcosa, la sa già” oppure “Ha l’armonia nel dito mignolo”.

A soli 11 anni Franz divenne cantore nella cappella di corte e vinse una borsa di studio, grazie alla quale riuscì ad entrare nell’imperialregio Stadtkonvikt di Vienna.

Le sue prime composizioni furono dei quartetti, che risalgono agli anni 1811 e 1812, che il giovane scrisse per eseguirle alla presenza dei suoi soli componenti familiari.

Alla fine del 1816 Schubert aveva già composto “Erlkonig”, il “Re Degli Elfi” e i “Lieder” per voce e pianoforte erano già oltre cinquecento.

Quello stesso anno, grazie al sostegno di alcuni amici, decise di abbandonare la scuola del padre dove stava lavorando. Tra di loro ci fu il poeta e librettista Franz Von Schober, l’avvocato ed ex violinista Joseph Von Spaun, il poeta Johann Mayrhofer, i pittori Leopold Kupelwieser e Moritz von Schwind, il pianista Anselm Huttenbrenner, Anna Froelich, sorella di un cantante d’opera e Johann Michael Vogl, baritono e compositore che fu uno dei principali divulgatori delle “Lieder”.

Grazie a questa sua numerosa cerchia di amici nobili, benestanti e benefattori, nonostante le ristrettezze economiche, Schubert, potè portare avanti la sua attività di compositore per tutta la vita, senza dover mai cercare un impiego.

Purtroppo, durante un soggiorno presso la residenza estiva del conte Esterhazy, in Cecoslovacchia, contrasse la sifilide che minò non poco la sua salute e il suo fisico e non gli fece superare un attacco di febbre tifoide contratta a Eisenstadt durante una visita alla tomba di Franz Joseph Haydn.

Franz Schubert si spense così il 19 novembre 1828 a Vienna alla giovane età di 31 anni.

Al compositore viennese venne riconosciuto da molti musicisti un “forte appetito per la sperimentazione”, tra questi il compositore Ernst Krenek, che inizialmente lo considerò un semplice “fortunato inventore di melodie piacevoli”, ma dopo aver studiato una serie di brani, si dovette ricredere.

Questo “appetito” si ripropose spesso nella stesura e nella composizione dei pezzi composti da Schubert. Nelle sue prime creazioni fu sicuramente influenzato da Mozart e Beethoven, ma in seguito adottò uno stile orientato su varie forme e generi come l’opera, la musica sinfonica, la musica liturgica e le composizioni per il pianoforte.

Ma il segno indelebile del grande maestro lo si trova nei “Lieder”, ovvero canzoni, di questi sperimentò le potenzialità fino ad allora inespresse del genere, componendone parecchie e raggiungendo risultati notevoli a livello di innovazione, tenendo a forme libere, soprattutto a livello metrico. Uno stile unico e inconfondibile oltre che tipico del nuovo movimento romantico. 

·        Franz Kafka.

Quei disegni con cui Kafka cercava una lingua "sacra". Scarabocchi, schizzi, ritratti: tutte le opere, salvate da Max Brod, sono ora raccolte in un unico volume. Marino Freschi il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.

«Sai, una volta ero un grande disegnatore, solo che poi ho cominciato a prendere lezioni di disegno da una cattiva pittrice, e tutto il talento si è guastato. Eppure a quel tempo, ormai anni fa, quei disegni mi hanno appagato più di qualsiasi altra cosa». Questa lettera a Felice, la fidanzata berlinese, del 12 febbraio 1913, come sovente in Kafka, più che spiegare disorienta. Intanto della «cattiva pittrice» non si ha notizia. Tuttavia si doveva trattare di un profondo legame attivo e passivo tra Kafka e il disegno. Specialmente in gioventù la sua attività di disegnatore era assai vivace. Sulla sottovalutazione di questo aspetto creativo di Kafka si era già lamentato Brod: «Finora nessuno ha ritenuto necessario osservare il parallelismo delle due visioni, di disegnatore e di narratore». A questa disattenzione ripara finalmente la pubblicazione integrale dopo decenni e decenni di cause giudiziarie per la complessa situazione dei diritti d'autore - di tutti i disegni di Kafka conosciuti, raccolti ora in una stupenda edizione, I disegni di Kafka - che esce in Italia da Adelphi (pagg. 368, euro 48) a cura di Andreas Kilcher, nella traduzione, come sempre, esemplare di Ada Vigliani, con osservazioni finali di Roberto Calasso, presumibilmente le sue ultime pagine pubbliche. Calasso era stato autore, nel 2002, di una intrigante biografia su Kafka, K., in cui ogni capitolo veniva emblematicamente introdotto da un disegno dello scrittore praghese a conferma della centralità della sua esperienza figurativa.

Quell'appagamento giovanile dipendeva anche dall'intenso clima artistico della Praga all'inizio del Novecento con il gruppo ceco-tedesco (una convivenza rara) degli Otto artisti figurativi: Max Horb, Emil Filla, Friedrich Feigl, Bohumil Kubita, Otakar Kubín, Willy Nowak, Anton Procházka, sorto dopo un'epocale mostra di Edvard Munch del 1905. Gli Osma, gli Otto si riunivano al Café Arco, munito di una fornita biblioteca di storia dell'arte, nonché di sala di lettura (altri tempi!), che divenne anche il caffè preferito da Kafka e dal suo amico Brod, che salvò i manoscritti e i disegni lasciatigli, disubbidendo a Kafka che lo aveva incaricato di bruciare tutto, mentre lui conservò persino i margini delle dispense universitarie colmi di schizzi dell'amico. Brod ricordava la sua commossa fedeltà all'amico: «Mi facevo regalare i suoi scarabocchi o li recuperavo dal cestino della carta straccia». In quegli anni a Praga operava Emil Orlik, che aveva introdotto nella sensibilità artistica della cultura praghese l'arte giapponese dopo un viaggio in Estremo oriente. Quelle incisioni, che intrecciavano figure sobrie, scarne a ideogrammi tracciati con inchiostro di china, influenzarono la modalità dei disegni di Kafka. L'altro punto di riferimento era Alfred Kubin. Kafka e Kubin, sempre grazie all'attività mercuriale di Max Brod, si conobbero personalmente con reciproca simpatia e sottile affinità artistica ed esistenziale. Ma nonostante questi contatti resta aperto il problema del distacco, ancorché parziale, di Kafka dall'attività del disegno, così appagante in gioventù. Eppure i disegni di Kafka invitano a una considerazione approfondita: lo scrittore praghese aveva percepito i mutamenti spirituali che esprimeva nei disegni e nei racconti, come Il digiunatore, un motivo che appena qualche anno dopo ritroviamo negli inquietanti disegni e sculture di Alberto Giacometti (1901-1966) poiché ogni maestro in questo caso, Kafka - anche se in incognito attrae allievi, come conferma la recente silloge di Tullio Pericoli, Un digiunatore di Franz Kafka (Adelphi), con testi e disegni, ispirata allo scrittore praghese. Quel digiunatore evoca una radice arcaica, misteriosa, allarmante sempre, che richiama l'Ombra della sera, la scultura etrusca di Volterra del Terzo secolo a.C., il grandioso archetipo dell'Occidente come terra della sera.

Il lascito di Brod almeno fino al 1909 conta 150 disegni circa. Successivamente la scrittura diventa l'attività decisiva anche se nei diari, nelle lettere e perfino nei racconti si incontrano di continuo disegni, schizzi, inattesi e perturbanti, in cui il testo si sblocca tramite queste tracce suggestive e intense. Come suggerisce il curatore: «L'immagine si manifesta proprio là dove la scrittura urta contro un limite». Ciò invita a nuove edizioni dell'opera kafkiana con i disegni sempre accanto ai testi (chi sarà il coraggioso editore?). Talvolta tra gli schizzi troviamo commoventi esercizi di ebraico, con quelle eleganti lettere, che segnalano la sua ricerca della lingua sacra, quella della salvezza. Inoltre Kafka era interessato alle edizioni (sporadiche) dei suoi testi, che, seguendo il gusto espressionistico del tempo, erano integrate da illustrazioni. Kafka interloquisce con gli editori, soprattutto con il giovane Kurt Wolff e in particolare a proposito della copertina della Metamorfosi del 1915, in cui Kafka supplica affinché non venisse raffigurato lo scarafaggio, che avrebbe sviato il senso comunque criptico - della novella più inquietante del Novecento. Ora che schizzi e disegni li ritroviamo tutti uniti e commentati, si apre un capitolo veramente avventuroso su Kafka, sulla sua attività, sul suo mondo fantastico, sui suoi legami con la Praga magica e intramontabile anche e soprattutto grazie a lui scrittore e disegnatore.

·        Fulvio Abbate.

Fulvio Abbate: «Mi vergogno di essere stato comunista». E si scaglia contro la sinistra al caviale. Giorgia Castelli domenica 5 Giugno 2022 su Il Secolo d'Italia.

«Il comunismo è tristissimo». Fulvio Abbate, in un’intervista a Libero attacca duramente la sinistra. «Io mi vergogno di esser stato comunista. Fu un errore di valutazione, pensavamo di essere rivoluzionari, mentre il comunismo è organizzazione, dove prevale lo Stato e quindi il sistema». Il marchese Abbate, classe ’56, palermitano, giornalista, critico d’arte, scrittore visionario, esce con un libro scritto in coppia con Vittorio Michele Craxi detto Bobo. Il titolo è Gauche Caviar – Come salvare il socialismo con l’ironia (Baldini+Castoldi, pp 248, euro 18).

Fulvio Abbate, “Gauche caviar”

«La cuspide della Gauche caviar – spiega Abbate – non è quello che, pensano i semplici, Michele Serra costretto dalla moglie a creare un profumo Eau de moi; io vado oltre, penso al profumo di Andy Warhol, a Pasolini che in Uccellacci e uccellini si chiede “Dove va l’umanità” e quella risposta, “Boh!” connota una grandissima eleganza intellettuale. D’altronde io sono quello che, con una mostra, nell’87, consacrò la pop art e il dadaismo di Bettino Craxi. Se poi lei mi parla di superiorità “morale” che la sinistra ritiene di avere: beh, quella riverbera nell'”amichettismo” di tipo veltroniano alla Concita De Gregorio, per esempio».

E spiega: «L’amichettismo è una forma di cooptazione, un obbligo a cui uno scrittore vero non può piegarsi. Certo, poi essendo io uomo di mondo, so che la pago. E rimango fuori dai loro giri, tanto non devo mica diventare direttore di Radio3. Epperò l’intellettuale non deve essere organico». A proposito di Pasolini. Fratelli d’Italia ha recentemente inserito nel suo Pantheon dei grandi conservatori proprio Pier Paolo Pasolini. A sinistra non l’hanno presa bene. Lei, invece? «Io ci ho appena scritto un libro (Quando c’era Pasolini, Baldini+Castoldi, ndr). L’attenzione della Meloni per lui non è incongrua, in quanto Pasolini era custode della tradizione. Per esempio era antiabortista».

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 5 giugno 2022.

Trattasi, certamente, di follia costruttiva. Da Bakunin a Alfonso Signorini, dal patriarca Kirill a Benito Jacovitti, da Marx a Putin massacrato a mitragliate, con feroce allegria, come nelle scena finale di Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino: se provi a inerpicarti sui pensieri di Fulvio Abbate scopri davvero la vita accidentata di un anarchico. 

Il marchese Abbate, classe '56, palermitano, giornalista, critico d'arte, scrittore visionario, esce con un libello scritto in coppia con Vittorio Michele Craxi detto Bobo, dal titolo Gauche Caviar - Come salvare il socialismo con l'ironia (Baldini+Castoldi, pp 248, euro 18). Da quest' epistolario tracima una della più incendiare critiche alla sinistra sulla piazza. Russia compresa. 

Caro Abbate, lei e Bobo denunciate la "sinistra al caviale" nella sue varie accezioni dal "salonkommunis" tedesco allo "champagne socialist" inglese. È, il vostro, un cazzeggio di citazioni coltissime. La prima impressione è che l'abbiate scritto dopo aver rivisto i radical chic de La terrazza di Scola. È così?

«Non esattamente. Nel libro si parte, piuttosto, da una situazione di disfatta dei socialisti che in Francia, dove regnavano, hanno ottenuto l'1,7% perfino contro il 2,4% dei comunisti radicali. 

Sicché, figli di un fallimento - io individuale e lui politico - il sottoscritto e Bobo ci siamo immaginati un viaggio che inizia dal principe della "Gauche", Jack Lange che ci invita nella sua casa parigina e ci regala due kimono col drago sulla schiena; e insieme balliamo un Cha cha cha». 

O mio dio...

«Io pensavo anche di invitare Bernard Henry Levi che mette su Hasta manana Rebecca.

Una cosa culturalmente lussuosissima che abbiamo anticipato, ballando nella piazza dell'Hotel Raphael a Roma». 

Bene. Ma mi sfugge perché la base della vostra critica della sinistra parta dalla ferma volontà di aprire un chiringuito ad Hammamet. Un chiringuito. Cos' è: una provocazione, un gesto politico, un eccesso di peyote?

«Be', io ho chiesto a Bobo di darsi da fare per ungere la polizia annonaria di Tunisi, per aprire il baracchino. "Nell'al di là del guadagno e della perdita", direbbe T.S. Eliot; questo richiamo al principio del piacere oltre quello di realtà, è un atto poetico. 

Da lì parte il nostro viaggio: ci siamo immaginati, io e Bobo, come Marx e Engels, Rimbaud e Verlaine, ma anche Mario e Pippo Santonastaso: non se li ricorda nessuno ma eran meglio di Simon e Garfunkel. Ci unisce un'idea sconfitta del socialismo e l'origine siciliana, che d'altronde aveva anche Bakunin».

Marchese, scusi, quest' intervista sta diventando troppo alta.

«Me ne rendo conto, tenterò di mettermi al suo livello». 

Io pensavo di parlare dei tic della sinistra, mi ritrovo precipitato nell'Internazionale Situazionista. Potremmo tornare al banale concetto di distruzione dei luoghi comuni del vostro mondo? Chessò la "superiorità morale", "l'egemonia culturale" di Gramsci...

«La cuspide della Gauche caviar non è quello che, pensano i semplici, Michele Serra costretto dalla moglie a creare un profumo Eau de moi; io vado oltre, penso al profumo di Andy Warhol, a Pasolini che in Uccellacci e uccellini si chiede "Dove va l'umanità" e quella risposta, "Boh!" connota una grandissima eleganza intellettuale. 

D'altronde io sono quello che, con una mostra, nell'87, consacrò la pop art e il dadaismo di Bettino Craxi. Se poi lei mi parla di superiorità morale" che la sinistra ritiene di avere: beh, quella riverbera nell'"amichettismo" di tipo veltroniano alla Concita De Gregorio, per esempio». 

Cosa intende per "amichettismo": la lottizzazione culturale? Ne parla con l'invidia di essere stato per anni escluso?

«Tutt' altro. L'amichettismo è una forma di cooptazione, un obbligo a cui uno scrittore vero non può piegarsi. Certo, poi essendo io uomo di mondo, so che la pago. E rimango fuori dai loro giri, tanto non devo mica diventare direttore di Radio3. Epperò l'intellettuale non deve essere organico».

Veramente Sartre - il vostro Sartre - predicava che la missione dell'intellettuale fosse proprio quella d'esser organico al partito...

«Infatti io preferisco Camus, che in questo aveva superato Sartre. D'altronde il comunismo è tristissimo. Io mi vergogno di esser stato comunista. Fu un errore di valutazione, pensavamo di essere rivoluzionari, mentre il comunismo è organizzazione, dove prevale lo Stato e quindi il sistema». 

Perché dice di non essere più comunista «dal 1° maggio 1972»?

«Perché quel giorno, in un inverno palermitano una funzionaria sovietica teneva, in un comizio, dei cittadini uzbeki al freddo ad aspettare il turno per parlare. Alle nostre rimostranze lei rispose: "Il comunismo è ordine!". Ma l'ordine è lascito paranoide, non c'entra con gli artisti. Me ne andai». 

Lei non spende belle parole per Berlinguer, nel suo centenario.

«Bobo ricorda che Berlinguer rivendicava l'identità leninista che comprendeva cose strane come il divieto delle tv a colori nel quadro di una politica di sacrifici. D'altronde non è un caso che Togliatti, padre di Berlinguer, trattasse Pasolini come un preside tratta un supplente di terza fascia, mentre Nenni da suo pari». 

A proposito di Pasolini. Nel magma delle ideologie, Fratelli d'Italia ha recentemente inserito nel suo Pantheon dei grandi conservatori proprio PPP. A sinistra non l'hanno presa bene. Lei, invece?

«Io ci ho appena scritto un libro (Quando c'era Pasolini, Baldini+Castoldi, ndr). L'attenzione della Meloni per lui non è incongrua, in quanto Pasolini era custode della tradizione. Per esempio era antiabortista.

E accettava di confrontarsi anche con i giovani fascisti che gli mostravo i portachiavi del Msi. Nel senso del conservatorismo, PPP era un incendiario e ci sta che qualcuno lì ci veda la trasfigurazione della fiamma missina». Il suo sfoggio di culura irretisce. 

Al punto che, però, mi domando: perché, con tutta l'anarchia di Bakunin, è finito al Grande Fratello Vip? Per soldi?

«No». 

Marchese, suvvia...

 «Anche. Soprattutto ci sono andato per curiosità intellettuale. E lì ho visto ogni genere di abisso. Io potrei parlare con cognizione di razze canine, della guerra civile spagnola, di patafisica, non sembrava difficile. Una volta ho spiegato, lì dentro, a un ragazzo l'ergonomia. Si è messo a piangere. Mi sono lasciato ingannare da Eleonora Giorgi: "Vai che ti divertirai...", e invece ho sofferto».

Però lei aveva un Rolex al polso...

«No. Non un Rolex come i veri gauche, ma un orologio della Lip, la cui occupazione nel '73, è nella storia del Lavoro; era un simbolo libertario ma ho evitato di parlarne lì, non era il caso...».

Perché nel libro critica i filorussi per aver usurpato la "Z" di Zorro?

«La "Z" usurpata da Putin come idea imperialista è un infamia verso gli ideali di libertà dello Zorro dell'adolescenza dei baby boomer (io sono del '56, Bobo del '64: rientriamo perfettamente), quello dei telefilm Disney con Guy Williams il quale, tra l'altro si chiamava Armando Catalano ed era siciliano, e il cerchio si chiude». 

Lei s' immagina anche unr emake dell'ultima scena di «Bastardi senza gloria»; solo che lì invece di ammazzare Hitler irrompono al Cremlino e fanno fuori Putin...

«Sì. Inaccettabile che si attacchi uno stato sovrano con la scusa di stanare nazisti e gay; anzi, guardi, adesso mi è venuta voglia di diventare io stesso gay, anche se sono eterosessuale". 

Da vecchio comunista, come vede la gestione del Pd di Enrico Letta?

«Letta è persona degnissima, ma di tradizione cattocomunista. Non mi appartiene. Io, l'ultima volta ho votato il Partito Comunista dei Lavoratori, un voto di "alta moda" perché almeno lì parte tutto da Trotckij, che era un bell'intellettuale». 

Marchese, il suo snobismo è al di là dell'umano.

«Più che snobismo è narcisismo. D'altronde io ho creato un movimento Avanguardia Narcisista. Non c'è nulla di serio, qui. D'altra parte, scusi, non è possibile prendere sul serio l'Anpi di oggi, che tiene per i comunisti che difendevano Milosevic, e che ora difende Putin, dai...».

·        Gabriel Garcia Marquez.

(ANSA-AFP il 18 gennaio 2022) - Lo scrittore colombiano e premio Nobel per la letteratura Gabriel Garcia Marquez aveva una figlia fuori dal matrimonio, un segreto gelosamente custodito dai suoi parenti ma rivelato, otto anni dopo la sua morte, da un articolo di stampa colombiano. Sposato per quasi cinquant'anni con Mercedes Bacha, Garcia Marquez ha avuto una relazione extraconiugale con una giornalista messicana di 33 anni più giovane di lui, Susana Catone. La rivelazione è stata fatta dal quotidiano El Universal, con sede a Cartagena. Da questa relazione è nata una figlia, Indira, ora 31enne e produttrice cinematografica, che non porta il nome del suo famoso padre.

L'autore di "Cent'anni di solitudine" ha incontrato Susana Catone a Cuba per una intervista. "Poco prima della morte di Gabriel Garcia Marquez, la voce è giunta alle mie orecchie e in questi otto anni ho cercato di verificare se l'informazione fosse vera", ha detto a una radio locale l'autore dell'articolo, Gustavo Tatis che afferma di aver avuto conferma della notizia dal biografo dello scrittore, da alcuni familiari e da uno dei migliori amici dello scrittore. 

Ma dice di averla tenuta segreta per rispetto della moglie di Marquez, Mercedes. L'esistenza di questa ragazza nascosta era "il segreto più sacro e intimo" di Garcia Marquez. Leader del "realismo magico", Gabriel Garcia Marquez è morto il 17 aprile 2014 all'età di 87 anni a Città del Messico, dove ha vissuto parte della sua vita. Sua moglie è morta alla stessa età il 15 agosto 2020.

L'articolo di El Universal non specifica se Mercedes sapesse dell'esistenza di Indira. "È molto probabile che Mercedes abbia intuito quello che era successo tra Susana e Garcia Márquez, ma non ne ha mai parlato" scrive Tatis. Garcia Marquez e sua moglie hanno avuto due figli, Gonzalo e Rodrigo, che lo scorso anno hanno pubblicato il libro "Addio a Gabo e Mercedes", dedicato agli ultimi giorni del monumento della letteratura contemporanea.

Gabriel García Márquez spiato dal Messico: «L’amico di Fidel Castro? Un agente di Cuba». Sara Gandolfi su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2022.

Inchiesta su dossier d’intelligence declassificati. 

«Cronaca di una morte annunciata» , capolavoro letterario del XX secolo, deve molto a Fidel Castro. Fu lui l’editor-ombra che suggerì a Gabriel García Márquez un gran numero di correzioni. Perfino il calibro delle armi non piacque al «líder máximo», e il grande scrittore colombiano lo modificò. Poi, cedette tutti i diritti del romanzo a Cuba, come rivela un documento datato 17 marzo 1982 degli 007 messicani. «Il che conferma che García Márquez, oltre ad essere filo-cubano e filo-sovietico, è un agente di propaganda al servizio della direzione dell’intelligence di quel Paese», si legge.

Dettagli di una relazione di amicizia personale e politica che ha riempito migliaia di pagine di dossier top secret. Costretto nel 1961 a lasciare gli Stati Uniti, perché nel mirino costante della Cia, «Gabo» finì sotto la sorveglianza della Direzione federale della sicurezza in Messico(DFS) dove si era trasferito e visse fino alla morte. Fatti noti da tempo. Il Partito rivoluzionario istituzionale, che ha governato il Paese nordamericano per 71 anni ininterrotti, lo considerava una spia al soldo del regime rivoluzionario che aveva preso il potere all’Avana.

Dai rapporti declassificati, cui ha avuto accesso il quotidiano El Pais, emergono ora nuovi dettagli sul rapporto fra due dei maggiori protagonisti della storia latino-americana. Il futuro premio Nobel della Letteratura era affascinato dal potere, Fidel Castro dai grandi intellettuali. Lo scrittore regalava al rivoluzionario libri per distrarlo dalle fatiche della guerra in Angola — il primo, rivelano gli archivi dei servizi segreti fu Dracula — e il cubano contraccambiava leggendo in anteprima le bozze dei suoi racconti e romanzi.

García Márquez sentì nominare per la prima volta il «rebelde barbudo» nel 1955 a Parigi, dalla voce del poeta Nicolas Guillen. Quattro anni dopo, quando la rivoluzione castrista trionfò, viveva a Caracas dove era redattore di Venezuela Grafico. «Il 18 gennaio, mentre riordinavo la scrivania per tornare a casa, un uomo è apparso ansimante nell’ufficio deserto della rivista alla ricerca di giornalisti che quella stessa sera volevano andare a Cuba. A tale scopo era stato inviato un aereo cubano», raccontò in seguito. Nella fretta, si presentò all’aeroporto senza passaporto: «Non ce n’era bisogno... l’unica carta che ho trovato in tasca era una ricevuta della lavanderia. L’agente l’ha sigillata sul retro, ridendo, e mi ha augurato buon viaggio». Gabo restò all’Avana sei mesi e ne ripartì come corrispondente a New York dell’agenzia cubana Prensa Latina.

Gran parte delle indagini della polizia politica messicana s’inquadra nella cosiddetta «guerra sporca» contro i movimenti di sinistra. Equivalente della Cia o del Kgb sovietico, la DFS tra il 1947 e il 1991 pose sotto sorveglianza 4 milioni di persone, sia messicane che straniere. Tra queste, anche un altro Premio Nobel per la Letteratura: Octavio Paz. «Accumularono da 60 a 80 milioni di carte», assicura il ricercatore Sergio Aguayo.

Uno dei capitoli più corposi del «fascicolo Gabo» riguarda il suo ruolo di mediatore fra i movimenti della sinistra latinoamericana e il francese Régis Debray, già compagno di guerriglia di Che Guevara, poi diventato consigliere del presidente François Mitterrand.

Tra alti e bassi Fidel Castro e Gabo restarono amici fino alla fine. Assieme fondarono la Scuola di Cinema a San Antonio de los Baños. Ironia della storia, è la cittadina dov’è esplosa la protesta contro il regime l’11 luglio scorso.

·        Gabriele d'Annunzio.

"L'impresa di Fiume fu un evento mondiale. E Lenin copiò la Lega dei popoli oppressi". Nel suo dettagliatissimo libro sulla presa della città guidata da Gabriele d'Annunzio lo storico ne evidenzia la dimensione internazionale. "Un'azione che fece scuola". Alessandro Gnocchi il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.

È appena uscito D'Annunzio diplomatico e l'impresa di Fiume (Rubbettino, pagg. 940, euro 45) dello storico Eugenio Di Rienzo. Un volume imponente, con ampio utilizzo di fonti trascurate o inedite, sulla dimensione internazionale dell'impresa dannunziana, iniziata con la Marcia su Ronchi nella notte tra l'11 e il 12 settembre 1919, proseguita con la occupazione di Fiume, città negata all'Italia dai trattati di pace, finita con il Natale di sangue del 1920, quando i legionari furono costretti ad abbandonare la città assediata dall'esercito regolare italiano. Il Trattato di Rapallo, appena firmato, aveva stabilito che Fiume sarebbe rimasta città libera. D'Annunzio non poteva restare senza causare all'Italia un problema diplomatico con gli Alleati.

Professor Di Rienzo, al di là della propaganda dannunziana, quali forze si mossero per favorire l'impresa?

«Prima di tutto l'esercito. L'occupazione è iniziata da reparti scelti assolutamente fedeli alla corona. Poi arrivano i volontari, gli idealisti e gli avventurieri. La marina in teoria avrebbe dovuto effettuare un blocco navale. Ma era un blocco assai permeabile. Tra i finanziatori, troviamo grandi nomi e grandi banche: Fiume era ancora considerata un porto di importanza strategica per il commercio».

Questo significa che la politica sottobanco vedeva di buon occhio l'Impresa?

«Si può certamente ipotizzare che Fiume sia stata anche una guerra per procura. Il governo era estraneo, però poteva trattare da una posizione di forza grazie all'Impresa. Di fatto si discuteva di un territorio già occupato da forze italiane».

D'Annunzio era politicamente meno isolato di quanto potesse sembrare?

«Esiste una lettera di Sforza in cui si prefigura a D'Annunzio un finale positivo della vicenda. Fiume resta città-Stato sotto la guida di D'Annunzio. Ma per giungere a questo traguardo, D'Annunzio deve iniziare a smobilitare i suoi legionari».

Non accettò. Perché?

«Pensò a un tranello. Una volta smobilitati i legionari, l'esercito regolare avrebbe potuto deporlo con un colpo di mano. E comunque il suo scopo era l'annessione di Fiume all'Italia».

Lo cacciarono a cannonate.

«Il Trattato di Rapallo era considerato un buon accordo. La libera città di Fiume restava come cuscinetto tra l'Italia e la Jugoslavia. In molti pensavano che alla fine sarebbe tornata in mano italiana. Cosa che accadde».

Che problemi c'erano con la Jugoslavia?

«Minacciava il confine orientale. Era espansionista. Durante la prima guerra mondiale esistevano progetti jugoslavi che fissavano il confine all'Isonzo. Il governo italiano era preoccupato».

Siamo arrivati alla dimensione internazionale dell'occupazione di Fiume.

«Innanzi tutto fece subito scuola. Episodi analoghi, ovvero città di frontiera contese, avvennero un po' dappertutto: Austria, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Carinzia, Stiria, Slesia. Il caso più clamoroso avvenne in Polonia: nell'ottobre del 1920 il maresciallo Josef Pidulski ordinò a una intera Divisione di... ammutinarsi e occupare Vilnius, evitando così il coinvolgimento diretto del governo di Varsavia. Questi scontri di frontiera dipendevano dal fatto che i confini, dopo la guerra, erano stati tracciati con riga e squadra, senza tener conto dei popoli. Vi fu una guerra dopo la guerra, per così dire. Fiume non fu l'unico focolaio».

Intanto in Italia?

«La crisi delle istituzioni procedeva a grandi passi. L'organismo statale si era già disgregato in settori che procedevano molto spesso in autonomia. Regio Esercito, Regia Marina e relativi servizi d'informazione. Ministero dell'Interno con i suoi bureaux preposti agli affari riservati. La divisione era anche in seno all'esecutivo e alla casa regnante. D'Annuzio si era infilato in un gioco complesso. Paradossalmente forse mise d'accordo tutti: chi lo sosteneva sul serio e chi intendeva sfruttarlo fino a quando fosse risultato utile».

Cos'era la Lega dei popoli oppressi?

«Fu una grande intuizione. D'Annunzio intendeva coalizzare tutti i popoli oppressi dal colonialismo delle grandi potenze o sovvertitrici dell'assetto mondiale disegnato a Versailles».

Chi ne faceva parte?

«Irlandesi, Turchi, Egiziani, Catalani, negri degli Stati Uniti, Indiani, Cinesi. Ma anche tutte le nazionalità balcaniche che ora gemono e languon sotto il bastone del brutale serbo. E poi la Russia bolscevica e altri ancora».

Quali sono gli aspetti più interessanti?

«Di sicuro lo sguardo rivolto a Oriente. La Lega fu svuotata di significato da Lenin, che non a caso passava per essere un ammiratore di D'Annunzio. Lenin organizzò, nel settembre 1920, a Baku, il Congresso dei popoli dell'Oriente. In buona parte, i delegati provenivano dagli Stati sui quali puntava anche D'Annunzio».

Spesso si insiste sul fascino esercitato a Fiume dalla rivoluzione bolscevica. Ha senso?

«Fino a un certo punto. D'Annunzio era chiaramente contrario al comunismo. I bolscevichi potevano essere alleati per un tratto di strada, quello rivoluzionario. Ma è vero che molti legionari, anche in ruoli strategici, erano attratti dal caos in Russia e vagheggiavano orde barbariche pronte a rovesciare l'ordine borghese anche in Italia. Bisogna tenere conto che la Rivoluzione sovietica era appena cominciata. Le informazioni non erano moltissime e non si sapeva come sarebbe andata a finire. Ci furono contatti che non sfociarono mai in una alleanza».

I comunisti italiani come si posero?

«Il più ricettivo fu Antonio Gramsci. C'è anche il fatto del mancato incontro tra Gramsci e D'Annunzio. Gramsci voleva stipulare un patto per fare la rivoluzione assieme e impedire l'ascesa del fascismo. Siamo nel 1921. L'incontro fu fermato da Palmiro Togliatti. Ma tutto questo perde d'importanza dopo la Marcia su Roma e il sostanziale ritiro di D'Annunzio nella prigione dorata del Vittoriale».

Le potenze vincitrici presero sul serio la minaccia dannunziana?

«Sì. I documenti del Foreign Office di Londra seguono passo dopo passo l'occupazione, ne analizzano la nascita e le connivenze. Ma soprattutto, dopo il progetto della Lega dei popoli oppressi, schedano il movimento fiumano come uno dei più pericolosi movimenti rivoluzionari attivi fuori e dentro i confini dell'Impero britannico. Fiume è citata in tutti i rapporti sulle situazioni rivoluzionarie e pericolose per l'Impero».

D'Annunzio era un abile politico?

«Più abile di quanto si dica. Basta vedere come seppe mediare fra destra e sinistra fiumana. In quanto alla Costituzione, la Carta del Carnaro, come tutte le grandi carte rimase lettera morta. A Fiume comandava D'Annunzio».

Che rapporto c'è tra l'Impresa e il fascismo?

«L'Impresa non può essere rubricata alla voce Fascismo. A Fiume c'era gente di ogni tipo, inclusi i fascisti o i futuri fascisti. Ma c'erano gli eredi dell'interventismo risorgimentale, del liberalismo nazionale, del sindacalismo rivoluzionario, dell'anarco-sindacalismo e dell'irredenitsmo democratico. La Carta del Carnaro piacque anche a molti futuri antifascisti, a partire da Alceste De Ambris, che la scrisse. Mussolini fu contrario all'Impresa per motivi più che comprensibili: temeva che D'Annunzio diventasse suo rivale e facesse la rivoluzione italiana prima di lui. Fece buon viso a cattivo gioco, ma al momento decisivo si tirò indietro liquidando in modo sprezzante De Ambris, che aveva fatto da ambasciatore».

Perché allora il Fascismo celebrò Fiume?

«Si appropriò della memoria dell'evento e ne saccheggiò i simboli, la liturgia, le parole d'ordine, i metodi della propaganda e in primo luogo del rito populista del discorso dal balcone. Ma anche di alcuni tratti della politica estera di D'Annunzio: espansionismo mediterraneo, rivolta dei popoli colonizzati dall'imperialismo britannico, guerra per procura contro Grecia e Jugoslavia, l'alleanza con i popoli vinti della Grande Guerra».

Gianni Oliva per “Avvenire” l'8 ottobre 2022.

C'era musica quella sera del 13 agosto 1922 a Villa Cargnacco, futuro Vittoriale. Secondo un testimone oculare che, allora bambino, racconterà a distanza di tempo quanto sentito e visto di persona, si udiva un vociare allegro, un chiacchiericcio insistente intervallato da qualche risata. Luisa Bàccara suonava il piano e sua sorella minore, Jolanda, il violoncello.

D'Annunzio sembra fosse seduto a cavalcioni sul davanzale della finestra con aria spensierata a prendere il fresco. All'improvviso però un tonfo sordo ruppe l'incanto: il poeta era disteso sul selciato sottostante dopo un volo di circa quattro metri, un "Volo d'Arcangelo", si disse, ma sempre volo fu, o meglio una brutta caduta non senza conseguenze.

Questo quanto racconta un volume curato da Pietro Gibellini - Gabriele d'Annunzio, L'Arcangelo caduto. Il misterioso infortunio del 1922 nelle parole dello scrittore - che l'editore Ianieri, benemerito nel campo degli studi dannunziani, ha rimesso in circolazione (un testo già apparso nel 1995 da Giunti e riproposto nel centenario). L'accaduto appare subito preoccupante, stando al referto stilato dal medico personale del poeta, il dott. Antonio Duse (niente a che fare con la grande attrice): «segni manifesti di frattura», «commozione cerebrale», «stato sub-cosciente», «prognosi riservata ». 

Naturalmente, nonostante i tentativi di tener segreta la cosa, trattandosi di d'Annunzio, la stampa diffonde la notizia e la commenta avanzando più di un'ipotesi, compresa quella di una caduta non accidentale. Fatto sta che il clima politico dell'estate del '22 non era dei più quieti per via di uno sciopero annunciato dai socialisti per il 1° agosto e la conseguente, violenta risposta dei fascisti che si opponevano all'iniziativa.

Il clima di tensione cresceva e qualcuno ipotizzava addirittura un colpo di Stato, poi smentito dal "Corriere della sera", con un direttivo composto da d'Annunzio, Mussolini e Nitti. D'Annunzio però invocava a proposito la solidarietà nazionale, come appare nel discorso milanese tenuto da Palazzo Marino, da cui grida «Viva l'Italia», deludendo la platea fascista che si aspettava un'esplicita adesione all'ideologia mussoliniana. Per discutere della questione si stabiliva comunque di fissare un incontro in una villa toscana per il 15 agosto in cui D'Annunzio avrebbe dovuto recitare la parte del paciere tra Mussolini e Nitti. 

La caduta dalla finestra però interrompeva il progetto e il decorso politico da quel momento in poi sarebbe andato avanti senza intoppi, com' è noto. La marcia su Roma (27-31 ottobre) era ormai alle porte. Chi avrebbe dunque avuto interesse di impedire l'incontro a tre mettendo in atto un vero e proprio "attentato" a d'Annunzio; e poi, chi lo avrebbe materialmente spinto dal davanzale su cui era seduto provocandone la caduta? La faccenda ha del mistero.

Nell'introduzione al volume (paragrafo "I torbidi risvolti della politica") Gibellini esamina una serie di ipotesi non trascurando la letteratura biografica sul tema, ma riprende anche un'altra strada, altrettanto possibile, che sfata quella della congiura. Il discorso viene spostato su un piano per così dire "femminile", più banale volendo, ma non meno efficace. Sembra infatti che il poeta fosse particolarmente attratto dalla giovinezza di Jolanda e avesse avanzato insistentemente le sue proposte alla giovane che le rifiutava.

Sarà stato che il padrone di casa si fosse spinto un po' troppo con le sue attenzioni verso Jolanda a tal punto da provocare la reazione della Bàccara e dunque la spinta, volontaria o meno, che causò il defenestramento dell'Arcangelo?

Forse, ma certo è che l'episodio, che avrebbe potuto finire in tragedia, può leggersi anche come un incidente provocato dall'esuberanza sessuale del Vate e dalla gelosia della Bàccara. In ogni caso, quanto accaduto, al di là delle interpretazioni, produce letteratura, come prova il Diario inedito (17- 27 agosto 1922) che il libro curato da Gibellini riproduce integralmente. 

Un testo che riporta alla lettera quanto viene pronunciato nel delirio dall'infermo durante la degenza. I medici al suo capezzale trascrivono con devozione di discepoli e di ammiratori tutte le sue parole ora sconnesse, poi sempre più precise e consapevoli. Per d'Annunzio è l'occasione per un nuovo libro, tanto che passato il pericolo, vuole rimetterci mano trasformandolo da testo "parlato" in testo scritto. 

Nulla va perduto per la storia, neppure i sospiri e le mezze frasi pronunciate. D'altro canto, è quello il momento per riprendere gli scritti inerenti a quella circostanza storica, come il Comento meditato a un discorso improvviso, tenuto a Milano, e poi la serie delle rielaborazioni, da Per l'Italia degli Italiani al Libro ascetico della giovane Italia (ampi brani sono riprodotti nel libro).

Torna insomma la prosa gonfia e innaturale, il linguaggio sacro mescolato a quello politico, una "febbre mistica" che contamina l'amor di patria. Un più controllato riflesso del "volo" si ha invece nel racconto che lo stesso d'Annunzio ripropone nel Libro segreto per bocca di Angelo Cocles, ove il tentativo di un'autobiografia incompiuta poggia invece su una prosa modernissima, non strutturata in un tessuto narrativo compatto. 

I frammenti montati con perizia, accelerano il processo di dissoluzione prosastica giungendo al grado estremo (adozione della brevitas o respiro breve del periodo, assenza di maiuscole) e confermando la vocazione diaristica della sua scrittura. L'episodio del volo, inoltre, non considerato solo di per sé, apre anche altri interessanti e importanti spiragli, non ultimo l'ampia questione dei discussi rapporti di d'Annunzio con il fascismo, la sua «prigionia dorata» al Vittoriale sotto lo sguardo di «occhiuti carcerieri » voluti dal Duce per un controllo-censura totale sul personaggio. Ma questa è un'altra storia.

Dagospia il 7 agosto 2022. Ecco, per gentile concessione dell'editore Luni, un brano dell'articolo di Proust che uscì su Le Matin l'11 dicembre 1919 e che era stato pensato per includerlo nella Recherche. Nel colloquio con madame de Villeparisis, il marchese di Norpois parla di Gabriele d'Annunzio e della occupazione di Fiume, che era iniziata tre mesi prima. 

Così il D’Annunzio che occupò Fiume venne arruolato da Proust nella "Recherche". In un passo destinato ad "Albertine scomparsa" (ma poi espunto) si parla della presa della città capeggiata dal Vate. Marcel Proust il 7 Agosto 2022 su Il Giornale.

Ecco, per gentile concessione dell’editore Luni, un brano dell’articolo di Proust che uscì su Le Matin l’11 dicembre 1919 e che era stato pensato per includerlo nella Recherche. Nel colloquio con madame de Villeparisis, il marchese di Norpois parla di Gabriele d’Annunzio e della occupazione di Fiume, che era iniziata tre mesi prima.

Ecco, vi ho portato il Corriere della Sera ed Il Giornale d'Italia. Ho anche il Temps. Voglio guardare le notizie di borsa, aggiunse con lo stesso interesse che se si fosse trattato delle notizie di una persona malata.

E, infatti, aggiunse subito:

- Le nostre rendite sono meglio distribuite, ma le miniere restano deboli. La De Beerse rialza rapidamente, forse troppo rapidamente. Bisognerebbe che poi non ribassassero!

Le Petrolifere ricominciano a mostrare dell'attività. Ma, leggete dunque Il Giornale d'Italia; è il giornale di Sonnino.

Dopo un lungo silenzio, Mm. Di Villeparisis domandò:

- Sonnino, non è forse parente di M. di Venosa?

- Ma no, rispose M. di Norpois con tono sdegnoso, è un giudeo inglese che si chiama Sidney (ma che non ha niente a che vedere col delizioso Sidney Schiff). Sembra che sia una rara competenza ma ha un carattere detestabile.

M. di Norpois continuò a leggere il giornale.

- Avete pensato a far visita al ministro, gli domandò Mm. Di Villeparisis con la severità dell'amore temperato dalla dolcezza degli anni.

- Sì, son passato da lui, prima di andare da Salviati. Mi ha raccontato delle cose molto curiose. Ignoravo, difatti, che quando Briand era al potere aveva spedito a Palazzo Farnese un telegramma in cui diceva che «se il governo italiano avesse domandato l'espulsione di Caillaux non bisognava opporsi». Ciò era malizioso e prova un'abilità diplomatica nella quale purtroppo gli italiani son diventati maestri di maniera che essi si guardarono bene dal domandar niente. Egli ha messo in relazione due telegrammi di Ribot a Jonnart che ignoravo egualmente. Nel primo, Ribot preoccupato dell'azione violenta di Jonnart che teneva un atteggiamento risoluto verso il re Costantino, gli consiglia moderazione e l'avverte che egli agisce sotto la propria responsabilità. Poi, dato che Jonnart riuscì, Ribot, che non c'entrava affatto, gli spedisce un telegramma dei più calorosi, lo felicita di tutto cuore e aggiunge: «Voi sapete d'altra parte che se aveste incontrato il menomo ostacolo sarei stato pronto ad aiutarvi con tutte le mie forze per superarlo». Questo modo sbrigativo di trarsi d'impiccio non toglie niente alla simpatia che io ho per Ribot. Piaccia a Dio che ci faccia avere sempre degli uomini come lui e come Briand!

- E questa famosa Fiume? - domandò di lì a un momento la de Villeparisis.

- Ma, diversamente da quel che io pensavo Nitti, del quale credevo che d'Annunzio fosse un vero e proprio ad latus, non è fiumano. C'era dal ministro uno scrittore francese perfettamente ignoto, certo Marcel, di cui non ricordo il cognome, che, egli sì è pieno di calore per D'Annunzio; egli paragona l'esilio volontario che quegli ha passato in Francia a quello di Dante; e ha ricomposto nuovamente o meglio retrospettivamente, tre versi di Virgilio nei quali Enea, passando dinanzi a Fiume evoca D'Annunzio; ha citato un verso di Hugo, può darsi del Piccolo re di Galizia, nel quale la maniera di prendere le città rassomiglia molto a quella di D'Annunzio e sembra che anche nei drammi di D'Annunzio vi sia indicato quel luogo con una funzione storica. Ma il governo italiano prende le cose più al serio se non al tragico. Egli vuole naturalmente salvare le apparenze ma non si tratta più di elevare D'Annunzio al trono né di accordargli un appannaggio. Si vuole piuttosto in un modo o in un altro, ridurlo all'impotenza, e poiché mi è stato chiesto il mio parere, ho suggerito, esponendo naturalmente tutte le mie riserve sulla politica del Risorgimento, che sarebbe pericolo prolungare le conversazioni poiché tutto ciò potrebbe degenerare in una specie di guerra di fazioni, che rischierebbe di mettere fuoco alle polveri e di far perdere all'Italia il suo posto intorno al tappeto verde.

Quel tentativo un po’ velleitario di modernizzare D’Annunzio. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 28 Giugno 2022. 

Nel documentario andato in onda su Rai3, ora su RaiPlay, lo storico Guerri sostiene che il Vate è stato un anticipatore di mode e costumi.

È una mia impressione o lo storico Giordano Bruno Guerri, Presidente del Vittoriale degli Italiani, va assomigliando sempre di più a Gabriele D’Annunzio? Forse si tratta solo di una trasfigurazione culturale, ma basterebbe poco (un gioco di barbe) per completare l’opera.

Sta di fatto che, in «D’Annunzio, l’uomo che inventò se stesso» , documentario diretto da Francesca Pirani e Stefano Viali, Giordano Bruno Guerri ci offre un ritratto interessante sul Vate (Rai3, ora su RaiPlay nella sezione Documentari). La tesi di fondo è che l’Italia di inizio ‘900 era profondamente delusa dai sogni risorgimentali e vedeva in D’Annunzio una figura in grado di indicargli una nuova strada, quella della modernità. Lo storico Guerri sostiene che d’Annunzio, tra le molte imprese, è stato un anticipatore e modernizzatore di costumi, mode, tendenze, dal vestiario alla politica: «Ha saputo realizzare i propri desideri e sfidare la società esibendoli, progenitore di una cultura fondata sulla trasgressione delle regole, caratteristiche proprie della cultura contemporanea».

Uno degli equivoci che tuttora accompagna D’Annunzio è la sua adesione al fascismo che in realtà non sarebbe mai avvenuta. Si fa riferimento a quando, nel 1920, il Comandante decise di trasformare il territorio fiumano in Stato indipendente. Fra i primi atti, la promulgazione della Carta del Carnaro, una costituzione di stampo libertario e socialisteggiante ispirata dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris. Mussolini copiò riti e miti ma non la Carta, una delle costituzioni più avanzate del Novecento.

I momenti di attualizzazione del documentario, le interviste ai giovani che ignorano di chi sta parlando (modello Fedez), gli accenni alla fluidità di genere, i riferimenti ai Måneskin sembrano tentativi un po’ velleitari per mostrare quanto ancora sia nostro contemporaneo il poeta Gabriele D’Annunzio.

Fabio Isman per “il Messaggero” il 26 giugno 2022.  

Nella vita di Gabriele D'Annunzio (1863 - 1938) essenziale è il primo decennio trascorso a Roma, dal 1881. Immerso nella bella società, è anche il cronista mondano di alcuni tra i giornali d'allora: il «Fanfulla della domenica», «La Tribuna» (dove firmava «Duca Minimo»), «Capitan Fracassa» e «Cronaca bizantina». Guarda, e racconta, di tutto: dal «Ministro del Giappone ricevuto dal re», al «Ballo della stampa», a quelli «di Corte», o «della Caccia». Suo è un «Faro sull'operetta»; scrive dei pittori italiani e francesi, del carnevale, della «moda per la vicina estate». E sono tutti gustosissimi quadretti di costume.

GIA' FAMOSO Arriva nella nuova Capitale, e a 18 anni era già abbastanza noto.

Si era fatto un nome al famoso collegio Cicognini di Prato. E aveva già avuto un colpo d'ingegno: per propagandare il suo primo testo pubblicato, si finge morto. Comunica la notizia ai giornali; paga «lacrimevoli necrologi»; ma poi smentisce tutto, annunciando l'apparizione di «Primo vere» (1879), una raccolta di poesie, chiaramente ispirata alle «Odi» di Giosuè Carducci. Le nuove classi sociali della città, specie la borghesia, avevano bisogno di un cantore: e chi meglio di lui? L'attività di giornalista, voluta per motivi soprattutto economici, proseguirà fino al 1938, anche su quotidiani stranieri; ma gli articoli dell'avvio restano fondamentali. 

A Roma, nel 1882, pubblica un'altra raccolta di poesie: «Canto novo», dedicata a Elda Zucconi, il (forse) primo amore. Ma l'anno dopo, nella cappella di palazzo Altemps, sposa, già incinta, Maria Hardouin duchessa di Gallese, che gli dà tre figli: Mario, deputato al parlamento; Gabriele Maria, attore; e Ugo Veniero.

Tuttavia, dopo cinque anni si separano: tra parecchie d'altre, all'orizzonte del «Vate» è apparsa Barbara Leoni (in realtà, Elvira Natalia Fraternali sposata Leoni), che incontra nel 1887 a un concerto. Bella, sensuale, sregolata, piena di estro e di esuberanza, lo attrae subito. Sarà la sua Barbarella o Ippolita, Miranda, Jessica, Bibi, Gorgone, Regina di Cipro, o Vellutina.

Vivono a Palazzo Zuccari, tra piazza di Spagna e il Pincio, dove il poeta ambienta Andrea Sperelli, nel 1889 protagonista de «Il piacere». Per un anno, va in Abruzzo (mancano i soldi); dice di tollerare a fatica il giornalismo: limita il suo talento. Ma dal 1885, dirige «Cronaca bizantina», fondata dall'amico Angelo Sommaruga a via Due Macelli, e ormai di Maffeo Barberini Colonna di Sciarra, principe di Carbognano, nell'omonima Galleria.

Durerà soltanto un anno, perché il nobile fallisce. Resta coinvolto nello scandalo della Banca Romana; vende perfino di nascosto quadri in Francia, ed è condannato («La fuga del violinista con la bionda» titola il Messaggero: il primo, era creduto un Raffaello; l'altro era la «Bella» di Tiziano); si dimette da deputato e fugge a Parigi. Ma intanto, D'Annunzio scrive. Arriva il ministro Fuijmaro Tanaka, ed è «lucido, gialliccio come un avorio di tre secoli», senza spada né vestito nipponico, «tutto umiliato nel nero abito europeo».

I regali del re a Natale: a «Donna Claribel una specie di diadema di perle e brillanti»; alla duchessa Sforza Cesarini, «una spilla armonizzata di soavi zaffiri e luminosissimi brillanti»; toccano anche alla duchessa Massimo, «in forma di mosche»; e così via per tre pagine.

Al Gran ballo di Corte, la regina Margherita è «vestita di un bellissimo rosa, che i tecnici si ostinano a chiamare lie-de-vin, con al collo 16 fila di perle meravigliose e il suntuoso (sic !) diadema di brillanti e perle sui biondi capelli: stasera, era proprio en beauté». Un'opera al teatro Apollo: «Il commendatore Stagno, scintillante nell'armatura argentea e vezzoso nell'azzurro mantello, non fu, in verità, un Lohengrin ideale»; ma c'era quella, e c'era quell'altra. E avanti così, di quadriglia in quadriglia, di nobile in nobile: sostantivo, in questo caso, di solito squisitamente femminile.

Re di Twitter e influencer, quando D'Annunzio era meglio di Fedez. Un documentario Rai firmato Guerri propone la figura del poeta interpretata dai ventenni. Abile comunicatore, creatore di mode, sostenitore dei diritti civili: questo era il genio più sicuro di ogni internauta moderno. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 22 giugno 2022.

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

«Tanto è l’ardore che il sogno eguagliò l’atto #primovolo». «Conservare intiera la libertà fin nell’ebrezza #freedom». «Io modesto? È il solo difetto che mi onoro di non avere #modesto». C’è più di un esperimento sociale, c’è quasi l’eco del contemporaneo che risuona tra Twitter e il multiverso, nella ridda di pensieri dannunziani che invade i social.

Una ridda di tuono che è pure la traccia su cui viene costruito, fotogramma dopo fotogramma, su Rai Tre D’Annunzio, l’uomo che inventò sé stesso  documentario (prodotto da Ince Media e Filippo Cellini con Rai Documentari e Luce Cinecittà, per la regia di Francesca Pirani e Stefano Viali) che Giordano Bruno Guerri consegna alla Generazione Z. L’assunto è pura trasgressione: il Vate fu il primo influencer della storia e sarebbe amato dai giovani. «Non si lasciava mai fotografare; sceglieva lui il fotografo e, personalmente, la posa giusta, l'immagine da servire al pubblico: pensoso, audace, sensuale. Ha anticipato pure gli influencer, anche se per lui sarebbe più adatto il termine opinion maker. Aveva, soprattutto a cavallo del '900, la capacità di incidere sulle mode: tutti gli uomini lo imitavano nei giorni di festa, si facevano crescere il pizzo come lui», dice Guerri dall’alto della sua magnifica Presidenza del Vittoriale degl’Italiani. 

«Ricorda un po’ Fedez, anche se gli influencer sono il ritratto dell’insicurezza, D’Annunzio era l’esatto opposto», aggiunge una studentessa. Ed è vera l’una e l’altra affermazione. Il documentario è inedito e ricco di filmati d’epoca, di estratti dall’Istituto Luce, di brani teatrali che variano dall’epico all’erotico: da qui ecco emergere la figura di D’Annunzio maneggiata dai ventenni d’oggi. I quali ventenni, tutti rigorosamente in mascherina antiCovid e instagrammati, accostano il poeta ora a Sandro Pertini per «l’idea che aveva del paese unito»; ora ai Maneskin mentre esportano l’italianità nel mondo verso un pubblico che «ha bisogno di emozioni estetiche e sentimenti eccessivi», afferma sempre Guerri. E ora evoca, perfino, la Thumberg perché D’Annunzio «ha cercato di smuovere le masse come farebbe oggi Greta»; e qui ecco l’immagine del futuro Vate che esce ignudo dalle acque pescaresi. E, nel suo storico “contatto panico con la natura” si rivela lo slancio ecologista, per i tempi molto più incisivo di mille manifestazioni di Greenpeace. Il film si arrampica tra modernità antiche e presenti. E del Vate proietta colpi di genio che lo renderebbero, oggi, un attualissimo spin doctor e un mago della comunicazione, facendolo passare –direbbe Arbasino- direttamente dalla fase della “giovane promessa” a quella del “Venerato Maestro”, saltando quella del “solito stronzo”. 

Chiedo a Guerri come si comporterebbe il nostro idolo, “insofferente a qualunque giogo”, di fronte alla cancel culture che sta avvolgendo nelle sue spire una generazione di giovani inermi. Risponde: «Questa cosa del politicamente corretto e della cancel culture la riterrebbe orrenda oltre che antiestetica. Se pensi all'idea di cancellare il Natale, ti torna in mente che D’Annunzio che non festeggiava né il Natale né altre feste, ma aveva nella Prioria al Vittoriale una collezione di oggetti - cristiani, induisti, buddistiche gli davano il senso del sacro. Se gli avessero detto di non festeggiare il Natale avrebbe agghindato con palle di vetro tutti i cipressi del Vittoriale. E, bada bene, sono 217». Bado bene. Il Vate è stato il progenitore di Bezos e Elon Musk. 

Fu copywriter prima dei copywriters inventando slogan per la Rinascente, Saiwa, Unicum; definì, su richiesta del senatore Agnelli il sesso dell’“automobile” che è “femminile perché ha la grazia di una seduttrice. Ha inoltre una virtù ignota alle donne, una perfetta obbedienza». Fu precursore dei diritti civili a Fiume trasformata da «città olocausto a città di vita» dove l’omosessualità è pratica “quasi normale” e dove in una perenne stagione di festa si attende che il Comandante dia istruzioni su come conquistare l’Italia. Lì inventò la Lega dei popoli oppressi e anticipò il terzomondismo e il concetto di “paese non allineato. Fu sostenitore del diritto al salario minimo, del risarcimento in caso di errore giudiziario (cosa avrebbe fatto per i referendum sulla giustizia?), del diritto alla pensione di vecchiaia, della «proprietà privata ammessa a condizione che sia condizionata alle necessità del bene comune». Il documentario finisce col Vate che si allontana sul Garda in motoscafo, a ritmo di rock. Osservandone la velocità –tipica del web e del futurismo- ti accorgi che il tempo e la vita hanno sempre fame…

Alberto Fraja per “Libero quotidiano” l'11 marzo 2022.

Fosse vissuto nella seconda metà del ventesimo secolo, ai grandi creativi della pubblicità protagonisti del boom economico, i Codognato, i Carboni, i Nizzoli, i Testa, Gabriele d'Annunzio avrebbe dato le piste. 

Fu la sua mente fervida a battezzare prodotti come la penna Aurora, il liquore Aurum e il biscotto Saiwa. Ma anche la catena di negozi Rinascente deve il suo nome all'autore del Piacere. E il Vate fu scelto persino come testimonial dell'amaro Montenegro. 

D'Annunzio non fu ovviamente solo un immaginifico creatore di slogan pubblicitari scolpiti su un'infinità di supporti: ex libris, francobolli, medaglie, gioielli, argenteria varia, manifesti, volantini, cartoline, frontespizi, copertine di volumi, ecc.. Fu anche e soprattutto un formidabile produttore seriale e incontinente di motti in italiano- spesso antico- in francese, in spagnolo, ma in prevalenza in latino che, raccolti nel loro complesso, superano il mezzo migliaio.

I luoghi del Vittoriale oltre a tutta l'opera in prosa e in versi di Gabriele d'Annunzio, ne grondano. Un aspetto della personalità dell'orbo veggente rimasto fino ad ora in ombra, la cui comprensione necessita di una chiave di interpretazione sia linguistica, sia di contesto. 

Da questa esigenza nasce il libro I motti di Gabriele d'Annunzio (Silvana Editoriale, 351 pagine), a cura di Simone Maiolini e Patrizia Paradisi,con introduzione del Presidente del Vittoriale Giordano Bruno Guerri e con un saggio di Francesco Parisi.

LA VOCAZIONE Il volume concentra per la prima volta l'intera storia di questa peculiare vocazione, cercando di ricostruire le motivazioni all'origine della scelta di ciascun motto, oltre alla percezione che suscitavano all'epoca, tra i contemporanei del loro autore. Seguendo il tradizionale percorso di visita del Vittoriale (dalle stanze della Prioria ai diversi siti dei giardini) il saggio illustra via via i singoli motti, estendendo poi la propria indagine oltre fino a schedare - lungo un arco cronologico che copre l'intera esistenza del Vate, con un picco nel periodo gardesano- i motti della Capponcina, di guerra, di Fiume, quelli ideati per gruppi e associazioni fino a quelli, come detto, destinati a prodotti commerciali. 

A dire il vero (e la cosa non meraviglia) d'Annunzio disseminava di slogan, iscrizioni, frasi prelevate dall'antichità anche la corrispondenza quotidiana con amici, collaboratori e soprattutto con le amanti. Una fra tutte: Alessandra Di Rudinì Carlotti, denominata dal poeta "Nike", il "miracolo biondo", «Per d'Annunzio, l'immagine insieme alla parola è più forte, più incisiva - scrive Guerri -, così inizia a creare e a disseminare nelle opere motti e frasi portatori di significato, tanto da farli diventare una costante espressiva nella sua produzione letteraria e nelle sue abitazioni». Ardisco non ordisco. Nec ictu, nec igne. Nec ferro nec amma. Quies in sublimi, Semper adamas. Humilia despicit. Eppoi i più noti: Memento ardere semper. Navigare necesse. Io ho quel che ho dato. «Il gran numero di scritte e simboli sono spesso criptici e per nulla facili da capire- spiega Maiolini -. 

Una sorta di intrigante mistero da svelare e interpretare tenendo conto del luogo in cui il poeta li ha collocati e delle fonti a cui ha attinto, che sono perla maggior parte testi rinascimentali su imprese ed emblemi, cioè immagini e simboli, accompagnate da uno scritto, molto usati in quel periodo dalle classi più colte». Missione di tali ipse dixit era quella di dichiarare un ideale, una intenzione, uno stile di vita, una linea di condotta del committente.

«Resta il fatto che, per la maggior parte, questi motti sono criptici - aggiunge Maiolini -. Quale poteva essere allora la motivazione per una simile ricerca e per l'adozione di questi motti? La spiegazione probabilmente può venire dagli stessi autori rinascimentali da cui d'Annunzio ha attinto: "I più antichi et più savi scrittori hanno sempre avuto in costume di raccomandare à loro scritti i secreti [...] sotto oscuri velami, acciocché non siano intesi se non da coloro i quali hanno orecchie da udire, cioè [...] siano eletti ad intendere i suoi misteri". D'Annunzio voleva che solo gli eletti potessero capire i suoi messaggi».

FRAINTENDIMENTI La diffusione che i motti di d'Annunzio hanno oggi in internet (fenomeno in qualche modo impressionante, e imprevisto per chi usa e frequenta il mezzo con altri scopi), a parere di Patrizia Paradisi, da un lato dimostra il successo e la pervasività che ancora oggi, a distanza di un secolo dall'insediamento di d'Annunzio sul lago di Garda, anche questo suo particolare tipo di scrittura aforistica, in italiano e più spesso in latino, criptica ed enigmatica, continua a incontrare presso un pubblico eterogeneo, molto più vasto degli specialisti e degli addetti ai lavori «fino a costituire una specie di moda, o trend, culturale; dall'altro, però, tale indistinta diffusione in rete è direttamente proporzionale all'approssimazione e alla genericità con cui i motti sono interpretati e spiegati, con definizioni che si ripetono acriticamente di sito in sito. 

Soprattutto i motti latini sono stati per lo più fraintesi, con traduzioni spesso non corrette e nel complesso poco fedeli, prive della necessaria contestualizzazione storico-letteraria". Il libro verrà presentato domani, in occasione dell'evento Forme uniche di continuità nel tempo", al Vittoriale.

Da Focus. Chi fu per davvero Gabriele D'Annunzio?

Padre nobile del Fascismo, esteta, scrittore, amante della "grande bellezza": la vita (e le miserie) del Vate d'Italia.

Una cortigiana della Belle Époque, Liane de Pougy, definì D'Annunzio "uno gnomo spaventoso con gli occhi cerchiati di rosso, senza capelli, con denti verdastri, l'alito cattivo e le maniere di un ciarlatano". Hemingway lo liquidò più sbrigativamente come un "coglione". Così racconta Lucy Hughes-Hallett nella sua biografia The Pike: Gabriele D'Annunzio, Poet, Seducer and Preacher of War.

Di certo Gabriele D'Annunzio fu una personalità complessa, un po' dandy, un po' folle, a tratti depresso. Negli anni del fascismo fu considerato il Vate d'Italia (cioè poeta sacro, profeta) e l'incarnazione del "gagliardo spirito nazionale". Oggi il giudizio è stato ridimensionato: chi fu per davvero Gabriele D'Annunzio?

12 marzo 1863: nasce a Pescara in una famiglia benestante. A 11 anni andò a Prato a studiare in un collegio: 4 anni dopo scrisse il suo primo libro di poesie, Primo Vere, pubblicato a spese del padre. Poco prima che uscisse una seconda edizione ampliata, un editore di Firenze ricevette una cartolina anonima da Pescara che diceva che l'autore era morto per una caduta da cavallo.

La notizia fu ripresa da molti giornali... ma era una fake news: l'istrionico D'Annunzio aveva spedito l'annuncio per attirare l'attenzione sui suoi scritti.

LA GRANDE BELLEZZA. L'esperimento riuscì. Da quel momento per lui fu un crescendo di notorietà. Trasferitosi a Roma, scrisse racconti e poesie e si occupò di giornalismo. Il tutto in una cornice splendida: amava il lusso e vivere al di sopra delle sue possibilità. Come un dandy di fine Ottocento, voleva brividi e una vita al di fuori delle convenzioni borghesi: proprio come Andrea Sperelli, il protagonista del primo dei suoi sette romanzi, Il piacere (1889). 

Eleonora Duse, una delle amanti del Vate: fu una tra le più importanti attrici teatrali italiane della fine dell'Ottocento e degli inizi del Novecento simbolo del teatro moderno.

TI CREO (E TI DISTRUGGO). La sua vita privata era sempre più chiacchierata (anche se la storia che si fece togliere due costole per autoerotismo è una bufala): il suo insaziabile desiderio sessuale lasciò sul campo un numero ingente di donne "rovinate", rinnegate dai padri, abbandonate dai mariti, persino ricoverate in manicomi. Alcune delle sue amanti erano celebrità, come Eleonora Duse, una delle attrici più famose di quegli anni.

Altre restarono nell'ombra, come Barbara Leoni: bella e provocante, sarà la sua musa, e lui trasfigurerà la loro storia d’amore e di passione nelle pagine del Trionfo della morte (1894).

A ognuna trovava un ruolo: se alla cameriera chiedeva soprattutto prestazioni di sesso orale, a Luisa Baccara chiese di sublimare la sua passione suonando al pianoforte per lui nella Stanza della Musica della sua residenza a Gardone Riviera (Brescia), in quello che divenne il complesso monumentale chiamato Vittoriale degli Italiani.

"D’Annunzio era un così grande amante che poteva trasformare la donna più ordinaria e darle per un momento l’apparenza di un essere celeste", disse di lui la ballerina Isadora Duncan.

Per sedurle sfoderava una voce vellutata. "Quando il signor d'Annunzio parla, sembra sempre che stia raccontando un segreto, anche se sta solo dicendo buongiorno", confessò la figlia del compositore Pietro Mascagni quando lo incontrò a Parigi, dove D'Annunzio era fuggito nel 1910 per sottrarsi ai suoi creditori.

ARDITO E GAGLIARDO. D'Annunzio visse in Francia alcuni anni. Tornò in Italia nel maggio del 1915, invitato a parlare alla presentazione di un monumento a Garibaldi, a Quarto, vicino a Genova.

La Prima guerra mondiale era scoppiata da un anno e lui rivolse la sua voce magnetica alle folle che si erano riunite per salutarlo: 100.000 persone secondo un articolo del tempo del Corriere della Sera. Chiedeva all'Italia di entrare in guerra e portare a termine l'unificazione del paese annettendo grandi aree dell'impero austro-ungarico. Il suo discorso interventista accese gli animi.

Il 23 maggio l'Italia dichiarò guerra all'Austria-Ungheria. Nonostante avesse già 52 anni, il Vate ottenne di potersi arruolare come Ufficiale nei Lancieri di Novara, un reggimento che in quel periodo accoglieva i primi piloti.

Ottenne il brevetto di aviatore e partecipò ad azioni dimostrative, non tutte di successo. Nel gennaio del 1916, durante un atterraggio di emergenza, sbatté violentemente la tempia contro il calcio della mitragliatrice di bordo. La ferita, non curata, gli fece perdere l’occhio destro. Durante la convalescenza scrisse il Notturno, un'opera in prosa lirica in cui il poeta riunì riflessioni e ricordi, ripubblicata in forma definitiva nel 1921. 

D'Annunzio durante il volo su Vienna (1918). Furono lanciati 50.000 volantini con il testo, solo in italiano, di D’Annunzio. I restanti 350.000, invece, riportavano uno scritto del giornalista Ugo Ojetti, più didascalico, tradotto anche in tedesco.

LA VITA COME OPERA D'ARTE. La convalescenza non smorzò l'entusiasmo bellico: il 9 agosto del 1918 volò su Vienna per un'azione dimostrativa, incruenta e mediaticamente molto potente.

Per indurre i viennesi a insorgere gettò dal suo aereo più di 400.000 volantini sulla città. I Futuristi applaudirono all'impresa: "Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa", avevano scritto nel loro Manifesto pochi anni prima. "Noi canteremo il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera...". D'Annunzio, come loro chiedevano, aveva trasformato un atto politico in un'opera d'arte. 

IMPRESA FIUME. Tre mesi dopo l'italia firmò l'armistizio. Ma D'Annunzio preferiva il conflitto: "Sento odore di puzza di pace" scrisse infatti. Così portò avanti una sua personalissima battaglia. Nel settembre del 1919 si butto nell'Impresa di Fiume: guidò un esercito di irregolari e ammutinati nella città di Fiume (ora Rijeka, in Croazia), contesa da Italia e Regno di Jugoslavia, e si costituì dittatore. Per 15 mesi regnò come Duce, finché la marina italiana non intervenne a cannonate per mettere fine all'impresa, su ordine dell'allora governo Giolitti.

Intanto in Italia erano nati i Fasci di combattimento e si preparava la strada alla Marcia su Roma. Un anno prima che Mussolini andasse al potere, D'Annunzio, deluso dal fallimento di Fiume si trasferì nella casa sopra il Lago di Garda, il Vittoriale, dove vivrà in semi-reclusione fino alla morte, il 1° marzo 1938, tra cocaina, belle donne e umore sempre più nero. Il suo pensionamento fu in gran parte finanziato dal governo fascista, che era desideroso di tenerlo alla larga.

Il suo rapporto con Mussolini infatti fu sempre ambiguo: il Duce da un lato voleva promuoverlo a Padre nobile del fascismo, dall'altro sapeva che il Vate era uno spirito critico, lucido e indipendente. Così lo ricoprì di onori - lo finanziò con un assegno statale regolare che gli permise di far fronte ai numerosi debiti - ma lo rese politicamente ininfluente.

Nel 1938 D'Annunzio si oppose all'avvicinamento dell'Italia fascista al regime nazista di Adolf Hitler, che definiva "pagliaccio feroce", "ridicolo Nibelungo truccato alla Charlot" o "Attila imbianchino". Ma ormai, anche grazie a lui, il Fascismo era salito al potere, e nessuno aveva più il diritto di dissentire. Il Vate morì quello stesso anno, ufficialmente per un'emoraggia cerebrale.

28 febbraio 2018 Giuliana Rotondi

·        Georges Bataille.

Bataille, il poeta incompreso re del non sapere. Autore di un’opera complessa, fraintesa e non del tutto esplorata, molto critica verso una cultura accademica. OTTAVIO DI GRAZIA su Il Quotidiano del Sud il 10 Luglio 2022.

Tutta l’opera di Bataille è la storia di una irriducibilità, quella di un pensiero che ha rifiutato appassionatamente il mondo e che si è costituito come spazio ’altro’, ‘maledetto’: il luogo di raccolta di pratiche, di esperienze che riflettono la lacerazione di un mondo che non possiede più nome e dimora. Quest’opera può essere solo definita in termini di dissipazione, prodigalità e vissuta in certe esperienze che rifiutano ogni riconciliazione, come il riso, la morte, l’estasi, la dépense (la pura perdita).

Esperienza-limite, dunque, secondo l’espressione di Maurice Blanchot, che è la risposta dell’uomo, «alla decisione di mettersi radicalmente in questione. Tale decisione che compromette tutto l’essere, esprime l’impossibilità di arrestarsi mai, a qualsiasi consolazione o verità, agli interessi o ai risultati dell’azione, alla certezza del sapere e della fede».

Filosofo non professionista (come amava provocatoriamente definirsi), saggista e critico letterario acuto e raffinato, Georges Bataille (nasce il 10 settembre 1897 a Billon, Puy-de-Dome e muore a Parigi il 9 luglio 1962 – dunque, ricorre il sessantennale dalla morte) incarna l’avventura stessa di un certo pensiero contemporaneo. Autore di un’opera complessa, spesso fraintesa e non del tutto esplorata, molto critica verso una cultura accademica asfittica, persa in discussioni lontane dall’incandescenza della vita.

Bataille si è confrontato a lungo con “maestri” del pensiero del calibro di Hegel e Nietzsche e con i temi abissali che hanno contraddistinto il suo e il nostro tempo. Ed è stato un interprete acutissimo e precoce degli aspetti più complessi della teoria freudiana.

Oltre a essere stato un fine e precoce lettore di Freud nella Francia degli anni ’30, negli anni ’40 Bataille (insieme all’amico Klossowski), sarà anche il fautore della Nietzsche  reinassance, grazie alla quale riuscirà a sottrarre il filosofo tedesco dall’angolo nazi-fascista in cui la pessima sorella Elizabeth l’aveva costretto. I due si batteranno in tutti modi per restituire ai testi nicciani quella vertigine senza la quale nessuna parola del filosofo tedesco trova il proprio giusto senso.

Bataille ha scritto: «nessuno può leggere Nietzsche autenticamente senza essere Nietzsche». Dalle sue pagine emerge con forza la sua figura “rivoluzionaria”, considerato un compagno di viaggio, per la carica liberatrice del suo pensiero.

Fondamentale è stato anche il serrato dialogo con Sartre, Marx e il movimento surrealista, sullo sfondo di quella crisi epocale destinata a trascinare l’Europa nel secondo conflitto mondiale. Fondatore del “Collegio di sociologia”, Bataille ha messo a punto un coraggioso tentativo di arricchire la filosofia attraverso l’apporto della sociologia, della storia delle religioni, dell’antropologia e della psicoanalisi. Fondatore di importanti riviste che hanno influenzato il dibattito culturale nella Francia tra le due guerre mondiali, egli ha saputo toccare la coscienza lacerata del suo tempo, rimettendo in moto, non senza dolore, qualcosa che giaceva lì, immobile e sepolto. Un pensiero che frantuma e spezza, ma che offre al lettore il piacere profondo che emerge dalle sue riflessioni dedicate alla poesia, all’amicizia e all’erotismo.

Sono numerosi i rapporti, anche di amicizia, che Bataille ha intrattenuto con i più importanti pensatori e letterati del suo tempo, da Blanchot a Lacan, da Leiris a Breton, da Caillois a Simone Weil e a Sartre; come è incalcolabile l’influenza che avrà su quelli della generazione successiva, da Foucault a Deleuze, da Derrida a Baudrillard. Grazie alla sua straordinaria sensibilità, profondità di pensiero e intuizione, videro la luce i primi lavori di Roland Barthes, Derrida, Blanchot e Foucault.

Quest’opera apparentemente rapsodica e polimorfa (ma che non è mai eclettica) «testimonia più da vicino lo sconvolgimento del mondo occidentale, della sua metafisica grammaticale. Sconvolgimento della grammatica filosofica che dà vita a una scrittura che è essa stessa spazio di conflitti incomponibili. Scrittura che spalanca essa stessa l’abisso dell’infinito come dimensione dello sradicamento della parola, della sua lontananza incolmabile rispetto alla cosa. Scrittura che produce segni che reintroducono il silenzio sovrano che interrompe il linguaggio articolato.

Dietro questa dispersione apparente, con la chiarezza del lampo che folgora nell’istante in cui si svela e ci rende ancora pìù sensibili alla notte che ci avvolge, c’è lo slancio esigente che ci porta lungo i luoghi della dépense. Si è detto che questa opera è l’espressione assoluta, radicale, dello sconvolgimento del mondo occidentale, che a partire dall’annuncio della morte di Dio, che il folle di Nietzsche gridava nelle piazze, ha sottolineato l’assoluto andare senza meta e senza scopo dell’uomo. Questo precipitare, questo essere lontani da sé, la disgregazione della totalità, la perdita del significato delle cose, la frantumazione dell’unità della ragione classica, l’eclissi del senso, la scissione del segno linguistico è il senso della meditazione di Bataille. Trascinato in questo scivolamento indefinito, Bataille dà vita a concetti che sono non-concetti, che, in quanto tali, sono assolutamente impensabili, insostenibili.

Ho fatto riferimento a Hegel, come all’altro grande “maestro”, con cui Bataille, per tutta la vita si è confrontato/scontrato in un insonne, interminabile corpo a corpo. Decisivo per il suo rapporto con Hegel, furono le indimenticabili lezioni di Kojève tenute all’École Pratique des Hautes Études, a Parigi tra il 1933 e il 1939. È chiaro che Hegel è il ‘nome’ di ogni sistema idealistico, di ogni sistema che cerca di separare il sapere dalla materia e che nasconde questa separazione con la produzione di valori ’spirituali’ che cancellano «la pluralità del soggetto» e del mondo «nell’unità metafisica del cogito o nella purezza del sistema logico». Ma nonostante questa rimozione della materia, ossia dei complessi rapporti sociali di produzione, dell’intreccio di pulsioni e ideologie che agiscono sulla scena di questa realtà materiale, sono rimaste delle tracce che costituiscono un testo complesso che Freud definiva “geroglifici”.

Bataille non giunge all’individuazione di un processo interpretativo (e del resto dire queste cose di Bataille è già una forzatura ermeneutica) che dia conto di questa pluralità rimossa. Bataille rimane all’interno di una irriducibile costante negazione che dischiude gli interstizi del non-detto, del non-sapere, entra nei territori del dimenticato, del rimosso, trasgredisce i divieti della Legge in un infinito transitare nello ’spaesante’. Nel turbamento che questa opera provoca, si manifesta qualcosa che è «la comunicazione pura, l’equivalente delle lacrime e del riso scatenato»; e questa comunicazione in un certo senso religiosa, così sospesa com’è tra il dicibile e il non dicibile, de1 silenzio, è ciò che «cerchiamo nella poesia». Infatti l’essenziale della poesia è il movimento imprevedibile da cui nasce e in cui si annulla. Il poeta «rende la vita all’energia originale: egli è uno di noi, che canta alla taverna e ride con i bambini; non è il “mesto signore”, pieno di moralità e di ragione, che, senza energia, si amministra con precauzione, è avaro, e lentamente cede alla tristezza della logica».

Cosa resta?

Resta un pensiero che non garantisce nulla, che non ci dà nessuna certezza e nessun vantaggio. È un colpo di dadi, una chance. Non resta che l’angoscia mortale o la capacità di ridere. Un pensiero che come la tela di Penelope viene disfatto tutte le notti.

Solo che non c’è nessun Ulisse da aspettare.

La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.

Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  

Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.

·        George Orwell.

Orwell, un vero patriota contro i nazionalismi. Francesco Perfetti il 25 Maggio 2022 su Il Giornale.

Torna il saggio pubblicato nel '45: il tema era impopolare e l'autore troppo anticonformista.

Nel maggio 1945 a poche settimane dalla conclusione del secondo conflitto mondiale e nello stesso anno di pubblicazione di Animal Farm (La fattoria degli animali), uno dei suoi più celebri romanzi George Orwell dette alle stampe un piccolo ma denso saggio politico, Notes on Nationalism, che suscitò grande interesse e qualche polemica. Era certamente di attualità allora, quel saggio, e lo è anche oggi in un'epoca nella quale le spinte nazionaliste e sovraniste sono tornate prepotentemente di attualità pur nel contesto di un nuovo ordine internazionale globale diverso da quello creato all'indomani della guerra mondiale. Quel piccolo saggio ora opportunamente riproposto al pubblico italiano con il titolo Sul nazionalismo (Lindau, pagg. 64, euro 9) appartiene all'ultimo, ma fecondissimo, scorcio della vita del giornalista e scrittore inglese. Ed è, sotto un certo profilo, assai significativo per comprendere le idee politiche di uno scrittore sul quale si è spesso equivocato presentandolo come un socialista irrequieto ma, tutto sommato, coerente.

Nato in India da una famiglia piccolo-borghese di origini scozzesi, Orwell (1903-1950), spirito naturalmente anticonformista e polemico, trovò la propria strada dopo esperienze umane, lavorative e politiche disparate. Dopo aver studiato all'Eton College, dove aveva avuto fra i suoi docenti Aldous Huxley, si era arruolato, seguendo le orme paterne, nella polizia imperiale in Birmania, ma ben presto aveva lasciato il lavoro per recarsi a Parigi dove visse per qualche tempo una esistenza da vagabondo e bohémien conoscendo la miseria e la carità pubblica. Tornato in Inghilterra, pur tra lavori occasionali, poté dedicarsi al giornalismo e alla scrittura pubblicando romanzi e testi autobiografici che contribuirono alla sua notorietà. Il momento di svolta della sua vita fu, però, la partecipazione alla guerra civile spagnola come combattente al fianco delle milizie antifranchiste: una esperienza, questa, dalla quale nacque una delle sue opere più belle e più famose, Omaggio alla Catalogna (1938), che costituisce tuttora un documentato atto di accusa nei confronti dei comunisti stalinisti accusati di aver tradito, sotto il controllo dei sovietici, le forze lealiste e gli anarchici. Fu poi, durante il secondo conflitto mondiale, corrispondente di guerra per varie testate, a cominciare dall'Observer, e per la Bbc e scrisse, fra gli altri, i due libri più celebri, il ricordato La fattoria degli animali (1945) e 1984 (1948), opere che, sotto la veste della favola e della allegoria, rappresentarono un feroce atto di accusa contro il totalitarismo e in particolare contro lo stalinismo. Vale la pena di rammentare che La fattoria degli animali, poi divenuto un bestseller mondiale, ebbe qualche difficoltà ad essere pubblicato perché, all'epoca della sua stesura, la Gran Bretagna era ancora alleata con l'Unione Sovietica nella lotta contro Adolf Hitler e il nazionalsocialismo.

Grande scrittore politico, Orwell non fu mai un politico militante nel senso proprio del termine anche se amava definirsi un socialista democratico: malgrado le collaborazioni con testate di sinistra e segnatamente socialiste, fu uno spirito libero, forse libertario, anticonformista. Non è un caso, per esempio, che, pur condannandone le idee, si fosse schierato a favore dell'attribuzione di un premio a Ezra Pound. Si era proposto, come dichiarò negli ultimi anni, di «trasformare la scrittura politica in arte». Lo fece assumendo come modello ideale, sia per scrittura sia per spirito ironico, Jonathan Swift, che egli chiamò con espressione riferita anche a se stesso quando gli chiesero delle proprie idee politiche «un anarchico Tory». E questa dell'«anarco-conservatore» è, in fondo, una buona chiave interpretativa della personalità dello scrittore inglese.

L'itinerario intellettuale di Orwell potrebbe apparire controverso e contraddittorio, ma in realtà così non è e lo dimostra molto bene la monumentale biografia dedicatagli all'inizio degli anni Ottanta da un grande studioso inglese di scienza politica, Bernard Crick, che ebbe accesso alle sue carte private e che considerava la politica come una sorta di «etica sviluppata in pubblico». Al di là di talune suggestioni socialiste e anarcoidi e di talune pulsioni pauperistiche, legate probabilmente alle difficoltà esistenziali di una vita travagliata, egli aveva, in fondo, una visione della storia umana pessimistica, realistica, in certa misura conservatrice per la diffidenza nei confronti delle ideologie e per il rifiuto della rigidità e della disciplina di partito.

Il fatto stesso che egli decidesse, tra gli ultimi bagliori di fuoco del conflitto mondiale, di scrivere un saggio sul nazionalismo è emblematico del suo anticonformismo. Il tema non era popolare in un Paese come la Gran Bretagna che a differenza degli altri grandi Stati europei non aveva attraversato una fase nazionalista e non aveva neppure contribuito a una «teorizzazione» del nazionalismo dal momento che la sua storia era stata prevalentemente «imperialista» e legata alla visione messianica del «fardello dell'uomo bianco» di cui aveva parlato Rudyard Kipling. Il saggio fu originariamente pubblicato sulla rivista inglese Polemic, che, edita fra il 1945 e il 1947, aveva un taglio anticomunista e raccoglieva firme importanti dell'intellettualità inglese del tempo, da Hugh Trevor-Roper a Dylan Thomas sino a Philip Toynbee, figlio del grandissimo storico e diplomatico Arnold. Su quelle pagine Orwell si occupò di temi che avevano una valenza politica, come per esempio gli scritti di James Burnham, teorico della cosiddetta «rivoluzione manageriale» e importatore negli Stati Uniti della «teoria della classe politica», o, ancora, la rilettura critica di I viaggi di Gulliver del suo amato Swift.

Naturalmente per Orwell il punto di partenza per una riflessione sul nazionalismo era e non poteva essere altrimenti il nazionalsocialismo come esempio paradigmatico dei danni provocati da una ideologia che finiva per provocare caos e ignoranza fra i gruppi sociali. Per lui, tuttavia, il concetto di nazionalismo aveva una valenza ampia, indicava «quell'abitudine a pensare che gli esseri umani» potessero «essere classificati come insetti, e che interi blocchi di milioni o decine di milioni di persone» potessero «tranquillamente essere etichettati come buoni o cattivi». E, ancora, quella abitudine a «identificare se stessi in una singola nazione o in una unità di altro tipo, collocandola al di là del bene e del male e non riconoscendo altro dovere che la promozione dei suoi interessi». Secondo questa ottica, il nazionalismo finiva per includere «movimenti e tendenze come il comunismo, il cattolicesimo politico, il sionismo, l'antisemitismo, il trockismo e il pacifismo». Accettabile o non che sia alla luce degli studi successivi, la fenomenologia del nazionalismo di Orwell è degna di attenzione. Come meritevoli di riflessione sono le considerazioni sul «nuovo torysmo» come forma di «nazionalismo positivo», sostanzialmente anti-russo ma principalmente anti-americano, incarnato da intellettuali come Malcolm Muggeridge, Evelyn Waugh, Thomas Stearns Eliot, Wyndham Lewis e via dicendo.

L'aspetto più importante, però, del saggio di Orwell è la separazione del concetto di nazionalismo da quello di patriottismo che implica «la devozione a un luogo o a uno stile di vita particolari, che vengono considerati i migliori al mondo ma che non si ha il desiderio di imporre agli altri». Insomma, per sua natura il patriottismo, «difensivo, tanto militarmente quanto culturalmente» sarebbe cosa diversa dal nazionalismo «inseparabile dal desiderio di potere». Si tratta di una distinzione importante perché spiega il fatto che, all'interno della galassia dei cosiddetti «intellettuali di sinistra» dei quali egli riteneva (a torto) di far parte, Orwell sia stato forse l'unico a sostenere la naturalezza (e la bellezza) dell'amor di patria.

·        Georg Wilhelm Friedrich Hegel.

Ci sono quattromila pagine inedite di Hegel da studiare. Per il suo professore, Friedrich Wilhelm Carove finì persino in galera. Daniele Abbiati il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.

Per il suo professore, Friedrich Wilhelm Carove finì persino in galera. Accadde quando, nel 1819, alcuni membri dell'associazione patriottica e radicale delle corporazioni studentesche tedesche, di cui il prof era considerato la guida spirituale, furono incarcerati dalle autorità prussiane. A dire il vero, per Carove il prof era un ex-prof, poiché quando lui finì al gabbio aveva trent'anni. Ma quello non era un prof qualsiasi. Era Georg Wilhelm Friedrich Hegel, uno che ti segna la vita, nel bene o nel male. Per il suo prof Hegel, ai tempi dell'università a Heidelberg, Carove aveva fatto di meglio: aveva trascritto parola per parola il suo verbo. Parola per parola, virgola per virgola, idea per idea del Papa dell'idealismo.

Oggi il buon Carove, dopo due secoli, torna agli onori delle cronache. Merito del caso, in prima battuta, dell'ordine che regna nella biblioteca diocesana dell'Arcivescovado di Monaco di Baviera e Frisinga, in seconda battuta, e di un altro prof, docente di Storia della filosofia dell'Università «Friedrich Schiller» di Jena, gran studioso di Hegel. Il quale nella biblioteca ha trovato cinque polverose scatole. Quando le ha aperte e ne ha esaminato il contenuto, non credeva ai propri occhi: oltre quattromila pagine «dettate» da Hegel ai suoi allievi, tra i quali lo scrupolosissimo Carove. Tutte inedite. Pagine sul concetto di libertà, sulla religione, sull'arte... Insomma, in tema di filosofia, la scoperta del secolo, anzi dei secoli, quello attuale, giovanissimo, e quello precedente, che quel che doveva dare l'ha già dato.

«Da quasi due secoli i ricercatori non esaminavano queste carte da vicino. Ho fatto una scoperta eccezionale: così sorprendente e fortunata capita probabilmente una sola volta nella vita ed è paragonabile alla scoperta di una nuova partitura di Mozart», ha commentato il professor Klaus Vieweg, al settimo cielo. I manoscritti di Carove pare facciano parte del patrimonio lasciato in eredità dal teologo Friedrich Windischmann (1811-1861), cappellano della cattedrale e vicario generale dell'arcidiocesi di Monaco e Frisinga dal 1846 al 1856. Il quale era figlio del docente di filosofia e medico di Bonn Karl Joseph Hieronymus Windischmann, che aveva ricevuto le trascrizioni in dono da Carove.

Il materiale riguarda quasi tutte le componenti della colossale architettura enciclopedica del pensiero di Hegel, quel ferreo sistema di pensiero che ha indirizzato e influenzato la storia della speculazione fino a oggi. Inoltre è presente la trascrizione, a lungo cercata dagli studiosi, ma mai fino a ora trovata, di una conferenza di estetica tenuta ad Heidelberg. Adesso si tratta di mettersi al lavoro, di distillare il contenuto della zampillante fonte-Hegel. Le Università di Jena e Bamberga prepareranno l'edizione critica delle trascrizioni. I testi saranno inclusi in un'edizione completa con il titolo Caroves Hegel-Mitschriften che richiederà alcuni anni. Vale la pena attendere un po', visto che abbiamo due secoli di ritardo. Ma meglio tardi che mai.

·        Giacomo Leopardi.

Emanuela Minucci per lastampa.it il 3 maggio 2022.

Una scoperta da far girare la testa. Un manoscritto giovanile, inedito, di un Leopardi appena sedicenne, ma che già rivela in sé – sia nella grafia sia nella profondità dello sguardo letterario – il dna del sublime poeta dell’Infinito. 

Dal Fondo Leopardiano conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli è tornato alla luce un suggestivo autografo del giovane Giacomo Leopardi, con ogni probabilità del 1814, in cui studia la figura di Flavio Claudio Giuliano, l'ultimo sovrano latino dichiaratamente pagano, soprannominato Giuliano l'Apostata. Il manoscritto, passato finora inosservato ed inedito, è stato identificato dagli studiosi Marcello Andria e Paola Zito che ne hanno curato la pubblicazione per i tipi della casa editrice Le Monnier Università.

Quattro mezzi fogli

Si tratta di un «quadernetto» formato da quattro mezzi fogli, ripiegati nel mezzo in modo da ottenere otto facciate, recanti una lunga e fitta lista alfabetica di autori antichi e tardo antichi (circa 160 i lemmi), ciascuno dei quali seguito da una serie di riferimenti numerici. (oltre 550 nel complesso). E' uno scritto di Leopardi appena sedicenne, assiduo frequentatore della biblioteca paterna del conte Monaldo nel palazzo di famiglia a Recanati, che realizza un accurato e capillare spoglio dell'opera omnia di Giuliano imperatore, ricorrendo all'autorevole edizione di Ezechiel Spanheim, apparsa a Lipsia nel 1696. 

Giacomo, che soltanto l'anno prima ha cominciato a studiare il greco da autodidatta, perlustra assiduamente i migliori esemplari della biblioteca paterna, l'autografo ci mostra come benché giovanissimo Leopardi è già uno studioso provveduto e curioso ed abbia già un accurato metodo di lavoro, che rappresenterà la caratteristica costante del percorso leopardiano. 

La passione per l’imperatore neoplatonico

Gli anni in cui il giovane Leopardi si accosta alla lettura di Giuliano rappresentano una tappa significativa nel percorso di rivalutazione della figura dell'Apostata, per lungo tempo offuscata dalla condanna pressoché unanime degli storici della fino alla metà del XVI secolo e riscoperta nel Settecento ad opera soprattutto degli illuministi (Montesquieu, Diderot, Voltaire) ma accolta in Italia, fra attestazioni di stima e dichiarata ostilità. 

Richiami all'opera dell'imperatore filosofo neoplatonico ricorreranno anche in seguito nell'opera leopardiana: in particolare nelle Operette morali (nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri) e nello Zibaldone, in alcune esercitazioni di carattere filologico. Il volume Leopardi e Giuliano imperatore. Un appunto inedito dalle carte napoletane si presenta a Napoli alla Biblioteca Nazionale - Sala Rari - domani (martedì 3 maggio), alle ore 16, con interventi di Maria Iannotti, Giulio Sodano, Francesco Piro, Rosa Giulio.

L'inedito conferma l'importanza della raccolta leopardiana napoletana che si presenta sempre più completa, mettendo a disposizione degli studiosi un panorama integrale dell'opera di Giacomo Leopardi. Il volume approfondisce il senso del binomio di Giacomo Leopardi e l'Apostata, in una prospettiva interdisciplinare attraverso i saggi di Marcello Andria, Daniela Borrelli, Maria Luisa Chirico, Maria Carmen De Vita, Stefano Trovato, Paola Zito che conducono le loro riflessioni sul piano storico -filosofico dal IV secolo d.C. all'Illuminismo e oltre, nonché sul piano filologico indagando nelle pieghe di un tessuto lessicale e concettuale denso e significativo.

·        Gian Paolo Serino.

Riccardo Canaletti per mowmag.com il 5 dicembre 2022.

Gian Paolo Serino ci dice la sua sulle ultime novità e i grandi nomi che intasano le riviste e gli inserti culturali dei grandi giornali italiani, da Concita De Gregorio a Michela Murgia e Chiara Valerio, da Gianrico Carofiglio che pubblica con la figlia al premio Strega Mario Desiati, passando ovviamente per Roberto Saviano. E sui consigli di lettura per le feste... 

Gian Paolo Serino è il tagliagole della critica letteraria, fa a pezzi l'ipocrisia e si smarca dai libri di bassa qualità. Un lettore intransigente in un costante testa a testa con la cultura prodotta nel suo tempo. Un critico che ha sempre un inedito, un testo ritrovato, un capolavoro di qualche grande nel cassetto, come dimostra il recente Un volto nella folla di Budd Shulberg e pubblicato da Mattioli1885 a sua cura.

Gli abbiamo chiesto dei grandi nomi del panorama letterario, tra vincitori di Strega e Campiello e giornalisti che fanno i romanzieri. Grazie a Michela Murgia si finisce a parlare di prove ontologiche e di Dio, con Roberto Saviano si va alla ricerca dell'idea perduta e per Natale consiglia di pensare a fare l'albero: «Chi legge non è normale». Un'intervista senza retorica dell'irregolare della critica italiana. 

Gian Paolo qual è l’ultimo libro che hai letto?

Di italiani ho molto apprezzato Una piccola pace di Mattia Signorini (Feltrinelli) e L’inganno di Veronica Tomassini (La nave di Teseo): ci credo molto perché rappresentano la voce che manca in Italia: una scrittura non ombelicale, non semplici romanzi ma un solfeggio dell’anima.

[...] 

È uscito anche il nuovo romanzo di Giovanni Floris, Il gioco. I giornalisti stanno diventando romanzieri, ma ne hanno la stoffa?

I giornalisti scrivono perché non hanno niente da dire e hanno qualcosa da dire perché scrivono. Il giornalista è stimolato dalla scadenza. Scrive peggio se ha tempo. 

Arriva il Natale. Cosa ci consigli?

Di non leggere. Chi legge non è normale. Se sei normale fai l’albero, vai al cinema e aspetti quelli che vogliono tutti: Natale con la neve. 

Hai curato l’edizione italiana di Un volto nella folla di Budd Shulberg e la prima tiratura è già esaurita. Allora i lettori non leggono solo i premi Strega in Italia.

Credo proprio di no. Un volto nella folla è un miracolo: un libro che ho ritrovato dall’autore di Fronte del Porto: racconta, erano gli anni ’50 quando Shulberg lo scrisse, di un saltimbanco che da clown diventa così potente da poter condizionare la politica americana. In poche pagine Shulberg racconta il nostro oggi dove la politica è ridotta a vaudeville. Incredibile che sia il libro preferito di artisti diversissimi: Bob Dylan, Tom Wolfe, Spike Lee, Francois Truffaut, Kurt Vonnegut, Elia Kazan. Incredibile.

Cosa pensi dell’ultimo di Mario Desiati, Spatriati?

Che abbia meritato il Premio Strega. È da quando scrive romanzi che scrive sullo stesso argomento. Quindi andava premiato. 

E del giovanissimo premio Campiello, Bernardo Zannoni, con il suo esordio letterario, I miei stupidi intenti?

Non l’ho letto: mi accontento del titolo I miei stupidi intenti? Dice già tutto su chi vuole fare lo scrittore. 

Qual è il libro italiano uscito in questi anni che ti ha più spiazzato?

Quindici riprese di Walter Siti.

Hai letto l’ultimo libro di Michela Murgia, God save the queer? Se non lo hai fatto lo leggerai?

Più che leggerlo l’ho sorvegliato. Conoscevo la canzone, cantata in tutte le lingue, ma il libro no. Mi è bastato leggere una frase come «il confine non ci circonda, ma ci attraversa, e che quel che avvertiamo come contraddizione è in realtà uno spazio fecondo di cui non abbiamo ancora compreso il potenziale vitale». Ecco mi è bastato non solo per valutare il libro della Murgia ma per confermarmi che Dio esiste. Ed è in questi particolari che tutti lo possono trovare. Avendo la possibilità di essere Dio, facile inventare il cielo e i mari il Paradiso e Adamo, Picasso o Einstein: voglio dire, sono capolavori non è difficile. Ma inventarsi Michela Murgia e una frase come questa; ci vuole per forza un Dio. Michela Murgia dimostra l’esistenza di Dio.

Chiara Valerio, secondo Luigi Mascheroni, ha fatto più cose di Ernst Jünger, che è morto a 102 anni. Scrive per i maggiori quotidiani nazionali, per Vanity Fair, ha una rubrica su Rai3, cura una collana per Marsilio e così via. Desiati l’ha definita «la mente più brillante della cultura italiana». Sei d’accordo?

La rispetto perché non so chi sia. 

Anche lei viene dal mondo progressista e femminista, insieme a tutti quelli che abbiamo citato. C’è il rischio che il mondo della letteratura si uniformi tutto a sinistra?

Io credo che cultura è entrare nel tempo senza vendersi ai Poteri del tempo. Io non credo a destra e sinistra, non ci ho mai creduto. Almeno in letteratura. Il resto è narrativa a (s)comparsa. 

Il Nobel è stato vinto da Annie Ernaux. Che ne pensi?

Classico esempio di autrice che mette tutti d’accordo. Femminista, sinistrata, fustigatrice del maschilismo, incapace di scrivere un libro che più che un’ombra lasci almeno una traccia.  Radical chic dai romanzetti scritti in punta di penna che li chiudi e sei soddisfatto di averlo letto ma intanto prepari le borse e vai al centro commerciale. Leggerla è come leggere niente. Non ti cambia: è un leccalecca sociale, una caramella letteraria che non serve a nulla, non cambia nulla. Come tutto oggi. 

Tu a chi lo avresti dato?

A Don DeLillo 

Ci sono scrittori italiani che avrebbero potuto vincere il Nobel?

L’hanno già dato a Dario Fo, che a livello letterario ha il fascino più corto del cognome. 

Roberto Saviano è sotto processo per aver dato della bastarda a Giorgia Meloni a Piazza pulita. Saviano dichiara: «Io sono uno scrittore e il mio strumento è la parola» e dice che difenderà, a processo, la libertà di espressione attaccata da questo governo.

È singolare che Saviano usi il termine “bastardo” entrato nel linguaggio comune proprio durante il fascismo. 

Secondo te si tratta di uno scrittore attaccato per le sue idee, come accade in altri Paesi dove vige la censura?

Quali idee?

Gianrico Carofiglio firma un libro con la figlia, Giorgia, L’ora del caffè (Einaudi). Lo leggerai?

Il dialogo tra genitori e figli è sempre importante: ancor più se si leggono frasi come «I giovani che protestano perché si agisca in fretta contro il cambiamento climatico non sono idealisti: sono profondamente realisti. Lottano per un futuro abitabile». Sono concetti nuovi e importanti…

·        Gian Piero Brunetta.

Paola Zanuttini per “il Venerdì di Repubblica” il 29 agosto 2022.

«Di quello che ho scritto, questo è il libro in cui sono più coinvolto» dice Gian Piero Brunetta della sua più recente fatica, le splendide 1.328 pagine di La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia che ricostruisce e celebra i novant’anni del Leone d’oro. E tutto quello che ha scritto questo critico e storico del cinema dichiaratamente workaholic, nato dieci anni dopo la Mostra, è davvero molto: ponderosissime storie del cinema italiano, mondiale ed eventualmente intergalattico.

«Questo libro me lo porto dietro da almeno quarant’anni. È un atto di riconoscenza verso il Lido, dove sono cresciuto, ho studiato e dove, grazie alla Mostra che nei primi Sessanta ho iniziato a seguire in modo sistematico con un gruppo di amici, ho deciso cosa fare nella vita. Forse per questo la tensione, dalla prima all’ultima pagina, mi ha tenuto vivo e l’adrenalina non è mai scesa». 

Con quante persone ha lavorato?

«Da solo». 

E il suo medico non ha detto niente?

«Più che altro, mia moglie. Ovviamente, il lockdown ha favorito l’impresa in cui prima non avevo mai avuto la forza di tuffarmi». 

Non era nuovo alle sfide titaniche. Per esempio, i cinque volumi della Storia del cinema mondiale.

«Realizzata con trecento collaboratori e in dieci anni di lavoro. Scrivere la storia della Mostra, invece, sembrava impensabile finché non è stato possibile accedere all’Archivio storico delle arti contemporanee della Biennale, che è il paradiso terrestre per un ricercatore.

Sono stato aiutato anche dagli archivi in rete dei quotidiani e delle cineteche che custodiscono, per esempio, le annate dei Cahiers du Cinéma e di Positif: chiedevo gli articoli sulla Mostra del settembre-ottobre 1957 e due giorni dopo li avevo. Insomma è stato un lavoro in solitaria, ma con il supporto di tantissime persone. 

C’è stato anche un colpo di fortuna come il ritrovamento di cinque lettere e la ricevuta della restituzione del film che documentano la presenza di Kubrick a Venezia con il suo primo lungometraggio, Paura e desiderio, presentato nel 1952 nella Rassegna del film scientifico didattico. Io, che sono un kubrickiano della prima ora, non ne sapevo niente».

C’è un film visto alla Mostra che ha determinato la sua scelta di occuparsi di cinema?

«Più che un film una stagione, quella dei primi anni Sessanta, con Pasolini, Olmi, Godard. In quel periodo a me e altri compagni lidensi prese una febbre che ci spingeva a trovare ogni modo immaginabile per seguire il maggior numero di film nel Palazzo del Cinema, soprattutto le retrospettive, e tutte le sere in Arena, con il pubblico che fischiava i film italiani.

Poi, dopo trent’anni di onorata carriera l’Arena fu dismessa anche perché spesso pioveva durante le proiezioni. Provarono a rimediare con delle tettoie di lamiera, ma la pioggia che tamburellava era un incubo». 

Il festival che ricorda di più?

«Quello del 1961 che premiò L’anno scorso a Marienbad di Resnais. I critici uscivano dalla sala con gli occhi sbarrati, intuendo la portata del film, ma anche domandandosi: e adesso che cosa scrivo? Sembravano reduci da tre round di pugilato con Cassius Clay».

Perché pochi anni dopo, nel 1965, Venezia si lasciò sfuggire I pugni in tasca di Bellocchio, lanciato e premiato un mese prima dal Festival di Locarno?

«Non era piaciuto alla commissione selezionatrice. Fu messo in una rassegna fuori concorso, ospitata da un cinema dei preti a Città Giardino. Ho assistito a quella proiezione con alcuni grandi critici: l’impressione era di assistere alla nascita di qualcosa di assolutamente nuovo. 

Ma a 22, 23 anni se avevi vaghe aspirazioni di fare il regista e vedevi I pugni in tasca capivi che non era aria. C’era qualcuno di iperdotato e non eri tu, ancora in cerca della tua strada. In quegli anni, vedere Bellocchio, o Bertolucci con il suo Prima della rivoluzione, presentato a Cannes, e Gli amori di una bionda e i film delle varie Nouvelle Vague dava il senso di una nuova strada, di un’inattesa potenza narrativa».

La Mostra è la madre di tutti i festival. Però molti registi italiani preferiscono portare i loro film a Cannes. Perché?

«Le rispondo da spettatore: il cinema italiano è sempre stato accolto con sospetto dal pubblico italiano. Non ha abbracciato da subito e con orgoglio Visconti, Fellini, Rossellini che, anzi, negli anni Cinquanta venivano maltrattati. Era una sorta di tafazzismo italiano: ricordo i fischi mostruosi in Arena prima che cominciasse Mamma Roma di Pasolini, con la platea spaccata a metà e la mobilitazione dei fa- scisti. Stesso destino per La battaglia di Algeri di Pontecorvo».

Ma anche i lidensi partecipavano a questi moti del pubblico?

«C’è stato un tempo in cui volevano essere coinvolti: io faccio parte di quel- la generazione che chiedeva di prolungare le attività, di tener conto dei lidensi, non solo come spettatori del passaggio dei divi, ma anche come pubblico partecipe di eventi che si prolungassero nel tempo. 

Ma il Lido non ha mai vissuto fino in fondo questa esperienza, e poi, a un certo punto, si è capito che la Mostra poteva tradursi in una bella integrazione economica per tante famiglie che affittavano le loro case per quindici giorni. Il Lido vive una sorta di letargo undici mesi e poi a settembre cambia tutto, il Comune ripulisce le strade, sistema le aiuole...».

Concepita dal Conte Volpi di Misurata, proprietario dell’Hotel Excelsior, per rivitalizzare il turismo depresso del Lido dopo la crisi del 1929, ma anche per affermare definitivamente la natura artistica del cinema, la Mostra dimostra da quasi un secolo che con la cultura si mangia. Chi afferma il contrario è all’oscuro della vicenda?

«Direi di sì. Con la cultura si è sempre mangiato, magari non in modi pantagruelici . E Venezia ha dimostrato nel tempo che un fenomeno nato come turistico-mondano, ma anche culturale, si è evoluto in una forma di diplomazia culturale. Già nella prima edizione del 1932 si concepisce un’operazione aperta in cui coesistono film americani e sovietici.

Nel ’38 vincono la Coppa Mussolini Luciano Serra pilota di Goffredo Alessandrini e Olympia di Leni Riefenstahl: in quel momento nasce l’idea di creare il Festival di Cannes perché Venezia è troppo inquinata ideologicamente. Ma solo un anno prima era arrivato al Lido un film come La grande illusione di Renoir, che diventerà un manifesto dell’anti- militarismo».

·        Giampiero Mughini.

Mughini: «Lotta continua non ha lasciato nulla. Nel sentire comune quella stagione non c’è». Paolo Morelli su Il Corriere della Sera il 25 novembre 2022.

Lo scrittore è fra le voci del documentario «Lotta Continua» (nel programma del Tff): «Un piccolo gruppo credette di poter diventare attore di una storia. Ma oggi un ragazzo di 25 anni non ha idea di quell'azione politica»

«In quel giornale non sono mai entrato, non lo leggevo neppure tanto, ma ho fatto il direttore responsabile, ho preso 3 condanne e ho subito 28 processi, pagando le spese da me». Giampiero Mughini, giornalista e scrittore, è fra le voci del documentario «Lotta Continua» di Tony Saccucci, che l’ha scritto con Andrea De Martino e Eleonora Orlandi ispirandosi al libro «I ragazzi che volevano fare la rivoluzione» di Aldo Cazzullo (Mondadori, 1998). 

La pellicola è fuori concorso al 40esimo Torino Film Festival, attesa il 2 dicembre (ore 20.30 al Cinema Romano) e racconta la storia del movimento facendo parlare alcuni protagonisti. Ci sono Erri De Luca, Vicky Franzinetti, Marco Boato, Donatella Barazzetti, poi Gad Lerner, Paolo Liguori, Vincenzo Di Calogero, Cesare Moreno, Andrea Papaleo, Marino Sinibaldi e — forse il più critico — Giampiero Mughini, che firmò il loro giornale dopo la richiesta dell’allora leader Adriano Sofri (perché un giornale esca, serve un direttore iscritto all’Albo dei professionisti). 

«Ho accettato e lo rifarei adesso, perché i giornali devono uscire e la voce di Lotta Continua era la più autentica», dice Mughini, molto distante da quell’area. Negli anni ha pubblicato libri molto critici come «Gli anni della peggio gioventù. L’omicidio Calabresi e la tragedia di una generazione» (Mondadori, 2009). 

Il film è prodotto da Verdiana Bixio per Publispei con Luce Cinecittà, Rai Documentari e Rai Play, dove andrà come serie dal 4 dicembre, poi come film su Rai Tre il 12 gennaio, ed è definito «equilibrato» da Steve Della Casa, direttore del Tff che prese parte a Lotta Continua. 

Mughini, lei nel film attacca i «militanti». Qual è la differenza fra loro e i leader? 

«Adriano Sofri era il capo dei militanti, fra i talenti della mia generazione insieme a Marco Boato, oppure Enrico Deaglio, bravissimo direttore del giornale, Mauro Rostagno e il torinese Guido Viale. Il “militante” è il personaggio medio che nei cortei gridava cose che oggi non ricorda nemmeno più, come “uccidere un fascista non è reato”. Aveva una responsabilità anche chi lasciava gridare queste cose, tante parole erano usate con leggerezza e io ho sempre pensato che le parole fossero importanti». 

Secondo lei il movimento ha sbagliato?

 «Sì, credendo che un gruppetto potesse diventare l’attore protagonista di una storia complessa come quella di una democrazia industriale moderna. In Italia, a quell’epoca, c’era il più grande partito comunista europeo e c’era un partito socialista che ai tempi di Bettino Craxi era molto vivo. Il movimento pensava che questa fosse robetta». 

Che cosa ha lasciato Lotta Continua?

«Nulla. Le nostre vite sono state segnate, ma nel sentire diffuso non c’è più niente. Oggi un ragazzo di 25 anni non ha idea di cosa sia. I libri di Adriano Sofri, ad esempio, sono importanti, ma sono i suoi libri, non di Lotta Continua». 

Però era un periodo di fermento a tutti i livelli. 

«C’era un’ondata generazionale che ha investito tutta Europa con effervescenze non da poco. Ho dedicato la mia vita alla storia della mia generazione e molti dei terroristi li conoscevo già prima, come Valerio Morucci, a lungo mio amico dopo che si era dissociato dal terrorismo. Lo ammiro di più rispetto a quelli di Lotta Continua che prendevano le distanze dall’omicidio Calabresi». 

Erri De Luca, nel film, dice che qualunque militante dell’epoca avrebbe potuto farlo. Cosa ne pensa? 

«È stata una caratteristica di un momento della storia italiana, non solo di Lotta Continua, che tuttavia ha all’attivo o al passivo l’omicidio che fa da atto di nascita del terrorismo rosso: quando una mattina una persona attende il commissario Calabresi, va alle sue spalle e gli spara. Molti militanti di Lotta Continua andarono via per fondare Prima Linea, gruppo terrorista che ne ha fatte tante quanto le Brigate Rosse».

Giampiero Mughini per Dagospia il 21 novembre 2022.

Caro Dago, sono uno di quelli che nell’andare a leggere un articolo o un libro del professor Luca Ricolfi non ne vengono mai delusi. Vale per quest’ultimo suo “La mutazione” (Rizzoli, 2022), un libro che ha per attirante sottotitolo “Come le idee di sinistra sono migrate a destra”. 

Ne è sugosissimo il capitolo centrale, quello in cui Ricolfi documenta come la difesa anti censoria delle libertà di pensiero e d’arte che in Italia e altrove era stata una prerogativa particolarissima della sinistra viene adesso smentita e arrovesciata dagli stilemi su cui è fondata la cancel culture, e seppure in Italia non siamo agli orrori di cui questo atteggiamento si è macchiato negli Usa (e non solo). 

Lì dove – in Texas – è appena nata un’università che difende la libertà di pensiero (di tutti i pensieri) all’insegna di parole così: “Quattro quinti degli studenti di dottorato statunitensi sono disposti a ostracizzare gli scienziati di opinioni conservatrici. Non abbiamo tempo di aspettare che gli accreditati atenei si correggano da soli. Per questo ne fondiamo uno noi”.

Il fatto è, scrive puntualmente Ricolfi, che nei campus universitari americani sono all’ordine del giorno le richieste di no platforming (non fornire il palco), disinvitation (cancellare un precedente invito) se non addirittura di licenziare professori le cui convinzioni non siano politicamente corrette. Da brividi. 

A partire dal 2015 i casi di disinvitation tentati negli atenei americani sono stati ben 200 di cui 101 riusciti. E comunque anche quando gli eventi sgraditi non vengono cancellati, gli studenti che chiameremo di sinistra bloccano fisicamente l’accesso alle aule universitarie o intonano canti o percuotono tamburi in modo da impedire l’ascolto di opinioni a loro invise.

Talvolta è addirittura furibondo il fuoco di sbarramento, sui social o su giornali universitari, contro autori classici che rispondono al nome di Omero, Dante, Shakespeare, Cartesio o contro il ben di dio di scrittori moderni quali Melville, Conrad, Fitzgerald, Hemingway. E’ stato bersagliato un pittore immane quale Paul Gauguin che ebbe il torto di avere una relazione sessuale con una quattordicenne polinesiana, un torto simile a quello rinfacciato al nostro Indro Montanelli partito volontario a combattere nell’Etiopia degli anni trenta. 

Il culmine dell’abiezione che mira a cancellare il reale com’è stato e sostituirlo con un reale a misura delle odierne minchionerie ideologiche è la volta in cui la “Carmen” di Georges Bizet è stata riscritta col farla finire che è la donna a uccidere l’uomo ed evitare così di mettere in scena un “femminicidio”. 

Non so dire se non sia ancora peggio quello che è accaduto tanto nelle carceri americane che in quelle del Canada. Che degli individui nati uomini e che volevano diventare donne ma che ancora  mantenevano gli organi maschili fossero stati reclusi nelle stesse celle in cui erano le donne: numerosi i casi di stupro lì in carcere.

No, in Italia non siamo ancora a questo. E pur tuttavia, scrive Ricolfi, ci sono indirizzi allarmanti di cui è impossibile non tener conto. Confesso che non avevo mai letto il testo del decreto Zan contro l’omotransfobia, decreto bocciato in Senato dopo essere stato approvato alla Camera. 

Ricolfi punta l’ingranditore sull’articolo 4 di quel decreto, là dove si prospettava la possibilità di punire penalmente “opinioni” che nella valutazione del magistrato fossero “idonee” al compimento di atti discriminatori e violenti.

Una dizione che spalanca il campo all’azione penale contro le opinioni difformi tanto da suscitare il dissenso di un parlamentare del Pd notoriamente omosessuale, l’ex giornalista dell’ “Espresso” e senatore Tommaso Cerno, oltre che di magistrati quali Giovanni Fiandaca e Carlo Nordio fra gli altri. A giudizio di Ricolfi troppo pochi, data la rilevanza giuridica di quell’articolo.

Giampiero Mughini per Dagospia il 17 novembre 2022.

Caro Dago, c’è che in Italia - e dunque nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nei nostri album dei ricordi - sono caterve i segni i simboli le tracce le evocazioni i manufatti d’arte i poster le foto che marcano il fatto che in Italia è esistito per vent’anni e oltre un regime politico dittatoriale che ha nome fascismo. E come potrebbe essere altrimenti? Altro che una maglietta indossata da un noto attore mentre sgambettava in una saletta da ballo. 

Finché non ho toccato i vent’anni e ho cominciato a comprare pagandoli ratealmente il ben di dio dei libri Einaudi, la traccia del fascismo con cui avevo più confidenza era la foto di un Benito Mussolini giovane che mio padre teneva alle spalle della sua scrivania da lavoro. Lui era stato fascista negli anni tra le due guerre e lo era stato ardentemente.

Quando con lui e mia madre vivevamo nella Firenze dell’agosto 1944 dove stavano per irrompere le forze alleate (quelle che davvero “liberarono” l’Italia, non certo le pur eroiche formazioni partigiane) mio padre si allontanò da casa per qualche giorno, perché non è detto che se lo avessero trovato avrebbero indossato i guanti bianchi. Durante la sua assenza venne a casa nostra un drappello partigiano che voleva piazzare una mitragliatrice da una delle finestre di casa. Alla fine rinunciarono. 

Quella foto di Mussolini la guardavo sempre quando andavo da mio padre, che era separato da mia madre. Fosse stata un vintage l’avrei contesa ai miei fratelli quando mio padre è morto. Era una foto che testimoniava che cosa aveva rappresentato quell’uomo per una generazione, quell’uomo che fa da simbolo delle tragedie della storia italiana del Novecento.

E siccome io a quel tempo vivevo con mia madre in casa dei nonni materni, anche il nonno Pietro teneva delle immagini dietro la sua scrivania. Erano dei calchi in gesso che raffiguravano il pantheon comunista, dato che mio nonno era comunista fin dal 1940 e io ho qui sul tavolo la sua tessera di iscritto al Pci. In bella fila erano i ritratti di Marx Engels Lenin Gramsci Stalin. Dopo il XX Congresso il nonno scalzò via il ritratto di Stalin, e ne rimase la macchia sul muro. Io quattordicenne ricordo, mentre pranzavamo, le aspre discussioni tra mia madre e mio nonno se i russi avessero fatto bene a scaraventare i loro carri armati sulla Budapest del 1956. Più tardi mia madre divenne a sua volta comunista tutta d’un pezzo, e quando ebbe tra le mani il mio “Compagni addio” del 1987 non ce la fece ad andare oltre le prime pagine perché quel libro troppo disturbava le sue convinzioni politiche.

Sì, tutte le case e tutte le famiglie italiane traboccano di segnali che alludono alla storia del fascismo e dunque dell’antifascismo. Vedo che Ignazio La Russa viene trattato poco amicalmente perché conserva un qualche busto di Benito Mussolini. Ebbene, e se il busto fosse quello meraviglioso scolpito dal grande Adolfo Wildt, voi che ne direste e come lo commentereste? Perché di questo si tratta, che il fascismo è stata così tanta parte della nostra storia che molti dei nostri grandi artisti ne hanno fatto l’apologia, a cominciare dai futuristi, il drappello forse il più geniale di tutte le avanguardie italiana del Novecento.

Non che il fascistissimo Mario Sironi fosse stato un futurista, ma uno dei più grandi pittori italiani del Novecento senza alcun dubbio. Ebbene io ho - e lo tengo come sacro da quanto è bello - un suo disegno preparatorio di quella Mostra romana del 1932 sul decennale della Rivoluzione fascista che passa per essere stata indimenticabile. Quel disegno di Sironi lo avevo visto da una gallerista romana mia amica, solo che un suo cliente l’aveva già comprato. Poi accadde che la moglie del cliente non la volesse in casa quell’opera talmente marchiata da un credo politico, e a quel punto io mi precipitai per acquistarla. Adesso troneggia all’ingresso del mio Muggenheim e vorrei ben vedere che qualcuno su Facebook mi pungesse al riguardo. 

Sì, perché le discussioni su quel che è stata l’Italia durante i vent’anni e passa del dominio fascista non sono argomenti da Facebook. Persino la storia e l’identità drammaticissima del corpo militare che ha nome X Mas non sono un argomento da Facebook.

Meglio ancora. Nessuno di quegli argomenti è degno di essere trattato come se la guerra civile tra italiani fosse ancora in corso. La guerra civile è la tragedia più grande di un Paese, quella in cui gli uni e gli altri se le danno di santa ragione. Quando trent’anni fa me ne facevo un dovere di incontrare e discutere lealmente con gli intellettuali appartenenti alla destra, a uno di loro che era stato un ufficiale repubblichino ma che io rispettavo, Enzo Erra, dissi pubblicamente che “avevano avuto torto marcio” nello schierarsi dalla parte dei tedeschi. Ciò che non ledeva in nulla, lo ripeto, il rispetto che portavo a Erra e agli altri come lui, il mio vecchio amico Giano Accame tanto per fare un nome. Un rispetto che mi potevo permettere, e che tutti avremmo potuto permetterci, perché la guerra civile era finita da quarant’anni. Potevamo ragionare confrontarci raccontare ciascuno la propria esperienza. Grazie a Dio, potevamo farlo. Ho l’orgoglio di essere stato uno dei primissimi in Italia a farlo.

Il nuovo libro di Giampiero Mughini: «Mio padre fascista e le tragedie del Novecento, dai pogrom al ‘68». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 16 Novembre 2022.

La nuova pubblicazione racconta personaggi «non allineati». Un lungo capitolo su i due intellettuali rumeni Mircea Eliade e Emil Cioran. L’autore fa sue le parole di Cioran: «Chi tra i 20 e i 30 anni non dice sì al fanatismo, al furore e alla demenza è un imbecille»

«Talmente lontano come sono oggi dal me stesso ventenne, fatico non poco a inquadrare quel che ero davvero quando feci la prima sortita pubblica della mia vita, una concione catanese a commemorare a quindici anni di distanza il 25 aprile 1945, una concione nella quale avevo pronunziato a voce stentorea che la Repubblica italiana del dopoguerra non avrebbe dovuto perdonare chi era stato fascista, e dimenticavo che uno di quei fascisti da non perdonare sarebbe stato mio padre, che era stato fascista fino allo scoppio della guerra e che tuttavia era una brava persona».

Leggere i libri di Giampiero Mughini è sempre un grande piacere intellettuale, in particolare quando sono scaldati (lui direbbe speziati) da squarci autobiografici. Nella sua ultima opera — «I rompicazzi del Novecento. Piccola guida eterodossa al pensiero pericoloso», da oggi in libreria per Marsilio — l’autobiografia all’apparenza passa in secondo piano. In realtà, i «rompicazzi» del libro sono personaggi in cui l’autore si specchia e ritrova una parte di sé. Non allineati e non allineabili. A cominciare dai due grandi romeni che dominano il primo e più lungo capitolo: Mircea Eliade ed Emil Cioran, «quei due giganti della cultura europea che per un tempo della loro giovinezza avevano optato per le idee della destra antisemita rumena e non». Cioran in particolare avrà parole entusiaste, poi rinnegate, sulla Germania di Hitler. Eliade e Cioran erano amici (meravigliosa la pagina in cui Mughini racconta la dolce morte di Eliade, leggendo in bozze il capitolo dell’ultimo libro di Cioran a lui dedicato). Nella ricostruzione minuziosa, opera per opera, disillusione per disillusione, mansarda per mansarda — la povertà materiale si accompagna spesso nei «rompicazzi» alla ricchezza spirituale — del percorso dei due grandi rumeni diventati francesi, Mughini ritrova sia il lungo viaggio dei giovani intellettuali della prima metà del Novecento affascinati da un’ideologia di estrema destra che si rivelerà barbara e criminale, sia, come in un’immagine speculare, la fascinazione dei loro figli e nipoti, nella seconda metà del secolo, per l’ideologia marxista, nonostante i mostri asiatici — ma anche europei e latinoamericani — che aveva partorito. E Mughini si riconosce nelle parole di Cioran quarantenne: «Chi tra i venti e i trent’anni non dice sì al fanatismo, al furore e alla demenza è un imbecille. Si è liberali per stanchezza, democratici per ragionamento. L’infelicità è propria dei giovani… Nell’epoca in cui ero giovane, tutta l’Europa credeva alla gioventù, tutta l’Europa la spingeva alla politica. Tenete conto poi che il giovane è uno che ama la teoria, è un mezzo filosofo che ha bisogno costi quel che costi di un “ideale” irragionevole. Non gli basta una filosofia modesta: è un fanatico, conta su ciò che è insensato e ne attende tutto. Noi, i giovani del mio Paese, vivevamo di quel che è insensato. Era il nostro pane quotidiano».

A immergersi nel capitolo su Eliade e Cioran si parte dall’incontro tra il giovane Indro Montanelli e il capo della Guardia di Ferro Corneliu Codreanu, si prosegue con l’assassinio di Codreanu strangolato con un filo di ferro, la presa del potere di Antonescu che con la Guardia di Ferro si era alleato, il massacro in carcere dei 54 responsabili della morte di Codreanu, la rottura tra Antonescu e i Legionari, la tragedia del corpo di spedizione romeno in Russia comandato dallo stesso Antonescu. La vita porterà sia Eliade sia Cioran in Francia, e qui il libro incrocia un’altra passione di Mughini: Vichy, la Francia sconfitta e collaborazionista, che eredita le pulsioni destrorse degli anni 30 e le mette al servizio dell’invasore nazista, tra vigliaccherie di comunisti che come il loro capo Maurice Thorez disertano per non combattere contro i tedeschi alleati dell’Unione sovietica e doppi giochi di dignitari petainisti che salvano vite di ebrei e perseguitati; e uno di quei doppiogiochisti, François Mitterrand, diventerà il primo presidente socialista della Quinta Repubblica. Cinque milioni di denunce ricevettero gli occupanti tedeschi dai pacifici francesi che puntavano il dito contro il vicino di casa o il concorrente, additato come ebreo o antinazista. Un’infamia cui fa da contraltare il silenzio dei torturati, come l’editore Pierre Brossolette che mentre Sartre continua indisturbato il suo lavoro letterario si getta dal quinto piano in manette durante un trasferimento perché non sa se riuscirà ancora a tacere, a reggere altri dieci giorni di sevizie come quelli che ha appena passato.

Rispetto a una simile tragedia, il Maggio ’68 può apparire una farsa; eppure nella folla accorsa nel teatro dell’Odéon occupato dalla gioventù ribelle e abbandonato dal suo direttore con la moglie attrice, un’Odéon frequentato anche dal Mughini ventisettenne, un giorno arriva ad ascoltare l’assemblea rovente pure Eliade; e a chiudere il cerchio trova o crede di trovare la stessa atmosfera della Bucarest del gennaio 1941, i giorni in cui i Legionari si scatenarono contro gli ebrei al punto da indurre lo stesso Antonescu a fermarli. Un accostamento che ovviamente l’autore non accetta (fulminanti le pagine sul pogrom di Iasi). Ma a cui non si sottrae, perché gli estremismi hanno sempre qualche punto in comune: se non nella malvagità e nella drammatica contabilità, nella radicalità. E sulla Romania doveva ancora abbattersi la catastrofe comunista: Cioran non rivedrà per quarant’anni il fratello minore Aurel, imprigionato dal regime, vessato dalla Securitate; e quando lo ritrova a Parigi nel maggio 1981, il mese dell’elezione di Mitterrand, non lo riconosce.

Terminato questo formidabile capitolo, il libro non finisce ma ricomincia, con una galleria di personaggi tutti da degustare: Giovanni Ansaldo, Giaime Pintor, Gianni Celati, Mick Jagger o meglio le sue donne, Giuseppe Prezzolini (in cui si racconta tra l’altro un’epica intervista a Lugano seguita da un’«ululante telefonata» di protesta dell’autore al vicedirettore di Panorama), Marina Ripa di Meana. Tra le tante citazioni possibili, se ne possono scegliere due, che condensano le ragioni della vittoria e della sconfitta del fascismo. La prima è di Prezzolini: Mussolini prende il potere «malmenando la libertà», in un Paese «dove il senso della libertà è sempre stato scarso» e «l’eredità della guerra mantiene disposti gli uomini a una lotta senza riguardi per le regole della vita civile». La seconda è di Ansaldo: Mussolini perde il potere quando «per dispetto, per vanità, per orgogliaccio offeso, per picca, ci buttammo nelle braccia della Germania. L’Asse fu un colpo di scena, fatto per impressionare la Francia. E quanto meno la Francia dimostrò di impressionarsi, tanto più noi ci infognammo con la Germania, senza conoscerla, senza amarla, senza stimarla».

Giampiero Mughini per Dagospia l’11 novembre 2022.

Caro Dago, ti confesso che da lavoratore impegnato nel doppio registro, tanto quello del lavoro dipendente che quello del lavoro con partita Iva, mi appassiona moltissimo questa faccenda della tassa “piatta” al 15 per cento per le partite Iva che fatturano entro i 65mila euro annui (com’è oggi) o addirittura entro gli 85 mila euro annui (come vorrebbe la Lega di Matteo Salvini). 

Com’è possibile che una partita Iva sia sottoposta a un’aliquota fiscale così bassa, dato che un lavoratore dipendente paga il 43 per cento di aliquota fiscale appena raggiunge i 50mila euro di reddito annuo? E’ la domanda che fanno in molti. Solo che la questione del raffronto tra il trattamento fiscale del lavoro dipendente e quello del lavoro autonomo a partita Iva è parecchio più complesso. Lo dico perché da quarant’anni e oltre lo sperimento sulla mia pelle.

Parto da un esempio concreto. Una ventina o poco meno di anni fa mi ruppi il tallone d’Achille cadendo dal palco di una mostra del libro antico. Mi ritrovavo con una gamba ingessata e a dovermi muovere con le stampelle. Andare dalla mia camera da letto al bagno era un’impresa non da poco. A quel tempo tanto ero un giornalista dipendente tanto uno che guadagnava una parte del suo reddito da prestazioni a partita Iva. Ebbene le conseguenze dell’infortunio furono le seguenti.

Per quel che è del lavoro dipendente, mandai in tutto e per tutto due certificati medici che mi consentirono di non andare al lavoro per due mesi senza perdere un solo euro. Per quel che è del lavoro a partita Iva, il committente che mi pagava quel lavoro (da fare a Milano) mi disse che se non mi fossi presentato loro mi avrebbero fatto causa, e questo perché nel promuovere quel determinato lavoro loro avevano puntato sul fatto che io ci fossi. E dunque per evitare la causa dovetti andare a Milano in auto pagandomi tutte le spese del caso (che un’assicurazione sanitaria mi restituì dopo un anno).

Questo per dire che non è oro tutto quel che luccica nel lavoro autonomo, di cui si dice che è quello che alimenta l’evasione fiscale. Una cosa incomprensibile ai miei occhi dato che se non faccio fattura non comincia il computo dei 90 giorni che ci vogliono per essere pagati. E beninteso fermo restando la possibilità del committente di pagarti con ulteriore ritardo o addirittura di non pagarti. (Se non sbaglio in questi ultimi vent’anni non mi sono state pagate fatture per un ammontare di 60mila euro e oltre.)

Ma il bello deve ancora venire. Ne ho parlato stamane con il mio fidatissimo commercialista. Andrea. Il quale mi ha detto che la norma secondo cui hai diritto all’aliquota fiscale del 15 per cento se resti entro i 65mila euro lordi di fatturato è una norma di cui molti suoi clienti non si avvalgono e questo perché a quel punto non possono detrarre alcuna spesa per la produzione del reddito, spese che in molti casi superano l’apparente beneficio fiscale. 

Per me che vivo innanzitutto dallo scrivere libri e articoli ma anche del chiacchierare in tv di cose che devo ben conoscere, le spese sono facilmente identificabili. Uno studio e le sue attrezzature e le sue bollette e la colf che lo pulisce e i danni continui a cose e a tecnologie. L’acquisto a caterve di libri riviste e giornali. Gli abbonamenti a tutto il possibile dei canali televisivi. I contatti al ristorante o altrove con informatori eccetera. Le spese sanitarie che mi consentono di restare vivo e continuare a produrre reddito. Eccetera eccetera eccetera.

Voglio dire che nel lavoro dipendente ti danno 1000 euro e su quelli paghi le tasse. Se guadagni 1000 euro nel lavoro autonomo è perché ci hai pagato prima magari 200 o 300 euro di spese necessarie alla produzione di quel reddito. E senza contare che il lavoro dipendente ti assicura un mese di vacanze annuo, una tredicesima, una mensilità di anzianità di servizio. Lavori undici mesi per guadagnarne 14. 

E allora? Allora vedete che le maldicenze contro la tassa piatta perdono molte delle loro frecce. Almeno così a me pare. Per restare al concreto, l’anno scorso tra pensione e lavoro autonomo il mio reddito netto è stato di 139mila euro su cui ho pagato un’imposta netta di 49mila euro. Sono stato abbastanza di “sinistra”? Io credo di sì.

Giampiero Mughini per Dagospia l’8 novembre 2022.

Caro Dago, tanto più si fa chiassoso se non addirittura forsennato il rumore delle voci che scandiscono la nostra vita attuale - i giornali e per quanto decaduti, le centinaia e centinaia di canali televisivi, i blog, le tonnellate di parole eruttate momento per momento dai social - tanto più si fa alta la responsabilità di ciascuna parola che ognuno di noi adotta e pronuncia in pubblico. 

Laddove a far audience è la concitazione dello scambio comunicativo fatto per iscritto o per orale -, quanto siano roventi e azzannanti le parole che ciascuno spara in caccia al suo interlocutore, quanto siano vistosi gli ”scazzi” televisivi su cui Dagospia punta sovente il suo mirino -, la mia personale opinione è che in quegli scambi ciascuno di noi dovrebbe fare attenzione persino a dove piazza un punto e virgola.

Il fatto che oggi vengano pronunziate cento volte più parole di quante ne venissero pronunziate negli anni della mia prima giovinezza, accresce proporzionalmente la responsabilità di ciascuna di quelle parole. Anche perché una volta che l’hai detta, una volta che l’hai pronunziata, quella parola se ne va e se ne sta per i fatti suoi, la stramaledetta. Ti guarda in volto e ghigna. 

Mi è capitato una volta scrivendo un pezzullo per Dagospia. C’era che non condividevo un’uscita di Fedez su un certo avvenimento della storia italiana recente e mi apprestai a scriverne seppure in modo breve e conciso. Opinioni differenti, che c’è di strano. Solo che io nello scrivere breve breve usai una parola che era insolente nei confronti di Fedez.

Una sola parola, ma insolente e inutilmente offensiva. Me ne accorsi quasi subito che era una parola sgangherata rispetto ai miei scopi - marcare una differenza rispetto all’opinione di Fedez -, solo che quella volta a Dagospia ci misero pochi minuti a mettere in pagina il mio testo. Che se ne stava lì e ghignava. Che fare? 

Il giorno dopo mi telefonò - cortesissimo - l’avvocato di Fedez. Non gli diedi il tempo di aprire bocca. L’espressione che di certo aveva provocato il risentimento di Fedez io la rinnegavo del tutto. E difatti scrissi una lettera personale a Fedez e poi una lettera pubblica su Dagospia in cui spiegavo che quell’espressione era né più né meno che un errore della mia penna, il segno di una responsabilità intellettuale che per un istante era venuta meno e di cui io stesso soffrivo. Quando la mia lettera di scuse a Fedez apparve su Dagospia, mi sentii sollevato. Di averla scritto, ne ero orgoglioso.

Voglio dire con questo che mai più nel mio mestiere di chiacchieratore in pubblico ho usato un’espressione imprecisa o scadente? Non sarò così presuntuoso, voglio solo dire che ci sto molto attento. Moltissimo. Se qualche volta mi accendo è perché mi ci hanno portato con le tanaglie. Replico, quello sì. Azzannare per primo? Non lo faccio mai. 

Succede ad esempio un paio di giorni fa che su Rai1 qualcuno con un’aria che vorrebbe essere sorniona mi dice che il maglione che sto indossando nella puntata ha tutta l’aria di somigliare  alle vesti “leopardate” che indossa un ministro della Repubblica italiana, peraltro rispettabilissimo.

C’è che il mio maglione, uno dei cinque esemplari firmati dal designer principe della giapponese Comme des garçons (uno dei tre marchi giapponesi che hanno cambiato la storia della moda odierna), non abbia nulla ma proprio nulla di “leopardato”. Nulla. Occhi per credere. E dunque ho replicato nella serata di Ra1. Ho replicato con parole di cui avevo altissima responsabilità, sino al punto e virgola. Di cui ero orgoglioso come della lettera inviata a Fedez.

Giampiero Mughini, la moglie Michela, i libri, le risse in tv, le liti furiose con Sgarbi, la passione per la Juve. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 5 Novembre 2022

Fine intellettuale , giornalista e scrittore, è un concorrente di «Ballando con le stelle». Ha polemizzato aspramente con il giurato Guillermo Mariotto che gli ha dato zero

Giovane intellettuale

Giampiero Giovanni Mughini - per anni noto per quel suo verbo «Aborrooo» accompagnato da un gesto di totale disapprovazione verso il mondo - è un fine intellettuale, nato a Catania il 16 aprile 1941. Giornalista, scrittore, opinionista nella prima fase della sua vita è stato molto impegnato politicamente a sinistra. Nel gennaio del 1970 si trasferisce a Roma, e comincia a lavorare nel quotidiano Paese Sera. È tra i fondatori del periodico Il manifesto (1969), ma l’abbandona dopo soli tre mesi per incompatibilità con i colleghi. È stato anche direttore responsabile di Lotta Continua, giornale dell’omonimo movimento, che lascia nel 1971. Scriverà poi negli anni, per numerosi settimanali.

Costanzo show e Controcampo

A fine anni ‘80 comincia a frequentare le televisioni e da fine intellettuale si butta nell’arena televisiva, diventando presto un personaggio originale e molto richiesto per la sua verve . Sempre pungenti e coloriti sono i suoi interventi nel salotto del «Maurizio Costanzo Show». Dal 1998 la sua popolarità cresce per la presenza fissa al programma televisivo «Controcampo» dove si scontra spesso con Maurizio Mosca di cui però poi diventa amico.

Le polemiche a «Ballando con le stelle»

Certo che non ce lo aspettavamo addirittura ballerino. Eppure Mughini a 81 anni ci sa ancora sorprendere e così ha detto sì all’invito di Milly Carlucci a partecipare a «Ballando con le stelle» 2022 , insieme alla ballerina Veera Kinnunen. Come era prevedibile le polemiche con la giuria non si sono fatte attendere: ha discusso animatamente sia con Selvaggia Lucarelli che con Guillermo Mariotto, tanto da lasciare lo studio. Davanti allo zero dato da Mariotto, il giornalista ha commentato: “Non vi offenderete se mi allontano elegantemente, buon lavoro”, e così ha guadagnato l’uscita. dicendo: «Se qualcuno vuole offenderti lo prendo a calci in culo”

Le mani addosso tra lui e Sgarbi

Naturalmente mettere in uno stesso studio Giampiero Mughini e Vittorio Sgarbi e come mettere benzina e accendino. Le loro furiose litigate non si contano più. L’ultima in ordine di tempo è avvenuta al Costanzo show, lo scorso maggio, con tanto di mani addosso e caduta rovinosa del critico d’arte. Poi hanno fatto pace.

La moglie Michela

Una bella donna, Michela Pandolfi: a 28 anni ha sposato Giampiero Mughini (correva l’anno 1985) . Un matrimonio che prosegue a gonfie vele. Lei è molto riservata e non compare quasi mai in pubblico. Si sa che è mamma e nonna, ma i figli non sono nati dall’amore con il giornalista, ma da una precedente relazione. I due sono apparsi in tv insieme nel 2019 , ospiti di Caterina Balivo a «Vieni da me» e lì si sono raccontati. Giampiero ha descritto Michela «soffice come una piuma».

La sua vita privata e (forse) i tradimenti

Sempre in quell’occasione , su Rai1, a «Vieni da me», ospite di Caterina Balivo, Giampiero Mughini si è confessato. Dichiarando: «Io vivo con una compagna e quando dico compagna è una parola molto bella, è un termine che io preferisco a moglie. Tu vuoi che io in 30 anni di storia con Michela non mi sia accorto di un’altra donna nell’universo? Sarei ipocrita. Se per tradimento intendi che il mio animo si sia allontanato da Michela io stento a crederlo». Balivo insiste e chiede se invece con il corpo ha tradito. Lui fa capire di sì , ma chiede di passare oltre. Dice solo: «Non posso credere che tra i presenti ci sia chi creda alla monogamia, un amore assoluto e totale nei secoli. Siamo in tanti, le persone cambiamo, cambiano le sensibilità». E conclude: «Se mi chiedi con chi vuoi vedere un film, andare a cena o a una mostra io dopo 30 anni ti dico senza dubbio con Michela».

Polemica violenta con il Moige

Tra le sfuriate ricordiamo quella a «Storie Italiane» in una puntata in cui si parlava di abusi su minori da parte di sedicenti santoni, con tanto di condanna per l’ex colonnello dell’esercito Salvatore Muratore. Mughini sembra voler minimizzare l’accaduto e dice che bisogna distinguere tra criminali veri e mascalzoncelli. Un’affermazione che manda su tutte le furie Enrica Buonaccorti e Antonio Marziale, ex presidente del Moige in collegamento. Duro lo scontro con Mughini che interrompe Marziale dicendogli che i criminali sono quelli del processo di Norimberga e poi lo invita a smetterla di fare un comizio. Altrettanto dura la replica: “Quando ci sono di mezzo dei bambini io faccio tutti i comizi che voglio. Se parli di mascalzoncello lo rendi quasi simpatico, questo è uno che ha compiuto un crimine contro l’umanità perché violentare bambini e minorenni è un crimine contro l’umanità”. Una delle tipiche provocazioni di Mughini.

Il legame con il padre e la madre, e i figli non voluti

Mughini raramente si lascia andare a confessioni intime, ma una volta parlò del suo passato: «I miei si separarono quando avevo 7-8 anni. All’epoca vivere solo con una madre era inedito. Un po’ mi vergognavo. Mio padre non aveva bisogno che gli dicessi chissà cosa. Gli portai una pagella che aveva solo un 7 come voto più basso…Una volta mi disse che mia madre stava frequentando un altro uomo. Io avevo 13 anni e gli dissi che era nel suo pieno diritto». Sui figli ha confessato: «Non ne ho mai desiderati. Essere padre è un mestiere molto difficile, bisogna saperlo fare. Io penso che non avrei saputo farlo, che potevo solo badare a me stesso».

Scintille tra Giampiero Mughini e Mario Giordano

Scintille in studio durante una puntata di «La gabbia» un talk show che andava in onda anni fa su La7 , condotto da Paragone. Al centro delle polemiche il taglio delle pensioni d’oro: da una parte l’allora direttore del Tg4 Mario Giordano, dall’altra l’opinionista Giampiero Mughini. “Gli 80 euro ai pensionati sono quelli che si potrebbero recuperare tagliando le cosiddette pensioni d’oro” afferma Giordano, cui replica prontamente Mughini: “Ma quali sono le pensioni d’oro? La mia e la tua lo sono?” “Io non ce l’ho, la tua sì” controbatte il giornalista. “Ma di che stai parlando? – sbotta Mughini – Le pensioni d’oro sono pochissime, il ricalcolo dei contributi penalizzerebbe le pensioni minime”. “Non parlare di cose che non sai, leggi almeno, impara – replica Giordano – parla della Juventus che la conosci bene, ma non parlare di cose che non sai”. “Perdonami Mario ma cosa dici? – conclude Mughini Stai facendo demagogia!”.

L’amore folle per la Juventus

Grande tifoso della Juventus, alla squadra del cuore ha dedicato tre dei suoi libri. La sua passione bianconera è totale e assoluta.

Giuseppe Candela per Dagospia il 20 settembre 2022.

"Giampiero Mughini, uno che negli anni si è perfino chiesto cosa c’entrassero le mie tette col giornalismo, è stato rinviato a giudizio per aver scritto che un mio articolo sul Fatto Quotidiano (su Desirée Mariottini, ndr) era sterco, che non ho passato l’esame di terza media e altre gentilezze. Bene", aveva annunciato Selvaggia Lucarelli sui social il 9 marzo 2021. Un anno e mezzo dopo il giornalista è stato condannato per diffamazione, con la pena convertita in una multa di 500 euro e un risarcimento a favore della firma del quotidiano "Domani" di 2.000 euro, oltre al pagamento delle spese legali. 

Nel tweet in cui comunicava il rinvio a giudizio, Lucarelli aveva allegato una foto che ricordava un virgolettato precedente: "Non capisco bene perché la Lucarelli, che si reputa una scrittrice coi fiocchi, esibisca così tanto le sue tette sul web e dintorni. Nella storia del mondo le tette sono state importantissime epperò la letteratura e il giornalismo sono una cosa un tantino diversa".

La vera notizia? Il prossimo 8 ottobre si troveranno faccia a faccia in diretta tv a "Ballando con le stelle". Selvaggia Lucarelli in giuria, Giampiero Mughini come concorrente. Milly Carlucci rafforzi la sicurezza, gli altri possono preparare i pop corn!

Giampiero Mughini per huffingtonpost.it il 29 aprile 2022.

La mia amica Elenca Stancanelli ha scritto oggi elegantemente a favore della decisione di dare a ciascun nascituro il doppio cognome, e quello del padre e quello della madre. Nella situazione invalsa sino a oggi, lei scrive,  dov’è andata a finire l’identità della madre e per quanto possibile svelata dal suo cognome? Il tema è per me dolorosissimo perché io in un certo senso ho “tradito” mia madre col fatto di accampare tutte le volte che potevo una rassomiglianza a mio padre, al suo stile di vita e di lavoro, alla determinatezza che metteva in ogni cosa che faceva, alle poche ed essenziali parole che diceva nelle situazioni le più complesse.

Lo ricordo muto e in attesa che io uscissi dall’aula della mia seduta di laurea, i cui studi mi aveva interamente pagato. Lo ricordo muto - lui che era stato il numero due del Partito nazionale fascista a Catania e che dietro la sua scrivania di lavoro teneva una foto di Mussolini giovane - mentre al ristorante io stavo guardando in estasi un cameriere che era venuto a salutarlo, ed era un momento in cui i camerieri di quel ristorante erano entrati in sciopero contro il proprietario. Io gli chiedevo il perché e il percome dello sciopero, e papà restava in silenzio. 

All’uscita del ristorante mi si rivolse così: “Sei tu un settario. Quel tipo che stavi guardando in estasi era una manganellatore e io lo avevo fatto espellere dal Partito nazionale”. Sì, io sono felice e orgoglioso di portare quel suo nome, da quanto mi piaceva il suo stile, la sua essenzialità, la sua lealtà alle persone e al lavoro. Alla sua morte il quotidiano leader a Catania riempì un’intera pagina con il cordoglio di quelli che avevano conosciuto mio padre e gli dicevano addio.

C’è qualcosa dello stile di mio padre che è come se lo avessi impresso sulla pelle, ed era lo stesso stile che avevano i miei due fratelli Lanfranco e Beppe (figli di mio padre ma non di mia madre). Sì mi ci sento appieno nel chiamarmi “Mughini” e non “Battiato Mughini” come sarebbe stato se avessi preso anche il cognome della famiglia di mia madre. Lo so, lo so che nel dir questo la sto “tradendo”. No, non certo rinnegando. 

A rendervi più completo il quadro, vi dirò che nonno Battiato s’era iscritto al partito comunista clandestino nel 1940, e quella sua tessera io la tengo sulla mia scrivania. A un certo punto lo arrestarono anche, e mio padre brigò per farlo uscire. Dietro la sua scrivania il nonno teneva i calchi in gesso delle immagini di Marx, Lenin, Gramsci e Stalin. All’indomani del discorso di Kruscev al XX congresso del Pcus, tolse l’immagine di Stalin. Ma non è questo, è che il suo stile a me non diceva molto.

Era uno stile in sintonia con la per me insopportabile retorica meridionale, sì era quello purtroppo. A sentirmi chiamare “Battiato”, mi tornerebbe in mente quella retorica. Beninteso io volevo molto bene al nonno, che si separò dalla nonna quando era vicino ai settant’anni. Certo che gli volevo bene. Ricordo quando al Centro universitario cinematografico venne ad abbracciarmi dopo che io avevo concionato a favore del cinema muto sovietico, un me stesso che se lo ascoltassi oggi mi verrebbe un crepacuore.

E mia madre? Ecco, lo sento e lo sento come una colpa che io nel reame della mia memoria la tenga un gradino o forse due al di sotto di quello che lei meritava. Quando a furia di frequentare il me stesso sinistroide dei miei vent’anni, lei aderì entusiasticamente al Pci mantenne quel tratto di “retorica” meridionale che era del nonno. Non dovrei dirlo, lo so che a questo modo sto bestemmiando quel che è stato davvero mia madre e ne traggo un’onta che mi trafigge. L’onta nata nel momento in cui decisi di abbandonare Catania a ogni costo, e lei rimase nel letto della casa dove avrebbe vissuto da sola gli ultimi trent’anni della sua vita.

Noi figli siamo tutti in debito con i nostri genitori, ma il mio debito con mia madre è immane e non cessa. Ti sto bestemmiando, madre, perdonami. Solo che chiamarmi “Battiato Mughini” non avrebbe avuto alcun senso, almeno per me. Nessuno. Io mi sento “Mughini”. E’ l’unico tratto “maschilista” che ho, ma è profondo. Madre, te ne chiedo perdono in ginocchio.

Marina Valensise per “il Messaggero” l'11 aprile 2022.

Tutti conoscono Mughini, il giornalista più pop d'Italia, per le sue apparizioni televisive, la voce stentorea, l'occhialetto da fanatico juventino, le giacche futuriste sempre un po' incongrue rispetto al generale addobbo indumentario. 

Molti conoscono la penna del saggista brillante che ogni settimana abbaglia i suoi lettori scrivendo di personaggi sconosciuti e però cruciali, di storie impossibili e avventure dell'essere. 

Chi lo ama, e chi non lo sopporta, adesso può entrare dentro la sua testa e la sua casa, abitata con pari follia. Mughini vive a Roma, a Monteverde, in un villino liberty su piani, con una grande terrazza che è un museo domestico del Novecento, con la «stanza anni cinquanta», l'«atelier dell'erotismo femminile», le ceramiche di Guido Gambone, le resine di Gaetano Pesce, i muri di Silva Zotta, l'albero in metallo di Andre Salvetti che erompe da lontano nel suo blue violento.

Mughini infatti è un collezionista bulimico, un feticista appassionato che da una vita accumula libri, manifesti, carte, volantini, vecchie riviste, vasi, mobili, poltrone, sculture, oggetti di design. Innanzitutto è bibliofilo, esperto del Novecento. Ha impiegato più di trent' anni per mettere insieme la collezione completa del Selvaggio di Mino Maccari e la serie completa di Omnibus di Leo Longanesi, l'inventore del rotocalco e il maestro di varie generazioni di giornalisti italiani.

Ora però scopriamo che, esaurito il gioco, ha venduto tutto per passare ad altro, come scrive in questo libro che è molte un catalogo ragionato delle sue ossessioni, una dissertazione sui vizi del collezionismo italiano, praticamente atono e disattento, e sulle virtù di quello internazionale, capace invece di valorizzare l'insulso e trasformare in oro tutto ciò che tocca. E soprattutto è un'incursione senza veli nel suo io, profondo, o superficiale che sia, e nelle sue frustrazioni emotive, professionali, e finanziarie, vista l'importanza che egli notoriamente assegna al soldo. 

Eccolo dunque rivelare la volontà di riscatto del giovane meridionale che sublima il suo complesso di inferiorità provinciale con l'attaccamento morboso alla cultura francese. Approdato a Parigi nel 1968, Mughini inizia a bazzicare le librerie antiquarie, cercando i libri illustrati del praghese Alfons Mucha, saltando i pasti per comprare una copia numerato dei Souvenirs di Kiki de Montparnasse.

Più tardi, poi, lo ritroviamo a Bologna scoprire da cronista il rock demenziale degli Skiantos, il Centro d'Urlo Metropolitano di Gaznevada, e il genio grafico di illustratori del calibro di Ghirri, Pazienza, Guido Crepax e Munari. E anche qui il suo talento rabdomantico lo porta a di trasformare tracce apparentemente insignificante della contemporaneità in veri tesori, intercettando illustri sconosciuti che sono invece figure cruciali come quell'Emilio Villa poeta, autore con Alberto Burri del «più bel libro italiano arredato da un pittore del secondo dopoguerra», e cioè le 17 Variazioni su temi proposti per una pura indeologia fonetica, pubblicato nel 1955 in 24 copie numerate, rimaste invendute dalla galleria De Donato, di cui il Nostro possiede solo una versione successiva, stampata in 75 copie con tre incisioni del pittore e la dedica a un amico che convola a nozze.

Ma in tanta bulimia di esperienze c'è spazio anche per il lirismo in questa sorta di autobiografia preterintenzionale, quando Mughini parla del soliloquio immaginario col grande Ico Parisi e i mobili anni Cinquanta che arredano il suo studio, e ammette l'importanza sentimentale di tanti oggetti muti e tante opere d'arte come ultimo surrogato alle presenze umane che un tempo davano calore alla sua vita, Paolo Flores d'Arcais, Paolo Mieli, Pigi Battista e i fratelli Moretti, Franco e Nanni, vecchi amici che non lo sono più.

Francesco Merlo per “la Repubblica” l'8 aprile 2022.

La stazione di partenza per il Muggenheim è Bologna 1977, che esiste e non esiste, come il binario 9¾ del realismo magico di Harry Potter. Se infatti è vero che, ad ogni stagione della politica, c'è una città d'Italia che diventa l'Italia, è davvero "inaudito", ha ragione Mughini, che solo nella sua casa-museo venga riconosciuto alla Bologna 1977 di avere acchiappato il mondo con i dischi degli Skiantos e i libri di Tondelli, la demenzomania di Freak Antoni, le lezioni di Gianni Celati, Radio Alice, il rock di strada e tutta «l'allegra ragazzaglia» che urgeva e schiamazzava e moriva «in un fazzoletto di strade e viottoli» respirando lo spirito del tempo come Harry Potter respirava il corno di bicorno in polvere e il tritato di unghie di cavallo. 

Perciò commuove la Bologna 1977 catalogata come una Patria: il fumetto e Frigidaire, il Roxy Bar di Vasco, Andrea Pazienza, e Mamma, dammi la benza, eroina e molotov, e il Dams (1971) di Umberto Eco, non ancora venerato maestro, ma non più professore di Goliardia: «Hegel Giorgio Federico / è un burlon che non vi dico./ Ei decide là per là / di abolir l'identità / quindi fonda i presupposti / di una scienza degli opposti...».

Ci si appassiona dunque nel Muggenheim raccontato come un viaggio d'avventure. E con lo stupore di Simplicius Simplicissimus si vola a cavallo di una scopa sopra la grand'Italia del design, che non esiste più, di cui la maggior parte degli italiani sa ben poco, benché abbia dato forma al secondo Novecento, almeno. In questa vita ripensata non ci sono le penne Bic e le lame Gillette, che furono «il progettare per chi va in tram», ma ci sono soprattutto i pezzi unici, i prototipi, vale a dire il design che nega se stesso, la sua propria natura di artigianato di massa che voleva imbellettare le macchine seguendo la profezia (1925) del solito Le Corbusier: «Al vuoto del secolo della macchina bisogna reagire con l'effusione ineffabile di un ambiente che culli e inebri con dolcezza». E chissà cosa direbbe Le Corbusier se il Padreterno lo facesse rinascere, ma solo per una giornata, e da passare non nei Guggenheim, ma nel Muggenheim.

E però, non spaventatevi, questo non è un libro in "architettese" con «la progettazione polisemica degli elementi nomadici » e «la forma implicata, implicante e mai applicata», vale dire le parole sconnesse sul famolo strano come nobiltà dell'ellissi. Insomma, non è uno dei mille libri, tutti uguali, dedicati al design, dove, già alle prime pagine, la sola cosa che ti interessa è uscirne, come spesso capita negli androni dei palazzi moderni. 

Mughini, al contrario, con quella stessa avvincente chiarezza che si è imposta come uno stile, racconta il posacenere (di Munari) o il tagliacarte (di Mari) come il Marlow di Conrad risale il fiume Congo. E solo qui si capisce perché quel gioco per bambini che si chiama "puzzle dei 16 animali" ha influenzato la psicologia dell'età evolutiva più dei libri di Piaget.

Anche la centralina di comando, la scrivania (di Ico Parisi), e gli spazi delle esigenze personali e dell'ozio, come la poltrona (di Pesce, e chi se no?) diventano romanzo sentimentale, respiro storico e miniatura. 

Passeggiando tra prime edizioni e manoscritti, manifesti che arredarono epoche e fotografie, copertine e mobili- capolavoro, che non sono esposti ma salvati e accuditi, capita pure di incontrare, come passanti, Carlo Muscetta e Silvio Berlusconi, i fratelli Franco e Nanni Moretti, Paolo Mieli, Francesco De Gregori e Dagospia. E si vola da Parigi a Vietri, tra piastrelle e forbici da sarto: «Un paio di forbici da sarto sono solo un paio di forbici da sarto. E cosa volete che siano»?

Quando, però, il vaso di porcellana della collezione Memphis pare a Mughini una scultura, è lo stesso Sottsass a dirgli che si sbaglia, ché ha un buco e ci si devono mettere i fiori. 

Ecco perché (non) fa ridere la battutaccia ripresa anche da Crozza: «Se si capisce, è una sedia. Se non si capisce, è design». Al contrario, il design sottrae la sedia alla corruzione come mostra questa collezione che mette ordine nel gran caos dei ricordi di un forever young ottantenne, uno degli ultimi intellettuali italiani, il più solitario e il più popolare. 

Neppure ci provo a elencare tutti i protagonisti del Muggenheim che a volte, durante una cena - «non più di sei» -, rispondendo allo speciale calore di Michela e Giampiero, lasciano muri e scaffali e entrano nella vita con un fruscio. Ed è un andirivieni perché non sono più oggetti ma gesti e movimenti, proprio come sognava lo scultore Giacometti che voleva creare un uomo di pietra, ma senza pietrificare l'uomo.

Mughini: «Con l’arte e la bellezza ho un rapporto erotico come con il corpo di una donna». Francesca Angeleri su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2022.

Il giornalista, scrittore e opinionista ha scelto il Centro Pannunzio di Torino per la prima presentazione del suo nuovo libro «Muggenheim. Quel che resta di una vita»: «In Italia non ci sono soldi per la cultura. E la cultura ormai la fanno le influencer». 

«C’era il rock nelle strade dei Settanta, non la classe operaia» è il titolo del primo capitolo del nuovo libro di Giampiero Mughini, «Il Muggenheim. Quel che resta di una vita» (Giunti), che parla della sua casa-museo. «È inaudito che in Italia non esista un museo specificamente dedicato ai Settanta e dintorni, a cominciare dal Settantasette, un anno cento volte più prodigo di creatività che non il Sessantotto, ammorbato com’era dall’ossessione citazionista dei Lenin e dei Mao», scrive nella prefazione l’autore che sarà a Torino oggi alle 17.30 con Francesca Rotta Gentile a Palazzo Cisterna in un incontro organizzato dal Centro Pannunzio. Ci parla di molte cose, ma non della Juve: «Ho scritto tanto su questo. È il momento di pensare ad altro».

È la prima presentazione. Come mai a Torino?

«Il Centro Pannunzio ha un significato per me e Torino è la seconda città d’Italia insieme a Milano. Qui sono nati la Juventus, il cinema, la casa editrice Einaudi e anche il partito comunista più grande del mondo. L’unico per cui l’aggettivo comunista non sia una vergogna. C’è anche la galleria d’arte Little Nemo, specializzata in fumetti di cui io sono collezionista. E poi, per questa presentazione mi pagano. La maggior parte delle volte non succede».

Neppure Mughini? Ma perché il lavoro intellettuale non si paga più?

«Non metta aceto sulla piaga. Non ci sono soldi per la cultura in Italia che è un paese fondamentalmente povero, al di là di alcune espressioni presuntuose. Oggi la cultura la fanno le influencer con le chiappe di fuori che prendono migliaia di euro al mese».

Non sono più i tempi di Fenoglio.

«Davanti a Fenoglio mi alzo in piedi. Una questione privata è uno dei più grandi romanzi italiani del 900. Si mangia tutto il resto della letteratura sulla guerra civile».

Cos’è il Muggenheim?

«Il titolo va recitato per intero: è quel che resta di una vita. Ho 80 anni, lo so che il più è fatto e inevitabilmente si traccia un bilancio. Del tutto naturalmente punto il mirino sulla bellezza moderna che ho amato e desiderato sempre. Il ‘900, che per alcuni è stato un nuovo Rinascimento, ha reinventato la cultura: sono nati i rotocalchi, la radio, i fumetti, i vinili, le avanguardie come quella straordinaria del Futurismo, il design. Non è uguale, per me, sedermi su una sedia piuttosto che su un’altra».

Quale sedia?

«In questo momento sono seduto su una sedia razionalista anni 30 dell’architetto Terragno che ideò la Casa del fascio di Como, che è un’opera eccezionale dell’architettura mondiale non solo italiana. Vuol sapere che libro sto leggendo?».

Certo.

«La biografia di Marianne Faithfull. La leggo bevendo il caffè da una certa tazza, seduto su una certa poltrona, guardando un certo poster o fotografia. Nulla è sostituibile. Con la bellezza ho un rapporto erotico come con il corpo di una donna. Delle cose che mi piacciono, non potrei mai fare a meno».

In che senso c’era il rock e non la classe operaia nei 70?

«Era una farneticazione l’idea che la classe operaia fosse la nervatura della società più della borghesia creativa o dell’imprenditoria audace, e soprattutto che determinasse la sovrastruttura culturale. Infinitamente più importanti furono il cinema, il rock&roll, i fumetti, la grafica, la poesia. Io sono stato creato dalla Valentina di Crepax, dalla letteratura futurista e dal rock».

Anche la borghesia non c’è più?

«Non esageriamo. Io sono borghese da capo a fondo. Ognuno risponde a se stesso. Vorrei che sulla carta di identità ogni anno venisse scritto quanto uno ha guadagnato e quanto ha pagato di tasse. Io l’anno scorso credo di aver fatto circa 180 mila euro di cui 80 mila pagati in tasse. Più chiaro di così».

Cosa ha cercato?

«Mai il potere. L’unico che ho avuto è stato su me stesso».

Cosa pensa degli intellettuali che difendono la Russia?

«Ognuno risponde delle sue parole. In tv mi sono trovato con alcuni di questi cialtroncelli, non intellettuali come il professor Rossini. In democrazia tutte le opinioni sono lecite. Detto ciò, l’aggressione micidiale di una nazione contro un’altra nazione europea lascia senza parole».

Muggenheim. Il vero museo del Novecento è la casa di Giampiero Mughini. Dario Ronzoni su L'Inkiesta il 7 aprile 2022.

Il suo ultimo libro (pubblicato da Bompiani) racconta gli oggetti e i tesori delle sue collezioni, come un catalogo autobiografico. Sono libri (prime edizioni), mobili di design, dischi, fotografie e rarità, testimoni di un gusto sopraffino e di un mondo ormai sempre più lontano. 

Ovunque si muova in casa sua, Giampiero Mughini si imbatte in una poltrona o in una lampada di Gaetano Pesce. Pin un’ala c’è una terna consolle-libreria-scrittoio di Ico Parisi, designer «degno della tribù eletta di cui facevano parte un Carlo Mollino o un Gio Ponti», sulla terrazza un albero in alluminio blu di Andrea Salvetti. E ancora: quadri e oggetti di design di Bruno Munari, libri d’artista di Enzo Mari, il portaombrelli di Antonia Campi, la chaise longue Canapo 837 di Franco Albini prodotta da Cassina, e i vasi di Guido Gambone, giusto per fare qualche esempio. Perché ci sono anche libri, prime edizioni pregiatissime, plaquette, libri d’artista che, messi insieme, occupano un intero piano di cinque stanze. È il Muggenheim, definizione scherzosa coniata dall’amico pittore Pablo Echaurren e subito fatta sua da Mughini per indicare la sua casa-studio e casa-collezione (due cose «avvinghiate assieme tanto nella mia anima che nella vita reale»). E ora è anche il titolo del suo ultimo libro, “Il Muggenheim. Quel che resta di una vita”, pubblicato da Bompiani, in cui al centro c’è la sua casa, le sue cose, i suoi ricordi.

Soprattutto, ci sono i suoi tesori – si va dai collage fotografici di Franco Vaccari alla celebre putrella di Enzo Mari, passando per quello che definisce “lo sgorbio” di Gambone, ma anche la libreria Suvretta di Ettore Sottsass, dove tiene i libri sul design – raccolti negli anni seguendo l’istinto e la passione del collezionista, mentre intrecciava storie e incontri di persone geniali e oggetti incredibili. “Muggenheim” è allora una rapsodia enciclopedica, ma anche una mappa con cui Mughini esplora (e fa esplorare) le grandezze – grafiche, di design, letterarie e musicali – del Novecento. 

La geografia è vasta: c’è la Bologna di Freak Antoni e di Andrea Pazienza, cioè quella del Settantasette (anno «che meriterebbe un museo») tanto grande e creativa nel suo ribellismo tragico, ma c’è anche la New York di Andy Warhol, con la Factory fucina del pop e l’idea di unire i Velvet Underground a Nico, da cui scaturì il celebre album della banana («peel slowly and see»). C’è Parigi, tanta: quella della pubblicistica erotica, o quella anni ’50 dei lettristi, che volevano fare sfacelo di tutta la tradizione precedente (e quella malinconica dei ricordi da studente, a sogguardare vetrine), e c’è anche la Modena di Giuliano Della Casa, di Luigi Ghirri, di – appunto – Franco Vaccari, «artista totale». Il Muggenheim è la sintesi di un mondo, e di un secolo.

Con tutti i suoi tesori, è anche il rifugio (non peccatorum) dalle insidie della vita. Perché forse la bellezza può stancare (come è accaduto – racconta – con la collezione dei futuristi, che a un certo punto decise di vendere perché la passione si era consumata) ma non tradisce mai. «Invece gli amici e le amiche, anche i più cari, eccome se lo fanno». E allora, mentre «scompaiono le presenze umane di un tempo e si allentano le affinità generazionali che prima esistevano e davano calore alla tua vita reale», o «se i percorsi di ciascuno di quelli vanno per strade diverse dalle tue – com’è del tutto naturale», restano però gli oggetti cari come conforto e consolazione. «A cavallo tra i Novanta e il nuovo millennio avevo ormai poca o nessuna vita pubblica, impegnato com’ero a coltivare il culto della mia solitudine», dice. E in questa religione della bellezza ci sono libri, film, rarità da collezione.

È un distacco esistenziale, forse, anche da un intero Paese. Mughini lo esprime più volte: quest’Italia non ama la cultura, non la onora e – nonostante la sua storia – dimentica le sue stesse eccellenze. In via sistematica i pezzi rari vengono comprati da musei stranieri, soprattutto americani. Nei negozi di design (quando questi non chiudono) si impara subito che il cliente – nove su dieci – non parlerà italiano.

Fanno da contrappunto all’amarezza del declino gli attimi di gioia del collezionista. “Muggenheim” è un diario emotivo che raccoglie lo sfogo di chi avrebbe dato «la sorella in pasto ai beduini» pur di avere un capolavoro di Ico Parisi; che vibra per «i brividi» che gli dà vedere “Jazz”, gran libro illustrato di Henri Matisse, in un bunker svizzero; cui «tremavano le mani» quando scartava il pacco con uno dei 146 vetri di Marsiglia di Gaetano Pesce. Per Mughini i libri (e non solo) sono «leccornie», «prelibatezze», «delizie». E quando arrivò il falegname a montare la consolle (e relativa cornice) di Parisi, era «emozionato come immagino lo sia un padre cui sta per nascere un figlio, e spero mi perdonerete il paragone. Quella creatura in legno era di una bellezza sontuosa, invadente, sembrava potesse staccarsi dalla parete e venire accanto a noi a conversare del più e del meno. Ci portavo gli amici perché la gustassero».

La sua passione visiva, tattile, di gusto si intreccia al piacere intellettuale. In “Muggenheim” (e forse anche “nel” Muggenheim) ogni cosa è così, aggrovigliata e senza confini nitidi. Passaggi della sua vita si mescolano a episodi del Novecento (con una punta finale nell’Ottocento), ai quali si sommano storie di artisti e creazioni, considerazioni sul presente, lodi al bel tempo andato, vizi e virtù a volontà, arte, decadenza e giornali che pagano sempre meno. Ma a unire tutto questo c’è la gelosia di un amore sconfinato e personale, insieme alla generosità di volerlo raccontare.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 3 aprile 2022.

Il titolo del libro va letto per intero, è come un quadro che non si può tagliare con il forbicione, è un'opera d'arte in sé stessa. Non ci sono titolo e sottotitolo. Sono fusi in un unico concetto che esprime la certezza che di noi, che tanto ci arrabattiamo a vivere specie da vecchi, non resterà altro che cenere. Di noi nulla. Però la bellezza resterà, e se saremo noi ad averla cercata, trovata (o forse è lei che ci ha voluto incontrare), acquistata pagandola fior di quattrini, e quindi conservata quasi fosse una persona divina, ma non impalpabile, bensì toccabile, sperimentata come oggetto finito ma anche infinito, dolore compreso; quindi offerta a chi verrà dopo di noi: ecco, moriremo ma saremo meno morti.

Non perché ci ricorderanno (chi se ne frega, se non ci siamo più) ma perché avremo impedito al nulla di vincere. Noi umani, che siamo ombra e polvere, abbiamo lo straordinario potere di creare la bellezza che spargerà emozioni per sempre a chi le vorrà cogliere. Risultando alla fine meno bestia, un po' più sensibile, e capace di respirare poesia, che nell'autore del volume- e del titolo è sempre anche mescolanza di dolore, amore, solitudine, amicizia. Ecco il suo libro comunica tutto questo.

Mi rendo conto che a questo punto la maggior parte delle persone sensate, che molto hanno da fare, ad esempio rispondere alla telefonata di uno o più spesso di una che ci vuole piazzare un suo libro idiota, avranno già abbandonato la lettura del mio pistolotto. Un attimo. Almeno segnatevi titolo e autore: Giampiero Mughini, Il Muggenheim. Quel che resta di una vita, Bompiani, pag. 288, 20,00, e-book 12,99.

Muggheneim è il nome dato alla sua casa-museo da un suo amico pittore, fumettista e poeta, Pablo Echaurren: ha qualcosa insieme di spiritoso, ironico, perché il nome rievoca ovviamente il Guggheneim, stabilendo così un rapporto insostenibile tra l'elefante onnivoro e la gazzella mughiniana. Mughini ha il senso delle proporzioni, non è uomo che si sottostimi, ma ha il senso delle proporzioni. Eppure la quantità, l'accumulo, non è il criterio decisivo; il peso in tonnellate del pachiderma paragonato all'esilità della creatura giampieresca non stabilisce una graduatoria. Ma è un timbro irripetibile, quel nome: dice che ella casa è un unicum, è un tutt' uno con la persona che la abita, «Quel che resta di una vita». Una vitissima vissutissima, se si può dire.

La casa-museo dove lui vive con la moglie, cercando il più possibile, con il suo modo di vestire, con i suoi occhiali, di trovare la rima con gli oggetti raccolti nelle numerose stanze, è lo sfondo imprescindibile in cui immaginarsi seduti, in piedi, andando in bagno, sedendo alla scrivania-capolavoro, mentre si legge il volume. 

Trattasi di una scorribanda divinamente scritta - anche se non sopporto l'indulgere di Mughini in qualche francesismo - in decenni che lui vede in una luce completamente diversa da quella che si trova nei resoconti di storici e giornalisti, ma - lo ammetto - anche nella mia testa.

Nemmeno lui a quel tempo sapeva bene cosa stesse vivendo, ma anche allora ha avuto il dono di vedere la bellezza dove gli altri scorgevano l'ideologia. E così racconta gli anni 70 - lui che era parte del mondo della sinistra, firma di punta di quel mare magnum che invadeva urlando le strade inneggiando a Mao e a Lenin - in modo totalmente alternativo. 

Il suo genio della lampada che gli consente di scoprire realtà a me francamente ignote del rock demenziale è Freak Antoni, capace di trasmettere quella «febbre» che per Mughini è il solo modo di vivere degnamente, e che costituisce la grandezza del popolo italiano. Non dell'italiano medio, per carità, impastato com'è di luoghi comuni (in questo Mughini è un aristocratico), ma di quel filone straordinario di italiani che sempre hanno innestato nel sottobosco mediocre del Novecento fiori di eccezionale bellezza. 

Il disegno, la pittura, l'architettura, il rock, la fotografia, il trasformare un oggetto come una putrella in un capolavoro, con coraggio, e nella dimenticanza dei più, compaiono con i nomi degli artisti in un caleidoscopio stupefacente. 

Mi chiedo, e si chiederà ciascun lettore: dov'ero quando quel tal Gianni Mantero raccoglieva la più clamorosa e preziosa messe di ex libris del secolo. E perché mai non mi sono - non ci siamo - mai accorti dell'importanza di questi pezzi di carta che dicono il proprietario di un libro? E perché un albero di ferro color blu posto su un terrazzo (quello del Muggheneim) non ci siamo mai accorti che è puro genio italico. 

Ecco, Mughini è in questo davvero sovranista. Nessuno come lui ha scovato in Italia la bellezza, e coltivato l'amicizia fuori dagli schemi dell'ideologia, da lui ritenuta vera cacca, rispetto agli autentici tesori della vita, anche se come le donne talvolta tradiscono.

Ha una stima della genialità italiana, specie negli anni 50, che è pari solo alla nostra incompetenza, per cui abbiamo lasciato depredare il nostro patrimonio novecentesco da musei americani che fanno incetta di libri, dischi in vinile, manifesti, prime edizioni di Ungaretti, fasci di lettere di Marinetti, nella nostra totale indifferenza, anzi con il beneplacito dei critici d'arte di regime che bocciano un capolavoro perché fascista. Niente di tutto questo in Mughini.

Mi piace qui riprodurre la pagina in cui racconta di palazzo Terragni, casa del fascio sì, autore proprio lui, Giuseppe Terragni, cui il federale di Como commissionò la progettazione dell'edificio: «Una sera tarda con Ico (Parisi, architetto, fotografo, creatore di bellezza, ndr) andammo a venerare la Casa del Fascio nella piazza di Como dove in quel momento non c'era anima viva.

E mentre noi due stavamo girando attorno a quel cubo di cemento la cui "cristallina bellezza" era intatta a così tanti anni di distanza dalla sua nascita (lo aveva scritto una volta Luciano Caramel), Ico andava ripetendo a voce alta: "Ma che razionalismo e razionalismo. Non una delle quattro facciate è identica alle altre. Questa architettura era poesia e basta". 

Se c'era uno alla cui opera creativa fosse impossibile applicare gli "ismi" e la loro perentorietà era Parisi. Poesia e basta le sue creazioni, fossero una seggiola di design o un albergo da costruire lungo l'autostrada o gli arredi della casa apprestata per un amico. Erano poesia e basta le sue foto» . Questo è Mughini, 80 anni, un fanciullo incantato, un cacciatore di bellezza, come fossero farfalle. Ma le lascia vive, non le infilza. Le regala come «ciò che resta della vita».

Dal “Corriere della Sera” il 30 marzo 2022.

Caro Aldo, il 27 marzo Fabio Fazio ha ritenuto di iniziare la puntata di «Che tempo che fa» facendoci entrare nell'opulenta casa di Giampiero Mughini che ha discettato per 10 minuti di design e arte anni 50 di cui il suo salotto è e rappresenta per tutti gli italiani un fulgido e inimitabile esempio. 

Naturalmente tutto serviva a pubblicizzare l'ultimo libro di Mughini.

Quando poi il conduttore ha augurato un grande successo al volume, Mughini si è affrettato a sottostimare il volume di vendite, spiegando che se dovesse fare affidamento sull'italiano medio, starebbe fresco. 

Trovo che lo spettacolo dato dalla prosopopea della borghesia radical italiana abbia toccato il fondo. E che la distanza fra questo mondo e la realtà sia ormai abissale. O è moralismo, il mio?

Giovanni Riccardi, Roma

Risposta di Aldo Cazzullo

Caro Giovanni, sì, lei sbaglia. La casa di Mughini raccoglie una collezione di prime edizioni, carte originali, capolavori di design, quasi tutti italiani, che altrimenti sarebbero andati dispersi o sarebbero finiti all'estero. 

Nel suo nuovo libro, intitolato non a caso «Il Muggenheim» - così, con autoironia, l'autore definisce la propria casa-museo -, Mughini racconta appunto come le grandi biblioteche, i musei, le collezioni americane stiano saccheggiando tesori di cui noi italiani medi non siamo appunto consapevoli. 

Giampiero Mughini è una delle prime persone che andai a trovare, quando mi trasferii a Roma per lavoro, oltre ventidue anni fa. Aveva scritto un libro sugli anni 70 che mi era piaciuto molto, «Il grande disordine». Le assicuro che è un uomo del tutto diverso da come lei lo descrive. 

Con l'italiano medio condivide grandi passioni, dal calcio alle donne. Poi certo ha un gusto raro per gli oggetti, per le carte, per le cose. I radical chic non li ama proprio. Nel 1987 ha scritto un libro che gli è costato molto, «Compagni addio», per prendere le distanze dalla sua generazione e dagli eccessi ideologici. Come tutti ha dei difetti, ma senza i suoi difetti non sarebbe lui.

E in lui, come nei suoi libri, ho sempre trovato una profonda compassione per le sofferenze degli uomini, e un senso di ammirazione per la grandezza e la nobiltà d'animo che è una delle attitudini che mi ha trasmesso mio padre. Bene ha fatto Fabio Fazio a dargli spazio, in una puntata impreziosita dalla presenza di Marina Ovsyannikova, la giornalista che ha denunciato la propaganda di Putin. E poi di libri, gentile signor Ricciardi, in tv si parla pochissimo, e comunque mai abbastanza.

Giampiero Mughini: «Sono stato lasciato solo. Il Muggenheim è quel che resta di me». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 20 Marzo 2022.  

Intervista a Giampiero Mughini che racconta la sua casa museo: «De Gregori mi considerava antipatico, oggi siamo legati. Tra i miei amici Diliberto e D'Agostino» 

Giampiero Mughini, sul muro della sua casa-museo che dà il titolo al suo ultimo libro — «Il Muggenheim» —, è scritto che lei onora, tra gli altri, Leo Longanesi e Beppe Fenoglio.

«Certo. Cosa la sorprende?». 

Longanesi coniò lo slogan «il Duce ha sempre ragione». Fenoglio scrisse, parlando di sé partigiano: «E nel momento in cui partì, si sentì investito, in nome dell’autentico popolo d’Italia, a opporsi in ogni modo al fascismo...».

«“...E anche fisicamente non era mai stato così uomo: piegava erculeo il vento e la terra”. Beppe Fenoglio, nato cent’anni fa in questi stessi giorni, è uno scrittore e un uomo meraviglioso. Ma Longanesi è l’italiano più italiano che ci sia; e molti nostri compatrioti non sanno o non vogliono sapere quanto profondamente italiano sia stato il fascismo. Il fascismo non è stato solo melma, ha coinvolto alcuni tra i più grandi artisti del secolo. Longanesi è l’inventore di Omnibus, da cui discendono tutti i rotocalchi italiani. Ovviamente ne custodisco la raccolta completa». 

Lei scrive che gli anni tra i ’50 e gli ’80 del Novecento sono stati i più ricchi nella storia dell’uomo per la produzione di carta.

«Libri, cataloghi, poster, riviste, plaquette, inviti di mostre: carte originali, si intende. Prime edizioni. Ne sono circondato, è quel che resta di me. Devo averle a portata del mio sguardo e della mia anima. E poi fotografie, poesia visiva, vinili... Per anni le carte hanno confortato la mia solitudine». 

Lei è un uomo così solo?

«Sono stato lasciato solo. Da ragazzo a Catania diffondevo i Quaderni Rossi di Vittorio Rieser. Ma quando telefonai a Rieser per chiedergli un’intervista mi rispose che non parlava con un giornalista borghese. Mai avrei creduto che una simile puttanata potesse uscire dalla bocca di un essere umano». 

Non ha amici?

«Ho nuovi amici. L’Oliviero Diliberto che frequento deve essere il fratello gemello del Diliberto che voleva rifondare il comunismo; ora siamo d’accordo su ogni cosa. Quando incontrai Francesco De Gregori, mi confidò che come quasi tutti mi considerava profondamente antipatico». 

E ora?

«Siamo legati. Anche perché Francesco sa che pochi ricorderebbero in pubblico quel che ricordo io: che quando suo padre andò a recuperare il corpo dello zio di cui porta il nome, Francesco De Gregori, massacrato dai partigiani comunisti a Porzus, stentò a riconoscerlo. Di Porzus non sta bene parlare. In Francia non è così». 

Perché?

«Perché già nel 1951 il capo di Gallimard, Jean Paulhan, che durante la Resistenza aveva rischiato di essere messo al muro, pubblica lo straordinario romanzo di uno scrittore collaborazionista, condannato a morte e poi graziato: Les deux étendards di Lucien Rebatet. Un libro di cui François Mitterrand, il primo presidente socialista della Quinta Repubblica, diceva che esistono due categorie di persone: quelli che l’hanno letto, e quelli che non l’hanno letto».

Confesso di appartenere alla seconda categoria. Paulhan è l’uomo che ispirò Histoire d’O.

«Purtroppo non avevo i 102 mila euro per comprare il lotto 341 della leggendaria collezione d’erotica di un industriale svizzero, la più grande d’Europa...». 

Cosa c’era nel lotto 341?

«I sei quaderni su cui Pauline Réage scriveva a mano, alla sera tarda, il suo magistrale romanzo, da cui purtroppo è stato tratto un filmetto». 

Con Corinne Cléry però.

«Corinne è meravigliosa, ma il romanzo è altro. Pauline Réage si chiamava in realtà Dominique Aury, lavorava da Gallimard e si era innamorata perdutamente di Jean Paulhan. Lui però non lasciò mai la moglie: ogni sera tornava a casa. Per sublimare la propria sofferenza, lei creò la storia di una donna che pur di compiacere l’uomo che ama si presta a ogni sottomissione erotica ad altri uomini. Un capolavoro che i santoni di Gallimard, da Camus in giù, rifiutarono di pubblicare. Per fortuna un giorno per strada Paulhan incontrò un altro editore, Jean-Jacques Pauvert, che aveva rischiato il carcere per aver pubblicato l’opera del marchese de Sade. Pauvert stampò Histoire d’O in seicento copie. Una è questa che lei vede». 

Fu subito un successo?

«Non se ne accorse nessuno. La fortuna del romanzo fu un alto prelato di Parigi, che forse l’aveva letto avidamente, e dal pulpito tuonò contro tanta perversione». 

Lei racconta anche la storia di un altro libro scandaloso, Un roman sentimental di Alain Robbe-Grillet.

«Pubblicato quando Robbe-Grillet aveva già 85 anni, e gliene restava uno solo da vivere. Un romanzo sfrontatamente erotico, al punto che nelle librerie francesi lo trovavi serrato nel cellophane, con un rettangolino di carta che avvisava i curiosi di non sfogliarne le pagine, per non mettere a rischio la propria sensibilità. Infatti ne ho due copie: una l’ho letta e riletta, l’altra è ancora nel cellophane. Ma ora basta, se no mi prendono per un maniaco».

Perché, lei non ha manie?

«Io non ho manie; io ho passioni. E sono sensibile a tutto ciò che negli uomini è tenebra, solitudine, dolore». 

Resisterà la carta nella civiltà digitale?

«I libri sì. Quando su Amazon compro qualche gioiello di una libreria antiquaria, il giorno dopo mi arriva un biglietto di ringraziamento del libraio. Jeff Bezos non è il nostro signore e padrone. È il nostro corriere». 

Lei non è sui social, dove ci sono influencer da milioni di follower.

«Sono numeri che non significano assolutamente nulla. Il tenente Serra stampò la prima edizione del Porto sepolto di Ungaretti in ottanta copie, compresa questa che vede. Eppure “mi illumino di immenso” è per sempre». 

Quante delle 80 copie furono vendute?

«Nemmeno una. Erano per gli amici. Andò meglio l’edizione successiva, per la quale Ungaretti chiese la prefazione a Mussolini. Il poeta si ritrovò in un’anticamera piena di questuanti. Furono mandati via tutti. Il Duce ricevette solo il tenente Serra, Ardengo Soffici e Ungaretti, che peraltro lavorava per il suo giornale, il Popolo d’Italia». 

Nel libro da ogni oggetto, da ogni stanza del «Muggenheim» scaturisce una storia. In particolare da quella che lei chiama la stanza degli anni Cinquanta.

«Un decennio straordinario: il cinema neorealista, le architetture di Giò Ponti, le tele di Burri, le opere di Ico Parisi, siciliano cresciuto a Como alla scuola di Terragni... Purtroppo gli stranieri ci stanno portando via tutto. Un museo americano ha pagato quattro volte quello che avevo offerto per tre “Libri illeggibili” di Bruno Munari, che in Francia considerano il Leonardo del Novecento. Una biblioteca americana ha comprato il primo e affascinante libro illustrato da Ettore Sottsass...». 

Lei ha intervistato Sottsass, che ha parole dolcissime per l’ex moglie, Fernanda Pivano.

«Ettorino, come lo chiamavano, ha amato Fernanda, ma ha amato altre donne; la lasciò per una spagnola, Eulalia, poi sposò un’intellettuale importante, Barbara Radice. Per la Pivano esisteva soltanto lui. Una volta nominai la Radice in sua presenza. Mi gelò: “Ti sei pulito la bocca, ora che hai pronunciato quel nome?”». 

Tra i suoi amici c’è Roberto D’Agostino.

«La sua collezione d’arte è tra le più raffinate d’Europa. Ma gli invidio solo il tavolo in vetro e bronzo che Andrea Salvetti andò apposta a montargli nella sua casa sul Lungotevere. Per fortuna poi Salvetti venne anche da me, a erigere l’albero in metallo blu elettrico sulla mia terrazza». 

Lei scrive che il Settantasette fu meglio del Sessantotto.

«Certo. Meglio Freak Antoni e Andrea Pazienza di Mao. E a Bologna c’era anche Umberto Eco. La prima edizione del suo volumetto “Filosofi in libertà”, 1958, è una leccornia della mia collezione. Incontrai Eco nella carrozza ristorante di un treno. La prima cosa che gli chiesi era se quel suo aureo libretto avesse una sovracoperta. Per fortuna non l’aveva». 

Cioè lei ha incontrato il più importante intellettuale italiano del dopoguerra, e gli ha chiesto della sovracoperta?

«Eco apprezzò moltissimo. Se fosse esistita la sovracoperta, la mia copia non varrebbe nulla». 

Quanto vale invece?

«Comunque poco. Perché è un libro che non conosce nessuno. Ora l’ha ripubblicato Elisabetta Sgarbi». 

Chi è il più grande scrittore di ogni tempo?

«Che domande! Ovviamente Dante. Dante non è uno scrittore; è un costruttore. Ha edificato un mondo, un universo. Come se un uomo solo avesse costruito New York».

Aldo Torchiaro per “il Riformista” il 29 dicembre 2021. Incontriamo Giampiero Mughini nella sua Monteverde. Giornalista, scrittore, conduttore televisivo e occasionalmente attore - come interprete di se stesso, in un cameo di Nanni Moretti - sta lavorando a una autobiografia in cui la ricerca del senso della vita sarà accompagnata dal racconto della relazione speciale che ha con i dipinti, le opere d'arte e i tantissimi libri dai quali vive circondato. 

Come vede gli italiani travolti da questa crisi pandemica, che è anche crisi di identità culturale?

Usare il termine "italiani" nella sua accezione generalissima non ci aiuta a comprendere la realtà in cui stiamo vivendo. Ci sono varie e differentissime categorie di "italiani".

Ovvero?

I tassisti, i titolari di ristoranti e alberghi e sale da ballo hanno vissuto questi due anni di lotta al Covid con tutt' altre conseguenze che non i dipendenti della pubblica amministrazione. Pochi giorni fa i sindacalisti della Cgil e della Uil hanno aizzato uno sciopero di "italiani" conto altri "italiani" (quali il sottoscritto) che dichiarano al fisco un reddito annuo di oltre 75mila euro e questo perché pagheremo 250 euro di tasse in meno l'anno prossimo. 

Ce l'ha con la Cgil di Landini?

 Faccio presente a quei simpaticoni che in quanto partita Iva ho appena pagato un acconto di svariate migliaia di euro che non ho ancora incassato. Sono un "italiano" che ha fatto un prestito gratis allo Stato per aiutarlo a pagare un reddito di cittadinanza ad altri "italiani" che non se la passano bene.

La politica ha delegato la funzione di guida delle istituzioni ad una personalità esterna ai partiti...

Per fortuna abbiamo recuperato una figura eccezionale, Mario Draghi, la cui autorevolezza è più alta di tutti i partiti messi assieme e che consente alla baracca italiana di stare in piedi. Così come l'aveva consentita un altro italiano d'eccezione, il presidente Sergio Mattarella. 

Riusciranno a reinventarsi, i partiti?

Si metta il cuore in pace. I partiti novecenteschi non esistono più. Vuole chiamare partito quel Movimento 5Stelle che aveva raggranellato il 32 per cento dei consensi alle ultime elezioni? Era soltanto un assieme di sfaccendati che cliccava su un sistema computeristico inventato dal geniale Gianroberto Casaleggio. Così come non esiste più il Pci, quell'assieme granitico di sezioni di quartiere, comitato centrale, quotidiani e settimanali di partito che ne erano il corpo. 

E non esistono più neanche i giornali di partito...

Oggi l'unico giornale italiano di partito è Il Fatto Quotidiano.

Come andò la vicenda della sua direzione del quotidiano Lotta Continua?

 È tanto difficile capire il concetto di direttore responsabile? Avevo dato la mia firma per permettere loro di andare in stampa, perché da liberale trovavo giusto che quel gruppo potesse esprimersi. 

Non ne condivise gli eccessi, né tantomeno gli errori...

Neppure lo leggevo, Lotta Continua. Per il resto non ho mai avuto alcun rapporto con loro, mai una volta sono stato nelle redazioni di quei loro giornali. Di tutti i groupuscules italiani era il più vitale, il più originale. Anche perché riuniva alcuni dei migliori talenti della mia generazione. Detto questo, porta il marchio di Lotta continua l'assassinio di Luigi Calabresi, il gesto che dà il via al terrorismo rosso in Italia. 

Dagli eccessi della tensione di quegli anni alla scomparsa della passione ideale, oggi. Tecnocrati, economisti e burocrati non possono soppiantare la politica.

Non vedo perché usa in senso negativo le parole "tecnocrati" ed "economisti". Ossia gente che sa di che cosa sta parlando. Avete forse nostalgia delle "ideologie", di quei blocchi di verità enunciati una volta per tutti e fatti valere su ogni particolare della realtà? 

Il populismo è il tentativo sciagurato di una parte della sinistra per rimettersi in carreggiata?

Il populismo è una fogna cui attingono un po' tutti dato che di sistemi ideali atti a spiegare quel che sta succedendo nel terzo millennio purtroppo non ce n'è. Procediamo a tentoni. L'importante è fare meno danni possibili. Da questo punto di vista sono contentissimo che nella Lega emergano personaggi come Giancarlo Giorgetti o Massimiliano Fedriga. 

Certo, se i politici veri sono scarsi, gli intellettuali capaci di dare stimoli alla politica non sono meno rari. Come mai, a suo avviso?

Anche qui siete vittime della nostalgia di un tempo, quello in cui erano dominanti figure di intellettuali umanisti quali Antonio Gramsci, Benedetto Croce o magari Norberto Bobbio. Un tempo che non esiste più. Nel confronto con gli intellettuali scientifici gli intellettuali umanisti non contano più nulla, ammesso che abbiano mai contato. 

Contare non so, ma hanno esercitato una funzione di ispirazione e di guida, di riferimento nel bene o nel male.

Hanno contato per una lunga stagione del secondo dopoguerra perché erano in massa dalla parte del Pci, e uno che pubblicasse un libro che dava dei calci agli stinchi al Pci era perciò stesso condannato all'inferno. Oggi contano i medici che hanno apprestato il vaccino anti-Covid, gli ingegneri che hanno saputo creare i droni da combattimento, quelli che fanno fare al nostro computer degli exploit inauditi e così via. Quarant' anni fa Enzo Forcella scriveva che erano non più di 1500 i lettori di un editoriale di prima pagina di un giornale. Oggi siamo al punto che stanno soccombendo gli stessi giornali, altro che gli editorialisti. 

E dal governo di unità nazionale emergono personalità nuove che in futuro, chissà, potrebbero esercitare una funzione di guida anche maggiore.

E infatti non avrei nulla, ad esempio, contro l'eventualità di una Marta Cartabia a capo del governo. Ovviamente non perché è una donna. Da quando avevo vent' anni, e le ragazze facevano tutto quello che facevamo noi maschi, non distinguo minimamente nella vita pubblica tra un uomo e una donna. 

Torno sul punto: Gramsci diceva che è intellettuale colui che genera "pensiero novello". Chi può definirsi per lei un intellettuale contemporaneo?

Ma come potete pensare che un qualcosa della topografia nostra odierna possa essere identificato da uno che scriveva a un tempo in cui non c'erano né la televisione, né i giornali a rotocalco, né il computer, né i telefonini, e anzi a dominare il campo erano dei giornali che oggi nessun men che trentenne legge? Proviamo a trovare parole nuove, a cercare di capirci qualcosa del gran pandemonio in cui viviamo. 

Per L'Espresso l'ultimo intellettuale è Zerocalcare. Il direttore degli Uffizi dice che Chiara Ferragni è l'unica che può risollevare l'attenzione sulle visite ai musei. Sono compromessi necessari tra élite culturali e consumatori di massa?

Zerocalcare non è l'ultimo intellettuale e nemmeno il penultimo, ma è di certo un intellettuale/creatore di quelli che hanno un pubblico e che giocano la loro partita quanto a comunicare ed emozionare. Chiara Ferragni non è un'intellettuale ma non ha bisogno di esserlo: le basta sgranare gli occhi e tenere bene in vista le sue bellissime gambe, e milioni di nostri concittadini sono ai suoi piedi. Come la vogliamo mettere? 

I libri e le opere d'arte sono oggetti "animati", viventi. Parlano di chi li ha originati e anche di chi li possiede. Qual è il suo rapporto con loro?

Ho scritto un libro che uscirà a marzo dove racconto che "quel che resta della mia vita" è unicamente il rapporto con i miei libri e con le opere d'arte che amo. Vi parrò esagerato, ma purtroppo è così. 

La tecnologia, gli ebook, il metaverso che ci consentirà di materializzare virtualmente una data opera d'arte nella nostra abitazione, potranno rimpiazzare l'originale?

Ma che fa, mi prende per scemo a farmi una tale domanda? Le delizie del "metaverso" le lascio ai vostri figli, dato che io non ne ho. Nei pochi anni che mi restano, di quelle delizie non mi nutrirò neppure un istante.

·        Giordano Bruno Guerri.

Chi è Giordano Bruno Guerri, possibile ministro alla cultura. GIULIA MORETTI su Il Domani il 18 ottobre 2022

Anticlericale e favorevole a eutanasia e matrimoni omosessuali, l’attuale direttore generale del Vittoriale potrebbe essere il ministro più progressista del governo Meloni. È stato “assessore al dissolvimento dell’ovvio” in un comune di Catanzaro

Condivide il nome con uno dei filosofi più rilevanti e anticlericali dell’occidente, di cui ha ereditato anche lo spirito critico nei confronti della religione. Giordano Bruno Guerri potrebbe essere il prossimo ministro della Cultura e uno di quelli meno appiattiti sull’ideologia predominante nel centrodestra del prossimo governo. Storico del periodo fascista e studioso del rapporto tra italiani e chiesa cattolica, Guerri dal 2014 è direttore generale del Vittoriale degli italiani, ruolo che potrebbe lasciare per trasferirsi nella sede di Campo Marzio. 

IL RAPPORTO CON LA CHIESA

La famiglia di Guerri gli impartisce un’educazione cattolica, nonostante ciò lui si professa ateo. L’interesse per le questioni di chiesa nasce quando a 32 anni pubblica Povera santa, povero assassino,  la storia della santa Maria Goretti riletta con occhi più indulgenti sull’uomo che la uccise dopo aver tentato di violentarla.

L’anno dell’affermazione come studioso in questo campo però è il 1993, quando pubblica Io ti assolvo. Il libro è un resoconto di confessioni raccolte in giro per l'Italia in cui si sottolineano le differenze tra diversi confessori cattolici sugli stessi argomenti e le prassi penitenziali, alcune delle quali sono secondo l’autore discutibili.

Sia Io ti assolvo che il libro su santa Maria Goretti raccolgono numerose e aspre critiche da ambienti vaticani. Questo è uno dei motivi per cui la sua eventuale nomina a ministro sarebbe un gesto in controtendenza con quanto successo finora, in particolare la nomina di Lorenzo Fontana a presidente della Camera. 

DAL SESSANTOTTO ALL’ASSESSORATO

La parabola politica di Guerri comincia con la partecipazione ai moti del Sessantotto, quando era ancora un liceale. Lo storico racconta di avervi preso parte «come cane sciolto ringhiante, ma non politicizzato». Poi all’università, dove è iscritto a lettere moderne, decide di approfondire le sue conoscenze sugli stili di vita di epoca fascista, secondo lui a quel tempo ancora sottovalutati.

Prima di definirsi un liberista, è stato vicino al Partito radicale del quale condivide alcune battagli tra cui quella contro la pena di morte. Con l’antropologa Ida Magli ha fondato il movimento culturale, ItalianiLiberi, di matrice «antieuropeista e di libero pensiero», per il quale ha diretto il giornale Internet italianiliberi.it. 

Nel 1997 il neosindaco di Soveria Mannelli (in provincia di Catanzaro), Mario Caligiuri, gli propose di divenire il suo assessore alla cultura, Guerri accettò ma con una riserva: volle essere chiamato “assessore al Dissolvimento dell'ovvio”. 

LA CULTURA LIQUIDA

Ma ciò che rende più distante Giordano Bruno Guerri dalla maggioranza che si sta delineando è la sua opinione di intellettuale su alcuni temi identitari. «Io da presunto, e sottolineo presunto, uomo di destra sono favorevole all’eutanasia, ai matrimoni gay, all’accoglienza. E mi vergogno a essere identificato con una schiera di bacchettoni o polverosi reazionari», ha dichiarato all’agenzia di stampa Agi. 

Una distanza che si accentua quando si tocca il tema di ciò che sia la cultura di destra che Guerri definisce «liquida, come un'acqua che filtra dappertutto in modo disomogeneo e talvolta confuso. Mi sembra si debba parlare non tanto di posizioni politiche, quanto di atteggiamenti mentali verso problemi contingenti».

Da storico quale è non intende dimenticare il passato dei conservatori italiani, sul quale, da presunto uomo di destra, è pronto a fare autocritica. Ma afferma che le tre storiche correnti della destra –  quella post-fascista, quella liberale e quella conservatrice –  non possono conquistare le nuove generazioni.

«Perché è giusto che si conservino i beni culturali, è giusto che si protegga la tradizione della pizza e della mortadella di Reggio, ma riguardo al resto c’è l'esigenza di modernizzare e proiettare questo paese nel futuro. I giovani non hanno niente da conservare, vogliono aprirsi al mondo, innovare e progettare», dice.

GIULIA MORETTI. Nata e cresciuta in Umbria, dopo una laurea triennale in lettere classiche ha virato verso il giornalismo e si è laureata in Editoria e scrittura con una tesi in comunicazione politica. Scrive per Zeta, la testata del master in giornalismo della Luiss, occupandosi di diritti, attualità e fact-checking

Lorenzo De Cicco per repubblica.it il 18 ottobre 2022.

Uomo di destra? "Presunto", risponde di solito Giordano Bruno Guerri, papabile ministro della Cultura nel futuro governo Meloni. "Sono favorevole all'eutanasia, ai matrimoni gay, all'accoglienza. E mi vergogno a essere identificato con una schiera di bacchettoni o polverosi reazionari", raccontava solo qualche settimana fa, subito dopo il voto, intervistato dall'Agi.

Per dire: quando l'anno scorso uscì la notizia che la Dc Comics lavorava a un Superman bisex, mentre a destra, appunto, più d'uno storceva il naso, lui benediceva l'operazione: "Non mi dispiace affatto. Anzi, spero che con la kryptonite verde diventi trans".

Situazionismo e gusto della provocazione non gli mancano, se è vero che per il primo incarico pubblico, era il 1997, nel piccolo comune calabrese di Soveria Mannelli, mutuò il tradizionale dipartimento alla Cultura in "assessorato al Dissolvimento dell'Ovvio". Durò un mese, ma fece in tempo a inaugurare il Monumento al Cassonetto.

Saggista, storico, giornalista, cultore di D'Annunzio - passione diventata professione nel 2008 in qualità di direttore del Vittoriale degli Italiani, confermato in quel ruolo dal dem Dario Franceschini - nella corsa al Ministero dei Beni culturali Guerri sembra avere sorpassato Vittorio Sgarbi, un altro che di provocazioni se ne intende. E il direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano, che però dall'inizio sembra più destinato a scalare le gerarchie in Rai (è in pole per il Tg1) che a traslocare nel governo a trazione FdI.

Classe 1959, toscano di Monticiano, hinterland senese, famiglia di contadini e operai, comincia come correttore di bozze per Garzanti. Poco dopo, nel 1971, approda in Bompiani. Le sue "Norme grafiche e redazionali" sono tuttora in uso. Si laurea nel 1974, tesi sul ministro fascista Giuseppe Bottai, che verrà pubblicata da Feltrinelli. Il primo di una sterminata produzione di saggi, dedicati in buona parte a personaggi del Ventennio, da Italo Balbo a Galeazzo Ciano, fino alle pubblicazioni più recenti sul Vate. Direttore editoriale di Mondadori e di Storia Illustrata, per un anno, tra il 2004 e il 2005, guida l'Indipendente, oltre dieci anni dopo Vittorio Feltri.

Poi collaboratore del Giornale. E infine la lunga stagione al Vittoriale, casa-monumento di D'Annunzio sul lago di Garda. Prima di ritrovarsi nel toto-ministri, Guerri consigliava alla nuova classe dirigente della destra un paio di libri: "21 lezioni per il XXI secolo" di Harari e "Limonov" di Carrére. "Ammesso che sul comodino non abbiano soltanto quelli che hanno scritto loro".

Giampiero Mughini per Dagospia il 18 ottobre 2022.

Caro Dago, ne sarei felice se il mio vecchio amico Giordano Bruno Guerri diventasse - ciò che mi pare molto probabile - ministro della Cultura nel governo condotto da Giorgia Meloni. Del resto se c’è un uomo a caratterizzare il quale servono a niente le vecchie (e talvolta belluine) partizioni tra Destra e Sinistra, questo è lui.

Giordano è un ex enfant prodige della cultura italiana che aveva debuttato men che trentenne con dei libri memorabile nel raccontare il recto e il verso di personaggi chiave della storia politica e culturale dell’Italia del Novecento, da Giuseppe Bottai a Curzio Malaparte.

Era stato fra i primissimi della sua generazione a voler comprendere intera la genealogia dell’équipe dirigente del fascismo.

Quel comparto della nostra storia lui non voleva racchiuderla in una parentesi buia buia da cassare punto e basta, di cui vergognarsi punto e basta. E tanto più che era stata proprio l’équipe dirigente del fascismo a buttar giù Benito Mussolini nella notte tra il 25 e il 26 luglio 1943, non certo gli scioperi operai torinesi del marzo 1943 com’era scritto in un libro pubblicato da Einaudi che avevo letto nei miei vent’anni: e ancora ne inorridisco di una tale panzana.

Con Giordano ho contratto un debito che non si dimentica nel 1987, ai tempi del mio “Compagni addio”. C’era che nel farmi la cravatta innanzi allo specchio m’era venuto in mente quel titolo. Un titolo che avrebbe fatto da insegna di quanto avevo covato per poco meno di vent’anni, ossia il raschiar via dalla mia pelle e dalla mia anima quella ressa di ideologismi di sinistra e sinistra estrema da cui è stata asfissiata la buona parte della mia generazione. Quel libro, o meglio quel titolo, lo proposi a un Giordano che appena trentacinquenne era divenuto il capintesta della saggistica Mondadori. Libro e titolo Giordano li accolse con un entusiasmo fraterno. Dubito che se non ci fosse stato lui un qualche altro grande editore avrebbe accettato un titolo che risuonava come una bestemmia, e a causa del quale alcuni miei compagni di generazione mi tolsero il saluto.

E difatti quando il libro uscì ebbe sui giornali un unico commento positivo, quello di un certo Indro Montanelli. Adesso vedo che su internet ci vogliono da cento euro in sopra per averne una copia. Ieri l’altro mi ha scritto uno che aveva un’aria intelligente a chiedermi se avessi una copia da vendergli. Purtroppo, e a parte la mia, non ne ho più una da almeno trent’anni.

Auguri fraterni, caro e valoroso Giordano.

·        Giorgio Forattini. 

Alessandro Dell'Orto per “Libero quotidiano” il 30 luglio 2022.  

Quadri, quadri, quadri. Piccoli, grandi, di ogni epoca e autore a riempire tutte le pareti come in un mosaico. Quadri, quadri e ancora quadri, ma in casa nessuna vignetta. Curiosa questa scelta, Forattini.

«Sa che non ci avevo pensato? In effetti non ne ho nemmeno mai incorniciate». 

Quante ne ha disegnate in carriera?

«Bah, difficile dirlo, non ricordo.

Penso circa 15mila. Tutte catalogate in cartaceo e digitale». 

E di quadri, invece, quanti ne possiede?

«Credo 1500, ma molti li ho regalati o venduti». 

Quello a cui è più legato?

«Mi faccia pensare. Mmmmm. Forse il ritratto di Bertel Thorvaldsen, scultore danese del 1800. L'ho cercato ovunque e voluto a tutti i costi, finché l'ho trovato da un antiquario». 

Perché tanto accanimento?

«Venga con me. Ora lo guardi, nota niente?».

È il suo sosia!

«Mi somiglia tantissimo. Pensi che molta gente mi spedisce cartoline per segnalarlo». 

Tipo quella appesa laggiù?

«Sì, sopra la mia scrivania». 

Scusi Forattini, ma quello è l'angolo in cui ha lavorato per anni?

«Sempre disegnato da lì. All'inizio, a Repubblica, andavo in redazione, ma poi mi trovavo regolarmente una schiera di curiosi alle spalle e ho deciso di fare tutto da casa». 

Un precursore dello smart working tanto di moda adesso.

Davanti a questa finestra, quindi, lei ogni giorno ha disegnato il mondo degli ultimi 40 anni. 

Come nasceva una vignetta?

«Fino a mezzogiorno non ci pensavo, tanto sapevo che lo spunto sarebbe arrivato. Poi guardavo i tg cercando l'ispirazione e dopo pranzo iniziavo a buttare giù qualche schizzo su un foglio. Il disegno vero lo realizzavo in un'oretta, ma poi ritoccavo i dettagli mille volte, aggiungendo o cancellando particolari. Sa, sono sempre stato molto pignolo». 

A che ora lo inviava?

«Alle 19, ovviamente per fax. Sempre odiato la tecnologia. Non ho internet né un computer e utilizzo un cellulare di quelli base». 

Qualche curiosità: utilizzava penne particolari?

«Semplicissime matite e poi un pennino per l'inchiostro». 

Sottofondo? Perché ride?

«Musica scozzese ad altissimo volume, ho sempre adorato le bande e soprattutto quelle del nord. Mi ispiravano». 

Altri rituali?

«Beh, era un andare e tornare dal frigorifero: pezzi di formaggio e spuntini vari. Lavorare mi faceva venir fame». 

E la rendeva anche nervoso? Ha le unghie mordicchiate.

«Che fa, mi guarda le mani?».

Di fronte a un fuoriclasse della matita è inevitabile.

«Sempre avuto questo vizio, il lavoro non c'entra». 

Torniamo alle vignette. Più difficile trovare la battuta giusta o disegnare?

«La frase a effetto è la cosa più complicata e importante». 

Giorgio Forattini ha 91 anni e l'ironia nello sguardo. Ti fissa e capisci che potrebbe facilmente scovare il tuo lato debole, il punto indifeso, il difetto nascosto, e in un attimo trasformarti in una divertente ma scomoda caricatura. L'ha fatto per cinquant' anni, disegnando la politica con vignette - una al giorno - che hanno raccontato la storia italiana sulle prime pagine di Repubblica, Stampa, Panorama e Giornale. Erano editoriali illustrati, spesso più incisivi degli articoli di fondo, capaci di condizionare - con la battuta giusta e un tratto semplice ma dannatamente efficace - crisi di governo, elezioni, dimissioni, scandali. 

Giorgio Forattini ti fissa ma poi ti sorride dolcemente e allora capisci che dietro la matita pungente c'è un carattere timido e riservato. E un uomo di grande cultura che ora si gode la vecchiaia nella sua casa di Milano, tra qualche inevitabile acciacco dell'età e qualche buco di memoria. Senza mai perdere, però, il gusto innato dell'ironia. 

Ha sempre tenuto i suoi disegni?

«Sì, ma non gli schizzi, quelli li buttavo via ogni giorno. La mia segretaria però, di nascosto, la sera li recuperava. Nel 2017 li abbiamo messi insieme e pubblicati nel libro "L'Abbecedario della politica"». 

I disegnatori di oggi le piacciono?

«Quali? Di giovani non ce ne sono, sono rimasti solo i soliti 3 o 4 famosi.

Ora posso farle io una richiesta?».

Certo.

«Per cortesia si abbasserebbe la mascherina un attimo che voglio vedere il suo viso?».

Ecco. Lo ispirasse anche per una caricatura...

«No no, solo curiosità. Ormai non disegno più». 

Ma come?

«Basta, sono stufo e non ho più l'istinto. Mia moglie ogni tanto ci prova, ma da cinque anni ormai non prendo in mano una matita e non ne sento il bisogno». 

A proposito di mascherina, come ha vissuto il Covid e i lockdown?

«Passeggiando sul ballatoio per tenermi in movimento». 

E ora come è la giornata tipo?

«Mi sveglio alle 10, vado a fare due passi e bevo un aperitivo all'aperto. Dopo pranzo pennica fino alle 17 e poi altra passeggiata. Di sera, tv fino a mezzanotte».

Cosa guarda?

«Sicuramente le partite della Roma, sono un tifoso fedele, uno di  quelli che ha sempre adorato Totti. Poi telegiornali e Rai Storia. In realtà, però, sono un amante dello zapping. Per la rabbia di mia moglie». 

Già, Ilaria Cerrina Feroni. Da quanto tempo state insieme?

«Quarant' anni. Ci siamo conosciuti alla Mondadori, lei era capo ufficio stampa della sezione libri. E non ci siamo mai più separati». 

Forattini, torniamo ancora più indietro nel tempo. Al piccolo Giorgio.

«Nasco a Roma il 14 marzo 1931 e sono un bambino solitario, riservato ma ribelle». 

Genitori?

«Mamma bellissima, ho preso i suoi occhi. Carattere dolce e molta fantasia. Papà autoritario, da lui ho ereditato l'amore per la cultura che poi ho approfondito con musica, letture, poesie, arte, storia». 

Scuole?

«Liceo classico, poi l'accademia di teatro e mi iscrivo ad architettura. A 18 anni esco di casa e a 22, per fare un dispetto a mio padre, mi sposo».

All'accademia, con lei, ci sono Lina Wertmuller e Sofia Scicolone, che poi diventerà per tutti la Loren. Vero che ha finto di non riconoscerla?

«Anni dopo la incontro a una cena di Armani e le dico: "Ciao, ti ricordi di me? Abbiamo fatto teatro insieme". E lei: "Impossibile, io sono molto più giovane". Può darsi che non si ricordasse, ma i modi non sono certo stati gentili». 

Primi lavori?

«Operaio, poi rappresentante di prodotti petroliferi perché papà era direttore dell'Agip. E ancora, per anni giro l'Italia per vendere dischi ed elettrodomestici ed imparo a osservare la gente affinando i rapporti umani». 

Qualità poi fondamentale per disegnare vignette. Quando le prime caricature?

«A 40 anni vinco un concorso di Paese Sera per una striscia satirica, ma la svolta avviene per una donna». 

Cioè?

«Nel 1973 mi fidanzo con Lene De Fine Licht, ragazza danese bellissima, la cui sorella è amica di Gianluigi Melega di Panorama. Me lo presenta e inizio a frequentarlo finché un giorno, vedendomi disegnare, mi propone di lavorare per lui. Non so come si fa e studio i disegnatori francesi e anglosassoni. Così inizia la carriera con la vignetta d'esordio, se non ricordo male un Andreotti cui qualcuno appendeva un pesce d’aprile sulla schiena». 

Il primo disegno celebre è del 1974 in occasione del no al referendum sul divorzio: Fanfani tappo di champagne.

«L’idea me la dà un tipografo che dice “Stavolta il tappo (alludendo alla statura di Fanfani) salta”». 

È il boom e nel 1975 è tra i fondatori di Repubblica, a inizio anni Ottanta va alla Stampa, torna a Repubblica e poi sbarca al Giornale. Vignette in prima pagina ogni giorno, le sue caricature condizionano la politica italiana. Le hanno mai censurato un disegno?

«Ci hanno provato, spesso lo mettevano più in piccolo o in basso, ma non ne ho mai ridisegnato nessuno. Alle contestazioni rispondevo: “Se non lo volete, mettete la foto del direttore”». 

Forattini, una curiosità. Molti politici li vedeva come animali: Amato Topolino, Veltroni bruco, Dini rospo, Buttiglione scimmia, Mancino cinghiale, Violante volpe, Bossi Pluto, Ciampi cane. Come mai?

«Un caso. Li osservavo e pum, certe caratteristiche me li facevano diventare animali. La caricatura è un istinto, quasi involontaria. Come quella volta a Parigi». 

Racconti.

«Una quindicina di anni fa io e mia moglie ci iscriviamo a un corso di pittura a olio e ci danno da fare un ritratto. Pochi minuti e tutti sono dietro di me che ridono: provavo a fare un ritratto, usciva una caricatura». 

Quante querele ha ricevuto?

«Una ventina e solo da esponenti della sinistra».

Clamorosa nel 1999 quella di D’Alema, allora Presidente del Consiglio, per la vignetta in cui cancella con un bianchetto la lista Mitrokhin: le chiese tre miliardi.

«Quando lo raccontai a Parigi, dove la satira è cosa sacra, rimasero choccati. Poi D’Alema la ritirò, ma mi costò una fortuna in avvocati e la rottura con Repubblica».

Mai rivisto?

«Una volta ci incrociamo a votare allo stesso seggio a Roma, gli vado incontro sorridendo e gli porgo la mano. Lui risponde con gelo». 

Il politico meno permaloso?

«Andreotti. Una volta disse: “Che devo dire di Forattini? Mi ha inventato lui”».

 Mai ricevuto minacce di morte?

«Sì e mi sono ritrovato la Digos in casa due volte, per un disegno su Maometto e per la vignetta con la Sardegna a forma d’orecchio in occasione dell’arresto della banda dei sardi responsabili del rapimento di Anna Bulgari e Giorgio Calissoni». 

E qualcuno ha mai cercato di “comprarla” con qualche regalo?

«Mai, tanto sapevano che non ero corruttibile. In compenso ho sempre pagato una fortuna in tasse: dovevo essere integerrimo e inattaccabile». 

Forattini ultime domande veloci. 1) Libro preferito?

«“L’idiota” di Fedor Dostoevskij». 

2) Rapporto con la religione?

«Mai stato praticante». 

3) I suoi migliori amici?

«Giancarlo Giannini e Renzo Piano. E lo è stato Umberto Veronesi». 

4) Il posto più bello del mondo?

«Parigi». 

Ultimissima. C’è una vignetta che non rifarebbe?

«Mmmmm, vediamo. Sì, forse quella sul suicidio di Raul Gardini: la sua barca “Il Moro di Venezia” era diventata “Il morto di Venezia” e affondava con il suo teschio a riva. Me ne pento».

·        Giorgio Manganelli.

Da Libero Quotidiano il 21 Febbraio 2022.   

Per gentile concessione di Lietta Manganelli, figlia del grande scrittore, pubblichiamo alcuni estratti della sua lunga intervista rilasciata a Emiliano Tognetti, contenuta nel libro del padre, Notte tenebricosa, con la prefazione di Alessandro Zaccuri (Graphe.it edizioni, 2021,Euro 15). 

Lietta, partirei dalla domanda più ovvia: com' è essere la figlia di Giorgio Manganelli?

«Te lo dico subito. Sto scrivendo la sua biografia e mi sta facendo impazzire, perché ci lavoro da cinque anni. Mio padre è il più grande bugiardo che sia esistito sulla faccia della Terra, o meglio aveva una sua regola di vita: "Chi dice la verità ha una vita sola, chi mente ha tutte le vite che vuole"...». 

 Quanti libri ha scritto Giorgio Manganelli?

 «Compresi quelli che ho raccolto io dopo la morte, siamo a quarantacinque, quarantasei...».  

Gli studenti, cosa dicevano del Professor Manganelli? 

«Che era folle». 

 Le lezioni erano seguite? 

«Sì, ma non era un insegnante tradizionale. Per anni ha insegnato in una scuola tecnica femminile. Lo amavano, ma era il professore strambo, che iniziava le lezioni leggendo il giornale...Era fuggito a gambe levate dall'università dove insegnava letteratura inglese. Nota bene che mio padre è sempre stato un anglista...Parlava molte lingue...».  

Come avvenne l'incontro fra te e tuo padre? 

«Devi sapere che mio padre aveva dei problemi molto seri, soffriva di sindrome bipolare e aveva paura di danneggiarmi. Non voleva figli; per avere me mia madre ha dovuto ubriacarlo...Per tenerlo lontano mia madre aveva trovato un sistema subdolo; lui era a Roma e lei gli ha detto: "Guarda che la bambina ha gravi problemi nervosi. Stai lontana da lei che puoi solo danneggiarla..." .  

Lui non si è mai avvicinato fino a quando non ho avuto diciotto anni....Ho preso un treno e sono arrivata a Roma... Vedo quest' uomo e gli dico: "Mi scusi, ma lei è il professor Manganelli?", "Sì". "Allora son tua figlia".... A un certo punto una scampanellata pazzesca. Mio padre guarda dallo spioncino, mi prende per le spalle, mi sbatte sul balconcino. Resto così per quaranta minuti. Sento dei rumori e delle voci, l'ultima cosa che capisco è: "Per carità professore, non mi rovini".

Poi mio padre mi libera e gli dico: "Ora mi spieghi che è successo...". "No, niente, un amico nevrotico...". Era entrato Carlo Emilio Gadda a fare una scenata magistrale perché era appena uscito Hilarotraogedia, il primo libro di mio padre, che l'ha fatto conoscere e l'ha, diciamo, battezzato "scrittore del Novecento". Gadda si era messo in testa che fosse una parodia de La cognizione del dolore...»  

Com' era il rapporto con Alda Merini? 

«Mio padre era innamoratissimo di mia madre, che però non lo ha mai amato nemmeno un giorno, e lo ha sempre ammesso...Mio padre ha incontrato Alda che aveva dieci anni in meno di lui; Alda era la persona che lo faceva sentire un dio. Lei beveva le sue parole, lo vedeva stupendo, meraviglioso ed era molto bella. Gli dava la sensazione di essere amato...». 

·        Giovanni Ansaldo.

Ode ai rompicazzi. Giovanni Ansaldo, l’eversivo del giornalismo italiano che abbiamo dimenticato. Giampiero Mughini su L’Inkiesta il 28 Novembre 2022.

Antifascista, confinato, prigioniero. Sempre irrequieto, polemista per definizione, sistematicamente antisistema. Ecco una tra le personalità che Giampiero Mughini raccoglie nelle sue biografie sugli irregolari del Novecento

Quanto ai maggiori protagonisti del giornalismo italiano del Novecento e dei suoi annessi e connessi editoriali, tutti hanno ben chiara l’identità, il portamento intellettuale, le astuzie e stavo per dire i tic di maestri pur così diversi tra loro quali Indro Montanelli e Leo Longanesi. Dubito che qualcuno di voi che mi state leggendo non abbia sugli scaffali della sua biblioteca una qualche traccia del loro operato sia ante che post la Seconda guerra mondiale.

Il che non accade affatto per quello che è fuori di dubbio un loro pari grado nella scala dei valori del nostro giornalismo d’antan, ossia Giovanni Ansaldo, nato nel 1895 a Genova e morto a Napoli nel 1969, uno che nel parco della nostra memoria corrente ha un suo spazio ben più striminzito degli altri due fuoriclasse di cui ho detto. Nel senso che lo ricordiamo più a fatica, più raramente. I suoi libri, la più parte pubblicati postumi a notevole distanza dalla sua morte, sono radi nelle nostre biblioteche.

E non che la sua ombra non incomba su tutti noi innamorati di carte novecentesche. Non so quante e quante volte nelle mie chiacchiere pubbliche io non abbia citato la mirabile risposta che Ansaldo diede al Benito Mussolini che gli stava chiedendo che cosa ne pensasse della sua decisione di dichiarare guerra agli Usa l’11 dicembre 1941: «Duce, ma lei lo ha mai visto l’annuario telefonico della città di New York?».

Una risposta che da sola vale una vita, che da sola connota un rango intellettuale. Eppure il nome e l’identità di Ansaldo ci risultano più sfuggenti, più confusi, irrompono più raramente nel nostro conversare e nel nostro decrittare le mappe novecentesche. Se mi volgo indietro con la memoria, non ricordo di avere mai parlato di Ansaldo con qualcuno dei miei tanti amici pur appassionati di vicende del Novecento.

A un certo punto mi sono accorto di avere nella mia biblioteca solo due libri di Ansaldo e di averne letto solo uno, pochini per onorare l’ombra notevolissima di cui ho detto. E per fortuna che ci sono gli store online ad attenuare le colpe di noi che commettiamo il peccato gravissimo di insufficiente conoscenza dei fatti novecenteschi e dei loro protagonisti.

Chi è stato e che cosa ha fatto Ansaldo? Riuscirei più spiccio nel dirvi che cosa non ha fatto e che cosa non è stato. A diciannove anni indossò la divisa di soldato dell’esercito italiano durante la Prima guerra mondiale. Combatté, venne ferito, venne decorato. Nei primi anni venti Ansaldo avvia le sue collaborazioni giornalistiche, a un tempo in cui è frontalmente avverso al fascismo montante e ha tra i suoi sodali più stretti Piero Gobetti, alle cui riviste collabora entusiasticamente.

Una volta gli squadristi fascisti capitanati dal truce carrarese Renato Ricci gli danno addosso e lo sfracassano ben bene. Il 28 novembre 1926 lo beccano assieme ad altri personaggi di rilievo dell’antifascismo mentre sta tentando di espatriare in Francia, dove conta di mettersi a studiare la letteratura francese e di campare scrivendone.

Passa alcuni mesi in cella per poi essere condannato il 30 maggio 1927 al confino. A questo punto scrive una domanda di grazia in cui dice di aver deposto la sua avversione al fascismo, grazia che nel settembre 1927 gli viene accordata. Tornato a Genova, riprende sotto falso nome le sue collaborazioni al quotidiano «Il Lavoro».

Articoli che non sfuggono all’occhiutissima attenzione di Mussolini, il quale dirà una volta che Ansaldo era il solo a poter parlare con cognizione di causa del fascismo. Detto in parole povere, l’Ansaldo dei primi anni trenta s’è convinto che nella realtà italiana non esiste alcuna alternativa possibile al regime mussoliniano. Si avvicina così a Galeazzo Ciano, di cui diventa un suggeritore e un uomo di fiducia. Prende la tessera del Partito nazionale fascista per poter dirigere il quotidiano livornese di proprietà della famiglia Ciano, «Il Telegrafo». Sul giornale e alla radio vanterà a modo suo la supremazia del fascismo mussoliniano e questo sino alla sera del 25 luglio, quando Ciano è uno dei protagonisti della seduta del Gran Consiglio che scalza Mussolini. Ansaldo si arruola immediatamente nell’esercito badogliano.

Il 12 settembre 1943 viene catturato dai nazi. Si rifiuta di aderire al governo di Salò e dunque trascorre poco meno di due anni in un campo di concentramento tedesco, dove viene liberato dall’arrivo delle truppe corazzate canadesi. Tornato in Italia nel settembre 1945, un ferroviere lo riconosce dalla voce e lo addita quale l’autore di trasmissioni radiofoniche che erano state ascoltatissime ai tempi di Salò. Ennesima cella fino al 27 giugno 1946, quando Ansaldo beneficia dell’amnistia Togliatti. Lui che non era cattolico e meno che mai democristiano, viene scelto da Alcide De Gasperi quale direttore di un nuovo quotidiano napoletano, «Il Mattino». Lo dirigerà dal 1950 al 1965, finché glielo permettono le sue condizioni di salute.

Muore quattro anni dopo, nel 1969. Vi giuro che più breve di così la sua vita non ve la potevo raccontare. Altro che se non abbiamo a che fare con un «rompicazzi» eccezionale.

I rompicazzi del Novecento, Giampiero Mughini, Marsilio, 272 pagine, 18 euro

·        Giovanni Verga.

Non solo Malavoglia. Giovanni Verga è morto cent’anni fa e non abbiamo ancora finito di capirlo. Francesco Lepore su L'Inkiesta il 16 Febbraio 2022.

È necessario studiare tutte le opere dell'autore siciliano, a partire dalle sue novelle veriste, perché alcune di queste anticipano temi fondamentali come il femminicidio e le contraddizioni della cultura patriarcale

Il 27 gennaio 1922 moriva a Catania Giovanni Verga. Diciannove giorni fa, all’esatto compimento dei venti lustri dal decesso, non solo si è reso omaggio al caposcuola del Verismo, ma sono anche ufficialmente iniziate le manifestazioni centenarie con una serie di eventi per l’intero 2022. Su cui pesa pur sempre la spada di Damocle della banalizzazione. L’anniversario è infatti da tempo la ricorrenza a esserne maggiormente soggetta, complice l’«eccesso di memoria» che, non meno imperante di quello di oblio, risente fortemente, come ricorda Paul Ricoeur, «dell’influenza delle commemorazioni».

L’ossessivo moltiplicarsi quotidiano di celebrazioni a ricordo di persone o avvenimenti, legati a una specifica giornata e altrimenti ignorati, ha finito così per svuotare le stesse di significato. Omologati quasi gli uni agli altri, anniversari fondamentali per la nostra storia, non solo letteraria e culturale, possono infatti essere ridotti a un fatto di routine in quell’asfissiante santorale laico che si è sostituito, quando non confuso, a quello cattolico. Rischio che, incombente anche sul centesimo della morte di Verga, ha forse un potente antidoto proprio nel menzionato programma annuale di iniziative, volte a una più ampia conoscenza della sua figura.

Di programma, in realtà, si può finora parlare solo in riferimento a quello puntualmente approntato dalla Fondazione Verga e dall’Università di Catania col coinvolgimento di atenei e istituti di alta cultura italiani ed esteri quali, a titolo d’esempio, la Sorbonne Nouvelle (Paris III), l’Università di Toronto, il Centre d’étude sur Zola e le Naturalisme, l’Accademia della Crusca.

Fatta eccezione per l’annullo filatelico disposto dal ministero per lo Sviluppo economico e la messa di suffragio nella cattedrale etnea di Sant’Agata con successivo omaggio al sepolcro dello scrittore il 27 gennaio, si dovrà infatti ancora attendere per sapere di quali appuntamenti si comporrà il calendario predisposto dal Comitato nazionale per il Centenario. Comitato che, istituito dalla Regione Siciliana e composto dai sindaci dei comuni verghiani a partire da quello di Catania, da rappresentanti della Fondazione, dei quattro atenei siciliani, degli eredi Verga e Catalano, è di fatto non operativo.

La momentanea inazione è verosimilmente da ascrivere alla finora mancata risposta di finanziamento da parte del ministero della Cultura. Sul versante regionale l’assessorato dei Beni culturali e dell’Identità siciliana ha invece confermato al nostro giornale uno stanziamento, la cui entità «sarà comunicata durante una conferenza stampa in programma nelle prossime settimane». Dovrebbe trattarsi di «contributo abbastanza congruo» stando ad altre fonti di Palazzo d’Orleans.

Nell’attesa che più d’un arcano sia sciolto, le iniziative interdisciplinari, di cui si ha finora notizia nel dettaglio, si presentano comunque con caratteristiche tali da fugare l’accennato rischio di banalizzante omologazione del centenario. Contributo dunque bastevole a realizzare, per dirla con Adriano Bausola, il «significato di un anniversario»: recupero della memoria storica e riflessione attualizzante di quanto si ricorda e celebra.

Per Gabriella Alfieri, professoressa ordinaria di Linguistica italiana presso l’ateneo catanese, accademica della Crusca e presidente del Consiglio scientifico della Fondazione Verga, i congressi, le giornate di studio, i seminari, le conferenze, le letture recitate, i progetti editoriali, di cui è ricco il programma diramato, sono principalmente finalizzati a «dare un’immagine più possibile attuale di Verga sia studiandolo in concreto nell’ambito del Realismo europeo sia costruendo un grande repertorio di tutto il linguaggio del Verismo italiano». Da realizzare in collaborazione con la Crusca nelle forme di archivio e vocabolario digitale, esso richiederà ovviamente tempi superiori all’arco del solo centenario.

Ma per l’accademica a essere di particolare importanza è soprattutto «il reinserimento di Verga nel Realismo. Si tratta infatti di una linea di ricerca assolutamente nuova, avviata nel 2019 col nostro coinvolgimento al Colloquio internazionale Naturalismes du monde: les voix de l’étranger su organizzazione del Centre Zola. Nell’ottica d’un approccio scientifico tanto alla corrispondenza tra Zola e rappresentanti del Realismo d’area occidentale quanto al confronto tra i testi dell’uno e degli altri, avevamo allora proposto come Fondazione una comparazione di Verga con Thomas Hardy e Berthold Auerbach».

Un influsso del poeta e novellista tedesco sul nostro era comunque noto da tempo alla critica che, con toni più o meno assertivi, poneva nei Racconti rusticani della Foresta Nera, versione italiana delle Schwarzwälder Dorfgeschichten curata da Eugenio De Benedetti ed edita per i tipi Le Monnier (1869), la fonte diretta dei titoli verghiani Novelle rusticane (1883) e, soprattutto, Vita dei Campi, riproduzione dell’omonimo capitolo (Feldleben nell’originale) del racconto Ivo il pievanino (Ivo, der Hajrle). «Il nostro scopo – spiega ancora Gabrielli al nostro giornale – è quello di andare oltre il topico confronto Verga-Zola, che non si può assolutamente negare ma va ampliato.

Si tratta di analizzare i raccordi tematici dei vari testi dell’ampio movimento realista, che incorpora anche il Naturalismo francese e il nostro Verismo. Ma soprattutto studiare più approfonditamente quell’unico codice stilistico adoperato da autori di aree geografiche diverse che, pur non conoscendosi, respiravano la stessa aria culturale. Codice stilistico, fatto di modi di dire, proverbi, gesti, che, condiviso anche da Verga, fu da lui sublimato con la propria individualità».

Sono proprio le nuove prospettive di ricerca dell’opera verghiana a esaltarne ulteriormente la perenne attualità del messaggio, che nei decenni è stato arbitrariamente oggetto di strumentali letture etico-politiche fra loro contrapposte. Il profeta del Verismo, che Antonio Gramsci giustamente definì «crispino in senso largo» sottolineando che «in Sicilia gli intellettuali si dividono in due classi generali: crispini-unitaristi e separatisti-democratici, separatisti tendenziali, si capisce», fu infatti esaltato durante il Ventennio come precursore del fascismo grazie alla preminente esegesi bottaiana e nello stesso periodo, ma soprattutto dopo, come rivoluzionario e progressista. Lasciata, dunque, alle spalle ogni interpretazione forzata e falsata d’un «Verga politico» – parole con cui s’intitola un articolo scritto nel 1929 proprio da Giuseppe Bottai, all’epoca ministro delle Corporazioni –, la sua attualità va fatta discendere da una premessa di fondo.

«Verga – così a Linkiesta Nicolò Mineo, critico letterario e ordinario emerito di Letteratura italiana presso l’Università di Catania – è scrittore centrale nel secondo Ottocento italiano e nella svolta dal positivismo-naturalismo verso il tempo della modernità. Pur radicato profondamente nella cultura positivistica, registra i segni di una crisi e intuisce il non senso della condizione storica ed esistenziale prodotta nella realtà degli individui e di interi gruppi sociali dal modo di attuarsi del “progresso”. Sicché può anche rispecchiare, se leggiamo in chiave metaforica le rappresentazioni specifiche, una situazione non soltanto italiana. Una condizione che avverte dolorosamente, mentre rivela implicitamente valori e disvalori».

Secondo Mineo – che fu allievo alla Normale dell’illustre Luigi Russo, autore di un celebre saggio su Verga «fondamento di tutte le successive letture, non poche di grande levatura» – le suesposte ragioni permettono di ravvisare nell’autore de I Malavoglia un «punto di riferimento e di partenza per tante delle nostre domande e di antichi e attuali interrogativi: il problema delle ragioni e degli esiti delle formazioni nazionali; il problema del Mezzogiorno in generale; il problema del cambiamento nel costume, nel lavoro e nei rapporti sociali o, senz’altro, il problema del cambiamento mancato; l’attenzione ai costi in termini umani delle forme o delle insufficienze o dell’assenza della modernizzazione».

Partendo inoltre dal presupposto che «le scritture letterarie dei siciliani si sostanziano spesso di memoria, una memoria solcata da un fitto reticolo di stratificazioni, intessuto di storia e mito e immagini archetipe», l’accademico ritiene «che nella narrativa verghiana si ritrovino un’attitudine e una potenza mitopoietica come in poche altre opere moderne: miti della società che si apre, o ne è investita, al nuovo tempo. Ma il mito siciliano è più materiato di terra che di cielo, più di inferno che di paradiso. Questa è la terra dove Plutone rapì Proserpina, dove Enea seppellì il vecchio padre, dove l’Etna incombe eternamente coi suoi mostri incatenati. Un luogo di paura e di morte, e, anche, di follia». Ma questa «pienezza di coscienza e di trascendimento artistico – conclude Mineo – ha bisogno di incontrarsi con tempi di intenso impegno morale e ideale e di tensione culturale», perché possa essere «veramente recepita nella sua profondità».

Ed è proprio al contesto siciliano che va pur sempre ricondotta, in ultima analisi, la narrativa verghiana come «a suo scenario naturale: i luoghi di quell’isola antica e densa di consapevolezze ancestrali, in cui si muovono i vinti e i vincitori e in cui si compone la biografia dell’autore». A evidenziarlo al nostro giornale è Paolo Patanè, coordinatore dei Comuni Unesco della Sicilia, secondo cui «il Centenario di Giovanni Verga ha così un programma che mi sembra ancora più ambizioso. Esso può infatti indagare nel genius loci di quella Sicilia per provare a raccontarne e, magari, mutarne la contemporaneità».

C’è infatti un drammatico e impellente bisogno «per un’isola “varia, multiplex, multiformis”, ma impoverita economicamente e socialmente: la necessità di riappropriarsi di una cultura resiliente e di celebrare la memoria di Verga non come evento per pochi eletti e appassionati, ma come generatore di nuove passioni in un vero processo di comunità».

Considerazioni, quest’ultime, che sono però maggiormente valide sia l’intera penisola sia al di là dei suoi confini, essendo l’intera produzione verghiana tutt’altro che localistica ma di respiro, in un certo qual senso, universale. Ecco perché è necessario, più che mai in questo centenario, ripartire innanzitutto dalla lettura delle opere del genio verista. Una lettura che non si fermi ai celebri romanzi come I Malavoglia e Mastro don Gesualdo o ad alcune acclamate novelle. Ma che investa l’intera produzione verghiana. Si potranno così scoprire perle di rara profondità e attualità qual è, ad esempio, Tentazione!, racconto di stupro e femminicidio (e, ancor più, terrificante affresco della patologia del desiderio) che, contenuto nella raccolta Drammi intimi (1884), si conclude così: «Quando ripensavano poi […] com’era stato il guaio, gli pareva d’impazzire, una cosa dopo l’altra, e come si può arrivare ad avere il sangue nelle mani cominciando dallo scherzare».

Come spiega a Linkiesta la scrittrice Nadia Terranova, il cui ultimo romanzo Trema la notte uscirà il 22 prossimo, «in quelle due righe finali c’è, a mio parere, tutto. C’è quello che accade veramente e non vorremmo. Perché, in un secondo tempo, non vorremmo pensare che possa succedere tutto ciò: che dallo scherzare, cioè, si arrivi al sangue. Ma io credo che ci sia in questa novella, perfetta e agghiacciante, tutta la parabola dell’inconsapevolezza, di essere portatori di una cultura patriarcale e di esserlo profondamente dentro, di credere davvero di scherzare con una donna che viene oggettivata. E poi di avere paura perché si sente che quell’oggetto si sta ribellando, perché non è un oggetto ma una persona. E di lì a scivolare nel crimine. Sì, davvero Tentazione! è una novella perfetta ma agghiacciante».

Centenario dalla morte di Giovanni Verga: letteratura verista ben oltre quei “vinti”. Lo scrittore siciliano ha avuto una sorprendente e immensa produzione letteraria ma non solo: ha filtrato anche col cinema e la fotografia. Carmelo Fucarino su La Voce di New York il 27 gennaio 2022.

In occasione dei Cento Anni dalla scomparsa di Giovanni Verga, il Ministero dello Sviluppo Economico svela il francobollo ufficiale del Centenario, promosso dal Festival Verghiano e Dreamworld Pictures organizzatori della Manifestazione Nazionale "Verga 100" che proporrà per il 2022, tutta una serie di attività dedicate al celebre Scrittore Vizzinese. Un momento importante che il Direttore Artistico Lorenzo Muscoso definisce "essenziale per la crescita intellettuale del Paese che glorifica uno dei massimi esponenti della Cultura Nazionale e messaggio utile alle nuove generazioni e in particolare giovani, e che nonostante sia passato un secolo, la sua moralità è oggi di grande attualità" . Si ricordano i vari appuntamenti di oggi, che si svolgeranno online, che prevederanno tanti video contributi da artisti, tra cui Placido Domingo, Pasquale Scimeca, Antonio Ciurca, Salvo La Rosa, Giuseppe Castiglia e le nuove trasposizioni di film teatro, quali Jeli il Pastore, Cavalleria Rusticana, La Lupa, girati nei scenari autentici di Vizzini.

Per noi generazione tra lo spirare del fascismo e i bagliori dell’ultima guerra, la neonata Repubblica ci accolse con l’aurora di sublimi speranze, tra salvezze giurate come realizzate e purtroppo con un sistema politico che restò costruito sul congenito «bisogna cambiare tutto affinché nulla cambi». Su quel piazzale di Loreto fece mostra oscena quel corpo capovolto, mentre la struttura statale, burocrazia e dirigenza con il pretesto della pacificazione rimase al suo posto (Decreto presidenziale di amnistia e indulto per reati comuni, politici e militari del 22 giugno 1946, proposto dal ministro di Grazia e Giustizia del primo governo De Gasperi, Palmiro Togliatti, segretario del PCI, evitando così l’epurazione di dirigenti e magistrati). L’inconfessabile e imperdonabile peccato originale di questa repubblica dilaniata da oscuri assassini e terrorismi di marca ignota.

E giovani ci accolse ancora la scuola giolittiana classista, quella che distingueva tra il classico della classe dirigente, lo scientifico e magistrale, innumerevoli sezioni dei tecnici, che dal nome si qualificavano per se stessi. Perciò noi del classico abbiamo avuto come guida poetica per una quindicina di canti all’anno Dante con le sue tre cantiche, affrontato con parafrasi, vere e proprie traduzioni di una lingua ignota non solo ai siciliani, ma anche ai Lombardi. Per altro in genere odiati, ma comunque sempre imposti e sentiti con il peso di essere scolastici, cioè soggetti all’interrogatorio. Così l’impareggiabile narrativa di Boccaccio, la poesia di Ariosto e in terzo anno a chiusura l’opera di Verga, diciamo più precisamente I Malavoglia. Questo era stato il nostro impatto con la narrativa laica, avendo affrontato divisi nei due anni del Ginnasio I promessi sposi come opera di formazione culturale, ma soprattutto come educazione interiore. 

Questa premessa era necessaria dopo il trionfalismo e l’elefantismo delle Celebrazioni dantesche, universali e immense per estensione cronologica e globalismo spaziale. Ancora oggi Dante è rappresentato come il padre della lingua e della cultura italiana a cominciare di tale collocazione dalla unificazione sabauda attraverso fascismo ed era democristiana.

Perciò, a parte i bislacchi precorrimenti dei ricconi del moderno capitalismo, gli Elon Musk dello spazio, i Bill Gates e Zuckerberg e i Bezos, evocati ad esempio di mastro don Gesualdo o della roba da Francesco Merlo (Robinson, 22.1.22), non per puro campanilismo, avrei voluto che maggiore risonanza assumesse la Celebrazione del primo Centenario della morte di Giovanni Carmelo Verga, nobile dei baroni di Fontanabianca, titolo che mai ostentò in anni in cui contavano i fregi nobiliari, nato a Catania il 2 settembre 1840 e qui tornato per morire il 27 gennaio 1922. In genere il Verga ostentato come classico scolastico e noto ai molti che tali studi compirono è quello del ciclo dei “Vinti”, e specificamente da I Malavoglia (Milano, Treves 1881) di padron ‘Ntoni e della sua sventurata “Provvidenza” ironico appellativo dati i risultati, ma anche dal Mastro-don Gesualdo (Milano, Treves, 1889), poco letti i capitoli dell’incompiuto La duchessa di Leyra. Eppure Verga è questo e molto altro ancora.

Cominciamo dal genere letterario più noto, il romanzo. Guida il monumento unico di Manzoni uscito in diverse edizioni (1825 e 1827, 1840 e definitiva 1842), la scelta di campo di Verga era avvenuta ad appena sedici anni sulla scia patriottica e del romanzo storico con Amore e Patria ed era proseguita tra il 1861 e il 1863 con I carbonari della montagna, in 4 volumi, e Sulle lagune. Il passaggio a Milano aveva operato una netta conversione alla corrente degli Scapigliati che furoreggiava nel salotto Maffei e in questa linea erano usciti e gli avevano dato celebrità negli ambienti letterari milanesi i romanzi, Una peccatrice del 1866, Eva del 1873, Eros e Tigre reale del 1875, infine già in fase di transito e di scelta estetica al verismo, Il marito di Elena del 1882.

Erano venuti poi i grandi del ciclo dei “Vinti”, ma fuori linea e precorritrice di altri tempi era uscito ancora con l’editrice Treves Dal tuo al mio, dramma nel 1903 e romanzo nel 1906, pessimistica lettura di un esito positivo dei conflitti sociali. Sarebbe troppo complesso e non lo permette l’economia dello spazio citare tutta la sua immensa produzione novellistica, dalla Nedda, a Rosso Malpelo a La lupa, a La roba. Ricordiamo le sintesi di Vita dei campi (1880) e Novelle rusticane (1883), uno scenario che coinvolge tutta la società del suo tempo, non solo quella siciliana.

In effetti il Verga è stato messo al centro di tante letture e rivisitazioni, sia come trasposizione teatrale, sia nelle svariate versioni cinematografiche che rimarcavano l’ambientazione verista. Prima fra tutte quella Cavalleria rusticana (Victorin Jasset, Ugo Falena, Ubaldo del Colle, Liliana Cavani), ma anche la Storia di una capinera sulla linea larmoyant alla Caterina Percoto. Perciò mi voglio soffermare sul suo rapporto speciale con il cinema. È noto che tra il 1912 e il 1914 affidò a De Roberto alcune sceneggiature cinematografiche, nonostante la sua idiosincrasia per il genere, prima fra tutte la sua Capinera che in chiave verista e patetica riprendeva la storia manzoniana della monaca di Monza e dell’amore dopo la monacazione forzata. Da lì a poco Luigi Pirandello avrebbe affrontato la questione della nuova Musa del Novecento nel romanzo Si gira… (sempre da Treves editore, 1916), evoluto in Quaderni di Serafino Gubbio operatore del 1925, in cui il cinema assume la forma del thriller con la vera uccisione sul set, mentre il cineoperatore confessa, “Finii d’esser Gubbio e diventai una mano”.

In una scoperta postuma di Verga mi ha stupito e affascinato come completamento e sussidio alla lettura sociale, avveniristica e strabiliante per i tempi, il suo amore per la fotografia. Nata nel 1839, approdò in Italia proprio con la “triade” di Catania, Luigi Capuana dal 1863, Verga dal 1878, che coinvolsero anche Federico De Roberto. Verga condannò in Capuana questa passione fanatica come “perdita di tempo”, anche se dovette ammettere che non era sfuggito al contagio fotografico: «vi confesso che questa della camera nera è una mia segreta mania».

Rimasta completamente ignota, intorno al 1970 furono scoperte in una cassetta della sua casa lastre fotografiche in mezzo a foglietti con indicazioni del soggetto, ora nel Fondo Verga 740 foto dal 1887 al 1902: la sua città, i contadini, i campieri, gli amici del Sud e del Nord, le donne di casa, i bambini e le ragazzine, i servi e i padroni, autoritratti e foto della famiglia, sfocature comprese, i personaggi dei suoi libri, foto che portava sempre con sé a Milano, a Firenze e a Roma (Wladimiro Settimelli, Le fotostorie. Il “verismo”: Verga e la fotografia, 18 febbraio 2007). È il documento più sconvolgente di quegli anni, il vero mondo dei “vinti” più tragico e dolente che mai sia stato impresso su una lastra, in emulazione con le foto di Zola e di Strindberg ed in sintonia con il teorema dell’impersonalità dell’arte secondo i canoni del verismo di Capuana. In anticipo del “Viaggio, racconto e memoria” siciliani di Ferdinando Scianna, dei documenti memoriali di Letizia Battaglia, di Enzo Sellerio e Nicola Scafidi. Si trattava di quella rêverie che fra l’aristocrazia milanese e l’imitazione dei bohémiens, tisici abitanti di soffitte, quella Sicilia che gli sarà soggetto amato e rimpianto della sua migliore produzione, la nostalgia che diventa opera d’arte.

Sarebbe anche l’ora di rilevare la perenne opera di evoluzione politico-sociale di Verga, la vasta produzione di carattere sociale, narrativa e drammatica (per tutti Dal tuo al mio, Milano, Treves, 1906), anche se alla fine aderì alla linea interventista ed ebbe qualche simpatia per il primo fascismo. Proprio il dicembre scorso sono state pubblicate da Massimo Bonura dei supposti probabili articoli giornalistici, Verga e i mass media: il giornalismo politico-teatrale e il cinema, (Palermo University Press, 2021), circa cinque, con un sorprendente stile ironico e spiritoso, in cui si rivelava la posizione critica nei riguardi del governo e della destra storica di Marco Minghetti, la sua posizione filo-unitaria (“Smettete ogni viltà – si legge nell’editoriale attribuito a Verga – e ridate all’Italia Roma e Venezia! Ascoltate un consiglio: ritiratevi!”) ed anticlericale, ma esprimeva anche notazioni estetiche nella scelta della narrativa rispetto alle arti “minori”. In breve possiamo dire che senza il processo culturale di Verga, non esisterebbe oggi una narrativa italiana, anche con le grandi opere di Massimo d’Azeglio (Ettore Fieramosca, 1833), ma anche quelle del  teorico del verismo Luigi Capuana da Giacinta (1879) a Profumo (1892) al celebre incompiuto Il marchese di Roccaverdina (1900).La strada della grande letteratura siciliana di Leonardo Sciascia, di diffusione mondiale, proprio a cominciare dal quella di Camilleri non avrebbero avuto luce. Senza dimenticare la lettura sociale del don Fabrizio di Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi, con tutti i proseliti ed imitatori di nuovi linguaggi dialettali dal sud al nord e di stretto vernacolo, riversatisi anima e corpo alla caricatura poliziesca senza alternativa. Il siciliano di I Malavoglia aveva un suo fascino e una sua caratura letteraria unica ed inimitabile. Mi perdoni Sciascia, che pur ha saputo cogliere il ritmo unico ed eccezionale della parlata siciliana in tutte i suoi generi letterari nessuno escluso con quel soggetto al termine della proposizione (alla tedesca?), mi scusi, ma il suo ché (accentato) per il letterario “perché”, non ha nulla a che vedere con il “che” verghiano che traduceva il “ca” siciliano.

Carmelo Fucarino, siciliano di Prizzi, dopo essersi laureato in lettere classiche nell’Università di Palermo, ha insegnato lingua e letteratura latina e greca presso il Liceo classico «G. Garibaldi» della stessa città. Sensibile alla poesia, ha pubblicato liriche e dato contributi a riviste del settore letterario italiano, svolgendo un’ampia e continua attività di saggista nel campo degli studi classici. Oggi ha ampliato il suo campo di indagine alla storia locale all’etnologia e alle tradizioni popolari siciliane.

·        Giuseppe Pino.

Simone Mosca per “il Venerdì di Repubblica” il 30 luglio 2022.

Chissà se ormai ricorda che più e più volte fu chiamato a fotografare Gianni Agnelli, con cui al di là degli impegni di lavoro condivise pure qualche serata dall'altra parte dell'Atlantico, sodale di feste ammesso nella cerchia di conoscenti di fiducia da Mister Fiat che certo non si consegnava al primo "paparazzo" di passaggio. 

E se ricorda che una sera dell''83 - sempre a New York ma al Giants Stadium, dove era andato ad applaudire il Cosmos in cui incassavano il loro tramonto dorato nel soccer a stelle strisce, tra gli altri, Beckenbauer, Chinaglia e Pelé - sedendosi e notandolo l'Avvocato lo salutò: «Ciao Pino» urlò facendo ciao con la mano e regalandogli l'ammirazione di mezza tribuna.

«Le mie azioni salirono discretamente» scriveva appena qualche anno fa a proposito dell'episodio. Uno dei milioni che probabilmente Giuseppe Pino, obiettivo milanese classe '41 che dai Sessanta e fino a poco oltre gli anni Dieci del 2000 ha immortalato buona parte del Pantheon del Novecento e un filo oltre per copertine, reportage, libri e pubblicità, avrà purtroppo scordato. 

Ennesima diapositiva di un'esistenza inghiottita dal buco nero dall'Alzheimer. È dal 2019 che, quello che a lungo è stato tra i più prolifici e pubblicati fotografi italiani, bell'uomo (netta la somiglianza con Angelo Infanti, l'indimenticabile seduttore di Magda in Bianco, Rosso e Verdone), fiero viveur che dava del tu a Stan Getz e Aretha Franklin e che per manifesta e consapevole bravura ostentava l'aria del burbero underdog irriducibile a un genere o a una testata, è ricoverato in clinica.

Prima al Redaelli di Milano, poi in un istituto di Bellagio sul Lago di Como. Con dolce vista sull'acqua cheta, forse, ma senza parenti o amici, affidato all'autorità di un giudice tutelare dopo essere stato trovato in stato confusionale poco lontano da casa da una ragazza di passaggio. O dopo aver gettato dal balcone delle pallottole di carta fatte con lo scotch. Come biglietti d'aiuto senza alcuna sintassi. Niente più memoria, né privata né pubblica.

«Qui parliamo di un archivio che, restando al jazz, conta 70 mila scatti e che, a spanne, nel complesso, arriva almeno a 300 mila». 

La memoria dei fotografi, volendo, resta. Max Villani, artista, nato anche lui a Milano cinquant' anni fa, per quasi venti, tra i 90 e fino a oltre il 2010, di Pino era assistente. Avevano litigato («per un'inezia sul set di un film di Ezio Greggio con Mel Brooks») e Max se ne era andato per la sua strada, anche lui a New York come il "maestro".

Quando ormai forse era semplicemente troppo cresciuto per rimanere a bottega. Un giorno di tre anni fa, dopo aver inviato mail che mai avevano ricevuto risposta, tornando in città si presentò in via Santa Sofia, pregiata circonvallazione a ridosso del centro, a citofonare per fare pace con Pino. Così lo chiamavano tutti, non solo l'Avvocato. «E scopro tutto. E mi faccio dare il numero del tutore, lo incontro, gli spiego chi sono, gli dico anzitutto che voglio andare a Bellagio». 

Nel pieno dell'emergenza Covid, Max riesce, coi vaccini Usa mezzo buoni e mezzo no in Italia, ad essere ammesso nella clinica sul Lario. Si porta dietro però una paura più grande di Pfizer e compagnia. Verrà riconosciuto dal vecchio amico? «Ciao Max, quanto tempo, ma non eri a New York?». Piansero in due, poi Pino iniziò a parlare un po' in francese e un po' in inglese. Max promise di portarlo via e di proteggere la sua memoria ancora archiviata a Milano.

Giuseppe Pino purtroppo è ancora a Bellagio, Max Villani per fortuna è ancora a Milano, all'opera in via Santa Sofia su incarico ufficiale del giudice che gli ha affidato il compito di ordinare provini, immagini, scatti ma anche libri, dvd, altre collezioni. Un lavoro che dura da mesi e ne durerà altri probabilmente. 

«Io di Giuseppe Pino nasco ammiratore» ricorda Villani di quando aveva appena dieci anni e in via Santa Maria Fulcorina, dove abitava con la madre, non aveva occhi che per un vicino soltanto: «Per quel fotografo che tornava a casa sempre con una modella diversa».

Giuseppe Pino, anche quando ricordava tutto, non ha mai amato parlare della vita precedente la professione.  Figlio di un siciliano e di una svizzera, le cronache ufficiali sulla sua vita risalgono al 1966-1967, quando da "autodidatta" fu preso nella squadra di Panorama.

Per sincero amore musicale, si fece strada anzitutto infilandosi per vent' anni in camerini leggendari e di solito inaccessibili (fare amicizia, sedurre, era la dote che precedeva il gusto per l'inquadratura di Pino) collezionando da Miles Davis a Duke Ellington un campionario di mostri sacri. E nel frattempo, iniziando ad amare le Saab (e solo quelle, non avrebbe più guidato altro), allargò i propri orizzonti iniziando a immortalare il mondo ben oltre i concerti. Come, da memorie raccolte nel libro monografico Giuseppe Pino. The Way They Were (Damiani), nel 2014 uno degli ultimi lavori di Pino e Villani in coppia, Vladimir Nabokov sbucato dall'ascensore di un albergo svizzero coi guanti da pugile per ravvivare l'atmosfera.

O Jacques Tati atterrato a Milano l'anno dopo per presentare Trafic, suo ultimo film. «L'unica volta che rinunciai a curare la regia delle foto di fronte a un genio». O come Silvio Berlusconi nel '77, in posa col pollice alzato e con, alle spalle, dei libri finti. Pino gli chiese se provava a lungo le espressioni di fronte allo specchio. «Lei allora se ne intende» rispose l'allora costruttore di Milano 2 e 3. «Ma perché mi ha scelto come fotografo?» chiese Pino. «Perché lei è il fotografo di Agnelli» rispose il soggetto. La fattura inviata ad Edilnord non fu mai saldata. 

E ancora: Mariangela Melato che galleggia nel 1982 sull'Hudson come fosse una spensierata esordiente, Alberto Moravia nel 1985 a Roma, come da ritratto, cupo anche perché l'assistente di Pino stava per scassare un Guttuso mentre lo spostava da dietro la scrivania dello scrittore. «È per la luce, maestro». O Andrea Pazienza, 1986, che gli lasciava una caricatura con numero di telefono e indirizzo: «Vienimi a trovare presto in Toscana». Non ce ne fu il tempo.

Giorgio Armani e Marcello Mastroianni, Gianni Versace e Luca Ronconi, Pier Paolo Pasolini e Hugo Pratt, Bob Wilson ed Eduardo De Filippo, Carlo De Benedetti ed Eugenio Scalfari, Pedro Almodóvar e François Truffaut, Jane Birkin e Akira Kurosawa. Frank Zappa in Brera, Bettino Craxi in studio in una posa che (si dice) sarebbe servita per il Craxi a disegni spogliato da Forattini. A partire dalla seconda metà degli anni 90, Pino si concesse sempre più spesso a pubblicità e servizi commerciali per mettere soldi da parte.

La pensione non è stata quella che probabilmente desiderava. Cosa ne sarà della memoria che rimane? «Vorrei fondare un'associazione che si occupi della conservazione e della valorizzazione dell'archivio». Il pericolo è che una scelta avventata porti alla vendita dei materiali che potrebbero venire ceduti ad agenzie e banche di immagini. Si rischierebbe di perdere due volte la memoria di Pino, che sta a Bellagio ma che nel 1970, circondato da 400 mila cubani, colse in un comizio notturno Fidel Castro circondato come da un'aureola. A Pino chiesero in che studio avesse scattato la foto. Se se ne ricordasse, risponderebbe che il trucco non c'è, era tutto vero.

·        Giuseppe Prezzolini.

Così il Prezzolini d'America diventò più conservatore e meno anarchico. Il ruolo dello Stato federale, la difficile gestione del melting-pot, la scelta decisiva (e profetica) da fare tra libertà e sicurezza. Luigi Iannone su Il Giornale l’1 Dicembre 2022

Anarco-conservatore e non reazionario. Questa precisazione Giuseppe Prezzolini l'avrà fatta mille volte, nel tentativo di contemperare il primato dell'individuo e della sua libertà al senso della comunità e dei valori tradizionali. Resterà per tutta la vita anarchico rispetto alle irreggimentazioni, ai cliché dettati dalle mode, alle lusinghe del potere, ma il suo profilo culturale sarà via via declinante verso il conservatorismo. Lo scopre quando inizia a ridare dignità all'opera politica di Giolitti, che in gioventù era stato il suo bersaglio preferito, ma consoliderà tale metamorfosi durante il lungo periodo all'estero.

Il Pensiero Storico, la Rivista internazionale di storia delle idee diretta da Danilo Breschi, dedica al tema un Quaderno di approfondimento (Da rivoluzionario a conservatore. Giuseppe Prezzolini nell'America di Truman, IPS edizioni) perché il lavoro alla Columbia University, dove Prezzolini si era recato nel 1923 per tenere lezioni sulla letteratura italiana nei corsi estivi rimanendovi fino al 1962, rappresenta la chiave di volta per l'ulteriore sviluppo del suo senso realistico, l'avvicinamento alla cultura liberale e la comprensione di quel modello sociale.

L'idea che i professori vengano reclutati su chiamata personale e che le università siano aperte a tutti, anche a quelli senza diplomi, gli pare elemento simbolico e rappresentativo dell'intero quadro sociale. Con La Voce aveva denunciato la burocrazia pachidermica dell'Italia giolittiana, e ora si trova di fronte a strutture libere, dove la nomina dei professori avviene senza garbugli di alcun tipo. Ma non sarebbe il Prezzolini che tutti noi conosciamo se non intuisse anche delle crepe, delle tendenze di fondo che navigano sin da allora sottotraccia per poi talvolta spuntare fuori e che qui di seguito riassumiamo brevemente.

PATERNALISMO La grande depressione degli anni Trenta e lo sforzo bellico consegnano a Truman una società che, per richieste e aspettative, a Prezzolini sembra voler rassomigliare a quella europea. La democrazia statunitense fondata su larghi ambiti di autonomia vede progressivamente crescere l'intervento dello Stato federale nel mercato del lavoro. Anche la predisposizione dei lavoratori all'adesione ad organizzazioni di rappresentanza è fatto inedito: «l'antico individualismo si è smorzato per obbedire alla tendenza della maggioranza verso la sicurezza sociale e lo Stato paternalistico; lo Stato federale ha cresciuto le funzioni e moltiplicato gl'impiegati, è diventato il più grande banchiere e il più grande industriale del paese».

IMPERIALISMO In America in pantofole. Un impero senza imperialisti, libro del 1950, racconta di cittadini riottosi ad assumere il fardello di un Paese non più isolazionista, ma arbitro delle controversie mondiali. Il nuovo status mentale apre però a nuovi pericoli: «Il primo della classe ha la convinzione d'essere imparziale e giusto, anzi la giustizia in persona protetta da Dio; ma ciò non toglie che quando dà torto a uno e ragione a un altro, quello che ha avuto il torto faccia il muso».

MORALISMO L'idea di considerare i problemi politici mai separati dal loro aspetto morale è un altro limite che diverrà strutturale nel tempo, così come «la credenza razionalista che basti l'etichetta di democrazia per sanare i mali politici del mondo».

ANTIAMERICANISMO Dalla Guerra Fredda all'America post-11 settembre riecheggia lo stesso angosciante interrogativo: «Che cosa abbiamo fatto per essere odiati?». Prezzolini intuisce che sarà un dilemma di difficile soluzione perché gli americani, abituati a non sentirsi imperialisti ma ad assecondare l'idea che «facendo carità a tutti i paesi del mondo sarebbero stati considerati con rispetto e con affetto», non afferrano i motivi dell'ostilità.

MANCANZA DI SENSO STORICO La certezza di essere l'apice della civiltà si abbina alla convinzione che i risultati di questo avanzamento vadano imposti in ogni direzione, in specie alla politica di immigrazione. Ma le difficoltà del melting pot americano, a detta di Prezzolini, nascono proprio dal pregiudizio di ritenere che «basti l'accettazione esterna di alcuni principi astratti per formare un popolo» e che «si possano fondere insieme persone che si son formate in un differente modo, con diverso corpo, con diversa religione, con altre regole di vita, con un proprio modo di mangiare, soltanto facendole convivere in una società fondata su dei principi astratti edonistici e utilitari».

LIBERTÀ VERSUS SICUREZZA Terrorismo islamico e pandemia hanno svelato all'Occidente una contrapposizione che Prezzolini aveva già presagito come fondamentale già allo scoppio della Seconda guerra mondiale: «alcuni seguaci della libertà dicono che essa può stare insieme con la sicurezza, ma questo è un assurdo ottimistico. Ora posson sussistere ancora libertà e sicurezza, perché il conflitto non è ancora acuto, e la sicurezza non si è sviluppata con tutte le sue pretese, ma quando domani avverrà l'urto la maggioranza dei cittadini dovrà decidersi se vuole avere la libertà con i suoi rischi economici, oppure la sicurezza con la mancanza di libertà che porta con sé».

Prezzolini? Il più inutile agli italiani relegato negli scaffali dei Carneadi. Quarant'anni fa a Lugano la scomparsa del grande pensatore del Novecento. PIETRANGELO BUTTAFUOCO su Il Quotidiano del Sud il 10 Luglio 2022.

Il più inutile agli italiani è Giuseppe Prezzolini (Perugia, 27 gennaio 1882-Lugano, 14 luglio 1982), lo scrittore, il saggista e l’editore meritatamente collocato tra i vertici del pensiero nel Novecento.

Scientemente relegato nella scaffalatura remota dei Carneadi, nell’improvviso degli anniversari – a quarant’anni dalla morte – a lui si destina la scocciata domanda: “Chi era costui?”.

Cancellato senza neppure sforzarsi nella cancel culture, Prezzolini è però quel che gli italiani pensano che solo un Antonio Gramsci sia stato: l’organizzatore culturale, il teorico del pensiero conservatore, lo stratega editoriale, l’interlocutore nella scena contemporanea di Henri Bergson, di Benedetto Croce e di George Sorel fino a diventare protagonista del dibattito sul pragmatismo negli Stati Uniti per poi chiudere la sua esistenza terrena a Lugano, debitamente a distanza da quell’Italia diventata estranea alla temperie intellettuale e artistica in cui lui – con Giovanni Papini che è Polluce – è il Castore di una certa idea della modernità. Gemellata da sempre, nel segno di Firenze, al genio.

Padrone vero della stagione più folgorante dell’officina culturale italiana, con La Voce, la rivista più strapaesana e dunque più internazionale, autore – tra i tantissimi titoli – del preveggente “L’Italiano inutile”, nella sequela di Machiavelli e Guicciardini, Prezzolini è il chirurgo che si adopera sul vivo cascame del Bel Paese in cui il distinguo è presto detto: furbi e fessi.

Furbi e fessi, dunque. La catalogazione che Giuseppe Prezzolini fa degli italiani.

Una separazione molto più chiara di quanto possa essere stata, nel passato, quella tra Guelfi e Ghibellini, tra Orazi e Curiazi, tra Capuleti e Montecchi ma coerente con la sceneggiatura di Uomini e Caporali, il bellissimo film di Totò. Quest’ultimi – i caporali – da sempre manutengoli di un potere ulteriore, sono i terminali di una satrapia ramificata. È quella che agli uomini fa pagare sempre pegno a causa delle maiuscole, ovvero il Dovere, la Responsabilità, la Fedeltà o la Correttezza professionale, per esempio. Sono quelle stesse maiuscole tanto latrate in fureria quanto disattese alla prova dei fatti (e imposte ai fessi). Laddove quest’ultimi – gli uomini evocati da Totò – soccombono sotto l’imperio dei caporali.

Politico nel suo esito intellettuale, Prezzolini è il radar inesorabile che capta quanto di più vitale si palesa in quel secolo tanto breve quanto fondante, e perciò scopre – tra le sue “Scoperte”, oltre Croce e Papini, anche Giovanni Amendola e Mussolini ancor prima di Mussolini stesso. Prezzolini lascia l’Italia quando questa è in camicia nera e approda in America – alla Columbia University – quando Roma, grazie al suo Duce, è considerata dagli Stati Uniti come la capitale universale di un esperimento vincente: Mussolini speaks – un documentario del 1933 – è il film campione d’incassi, Balbo Drive è l’avenue di Chicago in ricordo della Trasvolata Atlantica, Prezzolini – innamorato dell’America, non dell’americanismo – è in cattedra e la guerra mondiale è ancora di là da venire.

Conoscitore della natura tutta storta degli italiani – consapevole della sapida presenza di questi nel vocabolario di tutto il mondo – anche attraverso la collaborazione con Il Borghese di Leo Longanesi, Prezzolini – ancora nel secondo dopoguerra – si lancia nella polemica. Fa proprio l’uso dell’alfa privativo introdotto da Ernst Junger, un altro collaboratore del settimanale e l’A-narca di questi, ossia lo sprezzante del potere, gli genera l’a-pota. Un altro alfa privativo per definire colui-che-non-se-la-fa-dare-a-bere.

In un’Italia dove tutti, al contrario, se la bevono, quell’a-pota è più che un ribelle. È un nemico. Prezzolini paga pegno e si merita l’oblio in ragione di un’origine, tutta nel vizio. Non è di sinistra e dunque è considerato di destra.

Una destra “che non piace neanche a destra”, per dirla con Mattia Feltri quando in un suo Buongiorno – la sua rubrica quotidiana de La Stampa – a proposito di “Un’idea insana di destra” elenca il pantheon dei bastian contrari. Da Leo Longanesi passando per Giuseppe Prezzolini fino ad arrivare a Indro Montanelli per chiedersi da quale destra discenda la destra stessa: “Anche perché non si è mai capito bene che cosa fosse la destra, dal secondo dopoguerra in poi, quando tutto ciò che risiedeva a destra del Partito comunista, compreso Bettino Craxi, veniva dichiarato tale e in un’accezione mai benevola”.

Mai benevola, appunto, l’accezione.

Il dente batte dove il riflesso condizionato vuole e Feltri, con abilità, va a pestare il nervo scoperto: la destra non piace, innanzitutto, alla destra.

Accuratamente sputacchiata dal proprio blocco sociale se si pensa che la casa borghese per eccellenza, Il Corriere della Sera, si guarda bene dal far scrivere nelle proprie pagine il borghese in assoluto più borghese, e cioè Leo Longanesi, l’uomo che ha fabbricato il giornalismo moderno e che ha creato la più vivace editoria in materia di rotocalchi, riviste e un sontuoso marchio librario ma mai e poi mai Giuseppe Prezzolini, o Giovanni Papini.

Tenuti alla larga entrambi – e con loro anche Ardengo Soffici, tra i massimi artisti innervati nella propria epoca e nella politica – dai giornali borghesi quali La Stampa, ma perfino Il Messaggero, e dalla vetrina ufficiale della cultura col “C” in maiuscolo se poi Mondadori, la casa editrice borghese per antonomasia, neppure per un istante ha mai pensato di raccogliere ne I Meridiani, la collana più rappresentativa, le opere di questi pensatori.

La sorte di Prezzolini – quella dell’esorcismo silenziatore – è la stessa in cui incappano poi, anche irregolari innocenti rispetto alle categorie politiche, come un Dino Campana, poeta vero, neppure studiato nei licei o quell’altro toscano come Indro Montanelli la cui disavventura borghese, cominciata al Corriere e poi conclusa al Giornale, si conferma nella damnatio di tutti: per la sinistra, che plaude la sua cacciata da Via Solferino, e per la destra, che non se lo trova al fianco nel berlusconismo, anzi. Da tutt’altra parte.

Quel che ci si racconta nell’ipocrisia del bla-bla ufficiale – e Dio ce ne scampi per come è narcotizzato oggi il dibattito pubblico – è pur sempre un volersela rigirare.

L’esatta scansione dei fatti – la necessaria diagnosi clinica – è un durissimo esercizio di verità. La verità del presagio sopravanza sulla realtà della cronaca e la scrittura di Prezzolini è un’architettura il più possibile armoniosa e volontariamente critica.

The Legacy of Italy è un libro che Giuseppe Prezzolini scrive nel 1948 in inglese per il pubblico americano ma che dieci anni dopo – tradotto e pubblicato da Vallecchi – sarà assai utile al lettore italiano sempre sconosciuto a se stesso in conseguenza del titolo: “L’Italia finisce, ecco quel che resta”. Una biografia della nazione, ma è una ricognizione più che una profezia, una fatica di cui – forte com’è di divinazione, inutile qual è – si fa carico ancora oggi Giuseppe Prezzolini sul come finirà, ovvero come continuerà, con quel che resta dell’Italia.

Giuseppe Prezzolini. Così "tradizionalista" da essere moderno. Luigi Iannone il 14 Luglio 2022 su Il Giornale.

A quarant'anni dalla morte il grande scrittore Giuseppe Prezzolini ci insegna ancora cosa vuol dire essere critici verso tutto, pensatori liberi e anticonformisti.

Il 14 luglio di quarant' anni fa moriva a Lugano Giuseppe Prezzolini (1882-1982). Prototipo dell'anticonformista e maestro di libertà aveva sostenuto lungo tutto il suo secolo di vita l'anomala condizione di «apota». L'intellettuale amava ripetere - deve mettere tutto in discussione, comprese, se occorre, la patria e la madre.

La sua produzione saggistica lambì infatti un cinismo ossessivo e, per taluni, fin troppo indisponente, ma sempre assecondata da scelte di vita conformi e da una prosa dal taglio divulgativo mai caduta nella trappola del manierismo o in funambolismi retorici. Poco più che ventenne dedicò le energie a un'impresa ciclopica: svecchiare la cultura italiana per connetterla alle avanguardie europee, far pulizia del vecchio ciarpame accademico e del positivismo. Protagonista insieme a Giovanni Papini della straordinaria stagione delle riviste (Leonardo, Il Regno, Lacerba) ebbe la forza di mettere in piedi La Voce, una palestra di libertà in cui confluirono tutti gli spiriti controcorrente (Soffici, Serra, Palazzeschi, Mussolini, Salvemini, Lombardo Radice, Cecchi, Borgese, Einaudi, Missiroli, Murri, Rebora, Slataper, Stuparich, Ungaretti, per citarne solo alcuni) e si agitarono questioni rilevanti e/o addirittura inedite come il modernismo, il pragmatismo, il sindacalismo rivoluzionario, la questione meridionale, il suffragio universale, le teorie di Pareto e Mosca sulla circolazione delle élite e la polemica sull'idealismo tra Croce e Gentile.

Nel giro di qualche anno si rese però conto che il morbo del conformismo non riguardava solo le élite intellettuali ma tutta la nazione. L'atavica mollezza del carattere degli italiani e la consolidata pratica a uniformarsi a mode e parole d'ordine della maggioranza stava diventando scenario paralizzante in cui a farla da padrone erano atavici difetti come la furbizia, la vigliaccheria e il menefreghismo. Difetti che deludono le aspettative di rinnovamento e diventano prima materia della trilogia di guerra (Dopo Caporetto, Vittorio Veneto e Il codice della vita italiana) e poi di tanti altri pamphlet pubblicati in epoca repubblicana. Descriverà l'eterna storia di un paese lacerato tra furbi e fessi, in cui «non si può ottenere nulla per via legale, nemmeno le cose legali perché anche queste si hanno per via illecita: favore, raccomandazione, pressione, ricatto, eccetera».

Fu il vero scopritore di Benito Mussolini («Partito socialista ti espelle. Italia ti accoglie») ma odiato prima dai gerarchi e poi dagli antifascisti. E fu il primo a sostenere la necessità del revisionismo storico. Quando tutti esaltavano la romanità lui ne smontò le basi teoriche («Gli Italiani son artisti, e i Romani non lo furono altrettanto; sono anarchici, e i Romani crearono il culto della legge»). Fece lo stesso con la mitologia risorgimentale («La borghesia italiana impose il Regno d'Italia al popolo italiano, proprio come un conquistatore straniero impone il regime che desidera») e con l'antifascismo («Coloro che sognano di ricominciare dal passato sono mitofagi, come gli antifascisti fuoriusciti, che non sanno dire una parola che mostri di capire che le soluzioni del futuro saranno profondamente differenti da quelle presenti. Minacciano, se vincono di essere oltrepassati»).

Il suo essere controcorrente derivava da una premessa teorica irrinunciabile: a problemi nuovi occorrono risposte nuove ma ispirate a principi immanenti. Ecco perché si definiva un anarco-conservatore e scelse come maestro politico Nicolò Machiavelli. Entrambi demolivano l'utopismo e le ideologie intente a modellare uomini buoni e giusti. Cosicché riparare nel realismo politico e in un sano individualismo che non scadesse in egoismo sociale diventò il passo dell'età matura: «Lo Stato mi par utile, anzi necessario, come è necessaria la latrina di casa».

Una simile esistenza non poteva che essere giocata tutta da solo e questa visione elitaria dell'impegno, diversa dalla strategia gramsciana e senza referenti politici e partiti di riferimento, non gli fu perdonata. E mentre quasi tutti gli intellettuali facevano da scendiletto alla Dc e al Pci, lui ribatteva con dose maggiore di sarcasmo: «Tra la sagrestia e la camera del lavoro preferisco la cantina».

Scelse l'esilio volontario negli Usa e poi in Svizzera, ricevendo la tessera di giornalista superati gli ottant' anni, quando oramai personalità come Montanelli, Spadolini e Longanesi lo consideravano da tempo un maestro.

Cosa avrebbe detto di un tempo come il nostro in cui dominano cancel culture, schwa, gender fluid? Beh, basta rileggere qualche rigo di Ideario: «Per essere moderni non occorre scrivere in modo da non essere intesi; per protestare contro le ingiustizie sociali non si devon portare i capelli lunghi e la biancheria sporca; per provar l'uguaglianza dei sessi non è necessario che si invertano i sessi; per mostrare l'apertura della mente, non c'è bisogno che si adottino costumi di altri popoli; per confermare la propria religione, non è richiesto che si accetti la religione degli altri».

 Rivoluzionari, cattolici, anarchici ed elitari. Il pantheon è questo. Francesco Giubilei il 14 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il conservatorismo ha tante facce e va da Gioberti e Croce fino ai giornalisti-intellettuali di destra

Se Giuseppe Prezzolini ha rappresentato nel '900 una figura centrale per il conservatorismo italiano, nel secolo scorso è esista una tradizione di pensiero conservatore caratterizzata da numerose figure di primo piano. Sebbene in Italia il termine conservatore non abbia mai goduto di buona stampa (d'altro canto già Leo Longanesi affermava «Sono un conservatore in un Paese in cui non c'è nulla da conservare»), è possibile tracciare un pantheon del conservatorismo italiano pur con alcune necessarie precisazioni.

In Italia il conservatorismo è stato spesso identificato come un'area culturale legata al mondo americano e anglosassone, anche se esiste una tradizione latina con proprie specificità. Dovendo riscontrare una genesi del conservatorismo italiano, possiamo identificarla già nell'antica Roma con il concetto di mos mairoum e nel Medioevo cristiano in cui si forma l'identità italiana ma anche nelle figure di Giambattista Vico e Vincenzo Cuoco, nel pensiero di Giacomo Leopardi e nel Del Primato morale e civile degli italiani di Vincenzo Gioberti.

Eppure è nel '900 che si concretizza un pensiero conservatore ben definito a partire dalla pubblicazione de La filosofia di Marx di Giovanni Gentile (uscito nel 1899) e Materialismo storico ed economia marxista di Benedetto Croce pubblicato l'anno successivo. Sebbene né Gentile né Croce siano stati conservatori tout court, troviamo in loro tratti di conservatorismo (come nel Perché non possiamo non dirci cristiani crociano). D'altro canto, a posteriori si possono individuare nel pensiero di autori che in vita non si sono definiti conservatori, posizioni vicine al conservatorismo, non essendo un'ideologia ma uno stato di natura e un modo di essere.

Fucina del pensiero conservatore nostrano a inizio secolo sono le riviste letterarie fiorentine, dal Leonardo a La Voce passando per Lacerba, con i rispettivi protagonisti e il trittico Prezzolini, Giovanni Papini e Ardengo Soffici.

Come parlare di una singola destra sarebbe sbagliato poiché esistono tante destre, allo stesso modo il conservatorismo non è un monolite, lo testimonia l'esistenza di un pensiero rivoluzionario conservatore che, sebbene sia nato in Germania nei primi anni Venti del '900, si sviluppa anche nella penisola. Riferimento è il movimento di Strapaese rappresentato da Mino Maccari, Curzio Malaparte e Leo Longanesi e le rispettive riviste Il Selvaggio, Italia Barbara e L'Italiano (antesignano di questo filone è il romagnolo Alfredo Oriani). C'è anche un conservatorismo cattolico il cui principale esponente è Augusto Del Noce, uno nazionale rappresentato da Enrico Corradini, uno estetico incarnato da Mario Praz e uno contrario alle derive della massa interpretato da Panfilo Gentile. Non a caso i teorici delle élite, Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca e Roberto Michels, costituiscono un riferimento indiscutibile.

Un contributo spesso sottostimato nella diffusione della cultura conservatrice lo hanno avuto gli editori a partire da Attilio Vallecchi, passando per Giovanni Volpe nel dopoguerra e Alfredo Cattabiani come direttore editoriale della Rusconi, oltre a Leo Longanesi, al quale si deve la rivista Il Borghese (trampolino di lancio per Gianna Preda) e il ruolo insuperabile di scopritore di talenti tra cui Ennio Flaiano. Sorte diversa toccò a Giuseppe Tomasi di Lampedusa il cui Gattopardo (romanzo a tutti gli effetti conservatore), fu pubblicato da Giangiacomo Feltrinelli. Se i temi affrontati nei libri di Guido Piovene, Carlo Sgorlon e anche Dino Buzzati con i suoi racconti intrisi di spiritualità (lo spiega la critica di Fausto Gianfranceschi all'autore bellunese) rientrano in una visione del mondo conservatrice, lo è senz'altro il piccolo mondo antico dell'autore italiano più venduto al mondo: Giovannino Guareschi.

Che dire poi del mondo giornalistico? Sarebbe sufficiente citare l'anarco conservatore Indro Montanelli ma non si può dimenticare Giovanni Ansaldo, così come il direttore del Corriere della Sera Mario Missiroli.

Essere conservatori significa avere a cuore la forma tanto quanto la sostanza, vuol dire amare l'eleganza, la bellezza, l'educazione, rispettare la natura e il sacro, credere nello spirituale ancor prima che nella vita materiale, conservare la propria identità proiettandola nel futuro, amare la patria e la famiglia, difendere i più deboli, rispettare la legge, credere nel principio di autorità. Essere conservatori è prima di tutto uno stile di vita e, chiunque incarni questi valori, rientra di diritto nel pantheon del conservatorismo.

·        Giuseppe Ungaretti.

Paolo Mauri per “la Repubblica” il 5 marzo 2022.

Una delle poesie più celebri di Giuseppe Ungaretti, I fiumi («Mi tengo a quest' albero mutilato ») il poeta la inviò a Giovanni Papini il 18 agosto 1916 in una forma leggermente diversa da quella poi definitivamente accolta nell'Allegria. Mancano, per esempio, i due versi assai significativi «Questi sono i miei fiumi/contati nell'Isonzo». 

Tutti hanno nella memoria l'immagine di Ungaretti soldato della prima guerra mondiale, soldato semplice non troppo in salute e poi allievo ufficiale, e del resto le più celebri poesie, che sembrano scolpite nella pietra, parola per parola, nascono proprio in seguito a quell'esperienza.

Ora un gran volume (di oltre mille pagine, Oscar Baobab, a cura di Francesca Bernardini Napoletano) consente di ripercorrere attraverso le lettere gli anni e i giorni e le ore di Ungaretti, che, nato ad Alessandria d'Egitto nel 1888 sarebbe poi vissuto in Italia, ma anche in Francia e in Brasile, attraversando varie stagioni culturali e naturalmente politiche. È un carteggio internazionale (Ungaretti conosceva bene molti letterati francesi, da Apollinaire a Valéry) che va ripercorso con calma, come ha fatto la curatrice dividendolo in sezioni e firmando informatissimi saggi introduttivi. 

Proviamo a prelevare qualche "istantanea". Ungaretti sostenne addirittura un duello con Massimo Bontempelli (che lo ferì leggermente al braccio destro) in seguito ad una polemica nata sul quotidiano Tevere. Il duello, cui seguì una riconciliazione, si tenne nel giardino della villa di Pirandello al quartiere Nomentano. I letterati si amavano e stimavano, quando non si assaltavano con le parole o con la spada in mano.

Prima dello scontro con Bontempelli così Ungaretti scriveva il 13 agosto del '26 a Giuseppe Raimondi: «Carissimo, avrai letto sui giornali come sono avvenute le cose. Incontro all'Aragno con Bontempelli. Mi viene incontro per colpirmi. Scambio furente di pugni e calci, tavoli rovesciati, tazze e bicchieri rotti, ecc. Invio dei padrini da parte mia». 

Scrivendo a Emilio Cecchi il 17 maggio 1926, dichiara subito senza mezzi termini: «Carissimo, siccome alcuni cattivi cercano di glorificare Saba per avvilirmi - tentativo assurdo come ogni atto di cattiveria - ti invio una lettera per mostrarti la cordialità delle nostre relazioni (…) Saba non ha grazia. Ma quella sua vena torbida, quella sua arte ch' è fatta d'involontaria, spesso efficacissima deformazione, lo mettono tra i tre o quattro scrittori di versi italiani d'oggi degni di ammirazione ». 

E il 16 luglio del '26 a Giuseppe Raimondi confida: «Il Signor Cardarelli, che ho fatto tradurre in francese, al quale ho fatto aprire le porte di Commerce, per il quale facevo l'altro giorno ancora un passo presso il Tevere perché non gli sopprimessero lo stipendio, pare sia andato parlando con disprezzo di te, di me, di Cecchi e di tutti». 

Ungaretti era molto attento al valore originale della sua poesia e non sopportava che lo si mettesse alla pari di altri poeti che considerava caso mai degli epigoni, anche se bisogna sempre fare la tara su certi giudizi a caldo, nati magari nel malumore di particolari frangenti. Verso la fine del gennaio '37 Ungaretti scrive a Corrado Pavolini e a un certo punto dice che Montale adotta la sua metrica, «anche nei giuochi qualitativi della sillabazione. Sono cose di semplice giustizia. 

Ma la giustizia non è di questo mondo (…) E non parliamo di chi scrive la parodia della poesia d'Ungaretti, come un Quasimodo, e tanti altri. E, addirittura, un Quasimodo avrà lo stesso rango d'un Ungaretti, come un Montale, di cui ora quasi quasi si farà un mio maestro». Ungaretti aveva naturalmente desiderato vincere il Nobel e, per quel che poteva, si era anche dato da fare. 

Non vide il Nobel a Montale (assegnato nel 1975, quando lui, Ungaretti, era già morto da cinque anni) ma tutti e due, incontrandosi alla stazione di Milano ebbero modo di deridere, era il 1959, il Nobel assegnato a Quasimodo. Lo racconta Ungaretti a Pier Paolo Pasolini di cui è diventato amico e per cui ha testimoniato, sia pure per lettera, nel processo contro Ragazzi di vita. Scrivendo a Vittorio Sereni l'8 febbraio 1960, accenna al Nobel così: «Il Poeta q/Nobel, sciagura nazionale, ora su un rotocalco chiama - quella bocca! -. chiama Cecchi "mulo".

Chi l'ha protetto avrà da scontare migliaia d'anni d'inferno e io perdono tutto, non la stupidità, non chi non sa distinguere il "vero" dall'"imitazione" ». Per Quasimodo Nobel, che qui Ungaretti indica per spregio con la q minuscola, si erano spesi Carlo Bo e Francesco Flora, mentre Emilio Cecchi era stato critico. Ungaretti, come si sa, aveva aderito al Manifesto degli intellettuali fascisti del 1925, ma i suoi rapporti con Mussolini datavano già da molto tempo. Nel lungo capitolo dedicato a questo periodo ("In viaggio attraverso il fascismo 1922-1947") Francesca Bernardini ricostruisce nel dettaglio ciò che Ungaretti fece.

Di fatto, scrive Bernardini, «si considerava e voleva assumere il ruolo di un intellettuale organico al Regime, di cui riteneva di poter indirizzare le scelte culturali», attraverso la creazione di riviste, ma anche portando la cultura italiana all'estero, favorendo le traduzioni e facendo conferenze. La sua fiducia in Mussolini, più che nel fascismo, non viene mai meno: «Sono il vostro milite» arriva a dirgli nel '29. Ma a Mussolini e con grande deferenza, Ungaretti aveva chiesto addirittura una prefazione per la nuova edizione del Porto Sepolto.

Era il 5 novembre del '22. «Eccellenza - scrive Ungaretti - il mio amico Ettore Serra che ha curato a Sebenico una magnifica edizione su carta di Fiume degli scritti per la Dalmazia del Comandante, prepara ora un'edizione che sarà un miracolo d'arte tipografica delle mie migliori poesie di guerra e della mia recentissima opera. V.E. sa il mio valore di poeta». E più avanti: «Ricorro a V.E. come a un signore della Rinascenza: quando l'Italia è stata grandissima nel mondo». Mussolini fece la prefazione e accolse anche la richiesta di udienza che Ungaretti aveva avanzato. Oggi quell'edizione è piuttosto rara, ma non introvabile e, dicono gli antiquari, può valere anche duemila euro. Fedele a Mussolini, Ungaretti fu però critico delle leggi razziali. 

Marco Cicala per il Venerdì – La Repubblica il 5 marzo 2022.

In Comizi d’amore, il documentario del 1965 sulla sessualità degli italiani, Pier Paolo Pasolini gli chiese se nella vita intima si fosse mai lasciato tentare da qualche forma di trasgressione. Quasi ottantenne, Giuseppe Ungaretti rispose: «Che cosa vuole, io sono un poeta... Quindi incomincio col trasgredire tutte le leggi facendo della poesia... Ora sono vecchio e allora non rispetto più che le leggi della vecchiaia, che purtroppo sono le leggi della morte». Parole tombali. Però il vegliardo mentiva. O peccava di falsa modestia. Perché in fatto di passione l’inverno della sua vita fu abbastanza vorticoso da sbriciolare come uno squallido cliché l’equazione vecchiaia = pace dei sensi. 

A riprova le circa quattrocento ardentissime lettere inviate alla giovane poetessa italo-brasiliana Bruna Bianco tra il ‘66 e il ‘69. Se ne conoscevano soltanto pochi stralci, adesso escono al completo da Mondadori, a cura di Silvio Ramat. Vampe e acciacchi senili, viaggi, onori da star, riflessioni – qua e là velenosette – su letteratura, arte, musica, società, politica... Nel nubifragio di epistole – che nei momenti di massima esaltazione decollavano al ritmo di due al giorno – c’è dentro tutto il centauro Ungaretti: per metà sommo poeta della concisione e per l’altra affabulatore torrenziale.

Con Bruna Bianco si conobbero a San Paolo del Brasile nell’estate ‘66. Lei aveva 26 anni, lui oltre mezzo secolo di più. «Finiva agosto. Dopo una sua conferenza all’Hotel Ca’ d’Oro mi avvicinai trovando il coraggio per consegnargli una busta con le mie poesie. Bruttissime» sorride Bruna ricevendomi nella casa di Pietra Ligure dove passa le vacanze. È un’affettuosa signora con un fisico asciutto da maratoneta. Oggi ha più o meno la stessa età del poeta all’epoca. Continua: «Ungà mi invitò immediatamente a colazione. Rifiutai. Lui ripartì per Rio. Doveva restarci dieci giorni. Ce ne ne rimase solo tre. Una mattina, arrivando in ufficio, mi dissero che aveva chiamato una ventina di volte. E adesso il telefono squillava di nuovo». Si rivedono. In Dialogo, breve raccolta scritta insieme alla sua musa, Ungaretti avrebbe ricordato quei momenti come un’epifania erotica: «Sei comparsa al portone/In un vestito rosso/ Per dirmi che sei fuoco/Che consuma e riaccende». Lei lo scarrozza in auto per la megalopoli. Finiscono in un parco: «Era di lunedì/Per stringerci le mani/E parlare felici/Non si trovò rifugio/Che in un giardino triste/Della città convulsa».

Visiteranno anche la tomba di Antonietto, il figlio del poeta morto ragazzino nel ‘39, d’incanto li vedi scagliare via le grucce, la carrozzella per scapparsene lontano zompettando ilari. «Abbandonò i bastoni, smise di camminare curvo» racconta Bruna. 

«Cambiò perfino abbigliamento. Era sempre in giacca e cravatta. Elegante come un gentleman, profumato come un bebè». Ungà regredisce all’adolescenza. A quando «innamorato... andavo fuori di casa, correvo per le strade, telefonavo

senza motivo a gente che cascava dalle nuvole... Aprivo un libro e lo richiudevo...

Prendevo un foglio di carta, e ci facevo, senza accorgermene, scarabocchi... ero in uno stato di nervosismo che m’impediva di camminare e di stare fermo». Solo la morte riuscirà a fermarlo. Ultracinetico, eterno nomade, nella corrispondenza lo inseguiamo da Venezia a Palermo, da Roma a Parigi, da Londra a Tel Aviv. Per due volte raggiunge l’amata in Brasile, per due volte lei lo ritrova in Europa. Ungaretti riattacca pure con gli scarabocchi. Tutte scritte con inchiostro verde («Sono superstizioso, il verde è la speranza»), le lettere sono spesso condite da ghirigori, svolazzi, ricamini amorosi. Le sfogli fra tenerezza e un filo di imbarazzo. Sono rimaste chiuse in una cassapanca per cinquant’anni. Perché tirarle fuori solo adesso? «Ero frenata dai pregiudizi. “Ma che combineranno quei due?” malignava la gente. E poi la Bruna di allora era morta, sepolta, finita anche lei in quella cassapanca. Solo pochi anni fa ho deciso che era tempo di riaprirla» dice la Bianco. È nata a Cossano Belbo, nelle Langhe di Cesare Pavese. A sedici anni seguì in Brasile il padre, produttore di spumanti. «Dovevo restarci per poco. Ci sono rimasta una vita». Facendo l’avvocato. Vedova, tre figli più nipoti, sul love affair con Ungà aveva sempre mantenuto un certo riserbo. «Una volta ne accennai a mio marito, ma lui mi fece capire che preferiva non saperne nulla». Che un anziano signore svalvoli per una ragazzina è un grande classico, ma il contrario un po’ meno. Perché lei perse la bussola? «Ungà trasmetteva forza a tutto il mio essere. Non mi è più capitato in vita mia. Mi disse: “Nessuno ti amerà mai come me”. Suonava come una specie di maledizione». La passione senile del vecchio per la fanciulla è un mito che fin dalle narrazioni arcaiche si intreccia col tabù. E infatti il loro amore fu contrastato. Ma non da chi t’aspetteresti. «Mio padre non fece ostacolo. Del resto, Ungà lo rassicurava: “Sposerò sua figlia solo quando potrò garantirle un livello di vita come quello nel quale lei l’ha cresciuta”». Quindi si era già ai progetti di matrimonio? «Sì. Le fedi erano pronte. 

Accompagnandomi all’aeroporto di Roma, Ungaretti mi disse: “La prossima volta tornerò per sposarti”. È l’ultima immagine che ho di lui». Perché non convolarono? Nel carteggio l’amore si tronca per ragioni un po’ arcane. «Contro di noi giocarono pressioni esterne» dice Bruna. Pressioni di chi? «Di un pezzo della famiglia di Ungà. La figlia Ninon era dalla nostra parte, ma il marito di lei si opponeva. Guarda caso, a partire da un certo momento le mie lettere non arrivavano più, sparivano». Ma anche nell’entourage degli amici c’era chi remava contro: «Cercavano di convincere Ungà che ero una fiamma passeggera come ce n’erano state altre». Dopo la morte dell’amatissima moglie Jeanne, anno ‘58, nella vita di Ungaretti transitano figure femminili passabilmente misteriose e finora poco indagate: l’ex allieva e traduttrice Jone Graziani, l’enigmatica croata Dunja, la funzionaria della Mondadori Nella Mirone... Fra studentesse e groupie veneranti, comincia a circolare l’immagine del patriarca sempre circondato da jeunes filles en fleur. Lo sfottono: «Ungaretti? Insieme a una vecchia non s’è visto mai». Con Bruna però le cose sembravano consolidarsi: «A comprometterle» aggiunge lei, «ci si mise pure il Nobel mancato. Ungà ci contava. Era povero. E aveva già pianificato tutto: metà dei soldi li avrebbe dati alla figlia, con l’altra avrebbe comprato una casetta a Capri dove saremmo andati a vivere». Ma nel ‘69 il premio venne assegnato a Samuel Beckett. Non esattamente un furto. Però Ungaretti incassa male. Negli ultimi tempi i rapporti con Bruna si sono un po’ sgualciti. Le comunicazioni a distanza non aiutano: «Le telefonate tra Italia e Brasile erano infernali. Avvenivano tramite cavi sottomarini: nella cornetta sentivi solo la voce a singhiozzi e il boato del mare». E poi «Ungà aveva promesso che sarebbe venuto al mio compleanno, ma non si presentò. Mi offesi. Ho scoperto in seguito che gli avevano sconsigliato il viaggio: in Brasile c’era la dittatura e una sua visita non l’avrebbe messo in buona luce nella prospettiva del Nobel».Per giunta, la salute dell’Antico – come lo chiamava il critico De Robertis – peggiora. Durante una trasferta negli Stati Uniti si ammala seriamente: «Capì che il tempo era scaduto. Anche per questo decise di sparire dalla mia vita. Voleva ridurmi la sofferenza» ritiene Bruna. Dalla traduzione di Pindaro alla pubblicazione del carteggio, tanti progetti rimasero mozzati. Ma tra loro non fu solo amor intellectualis. «Gli abbracci di Ungà erano un orgasmo totale» ricorda lei con immutato brivido. Mi racconta di quella volta che giravano per il Brasile dormendo in camere separate, sorvegliati da una governante: «Una mattina Ungà mi dice: “Accompagnami a comprare un pigiama”. E io: ma non ne hai già due? E lui: “Sì però stanotte ho avuto due polluzioni e per la vergogna li ho fatti a pezzi entrambi”». O quell’altra volta «che alla Galleria Borghese mi vedeva girare intorno alla statua di Paolina scolpita da Canova e a un certo punto esplose: “Toccala, toccala! È l’unico modo per capirla!».

Il biografo Leone Pic cioni ha scritto che per tutta la vita Ungaretti rimase un poeta d’amore. Scisso fra “sensualità” e trasfigurazione. Nelle ultime lettere la passione ulula: «Sono furente d’amore. Urlo come una belva»; «Ti percorro tutta, sino a insediarmi nell’anima Tua»; «Ti amo con una furia che mi martirizza»; «Ti bacio i piedi, li ho nelle mani, bei piedi nudi come quella sera ch’ero un fantasma, nella tua camera, dove ti guardavi allo specchio forse nuda». «Vecchissimo ossesso» quale si definiva, Ungaretti era nato ad Alessandria d’Egitto dodici anni prima che finisse l’Ottocento. Ma, dalla Parigi epica delle Avanguardie alla Grande guerra – che combatté da anarco-interventista – e oltre, incarnò il Novecento come pochi. Eroici furori e accecamenti inclusi. Nella folle corrente del suo secolo volle restare immerso fino all’ultimo, anche fuori tempo massimo: coi denti traballanti e i piedi rinfrancati dagli unguenti del Dr. Scholl’s. Perciò nelle lettere a Bruna lo vediamo approvare la pop music, che «esprime la violenza del nostro tempo»; «riporta alla natura… è reazione alla meccanizzazione dell’essere umano». O simpatizzare col guru dei beatnik Allen Ginsberg, di cui soffre però l’esibizionismo smodato e soprattutto quell’accidenti di cembalino da hare krishna, plin-plin, «non la finiva più».

Ungà prova la marijuana, ma non gli dà «nessuna gioia meravigliosa», «toglie forze e rimbecillisce. Alla larga, alla larga». Sta sempre in mezzo ai giovani, ammira La Chinoise, il film “maoista” di Jean-Luc Godard, però teme il nichilismo del ’68 parigino: «Il Francese è popolo dalle grandi ire e poi succeda quello che ha da succedere, purché la Sua ira riesca a sfogarsi». I contestatori? «Gridaioli per stupidissimo snobismo», si scagliano «contro tutto quanto è stato fatto dalla civiltà prima del loro arrivo di “presuntuosi ignoranti”». «Sono il vuoto schiamazzante e vogliono il caos». Ungaretti si considera «un cristiano di estrema sinistra», ma vota la Dc, non proprio a sinistra, di Attilio Piccioni. È stato grande amico di Mussolini e, quantomeno al principio, ha creduto nell’energia rigeneratrice del fascismo, però si rimprovera la «passiva complicità» sotto il regime, che comunque nel ’42 lo nominò Accademico d’Italia. Nei turbolenti 60, è divertito dalle metamorfosi dei costumi («La minigonna la portano qui le giovanette tagliata subito dopo il sedere. Sono tagliate molto bene, portate con molta iattanza, e fa piacere vederle portare con tanta disinvoltura e sfida»). Però resta pur sempre un uomo classe 1888, e dell’omosessualità per esempio scrive: «Il male è diffuso, e si diffonde in modo da mettere allarme e spavento». Di Pasolini annota che «sebbene pederasta e anche perché pederasta, riesce ad essere vero poeta, diventa puro, anche se della purezza del demonio…». Ciò premesso, «la pederastia mi ha sempre fatto ribrezzo». Ungaretti ha un’alta considerazione di sé: «Sono l’ultimo poeta vero che abbia il mondo»; «La mia poesia non è confrontabile alle altre, sono in anticipo su di esse di almeno cinque secoli, e, per la perfezione ne potrebbero essere emuli solo i Greci». Con Montale ha sempre avuto rapporti ondivaghi. Negli accessi di bile gli ha dato del «pidocchio che mastica le sue caccole» (si veda il carteggio con l’amico Jean Pau lhan), ma poi si è più o meno arreso alla sua arte. Invece non sopporta Quasimodo: «Mediocre poeta che ha rifatto continuamente la mia poesia dannunzianeggiandola». Quasimodo che nella corsa al Nobel ha pugnalato Ungà denunciando i suoi trascorsi fascisti, «calunniandomi politicamente, facendosi passare per un fiore di santità quando era tutt’altra cosa». Per indole, ma anche per smarcarsi dalla Trimurti dei suoi competitor – Montale, Saba, Quasimodo – ancora circonfusi di una distante aura borghese, Ungaretti sceglie il Moderno di quella che oggi diremmo la mediatizzazione: legge le sue poesie in tv e Omero nell’Odissea versione sceneggiato, incide dischi con la Rca, poco prima di morire appare perfino in un proto-videoclip per la canzone della Zanicchi Un uomo senza tempo che la grande Iva gli dedicherà. Non è la più indimenticabile delle sue hit. Faceva: «Non esiste un altro uomo/così caro come lui/Sogna ancora ad

occhi aperti/e non ama la tristezza... Caro, caro vecchio mio...». Vecchio un corno. 

SONO IN TUO POTERE

In anteprima, pubblichiamo qui tre delle lettere di Giuseppe Ungaretti a Bruna Bianco, ora raccolte in volume. Nel libro, la prima missiva del poeta è datata 14 settembre 1966, l’ultima, inviata da Parigi, 14 aprile 1969.

Di solito il lunedì arrivano le Tue lettere, anche il giovedì, e me le porta a casa D' Amico, venendo al suo lavoro. Non so per quale disguido questa volta - o non avrai scritto dopo avermi scritto tanto, 3 volte, inviandomi le tue poesie - non c' era nulla, e nemmeno martedì. Lo stato di pazzia, di sofferenza, di disperazione nel quale mi ha messo quella mancanza di tue notizie, è indicibile. Sta succedendo in me un fatto straordinario. Sono innamorato come un ragazzino, e non ho più da un secolo l' età, ed è assurdo - e faccio quello che facevano - non so se lo facciano ancora oggi gl' innamorati al loro primo amore -: andavo fuori di casa, correvo per le strade, telefonavo senza motivo a gente che cascava dalle nuvole quando chiedevo, senza chiedere altro, scusa d' averla disturbata. Aprivo un libro e lo richiudevo, dopo avere letto tornato a leggere cinquanta volte senza capirci nulla, la stessa frase; prendevo un foglio di carta, e ci facevo, senza accorgermene, scarabocchi, e, senza accorgermene, ne facevo una pallottola, e la seminavo per la stanza; ero in uno stato di nervosismo che m' impediva di camminare e di stare fermo.

Hai fatto un bel lavoro, Luce mia. Ora che cosa sarà di me?

Sono in tuo potere.

Un vecchio, sai quello che è un vecchio? Tutto il suo vigore, tutta la speranza, via via l' andavano consumando e riducendo in spettri, i ricordi. No, non è vero che il ricordo sia cordiale, il ricordo è crudele, consuma una persona a lento fuoco, insiste e giubila nel tormentarla, nello straziarla. Ma questo vecchio qui che Ti scrive, non ha più ricordi. Sei / venuta. Perché sei venuta? E i ricordi gli li hai spazzati via. E prima c' è stato in me un gran vuoto, un deserto, un morire di sete. E poi è sorta la primavera d' un ricordo. Come farà a rimanere solo solo, così delicato, così verde, così fiorente, incolume in quelle sabbie squallide? Il tuo ricordo, e domani ancora la tua presenza?

Amore, amore mio. T' accorgi, non ho più vergogna di gridarlo. Pietà di me, sì, perché la mia ora dovrebbe essere passata.

Amore, amore mio.

Roma, il 26/10/1966 L' indirizzo rimane sempre presso D' Amico.

Devo muovermi sempre. Prima a Firenze, poi a Parigi, poi forse in Svezia e a Mosca, ecc.

In anteprima, pubblichiamo qui tre delle lettere di Giuseppe Ungaretti a Bruna Bianco, ora raccolte in volume. Nel libro, la prima missiva del poeta è datata 14 settembre 1966, l' ultima, inviata da Parigi, 14 aprile 1969.

le lettere.

LA VILLA DOVE STO 

Tra Grottaferrata e Frascati, a mezza strada, è un luogo quasi nella solitudine, ora abbaiano i cani, e qui ci sono i Jaguars, giovani "beat", di Ciampino, che grattano e picchiano gli strumenti elettrici a più non posso e cantano a squarcigola [sic]. 

Simpatici giovani, che non sanno leggere una parola di musica scritta, e dicono che essa inciampa a chi la studia, con tutte le sue regole inutili, l' ispirazione, e hanno forse ragione.

Hanno studiato sul magnetofono e sui dischi, a orecchio, e bisogna riconoscere che il loro è un pandemonio, ma quella come la loro, è forse la sola musica che sia dei convenga ai nostri tempi. Io, salvo Bach qualche volta, e Nono, non ne posso più sopportare altre.

/ È musica che riporta alla natura. È musica di reazione alla meccanizzazione dell' essere umano d' oggi, è un ritorno a una primitività, eppure quel chiasso che stordisce e di cui m' arriva qui, nella mia stanza, una specie di ululo assordato, non sarebbe, senza il rafforzamento e il nervosismo che mettono in orgasmo, imposti al suono dall' elettricità, - non sarebbe che un molto qualsiasi pasticcio di cosucce rubacchiate qua e là a tutti quanti, senza distinzione nemmeno di paese o di tempo. Cosettine orecchiate e rese nuove dal chiasso disumano dell' intervento elettrico. L' uomo credeva di avere recuperato l' orecchio, e all' orecchio poi rompe i timpani con il ricorso a un barbaro mezzo nuovo. Bel lavoro. Eppure in musica non mi piace quasi altro. È sabato notte, e anche domani dopo pranzo sarà lo stesso, e le sale di sotto, sale, come ogni vano della villa, ammobiliate con lusso e gusto, sono piene di gente venuta a ballare. Ho dato un' occhiata. Belle persone, certo, e l' Italia ne è persino troppo ricca. Sono scappato su in camera mia a scriverti, n' importe quoi, anche stupidaggini purché possa stare con te, illudermi di averti, nel silenzio, accanto, e di parlarti piano all' orecchio: insomma, perdonami tante chiacchiere che occorreva facessi: dovevo dirti "T' amo".

/ Non mi stanco affatto a scriverti, anzi mi riposo, mi conforta, ritrovo equilibrio, mi metto a sorridere tra me e me, mi metto a ballare, io che non ho mai ballato, è un ballo che ballo dentro di me, un impazzimento, un tripudio, e ti guardo, ti guardo, ti guardo all' infinito ad ogni sillaba che traccio e che ti è rivolta. Vorresti privarmi dell' unica possibilità di vivere che mi resta? Vorresti uccidermi? No, no, non è questo mio scriverti che può essermi di peso e stancarmi, l' opposto anzi è, è la guarigione, è la salute, è la libertà. Lo sai bene che l' unica libertà che possiede una persona umana è quella d' amare, la mia libertà è che tu abbia voluto che t' ami, dedicandomi amore. Vorresti togliermi ogni libertà? Lasciami ch' io ritrovi forza, quando sono stanco, almeno, giacché sono lontano, scrivendoti, amore.

Ora vado a letto, sperando di prendere subito sonno e di sognarti, e se rimanessi sveglio continuerei a conversare con te dell' unica cosa seria al mondo, dell' amore nostro. Buona notte, ti tengo stretta sul mio cuore, ti bacio, ho potuto scriverti, dormirò bene stanotte sognandoti.

Il tuo innamorato, ti bacia, Bruna mia.

Grottaferrata, sabato notte, il 25/2/1967.

AMORE

Amore, non vado che per un giorno a Spoleto. Qui tutto il mio lavoro è per aria, e non so che cosa penseranno di me gli Editori.

Marianni accettando quel lavoro del festival, proprio nel momento in cui avevo più bisogno di lui, mi reca un danno incredibile, oltre alla figura ridicola che mi fa fare con gente ch' era solita considerarmi puntuale.

Domani sera c' è il Premio Strega. Dopodomani assegniamo il Premio Sila, di cui sono Presidente. Bisogna che mi liberi di tutti questi fastidi. Me ne libererai te.

Vado e vengo, e non so se il 17 luglio potrò essere a Genova per salutare il tuo Papà, e se mi riuscirà di rivederlo prima a Torino. Farò di tutto. Gli scrivo. Non è affatto come credevo che fosse. È un uomo tenerissimo. Gli voglio un bene infinito.

/ Ritorni sempre su quel problema degli accordi. È semplice.

Dobbiamo trovare il modo di unire nel modo più regolare le nostre vite. Ora hai capito?

I giovani qui in Italia, e anche in Brasile, quelli veri, mi trovano il più giovane di loro. Vivo in mezzo a loro. Bada, chi mi accusa di vecchiaia, è nato vecchio, anche se ha la giovinezza dei somari. Sono in realtà vecchio. Il corpo non è stanco, anche se porta il peso di tanti anni. L' anima è ancora quella d' un fanciullo, bambina come la tua, pura come la tua. Sono in realtà vecchio. Ma rido e piango come un bimbo, senza essere un rimbambito; ma una persona che sogna con la virilità necessaria per dare alle cose un' immortale bellezza. Sai che cosa significhi la poesia, sei la poesia, e sei più che la poesia, sei inventrice, rinnovatrice di poesia. Certo ho molti anni. Non so quanti ancora da vivere. Forse pochi. E su questo punto, quando dovrai prendere la tua decisione, sarà bene tu rifletta.

/ I piedi sono guariti. Sono diventati belli come quelli d' un giovane atleta, pronti a correre, e non ho mai l' affanno, e leggo e scrivo senza occhiali.

Amore mio, come sei bella. Come è bello guardarti arrivare con il tuo piede danzante. Sei tanto lieve nell' incedere, tanto graziosa nella parola, tanto incantevole nelle tue mani adorabili che sanno, se stringono le mie, infondermi la forza dei ventanni [sic].

Ti amo. Sono ai tuoi piedi come uno schiavo, per ubbidirti, per non ascoltare che la tua voce di poesia, la più bella voce che si possa udire sulla terra, e che hai avuto la misericordia di fare udire a me solo, e che mi farai udire per sempre.

Ti bacio, amore, ti bacio, non so fare più altro, che di continuo baciarti. Ti amo, amore.

·        Giuseppe Verdi.

Verdi, parlamentare controvoglia fu un Maestro anche nella politica. Mattia Rossi il 5 Luglio 2022 su Il Giornale.

Un saggio di Michele Nitti ricostruisce l'impegno del compositore, prima alla Camera e poi al Senato. Dove avanzò proposte all'avanguardia

«Reputo la sua presenza alla Camera utilissima. Essa contribuirà al decoro del Parlamento dentro e fuori d'Italia; essa darà credito al gran partito nazionale, che vuole costituire la nazione sulle solide basi della libertà e dell'ordine». Sono le parole con le quali, il 10 gennaio 1861, Camillo Benso conte di Cavour si rivolse a Giuseppe Verdi per sollecitarlo ad accettare la candidatura alle elezioni per la Camera dei Deputati del neonato Regno d'Italia. Il compositore, però, non fu particolarmente attratto dalla proposta tanto che tentò di sfuggire all'elezione scrivendo a Giovanni Minghelli Vaini, deputato cavouriano e candidato anch'egli: «Se tu riesci a farmi avere la minorità dei voti, a farti nominare ed a liberarmi da quest'impegno, io non troverò parole sufficienti per ringraziarti di sì segnalato servigio. Farai un bene alla Camera, un piacere a te, ed uno grandissimo a G. Verdi». La strategica tattica verdiana per scansare l'elezione, nonostante l'assenza di campagna elettorale, non gli evitò di imporsi alle urne.

La nomina a parlamentare fu, per Verdi, un vero e proprio fardello. Il 5 febbraio 1861, ad esempio, scrisse al neo-collega Giuseppe Piroli: «Voi siete deputato al Parlamento per fortuna vostra, e dei vostri elettori; io lo sono pure per disgrazia mia, e dei miei elettori». Della sua svogliatezza politica Verdi non fece mai mistero, come quando confessò all'amico librettista Francesco Maria Piave: «Sono ancora deputato contro ogni mio desiderio ed ogni mio gusto, senza avervi nessuna attitudine, nessun talento e mancante completamente di quella pazienza tanto necessaria in quel recinto. Ripeto che volendo o dovendo fare la mia biografia come membro del Parlamento non vi sarebbe altro che imprimere in mezzo dì un bel foglio di carta: I 450 non sono veramente che 449, perché Verdi come deputato non esiste». Purtroppo per lui, però, il compositore di Busseto venne pure nominato senatore nel novembre 1874 nel gruppo di destra: «Non ho nissuna intenzione di venire per ora a Roma per dare il giuramento», precisò subito. E, infatti, giurò ben un anno dopo.

Eppure, la sua idiosincrasia per i palazzi non gli impedì di fotografare con lucidità la politica italiana: «Io non ho mai potuto capire come i nostri uomini di Stato cercano di annientare le poche ricchezze che naturalmente abbiamo»; «La situazione è così desolante che non ho nemmeno la forza d'imprecare contro quel branco di incapaci, stupidi, parolai, fanfaroni che ci hanno portati alla rovina»; «Cosa faranno i nostri uomini di Stato? Coglionerie sopra coglionerie!»; «Leggo poco, perché io tremo sull'avvenire d'Italia. Forse ci voleva un altro Ministero di Sinistra che facesse nascere qualche guajo serio...», sono alcuni passi di sue lettere.

Appare, dunque, evidente come l'attività politica di Verdi rivesta una importanza meritevole di studio in quanto, comunque, si tradusse in un'attività al servizio della nazione. Michele Nitti, deputato e direttore d'orchestra, ha curato un certosino lavoro di ricognizione dell'impegno politico del compositore in Verdi. Diario dell'attività parlamentare (Manzoni Editore, pagg. 240, euro 27, prefazione di Dario Franceschini) attraverso lo studio dei resoconti delle sedute d'aula e del materiale epistolare. Pur vissuto con disagio, nota Nitti, l'impegno politico del Maestro fu «sempre animato da un profondo senso civico e da uno straordinario sentimento di responsabilità». Rivestì un ruolo di fidato consigliere del governo di Giovanni Lanza in merito alle proposte legislative sulla proprietà artistica e letteraria e sulla riforma degli studi musicali (Verdi, ad esempio, volle che i Conservatori riservassero attenzione alla formazione delle donne). Fu istituita un'apposita Commissione, ma, dopo qualche mese di silenzio, Verdi si disilluse: «Avete più visto il Ministro? Credo che dopo tanto fracasso non se ne farà più niente: e credo poi anche forse a Lui bastava di far fracasso».

·        Grazia Deledda.

Donne straordinarie. "Costretta da una forza sotterranea". Il Nobel che ribaltò il patriarcato. Grazia Deledda fu la pioniera che a cavallo tra l’800 e il ‘900 ha cercato di farsi strada nel regno maschile e maschilista della letteratura. Incompresa anche dai suoi stessi conterranei ha saputo formarsi da sé arrivando alle vette più ambite. Laura Lipari il 23 Novembre 2022 su Il Giornale.

È una notte gelida quella del 10 dicembre 1927. Su un palco a Stoccolma una donna minuta tiene ben saldo un premio. È una scrittrice dal nome Grazia Deledda la prima, e al momento l’unica, donna italiana a vincere il premio Nobel per la letteratura.

Quel trofeo è impregnato di critiche e incomprensioni dei suoi conterranei e dei maestri dell'epoca e, infatti, il suo discorso di ringraziamento inizia con queste parole: “Sono nata in Sardegna: la mia famiglia composta di gente savia, ma anche di violenti e di artisti primitivi, aveva autorità e aveva anche una biblioteca. Ma quando cominciai a scrivere, a 13 anni, fui contrariata dai miei…”.

La sua non è una vita come quella della maggior parte delle donne del suo tempo, lei è lì perché con le parole è riuscita a descrivere tradizioni lunghe secoli, odori, sapori e tutto quello che di buono sprigiona la sua terra, ma anche umiliazioni, sottomissioni e subordinazioni che lei stessa ha combattuto con l'arma bianca della scrittura.

Le origini

Grazia Maria Cosima Damiana Deledda nasce nel 1871 a Nuoro, in Sardegna da una famiglia benestante. Il padre Antonio è un imprenditore nel settore del commercio e dell'agricoltura e nel tempo libero scrive poesie che pubblica su una rivista sarda tramite la tipografia che lui stesso fonda. I suoi versi in dialetto sono studiati con cura nei momenti che ritaglia dalla numerosa famiglia e dal lavoro. Grazia inizia gli studi e li finisce con la quarta elementare. Poi viene seguita privatamente da un docente da cui apprende solo per pochi anni l’italiano, il latino e il francese. La ragazzina però sente dentro di sé il bisogno di apprendere e istruirsi, quindi continua i suoi studi da autodidatta.

Sin dall’infanzia sente un irrefrenabile impulso verso la scrittura, “costretta da una forza sotterranea” come scriverà in “Cosima”, che in certe occasioni deve reprimere a causa della mentalità ancora troppo ristretta e patriarcale degli abitanti di Nuoro. Questa predisposizione è spesso condannata anche dalla sua famiglia ma ogni suo senso la spinge a ribellarsi e a realizzarsi in spazi più vasti e aperti, del tutto diversi rispetto a quelli in cui cresce. Il suo sogno è mettere pratica le sue capacità e confrontarsi con altre personalità simili alla sua. Di solito però, negli ambienti più chiusi, accade che la voglia di volare sia vista come alto tradimento e spinge verso due scelte: l'accomodamento o la fuga.

Il primo a sostenerla è lo scrittore Enrico Costa che comprende il talento ancora acerbo ma fruttuoso della giovane donna. In seguito anche il poeta e scrittore Giovanni De Nava la nota e inizia con Grazia una corrispondenza fatta di apprezzamenti reciproci. Inizia da qui una relazione d’amore epistolare fatta di poesie e versi intrisi di passione e finita solo dopo un lungo silenzio dell’uomo alle ultime lettere della giovane. Anni dopo, nel 2015, la nipote dello scrittore, Ludovica De Nava, pubblicherà la corrispondenza del nonno sotto il volume “La quercia e la rosa. Storia di un amore importante di Grazia Deledda con lettere autografe”. Nelle missive viene svelato il vero motivo per cui De Nava decide di allontanarsi sentimentalmente, ovvero l’opposizione delle famiglie.

Gli anni di buio e il matrimonio

All'improvviso un periodo di disgrazie mette in ginocchio casa Deledda: il fratello maggiore di Grazia, Santus, abbandona gli studi e diventa alcolizzato, il più giovane, Andrea, viene arrestato, il padre muore a causa di una crisi cardiaca e qualche anno dopo anche la sorella Vincenza si ammala fino alla morte. La situazione economica è critica e Grazia si ritrova a sostenere gran parte del peso sulle sue spalle.

La giovane scrittrice però non si fa scoraggiare e anzi mette ancora più impegno nella sua passione, tanto che a quindici anni pubblica la prima novella e nell’87 prende coraggio e invia a Roma due racconti: “Sangue sardo” e “Remigia Helder”, che vengono pubblicati dall’editore Perino sulla rivista Ultima moda, la quale in un secondo momento accoglierà anche un romanzo a puntate dal nome “Memorie di Fernanda”.

Tre anni dopo esce su L’avvenire della Sardegna il romanzo “Stella d’Oriente” che Deledda firma con lo pseudonimo di Ilia de Saint Ismael e a Milano “Nell’azzurro”. Da questo momento in poi la sua inventiva scorre a cascata e lei si sente un fiume in piena. Scrive e collabora con nomi prestigiosi come Gubernatis e Bonghi e, pur mantenendo l’interesse per il genere e la tradizione sarda, si avvicina a un altro stile lontano geograficamente dal suo luogo natale: la letteratura russa.

La sua fama tocca le orecchie di diversi critici anche se i primi a non comprendere Deledda sono proprio i conterranei. Gli intellettuali sardi del suo tempo nel complesso si sentono traditi e spesso non accettano le sue descrizioni fatte con una leggera venatura di denuncia. Gli animi si scaldano soprattutto dopo la pubblicazione di “Fior di Sardegna”, perché il romanzo racconta di una terra rude, rustica e un po’ arretrata.

A queste accuse Deledda risponderà: “Io non sogno la gloria per un sentimento di vanità e di egoismo, ma perché amo intensamente il mio paese, e sogno di poter un giorno irradiare con un mite raggio le fosche ombrie dei nostri boschi, di poter un giorno narrare, intesa, la vita e le passioni del mio popolo, così diverso dagli altri così vilipeso e dimenticato e perciò più misero nella sua fiera e primitiva ignoranza”.

Nel 1899, dopo il suo trasferimento a Cagliari, incontra Palmiro Madesani, un funzionario delle finanze che s’innamora della giovane Grazia e la sposa l’11 gennaio 1900. È proprio per amore che Madesani lascia anche il lavoro e, attirato dal vortice di passione verso la letteratura che avvolge la moglie, inizia a fargli da agente. Qualche anno dopo anche la città di Cagliari diventa stretta per l’immensità su cui Grazia vuole continuare a scrivere e per questo motivo la coppia decide di trasferirsi a Roma dove nascono anche i due figli, Franz e Sardus.

Elias Portolu e il premio Nobel

Le sue opere sono spesso giudicate dalla critica come veriste e decadentiste. Il focus rimane quasi sempre il patriarcato e il potere influenzante che ha nella terra sarda, ma anche i legami familiari che determinano affetti ma anche battaglie sentimentali. I tre punti principali attorno ai quali i suoi personaggi conducono la narrazione sono amore, dolore e morte. La scelta di scrivere in lingua italiana, al contrario dello stile patriottico del padre, è volta a raggiungere un mercato editoriale più ampio, ma allo stesso tempo rimane radicata alle sue origini, con l'inserzione di termini e modi di dire tipici sardi, di cui vi sono le traduzioni nelle note.

La pubblicazione di “Elias Portolu” la conferma come scrittrice e l’avvia a una serie di romanzi come “L’edera” e “Canne al vento” - proprio di quest'ultimo la Rai ne trarrà in seguito uno sceneggiato - e opere teatrali che arrivano fino a personaggi illustri come Giovanni Verga, che vede nelle opere della Deledda un richiamo al suo stile letterario. La sua fama raggiunge anche artisti internazionali come David Herbert Lawrence che per lei scriverà la prefazione della traduzione in inglese de “La madre”.

A sua volta anche la Deledda diventa una traduttrice e un’insegnante di lettere all’Asilo Lazio creato dalla Società Podistica Lazio nel 1915. Tra coloro che non esprimono consensi per l’autrice sarda c’è invece Luigi Pirandello che non ne apprezza lo stile e trova inammissibile la sua situazione familiare nella quale i ruoli tra marito e moglie sono invertiti. Arriva persino a rivolgersi a Palmiro con l’appellativo di “Grazio Deleddo”, come a schernire la sua posizione subalterna poco virile, ridicolizzandolo con un romanzo dal titolo “Suo marito” con il quale ironizza sul protagonista caduto in disgrazia perché succube della moglie.

Le critiche vengono messe da parte, soprattutto dopo il 10 dicembre 1927, giorno che le stravolge la vita con la vittoria del premio Nobel per la letteratura 1926 accompagnato da queste parole: “Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano”. Con questo premio Grazia Deledda diventa la seconda donna nel mondo a vincere l'ambito premio e la prima in Italia.

Si spegne nel 1936 a causa di un tumore al seno di cui soffriva da tempo, lasciando incompiuto il suo ultimo lavoro autobiografico: “Cosima, quasi Grazia” poi edita solo con “Cosima”.

Il genio insito nelle opere della scrittrice sarda è stato ed è studiato nelle scuole e di recente anche il cantante poeta Mariano Deidda le ha dedicato un intero spettacolo plasmando le parole della Deledda in musica affinché non si spenga mai l’interesse verso una delle più grandi pioniere nel campo della letteratura.

Nel 150esimo anno della sua nascita, inoltre, è stata ricordata dalla senatrice Maria Elisabetta Alberti Casellati con un discorso memorabile sull’eredità “morale e culturale” della scrittrice, ricordandone la fame di conoscenza e gli studi da autodidatta: “Una bambina che con penna e inchiostro inizia così a erodere i confini di una società che vorrebbe segregare le sue ambizioni in una rete di vincoli, di regole e tradizioni secolari. Le ambizioni di una donna che invece alza la testa che rivolge il suo sguardo al mondo e alle sue infinite opportunità e le insegue con coraggio, ostinazione e instancabile determinazione senza tuttavia mai voltare completamente le spalle al proprio passato”.

·        Guido Gozzano.

Guido Gozzano, le perle del meno poeta dei più poeti. SILVIA PERUGI su Il Quotidiano del Sud il 30 Ottobre 2022. 

Il sostantivo latino poeta (identico al nostro) ha origine dal verbo greco poiéo (che significa creare). Fin dall’antichità designa l’autore di opere di poesia, ma anche l’inventore, l’artista in generale. Nell’accezione più tecnica, la poesia è quel genere letterario dalla forma chiusa, regolato metricamente, che fa uso di un linguaggio ricercato. A differenza della prosa, è basata su norme ritmiche che le conferiscono una spiccata musicalità. Sue prerogative sono la ricchezza del pensiero, l’intensità del sentire, il potere di suscitare nuove immagini: suggestività e forza evocativa, al punto che la figura del poeta viene in origine associata allo straordinario e al divino. Simile a un veggente, che gode di una particolare relazione con le divinità ispiratrici, in virtù di una funzione che non è quella di creare o conoscere per proprio conto, ma piuttosto quella di ricordare una verità sacra. Il poeta percepisce e interpreta la realtà in modo differente.

C’è stato un momento a partire dal quale la poesia è stata superata – in termini di apprezzamento e diffusione – da altri generi letterari. Addirittura accusata di eccentricità, se non di aperta inutilità. Un momento a partire dal quale il poeta ha perso la sua aura mistica e ha visto il suo ruolo ridimensionato da forme di razionalismo.

La poesia è nata ben prima della scrittura. Ha resistito al tempo, liberandosi degli schemi obbligati, per diventare forma pura di espressione. Il poeta è rimasto il solo capace di immergersi a certe profondità: uno straordinario scandagliatore di fondali marini, o come diceva Hannah Arendt, “un pescatore di perle”.

Guido Gozzano nella storia della nostra poesia è l’ultimo poeta in senso classico e il primo in senso moderno: il meno poeta dei più poeti. Ha modellato una materia già esistente in modo del tutto personale: è partito dalla poesia di Petrarca, ha attraversato e superato quella di D’Annunzio, per approdare in un territorio solo suo. Si è distaccato dall’estetismo, rendendo il suo stile sempre meno lirico e sempre più prosaico. Le strutture della poesia sono quelle tradizionali; la musicalità, il ritmo, la capacità evocativa e le suggestioni anche. Cambiano linguaggio e temi. Il verso di Gozzano è narrativo. E in modo aulico si trattano argomenti davvero poco sublimi: molto più quotidiani, per non dire insignificanti. Sono “le buone cose di pessimo gusto”. E la chiave di lettura utilizzata per spalancare loro le porte solenni della poesia, è piuttosto inusuale per un genere così raffinato: la cifra di Gozzano è l’ironia. La stessa necessaria ad affrontare una certa malinconia esistenziale, che resta al fondo sempre incombente, ma che pure non riesce mai definitivamente a prevalere.

Guido Gozzano nasce a Torino nel 1883, in una famiglia borghese benestante. Si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, eppure preferisce frequentare i corsi di letteratura. È bazzicando certi ambienti che nel 1906 conosce la poetessa Amalia Guglielminetti. Avranno una relazione lunga circa due anni e un rapporto epistolare molto più duraturo. Nel 1907, mentre si sta godendo il successo per la sua prima pubblicazione (La via del rifugio, una raccolta di 30 poesie tra cui compare L’amica di nonna Speranza), gli viene diagnosticata una lesione all’apice di un polmone, una forma di tubercolosi. Cominciano così una serie di viaggi, vicini e lontani, verso climi più miti, nella vana speranza di ottenere una soluzione al male. Abbandonati poi del tutto gli studi giuridici, Gozzano si dedica unicamente alla poesia. È del 1911 il suo libro più importante: I colloqui (comprende 24 componimenti tra cui Invernale, La signorina Felicita ovvero la Felicità e Totò Merùmeni). Nel 1912 la malattia si aggrava e il poeta decide di partire per l’India. Invierà in patria diverse lettere, resoconti a volte distaccati e ironici, altre intimi e sofferti. Verranno riunite in un volume postumo – Verso la cuna del mondo – del 1917. Rientrato in Italia nel 1913, Gozzano morirà tre anni dopo, ad appena 32 anni. Una vita breve e infelice, verrebbe da dire. Ma no, infelice no!

I RITRATTI DI SILVIA PERUGI

C’è in Gozzano la perenne nostalgia di un mondo, di un tempo che non torneranno. I gingilli inutili e un po’ pacchiani che adornano il salotto di nonna Speranza, antiche eleganze divenute goffaggini, sono le impronte di un’epoca tramontata in cui tutto era ancora possibile. Oggetti fuori moda, così poco classicamente poetici, così tanto originalmente e impareggiabilmente pieni di grazia.

C’è in Gozzano la consapevolezza di vivere in un’epoca in cui il poeta ha perso definitivamente il suo ruolo di guida, in cui la poesia è diventata qualcosa di trascurabile e impolverato. Non certamente la sua. Così rozza e così raffinata: come la signorina Felicita, brutta e pure ignorante, che non ha nulla di certe fanciulle angelicate che ispiravano un tempo i versi più famosi. La verità è che Gozzano demistifica l’essere poeta: qualcuno che sente troppo e vive troppo poco. – Gozzano che poeta non vorrebbe essere, eppure è. – Ed è da questa contraddizione che nascono le sue poesie più belle: “Il mio sogno è nutrito d’abbandono, / di rimpianto. Non amo che le rose / che non colsi. Che le cose / che potevano essere e non sono / state…”, scrive in Cocotte. C’è in Guido Gozzano la costante presenza della morte, “la Signora vestita di nulla che non ha forma”, che “protende su tutto le dita, e tutto che tocca trasforma”, “l’Eguagliatrice” che “numera le fosse”, colei che rende vano ogni vissuto. Se da una parte il poeta vorrebbe “vivere di vita”, dall’altra l’incombere dalla fine rende illusoria ogni passione. Qual è il senso di tutto se poi alla fine nulla rimane?

Bisogna leggere Totò Merùmeni. C’è una villa triste al ricordo di certi “banchetti illustri nella sala da pranzo immensa”. Ci sono “una madre inferma, una prozia canuta ed uno zio demente”. E c’è Totò, 25 anni, scontroso, a cui piace scrivere, giovane uomo dalla “spaventosa chiaroveggenza”, che ha scelto di non barattar parole ma di comporre in libertà. La vita con lui non ha mantenuto le promesse: la delusione amorosa, la malattia, un costante e mai pago senso di malinconia. Come dalle rovine di un edificio andato a fuoco sputano i giaggioli dai bei fiori vividi, così da un’anima riarsa vengono fuori a poco a poco versi consolatori. Totò, il poeta, è felice. Crollati i sogni di una vita eccezionale, non gli resta che accettare il proprio destino. Una consolazione c’è: se la voce di un poeta ha durata breve, al contrario la poesia è eterna.

·        Guido Harari.

Valeria Arnaldi per “il Messaggero” il 3 giugno 2022.  

La visione di un Paradiso in cui cercare di entrare prima che sia chiusa la porta, come canta Bob Dylan. La magia della Factory di Warhol, che poteva creare anche icone da palco, come Lou Reed e Nico. 

E ancora, il cantautorato di Fabrizio De André, la festa di Woodstock - «In Italia, pensavamo fosse l'inizio di un'epoca, invece era la fine» - e l'ascolto ossessivo di questo o quel brano, ieri come oggi, a ricercare verità. E se stessi. È in un'anima rock, che sa andare ben oltre palco e partitura, il segreto della visione fotografica di Guido Harari, classe 1952. illustrata e indagata nella sua prima mostra antologica Guido Harari.

Remain in Light, a cura di Denis Curti, da oggi al 9 ottobre alla Mole Vanvitelliana di Ancona - qui, in alcuni giorni, su prenotazione pure una sala dove farsi fotografare da Harari - e nell'omonimo libro, oltre 400 pagine, edito da Rizzoli Lizard.

Ad essere ripercorsi sono cinquant' anni di scatti e incontri. L'essenza è chiara sin dal titolo, quell'invito a rimanere in luce, da un disco dei Talking Heads, che è anche esortazione del fotografo al soggetto che ritrae. Sono proprio musica e fotografia a intrecciarsi nel percorso, composto da oltre trecento scatti, installazioni, filmati originali e proiezioni, progettato dallo stesso Harari. 

Una sorta di autoritratto, che si fa pure racconto di più decenni, con i loro volti noti, da De André a Bob Dylan, da David Bowie ai Queen, ma anche da Josè Saramago a Greta Thunberg. Perché la musica qui non è solo soggetto delle opere, ma, più a fondo, strumento per guardare la realtà. 

«Trasferire lo sguardo musicale su soggetti che non sono di quel mondo significa provocarli, farli uscire dalla loro comfort zone», spiega Harari. «La musica mi ha catturato sin da bimbo, penso al rock di Celentano. E presto mi ha affascinato anche la fotografia. Mio padre amava immortalare i momenti importanti di famiglia. Quando l'immaginario musicale è entrato nel mio panorama, con dischi, libri, manifesti dei concerti, la fotografia mi è apparsa il mezzo per non essere più soltanto un fan». Il primo concerto è stato quello dei Beatles, a Milano, nel 1965.

«È stato il mio Big Bang», confida. La prima intervista, rimasta inedita, è di pochi mesi dopo, a Shel Shapiro dei Rokes. «Quel sì è stata la pietra su cui ho costruito tutto il mio percorso, pensai che ce ne sarebbero stati molti altri». E non solo nella musica. Anche quello di Omar Sharif per il giornale della scuola. Aveva appena diciotto anni al debutto sui giornali. «Fotografai Alan Sorrenti. All'epoca, non c'erano barriere, guardie del corpo o particolari difficoltà».

E da lì, non ha più lasciato il mondo della musica. «Quando arrivavo a fotografare gli artisti, lo facevo con il bagaglio della loro musica. Erano parte di una famiglia ideale. Ciò creava complicità. In quegli anni, più della tecnica, contava la passione». E, la visione. 

Nel suo caso, la capacità di liberare chi ritraeva dagli stereotipi di icona per mostrarne l'autenticità.

«Provavo un timore reverenziale per Fabrizio De André, anche per la sua sterminata cultura. Mi ha sempre trattato con simpatia e negli ultimi anni abbiamo scoperto di avere varie passioni in comune, come quella per i libri di Saramago. Ho ritratto De André anche sdraiato contro il termosifone: è stato un grande scatto, non per la forma ma per la visione inedita che offriva, reale e non costruita»

Tra gli incontri che lo hanno segnato, quelli con Lou Reed e Laurie Anderson, Pino Daniele, Mia Martini, «che ho frequentato per vent' anni». Poi, negli anni Novanta, la voglia di guardare oltre la musica. «Non dico che mi andasse stretta, ma era diventata ripetitiva. Ho avviato il progetto Italians, sulle eccellenze del Paese. Volevo fare il punto, mantenere la memoria dei personaggi che stavano scomparendo. Lo porto avanti ancora, ma oggi, sono passato alle scommesse sul futuro, come Greta Thunberg». Lontano dalle note, quindi.

«La musica è quasi morta. C'è meno desiderio di mostrare la realtà di sé. Amo i Maneskin, come intenzione e mi inorgogliscono da italiano, ma la band, oggi, è figlia di moda e momento. Prima era diverso. Kate Bush, con cui ho lavorato per dieci anni, volle proprio che la mostrassi come persona, non più come personaggio». E così via, di volto in volto, di storia in storia, con alcuni - pochi - rimpianti. «Una foto non fatta a Warhol. Era a Milano negli anni Ottanta a inaugurare una piccola mostra in una galleria. L'evento era a inviti, cercai di intrufolarmi, fui respinto. Warhol non arrivava, pensai non sarebbe più venuto e andai via. Ho fatto male, è stata una grande lezione». Valeria Arnaldi

·        Ian Fleming.

Matteo Persivale per il Corriere della Sera l'11 luglio 2022.

L'ancora di salvezza è un romanzo di spionaggio del 1946 nel quale l'autrice, Phyllis Bottome, immagina un agente segreto 36enne, alto 1,80, atletico, elegante, poliglotta, bevitore incallito e altrettanto incallito fumatore, appassionato di alpinismo, taciturno, donnaiolo, giramondo, che si chiama Mark Chalmers. Chalmers è secondo lo storico dello spionaggio Nigel West il modello evidente del protagonista di un libro uscito 7 anni dopo quello di Phyllis Bottome: James Bond, creato da Ian Fleming, che debuttò in Casino Royale ; anche lui agente segreto 36enne, alto 1,80, eccetera. 

West ieri, sul Daily Telegraph , ha analizzato i due testi trovando similitudini non soltanto nelle caratteristiche dei protagonisti ma in alcuni momenti decisivi della trama, definendo Fleming «ladro» e Bottome «vittima».

Ma Fleming non era semplicemente un lettore di Bottome: era un suo ex-allievo, e fu lei, scrittrice allora famosa poi finita fuori stampa, a incitarlo a cimentarsi nella scrittura di racconti. Nel 1927 il 19enne Fleming, studente molto svogliato ma vigoroso frequentatore di case di tolleranza, fu inviato per punizione (aveva contratto un'infezione durante una scappatella) alla scuola di recupero che un amico di famiglia gestiva in Tirolo: l'alternativa era l'esilio agli antipodi, in Australia. 

L'amico si chiamava Ernan Forbes Dennis, era una spia inglese, ex direttore dell'ufficio del MI6 a Vienna. La moglie? Era Phyllis Bottome che prese il giovane Ian - «etoniano arrogante» - sotto la sua ala, psicanalizzandolo (era allieva di Adler), scoprendo che soffriva per la freddezza della madre vedova che gli preferiva il fratello, e si deve a lei l'intuizione del talento di Fleming per la scrittura.

C'è un motivo molto sottile e davvero interessante, secondo lo storico, per cui Phyllis Bottome non si lamentò mai dell'«omaggio» non riconosciuto al suo lavoro (o del plagio a seconda dei punti di vista): perché fu Fleming stesso a ispirarle il personaggio dell'agente segreto. «Non ci sono dubbi - spiega West - Bottome scriveva di Ian Fleming quando ha creato Mark Chalmers. E non c'è dubbio che Fleming abbia preso Chalmers come modello per 007: si è riappropriato di se stesso».

Fu proprio Bottome, nel 1947, ospite nella villa giamaicana di Fleming, a consegnarli una copia de L'ancora di salvezza . Ora il romanzo verrà ristampato dalla Muswell Press e tornerà in libreria dopo decenni, e il pubblico potrà giudicare.

·        Ignazio Silone.

Il ricordo di Ignazio Silone, un esempio per le nuove generazioni della politica italiana. Massimo Carugno, Avvocato e scrittore, su Il Riformista il 22 Agosto 2022

Secondino Tranquilli.

Scrittore, saggista, letterato di grande spessore e profondità culturale sì da essere candidato per ben dieci volte al Nobel. Fu anche un pensatore politico di grande rilievo e parlamentare nella Costituente. Il suo percorso ideologico è un cammino che dovrebbe essere da insegnamento per le nuove generazioni della politica italiana.

Fu uno degli ispiratori della nascita dell’area culturale e politica del socialismo italiano. Poi nel 1921, a Livorno, seguì Bordiga e divenne, nel PCI, l’uomo degli esteri, approdando a Mosca dove coltivò i rapporti con la nomenklatura sovietica. Nel 1930 ampie riflessioni sulla realtà comunista lo riportarono a casa, nella famiglia socialista. Nel 1947 all’interno del PSI abbracciò l’autonomismo sfidando Nenni e schierandosi contro la scelta filocomunista del “fronte popolare”. Nei suoi ultimi anni sposò le idee socialdemocratiche saragattiane acuendo la distanza che lo divideva dal mondo comunista che lo portò a vederlo incompatibile con il pensiero socialista.

Di lui ci resta l’affresco meraviglioso delle terre d’Abruzzo nel quale narra la straordinaria umanità della sua gente aspramente condita dalla miseria nella quale viveva. Ma il saldo del destino fu ingrato e, nell’ultimo atto politico della sua vita, Pescina, dove era nato e alla quale aveva donato la ricchezza delle sue narrazioni, gli lasciò una misera manciata di voti. Era il 1953 e non fu eletto deputato nel P.S.D.I. di Saragat.

Quel ripudio della sua gente lo allontanò definitivamente dalla politica attiva.

Muore il 22 agosto del 1978 a Ginevra.

Voi lo conoscete con il nome di Ignazio Silone.

·        Indro Montanelli.

Marina Valensise per “il Messaggero” il 14 agosto 2022.

Ecco una chicca che farà cambiare idea agli indignati pronti a rimuovere la statua di Indro Montanelli dai giardini di Porta Venezia, perché non si può onorare la memoria di un colonialista stupratore e fascista, che si vantò di aver avuto una sposa eritrea tredicenne durante la guerra in Etiopia. 

Colpa orribile, sia chiaro, che richiede però un minimo di attenzione al contesto e di comprensione per il famoso giornalista che sopravvisse a più regimi, diventando l'emblema dell'opinione pubblica italiana, confortato da decine di milioni di lettori, tanto da assurgere al prototipo dell'arcitaliano.

Leggendo questa antologia di scritti sfolgoranti, ripresi da lettere, saggi, articoli, corrispondenze, di guerra, come quella dalla Finlandia o dalla Polonia nel 1939, che include una raccolta di aneddoti, racconti, ritratti al fulmicotone, osservazioni sapide e ficcanti come solo un toscanaccio doc può produrne, si potrà apprezzare la versatilità di un commentatore che passò indenne dal fascismo all'antifascismo, dai balilla ai democristiani, dalle pose dannunziane di Curzio Malaparte alla ludopatia di Guido Piovene. 

E si riconoscerà il suo genio anarchico, fatto di cinismo, sprezzatura, superiorità borghese, irrisione dei nobili, insofferenza al potere, affidato a uno stile piano, trasparente, dal ritmo naturale, mai agghindato. 

«Se io non capisco quello che lei scrive, vuol dire che l'imbecille è lei» gli spiegò un tizio americano a un corso di giornalismo dell'United Press. E il giorno in cui con la ragazza che sognava di sposare andò a sentire il principe del foro Carnelutti, «Ti chiedo una sola cosa», le disse, «portami in dote una pistola e sparami, se mai mi sentirai parlare in quel modo».

Difficile che i critici suoi più radicali restino insensibili a tanta ricchezza di testimonianze.

Montanelli certo si macchiò di colpe gravi. Era anche un misogino, marito devoto dell'influente Colette Rosselli, e amante fedele di una bellissima signora milanese. Ebbe tutte le debolezze del maschio italico, al punto di riconoscerle egli stesso nel nonno, sindaco di Fucecchio e massone, uomo di emerite virtù, sposo e padre felice, ma fedifrago sebbene in campo libero, con giovane merlettaia sistemata a Empoli.

Eppure non era ipocrita. Pur col suo opportunismo, coi suoi tatticismi «tappatevi il naso e votate DC» con l'insofferenza verso la cappa di piombo dell'ideologia e del terrorismo che a settant' anni suonati lo gambizzò in piano centro a Milano, mirava al sodo, cercando di difendere la libertà sopra ogni cosa, e irridendo col suo gusto anarchico a quelli che senza volerlo rischiavano di minacciarla.

 Rileggete le righe su Eugenio Scalfari, «uno di quei duellatori che, per imprimere più forza al fendente, seguono col corpo la sciabola e perdono la guardia». 

Scalfari, di cui riusciva a essere amico solo a distanza, nel 1969 propugnava il connubio clerico-marxista pensando che il Partito Socialista avrebbe coagulato all'opposizione le forze laiche e democratiche: «È incredibile la carica d'intelligenza che egli investe in tesi così stupide», notava Montanelli nel Diario cortinese, temendo di ritrovarsi a parlare di quelle cose in una cella di prigione.

Prendete le pagine su Ennio Faiano, genio della satira, scrittore di successo, sceneggiatore affermato. Montanelli lo va a trovare in un albergo romano a Prati, dove Flaiano, reduce da un infarto, gli appare ingrassato, pallido in volto, privo dell'abituale schermo di cinismo. È un uomo esausto, sfibrato dalla moglie e prof di matematica, che ha sacrificato tutta la vita alla loro disgraziatissima figlia malata, che li obbliga a vivere al buio, per le continue convulsioni da crisi epilettiche. «Che castigo rivedere i miei film in tv e pensare che quel dialogo l'ho scritto io», gli dirà malinconico Flaiano. E così, nel regno delle ombre, la verità si colora di compassione per dare voce all'umanità. 

Le confessioni di Montanelli tra narcisismo e sarcasmo. Alessandro Gnocchi il 5 Luglio 2022 su Il Giornale.

Esce una antologia di passi autobiografici con giudizi fulminanti su se stesso. Senza scordare amici e nemici

«Qui riposa Indro Montanelli. Genio compreso. Spiegava agli altri ciò che egli stesso non capiva». Questo bellissimo auto-epitaffio, vergato fortunatamente con larghissimo anticipo tra il 1955 e il 1958, riassume molti aspetti di Indro Montanelli (1909-2001): il narcisismo; il dubbio di essere un magnifico imbonitore di lettori ma privo di sostanza culturale; la comprensione perfetta del mestiere di giornalista; la capacità innata di ritrarre una persona con pochi, essenziali tratti; l'ironia lucida e amara, che fa presto a passare dalla risata alla depressione. Quello che molti non sanno è che si tratta, in realtà, di una rivisitazione di una battuta di Leo Longanesi: «Montanelli è uno che spiega agli altri quello che non capisce». Al «carciofino sott'odio», Indro riservò quest'altro epitaffio: «Qui giace per la pace di tutti Leo Longanesi uomo imparziale. Odiò il prossimo suo come se stesso».

Se non mi capite, l'imbecille sono io di Indro Montanelli è un’autobiografia irregolare vale a dire realizzata dall'officina editoriale Rizzoli andando a pescare i brani più significativi e divertenti (spesso le due qualità coincidono) della ricchissima produzione montanelliana. Il risultato è una autobiografia intellettuale. Non contano le date e i fatti ma le idee (e gli incontri). Qualche esempio. Montanelli sul diritto di morire: «Sono loro (i medici, ndr) che devono riconoscere il sacrosanto (dico e ripeto: sacro e santo, checché dicano i bigotti della sacralità della vita) diritto dell'uomo a scegliere il quando e il come della propria morte». Montanelli presunto credente: «Credo in Qualcuno. Non credo che saprò mai, né da vivo né da morto, chi è e com'è fatto». Montanelli presunto ateo: «Quando io dico che mi manca la fede, lo dico con disperazione, non con protervia». Montanelli tragico fatalista: «Io forse sarà ricordato, quando avrò preso congedo da questo mondo, da qualcuno dei miei lettori, non certamente dai loro figli. So di aver scritto sull'acqua».

Naturalmente ci sono le guerre di cui Montanelli fu testimone, oltre a quella africana combattuta in prima persona. Nel 1942 chiudeva così un pezzo sulla Seconda guerra mondiale: «La nostra posizione era imbarazzante anche per questo: non si vedeva nulla». Dunque, la difficile posizione del reporter embedded, al seguito, non è nata con la prima guerra del Golfo. Molto belli sono gli stralci da I cento giorni della Finlandia, resoconto (quasi) dal campo della eroica resistenza finlandese all'avanzata dell'Armata Rossa. Un aneddoto bruciante illumina il dramma della dichiarazione di guerra alla Francia del 10 giugno 1940. L'Italia si abbandonava a un applauso generale e, nello stesso tempo, se ne pentiva. La guerra creava una frattura «che avrebbe diviso tutta la nostra generazione: o con fascismo e l'Italia, o contro il fascismo ma anche contro l'Italia. E ora non ci resta che perderla disse quella sera Pannunzio a Longanesi. Leo saltò per aria: Parole di traditore!» . Ci sono gli storici reportage da Budapest ubriaca di libertà nel 1956. Montanelli scrisse subito che era una ribellione contro il comunismo sovietico ma favorevole a un socialismo umano. Scontentò tutti però aveva ragione. Non sfuggì a Indro che in Italia qualcuno non era affatto contrario ai carri armati sovietici e alla repressione degli insorti. « Captammo Roma. Trasmettevano il discorso del ministro Martino. Un bel discorso. Ma, a chiusura, udimmo il grido lanciato in aula dai deputati comunisti: Viva l'Armata rossa!. A pochi passi da noi, l'Armata rossa stava mitragliando nelle cantine gli operai e gli studenti di Budapest, rimasti senza munizio ni». Dal punto di vista letterario, i ritratti, molti dei quali raccolti nei due volumi degli Incontri sono il piatto forte. Indro amava scherzare sulle persone che amava. Amico di Piovene, e suo estimatore al punto di fondare con lo scrittore il giornale che state leggendo, lo fece più volte a fettine: «Per temperamento, Piovene era un sadico che avrebbe fatto impallidire Jack lo Squartatore, ma fortunatamente era così pauroso di tutto che non ebbe mai l'ardire di uccidere neppure una mosca». In Se non mi capite, l'imbecille sono io sfilano, oltre ai già citati, inarrivabili ritratti di Curzio Malaparte, Mario Soldati, Ennio Flaiano, Salvador Dalí, Giovanni Spadolini, Giulio Andreotti, Alcide de Gasperi, Ottone Rosai, Eugène Ionesco e molti altri. Montanelli è capace di essere spietato. Leggete le righe dedicate a Eugenio Montale: «È difficile sorridere a Montale. Sul suo volto chiuso la cordialità scivola via come acqua su una lastra di marmo». Un'ampia sezione è riservata al mondo del cinema con un cattivissimo epitaffio per Alida Valli: «Qui per la prima volta Alida Valli giace sola».

Brucianti anche i giudizi sulle ideologie del XX secolo. Fascismo: «Il più comico tentativo per instaurare la serietà». Di Togliatti scrisse che era «impiegato modello di rivoluzioni parastatali»; di Nenni disse che «sognò barricate su cui passeggiare in pantofole». Non fece sconti alla borghesia liberale solo a parole: «Essi non servono le loro imprese, se ne servono. Si battono contro le intrusioni dello Stato, ma ne sollecitano i favori. E che razza di destra possiamo da essa aspettarci?». Le riflessioni sulla borghesia sono sulla scia di Longanesi. Gli aforismi sull'Italia hanno invece un debito con la famosa divisione fra furbi e fessi teorizzata da Giuseppe Prezzolini: «Tra gli italiani la solidarietà non esiste. Esiste la complicità». Gli intellettuali sono massacrati: «La cultura italiana è mafiosa perché nasce nel Palazzo, al servizio del Principe. Il Principe cambia, al suo posto arriva il Granduca, il papa o il Partito. Ma la cultura resta una faccenda d'iniziati e per iniziati».

Dunque di autobiografico in Se non mi capite, l'imbecille sono io (titolo che è anche la regola fondamentale del giornalismo) non c'è quasi niente, anche se le lacune non mancherebbero: che ne è, ad esempio, della primissima produzione letteraria e delle circostanze in cui nacque? Non era questo libro la sede giusta, è chiaro. Se non mi capite, l'imbecille sono io resta una lettura tanto divertente quanto intelligente.

Estratti da “Se non mi capite, l’imbecille sono io”, di Indro Montanelli (ed. Rizzoli), pubblicati da “il Fatto quotidiano” il 7 Luglio 2022. 

Fascismo/1. Il più comico tentativo per instaurare la serietà. 

Fascismo/2. Io il fascismo lo incontrai per la prima volta all'età di dodici anni.

Allora abitavamo in una piccola città di provincia, dove mio padre era preside di liceo. Io facevo la terza ginnasiale e una sera mi trovavo al cinematografo, dove si proiettava una pellicola di Maciste, quando un impiegato della sottoprefettura venne a cercarmi in tutta urgenza per ricondurmi all'abitazione del sottoprefetto, dove la mia famiglia si trovava in visita. 

Quando giungemmo dinanzi all'edificio, lo trovammo circondato da gente in grigioverde e camicia nera che non lasciava passare nessuno. Lasciò passare solo me, perché ero un bambino e perché uno dei caporioni era un certo Messina, mio compagno di classe. Messina aveva diciassette anni, ed era ancora in terza ginnasiale. Era, naturalmente, un ripetente. 

È curioso: tutti i fascisti del liceo erano dei ripetenti. Messina aveva anche un fratello maggiore socialista, che girava con la cravatta e il cappello neri e che venne in seguito "ricinizzato". La gente diceva che Messina junior si era fatto fascista per avere così il pretesto di picchiare Messina senior. Andando avanti negli anni mi sono accorto che le divisioni politiche in Italia hanno sempre servito di pretesto ai Messina junior per picchiare i Messina senior o viceversa, e arrangiare così i conti di famiglia e di vicinato. 

La guerra/1. Il fatidico 10 giugno del 1940 in piazza Venezia c'ero anch' io, in compagnia di Pannunzio. Il discorso di Mussolini fu uno dei più brutti che abbia mai pronunciato. Tutto vi suonava falso. E non meno fasulle furono le ovazioni che gli tributo la piazza. Finita la cagnara, tra la gente che sfollava i commenti in sordina erano tutti del tono dei nostri: "Quello è matto", "Ma chi ce lo fa fare?".

Improvvisamente Pannunzio, uomo solitamente così misurato da essere giudicato insensibile, sbottò: "I più vigliacchi siamo io e te. Perché se nel momento in cui diceva: 'Un'ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria', gli avessimo fatto una pernacchia, si sarebbe sgonfiato tutto". La guerra creava una frattura che avrebbe diviso tutta la nostra generazione: o con il fascismo e l'Italia, o contro il fascismo ma anche contro l'Italia. "E ora, non ci resta che perderla" disse quella sera Pannunzio a Longanesi. Leo saltò per aria: "Parole di traditore!". 

La guerra/2. Poche volte avevo visto un'Italia così unanime nel pensare che la guerra non si doveva fare e poche volte l'avevo vista cosi unanime nell'applaudire il Duce quando il Duce la dichiarò: poche volte la sentii più unanime nel rimpiangere questi applausi nello stesso istante in cui vi si abbandonava.

Churchill. Quando morì non lasciò un soldo e sua moglie Clementine dovette arrangiarsi a venderli per sopravvivere. A pranzo esigeva champagne e a cena Bordeaux. E dopo cena beveva whisky e cognac. Quanto al celebre sigaro, lo teneva quasi sempre spento, affrettandosi però infilarselo in bocca quando avvistava un fotografo, per restare fedele all'immagine che lo aveva reso popolare. 

Achille Lauro. Andò a rendere omaggio all'ex re Umberto, nel suo esilio di Cascais. Non è facile immaginare quale sia stato lo svolgimento del colloquio tra quel gentiluomo compito, misurato, elegante, e il monarchico rampante che diceva "si chiami il radiologo" se durante un comizio il microfono non funzionava, o anche "non lasceremo le vostre attese sulla sogliola di Montecitorio".

Sandro Pertini. Non ho mai conosciuto nessuno - tranne forse il primo Mussolini - che sapesse come lui fiutare gli umori popolari e adeguarvisi con altrettanta prontezza. [...] Soprattutto nel toccare le corde del patetico, è stato un maestro.

Non ha mai sbagliato una lacrima, sebbene ne abbia versate quanto nessuno prima di lui. In sette anni di presidenza non ha perso un funerale, e non c'è guancia di bambino che non abbia baciato. Ha maneggiato più bare di un becchino e più culle di una balia. [...] Il presidente che ha incarnato al meglio il peggio di noi italiani. 

Anna Magnani. Non ha mai avuto avventure, ma solo passioni, a cui non c'è stato uomo che abbia avuto la forza di reggere. Sempre, inappagato, il suo oscuro istinto di sottomissione si traduceva in sopraffazione: non sapeva amare che perseguitando, soffocando, prevaricando. 

Una volta Rossellini mi disse: "In due ore di Anna, c'è tutto: l'estate e l'inverno, la tenerezza, la sfuriata, la gelosia, il litigio, la rottura, l'addio, le lacrime, il pentimento, il perdono, l'estasi, eppoi di nuovo il sospetto, la rabbia, gli schiaffi...". Non aggiungeva: "Ma queste due ore si ripetono dodici volte al giorno e questo giorno si ripete sette volte alla settimana...".

Alberto Sordi a Parigi. La sera che arrivò, per iniziarlo alla vita notturna della metropoli e affezionarvelo, lo condussero Chez Carrol's, una boîte tra le più in voga, soffusa di un alone di ambiguo peccato. Bel ragazzo, di modi dolci e gentili, vestito con la scrupolosa cura che rappresenta il "Made in Italy" dei nostri giovanotti provinciali, Alberto attirò subito l'attenzione di una entraîneuse che gli dedicò cure tutte particolari. E, da vero rubacuori nostrano, ci si affezionò subito. Sordi, di questo tipo di seduttore, ha fatto - e tutti se ne ricordano di certo - un'interpretazione delle sue più vivaci e colorite. 

Gli tornò in mente e la copiò quando nel suo pessimo francese si mise a fare la corte alla ragazza buttandoci dentro a palate tutti i soliti ingredienti dell'arte erotica nazionale, l'anima, il mare, la luna, e anche un po' di sorelle e di mamma: oppure l'aveva completamente scordata e ci credeva, in quel momento, anche lui? Inutile chiederglielo perché lo ignora certamente egli stesso. Se lo sapesse, non sarebbe più quell'esemplare italiano che è.

Vittorio De Sica. De Sica, sui cinquanta ormai, è un po' ingrassato e incanutito, ma né il successo né le fatiche sono riusciti a brunirgli quella patina d'infantile innocenza che già fece di lui l'attore più teneramente amato dagli spettatori e ancora più dalle spettatrici, e che è monopolio esclusivo di certi napoletani e di certi inglesi. Un giorno, forse, De Sica sarà antico; vecchio, mai. 

L'attentato del 1977. È la festa della Repubblica. Io la celebro ricevendo nelle gambe quattro pallottole di rivoltella, calibro 9. Me le sparano alle 10.10, appena uscito dall'albergo Manin, alle spalle. Faccio a tempo, voltandomi, a vedere uno dei due killer che seguita a sparare da una distanza di 4-5 metri. Ma sono talmente sorpreso e frastornato che non riesco a fissarne nella memoria il volto. 

Aggrappandomi all'inferriata dei giardini pubblici, penso: "Devo morire in piedi!". Questo pensiero stupido, retaggio sicuramente del Ventennio, è forse quello che mi salva: cadendo, avrei probabilmente preso l'ultima scarica nell'addome. Solo quando il killer ha finito, cedo al languore che m' invade e scivolo a terra. Potrei comodamente uccidere con la mia pistola l'uomo che ora mi volta le spalle per fuggire. Ma ce n'è un altro che lo protegge con l'arma in pugno. Mi limito a gridargli: "Vigliacchi!". Un cane lupo, dall'altra parte dell'inferriata, sporge la lingua fra le sbarre e si mette a leccarmi la faccia. La donna, che lo tiene a guinzaglio, è terrea. Le sorrido, e dico: "Non si spaventi!". 

Gli italiani/1. Tra gli italiani la solidarietà non esiste. Esiste la complicità. 

Gli italiani/2. Il maggior difetto degl'italiani non è quello di essere servili. È quello di voler sempre a tutti i costi accusare qualcuno di averli asserviti. 

Gli italiani/3.Gli italiani non imparano niente dalla Storia, anche perché non la sanno. 

 I politologi. Il bello dei politologi è che, quando rispondono, uno non capisce più cosa gli aveva domandato.

La borghesia. Adottando come divisa il paltò di cammello, la borghesia crede di essersi trasformata da gregge in carovana. 

La religione. Credo in Qualcuno. Non credo che saprò mai, né da vivo né da morto, chi è e com' è fatto. 

Autoepitaffio. Qui riposa Indro Montanelli. Genio compreso, spiegava agli altri ciò ch' egli stesso non capiva.

·        Italo Calvino.

Paolo Di Paolo per “il Venerdì di Repubblica” l'11 agosto 2022.

Negli anni dell'adolescenza, andava al cinema tutti i giorni. Una specie di mania che lo spingeva a uscire di casa con una scusa: bastava l'alibi di una sessione di studio con un amico per ritrovarsi in una sala buia e semivuota. 

Sullo schermo, il volto di Buster Keaton o di Charlot. Ed era uno straordinario spazio di libertà che si apriva: a costo però di liquidare il senso di colpa da «figlio perdigiorno». Evasione? Ma sì: «A me il cinema serviva a quello, a soddisfare un bisogno di spaesamento, di proiezione della mia attenzione in uno spazio diverso». 

Così scrive Italo Calvino in quella Autobiografia di uno spettatore che è la confessione di un autentico cinefilo, o «cinemaniaco», come lo definisce un giovane studioso nato nel 1996, Davide Maria Zazzini, nel documentatissimo Il cinema per me era tutto il mondo. Italo Calvino spettatore (Galaad edizioni).

È l'illuminante ricognizione di un rapporto più decisivo di quanto solitamente si intuisca: perché se è vero che Calvino, a differenza di Mario Soldati o di Pasolini, non ha fatto il cinema, è però altrettanto vero che l'ha costeggiato, esplorato, interrogato in molteplici vesti. 

«Reporter sui set, inviato a due Mostre del cinema di Venezia (che anni dopo lo riabbraccerà da presidente di giuria), soggettista (anche a sua insaputa), promotore delle sue storie per il grande schermo, consulente per soggetti, sceneggiatore (con più celebri rifiuti), editore di libri di sceneggiature, "sociologo" del cinema, membro di cineclub, a lungo fidanzato con un'attrice (Elsa De Giorgi); dal punto di vista letterario, poi, autore di opere in cui tutto rimanda insistentemente alla tecnica di ripresa cinematografica», scrive Zazzini nella premessa al volume. 

Che offre anche materiali dispersi e rari: come per esempio rimandi alle precoci recensioni cinematografiche di un Calvino diciassettenne su un inserto del Giornale di Genova, o a quella clandestina - censurata all'epoca dall'Unità - al film Anni difficili di Luigi Zampa. Ma ci mette anche di fronte a un ragazzo ipnotizzato dalle dive degli anni Trenta e Quaranta, sedotto dalle icone di quel «gigantesco firmamento» in cui convivono Greta Garbo, Marlene Dietrich e Mirna Loy.

Un sogno erotico che «perdura ben oltre la sala», e che coinvolgerà più avanti il «biancore appena rosato» della pelle di Gina Lollobrigida, e soprattutto della «più bella ragazza che io abbia mai visto»: Silvana Mangano, incontrata sul set di Riso amaro. 

Vista da vicino, Calvino la descrive così: «È romana, ha diciott' anni, il viso e i capelli della Venere di Botticelli, ma un'espressione più fiera, dolce e fiera insieme, occhi scuri e capelli biondi, un incarnato terso e limpido, senza ombre né luci, spalle che s' aprono con una dolcezza da cammeo, un busto d'una ardita armonia di linee trionfali e aeree, la vita come uno stelo snello, e un mirabile ritmo di curve piene e longilinee».

Oggettivamente folgorato, questo Calvino venticinquenne! Nel frattempo si dedica, per quotidiani e riviste, a un'acuta osservazione degli stilemi del cinema neorealista nel suo farsi. Il lavoro di De Sica e Zampa, di Rossellini e De Santis gli pare l'esito di una battaglia (giusta) contro il cinema «convenzionale e falso dell'americanismo cosmopolita». 

Cinema e politica, cinema e letteratura, cinema e società: le interpretazioni di Calvino sono giocate su una non comune capacità di creare connessioni. Ma quando avverte una parentela troppo marcata tra film e libri, una confusione di intenti tra sceneggiature e romanzi dai quali sono tratte, insiste sulle differenze.

Da inviato al Lido di Venezia per la mostra d'arte cinematografica, verso la metà degli anni Cinquanta, si trova di fronte a diverse pellicole che adattano opere letterarie e - spiega Zazzini nel suo saggio - non lesina critiche dove rileva indebita promiscuità fra mondi poetici diversi. Se approva Senso di Visconti, è perché «sviluppando il suo autore senza tradirlo, è riuscito a centrare un nodo culturale contemporaneo, a fare insieme autobiografia, saggio, problema morale e giudizio di costume. La letteratura può essere questo per il cinema: un punto di partenza; l'importante è dire cose nuove».

L'innamoramento per Fellini dev' essere nato su questa base: l'impressione di una originalità senza ascendenze, spuria, perfino misteriosa. Di fronte a certe scene della Dolce vita - scrive - «non ci resta che far tanto di cappello». 

La fedeltà a Fellini, dai Vitelloni a Amarcord fino a E la nave va, è assimilabile a un processo di immedesimazione in un alter ego. Ma questa non è una sorpresa, mentre forse lo è la scarsa simpatia di Calvino per Il conformista di Bertolucci o il Salò di Pasolini: «L'idea di ambientare il romanzo di Sade ai tempi e ai luoghi della repubblica nazi-fascista mi sembra pessima da ogni punto di vista.

La terribilità di quel passato che è nella memoria di tanti che l'hanno vissuto non può essere usata come sfondo per una terribilità simbolica, fantastica, costantemente fuori dal verosimile come quella di Sade». L'ultimo capitolo del bel saggio di Zazzini è dedicato all'esperienza di giurato, anzi di presidente di giuria a Venezia nel 1981. L'interessato, con eccessivo understatement, dice di essere stato chiamato proprio perché «non so niente di cinema, perché sul cinema non ho mai teorizzato».

È divertente, in ogni caso, che Calvino si trovi quell'anno davanti a Sogni d'oro di Nanni Moretti, a cui avrebbe volentieri assegnato metà Leone d'Oro (lo vinse effettivamente, e da sola, Margarethe von Trotta con Anni di piombo). Lo humour di Moretti piacque allo scrittore: un'altra via "altrettanto" seria - così lo definisce - «di arrivare alla verità e alla propria liberazione».

Ma coglie anche, si potrebbe dire con lungimiranza, una «sottile malinconia». È conquistato da Francisca di Manoel de Oliveira, fuori concorso, e dalla retrospettiva sul cinema di Howard Hawks. Il "cinemaniaco" ritorna adolescente, e propone che i giurati assistano alle proiezioni insieme al pubblico: perché «la risata, lo sberleffo, la noia» fanno parte del film. Ma forse ce ne stiamo dimenticando. 

·        Jane Austin.

Chi era Jane Austin, autrice immensa come Shakespeare. Filippo La Porta su Il Riformista il 21 Luglio 2022. 

Avvertenza preliminare. Jane Austen non è tanto e solo una autrice “per signorine”, oggi brand dell’immaginario pop, paradigma di tanta letteratura rosa e chick-lit, occasione per rivisitazioni cinematografiche e televisive, pretesto di manuali di comportamento etc., quanto un’autrice immensa, associata da Virginia Woolf a Shakespeare (entrambi “assenti” dal testo), amata – solo per citarne alcuni – da George Eliot, Mark Twain, Henry James, Katherine Mansfield, Chesterton , Capote, Nabokov, Tomasi di Lampedusa e fino a Jamaica Kincaid.

Tutto questo lo apprendo leggendo il corposo saggio introduttivo di Liliana Rampello (80 pagine) al primo Meridiano dedicato alla narrativa di Jane Austen (con i romanzi Northanger Abbey, Ragione e sentimento, Orgoglio e pregiudizio, poi “Altri scritti” (Juvenilia, Lady Susan), dove scopriamo che alcune sue cose giovanili, benché “minori” sfidano coraggiosamente il proprio tempo, la sua mentalità e le sue convenzioni (traduzioni di S. Basso, S. Censi, L. Ciotti Miller, L. Gaia e F. Pinchera). Liliana Rampello, nel suo scritto minuzioso e devoto, ci offre un ritratto completo della scrittrice, insistendo sulla sua inclassificabilità, sulla sua personalità estremanente porosa, capace di abbracciare sia – come spesso le venne accusato – “la povera zitella, di qualche talento, conformista e perbenista”, interamente chiusa nel proprio piccolo mondo antico, sia la scrittrice di “intelligenza abbagliante”.

Una “coscienza limpida”, una “mente androgina” (Woolf) che sorride delle follie del mondo, impegnata a descrivere società “con quella freddezza, pazienza, ponderatezza… che le consentono di diventare una grande artista”. Inoltre propone un percorso all’interno della sua opera narrativa scandito da topoi illuminanti quali ad es. la “passeggiata” “invenzione necessaria per far pensare con la propria testa la protagonista”. Forse avrei concesso meno agli studi, pur importanti, di Franco Moretti, che ci ha mostrato le relazioni spesso invisibili tra generi letterari ed evoluzione della società borghese. Ad esempio dove si nota che l’uso del discorso indiretto libero (una delle innovazioni austeniane) rivela una voce neutrale, tra voce dell’autore e voce del personaggio, che è poi quella “dell’individuo socializzato”. Giusto, ma ce ne importa così tanto dell’individuo socializzato? Proviamo andare oltre al contratto sociale e a una idea di letteratura come qualcosa che solo ci adatta al mondo circostante! Certo, la letteratura è servita anche a assicurare il consenso alla società borghese, imbrigliandone i conflitti, ma la letteratura è molto più di questa funzione. Contiene un nucleo sovversivo, non addomesticabile.

Il punto decisivo è che i romanzi di Jane Austen ci parlano direttamente, ci interrogano, criticano la nostra vita, arricchiscono la nostra immaginazione morale. Altro che consenso! Senza considerare l’equivoco tipicamente morettiano, qui appena sfiorato, per cui il romanzo come genere abbasserebbe la Storia al livello del quotidiano. Ne siamo sicuri? Ma il romanzo ottocentesco, da Stendhal a Tolstoj, dimostra proprio che la realtà autentica è il quotidiano, mentre la dimensione della Storia è perlopù irreale, distante, ingovernabile da parte degli individui. Nei romanzi di Austen non ci sono i grandi eventi storici della sua epoca – rivoluzione francese, Restaurazione, imminente rivoluzione industriale – per la ragione che lei si limita a mostrarne i riflessi sul modo di essere dei suoi personaggi.

Nella introduzione non si riprende lo spunto davvero fondamentale di Lionel Thrilling, citato un po’ di sfuggita nelle prime pagine, e cioè il fatto che la Austen sviluppi una vera critica della modernità (non riducibile ai conversation pieces di Mario Praz). In che senso? Nel senso che mette al centro l’umanità ordinaria di quel mondo. Trilling, certamente con un azzardo teorico, contrappone Austen, Wordsworth (e la tradizione rabbinica) a una certa idea di modernità, allo scopo di affermare una morale antieroica. Per definire la verità ultima dell’esistenza il critico ebreo americano indica un “sentimento dell’essere” (sentiment of Being): sentimento di esserci (biologicamente), prima di ogni determinazione sociale o culturale, insomma la vita che si giustifica in se stessa, qui ed ora, senza che debba essere riscattata da un eroismo, dallo stile, dal coraggio, dal genio, dalla lotta, etc. Il mondo non va rifatto, ed è fondamentalmente buono, come ci ricorda la Torah.

In Orgoglio e pregiudizio il ricco e piacente gentiluomo Darcy (Colin Firth in una versione televisiva per la BBC, il migliore di tutti) “sembra convinto che la campagna non valga niente”, eppure anche lì si recita la eterna commedia umana, e anzi le relazioni vi ritrovano una nuda verità.

Il genere stesso del romanzo, come insegna Jane Austen (ben inserita nella tradizione inglese, più Fielding che Richardson e forse non immemore di Hume) è la “scienza” di tutto ciò di cui non si può fare scienza, dell’incoerente, contraddittorio vissuto emotivo delle persone, composto di dettagli spesso invisibili e di sfumature. Quando Darcy chiede la mano a Elizabeth – ventenne intelligentissima, ironica, impertinente, solare (“non era fatta per il malcontento”), di estrazione modesta, e insiste un po’ troppo sulle loro differenze sociali, lei nota “che si esprimeva bene”, tuttavia “parlò con eloquenza di orgoglio non meno che di tenerezza”.

Darcy è infatti ancora rinserrato nel suo aristocratico egoismo, non ha trasformato l’orgoglio (ci viene poi segnalata una differenza terminologica fondamentale: “L’orgoglio ha a che fare con l’opinione che abbiamo di noi stessi, la vanità con l’opinione che vorremmo gli altri avessero di noi”). Il carattere della padrona di casa, Lady Bennett (la madre delle cinque ragazze), è impietosamente descritto – sciocca, pettegola: “una donna d’intelligenza modesta, scarsa istruzione e temperamento instabile” – però il giudizio severo non impedisce una pietas verso il personaggio, che possiede una propria dignità creaturale e che non ha meno diritto di esistere rispetto a tutti gli altri.

Rampello sottolinea giustamente “l’ironia feroce”, l’intenzione parodica che attraverso i romanzi austeniani, specie quelli giovanili (romanzi di anti-formazione), sorretti da una lingua volutamente esagerata e melodrammatica. Romanzi che non offrono soluzioni, che, per riprendere lo schema morettiano, non ci adattano per nulla ai ruoli sociali. La ribelle, irruenta Marianne di Ragione e sentimento sceglie il saggio colonnello Brandon, pur non essendone all’inizio innamorata, e dopo aver capito la falsità della propria “passione irresistibile” per il fatuo Willoughby. Pensate a una quieta, conformista integrazione? Rampello commenta: “Non sarà la sola a capire che la felicità si raggiunge quando il dovere guida liberamente il desiderio”. Solo un romanzo poteva mostrarci un dovere che, paradossalmente, ispira il desiderio, e dunque l’intreccio mai interamente risolto tra ragione e sentimento. Filippo La Porta

·        John Le Carré.

Estratto dall’articolo di Antonello Guerrera per repubblica.it il 2 ottobre 2022.

I tradimenti seriali alle due mogli, il suo essere spia anche nella vita privata, la complessità e le debolezze del suo carattere ma anche “un vero stallone del sesso, una incredibile e insaziabile forza della natura a letto, una leggenda”, con tanti particolari che definire intimi è un eufemismo. In Inghilterra è in arrivo un libro su John Le Carré, il grande scrittore inglese morto due anni fa a 89 anni per una polmonite che si farà molto leggere. Si chiama The Secret Heart: an intimate memoir (edizioni Mudlark), uscirà il 18 ottobre e l’ha scritto nientemeno che una delle sue amanti storiche, Suleika Dawson.

Suleika Dawson, chi era costei? Di questa donna non si sa nulla. Difatti, è un nom de plume ispirato da Zuleika Dobson di Max Beerbohm, non si conosce la sua vera età e nemmeno dove sia nata. Eppure, come racconta oggi il Times Magazine che ha anticipato il libro e ha avuto una lunga chiacchierata con Dawson, questa donna è stata l’amante di Le Carré, come dimostrano foto e diari. 

E ora ha scritto un libro sulla loro focosa relazione pluriennale, enunciando, dal suo punto di vista, chi era davvero John Le Carré, vero nome David John Moore Cornwell, ex spia del MI5 e MI6, che in vita è stato sposato con due donne: Alison Sharp, con la quale ha avuto tre figli (Simon, Stephen e Nicholas tristemente morto l’anno scorso) e poi Valerie Jane Eustace, sposata nel 1972 e morta due anni fa, pochi mesi dopo Le Carré, che con lei ha avuto un quarto figlio, lo scrittore Nick Harkaway.

Le Carré e Dawson si conoscono nel 1983 e si sarebbero frequentati fino all’estate del 1985 e poi, una seconda volta nel 1989, per sei mesi 14 anni dopo, quando Le Carré la nota a una sua presentazione. E la reinvita per fare sesso in uno dei suoi appartamenti a Londra, a St John’s Wood, a poca distanza da quello di Hampstead dove viveva con la seconda moglie Jane. “Con me è stato per un tempo considerevole, se paragonato ai suoi standard con altre amanti”, spiega Suleika al quotidiano inglese, “relazioni più lunghe della nostra David le ha avute solo con le sue consorti ufficiali… tra di noi funzionava, e molto”. [...] 

Poi il sesso, ovviamente. Altro che La spia che venne dal freddo, potremmo parafrasare. Dawson rivela come Le Carré fosse una “leggenda anche a letto” e ne elenca ogni particolare. Evitiamo alcuni molto espliciti, ma per esempio l’amante spiega come lo scrittore “facesse sesso da dio”, “almeno tre o quattro volte al giorno”, che “mi trapanava intensamente per cinque o sei ore anche quando aveva 70 anni”, che i suoi testicoli erano così possenti da resistere senza problemi ai cubetti di ghiaccio che lei vi poneva. Inoltre, Dawson è sempre rimasta stupita "da quanto sperma avesse in corpo”.

Fuori dal letto, continua Dawson nella sua intervista con il Times, Le Carré era invece “arrogante ma insicuro, sprezzante e altezzoso nei confronti degli altri, soprattutto se scrittori. Soffriva di claustrofobia, ma aveva un magnetismo straordinario, non solo a letto: mi bombardava di fiori, cioccolata, gioielli e andavamo sempre a cena a mangiare caviale e champagne, per non parlare delle vacanze in Grecia. [...] 

Dawson, che oggi avrebbe una cinquantina d’anni, era bionda da ragazza e nota come fossero bionde e slanciate (“David diceva che le mie gambe erano la strada verso il paradiso”) anche altre amanti di Le Carré. Mentre le sue due mogli erano brune e bassine. Del resto, osserva Dawson, “l’eroe letterario di Le Carré, George Smiley, ha il cuore spezzato proprio dalla moglie bionda in fuga, Lady Ann”.

Il primo incontro tra Le Carré e Dawson avviene nel settembre 1982: i due faranno per la prima volta “sesso spinto, di ogni tipo” nell’appartamento dello scrittore ad Hampstead, nella stanza del figlio più piccolo. Lui aveva 50 anni, lei 23 o 24, ma la donna non lo esplicita nell’intervista. Si conoscono perché Dawson stava curando la versione audiolibro del romanzo dello scrittore Tutti gli uomini di Smiley. Dopo il primo invito in una trattoria di Soho, Le Carré la bacia all’improvviso e di soppiatto a Piccadilly Circus. “Di certo, non era un Weinstein, ma oggi David sarebbe stato accusato dal movimento MeToo per una cosa del genere”, sospetta Dawson, “deve essere molto, molto noioso essere giovani oggi”.

·        John Williams.

John Williams, da Harry Potter a Indiana Jones: «Le mie musiche? Non credevo potessero diventare dei classici». Enrico Parola su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2022.

Il più grande autore di colonne sonore vivente (5 Oscar e 52 nomination), lunedì sarà protagonista alla Scala di un concerto straordinario. Sold-out in pochi minuti

MILANO John Williams è atterrato alla Scala, e i fan si sono scatenati come se l’avesse fatto a bordo del Millennium Falcon o della Nimbus 2000 di «Harry Potter»: la prova aperta di oggi e il concerto straordinario di domani della Filarmonica della Scala sono andati esauriti in pochi minuti. In decine di migliaia hanno sperato di poter vedere il più grande autore di colonne sonore vivente e probabilmente di sempre (5 Oscar e 52 nomination) dirigere le sue musiche per «Star Wars»,«E.T.», «Harry Potter», «Indiana Jones» e «Superman».

Ha festeggiato novant’anni con concerti trionfali a Vienna e Berlino; come vive il debutto alla Scala?

«Con sorpresa e umiltà. Credevo che le musiche di “Star Wars” sarebbero resistite un paio d’anni, dopo quasi mezzo secolo le suono con le migliori orchestre al mondo. Però non riesco a inorgoglirmi: Wiener e Berliner suonano Mozart e Beethoven, qui alla Scala c’erano Verdi e Puccini, io chi sono in confronto a loro? Uno che ha lavorato duro ed è contento se ha regalato momenti piacevoli a tante persone».

Quanto è cambiato dal primo film con Spielberg, «Lo squalo»?

«I capelli sono diventati grigi, poi sono caduti quasi tutti. Musicalmente è cambiato poco: uso ancora carta e penna, mi ricordo ancora la prima registrazione di “Star Wars” con la London Symphony, l’emozione di sentire gli ottoni attaccare la sigla. Quando ho ripreso la saga mi è bastato sedermi al pianoforte, improvvisare e dopo qualche minuto mi sembrava di non aver mai smesso di inventare note per Jedi e ribelli. La gioia più grande è vedere come ancor oggi questa musica piaccia al pubblico e alle orchestre: l’entusiasmo dei professori scaligeri mi ha travolto».

Durante le prove, dopo «Schinder’s List» è scattato un applauso infinito.

«Il primo violino è stato meraviglioso, alcuni colleghi riprendevano coi cellulari. Mi sono commosso come quando Spielberg mi fece vedere il film: gli dissi che avrebbe dovuto scegliere un compositore migliore, mi rispose che ci aveva pensato ma quelli più bravi erano tutti morti».

Per Spielberg sta componendo il quinto «Indiana Jones»...

«A Steven non si può dire di no. Mi ero ripromesso che sarebbe stata l’ultima colonna sonora, mi sta già parlando di un nuovo film e una graphic novel, vedremo. La realtà è che non so se smettere sia una buona idea: amo ancora scrivere e non ascolto molta musica perché preferisco concentrarmi sulle idee che mi vengono per i film».

Quanto è difficile comporre colonne sonore?

«Bisogna essere veloci, ci sono scadenze precise e bisogna trovare subito l’idea giusta».

Quando decise d i dirigere?

«Ascoltando dei direttori che interpretavano male i miei brani: fu una sorta di autodifesa. Presi la bacchetta senza preparazione, ma con la solida idea di che cosa volevo che l’orchestra facesse. Ho imparato gradualmente e nel 1978 debuttai coi Boston Pops, per l’Hollywod Bowl; Arthur Fiedler era ammalato, Ernest Fleischmann mi propose di sostituirlo, gli replicai che c’era Zubin Mehta disponibile, ma insistette. Suonammo “Star Wars” e non abbiamo più smesso».

Alberto Mattioli per “la Stampa” il 10 dicembre 2022.  

Diamo i numeri: 90 anni, musicista da quando ne aveva sette, cinque Oscar con 52 nomination (più di lui, solo Walt Disney), 25 Grammy, sette Bafta e chi più ne ha più ne vinca. Ladies and gentlemen, ecco a voi John Williams, il più celebre autore di musica da film del mondo, insomma il Morricone americano (ma forse era Morricone il Williams italiano).  

Per la prima volta, dirige alla Scala, nella stagione della Filarmonica: domani per gli under 30, lunedì per il pubblico «normale» della Filarmonica, che esattamente under 30 non è. In programma, le colonne sonore non di tutti i suoi film, che sarebbe impossibile, ma di alcuni dei più famosi, che poi sono famosissimi: Hook - Capitan Uncino, Cuori ribelli, Harry Potter, Schindler' s List, E.T., Superman, Indiana Jones, Guerre stellari.

Abbiamo letto che si vuole ritirare: è vero?

«Amo lavorare e smettere potrebbe non essere una buona idea. Però scrivo musica da 65 anni e lo faccio ancora con carta e penna, non al computer. E ogni tanto mani e occhi ne risentono. Per scrivere una nuova colonna sonora dovrei amare molto il film.  

Il problema è che da mezzo secolo lavoro con un signore che si chiama Steven Spielberg che è una persona cui è difficile dire di no. Il nostro ultimo film è nei cinema americani, ma mi ha già parlato del prossimo, un soggetto autobiografico. Io gli ho detto: vedremo». 

Com' è cambiato il lavoro in tutti questi anni?

«Moltissimo. Per ragioni tecniche, certo: oggi c'è il sintetizzatore, il montaggio non si fa più tagliando la pellicola e così via. Una volta in un dialogo c'era una dozzina di effetti sonori, oggi sono almeno quaranta. Però credo che il cambiamento più significativo sia quello del gusto del pubblico.  

Quando ho iniziato io, il pop era Cole Poter o Ella Fitzgerald o Frank Sinatra. Oggi i più giovani non sanno nemmeno chi fossero. Non dico che fosse meglio allora o che sia meglio oggi: semplicemente, è diverso, e devi tenerne conto».

 Le sue colonne sonore sono state quella della nostra vita. Per esempio, «Schindler' s List»: come lo ricorda?

«Al solito, Spielberg mi portò nel suo studio e mi fece vedere il film. Di solito, appena finito discutevamo del genere di musica che ci sarebbe voluta. Quella volta, dovetti chiedergli di rimandare, ero troppo scosso. Lasciami respirare, gli dissi, devo stare un attimo da solo. E poi: il film è troppo bello per me, trovati un altro compositore». 

E Spielberg?

«Mi rispose: lo so, ma tutti quelli bravi sono morti». 

I suoi musicisti preferiti?

«Da giovane ero pazzo per i sovietici, Prokof' ev e Shostakovich su tutti. Oggi sono più per i classici come Mozart o Beethoven: passo le serate a leggere le loro partiture, è musica così meravigliosamente facile, chiara. Come compositore di musica da film sono stato molto influenzato da Bernard Herrmann, che poi diventò un amico e un mentore. Gli portavo le mie partiture, e alle volte gli piacevano pure».

Avrebbe mai immaginato di dirigere la sua musica alla Scala?

«No, ed è meraviglioso. Negli ultimi anni ho debuttato con i Berliner e i Wiener, adesso con la Filarmonica: è affascinante scoprire come in ogni posto si faccia musica in maniera diversa. La Filarmonica mi sembra particolarmente esuberante. Li ascolto mentre suonano la mia colonna sonora per Guerre stellari, che ormai ha quasi cinquant' anni, e sono felice».  

Cos' è il successo? 

«È qualcosa che bisogna contestualizzare, perché sei contento dei tuoi riconoscimenti ma poi pensi che ci sono stati Beethoven o Verdi e allora ogni cosa torna nella giusta prospettiva. L'importante è lavorare duro, con concentrazione ed energia: e allora magari scrivi davvero qualcosa di bello. Poco importa se hai più esperienza ma meno energia, se hai ancora voglia di lavorare. Ecco: il successo è essere qui, a 90 anni, a fare musica con persone che in quel momento diventano i tuoi fratelli e sorelle».  

Di Morricone che opinione ha? 

«Mi piace molto. Era più giovane di me, e ricordo che quando venne per la prima volta a Hollywood fui io a presentarlo all'Academy: quando vinse l'Oscar, mi ringraziò molto. In realtà non conosco benissimo la sua musica, ma so che ha conquistato tutti. Quando dirigeva era impressionante: feroce e dolcissimo nello stesso tempo».  

A parte le sue, c'è una colonna sonora che considera perfetta? 

«Non saprei che brutta domanda: mi toccherà pensarci per settimane». 

·        José Saramago.

Così l'ateismo di Saramago è preghiera per gli oppressi. La feroce critica nei confronti delle istituzioni religiose (e politiche) fu il tratto distintivo dello scrittore portoghese. Gabriele Morelli il 16 Novembre 2022 su Il Giornale.

Ricorre oggi il centenario di José Saramago, Premio Nobel per la Letteratura 1998, e per l'occasione Feltrinelli ristampa il romanzo d'esordio La vedova e un'edizione dei libri più significativi come Cecità, Il Vangelo secondo Gesù Cristo e Le intermittenze della morte, insieme a un album biografico con fotografie e inediti dell'autore dal titolo I suoi nomi.

Nel racconto giovanile del 1947 Terra del peccato, finora inedito in Italia, sono latenti i temi del futuro romanzo, dove in un ambiente naturalista di stampo ottocentesco si intrecciano, insieme a storie di vita e segrete passioni di donne e sottoposte, l'amore per la terra, i sentimenti genuini, la condanna del sopruso e l'ingiustizia contro i deboli, e l'attacco a ogni forma di dogma religioso. Qui si annuncia la peculiare scrittura di Saramago, fatta di silenzi, indugi psicologici, pause interiori che coglie nei ritratti dei personaggi l'espressione di occulti pensieri e sentimenti, indagando su ogni remora morale, in una lingua sempre sul punto di cambiare l'iter narrativo per proporre spazi inediti e nuove forme di oralità, dove quel che conta è la dimensione umana, il dubbio esistenziale e non l'evento.

Nelle opere del portoghese, il racconto fin dal titolo diventa trattato, memoriale, esempio di vita sociale; sovente è allegoria, insegnamento offerto nelle forme della parabola. Quest'ultima parola richiama il lessico del mondo religioso, che occorre tenere presente quando Saramago confessa il suo radicale ateismo, sempre esibito. Lo troviamo in Una terra chiamata Alentejo (1980), grande affresco del Portogallo dove Saramago attinge all'oralità e al fantastico per rappresentare e criticare l'economia latifondista che ha segnato la vita di umili contadini, come quella della famiglia Mau-Tempo che ha subìto, nell'arco di quattro generazioni, ogni sorta di prepotenze. È l'epopea commovente di un'intera popolazione, scandita dal ritmo dell'oralità, in cui natura e paesaggio sono fondali scenici alla rappresentazione. Due anni dopo esce Memoriale del convento, la cui storia si svolge nel Portogallo del '700 in occasione della costruzione del monastero di Mafra, voluto da Giovanni V quale ex voto per la nascita del figlio. Il tema religioso torna in Il Vangelo secondo Gesù Cristo (1991), dove l'autore affronta da una posizione dissacratoria la figura di Cristo, espressione dell'autoritarismo esercitato dal Padre nei confronti del Figlio, costretto a prendere le sembianze umane, a soffrire e morire sulla croce.

Critica e fantasia sono gli ingredienti maggiori della prosa di Saramago che privilegia una lingua monologante, aperta a una varietà di timbri e accenti: un distillato corrosivo composto di satira feroce nei confronti del dogma religioso, al punto da diventare un sottotesto spirituale da cui l'autore attinge, convinto che la sua critica sistematica possa rimuovere gli inganni e le falsità espresse dal messaggio evangelico. A tale proposito si è osservato come l'esegesi negativa di Saramago nei confronti della morale religiosa, soprattutto del pensiero cattolico, si eserciti più sul modo di rappresentare Dio che sulla sua vera natura ed essenza spirituale, poiché ciò che veramente interessa allo scrittore è l'uomo, l'uomo libero da ogni credo o supposta fede. L'autore rivendica con forza la condizione laica di ogni essere umano in quanto unico responsabile del proprio destino. Da qui la presenza di una continua interrogazione riassunta nella domanda ossessiva: «Chi siamo noi?».

Il romanzo Cecità (1995) segue di pochi anni il libro su Gesù e racconta l'esplosione di una cecità collettiva dove i personaggi non hanno nome e sono affetti dalla malattia. Ancora una metafora religiosa di ascendenza medievale, dove la menomazione fisica si presenta con il rovesciamento dei suoi effetti, poiché mostra un candore luminoso, un bianco mare latteo che obnubila l'oscurità del mondo esterno e indica che la vera cecità è quella degli uomini obbedienti alle false verità imposte dalle religioni. Il contrasto cromatico (in cui è possibile leggere un significato spirituale) indica infatti l'incapacità di vedere la vera vita che regola il destino umano. Il romanzo predilige la riflessione a tal punto che - confessa l'autore - si sovrappone all'evento narrato, crea una sorta di simbiosi tra storia e saggio, tra realtà e memoriale.

Tutti i nomi, pubblicato nel 1997, colloca il lettore davanti a un emblematico schedario dell'anagrafe a cui provvede un solitario scritturale. Anche qui, nell'immensa e confusa enciclopedia dei nomi, si celano storie vere di persone ignote che l'anonimo impiegato rintraccia e interroga fino a imbattersi in una donna sconosciuta di cui si innamora, sfidando le ferree regole dell'Autorità. Il suo vagabondaggio, con una torcia in mano frugando nel mondo cartaceo dei defunti, rinnova il mito classico del viaggio nell'Ade alla ricerca del tempo e dell'amore perduto. Anche i libri successivi, La caverna (2000) e L'uomo duplicato (2002), sono evidenti allegorie. Nel primo caso, Saramago attinge al mito di Platone, e nel secondo indaga sul significato del doppio, l'alterità, la clonazione e gli enigmi della vita.

Le intermittenze della morte (2005), una delle ultime opere, continua la critica violenta alle grandi istituzioni religiose e politiche che esercitano il controllo sulle sorti e il destino degli uomini. Dal punto di vista stilistico la labirintica prosa, per lo più retta da un io monologante, rivelato dall'uso delle maiuscole, occupa ogni interstizio del discorso, in un fluire di ipotesi e risposte senza tempo che giunge al paradosso di proporre la sospensione della morte, creando una vibrata protesta da parte delle gerarchie della Chiesa che vedono nell'immortalità del corpo una profonda contraddizione alla visione dell'aldilà. È una satira a tratti feroce che investe e confuta le certezze assicurate dalla fede, mentre consolida il dubbio e la necessità di una risposta che può essere solo laica davanti al mistero dell'esistenza umana, la vecchiaia e la morte.

La protesta dello scrittore, ateo militante, guarda anche al campo politico, come accade a proposito delle prime vignette satiriche anti-islamiche apparse su alcune riviste francesi, che l'autore condanna severamente, considerando i loro autori degli irresponsabili che dovevano porsi dei limiti, mentre accetta con disinvoltura analoghi casi di violenza e di satira contro figure e simboli della fede cristiana e protestante. Ugualmente il maestro lusitano entra a piè pari nell'agone della lotta politica italiana con un blog personale, né si astiene dal perorare la causa palestinese, criticando con violenza lo Stato di Israele e l'ebraismo mondiale.

Infine, Le piccole memorie (2007) è il ritorno alla stagione dell'infanzia, dove la scrittura lega il tempo, riempie i vuoti lasciati dalla memoria, indaga sulle forme oscure del potere. L'opera, segnata da un pessimismo amaro che corre sul filo dell'allegoria, evoca il passato e la vita errabonda dell'autore, pastorello di porci accanto alla mitica figura del nonno analfabeta. Al lettore resta il dubbio se in questo stato primitivo della vita e della conoscenza, lontano dalla religione e dalle norme del potere politico, esista veramente la libertà che comprende anche la fede di credere e sognare, la speranza e la felicità a cui l'uomo sempre aspira.

La moglie di Saramago: «José fu umanista, non comunista. Vedeva le cose arrivare, come Cassandra». Alessandra Coppola su Il Corriere della Sera il 16 Novembre 2022.

Pilar del Río presenta a 7 il nuovo volume «Lezioni italiane», che raccoglie le lezioni tenute dallo scrittore in università, festival e teatri italiani nell’arco di oltre 20 anni

José Saramago con la moglie, Pilar del Río, nel settembre 1996 al Sutton Place Park, New York. S’erano conosciuti nell’86 e sposati nell’88 (foto R.Barros/Getty)

All’approssimarsi della sua ultima ora, José Saramago volle tornare in Italia. Lasciò dunque la confortevole casa sulle pendici laviche di Lanzarote e, sostenuto come sempre dalla moglie spagnola Pilar, si riempì gli occhi di Roma, ne annusò le strade, il lungotevere, i ciottoli. «Aveva bisogno di respirala, di sentirsi ancora una volta in Italia» ricorda adesso Pilar del Río «e fu appena prima di morire». Preferita tra le sue «altre patrie», amata, attraversata, descritta, dalla scoperta nell’agosto 1970 alla scelta di ambientarvi Manuale di pittura e calligrafia, dall’arte all’amicizia, Fo, Bertolucci, Magris, fino alla fine dei suoi giorni, nel 2010, l’Italia per Saramago è stata «un premio », «una Mecca», un pellegrinaggio necessario a «garantirsi la salvezza dell’anima». Ricambiato da affetto, profonda stima, profluvio di inviti e lauree ad honorem (la prima della sua vita a Torino), ai quali lo scrittore portoghese rispondeva con generosità. Di questi interventi in aule universitarie e conferenze, semidimenticati se non inediti, a cento anni dalla nascita, La Nuova Frontiera ha fatto ora una raccolta: Lezioni italiane, chiara citazione dalle celebri Lectures americane di Italo Calvino, che riescono a ricomporre con coerenza pensieri, poetica e impegno tra il 1992 e il 2003, riportando ancora una volta il Premio Nobel da noi (cura e prefazione essenziali di Giorgio de Marchis).

«LE ORIGINI SONO TUTTA UNA FINZIONE. NON AVREBBE DOVUTO CHIAMARSI SARAMAGO: QUELLO ERA IL SOPRANNOME DELLA SUA FAMIGLIA»

«Lezioni italiane» (ediz. La Nuova Frontiera), il volume che raccoglie le lezioni tenute da Saramago in oltre 20 anni. La selezione dei testi è di Giorgio de Marchis

La vedova Pilar del Río,mi pilar, «il mio pilastro» come la invoca José in una delle innumerevoli dediche giocando con le parole, si incarica di accompagnare anche questa pubblicazione postuma e di rievocare per 7, collegata dallo studio dipinto di rosso della Fondazione Saramago di Lisbona, la lunga e intensa relazione dell’autore con il nostro Paese. «L’ho annotato anche nel mio libro sulla sua vita a Lanzarote (La intuición de la isla, appena edito in Spagna da Itineraria, ndr): c’era in Saramago una gratitudine nei confronti dell’Italia che veniva da lontano, da quando aveva conosciuto la bellezza percorrendo il Paese come si percorre un corpo che si aspetta e si ama. Era presente sempre, era come un sogno, uno sfondo costante».

Che cosa le ha raccontato suo marito dei suoi primi approcci con l’Italia?

«Oltre a quello che mi ha raccontato penso al Manuale di pittura e calligrafia: l’ammirazione del pittore protagonista che scopre la bellezza assoluta era la stessa dello scrittore. Il nostro primo viaggio assieme fu proprio un percorso che ricalcava quello del libro, cercando di tornare alle stesse emozioni, davanti alle stesse opere. Nulla è uguale, certo,ma perme l’emozione non era incontrare Giotto o Mantegna (su cui mio marito ha scritto peraltro il testo Un’etica, un’estetica); la mia emozione era guardarlo mentre ammirava quelle opere».

José Saramago a Lecce nel 2004. Dietro di lui, vestita di bianco, la moglie Pilar del Río. Nato a Azinhaga, nel distretto di Lisbona, nel 1922, è scomparso il 18 giugno del 2010 a Tìas, nell’isola di Lanzarote, dove viveva. Nel 1998 è stato insignito del premio Nobel per la letteratura (foto Getty Images)

E così è rimasta a osservarlo, compagna e complice della fase ultima e più prolifica di uno scrittore maturato col tempo. È lui stesso a segnalarlo come uno snodo nell’autobiografia che ciclicamente aggiornava: «Nel 1986 conobbi la giornalista spagnola Pilar del Río». A margine di una festa, nel documentario dedicato al loro sodalizio (José e Pilar) lo confessa a un commensale: «Mi chiese un appuntamento, aveva letto tutti i miei libri. Quando la vidi arrivare capii che lei era un’altra cosa. Non facemmomai l’intervista… ». Si sposarono nel 1988, si trasferirono a Lanzarote per sfuggire all’ondata di censura bigotta che aveva scatenato in Portogallo Il Vangelo secondo Gesù Cristo. Costruirono una dimora bianca chiamata semplicemente “A Casa”, riempita di libri e di ritratti, e una quotidianità scandita dal lavoro alla scrivania ma anche dalle passeggiate coi cani, dal vino bianco e fresco dimalvasia, dalle visite di amici, giornalisti e spesso anche di fan sconosciuti, accolti da dediche, baci e abbracci.

Epilogo dolce di una storia che era cominciata in una famiglia di contadini senza terra del Ribatejo, il 16 novembre 1922. Anzi il 18 novembre, con un nome aggiunto su iniziativa dell’impiegato dell’anagrafe…

«Le origini sono tutta una finzione» spiega Pilar del Río «perché non nacque il 18 come dice il documento ufficiale, bensì il 16. Né avrebbe dovuto chiamarsi Saramago, era un soprannome della famiglia (da un’erba spontanea, ndr): avrebbe dovuto chiamarsi solo José de Sousa…».

Prima tappa di un percorso che sembra già destinato al romanzo. Se è vero, parole di Saramago, che «tutto è autobiografia», che influenza hanno avuto queste vicende nei suoi libri?

«Mai raccontava di cose proprie, tuttavia in ogni libro vive l’autore. E nei suoi libri viveva lui. Tutto quello che raccontava era quello che la sua sensibilità e la sua intelligenza proponevano. Mai casi concreti, situazioni concrete. Salvo che ne Le piccole memorie, in cui ha scritto di quando era bambino e adolescente, fino a quando scoprì la prima bugia e terminò la sua età dell’innocenza. Negli altri libri non vi è mai rigorosamente nulla di autobiografico, eppure tutto è autobiografico perché racchiudono il suo pensiero, il suo sentire, le aspirazioni, i sogni, le delusioni».

«NON ERA PROFETICO: OSSERVAVA E PENSAVA. COSÌ SONO TUTTE LE DONNE NELLE SUE OPERE, CAPACI DI VEDERE. COME IN ‘CECITÀ’»

Uno dei temi centrali di queste Lezioni italiane è il rapporto tra la scrittura e «le zone d’ombra» della Storia, in cui si inserisce il romanzo…

« Il vangelo secondo Gesù Cristo», pubblicato 4 anni prima, suscitò forti polemiche

«La Storia ufficiale è stata scritta a beneficio di principi e guerrieri: una vicenda di battaglie e conquiste. Saramago leggeva molto i cosiddetti “nuovi storici” che danno rilievo a personaggi una volta emarginati, come le donne. Diceva che a lui non interessava tanto la Storia quanto il Passato, dove possiamo incontrare Pitagora, Michelangelo e Bertolucci, per dire, sullo stesso piano. E poi all’interno del Passato gli interessava recuperare voci. Il Monastero di Mafra (monumento nazionale portoghese a cui è dedicato Memoriale del convento, ndr) è stato costruito dall’architetto tal dei tali? No, nel suo libro lo costruirono una serie di uomini con nomi e cognomi, che vissero, soffrirono, amarono e morirono. Dunque, se la Storia ufficiale racconta la guerra, la letteratura racconta realmente la vita».

In un intervento sul poeta Antonio Machado, Saramago lancia un appello a «fare politica» («a viso scoperto», aggiunge): qual era il suo modo di fare politica?

«In uno dei suoi primissimi libri Saramago citò in apertura una frase di Marx e Engels, che suona più o meno: “Se le circostanze formano gli esseri umani, dobbiamo fare in modo che le circostanze siano umane”. Saramago al fondo era umanista, non comunista. E quello che non poteva sopportare erano gli attentati contro l’umanità, che si producono ogni giorno».

Dal ritorno delle politiche autoritarie alla pandemia, Saramago è spesso stato considerato profetico. Del resto, era un apologeta di Cassandra…

«Non era profetico, nella maniera più assoluta: era un pensatore. Osservava e pensava. Se si producono armi e gli Stati continuano ad armarsi, per esempio, ci saranno guerre. Ragionava e vedeva le cose arrivare. Allo stesso modo di Cassandra, alla quale i maschi non davano credito».

Durante il confinamento da coronavirus, uno dei libri più letti, assieme a ‘La peste’ di Camus, è stato ‘Cecità’ di Saramago, in cui un’umanità imbarbarita viene travolta da un’epidemia che rende ciechi…

«Io stessa ho riletto La peste e Cecità, che sta andando tra l’altro in scena nella versione teatrale in questi giorni a Barcellona: è vero, sembra stia parlando della pandemia. Ci siamo ritrovati chiusi in casa senza sapere cosa sarebbe successo. Alcune situazioni limite che racconta Saramago non le abbiamo sperimentate nel nostro mondo privilegiato, ma altrove sì. Gente senza cibo, senza tetto, senza aiuti di nessun tipo: loro hanno vissuto la violenza, la fame, l’abbandono proprio come nel romanzo».

Ruolo chiave in Cecità lo ha la protagonista femminile: l’unica che vede. Ancora Saramago da queste lezioni: «Sono sempre le donne a salvare i miei libri». Si può leggere come un’ulteriore dedica a lei, Pilar «che non era nata e che tanto ha tardato ad arrivare» (da Le piccole memorie )?

«Aveva donne che salvavano i suoi libri prima che io apparissi… In quella frase faceva riferimento al ruolo delle donne nel corso della Storia. Saramago diceva che le donne hanno il potere di osservazione, l’unico potere che non dovevano farsi cedere dagli uomini: cura e osservazione. E tutte le donne delle sue opere hanno questo potere: vedono».