Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

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FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA CULTURA

ED I MEDIA

TERZA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

   

 L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Scienza è un’opinione.

L’Anti-Scienza.

Alle origini della Vita.

L’Intelligenza Artificiale.

I Benefattori dell’Umanità.

Al di là della Luna.

Viaggiare nello Spazio.

Gli Ufo.

La Rivoluzione Digitale.

I Radioamatori.

Gli Hackers.

Catfishing: la Truffa.

La Matematica.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Libero Arbitrio.

Il Cervello Allenato.

Il Cervello Malato.

La Sindrome dell'Avana.

Le Onde Celebrali.

Gli impianti.

La disnomia.

La nomofobia.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Geni.

Il Merito.

Ignoranti e Disoccupati.

Laureate e Disoccupate.

Il Docente Lavoratore.

Decenza e Decoro a Scuola.

Una scuola “sgarrupata”.

Gli speculatori: il caro-locazione.

Discriminazione di genere.

La Scuola Comunista.

La scuola di Maria Montessori.

Concorso scuola truccato.

Concorsi truccati all’università.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tutti figli di…Neanderthal (nord) e Sapiens (Sud).

Come si usano.

Sapete che…?

Epifania e Befana.

Il Carnevale.

Gioventù del cazzo.

Gli Hikikomori. 

La Vecchiaia è una carogna…

Gemelli diversi.

L’Ignoranza.

La Rimembranza.

La Nostalgia.

Gli Amici.

La Fiducia.

Il Sesso.

Il Nome.

Le Icone.

Il Linguaggio.

La Fobia.

Il Tatuaggio.

Il Limbo.

Il Potere nel Telecomando.

Gli incontri casuali di svolta.

I Fantozzi.

Ho sempre ragione.

Il Narcisismo.

I Sosia.

L’Invidia.

L’Odio.

Il Ghosting: interruzione dei rapporti.

Gli Insulti.

La Speranza.

Il Dialogo.

Il Silenzio.

I Bugiardi.

Gli stolti.

I Tirchi.

Altruismo.

I Neologismi.

Gli Snob.

I Radical Chic.

Il Pensiero Unico.

La Cancel Culture.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

La P2 Culturale.

L’Utopia.

Il Cinema di Sinistra prezzolato.

Il Consenso.

I Negazionismi.

I Ribelli.

Geni incompresi.

Il Podcast.

Il Plagio.

Ladri di Cultura.

Il Mecenatismo.

I Beni culturali.

Il Futurismo.

I Bronzi di Riace e di San Casciano dei Bagni.

I Faraoni.

La Pittura.

Il Restauro.

Il Collezionismo.

La Moda.

Il Cappello.

Gli Orologi.

Le Case.

La Moto.

L’Auto.

L’emoticon.

I Fumetti.

I Manga.

I Giochi da Tavolo.

I Teatri.

Il direttore d’orchestra.

L’Arte in tv.

La Cultura Digitale.

Dalla cabina al selfie.

I Social.

La scienza, la cultura ed i social. I Divulgatori.

La Capitale della Cultura.

Oscar made in Italy.

I Balbuzienti.

Cultura Stupefacente.

I pseudo intellettuali.

Le lettere intellettuali.

L’Artistocrazia.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Achille Bonito Oliva.

Alberto Angela.

Aldo Busi.

Aldo Nove.

Alessandro Baricco.

Alessandro Manzoni.

Alfred Hitchcock.

Amy Sherald.

Andy Warhol.

Andrea Camilleri.

Andrea G. Pinketts.

Andrea Palladio.

Andrea Pazienza.

Annie Ernaux.

Antonella Boralevi.

Antonio Canova.

Antonio de Curtis in arte Totò.

Antonio Pennacchi.

Arturo Toscanini.

Banksy.

Barbara Alberti.

Billy Wilder.

Carlo Emilio Gadda.

Carlo Levi.

Carlo Linati.

Carmen Llera e Alberto Moravia.

Cesare Pavese.

Charles Baudelaire.

Charles Bokowski.

Charles M. Schulz.

Chiara Valerio.

Crocifisso Dentello.

Dacia Maraini.

David LaChapelle.

Dino Buzzati.

Donatello.

Elisa De Marco.

Emil Cioran.

Emilio Giannelli.

Emilio Lari.

Ennio Flaiano.

Ernest Hemingway.

Espérance Hakuzwimana. 

Eugenio Montale.

Eva Cantarella.

Ezra Pound.

Fabio Volo.

Federico Fellini.

Federico Palmaroli. 

Fernanda Pivano.

Francesca Alinovi.

Francesco Guicciardini.

Francesco Tullio Altan.

Francisco Umbral.

Franco Branciaroli.

Franco Cordelli.

Franz Peter Schubert.

Franz Kafka.

Fulvio Abbate.

Gabriel Garcia Marquez.

Gabriele d'Annunzio.

Georges Bataille.

George Orwell.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel.

Giacomo Leopardi.

Gian Paolo Serino.

Gian Piero Brunetta.

Giampiero Mughini.

Giordano Bruno Guerri.

Giorgio Forattini. 

Giorgio Manganelli.

Giovanni Ansaldo.

Giovanni Verga.

Giuseppe Pino.

Giuseppe Prezzolini.

Giuseppe Ungaretti.

Giuseppe Verdi.

Grazia Deledda.

Guido Gozzano.

Guido Harari.

Ian Fleming.

Ignazio Silone.

Indro Montanelli.

Italo Calvino.

Jane Austin.

John Le Carré.

John Williams.

José Saramago.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Lawrence d'Arabia.

Leonardo da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Leopoldo (Leo) Longanesi.

Luciano Bianciardi. 

Luchino Visconti.

Louis-Ferdinand Céline.

Marcel Proust.

Mariacristina Savoldi D’Urcei Bellavitis.

Marcello Marchesi.

Marco Giusti.

Mario Picchi e Aldo Palazzeschi.

Mario Praz.

Massimiliano Fuksas.

Maurizio Cattelan.

Maurizio de Giovanni.

Melissa P.: Melissa Panarello.

Michel Houellebecq.

Michela Murgia.

Michele Rech, in arte Zerocalcare.

Nietzsche.

Oliviero Toscani.

Oriana Fallaci.

Orson Welles.

Pablo Picasso.

Pier Paolo Pasolini.

Pietrangelo Buttafuoco.

Pietro Scarpa.

Renzo Piano.

Riccardo Muti. 

Richard Wagner.

Roberto Benigni.

Robert Byron.

Roberto Giacobbo.

Roberto Saviano.

Sacha Guitry.

Saint-John Perse.

Salvatore Quasimodo.

Sebastián Matta.

Sergio Leone.

Staino.

Stephen King.

Susanna Tamaro.

Sveva Casati Modignani.

Tiziano.

Truman Capote.

Umberto Boccioni.

Umberto Eco.

Valentino Garavani.

Vincent Van Gogh.

Virginia Woolf.

Vittorio Sgarbi.

Walt Disney.

Walt Whitman.

William Burroughs.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.

La Sociologia Storica.

Il giornalismo d’inchiesta.

I Martiri.

Se questi son giornalisti...

Il Web e la Legione di Imbecilli.

Gli influencer.

Le Fallacie.

Le Fake News.

Il Nefasto Amazon.

I Censori.

Quello che c’è da sapere su Wikipedia.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

Gli Oscar comunisti.

Lo Streaming.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Pizzo di Stato.

Mediaset.

Il Corriere della Sera.

Il Gruppo Editoriale Gedi.

Primo: la Verità del Il Giornale.

Alberto Matano.

Alda D'Eusanio.

Aldo Cazzullo.

Alessandra De Stefano.

Alessandra Sardoni. 

Alessandro Giuli.

Andrea Scanzi.

Andrea Vianello.

Beppe Severgnini.

Bernardo Valli.

Bianca Berlinguer.

Bruno Longhi.

Bruno Vespa.

Camillo Langone.

Carlo De Benedetti.

Cecilia Sala.

Cesara Buonamici.

Claudio Cerasa.

Corrado Formigli.

Davìd Parenzo.

Diego Bianchi in arte Zoro.

Elisa Anzaldo.

Emilio Fede.

Ennio Simeone.

Enrico Mentana.

Enrico Varriale.

Enzo Biagi.

Ettore Mo.

Fabio Caressa.

Fabio Fazio.

Federica Sciarelli.

Filippo Ceccarelli.

Filippo Facci.

Fiorenza Sarzanini.

Franca Leosini.

Francesca Fagnani.

Francesco Giorgino.

Gennaro Sangiuliano.

Giacinto Pinto.

Gian Paolo Ormezzano.

Gianluigi Nuzzi.

Gianni Minà.

Giorgia Cardinaletti.

Giovanna Botteri.

Giovanni Floris.

Giovanni Minoli.

Giovanni Tizian.

Giuliano Ferrara.

Giuseppe Cruciani.

Guido Meda.

Ivan Zazzaroni.

Julian Assange.

Hoara Borselli.

Lamberto Sposini.

Laura Laurenzi.

Lilli Gruber.

Lina Sotis.

Lucio Caracciolo.

Luigi Contu.

Luisella Costamagna.

Marcello Foa.

Marco Damilano.

Marco Travaglio.

Maria Giovanna Maglie.

Marino Bartoletti.

Mario Calabresi.

Mario Giordano.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Massimo Gramellini.  

Maurizio Costanzo.

Michele Mirabella.

Michele Santoro.

Michele Serra.

Milo Infante.

Mimosa Martini.

Monica Setta.

Natalia Aspesi.

Nicola Porro.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo del Debbio.

Paolo Zaccagnini.

Pierluigi Pardo.

Roberto D'Agostino.

Roberto Napoletano.

Rula Jebreal.

Salvo Sottile.

Selvaggia Lucarelli.

Sigfrido Ranucci.

Tiziana Alla.

Tiziana Panella.

Vincenzo Mollica.

Vincenzo Palmesano.

Vittorio Feltri.

 

 

  

 

LA CULTURA ED I MEDIA

TERZA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La P2 Culturale.

Segrate Confidential. Gian Arturo Ferrari e la gran lotta di classe dell’editoria italiana. Guia Soncini su L’Inkiesta il 18 Novembre 2022.

Finalmente un libro feroce (da De Benedetti a Caracciolo, da Berlusconi a Calasso), in un’epoca timorosa in cui nessuno vuol dire niente di significativo per paura di offendere

Chissà quanti soldi ha dato Marsilio a Gian Arturo Ferrari per Storia confidenziale dell’editoria italiana. È impossibile non pensarci, arrivati alla pagina in cui Ferrari riferisce la regola di Andrew Wylie (agente d’un po’ tutti, da Martin Amis a Baricco): «Gli editori si impegneranno davvero sui libri di qualità solo se li hanno pagati, e pagati cari».

Vi vedo, che pensate: ma Marsilio è il tuo editore, Soncini, chiedi e ti sarà detto (detto, non dato). Ripensateci: forse qualche editore è così indiscreto da svelare gli anticipi, ma non certo ad altri autori che, incapienti, frigneranno perché si percepiscono leggendari quanto Ferrari e quindi meritevoli dei suoi stessi emolumenti e allora ditelo che fate figli e figliastri.

Tutta la letteratura è pettegolezzo, diceva un certo Truman Capote; ma non tutto il pettegolezzo è letteratura, ridondante precisazione che Capote non aggiungeva ma io sì. Che un libro di memorie di Gian Arturo Ferrari – che ha attraversato mezzo secolo di editoria italiana e attorno al quale il settore ha costruito una leggenda finora privata – avesse il potenziale d’essere molto pettegolo era ovvio.

Ma basta aver fatto la storia dell’editoria per saper scrivere? Basta avere buone storie per far letteratura? Certo che no, sennò definiremmo letteratura ogni Harmony, e i critici culturali si taglierebbero le vene con gli angoli dei Meridiani, disperati per l’oltraggio alla definizione. Che cos’è la letteratura, oltre che pettegolezzo? Uno sguardo, un dettaglio, un’entomologia in bella forma?

Potrei mentire, cavillare, dire «insomma, Ferrari è uno che scrive “dal canto suo”, orsù» – ma sarebbe tutta invidia. Invidia dell’anticipo, sì. Invidia della leggenda, certo. Ma soprattutto invidia di quel rigo di purissima letteratura, quando Ferrari arriva a casa di Carlo De Benedetti dove crede di dover solo parlare; e invece ci trovano, lui e Marco Polillo, due contratti (come direttore editoriale e direttore generale della Mondadori) pronti da firmare, e la mattina dopo scopriranno che era già pronto anche l’articolo di Repubblica che riferisce di questo calciomercato editoriale. Quel rigo in cui Ferrari scrive: «De Benedetti ci accoglie nella sua casa milanese, arredamento di Mongiardino, che gli hanno evidentemente spiegato essere quello confacente al suo status».

Diceva Mike Nichols che, quando preparava la regia di uno spettacolo teatrale dei Monty Python, aveva sprecato molto tempo a chiedersi quale fosse il tema della pièce. Finché non aveva avuto un’illuminazione: gli inglesi scrivono solo di classe sociale. Ferrari pure, e mica solo quando deve porgerci una polaroid delle ambizioni middlebrow di De Benedetti.

Quando dice dell’editore americano che alla serata del Nobel ha un frac su misura, «per l’invidia di noi miserabili, che ce ne stiamo infagottati nelle nostre marsine a noleggio» (è Oliver Twist, ma riscritto da Capote). O quando racconta dello Strega scippato a Calasso.

La storia è nota, almeno ai pettegoli interessati al settore. Adelphi concorre eccezionalmente, con Le nozze di Cadmo e Armonia (libro di formazione di noialtre liceali con pretese intellettuali e sociali degli anni Ottanta; noialtre liceali che poi diverremo quella definizione ferrariana lì: «L’intellighenzia che in Calasso vede una delle sue più riverite divinità»).

Mondadori ha in cinquina Pontiggia. Che poi vincerà, in questo Scene di lotta di classe al Ninfeo, ma sembra talmente destinato a perdere che due mesi prima della premiazione, a Torino, a una cena della Mondadori per Pontiggia, Carlo Caracciolo – il nuovo presidente della Mondadori, che il romanzo editoriale di Ferrari ci ha già introdotto con le parole di Caracciolo stesso: «È un bel pezzo che voi un editore non ce l’avete, non siete più abituati» – invita Calasso e se lo mette a sedere vicino.

La scena di esausta lotta di classe, che Ferrari ci pitta in poche righe, è questa: «“Non facciamo cose parrocchiali per piacere” ha detto Caracciolo – gran signore e illustre membro dell’intellighenzia – ammonendo noi piccolo borghesi. Calasso, non va dimenticato, è molto vicino a sua sorella Marella, moglie dell’avvocato Agnelli. A queste altezze i piccolo borghesi boccheggiano».

Tutti quelli che di mestiere fanno interviste, in quest’epoca timorosa in cui nessuno vuol dire niente di significativo perché poi sennò qualcuno di certo s’offende, raccomandano d’intervistare solo gli ultraottantenni: gente che ha visto tutto, fatto tutto, che non ha paura di niente e dice tutto quel che le va. Ferrari ha settantotto anni, ma è evidentemente un enfant prodige del dire un po’ tutto, compresa un’interessante disamina delle classi in cui Berlusconi divide le persone che lavorano.

In cima i fondatori, che si sono inventati un’impresa. Poi gli imprenditori, che non l’hanno inventata ma ci rischiano i loro capitali. Gli specialisti, quelli che sanno fare qualcosa, che sia limare le unghie o tirare calci a un pallone: «Per mia fortuna, sapendo fare i libri, in questa categoria ci rientro anch’io». Per ultimi i manager, esecutori ma pericolosi, «senza rischiare e senza saper fare, coltivano smodate ambizioni di potere».

Essendo Ferrari non all’ultimo posto della catena alimentare, Berlusconi lo rispetta e solo una volta gli chiede di ritirare un libro. Non si può, gli spiega sornione Ferrari, i librai sono legalmente proprietari delle copie acquistate (come sa bene Feltrinelli, che vanamente ritirò il libro di Roberto Speranza, che continuò a circolare impreziosito dalla non ufficialità). Berlusconi ne vieta allora la ristampa, e Ferrari conclude: «Lo ristampiamo due, tre volte senza scriverci sopra “seconda edizione”, “terza edizione”». Per fortuna non erano anni in cui gli autori annunciavano trionfali le ristampe sui loro social.

Dice Ferrari che lui i libri li ricorda tutti. Dice anche che quell’editore americano col frac su misura «pensa che il mestiere consista essenzialmente nel leggere». E quindi sì, un po’ mi struggo per l’anticipo, ma soprattutto mi struggo per il ritardo, per essermi persa il Novecento editoriale, quel secolo – di cui non resta traccia – in cui il pettegolezzo si faceva spesso letteratura; in cui non eravamo costretti a scansare le scocciature dei moralisti fingendo che le classi sociali non esistessero; e in cui, che bizzarria, gli editori leggevano i libri che pubblicavano.

Pasquale Chessa per “il Messaggero” il 22 novembre 2022.

Dopo il successo mondiale del Dottor Zivago (1957) milioni di copie, miliardi di diritti che aveva trasformato in un editore internazionale quel giovane miliardario lombardo affascinato dal comunismo, Giangiacomo Feltrinelli disegnava con pochi tratti la figura dell'editore perfetto: un tale che ha i piedi in terra e la testa in cielo. 

Una rappresentazione figurale che ritroviamo nelle storie di due libri che si leggono come fossero un solo libro, che parlano solo di libri: Album di famiglia (Maestri del Novecento ritratti dal vivo) di Ernesto Ferrero e Storia confidenziale dell'editoria italiana di Gian Arturo Ferrari. 

Non sono editori, ma editor: una speciale professione intellettuale al confine fra Machiavelli e Monsignor della Casa che sa coniugare otium e negotium, affari e cultura. Cortigiani sapienti, mandarini affatto sottomessi, ambasciatori e primi ministri del principe editore: «Un capitalista di tipo speciale, che non accumula profitti: accumula prestigio», dice di Giulio Einaudi l'einaudiano Giulio Bollati.

Profonda è la consapevolezza che «tutto passa dai libri, il bene e il male, l'effimero e l'eterno». Nei libri sono contenute tutte le storie del mondo. L'editoriale le sa riconoscere: deve essere colto. L'editore no. Nati sottoproletari, Angelo Rizzoli e Arnoldo Mondadori non avevano completato manco le scuole elementari. Eppure, nel tempo lungo, hanno saputo trasformare in denaro contante i libri di D'annunzio e Montale, Guareschi ed Hemingway, Oriana Fallaci e Paolo Villaggio. 

Il lancio degli Oscar Mondadori (1965) affascina come un gran finale esistenziale del vecchio Arnoldo. Un successo commerciale che ha formato e aperto alla cultura un'intera generazione di nuovi lettori. Un affare stratosferico: i primi cento titoli da Addio alle armi in poi, vendettero in media duecentomila copie alla settimana. Nel Vangelo di Luca e Matteo si dice che non si può servire allo stesso tempo Dio e Mammona, il diavolo che sovrintende alla divinizzazione della Ricchezza. 

Con una certa improntitudine Ferrari (ma anche Ferrero, forse con più distacco) capovolge la parola evangelica: «Abbiamo sempre saputo che Dio poteva prosperare solo se accontentava le legittime esigenze di Mammona».

Correva l'anno 1974, quando nel mese di giugno Elsa Morante consegna ad Einaudi La storia. In casa editrice c'è anche Ferrero. Non si tratta di una storia fra tante, ma dell'unica Storia possibile. Ne derivano una serie di clausole che sembrano far precipitare l'intero sistema Einaudi. Un libro nazionalpopolare infatti presuppone una corrispondente diffusione di massa. L'autrice fissa anche il prezzo»: duemila lire. E la tiratura: almeno centomila copie.

 Se ne venderanno un milione, quasi. Einaudi, sotto la spinta di Elsa Morante, personificazione dell'impegno letterario, si è trovato costretto a inventare il bestseller di qualità. Tanti saranno gli epigoni: Il nome della rosa di Umberto Eco, su tutti. L'editoria è come un grande arazzo: per leggerlo correttamente «bisogna studiarlo anche dal lato dell'ordito». Ferrero e Ferrari lo sanno fare senza perdere la bussola salendo e scendendo fra il basso e l'alto. Il risultato è un pareggio. Se ne consiglia la lettura alternata. Un capitolo per ciascuno. Come fossero un unico autore: «Ferrarero». Battuta corriva se non echeggiasse una delle più geniali castronerie attribuite ad Arnoldo Mondadori che parlando di Guerra e Pace e Delitto e Castigo pensava fossero opera di un solo scrittore: il grande Tolstoievskij.

Angelo e demoni. La storia di Rizzoli e Mondadori, i due gemelli fondatori dell’editoria italiana. Gian Arturo Ferrari su L’Inkiesta il 19 Novembre 2022.

Questi capitani d’azienda a lungo si sono contesi il primato del mercato dei libri, tra invidie e affetti, rabbie e riconciliazioni, amori e antipatie

Come alle origini di Roma, alle origini dell’editoria libraria italiana del Novecento ci sono due gemelli, o quasi.

Come può succedere, e a volte succede tra gemelli, si odiano cordialmente per tutta la vita. Il primo chiama il secondo «quel gangster», il secondo si rifiuta anche solo di pronunciare il nome del primo. Angelo Rizzoli e Arnoldo Mondadori nascono a distanza di due giorni sul finire del 1889 e a distanza di otto mesi muoiono, entrambi ottantunenni. Sempre per primo Rizzoli, in nascita e in morte. Entrambi proletari, con le pezze sul sedere.

Povero Mondadori, figlio di un contadino e calzolaio ambulante, analfabeta fino a cinquant’anni. Poverissimo Rizzoli che addirittura nasce già orfano perché suo padre, ciabattino e anche lui analfabeta, sconvolto da un licenziamento è andato mesi prima a uccidersi. Al cimitero di Musocco, per maggiore comodità. Le origini infime verranno più volte e orgogliosamente rivendicate da entrambi («una miseria nera, che non si può immaginare» dirà Rizzoli), secondo un cliché comune a molti capitani d’industria otto- e novecenteschi.

Ma non comune nel caso degli editori: è vero che Louis Hachette, il più ricco editore dell’Ottocento, era figlio di una lavandaia, ma lei lavorava per il liceo Louis-le-Grand, grande di nome e di fatto, cosa che permise al figlio di frequentarlo. E da questa solida base di avviarsi alla gloria editoriale.

I nostri invece sono entrambi incolti. Mondadori ha la quinta elementare e molti anni dopo se ne lamenterà di frequente, civettando, con il suo banchiere e amico Raffaele Mattioli. Il quale un bel giorno, di fronte all’ennesima replica, gli dice: «Ma senta, caro Mondadori, secondo me lei ha studiato troppo. Guardi Rizzoli, che ha solo la seconda, e veda un po’ la strada che ha fatto.» (Per la verità in altre occasioni Rizzoli rivendicherà di avere anche lui la quinta, presa però alle serali.)

Entrambi, e questo è decisivo, all’origine tipografi, adepti dell’arte nera, con nel naso l’odore acre degli inchiostri. Arnoldo comincia da garzone nel retrobottega di una cartoleria di Ostiglia, nel mantovano, dove troneggia un torchio a mano in disuso, tra casse di caratteri impolverati e, più tardi, una macchina a manovella. Si stampano carte intestate, biglietti da visita, partecipazioni, moduli, registri, manifesti. Angelo, appena uscito dai Martinitt dove gli hanno insegnato il mestiere, compera in società con un altro operaio una pedalina usata. A rate e firmando un bel numero di cambiali, naturalmente.

Rischiano anche di spaccarla quando cade dal carretto su cui la spingono dalla Stazione Centrale alla stanza in via Cerva che è la loro prima sede. Smanovellando e pedalando entrambi, Mondadori e Rizzoli, prendono buona nota del fatto che tra il prezzo cui si può vendere la carta stampata e il costo della carta e della stampa c’è una bella differenza, ossia un possibile e notevole guadagno.

A questo punto si trovano però di fronte a un bivio. Da una parte si può stampare su commissione, fare integralmente i tipografi, e il problema sarà allora quello di trovare un numero di clienti e di commesse sufficienti a saturare le macchine. Oppure, dall’altra parte, si può stampare quel che si vuole, di propria iniziativa, e il problema allora sarà quello di trovare un numero di acquirenti sufficiente per i propri stampati. (Entra così in scena il pubblico, misteriosa divinità!) In questo secondo caso tutto dipende da quel che c’è stampato su quella carta, cioè da chi l’ha scritto e da che cosa ha scritto. L’arte di tenere insieme gli autori, le loro opere e il pubblico si chiama editoria.

Qui le strade dei due gemelli si dividono, per circa un quarto di secolo. Rizzoli prende la prima, quella dello stampatore, Mondadori la seconda, quella dell’editore. Poi si riaccosteranno, ma l’originaria diversità di orientamento darà origine a due diversi tipi di editoria. C’è un’ultima grande somiglianza se non identità tra i gemelli fondatori: per entrambi tutte le tappe decisive della loro sfolgorante crescita – che poi vorrà dire prestigio, ricchezza, potere e fama – sono segnate dall’arrivo di nuovi macchinari, dall’allestimento di nuovi impianti, dall’apertura di nuovi stabilimenti. Fino a tutti gli anni Sessanta il loro affanno e il loro orgoglio si concentrano sulle officine, sul loro essere integralmente industriali, uomini delle macchine.

Da bambino e da ragazzino non ho la più pallida idea di che cosa siano Rizzoli e Mondadori. La famosa coppia a me non dice niente. Come del resto – ne sono convinto – alla maggior parte degli italiani di quel tempo. Non sono marche, come per dire le marche delle automobili, quelle sì ben visibili e ben chiare. Sono solo nomi misteriosi che compaiono con allarmante frequenza sotto certi riquadri pubblicitari prima su Oggi e poi anche su Epoca, domestiche e familiari riviste che nessuno connette a Rizzoli o a Mondadori.

Nei riquadri si intravedono copertine di libri (quelli so che cosa sono), ma piccole, non si capisce bene che figure ci siano sopra. In compenso c’è sempre una lunga pappardella che io non leggo, un po’ perché dice cose incomprensibili, un po’ perché quando riesco ad acchiappare di nascosto una rivista (i miei genitori non hanno piacere che io le prenda in mano) guardo le fotografie, che sono molto più interessanti, e, se c’è tempo, leggo le didascalie. Le pappardelle le lascio lì. 

Storia confidenziale dell‘editoria italiana, Gian Arturo Ferrari, Marsilio, 368 pagine, 19 euro

Dagospia il 17 novembre 2022. Estratto di “Storia confidenziale dell’editoria italiana”, di Gian Arturo Ferrari (ed. Marsilio)

Fino alla metà degli anni Ottanta l’Adelphi è rimasta, felicemente rimasta, una casa editrice del maestro: Bevilacqua è uno scrittore popolare, ma di qualità. Una produzione impeccabile. Una produzione di qualità. Una produzione impeccabile, una serie di proposte coraggiose e inaspettate, un pubblico solido e fedele, una reputazione crescente e inattaccabile. Il lungo e paziente lavoro di un ventennio si è tradotto in prestigio. E in un'aura inconfondibile. Se il concetto di aura si può applicare a una casa editrice, questa è senza dubbio alcuno l'Adelphi.

L'altra faccia della medaglia è che qualità significa anche limite. Il grande pubblico, quello dei bestseller, è programmaticamente (intenzionalmente?) escluso dall’orizzonte elitario che la casa si è voluta dare. Un libro cambia tutto. Il libro è L'insostenibile leggerezza dell'essere di Milan Kundera, in sé un capolavoro straziante. 

Pubblicato dall'Adelphi all'inizio dell'85 come meglio non si potrebbe, un caso da studiare nell'arte del publishing. Viene posto intatti come opera inaugurale di una nuova collana adelphiana, "Fabula", dedicata alla letteratura contemporanea. Con una copertina azzurro pallido e un'immagine perfetta di Max Ernst che dà al libro un'aura (appunto!) di metafisica dolce.

Il caso vuole che nella trasmissione televisiva di Renzo Arbore Quelli della notte, popolarissima e di culto per l'intelligenzia, gli ospiti fissi, Roberto D'Agostino (orecchio molto fino e apostolo della congiunzione alto-basso), faccia del misterioso titolo un motivo ricorrente e ripetuto, un tormentone, come si usa dire. La qualità intrinseca del libro si somma all'eccellenza del publishing e alla straordinaria illuminazione mediatica. Un successo travolgente. 

L'aristocratica Adelphi conosce per la prima volta le gioie del bestseller. O, meglio, il pubblico dei bestseller conosce per la prima volta la fin lì inarrivabile Adelphi. Cambia l'essenza della casa editrice, dopo il lungo ed estenuante cammino giunge sulla vetta. È ora dominante Uno smacco quanto mai doloroso per la Mondadori. La quale aveva pubblicato ben tre libri di Kundera, Lo scherzo, Amori ridicoli e La vita è altrove (due altri, Il valzer degli addii e Il libro del riso e dell'oblio erano usciti per Bompiani). Senza alcun esito.

Tre naufragi. Colpa anche del publishing. Bonacina, l'editor responsabile, li aveva relegati in una collanina dichiaratamente minore, dove dava sfogo alle sue vere e nascoste pulsioni letterarie. Ottimi libri pubblicati però senza convinzione. Credendo nella loro qualità ma non nel loro successo, in editoria il peccato mortale. Di fronte al quarto, cioè all'Insostenibile leggerezza - il capolavoro, il futuro bestseller -, Bonacina, logorato dalle precedenti esperienze, aveva opposto un netto rifiuto. A nulla erano valse le insistenze dello scout di Parigi, Alain Elkann, grande amico di Leonardo e da questi sostenuto. Si era impuntato e nonostante avesse la prima opzione sul libro lo aveva rifiutato.

DAGOREPORT il 15 novembre 2022.

Fossi stato in Gennaro Sangiuliano ci avrei pensato due volte prima di lasciare la direzione di un telegiornale per diventare ministro della Cultura in Italia. Quando Dario Franceschini era ministro dei Beni culturali, Barak Obama gli disse che faceva “il lavoro più bello del mondo”. Era vero? In Italia la storia culturale sovrasta ogni ministro sino a sfinirlo, soffocarlo: è un Everest che fatichi a osservare per la sua altezza. 

Non puoi farcela, non puoi gestirlo: puoi solo evitare di fare danni o di sperperare. Se c’è uno stile nei ministri sta nell’approccio con il quale si presentano, non certo negli impossibili risultati, che sono spesso una eterogenesi dei fini. Questi ministri arrivano al Palazzo che fu di Athanasius Kircher tutti baldanzosi, come gli amanti di Turandot, e hanno fatto più o meno tutti la stessa fine degli amanti di Turandot: sono scomparsi.

Walter Veltroni fece la riforma dei teatri lirici (in senso privatistico, ovvio), frequentò tutti i festival del cinema, della cultura e sostenne il Maxxi di Roma… Vent’anni dopo è diventato un “giornalista e scrittore”, come si legge in molte didascalie dei talk-show anche di varie influencer. Come politico ha abbandonato senza andare in Africa, suo obiettivo dichiarato.  

Sua protome fu Giovanna Melandri, che lo seguì nel ruolo. “Nata a New York…”, come iniziavano tutte le sue fighissime biografie, è “finita” al Maxxi, prima “gratuitamente”, poi stipendiata. Il Maxxi è un tailleur fatto confezionare su misura per lei dalla sinistra veltroniana. 

Era molto manageriale Giuliano Urbani, sputtanato dal suo sottosegretario (Sgarbi) per una love-story con un’attrice. Fu un bocconiano che si applicò al codice con qualche risultato. Oggi è scomparso. Del professore cattolico Rocco Buttiglione non si sa più nulla e, come lui, dell’altro professore cattolico Lorenzo Ornaghi, ora in qualche consiglio di amministrazione o comitato di musei e pinacoteche cristiane.  

Il poeta berlusconiano Sandro Bondi si sentiva investito di una missione escatologica: fu travolto dal suo stesso crederci, dalla volontà di aiutare questa idra che è il patrimonio culturale italiano. Finì stritolato e scomparve, ma con la più giovane moglie che, intanto, aveva sposato. Giancarlo Galan se la dovette vedere con la Giustizia e, in questi casi, si scompare sempre data la lunghezza dei termini del Giudizio.

Massimo Bray si presentava in maniera gentile e umilissima, come di persona conscia del sovrastante compito di governare i Beni culturali. Quando fu nominato alla direzione della Treccani, quest’uomo di D’Alema chiamò a collaborare persone che si dicevano vicine alla massoneria. Non sappiamo se sia vero, ma dalla politica disparve anche lui all’improvviso, così come era stato fatto comparire dal mago Dalemix.  

Dario Franceschini, pure scrittore come Veltroni ma già prima di fare il bi-ministro dei Beni Culturali, dei Beni culturali e turismo, poi della Cultura senza più beni e senza più turismo, fu tutt’uno con la coscienza di sé come ministro della Cultura. Era molto amico degli Sgarbi, ferrarese come loro. 

La sua passione era forse sincera quando affermava che quello della Cultura fosse il più importante ministero economico, affermazione ripetuta giusto in contrasto con la celebre mai detta da Tremonti: “Con la Cultura non si mangia”. Franceschini ci scrisse addirittura un libro intitolato: “Con la cultura non si mangia?”.  

Era un po’ facilone: chiamò i direttori di musei stranieri convinto che avrebbero avuto la meglio sugli italici sindacati. Illuso. Gli Uffizi chiusi il ponte di Ognissanti testimoniano la sconfitta. In alcune redazioni di giornale lo avevano soprannominato “il pavone estense” e di lui già non si parla già più nemmeno come aspirante segretario del Pd. Alberto Bonisoli, messo dai Cinquestelle, era un brav’uomo, direttore della Naba, un uomo da numeri e da scrivania: fu una meteora e, come i predecessori, è scomparso dalla politica. 

Michele Neri per “Oggi” il 10 novembre 2022. 

Tra le passioni umane meno note, se non ignorate, c’è quella per l’editoria. Gli oscuri, lenti passaggi che, dietro le quinte, trasportano le parole dalla mente dell’autore agli scaffali delle librerie.

Peccato, perché poche professioni sono più seducenti, inquiete e talvolta rischiose del lavoro editoriale: basta leggere dentro la vita di uno dei condottieri di questo mare di carta, il settantottenne Gian Arturo Ferrari, che ha riversato decenni di esperienza, fino a occupare il vertice dei due big, Mondadori e Rizzoli, nella Storia confidenziale dell’editoria italiana (Marsilio). 

Il romanzo di un adolescente studioso che un giorno provoca il destino, quando rinuncia al tram 35 che dalla periferia di Milano lo porta al liceo Berchet perché, camminando, risparmia le 70 lire con cui comprare un volume della Bur Rizzoli. Fino a diventare il temuto “Dart Fener”, il “Professore” dell’editoria italiana: che ha indovinato, lanciato o fermato il successo di centinaia di scrittori di tutto il mondo.

Di questa gustosa, rivelatrice saga libraria e di un Paese, con troppi cavalieri e poche dame, duelli, caduti e vincitori, Ferrari ci parla in una grande casa milanese simile alla tolda di una nave. Libri ovunque, spolverati e in ordine alfabetico. 

Lei descrive editori assai diversi per indole e formazione. Passa dalla coppia delle origini, Angelo Rizzoli e Arnoldo Mondadori, gemelli per povertà di nascita, odio reciproco e mancanza di cultura (seconda elementare il primo, quinta il secondo), al coltissimo e altezzoso Roberto Calasso di Adelphi, al signorile Valentino Bompiani per cui dovere dell’editore è portare amore. Una caratteristica comune a tutti?

«Sono dei tiranni: hanno bisogno di una comunità di fedeli, adepti, esecutori, si devono fidare e non possono. Anche chi, come Giulio Einaudi, ha ideologizzato la comunità, era poi lui a decidere, sempre sulla lama del coltello, tra servire la cultura e obbedire alle leggi economiche, sospeso tra Dio e Mammona. Delle loro pene, gli editori non possono parlare». 

Lei ha insegnato a lungo Storia del pensiero scientifico all’Università di Pavia, eppure sostiene che il lavoro editoriale è il cuore della vita intellettuale. Perché?

«Perché tutto passa dai libri, il bene e il male. Altre culture, come l’accademia, sono riparate, provviste di ombrelloni. L’incertezza è alla base della vita intellettuale di una comunità. Il bello dell’editoria è il rischio costante».

Sembra che in Italia questo rischio non si sia limitato all’insuccesso di un titolo, ma abbia assunto ben altre dimensioni. Dalla dipendenza ideologica di Einaudi, sospinta prima dal ’68 e in crisi con il tramonto del marxismo; al rischiato fallimento di Mondadori per la voragine finanziaria di Rete 4, alla disastrosa scoperta per Rizzoli, nell’81, degli elenchi della loggia P2… Una fragilità tutta nostra?

«In altri Paesi l’editoria ha fondamenta più stabili. Da noi il casino nasce perché la cultura è troppo vicina alla politica oppure oggetto di attribuzione di valori ideologici. Altrove è un’industria indipendente, da noi la cultura è asservita: quando il sistema balla, è costretta a ballare».

Lei ha affrontato proprietà impegnative: Gianni Agnelli in Rizzoli e Silvio Berlusconi in Mondadori. Qual era il metodo Agnelli?

«Esercitare il potere in una versione antica, sprezzante. Quando ero direttore dei Libri Rizzoli, il giovedì arrivava l’amministratore delegato del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, Giorgio Fattori. Di fronte ad alcune proposte, prendeva tempo. Era chiaro che si sarebbe poi incontrato con Agnelli, restato nell’ombra. Il giovedì successivo Fattori arrivava con la sentenza: “Non piace”». 

Lei era a capo di Mondadori con Berlusconi padrone della casa editrice, di televisioni e presidente del Consiglio. Come si è comportato?

«Non ha mai interferito né giudicato a priori. Richieste pressanti arrivavano non da lui ma da altri nomi pesanti, politici e non solo. Riuscivo ad arginarle e lui non mi ha mai condizionato».

È stato lei a mentirgli per Capitani di sventura di Marco Borsa?

«Avevamo pubblicato questo saggio critico nei confronti del capitalismo italiano: di Berlusconi non parlava. Pensavo ne sarebbe stato felice invece si arrabbiò perché Cesare Romiti, uno dei bersagli di Marco Borsa, lo accusò di averlo pubblicato apposta. Di fronte al suo divieto di ristamparlo, ho proceduto lo stesso, solo senza scrivere dentro “seconda”, “terza”… edizione».

Cinque eventi che hanno trasformato l’editoria italiana?

«La nascita delle due collane economiche: Bur di Rizzoli e Oscar di Mondadori. Il coraggio di Adelphi nel pubblicare Nietzsche, esecrato dal marxismo; Il dottor Zivago pubblicato da Feltrinelli e il Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi; basta aprirlo per capire quanto poco sappiamo della letteratura mondiale». 

Un tempo il libro dei sogni di ogni editore era uno scritto da un Papa. Fu lei a pubblicarlo in Mondadori: Varcare la soglia della speranza, scritto da Wojtyla, che rispondeva alle domande di Vittorio Messori. E oggi, il libro dei sogni?

«Le grandi figure si dividono in due. Gli anglosassoni, concluso il loro ufficio da presidenti o altro, pubblicano un libro di memorie e in cui raccontano una parte di verità. In Italia non succede. E i dittatori, che non scrivono mai come sono andate le cose. Se Putin o XI Jinping raccontassero qualche verità, anche poche... Magari, un manoscritto di Berlusconi… Hanno tentato, anch’io, ma non ha voluto».

La scelta più rischiosa?

«Pubblicare i Versi satanici di Salman Rushdie quando nessun altro lo faceva». 

L’errore che non dimentica?

«Un errore di trattativa: perdere Jurassic Park di Michael Crichton». 

La giornata più adrenalinica?

«Una serata: quella del Premio Strega 1989 quando siamo riusciti a far vincere Giuseppe Pontiggia che ha superato il favorito Roberto Calasso. Quanto ho goduto a fregare i benpensanti, l’opinione colta che circonda i libri, quel museo delle cere». 

Conferma che il vincitore dello Strega è deciso a tavolino a dicembre?

«Sì, prima era fatto in modo esplicito, ora è più sfumato. La decisione è presa a inizio anno ma non sempre va a buon fine». 

Milano, scrive, è stata il miglior ristorante dei libri. Lo è ancora?

«Da anni l’editoria è un pullulare di case microscopiche distribuite sul territorio, non ci sono più baobab ma tante margheritine. Languono, frenate dai pochi lettori. Da noi la politica non ha mai affrontato un dato: il nostro mercato è un terzo di quello francese anche se la popolazione quasi si equivale».

 La più bella tra le margheritine?

«NN e poi Iperborea di Emilia Lodigiani». 

Consiglierebbe a un giovane di lavorare in una casa editrice?

«Sì, perché tutto ciò che ha cambiato il mondo è partito da un libro. I libri sono quel binocolo che, dal ponte della nave nel mare tempestoso, scruta l’orizzonte». 

Perché non ha mai fatto l’editore in proprio?

«Sono un piccolo borghese pauroso, non pensavo di trovare i soldi necessari: prima devi averli, poi fai i libri». 

Se la storia dell’editoria fosse un film, quale titolo sceglierebbe?

« Via col vento. Domani è un altro giorno, perché ogni volta cambia tutto».

 Elena Ferrante ha avuto successo per l’anonimato?

«Sì e per quella carica sentimentale difficile da rendere nella scrittura». 

Il libro si chiude con amarezza: parla della libertà come di una condizione cui non siamo abituati. Perché?

«Perché in Italia la cultura non è considerata in sé ma riferita ad altro: l’editoria non dovrebbe essere un’appendice della politica. Negli altri Paesi, Stati Uniti soprattutto, l’autonomia è scontata. E siamo un Paese chiesastico, abituato a pensare che ci siano cose che si possono leggere e altre no». 

Alla fine si tratta di spingere un libro nelle mani del cliente. Cosa influisce sulle scelte in libreria?

«Dalla mia osservazione diretta: per prima cosa conta l’immagine, poi titolo e autore; se il cliente prende il libro in mano è un passaggio decisivo, se guarda il prezzo è un ottimo segno, poi tocca alla lettura della bandella». 

Usa il Kindle? Nemmeno una?

«No. Me li ricordo tutti».

Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 7 novembre 2022.

Che fosse un predestinato non c'è mai stato dubbio, fin da quando il babbo gli dedicò un film -Aprile- proprio mentre stava nascendo. Il giovanissimo pittore Pietro Moretti, 26 anni, figlio di Nanni e di Silvia Nono, brucia le tappe nel mondo dell'arte grazie a un'acquisizione molto importante. 

È accaduto durante la fiera torinese Artissima, certamente la più cool e qualificata d'Italia, nella quale il ragazzo ha esposto i suoi ultimi quadri allo stand della Galleria Doris Ghetta di Ortisei. Il dipinto intitolato La visita, un'altra visita (250x150 cm) è stato scelto tra le acquisizioni della Fondazione CRT e destinato all'importante e prestigiosa collezione del Castello di Rivoli, dove ci sono solo grandi artisti internazionali, entrare è molto difficile, quasi impossibile per un italiano. 

Eppure ci deve essere stato qualcosa di speciale nell'arte del Moretti young se la direttrice del Castello, Carolyn Christov-Bakargiev, notoriamente severissima nei giudizi, ha speso parole tanto lusinghiere: «La pittura di ascendenza espressionista racconta la fragilità del momento attuale. Di Moretti viene acquisita La visita, un'altra visita, 2022, tela di dimensioni generose il cui soggetto descrive una scena in ospedale connotandola di tratti che ricordano atmosfere kafkiane rese con colori acidi e non naturalistici».

Questo nel comunicato stampa ufficiale, sempre molto abbottonato come da tradizione sabauda, dove non si parla di cifre perché non sta bene, però il prezzo ufficiale dell'opera è di 8.000 più iva, insomma un buon investimento se Pietro manterrà le promesse. 

ESPRESSIONISMO Restano comunque lo stupore e la sorpresa perché fino a ieri questo giovane artista era pressoché sconosciuto. Mandato a studiare nelle scuole dell'upper class, tra il 2016 e il 2020 ha frequentato la Slade School di Londra, non ha ancora tenuto una mostra personale e ha partecipato ad alcune collettive tra Regno Unito e Italia (a Firenze e Latina). Il suo cv non pare sufficiente per un riconoscimento tanto prestigioso.

Dal punto di vista stilistico, pur con qualche ingenuità tipica dell'età verde, i quadri sembrano interessanti seppur non troppo originali: echi della Transavanguardia e dei Neue Wilden tedeschi, ovvero della pittura degli anni '80, citazioni piuttosto letterarie da Eric Fischl e Philip Guston, due grandi maestri americani. È peraltro ovvio che ciascuno si porti dietro delle paternità artistiche, che insieme ai padri reali, quelli di cui porti il cognome, ti possono aiutare nella scalata verso il successo.

SUCCESSO IMPROVVISO Nessuna malizia, per carità. Pietro Moretti non fa lo stesso mestiere di papà Nanni, non è un raccomandato e sta dimostrando le proprie capacità. Ciò che stupisce, però, è la scelta così spericolata e azzardata del Castello di Rivoli, istituzione chiusa, per non dire blindata, nel sistema dell'arte. Senza dubbio conserva una tra le collezioni d'arte più importanti d'Europa, farne parte significa salire immediatamente di grado, aumentare il valore economico e la reputazione nell'ambiente. 

Tanti pittori italiani molto bravi avrebbero meritato negli anni la considerazione di questo museo e si sono sempre visti chiudere la porta in faccia. Ora arriva Pietro Moretti e le cose cambiano, il che suona davvero strano. Dipenderà dal cognome? Carolyn Christov-Bakargiev è una cinefila appassionata? Oppure è proprio questione di predestinazione, come si diceva all'inizio. Alcune cose nascono fighissime, altre no, l'episodio è appunto l'ennesima conferma.

Dittatura. Igor Belansky il  24 Luglio 2022 su weeklymagazine.it.

La mancanza di istruzione, la mancanza di una classe media.

Quando la popolazione è composta da una esigua minoranza che detiene il potere e la stragrande maggioranza della popolazione è povera, questa è la situazione in cui vi è una dittatura.

Non ha importanza di che ideologia politica essa sia, la dittatura è quasi certa.

Viceversa, nei Paesi in cui vi è una forte classe media, una buona istruzione, questa è la situazione in cui è maggiormente possibile la democrazia.

In Italia la situazione non è brillante.

Il divario tra ricchi e poveri è aumentato e la classe media diminuita di numero.

Fortunatamente siamo con l’Unione europea.

Questo dovrebbe fare da argine contro derive dittatoriali.

Igor Belansky e la Sociatria: illustrazione e mondi individuali e sociali. ANTONIO ROSSELLO su Il Corriere Nazionale il 20 agosto 2022.

La particolare prospettiva in cui muove la ricerca espressiva del noto illustratore genovese.

Igor Belansky ha letto con estremo interesse la mia recente intervista, su il Corriere Nazionale, al dr. Antonio Giangrande, figura poliedrica, scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’”Associazione contro tutte le mafie” e di “Tele Web Italia”, il quale è autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

E proprio le complesse e sofferte battaglie civili condotte da Giangrande sono state motivo di forte coinvolgimento per il noto illustratore, che ispirandosi ad esse ha realizzato la rappresentazione in anteprima. In essa emergono a tutta forza quel suo tipico tratto poco incline ai virtuosismi, lo stile crepuscolare o grottesco che trasmette dissonanze, senza incorrere nella banalità della provocazione. Vi è dunque, piuttosto, il thauma, l’angosciante stupore, la tensione dialettica tra fascino e turbamento nella destabilizzante indeterminatezza delle cose, che spiana la strada alla domanda più che alle risposte, come quando si sprofonda negli oscuri meandri che conducono fino alle più ignote regioni dell’inconscio. Da qui, la voglia di scuotere l’indifferenza, che rappresenta sempre più il male della società moderna.

Evocativo il titolo: “Potere e moltitudine“. Vi si coglie la contrapposizione tra le figure più grandi dei potenti che, con sicurezza ostentata, sovrastano una folla magmatica, disperata, in cui si scorge l’accenno alla morte. Pare la plastica raffigurazione dell’inconscio collettivo, visto come quell’invenzione di Carl Gustav Jung, prestata poi alla teoria politica e delle scienze sociali italiane tra Otto e Novecento, che è più che mai inibita, gettata nell’inazione, eterodiretta in questo tempo postmoderno. Drammatico l’interrogativo: cosa muove l’imprevedibile azione delle «masse» e quali sono le motivazioni profonde che in alcune, eccezionali stagioni spingono gli individui a compiere atti eroici completamente disinteressati o crimini efferati, all’apparenza del tutto irrazionali?

Igor Belansky – Potere e moltitudine

A parte certi, sempre più pochi ed isolati, impavidi paladini della resistenza sociale, ai nostri giorni per la stragrande maggioranza delle persone diventa sempre più difficile prendere posizione o schierarsi. Oggi si è portati ad indignarsi. A sconcertarsi. Ad esprimere giudizi sommari. Ma subito dopo si è capaci di farsi prendere dall’indifferenza. Subentra a quel punto una voluta ignoranza sui fenomeni che ci circondano. Li minimizziamo. Questo non vuole Belansky.

Non a caso, come ho già avuto modo di affermare in un articolo sul settimanale online WeeklyMagazine, nella particolare prospettiva in cui orienta la sua ricerca espressiva, in condivisione con altri esponenti emergenti delle Arti Visive, l’illustratore genovese punta infatti all’affermazione di un concetto, la «Sociatria» (ossia «la cura della società»), attraverso il quale l’Arte può generare una via di verità, alimentando la mente, rieducare o, quantomeno, scongiurare la crescente e pericolosa carenza di pensiero, oltre che tendere ad avvicinare la persona alla virtù, sino a ritrovare in senso un più ampio un rispetto dell’umanità.

Sulla stessa lunghezza d’onda, pare anche essere il sociatra americano John Fordham, che, dal suo gruppo Facebook Sociatry – for societal health., così commenta la summenzionata intervista a Giangrande:

I loved this. I gained the impression that he does what he does, because it’s his calling in life. It’s a “labor of love” which he’s driven to pursue & construct. (tr.: Mi è piaciuto molto. Ho avuto l’impressione che faccia quello che fa perché è la sua vocazione nella vita. È un “lavoro d’amore” che è spinto a perseguire e costruire).

La Sociologia Storica.

Intervista di Antonio Rossello ad Antonio Giangrande. 

1.       Dottor Giangrande, Lei nel suo recentissimo volume “ANNO 2022 LA CULTURA ED I MEDIA SECONDA PARTE” menziona l’illustratore, sempre più spesso prestato alla penna su questa ed altre testate online, Igor Belanky per via del suo articolo “Dittatura” pubblicato da Weeklymagazine il 24 Luglio 2022.  Da cosa è stato colpito? La sua comunicazione sintetica ed essenziale è più efficace delle più lunghe e forbite concioni di altri redattori?

R. In quelle frasi vi è il sunto del rapporto tra Potere e Povertà. I poveri hanno bisogno di speranza. Il Potere promette di realizzarla. Più i poveri sono ignoranti più è grande il laccio che li lega al Potere. Più i poveri rimangono tali e ignoranti più il Potere padroneggia. Per questo il Potere elemosina i poveri, non li evolve in benestanti. 

2.       Non trova che in Italia la gente non legga molto ma parli troppo, cosa poco utile quando bisogna scegliere, decide cosa fare e con chi? La colpa è della scuola, del mondo della cultura, della politica o dei media? O di una crescente indifferenza…? Questi mi pare siano gli aspetti che Lei tratta nel summenzionato volume…

R. Il principio del sostentamento dei poveri ha portato questi a pretendere diritti, non a chiedere, ed allo stesso tempo a non sottostare ai doveri. L’ignoranza porta a parlare, ad ostentare ed imporre, non a leggere ed imparare. Si studia per poter migliorare e per poter dire a chi parla: cosa dici?!?

Purtroppo, poi, se qualcuno cerca di leggere, non trova fonti per poterlo soddisfare. La Cultura ed i Media sono in mano al Potere: economico e politico. Si scrive quello che è permesso: dall’editore; dai partiti di potere composte dalle eminenze grigie di mafie, massonerie e caste e lobby. 

3.       In generale, di cosa si occupa con i suoi saggi?

R. Se Giorgio dell’Arti, con i suoi “Cinquantamila” parla dei protagonisti,

Se Wikipedia riporta la contemporaneità e la storia per argomento o protagonisti.

Se Dagospia, twnews o Msn notizie riportano la contemporaneità per cronologia.

Io con le mie ricerche giornaliere vado oltre ognuno di loro.

Parlo di storia e contemporaneità cronologica, per Tema suddiviso per Argomenti, di fatti e protagonisti.

Mi occupo di tutti gli aspetti del nostro mondo contemporaneo. Racconto il presente ed il passato per poter migliorare il futuro a colui che legge: che sa e parla. Faccio parlare i protagonisti di oggi. Uso fonti credibili ed incontestabili, rapportandoli tra loro in contraddittorio. Uso l’opera di terzi per l’imparzialità. Questo anche per aggirare la censura e le querele.   

4.       E con la Sua web tv? E’ il tentativo di offrire informazione alternativa rispetto al cosiddetto mainstream?

R.  Nei miei saggi parlo degli italiani. La mia web tv è solo rappresentazione dell’Italia, come territorio. L’Italia è bella per quello che è, tramandato dai posteri, che va distinta da chi oggi vi abita.  

5.       Ci può raccontare come è nata quella che mi pare sia la Sua passione civile?

R. Sono figlio di poveri che ha voluto emanciparsi. Volevo elevarmi socialmente. Ciò nonostante: i poveri dal basso ed il Potere dall’alto mi tirano giù. Per i miei genitori, come per tutti i poveri, non vale essere, ma avere. Ed i figli sono braccia prestati allo sfruttamento. Non mi hanno fatto studiare. A 32 anni dopo l’ennesima bocciatura ad un concorso pubblico truccato, ho deciso di studiare per migliorare. Diploma di ragioniere, da privatista 5 anni in uno presso un istituto pubblico e non privato, laurea in giurisprudenza 4 anni in due, presso la Statale di Milano, lavorando di notte per poter frequentare e studiare di giorno. 6 anni di professione forense non abilitato. Abilitazione cercata per 17 anni e mai concessa in esami farsa. La mia ragione non è stata riconosciuta nella tutela giudiziaria, nonostante ad altri nelle stesse condizioni, sì. La mia colpa? Essermi reso conto che la Giustizia non è di questo Stato e in quei 6 anni volevo porre rimedio alle ingiustizie nelle aule del Tribunale. Mi son reso conto che la mafia era dentro quelle aule e non fuori. Oggi non posso rimediare alle ingiustizie, perché non ho potere. Mi rimane solo che raccontarle ai posteri ed agli stranieri. 

6.       Qual è il bilancio della Sua attività in tal senso, presente e passata, nei vari ruoli che riveste?

R. Se parlo al presente è fallimentare. Sono un disoccupato presidente di una associazione antimafia che scrive e viene letto tantissimo in tutto il mondo, anche con le anteprime dei miei libri, ma non vende, perché sono relegato in un angolo dalla P2 culturale: ossia da quella eminenza grigia che non vuole che si cambino le cose, informando correttamente la gente e fa parlare chi sa. In ogni caso ognuno pensa per sé, per questo la gente è interessata ai suoi interessi ed a risolvere i propri problemi, anziché cambiare le sorti dei loro figli. 

7.       Ci può accennare come, dal Suo punto di vista di attento osservatore, appaiono le attuali vicende sulla scena nazionale e internazionale?

R. Da sempre l’essere umano ha sentito l’esigenza di avere la cosa altrui. O compra o ruba. Da sempre vi sono state guerre di conquista. Atti di bullismo nei confronti dei più deboli. A volte si usa l’arma del nazionalismo, altre volte è la religione ad imporre la violenza. La reazione delle forze non schierate è stata quella del menefreghismo e quella dell’utilitarismo. In questo senso tutto il mondo è Italia. Riscontro a mio giudizio delle fazioni.

Quelle che dicono: che me ne fotte a me.

Quelli che dicono: qui ci guadagno.

Pochi sono quelli che per altruismo difendono le vittime dai bulli.  

8.       Una nota metodologica o, se vuole, concetto. Sui siti internet specializzati, i suoi saggi sono quasi sempre categorizzati nel genere “sociologia”. Mi pare che Lei conduce una ricerca sociologica, per denunciare i mali intrinseci, le dissonanze della nostra società contemporanea… nelle sua formazione e nelle Sue motivazioni, forse generazionali,  vi è qualche richiamo alla Scuola di Francoforte,  alla sua Dialettica negativa, Horkheimer,  Adorno, Marcuse…

R. Il socialismo, radice unica dei regimi comunisti, nazisti e fascisti ha usato le masse per poter egemonizzare il mondo. L’uso della religione per manipolare le masse povere per fini politici è anch’esso socialismo. Lo statalismo è il loro strumento, la povertà è l’arnese.

Io credo che, invece, l’individuo deve essere padrone del proprio destino e deve essere messo in grado di decidere per il suo meglio, senza danneggiare gli altri. Tanti individui ben informati, divenuti benestanti, avranno tutto l’interesse ad intraprendere azioni per tutelare lo status quo. I loro rapporti, tra loro e loro con il Potere, saranno regolati da poche leggi. Credo che i 10 comandamenti siano sufficienti a regolare il tutto. 

9.       Ed ancora quale ritiene sia oggi lo stato dell’arte della Sociologia? E’ al corrente dell’esistenza in Italia e all’estero di approcci emergenti alle Scienze sociali, quali la Sociatria, la Sociosofia, la Sociocrazia o la Sociurgia, di cui anch’io ho parlato in precedenti articoli? Che cosa ne pensa, sono destinati a superare, o quanto meno integrare, riformare la Sociologia? Se c’è una Sua via autonoma ed innovativa, come la definirebbe o battezzerebbe con termine sintetico?

R. Io mi definisco sociologo storico: Racconto il presente ed il passato, confrontandoli tra loro per evidenziare delle differenze, ove ci fossero, o per indicare la ciclica apparizione dei difetti, ossia i corsi ed i ricorsi storici. Il tutto affinchè si migliori il futuro. L’individuo colto e correttamente informato è il perno centrale, tanti fanno una massa e ne indirizzano le mosse. Il vero senso di “uno vale uno”. Diversa è la massa pecorile o topile che viene guidata da un pastore o da un pifferaio.   

10.   Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria. Abbiamo appreso di Sue molteplici prese di posizione, in differenti occasioni e sedi, sul tema della giustizia. Può parlarcene?

R. La verità storica è quella reale ed imparziale cercata e trovata attraverso tutte le fonti poste in contraddittorio senza influenze esterne.

La verità mediatica è quella verità propinata come tale ma che è influenzata da interessi economici, politici, o di caste, lobby, mafie e massonerie deviate.

La verità giudiziaria è quella che emerge dalle aule dei tribunali, in cui le prove sono tali se permesse e dove vi è piena disparità tra accusa e difesa. I giudizi sono fonti di interesse clientelare e parentale, di colleganza, di retroguardia culturale. 

11.   Concludendo? Ha dei rimpianti o è contento di ciò che fa?

R. Rimpianti No! Per niente. Contento sì. Da 20 anni scrivo e sono ad oggi circa 350 libri tra tematici ed aggiornamenti annuali.

Da Gesù Cristo in poi, i grandi uomini, che hanno lasciato traccia di loro, non erano riconosciuti tali nella loro epoca. Tantomeno erano profeti nella loro terra.

Io ringrazio la mia famiglia che mi sostiene, affinchè tanto ignorato e osteggiato in vita, tanto sarò ricordato per le mie opere da morto. E si sa, chi si ricorda non muore mai.

La P2 culturale.

Media prostrati al potere: politica e finanza.

La denuncia del saggista d'inchiesta Antonio Giangrande.

Il titolato è chi è stato riconosciuto meritevole di considerazione per credibilità e competenza.

Il titolo si consegue per nobiltà, per abilitazione professionale, per investitura di una funzione pubblica, per mandato politico, per conclusione di un ciclo scolastico, per assegnazione di premio letterario.

In un paese dove per avere valore sociale devi essere titolato.

In un paese dove per Costituzione i titoli vengono elargiti dal potere, quindi per appartenenza, e, spesso, non sono meritati.

In un paese dove i titoli ti danno notorietà, fama e, quindi, benessere.

Come autore indipendente, aver scritto 350 saggi sociologici su ogni materia, su ogni tema e, di questi, anche su ogni territorio, essere seguitissimo sul web, diplomato in un anno e laureato in due, basta per aver diritto ad un titolo (conquistato sul campo) e, di conseguenza, all'attenzione mediatica dei grandi gruppi editoriali di comunicazione ed informazione?

Se non per avere il titolo, almeno basta per avere l’attenzione mediatica?

E, se non ora, quando?

Post mortem? Troppo tardi; troppo comodo!

Un figlio al padre: papà, perché gli artisti sono spesso comunisti?

Il padre: perché a loro piace essere mantenuti e sono molto libertini e viziosi e con poca voglia di lavorare! 

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 24 settembre 2022.

A memoria non ricordiamo un caso in cui un libro di saggistica sul fascismo e un libro di narrativa sullo stesso tema siano stati allo stesso tempo ai vertici delle rispettive classifiche. Miracoli anche dell'allarme sulle presunte minacce nere che ha contribuito a far sì che due testi appena editi, M. Gli ultimi giorni dell'Europa (Bompiani) di Antonio Scurati, terzo volume della trilogia sul Duce, e Mussolini il capobanda. Perché dobbiamo vergognarci del fascismo (Mondadori) di Aldo Cazzullo, diventassero subito dei bestseller.

Stando ai dati fornitici dalla Nielsen, società top nelle ricerche di mercato, il romanzo di Scurati - che in copertina evoca il nazismo, coi colori rosso, bianco e nero della bandiera nazionalsocialista - ha venduto in una settimana 15mila copie. 

In pratica più del bestsellerista per antonomasia, il giallista americano Stephen King, che con la sua ultima fatica, Fairy Tale (Sperling & Kupfer), nella prima settimana dall'uscita ha venduto circa 10.350 copie. Le camicie nere tirano più del giallo... Ma anche il saggio di Cazzullo, che demitizza la figura del Duce connotando la sua storia politica come una somma di nefandezze, vola in testa alle classifiche, con 7.440 copie vendute nella prima settimana dall'uscita. E stacca di molto altri saggi di grandi firme o volti ultrapop, sempre d'area sinistra, come Andrea Scanzi (il suo Guida per elettori incazzati, Rizzoli, ha piazzato circa 2.850 copie in una settimana), Corrado Augias (col suo La fine di Roma, Einaudi, ne ha vendute 1.830 nei primi sette giorni) o Michele Santoro (Non nel mio nome, Marsilio, si ferma a 675 copie la prima settimana). 

Perfino Mario Desiati, col suo Spatriati (Einaudi), nei primi sette giorni dall'uscita nell'aprile 2021 si è fregiato di sole 735 copie vendute; e pure nelle settimane dopo la vittoria del Premio Strega, nel luglio 2022, si attestava comunque sotto la quota raggiunta da Scurati (circa 12mila copie a settimana. Questa cifra, come le altre, risulta dall'elaborazione delle percentuali forniteci da Nielsen).  

È partito bene anche L'ombra lunga del fascismo di Alessandro Campi e Sergio Rizzo (Solferino) trai libri più venduti nella sezione Partiti politici su Amazon.

Le ottime performance dei libri sul fascismo non sono legate solo a questo contesto politico, ma da qualche anno rappresentano una costante. Basti guardare ad alcuni precedenti illustri: lo stesso Scurati, col suo primo libro sul Duce, M. Il figlio del secolo, del settembre 2018, si è consacrato vendendo oltre 300mila copie; Bruno Vespa - già di suo eccezionale bestsellerista - non a caso ha dedicato gli ultimi suoi tre libri a Mussolini: e l'ultimo di questi, Perché Mussolini rovinò l'Italia (e come Draghi la sta risanando) Rai Libri, ha venduto circa 78.500 copie. Può vantare lo stesso effetto M Francesco Filippi che, con Mussolini ha fatto anche cose buone (Bollati Boringhieri), ha toccato le 72mila copie vendute. 

Un termine di paragone interessante è quello coi libri sul comunismo. I saggi che trattano di Pci ed esibiscono bandiere rosse e falce e martello in copertina vanno disastrosamente peggio rispetto alle pubblicazioni sul Duce, anche se scritti da autori molto noti. Addirittura, in alcuni casi, il rapporto di copie vendute tra un libro sul comunismo e uno sul fascismo è di uno a 100. Prendiamo come esempio un paio di libri usciti nel gennaio 2021, in coincidenza coi 100 anni dalla fondazione del Pci: Il nostro Pci. 1921-1991 (Rizzoli) di Fabrizio Rondolino ha venduto circa 5.400 copie, Dalla rivoluzione alla democrazia (Donzelli) di Piero Fassino 1.500. E anche un testo di Marcello Sorgi e Mario Pendinelli, Quando c'erano i comunisti (Marsilio), nell'edizione tascabile pubblicata nell'aprile 2022 per Feltrinelli, si è fermato a 300 copie vendute. 

Qual è il fattore che consente ai volumi sul Ventennio di andare così forte? Oltre alla notorietà di chi li scrive, ancor meglio se di sinistra, c'è lo stratagemma "ne parlo male per vendere meglio": più si dissacra qualcosa, definendola pericolosa e proibita, più la si rende attraente.

Così non si fa breccia in un lettorato di fascisti, ma si crea l'effetto fascinazione. Non è un caso che tutti i suddetti autori, pur dicendo peste e corna del fascismo, ne usino la simbologia in copertina a fini commerciali: vedi Scurati con la sua gigantesca M, Cazzullo con l'immagine del profilo del busto del Duce, Filippi con il braccio teso davanti a un altro busto del Duce. Evocare il fantasma del fascismo risorgente, da parte dell'intellighenzia rossa, non fa perdere voti alla Meloni ma aiuta gli autori di sinistra a vendere. E questa, in fondo, è una rivincita per Mussolini: vincere, e vinceremo, nelle classifiche di vendita.

Il Duce resuscita per far paura ai lettori-elettori. Arrivare davanti alla vetrina di una libreria è come entrare nella macchina del tempo e finire in pieno Ventennio. Alessandro Gnocchi il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.

Tra le frasi fatte, negli ultimi anni spicca la seguente: il centrodestra punta sulle paure dell'elettorato per generare consenso: la paura del diverso, dell'immigrato, della crisi economica. Altra frase fatta: il centrodestra propone soluzioni semplici a problemi complessi. Scrittori, artisti ed editori ce l'hanno spiegato in mille modi. Però, entrando in libreria, si capisce subito che le frasi fatte appena citate vanno bene anche per il mondo degli intellettuali. Basta sostituire «il centrodestra» con «gli scrittori» e ridurre le paure a una sola: il fascismo. Arrivare davanti alla vetrina di una libreria è come entrare nella macchina del tempo e finire in pieno Ventennio. Un elegante «logo» mussoliniano contraddistingue il romanzo di Antonio Scurati M. Gli ultimi giorni dell'Europa. Il resto della copertina sfoggia un assortimento di colori (rosso, nero e bianco) che rimanda al nazismo. In realtà, ciò che davvero preoccupa è la premessa del libro griffato Mussolini: «Eppure questo romanzo è aderente in ogni suo dettaglio a fatti storici ampiamente documentati (al netto di pochi, lievi, consapevoli anacronismi e di molti probabili errori)». Insomma, siamo di fronte a un romanzo «aderente» in ogni «dettaglio» ai fatti ma forse anche al suo contrario, a causa dei «molti probabili errori». Torniamo alla vetrina. Accanto al romanzo di Scurati c'è una pila di Mussolini. Il capobanda di Aldo Cazzullo. Sottotitolo: Perché dovremmo vergognarci del fascismo. C'è da chiedersi: a parte qualche emarginato, c'è qualcuno che si vanta del fascismo? E con chi poi? Infine l'occhio cade su una fila di volumi mascelluti. Ebbene sì, l'editoria ha resuscitato il Duce in persona: quei tomi sono gli Scritti e discorsi di Benito Mussolini. Che ansia.

Entriamo in libreria ed è un trionfo di fasci littori: Il collasso di una democrazia, Roma 1922, L'epurazione mancata, La natura del Duce, Mussolini ha fatto tanto per le donne! Le radici fasciste del maschilismo italiano, L'ombra lunga del fascismo, Nero di Londra, Continente Bianco, La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo e si potrebbe continuare ma non vogliamo passare dall'ansia alla disperazione. Naturalmente, alcuni di questi libri sono interessanti, ne abbiamo scritto, e di altri ancora scriveremo. La maggior parte è completamente inutile se non dannosa (semplifica un problema complesso...) ma ci sono le elezioni in fortunata coincidenza con il centenario della Marcia su Roma e nessun editore democratico ha voluto farsi trovare impreparato, anche a costo di buttare via la preziosa carta.

Nino Luca per corriere.it l'1 settembre 2022.

Primo giorno di proiezioni alla mostra Internazionale del Cinema di Venezia e subito prima polemica politica. Nella parte finale del film “Marcia su Roma”, documentario non in concorso in apertura delle `Giornate degli autori, il regista irlandese Mark Cousins mostra un’immagine di Giorgia Meloni assieme a quella di altri politici, tra i quali Vladimir Putin e Jair Bolsonaro, chiosando il suo lavoro con una riflessione sul pericolo che il fascismo si ripresenti. 

A stretto giro di posta arriva la risposta della senatrice di Fratelli d’Italia, Daniela Santanchè: «Nei filmati storici non ho mai visto la faccia della Meloni, anzi la sua proprio non c’è». Sala gremita in mattinata a Venezia, mentre fuori diluvia e un minuto di applausi dagli spettatori della `Sala Perla´ per il regista che alla fine spiega a Corriere Tv perché ha inserito un’immagine della presidente di Fratelli d’Italia nel suo lavoro. 

«Sono straniero e non voto qui ma il modo in cui Meloni ha parlato a Vox in Spagna dicendo `no Lgbt, sì all’universalità della Croce’ è simile a quello delle crociate dell’undicesimo secolo ed è pericoloso perché mette in difficoltà la sicurezza delle minoranze e questo sento di avere il bisogno di dirlo».

Alla considerazione che Giorgia Meloni arriverebbe alla presidenza del Consiglio vincendo delle elezioni democratiche Cousins annuisce ma precisa: «E’ vero, ma tanti politici di estrema destra ed estrema sinistra sono arrivati al potere attraverso elezioni. La domanda però che bisogna porsi è: quali storie raccontano? 

Ti raccontano che sei una vittima di quella certa persona, ti mostrano che siamo la culla della civiltà e agli altri no. È importante il modo in cui usano le storie per manipolare la realtà e rendere tutto o bianco o nero. Ora so che Meloni ha detto di non essere fascista e magari non è come Mussolini, ma il linguaggio che usa è molto pericoloso per i cittadini. Non voglio dire che lei personalmente sia pericolosa, sono le sue idee a esserlo».

Il film, nelle sale dal 20 ottobre, prende spunto da una lettura filologica di `A noi´, prodotto nel 1923 come documento ufficiale del Partito Fascista sulle giornate che portarono Benito Mussolini alla guida del governo. 

Si conclude con `Bella ciao´ cantato da Alba Rohrwacher che interpreta Anna, una donna di umili origini dapprima convinta sostenitrice del regime e poi molto critica. Una donna che in genere, quando non incombe la campagna elettorale, si incontra sul red carpet della prima serata della mostra del Cinema è Daniela Santanchè: Verrò il 7 a Venezia. Per il momento dico che preferisco “La marcia su Roma” di Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi. Loro hanno saputo raccontare meglio il clima di quegli anni. Comunque ora vado a rivedermi i filmati, non vorrei mi fosse sfuggita la faccia della Meloni».

Toh, al Festival di Venezia marciano contro la Meloni. Luigi Mascheroni l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

La leader Fdi inserita nel docufilm sul fascismo Insorge il partito: "Assurdo, violata la par condicio" 

Il lungo viaggio attraverso il fascismo, riadattando all'intera società un titolo che Ruggero Zangrandi riservava ai soli intellettuali, non finisce mai. Non ne siamo usciti, non ne usciremo. Al fascismo ritorniamo sempre: ora come male assoluto del Novecento, ora come autobiografia della nazione, ora come discrimen tra gli «anti» (i giusti) e i «post» (i maledetti), dal fascismo eterno teorizzato da Umberto Eco già nel 1995 al fascismo come «stato d'animo» individuato da Corrado Augias su Repubblica giorni fa. Il fascismo come orrore e come ossessione. Più vivo che mai.

Era logico pensare che tutto ciò ci ripiombasse addosso, più disturbante che mai, sotto elezioni, con una destra-destra candidata, almeno secondo i sondaggi, a governare il Paese. Tanto più che l'ottobre 2022 è dietro l'angolo, e nel centenario della marcia su Roma l'ombra lunga del Ventennio cala pesantemente sui media e sulla discussione pubblica.

E così l'allarme fascismo esonda in campagna elettorale, e per una coincidenza (s)fortuita - il programma del festival era già deciso prima che fossero indette le elezioni - si spiaggia anche alla Mostra del cinema di Venezia.

Ieri al Lido è passato un documentario importante, Marcia su Roma, dell'irlandese Mark Cousins, scritto assieme al regista Tony Saccucci e allo sceneggiatore Tommaso Renzoni, e che andrà nei nostri cinema proprio il giovedì prima delle elezioni, dopo un passaggio anche al festival di Toronto. Ricostruzione della marcia di Mussolini del 1922 che prende spunto dalla rilettura dello storico lungometraggio A Noi! di Umberto Paradisi (documento ufficiale del Partito fascista sulle giornate che portarono Benito Mussolini al potere), l'opera di Cousins è un j'accuse contro un mondo, quello fascista, «fatto di mascolinità tossica, isteria nazionale e fake news» e contro un ducismo che ha influenzato molti autoritarismi del '900 e anche del nuovo secolo. La prima sequenza è dedicata a Donald Trump, al quale un giornalista chiede perché ha ritwittato una frase di Mussolini (risposta: «Era una bella frase. Ma lo sa che ho 14 milioni di follower?») e il sottofinale si snoda in un montaggio di politici contemporanei che aizzano le folle: Marine Le Pen, Bolsonaro, Orbán, Putin e naturalmente Giorgia Meloni. Segue giustapposizione ardita fra immagini della marcia del '22, dell'assalto a Capitol Hill e dei bombardamenti russi su Mariupol'.

Indentiamoci. Il documentario Marcia su Roma è politicamente a senso unico, che rimane ideologico sotto l'ambiziosa ricerca filologia, ma ben fatto (al netto del controcanto di Alba Rohrwacher, nella finzione una donna fascista sempre più delusa dalla piega presa dal Regime, che finisce cantando per quattro minuti Bella ciao). Lo smascheramento che Mark Cousins fa della imponente macchina propagandistica del fascismo, e di ogni tirannia, a partire dall'uso del cinema, è perfetto: l'terno ambiguo rapporto fra immagini e verità. Così come è intelligente scegliere di fermarsi un passo prima della cancel culture: il regista a un certo punto, in una carrellata sull'Eur e le statue machiste del Regime si chiede se oggi avrebbe senso abbattere l'Obelisco di Mussolini, o togliere i fregi fascisti sui palazzi, e la risposta è no, «anche se forse andrebbero portati nei musei»). Il problema è la tesi di fondo, così tranchant: fra il fascismo di Mussolini e quello delle destre di oggi ci sono solo differenze di facciata, ma una continuità di fatto. Come ha risposto ai giornalisti il regista: «Oggi ci sono molti più governi di destra di quanti io non ne ricordi in tutta la mia vita, e io ho 56 anni. Ungheria, Polonia, India, Brasile, l'America di Trump e adesso anche in Italia il pendolo sta oscillando verso destra. Questa è una condizione molto pericolosa».

E anche scivolosa. Il documentario, che ha aperto le «Giornate degli Autori» della Mostra di Venezia, salutato in sala dallo stesso presidente della Biennale Roberto Cicuto, e presentato dal giornalista Andrea Purgatori, non è passato inosservato. Neanche un'ora dopo la proiezione, il deputato di Fratelli d'Italia Federico Mollicone aveva già espresso il suo disappunto: «Riteniamo assurdo l'inserimento di immagini di Giorgia Meloni nel docufilm Marcia su Roma. Rispettiamo l'autonomia e l'indipendenza del festival, ma crediamo che tali immagini alterino la par condicio della campagna elettorale». E annuncia un'interrogazione al ministro Franceschini. Dando vita così al curioso cortocircuito per cui un docufilm sulla manipolazione del consenso finisce con il trasformarsi in uno strumento improprio di propaganda elettorale.

Il doppiopesismo su Venezia e sulla fiction su Dalla Chiesa. Luigi Mascheroni il 2 Settembre 2022 su Il Giornale.

La candidata sul film anti-Meloni al Festival: "Lo trovo poco equo"

Venezia. Il fascismo è un orrore. Ma anche un'ossessione. La riprova è quanto sta accadendo alla mostra del cinema di Venezia, dove il giorno dell'inaugurazione, in una sezione collaterale del festival, è passato, inizialmente sottotraccia, poi facendo esplodere un caso politico, il documentario «Marcia su Roma» del regista irlandese Mark Cousins. Il quale portando sullo schermo gli inganni del fascismo di ieri non ha perso l'occasione di aggiungerci in coda quelli a suo giudizio - di oggi, trascinando nel documentario fotogrammi dei leader delle destre europee e americane, fra i quali Giorgia Meloni. Operazione già pretestuosa in tempi normali (peraltro il documentario fino a quando parla del Ventennio è dal punto di vista storico e artistico interessante), ma propagandistica in tempi di campagna elettorale. E infatti Fratelli d'Italia ha criticato duramente la scelta di presentare a Venezia Marcia su Roma, che poi uscirà nelle sale italiane il giovedì prima delle elezioni. È vero: il documentario era già chiuso prima che si sapesse che avremmo votato a settembre; ma poi però nessuno alla Biennale si è posto il problema se fosse opportuno ospitarlo in periodo di par condicio.

Ha sintetizzato tutto Rita dalla Chiesa, ieri: «Io mi ero rassegnata al blocco della fiction su mio padre perché c'è una legge, ma poi vedere che a Venezia permettono la presentazione di un documentario come Marcia su Roma lo trovo poco equo». Un paradosso e insieme il solito gioco dei due pesi e delle due misure. E se in astratto ha ragione il direttore del festival Alberto Barbera quando dice che «la Mostra del Cinema è uno spazio di libertà d'espressione, ospitiamo tutti, e la responsabilità di quello che viene detto è dell'autore che ha realizzato l'opera», in pratica si è dato via libera a un docufilm che, dichiaratamente politico, diventa un manifesto elettorale. Quando non si potrebbe. Ma come insegna la categoria degli artisti-intellettuali in Italia c'è sempre qualcuno pronto a sfruttare il momento (meno) opportuno. In fondo c'è andata bene. Avessimo votato in primavera, ci saremmo trovati il comizio dei Ferragnez sul palco di Sanremo.

La Mostra in campagna elettorale. La Mostra del cinema di Venezia entra in campagna elettorale. Ieri è stato proiettato il docu-film La Marcia su Roma che ribadisce l'abusato e indimostrato parallelismo tra ascesa del Fascismo e ascesa di Giorgia Meloni. Alessandro Gnocchi l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

La Mostra del cinema di Venezia entra in campagna elettorale. Ieri è stato proiettato il docu-film La Marcia su Roma che ribadisce l'abusato e indimostrato parallelismo tra ascesa del Fascismo e ascesa di Giorgia Meloni, tra Marcia su Roma e Marcia su Capitol Hill dei fedelissimi di Donald Trump. La pellicola è stata scelta prima che cadesse il governo di Mario Draghi e fosse fissata la data delle elezioni. Coincidenza sfortunata ma era prevedibile che un simile film avrebbe suscitato polemiche. Ieri, poi, il regista Mark Cousins ne ha approfittato per rilasciare una serie di dichiarazioni che hanno reso il danno irreparabile. Solita roba: destra pericolosa, Meloni pericolosa, pericoloso preferire la Croce all'Arcobaleno LGBTQ e altre lezioni di vita fuori luogo. Possiamo interpretare la vicenda come ennesima testimonianza del conformismo di una parte del mondo della cultura, quella schierata con il Bene, la sinistra del politicamente corretto. Per questo non stupisce che il docu-film, nel centenario della Marcia su Roma, vada a parare proprio là dove sarebbe stato meglio evitare, facendo irruzione in una campagna elettorale nella quale la sinistra è già cascata nel suo vizio principale: delegittimare l'avversario con l'esplicita accusa di fascismo e la sottintesa accusa di inferiorità «antropologica». Da settimane, intellettuali e artisti fanno a gara a chi grida più forte al ritorno delle camicie nere, incappando anche in errori da terza media. Ad esempio, Bernard-Henry Lévy aveva una tale fretta di tirare fuori il fascismo che, in un articolo su Repubblica, ha addirittura anticipato la data della Marcia su Roma al «22 ottobre». Sì certo, come no. Nessuno ha corretto lo strafalcione. L'articolo è andato dritto in prima pagina, suscitando, più che la preoccupazione per le sorti del mondo, le grasse risate dei lettori sui social network. Prima del filosofo francese, esperto un po' di tutto ma non di Storia, avevamo già sfogliato il campionario delle abituali sparate. Riassumiamo per sommi capi. Il fascismo eterno è uno stato d'animo, come la malinconia. La Meloni non è una vera donna, perché lo dicono... le femministe. Gli elettori del centrodestra sono ignoranti (invece i filosofi di riferimento della sinistra sono un pozzo di scienza, come abbiamo visto). Chiara Ferragni, famosa per essere famosa, si è indignata perché, a suo dire, nelle Marche, guidate da Fratelli d'Italia, è quasi impossibile abortire, quindi se la Meloni vincerà in tutto il Paese sarà difficile esercitare questo diritto. Già, ma la legge non è neppure in discussione, ha assicurato la Meloni. Le cantanti hanno innalzato un coro contro la leader di Fratelli d'Italia. Giorgia, Elodie, Loredana Bertè, Levante. Abbiamo assistito anche a un dibattito sul problema della «devianza» dal quale abbiamo capito che gli intellettuali, tra i quali mettiamo anche Enrico Letta, non consultano il Vocabolario, forse perché sanno già tutto. Insomma, il solito film di serie B.

Il premio Ivan Bonfanti 2022 all’Espresso: vince il reportage di Marta Bellingreri sui bambini della Siria. Il riconoscimento per il lavoro sui bimbi costretti a vivere nelle scuole nel Paese in guerra da oltre dieci anni. Redazione su L'Espresso il 2 Settembre 2022. 

Con il suo reportage dal nord-est della Siria pubblicato dall'Espresso, "A scuola ma per dormirci. Il destino dei piccoli sfollati dove l'Isis rialza la testa", Marta Bellingreri si è aggiudicata il premio giornalistico "Ivan Bonfanti" 2022. A dieci anni dall'inizio del conflitto in Siria, la crisi umanitaria colpisce specialmente i bambini che, come si legge nel reportage dell'autrice, sono sfollati insieme alle famiglie in degli edifici scolastici dove anziché ricevere un'istruzione, ci vivono.

Il premio, intitolato alla memoria del reporter e inviato del quotidiano Liberazione scomparso prematuramente nel 2008 all’età di 37 anni, è curato dall'associazione "Ivan Bonfanti" insieme all'associazione Stampa Romana. L'articolo sull'Espresso apparso lo scorso febbraio, e corredato dalle foto di Alessio Mamo, si è aggiudicato il premio che vede come vincitori anche lo studente della Lumsa Gabriele Crispo per la categoria degli allievi delle scuole di giornalismo e Roberta Ragni per la sezione del premio messo a disposizione dall’Ente nazionale protezione animali (Enpa).

Il reportage di Marta Bellingreri, che ha viaggiato in Siria fin dal 2006 e poi negli anni successivi per seguire gli sviluppi della rivoluzione del 2011, precipitata presto in un conflitto, vuole accendere una luce sulla situazione di milioni di bambini che stanno pagando il prezzo più alto della violenza. Tra i sette milioni di sfollati interni nel paese, tre milioni sono infatti minori. L'emergenza umanitaria si è aggravata ulteriormente a partire dal 2020, a causa della crisi economica, della violenza mai cessata, dei servizi pubblici quasi inesistenti, della siccità e della pandemia di Covid-19 che ha solo esacerbato la povertà infantile in Siria.

Scrive Marta Bellingreri nel suo reportage: «Fra le continue minacce e la distruzione, è difficile immaginare un’infanzia tra i banchi di scuola. Sono infatti quasi due milioni i bambini siriani che non partecipano a nessuna forma di educazione primaria e un milione è a rischio di abbandono. Gli edifici sono stati bombardati, occupati, danneggiati o sono diventati un rifugio per alcune famiglie sfollate. L'amara ironia è che alcuni di questi bambini sfollati, come Riham, vivono temporaneamente con le loro famiglie in centri che sono vecchie scuole, ma non ne hanno mai frequentato una da quando sono nati».

La premiazione avverrà il 22 ottobre a Roma presso la libreria ELI di viale Somalia 50, sabato 22 ottobre alle ore 11, aperta al pubblico previa prenotazione per riservare un posto.

Mal di scrivere. I premi letterari italiani non sono troppi, è che oggi non fanno più alcuna differenza. Benedetta Barone su L'Inkiesta il 20 Agosto 2022

In Italia i concorsi e i festival atti a premiare un‘opera narrativa sono in tutto un centinaio. Ma questi libri non vengono letti da nessuno, e a dominare le classifiche sono i soliti bestseller dozzinali

Secondo Nilanjana Roy i premi letterari sono troppi. La scrittrice indiana, autrice di testi di narrativa e saggistica, oltre che prolifica collaboratrice di testate come il New York Times e il Guardian, lo ha dichiarato in un articolo uscito sul Financial Times pochi giorni fa. In effetti all‘orizzonte autunnale si stagliano consecutivamente il Booker Prize in Gran Bretagna, l‘Hugo Award per la fantascienza, il Goncourt francese, il Deutscher Buchpreis, e questo solo per quanto riguarda il panorama europeo. In America, cercando su Internet, si scopre ben presto che i premi letterari sono stati raggruppati per ordine alfabetico e sono circa cinquantasette.

Ma la vera sorpresa è rappresentata dall‘Italia: secondo un articolo de Il libraio del 2019, i premi nostrani sono centinaia – se considerati anche i piccoli e i piccolissimi.

Dunque la domanda di Nilanjana Roy è legittima: ne servono davvero così tanti? E soprattutto, come si stabilisce il rapporto diretto tra il concorrente o il vincitore di un concorso letterario e l‘effettiva valenza dell‘opera?

In realtà, l‘interrogativo sibillino non riguarda tanto gli scrittori, quanto il pubblico a cui l‘opera si rivolge. Infatti, nonostante una lieve crescita degli ultimi due anni dovuta alla pandemia – che comunque riguardava i lettori già forti – la percentuale degli italiani che leggono è preoccupante: secondo l‘Istat, quasi una famiglia su dieci non ha alcun libro in casa  – e il dato è costante da vent‘anni a oggi. Il 28,2% delle famiglie non possiede più di 25 volumi e il 63,2% ha al massimo un centinaio di titoli.

Questo fornisce un primo quadro della situazione: i concorsi letterari abbondano, ma non guardano pressoché a nessuno visto che la popolazione non acquista libri e non li legge. Quale sarebbe, allora, la loro utilità?

L‘obiettivo di un premio dovrebbe puntare a garantire maggiore visibilità e maggior guadagno a chi ha scommesso e investito sul testo – la casa editrice –, assicurare successo all‘autore, e soprattutto alzare le vendite del prodotto: farlo conoscere, circolare, dunque, per l‘appunto, leggere.

Invece si rischia di confermare un pregiudizio latente e ormai diffuso nella popolazione, ovvero che queste rassegne altro non siano che circoli culturali privati, che strizzano l‘occhio a platee già formate, e le opere di valore non vengono svelate, alla stregua di un segreto massonico. L‘idea che il mondo culturale, e la letteratura soprattutto, si fondi e si perpetri in modo non dissimile a una loggia permea da sempre la percezione comune. I libri cosiddetti commerciali vengono solitamente e tacitamente considerati di bassa qualità dalla critica. I vertici intellettuali ripongono talmente poca fiducia nei confronti del corpo sociale che se qualcosa ha troppo successo è meritevole di dubbi. Troppa popolarità scredita.

I casi letterari odierni, Emmanuel Carrère, Annie Ernaux e Michel Houellebecq in Francia, il norvegese Karl Ove Knausgård, l‘irlandese Sally Rooney, senza contare Franzen, Ellis e Safran Foer negli Stati Uniti – giusto per citarne alcuni – non compaiono affatto nelle classifiche dei bestseller nazionali. Al primo posto troviamo il sempiterno thriller – quest‘anno con “Il caso Alaska Sanders” di Joël Dicker – e i gialli di Carofiglio, Camilleri e Maurizio De Giovanni. I recenti vincitori del Premio Strega – Lagioia, Scurati, Veronesi, Emanuele Trevi, Helena Janeczek – non sfiorano quasi mai l‘agognata decina domenicale de “La lettura” del Corriere, nonostante siano esposti trionfalmente nelle vetrine delle librerie per tutto il corso dell‘anno che segue.

”L‘Amica geniale“ di Elena Ferrante è una felice eccezione che ha venduto 10 milioni di copie in tutto il mondo. Pure, nel 2018, veniva superato dall‘autobiografia del calciatore Francesco Totti, numero uno tra i libri più letti in Italia.

Alessandro Baricco, l‘intellettuale più noto tra quelli oggi viventi, deve gran parte della popolarità ai suoi tentativi di decostruire i verticisimi della cultura, che lui considera forieri di una mentalità “novecentesca”, trapassata e miope. Già nel 1994 era in prima serata con Pickwick, un programma televisivo su Rai3, in cui leggeva e raccontava i grandi classici della narrativa mondiale allo scopo di sollecitarne l‘interesse e quindi anche l‘acquisto.

La questione attraversa il dibattito pubblico da decenni ed è stata ampiamente sviscerata e strumentalizzata da ogni latitudine politica. Oggi è quasi lezioso chiedersi se è l‘ambiente intellettuale a non capire il paese, o se è il paese a ostinarsi cocciutamente dietro un edonismo sbracato e ignorante.

È ripetitivo anche domandarsi se è giusto spogliare la letteratura della propria componente faticosa e stentorea e passarla come un gioco affabulatorio in cui alcuni sono semplicemente più abili di altri.

Il dubbio sorge spontaneo: quale dei due settori sbaglia? L‘editoria che propone e pubblicizza quasi esclusivamente romanzi rosa, polizieschi o le riflessioni dell‘opinion leader di moda al momento, ritenendo, forse erroneamente e confusamente, che sia questo ciò che i lettori desiderano? Oppure sono queste nicchie legate ai festival a non riuscire a rendere onore ai testi che scoprono?

Se i premi e i concorsi funzionassero a dovere, rappresentassero una rassegna credibile delle novità, degli esordienti, dei giovani e dei giovanissimi e poi fossero diffusi coi giusti mezzi, scopriremmo forse a sorpresa che di buona letteratura abbiamo tutti bisogno.

Basti pensare al fenomeno dei Book-Toker, influencer che durante la pandemia hanno lanciato un hashtag dedicato alla lettura, superando 63 miliardi di visualizzazioni. Oggi alzano le vendite dei nuovi titoli, ma anche dei vecchi classici dimenticati al punto che gli uffici stampa sono stati indotti a contattarli per stabilire partnership e collaborazioni.

Sul profilo da 200mila followers @labibliotecadidaphne si organizzano appuntamenti virtuali soltanto per leggere: ottocento ragazzi tra i 20 e i 30 anni, ma talvolta anche più piccoli, tre volte alla settimana aprono il proprio libro davanti allo schermo del cellulare e condividono un‘attività eminentemente solitaria.

Se “La canzone di Achille”, edita da Marsilio oggi sfiora le 500 mila copie vendute grazie a TikTok, le centinaia di occasioni e appuntamenti che affollano l‘agenda culturale da qui all‘estate prossima possono diventare molto di più di qualche migliaia di euro in denaro e gli applausi di pochi accoliti.

“L’Italia è socialista: il pubblico schiaccia il privato”.  Angelo Crespi e Vittorio Sgarbi su culturaidentita.it il 6 Agosto 2022

Angelo Crespi e Vittorio Sgarbi. Due critici d’arte si incontrano e parlano di Bellezza.

Angelo Crespi

Sto lavorando, come direttore scientifico di Valore Italia, a un grande progetto che riguarda i beni culturali. Valore Italia è un nuovo Centro Internazionale di Ricerca per il restauro e la valorizzazione del patrimonio culturale che ha come mission quella di formare giovani restauratori e specialisti nella conservazione, che però siano in grado di valorizzare questo immenso giacimento. Il patrimonio culturale rappresenta la storia e i valori di un popolo, la ricchezza e la diversità delle sue tradizioni culturali; non è solo espressione e memoria del passato, ma ponte e strumento di fondamentale importanza per progettare il futuro e rafforzare il senso di appartenenza ad una comunità territoriale. È patrimonio condiviso che necessita di essere compreso, coltivato, fruito e, prima di tutto, salvaguardato e conservato. Ed è per questo che stiamo per far nascere a Milano un polo di eccellenza. Non a caso abbiamo scelto come sede un luogo strategico come MIND (Milano Innovation District) che è già oggi il fulcro su cui si baserà lo sviluppo di Milano e in prospettiva di tutto il Paese.

Vittorio Sgarbi

Nella mia vita ho condotto battaglie importanti e molte le ho vinte, per la gloria di questo Paese, della sua civiltà, in difesa del nostro patrimonio culturale. E sono convinto che la battaglia della cultura debba essere giocata anche nel campo della politica. Per questo motivo il mio impegno di intellettuale è coinciso con il mio impegno di politico, aderendo ai partiti che meglio rappresentavano il mio sentimento, al tempo stesso da un lato libertario e dall’altro conservatore, oppure fondando e animando movimenti in cui si potessero riconoscere i cittadini che hanno a cuore le sorti del Paese. “Rinascimento Io apro”, con cui mi sono presentato a queste elezioni in molti comuni, ha infatti come obiettivo innanzitutto la tutela della libertà individuale, messa in pericolo durante l’emergenza Covid delle norme sanitarie e dagli obblighi che ne sono conseguiti. E secondariamente la  protezione della bellezza del patrimonio artistico italiano, che è il tesoro su cui si fonda la nostra ricchezza e il futuro sviluppo del Paese.

Angelo Crespi

Condivido da sempre il pensiero di Sgarbi, che in questi decenni ha coniugato ragione e passione dovendo difendere la bellezza del nostro Paese contro gli orrori della contemporaneità. Credo che il richiamo al Rinascimento sia imprescindibile non solo perché il termine evoca un tempo in cui l’arte produsse infiniti capolavori, ma perché esso indica in modo da tutti comprensibile cosa vogliamo per il nostro futuro. Noi stessi di Valore Italia abbiamo costituito un Fondo Rinascimento con l’obiettivo di coinvolgere le istituzioni o le aziende private che vogliono investire sulla conservazione e sulla valorizzazione del patrimonio culturale, contribuendo soprattutto alla ricerca che in questo campo è fondamentale per dotarci di strumenti migliori al fine di porre in essere quella che viene definita “conservazione programmata”, cioè un modo di proteggere il patrimonio, intervenendo prima che si deteriori o che ci siano danni irreparabili.

Vittorio Sgarbi

Quello che dice Crespi è giusto, ma il suo discorso deve essere calato nella prassi. Il mio impegno politico è determinato dalla consapevolezza che non basta teorizzare la conservazione del patrimonio, che è spesso messa in pericolo dalla inanità degli amministratori pubblici e dalle mire degli speculatori, bensì è necessario con forza difenderlo. Sono stato sindaco di molti piccoli paesi e ancora oggi sono il primo cittadino di Sutri, sono stato assessore alla Cultura in grandi città come Milano o in realtà più piccole ma altrettanto significative come Urbino, perché solo ricoprendo certi ruoli di responsabilità si può avere il potere reale di mettere in atto quelle buone pratiche, necessarie a limitare i disastri della contemporaneità.

Angelo Crespi

Non posso che essere d’accordo. Aggiungo che il potere pubblico è fondamentale, ma non basta. Dobbiamo coinvolgere i privati affinché il patrimonio sia realmente presagito come un bene comune. Dal punto di vista ideologico, l’Italia è un Paese socialista nel quale il pubblico sopravanza il privato e il privato quasi sempre è considerato un suddito. E’ necessario invertire questa dinamica perversa che giustifica da un lato la prepotenza dello Stato perfino quando sono lampanti i suoi errori, mentre dall’altro ingenera il disinteresse del privato verso la cosa pubblica. Il patrimonio, lo dice già la parola, è ciò che abbiamo ereditato dai nostri padri, dunque è nostro per definizione, è di noi cittadini, non dello Stato che invece si arroga il diritto supremo di decidere cosa è buono e cosa è giusto. Uno Stato che allo stesso tempo è ciecamente conservatore nel modo più retrivo, pur essendo di facciata progressista, e paradossalmente è indifferente alle più turpi speculazioni, accetta le malagestioni, non interviene di fronte ai disastri economici.

Vittorio Sgarbi

Dobbiamo rimettere al centro la Bellezza. La Bellezza, come ho dimostrato a Sutri, può diventare ricchezza, perché l’arte genera benessere, welfare e, infine, ricavi provenienti dalla sua produzione e dalla sua fruizione.

Angelo Crespi

La Bellezza è un tema che mi è caro. Il patrimonio culturale materiale rappresenta la storia e i valori di un popolo, la ricchezza e la diversità delle sue tradizioni; non è solo espressione e memoria del passato, ma ponte e strumento di fondamentale importanza per progettare il futuro e rafforzare il senso di appartenenza a una comunità territoriale. Il patrimonio culturale prima ancora di essere un asset economico è fonte inesauribile di identità e senso, per un Paese come l’Italia che ritrova le proprie radici proprio nel lascito millenario di bellezza e arte, tramandato di generazione in generazione senza soluzione di continuità. Esso è patrimonio condiviso e comunitario che necessita però di essere compreso, coltivato, fruito e, prima di tutto, salvaguardato e conservato.

SMS di SGARBI

Un appello a chi vuole che Viterbo torni ad avere il posto che merita nella storia, superando il ruolo di eterna spettatrice. La Bellezza, com’è accaduto a Sutri, può diventare ricchezza.Cos’altro deve aspettare Viterbo? Dalla Macchina di Santa Rosa, patrimonio dell’Unesco, al teatro Verdi, dal Palazzo dei Papi alle terme, trascurate, con il maestoso centro storico, ridotto a contenitore della movida; con una attestata e interrotta vitalità culturale, attraverso i festival e l’attività di associazioni e di persone illuminate; con la ricchezza del medioevo, della spiritualità; con il paesaggio della Tuscia, non è ben chiaro per quale motivo Viterbo debba rimanere esclusa dal mondo, dimenticata, ignorata. Cultura è conoscenza, non improvvisazione, è visione e programmazione. Solo grazie al suo patrimonio, se adeguatamente comunicato al mondo, Viterbo potrebbe esistere. L’esposizione senza criterio delle opere di Sebastiano del Piombo, per esempio, rappresenta l’ennesima occasione sprecata per la città. E non si dovrà’ sbagliare con il palazzo della Banca d’Italia, attualmente in vendita e grande argomento di discussione: non basta acquisirlo, bisogna animarlo, immaginarne la funzione. Settemila metri quadrati che possono diventare un grande museo con esposizioni permanenti (penso alle Macchine di Santa Rosa,in deposito, esempi di intelligenza e fantasia) e temporanee, con opere di maestri della storia dell’arte, che portino in città la stampa e migliaia di visitatori, facciano parlare di Viterbo, generino lavoro per i viterbesi e contribuiscano a restituirle quello che è: una capitale dell’arte. E’ stato possibile a Sutri con il museo di Palazzo Doebbing che , in quattro stagioni espositive ,ha accolto oltre cinquantamila perso, ospitando opere di Tiziano, Bacon, Giotto, Rousseau, Ligabue, Guttuso, tra gli altri, costantemente al centro della attenzione della stampa nazionale e internazionale , di televisioni e media. Immagino, ancora, il Trasporto della Macchina di Santa Rosa onorato devotamente in diretta sui canali Rai, come accade per il Palio di Siena. Molto altro si potrebbe dire a proposito della storia e della vita culturale della città dei Papi. Moltissimo si può e si deve fare.

Fulvio Abbate per “il Garantista” il 19 giugno 2014.  

 Il Premio Strega è diventato l’obitorio di ogni fantasia. Bene che si sappia. Ma ora parliamo di me. Ho scelto di fare lo scrittore, non ho scelto di fare il rappresentante, metti, di Smart. Ci sarò una ragione se credo che l’essere artisti significhi innanzitutto lavorare per un umano bradisismo che faccia precipitare ogni luogo comune, ogni ipocrisia, ogni conformismo, che faccia smettere di essere orgogliosi dell’abito della prima comunione o di quello da sposa. Ti suona retorico? Peccato per te. 

Mi dirai: ma esistono anche scrittori imbrillantinati e orgogliosi di cenare con le contesse, tipo Alberto Arbasino. Bravissimi, ma teneteveli. Personalmente ho scelto un’altra scuola, anzi, ho frequentato un altro genere di avviamento che assomiglia a una scuola di cavalleria, nel senso della carica, dell’assalto. Il Premio Strega, dunque. Qualche mese fa ho deciso, assolutamente controvento, di autocandidare il mio ultimo romanzo, “Intanto anche dicembre è passato” (Baldini & Castoldi) alla gara che ha il suo atto finale nel cosmodromo del Ninfeo di Valle Giulia, a Roma. 

Ho fatto tutto da solo, neppure il mio caro editore si è preso la briga di sostenermi, poco male mi sono detto. E’ il prezzo d’essere pezzi unici, monotipi. Mentre preparavo i banner della battaglia ho provato lo stesso brivido di quando da bambino montavo la pista Policar, mi sentivo alla Targa Florio a bordo di una Porsche azzurra frecciata d’arancione. Sul banner c’è scritto: “Contro la P2 culturale di sinistra sostieni il romanzo di Fulvio Abbate al Premio Strega”. Per farla breve, non sono arrivato alla selezione per la cinquina finale. 

Perché? Semplice, può un’istituzione che puntualmente da anni fa vincere Walter Veltroni, o chi per lui per interposti autori e copertine, accollarsi un “ingestibile” (cit.) come il marchese Fulvio Abbate? Ho meditato a lungo se scrivere cacacazzi o piuttosto idiota, perché è proprio il titolo di idiota che spetta, da parte delle anime belle perfino di sinistra, a chi, come il meraviglioso e struggente King-Kong, sceglie il pennone più alto della metropoli per urlare la propria rabbia, ma che dico?, l’amor proprio, il doveroso narcisismo aristocratico che tutti gli artisti dovrebbero custodire come fosse la sciabola di Carlo Pisacane. Ma sono di nuovo precipitato nella retorica, cazzo!

Vi sto annoiando, lo so. Il punto è che ho scelto di fare l’artista, ritenendo che esserlo significhi dotarsi di un piede di porco per forzare gli infissi della realtà, dell’esistente, e non resisterei neppure un istante accanto ai colleghi i cui romanzi sono ricalcati sulle vite di chi trascorre tutte le sere a rivedere la registrazione di Italia-Germania 4-3. La partita, non il film. Il film è previsto per l’indomani pomeriggio, giusto per non fare torto a chi anni fa gli vendette le videocassette.

Va detto però che ho il dovere di ringraziare gli scrittori che mi hanno lasciato solo a preparare la barricata. Grazie infinite colleghi, se sono ciò che soni lo devo anche a voi. Dove eravamo rimasti? Ah, sì, esiste una questione morale anche rispetto alle cose della cultura, una questione morale che vede la sinistra sul banco degli imputati (dalla destra te lo aspetti, per loro è davvero il minimo sindacale) per i reati soliti: clientelismo, sia pure dal volto umano, c’è scritto in cima al faldone degli atti che la riguardano.

E poi va aggiunto che sempre la sinistra ha veramente rotto con la propria supponenza morale, assodato che essere artisti in Italia è pressoché impossibile, visto che il massimo estro consentito inquadra Renato Zero con la paloma blanca che gli caca sulla bombetta. Provo a dirlo meglio? E’ proprio il silenzio (quasi) tombale degli scrittori dinanzi alla mia battaglia contro la miseria culturale del paese, Premio Strega in testa, che mi dà la forza di resistere. Ari-grazie, colleghi.

Non mi interessa intrattenervi sullo specifico della miseria dei premi letterari, sappiate invece che perfino in solitudine, con due legnetti al posto di un intero arsenale, si possono comunque fare molte cose, si può creare un mondo, si può essere felici con il mestiere di scrittore che si è scelto.

Dai, sarebbe davvero tempo sprecato raccontare lo specifico di un contesto che si distingue per ipocrisia, vuoto di eros, assenza di fantasia; i discorsi sulle case editrici, come sono e come invece dovrebbero essere, lasciamolo ai burocrati del conflitto, in certi casi basta avere imparato, come diceva Pasionaria, ad alzarsi in piedi. Personalmente abbiamo cercato di farlo, abbiamo ripreso la sciabola degli ussari e siamo andati all’assalto. Perché ci piace così, perché essere scrittori è bene assomigli a un mestiere da eroi.

Un editore prezioso mi iniziò agli anarchici: gente che lottava per la bontà. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 22 Luglio 2022.

Ho scelto due foto. Quella che ritrae Camillo Berneri, grande filosofo anarchico morto nella guerra civile spagnola, ucciso dai comunisti... E quella di Giuseppe Galzerano, uno degli editori più importanti d’Italia, con me nell’immagine più piccola. 

Il filosofo anarchico Camillo Berneri in un’immagine felice con la moglie Giovanna Caleffi, anarchica come lui. Originario di Lodi, fu ucciso nel 1937 a Barcellona, non ancora 40enne, dai comunisti nella Guerra civile spagnola

Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola il 15 luglio. E’ dedicata alla fotografia. Meglio, ad una foto «da condividere con voi — spiega l’autore — che possa raccontare una storia attraverso uno scatto». Perché «la fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla. Devi diventare tu stesso prova»

Questa settimana ho scelto due foto. Quella che vedete qui sopra ritrae Camillo Berneri, un grande filosofo anarchico che ho conosciuto da ragazzino, morto durante la guerra civile spagnola, ucciso dai comunisti. Lui e la sua famiglia, come molti anarchici che negli anni mi è capitato di studiare, combattevano in nome della bontà, una parola che a molti - a troppi! - oggi fa venire l’orticaria. Berneri l’ho conosciuto da ragazzino grazie alla persona ritratta nell’immagine piccola, fotografata accanto a me. Una persona a cui sarò eternamente grato. Vi presento dunque Giuseppe Galzerano, uno degli editori più importanti del nostro Paese. Se non lo conoscete vi invito a spulciare il sito (qui il link) e le pagine social della casa editrice, a studiarne il catalogo, perché Galzerano, con il suo lavoro, un lavoro che è iniziato più di 40 anni fa, racconta la nostra storia attraverso la lente spesso ignorata degli intellettuali anarchici e delle vicende meridionali.

DA RAGAZZO VOLEVO LEGGERE LE STORIE DIMENTICATE DEI RIBELLI CHE AVEVANO PROVATO A SOVVERTIRE IL MONDO

Il suo è stato ed è un lavoro titanico, se si pensa a quanto sia difficile fare editoria al Sud, a quanto sia difficile trovare le risorse per organizzare, in molte regioni del sud Italia, appuntamenti letterari in grado di durare nel tempo. C’è chi ci riesce, ma il lavoro è estenuante e spesso osteggiato perché la cultura, per certi amministratori pubblici, o è di parte o non è. Le regioni del Sud sono quelle in cui c’è un tasso di dispersione scolastica drammatico in tutte le fasce d’età; quelle in cui il divario nell’apprendimento tra le classi sociali fa spavento e dovrebbe far vergognare il ministero dell’Istruzione prima ancora che gli amministratori locali. Le regioni del Sud Italia sono quelle in cui la spesa per studente, per attività extracurricolari, è irrisoria rispetto alle sorelle del Centro e del Nord. 

Il Sud Italia è quella porzione del nostro Paese in cui, a parità di dati sui contagi, governatori di Regione e sindaci hanno tenuto le scuole chiuse in pandemia aggravando una situazione già drammatica, creando un gap con il resto del Paese che, dobbiamo ammettere, sarà impossibile recuperare. Quando, a fine giugno, Giuseppe Galzerano è spuntato ad Acciaroli all’improvviso, dove ero andato per un incontro pubblico, mi è accaduto esattamente quello che accade ad Anton Ego in Ratatouille quando mangia lo stufato di verdure cucinato dal topastro cuoco Remy: sono tornato ragazzino. Cercavo libri ovunque, divoravo testi, saggi romanzi poesie. Più erano fuori catalogo, più mi accanivo nella ricerca. Poi, 16enne, il pensiero anarchico inizia ad appassionarmi e così mi imbatto nella casa editrice Galzerano. Volevo leggere le storie dei ribelli, le vicende dimenticate e nascoste di chi ha provato a sovvertire il mondo del quale cominciavo a dannarmi di far parte.

DAL ’75 GALZERANO PUBBLICA LIBRI UNICI SU QUELLE TEORIE. E LO FA NEL SUD PROFONDO. QUAND’ERO RAGAZZINO OFFRIVA SCONTI E CONSIGLI

Gli anarchici esprimevano il pensiero da cui era necessario partire perché fosse l’empatia a dettare la mia ricerca e non l’approfondimento fine a sé stesso. Preoccuparsi per gli altri, mettere il proprio ego in secondo piano, considerarsi uno strumento per il raggiungimento di una presa di consapevolezza. Peraltro il primo passo è disambiguare tutte le speculazioni sul pensiero anarchico, tutte le strumentalizzazioni, per mostrare come ci sia una scarsa conoscenza e quindi una prateria sconfinata per ogni strumentalizzazione. Giuseppe Galzerano dal 1975 pubblica libri preziosi sulle teorie anarchiche, monografie degli anarchici che uccisero (o tentarono di uccidere) re e ministri. Storie ormai dimenticate che il suo studio e la sua cura salva. Tutto questo lo faceva e lo fa da Casalvelino Scalo: dal Sud profondo.

Per un ragazzino squattrinato, quale ero, i suoi i meravigliosi libroni costavano troppo e così gli scrissi per alcuni titoli che non riuscivo a trovare. Lui vedendomi così giovane e in fiamme per l’ideale mi rispondeva indicandomi i libri da leggere e mi faceva sempre grandi sconti. In alcuni casi, mi faceva omaggio dei suoi libri indispensabili che non sarei riuscito a comprare. Non l’ho mai dimenticato. Ero solo un ragazzino e lui spendeva tempo per me, per formarmi. Una delle mie prime recensioni (sul settimanale Diario) fu proprio dedicata a un libro dell’immenso Camillo Berneri, pubblicato da lui. Galzerano è un editore libertario e libero, un’anima meravigliosa: sa che ogni singolo sguardo sulle storie di lotta e resistenza è una possibilità di immaginare altri mondi. Sono felice e onorato di presentarlo a chi non ha avuto la fortuna di incrociare i suoi libri.

Veltroni nuovo direttore del Corriere della Sera? Possibile. Ma noi vi sveliamo gli altri papabili. Alessio Mannino l'11 luglio 2022 su mowmag.com.

Gira (di nuovo) la voce che a dirigere il Corriere della Sera sarà Walter Veltroni, considerato già oggi il direttore-ombra del quotidiano. Ci sono però altre tre firme date in pole position per sostituire Luciano Fontana. Qui vi riveliamo i nomi: Aldo Cazzullo, Barbara Stefanelli, Carlo Verdelli. All’editore Urbano Cairo, naturalmente, l’ardua sentenza

Il prossimo direttore responsabile del Corriere della Sera potrebbe essere Walter Veltroni, che ne è già editorialista e, si dice, guida-ombra alle spalle del titolare ufficiale, Luciano Fontana. A rilanciare la voce, uscita una prima volta a fine 2020, è stato lo scrittore Fulvio Abbate con un post su Facebook di ieri, domenica 10 luglio. Fonti “attendibili” assicurerebbero che questa volta la sostituzione si farà. A prendere la decisione, ça va sans dire, l’editore del quotidiano, Urbano Cairo. Abbate definisce “convincente” la soffiata, presumibilmente uscita dalle stanze del Corrierone. Del resto, stiamo parlando di Veltroni, “l’eminenza grigia di quella che io chiamo la P2 culturale di sinistra”, puntualizza l’anima di Teledurruti e fondatore del movimento culturale Avanguardia Narcisista. Che sull’ex segretario del Partito Democratico non le manda a dire: “È il maestro della banalizzazione, basta leggere gli articoli di devastante spessore che firma sul Corriere per rendersi conto di come a lui si debba un impoverimento assoluto di pensiero, a partire dalla sua idea di ‘vocazione maggioritaria’, che dal mio punto di vista di intellettuale è esattamente il contrario di quel che dovrebbe fare un intellettuale, che deve coltivare semmai la vocazione minoritaria”. Il Walter nazionale sarebbe perfetto per il timone del giornale d’establishment par excellence: “Tutti i luoghi dell’organizzazione della cultura e dello spettacolo in questo nostro Paese stanno sotto la V di Veltroni”. La più recente prova, per Abbate, è l’ultimo premio Strega: “Faccio parte degli Amici della Domenica (la giuria di personalità eccellenti, ndr). Ebbene, non tutti sono stati invitati. In prima fila c’era tutto il mondo che orbita attorno a Veltroni, in una logica di presidio del territorio. È l’egemonia non in senso gramsciano, ma jovanottiano, che è nemica del pensiero, della dialettica e anche dell’eros. Sono quelli che considerano ogni obiezione una forma di invidia e rosicamento, mentre, per quanto mi riguarda, io sono contento di quel che sono, ho raggiunto il punto in cui, come diceva Nietzsche, si diventa ciò che si è. Ma come diceva Montanelli, sono i servi che fanno il padrone”.

Fulvio Abbate

In realtà, per un possibile cambio della guardia al vertice del Corsera i nomi papabili sono più d’uno, e qualcuno anche in posizione più avanzata di Veltroni. In primis Aldo Cazzullo, che oltre a rispondere ai lettori nella rubrica giornaliera che fino al 2017 era tenuta da Sergio Romano (e prima di questi da Indro Montanelli), è stato da poco nominato da Cairo a capo di una task-force interna dedicata a speciali filoni. Uno è stato inaugurato giusto ieri, con un bel reportage sulla vita notturna milanese. Il ruolo nuovo di zecca è interpretato come un segnale di ascesa, per una firma molto apprezzata nel circuito mediatico-culturale per la vena divulgativa (l’ennesima biografia di Dante Alighieri è sua) e la rassicurante medietas da opinionista puntualmente equidistante. Altro nome, anch’esso non nuovo nei rumors, è quello di Barbara Stefanelli: attuale vicedirettrice, nel 2011 ha curato il lancio del domenicale La Lettura ed è la mente del blog La27ora (non privo di alzate d’ingegno, una su tutte la fulminante puntata datata 31 marzo scorso, titolo: “Il sospetto che Putin sia lucidissimo e abbia calcolato ogni mossa”). Terzo in ordine di probabilità, Carlo Verdelli: professionista di indiscusso valore, ha il vantaggio di piacere molto a Cairo, che però, difatti, lo ha messo da pochi mesi a dirigere il settimanale di punta del gruppo Rcs, Oggi. A far ri-saltar fuori l’opzione Walter Veltroni è il combinato disposto di due fattori: innanzitutto, come conferma Abbate, il suo peso manovriero nel mainstream culturale della sinistra à la page (immortale, in questo senso, resta il servizio della ex Jena Enrico Lucci alla prima del film “I bambini sanno”, nell’aprile 2015, quando l’intera mondanità della gente di Certa-Kual-Kultura si dette convegno per coprire di elogi il manufatto veltroniano); secondo, il legame fra Veltroni e il direttore odierno Luciano Fontana, che era il capo dell’ufficio centrale de L’Unità quando a dirigerla, fra il 1992 e il 1996, era appunto il Nostro. L’intronizzazione del Walterone equivarrebbe allora a un avvicendamento che saprebbe di disvelamento: come dire, il direttore occulto diventa direttore a tutti gli effetti.

Aldo Cazzullo

Ogni decisione, ça va sans dire, è nelle mani e nei pensieri di Urbano Cairo. Da un lato, Fontana di suo non gli darebbe motivo di procedere all’amoveatur, essendo stato in questi anni il capo-macchina ideale delle strategie dell’imprenditore. Dall’altro, però, Cairo sarebbe capace di spiazzare, e se è vero che Veltroni si porta comunque addosso un marchio senza dubbio politicamente orientato, d’altro canto il suo profilo di centrale culturale vivente, dai toni e modi accomodanti, utile commentatore alla Gazzetta dello Sport, non divisivo sul piano delle idee, costituirebbe un atout, e non un handicap, per sfoggiare un direttore di più pregnante, anzi, diciamo pure più piaciona presenza scenica. Un volto non proprio nuovo, certo, ma anche, ai sommi livelli dei salotti che contano, ancora spendibile. Eccome se ancora spendibile.  

Venezia 79 è Queer, il programma: ci sono Elodie, Guadagnino, Amelio con Braibanti e Monica di Pallaoro. Dal 31 agosto al 10 settembre, il mondo del cinema tornerà al Lido di Venezia, mai come quest’anno tanto LGBTQ+. Federico Boni su Gay.it il 26.07.2022. 

Alberto Barbera, Direttore Artistico del Settore Cinema, ha oggi ufficialmente presentato il programma della 79. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, che si terrà a Venezia dal 31 agosto al 10 settembre 2022. Un Festival straordinariamente queer, come a noi anticipato da Daniel N. Casagrande, creatore del Queer Lion in un’intervista ad hoc tra passato, presente e futuro del premio.

Ad inauguraere il Festival sarà White Noise, scritto e diretto da Noah Baumbach, con Adam Driver, Greta Gerwig, Don Cheadle, Raffey Cassidy, Sam Nivola, May Nivola, Jodie Turner-Smith, André L. Benjamin e Lars Edinger. Torna in Concorso Luca Guadagnino con Bones and All, storia d’amore cannibale che vedrà il regista di Chiamami col tuo nome ritrovare Timothée Chalamet.

Guadagnino ha dichiarato: «C’è qualcosa in coloro che vivono ai margini della società che mi attrae e mi emoziona. Amo questi personaggi. Il cuore del film batte teneramente e affettuosamente nei loro riguardi. Mi interessano i loro viaggi emotivi. Voglio vedere dove si aprono le possibilità per loro, intrappolati come sono nell’impossibilità che si trovano di fronte. Il film è per me una riflessione su chi si è, e su come si possa superare ciò che si prova, specialmente se è qualcosa che non si riesce a controllare in sé stessi. E da ultimo, ma non meno importante, quando saremo in grado di trovare noi stessi nello sguardo dell’altro?».

Torna al Lido  anche il grande Gianni Amelio con Il Signore delle Formiche, che ricostruirà il famigerato caso Braibanti, intellettuale condannato per plagio ai danni di un ragazzo.  Uno dei più eclatanti casi di omofobia d’Italia.  Grande ritorno anche per Darren Aronofsky con The Whale,  con un irriconoscibile Brendan Fraser uomo gay distrutto dalla morte dell’amato, professore d’inglese che soffre di grave obesità e tenta di riallacciare i rapporti con la figlia adolescente, che si è allontanata da lui, per cercare un’ultima possibilità di riscatto. Altro italiano in gara Emanuele Crialese, che torna a Venezia 11 anni dopo Terraferma con L’Immensità, pellicola trainata da Penelope Cruz. 

Annunciato da più parti, ci sarà Blonde di Andrew Dominik, biopic su Marilyn Monroe, così come Cate Blanchett, divina direttrice d’orchestra che si innamora di una violincellista in Tar.  8 anni dopo Birdman, Alejandro González Iñárritu torna a Venezia con il suo film più personale, Bardo, mentre  Tilda Swinton è la protagonista di The Eternal  Daughter di Joanna Hogg, pellicola di fantasmi all’inglese. 5 anni dopo il boom di Tre manifesti a Ebbing, Missouri, torna in sala Martin McDonagh con The Banshees of Inisherin, con Susanna Nicchiarelli di nuovo in concorso con un film su Santa Chiara, interpretata da Margherita Mazzucco. Altro italiano in gara è Monica di Andrea Pallaoro, girato negli USA e con con protagonista transgender (definita “un transessuale” dal direttore Alberto Barbera), interpretata da Trace Lysette. Un ritratto intimo di una donna che esplora i temi universali dell’abbandono e dell’accettazione, del riscatto e del perdono, mentre dopo il boom di The Father, Florian Zeller ha girato The Son con Hugh Jackman e Laura Dern.

Fuori concorso Siccità di Paolo Virzì e Don’t Worry Darling di Olivia Wilde, con Harry Styles protagonista. A chiudere la Mostra sarà Francesco Carrozzini, figlio di Franca Sozzani, con il thriller The Hanging Sun.

In Orizzonti ci sarà Elodie con Ti Mangio il Cuore di Pippo Mezzapesa, esordio in qualità d’attrice per la popstar, così come Michele Bravi per Carolina Cavalli con Amanda è in Orizzonti Extra, mentre tra i documentari Anselma Dell’Olio ha girato Franco Zeffirelli: Conformista Ribelle, omaggio al regista scomparso nel 2019. Tra i film in gara per la Settimana della Critica spiccano tre titoli a tinte LGBTQ+.  Il colombiano Anhell 69 di Theo Montoya, il francese Three Nights a Week di Florent Gouëlou e l’austriaco Eismayer di David Wagner, con protagonista un temuto vice tenente segretamente omosessuale attratto dalla nuova recluta Falak. Tratto da una storia vera, il film racconta quanto accaduto a Charles Eismayer e Mario Falak, oggi felicemente uniti civilmente. 

Gianni Amelio alla Mostra con il caso Braibanti: "Alle elezioni pensate ai diritti, non solo all'economia".  Arianna Finos su La Repubblica il 6 settembre 2022. In concorso 'Il signore delle formiche' film sul processo del '68 che ufficialmente condannò lo studioso per plagio, ma in realtà perché omosessuale. Con Luigi Lo Cascio e Elio Germano.

"Capisco che la situazione economica è grave, ma quando andrete a votare ricordatevi anche dei diritti civili", dice Gianni Amelio. La storia del film Il signore delle formiche, quarto italiano in concorso alla Mostra, è iniziata quando il regista, nel 1968, allora 23enne, assiste al processo ad Aldo Braibanti per il reato di plagio, ma il crimine contestato è quello di amare un altro uomo, Ettore. "Sul banco degli imputati avrei potuto esserci io".  Ora quella storia è diventata un film, "che solo per coincidenza arriva alla vigilia delle elezioni, non era certo prevedibile, ma che serve a far pensare e riflettere su una storia ingiustamente dimenticata", racconta Amelio, che al Lido è accompagnato dagli interpreti del film, Luigi Lo Cascio, Elio Germano, Sara Serraiocco e il sorprendente co-protagonista esordiente, Leonardo Maltese. Il film, prodotto da Kavac film, Ibc movie, Tenderstories, Rai Cinema, arriva in sala l'8 settembre con 01 Distribution.

Braibanti unico caso di condanna per plagio

Figlio del medico condotto di Fiorenzuola d'Arta, una giovinezza da antifascista, poi partigiano - torturato dalla banda Carità, e nel dopo guerra un periodo di impegno politico con il Pci - Aldo Braibanti è stato l'unico, nella storia della Repubblica, a essere condannato per il reato di plagio, inteso come la riduzione al proprio potere "e in totale stato di soggezione di un'altra persona", come recitava la legge ereditata dal codice Rocco dell'Italia fascista. Viene in realtà incarcerato e processato in quanto omosessuale e il giudizio cui fu sottoposto tra il '64 e il '68 racconta un'Italia lontana solo nel tempo. Il reato verrà dichiarato incostituzionale solo nel 1981, Braibanti è stato il primo e unico a subirne le conseguenze, condannato a nove anni in prima istanza, ne dovette scontare due in carcere. Il suo compagno, malgrado fosse maggiorenne, fu rinchiuso in manicomio dai genitori, "curato" con gli elettroshock e infine abbandonato dalla famiglia in povertà perché non era riuscito a rientrare "nella normalità".

Amelio: "Noi giovani del '68 non siamo riusciti a cambiare le cose"

Amelio ragiona su quanto sia importante oggi questo film, in un momento storico in cui il segretario di quello che nei sondaggi è il primo partito, Giorgia Meloni, parla di "devianza". "Quanto è cambiato è cambiato in Italia dal caso Braibanti a oggi? Io mi auguro che sia cambiato qualcosa. Però non abbiamo fatto il cammino che speravamo di fare noi giovani, che adesso siamo dei vecchi, persone mature, di età e anche di cervello. Nel Sessantotto scendevamo per strada per cambiare le cose, per uscire dalla ristrettezza mentale che albergava soprattutto nelle famiglie. Non ci siamo riusciti. Mentre scendevamo nelle strade si consumava la tragedia, nelle aule giudiziarie di Aldo Braibanti, condotto con una violenza verbale enorme contro un uomo mite, fortemente intelligente, aperto alla vita, studioso di una società perfetta che era quello delle formiche. E lo si fa perché la famiglia di uno dei due, lo studente, decide di portare in tribunale il cosiddetto seduttore di un figlio maggiorenne. La legge va incontro a quelle richieste, addirittura punendo con una pena terribile: Il pubblico ministero aveva chiesto 14 anni, un anno in meno rispetto a un omicidio". Spiega, Amelio: “Nei miei film c’è sempre lo scontro e incontro tra generazioni. E’ iniziato in un film, avevo 27 anni, La città del sole sul filosofo Tommaso Campanella e gli ho messo di fronte un contadino ignorante e Colpire al cuore e Hammamet. Questo film è una storia d’amore tra un uomo e un ragazzo, ed è molto autobiografica". 

"Braibanti è stato dimenticato"

Il motivo per cui il regista ha sentito il dovere di raccontare questa storia oggi, "è perché Braibanti è stato dimenticato. Dimenticato in vita e anche ora che è morto. Poi volevo raccontare la vicenda del ragazzo amato da lui. La madre per guarirlo voleva mandarlo da padre Pio, invece, gli hanno consigliato di mandarlo in un istituto per malattie mentali, dove è stato curato, si fa per dire: gli hanno distrutto il cervello". Ma la  genesi della storia è oggetto di un aneddoto divertente in conferenza stampa: “Non voglio essere quello che smonta la retorica di certe situazioni, la conferenza stampa bella è quella sincera. Io in genere faccio un film se qualcuno me lo offre, non perché lo penso io seduto da solo in una stanza. No, io aspetto che mi chiamino. Ne ho diritto perché ho un’età. Mi chiama un regista, Marco Bellocchio, mi invita nel suo ufficio di produzione, la Kavac, che ha un solo difetto, è sulla Nomentana. Vado e mi propongono un documentario su Braibanti. Avevo fatto un film, mi consideravano specialista, Felice chi è diverso. Nell’occasione avevo chiamato Aldo e ci eravamo parlati tante volte perché io andassi a trovarlo. Non stava bene, non si è potuta fare. Io avevo trovato documenti, ma non eccezionali, suo suo interesse malsano per le formiche. Ho detto non lo so fare. Ma perché non facciamo un film ? Il giorno dopo ricevo una telefonata da Simone Gattoni che mi dice “ti va di venire di nuovo, ti paghiamo noi il taxi? Io uso i mezzi, qualunque mezzo per arrivare, che ha anche un altro significato. Sono andato e mi hanno detto “aggiudicato, facciamo i film”. E io dico si chiamerà Il signore delle formiche”.

Il dibattito sui diritti civili

Il film racconta di chi, come Emma Bonino, che compare in un fotogramma, si impegna con altri per sollevare il dibattito, ma anche di una sinistra "in realtà Bonino non era ancora nei radicali nel '68, ma volevo rendere omaggio al Partito Radicale che è stato quello che si è piùs speso per le battaglie dei diritti civili. E di un giornale "del più grande partito di massa", il Pci, insensibile ai diritti civili, con qualche componente omofoba. Oggi la partita dei diritti civili è una di quelle che si gioca alle imminenti elezioni. "Io sono ottimista, perché credo nell'intelligenza degli umani, perché non possiamo essere sempre, costantemente, masochisti. Fare harakiri tutti i giorni no. Quindi io non sapevo che il film uscisse durante un periodo di elezioni. Chi me lo avrebbe detto? Ma c'entra con i cervelli che andranno a votare. Io mi auguro che votino per migliorare le cose, ma migliorarle non solo economicamente. Siamo in un periodo in cui l'economia è allo sfascio, ma non pensiamo solo a quello. Pensiamo anche ai diritti civili, alla nostra libertà, al nostro bisogno di essere noi stessi".

Luigi Lo Cascio: "È stato un artista totale e uno scienziato"

Luigi Lo Cascio, bravo come sempre sullo schermo, confessa che non conosceva la storia di Braibanti prima del film, "cosa che mi dispiace molto per due motivi importanti: quella di essere l'unico condannato in un processo per plagio, che a guardare gli atti ha qualcosa di incredibile, ha subito l'enorme torto di vedere troncata una storia d'amore importante, essere perseguitato dalla famiglia, sprofondare economicamente. Ancor di più mi spiace il fatto che non conoscevo la sua importanza politica e culturale. Non ha voluto, dopo, farsi bandiera di quanto subito, reclamare qualcosa in cambio. Parlava della vicenda solo se gli veniva chiesto. Come del resto del suo essere stato antifascista e partigiano. C'è stata nei suoi confronti una dimenticanza strana, ha inventato il teatro di avanguardia, è il primo a Roma a cominciare quella stagione, dove ci sono tutti: Memè Perlini, Giancarlo Nanni, Carmelo Bene. Era scrittore e filosofo con pensieri soprattutto adesso da ascoltare, è stato uno dei primi a parlare di ecologia, un artista totale e uno scienziato, mirmecologo. Mi spiace non averlo conosciuto e incontrato quando c'era ancora, è morto nel 2014 a novant'anni, tra le difficoltà economiche, sfrattato dalla casa al ghetto di Roma. Gli ultimi anni sono stati tristi. Spero che ci sia un ritorno di considerazione per la sua opera".

Elio Germano: "La giustizia dalla parte dei potenti"

Elio Germano interpreta il giornalista che segue il processo e si batte per raccontare la verità. "Abbiamo tante volte assistito a una giustizia che si accanisce contro la parte più fragile e spesso tutela i vari potentati e gli speculatori del nostro Paese che non solo non riescono a essere puniti in nessun modo, ma cascano sempre in piedi. Vediamo anni e anni inflitti, per esempio, alle persone che fanno le manifestazioni con questo reato di devastazione e saccheggio che colpisce soltanto i manifestanti e non colpisce le grandi industrie che speculano sulla salute delle persone. Come dire, la giustizia servirebbe a tutelare gli anelli più fragili della nostra società, invece si mette dalla parte dei potenti e questa è una prima cosa che vediamo non essere cambiata, così come lo stigmatizzare con le etichette a bullizzare pubblicamente degli individui, discriminandoli per le proprie scelte sessuali, religiose o addirittura peggio per il colore della propria pelle. Insomma, sono questioni che siamo abituati a vedere e come poi la politica sfrutta queste cose per il proprio tornaconto personale". Il film, prosegue l'attore, "è uno spaccato dell'epoca dove sicuramente c'era maggiore libertà, dove c'era un giornalista che è quello che interpreto, che con un'etica ancora pulita del proprio mestiere sceglie di voler raccontare quello che avviene, invece di guardare il proprio tornaconto. Questa distanza tra i rappresentanti della politica e il popolo, per esempio. E quindi un film che ci parla di tante cose, al di là del fatto in sé, del racconto, della storia, di un viaggio. Braibanti ci apre una finestra su quello che siamo noi come italiani e quello che è che che la nostra società ha prodotto. Questo è un momento in cui i diritti civili sono a rischio, ma le cose dobbiamo impegnarci in prima persona, ogni giorno, per cambiarle, non basta mettere una croce sulla scheda elettorale".

Quando i gay erano "malati". Amelio rilancia il caso Braibanti. Luigi Mascheroni il 24 Agosto 2022 su Il Giornale.

Il regista dedica Il signore delle formiche al celebre processo per plagio del '68. Ma dimentica la vera vittima...

Le domande sono due. La prima: chi è Aldo Braibanti? E la risposta è semplice: un intellettuale, poeta, chiamato il Professore, anche se in realtà non insegnò mai, fu piuttosto un attivissimo organizzatore culturale che si occupava di arte, cinema, teatro e letteratura ma anche - con intuizioni profetiche sulla scia di Pier Paolo Pasolini - di ecologia e di società dei consumi; nato a Fiorenzuola d'Arda, famiglia risolutamente antifascista, partigiano, arrestato due volte, nel '43 e nel '44, anche torturato, poi comunista critico (dichiaratamente omosessuale non era gradito neppure nella sentina omofoba e bigotta della cosiddetta sinistra ormai di poca lotta e molto potere), anima del laboratorio artistico-comunitario di Castell'Arquato, nel piacentino, Aldo Braibanti divenne famigeratamente celebre negli anni '60 allorché unico caso nella storia della Repubblica italiana - fu condannato per il reato di plagio, ossia riduzione in proprio potere «e in totale stato di soggezione» di un'altra persona, come recitava la legge 603 ereditata dal Codice Rocco.

Braibanti dal 1962 convive a Roma con un ragazzo, peraltro già maggiorenne, fino a quando il padre-padrone di una famiglia ultracattolica rapisce il figlio e denuncia alla Procura di Roma il Professore, il quale alla fine di un lungo processo, durato dal '64 al '68 - anno di contestazioni mondiali per ottenere più libertà e maggiori diritti - viene condannato a nove anni di carcere, ridotti a sette e infine a due in Corte d'Appello per riconosciuto merito patriottico di partigiano. Braibanti, al quale nel 2006 fu concesso dal governo Prodi l'assegno mensile previsto dalla «legge Bacchelli», è morto nel 2014, a 92 anni, lasciando in eredità alla biblioteca di Fiorenzuola i suoi 15mila libri e le carte personali, ancora tutte da studiare.

La seconda domanda, invece, è più delicata. Chi era il suo giovane compagno e, soprattutto, che fine ha fatto? La risposta è laconica e lacunosa. Si chiamava Giovanni Sanfratello, era un ragazzo al quale piaceva il disegno e aveva 24 anni quando fu riacciuffato dalla sua famiglia, rinchiuso in manicomio, a Verona, dove fu sottoposto a 40 elettroshock e 19 trattamenti di coma insulinico con l'intenzione di farlo guarire da quella che era considerata una malattia, cioè l'omosessualità; poi liberato ma con la proibizione di uscire di casa e leggere libri che avessero meno di cent'anni. Al processo cercò inutilmente di difendere l'amante-Professore. E poi, una volta chiuso il caso, di lui non si seppe più niente, se non che cambiò città e morì nel 2018, risucchiato nel vortice del peggiore oblio. Non ci resta né un documento, né un disegno, né una foto, solo quelle scattate durante le udienze. Una vita nullificata.

Chi ha cercato di fare parlare questo «nulla» è stato l'autore napoletano Massimiliano Palmese il quale già nel 2011 a Il caso Braibanti dedicò un testo teatrale «Gli atti del processo, così grotteschi, erano una pièce già fatta e finita», racconta al Giornale - e poi a partire da quello spettacolo ha realizzato nel 2020 un documentario tanto antisentimentalistico quanto inquietante, dallo stesso titolo, girato con Carmen Giardina, che ha debuttato in agosto alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro di Pedro Armocida, osannato dalla critica e poi vincitore del Nastro d'Argento 2021 come Miglior Docufiction. Un'opera che continua a girare: è su Sky Documentaries e Prime video e la sera del 31 agosto sarà proiettato a Roma, a «L'Isola del Cinema». «Sono felice di avere riacceso una luce su Braibanti dice il regista e spero che ora la tv pubblica compri il documentario per tenerlo su RaiPlay. Servirebbe a due cose: ricordare Aldo Braibanti, un uomo definito da Carmelo Bene un genio; e documentare l'omofobia di uno dei peggiori scandali della storia italiana».

È vero. Il caso Braibanti, una delle macchinazioni più mostruose e lasciate impunite del dopoguerra, assieme al caso Tortora, fu lo specchio di quel Paese e uno scandalo non solo giudiziario, ma politico e civile, come disse Umberto Eco. Anche se in realtà l'indignazione degli intellettuali arrivò dopo: gli Eco, i Moravia, le Morante, le Maraini, i Bellocchio, lo stesso Pasolini intervennero più tardi, a lottare sì per Braibanti ma anche per loro stessi, mentre il primo a correre in soccorso del Professore fu, come sempre, rischiando del suo, Marco Pannella.

E comunque, ora, aperta la strada da Massimiliano Palmese, omosessuale militante, arriva il regista Gianni Amelio, omosessuale dichiarato: alla Mostra del cinema di Venezia porterà, in concorso, il film Il signore delle formiche (tra le varie passioni di Braibanti c'era anche quella per la mirmecologia) con Luigi Lo Cascio nella parte del Professore (ruolo e attore sono di quelli già in profumo di David di Donatello, almeno guardando i due minuti di trailer) e Elio Germano in quella di Ennio, giornalista di fantasia che segue l'inchiesta. Curiosamente e c'è da chiedersi come mai nella scheda del film di Amelio, «basato su fatti realmente accaduti», il personaggio di Giovanni Sanfratello, la vera vittima di tutta la vicenda, più di Braibanti, ancora una volta, sparisce: il suo nome non c'è (Per evitare querele? Autocensura? Scelta autoriale? Paura della reazione della famiglia, visto che Agostino, fratello di Giovanni, è ancora vivo?). E così il ragazzo amante di Braibanti nel film è chiamato Ettore (interpretato dall'attore Leonardo Maltese), ma a lui è riservata la battuta centrale: «Il processo è assurdo: non c'è nessun colpevole perché non c'è nessuna colpa».

Sparito il vero nome del convitato di pietra - un ragazzo che in una lettera scritta quando è rinchiuso nell'ospedale psichiatrico chiede ad Aldo di raccontargli le tecniche che usava per disegnare, perché non ricorda più nulla - speriamo, ma dubitiamo, ci siano almeno quelli dei magistrati che compirono lo scempio.

Gianni Amelio: "Sono un gay a cui l'adozione ha cambiato la vita. Ora sono nonno, papà e marito. Ed è straordinario". Giuseppe Fantasia su huffingtonpost.it il 25 Marzo 2018.

Uno dei registi italiani più apprezzati affida al romanzo "Padre Quotidiano" il suo racconto più intimo, quello della paternità

"La vita ti sorprende sempre, ma dal punto di vista umano, la mia conferma l'ho avuta negli anni Novanta". Inizia così la conversazione dell'HuffPost con Gianni Amelio, 73 anni da poco compiuti, uno dei simboli del nostro cinema, regista e scrittore di romanzi di successo. Il suo piatto di riso è troppo fumante per poter essere mangiato all'istante e lui, con quella calma che lo contraddistingue, ne approfitta per lasciarsi andare ai ricordi fissandoci sempre con i suoi occhi scuri.

"Stavo girando "Lamerica" (uno dei suo film che ha avuto più successo, ndr), era il 1993 ed eravamo in Albania. Ad un certo punto si avvicina a me un uomo di nome Ethem che mi prende il braccio, lo stringe forte e mi dice: "Fino a oggi questo figlio è stato mio. Da domani sarà figlio tuo". Il figlio in questione era uno dei ragazzini che vediamo nella scena finale del film, la più toccante, quella che è rimasta nella memoria di chiunque l'abbia vista, perché ogni altra reazione è impossibile. Una proposta sconcertante quella di quel padre che è stata un ordine e una preghiera insieme, un gesto che fece risvegliare nel "regissore" italiano – come veniva chiamato dagli altri ragazzini della troupe, tutti albanesi –" le tracce di un'antica ferita, l'assenza di un altro padre" – il suo – conosciuto troppo tardi.

Quell'episodio così intimo, tragico e poetico insieme, Amelio ha deciso di raccontarlo non con la sua cinepresa – come è solito fare - ma attraverso le parole e la scrittura che sono poi diventate un libro, "Padre Quotidiano", appena uscito per Mondadori, il quarto dopo Il vizio del cinema (2004), Un film che si chiama desiderio (2010) - entrambi Einaudi - e Politeama (2016). Si è deciso tardi, venticinque anni dopo, "perché ho avuto la necessità di prendere una certa distanza da un'esperienza come questa, un atto d'amore – da un lato – ma anche un atto di abbandono allo stesso tempo", ci spiega. "Quel padre anziano e malato, ha pensato a garantire un futuro al figlio, ben sapendo che lì in Albania non poteva averlo e ha deciso di separarsene portandosi per sempre dentro di sé il trauma del distacco", aggiunge. Amelio ha deciso di dargli voce e allo stesso tempo di far sentire la sua nelle pagine di questo libro dal profondo respiro corale e ben scandagliato in momenti. C'è quello del suo "apprendistato da padre"- come lo definisce - quello della lavorazione del film – non certo facile – e quello dedicato alla descrizione di un Paese come l'Albania schiacciata dalle macerie della dittatura e molto simile alla Calabria del dopoguerra, la regione dove lui ha vissuto la sua infanzia.

Cosa le ha insegnato e cosa le ha dato questa esperienza?

"Sono estremamente innamorato di questo libro. Tengo più a questo libro che a tutti i film che ho fatto e non sto esagerando. Ho scritto quattro libri in totale e anno dopo anno ho trovato una scrittura che non credevo di possedere. Sono un regista – ho pensato più volte - e non so scrivere, invece da un romanzo all'altro so che ho fatto dei passi avanti. Il libro ha una sua valenza letteraria, c'è molto romanzo dentro, ma la materia è estremamente autobiografica. È la mia storia, la storia di quella che oggi è la mia famiglia. Il contenuto è l'adozione che nel mio caso mi ha cambiato la vita radicalmente e mi ha permesso di avere una famiglia incredibile. Non ho adottato solo lui, ma ho portato a Roma, dall'Albania, anche i suoi genitori naturali. All'inizio, non lo nego, ero terrorizzato: cosa ne sapevo io di come si faceva il padre? Poi però ho deciso di mettercela tutta e, passo dopo passo, abbiamo costruito quello splendido rapporto che abbiamo oggi. Lui ha conosciuto la sua compagna con cui è da ventiquattro anni, hanno avuto tre figlie e sua madre abita con me. Sono nonno, papà e marito, perché è mancato il padre naturale di mio figlio che mi ha scelto come futuro padre di suo figlio. Non è straordinario?

Dal 2014 – anno in cui lei realizzò il documentario "Felice chi è diverso", raccontando diversi episodi di omosessualità più o meno dolorosi – qualcosa è cambiato anche in Italia. Lei che non ha mai nascosto di essere gay, che opinione ha in merito?

"Ha ragione lei, non c'è dubbio, la situazione è cambiata molto, ma c'è ancora tanto, tantissimo da fare. Nel documentario da lei ricordato, ho raccontato di quando gli omosessuali erano mandati al confino: in Italia non c'era una legge contro l'omosessualità, però cercavano sempre con un'altra scusa di isolare e di cacciare dalla vita comune chi, secondo loro, era portatore di disturbo. Si inventavano di tutto. Dal carcere per il disturbo della quiete pubblica alla corruzione e molto altro. Per Aldo Braibanti ("l'intellettuale mite" secondo Pasolini, "un genio straordinario" secondo Carmelo Bene, ndr) si inventarono il reato di plagio, poi tolto dalla legge italiana, qualcosa di assurdo. Perché applicarlo a un omosessuale e non ad un eterosessuale? Si cercava un'altra via perché in Italia non c'era una legge che proibisse l'omosessualità tra adulti consenzienti e questo perché Mussolini non volle far promulgare una legge. Se lo avesse fatto, avrebbe ammesso che in Italia esistevano gli omosessuali. È stata una fortuna da un certo punto di vista, perché negli stessi anni c'erano tanti omosessuali che venivano ricattati, soprattutto in Inghilterra, come venne spiegato in Victim, un film dell'epoca, molti attori e registi vennero imprigionati e una legge in tal senso fu attiva fino al 1975. Da non credere".

Lei è mai stato ricattato?

"Assolutamente no, ci mancherebbe! Ho una vita sentimentale e sessuale molto aperta, molto libera, ma alla luce del sole

Oggi, soprattutto tra i più giovani, si parla spesso di fluidità sessuale: per lei cos'è la sessualità?

"La sessualità è per me un fatto di libertà, ognuno sceglie la propria idea e tendenza, il proprio gusto, purché non da fastidio agli altri e non commetta delitto. Non vedo perché debba essere combattuto o imprigionato".

Vive bene in Italia? è soddisfatto delle ultime elezioni politiche?

"Sì, ci sono sempre stato bene da queste parti (sorride, ndr) e sinceramente non vedo pregiudizi, ma non mi faccia parlare di politica. Pensi che soprattutto al sud, la società contadina non ha mai avuto pregiudizi nei confronti di un gay. C'è stato però un modo di spingerlo a nascondersi con un concetto di tolleranza che trovo completamente sbagliato. La tolleranza, quando noi la accettiamo, implica che esista l'intolleranza. Perché non le cancelliamo tutte e due diciamo libertà"?

La libertà, oggi, si manifesta in mille modi, ad esempio scrivendo frasi e pensieri sui social network: che idea ha al riguardo? Usa Facebook?

"So che esistono, ma non li uso, perché sono mentalmente incapace di farlo. Mi piacciono altre cose, tutto qui. Non mi verrebbe mai in mente l'idea di scrivere i fatti miei su Facebook che ha la sua pericolosità. Sui social si leggono cose e frasi insultanti e prive di contenuto reale. Tutti si arrogano il diritto di scrivere e dire quello che vogliono e pensano. Non mi piacciono perché danno parola a chi potrebbe tacere".

Lei è una persona che nella sua vita non ha mai taciuto, ma denunciato ciò che non andava e non va con i suoi film, i suoi libri, i suoi documentari. L'ultimo, "Casa d'altri", premiato con il primo cortometraggio racconto dell'anima ferita di Amatrice dopo il terremoto del 24 agosto 2016 premiato al Festival Cortinametraggio con un Nastro D'Argento speciale dal Sindacato dei Giornalisti Cinematografici. Perché quella storia?

"Il mio è stato un gesto di protesta contro certi silenzi che riguardano la tragedia del terremoto di Amatrice, ma non solo. Sono partito da questa domanda: perché certe tragedie accadono periodicamente? Non si deve piangere dopo la tragedia, ma un riparo, una soluzione, vanno trovate prima perché le vittime, una volta che ci sono, non possono più protestare".

Nella sua vita ha avuto più delusioni o sconfitte?

"Non me ne ricordo nemmeno una di sconfitte, ma di delusioni sì e anche tante, soprattutto quando faccio un film di cui non posso ovviamente mai saperne prima l'esito".

Quale è stata la usa più grande conquista?

"Oltre ad essere diventato padre, la mia conquista più grande è fare questo lavoro con una serenità che prima non avevo. Per il primo lungometraggio, avevo anni di tv e gavetta come aiuto e sceneggiatore, ma ero nel panico da prestazione. Nel 1982 parlavo di terrorismo quando era una realtà di tutti i giorni e lo facevo in termini particolari: la storia di un figlio che sospetta un padre terrorista, un cattivo maestro come si diceva allora. Farlo mentre a Milano dove ogni giorno c'erano sempre attentati, mi turbava molto in rapporto al mio lavoro. Accadeva quello che raccontavo nel film. Poi con "Porte Aperte", altro mio film, il macchinista mi disse che gli ricordavo Monicelli e da quel momento qualcosa cambiò. Ho iniziato a lavorare accettando anche di poter sbagliare".

L'ultimo suo film, "La tenerezza", è stato molto apprezzato ed amato dal grande pubblico, ha ricevuto premi, tra cui il recente David al suo interprete, Renato Carpentieri. Dopo aver preso il premio ha detto che la tenerezza "è un virtù rivoluzionaria". Per lei, Amelio, cos'è la tenerezza?

"Prima di me e di Carpentieri c'è stata la voce di sua santità, Papa Francesco, che ha ricordato in un'omelia che l'uomo ha bisogno di tenerezza. La tenerezza è per me un bisogno che noi esseri umani cerchiamo di nascondere. In genere, soprattutto noi uomini, non abbiamo quel coraggio di fare il gesto perché scambiamo la tenerezza per debolezza, o abbiamo paura che un'altra persona ci consideri fragili perché chiediamo scusa dopo qualcosa che ci ha divisi, o sembriamo arrendevoli, deboli...no, non siamo affatto così, lo ha detto anche il Papa che è una mente politica straordinaria oltre che un uomo di chiesa. La tenerezza è necessaria, è uno stato d'animo che ci rende felici, non scordiamolo mai".

VENEZIA 79. Le Favolose, ribelli senza rimpianti, e il tema Lgbtq+ che attraversa il Festival. Teresa Marchesi su huffingtonpost.it l'1 Settembre 2022

Le amiche transessuali riunite da Roberta Torre in un film delle Notti Veneziane sono testimoni di un’epoca di rivoluzione sessuale, tra gli anni ’70 e gli ’80, consegnata al passato.

"Noi siamo fantasmi. Non madri, non mogli, non figlie, non lavoratrici riconosciute, non donne, non uomini: persone che non esistono, per la società civile": è bella la dichiarazione in margine di una de "Le Favolose", le amiche transessuali riunite da Roberta Torre in un film delle Notti Veneziane che va in sala il 5, 6 e 7 settembre con Europictures.

Sono ribelli senza rimpianti, testimoni di un’epoca di rivoluzione sessuale, tra gli anni ’70 e gli ’80, consegnata al passato. Si riuniscono nella casa dei loro incontri giovanili per ricordare Antonia, una di loro che la famiglia ha sepolto vestita da uomo, per vergogna della sua identità scelta. C’è una seduta spiritica, anche, ma senza barriere tra i vivi e i morti. È una fiaba nostalgica e vitale insieme, quella intessuta da Roberta Torre, con il filtro della memoria a guidare i racconti, perché “il tempo fa vedere le cose, non le cancella”. Hanno vissuto di prostituzione (ma senza protettori), ”perché senza la prostituzione, in un mondo che non ci prevedeva, non saremmo sopravvissute". Diverse perché hanno scelto il corpo che si sentivano, capaci di godere, ora che l’età su molte di loro ha lasciato il segno, della leggerezza contagiosa di un ballo: è “Ain’t Misbehavin” di Fats Waller, memoria di una indimenticabile Gena Rowlands per John Cassavetes. Storia inseguita da tempo dalla regista, partendo dalla vicenda di una famiglia che si era ‘appropriata’ in morte del corpo del figlio trans, dopo una vita trascorsa a inseguire la femminilità. Ma c’è una parte ‘privata’ e personale della regista nei super 8 che corredano il film: vecchie riprese di suo padre bambino, “che tra le vecchie foto delle mie ragazze trovavano la loro giusta collocazione emotiva”. “Le Favolose” hanno un nome: Porpora Marcasciano (autrice di saggi su argomento trans), Sofia Mehiel, Mizia Ciulini, Veeth Sandeh, Nicole De Leo, Massimina Lizzeri. Sono non-attrici con il carisma da attrici.

Parlo di “Le Favolose”, al di là del merito, anche perché il tema LGBTQ+, ovvero lesbian, gay, bisexual and transgender è il vero tema-guida di Venezia 79. E’ trasversale, attraversa tutte le sezioni della Mostra. È al centro di tre dei cinque film italiani: ne “L’immensità” Emanuele Crialese affronta per la prima volta la sua formazione di uomo in un corpo di ragazza; Gianni Amelio rievoca il clima da Inquisizione del processo Braibanti, dove il crimine non detto era l’omosessualità; Andrea Pallaoro, con “Monica”, racconta una bellissima trans americana e la sua riconciliazione con la famiglia. Ancora: “Tàr” di Todd Field, in concorso, mette in scena un one-woman-show di Cate Blanchett, direttrice d’orchestra in un universo maschile, che cade in disgrazia per omosessualità e accuse di molestia (e viene in mente anche il suo “Carol”, con Todd Haynes). Preciso che il film, nonostante i miracoli di Cate, è di un tedio infernale. Già nei primissimi giorni, è un tema che dilaga in “Three nights a week”, alla Settimana della Critica, e poi in “L’Origine du Mal”, a Orizzonti extra, con la magnifica Laure Calamy. Battaglie civili di integrazione, dunque, e complicati rapporti tra genitori e figli: sono i due fili rossi da seguire in questa Mostra.

Venezia 79, gender e libertà: la Mostra racconta il coraggio di scegliere. Arianna Finos su La Repubblica  il 3 settembre 2022.

Da “Monica”, accolto da undici minuti di applausi, a “Le favolose”, la rassegna declina in tanti modi il tema dell’identità sessuale

Venezia - Monica torna a casa dopo vent'anni ad accudire la madre che aveva rifiutato la sua transizione, Adriana è un'adolescente che negli anni Settanta veste da maschio e vuole essere chiamata Andrea, le favolose sono un gruppo di amiche riunite al festoso "funerale" risarcitorio dell'amica trans, seppellita dalla famiglia in abiti maschili. Alla Mostra quest'anno, sparsi tra le sezioni, ci sono tanti film - alcuni interessanti, altri brutti, altri ancora sorprendenti, e poi sentimentali, comici o rabbiosi - affrontano i temi dell'orientamento sessuale e quello dell'identità di genere. E ci sono storie in cui personaggi gay, lesbiche e trans non sono il centro o la questione, ma il semplice riflesso della nostra realtà quotidiana, alla vigilia di un possibile cambio di matrice conservatrice.

L'orizzonte narrativo, si è allargato. E da quanto visto (finora), se Trace Lysett fosse, con Monica, ritratto delicato di un personaggio femminile - accolto da undici minuti di applausi - la prima trans a vincere la Coppa Volpi, lo dovrebbe all'intensità della sua interpretazione, senza dover scomodare il politicamente corretto. "Ho fatto il provino a trenta attrici trans, ho capito subito che Trace era Monica", dice il regista Andrea Pallaoro. Grande attesa, tra gli italiani in gara, per Emanuele Crialese, che racconta l'adolescenza anni '70, tra crisi familiari e momenti musicali di una ragazza che si sente maschio (e si veste come tale), un film "non strettamente autobiografico, ma basato sulla mia esperienza personale", dice Crialese. Affermazione che dovrebbe bastare: al di là della curiosità suscitata, fuori dal racconto sullo schermo il regista è libero di non condividere le proprie scelte di genere.

Nelle sezioni collaterali Pinned into a dress, storia di Kurtis, cresciuto queer dentro una famiglia di abusi e dipendenze, ha creato l'alter ego Miss Fame, super modella drag, ma il successo che non ripara le ferite. Alle Giornate degli autori, Le favolose di Roberta Torre affronta la cancellazione dell'identità subita da molte transgender: la famiglia di Antonia si è impossessatw dei suoi beni e distrutto le foto, seppellendola con il nome maschile: "Antonia - dice Roberta Torre - rappresenta le persone trans che hanno perso la battaglia del riconoscimento della propria identità nel momento della morte". Sempre più spesso nelle biografie degli artisti emerge la volontà di identificarsi come persone non binarie: è il caso, alla Mostra di Tessa Thompson, la Valchiria di Thor, in giuria del premio Opera prima e Quintessa Swindell, 22 anni, coprotagonista di Master Gardener di Paul Schrader: "Essere non binari significa esplorare sé stessi al di fuori dei confini della società eteronormativa. Combattere per i sottorappresentati è allo stesso tempo un dovere e un privilegio. Essendo dove sono oggi, niente significa più per me che essere una voce per la mia famiglia prescelta".

Natalia Aspesi per “Il Venerdì – la Repubblica” il 29 agosto 2022.

Ho chiesto a una coppia di trentenni serenamente omosessuali e a un paio di loro coetanei serenamente etero, se sapessero chi era Aldo Braibanti e tutti, serenamente, mi hanno risposto di no. È vero, la sua è una storia nera italiana di più di cinquant' anni fa, estranea a quel '68 in cui i giovani erano certi di cambiare il mondo, e forse avrebbero potuto farlo, di prendersi il potere, e invece furono sconfitti, di liberarsi da ogni oppressione compresa quella sessuale, oggi con qualche risultato. 

Forse anche chi aveva vent' anni allora, i nonni di oggi, ne seppero poco, e in ogni caso in tanti se ne sono dimenticati. Ma non Gianni Amelio, che ha 77 anni ed è nonno appassionato di tre ragazze, due gemelle adolescenti e una di 19 anni che vive con lui.

«Avevo 23 anni, ero arrivato a Roma da un paio d'anni deciso a uscire dalla mia nullità, avevo grandi sogni, e avevo fatto i primi passi nel mondo del cinema, come aiuto di Vittorio De Seta per Un uomo a metà. Il processo contro Aldo Braibanti, che allora aveva 46 anni, era iniziato in Corte d'Assise a Roma il 12 giugno 1968, e io ebbi il coraggio di assistere, in mezzo al pubblico, a una sola udienza.

Fuori c'era la grande confusione delle manifestazioni studentesche, interessate ad altro. Lo vedevo solo di spalle, perché era rivolto verso i giudici, così fragile, così forte, deciso a non difendersi, a non rispondere alle domande provocatorie. E mi batteva il cuore. L'atmosfera era allucinante, colpevolizzante, la ritrovai poi al processo del Circeo, contro quei giovani fascisti stupratori, torturatori, assassini. Ero inquieto, immaginavo cosa avrei potuto provare se fossi stato al suo posto, se come tanti, allora, quasi tutti, non avessi continuato a negarmi». 

Quel ricordo crudele, quel senso di colpa, il destino umiliante e l'orgoglio dell'imputato, la ferocia stupida di quell'Italia di potere, solo adesso sono diventati un suo film, che sarà tra i cinque italiani in concorso alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia e in sala dall'8 settembre. 

«Se sono arrivato oggi a questa storia così italiana è stato per un percorso naturale che mi ha sempre spinto, anche attingendo al passato, a parlare dell'aria che sentivo attorno. Ed è proprio dall'aria che respiriamo oggi che è nata in me l'esigenza di riproporre la figura di Braibanti, rispettando quello che lui dice in una scena: "Non voglio essere considerato un martire. Né mostro né martire"».

Titolo quasi fantasy, Il signore delle formiche, perché Braibanti era un appassionato mirmecologo, le nutriva, le studiava, le teneva con sé dentro una teca di vetro, e gli studenti che lo amavano cercavano per lui nei prati le regine ancora alate. 

Ma era soprattutto un intellettuale rispettato, un Maestro amato e temuto, un poeta, artista plastico e figurativo, drammaturgo e regista teatrale con un suo laboratorio a Castell'Arquato, nel piacentino. Figlio del medico condotto di Fiorenzuola d'Arda, aveva avuto una giovinezza di impegno politico, antifascista sotto il fascismo, arrestato e torturato dalla terribile banda Carità, partigiano, e nel dopoguerra per un certo tempo impegnato col Pci. E omosessuale. Ho visto al Teatro Parenti lo spettacolo ideato da Massimiliano Palmese sul processo, poi in parte incluso nel bel documentario Il caso Braibanti, 2020, di Carmen Giardina e dello stesso Palmese.

La sua immagine è quella di un uomo rimasto ragazzo, troppo magro, una gran testa di capelli neri, occhiali da vista enormi con grossa montatura nera: molto somigliante a Pasolini, di cui era coetaneo. Amelio gli ha dato la faccia ancora giovane di Luigi Lo Cascio e del suo personaggio il vestire trasandato e l'inflessione emiliana. 

Dice: «Il crimine di Braibanti era l'omosessualità, anche se per la nostra legge il reato di omosessualità non era previsto nemmeno allora, quando ancora vigeva il codice Rocco, perché secondo Mussolini il maschio italiano non poteva essere che virile.

Eppure il Pubblico ministero chiese per lui 14 anni di reclusione, precisando che era un anno in meno della pena per l'omicidio premeditato, "perché comunque di un omicidio si è trattato, quello della coscienza di un ragazzo innocente"». 

Il "ragazzo innocente" era Giovanni Sanfratello, un giovane di 23 anni che, questa l'accusa formale, Braibanti aveva "plagiato". Alla fine la Corte ridusse gli anni di carcere a nove, e dopo qualche tempo a due "per meriti partigiani".

Racconta ancora Amelio: «Per girare il film in quello stesso Palazzo di Giustizia di Roma dovevo mostrare la sceneggiatura e quindi ho limitato le parole infamanti e vergognose dell'accusa. Ma mi restano vaghi ricordi di invettive come "Voi donne siete fortunate, perché se non siete consenzienti con le vostre fauci potete stritolarglielo"; o anche "L'accusato si vantava di essere stato con un negro, una razza che ve la raccomando"». 

Allora non esisteva ancora il coming out, la ribellione scoppiò un paio d'anni dopo. E lei non fu certo tra i primi, dichiarò la sua omossessualità nel 2014. Un mio amico gay con consorte, una coppia felice, mentre raccontavo loro del nostro incontro, mi ha urlato: «Troppo facile fare coming out a 80 anni!»...

«A parte che non è vero, ognuno ha la sua storia. Io sono nato in Calabria, a San Pietro Magisano, nel centro della Sila. Mio nonno era emigrato in Argentina lasciando mia nonna incinta e non tornò mai più, forse si era fatto un'altra famiglia. 

Anche mio padre se ne era andato e fui io, da adulto, 15 anni dopo, ad andarlo a riprendere. Il nostro era un paese di vedove bianche, anche la mia famiglia era di sole donne e solo le donne hanno contato per me.

Io ero il loro riscatto. Per farmi uscire dal paese e studiare hanno affrontato qualunque sacrificio. Mia madre mi mandò a Catanzaro dalla nonna perché frequentassi le medie. Mia nonna mi spinse al liceo, mia zia all'università a Firenze: lei era cresciuta in orfanotrofio e, quasi analfabeta, era riuscita a diplomarsi infermiera e a diventare caposala operatoria. 

Diciamo che già da allora il trastullo del pisello non era la mia priorità: prima dovevo sfamarmi, e non sempre era facile, poi dovevo studiare, dovevo farcela, per me, per le mie donne. E per il mio sogno, che era quello di diventare maestro, di insegnare. Anche se ben presto capii che così come ero non me lo avrebbero mai permesso». 

Nel gruppo creativo attorno a Braibanti c'erano i giovani Agostino e Giovanni Sanfratello, che appartenevano a una famiglia del piacentino tradizionalista, ultraclericale e di estrema destra. E forse Agostino non accettò la preferenza di Braibanti verso il fratello o immaginò che quel legame fosse una diavoleria.

La famiglia perse la testa, doveva salvare il suo ragazzo dall'inferno del peccato mortale, e maestro e allievo furono costretti ad andarsene insieme a Roma, a dividere la stessa stanza in una pensioncina. Era l'ottobre del 1964, Giovanni era maggiorenne (allora lo si era a 21 anni) quando una notte quattro maschi Sanfratello piombarono in quel rifugio dove il letto era uno solo, matrimoniale, e riuscirono con la forza a rapire Giovanni che fu rinchiuso contro la sua volontà in una casa di cura per malattie mentali. 

Meglio pazzo che frocio?

«Nel film ci sono anche momenti della mia vita davvero crudeli. Quando avevo 16 anni un insegnante mi disse: "Se sei omosessuale o ti curi o ti ammazzi!". In quegli anni i giovani contestavano anche la famiglia, il suo potere senza scampo. Quella di Giovanni si dimostrò esemplare nella sua furia distruttiva: per "curarlo" consentirono che gli praticassero 40 elettroshock e ottennero di tenerlo prigioniero in casa». 

Dal paio di clip e dal trailer del film a disposizione di noi curiosi, ho visto la bella, fiduciosa, faccia dell'innocente Giovanni che si contorce nell'orrore degli elettroshock.

Una faccia sconosciuta, chi è l'attore?

«Per i due fratelli non ho voluto attori, ma ho cercato le facce giuste, di quegli anni e di quei luoghi, girando per bar, con gli avventori che portavano ancora la mascherina. Giovanni è Leonardo Maltese, Agostino è Davide Vecchi. Li vedrà, hanno una carriera assicurata». 

Nei giornali d'epoca la loro madre, seduta in tribunale, massiccia, col cappello da gran signora calato sugli occhi e sulle ginocchia, la borsa stretta tra le mani, è già una immagine da film.

«Vedrà la mia! È Anna Caterina Antonacci, il soprano che mi ha conquistato per il suo fisico forte e il modo di interpretare Verdi, perché è la musica di Verdi, così melò, carica di amore, a percorrere tutto il film. Anche lei non ha mai fatto cinema». 

Elio Germano, nelle poche immagini viste, ha sempre il cappello in testa (mi ricorda Italo Pietra quando era direttore del Giorno) e sotto il braccio la mazzetta dei giornali.

Figura davvero anni 60 del rude cronista: nel film lavora all'Unità e rappresenta quella parte della stampa di allora che non titolava "Il demonio in Corte d'Assise".

«Però il giornale comunista era anche molto prudente, la cronaca del processo non finiva in prima pagina, altri erano gli interessi della classe operaia...». 

Con Braibanti stavano i Radicali, che poi nel 1981 riuscirono a far cancellare il reato di plagio, in parte i socialisti, e gli intellettuali: Moravia, Elsa Morante, la Maraini, Piergiorgio Bellocchio e Pasolini, Maria Monti, Carmelo Bene...

«Ma erano ingenui, certi che Braibanti sarebbe stato assolto perché l'accusa di plagio era assurda. Non tenevano in conto che quella vecchia Italia era già furiosa per la contestazione, e aveva l'ossessione di difendere la famiglia come massimo potere».

Lei, come dicevamo, scelse il coming out nel 2014, e non so perché lo fece con me (in un'intervista a Repubblica il 28 gennaio 2014, ndr) parlando del documentario in cui raccolse le storie di persone che erano state giovani quando l'omosessualità era clandestina: titolo bellissimo dalla poesia di Sandro Penna, Felice chi è diverso.

«Ripeto, avevo altre priorità. La mia omosessualità, che non metto in discussione, non è mai stata il motore principale della mia vita. Questo film su Braibanti l'ho fatto con onestà e partecipazione sincera, ma non perché volessi tirare in ballo, come fosse una mia autobiografia traslata, i miei gusti sessuali o quelli di Aldo. Se c'è un elemento che mi ha colpito della sua esistenza, è stato l'accanimento su una persona indifesa, la carcerazione, la prepotenza dell'ingiustizia. Senza dimenticare la spinta dei sentimenti che hanno caratterizzato la sua storia, la tensione morale, la tenacia con cui ha affrontato le avversità senza farsi piegare. E il suo studio sulle formiche non è già una metafora bellissima di quanto lui tenesse all'umanità? Quanto al mio silenzio, non volevo essere "un gay che fa il regista".

Ero e sono un regista, e mi riconosco solo come tale, perché il sesso, per quanto importante, non è il mio tutto. E poi senta, non mi piacciono le etichette: la parola gay mi fa pensare quando si chiamavano "donnine allegre" le puttanelle. Ancor meno "non binario": ma se la ricorda Binario, la canzone di Claudio Villa, "...triste e solitario / tu che portasti via col treno dell'amore, la giovinezza mia". Allora mi pare più simpatico "culatòn", come era scritto in lettere nere, giganti, sulla casa materna di Braibanti a Fiorenzuola...».

Nel 2008, intervistato da Andrea Pini, il poeta si era espresso più o meno nello stesso modo e già preoccupato per il clima: «Il mio mestiere di vivere è stato ed è la poesia, e non posso dimenticare i miei interessi verso i gravi e attuali problemi ecologici. E voglio subito togliere di mezzo un possibile equivoco: io credo nella libertà sessuale e per questo penso sia giusto abolire ogni forma di etichetta». 

Pini, da quell'incontro, così lo descrive nel suo bel libro Quando eravamo froci (2011, Il Saggiatore): "Un meraviglioso signore dolce e gentile ma dal carattere assai fermo. È agile nei movimenti per la sua età, veste in modo semplice, non è molto alto di statura, una testa di capelli bianchi. Viveva col cane Lado in una vecchia casa popolare del ghetto di Roma sostenuto dalla legge Bacchelli". 

Il direttore della fotografia di Il signore delle formiche è Luan Amelio Ukai, che è già stato premiato per altri film e che è suo figlio adottivo.

«L'ho conosciuto quando giravo Lamerica in Albania, il ragazzo aveva 17 anni, ci aiutava in tutto sul set, e emanava la gioia di scoprire una vita magica. Diventai amico di suo padre, pieno di malanni dovuti al carcere per motivi politici. Mi disse: "Fa che diventi figlio tuo". Mi spaventai, non ero preparato. 

Ma poi mi convinsi. Gli trovai un piccolo alloggio vicino a casa mia a Roma e cominciai le pratiche di adozione. Dopo tre mesi incontrò una ragazza polacca e vivono insieme da 27 anni con tre figlie splendide. Il mese prossimo si sposeranno. Sono fiero di lui, del suo talento e del suo doppio cognome...». 

Aldo e Giovanni si sono incontrati ancora dopo quella tragedia?

«Nella realtà no, l'ultima volta è stato in tribunale mentre il ragazzo stroncato dalle cure non cadde mai nelle domande-trappola, difese sempre sia la sua libera scelta d'amore che l'innocenza del compagno. Ma i film consentono immaginazione». 

E lei, ha più visto Braibanti dopo il processo? 

«L'ho incontrato spesso negli anni 70 per strada, ma non ci siamo mai palesati. Una volta mi sono infilato nella cantina dove lui dirigeva un gruppo di attori, tra i quali c'era un mio amico. Ero sulle spine, oggi benedico quella intrusione perché mi ha permesso di raccontarlo "al lavoro" in una scena del mio film: brusco, duro, sgarbato, feroce, ai limiti di una arroganza che mi ha turbato. Era tutto tranne che simpatico».

Da tempo ormai film e fiction raccontano allegrissime storie gay anche con scene di sesso che se le vede Pillon si sente male: lei le ha osate nel suo film? 

«C'è un nudo frontale in campo lungo e tanti abbracci che sono ormai abituali. Nient' altro. In tutti i miei film non c'è un bacio. Il sesso sullo schermo è difficile da rappresentare. Meglio che stia fuori campo».

Il signore delle formiche esce nelle sale negli ultimi giorni di una orribile campagna elettorale, in cui si confondono l'Italia che è approdata a FdI e Lega e quella che ha disperso la sua forza in mille rivoli, tutti di poca e inconciliabile sinistra: secondo lei quale schieramento potrebbe esserne avvantaggiato?

«Non credo che un film abbia questo potere, soprattutto oggi. Piuttosto penso che sarà il film ad essere avvantaggiato da questo clima furibondo». 

Marco Giusti per Dagospia il 6 settembre 2022.

“Ah, noi… birbanti… Braibanti…”. Così Paolo Poli, travestito da Rita da Cascia, con tanto di parrucca con i treccioni, accennava a teatro negli anni '60 a un caso celebre e doloroso come quello di Aldo Braibanti che ora, sessant’anni o quasi dopo Gianni Amelio porta sullo schermo con “Il signore delle formiche” a risarcimento di una tragedia tutta italiana e di un processo farsa vergognoso che vedeva il professor Braibanti assurdamente accusato di plagio seconda una legge fascista che copriva indecorosamente la presenza dell’omosessualità nel nostro paese.

E quindi non prevedeva un processo e una punizione, come accadeva in Inghilterra, per l’omosessualità dichiarata. Nel caso specifico la “colpa” di Braibanti era quella di aver plagiato un suo giovane allievo, col quale viveva a Roma, ripreso prontamente dalla famiglia e massacrato con elettroshock, mentre a lui la nostra legge, dopo quattro anni di processi, sentenziò ben nove anni di carcere, che diventarono sei in appello e vennero poi ridotti a due per meriti partigiani.

Film difficile da fare, ancor più da scrivere presumo, non tanto per la storia in sé, quanto per la ricostruzione esatta del personaggio di Aldo Braibanti e il suo complesso ruolo nella cultura italiana del tempo. Studioso di insetti, poeta, commediografo, cineasta, scrittore, amico di Sylvano Bussotti, che nel film diventa un certo “Vanni Castellani”, di Alberto Moravia, di Alberto Grifi, di Carmelo Bene, legato a esperimenti teatrali come quelli del Living, attivissimo inchiestista politoc su Quaderni Piacentini, cosa che qui scompare del tutto, ma anche provinciale a Roma come già lo era stato Pasolini.

Luigi Lo Cascio ne dà un ritratto preciso di intellettuale chiuso in se stesso, quasi in una torre di superiorità, cosciente della sua intelligenza ma che sentenzia un filo troppo. Ma forse, a ben ricordare, allora, gli intellettuali isentenziavano tutti un po' troppo, con le frasi a effetto, cosa che faceva davvero effetto sui giovani del tempo. E, parlo per esperienza. L'idea di plagio altro non era, in fondo, che il fascino un bel po' predatorio che tanti di questi intellettuali spargevano fra i loro giovani amici e amiche. Pratica diffusa al di là dell'essere omo o etero.

Anche perché la differenza tra gli omosessuali alla Bussotti o alla Paolo Poli, più esibiti, più chiari, e alla Braibanti, più chiusi, in giacca e cravatta, era piuttosto chiara. Anche se la giacca e la cravatta, a teatro come alla Rai come nei giornali anche non di partito, mascheravano parecchio. Certo, la grande ventata libertaria sessantottina avrebbe cambiato un po’ le cose, ma nella prima metà degli anni ’60 non era facile capire come muoversi e cosa aspettarsi in ambienti non così protetti come quelli del teatro d’avanguardia o del cinema di Pasolini-Visconti-Bolognini o delle piccole comunità gay a Roma. 

E comunque, e in questo il film di Amelio ci prende, pure un partito come il PCI o un giornale come “l’Unità”, aveva un problema di evidente imbarazzo a difendere Braibanti omosessuale partigiano e dirigente di partito. Anche se la ricostruzione della redazione del giornale non mi sembra riuscita.  Detto questo “Il signore delle formiche” ci racconta, con qualche omissis e qualche nome cambiato una storia che andava raccontata trenta-quarant’anni fa, ma siamo fatti così, arriviamo sempre in ritardo, colpa dei produttori, si dirà, ma anche colpa di una certa codardia nel tentare imprese difficili da raccontare e da far digerire nel sistema maschilista e patriarcale della cultura italiana.

Del resto siamo ancora impegnati sul caso Moro e chissà quando spiegheremo al cinema il ritorno del fascio-sovranismo di meloni e Salvini. Uno sguardo meno lontano dalla storia, avrebbe potuto coprire qualche ingenuità. O spingere su qualche bertoluccismo in più, che da Amelio magari avremmo gradito, specialmente nella parte emiliana, dove brilla pur senza dire una battuta il Francesco Barilli protagonista di “Prima della rivoluzione” o la Adua di Gina Rovere che ci rimanda invece all’Adua di Pietrangeli, e dove si muove con grande attenzione e partecipazione il Braibanti di Lo Cascio, che poteva diventare un po’ più personaggio bertolucciano alla Gianni Amico.

Personaggi, ahimé, che da anni non esistono più, come non esiste più Gianni Amico e tutto quel mondo di intellettuali di provincia che fecero la nostra nouvelle vague e la nostra rivoluzione, anche teatrale (come Bussotti) . Non mi piace tanto, confesso, una sorta di messa in scena col personaggio che apre bocca come fossimo in uno sceneggiato anni ’60, che forse è una cosa voluta da Amelio per riportarci a quel mondo. 

 E trovo estremamente curioso il momento, importante nella storia, della vecchia madre di Braibanti che legge sotto i portici della sua città la lettera del figlio, finalmente un editore gli pubblicherà un libro, mentre la macchina da presa scopre la scritta terribile ma anche un po’ comica “la casa del culatòn”, che fa un po’ troppo Nando Cicero e che sembra assolutamente voluto. Un gesto di volgarizzazione di una storia che nella realtà comunque ne ebbe parecchia.

Strutturato in due parti, la storia d’amore e la fuga a Roma e il terribile processo-gogna, che è ricostruito fedelmente dagli atti e dalle cronache del tempo, il film è pieno di figure interessanti, a cominciare dal giornalista comunista Elio Germano, l’unico che prende davvero a cuore la vicenda, a sua cugina Sara Serraiocco, dall’esordiente Leonardo Maltese, che ritroveremo nel nuovo film di Marco Bellocchio, a Valerio Binasco. Forse, ripeto, avremmo voluto qualche bertolucciata in più, qualche travelling, un po’ più cinema rispetto alla storia. Ma forse la storia, stavolta, era la più importante da raccontare.

Gianni Amelio: «Essere gay per tanti è ancora un tabù o una malattia». Stefania Ulivi, inviata a Venezia, su Il Corriere della Sera il 6 Settembre 2022.

Il regista in gara a Venezia con «Il signore delle formiche», storia del processo al poeta e scrittore Aldo Braibanti. 

«Ho fatto questo film dare voce a chi non la ha. Le cose sono cambiate dal 1968, il reato di plagio non esiste più ma ci sono ancora persone che non possono dichiarare apertamente il loro essere gay, per tanti è ancora un tabù, o peggio una malattia». Gianni Amelio torna in gara a Venezia (dove vinse nel 1998 il Leone d’oro con «Così ridevano») con «Il signore delle formiche», il racconto dello sconvolgente processo al poeta, scrittore e drammaturgo Aldo Braibanti, che nel 1968 fu condannato a nove anni di prigione, accusato di plagio (un reato del Codice Rocco, poi abolito) ai danni di un giovane, Giovanni Sanfratello, con cui conviveva a Roma.

Il ragazzo fu rinchiuso dalla famiglia in ospedale psichiatrico e sottoposto a cure atroci tra cui l’elettroshock. «È un film sulla violenza e sulla ottusità della discriminazione. E sull’indifferenza. Io c’ero, sono andato a assistere a un paio di udienze, e posso dire che era ancora più doloroso per me sentire l’indifferenza generale, a parte i radicali e un gruppo sparuto di socialisti che protestavano nei giardinetti di fronte al Palazzaccio a Roma, come mostro nel film. E alcuni appelli sui giornali in favore. Il tema del processo contro un invertito, come si diceva allora, faceva paura. E non è finita». «Il Signore delle Formiche», prodotto da Kavac film, Ibc Movie, Tenderstories con Rai Cinema, uscirà in sala dall’8 settembre con 01 Distribution

Braibanti è Luigi Lo Cascio, il ragazzo («ma era maggiorenne») a cui Amelio ha cambiato il nome in Ettore è interpretato da Leonardo Maltese, Elio Germano è un giornalista dell’Unità, personaggio di fantasia e Sara Serraiocco è Graziella, sua cugina. «Per me il caso Braibanti ma soprattutto la storia d’amore tra un uomo e un ragazzo. Durante la lavorazione io ho vissuto una storia d’amore molto tormentata. Forse il film si è giovato di questo, ho scoperto le stesse fragilità del protagonista che è diventato molto autobiografico». Anche la conferenza stampa lo è stata quando il regista se l’è presa con un giornalista, rinfacciandogli il titolo a una critica su «Hammamet». Si è tornati all’attualità grazie a Franco Grillini, presidente onorario di Arcigay: «La questione omosessuale non è risolta — ha detto mentre Amelio e il cast lo applaudivano — basti pensare al vergognoso applauso in Senato per lo stop alla legge Zan».

Luigi Lo Cascio in 'Il signore delle formiche'. "I diritti meriterebbero una rivoluzione". Arianna Finos su La Repubblica il 7 Settembre 2022.

E' il protagonista del film di Gianni Amelio che ripercorre il caso Braibanti. "Forse l'arte può sensibilizzare chi ancora parla di devianze".

Non erano le folle di Harry Styles, ma ad attendere Luigi Lo Cascio all'arrivo in motoscafo all'Excelsior c'erano due ammiratori speciali: "I miei figli, dalla terrazza urlavano "papà, papà!". Da quando è venuto la prima volta con I cento passi, che ha dato il via alla carriera cinematografica ogni edizione "è una festa di famiglia, vengono da tutta Italia mamma e i fratelli, quest'anno anche i ragazzi". In Il signore delle formiche, il toccante film di Gianni Amelio in concorso, presta il volto a Aldo Braibanti, filosofo, docente, mirmecologo, condannato per plagio al carcere nel 1968, per aver "rubato l'anima" (parole del pubblico ministero) al giovane studente di cui era innamorato e con il quale era andato a convivere, contro il volere della famiglia.

Conosceva la storia di Braibanti prima del film?

"No, cosa che mi dispiace molto per due motivi importanti. Il primo è che è stato l'unico condannato in un processo per plagio che aveva l'intento di distruggere un diverso: ha subito l'enorme torto di vedere troncata una storia d'amore importante, essere perseguitato dalla famiglia, sprofondare economicamente. Ancor di più mi spiace il fatto che non conoscevo la sua importanza politica e culturale. Non ha voluto, dopo, farsi bandiera di quanto subito, reclamare qualcosa in cambio. C'è stata nei suoi confronti una dimenticanza strana, ha inventato il teatro di avanguardia, è il primo a Roma a cominciare quella stagione, dove ci sono tutti: Memè Perlini, Giancarlo Nanni, lo stesso Carmelo Bene dice che è stato lui a insegnargli adii diversi. Era scrittore e filosofo con pensieri soprattutto adesso da ascoltare, è stato uno dei primi a parlare di ecologia, un artista totale e uno scienziato, mirmecologo. Mi spiace non averlo conosciuto e incontrato quando c'era ancora, è morto nel 2014 a novant'anni, tra le difficoltà economiche. Spero che ci sia un ritorno di considerazione per la sua opera".

Nel film, sul caso Braibanti, la sinistra e l'Unità non fanno una bella figura.

"Rispetto ai diritti civili la sinistra si preoccupava di altre cose: del lavoro, dell'economia, delle ingiustizie sociali. Non è stata capace di stare vicina alla vita reale, legata dall'identità, alla vita intima delle persone, considerandola secondaria".

Oggi il tema dei diritti civili ha un ruolo importante nel dibattito politico.

"È vero, l'asse si è spostato sui diritti civili, ma lasciando indietro conquiste del lavoro - flessibilità, disparità sociale - perché oggi si pensa che il mondo non si possa più cambiare, che la gabbia sia d'acciaio. Si lotta sul punto dei diritti civili perché è come se nel resto i partiti si equivalessero, oscillando nella quantità dentro un unico registro un unico canone, che sembra impossibile e da cambiare. Dando per scontato che non ci sarà più una rivoluzione, che il mondo in mano a certi gruppi economici: dentro un mondo guasto cerchiamo di stare meglio che possiamo, ma senza grandi orizzonti. Lo dimostra il disinteresse per la politica, lo scontento generalizzato, in cui è scomparsa la dimensione del futuro e del comune".

Braibanti non era un personaggio empatico, spesso scelse il silenzio. Ha pagato anche per questo?

"Non si poneva il problema di come porgersi. Era quel che era, con i suoi difetti, limiti caratteriali nel rapporto con gli altri. Era una persona netta. Secondo lui - ed è vero - il processo è stato costruito. La sentenza era già scritta. Ripeteva che la vera vittima era il compagno Ettore, coma insulinici e una quarantina di elettroshock, esce dall'ospedale psichiatrico e ha una vita segnata dal programma dalla famiglia, che poi lo abbandona in malattia e povertà perché 'non raddrizzabile'".

Giorgia Meloni parla di devianza, parola non lontana da quelle del processo.

"Difficile dire cose che non suonino ovvie. Queste persone vivono nel nostro stesso mondo, ma non sono attrezzati affettivamente, cognitivamente, per capire il carico di sofferenza di chi è discriminato per la sua identità, affettività. L'arte forse, con parole e immagini riesce forse adaarrivare al cuore di chi queste cose non le ha ancora pensate. Spero che il film dia il suo contributo".

Alla Mostra arriva con tre film. È anche il cardinale/papa Ugolino nel film Chiara, in gara di Susanna Nicchiarelli e in Spaccaossa di Vincenzo Pirrotta.

"Mi piaceva la sceneggiatura di Susanna Nicchiarelli, e le figure di Santa Chiara e San Francesco, un mondo rivoluzionario. Braibanti è su quell'onda lì, la sua vita era francescana, non solo per la povertà, ma per l'unione con gli altri, l'amore per la vita in tutte le sue forme, l'ecologismo. Oggi nessuno di noi potrebbe vivere un solo giorno nella nuda povertà. In Spaccaossa sono "Machinetta", giocatore di videopoker vittima della banda che proponeva a chi era in difficoltà, di farsi spaccare le ossa per incassare dalle assicurazioni, che incassavano loro".

È stato un anno pieno di cinema, per lei.

"Sì, complice la pandemia e i teatri chiusi. Ho avuto anche Delta di Michele Vannucci a Locarno, e a dicembre sono protagonista della seria Amazon The bad guy. Sono un giudice integerrimo, barbuto, cento chili di peso. Vengo incastrato, condannato al carcere. All'uscita decido di vendicarmi, cambio identità, mi trasformo fisicamente, entro nel mondo dei mafiosi spacciandomi per uno di loro. È una comicità assurda, ma funziona".

Il cinema la vede più in ruoli impegnati.

"Sì, ma io vengo dal cabaret. Da studente di medicina facevo teatro da strada e cabaret nel gruppo 'Le ascelle', sketch sulle secrezioni del corpo umano, dal sudore al resto. Eravamo un gruppo di palermitani a Bologna, ex atleti e supporter della nazionale atletica leggera. Ci pagammo il viaggio a Helsinki con spettacolini a ogni tappa del viaggio. All'Accademia ho portato Petrolini, facevo parti comiche. I cento passi e Luce dei miei occhi, entrambi a Venezia, sono stati i film che hanno acceso l'interesse dei registi. A Venezia sono venuto dieci volte, per me è ogni volta è un ritratto di famiglia che si allarga".

Amelio, storia d'amore, di plagio e d'autobiografia. "Il signore delle formiche" racconta il caso Braibanti, quando (nel '68...) l'omosessualità era una malattia. Pedro Armocida il 7 Settembre 2022 su Il Giornale.

La storia è stata raccontata con precisione nel bel documentario di due anni fa di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese dal titolo Il caso Braibanti. E cioè il processo, nel fatidico 1968, al drammaturgo, poeta e mirmecologo Aldo Braibanti con l'accusa di plagio per aver sottomesso alla sua volonta, in senso fisico e psicologico, un suo studente e amico maggiorenne. Il ragazzo, per volere della famiglia che portò Braibanti dietro il banco degli imputati, venne rinchiuso in un ospedale psichiatrico e sottoposto a una serie di devastanti elettroshock, perché «guarisse» da quell'influsso «diabolico». Braibanti fu condannato a nove anni di detenzione.

Ora la vicenda, che ripropone uno spaccato dell'Italia in cui le persone omosessuali venivano definite «invertiti» o «pederasti» e ovviamente il processo basato sul reato di plagio voleva colpire questo tipo di «devianza» , è diventato un film presentato in concorso a Venezia 79, Il signore delle formiche, diretto da Gianni Amelio che fa un'operazione simile a quella del Craxi in Hammamet, innestando una vicenda reale nella sua (auto)biografia più politica o personale. Perché è vero che il racconto del personaggio di Aldo Braibanti, interpretato con straordinaria aderenza da Luigi Lo Cascio, segue esattamente quello storico dal laboratorio artistico di Castell'Arquato in provincia di Piacenza, agli anni romani e al processo ma Amelio, insieme agli sceneggiatori Edoardo Petti e Federico Fava, poi inizia a inventare la realtà siamo pur sempre in un film di finzione cambiando il nome e cognome alla giovane vittima di tutta questa vicenda, che qui si chiama Ettore (bravissimo l'esordiente Leonardo Maltese) mentre nella realtà è Giovanni Sanfratello, e costruendo un peculiare personaggio, il giornalista dell'Unità Ennio impersonato da Elio Germano. «Non potevo tacere il nome di Braibanti che è il focus del film spiega il regista ma ho cambiato i nomi della famiglia vera perché non volevo che la storia diventasse un fatto personale mentre invece volevo che rappresentasse una famiglia simbolica classica della provincia italiana». Questa invenzione, se da una parte esclude dal ricordo, e dalla denuncia di quanto gli è accaduto, la principale vittima, lobotomizzata, della vicenda, dall'altra apre il film agli spunti più autobiografici del settantenne Gianni Amelio che, solo qualche anno fa, ha fatto coming out: «Certe parole sono state dette a me, quando avevo 16 anni, e nel film le faccio ripetere ad un personaggio in calabrese, perché io sono calabrese: L'omosessuale ha due scelte, o si cura o si ammazza» sottolinea il regista de Il signore delle formiche che uscirà nelle sale domani.

Sembra proprio che Amelio abbia voluto chiudere alcuni conti personali con il suo passato perché, attraverso il personaggio del giornalista dell'Unità ossia, ricordiamolo ora che non c'è più, il quotidiano organo del Partito Comunista italiano attacca proprio quell'area politica. Spingendosi a mettere in scena un caporedattore, anche qui interpretato con grande efficacia da Giovanni Visentin, che censura gli articoli del suo giornalista sul caso Braibanti spingendolo addirittura alle dimissioni. Sui titoli di testa del film campeggia la scritta «Liberamente ispirato a fatti accaduti negli anni Sessanta» per cui è indubbio che Amelio abbia voluto raccontare la «sua» esperienza di realtà celebrando invece il Partito Radicale che, grazie a Pannella omaggiato con l'immagine di una Emma Bonino ripresa al giorno d'oggi che però ha iniziato a fare politica successivamente, nel '74, è stato quello che ha capeggiato la protesta di tanti intellettuali, da Moravia a Pasolini a Marco Bellocchio che ora è il produttore del film con Ibc Movie, Tenderstories e Rai Cinema, contro un processo scandaloso, arrivando poi, nel 1981, alla cancellazione del reato di plagio.

Un film dunque molto personale come evidenziato dallo stesso Amelio che, all'inizio della conferenza stampa, prima di aver avuto un diverbio con il critico dell'Espresso Fabio Ferzetti per un titolo di due anni fa su Hammamet, si è confidato così con i giornalisti: «Ci sono in me delle fragilità umane che io ho rivissuto con questo film. Ho scoperto le stesse fragilità di Aldo Braibanti, questo ha giovato al film ma non a me come persona. Penso di aver dato il massimo come regista. Braibanti si è innamorato, mi sono innamorato anch'io. Non mi è andata male come a Braibanti, non sono andato in carcere come lui ma sono chiuso in un mio carcere personale. Sono l'uomo più disperato del mondo».

Emanuele Crialese racconta la sua storia di uomo transgender: «Per cambiare il nome sul passaporto ho dovuto lasciare un pezzo del mio corpo». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 4 settembre 2022.

Il regista è a Venezia con «L’immensità», storia autobiografica: «È il film che inseguo da sempre, ora sono pronto»

«Che importanza ha che sia stato una donna? Quello che conta è ciò che faccio oggi. Sono un uomo e una donna come gli altri? No: sono io. Ho fatto cinema nella speranza di raccontare un giorno questa storia». 

Emanuele Crialese torna in gara al Lido con «L’immensità» (esce il 15 per Warner) e una musa chiamata Penelope Cruz. È nato — è lui a dirlo — Emanuela: è diventato Emanuele. Nell’ambiente un po’ si sapeva, lui la racconta oggi, questa storia che non potrebbe essere più intima e personale: quella di una bambina che si sente maschio. 

La sua storia. «Sì, mi riguarda molto da vicino. Ma non è un film sulla transizione e sul coming out, sarebbe disinformazione dirlo. È un film fortemente autobiografico». 

Roma, Anni ’70, un marito traditore seriale che picchia la moglie, lei lo subisce, della figlia maggiore dice: si chiama Adri. «Hanno una connessione forte – racconta Penelope - la casa per loro due è una specie di carcere, la figlia dice mi avete creato male, e che viene da un’altra galassia, invoca un extraterrestre che la porti in un’altra dimensione. Ho fatto questo film anche per il tema delle violenze domestiche». 

Crialese, perché ora?

«È il film che inseguo da sempre, il più desiderato. Ora sono pronto. Se l’avessi fatto prima sarebbe stato palloso e didascalico, un poveraccio che usa la crisi di genere. Ho aspettato per avere consapevolezza di me e del linguaggio cinematografico. Si può raccontare una storia quando si è capaci di esprimersi. Una rinascita. Ero pronto a rinascere con questa storia». 

È stato molto coraggioso.

«Io sono quello che sono, perché devo rassicurare? C’è bisogno che dica io sono maschio o femmina? Sono quello che lei ha davanti, non basta? Sono e non sono, essere o non essere… Spero di non minacciare nessuno. Voglio dire una cosa politica: questo Paese sta cambiando, siamo impauriti, tutto si può fare tranne avere coraggio. La donna è la parte migliore dell’uomo che sono, è quella dentro di me, è l’oggetto dei miei desideri, è lei che ascolto più volentieri. La donna è un campo di battaglia, dà la vita, allatta, rinuncia, si sacrifica, ha lottato per emanciparsi. Descrivere un uomo sarebbe noioso». 

Sua madre?

«Si nascondeva insieme a me, abbiamo vissuto l’immensità. Non sapeva dove sbattere la testa. I tempi sono cambiati. La mentalità è la stessa. Il personaggio del padre (Vincenzo Amato) non è mai cresciuto, è rimasto un bambino, la madre l’ha autorizzato a comportarsi in quel modo con le donne». 

Lei sul passaporto…

«Per cambiare la A con la E del mio nome, ho dovuto lasciare un pezzo del mio corpo, il pegno che mi ha chiesto la società, sennò non avrei potuto cambiare nei documenti. Ne parlavo col regista Inarritu, non c’è film che non sia autobiografico. Si raccontano le proprie ossessioni e passioni. Da “Terraferma” a “Nuovomondo”, ho sempre fatto film sulle migrazioni, sulle transizioni anche da un luogo all’altro. C’è molta trasfigurazione, non giro documentari, è la mia esperienza di vita. Il cuore del film è la libertà, come si possa cambiare, come l’identità sia un fatto relazionale. La casa è una sorta di navicella spaziale, è il corpo non c’è nulla di realistico, dentro c’è il cuore e il cuore è malato. I bambini ci portano oltre i nostri confini e i tre figli esprimono il disagio attraverso il corpo, mangiano troppo o non mangiano…». 

Il suo alter ego nel film è Luciana Giuliani: come l’ha trovata?

«Ha 13 anni, sarebbe stata un errore cercarla in chi vive quel disagio, ho pensato a una disciplina sportiva maschile, Luciana è una campionessa di mini motociclette. Compete con i maschi. È difficile gestire un adolescente sul set, vengono trattati come dei, lei doveva cercare il suo spazio di libertà». 

Penelope Cruz?

È l’archetipo femminile, è una donna del passato, presente e futuro. Parla l’italiano con accento spagnolo, una sporcatura, avrebbe potuto parlare in romanesco ma ho preferito così». 

A un certo punto, lei si sovrappone nelle immagini a Patty Pravo e Raffaella Carrà, due icone del mondo gay.

«Raffaella è un mito per Penelope, che però non ha mai conosciuto ma in Spagna ballava le sue canzoni al parco per le amiche della nonna. Volevamo invitarla sul set, è morta qualche ora prima. Da 18 a 60 anni, è sempre rimasta fedele a sé stessa, ma sempre moderna. Patty Pravo… La vidi a Roma che usciva da una Rolls Royce bianca con degli occhi che mi facevano paura, è uno stordimento, un vortice. Le persone che si amano di più è meglio non incontrarle». 

Emanuele, ha parlato con la sua famiglia d’origine?

«Se fosse stato il mio debutto le reazioni sarebbero state scomposte. Trattandosi del mio quinto lavoro non c’è stato il panico, ma curiosità e preoccupazione rispetto alla verosimiglianza dei personaggi». 

Cosa vorrebbe che arrivasse di questa storia?

«Che ho fatto un film, affrontando una grande prova di coraggio. Mi sono esposto, non dal punto di vista sessuale ma nella mia privacy, nella mia dimensione umana».

Francesco Piccolo vince lo Strega. Fulvio Abbate attacca: un nome imposto dalla P2 culturale di sinistra. Il secoloditalia.it venerdì 4 Luglio 2014.

Alla fine the winner is… Francesco Piccolo. Lo sapevano tutti. Lo avevano scritto tutti. E si chiama infatti Il desiderio di essere come tutti (Einaudi) il libro che ha vinto il premio Strega, benedetto dal mainstream fin dalla sua uscita perché perfettamente in linea con lo spirito del tempo: pagine dove trovi il rimpianto dell’era berlingueriana e il disprezzo per ciò che sarebbe avvenuto dopo. E Tutti, ricordiamolo, era il titolo dell’Unità per i funerali di Berlinguer (giornale cui Piccolo ha collaborato sotto la direzione di Concita De Gregorio). E’ stato notato che lo slogan renziano “cambiaverso” allo Strega non funziona, quell’ambiente che certifica l’alleanza tra il potere e le case editrici che sono i veri suggeritori dei potenti è impermeabile a ogni forma di rottamazione. Lo scrittore Fulvio Abbate è stato il più tenace nel criticare l’arroganza con cui quella che lui chiama “la P2 di sinistra” ha imposto la vittoria di Piccolo (già vincitore del David di Donatello per la sceneggiatura de “Il capitale umano” di Virzì e autore del festival di Sanremo targato Fazio).

“Ha vinto la prevedibilità” – sottolinea Fulvio Abbate, che aveva provocatoriamente candidato allo Strega il suo ultimo romanzo, Intanto anche dicembre è passato. “Da mesi noi sapevamo che questo signore avrebbe vinto lo Strega e lo ha vinto al di là di qualsiasi ritegno. Io ho votato Scurati turandomi il naso. Ma il controllo dei pacchetti di voti è tale che loro sapevano già che Piccolo avrebbe vinto e la sicumera s’era già vista quando lui è andato da Lilli Gruber in tv”.

Abbate non nega che il marketing su Berlinguer abbia avuto un suo peso: “Sai, Berlinguer è una specie di Padre Pio della sinistra che non ha più luogo, questo è un libro strumentale che si serve di questi elementi avendo un supporto pubblicitario e di consenso notevole. Già da prima che uscisse si aveva la certezza che avrebbe vinto lo Strega”. Un premio che è stato vinto, in realtà, dalla P2 culturale di sinistra che sarebbe “veltroniana nell’intimo”. Questa la tesi di Fulvio Abbate: “altrimenti non si spiegherebbe come mai hanno vinto lo Strega Veronesi e poi Nesi”. 

Anche Piccolo vince, alla fine, perché “è organico a una certa narrazione della realtà che è quella che discende dal veltronismo dove la complessità è solo apparente. Allo Strega vincerebbe anche una risma di fogli di carta bianca se lo imponesse la P2 culturale di sinistra,…di Fulvio Abbate 

La Rai è proprio irredimibile. Chiunque venga messo a dirigerla rimane sconfitto. Goffredo Pistelli su italiaoggi.it il 04/11/2016 ITALIAOGGI - NUMERO 262   PAG. 7  DEL 04/11/2016

Definire Fulvio Abbate non è semplice o forse lo è: artista, scrittore, giornalista, culturalmente situazionista, «ingestibile» come dissero a L'Unità quando gli tolsero la collaborazione, che durava da molti anni. Abbate, palermitano, classe 1956, nobiltà nel sangue (marchese), è certamente un uomo libero, che vive in una città ormai detestata: «Roma è un grumo di aggregati, di piccole borghesie senza costrutto, dove il massimo che ti è concesso e di essere condomino», dice al telefono. Alla sua città adottiva, Abbate ha dedicato un libro, Roma vista controvento, uscito per Bompiani nel 2015, che è una sorta di scavo antropologico dell'Urbe.

Intellettuale fuori dal mainstream, forse perché si scaglia sovente contro «la P2 culturale di sinistra», Abbate conduce dal 1998 un esperimento unico: Teledurruti, «un'opera d'arte, un laboratorio permanente», ossia un'emittente che espone l'Abbate pensiero in tutti suoi acuti e le sue spigolosità e che, dal 2007, è diventata un canale YouTube.

Domanda. Abbate, con lei che fa la tv più autenticamente culturale che ci sia, voglio cominciare chiedendo che cosa pensa dalla Rai.

Risposta. Ma no, come Leonardo Sciascia diceva della Sicilia, anche la Rai è irredimibile.

D. Come anche si diceva un tempo anche dei Paesi del socialismo reale.

R. Esattamente. Guardi per capire la Rai, bisogna andare ospiti in trasmissioni come Uno Mattina.

D. Quindi molto presto, alla alba.

R. Quella trasmissione è paradigmatica dell'Italia. Lei si mette ad aspettare, nei corridoi, che venga il suo turno, e si vede passare, nell'ordine, il nano più alto d'Italia, Pierferdinando Casini, la donna cannone, Luciano Canfora e Luciano Luthring, capisce? Uno Mattina è simmetrica un po' al mondo che Federico Fellini descriveva con Ginger e Fred, anche se pensava, lo sappiamo, al Maurizio Costanzo Show. Ecco in quella trasmissione capisci un po' un'Italia ministeriale, se vogliamo.

D. Insomma, i tempi del «Nazionale», come si chiamava una volta Rai Uno, non son mai passati?

R. Quella è una sorta di cinemondo nazionale, dove, dal punto di vista dei contenuti, verifichi l'insipienza di autori pavloviani...

D. Ossia che si ripetono, per riflesso condizionato.

R. Massì, magari si trovano lì per ragioni di clientela. Trovi, magari, la figlia dell'alto magistrato, che non capisce nulla, che forse c'ha qualche problema di talento spicciolo, ma che è lì, intoccabile.

D. Carlo Freccero, grande uomo di tv, messo in cda dal M5s perché ne fosse la coscienza critica, non pare aver dato grandi contributi finora.

R. Freccero potrebbe, nella sua posizione, sostenere che l'intero palinsesto Rai fosse affidato a Cattelan...

D. Alessandro, il presentatore?

R. No, dico proprio Maurizio Cattelan, l'artista.

D. Oddio, il ditone del vaffa, i bambini appesi, il Papa accasciato...

R. Cattelan fa solo cose glamour, non c'è la cultura del sabotaggio in lui, solo dominio del glamour.

D. Senta, ma la Rai renziana, quella del direttore generale Antonio Campo Dall'Orto, non ha ancora dispiegato i suoi effetti?

R. La questione è semplice: il Paese reale vuole la merda.

D. Tanto per non girare intorno al problema.

R. È così. Ogni tanto arriva qualcuno che dice: «Noi gli diamo la merda ma guarnita di praline».

D. Una pralina di cose alte, per addolcire il sapore. Facciamo un esempio?

R. Sì, la pralina può essere la trasmissione di Walter Veltroni.

D. 10 cose con Flavio Insinna, il nuovo sabato italiano.

R. In questo caso è esemplare, con un chiaro intento didattico, detto tra virgolette.

D. E senza le praline, cacca pura?

R. Il Paese vuole Maria De Filippi, un sabato di prima serata che assomigli al calendario missionario, ha presente? La negretta in lacrime, il focomelico che dipinge coi piedi o con la bocca.

D. Ci potrebbero essere alternative?

R. Ci potrebbe essere Bebe Vio, una persona disabile, che però ha una sua propria dimensione erotica. Invece siamo fermi, al format del vecchio con la pipetta, del clown con la lacrima.

D. Ma la Rai renziana, secondo lei, come potremmo immaginarcela?

R. Il format perfetto era quello della Leopolda, il palco della stazione lorenese. E infatti la trasmissione di Veltroni è un po' questo. Ma più il simbolo della tv renziana è Pif.

D. Il suo concittadino Pierfrancesco Diliberto, adesso nei cinema con In guerra per amore...

R. Ecco Pif è l'antimafia parrocchiale, il nuovo Marcellino pane e vino, se lo ricorda?

D. Ho pochi anni meno di lei. Il piccolo Pablito Calvo. Torniamo alla Rai renziana.

R. Mi pare che una rondine, ossia la trasmissione di Veltroni, non faccia primavera. E anche a RaiTre, non mi pare finora segnata dalla direzione di Daria Bignardi. Ma d'altra pare i futuri palinsesti se li creeranno gli stessi telespettatori, coi propri telefonini, su.

D. Di che parliamo, lei dice?

R. Sì, perché, in collegamento diretto via Facebook, i ragazzi e le ragazze si riprenderanno mentre si masturbano, poi avremo gli scoreggiatori che incendiano i propri peti, quelli vanno già fortissimo. Una vampa e tutti a ridere! Poi un po' di morgue, perché ai ragazzi piace già Grey's Anatomy Quello sarà.

D. E se domani arrivassero i grillini a Saxa Rubra, come potrebbe cambiare la radiotv di Stato?

R. Immaginare una Rai a cinque stelle, è qualcosa di spettrale. Basta considerare che il loro Starace, Rocco Casalino...

D. Stella del primissimo reality show, oggi portavoce alla Camera del movimento.

R. Dica piuttosto uno degli oggetti di scherno della Gialappa's band.

D. Vero anche questo. Indimenticabile serie, quella, con l'altro protagonista, soprannominato Ottusangolo. Mi scusi, Casalino sarebbe Starace, nel senso di Achille, capo del Partito fascista, o di Francesco Storace, che guidava la commissione parlamentare Rai?

R. No, non dicevo Storace «epurator», come si chiamava allora. Intendevo Starace, proprio il protagonista dei sabati fascisti. Ora, è pur vero che John Cage andò a Lascia o raddoppia, ma non mi pare che Casalino, fino a oggi, abbia toccato alcuna vetta.

D. Come dovremmo immaginarci questa Rai pentastellata, dunque?

R. Non riesco ad andare aldilà del solito folclore, ossia di scie chimiche, rettiliani e poligamia. D'altra parte a Roma, che è un banco di prova del M5s, per la cultura hanno preso una figura di matrice veltroniana.

D. Luca Bergamo, assessore alla Crescita culturale.

R. Ai tempi di Veltroni, faceva un famoso festival, sostenuto dal Campidoglio, Enzimi. Ma anche per l'urbanistica, mi pare che abbiamo dovuto prendere uno da sinistra.

D. Paolo Berdini, professore de La Sapienza.

R. Sì, insomma, girano a vuoto, non hanno quadri proprio. La figura principale è la sindaca Virginia Raggi, che non ne azzecca una. O meglio, una ne ha azzeccata.

D. Ossia?

R. Il discorso all'inaugurazione della Nuvola di Massimiliano Fuksas, quando ne ha ricordato il costo eccessivo. Poi, però, è quella della congiura dei frigoriferi.

D. Scettico?

R. Insomma, non ce la vedo l'Ama (municipalizzata rifiuti di Roma, ndr) a sabotare la giunta come i camionisti del Cile nel 1973 colpirono Salvador Allende. Come ho scritto, quei frigoriferi sono diventati come il monolite che Stanley Kubrick mette in 2001, Odissea nello spazio.

D. Siamo arrivati a Roma, si può ritornare alla Rai. Quanto c'entra quell'azienda con l'Urbe?

R. Guardando la Rai, capisci la Capitale. La tv di Stato avrebbe parlato solo romanesco se Mario Riva, che le aveva dato popolarità col Musichiere, non fosse caduto nella buca.

D. Il tragico infortunio, all'Arena di Verona, che gli costò la vita nell'agosto del 1960.

R. Lui vivente, la Rai avrebbe parlato come da Cencio alla parolaccia a Trastevere. A quel punto prevalse la Rai milanese, quella di Mike Bongiorno. Per quanto fosse nata a Torino.

D. Stiamo a Roma, Abbate.

R. C'è una grande contiguità fra la Rai e la Roma dei ministeri, la Roma dei notai, dei primari. Per capire certi personaggi della radiotelevisione, alcuni volti ricorrenti, anche se non di primissimo piano, bisogna conoscere le dinamiche dei salotti di via Tre orologi o di via Tre madonne. Oppure la scala gerarchica della sanità.

D. In che senso?

R. Nel senso che questa è la città dei primari, dei medici, delle ferriste, degli infermieri e dei portanti. La Roma dei primari non può non avere un ruolo in Rai. Quella ritratta da certi Cafonal di Roberto D'Agostino, e che un tempo aveva trovato sponda nella Dc.

D. E le città politicamente successive?

R. Particolare è stata quella post-fascista dei Gianni Alemanno, che non ebbero il coraggio di toccare nulla in Campidoglio, mentre in campagna elettorale promettevano il lanciafiamme.

D. Invece?

R. Invece bastò loro essere invitati nel salotto delle sorelle Fendi. Oppure di ricevere in dote, dai socialisti, quelle ragazze, signore e signorine, che s'accompagnavano a quelli del garofano. Armi e bagagli passarono in Alleanza nazionale.

D. Riposizionamenti amorosi.

R. Bastava andare al Bar della Pace, a Piazza Navona, e vedere sfavillare assessori e qualche sottosegretario aennino che, più del potere, assaporavano l'aver accesso alle gioie del sesso.

D. Un mondo un po' in difficoltà quello della destra romana.

R. In condizioni drammatiche, ha fallito. Come la sinistra del resto. Negli ultimi tempi, prima di morire, anche Teodoro Bontempo, che ne conosceva a menadito gli elettori, la base, confessava d'essere in difficoltà. Quell'elettorato oggi ha trovato nel M5s un presidio ottimale: negozianti, tassisti, ignoranti vari, hanno visto nel M5s una forza palingenetica.

D. Succederà ai grillini, quello che è accaduto alla destra?

R. La carne è debole. Non ricorda la calata dei protomartiri della Lega?

D. A disagio nel dover vivere nella «Roma ladrona».

R. Infatti, all'inizio, Umberto Bossi diceva che avrebbero alloggiato tutti assieme, in albergo, per non farsi tentare da questa città corrotta e corruttrice. Poi è finita com'è finita.

D. In questa chiacchierata-cortocircuito, a pendolo fra tv, città e politica, abbiamo sfiorato il veltronismo, contro cui lei si è spesso scagliato.

R. Il veltronismo è un fatto culturale, che ha abbassato la flora fantastica di ogni intelletto a Roma.

D. Veltroni fu suo direttore a L'Unità.

R. Che anni. Non possono vedere una pubblicità di Telepass perché ripenso che il direttore lo forniva ai collaboratori suoi amici. Se vedo Canal Plus, mi sovviene che Veltroni mise i suoi «giovani scrittori» un po' dappertutto e anche lì.

D. Il suo antiveltronismo l'ha pagato, Abbate?

R. Non figuro dalle liste di inviti qualsiasi evento culturale.

D. Ma voleva fare il consulente anche lei?

R. Per carità, quando, Giovanna Melandri fu designata alla guida del Maxxi, e qualcuno fece un appello perché trovava discutibile quella candidatura, non comparvero in calce firme «platinum plus», anzi, la più nota fu la mia. Una città di merda. Se lei pensa...

D. Se lei pensa?

R. Che fu la città di Pier Paolo Pasolini, colui che lanciò invettive contro la televisione di Stato ed Enzo Siciliano, uno degli uomini a lui più vicini, andò a presiederla...

D. Ci sono intellettuali che pensano d'avere un ruolo diverso, prenda Lidia Ravera, assessore alla cultura in Regione.

R. Già, e perché mai c'è andata a fare l'assessore?

D. Dice che è un'abdicazione?

R. Il ruolo degli intellettuali è quello di andare a forgiare chiodi a quattro punte, come facevano i partigiani nelle officine del Tiburtino, per bloccare la ritirata tedesca. 

Caro Abbate, proprio tu, genio comunista, parli ancora attraverso i libri? PIETRANGELO BUTTAFUOCO  il 20 dicembre 2013 su Il Foglio.it

A forza di fissarti finiva che “vinceva sempre lui”. Così era Hitler che campò fino a tutti gli anni 60 del secolo scorso in Sicilia. Il Führer – intanto che passa dicembre, vengo a saperlo – trovò ingaggio come tinteggiatore a casa Abbate, a Palermo. Tutto questo quando Fulvio – artista, fondatore di Situazionismo & Libertà, titolare di Teledurruti, la tivù monolocale da dove sparge arte e sovversione contro la P2 culturale della sinistra – era ancora bambino.

Aforza di fissarti finiva che “vinceva sempre lui”. Così era Hitler che campò fino a tutti gli anni 60 del secolo scorso in Sicilia. Il Führer – intanto che passa dicembre, vengo a saperlo – trovò ingaggio come tinteggiatore a casa Abbate, a Palermo. Tutto questo quando Fulvio – artista, fondatore di Situazionismo & Libertà, titolare di Teledurruti, la tivù monolocale da dove sparge arte e sovversione contro la P2 culturale della sinistra – era ancora bambino.

Fulvio lo chiamava zio e un giorno lo portò con sé a scuola. C’era da parlare col signor maestro, papà e mamma avevano da fare e fu per ciò che Fulvio ci andò accompagnato da Hitler. Non erano proprio buone le notizie, anzi – intanto che passa dicembre, sorvolo su certi dettagli – ma non finì che Fulvio dovette prendersi, tra capo e collo, una robusta buccia dal Cancelliere del Reich nella veste di premuroso tutore?

Notizie proprio pessime furono. Ma intanto che passa dicembre, carta canta. E nel libretto delle valutazioni, questo dovette leggere il Führer: “Lo scolaro Abbate Fulvio mostra intelligenza limitata e, quel che è peggio, appare dotato di scarsa volontà allo studio, per giunta non presenta alcuna attitudine, pratica però l’igiene”.

Andava male anche in matematica, il piccolo Fulvio. E non finì che dovettero cercargli uno che lo seguisse nel doposcuola, giusto Ettore Majorana, giusto lo scienziato, quello che tutti – compreso Leonardo Sciascia – davano per scomparso? Giusto il genio della fisica teorica per fargli entrare in testa le divisioni a una cifra dovettero prendergli, a Fulvio. Non aveva però particolari qualità quel Majorana, “uno che al massimo” – leggo da “Intanto anche dicembre è passato”, il romanzo di Fulvio Abbate (edizioni Baldini&Castoldi, 15,90 euro) – “avrebbe potuto riempire un fiasco di acqua pesante, nulla di più”.

Fu dunque un’infanzia normale, quella di Fulvio. Ebbe per papà Quattroruote e per mamma Camus nel senso che i suoi genitori leggevano uno la rivista e l’altra, invece, il fascinoso autore di “Caligula”. La madre, Gemma, diceva a Fulvio di conoscerlo bene Camus. Ne aveva avuto, diceva ancora – lo diceva sempre, “la bugiarda!” – un’ottima impressione. Si erano incontrati a Parigi, la città meta di tutti i sogni di Fulvio, ma Camus è proprio un personaggio minore in questo romanzo dove grazie un pezzo di pellicola Ferrania resta un frammento che innalzerà un punto interrogativo gnoseologico: “Perché le foto a colori sono infinitamente più brutte di quelle in bianco e nero?”. In quel pezzo di celluloide c’è Hitler seduto sui gradini della cattedrale di Cefalù, si vede e non si vede, non si capisce bene ma la domanda ricorrente fa sempre epica perché nel frattempo il Führer sparisce, viene eliminato dalla mafia e questa incursione di Cosa nostra che s’intromette nelle vicende del mondo non è patafisica, per come ci si aspetterebbe da Abbate, ma una cosa tutta risolta in un inciampo dello spirito del tempo.

Intanto che passa dicembre, lo dico: in questo libro si specchia Fulvio. C’è lui in grande spolvero. E’ un libro che solo fosse una telecamera potrebbe registrare, nel lettore, tutta una teoria di sorrisi, risate, lacrime e stupore. Certo, stupore. Per come la letteratura – proprio adesso che i romanzi sono diventanti come i libri di poesia, tutta merce invenduta – possa accompagnare nel mondo dietro al mondo. E sarà per questo che glielo silenziano a Fulvio, il libro, quelli della P2 de sinistra. Sono quelli che sposando le più potenti ovvietà del luogo comune, tutti padroni del regime ufficiale per come sono – da “Che tempo che fa” per arrivare a “Sanremo”, per tramite dello stesso amministratore delegato, ossia Fabio Fazio – non capiscono questo genio così squisitamente comunista. Uno come Fulvio, appunto. E non ha certo bisogno di farsi accreditare al Festival di Mantova perché infine, lui, il manifesto di Situazionismo & Libertà, l’ha avuto disegnato da Wolinski e perciò non può che risultare troppo eccentrico, troppo anarchico, troppo avanti.

Per come è lui. Come quando scrive: “I raccomandati ci hanno occupato anche i posti dalla parte del torto. E tu, stronza, mi parli ancora di Brecht?”. Ed è un parlare a se stesso. A forza di fissarti finiva che “vinceva sempre lui”.

E dunque tu, Fulvio, parli ancora attraverso i libri? 

Post scriptum

Lui ci voleva andare a Sanremo. Ma non lo vogliono. Ascoltate la sua canzone. Con lui Rudy Marra e la Benito Marx Orchestra. 

Pietrangelo Buttafuoco. Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio. 

Eugenio Scalfari e i suoi primi 90 anni. Redazione su correttainformazione.it il 28 Aprile 2014  

Questo sito è nato per “dare voce a chi non ce l’ha” e per esprimere voci che non trovano spazio nel mainstream. Nonostante questo, pubblichiamo l’articolo di un nostro collaboratore su Eugenio Scalfari. Conoscere la sua storia è importante per conoscere la storia di questo Paese, di come è strutturato il potere culturale e i suoi legami con la politica. In particolare, con quella che Fulvio Abbate chiama la “P2 culturale della sinistra“. La storia di Eugenio Scalfari e del “Partito Repubblica-L’Espresso” fa comprendere, infatti, molto bene la deriva culturale e politica della sinistra italiana. Una sinistra passata dalla difesa dei diritti dei lavoratori a quella dei diritti “cosmetici” e che ha avuto il suo approdo finale nel Partito Democratico e in Matteo Renzi. Buona lettura.

La Redazione

Insieme a Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Enzo Biagi e Piero Ottone, Eugenio Scalfari è uno dei pilastri del giornalismo di questo Paese. Se ci limitiamo a questa vecchia generazione, la storia del giornalismo italiano contemporaneo potrebbe iniziare con Montanelli, il “principe del giornalismo”, uno che il secolo scorso l’ha vissuto quasi tutto andandosene nel 2001 qualche mese prima del crollo delle Twin Towers di New York. Classe 1909, Montanelli è il più vecchio di questa generazione di osservatori: vive le due guerre, attraversando il Fascismo con cui rompe dopo le guerre d’Etiopia e di Spagna, vede risorgere l’Italia dopo la Resistenza e osserva tutta la stagione della Prima Repubblica sino a Berlusconi, suo editore e poi nemico. Più giovani sono Biagi e Bocca, nati nel 1920, che a loro volta superano di quattro anni Ottone ed Eugenio Scalfari, entrambi del 1924. Direttore del “Secolo XIX” (dal 1968 al 1972) e poi del “Corriere della Sera” (dal 1972 al 1977), Ottone compirà 90 anni il prossimo 3 agosto – e intanto è già uscita una sua autobiografia: Novanta – mentre Eugenio Scalfari li ha compiuti il 6 aprile.

Per raccontare la storia della Repubblica di Barbapapà – questo il soprannome con cui Eugenio Scalfari viene spesso chiamato per la sua candida barba bianca che dà il titolo alla “storia irriverente” di Giampaolo Pansa – non dobbiamo sforzarci più di tanto, almeno se ci limitiamo a raccontarne gli eventi. C’è un Racconto autobiografico (appena uscito da Einaudi), che molti hanno già potuto assaporare all’inizio del “Meridiano” – La passione dell’etica – a lui dedicato (2012). Qui, mescolando quel rigore pulito della sua scrittura giornalistica e la lucida dolcezza del letterato che racconta i propri eventi personali, Eugenio Scalfari ripercorre la propria esistenza, iniziata a Civitavecchia alle 10.30 il 6 aprile del 1924. In questa città, all’ultimo piano di un palazzo ottocentesco, nella piazza centrale della città, nasce da una famiglia di origini calabresi, ma è a Sanremo (dove la sua famiglia si trasferisce nel 1938) che frequenta il liceo classico, compagno di banco di Italo Calvino.

Come Margherita Hack, anche Eugenio Scalfari a causa della guerra salterà l’esame di maturità. Questi sono gli anni – scrive – in cui “il viaggio ebbe il suo consapevole inizio”, gli anni delle letture e dei fermenti intellettuali, e anche dell’incontro con il Fascismo: “Io ero fascista. Ero cresciuto nel fascismo come tutti i giovani della mia età”, ma in qualche modo sarà poi il Fascismo ad allontanarsi da lui, quando nel 1943 il Guf (Gruppo universitario fascista) lo espelle dopo la pubblicazione di alcuni articoli su “Roma Fascista”. All’Università sceglie la facoltà di Giurisprudenza, e al termine degli studi finirà a lavorare in banca, che certo sarà anche “una specie di finestra aperta sulla società”.

Ma il destino di Eugenio Scalfari sembra seguire un altro disegno, simile a quello di un Kafka o di uno Svevo, impiegati anche loro – come racconta Luciano Vandelli in Tra carte e scartoffie (2013) – ma con una vocazione sotterranea per la scrittura, che in Scalfari si configura come “l’impossibilità di fare altrimenti”. Scrittura “in quanto comunicazione e quindi anche insegnamento. Insegnamento delle proprie idee e quindi anche politica”; e così Eugenio Scalfari inizia a scrivere “di economia, di politica, di filosofia. Scrivere e insegnare”. Mettendo tra parentesi l’esperienza adolescenziale di “Roma Fascista”, dobbiamo aspettare il 1947 per la sua entrata nella pubblicistica sulla “Nuova antologia”, con un saggio sulla politica finanziaria della Destra storica. Di qui le sue collaborazioni con il “Mondo” di Mario Pannunzio e con l’“Europeo” di Arrigo Benedetti con cui, nel 1955, fonda il settimanale “L’Espresso”: la linea politica è di centro-sinistra tanto che, con il Partito Socialista, Eugenio Scalfari – che si assesterà su posizioni liberali di sinistra – intraprenderà un’esperienza politica diretta sedendo in Parlamento dal 1968 al 1972.

Il 14 gennaio 1976 esce il primo numero di “Repubblica”: L’amore, la sfida, il destino. Un amore, perché Eugenio Scalfari sogna da anni di progettare un quotidiano nazionale tutto suo, di cui almeno è direttore anche se non del tutto proprietario. Una sfida, perché “Repubblica” nasce un bel giorno, dopo un periodo di propaganda, ma nessuno sa come andrà a finire – senza contare che il “Corriere”, a quell’epoca diretto proprio da Ottone, è un giornale collaudato, vende tanto ed è una vera e propria sfida raggiungerlo. Impresa non impossibile se pensiamo che il primo giorno il quotidiano di Scalfari – che apre con l’incarico a Moro e un’intervista al segretario del Psi Francesco De Martino – vende 300 mila copie; ma che si fa sempre più lontana quando una settimana dopo scende a 70 mila, assestandosi su questa cifra per due anni. Ma il destino che qui entra in gioco è quello di un direttore tenace, imprenditorialmente vincente, che ha già fatto fruttare all’“Espresso”, da direttore, un milione di copie. Ma questa è una sfida più grande, perché “Repubblica” non è un settimanale e ha la pretesa di essere il quotidiano più letto.

Oggi la sfida è vinta: “Repubblica” ha battuto il “Corriere” e, sulla scia del successo raccolto in questi anni, si è collocata sulla strada del rinnovamento. Ha cambiato grafica varie volte, ma credo che il suo successo stia nell’essere riuscita a cogliere, di volta in volta, gli umori dei suoi lettori. E oggi sta imboccando la strada di un nuovo giornalismo, riducendo lo spazio dedicato all’informazione partitica e alle notizie della giornata in generale, e sostituendolo con approfondimenti, reportage e interviste. Mentre lo spazio del commento si è sviluppato, “R2” è diventata più ampia. I giornali, definiti da Hegel “la preghiera del mattino dell’uomo moderno”, stanno cambiando anima e bisogna prenderne atto: non possono più aspirare ad essere la principale fonte di notizie perché ormai il loro posto è stato occupato dai loro siti, questi sì, i veri “quotidiani”. E al quotidiano cartaceo non resta che mettersi l’anima in pace, sperare di non scomparire vista la crisi degli ultimi anni che ne ha drasticamente ridotto le vendite, affrontando il cambiamento, l’unico possibile, prima che sia troppo tardi.

Nel 1996, Eugenio Scalfari passa il testimone della direzione di “Repubblica” a Ezio Mauro (tuttora in carica), ma continua ad esserne editorialista di punta e a tenere, sull’“Espresso”, la rubrica Vetro soffiato. Ogni domenica, sul lato sinistro, c’è il fondo a sua firma che continua nella pagina dedicata ai commenti. È “la messa cantata della domenica”, lo spazio istituzionale riservato al fondatore, col passare degli anni sempre meno formale, nel senso che qui Scalfari parla di politica, di economia, ma anche di tutto ciò che gli passa per la testa. È una sorta di “flusso di coscienza” l’“articolo scalfariano”, cioè – scrive Alberto Asor Rosa nel suo saggio introduttivo al “Meridiano” – “un mix estremamente sapiente di analisi, informazione, intrattenimento e giudizio politico e civile”; e non è strano sentire citare Montaigne o Cartesio e qualche riga dopo leggere una bacchettata a qualche collega o direttamente al presidente del Consiglio.

A partire da questi anni, la scrittura giornalistica – di analisi e di commento dei fatti della politica, dell’economia e della storia – viene completata con un’altra dimensione, che potremmo definire “letteraria”, fatta di riflessione su di Sé e sulla natura umana. Eugenio Scalfari abbandona quel linguaggio tagliente tipico dei suoi scritti più impegnati e dà vita ad una “riflessione saggistica etico–filosofica”: Incontro con Io (1994), L’uomo che non credeva in Dio (2008), Per l’alto mare aperto (2010), Scuote l’anima mia Eros (2011) e L’amore, la sfida, il destino (2013), ovvero “un viaggio dentro me stesso, ma non per tracciare un’autobiografia psicologica, bensì per raccogliere un materiale documentario utile a raccontare la natura della nostra specie”.

Eugenio Scalfari ha scritto moltissimo, ha intervistato grandi personaggi (da Berlinguer a papa Francesco) e ha svolto attività politica, non solo attraverso la penna, ma anche in Parlamento. La sua figura potrà non piacere, il suo narcisismo (di cui del resto non ha mai fatto mistero) potrà irritare: ma le sue idee, proprio perché impresse sulla carta, saranno giudicate dai posteri e potranno essere condivise o criticate. E Scalfari meriterà comunque di essere degno di rispetto: e per la sua storia e per l’influenza che il suo modo di fare giornalismo ha avuto sulle generazioni a venire. 

Fulvio Abbate per Dagospia il 15 maggio 2018

Ora lo so, sono anch’io “un fascista”, e lo so grazie a Michele Serra. I fatti? Sono reduce dal Salone del libro di Torino, dove ieri ho messo in scena una sorta di “lezione” dedicata al ’68, sul modello delle dimostrazioni Tupperware di un tempo, mostrando in breve gli “oggetti” di quei giorni, come un piazzista della Storia e della rivolta. 

Lì, proprio lì, qualche ora prima, giungendo trafelato nell’albergo attiguo al Lingotto, intanto che mi avviavo verso la camera, trolley pesante al seguito, dal nulla, ho visto apparire Michele Serra, proprio davanti alla porta girevole della hall dell’hotel. Subito, amichevolmente, mi sono accostato a lui sorridendogli.

Che errore madornale! Per la mia ingenuità imperdonabile, per la mia emotività, e ancora di più per l’orgoglio subiti feriti, trucidati, appesi a testa in giù come quell’altro a piazzale Loreto, una citazione cruenta, questa, che verrà ulteriormente utile per la nostra riflessione a breve come si sarà intuito. 

L’uomo, lo scrittore, l’autore di satira “preventiva” imperdibile (ancora adesso esercitata in modo esemplare su “L’Espresso”), Serra, ha infatti risposto al mio saluto affettuoso con un’immediata espressione di risentimento, meglio, con i segni facciali del puro disprezzo; la ragione del suo orrore verso la mia presunta immonda persona risiede nell’articolo che poche settimane addietro ho pubblicato proprio su questo portale, Dagospia, appunto.

Alla mia precisazione disarmata che trovavo assurdo il suo sprezzo per un pezzo che molti hanno ritenuto invece oggettivamente empatico, se non candidamente “affettuoso” (sic), Serra ha risposto, altrettanto gelidamente con queste parole, precise come lame: “Hai offeso il lavoro di mia moglie!”, esattamente così, il già inventore del giornale satirico “Cuore” e in seguito dell’ “Amaca”, riflessione quotidiana cara al lettore di sinistra con prenotazione obbligatoria su “Repubblica”, ribadito con volto gelido rivolto al miserabile, all’inemendabile. 

La cosa più orribile erano però le facce accondiscendenti delle persone che lo accompagnavano, non ultimo un dirigente della radiofonia, la più edificante e di stretta osservanza veltroniana, doppia lezione di civiltà inflitta a chi non meriterebbe neppure un cenno di saluto.

Per chi non dovesse rammentare il mio pezzo uscito qui, oltre a immaginarmi in viaggio, in accappatoio bianco griffato delle nostre rispettive iniziali, proprio con l’amico Michele, così infatti lo supponevo, raccontavo ancora di una linea di profumi per anime belle culturalmente testate che risponde al brand “Serra e Fonseca”, tutto vero, dove, fra i vari prodotti, spicca e brilla sobriamente l’“Eau de moi”, una fragranza accompagnata da un racconto esclusivo del medesimo Michele Serra, c’è tutto nel sito, nero su bianco, lo dico ai molti che non credevano fosse tutto vero, pensando semmai che si trattasse di una mia invenzione situazionista comprensiva di falso banner e istruzioni.

Adesso il Lei è d’obbligo. Domanda:  Scusi, Serra, ma se Lei, insieme alla sua apprezzata e amata consorte Giovanna Zucconi (tralascio gli altri cognomi per brevità repubblicana, compreso quel Fonseca che figura nel logo) ma se Lei, proprio Lei, maestro di satira, co-realizza, come dire, una sorta di “Arbre magique” per hipster di sinistra cui è cara la cosiddetta, sebbene esclusiva, “vocazione maggioritaria”, si aspetta forse plauso da noi “fascisti”, e tuttavia ancora adesso votati agli acidi del marxismo-mandrakismo?

Dimenticavo, all’obiezione che anche Maurizio Crozza si è premurato di riprendere nel suo show televisivo la nostra rivelazione, Lei ha risposto senza esitazioni: “Infatti Crozza è un fascista” (sic), testuale, mi smentisca se dico bugie, e all’ulteriore mia obiezione, “E dunque anch’io a questo punto lo sarei, fascista?” Ha concluso: “Sì, anche tu sei un po’ fascista”. 

Sempre accompagnato dalla complicità del dirigente della radiofonia già citato. Dimenticavo, anche quest’ultimo ha lamentato un mio precedente vergognoso twitt dove immaginavo  un’apoteosi per l’opera omnia teatrale di Concita De Gregorio proprio al già Teatro Valle Occupato di Roma, altro luogo della narrazione per anime belle di cui sopra, aggiungendo, con benevolenza, “… ciononostante ho continuato a invitarti in radio a presentare il tuo libro”, testuali anche queste affettuose parole. E’ davvero istruttivo il Salone del libro di Torino. 

Dimenticavo, lì in radio sarò io a non voler rimettere mai più piede, neppure se dovessero venirmi a prendere, quassù su uno dei Sette Colli dove abito, con la portantina, come ho scritto già sulla mia pagina Facebook: non siete voi a lasciarmi fuori, sono io a chiudervi dentro al vostro monolocale di turisti del pensiero, della letteratura e della politica, come già ho fatto quando nel 2014 ho autocandidato il mio romanzo al Premio Strega “contro la P2 culturale di sinistra”, e perfino della satira, talvolta perfino “organica”, come quella di Staino, che ha infatti dato del “bullo” a Crozza nella difesa d’ufficio PD di Serra; quanto invece al Lingotto, mi sa che l’anno prossimo, giusto per dare conforto alle opinioni di Serra, conto di giungere sul cavallo bianco del mancato ingresso di Mussolini ad Alessandria d’Egitto, sono questi i veri lussi che un artista deve donare a se stesso. 

Massimo Colaiacomo per “la Repubblica - Edizione Roma” il 18 luglio 2022.

Come trasformare un museo da deposito, prezioso e importante quanto si vuole, di testimonianze e memorie artistiche in un luogo che parla al presente del visitatore e alza il velo sul futuro? Una domanda simile pareva improponibile a metà del Novecento e non poteva certo avere risposte ovvie e scontate. 

Palma Bucarelli, storica direttrice della Gnam (la Galleria nazionale di arte moderna di Roma ) dal 1942 al 1975, è stata in questo una pioniera, una visionaria che ha rivoluzionato per quel tempo la fruizione dell'arte. Grande apertura culturale e preparazione scientifica, indipendenza di giudizio, viaggiatrice infaticabile, protagonista della vita mondana e curiosa di ogni novità, erano qualità che in lei si esaltavano grazie anche a un carattere forte e asseverativo. 

Nata a Roma nel 1910, Palma si era laureata con Piero Toesca in storia dell'arte. Al corso di perfezionamento post- laurea conosce Giulio Carlo Argan, storico dell'arte e futuro sindaco di Roma, con il quale stabilisce un rapporto, personale e professionale durato l'intera vita.

Dopo aver vinto un concorso " per la carriera direttiva degli storici dell'arte", lavora per un periodo alla Galleria Borghese, prima di essere trasferita a Napoli dove rimane per un anno. Nel 1937 torna a Roma, ispettrice alla Sovrintendenza del Lazio. Su questa circostanza aleggiavano già all'epoca non poche voci: si disse che il suo rientro a Roma fosse stato favorito da Paolo Monelli, prestigioso giornalista, suo compagno e molto amico di Giuseppe Bottai, ministro della Cultura nel regime fascista.

Oppure da Argan, collaboratore, con Cesare Brandi, dello stesso ministro. Senza escludere che sia stato lo stesso Bottai, di sua iniziativa, invaghito della giovane Bucarelli, ad accogliere la richiesta di trasferimento. Perché Palma aveva bellezza e fascino, capace di sedurre chiunque. Il buon Monelli ne fu ammaliato, se è vero che dal loro primo incontro, nel 1936, aspettò 27 anni prima di sposarla, nel 1963. 

Sulla vita privata di Bucarelli, però, fa aggio il suo profilo di sovrintendente innovatrice se non proprio rivoluzionaria alla Galleria. 

Amante e mecenate della pittura astratta e informale, la sua apertura all'arte contemporanea, con la costruzione di percorsi didattici e cicli di conferenze per favorirne la comprensione a un più ampio pubblico incontrò non pochi ostacoli e resistenze, al punto che arrivarono interrogazioni parlamentari. 

Come quelle di Mario Alicata, geloso custode dell'ortodossia estetica marxista, nel 1951, mentore di quel "realismo socialista" lontano dai gusti della Bucarelli. E l'anno dopo, una nuova interrogazione per denunciare l'acquisto di opere di Klee, Ernst, Giacometti e Picasso. Fra gli italiani Morandi, Scipione, Savinio.

E ancora Perilli, Consagra, Dorazio, Turcato, Corpora, Scialoja, Capogrossi. 

A ogni acquisto e a ogni grande mostra ( Picasso, Scipione, Mondrian) si accompagnano polemiche infuocate da parte della politica. Solo negli anni Sessanta arrivano i primi importanti riconoscimenti. È il caso del ciclo di conferenze, nel 1961, negli Stati Uniti e la nomina, nel 1962, a commendatore della Repubblica da parte del presidente Antonio Segni.

L'ansia di promuovere quelle novità che incontrano il suo gusto non cessa con gli anni. Diventa anzi febbrile se è vero che Palma decide di imprimere un'inedita svolta all'attività della Galleria ospitando gli spettacoli di Tadeusz Cantor, i concerti di Nuova Consonanza, la mostra di Piero Manzoni ( 1971) con il controverso acquisto della " Merda d'artista", con ovvie e inevitabili nuove interrogazioni parlamentari. La sua vita pubblica si conferma un crocevia di polemiche feroci seguite automaticamente da altrettanti riconoscimenti. Così nel 1972 riceve la Légion d'Honneur e diviene Accademica di San Luca, per essere nominata, nel 1975, Grande ufficiale della Repubblica. Lasciata la Galleria per la pensione, prima di morire, nel 1998, dona una sessantina di opere d'arte a quella che era stata la sua casa e in cui effettivamente abitò, dal 1952, dopo averne ricavato un piccolo appartamento.

Gli antimoderni che dicono no a ogni novità. Vincenzo Trione su Il Corriere della Sera il 12 Luglio 2022.  

C’è un ampio gruppo di intellettuali di sinistra impegnato a opporre rifiuti ideologici a qualsiasi cambiamento, portato a fare barricate contro ogni riforma e iniziativa che riguardi i beni culturali

Le concessioni dei siti archeologici per i concerti (Circo Massimo per i Måneskin e Caracalla per l’opera lirica)? Il trasferimento della Biblioteca di Storia dell’arte da Palazzo Venezia a Palazzo San Felice (a Roma)? Lo spostamento della Biblioteca Nazionale di Napoli all’Albergo dei poveri? E ancora: il patrimonio dei libri di Umberto Eco diviso tra Brera e Università di Bologna? Il prestito all’estero di alcuni capolavori? L’esposizione delle straordinarie sculture della controversa famiglia Torlonia? E l’arena da costruire al Colosseo? Domande diverse alle quali la risposta è sempre la stessa. «Io preferirei di no», come ripete il Bartleby di Melville.

Potrebbe essere, questa, la battuta utilizzata dai tanti iscritti all’ampio, diffuso e trasversale partito degli antimoderni di sinistra. Nella maggior parte dei casi, si tratta di intellettuali che condividono inclinazioni conservatrici. Da anni questo partito è in azione, impegnato a opporre rifiuti ideologici a qualsiasi cambiamento, portato a fare barricate contro ogni riforma dei beni culturali. Pur indossando la maschera dei progressisti, gli animatori del gruppo sembrano non essere mai usciti dal Novecento.

Mirano a non intaccare lo status quo, attenti a non alterare consuetudini oramai ridotte a ritualità svuotate di senso, afflitti da un passatismo rigido, ostili nei confronti di ogni avanguardia e di ogni contaminazione, interpreti di un’Italia che guarda soprattutto dietro di sé, ancorata al culto dell’antichità e del Rinascimento. I rischi insiti nelle sistematiche e prevedibili interdizioni sono chiari. Incapaci di farsi coscienze critiche, gli antimoderni di sinistra tendono a valutare in modo pregiudiziale iniziative e provvedimenti volti ad alterare l’ordine delle cose, senza entrare davvero nel merito di quelle proposte. Voci di un Paese che troppo spesso vive il presente non come opportunità né come domanda aperta, ma come inciampo della storia.

Rivoluzionari, cattolici, anarchici ed elitari. Il pantheon è questo. Francesco Giubilei il 14 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il conservatorismo ha tante facce e va da Gioberti e Croce fino ai giornalisti-intellettuali di destra

Se Giuseppe Prezzolini ha rappresentato nel '900 una figura centrale per il conservatorismo italiano, nel secolo scorso è esista una tradizione di pensiero conservatore caratterizzata da numerose figure di primo piano. Sebbene in Italia il termine conservatore non abbia mai goduto di buona stampa (d'altro canto già Leo Longanesi affermava «Sono un conservatore in un Paese in cui non c'è nulla da conservare»), è possibile tracciare un pantheon del conservatorismo italiano pur con alcune necessarie precisazioni.

In Italia il conservatorismo è stato spesso identificato come un'area culturale legata al mondo americano e anglosassone, anche se esiste una tradizione latina con proprie specificità. Dovendo riscontrare una genesi del conservatorismo italiano, possiamo identificarla già nell'antica Roma con il concetto di mos mairoum e nel Medioevo cristiano in cui si forma l'identità italiana ma anche nelle figure di Giambattista Vico e Vincenzo Cuoco, nel pensiero di Giacomo Leopardi e nel Del Primato morale e civile degli italiani di Vincenzo Gioberti.

Eppure è nel '900 che si concretizza un pensiero conservatore ben definito a partire dalla pubblicazione de La filosofia di Marx di Giovanni Gentile (uscito nel 1899) e Materialismo storico ed economia marxista di Benedetto Croce pubblicato l'anno successivo. Sebbene né Gentile né Croce siano stati conservatori tout court, troviamo in loro tratti di conservatorismo (come nel Perché non possiamo non dirci cristiani crociano). D'altro canto, a posteriori si possono individuare nel pensiero di autori che in vita non si sono definiti conservatori, posizioni vicine al conservatorismo, non essendo un'ideologia ma uno stato di natura e un modo di essere.

Fucina del pensiero conservatore nostrano a inizio secolo sono le riviste letterarie fiorentine, dal Leonardo a La Voce passando per Lacerba, con i rispettivi protagonisti e il trittico Prezzolini, Giovanni Papini e Ardengo Soffici.

Come parlare di una singola destra sarebbe sbagliato poiché esistono tante destre, allo stesso modo il conservatorismo non è un monolite, lo testimonia l'esistenza di un pensiero rivoluzionario conservatore che, sebbene sia nato in Germania nei primi anni Venti del '900, si sviluppa anche nella penisola. Riferimento è il movimento di Strapaese rappresentato da Mino Maccari, Curzio Malaparte e Leo Longanesi e le rispettive riviste Il Selvaggio, Italia Barbara e L'Italiano (antesignano di questo filone è il romagnolo Alfredo Oriani). C'è anche un conservatorismo cattolico il cui principale esponente è Augusto Del Noce, uno nazionale rappresentato da Enrico Corradini, uno estetico incarnato da Mario Praz e uno contrario alle derive della massa interpretato da Panfilo Gentile. Non a caso i teorici delle élite, Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca e Roberto Michels, costituiscono un riferimento indiscutibile.

Un contributo spesso sottostimato nella diffusione della cultura conservatrice lo hanno avuto gli editori a partire da Attilio Vallecchi, passando per Giovanni Volpe nel dopoguerra e Alfredo Cattabiani come direttore editoriale della Rusconi, oltre a Leo Longanesi, al quale si deve la rivista Il Borghese (trampolino di lancio per Gianna Preda) e il ruolo insuperabile di scopritore di talenti tra cui Ennio Flaiano. Sorte diversa toccò a Giuseppe Tomasi di Lampedusa il cui Gattopardo (romanzo a tutti gli effetti conservatore), fu pubblicato da Giangiacomo Feltrinelli. Se i temi affrontati nei libri di Guido Piovene, Carlo Sgorlon e anche Dino Buzzati con i suoi racconti intrisi di spiritualità (lo spiega la critica di Fausto Gianfranceschi all'autore bellunese) rientrano in una visione del mondo conservatrice, lo è senz'altro il piccolo mondo antico dell'autore italiano più venduto al mondo: Giovannino Guareschi.

Che dire poi del mondo giornalistico? Sarebbe sufficiente citare l'anarco conservatore Indro Montanelli ma non si può dimenticare Giovanni Ansaldo, così come il direttore del Corriere della Sera Mario Missiroli.

Essere conservatori significa avere a cuore la forma tanto quanto la sostanza, vuol dire amare l'eleganza, la bellezza, l'educazione, rispettare la natura e il sacro, credere nello spirituale ancor prima che nella vita materiale, conservare la propria identità proiettandola nel futuro, amare la patria e la famiglia, difendere i più deboli, rispettare la legge, credere nel principio di autorità. Essere conservatori è prima di tutto uno stile di vita e, chiunque incarni questi valori, rientra di diritto nel pantheon del conservatorismo.

110 anni dalla nascita. Chi era Joseph Gabel, il sociologo che smascherò la falsa coscienza. Giulio Laroni su Il Riformista il 13 Luglio 2022. 

Walter Benjamin diceva che le potenzialità rivoluzionarie di un’opera o di un fatto passato si esprimono pienamente solo in una certa epoca, in un momento propizio in cui si compie la sua “ora della conoscibilità”. Per nessuno ciò è così vero come per Joseph Gabel (1912-2004), nato il 12 luglio di 110 anni fa, il cui pensiero si abbatte come uno choc improvviso sul nostro presente. Autore di un testo fondamentale come La falsa coscienza (1962), il più importante e attendibile studio esplicitamente dedicato alla reificazione, fu uno dei più interessanti sociologi marxiani del Novecento ed ebbe un’influenza profonda sul pensiero di Guy Debord. Fu anche un attento indagatore delle dinamiche del razzismo, del maccartismo, della tortura giudiziaria.

L’intera opera di Gabel è leggibile alla luce di un tragico episodio che accade alla sua famiglia, che egli ricorda nella dedica dell’edizione in inglese de La falsa coscienza: la morte di sua madre ad Auschwitz, nel 1945. Auschwitz può infatti essere inteso come un vero e proprio luogo di reificazione, animato dall’intenzione di togliere agli esseri umani la loro facoltà di totalità concrete e di trasformarli in cose, in numeri. In termini gabeliani, si potrebbe dire che l’universo concentrazionario esprime idealmente un rifiuto assoluto della dialettica e di ciò a cui essa in ultima analisi conduce: il riconoscimento e la libertà. Esponente di un “marxismo aperto”, come lui stesso lo definisce, Gabel è immerso in un orizzonte culturale audace ed eterodosso: c’è ovviamente il Lukács di Storia e coscienza di classe, l’Adorno degli Studi sulla personalità autoritaria, la psichiatria fenomenologica di Eugène Minkowski e Ludwig Binswanger (egli ha anche una formazione psichiatrica), l’assiologia di Eugène Dupréel. E, anche se non è tra i suoi autori di riferimento, si sente in lui una profonda affinità con l’umanesimo di Erich Fromm.

Ne La falsa coscienza i temi della reificazione, dell’alienazione e dell’ideologia vengono sottoposti ad una serrata indagine filosofica, sociologica e psichiatrica, che porta alla luce il rapporto prima misconosciuto che li lega alle strutture della schizofrenia. Scopriamo dunque che certe forme di propaganda politica, di etnocentrismo, di populismo hanno in comune con il linguaggio schizofrenico un numero sorprendente di meccanismi. La prospettiva di Gabel è all’insegna di una critica immanente, che lascia parlare l’oggetto e rifiuta di imporsi dall’esterno su di esso. Il pensiero reificato è per lui soprattutto un pensiero non dialettico, un pensiero cioè che rifiuta di farsi campo di tensioni e così facendo si pietrifica, si dogmatizza, si trasforma in codice etico binario. La dialettica, parafrasando Georges Lapassade, è invece per lui una “logica della libertà”.

Incredibilmente attuali sono le sue riflessioni sul garantismo giuridico, nelle quali sottolinea il carattere reazionario del giustizialismo – che lui definisce “alienazione giudiziaria” – e afferma appassionatamente la funzione progressiva del principio della prescrizione. Questa, secondo lui, contribuisce a rendere la giustizia più dialettica e personalizzante, facendosi inoltre portatrice di un’istanza di temporalità storica. “Per il pensiero totalitario – scrive ne La falsa coscienza – l’attività antistatale è extratemporale al pari dello stato stesso. Quali che siano le sue formulazioni teoriche, è certo che in materia politica la giustizia totalitaria si preoccupa scarsamente di questioni di prescrizione e di non-retroattività.” Secondo Gabel il diritto non è separabile da una certa quota di reificazione, ma esistono degli strumenti “dereificanti” che in qualche modo arginano questa tendenza, prima fra tutti la figura dell’avvocato, da lui associata a quella dello psicoanalista.

Ma l’impressionante attualità del suo pensiero si estende a molte altre questioni. Egli ci dà ad esempio una chiave di lettura per approfondire la psicologia del razzismo andando oltre la mera denuncia. Alla base del comportamento razzista, ci dice Gabel, agisce un processo di essenzializzazione. L’individuo di etnia diversa viene visto non come una “sintesi dialettica di qualità e di difetti”, come lo sono tutti gli esseri umani, ma come un soggetto privo di sfumature, tipizzato, spersonalizzato e dunque trasformato in cosa. La sua eterogeneità viene quindi negata dalla percezione razzista, che proietta su di lui un’immagine caricaturale e pretende di ricondurlo a uno schema sempre ripetibile. Ciò ci mette in guardia dai paradigmi di tipo identitario ed essenzialista oggi così diffusi anche a sinistra, che rischiano di riprodurre a volte consciamente e a volte involontariamente i meccanismi stessi della percezione razzista.

Gabel si sofferma anche sul fenomeno del sociocentrismo (inteso qui in un senso mutuato da Piaget), attraverso il quale i convincimenti egemoni di una certa società vengono considerati come portatori di verità assolute, quasi divine, alle quali le coscienze degli individui debbano necessariamente sottomettersi. Di questa forma di egocentrismo collettivo, lo stesso che nei fascismi induce all’autorepressione del dissenso, egli indaga la funzione delirante e reificazionale. Una nozione che può rivelarsi preziosa in un tempo, come il nostro, nel quale la società – e l’assetto capitalistico che ne è alla base – viene elevata a natura, in cui sono tornate di gran moda le sanzioni sociali e i roghi delle streghe, in cui il pensiero di gruppo minaccia qualsiasi approccio dialogico al dibattito culturale. Tra le espressioni del sociocentrismo vi è anche la cosiddetta “ideologizzazione della sensibilità storica” o “storia riscritta”, che induce a dare della storia un’interpretazione piegata alle convenienze del contesto sociale in cui si vive. Un processo che Gabel definisce “reificazione del tempo” (affine a quella che oggi chiamiamo “cancel culture”) e che ritrova anche nella clinica della schizofrenia. Per spiegarlo fa l’esempio di un generale americano che si sia distinto per una condotta di grande nobiltà e che poi abbia tradito il suo Paese.

Secondo una concezione ideologizzata della storia, il suo tradimento rivela la sua intima natura di traditore. Secondo una lettura dialettica, invece, egli non si è mostrato all’altezza dei successi prima ottenuti. Con un’espressione particolarmente affascinante, Gabel ci invita a cogliere di questo generale la “melodia vitale”, il percorso di vita, a non usare il suo tradimento come lente attraverso cui rileggere la sua vita passata. Inutile dire che ciò nulla ha a che vedere con letture revisionistiche del fascismo (che sin dai suoi esordi ha rivelato la sua natura mortifera), ma anzi offre argomenti per contestarle. Gabel si occupa anche di molti altri temi. Compie ad esempio un’interessante critica dell’aggressività come comportamento antidialettico e, al contrario, allude alla carica rivoluzionaria e dereificante dell’erotismo. Dal suo pensiero radicale, umanistico e libertario potrebbe nascere, domani, una sinistra nuova. Giulio Laroni

Gianni Bonina per “Libero quotidiano” il 4 luglio 2022.  

Se nell'Ottocento Rubempré di Balzac poteva pensare che per diventare famoso gli fosse necessario scrivere un romanzo, oggi la regola è che per scrivere un libro bisogna essere già celebri. Di conseguenza un autore di talento si vede scavalcato, nelle scelte di editori e agenti letterari, anche da un concorrente di Masterchef che abbia avuto i suoi cinque minuti di notorietà. 

In libreria e negli store book arriva perciò ogni piacioneria e faciloneria, per modo che chiunque si sente legittimato a scrivere un libro, non occorrendo più qualità ma corrività. Il risultato è l'inondazione di testi inediti che si riversa su case editrici e agenzie letterarie costrette ad alzare dighe nei modi più diversi e strenui. 

La più curiosa è della Laura Ceccacci Agency che gratuitamente accetta solo i primi tre testi inoltrati per email a inizio di ogni mese, cosicché ha qualche labile chance chi è più abile su internet che chi sappia scrivere meglio. A volerne qualcuna in più occorre pagare, così da avere una scheda di lettura da conservare come effimero attestato.

Al pari della Ceccacci operano tutte le agenzie, non più solo letterarie ma soprattutto di servizi editoriali, compresi corsi di scrittura ed editing. Del resto, se incassano non più di 30 centesimi per ogni libro di 20 euro che si vende, quando ne pagano in media 100 al lettore cui affidano un inedito da valutare, farsi pagare equivale a sopravvivere. 

Ma avverte Giulio Mozzi, pioniere delle scuole di scrittura: «Le agenzie che campano principalmente con una frazione dei diritti guadagnati dagli autori sono necessariamente serie, quelle che campano con i soldi che prendono direttamente dagli autori sono dubbie». Sono dunque in gran parte dubbie?

Persino la storica Ali, oggi Tila, si fa pagare ed è anzi la più cara. Una sua scheda può costare mille euro se l'inedito supera appena i 350 mila caratteri. Anche se tra le prime in Italia, The Italian Literary Agency è aperta a tutti. 

Chiusa invece a chiunque è la Roberto Santachiara, che non ha nemmeno un sito web né una pagina Facebook. Impossibile raggiungerla se non tramite la vecchia posta ordinaria. «Di norma non parlo della mia attività - si schermisce Santachiara. - Il fatto è che non amo molto la pubblicità e in generale preferisco non apparire». Il fatto veramente è che a Santachiara non piacciono gli esordienti e gli sconosciuti. Così fan tutti gli agenti, che forse più degli editori vanno oggi sul sicuro.

«L'autore sicuro non esiste - ribatte Stefano Tettamanti, agente di lungo corso della Grandi & Associati. - Se per sicuro s' intende bravo, allora verso di lui si orientano tutti». Il problema è però che a essere bravo è chi vende, perché a decretare il talento è il mercato. Per arrivare prima a conquistarlo, oggi più di ieri, l'autore si rivolge sempre più non alle agenzie ma agli editori. 

Dice Ugo Marchetti, navigato agente della Emmeeerre: «Penso che alcuni esordienti preferiscano inviare le proprie opere direttamente agli editori anche per evitare di pagare i costi dei lavori propedeutici alla presentazione dei testi. Per moltissimi agenti è diventata ormai una consuetudine chiedere un contributo d'ingresso (talvolta sostanzioso e magari non vincolato alla proposta di un mandato di rappresentanza) per le schede di valutazione e le eventuali indicazioni di microediting. 

Un agente deve saper ascoltare ma, per esperienza, sa che è difficile lavorare con esordienti che, a detta loro, hanno scritto "un capolavoro che venderà almeno centomila copie».

Ma poi succede proprio questo: che, come per Volevo i pantaloni di Lara Cardella, 100 colpi di spazzola di Melissa P., La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano e per ultimo Le otto montagne di Paolo Cognetti, esordienti abbiano successo per ragioni proprie del mistero dell'editoria e che siano innanzitutto gli agenti a correre loro dietro. 

Di regola però succede quanto confessa Tettamanti: «Credo che gli unici a mostrare interesse per gli esordienti siano gli esordienti stessi. Gli agenti letterari se ne infischiano, non parliamo degli editori. I famigliari degli esordienti poi li strozzerebbero, prima e dopo l'esordio». Una boutade che sottende l'allergia degli agenti nei confronti dei principianti. 

Chi valuta i testi gratuitamente e non fornisce schede di valutazione (ma lascia che a pagamento l'esordiente possa rivolgersi alla Scuola Palomar che le fa da prima istanza) è l'americana Vicky Satlow che promette: «Per chi sente il bisogno o il desiderio di rivolgersi ad un'agenzia, le mie porte sono sempre aperte».

Una vera rarità nell'attuale scenario, com' è anche nel caso della Piergiorgio Nicolazzini, che valuta testi in generale senza imporre prezzi e condizioni, ma non lascia invero le sue porte sempre spalancate. 

A fare pagare ogni servizio, secondo anche la cura dedicata al testo, è la Mala Testa che non ha alcuna remora a proclamare sul proprio sito come la passione di chi lavora nel mondo dei libri non sia di per sé una ricompensa. Lo pensava già negli anni Ottanta anche Pier Vittorio Tondelli, scrittore pronto a parlare dei suoi libri solo se pagato bene.

Gli agenti letterari hanno da allora imparato come si fa e anziché i talent -scout si sono addetti a fare i talent-school. Tettamanti può così, in nome della categoria, lasciarsi sorprendere dalla svolta: «Dice davvero? Ma è sicuro? Non me ne ero accorto, ora però quasi quasi ci penso».

I libri hanno un profumo che cambia a seconda delle edizioni. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Luglio 2022.

Sfoglio un libro e ne annuso le pagine. I libri hanno un profumo che cambia a seconda delle edizioni: si va dal perentorio sentore di robusta carta al profumo elegante di certi volumi rari e preziosi, allo svolazzo tenue di un sentore di colla e fiori frammisti. Ragazzi, frequentatori di librerie, annusammo molti libri in via di verità e in metafora. Mi torna in mente questo vezzo, oggi, mentre in molti luoghi si fa fiera e mercato ragguardevole del libro.

Libro: etimologia. Viene dal latino librum, una delle tre parti della corteccia dell’albero, la più interna e morbida. Nel papiro o il lino, il libro è una lamina fibrosa. Staccata e fatta seccare, fu usata dagli antichi Egizi per scrivere. Sotto Alessandro Magno, apparve un’antenata della carta, fatta con filamenti di papiro tessuti tra loro, impastati con il fango del Nilo e lasciati asciugare. Libro passò per estensione a indicare l’insieme di fogli uniti e contenenti uno scritto. Anche il termine greco byblos (dal fenicio gybl) nasce con lo stesso significato.

Prima della foga edificatoria che, tra gli anni Cinquanta, laboriosi, e i dolcissimi e distratti anni Sessanta, cambiò il volto di Bari, le librerie furono siti rassicuranti e tentatori: Laterza era su via Sparano in angolo con Via Dante. Noi, giovani di pelo primo e ambizioso, ma anche molto civettuolo, azzardavamo paradossi e battute, bighellonando in quel «Mean corner» immancabile per gli strusci, le «vasche» fitte di conversari. Nacque la definizione del colore dell’immobile vecchiotto: «Ha il colore delle opere di Croce» edite da Laterza disse qualcuno e tutti approvammo. Quando lo rifecero, quel palazzotto, il colore restò: austero e sobrio come una lezione del Croce.

Nella vecchia libreria le file di volumi erano custodite, anzi vigilate, oltre che da pazienti e occhiuti commessi, anche da cordicelle che impedivano il prelievo, anche temporaneo, dei libri. Qualcuno i libri li rubava, ebbene si, qualcuno non resisteva e involava sotto il cappotto prede tentatrici e ambite. Non avevo cuore di fare il delatore, di allarmare il libraio. Chi lo avrebbe fatto?

Ma c’erano le bancarelle di libri usati e d’occasione che soddisfacevano le curiosità e placavano la fame di libri di quelli che non saltavano le cordicelle di Laterza: i prezzi erano miti, la varietà garantita. Trovai, una volta, intatti, volumi di letteratura che un mio compagno di scuola ricco e viziato aveva comprato tre o quattro volte per rivenderli immediatamente onde trasformarli in benzina per la motocicletta. Si trattava di quei libri preziosi e rari che in pochissimi compravano e che, nel catalogo scolastico, figuravano, con sublime ipocrisia, tra i «consigliati». Voleva dire che nessun insegnante s’aspettava che li leggessimo, né tanto meno che li comprassimo. Il compagno ricco, discolo e molto ciuccio, contava su genitori distratti e prodighi che non stavano certo a guardare quanti e quali libri comprasse il figliolo. E investiva: comprava e affrettava a rivenderli e noi, avidi di letture, a ricomprarli dalle bancarelle. Affari convenienti si consumavano sotto gli alberi di Piazza Umberto. Oggi, un luogo di orrore.

A quei tempi non c’erano le feste del libro. Una città libreria come la smagliante Polignano, non era pensabile ai tempi delle cordicelle e del libro elargito con prudenza e circospezione da un’editoria che non pensava che sarebbe diventata un’industria. M’è capitato di essere invitato e m’aggiravo tra le esposizioni opulente, tra le insegne, le luci, l’abbondanza mediatica di tentazioni e stimoli. I libri traboccano dai banchi, invadono i tavoli d’esposizione, tracimano dagli scaffali, giganteggiano su pile e torri, invitanti, tentatori, bellissimi.

È ovvio che cerco con lo sguardo la rassicurante presenza delle cose famigliari, dei nomi di casa mia, come Laterza e dei punti fermi della mia biblioteca mentale, ricordate Borges? Lo annusai tempo fa. Nessuna cordicella, nessun apparente controllo. Sembra che il libro chieda di venir via, di esserti compagno in una fuga immediata e urgente. Resistere è impensabile. Il pubblico passeggia, legge, s’incanta e s’informa, ammira e sfoglia. Si accodano cittadini, turisti e curiosi tra i quali riconosco quelli di una specie antropologica particolare che riconoscerei anche altrove: il lettore di libri. Le sue caratteristiche sono, tra l’altro, lo sguardo curioso, l’atteggiamento da cercatore, l’aspetto misto tra il modesto e sobrio e il fantasioso e gentile. Sembra che la congregazione ammicchi e renda tutti complici di un amore che solo noi sappiamo riconoscere. La folla è folla silenziosa: si sente solo un brusio ronzante d’alveare sveglio Non è cambiato molto da quando pensavamo che qualcuno dipingesse palazzi e case del colore dei libri. Mi guardo in giro scopro che ci si saluta come quando si va per mare; anche senza conoscersi. Andandomene che è quasi buio mi giro a guardarmi indietro: chi sa perché m’era parso che un codazzo di libri mi seguisse. Con i loro profumi.

La piccola editoria porta luce al Sud. «Pubblicare libri quaggiù, oltre a un problema prettamente fisico comporta di base un ostacolo concettuale». Omar Di Monopoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Luglio 2022.

Astenebrare il linfatico buiore del nostro Sud sono spesso i fari delle piccole, coraggiose realtà culturali che, a dispetto di una fatica e di un impegno solitamente mal ripagati dagli organi preposti, hanno scelto di operare sul territorio. Di sicuro possiede una sua autentica capacità d’irrorazione la luce giovane della Fallone Editore, minuta - ma combattiva - casa editrice indipendente, pugliese «per tassonomie geografiche» e radicata «nella storia e nella cultura millenarie di questa terra», eppure proiettata su una linea d’azione nazionale, sia per la distribuzione del prodotto editoriale che per l’eterogeneità degli autori in catalogo (composto, vivaddio, non solo da prosa e poesia ma anche da saggistica, letteratura per l’infanzia, scienze ermetiche e una varia che spazia dalla cinotecnica alla musicologia passando per le arti figurative, la culinaria, il fumetto e la botanica).

«Pubblicare libri quaggiù, oltre a un problema prettamente fisico (essere operativi geograficamente qui e non a Milano significa doversi spostare per tutto, con costi che pesano sul budget a disposizione), comporta di base un ostacolo concettuale: da noi non è ancora ben chiaro cos’è una casa editrice e soprattutto cosa NON è: non è una tipografia, non è un’agenzia letteraria. E il problema è che spesso ciò non è chiaro neanche agli aspiranti autori o agli addetti ai lavori in genere», ci rivela Enrica Fallone, giovane imprenditrice tarantina a capo del progetto sin dal suo varo, nella primavera del 2017. «A Taranto credo di avere un solo autore, perché dagli scrittori tarantini mi sono stati proposti spesso e volentieri solo opere di storia locale che, lo dico con tutto il rispetto, a me non interessano poiché non sono letteratura. Insomma, persiste un problema di visione, di convincimenti errati da smantellare».

Vero è che, fortunatamente, la persistenza di questi equivoci assieme alle sopracitate difficoltà legate all’ubicazione periferica rispetto ai ai gangli dell’editoria che conta, non hanno scoraggiato il lavoro di rabdomantica ricerca di talento da parte della Fallone, che fin dal suo esordio pubblica opere intelligenti e sempre di grande valore. Ci preme a tal guisa segnalare «Voce del verbo essere» di Riccardo Fiore, un romanzo-mondo di mille e passa pagine capace di evocare maestri come Bufalino e D’Arrigo; oppure il più recente «Reliquiario carnale» di Giancarmine Fiume (poesia, collana Il fiore del deserto, con la prefazione di Maurizio Cucchi); ma anche l’imminente «Incompiuta Bellezza» di Cristina Trinci (collana La Sorgente di Satyria): un giallo che è anche romanzo sentimentale, ma senza scadere nel sentimentalismo. Fallone, che luce sia, allora!

Netflix, Disney, Amazon e le altre, i nuovi padroni della fantasia: «Schiavi dell’algoritmo e del politically correct». Lo sbarco anche in Italia dei colossi digitali ha portato a un boom di produzioni. Tra grandi aspettative e vecchie diffidenze è stato uno shock per cinema e piccolo schermo. Ma non mancano le voci critiche​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​ (che temono però di essere citate per nome). Fabio Ferzetti su L'Espresso il 27 giugno 2022.  

Per capire che nei rapporti fra il cinema italiano e i colossi dello streaming c’è un problema di fondo basta fare qualche domanda in giro. Tutti hanno voglia di parlare dei nuovi padroni dell’etere, ma quasi nessuno vuole essere citato. «Ti prego lasciami fuori, con me sono stati principeschi, come faccio a criticarli?», si schermisce un prestigioso regista arruolato dalle piattaforme. «Dovevano svecchiare il nostro modo di fare cinema e tv, invece anche loro soffrono di burocrazia, lentezza e cattivo gusto», attacca uno storico sceneggiatore e regista con due progetti in cantiere. «Sono schiavi dell’algoritmo e del politicamente corretto, possono chiederti di mettere una rapina in un film ambientato nel III secolo dopo Cristo o di inserire un africano in una serie sulla mafia», insiste un autore satirico sotto contratto con una grande piattaforma. «Noi però non ci siamo mai visti eh, ho firmato un accordo di riservatezza».

E allora? Allora forse questa matassa di fatti e leggende rivela soprattutto l’eterna ansia italica di fronte agli americani. Aggravata da uno sconvolgimento planetario che in pochi anni ha travolto Hollywood e trasformato forse per sempre il consumo di audiovisivi. Fino ad alimentare, quando Netflix, Disney e Prime Video hanno iniziato a lavorare in Italia, aspettative sovreccitate e diffidenze ancestrali.

Del resto, basta dividere gli apocalittici dagli integrati per scoprire che i detrattori delle piattaforme sono in genere maschi, maturi e collettivisti, mentre giovani, donne e registi non ancora consacrati sono più morbidi e aperti alla trattativa individuale. Anche se il dubbio di fondo resta: questi nuovi soggetti dai mezzi illimitati, che grazie alle loro sedi italiane incassano anche i generosi sostegni pubblici all’audiovisivo, trasformeranno autori e produttori di casa nostra in obbedienti esecutori di scelte venute da lontano? O innescheranno una nuova ondata di creatività? In altre parole: il fiume in piena di serie e film destinati al mercato locale (e talvolta internazionale) avranno ancora qualche peso culturale o saranno solo puri, globalizzati, deperibilissimi prodotti di consumo? 

Le voci che rimbalzano dai set non sono sempre rassicuranti. C’è chi dice che le case madri decidono tutto, perfino quali obiettivi usare («Normale - ribattono i difensori - hanno standard tecnici da rispettare»). Chi prende le distanze da serie girate senza potersi nemmeno scegliere il cast («Ma è televisione non cinema, pensate che in Rai fosse meglio?»). E chi, lavorando sul comico, lamenta una rigidità che certe scene proibisce addirittura di immaginarle («Loro vogliono cast multirazziali, noi personaggi multirazzisti, se no che satira è?»). Anche se in nome di una dialettica nata col cinema e cresciuta con la televisione, finisce che delle scene più controverse magari si girano due versioni: una come da copione, una ripulita e corretta, come piace alla piattaforma.

I problemi però sono anche altri. Dietro la bolla manca un’ambizione complessiva, una cultura reale che ispiri e sostenga il boom in corso. Troppi titoli nascono come semplici prodotti realizzati per occupare spazi, sfruttando incentivi economici esistenti solo in Europa. «Temo che le piattaforme abbiano in odio i creativi, autori o produttori che siano», azzarda un importante regista che ha attraversato molte stagioni di cinema e tv. «Tolti pochi grandi nomi che servono a vendere abbonamenti e vincere Oscar, vogliono solo esecutori. Così però demotivano i nostri produttori, errore fatale perché il nostro miglior cinema lo hanno sempre fatto loro, i produttori».

Ragionamento confermato anche in termini statistici da Andrea Marzulli, direttore della sezione Cinema della Siae: «La curva del prodotto locale è sempre in calo, dall’avvento delle tv commerciali e poi della pay tv fino allo streaming, sia per numero di opere prodotte che per quote di mercato e peso del prodotto locale nell’offerta complessiva. La percentuale di contenuto italiano presente oggi sulle grandi piattaforme è irrisoria». E se fra i produttori sono in pochi ad aver tuonato contro l’ingresso delle piattaforme in Anica, Associazione Industrie Cinematografiche, c’è chi chiede norme «che impediscano di assegnare il 90 per cento dei contributi statali a gruppi stranieri che non pagano nemmeno le tasse in Italia, e il 10 per cento agli indipendenti». Anche perché il danno non è solo economico.

Lo dimostrano scelte non sempre coraggiose, come trasformare in serie grandi successi editoriali e titoli mitici. Ma se a estendere e aggiornare “Le fate ignoranti” (Disney) ha pensato il gruppo originario, Ferzan Ozpetek e Gianni Romoli con Tilde Corsi in produzione, cosa verrà fuori dalla serie Netflix ispirata al “Gattopardo” scritta e diretta da americani? E non è tutto. «Nessuno ha mai pensato di serializzare “La casta” di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, che uscì con pari successo nello stesso anno dello spremutissimo “Gomorra” di Saviano», nota uno sceneggiatore blasonato. «Lo diceva già “Boris”, il film: “La casta” non si può sceneggiare. Non è vero, si potrebbe benissimo. Solo che è un argomento tabù, e in questo fra Rai e piattaforme non vedo differenze. Peccato perché resto convinto che le serie siano la prosecuzione del cinema con altri mezzi, basta pensare a cosa ha fatto proprio Netflix in Turchia con la bellissima “Ethos”. Qui da noi però ancora non succede e c’è da chiedersi perché».

Certo è difficile immaginare che colossi quotati in Borsa come le grandi piattaforme, sensibili a ogni minima fluttuazione, possano ritrovare la spinta e il coraggio del cinema quando si reggeva sul mercato delle sale. La nostalgia però non è una buona consigliera. «Ricordiamoci che le piattaforme, anche quando fanno film, sono televisione e non cinema», ammonisce Andrea De Sica, creatore di “Baby”, tre stagioni e un successo internazionale che ha sorpreso perfino Netflix. «Gli estremismi sono provinciali. Quando le OTT sono sbarcate in Italia tutti sono andati all’arrembaggio, poi hanno scoperto che hanno logiche industriali, non da cinema indipendente. Ma la tv ha sempre controllato i contenuti più del cinema, anche Lynch per fare “Twin Peaks” doveva passare sotto le forche caudine. Il problema è capire se il tuo progetto si addice alle piattaforme e viceversa. Ma il dialogo è indispensabile».

Prosegue l’ultimo De Sica: «Quando ho fatto “Baby” avevo 35 anni e venivo da un film piaciuto ai critici che era uscito d’estate facendo due lire, “I figli della notte”. È bastato questo a farmi affidare una serie internazionale, in Italia non sarebbe mai successo. Ma ho capito che se il film è del regista, la serie è del gruppo: gli sceneggiatori, i produttori, gli altri registi, Anna Negri, Letizia Lamartire. E il broadcaster ha l’ultima parola, come alla Rai. Abbiamo discusso e anche litigato ma è stato un processo di crescita. Io avevo una visione più scioccante del mondo delle baby prostitute. Poi ho capito che il pubblico va preso per mano e portato dentro un certo sentimento poco alla volta. Il final cut, cioè l’edizione definitiva, resta a loro, in tv è sempre così. In compenso abbiamo lanciato un cast tutto nuovo».

Su questo le tv italiane sono sicuramente più caute. Ma fiuto e rapidità delle piattaforme non si fermano ai più giovani. Un talento come Renato De Maria, classe 1958, regista di film come “Paz!” (su Andrea Pazienza), “La prima linea”, “La vita oscena”, è rinato grazie al successo mondiale di un action adrenalinico con Riccardo Scamarcio, “Lo spietato”, mai uscito in sala causa pandemia. Comprato da Netflix e visto in 190 paesi, ha permesso al regista di proporre “Rapiniamo il Duce”, spettacolare thriller in costume «lontanamente ispirato alla figura del Bandito dell’Isola che in “Italian Gangsters” avevo accostato in forma documentaria», racconta De Maria, ora al mix del suo film «più ambizioso e costoso». Con Pietro Castellitto capo di un gruppo di sbandati che sopravvive facendo borsa nera e progetta di impadronirsi del tesoro di Mussolini, nascosto nel capoluogo lombardo in attesa che il duce fugga in Svizzera.

«La postproduzione è laboriosa, siamo in una Milano bombardata tutta ricostruita al computer». Laboriosa e costosa: il budget di “Rapiniamo Mussolini”, ovviamente segreto, le piattaforme non comunicano mai i dati, supera i 10 milioni, molto per l’Italia. Nel cast figurano nomi come Filippo Timi, Isabella Ferrari, Tommaso Ragno, Matilda De Angelis, Maccio Capatonda. Sui metodi di Netflix comunque De Maria, che non è certo uno accomodante, non ha nulla da ridire.

«C’è un reparto per ogni momento della lavorazione, devi convincerli di ogni scelta, ma è molto stimolante. Non mi hanno mai scavalcato, anzi ti spingono a pensare in grande. Certo non regalano niente, bisogna visualizzare tutto prima con cura. Ma il film è totalmente mio. A fine montaggio mi hanno dato un’altra settimana sul set per girare nuove scene preziose. Con gli italiani te lo sogni. Il loro stile di lavoro è contrario alla nostra tradizione... ma quale tradizione? Ne abbiamo avute tante. Io mi rifaccio al cinema di genere anni Settanta, quello di Sergio Leone e Fernando Di Leo. Dobbiamo preoccuparci per la nostra cultura? Forse, ma non ci sono solo loro sul mercato. E non dicano che l’algoritmo impone una rapina nei primi cinque minuti. Da quando lavoro mi sento dire metti tutto nei primi 10 minuti, se no il pubblico ti molla! Il primo a dirmelo fu Angelo Guglielmi a Raitre».

La cultura a rischio fallimento. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 25 Giugno 2022.  

Tutto quello che non pensiamo sia cultura è cultura. Tutto quello che pensiamo sia cultura è a rischio fallimento, in certi casi a fallimento totale. Come testimonia «ItsArt», «la Netflix italiana della cultura», secondo la definizione del suo promotore, il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini. 

Il bilancio del 2021 di «ItsArt», controllata da Cassa depositi e prestiti e dalla piattaforma Chili, dice che la società ha perso quasi 7,5 milioni di euro nel corso del primo anno di attività. 

Di fatto ha dimezzato la sua liquidità, visto che l’impresa era decollata con circa 15 milioni di euro effettivi. 

Secondo un’analisi di Luciano Capone sul Foglio, la piattaforma ha grosse perdite e incassi bassissimi: 240 mila euro (0,7 € l’anno per utente). La riserva messa da Cdp è finita e servono altri soldi. 

La cosa più triste non sono i tre amministratori delegati cambiati in poco tempo, ma la totale mancanza di una linea culturale: «ItsArt» è un modesto catalogo di varia umanità: con i soldi investiti, Rai Cultura avrebbe ora un’offerta più ricca e interessante, anche internazionale. 

Tempo fa, Franceschini aveva accusato la tv, pubblica e privata, di aver fatto danni alla cultura, tali da richiedere un risarcimento. Ecco, se il risarcimento è «ItsArt» significa che cultura è tutto ciò che non si può programmare.

Maria Francesca Troisi per mowmag.com il 25 giugno 2022.

Estate, tempo di concerti e di stadi, dai Måneskin a Vasco. E non ci sembra mica vero, dopo due anni e più di clausura, di tornare a cantare a squarciagola in spazi aperti e pure tutti azzeccati. 

E “pazienza” se creperemo perché ci tolgono l'acqua, per rivendere le bottigliette dentro, e a prezzo maggiorato. Ma per una prima fila a San Siro o all'Olimpico, si fa questo e altro, accampandosi fuori fin dalle prime luci dell'alba (del giorno prima, è chiaro). 

E quindi è un continuo di live su live, in ogni salsa possibile e immaginabile. E anche di cantanti, che a onor del vero, non avresti mai pensato potessero calcare il tappeto verde di un campo di calcio.

Come se fosse un'associazione scontata, garantire a chiunque abbia infilato un pezzo in classifica, la possibilità di cantare in uno stadio, davanti a qualche migliaio di appassionati (veri o "edulcorati"?). 

E se alcune "star" non hanno problemi a fare sold out su sold out, c'è anche chi arranca, magari perché è passato di moda, o non è abbastanza risonante. 

E così, anche Marco Molendini, tra i più accreditati critici musicali (nonché colonna storica de "Il Messaggero") si insinua a gamba tesa sulla faccenda, con un post sibillino a favor di social: "La regola del pop: se non fai gli stadi non sei nessuno". Per cui l'abbiamo contattato, assicurandoci il suo punto di vista sulla liason cantanti - stadi. E da Ultimo alla Amoroso... si salvi chi può! (Inclusi i Måneskin!)

“Se non fai gli stadi non sei nessuno”, scrive. Si spieghi meglio.

Da qualche anno vige questa regola. E fare gli stadi è diventato un biglietto da visita. Infatti, chi è in grado di raccogliere un pubblico così importante vede crescere il suo status, e il suo nome acquista valore. 

Alla fine diventa come un obbligo, e se non hai un pubblico reale per riempire, qualche escamotage si trova comunque. Insomma, non è affatto detto che siano tutti realmente capaci di raccogliere 50/60 mila spettatori.

Escamotage di che tipo? E include anche i nomi che ha messo in fila? (Cremonini, Mengoni, Ultimo…)

No, li ho citati casualmente, anzi forse sono tra i pochi che riempiono veramente. Ma come non ricordare il caso dei Modà di qualche anno fa, protagonisti di un picco di successo improvviso, e grazie esclusivamente a Rtl. E fecero subito gli stadi, senza simili precedenti. 

Da allora il meccanismo di riproduzione del percorso non si mai arrestato. E così, l’artista che viene lanciato da radio e discografici, viene improvvisamente portato a fare il gladiatore nello stadio. Ma bisognerebbe verificare quanti biglietti si vendono, e quanti sono regalati. 

Quindi si “gonfiano” i sold out…

Certo. Una volta gli stadi erano solo per i grandi artisti. Ed è giusto così, con tutta la voglia possibile di ritrovarsi, dopo oltre due anni di clausura, gli stadi non possono essere per tutti. Quest’estate, invece, c’è un eccesso impressionante. Basta una canzone in classifica, e regalano gli stadi… 

Sa che su tik tok, specialmente, era in atto una vera e propria corsa a rivendere i biglietti di Ultimo? Come se lo spiega?

Lui paga di sfortuna. Infatti, nel suo momento di crescita maggiore, siamo stati attaccati dal Covid. E chiaramente la condizione è cambiata, rispetto all’estate del 2020, considerando la concorrenza di colleghi che nel frattempo sono diventati più appetibili.

Ma la Amoroso riempie San Siro come i Rolling Stones?

Questa è una bella domanda. Riempie? Come, non lo so. Con tutta la simpatia possibile, non è una cantante che può mettere insieme il pubblico di uno stadio. Se non con biglietti regalati o dimezzati. Insomma, non tutti i nomi sono rilevanti allo stesso modo. Alla fine è un’esagerazione che illude lo stesso artista. 

E intanto spopola la polemica sulla mancanza d’acqua durante i live. Una storia che resiste da decenni, provocando malori, visto il caldo. La soluzione qual è, rivedere l’organizzazione?

Direi di sì, la mancanza d’acqua, e col caldo d’estate, specie per i ragazzi che sono in fila da ore, è inconcepibile.

E poi è un controsenso, buttare le bottigliette d’acqua (non solo i tappi!) prima di entrare, e rivenderle dentro a prezzi esorbitanti (oltre 3 euro per mezzo litro).

E certo, mica è sicurezza, è guadagno. 

Come mai da Vasco tutto filo liscio?

Dipende sempre dall’organizzazione, dal suo staff e dalle loro disposizioni.

Intanto i Måneskin hanno suonato allo Stadio Teghil (Lignano Sabbiadoro). Quindi sono pronti per un vero tour negli stadi?

Sicuramente funzionano, ma il loro successo è gonfiato oltremisura. In fondo vanno avanti grazie a una cover. Per cui bisogna vedere nel tempo, se reggeranno ancora. Più che altro, è bravo lo staff che lavora al prodotto.

Fuori dalla bolla. In questa era dell’inconsistenza c’è bisogno di editori liberali. Tiziano Gianotti su L'Inkiesta il 20 Giugno 2022.

Il mondo della cultura non può arrendersi alle mode passeggere. Le case editrici devono avere figure dotate di razionalismo critico per indirizzarle, edificarle e guidarle. Anche se la tendenza va nella direzione opposta.

Le case editrici sono fatte degli uomini che le ideano, le indirizzano, le impongono – sono gli editori. Un editore ha l’animus del costruttore: ha l’educazione del letterato e umanista aperto alla scienza, una educazione completa e affinata nel tempo: pure tutto questo lievita solo se la pasta è quella del costruttore. Costruire un catalogo editoriale è un’arte affine all’architettura. Un editore ragiona in base a un ordine: e un ordine porta con sé misure e così proporzioni; e quell’ordine è tutto, è l’editore. Gli editor sono gli assistenti di studio a cui è chiesto di sviluppare il catalogo secondo quell’ordine e quelle misure. L’editore è l’architetto.

Succede che in Italia la cultura ha trovato luogo e respiro – il respiro è importante – molto più nelle case editrici che nelle università. (Le ragioni sono evidenti a tutti –be’, quasi – coloro che sono passati dall’università italiana: non vale approfondire, non oggi e non qui). Le case editrici sono state per almeno cent’anni i bastioni della cultura italiana: lì si pubblicavano e si traducevano i testi della Modernità, le nuove edizioni e a volte critiche dei classici della letteratura italiana, europea e atlantica. Tutto questo secondo un disegno e l’ordine che dimorava nella mente degli editori: loro accoglievano i letterati adatti a diventare editor e al meglio.

(Una precisazione: intendo le case editrici di cultura, non le case editrici dette “generaliste”, ossia che pubblicano libri di ogni genere – Mondadori, Rizzoli –, oppure le case editrici che un tempo sono state luoghi dell’editoria di cultura e oggi sono anfibie, buone per la terraferma della letteratura e ottime e ben disposte per i laghi d’inconsistenza della “pura narratività” e della “pura comunicatività”, la post-saggistica – Einaudi, Feltrinelli, Garzanti – ed è un’amarezza).

L’editore è una figura fondamentale della Modernità – come l’industriale: anche lui costruttore e produttore. Non è un caso che siano due figure e due parole divenute desuete, non pertinenti alla Postmodernità: oggi, nell’Età dell’Inconsistenza, si dice imprenditore, vale a dire un mercante di denari e un venditore, non un produttore (quanto al costruttore: per la carità…); e non si dice più editore (intendo per case editrici di notevoli dimensioni): c’è l’amministratore delegato-editore, il perfetto funzionario dell’imprenditore proprietario (a volte ne è l’alias o ne porta il berretto): di nuovo un mercante e un gestore, non un produttore: un funzionario, magari del se stesso imprenditore. Non è un romanzo distopico: è l’Età dell’Inconsistenza. (Una domanda agli interessati: come hanno potuto gli industriali, i produttori a volte costruttori di modernità, accettare di confondersi e sciogliersi nella blesa galassia degli imprenditori? Mi pare di poter dire che è stato non molto onorevole, e miope). Tutto questo ha comportato una perdita secca per la cultura: il venir meno dei bastioni che in Italia sono state le case editrici – e quando dico Italia intendo quel paese europeo di recente costituzione e privo di una vera, per integrità e sostanza, cultura liberale. Le case editrici di cultura non hanno saputo affrontare la sfida posta dalla nuova Età e la sua nube tossica: l’avvento dell’impero della comunicazione,  dapprima con la ondata delle televisioni, commerciali o di stato non cambia molto, poi col dilagare dell’inconsistenza, alimentata dai nuovi trabiccoli elettronici preludio al successivo dilagare dei camping della comunicazione (Facebook, Instagram) a uso del coro dei giubilanti. Le case editrici si sono adeguate e senza esitazioni. Come si è potuti arrivare a una simile débâcle dell’orgoglio e del senso editoriale? La risposta è semplice: sono venuti meno gli editori, i costruttori.

Le case editrici sono l’editore – è una certezza. L’editore è sempre, in ogni scelta: dall’ordine che dispone lo spazio del catalogo agli autori e le opere che ne sono gli elementi strutturali; dalla scelta della grafica di copertina alla gabbia tipografica, dalla scelta del carattere di stampa alle norme redazionali, fino ai particolari minuti.  (Vale per i libri e vale per i bollettini editoriali, per ogni foglio a stampa che circola e esce dalla casa editrice). Indirizza gli editor e il grafico, poi li lascia lavorare in pace. Guai però all’editor o altro che non si ponga in consonanza allo stile dell’editore e così della casa. Il fatto è che sono pochi a poter essere editori.

L’editore ideale e il principe degli editori è stato Giulio Bollati: aveva tutte le doti e  le conoscenze necessarie, e al meglio: era un costruttore e di Modernità. (Di lui, Giulio Bollati, ho scritto nella pagina del Diario lo scorso 14 maggio). Giulio Bollati è morto nel maggio del 1996; Giulio Einaudi è morto nel 1999, lo stesso anno di Mario Spagnol; per Cesare De Michelis l’anno della morte è il 2018; e infine, Roberto Calasso se n’è andato lo scorso anno. Calasso è stato l’ultimo degli editori. (Intendo proprietario in toto o in parte di una casa editrice: e così libero di lavorare). Dopo di lui, il più giovane, nessun editore di grande rilevanza.

Grande rilevanza non significa grande dimensioni: riguarda l’ampiezza dello spazio editoriale, la perspicuità dell’ordine che lo determina, la convenienza dello stile che lo contraddistingue. Ecco un esempio, per capirci: la Marsilio, fondata e diretta da Cesare De Michelis: una casa editrice nata e cresciuta a Venezia. De Michelis, docente di letteratura Italiana all’ateneo di Padova, ha saputo accogliere in casa editrice il meglio della cultura veneta e non solo: ha potuto farlo per aver costruito una casa editrice completa: dai classici della letteratura alla narrativa d’oggi, dalla saggistica contemporanea (filosofia, letteratura, cinema, arti figurative) ai libri illustrati e i cataloghi d’arte. Cesare de Michelis non avrebbe mai rinunciato a una soltanto delle stanze editoriali della Marsilio: non lo ha fatto e gli va reso il merito. Nella splendida collana Letteratura universale, a sua volta divisa in stanze affidate a letterati studiosi della singola letteratura, ha pubblicato libri e traduzioni che sono indispensabili al lettore educato: la traduzione in prosa della Iliade e della Odissea, dono letterario di Maria Grazia Ciani; le Mu’allaqāt, la poesia araba delle origini, a cura di Daniela Amaldi, e Il Corano più antico, le sure più antiche, per la cura di Sergio Noja; le Cinque vite di eremiti di Domenico Cavalca, a cura di Carlo Delcorno, e l’edizione in due volumi di Tutte le poesie di Alessandro Manzoni, a cura di Gilberto Lonardi; Cronaca della luna sul monte, raccolta dei racconti di Nakajima Atsushi, a cura di Giorgio Amitrano, e i Racconti di pioggia e di luna più i Racconti della pioggia di primavera di Ueda Akinari, per le cure di Maria Teresa Orsi; fino al recente Malvina di Maria Wirtemberska, capolavoro della letteratura polacca, a cura di Luigi Marinelli. Lungo sarebbe l’elenco dei saggi notevoli della collana riservata: bastino i nomi di Giacomo Debenedetti e Carlo Diano per la letteratura, di Robert Bresson e François Truffaut per il cinema; e non mancano gli scrittori italiani scoperti e pubblicati da De Michelis, a partire da Susanna Tamaro. Piccola casa editrice, grande catalogo – ecco un vero editore.

(Ho scelto di proposito una casa editrice non celebrata, come per esempio Adelphi: è per lasciar intendere come, al di là della qualità del catalogo, conti molto il respiro dello spazio editoriale, che altro non è che il risultato dell’apertura di pensiero e della cultura dell’editore. Vale dire come questo significhi un impegno intellettuale e materiale notevolissimo: solo chi ha praticato l’attività editoriale può intenderlo in pieno: pure il lettore può riconoscerlo. È l’editoria di cultura).

L’interrogativo è: può un editore lavorare al suo edificio nell’Età dell’Inconsistenza e al tempo dei camping della comunicazione? Certo che può farlo. Bollati, Einaudi e gli altri non hanno avuto modo di dimostrarlo: al contrario Calasso ha avuto modo e il tempo di farlo. La tattica è quella più lontana dalla natura trasformista dell’italiano: ha ignorato i camping, come ha fatto per i campioni della “pura narratività” e il resto. Letteratura amena sì, qual è il problema? “pura narratività” no, mai: non a casa mia. Ha potuto farlo essendo l’editore. Nelle case editrici di cultura rimaste senza editore è stata scelta la strada già intrapresa dai quotidiani e i settimanali: quella più facile: hanno inseguito il nuovo pubblico, quello dei giubilanti dei camping. (Nei giornali è così partita l’acquisizione dei pifferai della Generazione Io, i campioni dei camping: il seguito di giubilanti nei camping è diventato un atout decisivo per una carriera). Le case editrici orfane di editore hanno seguito e di filata. È la via più facile: sono capaci tutti, basta “organizzarsi” (l’odioso imperativo principe degli Anni di Merda); sono contenti tutti: gli imprenditori, che rispettano i moltiplicatori e salvano i fatturati, i funzionari, che salvano il posto di lavoro, sempre a rischio in un settore debole come l’editoria; i pifferai della Generazione Io, che sono entrati nei cataloghi di case editrici che, in presenza di un editore, non avrebbero mai visto se non in fotografia. Vale ripeterlo: è solo una bolla, quella dell’inconsistenza: scoppierà.

La vera domanda è: ha senso, c’è spazio per la figura dell’editore in questa realtà? Certo, e oggi più che mai – e vale anche per l’industriale, il politico, l’uomo comune. A un patto: che si abbia la forza di stare fuori dalla bolla, ignorare i camping, rifiutare l’equivoco della “pura narratività” e la “pura comunicatività”, che non sono altro che narrativa di consumo; infine, che si resti fedeli all’idea della Modernità. L’editore, come tutti i produttori e costruttori, è seguace del razionalismo critico, che è il midollo del pensiero liberale; ha un solo impegno e prima di tutto con se stesso: la critica costante della realtà e il farne un catalogo; e ha un solo ideale, oggi fuori corso: la durata. Lo stesso ideale che muove il letterato, da Goethe a Handke. L’editore è un costruttore e lavora alla durata – il resto non importa. 

Le truffe dell'egemonia culturale. Alessandro Gnocchi il 15 Giugno 2022 su Il Giornale.

È interessante che sia un editore di area conservatrice, Historica di Giubilei-Regnani, a pubblicare una ampia antologia di Antonio Gramsci sulla Egemonia culturale.

È interessante che sia un editore di area conservatrice, Historica di Giubilei-Regnani, a pubblicare una ampia antologia di Antonio Gramsci sulla Egemonia culturale (pagg. 160, euro 16). A destra non manca il pensiero, mancano invece la organizzazione e una comunicazione efficace. Mancano, invece, la volontà, e forse la capacità, di fare politica culturale. A cosa servono? A creare, per dirla brutalmente, il consenso necessario a far passare riforme e programmi. Il centrodestra dà l'impressione di considerare insignificante la cultura, salvo poi domandarsi come mai gli elettori non si scaldano per i referendum sulla giustizia, tanto per citare l'ultimo dei fatti. Sarebbe stato necessario spiegare e diffondere i vantaggi di un giusto processo e non farne (solo) una serie di casi personali. L'esatto contrario di quello che abbiamo visto. Chiaro dunque il senso dell'operazione editoriale. C'è qualcosa di sorprendente negli scritti gramsciani. L'egemonia è innanzi tutto un mezzo di selezione dei migliori attraverso l'istruzione. C'è una egemonia marxista ma potrebbe anche esistere una egemonia liberale. Gramsci si lamenta perché gli Usa non sono ancora riusciti a formare una classe intellettuale egemone di stampo liberale. L'accento è sempre sull'educazione e sull'insegnamento. Francamente, in questa antologia, non c'è spazio per l'egemonia culturale così come l'abbiamo sperimentata in Italia. Non si parla affatto di cordate per impadronirsi e poi tenere in pugno festival, premi, cattedre universitarie, direzioni di qualsiasi cosa, dai giornali ai musei, e l'intera burocrazia ministeriale. Nel nostro sistema il merito non c'entra nulla: se va avanti uno che è anche bravo, meglio, ma il requisito principale è stare dalla parte giusta e tessere la rete di amicizie giuste. Così nasce il triste fenomeno dei falliti di successo. Coli a picco un salone del libro? Te ne danno un altro. Fai chiudere un giornale storico? Hai subito un programma in tv. Distruggi il prestigio di una casa editrice? Ecco pronta un'altra collana da imbottire di amici. E così via, in una corsa verso il fondo del barile dove ormai risiede l'insignificante cultura italiana. Gramsci è proprio una lettura aurea. Ad esempio si capisce come i comunisti abbiano fatto accettare alcune menzogne come articoli di fede. Facciamo qualche esempio. La cultura in generale è solo di sinistra. Falso. Sappiamo bene quanta cultura abbia prodotto la destra. Tutta la sinistra è comunista. Falso. Come se Piero Gobetti, che certo era di sinistra ma non comunista, non fosse mai esistito... L'antifascismo coincide con il comunismo. Falso. Erano antifascisti anche cattolici, liberali, monarchici. L'antifascismo coincide con la democrazia e la libertà. Falso. Per appartenere alla famiglia democratico-liberale è necessario essere sia antifascisti sia anticomunisti. Sono tutte ovvietà ma non in Italia dove la propaganda, organizzata dal Pci e foraggiata dai soldi pubblici, ha ingannato il popolo. Chissà cosa avrebbe detto Antonio Gramsci.

Giancarlo De Cataldo per “la Repubblica” il 14 Giugno 2022.

«La musica esprime quello che costituisce la comunione delle anime, l'emozione pura e indeterminata, la possanza emozionale dell'animo». Fra il 1915 e il 1919 un giovanissimo Antonio Gramsci tiene sull'Avanti! rubriche di teatro e musica. E se le cronache teatrali sono ampiamente note - fu Italo Calvino a riscoprirle negli anni Cinquanta -, quelle musicali sono rimaste in parte inedite sino a questo prezioso volumetto curato da Maria Luisa Righi e Fabio Francione: è la stessa Righi, peraltro, ad attribuire a Gramsci, sulla base di un'accurata ricognizione filologica, alcuni dei pezzi più interessanti, in origine anonimi. 

La raccolta rivela un Gramsci per certi versi inedito: nonostante alcune precise testimonianze dirette, lo si è ritenuto a lungo poco interessato alla musica. E, invece, da queste pagine emerge molto più di uno spettatore colto o di un "cronista" culturale, come soleva definirsi, rifiutando, a suo dire per carenza degli strumenti del mestiere, la definizione di "critico". Per il Gramsci socialista, la musica, come il teatro, la narrativa, la poesia, è un poderoso veicolo di crescita e affrancamento del proletariato.

«L'umanità sarà migliore e meno violenta quanto più si avvicinerà a Beethoven» scrive in piena Prima guerra mondiale, quando i soliti idioti vogliono proibire la Quinta Sinfonia perché Ludwig Van era tedesco, dunque nemico. Beethoven «impone silenzio, agita, trasporta, violenta le anime elevandole a vette vertiginose () è la bufera che travolge e sconvolge ogni bassezza d'animo, che fortifica e umilia, che offende i vili e spinge i buoni». 

Ma come "portare" Beethoven al proletariato, che la Storia ha tagliato fuori dal gusto del bello? Eppure, «il cuore proletario è un tesoro immenso ed ancora inesplorato di sensibilità artistica». Basta solo coinvolgerlo. E qui il discorso si fa attualissimo, e sarà ripreso nei Quaderni dal carcere. 

Riguarda la dicotomia fra l'intellettuale che "sa", cioè possiede gli strumenti di conoscenza, e il popolo che "sente", ma non "sa", perché di quegli strumenti è ignaro. «Non si fa storia politica senza passione, cioè senza essere sentimentalmente uniti al popolo». La musica, come tramite formidabile di un agire e sentire politico e culturale: Gramsci, suo grande ammiratore, conoscerà Arturo Toscanini e lo convincerà a dirigere Beethoven per gli operai. E Toscanini dirà alla Stampa di aver provato una delle più grandi emozioni della vita. 

Ma ci sono pagine più leggere, in cui il pensatore profondo cede il passo allo spettatore. Uno spettatore esigente, che non esita a ricorrere al sarcasmo: «al Liceo musicale. Serata grigia. Sgonnellamenti serici di scimmiette ammaestrate dell'aristocrazia che vengono a farsi titillare i nervi dai decolletès delle rivali e dalla musica di Beethoven. Un ufficiale di marina; marsine e frack che fasciando del vuoto non si sa come rimangon dritte () La mia fantasia si liquefà nell'ardente fornace animalesca in cui è caduta () l'ambiente finisce per conquistare anche me. Anche il mio modesto abito di proletario non fascia che il vuoto».

Gramsci è melomane di gusti netti e precisi. Detesta Puccini, «elegiaco e smanceroso », e riserva alla Rondine un'acre stroncatura: «melodramma senza passione, operetta senza giocondità () né soddisfa i commessi viaggiatori che amano le freddure da vaudeville () né commuove i pizzicagnoli smaniosi di rifarsi del denaro speso, innaffiando di lagrime l'avverso destino del tenore e della prima donna». 

Ironizza sulla Lodoletta : «Mascagni si compiace tanto da strafare. Si ha l'impressione che tratto tratto si consegni dei pizzicotti sulla punta del naso per far che duri questo suo provvidenziale intenerimento. E Flammen non si stanca di sospirare, e Lodoletta non si decide a morire».

Adora Verdi, si commuove ed esalta per un Rigoletto al Politeama Chiarella (che anni dopo diverrà tempio dei Futuristi), loda il Tristano , esalta grandi concertiste, come la pianista Helena Morsztyn, e in generale mostra estremo rispetto per quanti - cantanti, coristi, strumentisti - "fanno" la musica, con la loro presenza, con il loro lavoro. E, infine, affiora a volte l'insoddisfazione per il manierismo che sembra affliggere la scena musicale. 

«Per la musica siamo in pieno umanesimo. I classici ritornano a ogni stagione, la sensibilità rimane limitata, un po' accademica (un po' per eufemismo) la solita buona vecchia musica, che il pubblico accorre sempre a sentire, che il pubblico impara a memoria», consegnandosi a una vita culturale che è diventata «un'esumazione di impressioni imbalsamate». Gramsci avverte l'urgenza di qualcosa di più, qualcosa di nuovo, qualcosa di rivoluzionario. Sono passati cent' anni, e quell'urgenza la avvertiamo ancora in tanti. 

Super classifica show. La demolizione dei fatti e di quel che resta dell’editoria. Guia Soncini su l'inkiesta il 4 Giugno 2022.

Nella nostra epoca così impegnata a far finta che i numeri e le classi sociali non esistano, non c’è niente di peggio di chi ci fa notare la realtà: nessuno compra i libri, pochi guardano le dirette Instagram e tutti invidiano quei pochi autori di romanzi che vendono trentamila copie

Ho sempre creduto che la soglia dell’adultità fosse a quarant’anni: tutto quello che fai prima non vale, non fa media, non è rilevante (sì, lo so: Orson Welles e altre dodici eccezioni che corriamo tutti a citare).

Ora, però, guardandomi intorno e vedendone l’abuso e il trionfo a trent’anni dalla sua prima apparizione in un articolo di giornale, mi chiedo se si possa dichiarare adulto il concetto di post-verità, evidentemente pronto a passare dal campionato delle brillanti promesse a quello dei soliti stronzi.

La demolizione dei fatti è cominciata con la sparizione dei numeri. L’ultimo posto in cui sono rimasti sono le dirette Instagram: qualche settimana fa il più importante attore italiano era in diretta con l’account Instagram del più venduto quotidiano italiano, e insieme totalizzavano ben quattrocento spettatori.

Fissavo il contatore e pensavo: ma chi glielo fa fare? Sì, lo so: i giornali, nel disperato inseguimento dei social, impongono la diretta Instagram nel pacchetto, tu vuoi la pagina di carta – che fa prestigio ma nessuno legge – sul tuo nuovo film, ma io voglio la diretta Instagram, che magari prima o poi mi trasforma l’account in quello della Ferragni, e a quel punto guadagna Zuckerberg e non il giornale, ma è un problema che ci porremo quando si presenterà.

Lo so come si attiva il meccanismo, ma quel che è interessante è a chi venga in mente di attivarlo; considerato che non ci fa una bella figura nessuno. Si fa tanto per millantare rilevanza, e poi ci si fa vedere nudi e infreddoliti con quattrocento miseri spettatori?

L’altra sera il marito della Ferragni ha fatto una diretta Instagram per presentare la sua nuova canzone, c’era anche la moglie, avevano sessantamila spettatori (ed era quasi l’una di notte, non esattamente un orario di punta); poi però non si poteva stare collegati in più di quattro, occorreva far spazio al tizio che canta con lui, e quindi Chiara (che era in un collegamento separato, trovandosi al mare) si è sconnessa. Poco dopo è apparso un impietoso commento: è andata via Chiara e hai perso trentamila spettatori. (I trentamila rimasti erano comunque tantissimi, ma resta il fatto che ormai le dirette Instagram sono tra gli ultimi luoghi novecenteschi dei quali conosciamo i numeri).

Poiché nessuno paga più niente, anche i numeri delle vendite dei libri (rilevamenti ai quali devi essere abbonato, e che ci si guarda bene dal diffondere: se vogliamo millantare rilevanza, dobbiamo far credere al pubblico che i libri si vendano a milioni) sono trattati come un mistero filosofico.

L’altro giorno ho fatto un tweet in cui facevo notare che sì, il libro di Renzi era primo in classifica, ma non era una buona notizia per il mercato editoriale: aveva venduto poco più di settemila copie, un settore in cui il primo in classifica vende settemila copie è un settore morto.

Poiché se a nessuno frega dei fatti figuriamoci se gli frega di qual è il punto, mi sono arrivate le risposte più assurde, gente che linkava articoli di gennaio sul fiorente mercato editoriale, persino un sito di pizzini che ha fatto l’elegantissimo titolo «Sui quotidiani è tutto un fiume di saliva per le vendite del libro di Renzi, lo smonta Guia Soncini». Invece di dire la verità, cioè che ero invidiosa delle sue settemila, io che ci metto un anno a venderle.

Nel frattempo sono arrivati i dati della settimana successiva, che dimostrano il talento di Renzi e del suo editore (Piemme) nello scegliere la settimana in cui uscire. Quella scorsa a Renzi è riuscito d’esser primo con settemila copie; questa sono usciti un po’ di gialli e i numeri sono risaliti: il primo di questa settimana, Joël Dicker, è primo con quasi trentatremila copie (invidissima).

Ogni volta facciamo finta di non sapere i numeri perché in fondo l’ha detto anche Einstein che tutto è relativo, e se diciamo «ristampa» possiamo darci un tono, e c’è sempre qualche autore che ha venduto cento copie e annuncia una ristampa come se fosse un segno di bestsellerismo e non del fatto che l’editore aveva fatto una prima tiratura di quindici copie, e io ogni volta mi chiedo: ma non lo sanno che chiunque bazzichi il settore correrà a guardare i dati e dirà mamma mia che imbarazzo?

Ogni volta qualcuno mi risponde: eh ma sul pubblico non del mestiere fa effetto. Eh ma se avessi un pubblico non del mestiere forse venderesti più di cento copie, no? O forse gli editori mentono agli autori? Forse sono tutti convinti davvero d’essere Joël Dicker?

Qualche tempo fa una psicologa dell’Instagram ha annunciato ai follower che, nella settimana d’uscita, il suo libro aveva venduto trentamila copie. L’ha annunciato il venerdì, quindi coi dati a disposizione da un giorno e mezzo, quindi consapevole d’averne vendute seimila (tantissime, invidissima).

Il dibattito che ne è seguito in quella fondazione culturale che è il mio telefono affrontava molti punti. La psicologa è forse l’unica autrice di parecchi libri a non sapere che i bollini promozionali e le pubblicità si fanno col numero di copie stampate, non con quello delle copie vendute, e che quindi bisogna tenersi sul vago e che dichiarare un venduto di trentamila è la versione cuoricinabile del falso in bilancio? La psicologa è vittima d’una menzogna dell’editore che le ha detto «ne hai vendute trentamila», e poi quando lei pretenderà royalties conseguenti chissà come glielo spiegherà? Andreste a farvi curare da una psicologa così insicura da bluffare sulle vendite?

Qualche tempo dopo uno scrittore molto venduto, con un libro all’epoca già uscito da qualche mese, è risalito nelle vendite (sarà andato in tv, mormora la mia invidia mentre pieni di pianto ha gli occhi). Mentre ero lì che mi mangiavo le mani guardando i dati di vendita, egli ha giustamente annunciato il successo ai propri amici di Facebook: il libro è risalito nelle vendite, è tornato in classifica, all’ottavo posto della generale, e va in ristampa.

Nei commenti, compare un mortale: uno di noi carneadi, uno che aveva annunciato una ristampa dopo aver venduto duecento copie, e i suoi amici di Facebook erano corsi a felicitarsi (ma non erano evidentemente corsi a comprare il libro: un altro dei pochi numeri visibili oggi sono gli amici di Facebook, ragione per cui tutti siamo disposti a chiamare «amici» migliaia di sconosciuti; sennò sembro solo al mondo, sennò un domani un libro a chi lo vendo, se non ho i like su cui contare).

Commenta il mortale: bravo, non c’è parola più appagante di «ristampa»; risponde quello, col tono con cui Lucio Dalla diceva «siamo dèi, figli del sole, invece tu chi sei, tuo padre è stato il dolore»: «sì, assieme a “nella generale”». La mia è una ristampa da quattromilaecinquecento copie vendute in una settimana, caro lei. Non c’è niente di peggio, in un’epoca impegnata a far finta che i numeri, le classi sociali, i fatti non esistano, che incontrare qualcuno così maleducato da ricordarti che altroché se esistono.

Il mio maleducato preferito è un autore televisivo del Novecento, quel secolo in cui non esisteva la frammentazione. Ogni volta che qualcuno se la mena con un successo apparente di questi minuscoli del presente, in cui si dichiarano trionfi per programmi che non arrivano a due milioni di spettatori, lui rievoca quella volta che un dirigente Rai arrivò minaccioso a dire che, se continuavano così, quel fallimento di programma che stavano facendo sarebbe stato chiuso. Era quasi una quarantina d’anni fa, e quindi questo è un aneddoto quasi adulto. Il programma lo guardavano dodici milioni di persone.

I saloni delle polemiche, la letteratura infiamma gli animi. ISABELLA MARCHIOLO su Il Quotidiano del Sud l'1 giugno 2022.

L’argomento è un terreno minato, ad altissimo rischio di lese maestà e ostracismi nel cerchio magico attorno ai nomi che contano. È l’editoria, bellezza, e dalla Calabria fucina di scrittori veri e presunti fino alla Roma caput mundi della Repubblica delle Lettere, tante cose si pensano ma non si possono dire.

Ovviamente tranne che sui social, dove i premi letterari e le manifestazioni blasonate scatenano roventi battaglie di hater che neanche il Covid, Putin e l’Eurovision. Non è un male che si parli, e anche in modo critico, di libri, anzi ben venga. Soprattutto se, al netto della prevedibile quota di shitstorming, talvolta qualcuno estraneo all’agorà (e che quindi non teme di essere additato come rosicone) si azzarda a dire l’indicibile.

Per esempio, che gli autori presenti al 34esimo Salone del libro di Torino senza editore siano stati un po’ tanti e che l’aver accettato chiunque disposto a pagare il suo posticino ha penalizzato gli editori; e poi che l’invasione di editori a pagamento di ogni foggia con i loro altrettanto variopinti autori abbia tolto spazio agli editori veri. In casi del genere non conviene fare nomi e cognomi, e non sarebbe nemmeno giusto perché si tratterebbe di sparare sulla Croce Rossa: le stroncature devono avere ben altri bersagli che gente tutto sommato ingenua, alla ricerca del warholiano quarto d’ora di celebrità pagato di tasca propria e abbastanza salato (tariffa per esporre un solo titolo in massimo 30 copie, 420 euro).

Di certo il trend topic del Salone, tra meme e divertite battutine nel gruppo degli scrittori fieramente renitenti (o esclusi?) è stato che a questo giro ci sono andati davvero tutti, foss’anche con le chat scritte durante la quarantena e poi pubblicate – perché, dài, in fondo rientra nell’autofiction. Nell’arioso stand della Regione Calabria ma anche in autonomia, i nostri autori a Torino sono stati numerosi e per fortuna nessuno di loro era un improvvisato (citiamo Vito Teti, Gioacchino Criaco, Domenico Dara, Carmine Abate).

Protagonisti di dibattiti interessanti, ma al Salone si va pure per vendere, giusto? E una delle debolezze della manifestazione torinese è stata quella di aver imposto un biglietto d’ingresso non supereconomico (18 euro il giornaliero), che ha fatto da deterrente soprattutto per i lettori fuori sede intenzionati a fare una gita culturale: tra costo del viaggio, alloggio e accesso nel mondo dei “Cuori Selvaggi” dell’evento, l’unica cosa su cui si è tirata la cinghia alla fine è stata l’acquisto dei libri.

A proposito di Salone, attuale direttore è Nicola Lagioia (e qui mettiamo un asterisco), un soggetto di cui parlare con cautela nella comunità letteraria. Tanto ha osato il romanziere Mimmo Gangemi, che su Facebook ha commentato la vittoria di Lagioia al Premio Sila ’49 con parole che toccano un tasto dolente per i calabresi, quello dell’atavico complesso d’inferiorità nei confronti dei forestieri.

Esordisce senza eufemismi, Gangemi: «Il premio Sila non si smentisce, mai una volta che si assegni a un calabrese, a causa di un pensiero contorto, sempre alla rovescia, che discrimina i locali, quasi che, a farlo rimanere nella regione, vi si possa vedere un imbroglio, una diminuzione. Siamo colonia pure in questo campo, insomma, facciamo vincere gli altri anche quando i nostri sono migliori, come non succede altrove in Italia».

E prosegue impavido citando un altro nome “reverenziale”: «Emanuele Trevi, che è la voce dominante all’interno della giuria e riesce a spuntarla su intellettuali di peso che ne fanno parte (penso a Veltri o alla Petrusewicz), forse dovrebbe rammentare che lui, lo Strega, lo ha vinto con “Due vite”, un romanzo di grande mediocrità, perché nel suo caso valgono le cordate e non i meriti letterari». Diretto e severissimo. Affermare che “Due vite” sia un romanzo mediocre è molto ingeneroso, ma nell’arte ogni opinione è sacra. Il vero pungiglione, però, arriva dopo.

«La speranza – conclude Gangemi – è che al nostro Trevi non sia tornato utile lisciare o ricambiare Nicola Lagioia, un personaggio di grande autorevolezza e potere nel mondo letterario. Intanto, registro l’anomalia che dura da anni e che non succede nel resto d’Italia». Ne sa qualcosa proprio lo scrittore di Santa Cristina d’Aspromonte (che non era tra i candidati del Sila), ricordando come «anni fa dal Premio Alvaro fu perpetrata una vergogna ai miei danni, “per questione personale”, al punto da minacciare le dimissioni se il mio romanzo fosse stato confermato in finale».

Che nei salotti culturali calabresi, quando si tratta di assegnare i premi siamo abbagliati da una ossequiosa “esterofilia”, è un fatto. Lo dimostrano le risatine circolate nei giorni della presentazione delle candidature al Premio Strega all’indirizzo di qualche autore conterraneo ritenuto lì fuori luogo, e gli infastidite sollecitazioni di alcuni intellettuali nostrani a moderare l’orgoglio paesano sui media per “i calabresi allo Strega”. E’ anche vero che qualcuno degli scrittori presentati allora calcò la mano autopromuovendosi ai limiti del ridicolo. E, sembrerà snob, ma va detto con chiarezza. Al premio Strega come al Salone di Torino non è un bene che ci siano un Gangemi accanto a un autore di pensierini della domenica, o un libro su cui un editore ha investito accanto a uno pubblicato a pagamento. Non è democratico. Volendo accantonare il malcostume di marchette e favori, è innanzitutto deriva culturale. Una differenza, insomma – quella che non c’è stata a Torino con l’apertura all’autopubblicazione e che non c’è stata nelle proposte di candidature ai cortometraggi dei David di Donatello, un altro imbarazzante porto di mare – deve restare.

Per i lettori vecchi e nuovi, deve restare. Tornando a Lagioia (ricordate l’asterisco?), durante il Salone è stato bersaglio di una tremenda mitragliata di Striscia la Notizia, che ha riesumato uno scontro di oltre vent’anni fa tra lui e Melissa Panarello (un’irripetibile frase sessista per commentare il successo di “Cento colpi di spazzola”). Poi i due si chiarirono ma mai pubblicamente, a fronte di una frase davvero brutta e che la stessa Melissa P. aveva al tempo commentato come offesa sul suo blog. Eppure oggi, segnala Striscia, Panarello fa fotografie al Salone abbracciata a Lagioia e soprattutto firma un podcast su Apple, “Love Stories”, con Chiara Tagliaferri, moglie dello scrittore pugliese e lanciatissima con il suo romanzo mondadoriano “Strega comanda colore”. Pace fatta o calcoli di opportunità? Secondo Lagioia e Panarello semplicemente un attacco gratuito per danneggiare la manifestazione (qualcuno ha chiesto anche le dimissioni del direttore). L’hashtag del Salone del Libro 2022 è stato #ioc’ero. L’importante è esserci, giusto. Possibilmente distinguendosi, anche.

Dagospia il 20 maggio 2022. Anticipazione da “Striscia la Notizia”.

«Con lei c’è una sola cosa da fare. La prendi. La metti a novanta appoggiata a un tavolo. Poi prendi Lolita di Nabokov. Strappi le pagine. Gliele infili una per una nel c**o. Dopo un po’, per osmosi, qualcosa assimila per forza». Questa frase sessista e volgarissima indirizzata contro la collega Melissa Panarello l’ha pronunciata anni fa lo scrittore barese Nicola Lagioia, direttore del Salone del Libro in corso a Torino. 

Oggi l’inviata Rajae (qui il link per rivedere il primo servizio) è tornata sul campo, a Torino, per capire come mai questo enunciato non abbia scandalizzato e indignato tutti gli intellettuali che partecipano al Salone, che si autoproclama “dell’inclusione”. 

«Inaccettabile, meglio non aggiungere null’altro se non chiedere all’autore di questa frase di domandare scusa», dice Ferruccio De Bortoli. «Frase non adeguata e non accettabile», secondo la ministra dell’Università e della Ricerca Maria Cristina Messa. 

Ma dal cosiddetto “Cerchietto magico” sfuggono in tanti. L’influencer e sex columnist Carlotta Vagnoli proprio non ha tempo per commentare: «Devo andare a lavorare». «Trovo la domanda che mi fate sgradevole. Non voglio commentare», dice concitatissima la scrittrice Chiara Valerio. 

Luciana Littizzetto, invece, “cade dal pero”, ma chiede un applauso per Striscia e per tutte le donne che scrivono libri per le altre donne. E il Salone risponde. 

Da striscialanotizia.mediaset.it il 25 maggio 2022. 

Nicola Lagioia accusa noi di Striscia la notizia di essere dei violenti che mistificano e manipolano. Ci accusa anche di subire nostre campagne mediatiche dal 2009. 

Falsità: di lui ci siamo interessati soltanto due volte. Per legittima difesa, quando Lagioia aveva appoggiato chi aveva definito il nostro servizio sul CARA di Bari “il più nazista della storia della televisione”, commettendo l’errore di scambiare per una prigione il centro di accoglienza per i richiedenti asilo (2016). Successivamente, l’anno dopo, quando un uomo della cultura (forse un mitomane) aveva rivelato di aver ricevuto una sollecitazione dal ministro pugliese Massimo Bray per far diventare Lagioia direttore del Salone del libro. Altro che persecuzione: ma se abbiamo pure fatto pubblicità in trasmissione al suo libro La Ferocia! (Einaudi).

Strano, poi, che Lagioia accusi di violenza proprio la nostra Rajae, dopo tutte le botte che lei ha ricevuto sul campo. Ma il “Cerchietto magico” del direttore del Salone non ha mai detto una parola in difesa della nostra inviata, vittima di attacchi sessisti e percosse, dimostrando che esistono due pesi e due misure. Come quelli utilizzati per la frase, violenta e perversa, che Lagioia ha rivolto a Melissa P. Stroncatura del primo romanzo della scrittrice che lui ha pubblicamente pronunciato quando aveva trent’anni compiuti. Altro che giovane inconsapevole.

«Con lei c’è una sola cosa da fare. La prendi. La metti a novanta appoggiata a un tavolo. Poi prendi Lolita di Nabokov. Strappi le pagine. Gliele infili una per una nel c**o. Dopo un po’, per osmosi, qualcosa assimila per forza».

Ci resta ancora un dubbio (o meglio, abbiamo una certezza). Ora che Melissa Panarello è entrata nel suo omertoso “Cerchietto magico” e sono amichetti, Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire è diventato un capolavoro mondiale? 

Da striscialanotizia.mediaset.it il 25 maggio 2022.   

Nicola Lagioia, direttore uscente del Salone del libro di Torino, ha indicato come suo successore la giornalista-scrittrice Loredana Lipperini, una delle più accalorate accolite del suo omertoso “Cerchietto magico”. La stessa Lipperini di cui Striscia si occupò nel 2011, quando un suo articolo finì su varie testate internazionali - tra cui il New York Times e il sito del quotidiano francese Le Figarò – facendo fare una magra figura all’Italia e agli italiani.

La futura direttrice del Salone sosteneva che in Italia in televisione la donna interpretava il ruolo di “bella e muta”. Ma non era vero niente! Infatti, sfortunatamente, lo stesso giorno della pubblicazione dell’articolo su Canale 5 andavano in onda un’infilata di programmi tutti condotti da donne: Federica Panicucci conduceva Mattino 5, Rita Dalla Chiesa Forum, Maria De Filippi Amici, Barbara D’Urso Pomeriggio 5, Alessia Marcuzzi il Grande Fratello, Paola Rivetta il Tg5 delle 13 e Cristina Parodi quello delle 20. Quell’anno Michelle Hunziker era al timone di Striscia la notizia con Ezio Greggio e le Veline del Tg satirico ballavano mute per 30 secondi, ma parlavano nei 70 secondi dedicati allo spazio pubblicitario.

Questo è spaccio internazionale di fake news. E dire che Loredana Lipperini, probabile futura direttrice del Salone del libro di Torino, dovrebbe invece diventare la garante di un sistema della cultura e dell’informazione indipendente, libero e soprattutto veritiero.

Lagioia, Striscia, Melissa e vecchie ruggini. Luigi Mascheroni il 21 Maggio 2022 su Il Giornale.

Lo show attacca ancora il direttore, che in passato aveva stroncato "Drive In".

Torino. Al Salone si punta all'alta Letteratura, ma a volte si scivola nella bassa polemica. Fra gli stand, un po' meno sui giornali, troppo allineati alla manifestazione, si chiacchiera sul caso Ricci-Lagioia. L'inviata di Striscia la notizia Rajae Bezzaz da giorni mette sotto attacco il direttore del Salone per una frase sessista di molti anni fa contro la scrittrice Melissa Panarello, all'epoca la Melissa P. di Cento colpi di spazzola, frase così pesante che se l'avesse detta un giornalista del Giornale lo avrebbero radiato dall'Ordine. Lagioia si è scusato, mentre il Comitato di salute pubblica del Salone gli ha stretto intorno un cordone sanitario difensivo, fatto soprattutto di silenzio. Intanto da due giorni un gruppo di iperfemministe manifesta fuori dal Lingotto contro Lagioia, distribuendo volantini (ieri c'era un banchetto per raccogliere firme di protesta). E così ecco condannato per sessismo il direttore del Salone più inclusivo che si possa immaginare. Morale: chi di politicamente corretto pontifica, di politicamente corretto si strangola. Intanto, Striscia continua a picchiare duro. Secondo Rajae Bezzaz - suo anche il sondaggio per capire quanti spettatori sono favorevoli alle dimissioni di Lagioia (65%) - «Le parole sono pietre: l'importante è non dimenticare la storia, soprattutto di questi tempi in cui l'indignazione su temi come il sessismo e le discriminazioni è altissima e spesso pure retroattiva». Ha le sue ragioni. Come ce le ha Lagioia: Antonio Ricci, uno che le cose se le lega all'Auditel, rimase malissimo quando, era il 2009, Lagioia nel romanzo Riportando tutto a casa infilò una micidiale stroncatura del suo Drive In...

Che poi. La cosa strana poi, non è tanto che Melissa Panarello oggi collabori a un podcast con la moglie di Lagioia, presentato qui al Salone. Ma che nel programma del Lingotto svetti quello di Lorenzo Beccati, scrittore e storico autore di Striscia la notizia e di Drive In. Com'è piccolo (in tanti sensi) il Salone.

Luigi Mascheroni per ilgiornale.it il 20 maggio 2022.

Sembrava di esserne appena usciti, sette mesi fa, edizione numero XXXIII, postdatata causa pandemia, era ottobre, e rieccoci qua, siamo a maggio, il mese tradizionale del Salone del Libro, ed è già la numero XXXIV... Il Lingotto è come una porta girevole, entri ed esci, senza neanche accorgertene. Vorremmo non chiudesse mai. 

Intanto, si riapre: stamattina - cioè ieri per chi legge ancora i quotidiani, che sono persino meno dei già pochi che leggono i libri - inaugurazione molto understatement, in puro stile torinese. «È l'edizione più grande e più bella di sempre» ha detto il direttore Nicola Lagioia di fronte alle autorità civili, religiose, militari e intellettuali del Paese. Si segnalano: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, del quale viene letto messaggio di rito; due ministri, Dario Franceschini per la Cultura e Patrizio Bianchi per l'Istruzione (discorsi molto istituzionali, niente di notevole);

il sindaco di Torino Stefano Lo Russo, sinistra, e il Governatore del Piemonte Alberto Cirio, destra, che lavorano sempre più in sinergia, indistinguibili nei programmi e nei valori (Cirio ha stappato champagne quando hanno eletto Lo Russo: il segreto per lavorare bene è che destra-sinistra si dividano nello stesso mandato Comune e Regione); e infine Nicola Lagioia, grande maître à penser di cerimonie, al suo penultimo anno di direzione.

Dall'anno prossimo sarà affiancato da una spalla, ancora da nominare (Loredana Lipperini, sotto la tutela di Marino Sinibaldi), alla quale lascerà poi nel 2024 la direzione assoluta. Lagioia è stato bravissimo nel suo mandato, pur essendosele attirate tutte: ha fatto dimenticare i guai finanziari-gestionali e lo scandalo degli ingressi gonfiati del passato, ha vinto la guerra dei Saloni contro Milano, ha tenuto in piedi due edizioni, una in streaming e una azzoppata, durante l'emergenza Covid, e ora festeggia con un Salone 2022 della ritrovata normalità e ricco di 1.400 incontri, 893 editori e 542 stand... Lagioia ha resistito a polemiche, rivalità, lotte intestine, virus, guerre. Per poi cadere sulla più banale delle accuse, quella di molestie sessuali (verbali). 

Qualche giorno fa - e non si capisce davvero perché rivangare una storia vecchia 17 anni - Striscia la Notizia ha tirato fuori una frase del 2005 dello scrittore, all'epoca non ancora Premio Strega né direttore del Salone, rivolta a Melissa Panarello, allora semplicemente Melissa P., la quale aveva riscritto a suo modo Lolita in Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire: «Con lei c'è una sola cosa da fare. La prendi. La metti a novanta appoggiata a un tavolo.

Poi prendi Lolita di Nabokov. Strappi le pagine. Gliele infili una per una nel culo. Dopo un po', per osmosi, qualcosa assimila per forza», disse Lagioia. Che a suo modo era anche una stroncatura divertente. Ma si sa... la nuova micidiale onda moralista del combinato disposto #MeToo, neofemminismo e cancel culture non dimentica. Nessuno è immune da colpe, un cadavere prima o poi si trova nell'armadio di chiunque, basta cercalo, e nessuno è davvero puro. 

O comunque: c'è sempre qualcuno più puro di te. E così, nemesi di una edizione strapiena di incontri sull'inclusione, parità di genere, asterischi, schwa e rispetto reciproco, e inaugurata da discorsi tutti aperti da «Amiche e amici...», e tutti chiusi da «Buon salone a tutte e a tutti» - là dove abbondano i femminismi, i maschili sovraestesi sono banditi - ieri mattina, fuori dai cancelli del Lingotto, un piccolo gruppo di iperfemministe ha distribuito ai visitatori un simpatico volantino con la frase incriminata, firmata «Il direttore del Salone del Libro, Nicola Lagioia».

Morale: se tiri giù una statua di uno schiavista di quattrocento anni fa, poi non ti lamentare se qualcuno ti boicotta per una battuta del 2005... E cosa dicono ora le Murgie-Tagliaferri-Valerio-Selvaggia Lucarelli?

Cuori selvaggi - titolo del Salone di quest'anno - e pubblico ipereducato, il Lingotto, per il resto, è quello di sempre. Soliti visitatori entusiasti, oggi sono tornate addirittura le scolaresche che ci mancavano così tanto!, le solite parole d'ordine («Fluido è bello!»), i soliti slogan: «Leggere rende liberi», solita festa e soliti festival. Librai, bibliotecari, editori, scrittori, visitatori, critici, carta, ebook, audiolibri, TikTok, «Avanti, chi è?». Vorremmo che non finisse mai.

L'inizio è promettente. Stretta fra l'Eurovision e la finale di Champions League (femminile e femminista), Torino attraversa un momento spumeggiante, e il Salone ne guadagna. La cultura per una volta è protagonista, la quantità non si discute, la varietà neppure, la qualità è quella, tante parole, ancora più idee, niente mascherine Ffp2, tanto LGBTQ+, il Salone è una gioia, e un po' anche una Lipperini. Saranno cinque giorni fantastici. La parola d'ordine, lanciata dal direttore poco prima della lectio inaugurale di Amitav Ghosh, è «Molteplicità». 

Il Salone - forte della lezione datagli da Christian Raimo che tre anni fa stilò la delirante lista di proscrizione contro l'editore Altaforte, reo di aver pubblicato un libro su Matteo Salvini - deve essere polifonico, accogliere tutte le voci e i punti di vista. E cosa minaccia la molteplicità? «Mettere a tacere qualcuno!». A volte - scorrendo l'elenco dei soliti nomi noti presenti, e quello dei soliti nomi noti che mancano - basta non invitarli. Buon Salone a tutti. Massì. E anche a tutte.

Dagospia il 21 maggio 2022. Riceviamo e pubblichiamo: 

Il silenzio risentito delle scrittrici che addirittura reagiscono piccate, con tono di lesa maestà danti al microfono dell'inviata di "Striscia la notizia" al Salone del libro di Torino sul caso Nicola Lagioia-Melissa Panarello conferma plasticamente, antropologicamente, rionalmente la sostanza di ciò che si ha modo di definire “amichettismo”, cioè un patto di appartenenza assoluto ed esclusivo che sembra cancellare ogni dialettica o ancor peggio uccide il bene dell’ironia.

La palma d’oro in questa storia va alla scrittrice Chiara Valerio che così risponde risoluta alla cronista: "Trovo la domanda molto sgradevole!" (sic). 

Con sicumera di chi sembra dire a noi nulla importa di questa “provocazione”, a noi è gradita la stima di Concita De Gregorio, nulla ci importa di Antonio Ricci, dunque possiamo ritenerci culturalmente autosufficienti. Cui ancora segue quel non meno risentito "Sto lavorando" di tal Carlotta Vagnoli.

Alla fine, ciò che appare agli occhi è una pagina di inenarrabile assenza di estro e, ripeto, di ironia; reticenza imbarazzante.

Per chi dovesse ignorare l’antefatto, anni fa, forse venti, in un accesso di polemica letteraria, usando un’iperbole che sarebbe certamente piaciuta a un Louis-Ferdinand Céline, l'attuale direttore del Salone, Nicola Lagioia, appunto, aveva così commentato la sostanza dell'opera letteraria di Melissa P.: 

«Con lei c’è una sola cosa da fare. La prendi. La metti a novanta appoggiata a un tavolo. Poi prendi Lolita di Nabokov. Strappi le pagine. Gliele infili una per una nel culo. Dopo un po’, per osmosi, qualcosa assimila per forza». 

La sensazione finale della querelle mostra un infelice e asserragliato in se stesso tinello letterario convinto di sé, segnato dall'assenza di vere individualità; sprezzante conformismo da comitiva.

Compreso il sottotesto moralistico implicito: con noi è "Fahrenheit" di Radiotre, mica "Striscia" che ci fa semplicemente orrore; parole assolutamente simmetriche a ciò che potrebbe pronunciare Nanni Moretti davanti allo spettro di Berlusconi. 

Qualcuno, comprensibilmente, potrebbe obiettare, riferendosi alle parole “sgradevoli” di Lagioia, che si tratti di una battuta vecchia di vent’anni, e come tale caduta “in prescrizione”. 

Vero, ma al contrario il senso d’appartenenza ora e sempre “amichettistica” in questa vicenda non sembra mai cancellarsi, andare in prescrizione, così come l’assenza di ironia. Da cui reazioni degne di chi è convinto della propria superiorità morale.

Eppure sarebbe bastata, ripeto, una risposta ironica, adulta, lontana dal livoroso gne-gne letterario adolescenziale per chiudere la cosa; e invece su tutto alla fine prevale la difesa d’ufficio dell’amichetto Nicola. 

Nessuna individualità, solo l’impressione di comitiva complice, tutti in pullman verso Ansedonia a cantare “La canzone del sole” di Lucio Battisti, o piuttosto “Che coss’è l’amor” di Vinicio Capossela. 

Il sottotesto del loro rifiuto a commentare è semplice: noi non riconosciamo autorità morale alcuna a "Striscia", cioè a Ricci, ergo all’empio Berlusconi, noi siamo la Radiotre di Sinibaldi-Lipperini; il nostro Re Sole è semmai Veltroni. 

Se solo ci fosse stata invece Felpa Iemma, l’apprezzata autrice dei romanzi-bestseller “Perdite bianche” e infine proprio “Le amichette”, lei, sì, avrebbe trovato le parole esatte, la risata seppellitrice. Fulvio Abbate

LA REPLICA DEL GABIBBO A FULVIO ABBATE: Caro Dago, Fulvio Abbate ha toppato. L’empio Berlusconi è piuttosto riconducibile ai due autori in questione, di cui è l’editore. Ricordiamo infatti che Melissa Panarello pubblica con Mondadori  e  Nicola Lagioia è il cocchino  di Einaudi (Berlusconi). Cordialità Il Gabibbo

E la scure "ultracorretta" colpisce il Salone buonista. Luigi Mascheroni il 20 Maggio 2022 su Il Giornale.

L'inaugurazione all'insegna dell'"inclusione" viene segnata dai volantini e dalle proteste contro il direttore Lagioia.

Sembrava di esserne appena usciti, sette mesi fa, edizione numero XXXIII, postdatata causa pandemia, era ottobre, e rieccoci qua, siamo a maggio, il mese tradizionale del Salone del Libro, ed è già la numero XXXIV... Il Lingotto è come una porta girevole, entri ed esci, senza neanche accorgertene. Vorremmo non chiudesse mai.

Intanto, si riapre: stamattina - cioè ieri per chi legge ancora i quotidiani, che sono persino meno dei già pochi che leggono i libri - inaugurazione molto understatement, in puro stile torinese. «È l'edizione più grande e più bella di sempre» ha detto il direttore Nicola Lagioia di fronte alle autorità civili, religiose, militari e intellettuali del Paese. Si segnalano: il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, del quale viene letto messaggio di rito; due ministri, Dario Franceschini per la Cultura e Patrizio Bianchi per l'Istruzione (discorsi molto istituzionali, niente di notevole); il sindaco di Torino Stefano Lo Russo, sinistra, e il Governatore del Piemonte Alberto Cirio, destra, che lavorano sempre più in sinergia, indistinguibili nei programmi e nei valori (Cirio ha stappato champagne quando hanno eletto Lo Russo: il segreto per lavorare bene è che destra-sinistra si dividano nello stesso mandato Comune e Regione); e infine Nicola Lagioia, grande maître à penser di cerimonie, al suo penultimo anno di direzione.

Dall'anno prossimo sarà affiancato da una spalla, ancora da nominare (Loredana Lipperini, sotto la tutela di Marino Sinibaldi), alla quale lascerà poi nel 2024 la direzione assoluta. Lagioia è stato bravissimo nel suo mandato, pur essendosele attirate tutte: ha fatto dimenticare i guai finanziari-gestionali e lo scandalo degli ingressi gonfiati del passato, ha vinto la guerra dei Saloni contro Milano, ha tenuto in piedi due edizioni, una in streaming e una azzoppata, durante l'emergenza Covid, e ora festeggia con un Salone 2022 della ritrovata normalità e ricco di 1.400 incontri, 893 editori e 542 stand... Lagioia ha resistito a polemiche, rivalità, lotte intestine, virus, guerre. Per poi cadere sulla più banale delle accuse, quella di molestie sessuali (verbali).

Qualche giorno fa - e non si capisce davvero perché rivangare una storia vecchia 17 anni - Striscia la Notizia ha tirato fuori una frase del 2005 dello scrittore, all'epoca non ancora Premio Strega né direttore del Salone, rivolta a Melissa Panarello, allora semplicemente Melissa P., la quale aveva riscritto a suo modo Lolita in Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire: «Con lei c'è una sola cosa da fare. La prendi. La metti a novanta appoggiata a un tavolo. Poi prendi Lolita di Nabokov. Strappi le pagine. Gliele infili una per una nel culo. Dopo un po', per osmosi, qualcosa assimila per forza», disse Lagioia. Che a suo modo era anche una stroncatura divertente. Ma si sa... la nuova micidiale onda moralista del combinato disposto #MeToo, neofemminismo e cancel culture non dimentica. Nessuno è immune da colpe, un cadavere prima o poi si trova nell'armadio di chiunque, basta cercalo, e nessuno è davvero puro. O comunque: c'è sempre qualcuno più puro di te. E così, nemesi di una edizione strapiena di incontri sull'inclusione, parità di genere, asterischi, schwa e rispetto reciproco, e inaugurata da discorsi tutti aperti da «Amiche e amici...», e tutti chiusi da «Buon salone a tutte e a tutti» - là dove abbondano i femminismi, i maschili sovraestesi sono banditi - ieri mattina, fuori dai cancelli del Lingotto, un piccolo gruppo di iperfemministe ha distribuito ai visitatori un simpatico volantino con la frase incriminata, firmata «Il direttore del Salone del Libro, Nicola Lagioia». Morale: se tiri giù una statua di uno schiavista di quattrocento anni fa, poi non ti lamentare se qualcuno ti boicotta per una battuta del 2005... E cosa dicono ora le Murgie-Tagliaferri-Valerio-Selvaggia Lucarelli?

Cuori selvaggi - titolo del Salone di quest'anno - e pubblico ipereducato, il Lingotto, per il resto, è quello di sempre. Soliti visitatori entusiasti, oggi sono tornate addirittura le scolaresche che ci mancavano così tanto!, le solite parole d'ordine («Fluido è bello!»), i soliti slogan: «Leggere rende liberi», solita festa e soliti festival. Librai, bibliotecari, editori, scrittori, visitatori, critici, carta, ebook, audiolibri, TikTok, «Avanti, chi è?». Vorremmo che non finisse mai.

L'inizio è promettente. Stretta fra l'Eurovision e la finale di Champions League (femminile e femminista), Torino attraversa un momento spumeggiante, e il Salone ne guadagna. La cultura per una volta è protagonista, la quantità non si discute, la varietà neppure, la qualità è quella, tante parole, ancora più idee, niente mascherine Ffp2, tanto LGBTQ+, il Salone è una gioia, e un po' anche una Lipperini. Saranno cinque giorni fantastici. La parola d'ordine, lanciata dal direttore poco prima della lectio inaugurale di Amitav Ghosh, è «Molteplicità». Il Salone - forte della lezione datagli da Christian Raimo che tre anni fa stilò la delirante lista di proscrizione contro l'editore Altaforte, reo di aver pubblicato un libro su Matteo Salvini - deve essere polifonico, accogliere tutte le voci e i punti di vista. E cosa minaccia la molteplicità? «Mettere a tacere qualcuno!». A volte - scorrendo l'elenco dei soliti nomi noti presenti, e quello dei soliti nomi noti che mancano - basta non invitarli. Buon Salone a tutti. Massì. E anche a tutte.

Striscia la rivoluzione. Se ci tieni tanto che si parli di uno scandalo, parlane te. Guia Soncini su L'Inkiesta il 23 Maggio 2022.

La risposta migliore all’inviata di Antonio Ricci al Salone del libro che pretendeva condanne per una vecchia frase di Nicola Lagioia è arrivata da Carlotta Vagnoli, che, avendo fatto la barista, sa liquidare gli ubriachi molesti e anche le intervistatrici insistenti. Eppure la colpa di tutto questo, per certi versi, è proprio di Vagnoli in quanto simbolo di questo tempo in cui si feticizza la fragilità.

Da quando mi hanno detto che la chiacchiera più chiacchierata del Salone del Libro aveva a che vedere con Antonio Montecristo Ricci che da anni covava rancore contro Nicola Lagioia, e con una vecchia battutaccia di Lagioia su un libro d’una tizia nel frattempo divenuta per anzianità autrice rispettabile, e con “Striscia la Notizia” che ci difende dal patriarcato (se campi abbastanza a lungo, le vedi veramente tutte), penso molto a Gaia Servadio che non riusciva a pubblicare il suo primo libro.

«Avevo dato a Nicola Chiaromonte una trentina di pagine dattiloscritte del mio romanzo. Me le restituì con l’aria mesta dell’intellettuale meridionale, come per dire, Ma perché non provi un altro mestiere». Penso a Lagioia che dentro di sé scuote la testa come Chiaromonte, ma fuori invece di scuotere la testa opta per la battutaccia, in anni in cui una battutaccia poi non diventava uno screenshot da rinfacciarti a vita.

Se c’è una cosa che in Italia tutti quelli che si conoscono si ripetono è che in Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti. Se c’è una cosa che mi ripeto io è che la rivoluzione non la fa chi la deve fare, perché mai dovrei farla io (perché mai dovrebbe farla il cinema, diceva Ugo Tognazzi nella “Terrazza”).

Ci conosciamo tutti, e io ho come tutti paurissima di Ricci, e pure di Lagioia, pur non conoscendo nessuno dei due ma essendo come tutti a un grado di separazione da tutti. Di Melissa Panarello – per anzianità divenuta autrice – no, ed evidentemente non sono l’unica, ad aver paura di tutti tranne che di lei, perché quando c’è stato da andare a rompere i coglioni al Salone la coraggiosa inviata di “Striscia” non è andata a chiedere a Lagioia «ma le sembra una cosa da dire», bensì è andata a chiedere conto alla Panarello del suo essere ancella del patriarcato: non abbastanza offesa da non stare lì, vent’anni dopo, non abbastanza arroccata da tenere il muso a uno che le aveva detto le brutte cose. (Io neanche mi ricordo i nomi di quelli che vent’anni fa non mi richiamavano dopo avermi scopata, ma sono in effetti una persona molto distratta).

Ora, sto per certificare l’impossibilità della rivoluzione, confermandovi che l’unico modo per prendersi la libertà di parlar male di tutti è non conoscere mai nessuno, e lo faccio usando Carlotta Vagnoli, che tre giorni dopo essersi sputtanata presentando il mio libro ha certificato la propria inadeguatezza di santino postmoderno dicendo all’inviata di “Striscia” – che pretendeva di questo scandalo si parlasse – «e allora parlane te», che m’è parsa la risposta perfetta (per il caso specifico ma anche per la pretesa dei varietà giustizieri di macinare Siae facendoti collaborare gratis: parla di me, se ci tieni, ma senza la mia apparizione non retribuita nel tuo pezzettino di tv).

Penserete che lodi la risposta di Vagnoli perché una volta che la gente la incontri poi smetti di mostrificarla e qualunque disaccordo ti pare più ragionevole, ma c’è un altro elemento, e riguarda la ferma condanna di Vagnoli da parte delle militanti cancellette: loro gliel’hanno data, loro gliela tolgono.

Il punto è che la colpa è proprio di Vagnoli. Giuro. Tutta questa vicenda qui è la perfetta sintesi d’un tempo creato illudendo le menti meno attrezzate d’un po’ tutte le generazioni che non esista niente: non lo stato di diritto, non l’onere della prova, non la prescrizione, non la possibilità di fottersene, non l’eventualità che non te ne freghi niente se uno t’insulta, non l’ipotesi che se un insulto è sessuale non sia su un livello di speciale imperdonabilità, non la gestione privata degli scazzi pubblici, non il rattoppare i rapporti senza pubbliche contrizioni, non il fare un po’ come cazzo ti pare senza renderne conto alle tifoserie, non i rapporti di forza che cambiano nel tempo e a volte persino all’insaputa degli uno che continuano a valere uno. Tutto è tribunale della folla, tutto è da consumarsi nella pubblica arena, e tutto – ogni meccanismo – si rivolta prima o poi verso chi l’ha creato.

Certo, rivoltarlo è più facile se sei Antonio Ricci e stai vent’anni sulla riva del fiume ad aspettare paziente il giorno in cui potrai accusare Nicola Lagioia di maschilismo tirando fuori la volta in cui disse che a Melissa Panarello bisognava ficcare nel culo le pagine di Nabokov così magari imparava. Per osmosi, precisava imprecisamente Lagioia, e io son tre giorni che penso ma magari: fosse così facile, sai gli aerosol di «(picnic, lightning)» che mi farei; «(picnic, fulmine)» è lo stupendevole passaggio in cui, con due parole tra parentesi, il narratore di “Lolita ”sintetizza lo strano incidente che uccise sua madre, è la frase che chiunque ami le parole darebbe un rene e cinque posti in classifica per aver ideato, è il capolavoro che nessuna osmosi ti procura.

Ricci, a fare Ricci, è più bravo delle imbarazzate (quasi tutte donne) ospiti del Salone molestate dall’inviata di “Striscia” richiedente contrizione e pubblica condanna. Nessuna dice all’inviata: ma, con questo criterio del rinfaccio perpetuo d’ogni stronzata mai detta, dovremmo ancora star qui a parlare di voialtri che vi tirate gli occhi per fare i cinesi. Con questa indignazione perpetua si fanno i cuori sull’Instagram, ora vogliamo farci anche la tv?

Nessuna glielo dice, ma la migliore è Vagnoli perché – spero di venire condannata per il classismo di quest’affermazione, per variare rispetto alle abituali condanne per sessismo – ha fatto la barista: cosa vuoi che si spaventi d’un’inviata di “Striscia”, se sa liquidare gli ubriachi molesti. Per questo dico che è colpa sua, sua in quanto simbolo di questo sistema di feticizzazione della fragilità: perché meglio di altre sa che cavarsela è possibile, che non cedere ai prepotenti è possibile, e che non restare attaccate a vita alla sbucciatura che ci fece male è possibile.

Cavarsela è possibile, non restarci male è possibile, restarci male e farsela passare è possibile. Dopo vent’anni, e soprattutto quando la battutaccia Lagioia l’aveva fatta mentre la Panarello piangeva fino in banca: non stava esattamente infierendo su un soggetto debole, ma su una ragazza all’epoca molto più di successo di lui. Non che possa rivendicarlo, giacché viviamo in un gigantesco format di scuse perpetue e mai bastanti, e quindi sabato gli è toccato fare il suo contrito post ribadendo cenere sul capo: forse si potrebbero cominciare a produrre industrialmente, post di scuse per bisticci di vent’anni prima come un tempo si producevano in serie i biglietti di buon compleanno. Sarebbe una app di sicuro successo. 

La Servadio raccontava che poi era andata da un agente, Erich Linder, che l’aveva rassicurata: «Non si preoccupi, gli editori italiani non capiscono niente». Invece gli scrittori. Invece gli autori televisivi. Invece noi. 

Salone, i grandi scrittori di ieri e la solita intellighenzia di oggi. Luigi Mascheroni il 23 Maggio 2022 su Il Giornale.

Buzzati-Guareschi-Bianciardi stravincono. Boom Barbero Rula Jebreal fa la diva. E poi parte un lungo tappetto "rosso".

STRANE STORIE Secondo un rapporto di Save the Children di due giorni fa, metà dei ragazzi italiani non riesce a comprendere il significato di un testo scritto. L'altra metà, ieri mattina, dopo una delle code più tortuose della storia delle code di tutta la settimana del Salone, era in Sala 500 - da cui il numero dei posti - ad ascoltare Alessandro Barbero, romanziere premio Strega nel 1996, una storia sulla Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo, e storico arrivato al successo attraverso diversi canali, il più veloce dei quali è YouTube. Titolo dell'incontro: «Come si spiega la Storia in pubblico». Risposta: come Barbero. Divertendosi a studiarla, che è la strada più sicura per divertire spiegandola; sapere che dietro a un minuto di divulgazione ci sono 99 ore di ricerca; senza spocchia (come, un po', ce l'ha Laura Pepe, accanto a lui); autoironia; e un po' di coraggio (o, nel suo caso, ci sembra, ingenuità): quella che a volte ti porta a dire cose non correttissime, ma magari più vere di quelle troppo corrette. Libera Storia tra liberi libri.

Sì O NO? «Quando una donna dice NO, è NO. E l'uomo lo deve capire». È stato l'incipit molto agitato, ma anche l'explicit, altrettanto nervoso, dell'incontro di Rula Jebreal. E il NO era reiterato all'inviato della trasmissione di Massimo Giletti, che la inseguiva tra gli stand per intervistarla. Ma la giornalista italo-israeliana-palestinese è stata chiara: quella di Giletti non è informazione, è un talk pieno di bugiardi, sciamani, stregoni, negazionisti, propagandisti, e non vuole andarci. «Una donna ha il diritto di dire No a un uomo, e l'uomo ha il dovere di capirlo». È un diritto di Rula. Ma anche un dovere notare due cose, a margine. Uno: l'inviato che lo inseguiva era una donna. Due: per fortuna che Giletti lavora per La7 di Cairo-Corriere della sera. Lavorasse con Berlusconi? Diocenescampi. Non è l'Arena Bookstock.

«LEGGETE!» Consiglio del regista e scrittore Werner Herzog, protagonista assoluto della domenica Salottiera: «Bisogna conoscere il cuore delle persone. Se non lo si conosce non bisognerebbe fare film o scrivere libri. Spesso i giovani registi vengono da me e mi chiedono cosa devono fare, io gli dico viaggiate a piedi e leggete leggete leggete leggete».

CLAP CLAP CLAP! Fra insegnamenti, inseguimenti, divismi giornalistici, code e un caldo cambogiano, la giornata ha regalato tre grandi incontri (bisognerebbe selezionare di più: programma più snello fa rima con programma più bello): l'omaggio a Dino Buzzati, starring Lorenzo Viganò; lo show su Giovannino Guareschi messo in scena da Enrico Brizzi; la performance dedicata a Luciano Bianciardi da Tiziano Scarpa. Imperdibili.

«E QUINDI!?» Cose invece di cui non ci interessa un Lingotto. Come Alessandro Gassmann è diventato green. Il sequel di Fai bei sogni di Massimo Gramellini, dieci anni dopo, e anche fra altri dieci. I bagni «no gender» di Cathy La Torre. Che al Salone si fa fatica a trovare liberi quelli normali.

NON NE USCIREMO MAI Percorsi strani. Ce ne sono di due tipi, qui. Miracolosi: come quello di Mircea Cartarescu, che fino a 5-6 anni fa era un oscuro scrittore dell'Est, ospitato di straforo nello stand dell'Istituto Romeno di Cultura umanistica di Venezia, e ieri mattina presto riempiva la sala Azzurra dove parlava del romanzo Solenoide. E poi Misteriosi: come si esce vivi da una settimana di Salone?

TUTTO A SINISTRA! Ieri l'intellighenzia più bella e democratica, la Sinistra di festival e di potere, ha fatto percorso netto. Dalle ore 10 in avanti, in ordine sparso fra tre padiglioni e l'Oval, si potevano ascoltare: Massimo Recalcati, Loredana Lipperini, Umberto Galiberti, Mario Calabresi, Altan e Luca Bottura, Andrea Cortellessa, Marino Sinibaldi, Rula Jebreal («Ho detto NO!»), Erri De Luca, Massimo Giannini, Umberto Galiberti (ancora), Michele Serra, Teresa Ciabatti, Chiara Tagliaferri (è la moglie di Nicola Lagioia), Sandro Veronesi, Lidia Ravera, Loredana Lipperini (ancora), Beppe Severgnini, Veronica Raimo (la sorella di Christian Raimo), Zerocalcare, Massimo Giannini, Marino Sinibaldi (ancora), il ministro degli Esteri Luigi Di Maio (in visita privata), Fabrizio Gifuni, Gianrico Carofiglio, Cecilia Strada (figlia di), La rappresentante di lista, Massimo Gramellini (e tre), l'ala ultradestra della Sinistra Travaglio-Gomez-Barbacetto, Loredana Lipperini (e quattro), Walter Veltroni (in sala Rossa) e Laura Boldini (in sala Bianca). Sono le 19,30. Ed è abbastanza.

Salone del libro e Circolo dei lettori: non regaliamoli alla sinistra. Francesco Giubilei il 22 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il centrodestra ha l'opportunità di influenzare la scelta del prossimo direttore del Salone del libro di Torino e il presidente del Circolo dei Lettori, un'oppurtunità da non sprecare.

Nei giorni in cui migliaia di visitatori affollano i padiglioni del Salone del libro di Torino, tra gli addetti ai lavori del mondo editoriale e culturale c’è fibrillazione per due importanti nomine che influenzeranno nei prossimi anni le politiche culturali italiane. Si tratta della scelta del nuovo direttore del Salone del libro che dovrà succedere a Nicola Lagioia e del nuovo presidente del Circolo dei Lettori di Torino. Se nel primo caso c’è ancora tempo per arrivare a una decisione, per il Circolo dei Lettori si è alle battute finali. Istituzione torinese con prestigio nazionale, la nomina del nuovo direttore spetta alla regione che è governata dal centrodestra. In queste settimane sono circolati vari nomi e la partita è ancora aperta con due ipotesi in campo: da un lato tecnici che rischierebbero di non essere tali ma sbilanciati a sinistra, dall’altro una figura di spessore con valori assimilabili al mondo del centrodestra.

Tra i nomi circolati c’è quello dell’avvocato Stefano Commodo, personalità con legami nella società piemontese e soprattutto apprezzato anche nel mondo editoriale per le sue iniziative culturali. Sarebbe una scelta importante perché garantirebbe la nomina di un profilo culturale e valoriare ben definito. Il rischio di affidarsi a figure “tecniche” ma vicine all’apparato culturale della sinistra potrebbe avvenire per il Salone del libro di Torino di cui nel 2024 verrà indicato il nuovo direttore.

Si tratta di una questione di principio: quando la sinistra è al governo a livello nazionale, regionale, comunale, tende a compiere (attualizzando la lezione dell’egemonia gramsciana) un’occupazione dei posti chiave in ambito culturale. Siano essi teatri, fondazioni, circoli letterari, nulla viene lasciato al caso e nessuna posizione viene concessa a chi proviene da una diversa tradizione politico-culturale. Quando il centrodestra ha l'opportunità di governare, è necessario seguire lo stesso modus operandi e promuovere personalità, a livello locale e nazionale, che non solo non siano ostili ma provengano da un campo di gioco ben definito. Ciò non significa per forza scegliere figure con una connotazione partitica bensì orientarsi verso nomi che abbiano una visione valoriare condivisa. Solo così si potrà incidere riuscendo a realizzare programmi, eventi, iniziative che promuovano temi e autori spesso (ingiustamente) lasciati ai margini o che non trovano spazio quando la gestiione è di segno opposto. Il Salone del libro e il Circolo dei lettori rappresentano una doppia occasione da non perdere dal momento in cui il centrodestra governa in Piemonte e ha la possibilità di far sentire la propria voce.

I booktoker che fanno leggere i ragazzi della generazione Z. Stefania Vitulli il 20 Maggio 2022 su Il Giornale.

Minirecensioni, slogan, riti: i tiktoker sono diventati i "critici di riferimento" degli adolescenti. E gli editori...

Balletti e canzoncine, tutorial sul cibo, la tazzina di caffè o gesta posh e gestacci trash delle star? Forse all'inizio. Ma come tutti i mezzi di comunicazione, anche TikTok trova forme insospettabili, almeno dai boomer, per rendersi popolare e rendere popolari modi e mode dettati dagli influencer. Da qualche tempo sotto la lente di questa popolarità sono finiti i libri e il target è rimasto quello dei giovanissimi. Chi pubblica sulla piattaforma brevi video sui libri si chiama booktoker, termine che deriva dall'unione di book e tiktoker: sono recensioni lampo, di pochi secondi. Durata che accende la creatività, anziché limitarla, il che è forse uno dei motivi per cui quelle recensioni, se inserite nell'hashtag giusto, possono moltiplicare fino a nove volte il volume delle vendite di un titolo, uscito di recente o meno.

È successo a La canzone di Achille di Madeline Miller (Marsilio) nell'estate del 2020 negli Stati Uniti: a nove anni dall'uscita, è d'un tratto ripartito a razzo con 10mila copie al giorno. Mistero felice, e subito svelato: la diciottenne Selene Velez, @moongirlreads_ su TikTok, che conta oltre 160mila follower, lo inserisce nella sua lista dei «libri che vi faranno piangere»: in pochi giorni dal migliaio di copie medie di vendita su cui si era attestato (nonostante l'Orange Prize vinto nel 2012: meglio TikTok o un premio letterario? Pensiamoci su), il titolo decuplica, mentre l'hashtag #songofachilles sfora il tetto dei venti milioni di visualizzazioni. Questo era solo l'inizio: oggi i booktoker sono un fenomeno riconosciuto: non solo dal consueto pubblico adolescenziale e spesso infantile, bensì, udite udite, da esperti del settore ed editori. Merito dei numeri, certo, ma anche del rivitalizzarsi di una speranza: vuoi vedere che abbiamo trovato il modo di parlare di libri? Le parole rivoluzionarie per i teen sono brevità, spontaneità, emotività, anche se, come accade spesso con le piattaforme giovanili, TikTok sta diventando anche giovanilistico e gli over 40 non vedono l'ora di girare i propri video in cui recensire i libri del cuore.

Prendiamo l'hashtag #booktok: supera i 50 miliardi di visualizzazioni (mentre per #booktokitalia siamo a quasi 600milioni) e per editori e influencer è diventato un punto di riferimento per la promozione di titoli young adult, romance, fantasy sotto forma di suggerimento, recensione o anche soltanto un meme divertente: l'ecommerce di libri ha creato nuove categorie dedicate a BookTok come «TikTok made me buy it!» su Amazon UK o il BookTok sullo store di Barnes & Noble, mentre prendono piede hashtag sempre più specifici come #RomanceBooks, #RomanceTok, #BookRecs o #BookRecommendations. Il popolo di internet va su TikTok quando deve decidere che cosa va letto in quel momento a seconda dell'umore - ed ecco i titoli «che ti fanno piangere» o quelli che «non riesci a metter giù» - corredati da consigli che fanno la fortuna di chi ha l'idea più bizzarra, tipo «Che vestito indossare per entrare in un castello con l'amore della tua vita» o «i segni zodiacali di Hunger Games». Fra i titoli che devono dire grazie alle booktoker ci sono Heartstopper di Alice Oseman (Mondadori, anche serie Netflix), It ends with us. Siamo noi a dire basta di Coleen Hoover (Sperling&Kupfer) e un fenomeno nel fenomeno, Erin Doom e il suo Fabbricante di lacrime (Magazzini Salani). La Doom ha esordito con il nickname DreamsEater su Wattpad, piattaforma di autopubblicazione che è anche network per scrittura e recensioni collettive, e il nome è in realtà lo pseudonimo di una giovane scrittrice italiana: un gioco digitale di scatole cinesi che a ogni ingresso in una nuova piattaforma produce un aumento esponenziale di popolarità, follower e vendite.

Che il mezzo sia dirompente lo ha capito anche il Salone del Libro di Torino, che ha accolto la richiesta de ilLibraio.it di mettere l'ascesa di BookTok al centro di un vero e proprio miniworkshop tra addetti ai lavori: domani (Arena BookStock, 15.45) Antonio Prudenzano, che promuove l'incontro, la filosofa Maura Gancitano, Enrico Galiano, noto come uno dei prof più attivi sui social e scrittore, il direttore editoriale di Magazzini Salani Marco Figini, la redattrice de ilLibraio.it Jolanda Di Virgilio e soprattutto due tra le booktoker italiane più amate, Megi Bulla alias @labibliotecadidaphne e Valentina Ghetti alias @book.addicted discuteranno di «Cosa (e come) legge la generazione TikTok», senza dimenticare Wattpad, YouTube, Twitch e l'impatto dell'autopubblicazione su tutti questi media.

Ma come sono queste video/recensioni, quasi sempre sotto il minuto? Sicuramente ai profani conviene partire dalle booktoker italiane per capirci qualcosa, magari proprio da Megi Bulla e Valentina Ghetti, che al momento hanno ottimi numeri - 186mila follower la prima e oltre 85mila la seconda - e che rivelano un vero e proprio canone: bisogna essere molto naturali e poco patinati, l'algoritmo premia chi rimane lontano da filtri e perfezione tipici di Instagram, cioè, ma gli obiettivi di comunicazione devono essere comunque rilevanti e trasparenti, dagli insert di altri video nel proprio al second screen, ai tour tra gli scaffali della propria libreria e alle sfide di lettura di un volume in 24 ore. Megi ad esempio ha trovato il suo modus nei «live di lettura» dalle 21 alle 23 sulla sua poltrona gialla davanti alla libreria e guai a chi ha la suoneria del telefono accesa: i libri diventano un ulteriore elemento di appartenenza generazionale e i codici devono essere condivisi, pena l'insuccesso o, peggio, l'invisibilità.

Pacifismo, ecologia, genere: i soliti temi e i soliti protagonisti. Paolo Bianchi il 20 Maggio 2022 su Il Giornale.

Gli editori sgraditi? Esclusi. Si parla solo di "certe cause". E i relatori sono sempre gli stessi, legati a triplo filo.

Anche i puri tengono famiglia. A corollario della polemica che ha coinvolto il direttore del Salone Lagioia, notiamo che la fiera di Torino è ormai diventata talmente inclusiva da risultare esclusiva per tutti gli altri. Abbiamo notizia (senza fare i nomi per non causare dannazioni perpetue) di scrittori e editori di tutto rispetto, in campo da decenni, a cui la direzione di questa baracca ha negato spazio e facoltà di parola. Forse erano colpevoli di non aver proposto interventi su uno o più dei seguenti temi: violenza di genere, linguaggio non binario, difesa degli omosessuali bullizzati, pacifismo da salotto, ecologia generica. In compenso, basta scorrere i nomi di quelli che parlano sempre, per accorgersi della vastità di spazio pubblico loro garantito. Praterie. Anche qui, non faremmo nomi, anche perché chiunque può andare a controllare di persona sul sito di questo Minculpop di detentori delle chiavi d'accesso.

Narcisisti invadenti che si costruiscono la carrierina sull'ecolalia del loro Verbo infuso. Ecco le istruzioni per fare come loro: come avrebbe detto Eduardo De Filippo «Mettiti un povero al fianco, ci camperai tutta la vita». Parafrasando, prendere una donna oppressa, un gay sbeffeggiato, un fuggiasco dalle pallottole, una vittima dell'inquinamento, e strepitare ai quattro venti quanto la loro condizione ti commuova e quanto sia colpa della destra. Dare del fascista a chi dubita della tua buona fede (soprattutto dopo aver constatato quanta pubblicità personale tu ti stia facendo nello sventolio della tue insegne di purezza). Mettersi dalla parte della ragione senza contraddittorio. Acquisire il potere di stabilire chi può parlare sempre e chi mai, e poi compilare il calendario con amici e parenti. Essere, per questo profumatamente pagati con uno stipendio a cinque zeri, in modo da sistemare anche la discendenza.

Intellettuali organici che parlano in cinque, sei, nove, anche undici incontri in tre giorni. Abbastanza faticoso, a ben dire. Ma vuoi mettere i vantaggi. Parlerai dei tuoi libri, di quelli dei tuoi amici (i quali poi parleranno benissimo di quelli di tua moglie), e avrai sempre nuovi amici che ti renderanno il favore (finché sei in sella, poi ciao).

Certo, ti toccherà indignarti a favore delle donne che vogliono giocare a pallone con i maschi; equiparare una Resistenza con un'altra a ottant'anni di distanza e al di fuori di ogni analogo contesto storico; lacrimare per l'albero segato; intenerirsi per la presenza dei trans su TikTok; tendere, ma solo metaforicamente, e quindi a costo zero, la mano al povero Cristo del Terzo mondo. Poi, mentre ci sei, parlare del tuo ultimo libro, esaltarlo, esaltare te stesso, tromboneggiare, paragonarti, chessò, a Ennio Flaiano, metterti sullo stesso piano di Giovanni Papini, di Anna Maria Ortese, di Mario Rigoni Stern. Tanto sono tutti morti, mica possono uscire dalla tomba e venirti a prendere a calci nel sedere.

Che Veronica Raimo (oops, ci è sfuggito un nome), il cui fratello, stretto collaboratore dell'attuale direttorino, tre anni fa ha fatto cacciare dal Salone una casa editrice perché non gli piacevano i suoi libri; che costei, dunque, visto che vuol vincere il Premio Strega, debba godere di un'esposizione di gran lunga superiore a qualunque altro concorrente; che la moglie del direttorino strapagato possa intervenire a far pubblicità a se stessa nelle fasce orarie più appetibili. Che la candidata alla prossima direzione (e al prossimo stipendio) possa intervenire ovunque, è accettato come cosa naturale.

Tutto in nome dei deboli e degli emarginati. Nel nome della famiglia, purché sia la propria.

Premio Pulitzer 2022, ecco tutti i vincitori. Il Domani il 10 maggio 2022

Al Washington Post è andato il premio Pulitzer – medaglia d’oro – per la categoria giornalistica “servizio pubblico”. Premio speciale invece ai giornalisti dell’Ucraina «per il coraggio, la perseveranza e l’impegno dei resoconti veritieri durante la spietata invasione del loro paese da parte di Vladimir Putin»

I vincitori del premio Pulitzer 2022 sono stati annunciati ieri sera, 9 maggio, alla Columbia University di New York che è l’istituzione che ne cura l’assegnazione. Considerato come l’onorificenza più prestigiosa del giornalismo americano e internazionale, il premio fu istituito per volontà dell’editore e giornalista Joseph Pulitzer e assegnato per la prima volta nel 1917.

Le categorie premiate sono 21, 15 riguardano il giornalismo e sette le arti e le lettere. I vincitori di ogni categoria ricevono un premio di 15mila dollari, a eccezione del premio per il servizio pubblico, che ottiene una medaglia d'oro.

LE CATEGORIE

Le 15 categorie dedicate al giornalismo comprendono: servizio pubblico (Public Service), ultim’ora (Breaking News Reporting), divulgativo (Explanatory Reporting), investigativo (Investigative Reporting), locale (Local Reporting), nazionale (National Reporting), internazionale (International Reporting), miglior articolo (Feature Writing), commento (Commentary), critica (Criticism), editoriale (Editorial Writing), vignetta editoriale (Editorial Cartooning), fotografia di ultim'ora (Breaking News Photography), servizio fotografico (Feature Photography), poscast (Audio Reporting).

Le sette categorie dedicate alle artie a alle lettere invece includono: narrativa (Fiction), drammaturgia (Drama), storia (History), biografia e autobiografia (Biography or Autobiography), pesia (Poetry), saggistica (General Non-Fiction), musica (Music).

I VINCITORI

Servizio pubblico (Public Service) 

La medaglia d’oro per il “servizio pubblico” è andata al quotidiano statunitense Washington Post per aver documentato l’attacco di Capitol Hill del 6 gennaio 2021, quando i sostenitori del ex presidente Donald Trump assaltarono il Congresso. Secondo la giuria, il quotidiano ha fornito «al pubblico una comprensione completa e incrollabile di uno dei giorni più bui della nazione».  

Ultim'ora (Breaking News Reporting)

Il premio per la categoria “breaking news” è andata allo staff del quotidiano di Miami Herald (Florida) per aver fornito «una scrittura chiara e compassionevole con notizie complete e rapporti di responsabilità» nel coprire con urgenza il crollo di un complesso condominiale  a nord di Miami Beach, avvenuto il 24 giugno 2021. 

Giornalismo investigativo (Investigative Reporting)

Premio Pulitzer per la categoria “giornalismo investigativo” ai giornalisti Corey G. Johnson, Rebecca Woolington e Eli Murray del Tampa Bay Times, quotidiano di St. Petersburg, in Florida, per il lavoro intitolato Poisoned. «Una denuncia convincente sui rischi altamente tossici all’interno dell’unico impianto di riciclaggio di batterie della Florida che ha costretto l'attuazione di misure di sicurezza per proteggere adeguatamente i lavoratori e i residenti nelle vicinanze».

Tampa Bay Times. Da sinistra, l'editore e vicepresidente del Tampa Bay Times, Mark Katches, posa con i giornalisti investigativi Rebecca Woolington, Corey C.Johnson ed Eli Murrray, la squadra che ha ricevuto il Premio Pulitzer 2022 per i rapporti investigativi, per "Poisoned" 

Giornalismo divulgativo (Explanatory Reporting)

Nella categoria del “giornalismo divulgativo” il premio è andato alla redazione della rivista scientifica on line Quanta Magazine e in particolare Natalie Wolchover, per aver restituito «la complessità della costruzione del telescopio spaziale James Webb», a raggi infrarossi, lanciato in orbita il 25 dicembre 2021 dlla Guiana Francese, «progettato per facilitare la ricerca astronomica e cosmologica rivoluzionaria». 

Giornalismo locale (Local Reporting)

Il premio per il “giornalismo locale” è andato ai giornalisti Madison Hopkins, dell’associazione di giornalismo investigativo indipendente Better Government Association, e Cecilia Reyes, del quotidiano Chicago Tribune. Hanno svolto un’inchiesta sulla lunga storia di violazioni delle misure di sicurezza nell’edilizia di Chicago, causa di decine di morti sul lavoro. 

Giornalismo nazionale (National Reporting)

Al New York Times il premio nella categoria “giornalismo nazionale”, per l’inchiesta sulle pratiche usate dalla polizia durante i controlli stradali, che avrebbero portato all’uccisione centinaia di persone disarmate negli ultimi cinque anni. «Un progetto ambizioso che ha quantificato un modello inquietante di arresti mortali del traffico da parte della polizia, mostrando come si sarebbero potute evitare centinaia di morti».

Giornalismo internazionale (International Reporting)

Anche il premio del “giornalismo internazionale” è andato al New York Times, «per i rapporti coraggiosi e implacabili che hanno messo in luce» le vittime civili degli attacchi aerei guidati dagli Stati Uniti» nei teatri operativi di Iraq, Siria e Afghanistan, «sfidando resoconti ufficiali». 

Miglior articolo (Feature Writing)

Vincitrice di questa categoria è stata Jennifer Senior della rivista culturale statunitense The Atlantic, «per un ritratto risoluto» sulla perdita in occasione del ventesimo anniversario dell’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre. Il lavoro ha raccontato il lutto e le ricerche dei famigliari di un ragazzo morto durante l’attentato «intrecciando la storia con resoconti sensibili che rivelano la lunga portata del dolore».

Commento (Commentary)

Premio per il miglior commento a Melinda Henneberger del quotidiano Kansas City Star, che con articoli persuasivi ha chiesto «giustizia per le presunte vittime di un ex poliziotto in pensione accusato di essere uno stupratore». 

Critica (Criticism)

Nella categoria “critica” troviamo di nuovo il New York Times, ad aggiudicarselo è stato Salamishah Tillet, «per la scrittura colta ed elegante» che racconta gli afroamericani nell’arte e nella cultura pop, «un lavoro che unisce con successo il discorso critico accademico e non accademico»

Editoriale (Editorial Writing)

A Lisa Falkenberg, Michael Lindenberger, Joe Holley e Luis Carrasco del quotidiano texano Houston Chronicle, il premio per la categoraia “editoriale”. Hanno svolto una «campagna che, con rapporti originali, ha rivelato tattiche di repressione degli elettori, ha respinto il mito della diffusa frode elettorale e ha sostenuto riforme elettorali sensate». 

Vignette (Editorial Cartooning)

Il premio per le illustrazioni è andato a Fahmida Azim, Anthony Del Col, Josh Adams e Walt Hickey di Insider, per il racconto in fumetti della storia «dell’oppressione cinese degli uiguri, rendendo il problema accessibile a un pubblico più ampio». 

Fotografia di ultim'ora (Breaking News Photography)

Premi fotografici a Marcus Yam del quotidiano Los Angeles Times, «per le immagini crude e urgenti della ritirata degli Stati Uniti dall'Afghanistan» e a Vinci McNamee, Drew Angerer, Spencer Platt, Samuel Corum e Jon Cherry dell’agenzia fotografica di Seattle Getty Images, «per foto complete e sempre avvincenti» relative all'attacco al Campidoglio degli Stati Uniti.

Servizio fotografico (Feature Photography)

Premio per il miglior servizio fotografico ai fotoreporter dell’agenzia stampa Reuters Adnan Abidi, Sanna Irshad Mattoo, Amit Dave e al defunto Siddiqui di Reuters per le immagini sul Covid in India, «che hanno bilanciato intimità e devastazione, offrendo agli spettatori un maggiore senso del luogo». 

Poscast (Audio Reporting)

Il premio per la sezione multimediale del giornalismo audio è andato alla redazione dell’organizzazione di giornalismo multimediale, Futuro Media di New York, e all’organizzazione di giornalismo audio Prx di Boston, per il podcast Suave, che racconta il ritorno nella società di un uomo dopo una pena di trent’anni in carcere.

Drammaturgia (Drama)

Il premio per la “drammaturgia” se lo è aggiudicato l’opera teatrale Fat Ham , di James Ijames. «Una commedia divertente e toccante che traspone abilmente "Amleto" in un barbecue di  una famiglia» degli Stati Uniti del Sud.

Storia (History)

Nella sezione “storia” sono stati premiati i libri Covered with Night, di Nicole Eustace (edito da Liveright/Norton) e Cuba: An American History, di Ada Ferrer (edito da Sribner). Raccontano rispettivamente dell’amministrazione della giustizia tra gi indigeni e di come l’isola di Cuba sia diventata un’ossessione per molti presidenti americani.

Biografia e autobiografia (Biography or Autobiography)

Chasing Me to My Grave: An Artist's Memoir of the Jim Crow South , dell’artista afroamericano Winfred Rembert venuto a mancare nel marzo 2021, raccontato a Erin I. Kelly (edito da Bloomsbury). «Un bruciante resoconto illustrato in prima persona della vita dell’artista negli anni Cinquanta e Sessanta, in un angolo del profondo sud: un resoconto di abusi, resistenza, immaginazione e trasformazione estetica». 

Poesia (Poetry)

Premio “poaesia” all’opera Frank: sonetts , di Diane Seuss (edito da Graywolf Press), «una raccolta virtuosistica che espande in modo inventivo la forma del sonetto per affrontare le contraddizioni disordinate dell'America contemporanea, inclusa la bellezza e la difficoltà della vita della classe operaia nella Rust Belt», la regione sttatunitense compresa tra i monti Appalachi settentrionali e i Grandi laghi, un tempo cuore dell'industria pesante statunitense.

Saggistica (General Non-Fiction)

Nella “saggistica generale” il Pulitzer 2022 è stato assegnato al libro Bambino invisibile: povertà, sopravvivenza e speranza in una città americana, di Andrea Elliott (edito da Random House). «Un racconto toccante» di una ragazza che diventa maggiorenne durante la crisi dei senzatetto di New York. «Un ritratto di resilienza nel mezzo del fallimento istituzionale che fonde con successo la narrativa letteraria con l'analisi politica». 

Musica (Music)

Voceless Mass, del musicista Raven Chacon, si è aggiudicato il premio Pulitzer “musica”, «un'opera originale e affascinante per organo».

Premio speciale

Infine, il premio speciale Pulitzer 2022 è stato assegnato ai giornalisti dell’Ucraina «per il loro coraggio, la perseveranza e l’impegno messo nei resoconti veritieri, durante la spietata invasione del loro paese da parte di Vladimir Putin e la sua guerra di propaganda in Russia».

«Nonostante i bombardamenti, i rapimenti, l’occupazione e persino le morti nei loro ranghi, hanno persistito nel loro sforzo di fornire un quadro accurato di una terribile realtà, facendo onore all'Ucraina e ai giornalisti di tutto il mondo», si legge nelle motivazioni della giuria.

Premio Strega: politicamente corretto. Marcello Fois: «Il Premio Strega determina o subisce il mercato?».

Marcello Fois su L'espresso il 23 maggio 2022.  

Lo scrittore sciorina una serie di domande scomode intorno al più importante riconoscimento letterario italiano. Tra le altre: “Un romanzo in classifica è, necessariamente, da cinquina?”

Qualche tempo fa, in un salotto bolognese, dopo aver assistito alla presentazione di un romanzo, si discuteva sul fatto che, per ragioni apparentemente imperscrutabili, il Premio Strega avrebbe, come dire, cambiato pelle. La qual cosa, ben inteso, non è un male di per sé, ma lo diventa se questo cambiamento rappresentasse un travisamento, se non un vero e proprio tradimento, della sostanza che ha fatto diventare questo riconoscimento il più importante dell’editoria, a volte anche della letteratura, italiana. Gli argomenti sul tavolo erano vari. Primo fra tutti quello che riguarda il mercato come punto attraverso il quale si possa monitorare il peso, crescente o calante, della manifestazione. Ma il Premio Strega il mercato lo determina o lo subisce? Si chiedeva qualcuno. Una domanda tutt’altro che peregrina considerato il fatto che, nella composizione delle cinquine sempre più spesso si fa riferimento alla presenza di romanzi che sono già sul mercato e hanno già manifestato un riscontro da parte dei lettori. Perciò la domanda, presa d un altro punto di vista sarebbe: un romanzo in classifica è, necessariamente, da cinquina? O meglio: la presenza in classifica favorisce l’ingresso in cinquina qualora quel romanzo sia stato proposto, poi selezionato per i dodici e così via? È una domanda che attiene ad un punto diciamo deontologico di un premio di questa caratura e cioè il vezzo di sondare la scrittura del nostro Paese sorvolando le secche di ciò che va di moda e tenendo la barra su ciò che si propone, ed è progettato, per resistere. Si capisce da subito che tutte le domande che la società letteraria può farsi su questo argomento su questo argomento sono necessariamente domande scomode. Innanzitutto perché una delle caratteristiche dell’agire intellettuale, è proprio di non aver nessuna paura delle domande scomode.

Scomodissima è la domanda sul fatto che sia lecito o meno favorire l’ingresso di esordienti assoluti nel novero dei candidati e qualche volta dei vincitori. La nota teoria Pirandello metteva in guardia dall’ammettere ai premi letterari, che non fossero dedicati specificatamente a quella categoria, esordienti assoluti, o opere prime. E questo perché, affermava il nostro Nobel, ci sono premi che prospettano carriere e premi che certificano carriere. Mi sembra una questione seria, che ha a che fare ancora una volta col peso specifico che un riconoscimento pubblico deve, o dovrebbe considerare, prima dell’assegnazione. Ora qualcuno obbietta che una manifestazione consolidata come il Premio Strega ha anche il dovere di sondare il nuovo che avanza non solo di attestare carriere in corso. Secondo altri inseguire la novità significa troppo spesso confondere il nuovo col nuovismo e adattarsi supinamente all’idea che basti essere giovani, o, peggio, giovanili per garantirsi un posto tra i candidati. Poi c’è la questione annosa di quello che i detrattori chiamano “Cencelli editoriale” e sarebbe: davvero tutte le case editrici o varie, grandi e piccole, debbono necessariamente essere rappresentate al Premio Strega? Faccio la domanda diversamente: stiamo parlando di una gara tra autori e romanzi o tra case editrici? Chiarisco che se dovesse assodarsi la seconda ipotesi non ci sarebbe niente di male. Ma, al momento, il nostro premio, pare ancora attribuirsi ad opere di narrativa, con tutte le estensioni del caso. E se venisse fuori che in un anno specifico tre romanzi di un’ipotetica cinquina sono dello stesso editore? Sarebbe un problema? Vale a dire: si può escludere un ottimo romanzo di una casa editrice per far posto ad un mediocre romanzo di un’altra casa editrice in deficit di rappresentatività? E la quota per le piccole case editrici? E se capitasse un anno che tutti i libri degni della cinquina, secondo gli Amici della Domenica siano di piccole case editrici?

E qui sorge la domanda delle domande. Il Premio Strega ha finito per decretare il suo vincitore attraverso il doppio turno tra giuria “tecnica” e “giuria popolare” come il Campiello, o è rimasto quel Premio di cui la Bellonci affermava essere l’unico deliberato da un’ampia giuria di pari provenienti dal mondo della letteratura, dell’arte, del cinema, dello sport, della società civile? Le novità di questi anni per quanto riguarda proposta, selezione ed esclusione dei candidati pare far propendere proprio per quel modello in cui questa giuria di pari avrebbe un nucleo di più pari che decide per tutti. E lo dico da amico della domenica che ogni anno, spero con grazia, svolge al meglio che può il suo compito di giurato. Lo dico anche da passato candidato alla cinquina. Ho un grande rispetto e stima per i miei colleghi che si sono presi l’onere di far parte del gruppo dei più pari, ma non nego che spesso soffro questa sperequazione, perché se mi si dice che ho libertà di proposta, che cioè posso segnalare al premio un romanzo che secondo me merita attenzione, quell’attenzione deve avere un senso. La mia presenza nel gioco dei pari deve essere equipollente. Se no mi si dica con chiarezza che, per mutazione genetica, questa parità non esiste o che viene congelata fino a che i più pari non avranno stabilito una dodicina sui libri proposti. E quest’anno sono stati 74. Ad essere schietti si dovrebbe avere il coraggio di dire che le riforme continue del sistema di voto dello Strega hanno trasformato parte della giuria di pari in una giuria popolare. E, ancora e sempre, non ci sarebbe niente di male in questo a patto però che non si proclamasse il contrario. A patto cioè che non si insista con la retorica del Premio a sé. Un libraio presente nel salotto bolognese da cui questa mia riflessione ha preso il via, ha concluso amaramente, proprio prima che ci congedassimo, che il Premio Strega ormai offre una cassa di risonanza notevole solo ai libri che già funzionano e che non è più in grado di determinare un’alternativa all’attuale, generare un Pantheon, consacrare una carriera letteraria. Lo faceva, dice il libraio, non lo fa più.

Mario Desiati ha vinto il premio Strega. Il Domani l'08 luglio 2022

Lo scrittore pugliese ha ottenuto il premio con Spatriati, un romanzo ambientato nella sua Martina Franca e dedicato all’emigrazione dal sud Italia

Lo scrittore Mario Desiati ha vinto ieri sera il Premio Strega con il romanzo Spatriati, edito da Einaudi una storia di amore e di emigrazione dal mezzogiorno. Quella di ieri è stata la prima edizione con sette finalisti. Al secondo posto è arrivato Claudio Piersanti con Quel maledetto Vronskij, Rizzoli. Al terzo Alessandra Carati, con E poi saremo salvi, Mondadori. Quarto posto Veronica Raimo, vincitrice dello Strega Giovanni 2022, con il romanzo Niente di Vero, Einaudi. Al quinto posto è arrivato Marco Amerighi con Randagi, Bollati Boringhieri. Sesto e settimo posto, rispettivamente, per Fabio Baca con Nova, Adelphi, e Veronica Galletta con Nina sull’argine, minimum fax.

Desiati, 45 anni, è nato a Locorotondo, in provincia di Bari, ma è cresciuto a Martina Franca, la città dove è ambientato il suo romanzo. Per Domani, Desiati ha pubblicato il racconto Storia di un matrimonio che nessuno ha celebrato.

Premio Strega 2022, vince Mario Desiati. LUCA ZANINI su Il Corriere della Sera l'8 luglio 2022.

Al Ninfeo di Villa Giulia la serata conclusiva. L’autore di «Spatriati» (Einaudi) stravince e ricorda l’amico Alessandro Leogrande. Sul podio Claudio Piersanti e Alessandra Carati. L’omaggio a Raffaele La Capria

Un’edizione senza scossoni, fatta eccezione per l’acquazzone che all’inizio ha costretto tutti sotto i portici nel Ninfeo di Villa Giulia. Battesimo bagnato dunque per Mario Desiati, che si aggiudica il Premio Strega 2022 con Spatriati (Einaudi). Lo scrittore, dato per favorito fin dalla semifinale di Benevento, conquista il podio undici anni dopo la sua prima promozione nella cinquina del concorso fondato nel 1947 da Maria e Goffredo Bellonci: all’epoca, partecipava con il romanzo Ternitti (Mondadori).

La conferma è arrivata dopo mezzanotte nel cortile del Museo Nazionale Etrusco di Roma, quando Giuseppe D’Avino, presidente di Strega Alberti Benevento, l’azienda che fin dalla prima edizione sostiene lo Strega, ha proclamato il vincitore. Desiati non ha bevuto, come da tradizione, il liquore Strega in diretta tv avanti al tabellone: «Lascerò questa bottiglia intonsa — ha detto —. La berrò in Puglia, in ricordo degli scrittori della mia terra, a cominciare da Maria Teresa Di Lascia, che lo vinse nel 1995 e non poté ritirarlo perché morì qualche mese prima. E vorrei aprirla vicino a dove è Alessandro Leogrande, che è un mio amico: la avremmo bevuta insieme».

Desiati ha vinto con un netto distacco: 76 voti sul secondo classificato, Claudio Piersanti con Quel maledetto Vronskij (Rizzoli). I voti degli aventi diritto nel seggio presieduto da Emanuele Trevi, vincitore del Premio Strega 2021 (si sono espressi l’81% dei 400 Amici della Domenica, nucleo storico della giuria, dei 220 studiosi, traduttori e intellettuali italiani e stranieri selezionati da Istituti italiani di cultura all’estero, e 40 tra lettori forti e voti collettivi) sono stati chiari. Sul totale di 537 preferenze, Desiati ha avuto 166 voti; Piersanti 90 voti; Alessandra Carati, E poi saremo salvi (Mondadori) 83 voti; Veronica Raimo, Niente di vero (Einaudi) 62 voti; Marco Amerighi, Randagi (Bollati Boringhieri) 61 voti; Fabio Bacà, Nova (Adelphi) 51 voti; Veronica Galletta, Nina sull’argine, (minimum fax) 24. A Veronica Raimo, già vincitrice dello Strega Giovani è andato anche lo Strega Off.

Nella serata presentata da Geppi Cucciari all’inizio sotto l’ombrello, la sfida tra Spatriati e Quel maledetto Vronskij, si è giocata negli ultimi minuti ma l’esito era ampiamente previsto. «Il confronto con gli altri autori è stato emozionante — ha detto Desiati, occhi truccati, completo di Valentino, camicia di seta bianca pochette, scarpe rainbow e ventaglio—, perché uno scrive per alimentare i dubbi e non per dare le risposte». Lui che ha vissuto tra la Puglia e Berlino (oggi è a Roma, ma torna spesso in Germania) racconta nel suo romanzo la crescita di due ragazzi «in fuga dagli stereotipi e dalla pressione sociale», trapiantati all’estero ma che rifiutano «il lamento degli expat», che invitano a non sottovalutare «i semi della poesia, l’intreccio delle nostre radici, il nostro mondo interiore». Il tema comune ai due libri è l’esistenza difficile, in giovane come in tarda età, dei protagonisti: «Nel mio primo libro raccontavo degli italiani che emigravano in cerca di lavoro e si ammalavano — ha spiegato Desiati —, perché l’Italia è uno dei Paesi da cui si emigra di più; in questo, ho cercato di rappresentare i giovani che cercano fortuna fuori dal loro ambito familiare, che fuggono. E che possono fallire. Quelli che per scelta o per destino non incarnano i modelli sociali vincenti della nostra società, eppure non per questo rappresentano una generazione persa».

I suoi «spatriati» Francesco e Claudia crescono insieme e si inseguono tra la Puglia e Berlino, andata e ritorno, giovani «divergenti e inquieti» alla ricerca di un equilibrio che non arriva mai, spinti da una volontà strenua di trovare sé stessi e un posto nel mondo, ma ostacolati dai propri dubbi. Mentre nel bel libro di Piersanti, la parabola di una coppia affiatata che, nonostante l’amore, si piega al ricatto della malattia e poi ritrova un’apparente ma caduca serenità, riesce a commuovere chi si avvicina alla terza età con timore e speranza.

È stata una serata all’insegna della partecipazione ritrovata. Con il pubblico delle grandi occasioni e migliaia di spettatori a seguire la diretta su RaiTre in cui c’è staro anche l’omaggio a Raffaele La Capria, scomparso il 26 giugno, che nel 1961 vinse per un solo voto di scarto, con Ferito a morte: «La Capria è stato un maestro della leggerezza e mi piace ricordarlo con il suo sorriso sornione, felpato» ha detto il regista Roberto Andò.

Nella selezione che lo scorso 8 giugno a Benevento aveva portato alla «settina» — conducendo in finale, per la prima volta nella storia dello Strega, ben sette autori anziché i consueti cinque — gli equilibri erano già apparsi chiari nella conta dei voti: in semifinale Desiati era dato per superfavorito, con 244 preferenze a Spatriati e un vantaggio di 66 sul secondo classificato, Piersanti (178), separato di soli tre punti dal terzo, Marco Amerighi (175) che con Randagi ha portato per la prima volta allo Strega Bollati Boringhieri.

Cosa resta, per chi ha giàpotuto leggere i romanzi dei sette finalisti, di questo Premio Strega? C’è come un senso di resa, il cordoglio per le sofferenze altrui, lo sconforto per le incomprensioni familiari che si perpetuano. Solo con la menzogna, nel sapersi inventare un’esistenza diversa e magari mai vissuta, si può sopravvivere ai rovesci della vita e ai sabotaggi perpetrati dai parenti più stretti, sembra dirci Raimo in Niente di vero. Eppure, in questo mare di occasioni mancate e svolte sbagliate, di sliding doors che si aprono sul futuro più grigio, precludendo vite dignitosamente serene, c’è chi trova la forza di sopravvivere: chi reinveste in passioni brucianti il dolore del male di vivere.

Il pugliese Mario Desiati vince il «Premio Strega 2022». Lo scrittore di Martina Franca trionfa al più ambito riconoscimento letterario italiano con il libro "Spatriati". Aldo Losito su La Gazzetta del Mezzogiorno l'8 Luglio 2022

Il Premio Strega torna in Puglia, con Mario Desiati che vince l'edizione 2022. E' intitolato "Spatriati" (Einaudi) il libro del 45enne scrittore di Martina Franca, che segue nel palmares Emanuele Trevi vincitore nel 2021.  «Spatriati è una parola del dialetto martinese che vuol dire, appunto, irregolare. E' un seme dentro tutti noi. E' un modo anche per insultare e indicare una persona, che non obbedisce alle regole generali». Così Desiati ha spiegato il suo libro nella cerimonia conclusiva svolta al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a Roma con la conduzione di Geppi Cucciari, e andata in diretta tv su Rai3. Desiati era il favorito della vigilia, e non ha tradito le attese. «Aprirò la bottiglia della vittoria in Puglia, per festeggiare tutti gli scrittori della mia terra», le sue parole alla consegna del premio.

«La Puglia è una terra di frontiera. Sono cresciuto con gli scrittori pugliesi del Novecento, una di queste era Mariateresa Di Lascia che vinse qui nel 1995 ma non potè ritirare questo premio perché morì alcuni mesi prima. Lo dedico a lei e ai lavoratori dell’editoria italiana e alle anime che lavorano al mondo del libro italiano. Non basta la passione, ci vuole un contratto vero» ha detto a caldo Mario Desiati, vincitore con 166 voti del Premio Strega 2022, con la bottiglia di Strega in mano. 

Gli irregolari. Il giorno in cui scoprii che mia madre era andata via di casa. Mario Desiati su L'Inkiesta il 27 Aprile 2021

Un romanzo che comincia con una separazione e un amore giovanile. È “Spatriati”, di Mario Desiati (Einaudi), una storia di relazioni e crescita, dalla provincia al mondo intero che riassume le complessità di una generazione senza radici.

Per Claudia i primi tempi non esistevo. Era la più alta della scuola, i capelli rossi sfavillavano sul collo – la tonalità delle marasche che i miei nonni avrebbero raccolto in estate per trasformarle in barattoli di confetture granata e amaranto. Gli occhi di un colore diverso l’uno dall’altro, marrone chiaro e verde azzurro, quegli occhi che qui chiamano «di bosco». Aveva ossa sporgenti, zigomi appuntiti, il viso magro e allungato.

Durante la ricreazione l’atrio del Tito Livio si svuotava, gli studenti correvano ad accalcarsi contro il muro per abbeverarsi d’ombra. L’unica al sole era lei. Se qualcuno avesse potuto osservare il quadrato dell’atrio dall’alto avrebbe visto un deserto d’asfalto con un puntino rosso al centro.

Si portava addosso alcuni miei stessi vizi antisociali: si toccava il naso e si arrotolava una ciocca di capelli attorno all’indice. Tra i suoi libri spiccava il cartoncino colorato dei manga di Rumiko Takahashi, arrivava a scuola ascoltando musica con le cuffie senza curarsi di nessuno. 

Nel cambio d’ora affilavo matite stando nei suoi paraggi, chiacchieravo con insipidi compagni dalle facce squadrate e l’alito di Philip Morris.

Un giorno sentii lo squallido interrogatorio al quale era stata sottoposta da un drappello di usurpatori delle sue attenzioni: «Perché stai sola?», «Perché non fai come gli altri?» Intendevano dire: «Perché sei come sei e non sei come noi?» Insistevano con aria melliflua, la incalzavano, e Claudia rispose: – È già difficile essere uguale a me, figuriamoci essere uguale agli altri.

Facile rifugio l’amore non corrisposto, per le adolescenze solitarie e insicure, quelle di chi ancora non sa chi è, e io non sapevo quasi niente di me, e tutto ciò che ero stato fino ad allora lo tenevo nascosto, terrorizzato che potessero giudicarmi inadatto.

Venivo da un’infanzia di oratori di campagna e squadracce di calcio di periferia, con allenatori che allungavano le mani e preti con la gamba di legno che si facevano frizionare l’arto monco in sagrestia, mentre nella chiesa vuota i più ribaldi giocavano a pallone usando l’altare come porta.

I Veleno non parevano preoccupati dei segni rossi che mi disegnavano le gambe, non si preoccupavano che pregassi o peccassi, nemmeno quando tornavo dalla campagna pieno di terra, umiliazione e odore di concime.

Era appena finito l’anno scolastico, l’estate si spalancava in distese di papaveri e grano. Rientrato a casa non trovai nessuno.

Mi abbandonai al silenzio, poi al crepuscolo che annerì le stanze e mi immalinconì. Mangiai solo del pane bagnato in acqua con sale e pomodori, la mia cena quando mia madre faceva il turno serale e mio padre spariva dietro le sue ambigue commissioni. Mi addormentai sul divano.

Al mattino la casa rimase silenziosa, nessuno dei trambusti che mi svegliavano di solito quando mia madre tornava dall’ospedale o mio padre riempiva il lavabo per la barba parlandosi allo specchio. Vuota. Con occhi di catrame e la gola inaridita vagai stordito, finché non rinvenni sulla scrivania di fòrmica – un banco di scuola che mio padre aveva trafugato dal suo istituto tecnico per farne il mio scrittoio – una busta bianca: «Alla mia Uva nera». Ebbi la sensazione che mia madre l’avesse scritto più per lei che per me.

Sono dovuta uscire e non c’eri. Ti parlerò di questi giorni che verranno. Ti aspetto in ospedale.

C’era il tempo futuro e questo non mi rassicurava. Misi piede per la prima volta in ospedale e nelle narici salì un odore simile alla benzina, i corridoi semivuoti rimandavano lo scalpiccio sul pavimento, le grandi vetrate si sporgevano a valle e dentro le stanze con le porte socchiuse ombre impalate vegliavano corpi avvolti nel bianco.

Mia madre apparve con le spalle erette, in uniforme, un paio di sabot e le calze trasparenti. Il viso luminoso, gli occhi infuocati e lucidi, i capelli costretti in un pugno biondo sulla cima della testa.

Mi abbracciò più del solito, la sua carezza sulla schiena assomigliava a un energico massaggio, il trasferimento di un codice tra me e lei, animali della stessa specie che si riconoscono.

Profumava di domenica mattina e mi teneva la mano spingendomi nella sala dei medici dove saremmo stati tranquilli. Fischiettava il motivetto di Vacanze romane dei Matia Bazar.

Era felice, mentre io faticavo a trattenere il nervosismo, cosa c’era da essere felici in quel posto? Disse svariate cose che il mio cervello elaborava e subito rimuoveva, il sorriso con cui mi aveva accolto man mano si trasformava in un’espressione di circostanza, severa.

– Saremo lontani, ma solo per un po’, abbiamo bisogno di spazio –. Giunse al punto: aveva lasciato mio padre.

– Piú avanti capirai, – concluse.

Tornai a casa prosciugato, concentrato sul suono che fanno le scarpe di gomma sull’asfalto.

– Tanto torna, tornano tutte, – proclamò il fanfarone, mio diretto ascendente, vedendomi sulla soglia pieno di lacrime non piante e di urla trattenute.

La routine delle nostre giornate cambiò, lui portava in casa i piatti di pasta preparati dalla nonna avvolti in uno straccio tiepido, oppure riscaldava delle zuppe pronte bruciandole con puntualità e rovesciando contumelie contro pentole, fiamme del gas, produttori di zuppe.

Non era mai colpa sua, sempre di qualcun altro, ma ancora non riconoscevo i cercatori di capri espiatori e non sapevo come trattarli. Covavo rabbia ardente sotto la cenere dell’apparenza mite, non perché i miei genitori si erano separati, ma perché non lo avevo capito prima.

da “Spatriati”, di Mario Desiati, Einaudi, 2021, pagine 288, euro 20

© 2021 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano

"Chi si libera fa paura. Come i miei Spatriati". Stefania Vitulli il 9 Luglio 2022 su Il Giornale. 

Il vincitore del Premio Strega spiega la genesi del suo libro: "Scrivere è un esercizio spirituale". I pronostici sono stati rispettati: Mario Desiati con il suo Spatriati (Einaudi) si è aggiudicato il Premio Strega al Ninfeo di Villa Giulia. La scuderia Einaudi era in gara con ben due titoli (Veronica Raimo e il suo Niente di vero era l'altro) su sette invece che cinque finalisti - la vera novità di quest'anno - dovuta alla quota per i piccoli editori e all'ex aequo tra Fabio Bacà, con Nova, (Adelphi) e Alessandra Carati, con E poi saremo salvi (Mondadori) nel giro di votazioni per la selezione della cinquina. Spatriati ha vinto con 166 voti, staccando il secondo, Claudio Piersanti e il suo Quel maledetto Vronskij (Rizzoli) di ben 76 preferenze.

Chi un posto al mondo non ce l'ha ha trovato in questo romanzo di Desiati un inno e un manifesto. È la storia di Claudia e Francesco che crescono insieme, indipendenti a tutto e a se stessi, ma anche appartenenti: all'inquietudine, alla gioventù, a una terra franca, ardente, ai limiti della sprezzatura. Desiati, 45 anni, non è nuovo allo Strega: partecipò già nel 2011, quando arrivò penultimo con Ternitti e a vincere fu Edoardo Nesi. Tra gli altri suoi romanzi, Il paese delle spose infelici (Mondadori) divenuto un film, e Candore, sempre con Einaudi.

Desiati, il giorno dopo lo Strega non è facile per nessuno: come va?

«Non sono ancora lucido e non sono molto affine ai territori promozionali».

Il romanzo non è uscito da poco: un bilancio.

«È un libro a lunga gestazione, che ho iniziato a scrivere nell'ottobre del 2015, quando stavo a Berlino. Sono arrivato a scriverlo in tanti anni perché stavo cambiando come persona e cambiava il mio sguardo sul mondo. Lasciavo l'editoria per dedicarmi alla vita più sociale, lontano dalla mondanità con la quale avevo a che fare per il mio lavoro di editore».

Chi si può ritrovare in un libro come questo, uscito un anno e mezzo fa ma probabilmente presto tra i più venduti in Italia?

«Spatriati è la storia di persone che non si vogliono definire, perciò in questo anno e mezzo alcuni lettori ci si sono senza dubbio ritrovati, ma altri per niente. È un romanzo che divide, perché parla di persone che si liberano e perciò fa paura, perché chi fa un cammino di liberazione fa paura. Io tifo perché nessuno si rappresenti nel libro, perché vorrebbe dire che ho fatto un calco della realtà, solo una copia».

Come è arrivato allo Strega?

«Questo libro per me era archiviato da ottobre 2021: avevo fatto le presentazioni, chiuse con un bell'incontro al Salone Off del Libro di Torino ed ero partito per la Germania, dove mi trovavo per lavorare al nuovo romanzo. Poi, il ritorno. Tanti amici, a cominciare da Alessandro Piperno con il suo Io ti voglio presentare allo Strega, hanno cominciato a sostenere questa necessità: Merita di partecipare, dicevano. Ammetto che non volevo. E infatti al Ninfeo c'erano persone che bonariamente mi hanno rinfacciato: E tu che non ci volevi andare!».

E perché non ci voleva andare?

«Perché so quanto è stressante partecipare a un premio letterario come lo Strega, lo sapevo anche undici anni fa. E allora come oggi, quando partecipano gli amici, dico che è un gioco, ma è un gioco serio. Noi quest'anno abbiamo fatto trenta presentazioni in un mese e mezzo. Condividi tutto con altre persone che conosci lì per lì - gli altri candidati - per un lungo periodo. Io sono stato fortunato, perché ho trovato persone che stimo, ma pensa se mi trovavo con degli stronzi: due mesi, con degli sconosciuti, in un clima di competizione. Non avevo nessuna voglia».

Tanta pressione?

«Rispetto alle presentazioni tradizionali, entrano in gioco altre dinamiche: il valore del libro, il valore dell'autore rispetto agli altri. Per chi è un po' meno stabile, come me, che non mi sento una persona saldissima, c'è pressione».

C'è bisogno di isolamento, allora, per scrivere?

«È un esercizio spirituale, che va fatto in un certo tipo di condizione. Se sei distratto rischi di perdere la lucidità. Ti puoi isolare anche in un contesto di vita sociale, ma nel caso mio ho bisogno di un tempo dove non deve essere l'esterno a contatto con me, ma il contrario».

Quindi si disconnette, anche?

«Quando ero più giovane stavo nei social, ora ho solo dei profili semimorti, che non uso quasi mai. Ogni tanto di nascosto metto una foto su Instagram, ma seguo più che altro quello che scrivono gli altri».

Altra conseguenza dell'essere «spatriati»?

«No, del mio essere insofferente».

Di che cosa parla il suo prossimo romanzo?

«È una indagine genealogica. La storia di un protagonista della mia stessa età e stessa terra che ricostruisce il suo albero genealogico e scopre alcune cose che dal 1800 al 2023 sono state omesse dalla sua famiglia».

A che punto è di questa indagine?

«Avevo scritto un terzo del libro, e io faccio le stesure, quindi mi mancavano due anni e mezzo di lavoro».

Poi è arrivato questo Strega...

«E infatti: devo rivedere i piani. Puntavo alla fine del 2024 ma ormai sarà almeno per il 2025».

Torniamo al presente: perché ha vinto lei?

«Non esistono vincitori e vinti in letteratura, esistono libri e lettori. Poi c'è un premio, che è un gioco, che incontra il gusto di quelle specifiche persone che votano».

Detto questo, qual è l'X factor di questo romanzo?

«Forse è legato al momento storico: dopo due anni di pandemia un libro che si chiama spatriati...».

Li prende tutti?

«Prende una giuria che si è sentita spatriata e prende gli italiani che sono spatriati di natura, che è un altro dei temi del libro. Oggi si migra per motivi economici, ma anche esistenziali e l'Italia è un Paese ad altissima migrazione. Mediamente un tedesco mi chiede: Ma com'è che tu, italiano, clima pazzesco, settanta per cento delle bellezze del mondo, Paese evoluto, minimo dei diritti civili presenti, con questo standard di vita migri?».

E com'è?

«Non saprei. Io da scrittore non so nulla. Se no facevo altro nella vita».

Il vincitore con "Spatriati". Intervista al Premio Strega Mario Desiati: “Società patriarcale gabbia anche per i maschi”. Biagio Castaldo su Il Riformista il 9 Luglio 2022 

In principio fu la foglia. Alles ist Blatt, «tutto è foglia». Il principio goethiano, nutrito dalle suggestioni del suo viaggio in Italia e confluito nel saggio tradotto con il titolo La metamorfosi delle piante, si innesta sulla forma archetipica della foglia intesa come «il vero Proteo della natura che sa celare e manifestare insieme tutte le forme». Al culmine della sua metamorfosi, la foglia produce il calice del fiore, la cui corolla serba, inscindibili, il principio maschile e il principio femminile destinati a combinarsi nel frutto. La teoria di una tale dualità erotica convergente nella perfezione del fiore androgino darà a Goethe la possibilità di realizzare idealmente l’unico essere vivente immune alla Sehnsucht, il desiderio del desiderio, la nostalgia di un infinito irrealizzabile.

Quel fiore androgino Klimt lo trasfigurerà, più che in tutti gli abbracci aurei della sua pittura, in un Girasole dalla fisionomia antropomorfa, che riveste di una lussureggiante trama di foglie, e che Bernardo Bertolucci ha poi ricomposto nel riflesso di uno specchio tripartito, nella celebre scena voyeuristica in cui la macchina da presa spia i tre protagonisti di The dreamers, addormentarsi, strafatti, in una vasca da bagno di schiuma e sangue mestruale. La «scultura di carne e sudore» che Mario Desiati intravede in un’orgia, rinchiusa in una gabbia di un noto locale fetish berlinese, nel romanzo Spatriati (Einaudi), vincitore del Premio Strega 2022, chiude una riuscita sequenza narrativa fatta proprio di rifrazione negli specchi, di armonia cromatica, ermafrodita, in un threesome di lingue e di fard. Francesco e Claudia sono due spatriètə – che in dialetto pugliese, con vocale indistinta e inclusiva, denota gli irregolari, i raminghi, i dispersi – perché rinunciano a conformarsi alla cellula eteronormata, preferendo “mettersi” trasversali rispetto a una tradizione di supremazia provinciale, fatta di autoelogi e di piccoli soprusi.

L’evanescenza di una storia d’amore che si rincorre dalla Puglia a Berlino, tra la chimerica Claudia e Francesco Veleno, maschio beta e “illegittimo” – spregiativo pugliese per omosessuale – li proclama campioni di precarietà emotiva e professionale, prima che questi approdino alla consapevolezza per cui crescere significa essere depositari del fardello dei segreti più scabrosi dei propri genitori. Evocato con il fischio dei venti che scuotono gli ulivi, dal sapore dei germogli di malva e dalle distese di papaveri e grano, il paesaggio bucolico intorno a Martina Franca conserva ancora quel machismo dei riti e delle processioni cristiane, i precetti secondo i quali alle donne spetta sgranare i rosari, agli uomini sudati spostare pesanti statue. Una scena che ricorda quella mirabile processione del Venerdì Santo a Correggio a cui prende parte Leo in Camere separate di Tondelli – citato peraltro nel romanzo di Desiati come «geniale» – nell’immagine cristologica di un uomo che nella sua separatezza è inconsapevolmente uno spatriato.

La serata al Ninfeo di Villa Giulia ha visto l’estetica queer di un Desiati truccato, con ventaglio rosa e collare leather al seguito, entrare nell’albo dei vincitori dello Strega, e con lui, l’omaggio a due conterranei: Mariateresa di Lascia, Premio Strega postumo nel 1995 con Passaggio in ombra, e all’amico Alessandro Leogrande, scrittore lucidissimo in difesa degli ultimi e dei ferocemente sfruttati, scomparso prematuramente nel 2017. Ma il queer è politica, pertanto il ricordo più eversivo nella cornice della cultura istituzionalizzata di un Paese abbandonato alla deriva fascio-meloniana è il pensiero che rivolge a Cloe Bianco, uccisa dall’emarginazione sociale di matrice omotransfobica in un furgone in fiamme, da una collettività in cui per Desiati «la gentilezza è così rara che la scambio sempre per amore».

Spatriati non sono solo Francesco e Claudia, emigrati a Berlino, ma anche gli immigrati albanesi, romeni, somali sbarcati in Puglia e guardati con sospetto xenofobo dai locali. Ha ancora senso interrogarsi in letteratura su un’idea di patria che non sia un’incostante e volatile Heimat?

Ogni tema ha un senso se trattato con un’angolatura originale. Credo alla somma dei punti di vista diversi che danno un totale ancora più diverso. In Spatriati ho cercato di raccontare un’idea più esistenziale e psicologica di quel concetto a cui allude la domanda. A un certo punto il protagonista riconosce la sua appartenenza più che a un luogo a una serie di legami, tanto che Francesco dice che Claudia è la sua patria.

Francesco Veleno è un personaggio profondamente cattolico. La Chiesa riveste per lui il ruolo della scoperta delle sue pulsioni omoerotiche e dove subisce l’umiliazione della libidine dei preti. Come si racconta la spiritualità, il rito cattolico della preghiera in un romanzo liberale?

Claudia e Francesco scoprono l’infinita visione che regala l’arte grazie all’ultima cena di Domenico Carella, un quadro misterioso della Basilica di San Martino a Martina Franca, dove sugli apostoli e il Cristo aleggia un’esplosione di fuoco e luce che sembra essere qualsiasi cosa, da un candelabro a un disco volante. L’arte è un’esperienza che molti italiani hanno fatto per la prima volta in una chiesa, nel corso dei secoli è sempre stato un mezzo formidabile di evangelizzazione. Francesco vede nel rito e nella celebrazione qualcosa che lo avvicina alle esperienze della vita. I riti nascono proprio per preparare le anime ai rovesci, vivere la passione del Vangelo, perché tutti prima o dopo sappiano che ne vivranno in grande o in piccolo una simile.

Credo che per “Spatriati” si possa parlare anche di un altro genere di ritualità, quella del clubbing fetish, leather e del crossdressing. Travestimenti e decorazioni che conservano una sacralità ormai persa dalla chiesa…

Ho studiato anni fa e ancora oggi ci ritorno per ragioni molto personali, il saggio della grande junghiana Marie-Louise von Franz, dove parla dell’Asino d’oro di Apuleio, il più complesso e integro romanzo che arriva dalla letteratura latina. Nel saggio c’è una esegesi di molte delle scene di quel libro. E tra queste, la parte dei riti che è fondamentale nel racconto. I riti servono a far confluire e rendere accettabili alcune pulsioni umane che altrimenti sarebbero non soltanto inopportune, ma anche pericolose. È un discorso che meriterebbe un approfondimento, ma sicuramente tutto quello che avviene in certe feste libere, alcune delle quali ho provato a raccontare in Spatriati, rappresenta più di quel che appare.

A Francesco piace truccarsi, solo così sentiva «un’altra umanità, un altro essere maschio, niente più che essere persona. Piena, realizzata, vera». A Claudia diverte truccare i suoi uomini, alcuni accondiscendenti, alcuni riluttanti. Crede che sia il momento editoriale giusto per interrogarsi sulla rappresentazione estetica di una mascolinità altra?

Sinceramente non credo esista un momento editoriale giusto. Non credo negli algoritmi. Un grande editore e scrittore come Antonio Franchini dice sempre, che se si sapesse cosa va in quel momento tutti gli editori lo farebbero. E invece la scrittura di un libro è come una camminata nel deserto dove le oasi sono rare. (Leggere, Possedere, Vendere, Bruciare, Marsilio). Forse oggi c’è una maggiore sensibilità sui temi che vedono in discussione quel sistema di potere che identifichiamo come Patriarcato. Francesco Veleno in Spatriati scopre che adeguarsi a dei modelli di potere decisi dagli altri rende una vita più semplice, ma meno libera. Ecco io credo molto all’idea che una società patriarcale, con quei codici di potere prestabiliti, sia una gabbia anche per i maschi.

Cosa risponde a coloro che – a torto – hanno avvicinato “Spatriati” a “Parlarne tra amici” e in generale a tutta la produzione letteraria di Sally Rooney?

Non discuto mai i punti di vista dei lettori, ascolto e leggo, quel che dicono o scrivono riferimenti mi intrigano perché a volte scopro libri che non conosco. Non è il caso di Rooney che ho letto in questi anni con ammirazione. La speranza è di scrivere un libro dove il lettore non si senta rappresentato dai protagonisti, abbia dei dubbi, rimanga inquietato o turbato. I romanzi di Rooney segnano bene il nostro tempo, anche se da narratore pugliese mi sento più vicino alla nuova leva degli scrittori mitteleuropei.

“Spatriati” è un romanzo con una discreta rete intertestuale, intessuta di citazioni e allusioni musicali, poetiche, televisive, sciolta nell’epilogo “Note dallo scrittorio o stanza degli spiriti”. Come ha pensato a questo scioglimento scongiurando l’idea di cadere nel didascalico?

Ho sempre sognato di dare corpo a una stanza degli spiriti, così come la definì Robert Walser in un racconto clamoroso come La passeggiata. Gli spiriti sono quella brezza delle esperienze che abbiamo fatto, letto, visto, che resta dentro di noi per sempre, a volte senza nomi. Spatriati mi è sembrato il libro giusto dove provare a dare un nome a questi spiriti.

Quanto Bertolucci c’è in “Spatriati”?

Bertolucci è una delle figure più importanti della mia formazione intellettuale. Uscii dalla visione di The dreamers con un animo inquieto. Il finale politico di quel film deviò la discussione con i miei compagni, ma io amai molto il modo lieve, poetico, sensuale con cui era stato raccontato quel triangolo. Chissà forse quell’immagine mi è rimasta dentro, ed è uno degli spiriti a cui non sono ancora riuscito a dare nome.

Biagio Castaldo

Spatriati al Ninfeo. Mario Desiati vince lo Strega in cui tutti sono stregati da Veronica Raimo. Guia Soncini su L'Inkiesta il 7 Luglio 2022

Il vincitore ha parlato invano del suo libro per 10 minuti con Geppi Cucciari, ma nessuno lo ha ascoltato perché a casa eravamo impegnati a guardare i crimini commessi dal suo stylist (e i presenti alla premiazione a pensare e ad aspettare la sorella del soccombente)

Chissà quanto deve aver diluviato a Roma per staccare gli intellettuali presenti alla finale del premio Strega dal feticcio culturale che meglio li rappresenta: i tavoli dove mangiare e bere gratis. Quando comincia la diretta, l’eroica Geppi Cucciari è Fiorello al Sanremo 2021: una che fa battute davanti al vuoto (non quello esistenziale: quello della platea). Gli scrocconi culturali sono fuggiti sotto il portico – «Sembra che sia passata la finanza» – e lì stanno, del tutto disinteressati alla sua brutta fatica. «Simulate un minimo di umanità e fate un applauso. Benissimo: un appello caduto nel vuoto».

Dietro di lei, Emanuele Trevi vestito nella versione beige di Don Johnson in Miami Vice rappresenta il vero gender gap: non conquisteremo mai il mondo, finché ci toccherà metterci i tacchi tra i sanpietrini piovosi, e loro potranno indossare le Adidas a una serata di gala.

Spererei, ma so che le lettere italiane ancora una volta mi deluderanno, in un romanzo sui due rimasti in mezzo al Ninfeo sotto un ombrello, per i primi minuti unica platea della Cucciari: chi sono, perché non si sono allontanati, spererei in due amanti clandestini che pur di non separarsi per un secondo vengono indicati, inquadrati, scoperti dai coniugi a casa.

Speravo molto anche che tra i finalisti ci fosse Antonio Pascale, perché da anni attendo il romanzo che forse solo Francesco Piccolo, tra coloro che sono stati finalisti, avrebbe potuto scrivere: la storia dei finalisti dello Strega, che si odiano ma devono fingere di affratellarsi in nome della cultura, portati in giro per l’Italia a bere liquore giallo come in una gita scolastica controvoglia, nelle settimane che precedono la finale.

Invece i finalisti sono gente che dice «questa è una frase che arriva da Adorno», «la storia con la esse maiuscola», «trasformare questa fatica in qualcosa di gemmativo», «all’ennesima potenza di queer», «è come se questo libro fosse il mio canto funebre per quello che è stata Berlino» (frasi comunque meno spaventevoli di quella di Stefano Petrocchi, il signor Strega, che all’«Esistono ancora i salotti letterari?» della Cucciari risponde serissimo «Esistono i social network»).

Sono gente che nei filmati girati sui luoghi dei romanzi ha jeans sformati che in confronto l’elettricista che è venuto l’altro giorno a farmi le prese comandate era elegantissimo: bisognerà prima o poi trovare una via di mezzo tra lo scrittore sponsorizzato da qualche stilista e quello conciato come uno scappato di casa.

Sono gente che l’anno scorso si scriveva DdLZan sulla mano, e quest’anno ha enormi spille sulla giacca con scritto «My body my choice» o «Liberi fino alla fine», o fazzoletti arcobaleno nel taschino: a ogni nuova militanza letterata, mi è più simpatico il tizio cui fanno valutare i libri dalla copertina sulla spiaggia di Cesenatico, tizio che a ogni filmato ribadisce che lui non ha mai letto un libro in vita sua. A ogni accessorio contenutista, ripenso al Mattarella fatto sentire all’inizio, quello che diceva che se vogliamo che tutti leggano non è «per diventare letterati o poeti».

E poi c’è Veronica Raimo, che come i grandi attori nei film con pochi soldi arriva a tre quarti della serata, ma tutti l’hanno vista nei titoli di testa e pensano solo a lei, aspettano solo lei, sanno che non vincerà ma non riescono a distrarsi. Lei lo sa e sa che da lei vogliono essere épaté, e non li delude: «Non volevo che fosse una seduta di analisi, piuttosto una seduta sulla tazza del cesso».

Veronica Raimo che, nella metà delle settimane d’uscita, ha già venduto il doppio di Desiati, vincitore annunciato (ogni anno, oltre ai pettegolezzi sulla gita in pulmino dei finalisti, la cosa più interessante dello Strega è il casino che combina Einaudi, che si trova sempre con un finalista sostenuto dalla casa editrice e un altro che è quello al quale converrebbe apporre la fascetta delle vittoria, moltiplicatrice di copie che tanto più fa guadagnare quante più sono le copie di partenza).

Veronica Raimo il cui irresistibile fascino è da mesi l’unico argomento di conversazione dei letterati romani (sarà sessismo? Sarà ingiusto vantaggio? Quando si poteva parlare dell’aspetto dei romanzieri senza che le code di paglia ideologiche prendessero fuoco, le foto della quarta di copertina erano un tema: Alessandro Baricco o Bret Easton Ellis avrebbero avuto le stesse carriere, fossero stati bruttini?).

Veronica Raimo il cui fratello forse ora è figlio unico: è più facile voler bene a tua sorella quando vende poco? Le si può perdonare d’aver trovato il successo con la storia della vostra famiglia, che forse avresti potuto scrivere tu? Christian Raimo è il soccombente che nessun Bernhard italiano sa scrivere, prima all’ombra del sodale Nicola Lagioia poi a quella della sorella minore?

Infine vince, come si sapeva da mesi, Mario Desiati, che parla invano dieci minuti con Geppi Cucciari del proprio libro. Dieci minuti in cui nessuno lo ascolta perché siamo tutti impegnati a fissare il suo ventaglio rosa e a pensare ai crimini degli stylist, una categoria che la storia – maiuscola, direbbe una finalista – dovrà processare per molte ragioni, tra cui l’aver convinto i maschi che la creatività nell’abbigliamento fosse alla loro portata. È un peccato, che il ventaglio ci distraesse, perché a un certo punto Desiati ha detto «La gentilezza è così rara che io la scambio sempre per amore», una frase in cui c’era più letteratura che in tutto il resto della serata.

Da mowmag.com l'8 luglio 2022.

Ieri sera si è tenuta la finale del Premio Strega, uno dei più famosi concorsi nazionali per la narrativa. Quest’anno l’evento è stato peculiare e ha visto, al posto della solita cinquina di finalisti, ben sette autori in gara per il premio: Mario Desiati con Spartiati (Einaudi), Claudio Piersanti con Quel maledetto Vronskij (Rizzoli), Marco Amerighi con Randagi (Bollati Boringhieri), Veronica Raimo con Niente di vero (Einaudi), Fabio Bacà con Nova (Adelphi), Alessandra Carati con E poi saremo salvi (Mondadori) e Veronica Galletta con Nina sull’argine (Minimum Fax). 

L’evento si è svolto tra interviste e dichiarazioni, nonostante la pioggia. La conduzione è stata affidata a Geppi Cucciari, al suo umorismo e a un tono informale raramente corrisposto dai suoi interlocutori. Ad allungare il brodo, dei videoclip di lettori e lettrici in spiaggia, seduti a un tavolino per giudicare il libro dalla copertina – forse in omaggio ai diritti del lettore di Daniel Pennac, chissà – con uscite che ricordavano le interviste imbruttite (per esempio: “Ma non c’è un’immagine, è tutto in bianco e nero!” [sorride]). 

La vittoria è andata con 165 voti a Marco Desiati per il suo libro sui giovani irregolari, un “romanzo sull’appartenenza e l’accettazione di sé” (così si legge nella quarta di copertina). Spatriati. Tuttavia la bottiglia storica del premio non è stata stappata, per preservarla intatta fino al ritorno in Puglia, sua regione d’origine, dove l’avrebbe aperta in onore di amici e autori corregionali scomparsi.

Umberto Saba sosteneva che i premi letterari fossero una crudeltà, soprattutto per chi non li vinceva. La sensazione che abbiamo avuto facendo un giro di chiamate tra alcune delle più importanti penne dei nostri quotidiani è stata che forse, almeno a volte, la crudeltà sia anche verso i critici letterari. In un’intervista qui su «Mow» del marzo dell’anno scorso, parlando dello Strega, la firma de «Il Giornale» Gian Paolo Serino aveva sostenuto che i premi fossero più cosa da cavalli che non da scrittori, opinione analoga a quella del collega Davide Brullo che parla di “effetto Morgana sul Tevere” e di un unico nodo fondamentale di questi eventi: i soldi. 

Proprio tra i critici, da cui ci si aspetterebbe un’attenzione particolare per i titoli del momento, non abbiamo cavato un ragno dal buco. Che dico: una ragnatela dal buco, un granello di polvere, niente. Qualcuno non sapeva neanche che si fosse tenuta la manifestazione, come Antonio D’Orrico del Corriere: “Mi scusi, ma non so chi ha vinto...”. O non aveva letto il libro vincitore, come Valerio Magrelli di Repubblica: “Purtroppo non ho letto Spatriati e non ho visto nulla...”. Ancora più disinteressato Goffredo Fofi, decano della critica, che ha liquidato la kermesse prendendone le distanze: “Non mi interessa seguirla...”. Queste reazioni, quindi, ci hanno posto un interrogativo: ma quanto conta, davvero, il Premio Strega? Uno Strega senza polemiche è davvero influente?

Non bisogna scomodare Yuval Noah Harari, con il suo Sapiens, ma quando si parla dell’invenzione del gossip come snodo fondamentale della rivoluzione cognitiva decine di migliaia di anni fa, non possiamo che trovare conferma nella curva d’interesse che crolla al calare della polemica. Non sono più i tempi in cui Moravia veniva attaccato con l’accusa di aver barato, i tempi in cui lo Strega sembrava un’arena tra editori con scarso fair play, come accadeva per esempio nel 2017 nello scontro tra Neri Pozza e Mondadori. Ma anche un anno sembra tanto e ci appare lontana la bagarre dovuta alla rumorosa esclusione di Teresa Ciabatti. 

Alberto Moravia vince lo Strega tra le polemiche nel 1952

In tutto questo, dove sono i libri? Se nemmeno i critici leggono più i volumi in finalissima, come possiamo davvero giudicare questi premi? Ultimamente le vittorie sono annunciate e il totostrega non solleva più i brividi di un tempo, nessun dubbio, tutto chiaro all’orizzonte. Nel 2019 Alberto Grandi paragonò su «Wired» i libri del panorama italiano ai Big Mac, prodotti seriali distribuiti a rischio zero da editori poco coraggiosi. Ma forse il problema è persino peggiore. Non si tratta solo della qualità in sé dei titoli, nonostante lo scarso interesse degli addetti ai lavori sia quanto meno un segnale dello stato di salute dei romanzi italiani più popolari; ma della totale scomparsa della letteratura dai premi. Neanche una letteratura fantasma, ma una letteratura che è solo ricordo. Certo, i vincitori potranno arrivare anche a quintuplicare le vendite, ma questo ha poco a che fare con i libri.

La sensazione è che la letteratura si sia trasferita in altri ambienti, in altri contesti, e abbia abbandonato alcuni luoghi canonici cari al club dei letterati. “I grandi premi non vengono mai dati allo scrittore, ma ai suoi lettori. Poveracci, se li meritano” diceva il Cardarelli de La solitudine del satiro di Ennio Flaiano (Adelphi 1996). Magari, Vincenzo, almeno verrebbe premiato lo sforzo del lettore. Ciò che emerge è invece l’allergia verso la fatica, prima fra tutti quella necessaria a promuovere buona letteratura senza le impalcature dello spettacolo d’intrattenimento e senza la cordata di polemiche che assicurano ai premi quel tanto di brio che il pubblico da sempre cerca.

Fulvio Abbate per Dagospia l'8 luglio 2022.

 Da qualche anno, colpa o impagabile merito della pandemia, il Premio Strega, nel suo spolvero pubblico, capitolino, satyriconiano, ministeriale assomiglia sempre più a un evento privato, con "prenotazione obbligatoria", meglio, a un “trattenimento” da sponsale, come usano pronunciare da certe parti nel Sud. 

Riservato ai pochi convinti, convintissimi prescelti, ora per ragioni di ammessa candida ambizione personale ora per dovere clientelare-editoriale, un modo di presidiare il territorio dei possibili altrimenti inafferrabili lettori; insomma, un qualcosa di irrinunciabile, porta d’ingresso nel “successo” autoriale, moltiplicazione di vendite con annesso momento del firmacopie, soddisfazione parentale, gioia per le insegnanti del ceto medio riflessivo che costituiscono la spina dorsale del pubblico leggente.

     Per queste ragioni, trovando singolare la desertificazione voluta del necessario vario ed eventuale umanissimo pubblico di contorno, nelle scorse ore, ho sentito doveroso inviare al direttore della manifestazione, Stefano Petrocchi, queste sincere e preoccupate parole attraverso la bottiglia affidata al mare dei social: “Caro Stefano, posso, di grazia, sapere con quale criterio sono stati fatti gli inviti per la serata conclusiva del Premio Strega di ieri al Ninfeo di Villa Giulia? La bella gente della P2 culturale di sinistra, da quel che si è subito notato dalla imbarazzante diretta di Raitre, era tutta presente in spolvero platealmente clientelare, idem il mondo “amichettistico”, ovvero delle scrittrici che non distinguono tra “recherche” proustiana e mancato sogno adolescenziale d’essere provinate da Boncompagni per accedere a “Non è la Rai”, magistrali nella poetica degli emoji; ma gli altri, cominciando dal generone romano ornato di ciaffi, i signori avvocati di Prati o Flaminio con abito acquistato da “Davide Cenci” a Campo Marzio o i giovani con outfit da cresima alla parrocchia di Ponte Milvio, e incredibilmente gli stessi “Amici della domenica”, in nome di quale spietata e insieme galante ragione non sono stati avvisati con messaggio ufficiale, se non recante firma e sigillo di ceralacca della Fondazione Bellonci, almeno una semplice mail, così da presenziare anche loro? Grazie. Auguri comunque a Mario Desiati per la vittoria meritata”. 

    Il Premio Strega, lo si sappia, nella sua acme pubblica, il Sarcofago degli Sposi Etruschi silenziosamente a presenziare a sua volta, muto, di spalle, è una prosecuzione instacabile della “commedia all’italiana”, così come appare tra “Il sorpasso”, “I mostri”, “I nuovi mostri”, “In nome del popolo italiano” e "Febbre da cavallo".

Per averne contezza, basterebbe un piano sequenza sui volti di coloro che puntualmente ambiscono a occuparne i tavoli riservati in attesa dello spoglio estenuante. Peccato che quest’anno, mancando l’invito, personalmente il mio canale, Teledurruti, non abbia potuto fare dono al pubblico di questa inenarrabile parata spettacolare, sempre e comunque in grado di restituire nella sua sostanza narcisistica, antropologica, municipale, rionale, ministeriale il succo dell’evento.

Me ne scuso, ma, come appena narrato, non sembra che gli inviti siano stati diramati; sia detto da “Amico della domenica”, immeritato titolo che devo alla grazia della compianta Anna Maria Rimoaldi, lei che, dopo la dipartita di Maria Bellonci, ha rappresentato la figura apicale dell’istituzione; la ricordiamo impenetrabile al momento della “cinquina” e dei prevedibili magheggi, così nell’appartamento di via Fratelli Ruspoli ai Parioli già frequentato da Moravia, Morante, Piovene, Flaiano, Raffaele La Capria, di cui, diversamente da Pasolini, si rammentono più i foulard che non le opere, e così via, in picchiata, fino a Emanuele Trevi, Michela Murgia, Chiara Valerio. 

    La sensazione, riguardo all’altra sera, in assenza del già decantato generone romano e d’altre presenze comprensibilmente interessate soprattutto al gratuito sollazzo spettacolare e al meritato buffet, in grado appunto di sorridere compassionevolmente delle bassezze, della banalità e ulteriori relative miserie del piccolo anerotico mondo letterario nazionale, fa supporre che lo Strega sia sempre più esclusiva pertinenza della bella gente amichettistica che ha trovato nella P2 culturale di sinistra il suo presidio impenetrabile. Sia detto in attesa di una possibile risposta circa il tratto sempre più esclusivo della manifestazione, quasi a volersi gemellare con la pizza con pata negra di un Briatore, tuttavia mantenendo lo sguardo al sublime letterario.

P.S. 

Accludo video di una trascorsa edizione, affinché ciò che abbiamo indicato sia plasticamente riscontrabile anche dal profano che mai ebbe modo di metter piede al Ninfeo. E ancora di Inge Feltrinelli cui domandavamo cosa penserebbe il nostro Giangiacomo dei nuovi tempi.

PREMIO STREGA. Chi era Maria Bellonci, la scrittrice che diede vita al premio Strega.

Il premio Strega nacque grazie all'idea di una scrittrice, Maria Bellonci, che nel 1944 decise di radunare i maggiori autori e intellettuali dell'epoca nel suo salotto di Roma. Fu il principio di una tradizione letteraria che prosegue ininterrotta da oltre settantasei anni. Scopriamo la vita e le opere della donna che inventò il premio Strega. Alice Figini il 07-07-2022 su sololibri.net.

Il più prestigioso premio letterario italiano nacque dall’idea di una donna, o meglio di una scrittrice: Maria Bellonci, il cui nome è ormai inestricabilmente legato al premio Strega.

È stata lei a compiere il sortilegio di radunare i maggiori scrittori e intellettuali italiani sotto l’egida della letteratura in un tempo incerto in cui l’Italia raccoglieva a fatica le forze, prostrata dalla lunga guerra.

Era il 1944, spirava un vento foriero di cambiamento, tutto stava per mutare e Maria Bellonci decise di spalancare le porte del proprio salotto romano, in viale Liegi, a un gruppo di scrittori, pensatori, poeti. Entrarono così in casa Bellonci Elsa Morante, Giuseppe Ungaretti, Alberto Moravia, Carlo Levi, Carlo Emilio Gadda, Natalia Ginzburg, Cesare Pavese e molti altri. Lei conversava amabilmente con tutti e faceva servire loro il tè.

Alla prima riunione, l’11 giugno 1944, erano presenti tra gli altri Massimo Bontempelli, Guido Piovene, Carlo Bernari, Paola Masino, Paolo Monelli, Palma Bucarelli e Alberto Savinio.

Questa vivace combriccola di artisti, pensatori, scrittori e giornalisti denominata “Gli amici della domenica” si radunava in un unico luogo. Ogni fine settimana si ritrovavano nel salotto di casa Bellonci per chiacchierare e discutere di letteratura, politica, società. Da un simile incontro di menti non poteva che nascere qualcosa di straordinario e infatti germogliò l’ispirazione per un nuovo premio letterario che doveva essere un unicuum nel panorama nazionale.

Maria Bellonci si fece portavoce di quella comune richiesta e si adoperò con ogni mezzo per raccogliere i fondi tramite il socio Guido Alberti, un impresario a capo dell’azienda produttrice del Liquore Strega. Fu grazie all’entusiasmo e alla perseveranza di questa donna che tutto ebbe inizio, più di settant’anni fa.

Il premio Strega ancora oggi ci parla del suo amore per i libri e dei suoi ideali: lei voleva che fosse un premio il più possibile democratico e che soprattutto desse la parola ai lettori.

Il premio Strega è ancora il fiore all’occhiello dell’editoria nazionale, ma la figura della sua storica ideatrice Maria Bellonci rischia di rimanere nell’ombra, eclissata dalle dinamiche commerciali ed economiche che ruotano attorno al Premio. Scopriamo la storia e le opere di questa donna che fu, prima di tutto, una scrittrice animata da una grande e tenace passione per la letteratura.

Maria Bellonci: la vita

Maria Villavecchia, questo il suo nome da nubile, nasce a Roma nel novembre 1902. Suo padre, Girolamo Vittorio, era discendente di una ricca famiglia piemontese e si era distinto come chimico e professore universitario di merceologia.

Fin dalla più tenera età Maria sviluppa una forte passione per la scrittura, che in lei si mescola agli insegnamenti del padre, studioso votato alla ricerca e all’indagine minuziosa. A vent’anni la giovane scrittrice decide di sottoporre all’attenzione di Goffredo Bellonci, illustre giornalista e critico del Giornale d’Italia, un suo romanzo intitolato Clio o le amazzoni. L’opera colpisce Bellonci, che tuttavia invita la giovane esordiente a irrobustire il proprio talento tramite una più adeguata preparazione culturale. Il loro incontro, in seguito, si trasforma in una frequentazione assidua. Maria e Goffredo Bellonci si sposano a Roma nell’agosto del 1928 nella chiesa di Santa Maria degli Angeli.

Dal marito Maria apprende l’amore per la cultura e per l’arte e la passione per i classici. Nel 1939, dopo oltre otto anni di ricerche, dà alle stampe il suo primo romanzo Lucrezia Borgia , una biografia romanzata della controversa dama rinascimentale. Quello stesso anno il libro si aggiudica il premio Viareggio e giunge in breve tempo alla sua terza edizione.

Il successo le arride, ma Maria non perde tempo, è già immersa nelle ricerche per un nuovo libro. Nel 1947, lo stesso anno dell’ideazione del primo premio Strega, pubblica I segreti dei Gonzaga.

È ormai una personalità affermata nel mondo culturale romano e non solo, continua a lavorare alacremente scrivendo per giornali, tra cui Il Messaggero, e numerose riviste. Nell’estate 1964 la morte del marito Goffredo, compagno di una vita, la getta in un dolore profondo. Reagisce gettandosi ancora una volta a capofitto nella scrittura e affinando le sue doti di giornalista.

Nel romanzo Tu, vipera gentile raccoglie tre racconti ambientati tra Medioevo e Rinascimento. In questi anni conosce la regista teatrale e sceneggiatrice Anna Maria Rimoaldi con cui avvia una feconda collaborazione e una profonda amicizia. Alla sua morte Maria Bellonci la nominerà sua unica erede.

Nei suoi ultimi anni di vita Maria si impegna nella scrittura di un romanzo che sarà il suo capolavoro, Rinascimento privato, una biografia romanzata di Isabella d’Este scritta in prima persona. Il libro, pubblicato nell’autunno del 1985, si rivela un successo acclamato da pubblico e critica, ma la salute di Maria è sempre più malferma. L’anno seguente la vede protagonista proprio del Premio da lei ideato quarant’anni prima. Il 13 maggio 1986, alla vigilia della presentazione del premio Strega, Maria Bellonci muore.

Quell’anno il premio stregato andò a lei, la sua creatrice, che purtroppo non ebbe mai il privilegio di ritirarlo. Oggi la Fondazione Bellonci continua il lavoro di Maria, promuovendo la passione per la lettura e diffondendo nel mondo la letteratura italiana contemporanea.

Maria Bellonci: le opere

Ricordiamo in particolare l’esordio letterario di Maria Bellonci, Lucrezia Borgia, che tuttora rimane uno dei suoi titoli più famosi. Il romanzo rivelò al pubblico - e all’autrice stessa - il suo talento narrativo. La penna di Bellonci analizza un personaggio storico controverso facendone emergere tutte le contraddizioni, addentrandosi nell’analisi psicologica e restituendo un quadro completo dei complicati rapporti di potere che si intrecciavano ai legami familiari. 

Lucrezia Borgia

Nel suo secondo romanzo I segreti dei Gonzaga narra la corte di Mantova e il mondo sontuoso che la circonda. È un racconto amaro e a tratti crudele che ci restituisce l’ingiustizia insita nelle leggi della natura e della vita. Ragioni dinastiche, dinamiche di potere e ricchezza si intrecciano nella ricerca di una verità privata che si affianca a quella storica facendo emergere dei personaggi immortali. 

I segreti dei Gonzaga

Rinascimento privato è infine il grande capolavoro, l’esito conclusivo dell’opera di Maria Bellonci. In queste pagine narra la vicenda romanzata di Isabella d’Este, divenuta marchesa di Mantova dopo il matrimonio con Francesco Gonzaga. Protagonista assoluta è proprio Isabella, che ormai alla soglia dei sessant’anni rievoca in prima persona la propria vita da quando, sedicenne, giunse a Mantova e in un periodo tumultuoso per la storia italiana. A lei il merito di aver costruito un regno di perfetto splendore.

Purtroppo la morte precoce non consentì a Maria Bellonci di godere appieno il successo riscosso dal suo ultimo romanzo, ancora oggi acclamato e oggetto di studio in varie università del mondo. 

Rinascimento privato

Con Rinascimento privato Maria Bellonci vinse il premio da lei ideato, che le fu consegnato postumo nel 1986. A oggi il Premio Strega ha premiato poche donne nel corso della sua storia. La prima a vincerlo fu Elsa Morante nel 1957, l’ultima Helena Janeczek nel 2018. A oltre settant’anni dalla nascita del premio Strega le edizioni vinte dalle donne sono state solo undici. Chissà che la serata del 7 luglio 2022 non porti una nuova vittoria al femminile, in omaggio alla sua creatrice: la scrittrice “stregata” da cui il sortilegio letterario ebbe inizio.

Premio Strega: tutti i vincitori dal 1947 ad oggi. Il Premio Strega nasce nel 1947 e da quel momento ogni anno è stato selezionato il miglior libro secondo quello che è il Premio letterario più seguito in Italia. Di seguito vediamo tutti i vincitori fino ad oggi. Chiara Ridolfi il 03-08-2021 su sololibri.net.

Ripercorriamo insieme la storia del Premio Strega e la lista dei vincitori dal 1947 ad oggi.

Il Premio Strega, ideato da Maria Bellonci e da Guido Alberti, proprietario della casa produttrice del liquore Strega, nasce nel 1947. Il riconoscimento viene creato per cercare di trainare la ripresa della cultura italiana nel dopoguerra, da cui l’Italia usciva particolarmente dopo l’esperienza del fascismo.

Si forma così un gruppo coeso di letterati, artisti, giornalisti e scrittori che formano la selezione dei testi e che diventeranno poi i famosi Amici della Domenica.

Il Premio Strega è stato vinto due volte solo da due scrittori:

Paolo Volponi nel 1965 con il romanzo “La macchina mondiale” e nel 1991 con “La strada per Roma”

Sandro Veronesi nel 2006 con Caos Calmo e nel 2020 con Il colibrì

La lista di tutti i vincitori del Premio Strega

Di seguito vediamo tutti i vincitori del Premio Strega dal giorno della sua fondazione sino ad oggi:

1947 Ennio Flaiano, "Tempo di uccidere";

1948 Vincenzo Cardarelli, “Villa Tarantola”

1949 Giovanni Battista Angioletti, “La memoria”;

1950 Cesare Pavese, “La bella estate”;

1951 Corrado Alvaro, “Quasi una vita”;

1952 Alberto Moravia, “I racconti”;

1953 Massimo Bontempelli, “L’amante fedele”;

1954 Mario Soldati, “Le lettere da Capri”;

1955 Giovanni Comisso, “Un gatto attraversa la strada”

1956 Giorgio Bassani, “Cinque storie ferraresi”;

1957 Elsa Morante, “L’isola di Arturo”;

1958 Dino Buzzati, “Sessanta racconti”;

1959 Giuseppe Tomasi di Lampedusa, “Il Gattopardo”;

1960 Carlo Cassola, “La ragazza di Bube”;

1961 Raffaele La Capria, “Ferito a morte”;

1962 Mario Tobino, “Il clandestino”;

1963 Natalia Ginzburg, “Lessico famigliare”;

1964 Giovanni Arpino, “L’ombra delle colline”

1965 Paolo Volponi, “La macchina mondiale”;

1966 Michele Prisco, “Una spirale di nebbia”;

1967 Anna Maria Ortese, “Poveri e semplici”;

1968 Alberto Bevilacqua, “L’occhio del gatto”;

1969 Lalla Romano, “Le parole tra noi leggere”

1970 Guido Piovene, “Le stelle fredde”;

1971 Raffaele Brignetti, “La spiaggia d’oro”;

1972 Giuseppe Dessì, “Paese d’ombre”;

1973 Manlio Cancogni, “Allegri, gioventù”;

1974 Guglielmo Petroni, “La morte del fiume”;

1975 Tommaso Landolfi, “A caso”;

1976 Fausta Cialente, “Le quattro ragazze Wieselberger”;

1977 Fulvio Tomizza, “La miglior vita”

1978 Ferdinando Camon, “Un altare per la madre”;

1979 Primo Levi, “La chiave a stella”;

1980 Vittorio Gorresio, “La vita ingenua”;

1981 Umberto Eco, “Il nome della rosa”

1982 Goffredo Parise, “Sillabario n.2”

1983 Mario Pomilio, “Il Natale del 1833”;

1984 Pietro Citati, “Tolstoj”;

1985 Carlo Sgorlon, “L’armata dei fiumi perduti”;

1986 Maria Bellonci, “Rinascimento privato;

1987 Stanislao Nievo,”Le isole del paradiso";

1988 Gesualdo Bufalino, “Le menzogne della notte”;

1989 Giuseppe Pontiggia, “La grande sera”;

1990 Sebastiano Vassalli, “La chimera”

1991 Paolo Volponi, “La strada per Roma”;

1992 Vincenzo Consolo, “Nottetempo, casa per casa”;

1993 Domenico Rea, “Ninfa plebea”;

1994 Giorgio Montefoschi, “La casa del padre”;

1995 Mariateresa Di Lascia, “Passaggio in ombra”;

1996 Alessandro Barbero, “Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo”

1997 Claudio Magris, “Microcosmi”;

1998 Enzo Siciliano, “I bei momenti”;

1999 Dacia Maraini, “Buio”;

2000 Ernesto Ferrero, “N.”;

2001 Domenico Starnone, “Via Gemito”;

2002 Margaret Mazzantini, “Non ti muovere”;

2003 Melania Gaia Mazzucco, “Vita”;

2004 Ugo Riccarelli, “Il dolore perfetto”;

2005 Maurizio Maggiani, “Il viaggiatore notturno”;

2006 Sandro Veronesi, “Caos Calmo”;

2007 Niccolò Ammaniti, “Come Dio comanda”;

2008 Paolo Giordano, “La solitudine dei numeri primi”;

2009 Tiziano Scarpa, “Stabat Mater”;

2010 Antonio Pennacchi, “Canale Mussolini”

2011 Edoardo Nesi, “Storia della mia gente”;

2012 Alessandro Piperno, “Inseparabili. Il fuoco amico dei ricordi”;

2013 Walter Siti, “Resistere non serve a niente”;

2014 Francesco Piccolo, “Il desiderio di essere come tutti”;

2015 Nicola Lagioia, “La ferocia”;

2016 Edoardo Albinati, “La scuola cattolica”;

2017 Paolo Cognetti, “Le otto montagne”;

2018 Helena Janeczek, “La ragazza con la Leica”;

2019 Antonio Scurati, “M. Il figlio del secolo”

2020 Sandro Veronesi, Il colibrì

2021 Emanuele Trevi, Due vite

Tutte le donne vincitrici del Premio Strega. Il Premio Strega 2018 è stato vinto da una scrittrice. Quante sono le donne vincitrici del noto premio letterario dalla sua nascita ad oggi? Scopriamolo! Rachele Landi - Valentina Pennacchio il 09-10-2018 su sololibri.net.

Il Premio Strega è uno dei premi letterari più prestigiosi d’Italia. Istituito nel 1947, viene assegnato ogni anno all’autore/autrice che abbia pubblicato un libro in Italia tra il 1º aprile dell’anno precedente e il 31 marzo dell’anno in corso. Il Premio Strega 2018 è stato assegnato alla scrittrice Helena Janeczek, autrice del romanzo “La ragazza con la Leica”.

Da quanti anni una donna non vinceva il Premio Strega? Da 15 anni! L’ultima vittoria risaliva al 2003, anno in cui trionfò Melania Gaia Mazzucco con “Vita”.

Vediamo chi e quante sono state le donne vincitrici del Premio Strega nel corso degli anni.

Premio Strega: ecco tutte le donne vincitrici

In 70 anni di Premio Strega, le edizioni vinte da donne sono solamente 11.

Ecco tutte le donne vincitrici del Premio Strega, con indicazione del libro premiato e anno:

Elsa Morante - L’isola di Arturo (1957); 

Natalia Ginzburg - Lessico famigliare (1963); 

Anna Maria Ortese - Poveri e semplici (1967); 

Lalla Romano - Le parole tra noi leggere (1969); 

Fausta Cialente - Le quattro ragazze Wieselberger (1976); 

Maria Bellonci - Rinascimento privato (1986); 

Mariateresa Di Lascia - Passaggio in ombra (1995); 

Dacia Maraini - Buio (1999); 

Margaret Mazzantini - Non ti muovere (2002); 

Melania Gaia Mazzucco - Vita (2003). 

Helena Janeczek - La ragazza con la Leica (2018)

Premio Strega: la storia della prima edizione. Il prestigioso premio letterario italiano fu istituito a Roma nel 1947 da Maria Bellonci e Guido Alberti, proprietario della casa produttrice del liquore Strega. Il 5 luglio 1947 fu decretato il primo vincitore: lo scrittore Ennio Flaiano. Scopriamo la storia della prima edizione del premio Strega. Alice Figini il 05-07-2022 su sololibri.net.

Il 5 luglio 1947 si concludeva la prima edizione del premio Strega con il trionfo di Ennio Flaiano che con il romanzo Tempo di uccidere, edito da Longanesi, vinceva il prestigioso premio letterario italiano.

Tutto nacque dall’idea prodigiosa di una scrittrice. È il 1944 quando Maria Bellonci decide di organizzare un salotto letterario capace di ospitare i maggiori intellettuali e artisti dell’epoca. La sede prescelta per gli incontri fu la sua abitazione, in viale Liegi a Roma, nei pressi di Viale Regina Margherita.

Proprio nel suo salotto di casa Maria Bellonci, insieme al marito Goffredo illustre giornalista e critico, dischiuse le porte alla cultura nel clima di cauta speranza del secondo dopoguerra. Un segno di rinascita per l’Italia logorata dal ventennio di dominazione fascista che ora tornava a sognare nel nome della letteratura e dell’arte. Le prime riunioni furono mosse da un desiderio di fratellanza intellettuale, dalla necessità di far fronte al comune sentimento di incertezza nei confronti del futuro.

Scrive Maria Bellonci nel libro testimonianza Come un racconto. Gli anni del premio Strega (1969):

Cominciarono, nell’inverno e nella primavera 1944, a radunarsi amici, giornalisti, scrittori, artisti, letterati, gente di ogni partito unita nella partecipazione di un tema doloroso nel presente e incerto nel futuro. Poi, dopo il 4 giugno, finito l’incubo, gli amici continuarono a venire: è proprio un tentativo di ritrovarsi uniti per far fronte alla disperazione e alla dispersione.

La letteratura divenne il collante di quel “tentativo di tenersi uniti”, una voce attraverso cui narrare le imperscrutabili vicissitudini della storia dando a esse una forma e, infine, una visione. Da questa straordinaria e irripetibile comunione di intenti nacque l’idea di un Premio che avrebbe avuto l’arduo compito di salvare la cultura italiana dispersa dalla guerra.

L’origine del premio Strega

Nel luogo di ritrovo romano iniziarono a radunarsi grandi personalità, quali Elsa Morante, Alberto Moravia, Carlo Levi, Giuseppe Ungaretti, Carlo Emilio Gadda. Scattò la scintilla e il fervore culturale fu immediato, ben presto il gruppo decise che aveva bisogno di un nome. Si chiamarono Amici della domenica, in onore del giorno in cui avevano luogo le loro riunioni. La vivace fucina di menti, stimolata dal confronto continuo, decise ben presto di voler dar vita a un premio letterario, unico nel suo genere, diverso da quelli già presenti sul territorio nazionale e più democratico.

Serviva però un finanziatore. Maria Bellonci lo trovò in Guido Alberti, proprietario dell’omonima fabbrica di torroni e del liquore Strega che infatti diede il nome al premio. Alberti era un amico della famiglia Bellonci, non solo impresario ma anche vivace uomo di cultura che aveva anche intrapreso la carriera di attore, diretto da importanti registi quali Federico Fellini e Pierpaolo Pasolini.

Il premio fu istituito ufficialmente il 27 febbraio 1947 con un fondo di duecentomila lire messo a disposizione dai fratelli Alberti della ditta Strega. Maria Bellonci ne celebrò la nascita con un articolo pubblicato sulla rivista Fiera letteraria. Dopo i ringraziamenti dovuti a Guido Alberti, da lei definito “uomo di gusto e di cultura”, Bellonci proseguì nell’illustrare il regolamento del premio. Avevano diritto al voto tutti gli amici che frequentavano le riunioni domenicali. La prima edizione ne contava un totale di centocinquanta.

Dopo un primo scrutinio volto a sorteggiare cinque opere di narrativa pubblicate negli ultimi dodici mesi si sarebbe proseguito con una seconda votazione, sempre su scheda segreta, volta a eleggere il vincitore il primo giovedì di luglio.

Ciò che più colpisce dell’articolo di Maria Bellonci è il ritratto della giuria, da lei definita “vasta e democratica”: scrittori illustri del calibro di Morante e Piovene si confrontavano infatti con lettori senza alcun merito artistico a parità di voto.

Premio Strega: il nome derivato da un liquore

Fu dunque un liquore a base di erbe a battezzare il nuovo premio letterario. Si trattò di un nomen omen, come direbbero gli antichi, un nome presagio che ne decretò in qualche modo il destino. La denominazione del liquore si ricollegava infatti alle leggende sulla stregoneria: a Benevento infatti si credeva nelle janare, le streghe che popolavano il mondo agreste e contadino. Secondo la credenza popolare queste donne demoniache uscivano solo di notte ed erano solite riunirsi in un sabba sotto un grande noce. Più di ogni altra cosa temevano la luce del sole. Di giorno assumevano sembianze umane. L’unico modo per riconoscerle era attendere le ultime donne che abbandonavano la chiesa dopo la messa di Natale.

Questa leggenda folkloristica popolare si legò a doppio filo al premio letterario: del resto cos’è la letteratura se non un sortilegio, un atto di stregoneria? 

Premio Strega: il primo vincitore

Il primo giovedì di luglio, come disposto da Maria Bellonci, fu proclamato il vincitore della prima edizione del premio Strega. Nell’incandescente cinquina si fronteggiavano grandi nomi: Corrado Alvaro, Gianna Manzini, Ennio Flaiano, Giuseppe Berto e il poeta Libero Bigiaretti.

Vinse Ennio Flaiano con il romanzo Tempo di uccidere edito da Longanesi.

Il romanzo appariva controverso e scomodo, distante dagli standard narrativi dell’epoca. Per scriverlo Flaiano, giornalista e drammaturgo all’epoca noto soprattutto come sceneggiatore di Felllni, si ispirò alla propria esperienza militare in Etiopia. Lo scrisse di getto, in soli tre mesi, su commissione di Leo Longanesi. Raccontava le vicende di un tenente italiano in Abissinia che durante la guerra si trova a confrontarsi con gli aspetti più oscuri di se stesso e dell’animo umano. Un libro duro, tragico, che svelava l’ipocrisia racchiusa dietro le missioni belliche coloniali.

Fu l’unico romanzo scritto da Ennio Flaiano nella sua lunga carriera e letteraria costellata di racconti brevi, articoli, diari ed elzeviri. Stroncato inizialmente dalla critica, Tempo di uccidere fu poi paragonato da Alberto Moravia a Lo straniero di Albert Camus.

In attesa di conoscere il vincitore della settantaseiesima edizione del Premio Strega, che sarà svelato giovedì 7 luglio al Ninfeo di Villa Giulia a Roma, è affascinante ripercorrere i passi di chi l’ha preceduto riscoprendo i vincitori che si sono susseguiti negli anni. Una lunga storia letteraria, tra tradizione e innovazione, che racconta dell’amore per la cultura di un intero paese e soprattutto la volontà di riscatto della narrativa che prende forma e si fa racconto a sé stante, epopea, leggenda svincolandosi dalle briglie dittatoriali della Storia.

Il premio Strega inaugurava una nuova visione della letteratura, non più elitaria, ma democratica e alla portata di tutti. La guerra era finalmente conclusa, si era dischiuso un nuovo orizzonte fatto di diritti civili e politici dove “tutti potevano essere lettori”: questo era il messaggio racchiuso nella nascita del più grande premio letterario nazionale.

Una tradizione che prosegue da settantasei anni e ancora porta la memoria di una donna, la sua storica ideatrice: Maria Bellonci. Con lei, in quel lontano 1947, tutto ebbe inizio.

Quanto è cultural chic l'abbuffata di prefazioni. Luigi Mascheroni il 31 Marzo 2022 su Il Giornale.

Giornalisti, premi Strega, volti tv sono preferiti ai critici per firmare testi introduttivi e curatele. E c'è chi esagera... 

Prefazióne, dal latino praefatio, onis, derivato di praefari: «premettere, dire prima», nel senso che nelle case editrici si dice prima il nome cui affidare una prefazione, poi si sceglie il libro cui appiccicarla. «Paolo Di Paolo! Facciamo firmare una bella prefazione a Paolo Di Paolo! Scrive così poco...». «Buona idea! Prefazione a cosa?!». «Boh, qualcosa gli troviamo...». Diminutivo: «prefazioncina», «prefazioncèlla», ma anche: «prefaziùncola».

Fra prefazioncine e prefaziuncole, l'editoria italiana vive di prefazioni. Adora le prefazioni. Vorrebbe stampare solo prefazioni! Firmate da premi Strega, da bestselleristi, da giornalisti tivù. Del tutto a caso. «A chi facciamo scrivere la prefazione alla riedizione di Achille Campanile?». «A Beppe Severgnini, cosa dici? Fanno ridere tutti e due...».

«La prefazione è quella cosa che si scrive dopo, si stampa prima, e non si legge né dopo né prima», diceva Pitigrilli. Il quale, essendo informatore dell'Ovra, non è affidabile. Infatti oggi le prefazioni sono le uniche che si leggono, e che fanno vendere. «Scusa, ma hai mai letto il Mestiere di vivere di Cesare Pavese? No, ma ho letto la prefazione di Nadia Terranova».

Anche George Orwell: i romanzi sono così così, ma le prefazioni di Walter Veltroni, o dei Wu Ming (è uguale), sono imperdibili.

Una prefazione non si nega a nessuno. L'importante è che a firmarle siano nomi mainstream che più mainstream non si può. Di tutto un pop. Unica regola, ferrea: per scrivere una prefazione l'importante è conoscere pochissimo, o per niente, il prefato. I classici non si leggono. Si citano.

Prefatori delle opere di Cesare Pavese, le cui opere dal 2021 sono fuori diritti: Paolo Di Paolo, Nadia Terranova, Claudia Durastanti, Eva Cantarella, Franco Arminio... E prima ancora: Paolo Giordano, Wu Ming, Donatella Di Pietrantonio, Tiziano Scarpa, Nicola Lagioia, Domenico Starnone...

Nicola Lagioia ha anche prefato Beppe Fenoglio. Silvia Avallone Madame Bovary di Gustave Flaubert. La Durastanti Dracula di Bram Stoker e Ghiaccio di Anna Kavan. La Terranova, oltre Pavese, Una donna quasi perfetta di Madeleine St John, Company Parade di Margaret Storm Jameson, il Quaderno proibito di Alba De Céspedes, Guerra di infanzia e di Spagna di Fabrizia Ramondino, La vacanza di Dacia Maraini, Piccole donne di Louisa May Alcott, Favola del castello senza tempo di Gesualdo Bufalino... e ci fermiamo qui. Di norma, le autrici donne sono prefate da donne, gli autori siciliani da siciliane, le antologie femminili e femministe tutte dalla Lipperini, quelle delle donne scrittrici o donne lettrici da Daria Bignardi. E quello che rimane fuori, dal Diario di Anna Frank alle lezioni di scrittura di Pontiggia, di solito lo danno a Paolo Di Paolo. «Ma va', dài. Paolo Di Paolo?! Mica gli daranno anche, chessò, Comisso?». «Sì, l'opera omnia».

L'importante è non affidare le prefazioni a specialisti, critici, critici militanti, ricercatori, italianisti, americanisti, francesisti. Semplici scrittori e giornalisti vanno benissimo.

I premi Strega, ad esempio: sono i più gettonati per prefazioni, introduzioni, postfazioni e curatele. Emanuele Trevi, che negli ultimi tempi ha firmato prefazioni a Philip Dick, Giuseppe Berto, Nathaniel Hawthorne, Herman Melville e Bernard Malamud (autore prefato anche da Marco Missiroli...), mettendo insieme due vecchie prefazioni ai libri di Rocco Carbone e Pia Pera, con Due vite appunto - ha addirittura vinto al Ninfeo. Sandro Veronesi invece ha prefato, tra gli altri, Alberto Moravia, W.H. Auden, Robert Louis Stevenson, persino Fabrizio De André e, per chiudere il cerchio, ha anche introdotto la riedizione del primo romanzo di Emanuele Trevi, I cani del nulla.

Io prefacio te e tu prefaci me. Da cui il detto: «Avere la prefacia come il c**o». E i romanzi con gli asterischi li preface la Murgia.

Tutti posso prefare tutto. La competenza sull'autore di cui si scrive è, come si dice, accessoria. Due giorni fa è uscita la riedizione del romanzo di Giovanni Arpino Il fratello italiano. Forse perché lavoro al Giornale e per racconti raccontati ho imparato a conoscere bene Arpino e soprattutto a conoscere chi conosceva benissimo Arpino, potrei citare dieci nomi di giornalisti o scrittori che su Arpino potrebbero scrivere prefazioni capolavoro. E invece l'hanno affidata a Mario Desiati. Bravissimo. Ma.

L'importante è che il prefatore-prefatrice sia un collaboratore-collaboratrice dei grandi quotidiani e dei magazine femminili. Ciò garantisce anticipazioni, stralci e recensioni. Esempi. Chiara Valerio ha firmato ultimamente le prefazioni di America oggi di Raymond Carver (per equilibrare l'introduzione è di Robert Altman...), Frankenstein di Mary Shelley, Paradiso di José Lezama Lima... Fra i prefatori più attivi il giro (ex) minimum fax - Nuovi Argomenti - Einaudi è il più operativo. Christian Raimo spazia dall'epistolario di Charles Bukowski ai racconti di John Cheever, da Donald Barthelme a Alan Pauls. Valeria Parrella da Elizabeth Strout ai racconti di Raymond Carver, dalle storie a fumetti di Milo Manara a Bonjour tristesse di Françoise Sagan. Lagioia a parte Fenoglio e Pavese - da Roberto Bolaño a Vonnegut, da Richard Yates a Francis Scott Fitzgerald. E Roberto Saviano da Dante Virgili (ma perch?!) fino a Pasolini...

Ma appunto stiamo parlando di prefatori famosi. Poi ci sono le quote rosa (moltissime), le quote queer (arriveranno i romanzi Lgbt prefati solo da Jonathan Bazzi) e infine le quote etniche. Il caso più fantastico (si può dire «più fantastico»?) è stato qualche mese fa - la riedizione Mondadori del romanzo del 1961 di Enrico Emanuelli Settimana nera, che assieme a Tempo di uccidere di Ennio Flaiano rappresenta una delle poche opere di narrativa sulla presenza italiana in Somalia e Etiopia. Prefazione? Di Igiaba Scego, scrittrice italiana di origine somala. Domanda: in casi simili si dice «diritto di prefazione» o «diritto di prelazione»?.

«L'unica prefazione di un'opera è il cervello di chi la legge», scrisse Fernando Pessoa in un abbozzo per una prefazione alle sue Poesie. Ma almeno Pessoa lo prefaceva soltanto Antonio Tabucchi.

Federico Rampini, "su venti libri nove sono suoi": lo zar del Corriere, uno strano caso in via Solferino. Libero Quotidiano il 10 marzo 2022.

Federico Rampini, da domani venerdì 11 marzo sbarca in edicola con il Corriere della Sera con una collana di saggi "per capire gli scenari internazionali con gli strumenti della geopolitica, scelti da Federico Rampini", così recita il lancio dello stesso quotidiano diretto da Luciano Fontana. Ma i volumi - segnala La Verità - sono più che altro scritti proprio da Rampini. Su 20 libri previsti, ben 9 portano la firma del'editorialista del Corriere, ex Repubblica.  

Nella presentazione dell'opera Rampini scrive, "ai lettori del Corriere propongo un'antologia di testi davvero essenziali: insieme ai miei libri con cui da 20 anni cerco di illuminarvi sul mondo com'è sul mondo che verrà, ho scelto i grandi classici...". Il piano dell'opera prevede uscite settimanali fino al 22 luglio. 

Una bella presentazione che però dimentica di citare che quasi la metà di quei libri sono scritti da lui. Vengono definiti grandi classici e così Rampini si autoincensa. Chissà che ne penseranno i lettori del Corriere e se apprezzeranno la collana di libri di geopolitica, presentata da un autore che si definisce "classico".

Gustavo Bialetti per “La Verità” il 10 marzo 2022.

Federico Rampini, l'uomo che si fece collana. Stufi di ascoltare in tv esperti di geopolitica che parlano di guerre e fonti di energia con la stessa chiarezza di un convegno di virologi? Non vi orientate bene tra tutti questi «centri di alti studi», finanziati da non si sa bene chi e che tracciano scenari più o meno foschi? Niente paura, da domani arriva in edicola con il Corriere della Sera una collana di saggi «per capire gli scenari internazionali con gli strumenti della geopolitica, scelti da Federico Rampini», come recita il lancio di ieri.

Ma forse sarebbe stato più corretto dire che i volumi sono più che altro scritti da Rampini. Già, perché su 20 libri previsti, ben 9 portano la firma del cotonatissimo giornalista ex Repubblica. Nella presentazione dell'opera, pubblicata ieri sul giornale diretto da Luciano Fontana, va detto che c'è già un segno premonitore di questo One Rampini show. 

Con la simpatia di un Sergej Lavrov, il Rampini medesimo avvertiva: «Ai lettori del Corriere propongo un'antologia di testi davvero essenziali: insieme ai miei libri con cui da 20 anni cerco di illuminarvi sul mondo com' è sul mondo che verrà, ho scelto i grandi classici...». 

Devono essere stati i lunghi anni alla corte di Eugenio Scalfari ad avergli messo questa voglia di «illuminare» le genti. In ogni caso, il giornalista genovese rischia già di finire nel Guinness dei primati per essersi scritto in autonomia quasi la metà di un'intera collana.

Il piano dell'opera, più che altro un a solo intervallato da qualche ospite, prevede uscite settimanali fino al 22 luglio. Non sappiamo se quel giorno ci sarà la pace, o se Vladimir Putin sarà già capo del mondo. Ma possiamo anticipare che la luce di Rampini illuminerà le nostre menti, come e meglio di un pannello solare. Alla faccia del gas russo. 

Rampinomics del sé. Guia Soncini ha trovato chi ha un ego più grande del suo e ne è ammirata. Guia Soncini su L'Inkiesta l'11 Marzo 2022.

I saggisti che si citano nelle note a piè di pagina sono a un livello avanzato, ma il vero maestro è Federico Rampini, precursore dell’esporre nei collegamenti televisivi le copertine dei suoi libri, che da oggi satura il canone geopolitico occidentale in edicola col Corriere.

L’altro giorno un tizio mi si è avvicinato e mi ha detto: io la leggo sempre e la stimo molto. Ho risposto: anch’io mi stimo molto. Ha concluso: sì, si vede dalle cose che scrive. Tutto questo per dire che non ho niente contro l’ego: ho moltissimo ego, e ci vado molto d’accordo.

D’altra parte, i temi di cui scegliamo di occuparci dicono qualcosa di noi, e non avrei deciso di scrivere del commercio del sé e del fatto che il mondo è una vetrina per vendere prosciutti e divenire noi stessi prosciutti (esce la prossima settimana: accattatevill’) se non fossi dotata anch’io d’una certa qual vocazione a mettermi in vetrina.

È perciò con sorpresa e ammirazione e un qualche spirito competitivo che, di tanto in tanto, scopro gente che ce l’ha più grosso del mio, l’ego. La settimana scorsa sfogliavo una raccolta di saggi di autori italiani. Nelle note – il posto in cui se siete me mettete i vostri fragili nervi e lo spirito di patate, e se siete uno che ci tiene a venir preso sul serio mettete la bibliografia – ci sono giochi di specchi mica male.

Il saggio di Federica D’Alessio ha in nota «Ne avevo parlato anche io nell’articolo [eccetera]»; quello di Federico Faloppa ci invita in nota a «cfr. Federico Faloppa» in vari contesti, pubblicazioni di Oxford, della Crusca, e un suo libro di qualche anno fa; l’affare si fa incestuoso quando si arriva alla bibliografia di Vera Gheno, che prima invita a «cfr. anche Vera Gheno», poi in una nota successiva mette un libro di Faloppa, e poi uno di Faloppa e Gheno.

Ma, poiché l’Italia è un po’ il Café Russe (il ristorante che doveva essere l’unico aperto a Los Angeles negli anni Novanta, giacché tutti i protagonisti di Beautiful andavano sempre e solo a cena lì), il bello arriva nelle note successive, quelle al saggio di Jennifer Guerra. La quale ha in nota Faloppa e Gheno (in Italia non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti), ma anche un post di Guerra stessa su Medium.

Cinzia Sciuto ha come prima nota un articolo su Micromega di, indovinate, Cinzia Sciuto; ma la sua mia nota preferita è la quarta, in cui – con un distacco che neanche Otelma – si cita come fosse un’altra: «Sul velo e il suo significato, non solo nella tradizione musulmana, ho parlato diffusamente in C. Sciuto, “Non c’è fede che tenga”». In note successive cita altri due suoi articoli (Sciuto si stima molto: se non la capisco io); l’ultimo che cita, alla nota 15, è introdotto dalle parole «Rimando al mio». Sembra ieri che colpevolizzavamo i baroni universitari che assegnavano come testi per l’esame quelli scritti da loro stessi.

Quando in quel volume sono arrivata alle note degli autori (due, se non ho contato male) che in bibliografia avevano qualcuno che non fosse lo specchio, mi sono sembrati dei campioni di sobrietà e basso profilo, praticamente gli eredi del Dalai Lama.

Tuttavia questi dilettanti hanno tutto da imparare da Federico Rampini, un maestro per tutti noi piazzisti di prosciutto. Quando ieri ho visto il suo ultimo capolavoro di vetrinista sono stata molto felice di avergli tributato il giusto riconoscimento nel mio imminente prosciutto (non ricordo se vi ho già detto che esce la settimana prossima e accattatevill’).

Rampini fu infatti precursore d’una metodologia di piazzismo che poi in pandemia hanno (abbiamo) adottato tutti, ma lui lo faceva da prima, lui lo fa meglio, la sua spudoratezza è un talento naturale, non un gusto acquisito. È un po’ il Funari degli eleganti, Rampini: ha il commercio nell’anima.

La ragione per cui l’avevo citato è che, vivendo per la maggior parte del tempo negli Stati Uniti, Rampini faceva già da prima la cosa che in pandemia abbiamo cominciato a fare tutti: collegarsi coi programmi televisivi da casa e a quel punto, nella libreria alle nostre spalle (alle spalle abbiamo sempre una libreria, mai un cesto dei panni sporchi), tenere di faccia il prosciutto da noi appena pubblicato, acciocché se ne veda bene la copertina e le folle accorrano a comprarselo assieme a una batteria di pentole.

Tuttavia ieri si è superato (il commercio del sé è una disciplina assai competitiva, in cui ogni giorno vengono stabiliti nuovi primati). Il Corriere si accinge a pubblicare alcuni libri fondamentali per capire la geopolitica, visto che improvvisamente gli italiani sono interessati a una cosa che non si sono mai filati in vita loro, cioè gli scenari internazionali. La collana è a cura di Federico Rampini e viene presentata da un articolo di Federico Rampini. Di fianco all’articolo di Federico Rampini che presenta la collana curata da Federico Rampini c’è il piano dell’opera, ovvero la lista dei titoli con data d’uscita. Ogni tanto c’è qualche nome minore tipo Henry Kissinger o Ian Bremmer, ma la collana è dominata dall’unico vero esperto di politica internazionale mai pubblicato in Italia.

È di Federico Rampini il primo libro che esce, oggi. Suo è quello che uscirà il 25 marzo, quello dell’8 aprile e quello del 22, e il 6 e il 20 di maggio i lettori del Corriere potranno comprare preziose opere del Rampini, e ancora il 3 giugno e poi il 17, e persino il primo luglio, volumi di Federico Rampini aiuteranno il lettore del Corriere a decodificare gli scenari internazionali. Fanno nove opere di Rampini su venti: si è fatto da parte e ha lasciato ad altri più della metà dei titoli, io mica lo so se avrei avuto altrettanta continenza.

Mi vengono in mente i film di Soderbergh in cui Soderbergh, oltre che regista e sceneggiatore, è pure direttore della fotografia e montatore. È difficile, per noialtri che abbiamo la malattia dell’autostima ipertrofica, credere che chiunque altro possa fare un qualsivoglia lavoro meglio di noi. Però Soderbergh il montaggio e la fotografia li firma con due pseudonimi (uno dei quali femminile: sarà appropriazione culturale?), per risparmiare allo spettatore di vedere troppissime volte il suo nome nei titoli di testa. Rampini no. Forse. Siamo sicuri che Henry Kissinger non sia un suo pseudonimo?

Arnoldo Mondadori, «nato umile e contadino». «Io, Michele Placido, sento di essere come lui». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 24 Maggio 2022.

L’attore sulla Rai sarà il grande editore del ‘900 nella docu-fiction “I libri per cambiare il mondo”: «Lui del Nord, io del Sud, ma veniamo entrambi da piccoli paesi di provincia». Con gli Oscar portò il romanzo al grande pubblico. Il nipote Formenton: «Pubblicò D’Annunzio e Topolino».

L’aggettivo «novecentesco» inquadra perfettamente una figura come Arnoldo Mondadori, fondatore dell’omonimo gruppo editoriale, intellettuale che ha cambiato la lettura degli italiani. «Novecentesco perché colto, rigoroso, geniale anche se concreto», dice Luca Formenton, nipote di Arnoldo e a sua volta editore (è presidente de Il Saggiatore e della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori). A poco più di 50 anni dalla morte, Mondadori viene ricordato innanzitutto al Salone del Libro di Torino — con due appuntamenti venerdì 20 e sabato 21 maggio — e poi in autunno con il lancio di una docu-fiction nella quale a prestargli volto e voce sarà Michele Placido ( «Arnoldo Mondadori. I libri per cambiare il mondo» è prodotta da Gloria Giorgianni per Anele in collaborazione con Rai Fiction e il sostegno di Film Commission Torino Piemonte). «In un certo senso mi sento legato a Mondadori», dice Placido, presente a Torino, venerdì 20 maggio, per l’anteprima -, «entrambi siamo originari di piccoli paesi di provincia, siamo nati in famiglie umili». 

Figlio di una famiglia molto povera

«Però io vengo dal Foggiano, lui era un uomo del Nord, anche se era nato in un minuscolo borgo del Mantovano. Ecco perché all’inizio ero reticente, pensavo che fosse un personaggio troppo diverso da me. Poi però ho letto la scrittura della docu-fiction e mi sono convinto». In effetti Mondadori nasce in una famiglia molto povera, anche se, fa notare Formenton, sua madre Gilda «era detta la signora, perché di modi raffinati, molto intelligente». Ma in casa non c’è da mangiare per i sei figli e così la famiglia fa quel che può. Il padre apre un’osteria a Ostiglia, la madre si arrangia. Arnoldo deve smettere di studiare per cominciare a lavorare, eppure in lui si fa strada un’ossessione che non lo abbandonerà mai. «Il libro, inteso come oggetto fisico, come elemento concreto, di carta, di inchiostro», rivela Formenton, tra i protagonisti del dibattito a Torino, il 21 maggio, dal titolo L’importanza dell’investimento nella cultura e nell’editoria: Il caso Arnoldo Mondadori. «Per interpretarlo, naturalmente ho studiato la sua vita, mi sono informato», continua Placido, «e ho scoperto un altro aspetto che ci accomuna: così come per lui i libri e l’editoria sono stati una forma di riscatto dalle umili radici, così anche io mi sono rifatto con il mestiere dell’attore. Che per me è ricerca continua, esplorazione senza fine della cultura».

Dalla bottega di un tipografo all’editoria

Già, Mondadori si impiega nella bottega di un tipografo, poi rileva una stamperia, più grande, si mette in proprio e acquisisce dimestichezza con la dimensione fisica dei volumi. Ragiona sui prezzi, sulla diffusione. Nel 1912 firma come editore il suo primo libro ( Aia madama di Tomaso Monicelli), guarda all’editoria scolastica e per ragazzi, strada più sicura all’epoca. «Perché quello che poi lui inventerà, cioè un ibrido tra editoria di qualità e libri popolari, non esisteva ancora», rileva Formenton. Sì, all’epoca erano pochi gli editori come Treves che pubblicavano i best seller. Per esempio, quelli di Gabriele D’Annunzio, l’autore più letto del tempo. E così quando Arnoldo va a trovare il Vate, glielo dice molto chiaramente: «Comandante, di solito sono gli editori che danno lustro agli scrittori, ma se lei pubblica con me sarò io ad avvantaggiarmene in termini di fama». C’è un problema: D’Annunzio vuole un milione di vecchie lire. Mondadori non le ha. Però alla fine in qualche modo le trova, e così avviene la svolta. «Che poi, in seguito, vorrà dire avere nella sua squadra autori come Montale, Pirandello, Ungaretti, Hemingway», dice il nipote, «e con ognuno di essi mio nonno imbastirà rapporti personali, coltiverà amicizie, insomma, inaugurerà un nuovo modo di fare l’editore».

La spinta ad esplorare l’editoria per tutti

Un po’ come Rizzoli, il grande rivale. Ma in Mondadori persisterà sempre un’asprezza contadina, quella che Placido ha cercato di rendere anche nei suoi aspetti più ruvidi, cosa molto apprezzata dal nipote. «Ad un certo punto della mia carriera», dice l’attore, «ho pensato che dovevo andare oltre la recitazione e così ho fondato una casa di produzione con mia moglie, Federica Vincenti. Come Mondadori, che decise di imprimere una svolta nuova alla sua carriera, esplorando l’editoria per tutti». Già, perché il sogno di Arnoldo era quello di portare un libro in ogni casa e la collana Oscar è stata la realizzazione perfetta di questa intuizione. «La sua idea si più riassumere in una frase, conclude Formenton: «mio nonno ha pubblicato D’Annunzio e Topolino, una lezione di equilibrio che mi ha sempre accompagnato, nel lavoro e non solo». Verranno poi i gialli, le riviste come Grazia, le collane più raffinate e i tanti altri progetti imprenditoriali. Però questo accostamento tra D’Annunzio e Topolino, questo sapersi destreggiare tra l’alto e il popolare, restano i cardini di Mondadori, a tutti gli effetti un uomo del Novecento.

Marina de Ghantuz Cubbe per “la Repubblica – ed. Roma” il 30 maggio 2022.

Una delle librerie più grandi d'Italia, con sede in un luogo prestigioso come la Galleria Alberto Sordi in piazza Colonna: dovrebbe essere un luogo di cultura propulsivo. Invece chiuderà i battenti andando ad allungare l'elenco delle librerie che non ce la fanno. Non in Centro storico. 

In concomitanza con la ristrutturazione degli spazi della Galleria Alberto Sordi a giugno, la casa editrice abbasserà le serrande per riaprire in altre zone meno costose dal punto di vista degli affitti e dove circola un numero maggiore di persone.

Feltrinelli potrebbe infatti optare per quartieri come Centocelle o Monteverde, lontano dal passaggio mordi e fuggi di chi va a fare shopping nei negozi di lusso o dei marchi internazionali. 

Complice il fatto che via del Corso e dintorni sono diventati negli anni sempre più ad uso e consumo dei turisti (spariti nei due anni di pandemia), le librerie non riescono a consolidare la presenza di un proprio pubblico. Né sono sufficienti gli eventi di presentazione di libri scritti da personaggi famosi. 

L'annuncio ufficiale della chiusura dello store dovrebbe arrivare a giugno e nel frattempo l'assessore al Commercio del I municipio Jacopo Scatà si augura «che il gruppo Feltrinelli scelga di riaprire la sede una volta terminati i lavori di ristrutturazione che rappresentano un altro tassello per il rilancio del Centro storico di Roma».

Così non è andata due anni fa, quando sempre Feltrinelli decise di chiudere la libreria in via Giovanni Pierluigi da Palestrina, all'angolo con Piazza Cavour e di mettere fine all'esperienza di International in via Vittorio Emanuele Orlando, a due passi da piazza della Repubblica. Lo scorso anno ha chiuso anche la Red Feltrinelli in via Tomacelli, che ora diventerà un supermercato dell'Esselunga, senza contare le serrande abbassate anche dalla Libreria del Viaggiatore in via del Pellegrino e della Libreria Coliseum in via del Teatro Valle, un vero tempio per i bibliofili.

I lavoratori della Galleria Alberto Sordi, circa una ventina, saranno riassorbiti nelle altre librerie della casa editrice in attesa delle decisioni sul futuro delle sedi ma intanto rimane l'amarezza per la perdita dell'ennesimo luogo di distribuzione (e discussione) di libri. 

Tanto più che ad essere abbandonati sono il cuore di Roma e uno spazio moderno e allo stesso tempo storico come la Galleria, che nel 1922 era stato concepito proprio per rispondere all'esigenza della borghesia nascente di vivere una mondanità scandita da passeggiate familiari, incontri al caffè e acquisti in negozi eleganti. 

Altri tempi. Il centro commerciale sorto nel 2003, dopo un complesso lavoro di restauro, era stato scelto da Feltrinelli per l'ubicazione eccezionale (che ha contribuito a rendere la libreria una delle più belle e prestigiose di Roma), per la presenza continua di visitatori italiani e stranieri, i collegamenti del trasporto pubblico.

Tutti elementi che non bastano più: «Quando chiudono strutture così, a perderci sono i romani - commenta il presidente della commissione Commercio in Campidoglio Andrea Alemanni - È ovvio che al centro di Roma ci siano i grandi marchi, ma non è neanche possibile che ci sia una omologazione totale con solo multinazionali. Il rapporto tra costo dell'affitto e redditività sostanzialmente consente solo ai grandissimi gruppi internazionali di resistere». 

Gli spazi esterni saranno ristrutturati a giugno ma la zona non è più considerata appetibile perché legata soprattutto ai consumi di lusso La vetrina La libreria di Galleria Sordi è una delle più prestigiose d'Italia, una vetrina per il gruppo Feltrinelli.

Dago-flash il 30 maggio 2022 da “Untold - la vera storia di Giangiacomo Feltrinelli” di Ferruccio Pinotti. 

Che Guevara muore in Bolivia, durante una delle fasi più calde della grande rivoluzione anticolonialista, innescata dalla seconda guerra dei trent’anni (1914-15). L’ex modella Sibilla Melega, ultima moglie di Feltrinelli, rammenta come il marito si gettò nella mischia: «Sì, lui voleva portare dei fondi a Che Guevara. Aveva fatto arrivare dei soldi da New York presso la Banca nazionale boliviana. I funzionari dell’istituto hanno subito avvisato i servizi segreti, perché si trattava di una somma importante. Aveva anche affittato un aereo per andare nella selva, dove si trovava Che Guevara».

Sibilla racconta l’interrogatorio che subì dalla Cia dopo essere stata arrestata insieme a Feltrinelli: «Arriva uno che aveva l’aria di essere della Cia, cercava di farmi parlare in spagnolo, ma io gli ho detto di parlarmi in inglese perché si sentiva che era la sua lingua madre. Poi mi fa una visita intima e mi dice: “Feltrinelli non ha comprato due biglietti aerei per il Costa Rica bensì uno solo, voleva lasciarla qua e andarsene”. Ha cercato di metterci l’uno contro l’altra. In seguito Giangiacomo mi ha raccontato la storia dell’aereo, dei soldi per il Che… lui voleva vedere Che Guevara e incontrarlo».

Equipaggiato alla tirolese, divisa in panno verde, berretto ponpon con stella alpina d’ordinanza, piccozza, borraccia, scarponcini, corde e ganci da arrampicata, Feltrinelli va in Alto Adige per guadagnare alla Rivoluzione l’irredentismo trentino, proprio quando la questione altoatesina si fa bollente. 

Racconta Martha De Biasi, vedova dell’avvocato Sandro Canestrini: «Giangiacomo Feltrinelli veniva a casa nostra in Trentino e siamo anche stati ospiti da lui nel suo chalet a Oberhof. Lui e mio marito parlavano spesso della questione del Sudtirolo. Feltrinelli voleva conoscere tramite mio marito le persone che avevano messo la dinamite sotto ai tralicci».

I detrattori dell’editore pensano che lui si recò fra le brume trentine (e fra i nuraghi sardi) per strappare l’assenso di nuove reclute confidando nel fatto che, parlando poco l’italiano, non avrebbero capito bene cosa lui gli diceva? Fisime da malfidati. I lettori di Untold leggeranno infatti un’autorevole ammissione di uno dei ras di Potere Operaio, secondo cui Feltrinelli aveva capito più di loro la questione altoatesina.

Pinotti ha raccolto dall’ in-intervistabile Franco Freda i di lui racconti relativi ai sulfurei intenti attuativi che lo stratega nero della cultura vergò ne La disintegrazione del sistema, con i quali strizzava l’occhio alla frangia opposta, decisamente bazzicata da Giangiacomo, al fine di distruggere l’ordine borghese: «Vede, se il nemico c’è, cerco di abbattere il nemico con quelli che sono i suoi nemici. Il dialogo fra le estreme in chiave anti-Stato rientrava nelle aspirazioni nostre e anche nelle aspirazioni di qualcuno della cosiddetta estrema sinistra di allora».

La storia ha dimostrato a Freda che i suoi intenti sono rimasti sulla carta? Lui le risponde “e chi se ne Freda”: «Ho appena compiuto 81 anni e sono in grado di sottoscrivere ancora quelle parole che Freda, allora, aveva scritto».

Perchè Feltrinelli si dilegua una settimana prima della strage di piazza Fontana? Secondo Giorgio Marenghi, strenuo ricercatore di storie e verità venete che ha reso ad Untold un’analisi sfiziosa, «l’editore fu sempre destinatario delle “attenzioni” dei servizi segreti di mezzo mondo.

L’amicizia con Castro, l’operazione di “esfiltrazione” dal territorio sovietico dei manoscritti di Pasternak del romanzo Il dottor Zivago in combutta con la rete dell’ex generale nazista Gehlen, capo dei servizi segreti tedesco-occidentali (Bnd), fa capire che gli interessi politici su Feltrinelli, tipici di una stagione come la Guerra fredda, erano molteplici». 

Allora, secondo Marenghi, «Con questo background alle spalle, cosa doveva fare Feltrinelli, se non immergersi in una provvisoria “irreperibilità”? Una cosa mi ha sempre colpito: che Feltrinelli abbia goduto della protezione di settori di numerosi Servizi, di centri di potere che rispondevano a logiche che per noi sembrano paradossali, ma che invece erano il pane di ogni giorno per gli apparati. 

Così fu per il Pci, suo nemico ufficiale, ma in camera caritatis attento protettore; così fu per la rete tedesca occidentale che puntava al dissenso nell’Europa Orientale e che vedeva nel filocastrista Feltrinelli un “guastatore” di qualità».

In Untold compare un’intervista all’ex agente Sismi Francesco Pazienza, 76 anni di avventure e missioni, che racconta la sua amicizia con Umbertino D’Amato, il re dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale: «D’Amato l’ho conosciuto bene: era diabolico e simpaticissimo al contempo, un mix raro; oltre che un raffinato esperto nell’arte ricattatoria. Sicuramente fu la più grande spia italiana di tutti i tempi».

Le imprese dello spione dell’Uar erano connotate da una doppiezza che gli fecero conquistare una grande stima non solo a Ovest, ma pure a Est: «Fu - svela Pazienza - «invitato dal Kgb all’Hermitage di San Pietroburgo e a Mosca». 

Il cinico e mellifluo Umbertino aveva Feltrinelli nel mirino e la sua gelida manina giocava a incunearsi nel Pci per arrivare all’editore; testimonia Pazienza: «D’Amato mi raccontava che il nemico principale della struttura che presiedeva era il Pci. Aveva una bussola da seguire: capire se e quanto ci si poteva incuneare fra l’anima democratica e quella rivoluzionaria di quel partito e agire a seconda delle convenienze del momento. Paragonava fra loro quelle che per lui erano le due anime del Pci, Di Vittorio e Secchia; di quest’ultimo diceva che fosse un rivoluzionario irredimibile. E se conoscete bene i rapporti fra Secchia e Feltrinelli, beh, allora due più due fa quattro».

In questo mondo di ladri c’era anche Giovanni Rossi, che si dedicava al furto di automobili che venivano “taroccate” in un’officina di Segrate - vicinissima al fatale traliccio - e poi vendute. Al proprietario dell’officina - il fondatore del Mar (Movimento d’Azione Rivoluzionaria) Carlo Fumagalli - Untold dedica notevole spazio: «chiacchieratissimo ex partigiano “bianco” della Valtellina, in odore di traffici di tutti i tipi, impelagato in situazioni losche e “politicizzate”».

Secondo il ricettatore Rossi, Fumagalli aveva «un capannone a Segrate, è vicino al traliccio dove è morto da poco il Feltrinelli. Feltrinelli e Fumagalli erano soci, anzi l’editore passava ogni mese a Fumagalli la somma di lire 800.000 più le spese che erano per la copertura dell’attività che veniva svolta nel capannone, c’erano anche cinque o sei operai che venivano anch’essi pagati dal Feltrinelli». Il lettore di Untold scoprirà come, secondo Rossi, i vassalli di Fumagalli pestarono i calli all’editore la sera della morte.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 16 marzo 2022.

In questi giorni si celebra su ogni quotidiano nazionale e provinciale il cinquantesimo anniversario della morte di Giangiacomo Feltrinelli, un importante editore che oltre a stampare libri di buon successo, tipo Il dottor Zivago di Pasternak, un russo di grande talento letterario, si dilettava nell'organizzare una rivoluzione comunista casareccia. 

E fu durante una sua azione scellerata contro l'odiato capitalismo, di cui egli era comunque un esponente di spicco, che tirò le cuoia. Si arrampicò non si sa come su un traliccio di Segrate e nel tentativo di abbatterlo per protestare si ignora contro chi, nella esplosione rimase secco. 

Non appena accaduto il fattaccio, cronisti, polizia e carabinieri si diedero da fare per scoprire le cause che avevano portato al decesso dell'imprenditore. Nessuno all'inizio sospettò che il capitalista volesse compiere un attentato tanto cretino, però le indagini confermarono che l'editore, improvvisatosi bombarolo della mutua, a causa della propria imperizia quale terrorista, era rimasto vittima della medesima. Una sorta di suicidio in differita. 

Nessuno ha mai capito perché un uomo della sua fama, dotato di un reddito invidiabile, si sia arrampicato sul citato traliccio con l'intento di abbatterlo senza una ragione di qualche rilievo. Vero che a quei tempi c'erano in giro più comunisti che passanti, la moda rossa aveva conquistato milioni di persone che sognavano di istituire in Italia un regime di genere sovietico. Ma nessuno poteva immaginare che un imprenditore quale Feltrinelli potesse arruolarsi nelle file dei terroristi.

La morte di Giangiacomo suscitò uno scalpore senza precedenti. Molta gente all'epoca, data la moda comunista, apprezzò l'iniziativa del famoso personaggio. Il popolo in pratica alimentò la tesi che l'editore fosse stato assassinato. Da chi e perché? Nessuno lo spiegò per il semplice fatto che l'ipotesi dell'assassinio era una semplice fantasia. Feltrinelli, mai pensando di crepare in quel modo, non ha lasciato alcun documento, neppure una letterina, per illustrare le ragioni del suo gesto. 

Semplicemente erano note le sue simpatie per il proletariato organizzato, e questo bastò per giustificare il suo gesto che definire folle significa usare un eufemismo. Mezzo secolo fa il comunismo era una sorta di religione che affascinava molti cittadini, compresi i campioni del capitalismo. Basti pensare alla signora Crespi, padrona del Corriere della Sera, la quale, avendo sposato le idee marxiste come una commessa qualsiasi, favorì l'uscita da via Solferino di Indro Montanelli. Una impresa storica oltre che idiota. Oggi chiunque si rende conto del dominio dei fessi sull'opinione pubblica, ma in quegli anni di ubriachezza generale abbiamo bevuto tutti il veleno e l'alcol moscovita.

Chi ha ammazzato Feltrinelli? La sua ossessione rivoluzionaria. Stenio Solinas il 15 Marzo 2022 su Il Giornale.

Aldo Grandi ricostruisce la fine dell'editore-attivista che nella lotta contro lo Stato borghese sacrificò ogni cosa.

Quattro flash. Nel primo Carlo Feltrinelli spiega a Curcio e a Franceschini, ovvero alle Brigate rosse, lo «zainetto del rivoluzionario». Va tenuto sempre pronto: «L'esperienza della guerriglia in America latina e gli insegnamenti di che Guevara lo indicano come indispensabile». Deve contenere documenti, soldi, vestiti di ricambio, il necessario insomma per la latitanza cittadina. E anche «un pacchetto di sale e dei sigari» conclude. Perplessi i due bierre chiedono chiarimenti su quest'ultimo punto. «Il sale in America latina è un bene prezioso» è la replica. Sì, ma loro sono a Milano è la controreplica, «e il sale si trova ovunque». È una tradizione, controbatte Feltrinelli, e le tradizioni, si sa, vanno rispettate E i sigari, allora, perché i sigari? «Perché Che Guevara diceva che il miglior amico del guerrigliero nelle ore di solitudine è il sigaro: anche questa è una tradizione e va rispettata». È il 1971, gli appuntamenti sono di regola fissati ai giardini di Piazza Castello, e da lì si va poi in uno dei tanti appartamenti più o meno segreti dell'editore, il cui nome di battaglia è «Fabrizio».

Il secondo flash è del maggio 1968, tre anni prima dunque. Feltrinelli è reduce da una marcia per il Vietnam a Berlino: ha sfilato con i manifestanti a fianco della sua compagna Sibilla Melega, è stato riconosciuto, è stato applaudito. Adesso vorrebbe dire la sua nella tumultuosa assemblea-corteo che alla facoltà di Architettura di Roma fa il punto sugli scontri del marzo precedente. Prende la parola, ma parte la contestazione. «A Feltrine', dacce li sordi» è il grido di battaglia che lo sommerge, frutto dello spontaneismo interessato dei militanti del periodico La Sinistra, a cui l'editore ha tagliato di colpo i finanziamenti.

Il terzo flash è del febbraio '70. Feltrinelli è espatriato due mesi prima, ma due mesi dopo la magistratura ha provveduto a revocare ogni provvedimento restrittivo nei suoi confronti. Può, insomma, andare e venire come vuole, non è un ricercato, non è considerato un pericolo, non lo si vede come un guerrigliero. Così però si vede lui, perennemente travestito, che sia in casa a Milano o nella baita in Carinzia, e autoconvinto di nascondersi nella boscaglia.

L'ultimo flash è del marzo 1972, quando il cadavere dilaniato di quello che adesso si fa chiamare «il compagno Osvaldo» viene ritrovato ai piedi di un traliccio a Segrate. È in un titolo, o forse in un articolo, di un giornale di estrema destra, icastico e senza pietà, e però veritiero: «Il più grande boom dell'editoria», c'è scritto.

Messi in fila e riuniti insieme, questi quattro segmenti rimangono come punti fermi e segni distintivi di una vita di cui Aldo Grandi da ora conto, a cinquant'anni di distanza, con certosina pazienza nel suo Gli ultimi giorni di Giangiacomo Feltrinelli (Chiarelettere, pagg. 234, euro 18). Raccontano un'illusione e un fraintendimento, uno scollamento dalla realtà e una sottovalutazione, l'ansia di voler essere preso sul serio, l'amara sensazione di restare sempre e comunque «una vacca da mungere», quello che ha i soldi, in parole povere, e che a dare i soldi dovrebbe limitarsi. La rivoluzione, quando e se ci sarà, non è compito suo, ma delle mille sigle politico-ideologiche che in quella fine anni Sessanta hanno preso a impazzare, dei mille leader che della rivoluzione hanno fatto una professione e insieme un gioco, rischioso magri, ma fino a un certo punto, contro lo Stato, ma nel confortevole clima intellettuale che quell'essere contro benedice e l'essere pro addita al pubblico ludibrio: repressione, strategia della tensione, golpe in agguato e istituzioni corrotte... Da un lato, in fondo, ci sono sempre e comunque dei «compagni che sbagliano», ma che, sempre e comunque, appunto, sono «compagni», dall'altro c'è il moloch dello Stato fascista, quello che non si cambia, quello che va abbattuto È, lo si capirà nel tempo, una gigantesca tragicommedia degli equivoci, ma è il tempo quello che a Feltrinelli manca: lui sogna prima un movimento separatista in Sicilia, poi la Sardegna come la Cuba del Mediterraneo, con annesso bombardamento di Porto Cervo, infine un esercito rivoluzionario che non esiste nella pratica, ma che nella teoria ha tutto dentro la sua testa e di cui, naturalmente, è il comandante in capo. Quando passerà all'azione diretta, lo farà in fondo per dimostrare che, sotto il profilo operativo, il comandante in capo dà l'esempio, è in prima linea, sceglie l'obiettivo da colpire, un obiettivo che nella sua immaginazione precipiterebbe l'Italia nel buio, così come nel 1965, a New York, l'improvviso black out della corrente aveva lasciato senza elettricità circa 30 milioni di americani del Nord-Est del Paese. Milano però non è New York e la manualità di Feltrinelli è talmente impacciata da avere difficoltà a piantare un chiodo nel muro per appendervi un quadro

Come e perché Feltrinelli fosse vittima, è il caso di dirlo, della sua ossessione rivoluzionaria, Grandi cerca di spiegarlo riandando alla sua infanzia solitaria e infelice, alle frustrazioni familiari, al cattivo rapporto con la madre e con il patrigno, Luigi Barzini, jr., al conflitto fra il suo essere un privilegiato, un miliardario e quindi un capitalista, e il suo voler essere dalla parte degli sfruttati, tutte cose pertinenti, ma è dallo stesso Feltrinelli, quello più intimo, quello più sofferto, che viene fuori come di quella ossessione egli fosse perfettamente consapevole, in grado cioè di esaminarla razionalmente, di comprenderne l'assurdità. È tutto messo nero su bianco nelle lettere inviate alla sua compagna Sibilla Melega nel settembre del 1968, lì dove ammette che il suo «misticismo della montagna» non era «che un tentativo di fuga», un tentativo «di risolvere in una certa maniera certe mie interne contraddizioni». «Le esaltazioni mistiche - aggiunge - fanno perdere il senso della realtà» e, aggiunge ancora, «forse, finalmente sto diventando un uomo che non sfugge da se stesso (). Per migliorare o modificare il mondo dobbiamo anzitutto trovare una serenità e tranquillità interna, una sicurezza che ci permette di meglio usare i mezzi e gli strumenti a nostra disposizione, a operare con più intelligenza ed efficacia, senza mai rinnegare la realtà, senza ricorrere a mitici olocausti o suicidi».

Ciò che allora razionalmente Feltrinelli è ancora in grado di analizzare, nel biennio successivo cede però il passo a una nuova forma di ossessione che sostituisce e in fondo sublima quella da lui così ben diagnosticata. È l'ossessione del golpe, la controrivoluzione in atto che minaccia ogni forma di speranza e quindi giustifica, in quanto autodifesa, «il misticismo della montagna». Grandi riporta in proposito le considerazioni del giudice Guido Viola, il magistrato incaricato di indagare sulla sua tragica fine. Secondo quest'ultimo, «l'idea di un colpo di Stato di destra non era peregrina o fantapolitica», né «priva di un certo contenuto di serietà e fondatezza». Lo stesso Grandi, a proposito del cosiddetto Golpe Borghese osserva che «si cercò di far passare il tutto come una commedia all'italiana, ma così non era stato. Si era trattato effettivamente di un piano eversivo». Sull'esistenza di quest'ultimo, non c'è da dubitare, il che però non dice nulla sulla sua reale efficacia. Fatto sta che «i centri del potere nella capitale» non vennero occupati, se non, di notte e per un paio d'ore, il ministero degli Interni, «l'appoggio di unità militari e soggetti più o meno disparati e disperati», ovvero guardie forestali e estremisti di destra, fa capire quanto velleitarismo ci fosse dietro.

Come che sia, quando Feltrinelli muore è, singolarmente, come nota ancora Grandi, «il momento in cui la lotta armata arriva al suo punto di non ritorno. In quello stesso mese di marzo le Bierre compiono il loro primo sequestro, il dirigente della Sit Siemens Idalgo Macchiarini, Milano viene messa a ferro e fuoco dagli scontri tra manifestanti e forze dell'ordine. Il tappo è saltato e l'insurrezione sembra imminente». L'ultimo oltraggio a quel corpo ritrovato mutilato e senza più vita ai piedi di un traliccio glielo daranno i compagni chic della Milano parolaia e firmaiola. «È stato assassinato» scriveranno, ammazzandolo così una seconda volta.

A 50 ANNI DALLA MORTE. La straordinaria avventura di Giangiacomo Feltrinelli. BRUNO CARTOSIO su Il Domani il 13 marzo 2022

Dall’immediato dopoguerra agli anni Sessanta, Giangiacomo Feltrinelli seppe circondarsi delle persone necessarie e giuste per quello che aveva in mente.

Un gruppo di giovani ha usato i libri come manifesto per una rivoluzione che era sia sociale sia culturale.

A distanza di mezzo secolo alcuni dei loro sogni si sono avverati, con una particolare vocazione europea.

Gli anniversari e l’età invitano a prendere le mosse dall’autobiografia. Per chi, come me, apriva gli occhi sul mondo negli anni Sessanta i libri e le riviste erano il pane quotidiano.

Gli editori di riferimento erano Einaudi, Feltrinelli e Laterza, e a Milano la libreria Feltrinelli era il luogo del pellegrinaggio a esplorare la foresta delle riviste. E poi, per chi era più avanti o aveva già finito gli studi, esisteva l’accesso al santuario laico dell’Istituto (aperto come “biblioteca” nel 1949).

Come se Giangiacomo Feltrinelli fosse venuto al mondo per noi e per metterci tutto a portata di mano. La libreria di via Manzoni, aperta nel 1857, era per tutti. L’Istituto, trasferito in via Romagnosi nel 1961, era per pochi adepti. E ancora meno erano quelli che giravano l’angolo con via Andegari e salivano alla casa editrice, nata nel 1954 in via Fatebenefratelli, e allora a pieno ritmo. Ma lì saliva solo chi aveva qualcosa da fare o da dire con i libri. Io quell’ascensore l’ho preso per la prima volta nel 1972.

DAL PASSATO AL FUTURO

Giangiacomo Feltrinelli non lo incontravi. Però sapevi che c’era, nume tutelare e benemerito di una eccezionale concentrazione di luoghi del sapere che prima di lui non esisteva: nell’Istituto la raccolta, archiviazione e conservazione di “tutto” ciò che era importante, nella casa editrice la scelta delle opere che valeva la pena di far conoscere, l’intero mondo dei libri in circolazione reso disponibile in libreria.

Qualche volta hai pensato che di tutto quanto lui era il solo padrone, e anche, però, che la Resistenza e la militanza comunista ne avevano fatto un “traditore della sua classe” e che era una fortuna che fosse tanto anomalo da usare i suoi soldi in quei modi.

Certo, volevi bene anche a Laterza e ancor più a Einaudi e, in nome dell’amore per i libri, avevi il dovuto rispetto per Bompiani e i Mondadori. Ma in nessun altro caso la “carta stampata” come veicolo di senso era così proiettata dal passato al futuro come lo era per lui.

LA CRESCITA

Riguardando le cose da lontano: dei primi 21 libri pubblicati nel 1955, solo due erano “italiani” (e qualificanti: Una spia del regime, a cura di Ernesto Rossi, e Fascismo e resistenza,); cinque anni dopo, i libri pubblicati erano 107 (inclusi Zivago e Gattopardo) e gli autori italiani erano poco meno della metà.

Credibilità e produzione erano cresciute in fretta, e avevano preso corpo rapidamente l’ampio ventaglio internazionale degli autori e il drenaggio della saggistica e narrativa che avrebbero caratterizzato “la Feltrinelli” d’allora in poi. Con ancora un handicap alla partenza che sarebbe stato cancellato nei decenni successivi: in quei primi cinque anni le autrici italiane pubblicate non arrivavano a 10.

IL PATRIMONIO

Ma allora non ci si faceva caso. Era molto più importante trovare tutte quelle finestre aperte. Libri e riviste suscitavano domande, in Istituto cercavi le risposte. La porta di via Romagnosi si aprì, per me, intorno alla metà degli anni Sessanta.

Il campo della mia ricerca accademica si stava aprendo sull’America. Erano tempi che chiamavano lettori e militanti a esplorazioni vaste: la storia e i teorici del movimento operaio internazionale, naturalmente, poi i movimenti in atto: la decolonizzazione, l’America latina (dopo Cuba), e l’America del nord.

All’americanista in formazione erano gli eventi sociali e politici negli Stati Uniti a porre le domande più stringenti sulle ragioni, i protagonisti e le radici dei movimenti. In Istituto non c’era tutto; per esempio, c’erano molti materiali ufficiali dell’American federation of labor, ma non quelli del C.I.O., né quelli dell’I.W.W.: la nuova storiografia della classe operaia sarebbe arrivata dopo gli anni Settanta.

Ma c’erano libri di storia, sociologia ed economia (tra questi i dieci volumi della Documentary History of American Industrial Society) e altrimenti introvabili collezioni di riviste delle sinistre statunitensi, vecchie (come la International Socialist Review e la New Review, o New Masses) e nuove (come la Nation, Partisan Review, Monthly Review, New Republic..).

A sorpresa, accanto alle collezioni “scomplete” delle riviste della New Left (Guardian, Liberation…), c’erano persino numeri unici o sparsi di giornali della cultura hippie e underground del momento (e su molte delle fascette dell’invio per posta risultavano indirizzate a Giuseppe Del Bo, cosa che testimoniava della sua curiosità…), le cui fantasiose copertine sono state poi esposte in Fondazione nel 2010, 2013 e 2018.

UN GRUPPO  

Nello stupore per la ricchezza di materiali di un Istituto nato dal nulla pochi anni prima, mi facevo domande sui modi, i luoghi e i costi delle acquisizioni. La soggezione mi ha sempre impedito di fare domande al professor Del Bo, il direttore. Alla fine, è stato Carlo Feltrinelli a fornire le risposte in Senior Service. Tra l’altro, dando un’idea sia dell’impegno finanziario per il padre, sia rendendo evidente la passione che metteva di persona nella ricerca e nei contatti con i librai antiquari in giro per l’Europa.

Anni pieni, inutile dirlo. La sera in cui nella libreria di via Manzoni tre professori presentavano Sempre più nero di LeRoi Jones, nel maggio 1968, le loro voci furono coperte da quelle di un corteo operaio, le tute bianche della Pirelli in testa, che andava alla Triennale in solidarietà con gli artisti che la occupavano. Anni ricchi, in cui letteratura e storia, arte e politica si intrecciavano con lo studio e la militanza nei percorsi della crescita personale. Per questo erano preziosi gli archivi per la ricerca e l’intelligenza per le scelte di che cosa pubblicare. Nessuna di queste “cose” poteva farle una persona da sola.

Dall’immediato dopoguerra agli anni Sessanta, Giangiacomo Feltrinelli seppe circondarsi delle persone necessarie e giuste per quello che aveva in mente. La Biblioteca crebbe e divenne Istituto nel 1960 e sarebbe diventata Fondazione nel 1974. L’iniziativa di quell’ultimo passo era stata sua, ma a quel punto lui non c’era più. Spettò ai suoi collaboratori e amici più stretti, Giampiero Brega in casa editrice e Giuseppe del Bo in Istituto (e certo, ad altri dopo di loro), continuarne l’opera.

GIOVANI INNOVATORI

Due cose, in conclusione. Per quanto riguarda la Biblioteca-Istituto-Fondazione e le finalità dichiarate nel 1949, non solo l’ambizione di farne un luogo esemplare in Europa non è stata mai ridimensionata da lui e dai suoi continuatori; l’obiettivo è stato raggiunto.

Ma forse, più ancora della crescita, è la nascita a essere stupefacente: nel 1948, Giangiacomo Feltrinelli aveva 22 anni (era del 1926), e Giuseppe Del Bo, che lo affiancò fin dall’ideazione del progetto, era nato nel 1919 e di anni ne aveva 29.

BRUNO CARTOSIO. Bruno Cartosio (1943) insegna Storia dell’America del nord all’Università di Bergamo. Si occupa da anni di storia sociale e culturale degli Stati Uniti. 

Dagospia il 13 marzo 2022. Nel 1959,  durante il suo primo viaggio negli Stati Uniti, Giangiacomo Feltrinelli è intervistato per Wriet Radio da Barney Rosset, fondatore di Grove Press, editore anche di Samuel Beckett e Jack Kerouac. L'intervista inedita capitolo del libro che pubblichiamo in anteprima.

Un capitolo di “Senior Service”, di Carlo Feltrinelli (ed. Feltrinelli), pubblicato da “La Stampa”. 

Barney Rosset: Signor Feltrinelli, potrebbe dirmi potrebbe dire a uno come me, che da non troppo tempo si occupa di editoria, quando ha cominciato a pubblicare dei libri e che tipo di libri ha pubblicato in Italia? 

Giangiacomo Feltrinelli: Abbiamo iniziato a pubblicare nel 1955 e, tranne qualche eccezione, quei primi libri erano piuttosto brutti.

BR: Perché è venuto in America in questo momento? 

GF: Sono venuto in America perché oggi pubblichiamo libri decisamente migliori, e vorremmo pubblicarne ancora di migliori. Ho pensato che avere contatti diretti e personali con editori americani poteva essere un passo importante per sviluppare la nostra attività, per aggiungere nuovi autori al nostro Catalogo e per farci un'idea più precisa della produzione letteraria americana. 

BR: Ci sono degli scrittori di cui ha sentito parlare che le hanno fatto una buona impressione e le sono rimasti impressi nella mente? Ci sono tre o quattro scrittori che avrebbero buone probabilità di essere pubblicati da lei in Italia?

GF: Non ne ho trovati molti. È un periodo di transizione. C'è qualche nuovo venuto che probabilmente diventerà un grande scrittore tra qualche anno: James Purdy, Jack Kerouac, anche se non è più tanto giovane. Speriamo di avere nel nostro catalogo molti di questi libri. 

BR: Lei ha pronunciato la parola Beatnik. Io sono allergico a questa parola. Cosa intende quando la dice?

GF: Una nuova generazione di autori tosti e di scrittori che raccontano i fatti della vita come la vedono, aspramente, usando un linguaggio crudo. 

BR: Lei crede che questo sia un bene o un male? Pensa che sia questo il modo di scrivere che piacerebbe a lei e ad altri lettori in Italia?

GF: Io penso che questo modo di scrivere abbia molte frecce al suo arco. Scarta ogni ciarlataneria, qualunque cosa tracci un quadro roseo e mistificatore della vita. In ogni paese ci sono dei problemi, e ci sono il bene e il male, e l'unico modo di affrontarli è scriverne o parlarne in termini diretti. 

BR: È piuttosto insolito che una figura come la sua sia arrivata a occupare il centro della scena negli ultimi anni. Non capita spesso che un editore attiri tutta l'attenzione che ha attirato lei, signor Feltrinelli. Questa attenzione si è incentrata soprattutto sulla pubblicazione del libro di Boris Pasternak, Il dottor Zivago. Potrebbe dirci come è riuscito a pubblicarlo? 

GF: Il romanzo mi è arrivato nel più semplice dei modi. A Mosca avevo un amico che cercava talenti per me, e mi diceva cosa c'era di nuovo. 

BR: Mi scusi, ma trovo che questo sia un punto molto interessante. Come si fa ad avere un amico che sta a Mosca e cerca talenti per te? È una faccenda che mi ingelosisce, e mi domando come sia possibile.

GF: A Mosca ci sono molti giovani italiani che per due o tre anni studiano all'università. Uno di loro, prima di partire, mi ha chiesto se mi interessava ricevere regolari notizie sulla nuova letteratura russa o sulla saggistica. Ho detto di sì, naturalmente. Quando questo amico era là, nel 1956, sentì parlare di un libro di Pasternak di prossima pubblicazione. Gli dissi: «Okay, va' avanti».

Lui contattò l'autore. Prese gli accordi necessari per la pubblicazione del libro in Italia. Il libro doveva ancora uscire nell'Unione Sovietica. Non c'erano problemi di permessi. Questo amico mi portò il manoscritto originale. Io ritirai il manoscritto a Berlino. Era battuto a macchina con le correzioni e le cancellature originali. 

BR: Durante quel periodo lei seppe qualcosa da Pasternak in persona?

GF: Ricevetti molte lettere da Pasternak, che sembrava interessato a pubblicare il libro in Italia. 

BR: Qui, in questo paese, leggiamo che a un certo punto ci fu un cambiamento: qualcuno cambiò idea, lui o altre persone nell'Unione Sovietica.

GF: Nell'autunno del '56, dopo l'annuncio della pubblicazione del libro, a Mosca ci fu un cambiamento. Dapprima mi chiesero di ritardare la pubblicazione fino all'ottobre del 1957, richiesta che accolsi perché la traduzione non era pronta.

Dopodiché l'idea di pubblicarlo (in Russia) fu scartata definitivamente. Vennero a trovarmi molti rappresentanti di scrittori sovietici, soprattutto Aleksej Surkov, che era il presidente dell'Unione degli scrittori sovietici. Parlammo del libro, e lui era molto critico. Cercò di dissuadermi dal pubblicarlo. 

BR: Cosa pensò di questi tentativi di dissuaderla?

GF: Si sentiva che i giudizi politici di Surkov erano influenzati da una curiosa ristrettezza di vedute, direi. Non aveva niente a che fare con un giudizio obiettivo del libro, che io non considero un romanzo antisovietico o anticomunista. È un romanzo sui tempi difficili che attraversa un paese. Parla di esseri umani e della loro lotta per la vita. Contiene molte lezioni fondamentali che si applicano a ogni essere umano in una società moderna. 

BR: L'avrebbe pensata diversamente se fosse stato un romanzo antisovietico?

GF: Il problema per me è la qualità. Non credo che l'arte letteraria possa essere giudicata strettamente in base a problemi e schemi politici. 

BR: Sono pienamente d'accordo con lei. Ma quando Surkov pensò che il libro non si doveva pubblicare a causa di quella che per lui era la sua natura antisovietica, questo le fece cambiare certe opinioni sulla stessa Unione Sovietica?

GF: Ero sorpreso che un paese, quarant' anni dopo una rivoluzione riuscita, con i sovietici ancora al potere, che i sovietici si preoccupassero ancora tanto di un romanzo. Lo trovavo assolutamente ridicolo. Le esperienze dei suoi personaggi sono praticamente uguali sotto ogni governo di ogni paese. 

BR: Personalmente, come editore, ho sempre avuto un grande interesse per la censura. La censura è sempre stata un problema importante negli Stati Uniti. La libertà di stampa. Noi pensiamo che lei abbia fatto delle esperienze di prima mano in questo campo da quando ha pubblicato Il dottor Zivago.

Lei crede che dovrebbe esistere una censura o da parte della Chiesa o dello Stato per ragioni morali, politiche o di oscenità? In altri termini, crede che in una società libera debba esistere la censura?

GF: Io credo che in una società libera non possa esistere la censura.

Giangiacomo Feltrinelli. «Vi racconto chi è stato mio padre. Giangiacomo Feltrinelli» Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera l'8 Marzo 2022.  

Carlo, figlio dell’editore trovato morto 50 anni fa: «Io e mia madre dovevamo vederlo a Lugano il giorno dopo, lasciò detto a un compagno che lo faceva per me» 

Giangiacomo Feltrinelli a una manifestazione

Carlo Feltrinelli, qual è il primo ricordo di suo padre?

«Metà Anni Sessanta, il mare della Corsica in tempesta, le onde alte come nei cartoni animati. Ma io non avevo paura, perché al timone dell’Eskimosa c’era mio padre Giangiacomo. Il capitano dava sicurezza».

Perché Eskimosa?

«In onore di mia madre Inge, che secondo papà aveva gli zigomi da eschimese».

Sono bei ricordi?

«Molti sono legati alle vacanze, all’Argentario o in Austria. I Natali in cui andavamo nella neve a dar da mangiare ai cervi: rape, barbabietole, fieno, sale… E poi gli ultimi anni, quando lo vedevo di nascosto».

Tutta la storia della famiglia Feltrinelli ha qualcosa di grandioso e di tragico. Suo nonno Carlo aveva tre fratelli, e tutti ebbero una sorte drammatica.

«Giuseppe era un cacciatore. Si affezionò a un cucciolo di orso, che allevò come fosse un cane. Ma era un orso e quando un giorno gli saltò al collo per giocare lo azzannò. La ferita non guarì. Per lenire il dolore divenne morfinomane e morì a 35 anni. Un altro zio di mio padre, Pietro, si suicidò a 28 anni per amore di una ballerina romena. L’altro prozio, Antonio, fu investito nel 1942 da un camion militare. Lo curarono con impacchi di pepe: morì di setticemia in pochi giorni. Quando lo deposero nella bara il corpo si aprì in due, pieno di vermi».

Restava nonno Carlo. Legname, edilizia. Presidente della Edison e del Credito Italiano. Il suo amministratore delegato in una battuta di caccia sparò a sua moglie.

«Sì, mia nonna Giannalisa si prese una fucilata in volto. Perse un occhio; ricordo per casa le boccettine con l’occhio di vetro. Era eccentrica, bellissima, gelida. Mi raccontò che era stata vittima di un disgraziato irresponsabile; ma non si esclude la gelosia d’amore».

Carlo Feltrinelli cadde in disgrazia durante il fascismo e morì. Si parlò di ictus, ma anche di suicidio.

«Non si è mai saputo bene. Un testimone, Giacinto Motta, scrisse di un “gesto pazzesco”. Io credo all’emorragia cerebrale. Fatto sta che muore all’improvviso, a 54 anni. Giangiacomo ne aveva otto».

Nonna Giannalisa si risposò con Luigi Barzini junior.

«Il giornalista più famoso d’Italia si univa alla vedova più ricca. Alle nozze Giangiacomo e sua sorella Antonella furono costretti a tirare, anziché il riso, monete d’argento. Lui e il patrigno si detestarono fin dall’inizio. Papà veniva chiuso in cantina a pane e acqua per giorni, e divenne claustrofobico. Ricordava Barzini con certi accappatoi da gangster e pantofole di velluto. Più tardi avrebbe contribuito a dare un’immagine folkloristica di mio padre e del suo impegno culturale e politico».

Barzini e nonna Giannalisa finirono al confino.

«Lui si era fatto prendere da frenesie spionistiche. Fece intendere agli inglesi che i servizi italiani leggevano le loro comunicazioni. Quelli verificarono subito, inviando all’ambasciata un messaggio con le parole di Barzini, citandolo. Il regime lo punì. Ma fu un confino dorato: ad Amalfi, all’hotel dei Cappuccini».

Giannalisa comprò dal Duce un titolo nobiliare per suo padre.

«Marchese di Gargnano. Chissà se è trasmissibile…» (Carlo Feltrinelli sorride).

L’8 settembre li colse nella villa dell’Argentario.

«Papà si diede al bosco: scappò armato di pistola con il futuro macellaio del paese. Voleva battersi, e ne ebbe occasione: si arruolò nel Corpo di combattimento Legnano, che risaliva la penisola con la Quinta Armata americana».

Le parlò della guerra?

«Un colpo di mortaio lo mancò di pochissimo. Lui tentò di recuperare il bossolo; e mentre lo raccontava faceva proprio il gesto di scavare con le mani».

Poi Giangiacomo entrò nel Pci.

«Sua madre, legatissima a Umberto II, l’aveva portato in Portogallo dal re, ma lui fuggì per tornare in Italia. Fuggì anche nonna Giannalisa, prima in Brasile poi in Canada, dove comprò un passaporto per diventare canadese e poter diseredare i figli degeneri. Antonella le fece causa, mio padre lasciò perdere».

E finì in galera per la prima volta.

«Nel 1948, dopo l’attentato a Togliatti: si fece cinque giorni a San Vittore, per affissione di manifesti non autorizzati. La sua prima moglie, Bianca, gli portava in carcere il cestino del mangiare».

La vostra casa, la leggendaria Villa Feltrinelli sul lago di Garda, era stata requisita per alloggiare il Duce.

«Ricordo i bunker scavati nella roccia, con i telefoni funzionanti. Nel 1949 mio padre organizzò nel parco un campeggio per quindici giovani comunisti. Qualcuno venne reclutato nella “banda Ciappina”, detta anche “banda ovunque”, che con le armi della Resistenza faceva le rapine. Papà non c’entrava nulla, ma fu arrestato di nuovo».

Togliatti gli propose di creare una biblioteca che raccontasse le lotte degli operai di tutto il mondo.

«Gli disse che l’idea veniva da un prete. La Fondazione Feltrinelli nacque così». 

E suo padre scoprì Il Dottor Zivago.

«Seppe che Boris Pasternak stava per finire un romanzo straordinario, e gli scrisse in francese per offrirsi di pubblicarlo. Pasternak rispose con un bigliettino scritto su una carta di sigaretta, che conservo tutt’ora. Dice: d’ora in avanti ci scriveremo solo in francese; se lei riceverà una mia lettera in un’altra lingua, sappia che non sono io. Per maggior sicurezza, mio padre inventò il sistema della banconota tagliata».

Come funzionava?

«Nelle lettere per Pasternak infilava metà banconota, e l’emissario che gliele portava aveva con sé l’altra metà, per dimostrare che erano parole autentiche. Furono accorgimenti utili».

Perché?

«Krusciov bloccò il libro. Pietro Secchia, che pure era amico di mio padre, gli chiese di non pubblicarlo. Lui disobbedì. Pasternak gli scrisse prima in italiano, poi in russo, intimandogli di rinunciare; ma subito dopo arrivavano lettere in francese, in cui diceva di andare avanti. Legga qui: “Non trovo parole sufficienti per esprimervi la mia riconoscenza. L’avvenire ci ricompenserà”. Pasternak vinse il Nobel e Zivago vendette milioni di copie in tutto il mondo».

Poi arrivò Il Gattopardo.

«Rifiutato da tutti gli editori. Fu Elena Croce, la figlia di don Benedetto, a segnalarlo a Bassani, dicendo che era opera di “una signorina aristocratica siciliana…”».

Equivoco o scherzo?

«Non si è mai saputo. Doveva uscire all’inizio del ’59, ma una copia destinata a Del Bo, collaboratore di mio padre, fu mandata per sbaglio a Carlo Bo, che sulla Stampa scrisse una recensione entusiasta. Così Il Gattopardo fu anticipato al Natale 1958. Si era creato un gruppo formidabile: Mario Spagnol, Giampiero Brega, Valerio Riva, Luciano Bianciardi…».

Bianciardi definì Giangiacomo «ignorante come un tacco di frate».

«Una volta gli chiesi: tu quanti libri hai letto? Tanti, non tantissimi, rispose».

Nel 1958 incontrò sua madre Inge, ad Amburgo.

«Lei era appena tornata dal Ghana, aveva già fotografato Hemingway e Picasso. Giangiacomo era diretto al Polo Nord, con la tenda e lo zaino, dove c’erano le bozze del Gattopardo. Si videro a una festa dell’editore Rowohlt. Parlarono tutta la notte su una panchina di fronte all’Alster. Se è per questo, papà aveva passato un’intera notte con un compagno ad ascoltare musica popolare jugoslava…».

Lei Carlo nasce il 6 febbraio 1962.

«A San Marino, perché era l’unico posto dove fosse possibile riconoscere il figlio di una coppia illegittima. Anche se in realtà mio padre ha sempre sposato le donne che amava: Bianca, Nanni, Inge, Sibilla. Con mamma si sposarono in una catapecchia in Messico. Per la mia nascita telegrafarono Gianni Agnelli e Pietro Secchia. Secchia poi venne a casa di persona, per chiedere come mai di secondo nome mi avessero chiamato Fitzgerald».

Già: perché? Come Scott Fitzgerald o come John Fitzgerald Kennedy?

«Né l’uno né l’altro. Inge diceva che Fitzgerald in irlandese significa “figlio di nessuno”; come Esposito in napoletano. Ma perché abbia scelto quel secondo nome proprio non lo so».

Alcuni descrivono suo padre come brusco, altri come cortesissimo. Com’era nella realtà?

«Diffidente, con un grande senso dell’umorismo. Trattava tutti alla pari, tutti allo stesso modo: molti gli hanno voluto bene per questo, è una delle cose che mi ha insegnato. Poteva essere scostante, arcigno. Mia madre diceva che era malinconico».

E con lei?

«Protettivo. Pieno di affetto. Mi dava grande sicurezza. Anche quando era lontano. Per il nono compleanno mi mandò una conchiglia e questa lettera: “Il regalo più bello che posso farti è lottare per un mondo migliore, per un mondo più giusto”. Mi colpisce sempre quando ci ripenso. Spesso giocavamo a scacchi».

Chi vinceva?

«Ovviamente lui. Era un modo di insegnarmi a ragionare, a confrontarmi. Seguivamo le sfide tra Fischer e Spasskij. Qualcuno mi ha detto che come scacchisti eravamo simili: forti in attacco, meno in difesa». 

A suo padre accadeva di incontrare Enrico Cuccia e Fidel Castro.

«Con Cuccia andò malissimo. Lo presentò a un funzionario: “Questo è il famoso signor Feltrinelli, con l’hobby dell’editoria…”. Feltrinelli si alzò e se ne andò, senza salutare».

E con Castro?

«Fidel si aspettava un capitalista con le ghette. Cominciò a parlargli di affari: Cuba poteva esportare zucchero e bestiame in cambio di prodotti chimici… Mio padre gli ricordò che era lì per un libro. Poi annotò: Castro non è comunista né marxista, è un idealista».

Ma anche un oppressore.

«La Cuba dei primi anni 60 era la capitale del mondo inquieto. Non solo la centrale delle lotte anticolonialiste; il rifugio di scrittori e artisti. Mio padre vi incontrò Calvino, tornato per la prima volta sull’isola dov’era nato. E comunque il libro non si fece».

Perché?

«Castro pensava a memorie militari noiosissime, come quelle che poi ha pubblicato: “Un giorno sulla Sierra Maestra…”. Giangiacomo voleva un libro di attualità e di prospettiva». 

Dopo piazza Fontana entrò in clandestinità.

«La parola non mi piace. Dovette rendersi irreperibile: ci bruciavano le librerie, la polizia perquisiva la sede di via Andegari… C’è un libro di Paolo Morando, “Prima di Piazza Fontana”, che racconta bene la fase preparatoria, il tentativo di incolpare gli anarchici. Mio padre era uno dei bersagli».

Anche i Gap, l’organizzazione fondata da lui, fece attentati: ai cantieri, alla Ignis…

«Erano gesti simbolici, dimostrativi. Come le interferenze radio con cui nel 1969 papà interruppe Tito Stagno, che raccontava l’allunaggio, per chiamare i genovesi alla rivolta contro il comizio di Almirante. Piazza Fontana fu una strage fascista di Stato. Aprì una strategia che mio padre aveva intuito».

Il golpe di destra non ci fu.

«Certo. Ma ci furono i tentativi di Borghese, della Rosa dei Venti e, sia pure in un contesto del tutto diverso, di Edgardo Sogno. Molti fatti hanno confermato l’analisi di mio padre. Compreso il coinvolgimento delle basi Nato da cui venne l’esplosivo per piazza della Loggia».

Sua madre però tentò di fermarlo.

«Certo. Giangiacomo commise un grave errore. Ma è il momento di andare oltre la visione caricaturale del miliardario sovversivo. È tempo di storicizzare quella stagione. Di riconoscere la densità umana e intellettuale di una persona che ha avuto diverse vite. È stato uno degli editori più importanti, non solo in Italia. Ha creato istituzioni che restano, a testimonianza di una vita libera, piena di intrapresa e di spirito rivoluzionario».

Non ci fu neppure la rivoluzione.

«Era un anacronismo storico, in quel momento, nel nostro Paese. Ma non per questo si può parlare di parodia della rivoluzione. Non riconosco né le narrazioni orrorifiche, né quelle idilliache. Le rivoluzioni hanno momenti imprevedibili».

«Un rivoluzionario è caduto» titolò Potere operaio dopo la sua morte. Inge Feltrinelli era convinta che fosse stato ucciso.

«Lo so. Ma mia madre non poteva esserne sicura al cento per cento. Io credo alla versione ufficiale, all’incidente. Ma neppure io posso esserne sicuro al cento per cento». 

Lei ha parlato con «Gallo», il compagno che era con suo padre sotto il traliccio di Segrate.

«Ci fu l’esplosione. Gallo fuggì a piedi con un altro compagno, morto giovane. Non avrebbero potuto salvarlo. Doveva essere un atto dimostrativo. Non sapremo mai con esattezza se il timer fosse stato manomesso. Per il magistrato che chiuse l’inchiesta, la morte di Feltrinelli restava un mistero. Di sicuro mio padre era sfuggito a diversi tentativi di sequestro. Aveva nemici da cui dovette guardarsi».

Ebbe un ruolo nella vendetta per la morte di Che Guevara.

«Questa è un’altra storia. Diede a Monika Ertl, credo in Francia, la pistola con cui lei sparò al colonnello Quintanilla, l’uomo che aveva mozzato le mani al Che per certificarne la morte. E che aveva torturato Inti Peredo, il fidanzato di Monika. Che peraltro era figlia di un nazista…».

Quali sono i suoi ultimi ricordi di suo padre?

«Capodanno 1971, una battaglia a palle di neve: c’era anche un giovane militante di Potere Operaio, Valerio Morucci; papà costruì un igloo vero. E Capodanno 1972: fuochi d’artificio sulla neve, un minirazzo sparato con il paracadute. In Italia lo vidi una volta sola».

Dove?

«Nella nostra casa in Piemonte, a Villadeati. Era il maggio del 1971. Mamma l’aveva invitato per farlo desistere dalla sua lotta. C’erano anche Régis Debray e Moravia, che però non aveva capito, continuava a parlare di sesso, di incesto… Era già un po’ sordo, si informava se Debray fosse pederasta a voce troppo alta. Io non dovevo sapere nulla; mi alzai nella notte sentendo il trambusto. Papà mi abbracciò».

Nome di battaglia Osvaldo, documenti intestati a tale Vincenzo Maggioni.

«Il commissario Calabresi intuì che il cadavere sotto il traliccio era lui. Venne in via Andegari a prendere Giovanni, il portiere, e lo portò all’obitorio. Giovanni lo riconobbe, ma tacque».

Come seppe della sua morte?

«Me lo disse mia madre. La mattina del 15 marzo 1972 dovevamo vederlo in un caffè di Lugano; ma lui era morto la sera prima. Nel portafoglio aveva la mia foto. “Lo faccio per mio figlio” aveva lasciato detto a un compagno».

Come ricorda i funerali?

«Partecipai alla cerimonia privata, tra i grandi editori venne solo Giulio Einaudi. Mi fu risparmiata quella pubblica, dove c’erano cinquemila persone e cinquemila celerini. I librai Feltrinelli portarono la bara. Il Monumentale di Milano, con cappella di famiglia babilonese, non è il posto che avrei voluto per Giangiacomo. Mia nonna commentò, atroce: “Ho finito di soffrire”. In realtà tutti, mia madre Inge per prima, sentivamo che dovevamo andare avanti. E l’abbiamo fatto, anche per lui».

Roberto Calasso. "Viaggi, libri e misteri. Ecco cosa è stato per me Roberto Calasso, avventuriero metafisico". Tedesca, scrittrice e traduttrice, Anna Katharina Fröhlich vive dagli anni Ottanta sul lago di Garda. Si conobbero alla Fiera di Francoforte nel '95. Luigi Mascheroni il 30 Luglio 2022 su Il Giornale.

Elegante, cinquant'anni ma lasciandosene dietro quindici che non si vedono, una vitalità luminosa, scrittrice e traduttrice, Anna Katharina Fröhlich è tedesca, nata a Bad Hersfeld, land dell'Assia, ma vive stabilmente in Italia dalla metà degli anni Ottanta. «Mio padre, Hans Jürgen Fröhlich era pianista, critico letterario e promotore in Germania di molti scrittori italiani del '900. Passò un anno a Villa Massimo a Roma, poi, innamorato dell'Italia, comprò assieme a mia madre nel 1970 una casa sul lago di Garda, a Mornaga, a mezza strada fra Villa Feltrinelli a Gargnano e il Vittoriale degli italiani a Gardone. Io nacqui nel '71. È lì che vivo, ed è lì che siamo stati a lungo insieme, io e lui».

Lui è Roberto Calasso, e da lui Anna Katharina Fröhlich ha avuto due figli, Josephine e Tancredi, 23 anni la prima, 14 il secondo. A loro Roberto Calasso per il quale, come è noto, non era indifferente chi fosse il proprietario della casa editrice morendo, un anno fa, ha lasciato la maggioranza relativa di Adelphi: il 48 per cento. Di per sé un'investitura. Il resto delle sue quote è andato al nipote Roberto Colajanni, attualmente l'amministratore delegato della casa editrice (ha il 10%) e alla moglie Fleur Jaeggy (il 13%): e fa il 71%. Il resto è diviso tra la famiglia Zevi e l'imprenditore Francesco Pellizzi. E la domanda è: Ora, cosa sarà di Adelphi?.

«Adelphi è una parola greca che racchiude l'idea di fratellanza, sodalizio. Esprimeva, allora, la comunanza d'intenti tra i soci fondatori. E tanto più vale oggi tra gli attuali soci. Significa che nessuno può fare da solo. Roberto Calasso con quel testamento, non lasciando a un'unica persona il potere decisionale assoluto, è come se ci avesse detto: Dovete aiutarvi, collaborare, decidere assieme. Nessun azionista può fare da solo. La regola è il confronto, che è un altro modo di dire fratellanza».

E i due fratelli, Josephine e Tancredi? Cosa fanno? Che ragazzi sono?

«Tancredi studia, Liceo classico a Salò. Di fatto è molto simile a Roberto Calasso... con più capelli in testa. Sento in lui lo stesso fervore di pensiero del padre, gli stessi silenzi eloquenti, lo stesso sguardo analitico di chi vuole sempre capire. Josephine, che ha vissuto negli ultimi anni con Roberto e con Fleur Jaeggy, sta per finire uno stage di sei mesi in Adelphi. Le piacerebbe seguire le orme del padre. Credo che entrambi sentano il compito che Calasso ha affidato loro: occuparsi di Adelphi. Roberto non faceva mai nulla a caso. Era così».

Com'era Roberto Calasso?

«Nato un 30 maggio, Gemelli. Era come se avesse due nature: una più evidente, che mostrava al mondo. L'altra più nascosta, che riservava a pochi. È stato l'uomo più intellettualmente seducente che abbia mai conosciuto: è stato un avventuriero metafisico. Si ricorda che Roberto diceva di Bobi Bazlen che era l'uomo più religioso che avesse mai conosciuto? Ecco: io posso dire la stessa cosa di Calasso».

Lei quando Calasso è morto ha scritto un obituary affascinante e misterioso.

«Il logos trafigge in un atomo del tempo ciò che i rapsodi erano avvezzi a ricucire e a ripetere per fumose notti senza fine. Mi sono affidata all'antica pratica delle sortes vergilianae. Ho aperto a caso un suo libro e la prima frase su cui è caduto il mio occhio mi è sembrata perfetta. Dice tante cose di noi».

Voi come vi siete conosciuti?

«Alla Frankfurter Buchmesse, la Fiera del libro di Francoforte. Era il 1995. Io ci andavo sin dall'infanzia, con mia madre. Per noi era un appuntamento fisso: mamma aveva tradotto Seminario della gioventù di Aldo Busi in tedesco, e il suo secondo marito, Günther Maschkle, anch'egli editore, è stato uno dei massimi studiosi di Carl Schmitt; il suo terzo marito è stato Thomas Ross, appartenente alla famiglia Ullstein, fondatrice di una delle più importanti case editrici europee della prima metà del '900, e corrispondente della Frankfurter Allgemeine Zeitung. Mentre mio padre, come le ho detto, è stato uno scrittore e traduttore, appassionato di letteratura austro-ungarica - Joseph Roth era il suo autore dell'anima e aveva frequentato Elias Canetti. Se vogliamo trovare un bandolo, parola che a Roberto piaceva molto, tra la nostra famiglia e Adelphi... beh, sono molti...».

Cosa accadde a Francoforte?

«Eravamo vicino allo stand di Adelphi. Roberto Calasso ci venne incontro: guardò mia madre, poi il suo sguardo rimase fermo su di me. Avevo 23 anni. Ogni anno, alla Fiera del Libro, il venerdì Calasso andava a cena al Restaurant Français con Vladimir Dimitrijevic, il fondatore delle Éditions L'Âge d'Homme. Invece quella sera invitò me. Dissi di sì».

Di cosa parlaste?

«Di libri, ovviamente. Parlare di libri è stata la prima cosa che abbiamo fatto, e anche l'ultima. In quel momento aveva appena finito di scrivere Ka. E incredibilmente mi chiese di tradurlo in tedesco... Ricordo che mi disse una cosa strana. Che le persone intelligenti non dovrebbero frequentare l'università, perché un'arida impronta accademica può essere pericolosa per le menti più aperte... Poi, per prepararmi alla traduzione del suo libro, che è una narrazione intrecciata dei miti, della storia e del pensiero indiano, mi fece spedire un enorme pacco di libri dall'India: era l'opera omnia del filologo e orientalista Max Müller. Il profumo di curry e di polvere che si sentì quando lo aprii, è un ancora oggi un ricordo fortissimo».

Quali sono i ricordi più belli che ha di Calasso?

«I viaggi in Grecia, per esempio le due estati che passammo nella casa che Patrick Leigh Fermor costruì con le sue mani negli anni Cinquanta, a Kardamili, dove poi furono sparse le ceneri di Bruce Chatwin. Sono ricordi inverosimili nella casa più bella della Grecia. Al sabato la casa era aperta ai visitatori. Roberto, i bambini e io restavamo lì, chi a lavorare chi a giocare, come se avessimo fatto parte dell'arredamento... E poi ricordo i viaggi: Parigi, Praga, Londra, e soprattutto India».

Ha mai pensato di scrivere un libro su di lui, su di voi?

«Sì. È possibile che lo scriva».

Lei ha pubblicato quattro romanzi in Germania. Mai in Italia, però. Calasso Le ha mai chiesto di pubblicare in Adelphi?

«Non è importante questa domanda. Ancora meno la risposta».

Si favoleggia della biblioteca personale di Calasso. Dov'è?

«Sono circa 60mila libri, di cui un nucleo più prezioso, diciamo storico, di un migliaio di volumi. Attualmente sono sparsi in tre luoghi: la sua casa a Milano, dove viveva con Fleur; un altro appartamento milanese adibito a biblioteca; e il suo studio in casa editrice. Gli eredi sono i nostri due figli e Roberto Colajanni, ma Calasso non voleva che la biblioteca venisse mai smembrata. Per ora, restano dove sono».

Ho saputo che, per un inventario redatto ai fini della successione, la biblioteca è stata valutata circa 1,2 milioni di euro.

«Non credo che a Roberto la cosa interessasse».

A Calasso interessava molto la casa editrice. Cosa succederà adesso alla Adelphi?

«Continuerà ad essere quella che è sempre stata. Forte del suo catalogo straordinario e pronta a pensare nuovi titoli che siano perfettamente coerenti con la sua storia. Proprio per questo sarebbe necessaria la collaborazione tra tutti coloro che hanno a cuore la casa editrice. Come lo erano Matteo Codignola, che era un pilastro di Adelphi, e come lo è Ena Marchi. Ora serve rafforzare un gruppo eccellente di persone che leggano per la casa editrice, che sappiano consigliare, trovare nuovi autori».

E crede che in questo gruppo ci sia spazio anche per i vostri figli?

«Certo. Loro ora non sono editori. Ma devono imparare a diventarlo».

Chi era Roberto Calasso? Lo può definire?

«No. A lui non sarebbe piaciuto essere definito».

Mario Baudino per la Stampa il 2 agosto 2022.

«Eine neue Inge?», titola “Die Zeit”, il colosso dei settimanali tedeschi diretto da Giovanni di Lorenzo, che come dice il nome è di origine italiana e forse per questo più attento di altri a quanto accade nel nostro Paese. Anche, e soprattutto, nella cultura. 

Di conseguenza – non sembra necessario tradurre il titolo, di per sé esplicito e comprensibilissimo - non si è lasciato sfuggire una vicenda che fino ad oggi almeno è rimasta un po’ sotto traccia da noi, nonostante due interviste rilasciate da Anna Katharina Fröhlich, la scrittrice e traduttrice madre dei due figli di Roberto Calasso, erede con loro del 48 per cento dell’Adelphi. 

Dunque, azionista di maggioranza, considerato che l’eredità del grande editore è stata attentamente distribuita fra il nipote Roberto Colajanni (con il 10 per cento è ora amministratore delegato e direttore editoriale), e la moglie Fleur Jaeggy (13 per cento, mentre altre quote sono controllate dalla famiglia Zevi e dall’imprenditore Francesco Pelizzi). 

A un anno dalla scomparsa, a quanto sembra, non tutto va benissimo fra i soci. O meglio, Anna Katharina Fröhlich ha deciso di rendere pubblico una sorta di disagio, di quelli che in genere restano confinati e protetti nell’ambiente ovattato dei consigli d’amministrazione. 

Fra i tanti ricordi interessanti, teneri, quasi commoventi di una vita di coppia all’insegna dei libri (lei ha tradotto in tedesco le opere di lui) e della libertà rispetto alle convenzioni più borghesi (il rapporto di Calasso con la moglie Fleur non è mai stato interrotto), c’è un assaggio, significativo, ad esempio nell’intervista con Luigi Mascheroni (per “Il Giornale”), dove con tono felpato e gentile dice qualcosa di piuttosto serio: sottolinea infatti che «sarebbe necessaria la collaborazione tra tutti coloro che hanno a cuore la casa editrice. 

Come lo erano Matteo Codignola, che era un pilastro di Adelphi, e come lo è Ena Marchi. Ora serve rafforzare un gruppo eccellente di persone che leggano per la casa editrice, che sappiano consigliare, trovare nuovi autori». 

Si noti il condizionale. Ena Marchi, grande francesista e storica colonna della redazione, è ancora lì, con una consulenza. Matteo Codignola, da sempre stretto collaboratore di Calasso, responsabile della comunicazione, traduttore e autore in proprio è invece migrato alla Garzanti, si dice perché deluso al nuovo organigramma.

Anna Katharina Fröhlich fa capire – e “Die Zeit” sottolinea proprio questo aspetto -, che la parte da lei rappresentata vuole avere più voce in capitolo, in altre parole che Colajanni non ha carta bianca. Anche perché, dice, finora i titoli usciti sono ancora quelli scelti da Calasso, ma adesso bisognerà inventare, e nella continuità. Temi analoghi con Repubblica: «Non ci sono cambiali in bianco, né tantomeno investiture divine – aveva detto -. Colajanni deve sapere che può contare sulla nostra lealtà, ma anche che, da parte nostra, contiamo sulla sua volontà di coinvolgimento». 

Gli eredi principali vogliono evidentemente pesare di più. Che sia cominciata la vera guerra di successione all’ormai mitico trono di San Giovanni sul Muro? I tedeschi (la polemica è stata ripresa ampiamente anche dal Börsenblatt, l’autorevole rivista degli editori e dei librai) non sembrano aver dubbi. Per loro almeno, una nuova Inge Feltrinelli, figura come nessun altro carismatica, è alle porte. E chissà che non abbiano colto nel segno.

I Rizzoli. Andrea Tomasi per “Vanity Fair”  il 28 luglio 2022. 

Due del pomeriggio, Ljuba Rizzoli si è svegliata da venti minuti, «comme d’habitude». Nelle tre ore a seguire il francese le verrà spesso in soccorso, a volte punteggiatura, altrove chiosa, spesso graffio. 

«Ho passato una vita ad attraversare le notti cancellando le mattine, sono ancora tarata sul fuso Ljuba. Faccio sempre la stessa colazione con noci, mandorle, Perrier e limone e antidepressivi, poi ispeziono casa come se dovessero arrivare da un momento all’altro decine di invitati. 

Peccato che tutte le persone che ho amato o conosciuto siano morte. Mi rimangono giusto quella martire di Lucia – la governante che ogni mattina minaccia di andarsene ma che dopo trent’anni e ancora qui –, qualche amico prezioso, i croupier del casino e il fedele compagnon Rolland Courbis, ramo football, senza il quale sarei fritta. E atroce».

Una controindicazione piuttosto inevitabile quando si arriva a 90 anni, meta suo malgrado che la signora accetta si di celebrare con il giornale che per tre lustri ha ospitato la sua rubrica Ici la Cote, ma che si guarderà bene dal festeggiare per una ragione semplice e straziante: il 27 giugno, infatti, oltre al suo compleanno ricorre anche quello di Isabella, la figlia-miracolo (a seguito di uno stupro i medici l’avevano dichiarata sterile) avuta dal secondo marito Andrea Rizzoli, ramo editoria, morta suicida a 22 anni. 

«Ho smesso di vivere nel momento stesso in cui ho visto il suo corpo sul marciapiede sotto casa. Come potrei anche solo pensare di fingere felicita sapendo che lei non c’è più? Dopo tanti anni sono pero arrivata a una pace relativa: Isabella ha voluto liberarsi dei suoi mali. E stata coraggiosa».

Quindi cosa farà?

«Quello che faccio sempre quando sono depressa: mi vesto bene, metto addosso qualche brillo e me ne vado all’Hotel de Paris con Lucia. Montecarlo e casa, conosco chiunque e tutti mi vogliono bene, compreso il mio adoratissimo principe Alberto. Certo la mondanità non e più quella di una volta, ai miei tempi nessuno si sarebbe mai azzardato di uscire dopo le 17 se non apparecchiato da gran sera... 

Con Lucia ce ne stiamo lì a osservare questo nuovo jet-set, queste ragazze che in abiti generosi affollano il bar. A un certo punto mando in avanscoperta Lucia per capire se sono anche intelligenti, poi ci parlo e spiego loro che Montecarlo non è il posto giusto dove cercare marito, pas d’histoire. I riccastri che passano di qui generalmente una moglie ce l’hanno già».

Lo stigma della cacciatrice di dote l’ha vissuto anche lei.

«Me ne sono sempre fregata, mi creda. E’ vero, sia Tagliabue (Ettore, ramo petroli, ndr) che Rizzoli mi hanno dato agi e ricchezze esagerati, ma non mi sono innamorata di loro per i soldi. I belli o quelli della mia età non mi sono mai interessati, cercavo piuttosto una figura paterna». 

Eppure un padre, presente e benestante, lei lo aveva.

«Sono giunta alla conclusione di non aver mai amato mio padre. Vede, mi capita spesso di sognare le persone a cui ho voluto bene, ma mai mio padre. Era severo e possessivo, voleva a tutti i costi farmi sposare un certo Peppino che aveva una fabbrica di fuochi d’artificio a Napoli. In fondo non credo volesse la mia felicita. Le dico solo che la sera prima di sfilare per Miss Italia mi raso i capelli nel sonno deturpandomi». 

E uno dei tanti episodi della sua vita da serie tv, una vita lungamente trascorsa, parole sue, a piangere di felicita. Le dico i titoli che ho pensato per un paio di puntate: Il principe e il toupet.

«Una sera Andrea mi manda in perlustrazione al casino per vedere se c’era gente. Arrivata ai tavoli del baccarat vedo questo gruppo di uomini con le gonne lunghe, al centro uno di loro che mi squadra da capo a piedi. Dopo qualche minuto, il responsabile di sala mi dice: “Contessa, il principe Fahd d’Arabia vorrebbe che lei lo raggiungesse in camera”. Insomma, mi aveva presa per una di quelle...».

E lei?

«Vado da mio marito, che per ridere mi fa: “Ljuba, quello ha i petrodollari, vacci di corsa”. Lo invitammo a Cap Ferrat, inizio un mese piuttosto movimentato. Ho dovuto persino fare l’agente speciale per conto di Ranieri III».

Racconti.

«Ovviamente il casino diede la possibilità al principe di giocare ben sopra i massimi, convinti che il gruppo di arabi sarebbe rimasto un solo weekend. Per colpa mia invece si trattennero ben di più, continuando a vincere. Mi chiamo quindi Ranieri: “Ljuba, ti prego, devi farli partire, ci stanno mandando sur la paille”». 

E cosi arriviamo al toupet.

«Un giorno, Fahd mi tende l’agguato. Lo raggiungo per pranzo alla Reserve di Beaulieu con la Rolls-Royce ciclamino che mi aveva regalato, ma anzichè trovarlo con tutta la corte e lì da solo che mi aspetta. 

Inizia un corteggiamento serratissimo, praticamente un assalto. Mi supplica di seguirlo nella sua dependance, che io conoscevo bene perchè era quella che affittava Andreotti tutte le estati con la sua famiglia. A un certo punto, per sfuggire alle sue braccia che andavano dappertutto, il postiche che rendeva la mia chioma fluente rimase incastrato sotto al suo gomito. Io ero imbarazzatissima, lui incurante continuava a parlarmi della dependance...». 

E alla fine ci e andata?

«Sono passati tanti anni, chi se lo ricorda...». (ride

Vuole lasciare il dubbio anche su Gianni Agnelli?

«Casa nostra era sempre aperta per lui. Andrea era un po’ geloso, per questo l’Avvocato veniva a trovarmi quando lui non c’era, complice la nostra governante che metteva una bandiera sulla torretta di Cap Ferrat per segnalargli che la via era libera. 

A differenza di mille altre donne che gli ronzavano attorno, io pero non pendevo dalle sue labbra. A questa pletora di supplici dicevo sempre: “Non fatevi illusioni, per lui siete soltanto un numero, non lascerà mai Marella. E poi, con la scusa che gira senza contanti, si fa pure pagare il conto al ristorante!”». 

Quindi nessun flirt?

«Ma si, qualche coup de canape c’è stato, ma niente che potesse compromettere la nostra amicizia. Cercavamo di essere discreti, ma un giorno il destino ci si è messo contro. Eravamo a una festa all’Hotel de Paris, a un certo punto Gianni mi dice: “Saliamo su alla suite Churchill”. 

Lo seguo, entriamo in quella stanza sfarzosissima dagli enormi lampadari in cristallo e ci mettiamo ad amoreggiare. Poco dopo vediamo i lampadari muoversi e tintinnare: il terremoto. Afferriamo due accappatoi e corriamo giu per le scale, ritrovandoci cosi nella hall nudi. Che fou rire».

Suo marito sapeva?

«Quando si ammalo, fu lui il primo a dire: “Ljuba, matrimonio open”. Andrea sapeva l’amore che provavo per lui, di non avere nulla da temere. Soprattutto con Gianni, che non era certo il mio tipo fisico. Troppo raffinato». 

E qui arriviamo a un altro episodio: Un biglietto nella notte.

«Alain Delon! Per carità, bellissimo, ma di quella bellezza eccessivamente femminile per i miei gusti. Eravamo a Megeve, altro corteggiamento ai fianchi. Non demordo, lui neppure. Dopo una serata piuttosto animee io e Marina Cicogna ci ritroviamo in una stanzetta nel sottotetto, una chambre des skieurs. Tempo qualche minuto e sentiamo un fruscio: qualcuno ci aveva infilato un pezzo di carta sotto la porta. Lo apriamo: “Ti aspetto alla camera 104. Alain”. Marina non ci penso su un secondo e corse giu. Il mattino dopo, in sala colazioni, Delon non mi rivolse la parola». 

Il finale di questa serie e ancora da scrivere. Come se lo immagina?

«Di nuovo assieme a Isabella e Andrea, in una specie di aldilà. Non ho nessuna paura della morte, a febbraio mi hanno ricoverata due mesi e mezzo per Covid e mi creda se le dico che gli unici pensieri erano chi avrebbe pagato il conto dell’ospedale e non poter più andare al casino, la panacea di tutti i miei mali. 

Ma ho superato anche questa, nonostante non fossi vaccinata. Marina Cicogna mi faceva telefonate minacciose ogni giorno per via della mia reticenza, ma io mi dicevo: “Se sei sopravvissuta a nove elettroshock dopo la morte di Isabella, sopravviverai anche a questo virus senza bisogno del vaccino”. Avevo ragione, ma sono stata scema». 

Valentino Bompiani. Mirella Serri per “la Stampa” il 6 marzo 2022.  

Sulla copertina della sua autobiografia uscita di recente, La penultima illusione (Feltrinelli), c'è una foto dell'autrice Ginevra Bompiani all'età di tre anni, vicino a sua sorella e a suo padre Valentino, il conte editore, così chiamato per via del titolo nobiliare, tutto preso dal suo solitario di carte. 

Valentino Bompiani, scrittore e drammaturgo, è stato uno dei maggiori protagonisti delle lettere italiane e, con la sua celebre casa editrice nata nel 1929, ha promosso gran parte della cultura italiana del Novecento. Ed è stato definito il grande amico dei suoi autori. 

Nella foto di copertina non guarda le figlie e Ginevra sembra nervosa e stringe il piccolo pugno. Signora Bompiani, suo padre era anche amico delle sue figlie?

«Umberto Eco ha sottolineato molto il rapporto che legava mio padre ai suoi scrittori. Sosteneva, cito quasi a memoria, che "Bompiani aveva per i suoi autori un rispetto quasi religioso".

E aggiungeva che questo non voleva dire che ne ignorasse i difetti e le debolezze ma che li considerava difetti di un "Autore" con la maiuscola e che di ognuno di loro ricordava aneddoti e pagine memorabili. Sia io che mia sorella abbiamo lavorato con papà. Con mio marito, Giorgio Agamben, ho messo in piedi all'interno della casa editrice una collana, il "Pesanervi". 

Mio padre sosteneva che non dovevo avere alcun privilegio, quindi sgobbavo il doppio. Giorgio sceglieva titoli e pubblicavamo autori di grande prestigio, come Adolfo Bioy Casares, ma io mi occupavo anche della parte pratica. Valentino era famoso non solo per la dedizione con cui sovrintendeva alla casa editrice ma anche per il rispetto e il tremore, è la parola giusta, che incuteva.

Con lui bisognava fare attenzione non solo a quello che si diceva ma anche - è un paradosso - a come si taceva. Anche da ragazzina, ecco l'origine del pugno chiuso nella foto, ero molto decisa e testarda. Ed ero spesso investita dalle sue scenate». Quello messo in piedi da Bompiani è stato un catalogo straordinario che accoglie le opere di alcuni dei più influenti autori della letteratura italiana, tra cui Alberto Moravia, Umberto Eco, Vitaliano Brancati, Corrado Alvaro, Raffaele La Capria ed Elio Vittorini, e della poesia, filosofia e narrativa internazionale, come T.S. Eliot, J.R.R. Tolkien, Albert Camus, John Steinbeck, James Cain, Erskine Caldwell, Archibald Joseph Cronin, André Gide, Patricia Highsmith e Jean-Paul Sartre. Sono state dunque necessarie grandi lotte e tanta autorevolezza per convogliare nella casa editrice milanese questo meraviglioso bottino?

E altrettanto si può dire per la costruzione di un monumento come il "Dizionario letterario delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature"?

«Un critico ha parlato, a proposito della conduzione della casa editrice, di "signorilità, gusto, rigore e determinazione": direi che questa è stata la cifra di papà. Non ero la sola a essere destinataria delle ire paterne. Però alcuni erano esentati.

Eco, che dagli anni Cinquanta diresse collane di studi e pubblicò da Bompiani i propri scritti, non era mai un bersaglio. Lo sa qual era la sua arma di difesa? L'ironia. Arrivava in ufficio la mattina alle undici, e questo irritava l'editore che gli chiedeva come mai si presentasse a quell'ora, ed Eco lo smontava con una battuta. Il giorno dopo se sedeva alla scrivania alle dodici. Era l'unico che chiamasse mio padre zio Val». 

Eravate una grande famiglia, insomma?

«Non c'è dubbio. Mi ricordo che in occasione di un'eclisse di sole mio padre rientrò e trovò la casa editrice deserta. Eravamo tutti sull'autostrada a guardare il fenomeno celeste. La sera ci ritrovavamo in casa Berio oppure nelle balere. Quando molto tempo dopo ho dato vita a "Nottetempo", una mia casa editrice, cercai di ricreare quell'atmosfera con la squadra di lavoro e con gli autori». 

C'erano anche grandi rivalità con Einaudi, Mondadori, Feltrinelli e altri editori?

«Gli editori andavano insieme alle Fiere e si davano consigli. Mi ricordo come mio padre a Francoforte cercasse invano di frenare Alberto Mondadori da acquisti scriteriati. Parlavano di libri, però, non di fatturato. E tra gli editori militanti non c'era solo Einaudi ma anche Bompiani che pubblicava le opere di Vittorini. Sotto il fascismo la casa, con un gesto di indipendenza dal regime, per esempio, aveva fatto uscire l'antologia Americana a cura di Vittorini con la prefazione di Emilio Cecchi». 

Però ha dato alle stampe anche la traduzione italiana del Mein Kampf di Adolf Hitler la cui pubblicazione è stata sovvenzionata da Mussolini. Lei che è sempre stata un'intellettuale di sinistra come ha giudicato questa scelta di suo padre?

«Papà alle accuse ribatteva: "Ma volevi che non si facesse conoscere agli italiani un'opera così? Anzi, la cosa che mi dispiace è che non l'abbiano letta tutti gli italiani". 

Quando nel dopoguerra vennero in Italia Sartre e la de Beauvoir ci accusarono di essere di destra. Non era vero, ma si scandalizzarono perché vennero a cena da noi e si ritrovarono in una casa borghese in cui c'erano i camerieri a servirli. Valentino è stato un editore che si è spremuto come un limone nella sua faticosa avventura editoriale».

Scrittori che non sono rientrati nella scuderia Bompiani e che suo padre si è addolorato di non aver pubblicato?

«Con Pier Paolo Pasolini, che era ospite a casa nostra al mare per lunghi periodi, aveva una grande intimità e consuetudine. Sicuramente avrebbe pubblicato volentieri le opere ma editò solo un paio di numeri della rivista Officina. Erano così amici che quando io avevo 15 anni Pier Paolo gli chiese farmi recitare in Mamma Roma. 

"Avrei per Ginevra una parte da puttanina simpaticissima". Mio padre inorridì e rifiutò. Elsa Morante una sera gli portò il dattiloscritto di Menzogna e sortilegio e gli intimò: "Mi dia una risposta domani mattina". Erano circa seicento pagine e papà fu costretto a rimandare l'offerta al mittente. Quando Elsa prendeva le anfetamine, che secondo lei l'aiutavano a scrivere, era animata da una forza interiore che la rendeva intrattabile». 

Suo padre vendette la Bompiani nel 1972 al gruppo Rcs, fu per lui una grande sofferenza?

«Direi proprio di sì. Ma continuò ad andare in casa editrice con tutta la sua energia e la sua fierezza. Mantenne le sue abitudini. Non si sedeva mai nel suo ufficio, salvo quando doveva ricevere qualcuno. Si metteva nell'ampia stanza della segreteria e come aveva sempre fatto si dedicava a ritagliare e a disegnare le copertine per cui aveva una speciale passione. 

Mi ricordo che il giorno in cui l'editrice fu venduta io ero all'università per sostenere un esame di letteratura italiana contemporanea che doveva integrare il corso di laurea che avevo frequentato in Francia anni prima. Il professore mi chiedeva di Moravia, Brancati e Alvaro... A me a sentire quei nomi veniva da piangere per la commozione.

Anche Eco, che nel 1980 pubblicò da Bompiani Il nome della rosa si rammaricò molto per l'uscita di papà dalla proprietà della casa editrice. Era cresciuto proprio lì e il successo planetario del suo libro aveva le sue radici nell'atmosfera creata da papà Valentino, l'"editore protagonista", come lo chiamavano, una figura di professionista che oggi si è estinta per sempre».

Lobby e cultura. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 24 Febbraio 2022.

Quando si parla di lobbying si pensa principalmente alle grandi aziende di beni e servizi e difficilmente ci si riferisce agli operatori culturali. È una falsa percezione, perché anche queste realtà sono attive nella rappresentanza dei propri interessi presso le istituzioni.

Va da sé che un esempio lampante arrivi dagli Stati Uniti, dove il lobbying, seppur di matrice diversa e in un contesto istituzionale anch’esso diverso dal quello europeo, ha una lunga e consolidata tradizione. L’università di Harvard nel 2020 ha speso 555 mila dollari in lobbying, superando le altre sette università appartenenti alla blasonata Ivy League, che comprende gli istituti di formazione più elitari del Paese. Quali sono i temi che hanno impegnato Harvard nella relazione con il Congresso e la Casa Bianca? Aspetti come gli aiuti economici per gli studenti, i finanziamenti per la ricerca, la pressione fiscale, le leggi sull’immigrazione e le regole relative alla pandemia. Le altre università della Ivy League non hanno speso molto meno. Solo qualche esempio: Yale si è attestata sui 530 mila dollari, la Cornell sui 520 mila e la Penn sui 430 mila (Harvard’s 2020 Lobbying Expenditures Top Ivy League, Focusing on Pandemic, Immigration Legislation, Jasper G. Goodman and Kelsey J. Griffin, Crimson Staff Writers, 23 febbraio 2021, thecrimson.com).

Per la rubrica di Telos A&S Lobby Non Olet, abbiamo parlato di cultura e lobby, binomio che da noi è considerato esotico, con Sergio Scalpelli, presidente de Linkiesta ed ex responsabile dei rapporti istituzionali di Fastweb. Guarda l’intervista. 

“Alla cultura servirebbe una fortissima, potente e strutturata attività di lobby ma dal mondo della cultura si fa fatica a costruire una coesione minima necessaria perché questa attività di lobby e protezione degli interessi del settore possa essere effettivamente efficace” ha dichiarato Scalpelli.

Malgrado l’apparente stranezza della coppia lobby-cultura, anche nel nostro Paese le grandi realtà del settore sono impegnate nel curare le relazioni con le istituzioni, insieme alle organizzazioni di natura sociale. In Italia fanno lobby i centri di ricerca, le associazioni e le Chiese. Però, come sottolinea Scalpelli, le piccole organizzazioni sono poco, pochissimo o per niente rappresentate. Come del resto anche in altri settori, manca la cultura del fare squadra per avere voce in capitolo nei confronti del decisore pubblico. Ma lo stesso problema riguarda le piccole imprese che rappresentano una fetta fondamentale dell’economia italiana. Se anche i “piccoli” facessero lobby, e se fossero perlomeno ascoltati, avremmo una regolamentazione più aderente ai problemi e alle necessità del Paese. Quindi, come ho detto più volte, il guaio dell’Italia non è l’eccessiva presenza di attività di lobbying, ma esattamente il suo contrario.

Fabbriche culturali. Bompiani: il non mestiere dell’editore. Così lo definiva il grande Valentino, scomparso trent’anni fa. Fu lui a portare in Italia la letteratura americana e a pubblicare Eco e Moravia. Paolo Mauri su La Repubblica il 22 febbraio 2022.  

Trent’anni fa, esattamente il 23 febbraio del 1992, moriva Valentino Bompiani. Un po’ di anni prima era scomparso Erich Linder, il grande agente letterario, per tanto tempo l’unico a dominare la scena italiana e internazionale. Bompiani aveva scritto di lui. «Sapeva tutto dalla nascita. Era per una tradizione millenaria il migliore di tutti nel sapere cosa sono i libri e cosa si deve fare nei libri».

Gli intellettuali hanno deciso di cancellare il dibattito. GIANFRANCO PASQUINO, accademico dei Lincei su Il Domani il 23 febbraio 2022

“Gli editorialisti di questo giornale non debbono criticarsi a vicenda nei loro articoli”. Questa frase, ripetutami più volte, mi è rimasta impressa. Ho prestato maggiore attenzione a quello che gli editorialisti di quel quotidiano e del suo concorrente più diretto scrivevano e ne ho trovato conferma. Talvolta i loro articoli argomentavano in maniera diversa e offrivano interpretazioni divergenti, persino anche se raramente, in maniera plateale. Tuttavia, l’interlocutore non veniva citato.

Difficile dire se i lettori cogliessero le differenze e considerassero positivo il silenzio sui nomi degli autori che si contrapponevano. Se la buona informazione democratica passa anche, direi soprattutto, da un dibattito pubblico di idee e di interpretazioni, non è questo che trovo sui quotidiani italiani.

Leggo, invece, di frequente quegli stessi editorialisti che, con opportuna distanza temporale, recensiscono i loro rispettivi libri quasi mai sollevando dubbi, rilevando mancanze, individuando problemi.  Anche questo è in linea con il forte consiglio (sic) a non criticarsi reciprocamente.

Impossibile, non solo per il lettore medio abituale, ma anche per lo specialista, sapere da quella recensione se quel libro apporta davvero qualcosa di nuovo, contribuisce a spiegare avvenimenti, fornisce visioni alternative.

Sicuro, però, che considerevole è l’effetto pubblicitario di una recensione a tutta pagina, magari non direttamente sulle vendite, ma sulla visibilità.

L’autore, chiedo scusa, l’autrice sarà chiamata a parlare del suo libro in due/tre salotti televisivi nei quali sarà messa in bella mostra la copertina del libro. Poiché è improbabile che conduttrice e conduttore né gli altri ospiti abbiano letto il libro, non ne seguirà nessuna discussione.

Nessuna conseguenza possibile in termini di arricchimento delle conoscenze che non esclude affatto che quel libro sia originale, colto, bello da leggere, gratificante. Non lo sapremo da quei salotti. Eppure gli invitati dovrebbero essere interessati a saperne di più, a discutere.

Per lo più si trattengono. Se la discussione vertesse prima o poi sul libro che hanno scritto meglio non essersi creati nemici con eventuali critiche passate. Ciascuno degli invitati parlerà solo se interpellato da chi presiede al salotto.

Dopo avere sistematicamente lodato l’eventuale servizio esterno dal quale prende le mosse il dibattito, l’invitato, tranne se politicamente schierato, darà sistematicamente ragione, con qualche rara, ma prevedibile eccezione, a chi gli/le ha fatto la domanda: “Assolutamente, sì!” Gli ospiti che intervengono successivamente non menzioneranno chi li ha preceduti, troppo onore, meno che mai se sono in dissenso.

Più facile dirsi d’accordo il che per lo più conduce alla menzione del proprio intervento da parte dell’ospite successivo.

Non so quanto sia vero che i telespettatori dei talk show televisivi vi assistono distrattamente salvo fare salire la curva dell’audience quando gli ospiti si accapigliano. So che ci sono guastatori di mestiere, spesso invitati per questa loro precipua propensione.

Naturalmente, da questi incidenti non scaturisce mai informazione, non discendono elementi conoscitivi, non si costruisce un dibattito pubblico istruttivo.

Scrivo questo articolo mentre sui giornali si ricorda il centesimo anniversario della nascita di Pier Paolo Pasolini. Mi trovai spesso in disaccordo sulle sue prese di posizione nelle quali riconobbi sempre vera sostanza. Dove (su quale quotidiano?, oso: in quale salotto televisivo?) sono finiti gli intellettuali pubblici in grado di discutere con Pasolini? 

GIANFRANCO PASQUINO, accademico dei Lincei, Professore emerito di Scienza politica all'Università di Bologna, dal 2005 è socio dell'Accademia dei Lincei.

IL RISO COME CRITICA. In Italia tutto viene preso sul serio, tranne le cose serie. CLAUDIO GIUNTA su Il Domani il 19 febbraio 2022

A un certo punto della vita adulta bisogna fare una scelta e decidere da che parte stare. C’è la parte di Flaiano, che pensava che la cosa più importante fosse sorridere e far sorridere, senza pronunciare proclami, elaborare visioni del mondo, firmare manifesti. 

E c’è la parte di Fortini, che – come Jorge da Burgos nel Nome della rosa – pensava che con tutto il male che c’è nel mondo ridere è nella migliore delle ipotesi una leggerezza e nella peggiore un crimine, o la complicità in un crimine.

E dunque ci si domanda: chi mettere in questo canone? Chi riesce a far ridere o sorridere, tra gli scriventi attuali? La domanda vorremmo girarla al lettore. A noi è sembrato di indicare dei filoni. 

CLAUDIO GIUNTA. Professore di Letteratura italiana all’Università di Trento, è uno specialista di letteratura medievale (La poesia italiana nell’età di Dante, Il Mulino 1998; Due saggi sulla tenzone, Antenore 2002; Versi a un destinatario, Il Mulino 2002; Codici. Saggi sulla poesia del Medioevo, Il Mulino 2005). Nel corso dell’ultimo decennio è stato visiting professor, tra l’altro, nelle università di Chicago, Tokyo (Todai), Sydney, Rabat, e ha insegnato come volontario alla Asian University for Women di Chittagong, nel sud del Bangladesh. È stato fellow dell’American Academy di Roma, dello Harvard Center for Renaissance Studies di Firenze e del Warburg Institute di Londra. Ha insegnato Didattica della letteratura nei corsi del TFA e del PAS organizzati all’Università di Trento; e insieme ad altri insegnanti del Trentino ha curato un seminario dal titolo Cosa insegnare a scuola.

Dai messaggi cifrati di Sallusti-Palamara all’epica di Allende. BEPPE COTTAFAVI su Il Domani il 19 febbraio 2022

Nel mercato contratto da bollette e Covid arriva a marzo anche il libro del generale Figliuolo con Beppe Severgnini S’intitola Un italiano, che fa un po’ Toto Cotugno.

Nel caso della seconda puntata del Sistema, Lobby & Logge, è stata solo ritardata l’uscita da Rizzoli. Dopo l’elezione del presidente della Repubblica.

Lei è forte, indipendente, coraggiosa. Si chiama Violeta e nasce in una notte tempestosa del 1920, prima femmina dopo cinque turbolenti maschi. E il suo romanzo, Violeta, da Feltrinelli, scritto da Isabel Allende, la regina della narrativa popolare.

Sono due i libri che comandano la classifica di questa settimana.

Che testimonia di un mercato contratto dopo molti mesi di splendore. Affaticato. Dalle bollette, dall’inflazione, dalla pandemia. E sono libri molto diversi.

Appartengono a due generi consolidati. Il romanzo popolare e epico di una star della narrativa mondiale, Isabel Allende, e l’inedito giornalismo di testimonianza (e di omissioni e di messaggi incrociati e cifrati) su Il sistema, fortunato clone della Casta.

Fatto da Alessandro Sallusti insieme a Luca Palamara, un magistrato che, radiato per indegnità dalla magistratura, fa la morale alla magistratura stessa. Un po’ come se il coronavirus facesse le pulci alle chiacchiere narcisistiche dei virologi e alle strategie di Speranza, prima con Conte poi con Draghi, e del generale Figliuolo. Pure lui atteso in libreria. L’8 marzo, da Rizzoli. Con Severgnini al posto di Sallusti. Un italiano. Che è un titolo che fa un po’ Toto Cotugno.

Ne è uscita la storia di «un ragazzo meridionale di periferia» che, dopo il liceo classico a Potenza e l’Accademia militare a Modena, segue il consiglio del colonnello che comandava il distretto della sua città: «Francesco, tu devi andare in artiglieria da montagna, perché lì si fanno le cose seriamente. E poi noi di Potenza siamo montanari». Così diventa alpino («L’alpino, quello vero, è tutto d’un pezzo, segue le regole, porta lo zaino, porta anche due zaini se qualcuno non ce la fa. Però è anche portato a riflettere, a pensare e a esprimere i giudizi. Ecco, questo non tutti lo capiscono.

Sono un alpino, ma non sono stupido») e l’idea di fare le cose seriamente è il principio che guida la sua carriera, dalle difficili missioni in Kosovo e in Afghanistan al comando logistico dell’Esercito. Fino al nuovo ruolo di Commissario e coordinatore della campagna vaccinale. Riuscita.

IL LIBRO PERDUTO

Qui vale la pena ricordare che anche il ministro Speranza aveva incautamente scritto per Feltrinelli un libro, Perché guariremo, di cui s’è persa traccia, ritirato quando già stava in libreria. Chissà che c’era scritto? Mentre nel caso della seconda puntata del Sistema, Lobby & Logge, è stata solo ritardata l’uscita da Rizzoli. Dopo l’elezione del presidente della Repubblica.

Basti qui sapere che a pagina 118 c’è un capitolo intitolato “Messaggini dal Quirinale. Quello che ancora non si sa della notte all’Hotel Champagne”. L’ex magistrato radiato a seguito di un’indagine sul suo ruolo di mediatore all’interno del sistema delle correnti della magistratura e il direttore di Libero affrontano i misteri del “dark web” del Sistema. La ragnatela oscura di logge e lobby che da sempre avviluppa imprenditori, faccendieri, politici, alti funzionari statali, uomini delle forze dell’ordine e dei servizi segreti, giornalisti e, naturalmente, magistrati.

Logge e lobby che decidono se avviare o affossare indagini e processi e che, come scrive Sallusti, «usano la magistratura e l’informazione per regolare conti, consumare vendette, puntare su obiettivi altrimenti irraggiungibili, fare affari e stabilire nomine propedeutiche ad altre e ancora maggiori utilità. Per cambiare, di fatto, il corso naturale e democratico delle cose».

DALLA SPAGNOLA AL COVID

Ma veniamo al libro numero uno. Lei è forte, indipendente, coraggiosa. Si chiama Violeta e nasce in una notte tempestosa del 1920, prima femmina dopo cinque turbolenti maschi. E il suo romanzo, Violeta, da Feltrinelli, scritto da Isabel Allende, la regina della narrativa popolare, l’autrice di La casa degli spiriti, si prende la testa della classifica. Raccontata attraverso gli occhi di questa donna che vive un secolo di sconvolgimenti con determinazione e senso dell’umorismo, Isabel Allende ci consegna ancora una volta una storia epica e passionale che esalta e emoziona le sue lettrici. L’ultimo dei 28 romanzi pubblicati dall’autrice 79enne.

È la storia di una donna centenaria che attraversa il XX secolo e scrive al nipote Camilo per lasciargli una testimonianza. Di una vita segnata da avvenimenti straordinari, l’eco della Grande guerra, il virus dell’influenza spagnola che sbarca sulle coste del Cile nel momento esatto della sua nascita. Sullo sfondo delle sue alterne fortune, un paese di cui Violeta impara a decifrare gli sconvolgimenti politici e sociali. Ed è grazie a questa consapevolezza che avviene la sua trasformazione con l’impegno nella lotta per i diritti delle donne.

Una vita eccezionalmente ricca e lunga un secolo, che si apre e si chiude con una pandemia. Il romanzo inizia con l’influenza spagnola e si chiude con il Covid. BEPPE COTTAFAVI

Estratto dell’articolo di Matteo Nucci per espresso.repubblica.it il 17 febbraio 2022.

Mi dica i cinque scrittori decisivi del Novecento.

«Gadda su tutti. Elsa Morante, Landolfi. Parise e Bassani già li ho nominati». 

E stranieri?

«Proust. Poi Mann, il sublime Musil, Durrell e Lowry». 

E oggi?

«Javier Marías e Pamuk. Verso Pamuk nutro un’invidia enorme, ma un’invidia sana, buona. Che scrittore!».

Giovani italiani?

«Mencarelli. “Tutto chiede salvezza” mi era piaciuto molto. Ha una bella e lunga strada davanti». 

Scrittrici?

«Nessuna. È una cavalcata delle Valchirie». 

In che senso?

«Non sente la musica? Ogni volta che esce un nuovo libro di una scrittrice italiana tutte le altre si affannano a gridare che ha cambiato le loro vite. Ma quante volte cambiano vita? Quante vite hanno?».

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 17 febbraio 2022.  

Tempo fa un libraio di Bologna, temerariamente della Feltrinelli, e su Repubblica per di più, in un'intervista disse di non leggere libri di donne. E per fortuna non disse «femmine». Si può immaginare come finì. Intervenne persino Inge Feltrinelli (era il 2015) e un'orda di scrittrici urlò alla discriminazione, contro l'«ottuso maschilismo» e bla bla bla, qua qua qua. 

Ma oggi succede di peggio. Giorgio Montefoschi, in occasione dell'uscita del suo nuovo romanzo Dell'anima non mi importa (La nave di Teseo), intervistato dal sempre ottimo Matteo Nucci su l'Espresso - solo per fatalità testata di riferimento del mondo transfemminista, Lgbt, «no gender» e #MeToo - alla domanda sulle sue scrittrici preferite, risponde, icasticamente: «Nessuna. È una cavalcata delle Valchirie». In che senso? «Non sente la musica? Ogni volta che esce un nuovo libro di una scrittrice italiana tutte le altre si affannano a gridare che ha cambiato le loro vite. Ma quante volte cambiano vita? Quante vite hanno?».

E potremmo fermaci qui. Ci piace l'odore del napalm quando scoppia una guerra fra le scrittrici italiane e il resto del mondo. 

Prima cosa che ci è venuta in mente quando abbiamo letto la frase «Ogni volta che esce un nuovo libro di una scrittrice italiana tutte le altre si affannano a gridare che ha cambiato le loro vite»: le recensioni incrociate, via quotidiani, festival, tv o social fra Murgia-Valerio-Stancanelli-Lattanzi-Tagliaferri. 

«Amo'!!», «Bella», smack, «Ti Lovvo» cuoricini e hashtag #LeNuoveEroidi... La seconda, quei racconti a staffetta per magazine rosa, tipo Avallone-Postorino-Gamberale-Ciabatti... Emoticon: faccino che sbadiglia. 

Comunque. L'intervista è del 6 febbraio, ma nessuno se ne accorge fino a quando, su Twitter, Valeria Parrella scatena con un post le scrittrici vergini guerriere. A un certo punto si capisce che c'è anche una chat privata su cui la Parrella discute con una compagine di valchirie dell'intervista di Montefoschi («I commenti? Irripetibili»), ma per divertirsi bastano e avanzano i tweet pubblici che si riversano contro Montefischi, Montefiaschi, Montecazzi... 

Fra le divinità norrene che partecipano alla cavalcata si segnalano, fra le altre: Viola Ardone, Annalisa Cuzzocrea, Helena Janeczek, Loredana Lipperini, Letizia Pezzali, Laura Campiglio, Giulia Blasi... Neofemminismo, Walkürenritt, ironia e suscettibilità... La Rete sarà il tuo Walhalla. 

Per altro Montefoschi si riferisce soltanto alle scrittrici viventi, perché di Elsa Morante e Fabrizia Ramondino parla benissimo. E soprattutto la parte più interessante dell'intervista è la risposta alla domanda «Grandi sopravvalutati?». «Calvino. Uno scrittore furbo. Maneggiava Einaudi e il Pci così da avere un enorme potere. Che ha esercitato fino in fondo. Scriveva bene, per carità. Ma non basta scrivere bene». Che passa inosservata. #NessunoTocchiCalvino

Se una notte d'inverno una valchiria... 

Citazione di Giovanni Papini: «Se gli scrittori non leggessero e i lettori non scrivessero, le cose nella letteratura andrebbero straordinariamente meglio». Hashtag: #NonUnaDiMeno

Puntesclamativi. Le scomparsa dei critici e l’ascesa dei sommi capolavori palingenetici. Guia Soncini su L'Inkiesta il 16 Febbraio 2022.

Sui social tutti inneggiano al film o al romanzo che gli ha cambiato la vita. Sì, come no. Vi do un consiglio: per invogliare qualcuno a provare i vostri consumi culturali preferiti è più efficace parlare dei difetti. 

Come funzionano le influenze? Amazon sta stravendendo un libro intitolato Le paure segrete dei bambini. È accaduto che una bottegaia dell’Instagram, di quelle che parlano della loro avvincentissima esperienza di maternità, l’abbia messo nelle storie – quelle che durano quindici secondi e mettono alla prova la fragilità della nostra attenzione – e sotto ci abbia scritto: Un libro che a mio avviso chiunque ha a che fare con dei bambini dovrebbe leggere.

Per bucare l’attenzione entro i quindici secondi devi essere uno slogan, e il sottotitolo di questo libro è: Come capire e aiutare i bambini ansiosi e agitati. Se avete mai scorso i penzierini delle mamme sui social, sapete che sono tutte convinte d’avere figli speciali, e fragili, e bisognosi d’attenzioni. L’invenzione dell’infanzia come tema prevede non solo che non li mandiamo più in miniera, ma anche che ci convinciamo siano creature interessantissime, che meritano ci mettiamo a studiare per avere a che fare con loro. In Inventing Anna, la giornalista che vuole intervistare Anna Delvey è incinta, e a colloquio in carcere Anna sprezzantemente le dice che i figli si son sempre fatti, anche accovacciandosi nei campi, insomma quante storie. Temo sia una battuta messa lì per dirci in maniera incontrovertibile che Anna è una cattiva: come puoi non aderire alla mistica della maternità, mostro.

Qualche settimana fa Concita De Gregorio ha citato nella sua rubrica su Repubblica uno dei racconti del più famoso libro di Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli. L’ho subito ordinato, quand’è arrivato ho riconosciuto la copertina, ho capito d’aver comprato l’ennesimo doppione di libro non letto e ingoiato dal disordine, e ovviamente non mi ricordavo più che racconto citasse Concita. L’ho chiamata per chiederglielo. Lei – senza dirlo, con quel garbo che ha lei – mi ha fatto capire di lasciar perdere, che non era roba per me, per me che dico sempre che non voglio leggere o vedere roba in cui ci siano poveri.

Mi sono ricordata di una volta in cui Baricco riuscì a vendermi – a vendere a tutti noi – Isabella Santacroce. Ero giovane e suggestionabile, certo; ma, soprattutto: era Baricco. Mi sono ricordata di quando tutti sostenevano che Open, l’autobiografia di Agassi, fosse diventata un bestseller grazie a un tweet di Lorenzo Jovanotti. Però Open era bellissimo, scritto da uno scrittore pazzesco (se non sapete cosa guardare stasera, su Prime c’è il film tratto non dall’autobiografia di Agassi ma da quella dello scrittore, J.R. Moehringer, s’intitola The Tender Bar, lo dirige George Clooney): forse le cose bellissime si vendono da sole, e il problema sono le altre.

Come si vendono, i consumi culturali medi? Non a mezzo critica, ormai. Lo sanno tutti: gli unici ai quali importano le recensioni sono gli uffici stampa, terrorizzati che gli editori si rendano conto che non servono più a niente. Quasi neanche agli scrittori dall’ego più fragile interessa più comparire nelle pagine culturali, sapendo benissimo che li recensiranno scrittori con cui andranno a cena la sera dopo e la cui massima ambizione è vedere la propria recensione condivisa sui social dall’autore del libro: con queste premesse, potrà mai essere non dico una stroncatura, ma un elogio più sobrio di «sommo capolavoro che cambia per sempre la letteratura italiana»?

In What She Said (è su Sky), Pauline Kael, critica cinematografica del New Yorker di quando la critica era influente, dice che il critico dev’essere odiato da tutti, anche dal pubblico al quale demolisce i suoi cocchi, «Se ti apprezzano, devi iniziare a preoccuparti». Questa cosa qui ce la siamo persa, almeno in Italia, almeno in questo secolo. Ce la siamo persa e ne siamo scioccamente lieti. Ce la siamo persa e abbiamo fatto passar la voglia a quelli bravi: da Paolo Giordano a Alessandro Piperno, chi ha voglia di fare critica culturale perlopiù si rifiuta di scrivere di italiani. Chi glielo fa fare, che poi se osi dire qualcosa di non elegiaco ti danno del bastiancontrario che vuole farsi notare, e se di qualcosa scrivi lodi ti arrivano in cento a pretendere altrettante lodi, novantacinque dei quali pubblicati dal tuo stesso editore o che collaborano al tuo stesso giornale?

Sui social è molto fotografata un’intervista a Giorgio Montefoschi pubblicata dall’Espresso. Un passaggio in particolare, fotografato da metà degli opinionisti social al grido di «Oddio, quant’è vero, l’ho sempre pensato anch’io» e dall’altra metà al grido di «maschilista schifoso». La risposta riguarda le scrittrici italiane viventi, e fa così: «Non sente la musica? Ogni volta che esce un nuovo libro di una scrittrice italiana tutte le altre si affannano a gridare che ha cambiato le loro vite. Ma quante volte cambiano vita? Quante vite hanno?». Confesso di far parte della prima metà, e di trasecolare ogni volta che un’adulta (ma pure un adulto) dice senza mettersi a ridere d’aver avuto la vita cambiata da un libro, da un film, da un incontro. (Oddio, magari incontrando un miliardario disposto a sposarti in comunione dei beni puoi trovarti con la vita cambiata, ma non mi vengono in mente molti altri esempi).

Però non è per questo, che l’intervista mi ha fatto venir voglia di leggere Montefoschi. È per la parte in cui descrive suo figlio come un perfetto idiota. Così come la demolizione che ne aveva fatto il New York Magazine mi aveva fatto venir voglia di leggere Hanya Yanagihara. Per consumi culturali più complessi di «i vostri figli hanno paura, aiutateli», una stroncatura, un difetto, una crepa nel santino è più efficace d’un «sommo capolavoro, puntesclamativo»; specie se chi puntesclamativa legge sempre e solo sommi capolavori: quanti sommi capolavori puoi incrociare, in un anno da recensore?

Come t'invento un bestseller e/o un titolo da classifica. Luigi Mascheroni il 13 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Consigli, giudizi e j'accuse dell'editore che con la Barbery, Elena Ferrante e oggi la Perrin ha conquistato il mercato.

La casa editrice e/o - sul mercato italiano da quarant'anni: è nata nel 1979 a Roma - può vantare molti record, fra longseller e bestseller. Nella top ten della classica di vendita del 2021 conta ben due titoli: Cambiare l'acqua ai fiori della scrittrice francese Valérie Perrin (era uscito addirittura nel 2019...) e Tre, della stessa autrice. Poi ci sono tutti i titoli di Elena Ferrante (per dire: L'amica geniale è il terzo libro più venduto in assoluto in Italia nel decennio 2010-2019, con 930mila copie). Poi quelli di Massimo Carlotto. Poi libri-culto come L'eleganza del riccio di Muriel Barbery o Cassandra di Christa Wolf.

Fondata da Sandro Ferri con la moglie Sandra Ozzola, la e/o - sigla che significa Est/Ovest, a indicare l'intento di portare in Italia autori dei Paesi dell'Est fino a quel momento poco conosciuti, da cui il logo: una cicogna, uccello migratore - è insomma una delle poche maison indipendenti che può parlare, a ragion veduta e a copie vendute, del sistema editoriale italiano, fra lampi di luce e dense ombre. E cosa c'è di meglio per esaltare la missione del libro (facendo finta di dire il peggio possibile sui libri) che scrive un memoir divertente quanto spericolato (per quanto riguarda i consigli), antiretorico (sulla presunta missione dell'editore) e ben poco diplomatico (vedi i giudizi tranchant)? Niente, appunto. Ed eccolo qui: l'ha scritto mister e/o, Sandro Ferri, nato a New York nel 1952, da giovane molto ricco di famiglia («poi perdemmo tutto...»), tanto da aprire una libreria a Roma negli anni '70, presto fallita, e poi lanciandosi nell'editoria, anni di conti in rosso e di debiti e oggi Signore-e-padrone dei bestseller: s'intitola L'editore presuntuoso (naturalmente esce da e/o...), e arriva dieci anni esatti dopo il suo «manuale per editori coraggiosi» I ferri dell'editore (2011). Possibile sottotitolo: «I miei primi settant'anni». Un «diario» presuntuoso, appunto, ironico (le parti sui saloni del libro, gli agenti letterari e tanti colleghi editori, a partire da Adelphi, un vero modello, ma poi trasformatosi in un «club elitario»...), a tratti letterario (l'ultimo capitolo, «Sono stato anche un pessimo libraio», bellissimo), polemico (contro l'ossessione del marketing, lo strapotere dei grandi gruppi, il totalitarismo di Amazon...), leggendo il quale si scoprono cose curiose. Ad esempio.

ISTINTO VS ALGORITMO Fondamentale per Ferri rimane la distinzione fra editore-soggetto e editore-algoritmo. Semplificando: il primo è un tipo (presuntuoso e un po' romantico) che legge cento manoscritti, ne sceglie uno, gli applica sopra il proprio marchio, lo stampa e pretende (o spera) che venga comprato dai lettori. Il secondo è quello che vorrebbe fare le cose che fa il primo, ma deve rendere conto ai manager finanziari, al marketing, ai dati di mercato, ai sondaggi, le classifiche, le mode, i fenomeni, i «casi»... I primi si divertono di più, sono sempre di meno, spessissimo falliscono, e se va bene imbroccano il bestseller dell'anno; i secondi vivono sotto stress, devono molte volte rinunciare ai propri gusti, ma - più o meno - riescono a tenere i conti in ordine, ed ecco perché sono la maggioranza. Ognuno a questo punto, fa le sue scelte: voi volete essere lettori-soggetto o lettori-algoritmo?

COME TI VETRINIZZO IL LIBRO Una delle cose che fa più arrabbiare Sandro Ferri: il fatto che sempre più gli editori-algoritmo acquistano per i loro libri gli spazi espositivi migliori sui banconi e nelle vetrine delle librerie.

COSE CHE NON AMA(ZON) Una delle cose che fa più godere Sandro Ferri: il fatto che Amazon, nonostante abbia tentato di tutto per trasformarsi in editore «in modo da non dover prendere libri da quei rompiscatole degli editori», abbia sempre fallito. Amazon Publishing, al di là della sua potenza di fuoco, non ha mai trovato autori di valore. Perché? Semplice: «Perché non sono veri editori» (come non sono veri librai, ma solo venditori)».

«MARCHETTING» Da conservare il j'accuse di Ferri - uno che con i libri di Elena Ferrante, di Muriel Barbery e della Perrin domina le classifiche - contro l'idea malsana, veicolata dal marketing, che gli strumenti per vendere ai consumatori sono più importanti del prodotto che si vende, ha cambiato non solo il modo di vendere i libri, ma persino quello di scriverli. Corollario: omologazione della scrittura, conformismo narrativo, replica di formule ritenute vincenti... Come il marketing ha cambiato (in peggio) la letteratura.

LOBBY Riflessioni a margine del premio Strega (che e/o non ha mai vinto, peraltro): «È piuttosto ingenuo pensare che il vincitore dello Strega sia deciso dai 400 giurati su raccomandazione degli editor dei grandi gruppi editoriali. In realtà i libri candidati dai grossi editori sono scelti insieme al management economico, in base a precisi calcoli sulle probabilità di vittoria e ovviamente in base alle pressioni esercitate dalle varie lobby che si formano attorno agli autori più noti».

SELF(IE) DI SERIE C Riflessioni a margine del self-publishing: «Nessuno scrittore è riuscito a emergere dalla massa indistinta del self-publishing per accedere ai normali circuiti della lettura, a quel mondo letterario dove i libri vengono comprati in libreria, letti, discussi, recensiti, premiati, acquisiti dalle biblioteche. Sostanzialmente il sistema è fallito, il self-publishing resterà come una serie C dalla quale sarà impossibile accedere alla serie A».

(S)VIP&TV Riflessione a margine dei concetti di «novità», «pubblicità» e «libroidi», i libri scritti dai vip: «Non si possono ingombrare vetrine e corridoi delle librerie con colonne, cataste, pigne, cascate di copie di uno stesso titolo, solo perché l'autore va sempre in TV ed è piacione. Non è tollerabile che tutto questo spazio venga sottratto a libri di autori meno noti ma spesso almeno altrettanto bravi. Non si crea una comunità di lettori solida e duratura mandando in libreria la gente a colpi di paginate sui quotidiani, apparizioni tv, campagne d'intossicazione da decine di migliaia di euro».

SEGRETI Come si azzecca un bestseller? Non esiste, si sa, una formula segreta. Però Sandro Ferri è convinto che «le recensioni e i premi sono tra i motivi meno scelti dai lettori per arrivare a un libro. Prima ci sono il passaparola, il consiglio di un amico, il suggerimento del libraio, il titolo, la copertina...». Bene a sapersi.

GIOCO D'AZZARDO «Per me l'editoria è un gioco. Voglio divertirmi, tenere il fiato sospeso, avere paura, ogni tanto vincere (anche se più spesso mi trovo a perdere). Per me un libro è sacro solo nel senso che regala emozioni e illuminazioni che quasi nessun altro oggetto offre».

MA POI, CHI È ELENA FERRANTE? Ovviamente Sandro Ferri non lo dirà mai. Ci sono un paio di ipotesi. La nostra (personalissima) è che sia un autore che ha molte mani, uno e trino: i libri di Elena Ferrante sono pensati, scritti, rivisti e riscritti, collettivamente, in modi diversi nel corso degli anni, dagli stessi editori (Sandro Ferri e Sandra Ozzola) con Anita Raja, traduttrice storica e gran consigliori della casa editrice, e forse il suo stesso marito, Domenico Starnone. Ma poi, la cosa non è neppure così importante...

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 2021).

·        L’Utopia.

Scusi, mi dice dov’è la via delle utopie? Parafrasando Saramago, «non è una politica diventata cieca, secondo me lo è. Cieca che, pur vedendo, non vede». Mariateresa Cascino su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Ottobre 2022

Scusi, come faccio a raggiungere le utopie? Dove devo andare per migliorare le connessioni? Qual è la strada delle continuità e delle rotture? Sono le domande bizzarre che fanno i turisti alla vista della segnaletica colorata, posizionata in Piazza San Francesco, cimelio toponomastico di Matera 2019. Imperterrite, quelle indicazioni verso l’Open Future resistono al caldo e al gelo e, irremovibili, rappresentano i percorsi tematici e impegnativi, spesso sbeffeggiati, di una bandiera gloriosa.

Campeggiano discrete alla vista di tutti, benché non siano state ancora comprese e metabolizzate dai più, se non dalla fertile, giovane e vivace scena creativa locale che, dopo aver inventato e creato film, spettacoli performance ed eventi culturali lasciandosi ispirare da quei significati così identitari, profondi e difficili, è stata miseramente e immeritatamente abbandonata a causa di una cecità politica. Parafrasando Saramago, «non è una politica diventata cieca, secondo me lo è. Cieca che, pur vedendo, non vede». Cercando di rispondere ai tanti interrogativi che sorgono ai turisti verso le destinazioni misteriose, è proprio il futuro remoto che offre le suggestioni più intense ai viaggiatori nella città millenaria, perché è il luogo più desiderabile da conoscere, origine e destinazione di tutte le cose, che parte dai buchi neri delle grotte preistoriche e arriva ai corpi celesti orgogliosamente osservati dal centro di Geodesia Spaziale di Matera. Buchi, spazio, stelle e stalle, ed è subito continuità e rotture: illustro così l’altra via sul percorso segnalata in rosa shocking utilizzata per la terapia collettiva e per liberarsi dall’onta della vergogna nazionale, oltre che per interrogarsi sulle crescenti disuguaglianze e sui conflitti che attanagliano il pianeta. Mentre è consigliabile affrettarsi lentamente - spiego agli abitanti temporanei smarriti - che le riflessioni e le connessioni indicate sulla strada offrono lo spunto per riscoprire il valore del tempo e della lentezza aiutandoci a guarire dalle nevrosi contemporanee. A proposito delle utopie e delle distopie, racconto, per chi non l’avesse ancora capito, che è proprio da una piccola città lamentosa del Mezzogiorno che sono stati lanciati nuovi modelli alternativi di cittadinanza e condivisione, cercando di far superare atteggiamenti fatalistici alimentati anche da politiche pubbliche opache e distruttive. Visto che non siamo alberi, concludo che le radici e i percorsi indicati con il colore della metamorfosi ci ricordano che siamo tutti viandanti, gitani, zingari culturali in continuo mandato esplorativo. Ma adesso, vogliamo sapere, per andare dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare?

I miglioratori del mondo. Il narcisismo etico della sinistra che non si è accorta che il Novecento è finito. Simone Lenzi su L'Inkiesta il 29 Ottobre 2022.

La cattiva coscienza e il senso di colpa per i propri privilegi non funzionano contro una leader credibile di destra, ma ascoltando in Parlamento Soumahoro forse una possibilità di ribaltare la retorica sovranista di Meloni ancora c’è

La politica, diceva Rino Formica, è «sangue e merda». Per raccogliere un plauso unanime basterebbe dire che in questi ultimi anni il secondo ingrediente non ce lo siamo fatti mancare. Se ne è sentito così forte l’odore che in troppi hanno smesso di andare a votare. Tuttavia mi preme assai più parlare della mancanza di sangue, soprattutto a sinistra.

Perché il 25 Settembre ci siamo accorti che la sinistra, rimbambita di marketing e storytelling, non aveva in realtà né prodotti da vendere né storie vere da raccontare. Da questo punto di vista, il discorso di insediamento di Giorgia Meloni e le repliche in aula alla Camera, sono stati illuminanti.

Da una parte la destra, incarnata in una leader credibile, una donna forte così poco abituata a camminare dietro agli uomini (con buona pace della Serracchiani) da essersi messa in tasca Berlusconi, the last of the famous international playboys, l’ultimo patriarca con harem al seguito. Dall’altra, invece, nulla. O quasi (sulla speranza annidata in questo quasi, tornerò in seguito).

Una leader credibile di destra che dice cose di destra, ma che, proprio per questo, andrebbero comprese fino in fondo. Per chi non lo avesse capito, ad esempio, il suo richiamo all’essere madre, nel famoso climax spagnolo, non serviva tanto a relegare le donne nel ruolo di madre, come si piagnucolava a sinistra.

Serviva piuttosto a parlare all’inconscio collettivo di un Paese in cui, al tempo in cui le famiglie funzionavano meglio dello Stato, a guidarle erano, con mano ferma, le donne. Da qui il sottinteso e intramontabile “tu la mi’ mamma la lasci stare”, che parla al cuore degli italiani assai più della petizione di principio delle quote rosa (soprattutto quando servono a portare in parlamento congiunte di patriarchi ben più famosi di loro, ancorché di sinistra).

Da una parte la destra, dicevo. Senza più complessi. Una destra che si è accorta con perfetto tempismo di una cosa che invece continua a sfuggire alla sinistra: il Novecento è finito. Dispiace, sono il primo ad ammetterlo, data l’età, ma è finito.

Dall’altra una sinistra affetta da narcisismo etico, la cui preoccupazione principale non è più quella di rappresentare gli interessi legittimi e le aspirazioni di chi cerca riscatto, ma quella di andare a letto ogni sera con la coscienza stirata, al calduccio della sensazione di far parte degli incompresi miglioratori del mondo.

Una sinistra il cui immaginario di riferimento e la cui esperienza di lotta per la sopravvivenza nella modernità coincide con quella di un professore di liceo (volevo dire professoressa, ma poi apriti cielo): uno insomma il cui mondo comincia a sei anni dentro una scuola e lì finisce a sessantacinque.

Nel mezzo, unico vero disagio, una vaga sensazione di frustrazione per una società che non ne onora il ruolo, ma pazienza: ci sono comunque le lunghe ferie pagate, la tredicesima, tanto tempo libero per ribadire sui social che si sta dalla parte del giusto. Ecco, la sinistra è questo: nessuno si senta offeso, nessuno si senta escluso. E per questo si è occupata soprattutto di pronomi, di articoli, di linguaggio inclusivo, di carezze a mille suscettibilità. Di quelli, insomma, che qualcuno, di là dall’oceano, chiamerebbe white men problems.

Di conseguenza, questa sinistra, che si dibatte fra la cattiva coscienza del privilegio e il senso di colpa, parla ormai soltanto a chi gode di entrambi: di privilegi e di sensi di colpa. Per quanto ne so, non esiste miscela più micidiale per condannarsi a una petulante ininfluenza.

E il pezzo potrebbe finire qui, non fosse che io alla sinistra un po’ ci tengo, fosse anche solo perché di una sinistra c’è bisogno. Ecco allora che, dai banchi dell’opposizione, si è alzato a parlare Aboubakar Soumahoro, il cui nome ho dovuto cercare su Google perché so chi è ma non sono mai sicuro di come si scrive. E, sia chiaro, posso permettermi di dirlo con leggerezza, per tanti buoni motivi.

Intanto perché non sono un professore di liceo e quindi sono dispensato dal saperla lunga. Ma soprattutto perché, provenendo da una famiglia uscita solo di recente dalla servitù della gleba (mia nonna da ragazza aveva solo un paio di scarpe, che metteva di domenica), non mi sento in colpa per essere un maschio bianco etero di mezza età che mette insieme pranzo e cena ma che ha problemi con questi nomi così incasinati.

Comunque sia, proprio in questa mia totale assenza di senso di colpa, sono rimasto impressionato, affascinato persino, dal discorso di Soumahoro, perché era pieno di quel sangue e di quella verità che mancano alla sinistra.

C’era, nelle sue parole, il sangue di una storia che nasce nella realtà del mondo e non nelle delicate proiezioni di come vorremmo fossero gli altri per adeguarli al narcisismo etico del ceto medio riflessivo. «Italiani si nasce, ma si diventa anche, e non per questo si è meno italiani»: in una frase Soumahoro ha rovesciato la retorica sovranista della Meloni, riallacciandosi idealmente al discorso altissimo di Ciampi sul patriottismo, e declinandolo nei termini di una lotta che non riguarda soltanto i nuovi arrivati, ma tutti coloro che aspirano a una piena cittadinanza. Allora ho pensato che, con storie così, raccontate così, alla fine la sinistra potrebbe persino farcela.

Certo, Soumahoro dovrebbe liberarsi di parecchi, forse troppi compagni di strada che sono l’esatto opposto di quello che lui rappresenta. Certo, dovrebbe liberarsi anche del vampirismo dei vecchi manovratori che, in ogni caso, sono già dietro le spalle di chiunque ci metta la faccia, a ragionare di liste e alleanze col bilancino, pur di salvarsi un’ennesima volta. Ma comunque, in definitiva, fosse lui, un altro, o un’altra (e Dio lo volesse, purché non un’anti-Meloni studiata a tavolino da un’agenzia di marketing), quello che mi premeva dire è semplicemente questo: stai a vedere che è tornata la Politica.

Nonostante tutto, per chi ama la democrazia, è una buona notizia.

·        Il Cinema di Sinistra prezzolato.

Nanni Moretti e la crisi del cinema in sala: "Tanti film brutti, cast e storie sempre uguali e Netflix". Emanuela Giampaoli su La Repubblica il 3 novembre 2022.

Il regista al festival Visioni Italiane: "Come esercente al Sacher perdo 50 mila euro all'anno, ma basta con questo clima generale abbacchiato"

 "È il clima intorno al cinema e in particolare intorno al cinema in sala che non c'è. Tutti sono abbacchiati, lo spazio per le recensioni sempre più piccolo fino a scomparire, ci vorrebbe un clima che faccia capire che è una cosa bella e  quelli che non vanno al cinema non sanno quello che si perdono.

"Basta con i fondi dati solo ai film di sinistra. La Rai faccia una fiction su Montanelli e Fallaci". Il neo ministro: "Finanziamenti unilaterali, ora pluralità. La cultura diventi moltiplicatore di Pil". Francesco Maria Del Vigo su Il Giornale il 7 Novembre 2022.

Egemonia culturale della sinistra, prezzo dei musei, attacchi degli estremisti ecologisti alle opere d'arte, fondi per i film, Sgarbi e pure Morgan. Gennaro Sangiuliano, ex direttore del Tg2, saggista, professore universitario e neo ministro della Cultura, parla a 360 gradi e parte in quarta, contro ogni luogo comune: «Chiederò alla Rai di fare una fiction sulla vita di Indro Montanelli e di Oriana Fallaci». Una scossa al polveroso mondo dell'intellighenzia nostrana, nel nome del pluralismo.

Ministro, quali saranno le sue prime mosse?

«Innanzitutto spendere bene i fondi del Pnrr, che è una grande occasione. In capo alla cultura ci sono circa sei miliardi da utilizzare con onestà, efficienza e rapidità. In questo momento difficile la cultura può essere benzina nel motore dell'economia del Paese. E poi c'è bisogno di una riappropriazione del senso di identità nazionale. Gli italiani devono avere consapevolezza della loro grande storia: il mondo greco-romano, il Rinascimento, l'Umanesimo e anche un Novecento importante».

Dal dopoguerra in poi, però, la cultura italiana è stata considerata ad appannaggio della sinistra, come mai?

«È stata la cosiddetta egemonia gramsciana della cultura. Mentre la Democrazia Cristiana occupava banche, consorzi agrari e altri centri di potere, l'allora Partito Comunista, cominciando ad arruolare i cosiddetti intellettuali gentiliani, pensò bene di conquistare il mondo culturale attraverso le università, le accademie e soprattutto le redazioni dei giornali».

Ma c'è anche una colpa della destra nel non aver saputo valorizzare il proprio patrimonio intellettuale?

«Un pensiero di destra, forte e autorevole, c'è sempre stato. Se vogliamo fermarci al Novecento, basta ricordare Pirandello, D'Annunzio, Longanesi, Prezzolini, tutta l'esperienza della Voce, L'Acerba, ovviamente Giovanni Gentile e lo stesso Benedetto Croce, che possiamo ascrivere al campo conservatore. Ma la sinistra ha voluto nascondere l'esistenza di questo pensiero. Basti pensare che negli anni '60 le opere di Croce non venivano ristampate perché era ritenuto troppo conservatore rispetto a quella che era la vulgata dell'epoca».

Nel corso degli anni il ministero della Cultura è stato accusato di aver foraggiato con i propri fondi film molto orientati a sinistra. Lei come intende comportarsi?

«L'erogazione di questi fondi è stata assolutamente unilaterale: si finanziavano film che fossero coerenti con una certa narrazione culturale della società italiana, della nazione e del mondo. Io, invece, voglio una cultura plurale. Come dice Marcello Veneziani bisogna rompere la cappa. Tutti devono avere pari dignità di esprimersi: non voglio sostituire a un'egemonia di sinistra un'egemonia di destra con un'operazione sostitutiva, ma voglio aggiungere. Se qualcuno vuole fare un film su D'Annunzio o su Pirandello, deve poterlo fare liberamente».

È una piccola rivoluzione

«Non solo. Io chiederò alla Rai di fare una fiction sulla vita di Indro Montanelli e su quella di Oriana Fallaci. Penso che sia giusto raccontare la nascita del Giornale, quando c'era la deriva di sinistra del Corriere della Sera e Montanelli decise di andarsene insieme a Bettiza, Dan Segre e tutte le grandi firme che si aggregarono attorno al suo quotidiano, che divenne come la Voce di Prezzolini nel primo Novecento».

Parliamo della polemica sulla gratuità dei biglietti per i musei.

«In Italia diamo il museo gratuito ai minorenni, facciamo pagare due euro dai 18 ai 25 anni e offriamo una domenica al mese gratis per tutti. Già facciamo molto, più di altri Paesi. Per capirci: il Moma di New York costa 25 dollari. Al miliardario californiano che arriva a Positano col panfilo vogliamo far pagare meno di 17,50 euro per visitare Pompei? Poi, al di là delle giuste scontistiche, rendendo gratuiti i musei si deprezza lo stesso valore delle strutture, passa il concetto psicologico che valgano poco. Non è così».

Quali sono per lei le strutture che funzionano meglio?

«Per mia esperienza personale, funzionano molto bene il parco archeologico di Pompei, il museo archeologico nazionale di Napoli, la Galleria Borghese a Roma e le Gallerie dell'Accademia a Venezia. La media dei musei italiani è su uno standard europeo, certo si può fare di più e bisogna far muovere tutta l'economia collaterale ai musei. Il sistema museale e la cultura del nostro Paese possono diventare un moltiplicatore di Pil. Bisogna attrezzare servizi correlati che funzionino bene».

Quindi è una fake news che con la cultura non si fanno soldi?

«Con la cultura si possono fare tantissimi soldi. Sono stato al Palazzo reale di Napoli e il direttore mi ha detto che sono sommersi di richieste di società private che vogliono organizzare eventi all'interno della struttura. Ovviamente non tutti possono farlo e servono ampie garanzie, ma è una strada da percorrere».

Però il patrimonio culturale italiano, che è unico al mondo, spesso non viene messo adeguatamente a reddito. Lei cosa intende fare?

«Dobbiamo pensare anche all'ipotesi di costruire nuovi musei o far sì che i nostri grandi musei possano creare delle loro appendici, nella stessa città oppure anche in altre. Perché c'è tanto materiale di grandissimo valore che si trova nei depositi e va reso disponibile e messo a profitto».

A proposito dell'esposizione delle opere. Si moltiplicano gli attacchi degli estremisti ecologisti nei musei...

«Vandalismo insensato e anche contraddittorio. Perché tutelare l'ambiente non significa tutelare solo la natura, ma anche la bellezza che l'umanità ha prodotto in millennit di storia. Per fortuna l'assalto al quadro di Van Gogh non ha causato danni, ma ovviamente tutto questo ci costringe ad alzare i livelli di protezione: quindi diventerà più difficile e più oneroso organizzare una mostra e questo rischia di riflettersi anche sui costi».

Domanda di rito: come va col sottosegretario Sgarbi?

«Con Sgarbi siamo amici da trent'anni e non abbiamo mai litigato. Non credo che ci sarà alcun problema con lui».

E il caso Morgan?

«Per fare il direttore del dipartimento di un ministero, ci vogliono dei titoli ben comprovati, esistono dei meccanismi concorsuali, ci sono dei pre-requisiti che bisogna avere e non so se Morgan li ha. Ma, per il resto, per fare il consulente all'ambito musicale, tutto è possibile».

Montanelli e la Storia da rispettare. Non si metteranno mia abbastanza a nudo gli eccessi, le contraddizioni e le follie ideologiche di coloro che, al di là dell'Atlantico e sempre più spesso anche da noi, pretendono di raddrizzare la Storia. Luigi Mascheroni l’8 Novembre 2022 su Il Giornale.

Non si metteranno mia abbastanza a nudo gli eccessi, le contraddizioni e le follie ideologiche di coloro che, al di là dell'Atlantico e sempre più spesso anche da noi, pretendono di raddrizzare la Storia applicando al passato valori morali del presente, fuori da ogni contesto e contro ogni rispetto per figure di altre epoche.

Si chiama cancel culture e vuole riscrivere i finali dei film, tagliare Maometto dalla Divina commedia, abbattere le statue di Cristoforo Colombo e dei presidenti americani, imbrattare quelle di uomini figli del proprio tempo, cambiare la toponomastica, epurare classici, censurare dipinti che non rispondono ai canoni etici attuali.

Ottimo dunque il saggio di Dino Messina La storia cancellata degli italiani (Solferino, pagg. 256, euro 17) - ricco di esempi, informatissimo, equilibrato ma senza fare sconti al fanatismo del politicamente corretto - che aggiorna in chiave nazionale la furia cieca della cultura della cancellazione. L'autore conosce bene la storia italiana, e anche il carattere degli italiani. Sa quali sono i momenti critici del nostro passato e quale guerre ideologiche si combattono su Risorgimento-antirisorgimento, fascismo-antifascismo, il nostro (breve) colonialismo, le foibe, il craxismo... E sa bene quando il revisionismo storico è scientifico e legittimo e quando invece d'accatto e pretestuoso. E lo spiega molto bene nel suo saggio, svelando tutti i paradossi di una visione anacronistica della Storia che pretende di giudicare uomini e azioni retrodatando di secoli le leggi e i principi morali della società contemporanea. Qualcosa fra l'assurdo e il grottesco. Tagline del libro di Dino Messina (assolutamente da condividere): «La storia va rispettata per intero, anche nei suoi capitoli più controversi».

A proposito di capitoli. Ne segnaliamo alcuni particolarmente interessanti. «L'eredità del fascismo di pietra» (pagine che siano di monito a chi non gradisce i monumenti del Ventennio). «Montanelli lì non riposa» sul caso della celebre sposa bambina eritrea (uno degli effetti peggiori della cancel culture è ridurre l'intera e complessa vicenda di un personaggio pubblico a un singolo episodio). E «In difesa del museo Lombroso» che spiega bene l'importanza di studiare e conservare i lasciti della cultura e della scienza che riteniamo superati.

Un libro da leggere.

(Agenzia Vista) Catania, 29 agosto 2022

Meloni: "Artisti mi insultano, forse perché altrimenti non lavorano"

"Oggi il mood degli artisti è 'mi alzo e insulto Giorgia Meloni'. Secondo voi, è possibile che non ne esista uno che la pensi in maniera diversa? Secondo me no, è invece possibile che quelli che la pensano in maniera diversa non hanno il coraggio di dirlo. Non è che lo fanno perché pensano che questa sinistra democratica poi non li fa più lavorare?". Lo ha detto Giorgia Meloni a una manifestazione di FdI a Catania.

Fabrizio Accatino per “la Stampa” il 25 ottobre 2022.

«In Italia si producono film quasi ai livelli degli anni' 60, più del doppio degli anni scorsi, ed erano già troppi. Qui ne è arrivata la maggior parte e vi assicuro che abbiamo visto una quantità di cose orribili». Alberto Barbera è una persona notoriamente prudente, lontana dalla provocazione come genere letterario. Quando la scorsa estate - in occasione della presentazione della nuova edizione della Mostra di Venezia - se ne uscì con questo giudizio, le sue parole sono riecheggiate a lungo fra le pareti dei palazzi del cinema.

Indecisi se offendersi per il dito o per la luna, molti si sono appellati all'eterna soggettività dei concetti di bello e brutto.

Nessuno si è interrogato (quantomeno pubblicamente) sull'altra metà del discorso, quella che citava numeri impossibili da smentire. Perché negli ultimi dodici anni i titoli prodotti in Italia sono davvero più che triplicati: nel 2010 erano 141, nel 2021 sono stati 481. Di questi ultimi, in sala ne sono usciti solo 153, pari al 43% dei titoli usciti (ma soltanto al 21% degli incassi). Proporzione inversa per i film americani: con soli 75 titoli (il 21% del totale) si sono portati via il 58% degli incassi complessivi.

Perché allora in Italia si produce così tanto se poi si incassa così poco, a volte senza nemmeno uscire in sala? La risposta è nel sistema di incentivi pubblici, fondi e crediti d'imposta, che nel nostro Paese consentono all'opera di ripagarsi prima ancora di uscire. Questo fa sì che sul cinema italiano a rischiare del suo sia rimasto soltanto lo Stato, mentre per il produttore i film è sufficiente girarli. L'esito del botteghino è del tutto irrilevante, come dimostrano i vari titoli che hanno incassato pochino e di cui pure sono stati subito messi in cantiere i sequel. 

La crisi del nostro cinema s' incrocia inesorabilmente con la crisi delle sale cinematografiche, che da anni registrano numeri da grande depressione (senza new deal all'orizzonte).

Gli interessi incrociati degli operatori di mercato hanno creato uno stallo alla messicana che la nostra deregolamentazione normativa (unica in Europa) non contribuisce a risolvere.

Fortunatamente, sono sempre di più gli autori che si stanno pronunciando contro questa situazione. L'ultimo in ordine di tempo (ma non è la prima volta) è stato Nanni Moretti, alla Festa del Cinema di Roma, per la presentazione di Il colibrì di cui è interprete. Mentre il film di Francesca Archibugi esordisce balzando in vetta al box office, Moretti osserva: «In altri paesi come la Francia c'è una finestra di uscita tra i cinema e le piattaforme, una distanza di quindici mesi, mentre in Italia questo periodo è pari a zero. Ci vuole un clima e delle leggi che aiutino i film in sala».

Ormai la grave sofferenza dei nostri cinema è conclamata. È vero che nei grandi Paesi europei tra il 2019 e il 2021 (a cavallo della pandemia) si sono registrati cali di pubblico che vanno dal -54% della Francia al -64% della Germania. Quello italiano è stato però il mercato più in sofferenza di tutti: -75%. Inoltre, passato il 2020, l'anno più nero dell'emergenza Covid, nel 2021 i numeri sono migliorati per tutti, dal +10% della Germania al +68% della Gran Bretagna. Per tutti tranne che per l'Italia, dove l'emorragia di spettatori ha registrato un ulteriore -12%. 

Dal 2010 al 2019 in Italia gli incassi sono sempre stati costanti, tra i 650 e i 750 milioni di euro. Nel 2020 sono scesi a 183, nel 2021 a 170. Come detto, di queste cifre il cinema italiano rappresenta una quota pari a circa il 22%. Ogni tanto sono capitati anni più rosei (come il 2011, il 2013 e il 2016), in cui la percentuale d'incidenza degli incassi dei nostri film è aumentata.

Tutte le volte si è cantata la rinascita del cinema italiano, glissando sul fatto che quei picchi coincidevano regolarmente con l'uscita dei film di Checco Zalone, la più classica delle rondini che non fanno primavera. La pioggia di denaro pubblico, che incentiva la produzione di film che in larga parte nessuno vedrà mai, non contribuisce nemmeno alla qualità del prodotto. Innanzitutto perché - per andare sul sicuro con i finanziamenti - i produttori scelgono come interpreti sempre i soliti noti, e questo lascia al palo la nuova generazione di attori emergenti. Quella stessa logica del volto famoso ha spinto ultimamente le produzioni a imbarcare nel cast anche personalità televisive e cantanti, anche quelle in grado di «fare punteggio» quando si tratta di accedere ai sostegni pubblici.

Tra i criteri richiesti dai bandi ci sono poi i temi sociali e civili, che gli sceneggiatori finiscono per infilare dappertutto. Sono i famosi film Mibact (oggi Mic), da tempo oggetto di ironie. Quelli a cui si riferiva Quentin Tarantino già nel lontano 2007, quando diceva: «Le pellicole italiane che ho visto negli ultimi tre anni sembrano tutte uguali. Non fanno che parlare di: ragazzo che cresce, ragazza che cresce, coppia in crisi, genitori, vacanze per minorati mentali. Che cos' è successo? Ho amato così tanto il cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta e alcuni film degli anni Ottanta, e ora sento che è tutto finito. Una vera tragedia». Non l'aveva toccata piano, ma aveva centrato il punto prima di tutti. 

Fabrizio Accatino per “la Stampa” il 25 ottobre 2022.

«Sto mandando messaggi accorati alla nuova Presidente del Consiglio. La mia supplica - apartitica - è che per la prima volta nella storia di questo Paese quello della Cultura sia considerato un ministero primario, visto che l'Italia si fonda sulla cultura». Per nulla rassegnato al trend che ha finito per affossare il cinema in sala, Pupi Avati ha lanciato il suo messaggio in bottiglia a Giorgia Meloni. Come tutti gli appassionati, il regista romagnolo - autore di capolavori come «La casa dalle finestre che ridono», «Impiegati», «Regalo di Natale», «Il cuore altrove», oggi in sala con «Dante» - continua a sperare che un giorno qualcuno - meglio se il nuovo ministro Gennaro Sangiuliano - avrà voglia di affrontare il problema con una legge cinema.

Magari come quella francese, da tutti considerata la migliore al mondo. «Quella legge ha consentito alla Francia (a differenza nostra) di non essere travolta dalla crisi delle sale. Il nostro ex ministro per i beni culturali, però, non l'ha mai presa in considerazione. Ci saranno pure delle ragioni. E non vado oltre». 

Che tipo di pubblico va al cinema oggi?

«Mi pare siano ricomparsi , anche con qualche stupore, spettatori che chiedono di più, che vogliono un prodotto più ambizioso. I blockbuster americani continueranno a esserci e a dominare i weekend e i giorni di festa ma, se si analizzano le presenze durante la settimana, sembra sia tornato al cinema una tipologia di pubblico che ci si era rassegnati a considerare perduto». 

Qual è lo stato di salute del cinema italiano?

«Mi sembra tornato ambizioso, con produttori che ora pretendono anche bei film. Viceversa, c'è una specie di tracollo verticale di quel cinema "carino", le commediole su cui si è puntato in modo eccessivo negli ultimi due decenni, arrivando a raschiare il fondo del barile». 

Com' è possibile che la gloriosa commedia all'italiana si sia ridotta così?

«In quegli anni avevamo un'Italia straordinaria da raccontare, con peculiarità tutte sue.

Non è un caso che oggi il cinema più qualitativo si faccia al Sud, dove il Paese ha mantenuto un'identità più precisa, più forte. E poi avevamo gli scrittori, che di quella realtà erano osservatori acuti. Senza buoni sceneggiatori non esiste buon cinema». 

Il direttore di Venezia Alberto Barbera ha definito «inguardabile» buona parte del cinema italiano. Lei che ne pensa?

«Non è stato generoso. Voglio però astenermi dal giudicare chi di professione giudica gli altri. In questa società ci si è inventati delle professioni che hanno un alto tasso di parassitismo. Quelli che selezionano i film per i festival, le commissioni per gli Oscar, sono tutti insiemi di quella che lo scrittore Fulvio Abbate definisce con sagacia l'"amichetteria"». 

Negli ultimi anni il numero di film italiani prodotti si è impennato. È un bene o un male?

«È un male. È evidente che questo è il risultato del tax credit, che ha incoraggiato enormemente le produzioni. Il passaggio in sala ormai è solo un giustificativo per ottenere il credito, ma già in partenza i veri destinatari dei film sono le piattaforme. E questo non è bello». 

Che ruolo riveste per un autore il budget di un film?

«La mia creatività è grande quanto il denaro che ho a disposizione. Se non è sufficiente, non posso scrivere una scena con duecentomila cavalieri, persino il mio pensiero si rifiuta. La scriverò con cinquanta. In un romanzo posso metterne anche due milioni, mica l'editore protesta perché la pagina costa troppo. Al cinema è diverso». 

Il suo nuovo film sta andando bene, ha superato i duecentomila spettatori.

«Così come altri, quello è un caso che dovrebbe incoraggiarci. Fino a qualche tempo fa sarebbe stato impensabile ottenere un risultato simile con un film che s' intitola Dante, cioè il personaggio più punitivo di tutta la nostra vita scolastica. Invece le risposte che ricevo sono emozionate, spesso commosse. Lo considero una cartina di tornasole che fa capire come questo Paese sia molto meglio di come ce lo descrivono». 

Quanto sono importanti per un regista i dati di affluenza degli spettatori ai suoi film?

«Alle dieci e mezza di sera, quando accendi il computer per controllarli, vorresti aver fatto il film più brutto del mondo. Te ne freghi delle recensioni, degli apprezzamenti, del senso di quello che avevi voluto dire. Non t' importa più niente di niente. Vuoi solo leggere grandi cifre e vedere il tuo film in classifica. Quella è l'ora dei vigliacchi».

·        Il Consenso.

Rispetto e obbedienza. La dinamica sociale e civile del consenso. Manon Garcia su L'Inkiesta il 19 Luglio 2022.

L’individuo nato libero accetta sempre di limitare il proprio ambito d’azione: ciascuno di noi detiene i propri diritti, e responsabilità, individualmente. “Di cosa parliamo quando parliamo di consenso” di Manon Garcia è un saggio che fa riflettere sul significato profondo dietro certe dinamiche di potere e volontà.

La prima questione, quando si cerca di comprendere e valutare i dibattiti contemporanei sul consenso nelle relazioni intime, è sapere che cosa sia il consenso in generale allo scopo di identificarne e districarne le ambiguità e la polisemia. Prima di analizzarne la funzione e il potere normativo bisogna capire di che cosa stiamo parlando. Il consenso è un problema giuridico? È un problema morale? Si parla della stessa cosa quando si parla di consenso sessuale o di consenso tout court? Le tre sfere del consenso Quando si parla di consenso, si fa riferimento all’azione di acconsentire oppure al risultato di tale azione. Acconsentire è un’azione che consiste nel dare il proprio accordo.

Per esempio, acconsento ad acquistare qualcosa da qualcuno quando stipulo un contratto di vendita con quella persona. Ed è anche l’accordo che risulta da tale azione, per esempio quando gli sposi, durante la cerimonia, dichiarano il reciproco assenso a contrarre matrimonio. Questi esempi evidenziano il carattere sociale del consenso: acconsentire significa dare a qualcuno il proprio accordo su qualcosa. Non si acconsente da soli, l’azione di acconsentire implica sempre un altro.

Più in particolare, è generalmente ammesso che acconsentire consiste nel concedere a qualcuno un diritto che questi altrimenti non avrebbe: quando acconsento a prestare l’auto a un’amica le concedo il diritto di prendere la mia auto mentre se lei la prendesse senza il mio consenso contravverrebbe al mio diritto di proprietà.

Acconsentire è quindi dare il proprio assenso a qualcuno su qualcosa in modo tale da concedere, con ciò, un diritto su di sé o sui propri beni. Le origini giuridiche Come mostra questa definizione, il consenso appartiene innanzitutto al lessico giuridico. Nel diritto si parla di consenso in riferimento all’accordo con il quale qualcuno stipula un contratto. Il contratto è definito dall’articolo 1101 del Codice civile francese come «un accordo di volontà fra due o più parti per costituire, modificare, trasmettere o estinguere obbligazioni».

Quindi è il risultato di un accordo di più volontà che dà luogo a obbligazioni reciproche (il che lo differenzia dall’atto giuridico unilaterale, di cui il testamento è un esempio). L’obbligazione va qui intesa in senso giuridico, ovvero «il vincolo giuridico per il quale uno o più soggetti, il o i debitori, sono tenuti a una prestazione (fare o non fare) verso uno o più altri – il o i creditori – in virtù o di un contratto (obbligazione contrattuale) o di un quasi-contratto (obbligazione quasicontrattuale) o di un delitto o quasi-delitto (obbligazione delittuale o quasi delittuale), o della legge (obbligazione reale)». Il consenso è una delle nozioni fondamentali del diritto privato poiché è una condizione necessaria della validità di un contratto: un contratto non può essere legalmente valido se le parti non danno il proprio assenso.

 L’articolo 1128 del Codice civile francese (ex articolo 1108) dispone quindi che: «Sono necessari alla validità di un contratto: 1° il consenso delle parti; 2° la loro capacità contrattuale; 3° un contenuto lecito e certo.» Il consenso delle parti è a tal punto centrale per il perfezionamento di un contratto che il diritto francese contempla contratti che esistono soltanto in virtù dello scambio dell’assenso e non richiedono di essere formalizzati legalmente. È quello che la legge chiama un contratto consensuale e che è definito nell’articolo 1109 del Codice civile francese in questi termini: «Il contratto è consensuale quando si perfeziona con il mero consenso delle parti qualunque sia il modo di espressione».

La nozione di consenso sta quindi alla base del diritto privato e della capacità degli individui di stipulare contratti gli uni con gli altri. I tre ambiti del consenso. Storicamente, quella di consenso è innanzitutto una nozione giuridica, ma oggi appare cruciale per tre diversi ambiti: giuridico, politico, e dei rapporti interpersonali intimi, con particolare riferimento al matrimonio e alla sessualità.

Come abbiamo appena visto, in ambito giuridico questa nozione è usata principalmente nel diritto contrattuale. Ed è di particolare importanza osservare che non è usata nel diritto penale: il diritto penale francese non riconosce la locuzione latina Volenti non fit iniuria, cioè «A chi acconsente non si fa offesa».

Mentre nel diritto civile questa massima è cruciale per valutare la responsabilità, in quello penale prevale piuttosto la massima contraria, Voluntas non excusat iniuriam, «La volontà non giustifica l’offesa». Altrimenti detto, il consenso della vittima non annulla il reato, tranne se tale reato richiede, per definizione, inganno o violenza (per esempio, non può esserci rapimento con il consenso della vittima). In ambito politico il lessico del consenso è utilizzato nel quadro di quello che si suole chiamare il problema dell’obbligo politico. Uno dei problemi cruciali di qualunque filosofia politica è infatti sapere come e perché i soggetti obbediscano alle leggi e ai governanti.

A partire dal momento in cui il potere statale non è più concepito come di origine divina e si ritiene che i soggetti siano per natura liberi e uguali, solo l’obbligo permette di comprendere il funzionamento della vita politica, se con questo termine si intende «ciò a cui una volontà si riconosce liberamente impegnata verso sé stessa o verso altri». Ma se gli esseri umani sono liberi e uguali, l’obbedienza alla legge consiste, almeno in modo schematico, nel fatto che un individuo nato libero accetta di limitare il proprio ambito d’azione a ciò che è autorizzato dalla legge.

Come mostra la politologa americana Hannah Pitkin, quello dell’obbligo politico contiene in realtà più di un problema. Pitkin ne distingue quattro:

1. I limiti dell’obbligo («Quando si è obbligati a obbedire, e quando no?»)

2. Il luogo della sovranità («A chi si è obbligati a obbedire?»)

3. La differenza fra autorità legittima e mera coercizione («C’è veramente una differenza? Si è mai veramente obbligati?»)

4. La giustificazione dell’obbligo («Perché si è obbligati a obbedire, anche quando l’autorità è legittima?»)

“Di cosa parliamo quando parliamo di consenso”, di Manon Garcia, Einaudi, 264 pagine, 17 euro

·        I Negazionismi.

Negazionismi. Prima la Shoah, poi il Covid, ora la guerra: come pensa e agisce chi denigra o rifiuta la realtà. Luca Mastrantonio su Il Corriere della Sera il 14 Settembre 2022. 

Nel film «L’ombra sulla verità», un professore di storia nega le camere a gas e minaccia la famiglia di origine ebraica di cui è inquilino. Oltre la fiction, viaggio tra chi non afferma verità alternative, ma nega fatti storici che gli altri riconoscono come veri 

Premessa: in questo articolo l’aggettivo “negazionista” non è usato come insulto indiscriminato, descrive chi mantiene una posizione riguardo qualcosa in una forma di pensiero negativo, perché non afferma una verità alternativa, ma nega un fatto storico che altri riconoscono come vero. È facile riconoscere il negazionista perché il suo linguaggio è ricco di aggettivi scettici riguardo le verità storiche presentate come “cosiddette”, messe tra virgolette, derise come “sedicenti”. Se suona come un insulto è perché il termine “negazionismo” originariamente si riferisce a quanti dicono che la Shoah sarebbe una grande bugia. Alcuni lo fanno senza crederci, per una forma di rivincita di cieco sadismo: hanno subìto un torto nella vita e godono nel negare quelli subìti da altri. Altri contrabbandano antisemitismo.

La componente antisemita e la verità di Le Guay

Non tutti i negazionisti sono antisemiti, ma è raro trovare un antisemita che non sia un po’ negazionista. Negare l’Olocausto maschera bene il desiderio di negare agli ebrei il diritto di esistere. Ne è un esempio il protagonista del film L’ombra sulla verità di Philippe Le Guay, un professore di Storia che nega l’esistenza delle “sedicenti” camere a gas e preferisce parlare dello sterminio degli indiani d’America: «Nessuno vuole che se ne parli, come mai? Molte sono le verità che non vi dicono». Il che porta al para-sillogismo per cui tutto quello che non viene detto è vero. Cacciato da scuola, ridotto a un paria, si rifugia in una cantina comprata da un uomo dal cognome ebreo con cui instaura una guerra psicologica che lo porta a occupare il posto della vittima.

Quelli che tendono a fare le vittime

Ecco perché usare il termine negazionista come insulto generico è rischioso. Il negazionista, quando non è in una posizione di forza, armata o violenta, tende a fare la vittima, così sposta il piano del discorso: dalla verità che lui attacca alla libertà d’opinione messa sotto attacco. Libertà d’opinione sua, ma potenzialmente di chiunque altro. Di fatto la sequestra, con il suo atteggiamento passivo-aggressivo. E vale anche per i negazionismi derivati, più recenti, che lamentano la mancanza di libertà. C’è chi nega che l’uomo è andato sulla Luna, che gli attentati alle Torri gemelle sono opera di terroristi islamici, che la Terra è rotonda, che l’uomo sta accelerando il cambiamento climatico, che il Covid è una pandemia mortale, che i russi uccidono civili in Ucraina... Per alcuni, mettere questi negazionisti sullo stesso piano di chi nega la Shoah è sminuirne la memoria sacra. Di certo è un insulto al quadrato quello che hanno fatto alcuni No Vax che si sono messi delle simil-divise dei prigionieri nei lager. C’è d’altronde chi riesce a negare la Shoah e poi a paragonarsi alle sue vittime.

«Siamo tutti negazionisti»

Ovviamente, su un piano strettamente logico, tutti siamo potenzialmente negazionisti di qualcosa di cui altri sono certi. Per esempio: io agli occhi di un terrapiattista sono un negazionista, perché nego che la Terra sia piatta. Infatti, credo sia tonda. Di più, ne sono certo, me l’hanno insegnato a scuola. E posso dimostrare che è vero? Ci sono foto satellitari, documenti di chi ha circumnavigato il globo... Però - questo è il punto - non ci avevo mai pensato prima di scoprire che ci sono i terrapiattisti. Ecco. È il vantaggio dialettico che il negazionista si prende senza negoziare. Al di là di certi giochi di prestigio numerici, non sostiene una tesi portando delle prove sue, ma attacca la controparte pretendendo che lei ne produca di assolute, che comunque si riserva il diritto di rigettare. Un meccanismo simile a quello delle pseudoscienze analizzate da Karl Popper che rovesciano l’onere della prova delle loro teorie agli scienziati.

Quelli che «l’Uomo non è mai andato sulla Luna»

Prendiamo un caso più leggero, l’allunaggio. Di fronte alle immagini, alle interviste degli astronauti, il negazionista direbbe: «È tutto finto, una messinscena. Voglio prove oggettive». E se anche gli portassero il tratto di Luna calpestata da Neil Armstrong, ribatterebbe: “Chi mi garantisce che è vero suolo lunare?”. Una soluzione, costosa, sarebbe mandarlo sulla Luna. Ma lui direbbe che l’hanno drogato e messo in un simulatore... Da almeno vent’anni il negazionismo è in crescita. Quello antisemita è radicato in alcune culture e aree del mondo, e aspetta la morte dell’ultimo sopravvissuto ai lager.

Spettacolarizzazione attraverso i social

Negazionismi derivati o più recenti hanno l’età dei media digitali dove proliferano, anche perché i social hanno introiettato il meccanismo binario da talk show televisivo che spettacolarizza la contrapposizione pro/contro. Si è creata una rete globale da baratto low cost, che piace anche a certi Stati: «Tu neghi lo sterminio degli Armeni, io negherò quello degli Uiguri, tu nega il diritto a esistere dell’Ucraina, io lo farò con Taiwan...». E in Italia? Negli ultimi due anni abbiamo visto fior di intellettuali negare in toto o in parte la mortalità dell’epidemia di Covid o i piani criminali dei russi in Ucraina. C’è il pensatore che nelle prime settimane ha scritto con la prolissa avventatezza di Facebook un libro contro la dittatura sanitaria, e l’opinionista che grida alla censura perché i giornali non pubblicano il testo in cui sostiene che i morti civili ucraini uccisi dai russi non sono morti, non sono civili, non sono ucraini perché l’Ucraina non esiste. Che lo facciano per retaggio ideologico, provocazione o tornaconto personale non importa.

Negazionismo = ignoranza. Sinonimo da smentire

Se li chiamate negazionisti si indignano, vi querelano o vi sbattono in faccia la loro cultura. Il che, almeno, smentisce il luogo comune per cui il negazionismo è sinonimo di ignoranza: no, ma la sfrutta, come sfrutta la rabbia sociale, il risentimento diffuso, il senso di ingiustizia ed emarginazione di chi cede alla tentazione di dire un grande no al mondo. Per dispetto, sfiducia, nichilismo, ribellione. Viene da pensare alla scena di Matrix (1999) in cui Morpheus offre al protagonista Neo la scelta tra la pillola che annebbia il cervello e quella che apre gli occhi della mente. Pillola blu: “Fine della storia, domani ti sveglierai in camera tua e crederai a quello che vorrai”. Pillola rossa: “Resti nel paese delle meraviglie e vedrai quanto è profonda la tana del Bianconiglio”. Poi aggiunge, con falsa modestia: “Ti sto solo offrendo la verità, niente di più”.

I 4 milioni di risarcimento imposti ad Alex Jones

Niente di più? Alex Jones, un conduttore radiofonico americano di estrema destra, è stato da poco condannato a pagare 4 milioni di dollari per la campagna diffamatoria contro le vittime della strage del 2012 alla scuola Sandy Hook, nel Connecticut, dove un ventenne uccise venti bambini e sei insegnanti. Ripeteva che quelle persone erano attori al soldo del governo, una messinscena per criminalizzare il diritto alle armi. Poi però alcuni fanatici hanno sparato contro le case di alcuni parenti delle vittime, minacciandoli di morte. Un personaggio influente che nega un evento in cui sono morte delle persone non sta solo negando quel fatto, ma pure il dolore che le morti hanno causato. Nega l’umanità di chi prova quel dolore, la paura che succeda ancora, nega la sua umanità e dunque il suo diritto a esistere. Non tutti i negazionismi sono uguali. Alcuni sono più disumani di altri.

·        I Ribelli.

Dite ai Maneskin di leggere questo libro. Emanuele Beluffi su Culturaidentita.it l'8 Luglio 2022

Dite a Damiano dei Måneskin di leggere il libro Profeti inascoltati del Novecento: imparerebbe dagli artisti e dagli scrittori vissuti nel “secolo breve” cosa significhi essere ribelli senza fare rumore. Gli han detto “c’è il virus non fate il concerto a Roma e se lo volete fare dite ai vostri fans di indossare mascherine e di munirsi di metro per le distanze”.

Loro, i “profeti inascoltati del Novecento”, se ne sarebbero fregati e il reading (altri tempi eh) l’avrebbero fatto senza chiedere agli astanti di allacciare le cinture di sicurezza (né avrebbero avuto bisogno di voler la pace con la guerra e di sostenere la cause progressiste chic, ça va sans dire).

Perché esser liberi ed eretici è difficile come convincere la Ursula Dei Burocrati di Bruxelles a guidare una macchina diesel.

Da Jünger a Conrad, da Pound a Borges, da Ennio Flaiano a Cristina Campo, da Bernanos ad Albert Camus e poi Giovannino Guareschi, Oriana Fallaci, Prezzolini e Longanesi, De Chirico e Pirandello (lo scrittore, non il pittore) e poi ancora Louis-Ferdinand Céline, Hannah Arendt e Filippo Tommaso Marinetti, Mishima e il “maledetto” Drieu La Rochelle nell’Olimpo di quei filosofi, saggisti, scrittori e artisti che hanno contrassegnato la storia del Novecento andando contromano noi ritroviamo la forza che serve “a guardare in faccia la realtà con cui siamo e ancor più saremo costretti a fare i conti” (dall’introduzione al libro di Miriam Pastorino, Dionisio di Francescantonio e Andrea Lombardi). 

Profeti inascoltati del Novecento era la mostra tenutasi a Genova dal dicembre 2021 al gennaio 2022 presso i Saloni delle Feste di Palazzo Imperiale, che comprendeva 42 ritratti di Dionisio di Francescantonio e due ognuno degli artisti Sergio Massone, Vittorio Morandi e Lenka Vassallo, e il relativo catalogo comprendeva la prefazione del critico d’arte Vittorio Sgarbi.

Prefazione che oggi ritroviamo nel libro edito da ITALIA Storica – Collana OFF TOPIC (Genova, giugno 2022, 230 pagine), un progetto editoriale di Andrea Lombardi che è stato recentissimamente presentato a Senigallia in occasione della quinta edizione del Festival di CulturaIdentità (e che il mensile di giugno in edicola riporta in copertina con una selezione di Profeti inascoltati del Novecento).

I ritratti disegnati da Dionisio di Francescantonio sono commentati dagli scritti (fra gli altri) di Davide Brullo, Pietrangelo Buttafuoco, Alain de Benoist, Gianfranco de Turris, Fabrizio Fratus, Alessandro Gnocchi, Luigi Iannone, Andrea Lombardi, Gennaro Malgieri, Miriam Pastorino, Guido Pautasso, Marco Respinti, Emanuele Ricucci, Andrea Scarabelli, Adriano Scianca, Vittorio Sgarbi, Luca Siniscalco, Stenio Solinas, Armando Torno, insomma i pezzi da novanta della cultura nazionale e internazionale ma guarda caso poco letti pure loro (forse tutti tranne il Vittorione nazionale).

Come scrivono gli autori nell’introduzione, le vite di questi profeti inascoltati sono “vite straordinarie, a volte baciate dal successo, ma spesso segnate da ostracismo e sofferenza da parte di un sistema che procedeva inesorabilmente verso la negazione dei riferimenti elevati del passato e l’affermazione di un nichilismo diffuso”.

E così, con queste voci clamanti nel deserto, in questo “deserto che avanza” (Nietzsche, altro snobbato in vita) alla fine è dolce naufragar. In attesa di una riscossa, chissà.

·        Geni incompresi.

Barbara Costa per Dagospia il 14 agosto 2022.

Gli artisti sono pazzi? Il genio è tale se è eccentrico? Perché per strillare al capolavoro spesso devono passare decenni dalla morte di chi l’ha firmato, e per la vita n’è stato sfottuto? E scansato, se non internato… ma a volte non va così, è la sfiga a metterci il suo, e ti fa morire d’infarto a 30 anni, sotto la neve, in una strada isolata: ti ritrovano dopo giorni lì accasciato e congelato!

O forse il problema è che in passato non si era interconnessi: oggi un’app Andrzej Wróblewski l’avrebbe salvato e Paula Modersohn-Becker i medici odierni se ne sarebbero accorti, che era debole per una trombosi, e non per acciacchi post parto, anche se… un marito come il suo, che non ti fa godere, lo stesso ti può capitare… 

Andrzej e Paula sono tra i protagonisti di "Outsid3rs", terza raccolta di fenomeni d’arte di Alfredo Accatino, e se questi nomi mai hai sentito nominare, la ragione ce l’hai tu: Outsid3rs è un serie di biografie, brevi e ficcanti, di prodigi che in vita tali sono stati ma che nessuno si è filati.

Te l’ho detto: nasci genio, crei convinto di dare a grandezza eterna ciò che i tuoi contemporanei stimano croste, e per le quali ti deridono, peggio non ti capiscono, peggio ancora ti chiudono in manicomio, poi muori, dimenticato, in una tomba, gettato in una fossa, e dopo anni e anni… il tuo nome e le tue opere stanno a Louvre!!! Fanno la fila per vederti, affrontano viaggi di chilometri, e quanto hai ideato, se lo litigano alle aste a milioni. Superi Warhol! Gridano al nuovo Giotto! Sei venerato e riverito, anche se non lo sai, perché sei polvere.

Alfredo Accatino non sbaglia un colpo, pardon, un ritratto: i nomi scelti a comporre il suo mausoleo degli in vita scornati e svisati, per poi essere fuori tempo massimo riesumati a portenti, è una iride di storie non comuni. Applausi a Accatino che non scrive da professorone barboso: lui la fa corta, e briosa, e con lui sorridi ai destini i più disgraziati.

Come quello di Tancredi Parmeggiani, belloccio un po’ svalvolato, che per di arte campare si fa toy boy di Peggy Guggenheim, e però si sc*pa al contempo la di lei figlia Pegeen, altro ingegno ma depressa rampolla milionaria morta di overdose, mentre Tancredi alla fine si butta nel Tevere, e tanti saluti.

Emily Kame Kngwarreye è una aborigena australiana che ha iniziato a dipingere a 70 anni. Perché così tardi? “Sono pigra” (in realtà ha trascorso la vita a lottare per la sua gente contro i bianchi) e però almeno lei fa in tempo a gioire di un po’ di luce a 85. Sanyu manco quella: tutti a rompergli che, nei suoi nudi, le gambe le fa troppo grosse, Sanyu che vive da pascià sui soldi del fratello ricco fino a che il fratello crepa, e deve cercarsi un lavoro "vero" per non crepare di fame lui. E tu, quando mangi il pollo, che ne fai degli ossi? Li butti?

Francesco Toris in manicomio li rubava in cucina, li levigava, intrecciandoli in meraviglie per cui ora ci si prostra. L’inuit Ashevak modellava, no, “accarezzava” le ossa di balena: la sua parabola artistica dura solo 3 anni, morto con la moglie ché la casa gli è crollata in testa in un incendio (e poco prima un loro figlio era stato sbranato dai cani). E Richard Gerstl, suicida 25enne dal cuore infranto, diviene il Van Gogh austriaco quando suo fratello si stufa di pagare l’affitto a quel deposito con dentro i suoi quadri.

Ma per la gloria post mortem l’ebreo Gerstl ha dovuto pazientare altri lunghi 30 anni, ovvero che Hitler si togliesse di torno… Se già a fine '800 la danzatrice Lo?e Fuller si dichiarava lesbica e con la sua giovane compagna radiosa lo sfoggiava, Tom of Finland dei corpi tedeschi era pazzo, e quanti se n’è ingroppati, durante la Seconda guerra mondiale! Judith Scott è nata con la sindrome di Down, e sorda: reclusa, abbandonata, neppure i genitori l’hanno voluta… ma lei, con un gomitolo, v’ha creato roba per cui erge tra i numi della Fiber Art. 

E John Dunkey? Lui ha avuto più avversità di Giobbe: orfano, e orbo, e poverissimo, gli passa sopra un uragano, una rivoluzione, il suo estro era ignoto ai più, poi muore e si perde l’indipendenza della sua Giamaica. Però la moglie gli voleva bene. 

La pittrice Helene Schjerfbeck si era raccomandata: “Possano le persone esser gentili e dimenticarmi”. E invece il 10 luglio, il suo compleanno, è stato nominato Giornata delle Belle Arti nella sua Finlandia. Quando lo scultore giapponese Kengiro Azuma scopre che l’imperatore Hirohito non è un dio ma un essere umano come gli altri, per la delusione per un anno si barrica in casa, e non parla a nessuno. Marisol è stata un nome della Pop Art, e non solo. Il fratello le dava dell’idiota perché per tutta l’adolescenza non ha proferito parola. Il motivo? “Non avevo niente da dire”.

E sì che siamo circondati, da gente, mediocre, che blatera su tutto! E chi lo sapeva, che i meme se li erano già inventati i fratelli Stenberg, e un secolo fa? Ma tutta 'sta postuma celebrità… farà piacere ai geni morti? Chissà. A 45 anni il fotografo sadomaso e trav, incestuoso e amorale Pierre Molinier si è sparato in bocca. Sulla porta di casa ha posto questo avviso: “Io mi ammazzo. La chiave è dal portiere”. E ha lasciato pure questo bel biglietto: “Il sottoscritto manda a fare in c*lo tutti gli str*nzi che gli hanno rotto i c*glioni in questa caz*o di vita”. Sarà vero che si è sc*pato la sorella, morta, eiaculandole su tutto il corpo, facial compreso?

·        Il Podcast.

Che cosa è il podcast e a cosa serve. Andrea Colamedici, Maura Gancitano su Il Riformista il 28 Aprile 2022. 

Il New Oxford American Dictionary ha scelto il termine “podcast” come parola dell’anno. Nulla di strano, si dirà: il podcasting ha avuto in questi ultimi anni una evidente esplosione di notorietà, che ne ha fatto un tassello essenziale della fruizione della cultura, dell’informazione e dell’intrattenimento. A questa notizia manca però un dettaglio importante, ossia l’anno in cui questo termine è stato selezionato: era il 2005. Erin McKean, responsabile del noto dizionario di inglese americano, raccontò al tempo che gli sconfitti illustri su cui “podcast” si impose furono, tra gli altri, i termini “sudoku” e “raggaeton”: il che ci dà un’idea di quanto e soprattutto quale tempo sia passato da allora: una vera e propria epoca tecnologica.

Eppure soltanto oggi il podcasting sta mostrando, in Italia e nel mondo, le proprie potenzialità, e molte altre ancora promette di rivelarne. Non si tratta, quindi, di una moda passeggera portatrice soltanto di una qualche fascinazione verso il futuro. Al contrario, è indice di un vero e proprio esercizio di sottrazione del superfluo, ed è un tentativo più o meno cosciente di arginare la screen fatigue, la nostra dipendenza dagli schermi e dalle tecnologie che si fa ogni giorno più acuta. Non è un segreto, infatti, che sia in atto un vero e proprio trasloco della nostra attenzione nel digitale: secondo il Digital 2022 Global Overview Report passiamo in media 7 ore al giorno davanti agli schermi (dello smartphone o del pc) connessi a internet, ossia circa il 40% del nostro tempo di veglia. Il nostro sguardo è perennemente mediato da uno schermo, e le cose non sembrano voler cambiare: la parola dell’anno nel 2022 sarà forse “metaverso”, ossia un termine ombrello dentro cui già trova spazio quello che contribuirà ad accelerare la nostra corsa verso l’ignoto, purché sia lontano dal mondo “fuori”.

Di segno opposto è invece l’interesse diffuso oggi intorno al podcasting, che è il simbolo perfetto di un altro modo di abitare il mondo e di gestire l’ammasso spropositato di informazioni che ci raggiungono ogni giorno. Non è un plus, un’aggiunta, un pezzo di realtà aumentata, ma è piuttosto un minus, una rimozione sapiente e volontaria del superfluo, in primis delle immagini da cui veniamo costantemente e ovunque bombardati. È possibile comprendere meglio il fenomeno del podcasting mettendo in luce per esempio il fatto che, a distanza di 30 anni, il vinile è tornato a sorpassare il cd tra i segmenti di vendita (fonte Deloitte per Fimi nel primo trimestre 2021). Il vinile è oggettivamente più scomodo delle tecnologie che lo hanno rimpiazzato: è ingombrante, ha uno spazio di archiviazione limitato e richiede molta cura. Inoltre, se si vuole ascoltare un album intero, bisogna passare manualmente dal lato A al lato B, interrompendo qualunque altra attività.

Eppure l’esperienza estetica che è capace di produrre con i suoi solchi è esattamente quello di cui oggi in molti lamentano l’assenza nelle proprie vite, perché le superfici levigate non riescono davvero a offrire qualcosa di simile. E non si tratta di accampare discorsi reazionari, contrapponendo i buoni vecchi LP ai cattivi nuovi streaming: si tratta piuttosto di riconoscere che strumenti diversi rispondono a esigenze diverse e offrono esperienze diverse. Allo stesso modo, il podcast è uno mezzo che richiede molta attenzione ma offre meno sollecitazioni, e come il vinile spinge alla lentezza e alla ritualità. È proprio questa rimozione delle distrazioni e delle semplificazioni eccessive a renderne la fruizione più piacevole e, soprattutto, maggiormente capace di offrire senso; è in questo solco che si posiziona il podcasting, il cui consumo è cresciuto parecchio in Italia, registrando nel 2021 un totale di 14,5 milioni di ascoltatori rispetto al 2020 (fonte NielsenIQ per Audible).

Per tutte queste ragioni abbiamo deciso di creare il Pod, gli Italian Podcast Awards, il premio per i migliori podcast italiani che verranno consegnati la sera del 30 aprile al Teatro Carcano di Milano. Durante la premiazione avremo anche gli interventi di Roberto Saviano, Cecilia Strada e Aboubakar Soumahoro, a ricordare proprio la portata sociale degli strumenti che scegliamo di usare. Il pomeriggio sarà interamente dedicato al dialogo intorno ai vari mondi dell’universo podcast – dal true crime alle news, dal documentario al comedy – insieme ai più interessanti podcaster italiani (da Francesco Costa a Matteo Caccia, da Chiara Tagliaferri ai ragazzi di Cachemire Podcast). Per promuovere la cultura del podcasting, liberando lo sguardo e aprendo la mente. 

·        Il Plagio.

Come diceva De Crescenzo "se copi da uno è plagio, da molti è ricerca..." 

Mauro Masi, delegato italiano alla Proprietà Intellettuale, per “Milano Finanza” il 26 febbraio 2022.

Come tutti gli anni anche questa volta dopo i trionfi al Festival di Sanremo, spuntano qui e là accuse di plagio nei confronti dei cantanti in gara (la più rilevante, quella a Irama verso un brano della star internazionale Bruno Mars) riaprendo l'annoso dibattito sul plagio e sulla difficile distinzione della semplice citazione.

Un tema tecnicamente molto interessante, che pur afferendo a tutti i settori della cultura, trova terreno fertile nella musica. «Anche Mozart copiava» è il titolo del bel libro dedicato al plagio musicale dal giornalista televisivo Michele Bovi, nel quale si segnala che da sempre (e a tutti i livelli: nella musica «colta», come nella musica «popolare») esiste il tema di dove si ferma la citazione da altre opere e dove inizia il plagio.

Come detto, è una questione che esplode ciclicamente; se ne è parlato a lungo dopo che la superstar americana Kate Perry è stata giudicata colpevole di plagio da un tribunale di Los Angeles per aver «copiato» il suo famoso hit «Dark horse» da un brano («Joyful Noise» del 2009) del semi-sconosciuto rapper Marcus «Flame» Gray.

Il dibattito in aula è stato molto interessante perché la difesa della Perry ha, in un primo tempo, sostenuto la sua totale buona fede ed estraneità poi ha parlato semmai di una possibile e involontaria «citazione» (soprattutto con riferimento alla base ritmica molto comune in diversi brani pop) che mai può qualificare un plagio.

Il Tribunale le ha dato torto ma ha anche sottolineato l'incertezza di quando si può parlare di citazione (ammessa) e quando è plagio (vietato perché «appropriazione indebita» del frutto dell'impegno creativo altrui). 

Effettivamente la linea di confine tra l'uno e l'altro può essere molto sottile, anzi c'è chi sostiene che tutta la storia della musica sia stata più o meno costruita su «plagi» (o forse su citazioni) di autori e opere esistenti.

Un dibattito che va avanti da anni e ha una forte rilevanza anche economica: limitandoci al nostro paese e per stare ai tempi più recenti voglio ricordare che è stato l'oggetto di due famosi processi iniziati nella seconda metà degli anni '90 e protrattisi per molto tempo: quello tra il cantante Albano Carrisi e Michael Jackson e quello tra Sergio Endrigo e il compositore Luis Bacalov. 

Il primo processo, intentato da Carrisi per un presunto plagio dell'artista americano, ebbe due sentenze la prima a favore di Carrisi, la seconda contro e si chiuse nel 2001 con una transazione tra le parti. Interessante notare che i magistrati di Roma incaricarono il maestro Luciano Chailly quale Ctu (commissario tecnico d'ufficio) che dichiarò che i due brani interessati erano sostanzialmente identici ma ciononostante egli non riteneva di poter affermare che potesse costituire un plagio.

Qualcosa di simile sostenne Ennio Morricone, perito per conto del Tribunale di Roma nella causa con cui Endrigo accusava Bacalov di aver copiato un suo brano nella colonna sonora del film «Il Postino» vincitore dell'Oscar di categoria nel 1996. A seguito di queste perizie, Endrigo perse il primo grado; vinse tuttavia l'appello e solo nel 2013 (prima della pronuncia della Cassazione) Bacalov accettò di riconoscere i diritti del cantautore istriano depositando in Siae una nuova iscrizione della colonna sonora del Postino in cui il cantante ne risultava come co-autore; Sergio Endrigo era morto otto anni prima. 

Dua Lipa e Ed Sheeran nei guai, sono accusati di violazione del diritto d'autore. La Repubblica il 10 Marzo 2022.

La cantante avrebbe in parte copiato uno dei suoi più grandi successi, 'Levitating', mentre Sheeran torna sotto ai riflettori per alcuni conteziosi legati a 'Shape of you', accusata di plagio.

Un gruppo reggae e due compositori hanno messo, nel giro di una sola settimana, sotto accusa Dua Lipa per la sua Levitating, canzone che è rimasta per ben 68 settimane nella classifica Billboard Hot 100. Il brano, tra i PIù grandi successi dell'attuale panorama musicale pop, potrebbe infatti essere frutto di un plagio.

La prima causa intentata nei confronti dell'artista britannica di etnia kosovaro-albanese viene dalla band Artik Sound System, secondo cui il brano copia una loro canzone del 2017, Live your life. della seconda azione legale, invece, sono protagonisti i compositori L. Russell Brown e Sandy Linzer, che la accusano di aver copiato due loro canzoni, Wiggle and giggle all night e Don Diablo, rispettivamente del 1979 e 1980, per creare Levitating.

Anche Ed Sheeran, che già da diversi anni è stato accusato di plagio numerose volte, finisce di nuovo sotto accusa per aver presumibilmente attinto da un altro brano per la sua hit, Shape of you (2017), senza aver dato il credito necessario agli autori. In particolare Shape of you avrebbe copiato alcune parti di Oh why (2015), scritta da Sami Chokri e Ross O'Donoghue ed eseguita da Chokri sotto lo pseudonimo Sami Switch. Sheeran ha finora negato, affermando di aver sempre dato il giusto credito a chiunque abbia contribuito alle sue canzoni. "Faccio riferimento ad altre opere quando scrivo - ha sottolineato il musicista - così come fanno molti cantautori. In tal caso informo la mia squadra in modo da compiere i passi necessari per ottenere l'autorizzazione".

Per dimostrare la propria innocenza, durante il procedimento in corso all'Alta Corte di Londra, l'artista inglese ha cantato brevi strofe di Feeling Good di Nina Simone e di No Diggity dei Blackstreet per spiegare come la melodia sia comune a diversi brani nella musica pop: "Se li metti tutti nella stessa tonalità, suoneranno allo stesso modo", ha spiegato Sheeran, il quale nega di aver mai ascoltato la canzone di Chokri e ha rifiutato la suggestione che qualche amico potesse avergliela suonata prima che scrivesse Shape of You nell'ottobre 2016. Il brano è risultato il singolo più venduto del 2017 e rimane la canzone più ascoltata di tutti i tempi su Spotify. I diritti d'autore di Sheeran, stimati in circa 20 milioni di sterline, sono stati congelati da quando Chokri e il suo co-autore Ross O'Donoghue hanno rivendicato la violazione del copyright nel 2018.

Gli avvocati dei due autori hanno fatto ascoltare alla corte degli estratti dalle sessioni di registrazione di Shape of You. In uno di questi si poteva sentire Sheeran dire che aveva bisogno di cambiare la melodia "oh I" perché era "un po' vicina all'osso". Sheeran ha spiegato: "Pensavamo che fosse un po' troppo vicino a una canzone chiamata No Diggity dei Blackstreet, così ho detto che avremmo dovuto cambiarlo". E alla domanda se la sua melodia finale avesse una somiglianza con la canzone di Chokri, il cantautore ha aggiunto: "Fondamentalmente, sì. Si basano sulla scala pentatonica minore ed entrambe hanno delle vocali".

La corte ha anche ascoltato come Sheeran abbia ottimizzato la prima versione di Shape of You per rimuovere elementi simili alla canzone di Bill Withers Grandma's Hands e a No Scrubs di TLC. "Il tuo approccio è prendere un brano, cambiarlo e fare un sacco di soldi, vero?", ha chiesto provocatoriamente l'avvocato Sutcliffe alla star. "No", ha risposto Sheeran, aggiungendo che un "musicologo ha esaminato Shape of You e ha trovato somiglianze, così le abbiamo cambiate". La star ha rivelato inoltre che Shape of You era stato originariamente concepito per le Little Mix o Rihanna e che non voleva pubblicarlo nel suo album Divide multi-platino. "Pensavo che questa canzone fosse in conflitto con Castle On The Hill.

Non si adattava, insomma, al resto dell'album", ha detto. "Successivamente sono stato smentito".

A un certo punto Sheeran si è un po' irritato quando un frammento di una canzone inedita è stato erroneamente riprodotto alla corte. "Questa è una canzone che ho scritto lo scorso gennaio. Come l'avete avuta?" ha chiesto, guardando i suoi avvocati. "Voglio sapere come l'avete ottenuta". Poi stato spiegato che parte della musica riprodotta proveniva dal laptop personale di Steve Mac e che era stato accidentalmente effettuato l'accesso alla cartella sbagliata.

L'avvocato Sutcliffe ha infine accusato Sheeran e i suoi co-autori di aver promosso quella che ha definito una "causa a schiaffo" intesa a "intimidire" i suoi clienti con l'oneroso costo di una difesa legale. Nel maggio 2018, prima della causa per plagio avviata ufficialmente a luglio dello stesso anno da Chokri e O'Donoghue, Sheeran e i suoi coautori hanno avviato un procedimento legale chiedendo all'Alta Corte di dichiarare di non aver violato i diritti d'autore di Chokri e di O'Donoghue. "Nessuna causa a schiaffo, volevo solo dimostrare che avevo ragione", ha risposto Sheeran. "Sto cercando di riabilitare il mio nome". 

·        Ladri di Cultura.

Estratto dell’articolo di Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 5 dicembre 2022.

«Ma queste meraviglie sono anche un dolore vertiginoso, che intreccia la grandezza greca con i grezzi resti dell'antichità». Sono i versi di On Seeing the Elgin Marbles, che il poeta romantico John Keats scrisse nel 1816, anno in cui i contesissimi Marmi del Partenone vennero acquisiti dal British Museum ed esposti a Londra: il fascino del Sublime, adombrato dal dibattito nella capitale britannica da allora mai scemato.

Ma se ora gli "Elgin Marbles" del British tornassero davvero ad Atene? L'annosa questione tra Regno Unito e Grecia potrebbe trovare una soluzione, dopo alcuni «incontri top secret» nel cuore di Londra: prima all'ambasciata greca del ricco quartiere di Mayfair e poi, la settimana scorsa, in un albergo a cinque stelle dell'altrettanto opulento Knightsbridge. Dove, secondo il quotidiano ellenico Ta Nea, sarebbero convenuti addirittura il primo ministro greco, Kyriakos Mitsokatis, e il presidente del British Museum ed ex Cancelliere dello Scacchiere, George Osborne.

Le parti fanno sapere che si tratta di «colloqui preliminari». Ma certo non era mai spirato tanto ottimismo da Atene sui marmi trafugati e trasportati a Londra da Lord Elgin, ambasciatore britannico nell'Impero ottomano in bancarotta e afflitto dalla sifilide: 75 metri sottratti, anche violentemente, dei 160 totali del lungo e preziosissimo fregio dell'antica meraviglia classica del V secolo a.C. sull'Acropoli dedicata alla dea Atena, con i quali Elgin voleva ornare la sua villa in Scozia.

Alla fine, gli "Elgin marbles" vennero acquisiti dal British Museum, ed eccoci qui dopo due secoli a riparlare di questa infinita diatriba. Ora però ci sono alcuni segnali che qualcosa potrebbe cambiare nel prossimo futuro. Nei giorni scorsi ci sono state trattative segrete a Londra. Secondo le autorità greche, la possibilità che un giorno i marmi possano tornare ad Atene non è solo "eccitante, ma anche concreta". […] 

Del resto, come sottolinea l'Observer, lo scorso agosto il vicedirettore del British, Jonathan Williams, aveva detto che il museo «era pronto a cambiare la temperatura del dibattito», annunciando nuovi colloqui. Soprattutto dopo che l'Unesco aveva esortato a risolvere il problema a livello internazionale e politico. […]

Luigi Grassia per "la Stampa" il 2 dicembre 2022.

La civiltà egizia è così antica che già al tempo di Erodoto gli stessi egiziani avevano solo idee vaghe su chi e come avesse costruito le piramidi e la Sfinge. Nel Medioevo l'Europa traeva le sue scarne nozioni in proposito dalla Bibbia, e i primi esploratori che scoprirono iscrizioni geroglifiche in Egitto si trovarono di fronte al mistero assoluto; questo finché la spedizione di Napoleone nel 1799 portò alla miracolosa scoperta della cosiddetta "Stele di Rosetta", cioè una tavola di pietra con inciso un testo geroglifico, uno in "demotico" (una forma tardiva di egiziano) e la traduzione di entrambi in greco antico; avendo scoperto la chiave, da allora fu possibile tradurre tutto ciò che gli Egizi avevano scritto.

La Stele di Rosetta non rimase a lungo in possesso dei francesi, perché dopo aver sconfitto Napoleone se ne impadronirono gli inglesi, e dal 1802 è esposta al British Museum di Londra. Ci starà per altri 220 anni ?

Quasi certamente no. Migliaia di cittadini egiziani hanno firmato una petizione per chiedere ai britannici di restituire la Stele, e per quanto stavolta il risultato sia dubbio (Londra dice no, non c'è neanche una richiesta ufficiale dal Cairo) c'è da scommettere che la pressione non verrà meno, e prima o poi la preziosa tavola incisa tornerà in Egitto.

La richiesta di restituzione è universale e sempre più spesso viene soddisfatta: i nativi americani chiedono e ottengono indietro i reperti dei loro antenati esposti nei musei, la Grecia rivuole quel che è stato razziato dal Partenone, l'Italia ha già dovuto ridare all'Etiopia la Stele di Axum (un trofeo dell'invasione fascista) e chissà, magari un giorno dovrà svuotare il Museo Egizio di Torino. Sono giustificate queste richieste? Ci sono validi argomenti sia pro sia contro.

Le restituzioni riparano ingiustizie storiche dell'epoca coloniale, quando vigeva libertà di saccheggio. D'altra parte, gli archeologi europei hanno scoperto e riportato all'onor del mondo manufatti di altri Paesi che giacevano ignorati, oppure noti ma indegni di interesse, e hanno fatto conoscere ai popoli oltremare la loro stessa storia, che spesso quei popoli ignoravano. Il dibattito è aperto, anche se l'esito a lungo termine sembra scontato.

Antonio Riello per Dagospia il 2 dicembre 2022.

Al British Museum è in corso un sostanzioso progetto espositivo sul tema dei Geroglifici degli antichi Egizi. Un soggetto  intrigante fin dall'epoca dell'Impero Romano. La misteriosa eleganza dei segni incisi sulla pietra ha lasciato campo libero nei secoli ad interpretazioni di ogni genere (ovviamente anche interessate e strumentali). Basta dare un'occhiata alla imponente stele di Amenemht III, visibile all'inizio della mostra.

Per i primi Cristiani (che in Egitto ebbero un grande iniziale successo) e anche per chi seguirà, i Musulmani, questi pittogrammi erano assimilati al sinistro linguaggio di spiriti maligni (assimilandoli a sortilegi) o addirittura alla lingua del Diavolo. Gli alchimisti e le varie discipline esoteriche hanno ne hanno fatto man bassa proprio per la loro non-facile-interpretabilità

A differenza della più o meno coeva scrittura cuneiforme (incredibilmente noiosa, sembra un insieme di intricati micro-circuiti elettronici) 'sti Geroglifici sono decisamente belli da vedere. Chi incideva/dipingeva questi segni (gli scriba) non solo voleva comunicare qualcosa ma in genere lo faceva seguendo una sorta di codice estetico pieno di ingegno. Ovvero li assemblava in modo che fossero elegantemente equilibrati, realizzando una vera e propria composizione artistica. Immaginiamoceli un po' fossero stati dei pionieri-artisti della Poesia Visiva.

Belli e incomprensibili: di solito una garanzia di successo. Qualcuno forse si ricorda ancora quando negli anni 60 in Italia si ascoltavano le canzoni in lingua inglese (Beatles e compagnia bella) pochi capivano il testo avvolto dalla musica, gli altri se lo immaginavano afferrando solo qualche parola qui e là. Tutti erano comunque estasiati. Per molti il capirne in seguito il testo paradossalmente ha solo tolto parte della "magia" di quell'esperienza...

In ogni caso nel corso dei secoli molti hanno raccolto la sfida delle criptiche icone spendendo tempo ed energie per decifrarne il senso. Tra i tanti va ricordato il dotto Gesuita Athanasius Kircher, per moltissimi anni insegnate al Collegio Romano, universalmente considerato il fondatore dell'Egittologia. E' quando Napoleone si lancia nella Campagna d'Egitto (1798-1801) che scoppia clamorosamente l'Egitto-Mania. Nel 1799 viene ritrovata da Pierre-Francois Bouchard, vicino la città di Rashid (Rosetta) una stele in Granodiorite con inciso un testo in tre differenti alfabeti: Geroglifico, Demotico e Greco. L'oggetto data al periodo Tolemaico (196 a.C.). A causa del fallimento dell'impresa napoleonica finisce a Londra (dove ancora si trova ed è ovviamente il fiore all'occhiello della mostra in corso).

Il Francese Jean-Francois Champollion e il Britannico Thomas Young cercano disperatamente di "craccare" il codice dei geroglifici. La sfida diventa una questione di orgoglio nazional-imperiale. Prestigio Geopolitico. Stavolta vincono i Francesi.  In sintesi il problema per i tanti egittologi era questo: interpretavano i disegni come delle parole di senso compiuto e non come dei suoni.

Questa modalità sembra fosse effettivamente in essere all'inizio della scrittura geroglifica, ma poi la complessità del linguaggio portò a trasformarli in un alfabeto fonetico (come il nostro alfabeto). Quando Champollion nel 1822 arriva a questo nuovo approccio trova finalmente la chiave. Francia 1 Inghilterra 0.

Negli ultimi decenni l'uso diffuso delle icone negli smartphone ha reso gli alfabeti pittografici nuovamente familiari. I Geroglifici (o almeno i loro lontani cugini) alla riscossa globale!

Per coincidenza, nelle ultime settimane, proprio la Stele di Rosetta è ri-diventata un nuovo elemento di contesa Geopolitica. Una petizione (voluta dal popolare archeologo egiziano Zahi Hawass) ha avuto molto seguito raccogliendo migliaia di firme. Si chiede al  British Museum la rapida  restituzione all'Egitto proprio del famoso reperto (che dovrebbe trovare posto nel nuovissimo Museo Archeologico di Stato di Giza). I responsabili della secolare Istituzione Britannica sono spaesati e in notevole difficoltà. Non bastava l'aspra interminabile contesa con il governo Greco per i marmi del Partenone (noti come the Elgin Marbles).

Un'altra delle gemme del museo rischia di andarsene per sempre, mancava solo questo grosso "mal-di-testa". L'impero Britannico sta davvero presentando una bella lista di conti arretrati postumi....Che Hawass chieda contestualmente anche il busto di Nefertiti (ai Tedeschi) e il Soffito Zodiacale di Dendera (ai Francesi) è comunque di poca consolazione ai vertici di Great Russell Street.

"Hieroglyphs", curata da Ilona Regulski, è comunque molto ben fatta e senza dubbio vale senza la pena di essere vista. In mostra, tra tanti reperti meravigliosi, c'è anche il famosissimo Libro dei Morti della Regina Nedjmet (normalmente non visibile per intero al pubblico).

Maria Rosa Pavia per corriere.it l'8 settembre 2022. 

Fossili, anfore, vasellame, statue in terracotta e ceramica, ma anche armi, oggetti sacrali e ornamenti in oro. Sono questi alcuni dei beni storici e archeologici - ben 7mila - che sono stati ritrovati e sequestrati dai finanzieri del comando provinciale di Roma in un’abitazione di Ostia. 

Una galleria d’arte clandestina che aveva anche un catalogo fotografico per illustrare la merce a possibili compratori. Teche in vetro con monili preziosi catalogati e riposti in cofanetti nel museo clandestino.

Presenti 4 mila monete in oro, argento e bronzo e strumenti chirurgici di epoche lontane. Tutti i reperti sono stati affidati al Museo archeologico comunale di Colleferro. I fossili sono databili a partire dal periodo cretaceo mentre gli altri ritrovamenti risalgono al periodo compreso tra il IX secolo a. C. e il XIX secolo d.C.. È stata denunciata una persona alla Procura di Velletri per riciclaggio e violazione alle norme a tutela del patrimonio storico e archeologico.

Alberto Simoni per “La Stampa” il 4 settembre 2022.

Gli investigatori di New York hanno bussato per tre volte negli ultimi sei mesi alle porte del Metropolitan Museum of Art. In una mano il mandato di perquisizione, nell'altra le immagini delle opere d'arte - sculture, dipinti, vasi di ceramiche, anfore risalenti al periodo egizio, romano e greco - che nelle sale del Met sono in mostra da decenni e finite lì al termine di uno scambio di proprietà fra trafficanti, faccendieri e gang. 

Ventisette pezzi in tutto, valore 13,2 milioni di dollari. Ventuno opere sono destinate a tornare in Italia, le altre sei in Egitto. Martedì, nel corso di un solenne cerimonia, ci sarà l'annuncio del rimpatrio. Che avverrà in tempi brevissimi. Seguendo l'esempio di Los Angeles, dove, sponda Getty Museum, questo mese partirà alla volta dell'Italia L'Orfeo e le Sirene, composizione in terracotta, datata 350 a.C.

L'11 agosto il museo ha annunciato infatti la restituzione della composizione scultorea. L'Orfeo sarebbe già stato imballato. A stretto giro dovrebbero tornare in Italia altri pezzi, come collane di pietra, una testa in marmo, opere etrusche e un dipinto di Camillo Miola, «L'oracolo di Delphi». Il Getty aveva da tempo annunciato una revisione della sua politica, affermando che nel momento in cui veniva dimostrato che un'opera custodita dal museo era stata oggetto di traffici illeciti sarebbe stata restituita ai proprietari. 

Non definita ancora, invece, la sorte dell'Atleta di Fano, sempre al Getty, mentre sul Doriforo di Policleto - esposto in un museo di Minneapolis - pende una rogatoria internazionale.

Otto delle opere sequestrate al Met sono passate di mano in mano dietro la regia di un siciliano, Gianfranco Becchina, proprietario di una galleria d'arte in Svizzera e da decenni nel mirino delle autorità italiane. Nel 2001 è stato indagato per commercio illegale. 

Tuttavia, gli altri pezzi sono arrivati al Metropolitan ben prima che Becchina fosse accusato di illeciti. Ma questo, secondo alcuni esperti che hanno parlato al «New York Times», non assolverebbe il Met dall'essersi comportato con troppa disinvoltura, acquistando dalla Galerie Antike Kunst Palladium di Basilea moltissime opere. 

Il Met si è difeso, dicendo di aver scoperto solo in seguito all'avvio delle indagini da parte del procuratore distrettuale di New York della provenienza quantomeno dubbia di alcune opere. «Le regole per le collezioni sono cambiate significativamente negli ultimi 20 anni e le politiche del Met sono costantemente sotto revisione e monitoraggio», ha spiegato un portavoce del museo che non è implicato nel traffico illegale.

Una delle opere di maggior valore è una ciotola dipinta, risalente al 470 a.C. Fu acquistata dalla galleria di Becchina nel 1979. Tornerà in Italia anche una statuetta raffigurante una divinità greca del 400 a.C. comprata nel 2000 dall'antiquario inglese Robin Symes. Symes è lo stesso mediatore coinvolto nella vendita di una statua di Afrodite al Getty Museum nel '98 per 18 milioni che l'istituzione di Los Angeles ha deciso dopo un lungo braccio di ferro di restituire all'Italia nel 2007. 

Gli investigatori hanno preannunciato altri blitz al Met. Rivendica la restituzione delle opere anche il governo della Cambogia. Un vero e proprio saccheggio era avvenuto nei siti religiosi durante gli anni dei Khmer rossi. Molte opere sono state vendute falsificando l'elenco dei proprietari, producendo attestati di transazioni inesistenti.

E' quanto capitato alla «Donna con il Mantello Blu», valutato 1,2 milioni di dollari (tornerà all'Egitto); e a una bara con incisioni dorate risalente al I secolo a. C. che il Met ha restituito all'Egitto nel 2019: venne acquistata nel 2017 per 4 milioni di dollari da un venditore di arte di Parigi e i passaggi di proprietà erano stati camuffati tanto da far apparire pienamente regolare la vendita. In uno di questi giri è rimasta coinvolta anche Kim Kardashian, accusata nel maggio 2021 dal governo Usa di essere destinataria di una scultura romanica.

La statua venne sequestrata nel 2016 al suo ingresso dall'Italia negli Usa. La più celebre delle influencer Usa si difese dicendo di «non aver mai comprato quel pezzo», di cui nemmeno sapeva l'esistenza. Si scoprì essere finita in una lista fasulla. Ma il Met - ha sentenziato Derek Finchman, professore di proprietà culturali del South Texas - «dovrebbe fare di più per appurare l'origine delle opere che compra». Più di Kim Kardashian di sicuro.

Andrea Carugati per “La Stampa” il 13 agosto 2022.

Un pezzo alla volta, lentamente - ma a questa velocità si muovono giustizia, diplomazia e burocrazia - il patrimonio artistico italiano finito illegalmente nelle mani di ricchi musei e collezionisti sta facendo ritorno nella casa da cui era stato trafugato e dove si auspica verrà conservato e tutelato con maggiore attenzione del passato. 

Ora è la volta dell'annuncio del ritorno in Italia di "Orfeo e le Sirene", che il Getty Museum di Los Angeles sarà costretto a restituire in seguito all'ordine impartito dalla magistratura americana, un'operazione a cui la struttura losangelina non è nuova vista l'origine in gran parte piratesca della sua gigantesca collezione, esposta gratuitamente in un museo sulle colline della città del cinema e in una villa in riva al mare a Malibù.

In seguito a un'inchiesta penale in corso della procura di New York, infatti, il tribunale ha imposto al Getty Museum, fondato - chi dice per passione, chi dice per pagare meno tasse - dal petroliere Jean Paul Getty negli Anni 70, di restituire all'Italia un gruppo di figure di terracotta a grandezza naturale scavato illegalmente nell'area di Taranto e raffigurante, appunto, un poeta seduto, Orfeo, e due sirene. 

L'opera, che risale al IV secolo avanti Cristo e che fu acquistata per mezzo milione di dollari dallo stesso petroliere nel 1976, partirà per Roma in settembre, dove verrà inizialmente esposta al Museo dell'arte salvata. Successivamente - hanno confermato il ministro della Cultura Dario Franceschini e il presidente della regione Puglia Michele Emiliano - farà ritorno a Taranto.

A intraprendere lo stesso viaggio, quello del ritorno a casa, erano state anche altre opere nel corso degli ultimi anni, tra cui la "Venere di Morgantina" e la "Testa di Ade", mentre in attesa di solcare l'oceano per ritornare a casa, a Los Angeles resta ancora uno dei pezzi più significativi della collezione Getty, quell'"Atleta" di Lisippo che la Cassazione italiana, nel 2018, ha stabilito essere di proprietà dell'Italia ma che la fondazione che fa capo al museo non ha ancora restituito. 

«Grazie al lavoro della procura di New York abbiamo determinato che questi pezzi devono essere restituiti», ha scritto Timothy Potts, il direttore del museo, che ha chiosato: «Apprezziamo la nostra ottima relazione con il ministero della Cultura e con i colleghi in tutta Italia con cui condividiamo la missione per la tutela del patrimonio culturale».

Atteggiamento che forse non potrebbe essere diverso visto che la stragrande maggioranza della sua collezione, oltre quarantaquattromila opere d'arte, è di "origine sconosciuta" e che il suo budget, grazie a un fondo che è arrivato a valere oltre nove miliardi, è settanta volte superiore a quello del Metropolitan Museum di New York.

«Il Getty ha collaborato ma non si è fatto avanti in prima battuta e annunciando il rimpatrio dell'opera ha lasciato fuori metà della verità», ha dichiarato il titolare dell'inchiesta, Matthew Bogdanos, responsabile nell'ufficio del Distric Attorney di New York del contrasto al traffico di antichità.

È infatti dal 2006 che "Orfeo e le Sirene" comparivano in un elenco di opere d'arte rivendicate dall'Italia, ma c'è voluta una sentenza esecutiva del tribunale per smuovere il colosso americano. Le statue, dopo l'ennesima e vana richiesta formale, sono state dunque sequestrate nell'ambito di un'inchiesta penale, partita da alcuni nomi noti delle archeomafie, quelle organizzazioni criminali di stampo mafioso specializzate nel furto e nel traffico illecito internazionale di reperti archeologici e di opere d'arte. 

 «L'indagine è partita da alcuni nomi noti, persone che fanno parte di una vasta rete di trafficanti d'arte, coinvolti in altre vicende di esportazione illegale di antichità, tra cui il tarantino Raffele Monticelli», ha specificato Bogdanos, un ex colonnello dei marines. Bogdanos è anche l'artefice della recente riconsegna all'Italia di 142 reperti archeologici, per la maggior parte provenienti dalla collezione del finanziere newyorkese Michael Steinhardt. Si tratta di vasi, monete, anfore e mosaici appartenenti a diverse civiltà con un valore stimato di circa 14 milioni di dollari che verranno temporaneamente esposti nel Museo dell'arte salvata a Roma. Tra gli oggetti recuperati ci sono anche tre affreschi risalenti al IV secolo a.C. rubati da Paestum, un pithos, ossia una giara databile al 700 a. C., e il cosiddetto "Affresco di Ercolano", che raffigura il neonato Hercules mentre strangola un serpente.

Quasi un terzo dei reperti recuperati appartenevano a Michael Steinhardt, un magnate americano tra i più grandi collezionisti d'arte antica al mondo cui dallo scorso anno è stato posto il divieto assoluto di acquistare reperti archeologici di qualsiasi tipo, nel tentativo di arginare quello che è un fenomeno sempre più diffuso e l'appetito di collezionisti senza scrupoli che alimentano il traffico illegale di opere d'arte.

Antonio Ferrara per repubblica.it il 27 aprile 2022.  

Incrocia lo sguardo "preoccupato" del ministro della Cultura seduto assieme a lui, al sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, all'assessora alla cultura di Torino Rosanna Purchia, dell'ex sottosegretario Riccardo Villari e di Myrta Merlino, a Napoli per presentare l'ultimo libro di Dario Franceschini "Con la cultura non si mangia?".

"Con il punto interrogativo" chiosa subito il ministro. A voler prendere le distanze da quella frase. E che Giulio Tremonti smentisce di aver pronunciato ancora oggi. 

Salvo Nastasi, longevo dirigente del Collegio romano con una parentesi a Palazzo Chigi, oggi segretario generale del ministero della Cultura, si assegna il compito di fornire una spiegazione al titolo del libro del ministro ispirato alla frase "Con la cultura non si mangia" che Franceschini definisce "forse apocrifa, attribuita al ministro Tremonti".

Rivela Nastasi: "La frase non è apocrifa. Io sono l'unico testimone oculare del ministro Giulio Tremonti che disse ad alta voce a me, a Sandro Bondi e a Umberto Bossi guardandoci con il suo ghigno - alla fine di un consiglio dei ministri di fine settembre 2010 che varò tagli alla cultura con la legge finanziaria - la frase: "Con la cultura non si mangia".

Tremonti nega questa circostanza, ma io solo l'unico che lo può testimoniare: ero lì, feci uscire io la notizia d'intesa con Bondi quella sera. Non a caso quell'anno il bilancio del ministero scese a 1,3 miliardi, il minimo storico, oggi siamo a 4 miliardi". 

Nastasi aggiunge: "Tremonti ha sempre smentito quell'agenzia, io spero che lui l'abbia semplicemente rimossa perché è una frase talmente violenta nei confronti della cultura italiana e sbagliata. così come ci dimostra il libro di Franceschini. L'ha pronunciata davanti a me, con il suo ghigno tremontiano. I tagli nel 2010 stritolarono la cultura italiana, i soldi bastarono appena per pagare gli stipendi del ministero, quella frase è vera, verissima".

Nastasi arrivò al Collegio romano 21 anni fa, con Giovanna Melandri ministra dei beni culturali, ed è stato anche vice segretario generale della presidenza del Consiglio dei ministri dal 2015 al 2018 con i governi Renzi e Gentiloni.

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 30 marzo 2022.  

La prassi, un tempo, era un gesto molto romantico. Ogni studente universitario squattrinato che si rispetti, nutriva sé stesso di pagine di libri fotocopiate da altrettante fotocopie del libro originale. La pirateria del libro - al di là delle staffilate che tiravamo al mercato era una piccola grande matrioska d'illegalità. Una sorta di rito di passaggio all'età adulta. 

Oggi, col senno di poi, mi sa che abbiamo esagerato. Secondo un'indagine realizzata dall'Ipsos di Nando Pagnoncelli per l'Associazione italiana editori (Aie) sulla pirateria e i suoi costi sull'industria editoriale e sulla società, il suddetto fenomeno criminale costa all'Italia quasi 2 miliardi di euro. Due miliardi.

Durante un incontro tenuto al ministero della Cultura a Roma, promosso da Gli editori, con un accordo di consultazione che vede insieme Aie e Fieg (Federazione italiana Editori Giornali), l'impatto della pirateria sull'economia del mondo del libro ed editoriale si è rivelato assai temibile. «I libri piratati costano al mondo del libro 771 milioni di mancato fatturato, pari al 31% del valore complessivo del mercato al netto di editoria scolastica ed export, e la perdita di 5.400 posti di lavoro.

Contando anche l'indotto, cioè le ricadute su altri settori collegati ai libri, il costo per il Paese è di 1,88 miliardi e 13.100 posti di lavoro (oltre a un mancato gettito fiscale di 322 milioni di euro)», racconta, spietato, il report. 

Stando sempre ai numeri, ad utilizzare libri, ebook e audiolibri in maniera illegale è il 35% (era il 36% due anni fa) della popolazione, un italiano su tre, sopra i 15 anni; l'81% degli universitari (era l'80% due anni fa), fra i quali mediamente ognuno ha piratato oltre 10 testi; il 56% dei professionisti (era il 61%) con una media di 9,3 atti di pirateria ciascuno. Certo, è interessante capire l'attuale tipologia del Ladro di libri, evidentemente assai diverso dal modello letterario dell'omonimo graphic novel di Alessandro Tota e Pierre Van Hove (Coconino Press).

Ci sono i ladri della "varia", con 9 milioni di atti criminosi per un danno al mercato di 420 milioni di euro; svettano i ladri "universitari" a noi cari che danneggiano per 220 milioni; si muovono ai margini dei grandi studi professionali e delle librerie settoriali, i ladri di libri tecnici e di banche dati che causano buchi all'industria da 117 milioni euro, e così via. Sono cifre impressionanti aumentate a dismisura con la pandemia: solo nel 2021 sono stati contati 321mila "atti illegali" al giorno, per dire.

Tecnicamente siamo dalle parti dei 20mili voluti antichi sfilati alla Biblioteca Girolamini da dirigenti pubblici prezzolati. Solo che qui non si tratta di trafugatori estemporanei. No. I ladri di libri, qui, sono soprattutto studenti e professionisti dei settori merceologici più disparati. Il fenomeno coinvolge più di un italiano su tre sopra i 15 anni (il 35%), il 56% dei professionisti (avvocati, notai, commercialisti, ingegneri, architetti e altri) e l'81% degli studenti universitari.

E se ai più giovani è facile pensare per tante ragioni (i soldi da spendere per i libri e un'abitudine a navigare gratis), stupisce scoprire tra i pirati proprio questo bizzarro nutrito esercito di professionisti che, come fa notare giustamente Ricardo Franco Levi, presidente dell'Associazione Italia Editori, «non possono accampare alibi economici o negare di conoscere le conseguenze del loro comportamento». Sembra che in sottofondo scorra quello spot anti-pirateria oggi un po' délabré tanto di moda negli anni '80.

Piratare un libro o un giornale, è come piratare un film, è - diceva Pubblicità& progresso- come rubare. E ricade su chi di quel lavoro vive e indebolisce interi settori, la famosa filiera produttiva. Per questo Levi chiede al governo e alle istituzioni di intervenire, anche perché «leggere, ascoltare o addirittura distribuire libri e audiolibri piratati significa contribuire a un fenomeno che toglie risorse economiche e posti di lavoro all'editoria, introiti fiscali allo Stato e che riduce le opportunità per i giovani creativi di poter vivere del loro lavoro grazie ai diritti d'autore».

Altro particolare inquietante della ricerca spiega che i pirati (sopra i 15 anni) «sanno di fare qualcosa che non andrebbe fatto ma sono tranquilli perché difficilmente verranno sanzionati. Dell'82% di gente che vive nell'illegalità (era l'84% due anni fa), «c'è chi lo fa perché ritiene poco o per nulla probabile di venire scoperto e punito (il 68%, erano il 66%)»; mentre il 39% considera la pirateria un comportamento da cazzerelloni e nulla più...

·        Il Mecenatismo.

Mecenati, aiuta l'arte e mettiti da parte. Le bellezze culturali viaggiano spinte dalla passione di donne e uomini facoltosi. Con la storica Bianca Pedace ricostruiamo la nascita e l'espansione di un fenomeno che risale all'imperatore Augusto. EDVIGE VITALIANO  su Il Quotidiano del Sud il 30 Ottobre 2022. 

IL PRIMO fu Gaio Cilnio Mecenate, vissuto nel I sec. a.C. protettore e benefattore degli artisti (come Orazio e Virgilio) in età Augustea, poi arrivarono gli altri ma la parola mecenatismo resta imperitura ad indicare la “tendenza a favorire le arti e le lettere, accordando munifica protezione a chi le coltiva”, per dirla con Treccani. A raccontare il mecenatismo tra passato e presente (e futuro, perché no) è Bianca Pedace: storica dell’arte, curatrice ed estetologa. Dopo la laurea all’Università di Perugia, si specializza e consegue il dottorato di ricerca in Storia dell’arte con Enrico Crispolti.

Oggi è docente di Estetica presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Attualmente in corso a sua cura la mostra Open. Claudio Verna, presso la Stazione di Posta a San Gemini.

Quale è stato il ruolo del mecenatismo nel corso dei secoli?

«Per comprendere il ruolo del mecenatismo nel corso dei secoli ci aiuta la storia delle parole: il termine è nato, per antonomasia, dal nome di Mecenate, fido consigliere e “ministro della cultura” ante litteram di Augusto. Il mecenatismo dunque storicamente reca, anche sulla base del gusto personale e della raffinatezza, un’efficace promozione delle arti e della cultura, di solito congiunta, o inquadrata, in un contesto e in un disegno, in senso lato, politici, di autorappresentazione o autopromozione, talvolta anche in dimensione internazionale e dunque geopolitica. Va sottolineato che negli ultimi decenni le figure dei mecenati sono state spesso oggetto di specifici studi storico-artistici; del resto, alcune posizioni teoriche riconoscono all’intero sistema dell’arte, con tutti i suoi attori, un ruolo fondamentale nei processi creativi. In questa chiave, il mecenate è un comprimario di grande importanza».

Chi sono i mecenati oggi?

«Oggi ci sono diverse figure di mecenati, sebbene i fasti del passato, penso ad esempio al Rinascimento, siano quasi ineguagliabili. Abbiamo, ad esempio, il mecenatismo delle fondazioni, alcune dedicate all’arte, che commissionano opere o promuovono esposizioni, contribuendo in modo determinante allo sviluppo del dibattito. Potremmo citare, per la coerenza nell’impegno, la Fondazione Brunello e Federica Cucinelli o la Fondazione Prada. Oppure curano l’eredità scientifica di un protagonista, come la Fondazione Lucio Fontana e la Fondazione Burri. Talvolta assumono un ruolo di mecenate anche alcuni collezionisti – la differenza tra le due figure è sottile ma dirimente: il collezionista entra in gioco a cose fatte, recependo e acquisendo ciò che l’artista ha realizzato, il mecenate invece ha un ruolo propositivo e proattivo anche a monte della stessa operazione creativa (per queste ragioni, Duchamp, in una celebre conferenza tenuta a New York, liquidò, relegandola al passato, la figura del mecenate). Abbiamo poi il mecenatismo pubblico, che si dipana in molte forme: da quello statale (ad esempio: quando si costruisce un edificio di destinazione pubblica una piccola parte del budget è per legge destinata alle opere d’arte, solitamente scelte per concorso) a quello civico, con commissioni per gli spazi pubblici delle città. Infine abbiamo un mecenatismo legato ad associazioni o iniziative di cittadini, di vario genere. Un fenomeno di lungo periodo: dalle opere rinascimentali commissionate da associazioni di privati, di solito di matrice religiosa alle forme di sottoscrizione popolare e a quelle recenti di crowdfunding. Una storia nella storia si potrebbe tracciare riferendosi a peculiari forme di mecenatismo che finanziano i premi o le residenze artistiche, ultimamente, per fortuna, ritornate in auge. Il Prix de Rome, l’Accademia tedesca di Villa Massimo, l’American Academy , solo a Roma. Si potrebbero citare tra le esperienze recenti, le residenze del parco Carta volute da Rubbettino in Calabria».

Che cosa spinge un imprenditore a diventare mecenate?

«Credo si intreccino istanze diverse, rispetto alle quali si dovrà distinguere una semplice sponsorizzazione rispetto a una azione di mecenatismo, che è complessiva e organica. Prima di tutto, si riscontra l’amore per l’arte, che è ovviamente un motore dell’intera vicenda. A ciò si aggiungono spesso considerazioni legate per un verso alla responsabilità sociale dell’impresa – anche nei confronti del territorio o dei territori in cui opera o a cui si rivolge in termini di mercato – e per altro verso alla promozione di un’immagine positiva dell’azienda o dell’imprenditore/imprenditrice o alla complessiva costruzione e consolidamento di un brand. Elementi che rendono opportune e proficue le operazioni di mecenatismo. Talvolta, è presente un ritorno economico diretto; più di frequente, indiretto. In alcuni Paesi tale prassi è incoraggiata dagli incentivi fiscali. Non da ultimo, c’è l’intento di lasciare un segno, anche alle future generazioni».

Qual è il ruolo della banche?

«L’esempio insuperato del mecenatismo mediceo dice già tutto. Mutatis mutandis, anche oggi il ruolo delle banche, con rinnovato fervore negli ultimi anni, è fondamentale. Numerose sono le banche che hanno costituito una apposita collezione, talvolta aprendone le porte al pubblico per qualche tempo o con esposizioni permanenti. È anche il caso delle Gallerie d’Italia, create da Intesa Sanpaolo a Milano, Napoli, Torino e Vicenza. Oppure del Museo di Palazzo Baldeschi, a Perugia, voluto dalla Fondazione CariPerugia Arte, in parte derivante dalla collezione di Alessandro Marabottini, grande storico dell’arte di cui sono stata a suo tempo allieva. Va infatti sottolineato l’apporto delle fondazioni bancarie. Importanti sono anche i bandi e i premi volti a stimolare studi e ricerche, che incrementano le conoscenze e la loro disseminazione – anche questa è una forma di mecenatismo. Infine, moltissime mostre realizzate in Italia non sarebbero possibili senza le sponsorizzazioni bancarie, che costituiscono un ulteriore capitolo della storia del mecenatismo».

La crisi economica sta incidendo sul mecenatismo?

«Una battuta d’arresto si è registrata dopo la grande crisi del 2008, sia per ragioni strettamente economiche e finanziarie sia per ragioni d’immagine. In anni più recenti la situazione si è assestata, migliorando decisamente. Tuttavia, la pandemia, con il lockdown e le restrizioni, ha colpito particolarmente a lungo i musei, le mostre e il settore dell’arte, vanificando molte occasioni di mecenatismo. Oggi le preoccupazioni per il futuro dovute anche alla guerra sono forti. Spero e credo, tuttavia, che il processo positivo che si è innescato non si fermerà. La delicatezza dei meccanismi di economia dell’arte e della cultura merita di essere protetta e accortamente pensata e agita. Sul piano strettamente economico, peraltro, l’arte può essere anche una eccellente forma di investimento».

La figura di Raffaele Mattioli, il banchiere umanista resta un esempio…

«Mi pare sia pertinente citare questa figura proprio per l’organica azione di promozione umana che ha esercitato. Il ruolo da lui giocato nella costruzione del panorama bancario e delle relazioni economiche internazionali è ben noto. Ma negli ultimi anni è stata anche chiarita la sua azione di finanziatore e mecenate, anche a titolo privato, di molte iniziative letterarie, a partire dalla rivista «La Cultura» fino alla curatela degli scritti per celebrare gli ottant’anni di Benedetto Croce. Vorrei in particolare ricordare il suo diretto intervento come editore e la sua veste di promotore della collezione di arte contemporanea del Comit che è stata portata avanti dai suoi collaboratori e successori ed è oggi confluita nel Cantiere del ‘900. Opere dalle collezioni Intesa Sanpaolo, ordinate da Francesco Tedeschi, per la sede milanese delle Gallerie d’Italia».

Il mecenatismo è un'arte. E questi sono i suoi giganti. Ricchi, colti e generosi. Raffaella Fontanarossa racconta la vita e le opere di chi ha creato il patrimonio culturale. Camillo Langone il 20 Ottobre 2022 su Il Giornale.

«Molti dei musei che oggi visitiamo, non ci sarebbero affatto se non fossero esistiti i collezionisti». Ecco una verità dimenticata: lo statalismo che impregna la nostra società, fruitori dell'arte compresi, induce quasi a pensare che i capolavori della pittura siano nati sulle pareti di Brera o degli Uffizi. E invece no, sono sempre nati altrove e solo in un secondo tempo sono stati spostati (in certi casi: deportati) nei musei. Il prezioso virgolettato proviene da Collezionisti e musei. Una storia culturale (Einaudi), libro necessario di Raffaella Fontanarossa, storica dell'arte e in particolare, come si evince dal titolo, storica del collezionismo, quella passione che va da Tutankhamon a Miuccia Prada, tanto per dirne l'estensione cronologica.

«Le cose, gli oggetti, sopravviveranno al collezionista rendendolo, sulla carta, immortale», scrive l'autrice e io vorrei correggere, togliere quell'inciso: non sulla carta ma sulla tela, sulla tavola, sul marmo, ossia nella più tangibile delle realtà. Federico da Montefeltro sarebbe oggi solo un nome nei libri di storia se fosse stato soltanto uno dei vari duchi del piccolo ducato di Urbino, se non fosse stato soprattutto un grande mecenate, se non avesse commissionato a Piero della Francesca il ritratto di profilo che lo ha reso un'icona del Rinascimento. Mentre Andrea Odoni nemmeno un nome sarebbe, essendo stato solo un mercante, una figura dal punto di vista della storia con la S maiuscola, quella fatta di incoronazioni e di battaglie, del tutto irrilevante. Però aveva occhio e all'immortalità teneva quanto un duca e pertanto assoldò, a Venezia nel 1527, un pittore bravissimo che non dovette costargli troppo siccome in quel periodo era messo in ombra da Tiziano: Lorenzo Lotto. Oggi il ritratto di Odoni è al Castello di Windsor, chissà quante volte lo avrà visto la Regina Elisabetta, chissà quanti visitatori lo vedranno da qui alla fine del mondo. Perché il ritratto pittorico è lo strumento più efficace per eternare fattezze e personalità, superando i crudeli limiti della vita fisica. Al contrario delle immagini tecnologiche, inevitabilmente destinate all'obsolescenza, i dipinti durano secoli, a volte millenni. Ci sarebbe anche la scultura, è vero, ma spesso ha costi assurdi e quando si fa monumentale assolve a finalità politiche che la allontanano dall'ambito del collezionismo privato, avente solo finalità personali. Esistono eccezioni come quella di Marco Mantova Benavides, professore di diritto all'università di Padova, collezionista squisitamente privato di antichità che commissionò a Bartolomeo Ammannati un monumento funebre da collocarsi nella chiesa degli Eremitani. E quando vedi un simile mausoleo, con Benavides ritratto in marmo circondato da sette statue allegoriche, ti viene da pensare: ma quanto guadagnavano nel Cinquecento i professori?

I soldi, nel collezionismo ovviamente contano, ma non sono tutto. Alcuni grandi bibliofili, pur doviziosi, trovarono il modo di risparmiare parecchio. Fontanarossa racconta che il Duca di Berry aveva l'abitudine di «chiedere in prestito libri con il pretesto di farli ricopiare, salvo poi ometterne la restituzione, invero ponendovi il proprio ex libris!». Il figlio del re Giovanni II si risolse a restituire una Bibbia preziosissima, oggi alla Biblioteca nazionale di Francia, solo sul letto di morte e solo perché pressato dal confessore che gli avrà prospettato le fiamme dell'inferno. La stessa brutta abitudine di non restituire i volumi presi in prestito l'aveva addirittura un imperatore del Sacro Romano Impero, Rodolfo d'Asburgo: impossibilità di reperire altre copie? Momentanea carenza di liquidità? Perversione? Follia? Mi sa che adesso ci vorrebbe un altro libro, una storia mentale anziché culturale, dedicata agli aspetti psicologici e magari psichiatrici del collezionismo.

O almeno ai lati eccentrici, agli episodi incomprensibili che punteggiano la biografia di questi personaggi. Ad esempio: come mai il cardinale Riario prima commissionò e poi rifiutò il Bacco di Michelangelo, quindi comprato dal banchiere Jacopo Galli e oggi al Museo del Bargello?

Quando fiorirono le arti e i saperi: con il «Corriere» la collana sul del Rinascimento. PIERLUIGI PANZA su Il Corriere della Sera il 18 Ottobre 2022

Giovedì 20 ottobre in edicola con il quotidiano il primo titolo della rassegna diretta da Franco Cardini. Una profonda rivoluzione civile nata nella Firenze del Quattrocento. Il culto della bellezza e l’autonomia della sfera politica da quella religiosa 

Dopo che le voci dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert e il pensiero di Voltaire tumularono il Medioevo come epoca bassa e buia (decenni dopo sarebbe stato rivalutato dai poeti romantici) l’Europa inventò il Rinascimento. Sintesi miliare per la definizione di quest’epoca fu La civiltà del Rinascimento in Italia, pubblicato nel 1860 dall’erudito protestante Jacob Burckhardt. Ecco l’incipit: «La lotta fra i Papi e gli Hohenstaufen finì col lasciare l’Italia in uno stato diverso da quello degli altri Paesi occidentali...»: Burckhardt fissò così il luogo di fondazione di questa Kultur nell’Italia del Quattrocento. E questo aspetto non fu mai posto in dubbio.

Il Rinascimento è l’Umanesimo portato a fioritura. L’Umanesimo riguarda soprattutto il mondo delle lettere e delle arti e la riscoperta degli autori antichi, che portò a una rivoluzione nella conoscenza attraverso la nascita del libro e la pedagogia. Il Rinascimento, invece, è da collocarsi nel Cinquecento e si caratterizza per una dinamica sociale più articolata, l’affermarsi della centralità dell’individuo e della libertà e una politica delle élite nobiliari in competizione con la Chiesa romana. Tutto ciò accompagnato da una vasta produzione letteraria e artistica e da una attenzione tecnica e scientifica che aprì le porte alla successiva rivoluzione galileiana.

Con il Rinascimento incomincia l’Età Moderna, che consiste nell’avvio delle scoperte geografiche (Colombo, Magellano, Vasco da Gama), lo spostamento di individui e di popoli, il primato dell’individualismo (Alberti e Leonardo, che pongono l’uomo come microcosmo al centro del mondo) e dell’economia e, grazie alla conoscenza e alla tecnologia, l’egemonia dell’Europa sul mondo conosciuto e da conoscere. Ciò — anche se appare oggi una volontà di dominio che la globalizzazione in corso dispiega acriticamente — avviò quel cammino che portò all’Illuminismo, ovvero, tra molti sbagli, al miglioramento della felicità individuale e collettiva e all’estensione della vita umana. L’islam, che non abbracciò questa svolta, restò in un mondo teocratico; la Cina e il Giappone restarono in universi fondati sulla ritualità della tradizione; l’America fu scoperta e conquistata.

Il Rinascimento introdusse l’autonomia delle sfere politica, economica, giuridica e tecnologica da quella religiosa anche grazie alla Riforma protestante, un’autonomia senza la quale nessun individuo sarebbe realmente libero. Il Rinascimento scoprì la Bellezza come culto laico: l’arte cessò da allora di essere solo artigianato e mestiere per farsi disvelamento attraverso il valore estetico, espressione dei sentimenti e delle passioni (anche l’amore) con Francesco Petrarca in poesia e con Giovanni Bellini, Leonardo da Vinci e Raffaello Sanzio nella pittura. Persino le feste e la moda (cosa c’è, oggi, di più seguito delle «tendenze» del trendy?), la capacità di leggere e scrivere si affermarono dal Rinascimento.

Questa rivoluzione civile nacque nella Firenze del Quattrocento, in cui i Medici regnavano e finanziavano e in cui arte e scienza si saldavano nell’emblematica messa a punto della prospettiva brunelleschiana, la cui cupola diventa simbolo per tutta la civitas. Il Rinascimento è l’epoca delle prime identità e «autonomie» locali e anche del multipolarismo: le corti di Ferrara e Mantova, Venezia che ha rapporti con Bisanzio e l’Oriente, la Roma di Cola di Rienzo e poi di Giulio II e Leone X, di Raffaello protettore delle Antichità, le Napoli e Palermo federiciane e angioine, la Milano degli Sforza cantata come «nuovo Parnaso» dal poeta fiorentino Bellincioni, Bologna e Padova sedi delle più celebri università del mondo...

Un apparente paradosso del Rinascimento è che la prima fase di questa rivoluzione della Modernità si è compiuta con l’affermazione di un ritorno all’Antico grazie alle riscoperte dei codici con filologi come Lorenzo Valla, Poggio Bracciolini, Coluccio Salutati o Leonardo Bruni... Ma questa non è una contraddizione bensì la rivendicazione di un metodo che oggi sembriamo incapaci proseguire, ovvero che il progresso è frutto di un inscindibile legame con il passato, si fonda su di esso che conserviamo come patrimonio in quella cassetta di sicurezza che è la conoscenza storica. È il Rinascimento che ci ha insegnato non vivere solo nel presente.

Burckhardt offre un affresco di questa trasformazione considerando le vicende rinascimentali come un’epoca unitaria. Dopo questo libro introduttivo, nella collana curata da Franco Cardini che il «Corriere della Sera» propone, seguiranno quelli di studiosi altrettanto celebri come Fernand Braudel, Eugenio Garin, Michele Ciliberto, Giulio Busi, Patrizia Castelli (per altro autrice di un celebre saggio su Marsilio Ficino) che guideranno in più particolari scoperte del Rinascimento.

Esce giovedì 20 ottobre in edicola con il «Corriere della Sera» il saggio di Jacob Burckhardt La civiltà del Rinascimento in Italia, al costo di euro 8,90 più il prezzo del quotidiano. Si tratta del primo volume della nuova collana «Rinascimento», a cura di Franco Cardini, che offre ai lettori una serie di venti titoli dedicati a un’epoca di assoluto rilievo nella storia d’Europa e in particolare del nostro Paese. Osserva a tal proposito Cardini, nella presentazione generale contenuta nel volume di Burckhardt, che «con il Rinascimento comincia, nel consueto lessico storico e nella mentalità diffusa, anche l’Età Moderna e, con essa, la Modernità con le sue principali caratteristiche, cioè il primato dell’individualismo e dell’economia, il processo di secolarizzazione e — grazie alla scienza e alla tecnologia — l’egemonia dell’Europa qualificata dalla sua Volontà di Potenza su un mondo non più “a compartimenti stagni”». La civiltà del Rinascimento in Italia è l’opera più famosa dello storico svizzero Jacob Burckhardt (1818-1897), che la pubblicò per la prima volta a Basilea, sua città natale, nel 1860. L’edizione che il «Corriere» è nella originale traduzione di Domenico Valbusa, opportunamente rivista e aggiornata, e contiene una introduzione di Ludovico Gatto. Il secondo volume della serie «Rinascimento» uscirà in edicola il 27 ottobre: si tratta di Pensare per contrari di Michele Ciliberto. Seguiranno: Peter Burke, Il Rinascimento europeo (3 novembre); Eugenio Garin, Rinascite e rivoluzioni (10 novembre); Giulio Busi, Lorenzo de’ Medici (17 novembre).

·        I Beni culturali.

Così abbiamo scoperto le meraviglie della creazione. Un giro del mondo fra i siti più spettacolari di dipinti rupestri: dalla Spagna al Texas, dall'Australia al Somaliland al Cile. Eleonora Barbieri l’11 Dicembre 2022 su Il Giornale.

«I Wandjina sono esseri immateriali, spiriti delle nuvole e della pioggia che nel corso del Tempo del sogno hanno creato paesaggi e uomini. Prima di morire cercano rifugio in un riparo o in una caverna, dipingono la propria immagine su una parete e scompaiono in una pozza d'acqua. Spesso queste pitture sono restaurate dagli aborigeni al fine di rigenerarne la forza vitale». È in una didascalia, verso la metà di L'arte della preistoria (Einaudi), questo librone immenso, per la dimensione e la quantità di informazioni e, soprattutto, per la bellezza delle immagini, che si trova una chiave di volta fra decine e decine di raffigurazioni che ci parlano dai millenni, o meglio da «cinquecento secoli di arte rupestre», come scrive Carole Frizt, che ha curato il testo insieme a numerosi studiosi di tutto il mondo. Cinquecento secoli di mani, bufali, cavalli, figure femminili dalle forme generose, cacciatori, uri, leoni, sciamani, cavalieri, giganti... e maschere. Quelle che i Wandjina dipingevano sulle pareti dell'antica Australia, come a Isdell George, nel Kimberley. Oceano, rocce rosse, deserto.

L'arte è opera degli dèi, ci dicono quelle maschere, quelle mani in negativo, quegli emù e quei Genyornis newtoni stilizzati, uccelli simili agli struzzi, ma estinti da almeno 30mila anni. È il loro segno e il loro sigillo: è ciò che le divinità ci lasciano prima di scomparire ed è, anche, ciò attraverso cui possiamo ritrovarle ed entrare in contatto con loro, come gli aborigeni fanno tuttora, custodendo e conservando questi dipinti, nelle zone dove è loro consentito. L'arte è divina, ed è memoria: a spasso nell'Arte della preistoria possiamo spingerci fino a trentamila, cinquantamila, perfino settantamila anni fa. Nelle pietre, che sono tutt'altro che mute, è scritta la nostra storia ed è scritta, anche, la storia divina: fuse insieme, natura e cultura, umanità e paesaggio, immagine e materia, cielo e terra. Gli dèi creano il mondo e poi creano le proprie raffigurazioni, dipingendole nelle grotte, e ci dicono che cosa fare per tentare di imitarli: addentrarci nell'antro oscuro e provare l'ebbrezza del demiurgo. Che a volte è sciamano, a volte sacerdote, altre cacciatore feroce, altre ancora capotribù. In ogni caso, l'arte tiene insieme la società, una società ancora arcaica ma che vive di una sua coesione, di ruoli, di valori, di visioni del mondo e, persino, di interpretazioni del cielo. Cosmogonia e mitologia si intrecciano con realismo e astrazione, come gli animali si mescolano agli umani. L'uomo è diventato Sapiens davvero.

La caverna (Platone ci aveva avvertito) non è un elemento da sottovalutare. «Nella storia dell'umanità, l'arte paleolitica si distingue per una particolarità: l'attrazione per le grotte profonde. In nessun'altra epoca, almeno fino alle attuali attività speleologiche, gli uomini si sono avventurati tanto lontano nel sottosuolo». Solo che nel Paleolitico non c'erano imbracature, Gps, ossigeno e tute speciali... Si può pensare che questa sia una ulteriore prova dell'origine divina dell'arte. Del resto, intellettuali e scienziati europei rimasero scettici a lungo sull'esistenza dell'arte nel Paleolitico. Quando fu scoperta la grotta di Altamira (la prima a essere esplorata, nel 1879) si stentò ad attribuirne i dipinti all'epoca preistorica, nonostante le prove portate dagli archeologi, perché non si credeva che dei «barbari» potessero creare opere così meravigliose. E si capisce anche come, viceversa, l'arte rupestre sia una delle maggiori fonti di ispirazione per gli artisti dal Novecento in poi. Specialmente quella africana: ben quattro regioni dell'Africa australe ospitano siti straordinari, Patrimonio dell'umanità (il Parco Maloti-Drakensberg in Sudafrica e Lesotho, i Monti Matobo in Zimbabwe, Twyfelfontein in Namibia e Tsodilo in Botswana) e proprio nel Sud del continente sono avvenute grandi scoperte sulle origini del pensiero simbolico.

Ora, quella didascalia citata all'inizio, può ricordare un po' il post scriptum di Kurtz alla fine di Cuore di tenebra, quando Conrad ribalta la storia rivelandone il senso: perché L'arte della preistoria è un volume rigorosissimo, che lascia ben poco spazio alla poesia e alla speculazione, per concentrarsi soprattutto sulla mole impressionante di informazioni raccolte dagli archeologi, dal Messico all'Australia, dal Texas agli Urali, dal Sahara alla Spagna. E queste informazioni spesso smentiscono convinzioni consolidate, come avviene con la scoperta della grotta di Chauvet-Pont d'Arc, nell'Ardèche, nel 1994, le cui pitture risalgono a 32000-31000 anni fa: la pubblicazione di queste datazioni al radiocarbonio desta subito «grande scalpore: l'arte più antica fino ad allora conosciuta non rispondeva affatto ai presunti canoni dell'arte primitiva». Il libro poi ci racconta scoperte recenti, spiega dettagli tecnici e, soprattutto, ci porta a conoscere l'arte rupestre attraverso i suoi «centri», dall'Europa al Gobustan (in Azerbaigian), dall'Asia delle steppe all'India, dalla Cina all'Australia, dall'Africa australe al Sahara, fino alle Americhe.

In questo giro del mondo, smettiamo di correre e ammiriamo. Come nella nota, o nel post scriptum, c'è altro. Succede come in una delle Illuminazioni di Rimbaud: «Nel bosco c'è un uccello, il suo canto vi ferma e vi fa arrossire». Questo canto è dipinto sulla pietra, o inciso in essa, a volte in dimensioni cubitali, come nel caso del gigante di Atacama, 85 metri di uomo mascherato scolpito nel deserto del Cile. Nulla è casuale: è impressionante la precisione con cui queste opere venivano create, come dimostra il sito di Lower Pecos, in Texas (2700 a.C.- 600 d.C.), in cui le immagini si richiamano da una pietra all'altra e perfino la stesura dei colori segue un ordine preciso. Non solo. Esse ricordano le mitologie degli Aztechi e degli Huicholes del Messico: «Lo stile Pecos svolgeva la stessa funzione dei codici pittorici precolombiani: quella di comunicare, mediante un repertorio grafico molto specifico, concetti cosmogonici e mitologici complessi». Qui, sulle pareti a strapiombo che dividono il Messico dagli Stati Uniti, sono dipinte figure di uomini che paiono sculture di Giacometti, o clown di un circo della Belle-Époque. Il colore è il rosso, a volte intervallato al nero. Come nella maestosa Cueva de las Manos (10000-9000 anni fa), in Argentina, unica per la quantità e la varietà delle impronte di mani negative. Ma ci sono anche le policromie del Corno d'Africa, che ci proietta in avanti di qualche millennio: a Laas Geel, la Fonte dei cammelli, nel Somaliland, ventitré ripari rocciosi sono decorati da pitture stupefacenti di umani e animali, soprattutto vacche. Al realismo delle rappresentazioni si alternano le stilizzazioni, i simboli, il ruolo rituale. Ancora oggi, in India, nel Madhya Pradesh, dove si trovano gli spettacolari ripari di Bhimbetka, alcune popolazioni locali ritengono sacre le pitture rupestri, le rendono teatro dei loro riti e attribuiscono a esse dei poteri.

I primi artisti non erano solo speleologi senza paura: erano anche scalatori e navigatori, che lungo i fiumi hanno dipinto narrazioni sulle pareti scoscese. Come in Cina, a Huashan, nel Guangxi, dove lungo lo Zuojiang si possono ammirare oltre quattromila rappresentazioni per duecento chilometri; o in Brasile, lungo il Rio delle Amazzoni, dove le pitture percorrono il corso del fiume trasformando la natura in una trama; e a White Shaman, caverna sul fiume Pecos, in Texas, sulle cui pareti scorre una narrazione del ciclo dei giorni, delle stagioni e dell'inizio e della fine dei tempi.

Gli esemplari più antichi di arte realizzata dall'uomo pare risalgano a 80-75000 anni fa: conchiglie perforate, scoperte nel Maghreb, e certi blocchi di ocra incisi ritrovati nella grotta di Blombos, sulla costa sudafricana (dove l'ocra si utilizzava già centomila anni fa), insieme a gusci di uova di struzzo perforati come ornamento. Per un'immagine figurativa, invece, bisogna aspettare 31300 anni fa e le lastre di pietra ritrovate nella grotta Apollo 11, in Namibia: su una di esse, spezzata, c'è dipinto un essere metà animale e metà uomo. Anche l'arte rupestre più antica risale a 30mila anni fa. Aristotele diceva che la filosofia nasce dalla meraviglia e, beh, nell'Arte della preistoria di meraviglie ne sono racchiuse moltissime. La prima domanda che sorge da esse è: perché, cinquecento secoli dopo, queste mani e questi animali e queste figure stilizzate continuano a parlarci? E che cosa dicono di noi? Di certo esse sono una forma di linguaggio, anteriore in molti casi alla scrittura stessa: le immense teste stilizzate nel deserto dell'Australia occidentale, o gli elefanti e i rinoceronti incisi fra le sabbie libiche del Messak o gli enormi pilastri di Nawarla Gabarnmang, in Australia, ci raccontano di quando non ci siamo più accontentati di sopravvivere, come specie in mezzo alle altre specie, e siamo diventati qualcos'altro. Noi, che ci guardiamo indietro e ritroviamo, millenni dopo, un'altra commovente traccia lasciata dagli dèi.

I famosi «capasoni» di Grottaglie divenuti oggetti di culto. Omar Di Monopoli D'Alò su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Novembre 2022.

I«capasoni» più famosi sono quelli di Grottaglie, cittadina emblema della più raffinata arte figulina sin dai tempi della Magna Grecia. Anche se qui parliamo di manufatti poveri la cui lavorazione, più che ai veri e propri maestri «faenzari», la vulgata è solita ascrivere a quella fascia di ceramisti che proprio la tradizione grottagliese definisce caminari (se i primi si occupavano di plasmare l’argilla grezza del sottosuolo dandole forme ricercate ed eleganti, i secondi erano più semplicemente preposti alla fornace di bottega, i «camini» per l’appunto, quindi meno precisi e talentuosi, anche se una vexata quaestio ancora s’interroga circa la possibile radice dell’appellativo nella più nobile musa Camenae).

Recipienti di creta di capacità variabile - da pochi litri fino a 300 - perlopiù di color ocra in varie gradazioni, i «capasoni» devono il loro nome al vernacolare «capase» (cioè capace) ed erano utilizzati anticamente come contenitori di vino, olio extravergine d’oliva e acqua, per via della loro capacità di mantenere costante la temperatura al loro interno senza che il contenuto si alterasse. Simili ad altre anfore di terracotta della medesima famiglia, si distinguono facilmente dalle giare siciliane, che hanno una forma più tozza e più capiente, e dall’orcio ligure, che ha cromatismi simili sebbene più tenui; ma la differenza è marcata anche con gli orci toscani, il cui colore è più rossiccio, e da quelli umbri che sono generalmente più chiari e fusiformi.

Da fondamentale serbatoio di liquidi alimentari, con il passar del tempo e con l’evoluzione dei metodi di conservazione dei cibi, il «capasone» classico ha cambiato destinazione e funzionalità, restando ancora un importante componente ornamentale delle nostre cantine ma vissuto perlopiù in chiave nostalgica - chi oggi ne conserva ancora degli esemplari lo fa più per affetto che per reale comodità - per elevarsi invece nell’immaginario collettivo come un vero e proprio oggetto di alto design, in grado di arredare e decorare gli spazi domestici in modo esclusivo, una sorta di firma che rimarca la specificità geografica e culturale preservando una certa originalità rustica e richiamando il fascino irresistibile dei tempi antichi.

In commercio sono diffuse riproduzioni assai fedeli di «capasoni» d’altri tempi, spesso acquistabili a prezzi molto più alla portata degli originali, che pure sono ancora reperibili, soprattutto in centri d’eccellenza come Grottaglie. Molto utilizzati negli interni di ville o tenute di campagna, sono con maggiore facilità destinati a una collocazione esterna in virtù delle grandi dimensioni, ma oggi non è raro ritrovarli esposti in musei e gallerie d’arte: simbolo e rappresentazione plastica di un passato che non passa, e che la nostra regione ha saputo rendere - per usare un anglismo in voga - un brand di successo.

Silvia Stellacci per lastampa.it il 10 novembre 2022.

«Possa questo pettine debellare i pidocchi dai capelli e dalla barba». È una semplice preghiera contro i pidocchi la frase più antica mai scritta nell’alfabeto più antico del mondo – quello proto-sinaitico o proto-cananeo. 

Secondo lo studio pubblicato sul Jerusalem Journal of Archaeology, l’incisione comprende 17 lettere che formano 7 parole e compare su un oggetto di lusso, un pettine d’avorio a doppio bordo ritrovato nel sito archeologico di Lachish, la seconda città-stato cananea del secondo millennio a.C. più importante del regno di Giuda.

«L'iscrizione è molto umana», ha dichiarato il professor Yosef Garfinkel, archeologo dell'Università Ebraica di Gerusalemme, che ha contribuito a dirigere gli scavi. «C'è un pettine e sul pettine c'è il desiderio di distruggere i pidocchi sui capelli e sulla barba. Oggi abbiamo tutti questi spray, medicine moderne e veleni. In passato non c'erano». Una preoccupazione che toccava tanto i poveri quanto i ricchi, visto il materiale di cui è fatto il pettine. 

Il reperto, che misura 3,5 cm per 2,5 cm, è stato scoperto nel 2017, ma le incisioni sono state individuate solo nel dicembre dell’anno scorso. L'analisi dei segni ha confermato che si tratta di scrittura proto-cananea, il primo alfabeto inventato circa 3.800 anni fa, anche se i ricercatori ritengono che l’oggetto sia stato realizzato intorno al 1700 a.C..

Per quanto riguarda le sue condizioni, il pettine è usurato e ha perso i denti, ma i monconi rimasti mostrano che un tempo da un lato aveva sei denti distanziati tra loro per rimuovere i grovigli di capelli, mentre dall’altro erano presenti 14 denti per rimuovere i pidocchi e le uova. 

Un’ulteriore prova dello scopo per cui era utilizzato è arrivata quando i ricercatori lo hanno esaminato al microscopio e hanno identificato le membrane esterne degli stadi di ninfa dei pidocchi, lunghi mezzo millimetro.

«Il fatto che questa iscrizione riguardi la vita ordinaria è particolarmente affascinante», ha dichiarato al Guardian Christopher Rollston, professore di lingue semitiche nord-occidentali presso la George Washington University negli Stati Uniti. 

«Nel corso della storia umana i pidocchi sono stati un problema perenne. E questa iscrizione rivela bene che anche i ricchi e i famosi nell'antichità non erano esenti da questi problemi. Possiamo solo sperare che questo pettine inciso sia stato utile per fare ciò che dice di dover fare: debellare alcuni di questi fastidiosi insetti».

Estratto dell’articolo di Biagio Valerio per repubblica.it il 17 ottobre 2022.

Il bello e la bellezza, per i primi uomini, sono una clamorosa scoperta. La prima 'boutique' d'Europa, un vero e proprio atelier messo in piedi dai Sapiens, si trova sul mar Ionio. I gioielli sono conchiglie che, attraversate da un filo di crine, diventavano collane e bracciali. Probabilmente venivano anche dipinte con colori vivaci, perché su alcune di queste è stata ritrovata, dopo migliaia d'anni, una polvere rossa. Era ocra, pigmento naturale di ossido di ferro.

Un processo svelato dallo studio di un gruppo di ricercatori delle università di Siena e di Bologna intitolato "Retrodatazione della produzione sistematica di ornamenti in conchiglia in Europa a 45mila anni fa" che documenta la presenza, sul versante ionico salentino, a Nardò dove si trova la Grotta del Cavallo, di oltre 600 oggetti legati al decoro personale. In questo modo è stata spiegata la "prima percezione estetica" degli uomini moderni. Le conchiglie usate sono di diverso tipo, scafopodi, bivalvi e gasteropodi. Forati, in alcuni casi, per farci passare il filo. (…)

I reperti mostrano l'evidenza di una produzione locale di oggetti per scopi ornamentali, nonché una tendenza verso una maggiore omogeneità nel tempo, nella forma e nelle dimensioni. L'intervallo temporale degli strati di interesse lo rende il primo contesto di fabbricazione di ornamenti in conchiglia conosciuto in Europa. 

I gusci venivano usati per adornare il corpo dagli uomini giunti dall'Africa durante le prime migrazioni dei Sapiens. Indossare una collana, dunque, identificava uno status, non era solo una manifestazione di orgoglio e ostentazione ma uno dei primi segni di pensiero simbolico della specie umana. Il deposito archeologico rivela che la conchiglia era usata per motivi rituali o per migliorare il proprio aspetto estetico. Una "standardizzazione" che può semplificare il concetto in questo modo: c'era, in situ, una 'fabbrica' di oggetti di bellezza. Una gioielleria ante litteram. (…)

Da artslife.com il 5 ottobre 2022.

I resti di una statua raffigurante Ercole, risalente all’epoca romana, sono stati portati alla luce durante uno scavo in un sito archeologico in Grecia.

I resti, risalenti al II secolo d.C., sembrano ricondurre a una statua fuori scala. Dimensioni sovraumane per rappresentare il più grande eroe della storia antica: Ercole. 

Il sito degli scavi, dove la statua è stata ritrovata, è posto nei pressi dell’antica città di Filippi, situata nella regione settentrionale della Grecia. A riportarla alla luce i ricercatori dell’Università Aristotele di Salonicco (AuTH). Il team è stato guidato da Natalia Poulos, professoressa all’AuTH, insieme ai colleghi Anastasios Tantsis e Aristotele Menzos. Hanno partecipato anche 24 studenti.

Sono già iniziate le analisi e le ipotesi che il reperto può avere vissuto. I ricercatori ritengono che la figura originale, ancora intatta, fosse stata progettata con in mano vari oggetti: una corona di fiori, una pelle di leone, e un bastone. Tutti elementi tradizionalmente associati all’eroe greco-romano. Il bastone inoltre è stato trovato nel sito. 

Il gruppo ha poi ipotizzato che il manufatto sia stato utilizzato, per l’ultima volta, come elemento decorativo di un edificio risalente al tardo periodo bizantino, dunque circa nell’VII o IX secolo d.C. Si sospetta dunque che insieme a questo altri reperti potrebbero essere ritrovati.

Il Ministero della Cultura e dello Sport greco, che sovrintende ai progetti relativi al patrimonio culturale, ha infatti affermato che gli scavi proseguiranno il prossimo anno.

Rocco Auriemma per tech.everyeye.it il 4 ottobre 2022.

Nella celebre città egiziana di Saqqara, a sud del Cairo, è stato scoperto un sarcofago di 3.200 anni e realizzato in granito rosa. Esso apparteneva ad un importante funzionario amministrativo attivo durante il regno di Ramses II, secondo il Ministro del Turismo e dell’Antichità egiziane. 

Mustafa Waziri, sovrintendente del Consiglio supremo delle antichità egiziane, ha tradotto i geroglifici incisi sul sarcofago per capire che Ptah-M-Wia, questo era il nome del defunto, era un "segretario reale, capo sorvegliante del bestiame e capo del tesoro" presso il Tempio funerario di Ramses, a Tebe.

L’estrema rilevanza del suo ruolo si è dedotta dalla collocazione geografica della tomba: secondo Nevine El-Aref, la specifica zona di Saqqara dove è stato seppellito Ptah-M-Wia era di esclusività di importanti funzionari del Nuovo Regno. Non a caso, l’uomo condivideva lo stesso “cimitero” di figure di spicco, come il comandante militare Eurkhi e il sovrano Ptah-Mas. 

La tomba è stata scoperta l’anno scorso, ma solo ora gli archeologi sono riusciti ad ottenere dei risultati dallo studio del suo sarcofago. Ma non pensate che questo sia un “evento miracolistico”: solo a maggio di quest’anno, a Saqqara, sono stati rinvenuti 250 sarcofagi e 150 statue di bronzo. Gli studiosi hanno anche portato alla luce gatti mummificati e numerose opere d'arte.

Questi tesori aprono "una finestra su un periodo tardo nella storia dell'antico Egitto, quando Saqqara era al centro di una rinascita nazionale della cultura faraonica e attirava visitatori da tutto il mondo ", ha scritto Jo Marchant per la rivista Smithsonian l'anno scorso. “Il sito è pieno di contraddizioni, che intrecciano passato e futuro, spiritualità ed economia”. 

Saqqara era una vera e propria necropoli subordinata all’antica capitale del regno, Menfi. Dista circa 32 km dalla metropoli, le cui rovine oggi sono riconosciute come Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco.

Il faraone Ramses, che ebbe il secondo regno più lungo nella storia egiziana, è indubbiamente uno dei sovrani più influenti del Nuovo Regno. Durante i suoi sessant’anni al potere, sono state realizzate imponenti opere pubbliche, si è espansa la città di Menfi e sono stati rivalutati templi e monumenti tipici dell’Egitto.

Egli guidò il suo popolo durante la guerra contro gli Ittiti, nel XIII secolo a.C., assestando agli antenati turchi un’amara sconfitta nella battaglia di Kadesh, nel 1275.

Tutto questo per farvi capire che Ptah-M-Wia era un membro chiave del governo di uno dei faraoni più importanti e potenti di sempre.

 

Estratto dell'articolo di Laura Larcan per “Il Messaggero” il 19 settembre 2022.

«Probabilmente sono precipitate dall'alto, c'è stato un distacco diffuso e sono piovute in acqua». E lì sono rimaste per oltre duemila anni, ad una profondità di sette metri, risucchiate dagli strati di brecciolino che caratterizzano i fondali intorno all'isola di Ponza. 

È qui, in un fazzoletto di paradiso sommerso di dieci metri quadrati, […], che sono state intercettate una serie di lastre in terracotta romana, risalenti alla piena età di Augusto, forse quando ancora doveva divenire imperatore di Roma, tra il 50 a.C e la prima metà del I secolo d.C. […]

Sono stati i sommozzatori della Guardia di Finanza […] a recuperare questo tesoro in fondo al mare[…]. Sparse in questo cimitero di terracotte c'erano una decina di frammenti preziosi che hanno ricomposto perfettamente quattro grandi lastre.  «Appartengono all'apparato decorativo degli ornamenti architettonici della grande villa romana di Ponza […]», racconta il maggiore Vincenzo Capone delle Fiamme Gialle.

«[…]sono l'unica testimonianza della decorazione originale di questa villa che dobbiamo immaginare spettacolare - spiega l'archeologa della Soprintendenza responsabile del patrimonio subacqueo Chiara Del Pino - Era una villa marittima di grandi dimensioni con una scenografia che sfruttava gli elementi naturali del terreno del promontorio e aveva una serie di discese verso il mare […]». Ed è proprio dalla punta fastosa della villa sul promontorio che si sono staccate le lastre. Per precipitare in mare.

Chi poteva essere il proprietario? «Le lastre ci aiutano a datare finalmente con precisione la villa - dice Del Pino - siamo alla fine dell'età repubblicana e all'avvento di Augusto. E il loro sfarzo suggerisce che il proprietario fosse molto facoltoso, vicino alla famiglia di Augusto oppure di una famiglia illustre. Ci sono varie ipotesi». Fino ad oggi della villa si conoscevano solo alcune strutture murarie con cui gli archeologi avevano potute decifrare le tecniche costruttive.

Ora la svolta. «La tipologia del motivo decorativo della donna fiore restringe la villa ad una datazione precisa - riflette Del Pino - Ora dobbiamo analizzarle e studiarle nel dettaglio». Le operazioni di recupero delle Fiamme Gialle sono state provvidenziali. «Hanno evitato la sottrazione dei preziosi reperti, spesso depredati da soggetti non autorizzati, che ricavano ingenti profitti dalla vendita illegale a collezionisti senza scrupoli», sottolineano dal Comando. […]

Carlo Alberto Bucci per “la Repubblica” il 24 giugno 2022.

Da un lato Giove, Giunone e Minerva. Sulla parete opposta Anubi, Iside e, forse, Serapide. La Triade capitolina si confronta con tre divinità del pantheon egizio. In un ambiente carico di fascino sebbene le pitture a figura intera siano slavate come le matrone che scolorivano davanti agli occhi degli operai che avevano con la benna della metro scoperto e distrutto una domus (ma di Cinecittà) in Roma di Fellini. 

«Il sincretismo tra culti greci e orientali non è una novità, basti pensare a Giove Ammone. Ma in nessuna parte esiste una doppia triade romano- egizia come quella che fu trovata nell'Ottocento a dieci metri di profondità e in prossimità delle Terme di Caracalla » , spiega Mirella Serlorenzi, direttrice del monumento.

Soggiogati dalla bellezza delle rovine alte fino a 37 metri, ma scabre come montagne riarse dal sole, e impreziosite adesso dai bronzi in forma di albero dello scultore Giuseppe Penone, i visitatori delle terme pubbliche volute dai Severi, e i cittadini romani, hanno un nuovo motivo per entrare nel nuovo, raccolto ambiente creato apposta ( a circa a 50 metri dalla domus originaria) nel sito archeologico che Daniela Porro definisce «il fiore all'occhiello di questa Soprintendenza e della città» .

Perché è pittura di altissimo livello, fatta di colori rari e costosi ( « rosso cinabro e blu d'Egitto » , sottolinea l'archeologa Silvia Fortunati « significa che i padroni di casa erano facoltosi»). Colori stesi per coprire interamente gli ambienti e la vita di tutti i giorni di una domus dell'età di Adriano che venne distrutta sotto Caracalla per costruire i bagni più grandi e magnifici dell'Urbe, nel 216 dopo Cristo. 

Altra particolarità della dimora patrizia sepolta, i cui affreschi negli anni Settanta del secolo scorso sono stati strappati dal muro per salvarli dall'umidità e quindi ricollocati in un ambiente che riproduce fedelmente il sacello sacro della casa, « è che questa domus che sorgeva sul piccolo Aventino era inserita al piano terra di un'insula, come se ne trovano a Ostia ma non a Roma » , spiega l'archeologa Serlorenzi. Insomma, un appartamento di lusso in una palazzina di due piani.

« Oltre alla bellezza di queste pitture - sottolinea la soprintendente Porro - i visitatori potranno così cogliere un pezzo di storia e le trasformazioni della città antica » . E lo potranno capire grazie all'allestimento, agli apparati didattici, ai disegni e alle foto d'epoca ( lavoro di Alba Casaramona e Barbara Ciarrocchi della Soprintendenza) che ci mostrano com' era la " cappellina" sacra, il larario, della domus in cui si adorava il dio egizio con la testa di cane dipinto, nel 180 d.C., accanto a Giove e al resto della Triade capitolina.

Silvia Lambertucci per Ansa il 17 agosto 2022.

Pareti a grandi riquadri, dove il giallo dello zoccolo faceva da contrasto al rosso intenso e al nero della fascia centrale, le tinte unite intervallate da delicati decori di fiori e candelabri, le nicchie per le statue e forse persino l'altissimo soffitto illuminati da un azzurro intenso come un cielo d'agosto. 

Costruito agli albori del primo secolo d.C. quando su Roma regnava Augusto, il grande tempio romano di Cupra, nel Piceno, fu nella sua prima fase di vita riempito di colori e di immagini in terzo stile pompeiano, con le stesse cromie e gli stessi decori che all'epoca facevano bella mostra di sé nelle case più ricche di Roma e di Pompei. E' la scoperta, inaspettata e straordinaria -racconta in esclusiva all'ANSA l'archeologo Marco Giglio dell'Università di Napoli- che arriva dal sito archeologico marchigiano, dove una missione dell'Università Orientale, in collaborazione con la soprintendenza e con il comune di Cupra Marittima (che gestisce il Parco Archeologico) ha intrapreso una nuova campagna di ricerca. 

"I templi con l'interno della cella decorato da pitture sono rarissimi", fa notare Giglio, "fino ad oggi se ne conosceva uno solo in III stile, quello della Bona Dea a Ostia, dove però lo schema decorativo sembra essere molto più semplice, oltre al criptoportico del santuario di Urbis Salvia, sempre nelle Marche,  e al tempio romano di Nora, in Sardegna".

In quest'angolo delle Marche, non lontano dal mare e a poca distanza da dove gli etruschi nel VI sec. a C. avevano gestito con successo un santuario dedicato ai commerci, i romani, racconta accanto a lui il direttore scientifico dello scavo Fabrizio Pesando dell'Orientale di Napoli, si erano insediati intorno al I sec. a C., con un municipio poi promosso al rango di colonia. Abitata dalle famiglie degli eserciti di Marcantonio e Ottaviano e dai loro discendenti, Cupra , che aveva preso il suo nome proprio dalla divinità di quel tempio (per lo storico Strabone Cupra è un altro nome di Hera) era in quei decenni una cittadina fiorente, con un foro e il grande santuario di cui oggi resta purtroppo molto poco, ma che proprio gli scavi condotti dalla missione napoletana nelle scorse settimane hanno permesso in qualche modo di ricostruire.

Almeno nella sua forma e nelle due fasi della sua vita, sottolineano Giglio e Pesando. Perché più o meno cent'anni dopo la sua fondazione, intorno al primo quarto del II sec.d. C., il tempio rivelò gravi problemi statici che resero indispensabile un suo restauro radicale, quello che i latini indicavano appunto come "a fundamentis". Un intervento "impegnativo e costoso", spiegano gli archeologi, portato avanti con le stesse avanzate tecniche che erano state impiegate a Pompei dopo il terremoto del 62 d.C, quello che aveva preceduto di qualche anno la furia del Vesuvio. 

Per questo si ipotizza che a finanziare quei lavori, potrebbe essere stato lo stesso Adriano, che era nato in Spagna è vero, ma discendeva da una famiglia di Atri, sempre nel piceno, e che nel 127 d. C. si concesse un tour da quelle parti, fermandosi pure a Cupra. Fu in quell'occasione, ritengono oggi gli studiosi, che il tempio perse i suoi magnifici colori originari. Perché dovendo rinforzare i muri che contenevano la cella del santuario, anche le pareti vennero scalpellate e poi con tutta probabilità rivestite di marmo, come imponeva ormai la moda dell'impero. Il meraviglioso azzurro cielo, così come i gialli, i verdi, i rossi, che avevano illuminato quello spazio sacro, finiscono a terra in mille pezzi, che i costruttori romani, abituati a riciclare tutto, useranno come base per il nuovo pavimento.

Il tempio rinnovato diventa un esastilo corinzio, con le sei colonne del fronte che svettano per nove metri, ornate da ricchi capitelli. Ma si arricchisce anche di una serie di semicolonne in muratura, che vengono addossate alle pareti laterali, e di stupefacenti gocciolatoi a testa di leone, pure questi riportati alla luce dallo scavo di questi giorni. Una nuova meraviglia voluta proprio da Adriano, come sembra testimoniare un'iscrizione trovata anni addietro nella vicina Grottammare. Mentre in tutta la città fervevano cantieri e nascevano monumentali architetture, compresi i due possenti archi in laterizio, che ancora oggi affiancano il perimetro del tempio. Proprio davanti alla scalinata ancora oggi conservata del santuario, si innalzò il basamento per un monumento celebrativo, chissà, forse una statua del munifico imperatore. 

Peccato che nei secoli successivi - quando è ancora da capire - tutta questa bellezza viene smantellata, i preziosi marmi e le imponenti colonne vengono ridotte a calce da reimpiegare in altri edifici e persino i muri del tempio, a fine '800, vengono abbattuti per costruire un casale i cui resti diroccati ancora incombono sull'antica scalinata di quello che fu il santuario romano. 

"Il parco sta valutando se restaurarlo o rimuoverlo", riferisce Giglio. Tutti i nuovi reperti, intanto, sono stati portati nei laboratori di restauro dove verranno puliti e studiati. Gli scavi riprenderanno in primavera, questa volta concentrati sia sui due archi, sia sul lato posteriore del tempio, per fare luce sulla decorazione della sua seconda fase. A quasi duemila anni da quel viaggio dell'imperatore Adriano, anche la Cupra romana ritrova, a poco a poco, la sua storia e i suoi colori.

Se i tesori potessero parlare: recipiente in bronzo per conchiglie dell’antico Regno di Dian. Il supporto in bronzo con bufali e tigre era un’oggetto rituale, su cui venivano poste le oblazioni durante le cerimonie sacrificali. Cinitalia l'11 Agosto 2022 su Il Giornale.

Siamo davanti a una scena cruenta: una tigre sta mordendo con forza la coda di una bufala. Sebbene questa sia dotata di un paio di corna giganti sopporta pazientemente il dolore. Il combattimento tra i due animali è giunto a una fase di stallo. La bufala sa che probabilmente morirà, ma vuole proteggere il vitello innocente che ha sotto la pancia. Quella raffigurata è una preghiera rivolta alle divinità dei Dian, un antico popolo che nel periodo degli Stati Combattenti, abitava nella regione del lago Dian e del lago Fuxian, nell’odierna provincia dello Yunnan. Nei circa 500 anni tra il periodo degli Stati Combattenti e l’epoca dell’imperatore Wudi della dinastia Han, nei pressi del lago Dian sorgeva il Regno di Dian. Le testimonianze scritte su questo antico regno scomparso sono rarissime ma, grazie ai reperti bronzei riportati alla luce, è comunque possibile farsi un’idea generale di questo regno misterioso. Il supporto in bronzo con bufali e tigre era un’oggetto rituale, su cui venivano poste le oblazioni durante le cerimonie sacrificali.

Il significato

Questo oggetto sacro serviva per comunicare con le divinità ed era anche una rappresentazione della visione della vita e della morte della popolazione Dian: dalla morte vede la luce una nuova vita, la vita è un ciclo continuo. Questo bronzo è una lode alla vita, un desiderio di fecondità, un tributo alle forze soprannaturali. Centinaia di anni trascorsero in un batter d’occhi. Gli oggetti bronzei dell’antico Regno di Dian scesero dall’altare degli dei per avvicinarsi al mondo dei mortali. Su un recipiente in bronzo per conchiglie, fuso nel periodo della dinastia degli Han occidentali, ritroviamo la storia dei bufali e della tigre, ma questa volta l’esito del combattimento fu completamente diverso. Uno dei bufali ha trafitto una zampa posteriore della tigre con un corno, il bufalo ha l’aria agitata e l’aspetto feroce; l’altro bufalo è fermo e vigile vicino ai due animali che lottano. Un paio di scimmie e alcuni uccelli, spaventati, sono pronti a scappare.

Il recipiente di conchiglie è un utensile che si ritrova solo tra i bronzi dell’antico Regno di Dian. Re e nobililo usavano come contenitore di conchiglie marine e altri tesori. L’artigiano che fuse il “Recipiente in bronzo per conchiglie raffigurante un combattimento tra due bufali e una tigre” fu sicuramente un esploratore coraggioso della natura selvaggia; dev’essere stato un attento osservatore della dura legge della natura, prima di riproporla nel mondo reale. L’intrepido bufalo riuscì a mettere il feroce felino in una condizione senza scampo. Si tratta forse di una rappresentazione simbolica che descrive le gesta compiute dal possessore del recipiente, che riuscì probabilmente a sconfiggere forti nemici e ad espandere il suo prestigio.

Nel periodo della dinastia Han occidentale, sui recipienti in bronzo per conchiglie cominciano a comparire molte scene della vita quotidiana come sacrifici, guerre e battute di caccia, che non ci mostrano semplicemente come fosse la vita della gente comune a quei tempi, ma simboleggiano soprattutto il potere dei re e dei nobili. Col trascorrere dei secoli, i successori del Re dei Dian, un sovrano non molto coraggioso e che pregava spesso gli dei per ricevere benedizioni, divennero sovrani fieri e sicuri di sé stessi. L’antico Regno di Dian cadde in declino durante la dinastia degli Han orientali, con esso svanirono anche gli oggetti bronzei, ricoperti dalla polvere della storia. Ancora oggi, se camminando nelle campagne dello Yunnan si ha la fortuna di udire una melodia intonata da una minoranza etnica o di assistere a una loro danza tradizionale, è possibile percepire la loro vitalità spontanea e inalterata.

Fulvio Cerutti per lastampa.it il 6 Agosto 2022.   

Secondo la scienza la città più bella del mondo è Chester. Prima che andiate a cercarlo sui motori di ricerca, per quelli a cui un grosso punto interrogativo è comparso davanti agli occhi, Chester è una città dell'Inghilterra ed capoluogo della contea di Cheshire, non lontana dal confine con il Galles. 

 Di certo questo non basterà a rispondere alla domanda: “Ma perché è la più bella del mondo?”. E neanche sapere che a Chester si trova una delle cinte murarie meglio conservate nel Regno Unito può rispondere a questa domanda. E allora perché? Perché questa città di circa 120mila abitanti è al primo posto, davanti a Venezia e Londra?

La risposta sta in due parole: “rapporto aureo”. Ma che cosa è? Senza dilungarci troppo è un “parametro” che viene considerato come una sorta di barometro della bellezza e numericamente corrisponde al rapporto di 1:1,618. Quindi un edificio che si allinea con esso conterrebbe forme e strutture che, per ragioni che non possono essere realmente spiegate, portano le persone a considerarlo intrinsecamente bello.

Partendo da questo parametro, alcuni ricercatori hanno scansionato Google Street View alla ricerca di foto frontali di migliaia di edifici "iconici" e strade fiancheggiate da case di città di tutto il mondo, prima di tracciare punti agli angoli di ogni edificio per calcolare la "proporzione delle lunghezze più lunghe e più corte delle sue dimensioni" . Tali proporzioni sono state quindi confrontate con il rapporto aureo (1:1,618) per vedere come si abbinavano.

Sulla base di queste analisi è stata stilata la classifica delle città più belle del mondo “secondo la scienza”: Chester si è così classificata al primo posto con la più alta percentuale di edifici - 83,7 per cento - che si allineano con il "rapporto aureo". Al secondo posto Venezia con l’83,3 per cento, chiude il podio Londra con 82,9 per cento.

Roma si è classificata solo quinta (82 per cento) dietro a Belfast (la capitale dell’Irlanda del nord ha l’82,9 per cento). Il resto della top 10 è composto da Barcellona (sesto, 81,9%), Liverpool (settimo, 81%), Durham (ottavo, 80,5%), Bristol (nono, 80%) e Oxford (10°, 79,7%).

ALLEVAMENTO DI OSTRICHE SCOPERTO ALLA VILLA ROMANA DI LIO PICCOLO VENEZIA.

Da blitzquotidiano.it il 6 Agosto 2022.    

Venezia, le ostriche dei romani: eccezionale scoperta in Laguna. Archeologi subacquei hanno trovato un allevamento di ostriche del primo e secondo secolo d.C. collegato alla “Villa romana di Lio Piccolo”, nel comune di Cavallino-Treporti, dotato di piscine per l’acquacoltura. 

Venezia, le ostriche dei romani: eccezionale scoperta in Laguna

E’ l’ipotesi preliminare su cui sta lavorando il team interdisciplinare. Le indagini sono state dirette da Carlo Beltrame, professore associato di archeologia marittima del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università Ca’ Foscari Venezia con la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Venezia e Laguna.

La prima campagna si era svolta un anno fa e aveva permesso di mettere in luce alcune strutture murarie e palificate segnalate a poche decine di metri dall’argine di Lio Piccolo. 

Il fondale della vasca in mattoni sesquipedali

Il fondale conserva una vasca in mattoni sesquipedali di forma rettangolare databile, anche sulla base di analisi al radiocarbonio, al primo e secondo secolo d.C. In età romana, la struttura era sommersa e serviva per la conservazione, forse poco prima della consumazione, di ostriche. Questi molluschi si sono infatti eccezionalmente conservati sul fondo della vasca.

La presenza di un gargame in legno, che doveva suddividere lo spazio per mezzo di una saracinesca, fa pensare peraltro che questa non fosse l’unica specie ospitata nella vasca. Gli studiosi hanno rinvenuto delle strutture fondazionali ad una profondità minore rispetto al livello del medio mare. 

Si tratta di fitte palificate infisse su un fondale argilloso compatto che sostenevano dei camminamenti in mattoni rivestiti di cocciopesto. Numerosi resti di affreschi di pregio, in corso di analisi e di mosaici bianchi e neri completano il quadro.

Abbiamo scoperto la vera data dell’eruzione di Pompei. LUIGI BIGNAMI, divulgatore, su Il Domani il 31 luglio 2022

A quasi 2mila anni dall’episodio che distrusse gran parte del territorio e delle città circostanti, un gruppo internazionale di ricercatori ha analizzato nuovamente l’evento.

L’eruzione sarebbe dunque avvenuta nell’autunno del 79 d.C., e non il 24 agosto come si è ipotizzato in passato.

Un piccolo gruppo di ricercatori italiani, francesi e statunitensi ha scoperto che la maggior parte delle foreste nel mondo sta diventando meno resiliente ai cambiamenti ambientali.

LUIGI BIGNAMI, divulgatore. Giornalista scientifico italiano, laureato in scienze della terra a Milano

Emanuela Minucci per lastampa.it il 2 agosto 2022.

Pompei a portata di divano. Sembra un sogno ma da oggi basterà uno smartphone per visitare il parco archeologico. C’è voluto parecchio tempo, ma gli archivi digitali di «Open Pompeii» (un immenso patrimonio di dati raccolti in decenni) da oggi saranno alla portata di tutti con un click, per consultazione, studio e approfondimento. Un archivio di vetro trasparente, disponibile e accessibile a tutti, non solo a studiosi e con possibilità di interagire e integrare informazioni utili.

E' una «rivoluzione» nella consultazione dei dati sul patrimonio archeologico del Parco, nell'ottica della massima accessibilità e interattività nella ricerca e nella fruizione, spiega una nota. Disponibili on line dati, informazioni, immagini e video su ciascuna struttura archeologica, case e edifici, reperti, affreschi presenti o distaccati, con indicazione della loro provenienza e attuale dislocazione, ad esempio in un museo o in deposito, con connessa bibliografia e possibilità di incrociare dati. Un passo avanti nella ricerca, a disposizione di visitatori, studiosi, operatori turistici, guide o anche semplicemente appassionati, che potranno accedere al sistema da qualsiasi dispositivo. Il sistema sarà anche accessibile attraverso l'App My Pompeii.

«Un'operazione che si può definire radicale e coraggiosa e che si inserisce nello sforzo più ampio del Ministero della Cultura - sottolinea il direttore del Parco archeologico Gabriel Zuchtriegel - Attraverso il Piano nazionale di digitalizzazione del patrimonio culturale dell'Istituto centrale per la digitalizzazione del patrimonio culturale - Digital Library, il Ministero sta attuando un processo di trasformazione digitale, di tutti i luoghi della cultura statali che possiedono, tutelano, gestiscono e valorizzano i Beni Culturali, nell'ottica oltre che della piena accessibilità anche del miglioramento della tutela e della conoscenza del patrimonio. Con Open Pompeii raggiungiamo un importante traguardo in questo ambito, ma non è assolutamente un punto d'arrivo: la digitalizzazione continuerà anche nei prossimi anni e proprio per questo il feedback degli stessi utenti sarà preziosissimo».

La consultazione delle informazioni è basata su un'interfaccia semplice e intuitiva che, mediante una mappa, permette all'utente di interagire con il sistema e visualizzare i vari livelli informativi, navigando tra regioni, insule, unità catastali e vani. Utilizzando il motore di ricerca integrato, è possibile ricercare le informazioni desiderate circa unità catastali o reperti archeologici. La banca dati che alimenta il sistema informativo Open Pompeii è frutto di un'aggregazione di dati provenienti dai principali sistemi gestionali in uso a Pompei.

ANTONIO EMANUELE PIEDIMONTE per la Stampa il 7 agosto 2022.

Come in un film fantasy, si apre un armadio e si viaggia nel tempo. È la magia dell'antica Pompei, la città-scrigno che dal 1748, l'anno dei primi scavi, continua a regalare emozioni archeologiche. Ieri un'altra sorpresa: dalla coperta vulcanica che il Vesuvio distese nel lontano 79 sono emerse nuove, vivide testimonianze che stavolta non riguardano né i raffinati proprietari delle ricche domus né il mondo guerriero dei gladiatori o quello dei servi e degli schiavi. 

Da una dimora posta a ridosso del sontuoso Larario (ambiente adibito al culto dei Lari) scoperto nel 2018, infatti, è emersa un inedito scorcio della vita del ceto-medio basso, la «piccola borghesia» della colonia romana, famosa per i suoi commerci, compresi quelli carnali, e per il suo tragico destino.

Un evento inaspettato anche per chi scava da tempo all'ombra (si fa per dire) del vulcano campano, a cominciare dall'uomo che sovraintende a tutto, il responsabile del Parco archeologico, Gabriel Zuchtriegel, che, sebbene alle prese con un altro mistero archeologico sulle montagne del Cilento (l'Antece), ha accettato di raccontare quest' incredibile scoperta. 

Direttore, Pompei non smette di meravigliare il mondo e, mi pare, nemmeno lei.

«Guardi, non ci aspettavamo proprio che dietro le splendide pitture del cortile scavato quattro anni fa da Massimo Osanna (suo predecessore e attuale direttore generale dei Musei del ministero dei Beni Culturali, ndr) venisse fuori un ambiente così lontano da quello del ricco Larario con i suoi spettacolari affreschi (il giardino incantato, ndr)». 

Uno spazio povero?

«Direi semplice. Modesto, ma non privo di dignità. E molto interessante». 

Che cosa avete trovato?

«Spazi disposti su due livelli collegati da una scala di legno, in tutto cinque stanze intonacate ma senza traccia di pittura. Con i servizi, una cucina e una latrina. Inoltre, un baule aperto, con la serratura che si è conservata, che dà l'idea della fuga improvvisa. E poi un letto, simile a quello trovati nella villa di Civita Giuliana, che potremmo dire modello Ikea». 

Smontabile?

«Essenziale, con un telaio con pochi elementi. Naturalmente è stato possibile far emergere tutto grazie ai calchi con gesso dentistico (come è stato fatto nella "stanza degli schiavi", ndr); così precisi da restituirci la traccia di un fascio di documenti tenuti insieme dallo spago e dal sigillo di ceralacca».

Un calco considerato un unicum, anche per la presenza di un mobile che ha suscitato le maggiori suggestioni.

«Sì, in una delle stanze abbiamo trovato un armadio ligneo con almeno quattro ante, alto circa due metri e con cinque ripiani. Forse lo stavano svuotando negli ultimi momenti: c'erano ancora una lucerna, una ciotola di ceramica, un lembo di tessuto, dei piattini di vetro, un bruciaprofumi decorato. Si distingue la struttura, comprese le mensole e le ante con il meccanismo per farle ruotare. Più in là, un cuscino rimasto sul letto, le travi collassate sui mobili. Tutto bloccato nell'attimo della catastrofe e recuperato grazie allo scavo stratigrafico». 

Dottor Zuchtriegel, dove ci conduce quest' armadio, chi abitava queste stanze?

«I mobili sono di estrema semplicità. Non conosciamo gli abitanti della casa ma sappiamo che anche a Pompei il ceto medio-basso abitava, magari in affitto, a pochi passi dalle classi più benestanti. Quasi a simboleggiare la promessa, la speranza di fare il salto e raggiungere uno status sociale più alto. E forse anche un modo per esorcizzare i pericoli a cui a cui erano esposti: le crisi economiche scatenate da guerre, carestie, epidemie». 

Che significa ceto medio nella Pompei di 2 mila anni fa?

«Principalmente piccoli commercianti, artigiani, lavoratori di modeste condizioni economiche, che a volte erano cittadini liberi e a volte potevano essere liberti, ex schiavi. Gli oggetti nelle stanze ci dicono che era un nucleo sospeso tra l'ambizione di salire più in alto e la paura di cadere perché più vulnerabili». 

Quanto si può considerare rilevante questa scoperta per la storia di Pompei?

«Molto. Ci aiuterà a farci un'idea anche su altri contesti, ad avere un quadro generale sugli abitanti della città, il numero, la loro distribuzione territoriale, le dinamiche». Quando i visitatori potranno vedere l'armadio del tempo e tutto il resto? «Il percorso è quello di sempre: ricerca, tutela, fruizione. Appena finisce la prima fase, partirà la seconda, la progettazione per renderlo agibile al pubblico e ben protetto. Pensavo a una soluzione come quella usata per il Termopolio (un vetro di protezione, ndr), ma il momento non è dei migliori». 

In che senso?

«La crisi della guerra ci crea problemi nel reperimento dei materiali necessari alle strutture di protezione. Abbiamo difficoltà nell'approvvigionamento di acciaio, legno e altri materiali». 

In compenso il dopo-Covid fa registrare buoni numeri per il Parco archeologico.

«Stiamo recuperando, i flussi sono in crescita e la risposta è buona. Abbiamo punte di 15mila visitatori al giorno. Mancano ancora all'appello le scuole e i turisti asiatici, cinesi, giapponesi, coreani e, ovviamente, russi».

Ci lasciamo con un'anticipazione?

«Volentieri. Ad agosto e settembre tornano le aperture serali degli Scavi e ci sarà un appuntamento-evento. In autunno riapriremo la celeberrima Casa dei Vettii, che non a caso molti considerano la più bella domus di Pompei».

Gimmo Cuomo e Chiara Marasca per il Corriere della Sera il 6 Agosto 2022.   

Un armadio di legno rimasto chiuso per duemila anni con tutto il suo corredo di stoviglie. E poi un letto, un tavolino, un baule svuotato e lasciato aperto nella fretta degli ultimi istanti. Nuova scoperta a Pompei, dove dagli Scavi emergono altri particolari di quella che si rivela come una casa del ceto medio, cinque piccole stanze più bagno e cucina affacciate però su uno splendido giardino dipinto. 

Mobili modesti insieme a oggetti più preziosi. «Una realtà diffusa e poco raccontata», dice il direttore Zuchtriegel. La casa si trova nell’area nord nella cosiddetta Regio V, uno dei grandi quartieri della città antica, già interessata da scavi nel 2018, nell’ambito del più ampio intervento di manutenzione e messa in sicurezza dei fronti di scavo lungo il perimetro dell’area non scavata della città, previsto dal Grande Progetto Pompei.

Il Larario decorato

In quest’area, con accesso dal vicolo di Lucrezio Frontone, nel 2018 emerse un lussuoso larario riccamente decorato, sul quale affaccia anche la Domus recentemente scoperta. Si tratta di un ambiente adibito al culto, che presentava su una parete una nicchia sacra ai «Lari», numi tutelari della casa e al di sotto due grandi serpenti «agatodemoni» (demone buono), simbolo di prosperità e buon auspicio.

La Domus

«Nell’impero romano», spiega il direttore del Parco archeologico, Gabriel Zuchtriegel, «c’era un’ampia fetta della popolazione che lottava per il proprio status sociale e per cui il “pane quotidiano” era tutt’altro che scontato. «Un ceto vulnerabile durante crisi politiche e carestie, ma anche ambizioso di salire sulla scala sociale. Nella casa del Larario a Pompei, si riuscì a far adornare il cortile con il larario e con la vasca per la cisterna con pitture eccezionali, ma evidentemente i mezzi non bastavano per decorare le cinque stanze della casa, una delle quali fungeva da deposito.

Nelle altre stanze, due al piano superiore e raggiungibili tramite un soppalco, abbiamo trovato un misto di oggetti, alcuni di materiali preziosi come il bronzo e il vetro, altri di uso quotidiano. I mobili di legno di cui è stato possibile eseguire dei calchi sono di estrema semplicità. Non conosciamo gli abitanti della casa ma sicuramente la cultura dell’ozio a cui si ispira la meravigliosa decorazione del cortile per loro era più un futuro che sognavano che una realtà vissuta», ha aggiunto. 

Franceschini: Pompei non finisce di stupire

«Pompei davvero non finisce di stupire ed è una bellissima storia di riscatto», commenta il ministro della cultura Dario Franceschini. «È la dimostrazione- sottolinea il ministro- che quando in Italia si lavora in squadra, si investe sui giovani, sulla ricerca e sull'innovazione si raggiungono risultati straordinari». Per il dg musei Osanna la nuova scoperta è «la prova che è importante continuare scavare».

Marisa Ranieri Panetta per “L’Espresso” il 30 luglio 2022.

L’affascinante viaggio nell'antico continua. Le case di Pompei che stanno per aprirsi al pubblico, dopo lunghe chiusure e restauri, ampliano le nostre conoscenze su usi, arte e gusti della vita quotidiana: volti, paesaggi, minute descrizioni che si rincorrono sulle pareti di domus aristocratiche. 

Entro l'estate, come anticipa L'Espresso, sarà accessibile la casa delle "Nozze d'argento", scoperta nel 1893 e così denominata per l'anniversario in quell'anno dei reali d'Italia Umberto e Margherita di Savoia. Molte abitazioni infatti prendono il nome da ricorrenze, visite illustri, ritrovamenti particolari; a volte, in occasione della presenza di un sovrano o di un personaggio altolocato, come il pontefice Pio IX, si faceva finta di trovare reperti già venuti alla luce, che venivano poi offerti in regalo.

La domus di cui parliamo, risalente nella prima fase al II sec. a.C., è un esempio di come si presentavano le case delle nobili famiglie pompeiane prima che la città diventasse municipio romano. La maestosità dell'atrio, come una cattedrale, con le alte colonne in tufo disposte agli angoli della vasca centrale, suggerisce l'importanza sociale anche dell'ultimo proprietario Albucio Celso, candidato all'edilità tra il 76 e il 79 d. C. Una tenda, rivelata da un disco di bronzo con rostro, lo separava dal tablino, dove il padrone di casa riceveva clienti, scriveva lettere, conservava documenti.

Subito dietro, si apre un giardino porticato e, sulla destra, si trova la cucina con un gabinetto adiacente: una rarità, quest' ultimo servizio, manca pure in domus lussuose e ampie. Dopo la cucina, ecco un altro giardino, che esibiva tre statuine smaltate di animali a tema egizio, ora al Museo nazionale di Napoli insieme al mosaico dell'ingresso, dove è raffigurata una città turrita con il porto e il faro. 

Nel corso della sua storia, la casa aveva subito vari rifacimenti, assicurando sempre un'esistenza più che confortevole: fontane ovunque, un bagno fornito di acqua calda, vasche all'aperto, ambienti piccoli e grandi dalle decorazioni accurate.

Un'altra particolarità contraddistingue l'edificio, finora non evidenziato: sulla sinistra dell'atrio, esisteva un orto. Non tutte le zone destinate al verde erano adibite ad accogliere piante fiorite, statue e fontane, per il godimento dei proprietari e come status symbol da ostentare agli ospiti; già sono stati identificati alberi da frutto, vigneti e piante di ulivo sparsi in città.  Ma ci sono molte zone destinate a coltivazioni, non indagate o abbandonate.

Gabriel Zuchgrietel, direttore del Parco archeologico, vuole andare avanti in questa ricerca, con un progetto che riguarda anche Stabia e Oplontis, perché «da un censimento effettuato, le zone agricole a ridosso delle mura e negli abitati sono circa cento ettari: un patrimonio che deve essere riscoperto, reintegrato con le coltivazioni originarie». 

E riferisce in anteprima a L'Espresso: «Sta per partire un bando per coinvolgere partner privati nella produzione del vino e di altri alimenti, così come avveniva in antico. Si tratta di un nuovo approccio di conoscenza, all'interno di una visione articolata del Parco: storia, arte, alimentazione e paesaggio, in grado di restituirci nel suo complesso la vita reale degli ultimi abitanti. Nello stesso tempo, si potranno generare sviluppo e occupazione attraverso la valorizzazione dei prodotti».

Sono state già riaperte altre dimore, ma in autunno si conosceranno domus pregiate e un intero isolato (2300 mq), lungo la centrale via dell'Abbondanza, che comprende botteghe, giardini, e due case principali. Quella dei "Casti Amanti" a più livelli, dà il nome ai fabbricati e si riferisce a una pittura murale che raffigura un banchetto con una coppia che si scambia un bacio non volgare.

Decora il triclinio del quartiere residenziale e inneggia a incontri conviviali innaffiati dal vino, ribaditi in altre scene con comportamenti diversi. Entrando, si incontra prima un grande panificio, che costituiva la notevole risorsa economica del proprietario. Si vedono il forno, le mole per macinare il grano e gli scheletri dei muli che le azionavano. Erano sette; evidentemente, utilizzati anche per il trasporto del pane.

L'altra abitazione, dei "Pittori al lavoro", documenta invece un cantiere in piena attività, rivelando in un salone le suddivisioni dei compiti. Pompei continuava a subire terremoti e ovunque c'erano operai per riparare tubazioni, rinforzare murature, ripristinare affreschi. Qui, era stata portata a termine una bella decorazione di soffitti (crollati in migliaia di pezzi, li stanno ricomponendo), ma c'erano tante pareti da risistemare. Appena si è scatenata l'eruzione, i pittori hanno abbandonato la casa, lasciando disegni preparatori, figure in attesa del collante finale, coppette con i pigmenti da polverizzare. Nessuno si aspettava quel cataclisma; sul focolare della Casa dei Casti amanti stavano arrostendo un volatile e un piccolo cinghiale.

L'isolato si presenterà alle visite con una novità assoluta per Pompei: una copertura in pannelli di alluminio con lucernai in vetro stratificato e l'installazione di una passerella sospesa in acciaio che consentirà di conoscere dall'alto tutti gli ambienti. 

Archeologi, tecnici e restauratori sono impegnati anche nella domus dei Vettii, una delle più note, aperta in passato per poco tempo e non interamente. Apparteneva ai fratelli Conviva e Restituto, ricchi liberti nell'ultimo periodo di vita della città, che avevano fatto fortuna con attività mercantili e agricole. Come simbolo beneaugurante di prosperità, nell'ingresso avevano raffigurato il dio Priapo, che poggia il suo enorme membro sul piatto di una bilancia, mentre sull'altro è posta una borsa piena di monete.

Dall'augurio alla reale sostanza economica: nell'atrio, centro focale della casa, si notavano subito due "arche" sostenute da basamenti in muratura: bauli come casseforti, serrati da chiodi e ornamenti bronzei, per salvaguardare i beni preziosi della famiglia. 

In asse con l'entrata, visibile dalla strada col portone aperto, si allungava il giardino circondato da portici che traboccava di tavoli, piante e zampilli d'acqua provenienti da tante statue di marmo e di bronzo.

La ricca borghesia pompeiana seguiva, nella decorazione delle proprie dimore, la moda che si diffondeva a Roma; appaiono così le pitture con motivi fantastici, protagoniste della Domus Aurea neroniana ("grottesche"), che occupano tutto il campo lasciato libero dai grandi quadri sulle pareti. Le pitture murali a Pompei, come altrove, erano la seconda pelle dell'abitazione e ne costituivano l'arredamento vero e proprio. I mobili erano pochi ed essenziali, le stanze da letto piccole, ma le pareti erano dipinte a vivaci colori; quando lo spazio era ridotto, affreschi illusori ampliavano i volumi con architetture e paesaggi.

A caratterizzare le sale che si affacciano sul giardino dei Vettii sono racconti di episodi mitologici dal contenuto moralistico, come il Supplizio di Dirce, cattiva matrigna; il re Issione, punito da Giove perché si era invaghito di Era; Pasifae, la moglie del re cretese Minosse, invaghita di un toro, col quale aveva generato il Minotauro. Più che storie a lieto fine, erano gli amori infelici, gli atti di empietà, a ispirare tragediografi, poeti, artisti: esemplari per indicare il limite tra umano e divino da rispettare.

E Conviva, che ricopriva una carica sacerdotale, si adeguava all'intento didascalico. Gli affreschi più celebrati della casa appartengono al triclinio posto al centro del portico settentrionale, e non si tratta di ampie partiture, bensì di un fregio a sfondo nero che corre nella parte inferiore delle pareti. In sequenza, sfilano scenette che, con grande abilità e grazia, rimandano ad attività quotidiane.

Ad interpretare orafi, profumieri, lavandai, fabbri, sono deliziosi amorini in compagnia di psychae, il loro corrispondente femminile, e ogni singolo racconto lascia incantati. I visitatori degli scavi hanno intanto un'altra occasione per comprendere il vissuto del sito: la mostra "Arte e sensualità nelle case di Pompei", allestita nella Palestra Grande, di fronte all'anfiteatro (a cura di Gabriel Zuchtriegel e Maria Luisa Catoni, fino al 15 gennaio 2023). 

L'arte e l'immaginazione si fondono nelle settanta opere esposte, provenienti dai depositi del Parco archeologico, e rimandano a comportamenti privi di inibizioni. I quadretti dipinti, le statue, gli oggetti quotidiani che raffigurano amplessi, o alludono ad incontri amorosi, non facevano parte soltanto della quotidianità di Pompei; ma furono gli scavi dell'area vesuviana a svelare una realtà lontana da come appariva il mondo classico, lasciando stupiti i primi scopritori.

Nell'esposizione sono presenti anche ritrovamenti recenti, come i due medaglioni con raffigurazioni erotiche del carro cerimoniale di Civita Giuliana, e viene spiegato il contesto di riferimento per ogni opera, e il loro significato. Con l'app My Pompeii, è anche possibile rintracciare gli edifici che si riferiscono al tema della mostra. Un racconto intrigante, per una corretta comprensione storica.  

Laura Larcan per “il Messaggero” il 28 maggio 2022.  

Il rosso cinabro gioca con il blu egizio e il viola. Sfondi preziosi per figurine d'ispirazione dionisiaca. Gli amorini a cavallo di antilopi e caproni, e maschere di satiri e sileni che animano il corteo di Bacco. Occhi all'insù, a scoprire una decorazione straordinaria che corre per oltre sei metri e restituisce una porzione di volta di quello che in origine era un triclinio, la sala per banchetti, di quasi 1900 anni fa. Sono le pitture che echeggiano i fasti e il lusso sfrenato di quella che viene considerata la Domus segreta delle Terme di Caracalla a Roma.

Un tesoro intercettato a otto metri di profondità alla metà dell'Ottocento sotto un'area delle Terme imperiali, riscavata negli anni 70 del Novecento, ma rimasta sconosciuta: alcune porzioni decorative (staccate e protette) chiuse nei depositi del Palatino, come il triclinio; altri affreschi di pareti e volte rimontati per ricreare l'originario sacello (la stanza domestica dedicata ai culti) in un ambiente delle Terme stesse, rimasto però chiuso da oltre trent' anni. Ora, dopo un lungo restauro, fervono i lavori per riportare tutto alla luce, con un nuovo allestimento nella palestra orientale delle Terme, che aprirà al pubblico il 23 giugno.

Il cantiere è uno spettacolo. C'è voluto un lavoro certosino su reperti chiusi in cento casse arrivate dal Palatino condotto dall'archeologa Silvia Fortunati, insieme al team di specialisti guidati da Mirella Serlorenzi, responsabile del sito. «Durante l'attuale restauro è emerso con maggiore chiarezza l'alto livello della decorazione di questa domus lussuosissima», racconta la Serlorenzi. Lampade alla mano, ecco che dalla penombra si svelano pareti monumentali di colori e scene avvolte dal mito. Subito compare una parte della volta di un triclinio di grandi dimensioni, sette metri per otto, lussuosamente decorato.

«Una decorazione molto particolare che da un punto di vista architettonico è molto rara», precisa l'archeologa. Dobbiamo fare uno sforzo di immaginazione. La bellezza di queste pitture evoca la storia di un quartiere urbano di età adrianea, della prima metà del II secolo d.C., quando domus raffinate sfilavano a ridosso del tratto urbano dell'Appia Antica. E questa era una domus incastonata in un'insula (una palazzina a più piani) sullo stile delle abitazioni di Ostia Antica. Il terrapieno delle Terme imperiali (nel 206 d.C.) ha tagliato di netto la Domus dal primo piano in su.

Una ipotesi di proprietario? «Purtroppo non sono state rinvenute iscrizioni che indichino a chi fosse appartenuto l'edificio - commenta Mirella Serlorenzi - Tuttavia la particolare struttura, con una domus signorile al piano terra e appartamenti ai piani superiori, che per Roma è un unicum, fanno pensare ad un mercante facoltosissimo. E nulla esclude che potesse far parte dell'aristocrazia romana». Dal triclinio si passa al larario, il sacello sacro domestico.

Un ambiente impressionante, che conserva ancora gli angolini delle imposte della volta a crociera. «Qui abbiamo individuato due strati di affreschi sovrapposti, collegati a due fasi decorative - spiega Silvia Fortunati - Il primo è tipico dell'arte di età adrianea, con lo spazio diviso in geometrie verticali e orizzontali, con all'interno raffinate raffigurazioni di genere». Figure deliziose di uccellini e cervi accanto a vasi, filari di scudi dipinti in prospettiva illusionistica, fiaccole. «Cinquant' anni più tardi, ecco il secondo strato con un tipo di pittura molto rara che definiamo delle megalografie», sottolinea Fortunati.

E qui spicca il vero coup de théâtre: le une di fronte alle altre, le divinità del pantheon romano, Giove, Minerva e Giunone, ma anche orientali. Come Iside raffigurata con il nodo lunare in testa e fiaccola e spighe nelle mani. E Anubi, dalla testa di cane. «Il tutto - riflette Mirella Serlorenzi - ci restituisce un luogo di culto simbolo di un sincretismo religioso, che rendeva l'antica Roma unica».

Dalle strutture titaniche delle Terme di Caracalla, ad una dimensione domestica fatta di lusso e colore. «Questa domus era rimasta chiusa per troppo tempo - annuncia la soprintendente Daniela Porro - La raffinatezza degli affreschi mostra lo splendore dell'età adrianea, apogeo dell'impero. Le Terme di Caracalla così ampliano il loro percorso di visita, offrendo la suggestione anche di quello che c'era prima che venisse costruito agli inizi del III secolo dopo Cristo».

Laura Larcan per "il Messaggero" il 30 luglio 2022.

L'ultimo segreto di Villa Ada sta nascosto nelle fitte trame della boscaglia, sulla cresta del versante che affaccia verso via Anna Magnani e la Moschea. Non altro che uno dei colli più remoti e selvaggi, del tutto estraneo ai flussi del pubblico. È qui che si può intercettare uno spettrale rudere monumentale, una torretta in muratura a pianta esagonale. 

Una struttura enigmatica, avvolta da quell'impietoso strato di abbandono che ne ha oscurato ogni pregio. Stava lì, dimenticata, nell'oblio del tempo, toccata solo dalla mano di qualche vandalo inconsapevole e irrispettoso. Come spesso accade ai tanti gioielli di Villa Ada.

Per fare luce su questa torretta di cui s'era persa memoria c'è voluto un lungo lavoro di indagine tra carta d'archivio, libri di storia, mappature del terreno. 

IL TEAM L'Osservatorio Sherwood ha mobilitato un piccolo team di ricercatori, composto dall'ingegnere Romano Moscatelli di Sotterranei di Roma e dal naturalista Flavio Tarquini dell'Orto Botanico di Roma, struttura d'eccellenza de La Sapienza. A poco a poco si è svelato così il segreto del Roccolo del Re.

Per capirne la storia bisogna andare indietro nel tempo fino al primo sovrano d'Italia, Vittorio Emanuele II che «per la sua leggendaria passione venatoria si era guadagnato l'appellativo di Re cacciatore», racconta Lorenzo Grassi che ha coordinato l'impresa storica. 

«Nel 1872, dopo la presa di Roma e il trasferimento della corte Savoia nella nuova Capitale - continua Grassi - il Re aveva acquistato diverse proprietà sulla via Salaria per formare una tenuta di 200 ettari, ricca di animali selvatici, dove poter continuare a praticare il suo passatempo preferito. Tra i lavori della nascente Villa Savoia il sovrano ordinò la realizzazione di alcuni laghetti per favorire la presenza di selvaggina».

Ed è proprio nella parte nord-occidentale della villa che intorno al 1875 circa sorse l'originale struttura venatoria ad opera dell'Ufficio del Gran Cacciatore di Sua Maestà. 

LA TECNICA VENATORIA «Quella del Roccolo era una pratica di caccia con postazione e reti che veniva usata per catturare uccelli migratori vivi», sottolinea Grassi. L'équipe di studiosi è riuscita a ricostruire nel dettaglio tutta la struttura, un esempio raffinatissimo di architettura vegetale, formata da costruzioni artificiali ed elementi naturali. 

Strategico è stato il lavoro incrociato con autobiografie e libri storici, come quello di Enrico d'Assia, nel libro Il lampadario di cristallo, in cui annotava le sue emozioni infantili. E scriveva: «Al Roccolo si arrivava attraversando un fitto bosco che a noi bambini metteva un po' di paura: sulla sommità c'era un padiglione a torretta, in cima al quale si saliva con una scaletta a chiocciola esterna. Da lassù si godeva una bellissima vista della piana del Tevere».

E sempre da Enrico D'Assia sappiamo quanto fosse forte l'attaccamento di Vittorio Emanuele II alla caccia, tanto che un freddo giorno d'inverno rimase così a lungo appostato nel parco per stanare una lontra che finì per ammalarsi di polmonite e morirne poco dopo il 9 gennaio del 1878. 

ARCHITETTURA VEGETALE «Ad un'analisi ravvicinata, il Roccolo di Villa Ada ha mostrato delle raffinatezze - avverte Lorenzo Grassi - dalle lastre in ardesia delle scale esterne alle ingegnose staffe d'angolo, dai colori brillanti come il rosso che incornicia le finestre, al balcone panoramico, sino al camino realizzato nel piano interrato, fino all'elegante tetto spiovente in legno e al parafulmini».

Facevano parte del Roccolo il casello, una torretta in posizione elevata, il tondo, un prato con al centro alberi da frutto per attirare gli uccelli, e il colonnato, un doppio filare di alberi con le reti ben nascoste. Nelle foto aeree di Villa Ada degli anni '40 è ancora visibile la conformazione del Roccolo, con il prato del tondo e il colonnato di alberi. «Proprio qui abbiamo trovato dei grandi alberi di frassino, possibile memoria vegetale di quel lontano passato», riflette Grassi.

Ad aggiungere mistero al mistero di questa torre, poi, sono le tracce di buchi lasciati da sei colpi di arma da fuoco. Cosa può essere successo qui? «Sarebbe auspicabile - commentano gli studiosi - un intervento urgente di restauro da parte del Comune, anche perché le strutture sono a rischio crollo».

Gli affreschi erotici di Pompei, dove l’amore è eterno. Le opere al centro di una mostra. Nuove domus aperte al pubblico. Vini e cibi prodotti tra gli scavi. Si ravviva il fascino della città sepolta più famosa al mondo. Marisa Ranieri Panetta  su L'Espresso il 25 Luglio 2022. 

L’affascinante viaggio nell’antico continua. Le case di Pompei che stanno per aprirsi al pubblico, dopo lunghe chiusure e restauri, ampliano le nostre conoscenze su usi, arte e gusti della vita quotidiana: volti, paesaggi, minute descrizioni che si rincorrono sulle pareti di domus aristocratiche.

Entro l’estate, come anticipa L’Espresso, sarà accessibile la casa delle “Nozze d’argento”, scoperta nel 1893 e così denominata per l’anniversario in quell’anno dei reali d’Italia Umberto e Margherita di Savoia. Molte abitazioni infatti prendono il nome da ricorrenze, visite illustri, ritrovamenti particolari; a volte, in occasione della presenza di un sovrano o di un personaggio altolocato, come il pontefice Pio IX, si faceva finta di trovare reperti già venuti alla luce, che venivano poi offerti in regalo.

La domus di cui parliamo, risalente nella prima fase al II sec. a.C., è un esempio di come si presentavano le case delle nobili famiglie pompeiane prima che la città diventasse municipio romano. La maestosità dell’atrio, come una cattedrale, con le alte colonne in tufo disposte agli angoli della vasca centrale, suggerisce l’importanza sociale anche dell’ultimo proprietario Albucio Celso, candidato all’edilità tra il 76 e il 79 d. C. Una tenda, rivelata da un disco di bronzo con rostro, lo separava dal tablino, dove il padrone di casa riceveva clienti, scriveva lettere, conservava documenti.

Subito dietro, si apre un giardino porticato e, sulla destra, si trova la cucina con un gabinetto adiacente: una rarità, quest’ultimo servizio, manca pure in domus lussuose e ampie. Dopo la cucina, ecco un altro giardino, che esibiva tre statuine smaltate di animali a tema egizio, ora al Museo nazionale di Napoli insieme al mosaico dell’ingresso, dove è raffigurata una città turrita con il porto e il faro.

Nel corso della sua storia, la casa aveva subito vari rifacimenti, assicurando sempre un’esistenza più che confortevole: fontane ovunque, un bagno fornito di acqua calda, vasche all’aperto, ambienti piccoli e grandi dalle decorazioni accurate.

Un’altra particolarità contraddistingue l’edificio, finora non evidenziato: sulla sinistra dell’atrio, esisteva un orto. Non tutte le zone destinate al verde erano adibite ad accogliere piante fiorite, statue e fontane, per il godimento dei proprietari e come status symbol da ostentare agli ospiti; già sono stati identificati alberi da frutto, vigneti e piante di ulivo sparsi in città. Ma ci sono molte zone destinate a coltivazioni, non indagate o abbandonate.

Gabriel Zuchgrietel, direttore del Parco archeologico, vuole andare avanti in questa ricerca, con un progetto che riguarda anche Stabia e Oplontis, perché «da un censimento effettuato, le zone agricole a ridosso delle mura e negli abitati sono circa cento ettari: un patrimonio che deve essere riscoperto, reintegrato con le coltivazioni originarie». E riferisce in anteprima a L’Espresso: «Sta per partire un bando per coinvolgere partner privati nella produzione del vino e di altri alimenti, così come avveniva in antico. Si tratta di un nuovo approccio di conoscenza, all’interno di una visione articolata del Parco: storia, arte, alimentazione e paesaggio, in grado di restituirci nel suo complesso la vita reale degli ultimi abitanti. Nello stesso tempo, si potranno generare sviluppo e occupazione attraverso la valorizzazione dei prodotti».

Sono state già riaperte altre dimore, ma in autunno si conosceranno domus pregiate e un intero isolato (2300 mq), lungo la centrale via dell’Abbondanza, che comprende botteghe, giardini, e due case principali. Quella dei “Casti Amanti” a più livelli, dà il nome ai fabbricati e si riferisce a una pittura murale che raffigura un banchetto con una coppia che si scambia un bacio non volgare. Decora il triclinio del quartiere residenziale e inneggia a incontri conviviali innaffiati dal vino, ribaditi in altre scene con comportamenti diversi. Entrando, si incontra prima un grande panificio, che costituiva la notevole risorsa economica del proprietario. Si vedono il forno, le mole per macinare il grano e gli scheletri dei muli che le azionavano. Erano sette; evidentemente, utilizzati anche per il trasporto del pane.

L’altra abitazione, dei “Pittori al lavoro”, documenta invece un cantiere in piena attività, rivelando in un salone le suddivisioni dei compiti. Pompei continuava a subire terremoti e ovunque c’erano operai per riparare tubazioni, rinforzare murature, ripristinare affreschi. Qui, era stata portata a termine una bella decorazione di soffitti (crollati in migliaia di pezzi, li stanno ricomponendo), ma c’erano tante pareti da risistemare. Appena si è scatenata l’eruzione, i pittori hanno abbandonato la casa, lasciando disegni preparatori, figure in attesa del collante finale, coppette con i pigmenti da polverizzare. Nessuno si aspettava quel cataclisma; sul focolare della Casa dei Casti amanti stavano arrostendo un volatile e un piccolo cinghiale.

L’isolato si presenterà alle visite con una novità assoluta per Pompei: una copertura in pannelli di alluminio con lucernai in vetro stratificato e l’installazione di una passerella sospesa in acciaio che consentirà di conoscere dall’alto tutti gli ambienti.

Archeologi, tecnici e restauratori sono impegnati anche nella domus dei Vettii, una delle più note, aperta in passato per poco tempo e non interamente. Apparteneva ai fratelli Conviva e Restituto, ricchi liberti nell’ultimo periodo di vita della città, che avevano fatto fortuna con attività mercantili e agricole. Come simbolo beneaugurante di prosperità, nell’ingresso avevano raffigurato il dio Priapo, che poggia il suo enorme membro sul piatto di una bilancia, mentre sull’altro è posta una borsa piena di monete. Dall’augurio alla reale sostanza economica: nell’atrio, centro focale della casa, si notavano subito due “arche” sostenute da basamenti in muratura: bauli come casseforti, serrati da chiodi e ornamenti bronzei, per salvaguardare i beni preziosi della famiglia.

In asse con l’entrata, visibile dalla strada col portone aperto, si allungava il giardino circondato da portici che traboccava di tavoli, piante e zampilli d’acqua provenienti da tante statue di marmo e di bronzo.

La ricca borghesia pompeiana seguiva, nella decorazione delle proprie dimore, la moda che si diffondeva a Roma; appaiono così le pitture con motivi fantastici, protagoniste della Domus Aurea neroniana (“grottesche”), che occupano tutto il campo lasciato libero dai grandi quadri sulle pareti. Le pitture murali a Pompei, come altrove, erano la seconda pelle dell’abitazione e ne costituivano l’arredamento vero e proprio. I mobili erano pochi ed essenziali, le stanze da letto piccole, ma le pareti erano dipinte a vivaci colori; quando lo spazio era ridotto, affreschi illusori ampliavano i volumi con architetture e paesaggi.

A caratterizzare le sale che si affacciano sul giardino dei Vettii sono racconti di episodi mitologici dal contenuto moralistico, come il Supplizio di Dirce, cattiva matrigna; il re Issione, punito da Giove perché si era invaghito di Era; Pasifae, la moglie del re cretese Minosse, invaghita di un toro, col quale aveva generato il Minotauro. Più che storie a lieto fine, erano gli amori infelici, gli atti di empietà, a ispirare tragediografi, poeti, artisti: esemplari per indicare il limite tra umano e divino da rispettare. E Conviva, che ricopriva una carica sacerdotale, si adeguava all’intento didascalico.

Gli affreschi più celebrati della casa appartengono al triclinio posto al centro del portico settentrionale, e non si tratta di ampie partiture, bensì di un fregio a sfondo nero che corre nella parte inferiore delle pareti. In sequenza, sfilano scenette che, con grande abilità e grazia, rimandano ad attività quotidiane. Ad interpretare orafi, profumieri, lavandai, fabbri, sono deliziosi amorini in compagnia di psychae, il loro corrispondente femminile, e ogni singolo racconto lascia incantati.

I visitatori degli scavi hanno intanto un’altra occasione per comprendere il vissuto del sito: la mostra “Arte e sensualità nelle case di Pompei”, allestita nella Palestra Grande, di fronte all’anfiteatro (a cura di Gabriel Zuchtriegel e Maria Luisa Catoni, fino al 15 gennaio 2023).

L’arte e l’immaginazione si fondono nelle settanta opere esposte, provenienti dai depositi del Parco archeologico, e rimandano a comportamenti privi di inibizioni. I quadretti dipinti, le statue, gli oggetti quotidiani che raffigurano amplessi, o alludono ad incontri amorosi, non facevano parte soltanto della quotidianità di Pompei; ma furono gli scavi dell’area vesuviana a svelare una realtà lontana da come appariva il mondo classico, lasciando stupiti i primi scopritori. Nell’esposizione sono presenti anche ritrovamenti recenti, come i due medaglioni con raffigurazioni erotiche del carro cerimoniale di Civita Giuliana, e viene spiegato il contesto di riferimento per ogni opera, e il loro significato. Con l’app My Pompeii, è anche possibile rintracciare gli edifici che si riferiscono al tema della mostra. Un racconto intrigante, per una corretta comprensione storica.

Dagotraduzione dall’Ap il 21 Febbraio 2022.  

Nel 79 d.C., in poche tremende ore, Pompei è stata trasformata da una vivace città in una terra desolata imbalsamata di cenere, soffocata da una furiosa eruzione vulcanica. 

Poi, in questo secolo, la città romana è apparsa in modo allarmante vicino a una seconda morte, assalita da decenni di abbandono, cattiva gestione e scarsa manutenzione sistematica delle rovine pesantemente visitate. Il crollo nel 2010 di una sala dove si allenavano i gladiatori è quasi costato a Pompei la sua ambita designazione di patrimonio mondiale dell'UNESCO.

Ma in questi giorni Pompei sta vivendo i presupposti di una rinascita. 

Gli scavi intrapresi nell'ambito delle strategie ingegneristiche di stabilizzazione per prevenire nuovi crolli stanno producendo una serie di rivelazioni sulla vita quotidiana dei residenti di Pompei, poiché la lente dell'analisi della classe sociale viene sempre più applicata alle nuove scoperte. 

Sotto il nuovo direttore del parco archeologico, una tecnologia innovativa sta aiutando a ripristinare alcune delle glorie quasi cancellate di Pompei e a limitare gli effetti di una nuova minaccia: il cambiamento climatico.

Gabriel Zuchtriegel, archeologo nominato direttore generale 10 mesi fa, paragona il rapido deterioramento di Pompei, a partire dagli anni '70, a «un aeroplano che cade a terra e rischia davvero di rompersi». 

Il Great Pompeii Project, un'infusione di circa 105 milioni di euro (120 milioni di dollari) in fondi dell'Unione Europea, deliberati a condizione che venissero spesi tempestivamente ed efficacemente entro il 2016, ha contribuito a salvare le rovine da un ulteriore degrado.

«È stato tutto speso e speso bene», ha detto Zuchtriegel in un'intervista su una terrazza con il Grande Teatro all'aperto di Pompei come sfondo. 

Ma con futuri problemi di conservazione inevitabili per i resti edilizi scoperti per la prima volta 250 anni fa, la nuova tecnologia è cruciale in questa "battaglia contro il tempo", ha detto il 41enne all'Associated Press. 

Gli estremi climatici, comprese precipitazioni sempre più intense e periodi di caldo torrido, potrebbero minacciare Pompei. «Alcune condizioni stanno cambiando e possiamo già misurarlo», ha affermato Zuchtriegel.

Affidarsi agli occhi umani per discernere i segni del deterioramento causato dal clima sui pavimenti a mosaico e sulle pareti affrescate in circa 10.000 stanze scavate tra ville, officine e umili case sarebbe impossibile. Quindi l'intelligenza artificiale e i droni forniranno dati e immagini in tempo reale. 

Gli esperti saranno avvisati di «dare un'occhiata più da vicino ed eventualmente intervenire prima che le cose accadano, prima di tornare a questa situazione in cui gli edifici stanno crollando», ha detto Zuchtriegel.

Dall'anno scorso, l'IA e i robot stanno affrontando quelli che altrimenti sarebbero compiti impossibili: rimontare affreschi che si sono sbriciolati in minuscoli frammenti. Tra gli obiettivi c'è la ricostruzione del soffitto affrescato della Casa dei Pittori al Lavoro, distrutta dai bombardamenti alleati durante la seconda guerra mondiale. 

I robot aiuteranno anche a riparare i danni agli affreschi nella Schola Armaturarum, la caserma dei gladiatori, un tempo simbolo del moderno deterioramento di Pompei e ora celebrata come prova della sua rinascita. Il peso di tonnellate di sezioni non scavate della città che premono contro le rovine scavate, combinato con l'accumulo di precipitazioni e lo scarso drenaggio, ha provocato il crollo della struttura.

Diciassette dei 66 ettari di Pompei rimangono non scavati, sepolti in profondità sotto la pietra lavica. Un dibattito di lunga data ruota sul fatto che debbano rimanere lì. 

All'inizio del 19° secolo, l'approccio era «scaviamo… tutta Pompei», ha detto Zuchtriegel. 

Ma nei decenni precedenti il Grande Progetto Pompei, «c'era qualcosa come una moratoria, perché avevano così tanti problemi che non hanno scavato più», ha detto Zuchtriegel. «Ed era quasi, psicologicamente parlando, una depressione».

Il suo predecessore, Massimo Osanna, ha adottato un approccio diverso: scavi mirati durante le misure di stabilizzazione volte a prevenire ulteriori crolli. «Ma era un diverso tipo di scavo. Faceva parte di un approccio più ampio in cui avevamo la combinazione di protezione, ricerca e accessibilità», ha affermato Zuchtriegel. 

Dopo il crollo della sala dei gladiatori, ingegneri e paesaggisti hanno creato pendii graduali fuori dal terreno che fronteggia rovine scavate con reti, impedendo che i "pendii collinari" di nuova forma si sgretolassero.

Verso la fine di Via del Vesuvio, una delle strade lastricate in pietra di Pompei, i lavori del 2018 hanno rivelato una domus, o casa, di lusso con una parete della camera da letto decorata con un piccolo e sensuale affresco raffigurante il dio romano Giove travestito da cigno e Leda incinta, la mitica regina di Sparta e madre di Elena di Troia. 

Ma se i visitatori stanno in punta di piedi per guardare oltre il meraviglioso affresco sopra le pareti frastagliate della casa, vedranno come le stanze sul retro rimangono incastonate sotto il bordo non scavato di Pompei appena "stabilizzato".

Nelle vicinanze si trova la scoperta più piacevole per la folla, emersa dal progetto di puntellamento: un "termopolio" d'angolo con una configurazione del piano di lavoro simile agli attuali arrangiamenti di insalate e zuppe. 

Questo fast-food è l'unico scoperto con affreschi in vivaci tonalità di giallo senape e l'onnipresente rosso Pompei che decorano la base del bancone, dove sembra pubblicizzare le specialità dello chef ed esibire un graffito osceno. A giudicare dai resti organici trovati nei contenitori, il menu prevedeva intrugli con ingredienti come pesce, lumache e carne di capra.

I pasti veloci di strada erano probabilmente un pilastro della stragrande maggioranza dei pompeiani non abbastanza ricchi da avere una cucina. 

Gli archeologi utilizzano sempre più analisi di classe sociale e di genere per aiutare a interpretare il passato. 

Quando hanno esplorato un'antica villa alla periferia di Pompei, è emersa una stanza di 16 metri quadrati. Era utilizzata come magazzino della villa e camera da letto per una famiglia di schiavi. Stretti nella stanza c'erano tre letti, fatti di corda e legno. A giudicare dalle dimensioni, il letto più corto era per un bambino.

Quando la scoperta è stata annunciata l'anno scorso, Zuchtriegel l'ha descritta come una «finestra sulla realtà precaria di persone che raramente sono apparse nelle fonti storiche» su Pompei. 

Le ambizioni del parco si estendono oltre: la vicina Napoli e la sua periferia tentacolare che circonda il Vesuvio soffrono della criminalità organizzata e dell'elevata disoccupazione giovanile, che spinge molti giovani a emigrare.

Così il parco archeologico sta riunendo studenti delle istituzioni più elitarie della zona e dei quartieri popolari che frequentano le scuole professionali per esibirsi in uno spettacolo greco classico al Gran Teatro. 

«Noi... possiamo provare a contribuire a un cambiamento», ha detto Zuchtriegel.

È inoltre prevista la creazione di aree pedonali pubbliche in una sezione non scavata dell'antica Pompei che, fino a poco tempo fa, era stata utilizzata come discarica illegale e persino come fattoria di marijuana.  

Pompei, la città perduta distrutta dal Vesuvio. Angela Leucci il 3 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Gli scavi archeologici di Pompei sono cristallizzati nella Storia: raccontano di quando nel 79 d.C. la città fu distrutta dal Vesuvio 

Pompei è un luogo interessante e misterioso. Teatro della più grande tragedia della storia italiana antica, qui il tempo è fermo, cristallizzato al modo in cui apparve la città dopo l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C.

Gli scavi di Pompei, nei pressi di una città successivamente risorta in un nuovo nucleo abitativo, rappresentano un documento interessante che racconta come si svolgesse la vita nell’Impero Romano d’Occidente. È la testimonianza di una vita che si potrebbe definire molto simile a quella contemporanea, fatta di passione politica, emancipazione femminile e una cultura dalle radici ancor più antiche, in cui la bellezza era nel quotidiano di affreschi, capitelli, mosaici. 

L’eruzione del Vesuvio 

Quella dell'eruzione del Vesuvio è una storia che ha colpito l'immaginario collettivo di tutti gli italiani. Nell’anno 79 il Vesuvio, il vulcano nei pressi della città di Napoli, eruttò lava, lapilli e una pioggia di cenere, che travolsero e distrussero Ercolano, Stabia, Oplontis e naturalmente Pompei. Quest’ultima è la città che meglio testimonia il momento tragico, ma anche la quotidianità degli abitanti.

La questione della datazione rappresenta da sempre un problema storico. L’eruzione del Vesuvio viene narrata per la prima volta di un testimone oculare: si tratta di Plinio il Giovane, che si trovava a una trentina di chilometri di distanza e descrisse tremante l’avvenimento apocalittico nelle sue epistole. In base all’archetipo manoscritto della narrazione di Plinio, gli studiosi hanno da sempre datato l’eruzione al 24 agosto, ma diversi dettagli suggeriscono una data differente.

A Pompei sono stati infatti ritrovati combustibile per bracieri (frutta secca), mosto non ancora pronto e una moneta, che deve essere stata coniata dopo l’8 settembre, perché vi è un riferimento all’imperatore Tito. L’eruzione dovrebbe essere quindi avvenuta tra il 23 e il 24 ottobre 79, teoria sostenuta anche da Alberto Angela nel suo volume “I tre giorni di Pompei”.

I luoghi di Pompei che raccontano la Storia 

Visitare Pompei per la prima volta è qualcosa di magico, è come penetrare nelle pieghe della Storia e vederne i misteri rivelati con i propri occhi. Sicuramente il luogo più celebre che viene visitato è l’anfiteatro romano, dove tra l’altro nel 1971 i Pink Floyd tennero un celeberrimo concerto, confluito in un documentario uscito l’anno successivo.

C’è poi il foro, la grande piazza dove si svolgevano le attività commerciali, religiose e politiche dei pompeiani. E ancora il tempio di Apollo, che si ritiene datato addirittura all’VIII oppure al VII secolo a.C. Oppure la villa del Fauno, dove si trova la statua bronzea che ritrae la creatura mitologica. 

Al di là delle bellezze artistiche in senso stretto, ci sono anche beni culturali che raccontano molto della civiltà dell’epoca. Come il Lupanare, dove esistevano camere diverse per classi sociali diverse in cui dedicarsi all’amore fisico, con tanto di affreschi che ritraggono scene licenziose.

C’è anche il cosiddetto Orto dei Fuggiaschi, dove gli scavi archeologici rinvennero 13 corpi perfettamente conservati dalla lava indurita: erano alcune persone che cercavano di sfuggire disperatamente all’eruzione, invano.

È davvero difficile dire da quale parte iniziare la propria visita: gli scavi di Pompei sono un luogo in cui tornare ancora e ancora, magari nel tempo e con occhi sempre diversi.

I graffiti antichi che parlano di modernità 

Una delle testimonianze più interessanti di Pompei sono i graffiti, che si trovano un po’ dappertutto: basta aguzzare la vista. Esattamente come oggi i writer lasciano un segno della loro presenza nelle città, a Pompei esistono oltre 10.000 graffiti. Questi, oltre a costituire una fonte preziosa per i linguisti e i latinisti, rappresentano delle “pillole” di vita quotidiana dei pompeiani.

Su essi c’è chi annuncia la nascita di una figlia, chi se la prende con l’oste che ha annacquato il vino, chi racconta imprese erotiche, c’è chi annota quadrati palindromi come il più celebre del Sator, chi cita Lucrezio e Virgilio, e non mancano proverbi e scioglilingua.

Alberto Angela riporta nel suo volume una selezione esemplificativa di graffiti, tra cui spicca un presagio di morte in quattro pentametri: "Nulla può durare in eterno. Il sole dopo aver brillato si rituffa nell'Oceano, decresce la luna che poco fa era piena. La furia dei venti sovente si tramuta in brezza leggera".

Angela Leucci.  Giornalista, ex bibliotecaria, filologa romanza, esperta di brachigrafia medievale e di cinema.

Giallo pompeiano. La lucerna di Nerone, la favolosa Villa di Oplontis e le meraviglie ancora celate sotto i lapilli. Alberto Angela su L’Inkiesta il 10 Dicembre 2022.

Alberto Angela pubblica il terzo volume della trilogia sul controverso imperatore romano: abile negoziatore, cinico assassino e repressore feroce. Una figura storica impossibile da incasellare nel solo giudizio dei contemporanei

La leggendaria lucerna d’oro di Nerone

Nerone ha ora preso fra le mani una coppa del delizioso vino locale e beve a occhi chiusi. In questo stesso istante non molto lontano, a poche centinaia di metri da lui, una fiammella ondeggia nel buio di un tempio. Nelle immediate vicinanze c’è Poppea, che recita a bassa voce frasi rituali a una grande statua di Venere. La flebile luce sembra accarezzarle la pelle, e si riflette nei suoi occhi come un sole in un universo di oscurità.

La fiammella è quella di una lucerna d’oro, che spicca tra le varie offerte fatte al tempio. È un luogo molto caro a Poppea, situato nel cuore di Pompei. Non c’è quindi solo la familia dei gladiatori a giustificare la presenza di Nerone nella città. L’imperatore potrebbe aver voluto accontentare Poppea, che da tempo desiderava tornare al tempio. Ma come mai lei è così legata al santuario?

All’inizio del 63 d.C. la coppia imperiale ha offerto a questo edificio sacro oggetti preziosi e gioielli, forse proprio per ringraziare la dea per l’arrivo della figlioletta Claudia Augusta, nata ad Anzio nel gennaio di quell’anno e vissuta purtroppo solo qualche mese. È intuibile quindi l’attaccamento di Poppea a questo luogo, e anche a quella lucerna così carica di ricordi, forse l’elemento più prezioso della donazione fatta a suo tempo.

La tragedia aveva colpito molto gli abitanti di Pompei. Nella casa di Giulio Polibio, imprenditore ricchissimo e con le mani in pasta in numerosi affari (alcuni dei quali piuttosto dubbi), ci sono infatti due graffiti che si ritiene siano collegati all’evento. Il primo ci parla dell’invio di smeraldi e perle (forse una collana) a Venere proprio da parte di Poppea: “Munera Poppaea misit Veneri sanctissimae berullum helencumque unio mixtus erat”. I gioielli con ogni probabilità dovevano cingere il collo della statua della dea, un po’ come si vede in molte madonne moderne in processione: non è un caso se la Venere Pompeiana viene spesso raffigurata proprio con perle e smeraldi.

 La seconda iscrizione parla esplicitamente di una visita di Nerone a Pompei, sottolineando il tesoro straordinario che donò alla dea, costituito da una grande quantità d’oro (iperbolicamente definito con l’espressione millia milliorum ponderis auri): “Caesar ut ad Venerem venet sanctissima[m] ut tui te vexere pedes caelestes Auguste millia milliorum ponderis auri fuit”. (Non appena Cesare [Nerone, N.d.A.] venne al tempio della santissima Venere, non appena i tuoi piedi ti condussero dentro, ci fu una grandissima quantità di oro.)

Con ogni probabilità parte di quell’oro era la bellissima lucerna, oggi conservata presso il Mann. A vederla, abbaglia i vostri occhi con il suo splendore: è in oro massiccio, e quando aveva il coperchio, ora scomparso, doveva pesare circa tre libbre dell’epoca (un po’ meno di un chilo), come indicano i segni ponderali incisi all’interno del piede. Ha una forma insolita, ed è costituita da più pezzi assemblati, compreso un “riflettore” a forma di foglia paragonabile agli specchi posti dietro le lampade a petrolio dei secoli scorsi.

Benché si tratti di un unicum eccezionale e di un oggetto votivo di chiara matrice greca, gli esperti l’hanno sempre considerato un manufatto di qualità artistica non molto elevata per via della semplicità delle decorazioni e di altri dettagli. Ma è verosimile che Nerone offra personalmente a una dea qualcosa di costoso e tuttavia… modesto?

La spiegazione potrebbe essere che si trattava di un oggetto di sua proprietà che per lui aveva un significato particolare a noi sconosciuto. Non possiamo nemmeno escludere che, per motivi che ignoriamo, avesse deciso di proposito di commissionarlo in quel modo: a giudicare dall’aspetto, infatti, non sembra affatto il prodotto di una raffinata lavorazione orafa, ma più probabilmente di un’officina bronzea (per esempio, i becchi sono identici a quelli delle lucerne in bronzo e le pareti non sono sottili). E questo, anche se alla fine ciò che importava era il suo valore materiale, più che estetico, sembra in contrasto con gli altissimi gusti dell’imperatore.

Una piccola scossa fa tremare il suolo sotto i piedi di Poppea e crea una serie di onde concentriche nella seconda coppa di vino che Nerone sta per bere davanti ai suoi gladiatori. Ma niente panico. Tutti sanno che in questa zona è normale, come ha scritto Plinio il Giovane…

Poco dopo, mentre sale sulla sua lettiga, Nerone guarda distrattamente un monte coperto di boschi a pochi chilometri da Pompei. Non sa perché il suo sguardo si sia soffermato proprio su quel rilievo anonimo, ma noi sì: è il Somma-Vesuvio, e tra meno di quindici anni si squarcerà dando inizio alla spaventosa eruzione che seppellirà Pompei… compresa la sua lucerna d’oro, i graffiti di Giulio Polibio, gli elmi e gli schinieri dei gladiatori. Ma per ora è solo un monte come tanti, e certo non si presenta come un minaccioso vulcano dalla forma aguzza (anche se Marziale lo considerava casa del dio Dioniso, dove i satiri danzavano).

Visita nella favolosa villa di Oplontis

Nerone e Poppea seguono ora due strade diverse. Mentre l’imperatore ha deciso di tornare a Baia via mare, partendo dal piccolo porto di Pompei, lei ha scelto di fermarsi per una notte nella vicina Oplontis, pochi chilometri a nord di Pompei, sulla via che costeggia il litorale in direzione di Ercolano e Napoli. Per lei è una tappa piacevole, tra mura e volti familiari. Non è da escludere che ad attenderla ci siano parenti e amici, a cui ha dato grande potere e visibilità sposando Nerone, ed è con loro che parteciperà a un banchetto quella sera.

Nello stesso momento in cui lei sta per varcare l’atrio della sontuosa proprietà, Nerone passa con il corteo navale al largo, davanti alla villa. Dal mare questa dimora si presenta agli occhi dell’imperatore con il suo volto più bello e scenografico: costruita su una scogliera a picco sulla costa, regala alla vista porticati, terrazze, ampi giardini e camminamenti coperti che arrivano fino all’acqua.

È davvero immensa (si stima che potesse avere un’estensione di oltre 10.000 metri quadri), ed è dotata di un porticciolo privato dal quale Poppea s’imbarcherà quando dovrà ripartire per raggiungere il marito a Baia.

Nerone si allontana: ora è distratto da un piatto di ostriche coltivate nella zona e da piccoli assaggi di pesci pescati poche ore prima proprio in queste acque. Chiude gli occhi e sorride, accarezzato dalla brezza fresca e dal tepore di un pallido sole invernale, cullato da un mare insolitamente tranquillo per la stagione.

Poppea intanto ha ricevuto il saluto dei parenti e della servitù. Alcuni schiavi la conoscono da quando era bambina, e il loro sorriso è una ventata di calore per il cuore di una donna abituata alle false lusinghe della corte. Questo luogo, probabilmente, per lei costituisce un prezioso rifugio rigenerante. Mentre passeggia nei vari ambienti, i suoi sensi si nutrono di innumerevoli stimoli come tante note che creano la musica dei suoi ricordi.

I profumi dei giardini si mescolano a quello salmastro del mare, il rumore delle onde si intervalla al silenzio delle stanze. Tutto, qui, sembra voler proteggere Poppea. Anche l’architettura della dimora crea un’atmosfera magica da cui è un piacere farsi avvolgere.

Ancora oggi, visitare questa villa da sogno lascia a bocca aperta. Dimenticate le fastose regge di Versailles o della Baviera. Qui ci si immerge in un’eleganza e una raffinatezza che sono anni luce avanti a tutto il resto. Le dimensioni, le scelte architettoniche nell’accostare i diversi settori della villa, il disegno delle aree verdi e il modo moderno in cui queste “penetrano” nella dimora rendono l’abitazione di interesse unico per l’architettura romana.

E poi c’è il trionfo dei colori, vivissimi, sulle pareti, con affreschi tra i più belli che possiate vedere di età romana, capaci persino di dialogare con ciò che è loro attorno. Oplontis è un gioiello unico, frutto di un lusso colto ed elegante. Immaginate di essere invisibili e di esplorare la villa. Il vostro percorso, punteggiato da un discreto andirivieni di schiavi e servi che organizzano la giornata di Poppea, vi porta a scoprire una meravigliosa serie di saloni, porticati e diaetae (salottini particolarmente curati), intervallati da ambienti tradizionali come i triclini per i banchetti o le stanze da letto (cubicula).

Ciò che colpisce maggiormente di queste ultime è quanto siano piccole in confronto alla vastità della villa e immerse nel buio, al contrario di ciò che accade ai giorni nostri, dove le stanze di solito sono inondate dalla luce esterna. In realtà per un antico romano la camera da letto è una sorta di “giaciglio”: serve solo per dormire, quindi non ha senso che sia spaziosa. E soprattutto deve essere buia: a illuminarla basteranno poche lucerne.

Vi chiederete a cosa servano allora quei bellissimi affreschi sulle pareti se qui domina la semioscurità. Ebbene, sono un simbolo di ricchezza, anche se a malapena visibili… Nei corridoi che state attraversando trovate ovunque l’ocra, il rosso pompeiano, ma anche mosaici, pitture in oro, piccoli animali mitologici dipinti sulle pareti…

L’aspetto più interessante, come dicevamo, è l’interazione, anzi, un vero e proprio dialogo, tra gli ambienti interni e i giardini esterni, che dà vita a una serie di suggestioni visive per i proprietari e gli ospiti della casa. Si crea infatti un continuum per lo sguardo che dalle decorazioni sulle pareti “esce” attraverso porte e finestre, prosegue nei giardini e si spinge persino oltre i limiti della villa: sui muretti di recinzione, infatti, ci sono pitture di piante e arbusti che ampliano illusionisticamente l’orizzonte.

Nei giardini crescono siepi di bosso, oleandri, limoni, platani, ulivi, cipressi, edere rampicanti e rose, tra i quali emergono statue bellissime e una ricca decorazione scultorea. Anche in questo caso si intuisce un dialogo tra la parte verde, studiata per integrarsi perfettamente con le architetture, e i marmi scolpiti, a loro volta disposti secondo precisi programmi decorativi.

Insomma, nulla è lasciato al caso. Forse Poppea, come noi, ama un punto particolare della villa dove il gioco delle prospettive si fa davvero suggestivo. Si tratta di una sequenza di piccoli cortili interni ricchi di piante e dotati di finestre allineate lungo lo stesso asse, per cui affacciandovi alla prima il vostro sguardo li attraversa tutti.

Sono piccole oasi interne alla villa che appaiono improvvisamente davanti agli occhi mentre camminate. A rendere il tutto ancora più suggestivo contribuiscono le loro pareti, pitturate in IV stile, con alberi, arbusti, statue, fontane e uccelli che replicano fedelmente i giardini esterni. Anche qui la natura entra in casa secondo uno schema moderno e, come un rampicante, penetra e avvolge ogni cosa.

Questi ambienti affrescati a giardino, chiamati viridaria, sono comuni nelle ville dei ricchi, ma ciò che qui rende il tutto originale è la loro sequenza, che attraversa perfino un salone. È una soluzione che vedremo anche nella Domus Aurea, di cui la villa di Oplontis anticipa anche la decorazione. Che Nerone si sia ispirato a questa dimora? Oppure era un nuovo trend dell’architettura che si stava affermando? Non lo sappiamo.

Un fatto però sorprende: fino a oggi sono stati scoperti novantanove ambienti della villa, ma si stima che siano solo un quarto del totale. Quante altre meraviglie si celano sotto i lapilli dell’eruzione di Pompei?

Da “Nerone. La rinascita di Roma e il tramonto di un imperatore“ di Alberto Angela, HarperCollins – Rai Libri, quattrocento pagine, 22 euro

Beni culturali, il Colosseo vale 77 miliardi di euro (e contribuisce alla crescita del Pil). Virginia Nesi su Il Corriere della Sera il 25 luglio 2022.

Quando nella sua vacanza a Roma ha visitato il Colosseo, lo ha ricordato come il suo «vecchio ufficio». Lì ha girato Il Gladiatore. Ma l’anfiteatro Flavio, il più grande del mondo, oltre a essere il monumento più visto nel nostro Paese e sfondo di numerose pellicole, rappresenta una fonte di valore non indifferente. In termini economici, contribuisce per 1,4 miliardi di euro all’anno all’economia italiana e ha un valore sociale pari a 77 miliardi di euro. A renderlo noto è lo studio Deloitte “The value of an Iconic Asset. The economic and social value of the Colosseum” condotto dal team italiano di EconomicAdvisory, specializzato in analisi di valore ed impatto economico-sociali. 

Valore materiale e immateriale

«È evidente che trattandosi di un bene non alienabile, il valore del Colosseo non è trasferibile– dice Marco Vulpiani, partner e responsabile dell’area Valuation, Modeling & Economic Advisory di Deloitte Central Mediterranean-. Al fine di quantificare il suo valore abbiamo esaminato, analizzato e quantificato diverse configurazioni di valore. Il contributo all’economia Italiana (dall’operatività e dal turismo indotto), il valore d’uso indiretto ed il valore sociale». Si riferisce poi ai valori materiali e immateriali. Quindi aggiunge: « Il valore immateriale del Colosseo può essere maggiore rispetto al valore connesso ai benefici economici che può produrre. E vanno presi in considerazione anche i vantaggi esterni all’economia di mercato». 

Valore di esistenza

Per stimare l’asset sociale, è necessario, continua Vulpiani, prendere in considerazione il valore di transazione legato alla spesa sostenuta dai visitatori e il valore che la stessa società riconosce all’opera d’arte. Unire dunque l’aspetto economico e quello sociale per determinare il valore di esistenza. Ma quanto le persone sono disposte a pagare per averlo? Secondo la ricerca, il 97% degli intervistati ritiene importante che ci sia il Colosseo mentre l’87% lo considera l’attrazione culturale più rilevante nel nostro Paese. E ancora: almeno un intervistato su due crede che l’anfiteatro Flavio sia il motivo principale per visitare Roma. Sulla sua conservazione, le posizioni sono quasi nette: per il 30% delle persone solo gli italiani dovrebbero sostenere le spese mentre il 70% crede che spetti anche ai visitatori provenienti da altri Paesi.

Benedetta Vitetta per “Libero quotidiano” il 26 luglio 2022.

Con i fondi Ue legati agli obiettivi del Pnrr non soltanto grazie alle infrastrutture, alle riforme che il Paese attende da decenni e alle grandi opere si può rimettere in piedi e ridare slancio all'Italia, ma anche grazie alla nostra "Grande Bellezza" in fatto in patrimonio culturale, architettonico e paesaggistico che il pianeta ci riconosce e che ci invidia da sempre si può ripartire di gran carriera. 

A dimostrarlo è un interessante studio "The value of an Iconic Asset. The economic and social value of the Colosseum" (tradotto Il valore di un asset iconico. Il valore economico e sociale del Colosseo) condotto dal team Italiano del colosso mondiale della revisione e della consulenza Deloitte.

«Il Colosseo contribuisce per 1,4 miliardi di euro l'anno all'economia italiana (in termini di contributo al Pil, ndr) come attrazione turistico-culturale e ha un valore sociale pari a circa 77 miliardi di euro» si legge nel rapporto. 

Insomma, l'Anfiteatro Flavio rappresenta non solo il simbolo più famoso di Roma e il monumento più visitato nel nostro Paese ma è anche considerato una vera e propria icona di interesse globale. Solo nel 2019, ad esempio, sono state oltre 7 milioni le persone provenienti da tutto il mondo che l'hanno visitato.

«Il suo valore non è solo economico ma soprattutto sociale» ha precisato Marco Vulpiani, partner e responsabile dell'area Valuation, Modeling & Economic Advisory di Deloitte Central Mediterranean, «il Colosseo è una notevole fonte di valore per Roma, l'Italia e per l'umanità. È evidente che trattandosi di un bene non alienabile, parliamo di un valore non trasferibile, ancorché esistente e di rilievo. Al fine di quantificare il valore di un sito iconico, storico e culturale come l'Anfiteatro» ha aggiunto Vulpiani, « abbiamo esaminato, analizzato e quantificato diverse configurazioni di valore». 

Un monumento iconico come il Colosseo ha un valore che supera di gran lunga quello economico dato dalla sua operatività (biglietti e ricavi in generale che produce), dal turismo indotto (leggasi ristorazione e pernottamenti) e dal contributo che dà all'economia del Sistema Paese, ma ha innanzitutto un enorme valore d'uso indiretto, quello che gli esperti di Deloitte traducono come il suo valore "edonico" rappresentato semplicemente dal piacere della sola vicinanza e vista di un'opera simbolo unico e magnifico.

Sulla base delle transazioni osservate nel mercato immobiliare nelle vicinanze dell'asset e attraverso la costruzione di un modello econometrico dedicato. Gli studiosi della società di revisione e consulenza globale hanno stimato che il valore d'uso indiretto del Colosseo - stimato appunto con il metodo dei prezzi edonici - è quantificabile in oltre 400 milioni di euro.

E poi c'è soprattutto il suo valore sociale, inteso come ciò che rappresenta la sua esistenza per la tutta la società. E nel caso di Deloitte parliamo di Colosseo ma non scordiamoci il fatto che l'Italia è piena zeppa di opere, monumenti, palazzi da tutelare e valorizzare. 

«Per un asset come il Colosseo è necessario riferisi a una dimensione di valore che comprenda sia il valore materiale che quello immateriale» prosegue lo studio, «in tale accezione, il valore immateriale del Colosseo può essere maggiore rispetto al valore connesso ai benefici economici che questo può produrre. Vanno presi in considerazione anche i vantaggi esterni all'economia di mercato».

Questo valore di esistenza, che monumenti come il Colosseo posseggono già di per sé, è stato stimato rispetto a quanto la collettività sarebbe disposta a pagare (la cosiddetta "Willingness To Pay") per preservare il bene in questione. Che corrisponde a un valore di esistenza di 75,7 miliardi che sommato al valore connesso ai ricavi da esso generati (ossia il valore economico di transazione, ndr) di 1,1 miliardi di euro che portano il Colosseo a valere ben 76,8 miliardi. 

La lezione che Deloitte ci porta è saper valorizzazione il nostro patrimonio culturale e paesaggistico, un obiettivo che deve diventare una priorità nell'agenda delle istituzioni nazionali e locali e, a tal proposito, i fondi del Pnrr possono rappresentare un'opportunità per valorizzare gli asset chiave del nostro patrimonio culturale con l'intento di migliorarne attrattività, l'accessibilità e la nascita di nuovi servizi.

Laura Anello per “La Stampa” il 25 luglio 2022. 

Selinunte la greca, Selinunte scheggia d'Oriente incuneata nell'estremo lembo occidentale della Sicilia, Selinunte sorta gigantesca e fatta a pezzi soltanto due secoli e mezzo dopo, Selinunte la misteriosa. 

Difficile raccontare la storia incredibile di questa città che, tra i magnifici templi sopravvissuti nei secoli, ha svelato adesso una parte importante della sua storia e ha segnato un record: quello dell'agorà più grande del mondo, 33 mila metri quadrati. Si tratta di una piazza trapezoidale sorta intorno al monumento celebrativo del fondatore che fa impallidire quelle delle polìs della madre Grecia da cui i suoi coloni erano partiti, ma anche le piazze gigantesche della nostra modernità.

Qui, a Selinunte, la piazza grande quanto cinque campi da calcio non era solo magnificenza, non solo memoriale, ma era il centro della vita pubblica, lo snodo urbanistico che metteva in connessione una città policentrica, il cuore della vita rituale della comunità, con al centro un heròon, un monumento commemorativo per un personaggio importante - forse il fondatore Pàmmilo? - e resti di strutture in pietra e ossa di animali che fanno pensare ad altari per sacrifici. 

Un'agorà (presto aperta per visite guidate anche in notturna) intorno alla quale, nella metà del VI secolo avanti Cristo, fu eretto un edificio in un unico grande vano, forse un hestiatòrion, una sala per banchetti rituali dove potevano trovare posto nove grandi klìnai, i lettini su cui i greci consumavano i pasti. «Una conca vuota che impressiona per la sua ampiezza e il suo fitto mistero», dice il direttore del Parco archeologico di Selinunte, Felice Crescente.

A guidare lo scavo condotto dall'Institute of Fine Arts della New York University e dell'Università degli Studi di Milano, in collaborazione con l'Istituto archeologico germanico, è l'italiano Clemente Marconi: «Si tratta del primo caso di collaborazione tra missioni nella storia della ricerca archeologica a Selinunte - dice - ed è un importante esempio di collaborazione internazionale».

I risultati, al di là dell'agorà, hanno portato all'identificazione del primo nucleo di Selinunte, cioè del primo insediamento dei coloni che intorno al 650 avanti Cristo si mossero da Megara Hyblaea, nell'estremo oriente dell'isola, vicino alla potente Siracusa, e cercarono nuovi spazi dall'altra parte della Sicilia, portando i loro culti e il loro dialetto greco. Come spesso avviene nelle scoperte, il nucleo originario della città è stato scoperto mentre si lavorava su altro, cioè sulla datazione dei due templi, indicati come A e O.

«Abbiamo scoperto oggetti votivi che la dicono lunga sull'importanza del tempio chiamato R», aggiunge Marconi. Proprio di fronte a questo colosso, gli archeologi avevano scoperto l'anno scorso un grande santuario. Questa volta sono venuti fuori gioielli, amuleti e la seconda parte di un manufatto scoperto dieci anni fa: forse uno scettro che non doveva essere replicato e il cui stampo - diviso in due parti dopo l'unica fusione - era stato sepolto nel recinto sacro. Soltanto l'indagine metallografica potrà confermare che si tratta, come pare, di bronzo.

Inoltre è stato ricomposto da frammenti trovati nel 2017 un ciondolo in avorio a forma di sirena, importato probabilmente dal Peloponneso, e molto simile ad analoghe sculture di Delfi. 

Rinvenuto anche un piccolo amuleto che raffigura un falcone in pasta di vetro blu, prodotto in Egitto tra la fine del VII e l'inizio del VI secolo avanti Cristo. «È l'immagine del dio Horus, divinità del cielo e del sole - spiega Marconi -, è uno dei più importanti oggetti di produzione egizia scoperti in Sicilia». E poi ancora una grande quantità di frammenti di ceramica di Megara Hyblaea, la "madrepatria". 

Insomma, Selinunte è un palinsesto che promette di svelare ancora molto di se stessa e di una storia da capitale del Mediterraneo governata dal tiranno Pitagora, poi dallo spartano Eurileone, poi forse anche da regimi oligarchici e partiti anti-tirannici, storia oscillante tra Oriente e Occidente, tra l'appoggio ai tentativi espansionistici delle colonie greche "gemelle", e l'alleanza tattica per ragioni commerciali con Cartagine, la potenza leader della Sicilia occidentale.

Una storia spezzata dall'assedio di Annibale che, sbarcato in difesa di Segesta, storica rivale di Selinunte, piombò sulla città che attendeva invano rinforzi da Siracusa e da Agrigento. I selinuntini resistettero eroicamente per nove giorni, poi dovettero arrendersi: la città fu devastata e la popolazione uccisa in massa, si aprì una nuova stagione lontana dallo splendore antico. Ma quell'epoca è nascosta tra i templi e riemerge adesso, pezzo dopo pezzo. 

Virgilio, Donatello e il mistero del cavallo Carafa. Giovanni Battista Tomassini su La Repubblica il 25 Luglio 2022.  

Due splendide teste di cavallo in bronzo, poste a confronto nella bella mostra su Donatello, a Palazzo Strozzi a Firenze, testimoniano secoli di cultura equestre e affascinano con le loro storie, intrecciate nel corso dei secoli.

Dicevano che a crearla fosse stato addirittura Virgilio, il poeta dell’Eneide, grazie alle sue capacità di mago, oltre che di inventore di versi. Una gigantesca testa di cavallo in bronzo, che ritraeva un animale fremente, con le vene gonfie, la bocca semiaperta, il collo possente e un’espressione furiosa negli occhi. Si pensava fosse l’unica parte rimasta di un grande monumento equestre, collocato in una delle piazze che si aprivano lungo il decumano maggiore della città di Napoli, l’attuale Piazza Sisto Riario Sforza. Il poeta, che a Napoli studiò filosofia, visse per diversi anni e poi fu sepolto, avrebbe realizzato la grande statua con le sue arti magiche, come una sorta di gigantesco talismano, in grado di guarire dalle malattie i cavalli che venivano allevati in Campania. La leggenda sulla protome bronzea che dal 1471 troneggiava nel cortile del palazzo napoletano di Diomede Carafa viene riportata anche da Matilde Serao, nelle sue Leggende napoletane (1881). Napoli aveva una profonda e antica cultura equestre e la statua divenne uno dei simboli della città. La sua chiara ispirazione classica contribuì a confondere le notizie relative alla sua effettiva origine. 

In realtà, già Giorgio Vasari, nella sua seconda stesura delle sue Vite de’ più eccellenti pittori e architettori (1568) l’attribuì correttamente a Donatello, definendola “tanto bella che molti la credono antica.” Nonostante la sua autorità, molti studiosi successivi continuarono però a ritenerla risalente al periodo ellenistico. La splendida mostra di Palazzo Strozzi a Firenze, dedicata a Donatello, che sarà possibile visitare ancora per una settimana (fino al 31 luglio) le dedica l’ultima sala del percorso, riunendola con quello che fu il suo modello classico. Una scelta sicuramente piaciuta al direttore di Palazzo Strozzi, Arturo Galansino, che è un grande appassionato di equitazione, come ha raccontato, in una recente intervista, proprio a la Repubblica dei Cavalli (Vita da direttore in “equilibrio dinamico” tra arte e cavalli). A partire dal 1993, la vera storia della stupefacente testa di cavallo Carafa è stata definitivamente ricostruita proprio dagli studi di Francesco Caglioti, che della mostra fiorentina è curatore.

In effetti, la testa è solo un frammento di quello che doveva essere un monumento equestre di grandi proporzioni. Virgilio però non c’entra. Nel 1454, quando il celebre monumento equestre del Gattamelata non era stato ancora collocato davanti alla chiesa di Sant’Antonio a Padova, a Donatello venne commissionato un’analoga statua equestre, che doveva celebrare Alfonso il Magnanimo ed essere collocato nel nicchione sopra l’arco trionfale all’ingresso del Maschio Angioino, a Napoli. Dopo il ritorno a Firenze di Donatello, l’artista ricevette pagamenti e lettere di incarico, per tramite del mercante fiorentino Bartolomeo Serragli e, pur oberato da molte altre committenze, cominciò a lavorare all’opera, a partire dal 1456. L’anno successivo, però, l’artista abbandonò Firenze per Siena e la lasciò incompiuta. E così rimase, dopo la morte del re Alfonso e dello stesso Serragli, avvenute entrambe nel 1458. 

Quando anche Donatello morì, nel 1466, la gigantesca testa venne acquisita dalle collezioni medicee. Nel 1471, Lorenzo il Magnifico la inviò come dono diplomatico a Diomede Carafa, che al seguito di Alfonso aveva partecipato alla conquista del Regno di Napoli da parte degli Aragonesi ed era divenuto ministro del successore di Alfonso, Ferrante d’Aragona. Lo stesso anno, il Carafa inviò una lettera di ringraziamento a Lorenzo e fece collocare la testa sulla facciata del cortile del suo palazzo, sul decumano inferiore della città di Napoli. Col tempo, però, la memoria dell’origine della statua, venne dimenticata e sostituita dalla leggenda. La testa di cavallo rimase nella sua collocazione sino al 1809, quando l’ultimo principe Carafa di Colubrano, la donò al Real Museo Borbonico, ritenendola una scultura di età classica risalente al III secolo a. C.. L’originale venne sostituito con una copia in terracotta, che si trova ancora collocata alla base della parete di fondo del cortile, sotto lo stemma aragonese.

È molto probabile che nella realizzazione della statua, così come probabilmente anche nella creazione del monumento a Gattamelata, Donatello si ispirò a un’altra testa (protome) di cavallo, questa di sicura origine classica. Si tratta di una testa in bronzo, databile tra il 340 e il 330 a. C., probabilmente realizzata in Magna Grecia, come indica la grafia di tre caratteri greci, emersi dopo l’ultimo restauro. La testa figura nell’inventario dei beni di Lorenzo il Magnifico, redatto alla fine del XV secolo. È probabile che venne acquistata dal nonno di Lorenzo, Cosimo il Vecchio, o da suo padre, Piero il Gottoso, entrambi appassionati collezionisti. Secondo il Vasari, sarebbe stato proprio Donatello a incoraggiare la passione di Cosimo per le antichità. Per Francesco Gaglioti, potrebbe quindi essere stato lo stesso artista a farla acquistare ai suoi ricchi committenti.

Dopo la caduta dei Medici, nel 1495, la testa venne sequestrata dalla Repubblica Fiorentina e trasferita in Palazzo della Signoria. Tornò nel palazzo in Via Larga, dopo il ritorno dei Medici a Firenze, nel 1512. Qui rimase e venne ammirata, un secolo e mezzo dopo, da Gian Lorenzo Bernini, che ne paragonò la squisita fattura a quella del cavallo del monumento equestre a Marco Aurelio. Alcuni anni dopo, Bartolomeo Cennini la incorporò in una fontana. Portata a Palermo, nel 1800, per essere sottratta all’avanzata delle truppe napoleoniche, fu riportata a Firenze nel 1815, per essere esposta negli Uffizi. Infine, nel 1890 entrò nella collezione del neonato Museo Archeologico Nazionale di Firenze.

La protome Medici-Riccardi sorprende per la naturalezza con cui l’ignoto artista ha saputo rappresentare la vitalità e la compostezza di questo magnifico esemplare. Un orecchio è puntato in avanti, mentre l’altro si rivolge all’indietro, come ad ascoltare il sussurro dell’auriga o del cavaliere che lo guida. Ogni dettaglio anatomico è riprodotto con esattezza: le froge leggermente dilatate, danno al cavallo un’aria volitiva ma, nel complesso, dalla figura promana un’impressione di docile nobiltà. Il cavallo di Donatello, invece, ha un’aria più impetuosa, resa ancora più impressionante dalle proporzioni mastodontiche. Anche in questo caso, le orecchie sono una orientata in avanti e l’altra all’indietro, ma quasi in un gesto di stizza. Le vene sono gonfie, come dopo un galoppo di carica, che il cavaliere domina a stento, col morso, che schiude la bocca schiumante. Entrambe testimoniano il profondo legame dell’uomo al cavallo attraverso i secoli e continuano ad affascinare e sorprendere tutti coloro che amano il bello e questi splendidi animali.

·        Il Futurismo.

Futurismo, nel 1922 una serata memorabile a Bari. Il Corriere delle Puglie del 27 settembre 1922. Sul «Corriere delle Puglie» di un secolo fa la visita del fondatore del movimento culturale Marinetti. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Settembre 2022.

«La serata futurista al Piccinni»: cento anni fa nel Teatro comunale della città di Bari si esibiva, tra apprezzamenti e critiche vivaci, Filippo Tommaso Marinetti. Giunto in Puglia insieme al poeta Francesco Cangiullo, alla stazione fu accolto con entusiasmo dai simpatizzanti del Futurismo, il movimento letterario, artistico e politico da lui fondato nel 1909. Ricevuti all’Hotel Cavour, i due artisti hanno fatto tappa al Barion, al Tennis e hanno persino concesso un’anticipazione della loro performance al Teatro Margherita.

Questo il racconto, apparso sul «Corriere delle Puglie» del 27 settembre 1922, della serata futurista: «Ieri sera il Teatro Piccinni era colmo di pubblico, ansioso di sentire la conferenza sul futurismo, e la declamazione dei versi dei poeti Filippo Tommaso Marinetti e Francesco Cangiullo. Un certo nervosismo era nella folla. Si udivano fischi e rumori di diversa natura, che all’alzata del sipario si mutarono in un uragano di applausi e fischi, fra cui presero presto sopravvento gli applausi.

Marinetti attese pazientemente con le braccia conserte che l’uragano passasse e, infatti, dopo che ebbe detto che non era il caso di fischiare prima d’averlo sentito parlare, potè ottenere un po’ di calma e comunicare la sua conferenza. Marinetti, spiegata l’essenza del futurismo, accennò pure alla parte politica di esso. Gli accenni politici furono specialmente applauditissimi. Durante la conferenza una parte non troppo numerosa del pubblico, ha creduto bene di accompagnare le parole dell’oratore con commenti più o meno spiritosi e salaci, con fischi variamente modulati, con altri suoni di natura più volgare dei fischi. Marinetti ha conservato la solita, tradizionale presenza di spirito, rimbeccando le osservazioni che scendevano dal loggione. Quando Marinetti s’è dichiarato filofascista e ha esaltato l’opera e i fini del fascismo, qualcuno ha protestato, osservando che il conferenziere doveva limitarsi a discorrere di arte e non divagare nella politica, ma il pubblico è insorto, improvvisando una dimostrazione patriottica».

Più burrascosa, si legge nella cronaca, è stata la declamazione dei versi, non priva di un «abbondante contorno di ortaggi»: nonostante i «proiettili vegetali», il poeta ha declamato versi celebri come l’“Aurora futurista” e, accompagnato dalla danza di due ballerini e dai tono-rumori, ha infine recitato “Battaglia nella nebbia”. All’uscita dal Teatro, al ristorante Fiorentino ebbe luogo il banchetto offerto dal Comitato universitario: esso, come lo definì Marinetti stesso, fu naturalmente «ultra-futurista»!

·        I Bronzi di Riace e di San Casciano dei Bagni.

In Toscana sono state ritrovate delle statue di bronzo di 2300 anni fa. Valeria Casolaro su L'Indipendente  il 10 novembre 2022.

«Una scoperta che riscriverà la storia»: così l’archeologo Jacopo Tabolli ha descritto il ritrovamento di 24 statue di bronzo, cinque delle quali alte quasi un metro, all’interno degli scavi di San Casciano dei Bagni, in Toscana. Rimaste nascoste per almeno 2300 anni, le statue sono state datate come risalenti ad un periodo compreso tra il II secolo a.C e il I secolo d.C. L’argilla sotto alla quale erano sepolte, all’interno di una vasca alta all’incirca tre metri, ha fatto in modo che i cimeli fossero ritrovati in perfetto stato di conservazione. Si tratta, secondo Tabolli, del «più grande deposito di statue dell’Italia antica» e «l’unico di cui abbiamo la possibilità di ricostruire interamente il contesto».

Massimo Osanna, Direttore Generale Musei al ministero della Cultura, ha definito la scoperta «la più importante dai Bronzi di Riace e certamente uno dei ritrovamenti più significativi fatti nella storia del Mediterraneo antico» e ha annunciato l’apertura di un museo «interamente dedicato alle scoperte del Bagno Grande» che verrà aperto «in un palazzo del centro storico». San Casciano dei Bagni è un comune molto piccolo, con appena 80 residenti nel centro storico e 1550 in totale. La sindaca, Agnese Carletti, lo descrive come un paese affetto dai problemi propri dell’«Italia profonda»: spopolamento, assenza di servizi, inadeguatezza delle strade e così via. Qui è stata fatta una delle scoperte più rilevanti degli ultimi anni.

Sono una cinquantina gli archeologi (con il supporto di numerosi altri specialisti, tra i quali geologi, acheo-botanici, esperti di epigrafia, di numismatica e così via) che per settimane hanno scavato all’interno della vasca, collocata in un santuario ricco di piscine, terrazze e fontane, il quale esisteva almeno dal III secolo a.C. e che è rimasto in attivo fino al V secolo d.C. Il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi ha immediatamente voluto sottolineare che «dire che sono come i Bronzi di Riace è un’eresia perché non c’è possibilità di paragone. Sono un umile omaggio della storia ai capolavori assoluti che i Bronzi rappresentano». Dal punto di vista storico, le statue costituiscono una testimonianza della transizione dall’epoca etrusca a quella romana. Con l’arrivo dell’epoca cristiana, il santuario venne chiuso ma non distrutto: le statue (probabilmente realizzate da artigiani locali) vennero adagiate sul fondo di una vasca e coperte con acqua e fango, che ne ha permesso la perfetta conservazione fino ad oggi. Gli esperti che hanno lavorato agli scavi ritengono alta la probabilità che, continuando a cercare, possano emergere altri cimeli.

Gennaro Sangiuliano, neo insediato ministro alla Cultura, ha sottolineato come si tratti di «un ritrovamento eccezionale che ci conferma una volta di più che l’Italia è un Paese fatto di tesori immensi e unici. La stratificazione di diverse civiltà è un unicum della cultura italiana». Il progetto a San Casciano è guidato dal 2019 da Jacopo Tabolli, archeologo e docente dell’Università per Stranieri di Siena, con la concessione del ministero della Cultura e il sostegno economico del Comune. [di Valeria Casolaro]

Sofia Gadici per lastampa.it il 10 novembre 2022.

Protetto per 2300 anni dal fango e dall'acqua bollente delle vasche sacre, è riemerso dagli scavi di San Casciano dei Bagni, in Toscana un deposito votivo composto da migliaia di monete ed ex voto e 24 statue in bronzo, 5 delle quali alte quasi un metro. Jacopo Tabolli, il docente dell'Università per Stranieri di Siena che dal 2019 guida il progetto, l'ha definita una scoperta storica. Ripercorriamo alcune tra le scoperte archeologiche più significative dell'ultimo secolo, ognuna delle quali ha contribuito ad aggiungere un tassello nella ricostruzione della storia dell'essere umano.   

Marco Gasperetti per corriere.it il 10 novembre 2022. 

Racconta la studentessa Helga, dottoranda in archeologia, che l’emozione più grande si è manifestata con un sentimento strano. È accaduto quando, mano dopo mano, le hanno passato la statua bronzea di Apollo arciere. L’ha lavata per togliere il fango caldo che l’aveva racchiusa come una conchiglia salvandola per 2.300 anni, l’ha accarezzata, ha guardato quel volto e il pensiero razionale si è unito all’emozione.

«In un attimo ho fatto un salto nel tempo — racconta Helga Maiorana — ho rivisto Etruschi e Romani nel santuario che stavamo esplorando. Ho incontrato sacerdoti e persone che erano lì a chiedere una grazia alle divinità, per guarire da un male, per avere figli, per superare momenti difficili e per ringraziare di un dono ricevuto. E ho sentito queste donne e questi uomini vicini».

Helga è una delle protagoniste della straordinaria scoperta del «tesoro» degli Etruschi e dei Romani di San Casciano dei Bagni, in provincia di Siena. Una studentessa-ricercatrice (sta lavorando alla tesi di dottorato di ricerca) come i tanti colleghi (molti gli studenti stranieri) che per anni hanno scavato nel fango cercando e trovando la meraviglia. 

Ragazzi guidati da un giovane professore di archeologia, Jacopo Tabolli, 38 anni e insieme agli archeologi della Sovrintendenza, sono passati (anche loro) alla storia. Qui a Siena sono già «gli Angeli del Bello», infangati anche loro come i giovani che nel 1966 andarono a ripulire la vicina Firenze dalla melma dell’alluvione per strappare dalla rovina capolavori inestimabili. È orgoglioso questo spicchio di «meglio gioventù» formato da studenti e ricercatori, spesso precari. 

Sostengono, con umiltà, che nonostante la scoperta mondiale, faticosissima e poco o per niente remunerativa, sono stati loro ad essere stati baciati dagli dei perché hanno imparato sudando ciò che nessun manuale poteva insegnare loro. Marco Pacifici, un trentenne, assegnista di ricerca all’università degli Stranieri di Siena, racconta d’essere rimasto sbalordito non tanto dalle bellezze delle statue e degli altri reperti, ma dai loro messaggi.

«Quasi mi sono commosso quando ho capito che le statue erano state gettate nella grande vasca dell’acqua termale del santuario non per disprezzo o incuria ma per rispetto — spiega —. Il bronzo era materiale prezioso in quelle epoche lontane, avrebbero potuto depredare tutto dopo la chiusura del tempio e invece, con un atto di ossequio che chiamerei assoluto, le hanno nascoste, protette. Così la grande vasca è diventata uno scrigno di un incontro tra civiltà pazzesco. Mi vengono i brividi a pensare che cosa ancora ci potrà svelare». Non solo arte, non soltanto reperti di bronzo, ma anche segreti del vissuto.

Come le offerte votive vegetali che Mattia Bischeri, anche lui assegnista di ricerca, sta cercando di decifrare e svelare. «Noci, pigne, rami di alberi, semi e pollini molti dei quali non locali e chissà da quale parte del mondo arrivati – dice Mattia -. Tutto ancora incredibilmente intatto perché salvato dal fango, e dalla geochimica dell’acqua, un universo di doni e preghiere». E poi ci sono da studiare e decifrare le braccia, le mani, i piedi di bronzo. Non resti di statue distrutti dal tempo, ma anch’esse opere votive legati al culto della guarigione.

I reperti adesso sono in un laboratorio di Grosseto, una sorta di bunker quasi inaccessibile. Poi saranno restaurati a Firenze, all’Opificio delle Pietre Dure. Mentre nel piccolo comune di San Casciano dei Bagni la sindaca Agnese Carletti, che nel 2019 fece acquistare dal Comune il terreno di proprietà di un contadino dove era sepolto il santuario etrusco e romano, ieri ha svelato che il ministero ha già acquistato un antico edificio nel centro storico che diventerà il museo delle statue risorte dal fango.

San Casciano dei Bagni, una delle studentesse che ha partecipato agli scavi: “Che emozione irripetibile veder affiorare quel gomito”. Azzurra Giorgi su La Repubblica il 9 Novembre 2022.

Chiara Fermo, 27 anni, laureanda magistrale a Siena, è tra i giovani che hanno partecipato alla campagna e che ora ricostruiscono un’esperienza unica

"Rimarrà una delle scoperte più belle che riuscirò a fare". Il ritrovamento a San Casciano dei Bagni è per tutti "incredibile". Lo è per i più esperti, reduci da molteplici scavi in Italia e all'estero, e tanto più per chi ha cominciato ad andare sul campo solo pochi anni fa. Perché ad aver lavorato allo scavo in provincia di Siena ci sono molti studenti, sia del primo anno che vicini alla laurea, come Chiara Fermo, 27 anni, laureanda magistrale in archeologia all'Università di Siena.

San Casciano, i ricercatori (con molti precari): «Scoprire quelle statue è stato un viaggio nel tempo, emozione unica». Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera il 9 Novembre 2022.

A Siena ribattezzati «Gli Angeli del Bello», richiamo a quelli del «Fango» che salvarono Firenze nel 1966. I ricercatori dell’Università per Stranieri protagonisti: «Magari non abbiamo il posto fisso, ma gli dei ci hanno baciato»

Racconta la studentessa Helga, dottoranda in archeologia, che l’emozione più grande si è manifestata con un sentimento strano. È accaduto quando, mano dopo mano, le hanno passato la statua bronzea di Apollo arciere. L’ha lavata per togliere il fango caldo che l’aveva racchiusa come una conchiglia salvandola per 2.300 anni, l’ha accarezzata, ha guardato quel volto e il pensiero razionale si è unito all’emozione. «In un attimo ho fatto un salto nel tempo — racconta Helga Maiorana — ho rivisto Etruschi e Romani nel santuario che stavamo esplorando. Ho incontrato sacerdoti e persone che erano lì a chiedere una grazia alle divinità, per guarire da un male, per avere figli, per superare momenti difficili e per ringraziare di un dono ricevuto. E ho sentito queste donne e questi uomini vicini».

Helga è una delle protagoniste della straordinaria scoperta del «tesoro» degli Etruschi e dei Romani di San Casciano dei Bagni, in provincia di Siena. Una studentessa-ricercatrice (sta lavorando alla tesi di dottorato di ricerca) come i tanti colleghi (molti gli studenti stranieri) che per anni hanno scavato nel fango cercando e trovando la meraviglia.

Ragazzi guidati da un giovane professore di archeologia, Jacopo Tabolli, 38 anni e insieme agli archeologi della Sovrintendenza, sono passati (anche loro) alla storia. Qui a Siena sono già «gli Angeli del Bello», infangati anche loro come i giovani che nel 1966 andarono a ripulire la vicina Firenze dalla melma dell’alluvione per strappare dalla rovina capolavori inestimabili. È orgoglioso questo spicchio di «meglio gioventù» formato da studenti e ricercatori, spesso precari.

Sostengono, con umiltà, che nonostante la scoperta mondiale, faticosissima e poco o per niente remunerativa, sono stati loro ad essere stati baciati dagli dei perché hanno imparato sudando ciò che nessun manuale poteva insegnare loro. Marco Pacifici, un trentenne, assegnista di ricerca all’università degli Stranieri di Siena, racconta d’essere rimasto sbalordito non tanto dalle bellezze delle statue e degli altri reperti, ma dai loro messaggi. «Quasi mi sono commosso quando ho capito che le statue erano state gettate nella grande vasca dell’acqua termale del santuario non per disprezzo o incuria ma per rispetto — spiega —. Il bronzo era materiale prezioso in quelle epoche lontane, avrebbero potuto depredare tutto dopo la chiusura del tempio e invece, con un atto di ossequio che chiamerei assoluto, le hanno nascoste, protette. Così la grande vasca è diventata uno scrigno di un incontro tra civiltà pazzesco. Mi vengono i brividi a pensare che cosa ancora ci potrà svelare». Non solo arte, non soltanto reperti di bronzo, ma anche segreti del vissuto.

Come le offerte votive vegetali che Mattia Bischeri, anche lui assegnista di ricerca, sta cercando di decifrare e svelare. «Noci, pigne, rami di alberi, semi e pollini molti dei quali non locali e chissà da quale parte del mondo arrivati – dice Mattia -. Tutto ancora incredibilmente intatto perché salvato dal fango, e dalla geochimica dell’acqua, un universo di doni e preghiere». E poi ci sono da studiare e decifrare le braccia, le mani, i piedi di bronzo. Non resti di statue distrutti dal tempo, ma anch’esse opere votive legati al culto della guarigione. I reperti adesso sono in un laboratorio di Grosseto, una sorta di bunker quasi inaccessibile. Poi saranno restaurati a Firenze, all’Opificio delle Pietre Dure. Mentre nel piccolo comune di San Casciano dei Bagni la sindaca Agnese Carletti, che nel 2019 fece acquistare dal Comune il terreno di proprietà di un contadino dove era sepolto il santuario etrusco e romano, ieri ha svelato che il ministero ha già acquistato un antico edificio nel centro storico che diventerà il museo delle statue risorte dal fango.

Da open.online l’8 novembre 2022.

 A San Casciano dei Bagni in Toscana è riemerso dagli scavi un «ritrovamento eccezionale»: 24 statue di bronzo, 5 delle quali alte quasi un metro, e perfettamente integre. «Questo conferma una volta di più che l’Italia è un paese fatto di tesori immensi e unici», ha commentato il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, che in queste ore ha voluto visitare il laboratorio nella città toscana dove è iniziato il restauro delle opere.

«L’ho detto più volte, – continua il neo ministro – l’Italia può godere di una stratificazione di epoche e di grandi civiltà che si sono succedute nella penisola. E queste sono testimonianze che ci restituiscono il senso immanente di tutto ciò, la spiritualità. Tutto questo andrà valorizzato, armonizzato e potrà rappresentare un’ulteriore occasione per la crescita spirituale della nostra cultura, ma anche dell’industria culturale del nostro Paese».

Poi il ringraziamento agli archeologi: «Davvero complimenti a chi ha creduto in questi progetti, a chi ha riportato questi reperti conservati così bene e che testimoniano – mi dicono gli esperti – un’epoca importante di transazione dal mondo etrusco a quello romano. Panta rei, tutto scorre: il divenire della nostra cultura». Per Massimo Osanna, dg musei del Mic si tratta invece di «Una scoperta più importante dai Bronzi di Riace».

La scoperta

L’archeologo Jacopo Tabolli, docente dell’Università per Stranieri di Siena, che dal 2019 guida il progetto con la concessione del ministero della Cultura e il sostegno anche economico del comune toscano, aveva descritto il ritrovamento come «una scoperta che riscriverà la storia e sulla quale sono già al lavoro oltre 60 esperti di tutto il mondo». Igea, la dea della salute che fu figlia o moglie di Asclepio, Apollo e poi ancora divinità, matrone, fanciulli, imperatori protette per 2300 anni dal fango e dall’acqua bollente delle vasche sacre, sono state realizzate – continua Tabolli – «con tutta probabilità da artigiani locali si possono datare tra il II secolo avanti Cristo e il I dopo, mentre il santuario, con le sue piscine ribollenti, le terrazze digradanti, le fontane, gli altari, esisteva almeno dal III secolo a.C. e rimase attivo fino al V d.C quando in epoca cristiana venne chiuso ma non distrutto».

Le statue, come racconta il docente, arrivano da grandi famiglie del territorio, esponenti delle élite del mondo etrusco e poi romano, proprietari terrieri, signorotti locali, classi agiate di Roma e addirittura imperatori. Ora le statue verranno ospitate all’interno di un palazzo cinquecentesco nel borgo di San Casciano: un museo al quale si aggiungerà in futuro un vero e proprio parco archeologico.

San Casciano dei Bagni, ritrovate oltre 20 statue di bronzo: “Scoperta più importante da Riace”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l’8 Novembre 2022.

È la scoperta più importante dai Bronzi di Riace e uno dei ritrovamenti di bronzi più significativi mai avvenuti nella storia del Mediterraneo antico. Il ministro della Cultura Sangiuliano: "Ritrovamento eccezionale, Italia Paese di tesori immensi e unici"

Oltre 20 statue di bronzo in perfetto stato di conservazione, ex voto e altri oggetti, ma anche cinquemila monete in oro, argento e bronzo. Sono queste le nuove eccezionali scoperte emerse dagli scavi di San Casciano dei Bagni, in Toscana. Come annuncia il Mic, i reperti sono venuti alla luce nelle prime settimane di ottobre grazie alla campagna di scavo al santuario etrusco-romano connesso all’antica vasca sacra della sorgente termo-minerale del Bagno Grande.

Iniziato nel 2019, lo scavo è stato promosso dal ministero della Cultura e dal comune toscano con il coordinamento di Jacopo Tabolli dell’Università per Stranieri di Siena e coordinatore degli scavi. A San Casciano, grazie ai recenti finanziamenti del Mic, nascerà ora un nuovo museo per ospitare i reperti. “La scoperta permette di riscrivere completamente il rapporto tra questi due popoli – evidenzia Tabolli – Tra le due culture infatti non c’è una divisione netta come viene da pensare ma si è invece generata una fluidità che viene testimoniata da questi reperti. A San Casciano dei Bagni si era creato un humus multiculturale ed io leggo anche un messaggio di pace, visto che in quest’epoca i due popoli erano in guerra“.

Per il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, si tratta di “un ritrovamento eccezionale, che conferma una volta di più che l’Italia è un paese di tesori immensi e unici. La stratificazione di diverse civiltà è un unicum della cultura italiana”, dichiara il titolare del Mic, che proprio ieri, in occasione di una delle sue prime visite fuori Roma, è stato a Grosseto al laboratorio dell’Istituto Centrale del Restauro, dove sono in corso le attività di studio e i primi interventi sui bronzi. “Mi sono voluto personalmente complimentare con gli archeologi e il team di ricerca – ha affermato il ministro – Lo studio e la valorizzazione di questo tesoro sarà un’ulteriore occasione per la crescita spirituale della nostra cultura e per il rilancio di territori meno noti al turismo internazionale, ma anche come volano per l’industria culturale della Nazione“.

“Una scoperta che riscriverà la storia e sulla quale sono già al lavoro oltre 60 esperti di tutto il mondo“, dichiara l’etruscologo responsabile dello scavo, Jacopo Tabolli che sottolinea: “Cinquanta anni dopo la scoperta nel 1972 dei celebri Bronzi di Riace, si riscrive a San Casciano dei Bagni la storia dell’antica statuaria in bronzo di età etrusca e romana. Quello del sito toscano è il più grande deposito di statue in bronzo di età etrusca e romana mai scoperto nell’Italia antica e uno dei più significativi di tutto il Mediterraneo: senza eguali soprattutto perché, finora, di questa epoca si conoscevano prevalentemente statue in terracotta”. L’elemento costante della grande scoperta di San Casciano dei Bagni è l’acqua, “il santuario infatti – ricorda Tabolli – era dedicato alle divinità delle acque e a queste si legano le offerte che sono state fatte e che abbiamo ritrovato nella vasca centrale“.

“E’ la scoperta più importante dai Bronzi di Riace e certamente uno dei ritrovamenti di bronzi più significativi mai avvenuti nella storia del Mediterraneo antico”, commenta il direttore generale dei musei, Massimo Osanna, che ha appena approvato l’acquisto del palazzo cinquecentesco che ospiterà nel borgo di San Casciano le meraviglie restituite dal Bagno Grande, un museo al quale si aggiungerà in futuro un vero e proprio parco archeologico. “L’importanza del metodo usato in questo scavo è rappresentata anche dalla collaborazione tra specialisti di ogni disciplina: dagli architetti ai geologi, dagli archeobotanici agli esperti di epigrafia e numismatica“, spiega il Soprintendente Archeologia Belle Arti e Paesaggio del Mic, Luigi La Rocca.

“Questa scoperta offre a San Casciano un’opportunità che non è solo culturale e turistica, ma è una vera e propria occasione di rinascita“, dichiara il Sindaco del comune toscano, Agnese Carletti. “A San Casciano nasceranno un nuovo museo, che ospiterà le eccezionali statue, e un parco archeologico. Due nuovi luoghi che saranno per il territorio un vero e proprio motore di sviluppo che andrà ad aggiungersi alla già entusiasmante presenza dei giovani archeologi provenienti da tutto il mondo che, grazie a questo scavo, stanno ripopolando il paese ormai per molti mesi all’anno”.

I bronzi di San Casciano – riporta una nota del Mic – raffigurano le divinità venerate nel luogo sacro, assieme agli organi e alle parti anatomiche per le quali si chiedeva l’intervento curativo della divinità attraverso le acque termali. Dal fango caldo sono riemerse in queste settimane effigi di Igea e di Apollo, oltre a un bronzo che richiama il celebre Arringatore, scoperto a Perugia e nelle collezioni storiche del Museo Archeologico Nazionale di Firenze.

L’eccezionale stato di conservazione delle statue all’interno dell’acqua calda della sorgente ha permesso anche di preservare meravigliose iscrizioni in etrusco e latino che furono incise prima della loro realizzazione. Nelle iscrizioni si leggono nomi di potenti famiglie etrusche del territorio dell’Etruria interna, dai Velimna di Perugia ai Marcni noti nell’agro senese. Accanto a onomastica e forme dedicatorie in etrusco troviamo iscrizioni in latino, che menzionano anche le aquae calidae, le fonti calde del Bagno Grande, dove le statue furono collocate.

La gran parte di questi capolavori dell’antichità si data tra il II secolo a.C. e il I secolo d.C, un periodo storico di importanti trasformazioni nella Toscana antica, nel passaggio tra Etruschi e Romani. In quest’epoca di grandi conflitti tra Roma e le città etrusche, ma anche di lotte all’interno del tessuto sociale dell’Urbe, nel santuario del Bagno Grande le nobili famiglie etrusche, in una fase in cui l’espansione di Roma significa anche osmosi culturale, dedicarono le statue all’acqua sacra. Un contesto multiculturale e plurilinguistico assolutamente unico, di pace, circondato da instabilità politica e guerra. Redazione CdG 1947

Gabriele Beccaria per “La Stampa” il 9 novembre 2022.

Un giorno gli dei tacquero. Le statue furono staccate dai basamenti e deposte nelle acque termali, gli ex voto adagiati sul fondo della piscina rituale, le monete sparse qua e là. Era il V secolo d.C. e l’ordinata operazione di smantellamento del sito sacro è diventata una capsula del tempo. Ora si è svelata, a San Casciano dei Bagni, vicino a Siena, e - spiegano gli archeologi - ci restituisce il più grande ritrovamento di figure femminili e maschili in bronzo di età etrusca e romana, in Italia e nel Mediterraneo. Una scoperta da togliere il fiato.

Ventiquattro statue, di divinità benigne e di mortali sofferenti, che si erano affidati ai loro poteri taumaturgici. Riemergono le effigi di Igea e di Apollo. La prima, dea della salute e dell’igiene. Il secondo, incarnazione della musica e ispiratore di profezie, protettore delle scienze e delle arti mediche. Tornano da un passato lontano, tra il II e il I secolo a.C., così come le voci dei fedeli, intrappolate nelle iscrizioni con le firme di famiglie potenti dell’Etruria, come i Velimna e i Marcni. 

«Il santuario appare come un laboratorio di ricerca sulla diversità culturale nell’antichità, testimonianza unica delle mobilità etrusca e romana», sottolinea Jacopo Tabolli, direttore del progetto di scavo ed etruscologo dell’Università per Stranieri di Siena. La Toscana degli Etruschi sta completando la sua metamorfosi nella Toscana dei Romani e il sito miracoloso di Bagno Grande, con i volti ipnotici delle statue che lo decorano, rappresenta un’isola pacifica in un mondo di ferro e sangue.

Le città etrusche hanno perso o stanno perdendo libertà e identità, eppure il santuario intreccia un’eredità che Roma non dimenticherà (secoli dopo, l’imperatore Claudio, con la passione dello storico, avrebbe dettato i Tirrenikà, una monumentale Storia degli Etruschi in 20 libri e in lingua greca, di cui, purtroppo, non ci è pervenuto nulla). 

Il fango, invece, ha preservato le statue e ha sigillato migliaia di monete, oltre che in bronzo in oro e argento. E ha miracolosamente salvato le riproduzioni delle parti del corpo che dovevano essere guarite dai celesti interventi. Un tesoro sotto la lente di team multidisciplinari: archeologi accanto a geologi, archeobotanici accanto a numismatici. Poi, tra non molto, tutto sarà visibile ai profani in un nuovo museo e in un parco archeologico a San Casciano. Mezzo secolo dopo la scoperta dei Bronzi di Riace.

I bronzi del fango. A San Casciano dei Bagni rinvenute 24 statue di divinità, matrone, fanciulli e imperatori. Un tesoro conservato 2.300 anni nelle terme di etruschi e romani: "Il più importante da Riace". Daniela Uva il 9 Novembre 2022 su Il Giornale.

Divinità, matrone, fanciulli e imperatori. Un tesoro immenso, protetto per 2.300 anni dal fango e dall'acqua bollente delle vasche sacre e riemerso dagli scavi di San Casciano dei Bagni, in Toscana. Proprio qui gli archeologi hanno scoperto 24 statue di bronzo etrusche e romane, delle quali cinque alte quasi un metro e perfettamente integre, insieme con migliaia di monete e altri oggetti.

Il ritrovamento è stato immediatamente battezzato come «la scoperta più importante dai Bronzi di Riace» e per questo destinato a «riscrivere la storia» come spiega Jacopo Tabolli, docente dell'università per Stranieri di Siena che dal 2019 guida il progetto con la concessione del ministero della Cultura e il sostegno anche economico del piccolo comune toscano. Nel sito è possibile ammirare un giovane efebo, che sembra quasi dormire adagiato sul fondo della vasca romana. Accanto a lui c'è Igea, la dea della salute. Poco più in là, ancora in parte sommerso dall'acqua, si intravede Apollo. E poi intorno altri tesori appartenenti a un deposito votivo del tutto inedito. E reso ancora più straordinario dalla presenza di un'incredibile quantità di iscrizioni in etrusco e in latino, alle quali si aggiungono migliaia di monete oltre a una serie di altrettanto interessanti offerte vegetali.

Insediato da pochi giorni, il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, ha visitato il laboratorio di restauro applaudendo a un «ritrovamento eccezionale che ci conferma una volta di più che l'Italia è un Paese fatto di tesori immensi e unici».

Realizzate con tutta probabilità da artigiani locali, le statue si possono datare tra il secondo secolo avanti Cristo e il primo dopo Cristo. Il santuario, con le sue piscine ribollenti, le terrazze, le fontane e gli altari, esisteva almeno dal terzo secolo a.C. e rimase attivo fino al quinto d.C. Successivamente le vasche furono sigillate con pesanti colonne di pietra e il loro contenuto affidato all'acqua.

Anche per questo, rimossa la copertura, gli archeologi si sono trovati davanti un tesoro immenso e ancora intatto. Disposte in parte sui rami di un enorme tronco d'albero fissato sul fondo della vasca, in molti casi ricoperte di iscrizioni, le statue provengono dalle grandi famiglie del territorio. Da esponenti delle élite del mondo etrusco e poi romano, da proprietari terrieri, signorotti locali, classi agiate di Roma e addirittura imperatori.

I bronzi raffigurano le divinità venerate nel luogo sacro, assieme agli organi e alle parti anatomiche per le quali si chiedeva l'intervento curativo della divinità attraverso le acque termali. Il loro eccezionale stato di conservazione ha permesso anche di preservare meravigliose iscrizioni in etrusco e latino che furono incise prima della loro realizzazione.

«In Toscana scriviamo una nuova pagina di storia a conferma di quanto la nostra regione sia terra dal grande patrimonio culturale» dice orgoglioso il governatore Eugenio Giani.

Mentre il capogruppo di Fratelli d'Italia in Consiglio regionale, Francesco Torselli, e il consigliere regionale Gabriele Veneri, componente della commissione Cultura, si augurano che «le statue rimangano nel territorio dove sono state trovate. Va costruita un'adeguata dimora e realizzare un percorso museale e turistico degno, così da dare risalto e considerazione ad un territorio periferico che vedrebbe in questa scoperta un rimbalzo in termini di immagine. La Toscana è uno scrigno di tesori, spetta ai toscani custodirli e valorizzarli».

Matteo Sacchi per “il Giornale” il 9 novembre 2022.

Un ritrovamento immenso, protetto per 2300 anni dal fango e dall'acqua bollente delle vasche sacre e riemerso dagli scavi di San Casciano dei Bagni, in Toscana. Proprio qui, oltre a molti altri reperti, gli archeologi hanno ritrovato 24 statue di bronzo etrusche e romane, delle quali cinque alte quasi un metro e perfettamente integre, insieme con migliaia di monete e altri oggetti. Il ritrovamento è stato immediatamente battezzato dalla stampa come «la scoperta più importante dai Bronzi di Riace». Abbiamo chiesto alla storica del Mondo antico Silvia Ronchey di commentarla per noi.

Professoressa Ronchey cosa sono esattamente le statue che sono state ritrovate?

«Sono state ritrovate essenzialmente delle statue votive, lasciate da personaggi e famiglie abbienti per ringraziare una divinità, ancora non chiaramente riconosciuta per la guarigione da una malattia o un voto esaudito. Qualcuno ha pensato ad Apollo. Ma dalle evidenze sembrerebbe più probabile una divinità femminile legata alle acque. C'è una statua che reca la scritta Igeia che in greco significa salute, guarigione, potrebbe riferirsi specificatamente a quella dea ma è presto per dirlo. Detto questo il primo dato interessante è che le statue sono insolitamente grandi e di ottima fattura». 

Qualcuno ha parlato dei nuovi Bronzi di Riace...

«Si tratta di un paragone sbagliato a mio avviso. Quelle erano opere d'arte irripetibili. E anche dire che è la scoperta più importante dopo quella dei due bronzi è discutibile, ad esempio in mezzo c'è anche l'Auriga di Mozia. Ma indubbiamente è un ritrovamento eccezionale. Dove l'eccezionalità è data non tanto dalla qualità delle statue, di buona fattura, ma dal fatto di aver ritrovato sostanzialmente un luogo di culto intatto. 

Abbiamo un grandissimo numero di ex voto che rappresentano organi, parti del corpo, dal fegato all'orecchio, sono preziosissimi per gli storici della medicina ad esempio. Ci faranno capire cosa la gente veniva a curare a San Casciano. I ritrovamenti coprono un lasso di tempo enorme».

 La grande fortuna è stata che il santuario antico è stato chiuso, sigillato, ma non distrutto...

«Come spesso capita ai culti pagani sono subentrati i culti cristiani. Ma in questo caso c'è stata in un certo senso una transizione morbida, chiaramente non violenta. Le vasche con le statue e gli ex voto all'interno sono state chiuse e sigillate senza rompere nulla. 

Quasi in modo amorevole mi verrebbe da dire. E questo ci dice che non sempre ci si deve immaginare una cesura netta e violenta tra cristianesimo e paganesimo. La tradizione delle cure termali del resto in questi luoghi ha resistito sino ad i giorni nostri e anche questo è indicativo del fatto che comunque il santuario era posizionato nel luogo giusto». 

Nell'antichità era una meta per ricchi?

«Non possiamo dire che fosse solo per ricchi. Di certo i loro ex voto in bronzo si sono conservati, quindi ricche famiglie ci venivano. Magari ex voto più modesti sono andati persi. Diciamo che quello che è stato ritrovato è tutto di alta qualità, non ci sono cose rozze. Del resto ancora oggi San Casciano è una meta abbastanza radical chic...».

Risalgono a un periodo compreso tra il II secolo a.C e il I d.C. San Casciano dei Bagni come Riace, il fango restituisce 24 statue di bronzo ‘nascoste’ da 2300 anni. Redazione su Il Riformista l’8 Novembre 2022

Una scoperta sensazionale, paragonabile per importanza a quella dei “bronzi di Riace”. Ventiquattro statue in bronzo, cinque delle quali alte quasi un metro e perfettamente integre, sono riemerse dagli scavi di Casciano dei Bagni, in Toscana, assieme a monete e iscrizioni latine ed etrusche, nelle vasche sacre del santuario votivo.

“Una scoperta che riscriverà la storia” annuncia in anteprima all’Ansa l’archeologo Jacopo Tabolli, docente dell’Università per Stranieri di Siena che dal 2019 guida il progetto con la concessione del ministero della Cultura e il sostegno anche economico del piccolo comune toscano.

Dal fango sono emerse infatti statue di matrone, fanciulli, divinità e imperatori: tutti “protetti” per 2300 anni da fango e acqua bollente delle vasche sacre degli scavi di San Casciano dei Bagni.

Le 24 statue secondo Tabolli si possono datare tra il II secolo avanti Cristo il I dopo Cristo, realizzata probabilmente da artigiani locali. Quanto al santuario, esisteva almeno dal III secolo a.C. e rimase attivo fino al V d.C. quando, in epoca cristiana, venne chiuso ma non distrutto. Fu in quel periodo storico che le vasche vennero sigillate con colonne di pietra e le statue immerse nell’acqua: proprio per questo gli archeologi hanno trovato un tesoro di fatto intatto.

“La scoperta più importante dai Bronzi di Riace e certamente uno dei ritrovamenti di bronzi più significativi mai fatti nella storia del Mediterraneo antico“, commenta da San Casciano il direttore generale musei del Ministero della Cultura Massimo Osanna, che ha appena approvato l’acquisto del palazzo cinquecentesco che ospiterà nel borgo le meraviglie restituite dal Bagno Grande. Un museo al quale si aggiungerà in futuro un vero e proprio parco archeologico.

Anche il neo ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha già visitato il laboratorio di restauro che ha appena accolto le statue: “Un ritrovamento eccezionale che ci conferma una volta di più che l’Italia è un paese fatto di tesori immensi e unici. La stratificazione di diverse civiltà è un unicum della cultura italiana“.

Il ‘cantiere’ di Casciano dei Bagni adesso chiuderà, per riprendere poi nella primavera del 2023. Questo inverno servirà agli archeologi e studiosi per restaurare quanto emerso dalle vasche: “Sarà un lavoro di squadra, com’è stato sempre finora“, commenta Tabolli.

Cinquant’anni anni dopo la scoperta nel 1972 dei celebri “bronzi di Riace”, si riscrive a San Casciano dei Bagni la storia dell’antica statuaria in bronzo di età etrusca e romana. Quello del sito toscano è il più grande deposito di statue in bronzo di età etrusca e romana mai scoperto nell’Italia antica e uno dei più significativi di tutto il Mediterraneo: senza eguali soprattutto perché, finora, di questa epoca si conoscevano prevalentemente statue in terracotta.

Riace 50 anni di gloria. Redazione e Benedetta Basile su L'Identità il 19 Ottobre 2022. 

Il 2022 è l’anno delle celebrazioni del 50esimo Anniversario dal ritrovamento dei Bronzi di Riace. Si tratta, quindi, di dodici mesi fondamentali per una Regione, ricca di storia e cultura, ma spesso troppo poco valorizzata e soprattutto poco conosciuta. Questo importante traguardo per l’archeologia e per la storia ellenistica, pertanto, rappresenta un vero e proprio punto di vista. Un risultato che certamente lo si deve a Giuseppe Foti, all’epoca soprintendente archeologico in Calabria.

Ecco perchè il figlio Alessandro ricorda gli occhi pieni di emozione del padre, quando in quei giorni del ’72, di ritorno da un viaggio in nave nel Mar Nero con tutta la famiglia, gli vennero sottoposte le immagini di questi eccezionali reperti, che poi hanno fatto il giro del pianeta.

Furono ritrovate, per metà ricoperte dalla sabbia, a 200 metri dalla spiaggia e a 8 di profondità, dal sub romano Stefano Mariottini, durante una delle sue tante immersioni nella località di Porto Forticchio a Riace Marina.

Il giovane fece subito una segnalazione alle autorità locali e le due statue furono recuperate tra il 21 e il 22 agosto dal nucleo sommozzatori dei carabinieri con l’aiuto di un pallone gonfiato con l’aria delle bombole. Una scoperta, che sin dal primo, lasciò tutti senza fiato e soprattutto creò molti interrogativi.

Le teorie sull’identità dei due Bronzi, ad esempio, uno chiamato bronzo A e l’altro bronzo B, sono tante: c’è chi ipotizza che fossero due atleti e chi ritiene che siano eroi o guerrieri dei tempi.

Parecchi sono anche gli scultori dell’antichità a cui vengono attribuite le opere, come Fidia e Mirone, ma in molti, tra cui Daniele Castrizio dell’Università di Messina, ritengono che appartengano al gruppo di statue dei “Fratricidi di Pitagora”.

Se così fosse, i Bronzi rappresenterebbero i due figli di Edipo, Eteocle e Polinice, che si contesero il trono di Tebe dopo l’abdicazione del padre.

Una prova a favore di questa affascinante ricostruzione si ritrova in uno dei libri del poema di Publio Papinio Stazio, “La Tebaide”, dove si afferma che a Roma le statue fossero ben cinque e sarebbero dovute essere trasferite a Costantinopoli via mare, ma non vi arrivarono mai a causa del naufragio della nave sulla quale viaggiavano. D’altronde, a quei tempi, era normale che qualcosa di perdere in mare.

Castrizio studia i Bronzi da oltre vent’anni e collabora con i Carabinieri del Nucleo Tutela del Patrimonio nelle indagini sulla presunta sparizione di elmi, lance, scudi e di altre statue, di cui sostiene l’esistenza.

L’unica certezza che si ha di queste opere è l’origine, furono realizzate ad Argos e ne è la prova l’argilla con cui furono creati i modelli utilizzati per gli stampi in cera nei quali fu colato il bronzo di cui sono composte.

Al loro ritrovamento le due opere vennero sottoposte a un’importante restauro, che durò ben otto anni, ad opera di Renzo Giachetti ed Edilberto Formigli, successivamente vennero esposte a Firenze dal dicembre 1980 per un mese e poi al Quirinale, per volere dell’allora Presidente della Repubblica, Sandro Pertini.

Attualmente si trovano nel Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria (MArRC), che è considerato uno degli istituti museali archeologici più prestigiosi d’Italia.

Un altro sostenitore dell’esistenza di altre statue, oltre alle due rinvenute, è il sindaco di Riace, Antonio Trifoli, che pur di trovarle ha creato una massiccia campagna di ricerca nella località di Porto Forticchio e nei dintorni. Il primo cittadino stesso sostiene: “vorremmo avviare degli scavi ‘ad hoc’, naturalmente fatti da studiosi e personale specializzato. Speriamo di trovare altre ricchezze archeologiche. Ci sono stati nel corso degli anni molti elementi che hanno fatto pensare ad altre possibili scoperte.”

Mentre gli archeologi e gli appassionati continuano i loro studi, le loro ipotesi e le loro ricerche di reperti riconducibili ai Bronzi di Riace, quest’anno le due statue, recentemente candidate alla nomina di Patrimonio dell’Unesco, si sono viste protagoniste di molti eventi promossi dalla Regione Calabria per valorizzare le bellezze del patrimonio culturale e archeologico del territorio. I mesi estivi sono stati un susseguirsi di eventi musicali, teatrali e cinematografici con palcoscenici d’eccezione come i parchi di Locri, Kaulon e Palmi e Scilla, dei festeggiamenti davvero spettacolari con un occhio rivolto verso le scoperte del futuro.

Cinquant'anni di Bronzi di Riace: viaggio nel mondo dei guerrieri venuti dall'antica Grecia. La Repubblica il 12 Agosto 2022.

Da un lato un giovane, aitante e aggressivo, dall'altro un vecchio con un occhio solo: due guerrieri, alti quasi due metri e ribattezzati con poca fantasia "Bronzo A" e "Bronzo B". Sono passati cinquant'anni dal giorno in cui i Bronzi di Riace vennero scoperti casualmente sul fondo del mar Ionio, a pochi metri dalla spiaggia di Riace Marina, il 16 agosto del 1972. Da allora, nella loro nuova vita "pubblica", le due statue hanno conquistato l'attenzione degli studiosi e dei comuni cittadini, fino a diventare uno dei simboli artistici d'Italia. Le teorie sulle loro origini, i misteri e le polemiche attorno al loro ritrovamento, le curiosità sulla storia che raccontano e le ipotesi sul loro tragico naufragio mantengono accesa ancora oggi una passione che tocca non solo gli archeologi, ma tutti i visitatori che quotidianamente si mettono in coda per vederli al Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. Viaggio nel mondo dei due guerrieri venuti dall'antica Grecia. Di Antonio Nasso

Reggio Calabria: quando a Riace comparve una testa di riccioli (non erano polpi). Francesca Pini su Il Corriere della Sera il 6 agosto 2022.

Si celebra il favoloso ritrovamento dei Bronzi di Riace, uno dei più importanti degli ultimi 50 anni in Italia. Un grande fotografo, Luigi Spina, esperto di archeologia, ha ritratto queste due sculture come fossero persone in carne ed ossa. 

Un’esperienza di coppia con un’altra coppia, famosissima, di sculture classiche, due possenti nudi maschili in bronzo (dell’arte greca del V secolo a.C), alti quasi due metri. Per 24 ore, il fotografo Luigi Spina e la sua compagna Monica Romano hanno vissuto insieme ai Bronzi di Riace, nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria, che accoglie queste due star venute dal passato. Ritraendoli in modo anti-eroico, con toni chiaroscurali, raccogliendo le ombre, il non-comunicabile. Quale animo umano li ha realizzati come simbolo indispensabile per quella cultura dalla quale provengono? La mostra delle foto, straordinarie, di Luigi Spina, campàno e che dell’appartenenza ai luoghi ha fatto un emblema della propria arte (la prima campagna d’immagini la fece sull’anfiteatro romano di Capua, assolutamente da visitare) apre le celebrazioni per i cinquant’anni del ritrovamento in mare (il 16 agosto 1972, a Porto Fonticchio) di questi due capolavori assoluti.

Un capannello di curiosi

Quel mattino , un giovane sub romano, Stefano Mariottini, al posto di un polpo s’imbatté in un fondale profondo forse sei metri, in una forma umana, e poi in un’altra. Lo stupore fu grande. Così come la fibrillazione da parte degli archeologi di tutto il mondo. Subito si mise in moto la macchina del recupero, coinvolgendo la Soprintendenza e i Carabinieri. Una volta riportati a galla, la gente fece capannello attorno a questi “dei”. «Per apprezzarli pienamente, occorre andare oltre il concetto estetico di bellezza - siamo di fronte all’esasperazione della perfezione che, nella realtà, non esiste - e serve dunque un giudizio di valore. Sono nati per uno scopo diverso dal nostro, ma sono in mezzo a noi, sono di nessuno e di tutti. Si chiamano A e B, sono all’inizio dell’alfabeto, e dopo tutti questi secoli noi conosciamo solo una parte della loro storia», dice Luigi Spina che ha iniziato a fotografarli già con l’idea di un libro in testa (edito da 5 Continents nella collana Tesori nascosti, come anche l’altro suo, sui reperti nei depositi del Museo Archeologico Nazionale di Napoli).

Ecco quindi 16 foto formato 90x134 in questa mostra a cura di Carmelo Malacrino, direttore del Museo di Reggio Calabria (o della Magna Grecia) che fu progettato dal grande architetto Marcello Piacentini, su commissione del Podestà Pasquale Muritano, nel 1931, secondo i più innovativi criteri museografici. E poi riqualificato con un intervento dal 2009 al 2020 che ne ha visto l’ampliamento, e nel cui atrio è stata realizzata nel 2011 la piazza disegnata dall’artista cosentino Alfredo Pirri . I Bronzi sono ora perennemente custoditi nel museo di Reggio Calabria, ma furono al centro di una tenzone non da poco che li voleva custoditi altrove, in luoghi maggiormente frequentati dal punto di vista turistico, come Roma. La questione fu però chiusa dall’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che li assegnò al capoluogo calabrese. Però, prima della collocazione definitiva, volle goderseli per un po’ al Quirinale, dove furono ammirati dal 29 giugno al 12 luglio 1981, da 12mila visitatori al giorno.

I lunghi, meticolosi restauri (in primis sul posto al museo di Reggio Calabria, ma poi anche a Firenze e all’Istituto Centrale del Restauro di Roma) li hanno via via liberati dalle concrezioni marine che avevano intaccato il metallo, svelando poi nella loro riacquisita lucentezza le peculiari lavorazioni eseguite dall’artefice di cotanta bellezza. Infine mostrandoci della figura A i bulbi degli occhi in avorio, i denti in argento, le ciglia di rame così come le labbra e le areole dei seni. Mentre la figura B (di per sé meno bella, ma tutto è relativo) conserva un solo occhio integro e ha la testa coperta da un elmo attico. Originariamente armati, ad entrambi i bronzi mancano scudo, lancia e spada. Le sculture non furono create in una sola fusione, diverse parti del corpo sono state realizzate separatamente (come gli arti superiori) e poi assemblate. 

Luigi Spina nelle sue immagini indugia su particolari anatomici delle due figure, evidenziando la maestria dell’autore: le vene del braccio e le costole che affiorano sottopelle, i muscoli del braccio o i glutei, la cascata di riccioli, così aderendo al naturalismo con cui lo scultore greco ha voluto rappresentare la nudità di questi due uomini dalla corporatura atletica. Su chi sia l’autore (o gli autori), il dibattito è ancora aperto, però si fanno dei nomi (Onatas di Egina, Ageladas di Argo, Pitagora di Reggio, Mirone di Eleutere, Fidia di Atene, Alcamene di Lemno, Policleto) e le analisi di laboratorio sulle terre di fusione contenute all’interno delle due sculture hanno fatto circoscrivere la probabile provenienza alla zona di Argo, in Grecia. Nel libro Bronzi di Riace, edito da 5 Continents in occasione di questa mostra (fino al 23/10), il contributo scritto da Riccardo Di Cesare ci illustra questi vari aspetti. Certo, ci potrebbe essere di mezzo forse la spoliazione di un santuario greco e la navigazione verso Roma, finita in un naufragio. Dopo questi due ritrovamenti, le ricerche su una possibile terza scultura o persino un gruppo sono proseguite, finora senza fortuna. Ma se andate a caccia di polpi quest’estate, guardatevi intorno, qualcosa potrebbe sempre affiorare dalla sabbia. Lì o altrove.

Giuseppe Smorto per “il Venerdì di Repubblica” il 22 luglio 2022.  

Il guerriero e l'austero, il fiero e il timido, l'eroe e lo stratega, l'ostile e il saggio, il soldato e l'indovino, il giovane e il vecchio: inseparabili eppure diversi, aperti a mille interpretazioni, cinquant' anni dopo i Bronzi di Riace restano fascino e mistero. Cinquant' anni dopo, il sub romano che li scoprì, Stefano Mariottini, ricorda il momento più bello: «Spolverare la sabbia per scoprire a poco a poco come erano fatti, la meraviglia. Prima spuntava una spalla, per un attimo pensai che fosse il cadavere del giornalista siciliano Mauro De Mauro».

Era il 16 agosto del 1972: un'altra Italia, la rivolta per il Capoluogo e i metalmeccanici che scendono a Reggio Calabria, il terrorismo rosso e nero, una certa distrazione nei confronti del patrimonio artistico, preda di intermediari mafiosi e grandi Musei internazionali. Mariottini arriva a Monasterace, ospite di un amico. 

Scopre che - allora come oggi - l'antica Kaulonia offre splendidi fondali dove le cernie passano intorno alle colonne e ai resti del porto. Comincia a esplorare il mare intorno a Punta Stilo, si spinge qualche chilometro più a sud. A trecento metri dalla costa di Riace, in un punto che solo lui sa indicare, trova in apnea le due statue, 6-8 metri sotto. Ma questo è solo l'inizio della storia, seguono polemiche e processi vinti, Mariottini resta il volto della Sovrintendenza.

Invidiato, bersagliato da accuse e maldicenze, ma sempre lì, con l'aria di chi dice: Io li ho visti, io so, lo ha detto il Tribunale, e io per lo Stato ho continuato a fare il volontario degli abissi.

Mostrati per pochi giorni a Firenze dopo il restauro, pubblicizzati da uno scarno dépliant, i Bronzi restano poi in esposizione per sei mesi, dopo manifestazioni e sit-in dei cittadini, è il 1981. Accendono l'interesse del Paese: i giornali pubblicano la foto di una Rossana Rossanda incantata, durante un passaggio delle due statue al Quirinale, voluto dal presidente Pertini.

Cinquant' anni dopo, restano esemplari unici al mondo in bronzo risalenti al periodo della loro creazione, la metà del quinto secolo avanti Cristo. Un miracolo in tempi di guerre e invasioni, visto che il metallo veniva spesso fuso per costruire armi. Inconfondibili per la loro prestanza, le spalle squadrate, e per particolari incredibilmente precisi: le vene, la caruncola lacrimale rosea, i capezzoli in rame, gli occhi che sembrano truccati, i riccioli. 

Richiesti invano da Expo, Olimpiadi, Mondiali di calcio: mai più si muoveranno dalla piattaforma antisismica in marmo di Carrara al pianterreno del Museo di Reggio, che l'architetto Marcello Piacentini volle visibile dal mare, nonostante le indicazioni del Piano di ricostruzione post terremoto del 1908, con la città distrutta al 95 per cento.

Il direttore del Marc Carmelo Malacrino spiega: «Io che ci dormo dentro, io che ho l'immensa responsabilità di custodire le collezioni, vi dico che i Bronzi sono l'appuntamento finale di un percorso, dove il viaggio è importante quanto il punto d'arrivo. Se pensate alle due statue come un oggetto unico, vi sbagliate: sono profondamente diverse per il modellato e l'espressività, meritano una doppia visita. E io, come un padre di famiglia, non posso scegliere fra Il Bronzo A e il B. I numeri ci fanno sperare in una grande estate: giugno 2021 su 2022, i visitatori del Museo sono quasi triplicati».

E perché dite sempre no al trasferimento? «Noi prestiamo tante opere, i Bronzi sono fragilissimi, guardate le loro gambe. Ma non è un no di gelosia o campanilistico. Per esaminare la richiesta dell'Expo di Milano, il Ministero formò una commissione. Che decretò l'inamovibilità dei Bronzi, rischio troppo alto, chi mette la firma su una decisione del genere?». 

E così, per i prossimi anni, i Bronzi viaggeranno in modo virtuale, sulle installazioni e sulle maglie di calcio, nei convegni e nei concerti, ai Festival e nelle scuole, in un programma glocal (bronzi50.it) che le istituzioni hanno messo insieme, dalla Calabria al mondo.

Da dove vengono, come sono arrivati in quel punto, erano soli? La bronzite - come la chiama il professor Daniele Castrizio - si nutre anche di tesi ardite: i pareri degli archeologi si rimbalzano negli anni, le voci di paese, le inchieste giudiziarie, la possibilità di trovare la verità grazie alle nuove tecnologie. Un cold case artistico che continua ad appassionare i ricercatori. 

Vengono da Argo: questo è sicuro, perché sono fatti con la sabbia di fusione del Peloponneso. Viaggiavano da o verso Roma, sotto costa, e un naufragio li affondò. O forse erano statue del tempio dell'antica Kaulonia, che gli abitanti hanno voluto nascondere e proteggere, avvolgendoli nelle vele: l'anno dopo furono trovati 28 anelli, usati per fissarli. E come mai sono apparsi proprio lì, a due passi dalla Statale 106: magari un effetto della fortissima mareggiata che ci fu nell'inverno del 1972? Di sicuro erano altrove, quella spiaggia non è un sito archeologico, è sabbia.

Intorno ad A e B hanno studiato e speso la vita generazioni di studiosi. Per illustrare tutte le ipotesi, ci vorrebbe l'intero Venerdì. Daniele Castrizio, membro del comitato scientifico che curerà le celebrazioni, è per esempio certo che i due Bronzi facessero parte di un complesso di statue: ce n'è almeno una terza, da qualche parte, sopra o sotto il mare. È stato di recente ad Argo, dove stanno facendo analisi su un reperto trovato nel 1991 che è affine ai Bronzi, ha la parte anteriore danneggiata.

Dice: «La mia ricerca parte dalla testa del Bronzo B. La Statua A ha la capigliatura realizzata su tutta la testa, anche nelle parti che si sarebbero solo intraviste sotto l'elmo corinzio che indossava; la B, invece, ha la testa deformata per poter accogliere l'elmo senza l'ausilio di perni e incastri, ma presenta chiari segni di una sorta di cuffia. Il confronto con migliaia di monete dell'epoca ha mostrato che si trattava di una kynê, che rappresentava l'insegna del comando supremo: una sorta di elmo del Re.

Il Bronzo B era, quindi, un uomo dotato di autorità regale, ma il Bronzo A aveva un'altra peculiarità: si tratta dell'unica statua di epoca classica che mostra la propria dentatura, in chiaro segno di animosità. I confronti iconografici e le testimonianze letterarie del poeta Papinio Stazio e di Taziano il Siro, hanno portato al riconoscimento del gruppo statuario dei "Fratricìdi" di Pitagora di Reggio, caratterizzato da un guerriero con una smorfia di ostilità dipinta sul volto. In questo modo si è potuto ricostruire il gruppo completo, così come si trovava ad Argo, prima di essere trasportato e restaurato a Roma.

Quante statue, secondo lei? «All'origine dovevano essere cinque, ritratte come attori di una tragedia greca: alle due estremità Eteocle (Bronzo B) e Polinice (Bronzo A), figli di Edipo e protagonisti dei "Sette a Tebe"; la madre era al centro, raffigurata mentre tenta di scongiurare il duello tra i due figli; Tiresia, l'indovino che aveva previsto la morte dei fratelli, e Antigone, la sorella affettuosa, servivano a completare il gruppo. I due fratricìdi e la madre erano indispensabili per la comprensione del messaggio affidato alle sculture: si tratta di due fratelli che stanno per uccidersi reciprocamente a causa della kynê, il sangue per il potere».

Erano gli anni in cui i fondali della Magna Grecia erano preda di pescatori di frodo e dei pochi sub con un'attrezzatura professionale. Nella sala del Museo di Reggio che ospita i Bronzi, ci sono due reperti non meno abbaglianti, altrettanto significativi: La testa del filosofo e La testa di Basilea, trovati in quello che gli archeologi chiamano "il relitto di Porticello", di fronte alla Sicilia. 

Peppino Mavilla scava nella memoria per raccontare quel giorno del 1969 in cui individua "il filosofo". Convinto anche oggi che furono i pescatori di frodo, che lo avevano seguito, a recuperare poi la famosa testa di Basilea finita per vie segrete nel Museo della cittadina svizzera, e recuperata dopo una procedura durata vent' anni. Ora si chiama testa di Porticello, nel tentativo di mandare nell'oblìo un piccolo scandalo.

Il sub ricorda: «Andavo a pescare, da un ammasso di anfore a 38 metri di profondità capii che c'era un relitto. Ogni volta che vado al Museo mi commuovo: vorrei fosse esposto anche il membro del Filosofo, che io consegnai alla Sovrintendenza». Pezzi in bronzo dello stesso periodo, frammenti di valore: ma quello che abbaglia di A e B è la loro integrità.

Nei primi anni 2000, viene avviato dal Ministero - da Rocco Buttiglione e soprattutto Francesco Rutelli - un valoroso lavoro di recupero dei reperti archeologici finiti all'estero. Il Paul Getty Museum e i suoi rappresentanti sono al centro di una lunga indagine condotta dal giudice Paolo Giorgio Ferri e poi portata a giudizio con una sentenza di 600 pagine dal suo collega Guglielmo Muntoni.

Daniela Rizzo, l'ex funzionaria che è stata più volte a Malibu, per esempio per la restituzione del Cratere di Assteas, dice: «Oggi non ci sono più magistrati che seguono questi temi». Il Los Angeles Times scrive in un report che il 70 per cento dei reperti esposti al Getty è di provenienza italiana. Nonostante le mille voci in proposito, mai nel corso di queste indagini sono venuti fuori elementi concreti sulla presenza in zone non aperte al pubblico del Museo di un eventuale terzo bronzo e delle parti mancanti: lo scudo, la lancia, l'elmo.

Troppo tempo è passato, troppo lasche le leggi, troppa confusione nelle fasi di recupero. Secondo Fabio Isman, scrittore e giornalista, il Getty Museum ha ancora 350 opere di provenienza italiana, acquisite con modalità illecite, frutto di scavi clandestini.

Ritorno a Riace, oggi Grazie ai Bronzi e alla politica di accoglienza che Mimmo Lucano inventò, non c'è paese calabro più famoso al mondo. 

Nei giorni in cui le statue apparvero, Fulvio Rizzo, oggi magistrato alla Procura di Reggio, era lì con il padre Italo, giudice esperto in beni culturali che aveva indagato sul relitto di Porticello. Rizzo scattò molte foto/diapositive del recupero, poi consegnate ai carabinieri: «Andai giù al mattino in apnea, c'era una tempesta di sabbia, non si vedeva nulla.

Il pomeriggio tutto cambiò, l'acqua era limpida: riuscii a fotografare la statua A nella posizione in cui era rimasta per chissà quanto tempo, e quel momento lo rivivo ogni giorno. Le mie immagini servirono nelle ricerche successive a localizzare il punto esatto del ritrovamento». 

Era già il 23 agosto, la spiaggia di Riace sembrava uno stadio, il Bronzo un bell'uomo che veniva dal mare, luminoso e levigato. Cinquant' anni dopo ci sarà una Notte Bianca per ricordare e un paese amico: la festa è pronta.

Sardegna, trovati altri due giganti a Mont'e Prama: dai nuovi scavi emerge coppia di pugilatori. Antonio Ferrara. La Repubblica il 7 Maggio 2022.  

Nel sito di Cabras, che risale a tremila anni fa. Sono il primo frutto di un'indagine avviata un mese fa e che probabilmente porterà a nuovi ritrovamenti. Entusiasta il ministro della Cultura Franceschini: "Ritrovamento eccezionale".

Dobbiamo immaginarle come una sorta di pantheon della Sardegna nuragica. Statue colossali in calcare, allineate lungo una strada lambita da una necropoli utilizzata tra il 1100 e il 750 avanti Cristo. Che aveva una caratteristica: a essere sepolti sulla collina di Cabras, in provincia di Oristano, erano solo uomini adulti, niente bambini, niente anziani. Di sepolture femminili appena una fino a ora. Altre due statue colossali sono state appena scoperte sulla collina del Sinis, nella Sardegna occidentale, nel sito dove già dal 2014 era ripreso lo scavo archeologico per indagare l'area che nel 1974 aveva restituito un gruppo di statue di grandi dimensioni. Un unicum nel Mediterraneo antico occidentale, spiega Alessandro Usai, l'archeologo della Soprintendenza di Cagliari e Oristano che segue da otto anni le ricerche sul sito e dirige l'equipe che dal 4 aprile ha ripreso le esplorazioni a Cabras. Eccoli i torsi e le teste di queste figure che vengono direttamente dall'età del Ferro, identificati come "pugilatori del tipo Cavalupo", dal nome di un bronzetto nuragico ritrovato a Vulci.

Le ultime statue a Cabras erano state scoperte nel 2014, mentre nel 2016 furono ritrovati due modelli di edifici. La caratteristica del sito è legata proprio alla presenza, nell'area della necropoli, di un sistema di sculture non solo antropomorfe ma anche raffiguranti nuraghe e pietre sacre. In totale sono 40 le statue ricostruite più o meno integralmente, esposte nel Museo di Cabras, mentre in quello Archeologico nazionale di Cagliari, diretto da Francesco Muscolino, ne restano ancora tre. Appena sarà completata l'ala nuova del Civico di Cabras, anche queste sculture lasceranno il capoluogo, chiudendo una lunga querelle sull'esposizione dei reperti, risolta l'anno scorso con la nascita della Fondazione Mont'e Prama che si occuperà di ricerca e valorizzazione dell'intera area del Sinis, che comprende anche Tharros. 

"Non amo il termine "giganti" - spiega Alessandro Usai - perché per i sardi quelli sono i mitici costruttori dei nuraghe. Qui, invece, siamo di fronte a una società che si autorappresentava e si autocelebrava, richiamando i propri fondatori, i propri "eroi". E li poneva accanto alle tombe. Siamo alla fine del mondo dei nuraghe e che almeno da 300 anni non se ne costruivano più". Di scoperta "eccezionale" parla il ministro della Cultura Dario Franceschini: "Ne seguiranno altre, a conferma del significativo impegno del ministero su questo sito straordinario, che non ha eguali nel Mediterraneo". Il presidente della Regione Sardegna Christian Solinas ricorda i 15 milioni di euro assegnati alla Fondazione costituita con Mic e Comune e auspica "un restauro in loco delle statue anche in chiave didattica".

L'esercito di pietra era composto da guerrieri, arcieri e pugilatori, statue databili tra 850 e 750 avanti Cristo. Per trovare gruppi analoghi bisogna andare verso Oriente, tra Egitto, Siria e Anatolia. "Sono reperti che ci parlano della transizione - ricorda la soprintendente di Cagliari e Oristano Monica Stochino - verso una fase nuova. Affascina il fatto che i sardi dell'epoca si rappresentassero in questo modo". Per vederli tutti esposti, bisognerà attendere la fine dei lavori in corso al museo di Cabras, probabilmente a inizi del 2023. Qui, sarà ricostruito il contesto, grazie anche alla realtà virtuale. Gli scavi in corso dureranno altri due mesi: si stanno esplorando le tombe dentro le quali i defunti venivano sepolti in posizione fetale, calati dall'alto in pozzetti profondi 90 centimetri e larghi 60. "Proseguiremo gli scavi e li apriremo in estate alle visite - annuncia Stochino - per coinvolgere cittadini e turisti".

Silvia Lambertucci per Ansa.it l'8 maggio 2022.

I torsi possenti di due pugilatori, il grande scudo flessibile che copre il ventre e si avvolge attorno al braccio. Poi una testa, gambe, altre parti dei corpi, i frammenti di un modello di nuraghe. 

A pochi giorni dalla ripresa dell'ultima campagna di scavo, nella necropoli nuragica di Mont'e Prama a Cabras, sono emersi i resti di due nuove statue monumentali, due giganti che si aggiungono all'esercito in pietra di guerrieri, arcieri e pugilatori di tremila anni fa che ha reso famoso nel mondo il sito archeologico sardo ancora avvolto nel mistero. Un risultato davvero "importante" e che fa sperare in ulteriori sorprese già nelle prossime settimane, anticipa all'ANSA la soprintendente Monica Stochino. 

Mentre il ministro della cultura Franceschini ricorda che il ritrovamento avviene a poco meno di un anno dalla nascita della Fondazione che vede impegnati il MiC, il Comune di Cabras e la Regione Sardegna. 

«Una scoperta eccezionale alla quale ne seguiranno altre», commenta entusiasta.

Avviata il 4 aprile, l'indagine sul campo ha confermato la prosecuzione verso sud della necropoli e della imponente strada funeraria che costeggia le sepolture. «Per noi la prova che siamo sulla strada giusta», sottolinea l'archeologo Alessandro Usai, dal 2014 responsabile scientifico dello scavo, «la ricerca programmatica dà i suoi frutti, siamo andati a scavare a colpo sicuro in un tratto che ancora non era stato toccato». 

Diversi nelle loro caratteristiche rispetto ai pugilatori trovati nell'ultima metà degli anni Settanta, i due nuovi giganti, spiega Usai, sono del tipo "Cavalupo" come gli ultimi due riportati alla luce nel 2014, non a caso a poca distanza dall'attuale scavo, che si connotavano proprio per il particolarissimo scudo incurvato. «Una figura rara che ha un modello di riferimento nel bronzetto nuragico conservato a Roma nel museo etrusco di Villa Giulia», precisa l'archeologo citando il piccolo capolavoro proveniente appunto da una tomba della necropoli di Cavalupo, nella laziale Vulci.

L'esame accurato, la pulitura e la rimozione dei due grossi torsi - che richiederà tempo per la particolare delicatezza e fragilità della pietra calcarea nella quale sono stati scolpiti - forniranno certo nuovi elementi di studio. Ma intanto già si pensa ad ampliare l'area dello scavo in corso, portandola da 10 a 20 metri quadrati. 

Finanziato dalla soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per la città metropolitana di Cagliari e le province di Oristano e Sud Sardegna con 85 mila euro lordi, il nuovo intervento, ricorda Stochino, ne anticipa un altro più corposo, per 600 mila euro, che coinvolge anche il Segretariato Regionale del MiC e che si aggiungerà al grande progetto per 2 milioni 800 mila euro con i quali si punta a restaurare tutto quello che è stato trovato tra il 2014 e il 2016 così da esporre le nuove statue insieme alle altre nel Museo di Cabras. 

Un lavoro di squadra che tra scavi, ricerche, studi, valorizzazione, coinvolge istituzioni e professionalità diverse, le università a fianco di soprintendenza e fondazione, antropologi, restauratori, architetti, che si aggiungono agli archeologi. Tutti insieme per trovare risposte ai problemi storici posti da questo speciale cimitero di tremila anni fa, costruito lungo una via funeraria e riservato quasi esclusivamente a giovani uomini, racconta appassionato Usai, spiegando che in oltre 170 tombe indagate «mancano completamente anziani e bambini», mentre sono pochissime le donne. Di certo sui secoli di vita di questo sito, nato intorno al XII secolo a.C, e su quella dei Giganti, che gli storici collocano tra il IX e l'VIII sec. a.C, rimane ancora tanto mistero, come pure sulla loro fine.

Chi erano davvero questi colossi di pietra alti 2 metri e mezzo: custodi ancestrali di un’area sacra, rappresentazione delle funzioni sociali dei defunti inumati, eroi, antenati, simboli identitari di una comunità? E poi perché sono caduti, ridotti in macerie sulle tombe che avrebbero dovuto vegliare: la loro fine fu la conseguenza di una lotta intestina tra comunità locali o magari fu colpa dei Cartaginesi?

Usai dice di propendere per un'ipotesi ulteriore, quella di una distruzione "naturale": «la mia opinione è che i Giganti siano caduti via via da soli - spiega- tanto più che per come sono stati realizzati erano sbilanciati in avanti». 

Il passare del tempo, il sommovimento della terra, le tante coltivazioni intervenute su questo tratto di terra, da sempre preziosa per il grano, avrebbe fatto il resto, riducendo statue, nuraghi e betili, in tanti frantumi che poi si sono rimescolati. Di certo bisogna andare oltre i luoghi comuni, conclude l'archeologo, «qui cerchiamo risposte basandoci sui dati». E chissà che la nuova stagione di indagini non porti davvero decisive novità.

Estratto dell’articolo di Felice Manti per “il Giornale” l'1 maggio 2022.

[…] I Bronzi hanno 50 anni ma ahinoi ne dimostrano 2500. È passato (invano) mezzo secolo da quando il sub e archeologo dilettante Stefano Mariottini li trovò a 300 metri dalla spiaggia di Riace, in Calabria, nel caldissimo Ferragosto del 1972. E a mezzo secolo di distanza non se li fila quasi nessuno. Potevano essere un simbolo, un'icona del Sud. Macché. 

A distanza di cinquant' anni il modo in cui sono stati realizzati è ancora un mistero, come per i menhir di Stonehenge, la piramide di Cheope o le teste dell'Isola di Pasqua. Un giallo che profuma di mare e di storia ma anche di psichiatria: sono alti 1,98 e 1,97 metri e pesano 160 kg, hanno labbra e capezzoli di rame per imitarne il colore naturale, occhi di calcite, ambrati.

 […] Chi sono? E perché sono qui? E perché la loro storia è così importante? «Lo strato di bronzo di cui sono fatti sarà spesso poco più di un centimetro», dice Daniele Castrizio, professore di Numismatica greca e romana all'Università di Messina e membro del comitato scientifico del Museo archeologico di Reggio Calabria […] «I Bronzi erano biondi e dorati e furono realizzati ad Argos, nel Peloponneso greco, entrambi nella metà del V secolo a.C., a poca distanza temporale l'uno dall'altro, nella stessa bottega ma da maestranze diverse». 

  […] La loro carta d'identità è intinta nell'inchiostro magnogreco ma anche nel Novecento. «Sono Eteocle e Polinice, figli di Edipo re di Tebe e fratelli di Antigone». Secondo Castrizio facevano parte di un gruppo di statue «che rappresentava il momento subito precedente il duello fratricida fra Eteocle e Polinice, fratelli di Antigone, del mito dei Sette a Tebe collegato con quello di Edipo». […] 

E perché sono affondati? Probabilmente i Bronzi viaggiavano assieme ad altre opere d'arte verso Costantinopoli nel IV d.C. ma una tempesta avrebbe affondato la nave, disperdendone il prezioso carico.

FMan. per “il Giornale” l'1 maggio 2022.

Sappiamo da un esperto che i Bronzi potrebbero essere Eteocle e Polinice, figli di Edipo re di Tebe e fratelli di Antigone. Sappiamo che le loro statue potrebbero essere state esposte a Roma fino al IV secolo dopo Cristo per raffigurare la leggenda dei Sette a Tebe. Sappiamo che sarebbero state esposte l'una di fronte all'altra prima del loro duello mortale, ai lati di un gruppo che vedeva al centro della scena la loro madre Euryganeia-Giocasta, inginocchiata con le braccia allargate mentre cerca di convincerli invano a non combattere.

Il mistero sui Bronzi inizia da qui. Se il professor Daniele Castrizio ha ragione ci sono dunque almeno altre tre statue, la madre Giocasta o Euryganeia a seconda delle versioni, Antigone sicuramente e Tiresia, o forse cinque. Sarebbero state tutte nel carico partito nel V secolo d.C. per scelta di Costantino da Roma e diretto in Turchia, a Costantinopoli. Ma sappiamo anche che le statue in origine avevano elmi, scudi e lance. Che fine hanno fatto i pezzi del loro corredo, di cui parla l'ispettore ministeriale Pietro Giovanni Guzzo nella sua relazione per confermare il ritrovamento, come sostiene da anni lo studioso di archeologia Giuseppe Braghò?

Quando il sub Stefano Mariottini deve descrivere ciò che ha trovato all'allora Sovrintendente Giuseppe Foto, avvisato telefonicamente della scoperta alle 21 del 16 agosto 1972, parla di «un gruppo di statue», descrive nel dettaglio anche uno scudo sul braccio sinistro, mai ritrovato, e dice che una delle due «ha le braccia aperte». Come Giocasta. Della vicenda qualche anno fa si era occupata la Iena Antonino Monteleone. Dalle sue inchieste televisive erano venute fuori molte verità finora nascoste.

La prima: anche un gruppo di quattro ragazzini del luogo aveva trovato «un cavaliere romano», dunque Mariottini non era il solo né forse il primo ad aver scoperto i Bronzi, ma è stato lui a incassare i 125 milioni del premio. I testimoni del tempo ricordarono allo show di Italia Uno ripetuti tentativi di trascinare via qualcosa di pesante dal fondo del mare da parte di una barca a motore proprio nei giorni del ritrovamento. Uno scudo e una lancia sarebbero stati portati via dalla spiaggia da alcune persone, a circa 700 metri dal punto dove furono tirate su le due statue.

Le Iene intervistarono anche un uomo che disse di avere trafugato e venduto al Getty Museum di Malibù uno degli elmi sottratti alle celebri statue per 23mila dollari, dopo una trattativa al ristorante romano La Parolaccia (all'epoca gestito da un italoamericano) con Jiri Frel, archeologo che tra il 1973 e il 1986 è stato curatore proprio del Paul Getty Museum. 

Dell'elmo ci sarebbe anche una foto, che l'uomo non è riuscito a mostrare. Un altro testimone oculare del tempo sostiene che la terza statua c'era: «A Roma ce n'era un'altra, veniva da Riace, era una statua che avevano portato su i calabresi... Una cosa bella, di bronzo... so che se la sono venduta», disse a Monteleone. Verità o millanterie? C'entra qualcosa la solita 'ndrangheta? La storia dei Bronzi è ancora tutta da riscrivere, se qualcuno al ministero avesse voglia di occuparsene davvero.

Quei due eroi dimenticati potevano essere un’icona. Felice Manti l'1 Maggio 2022 su Il Giornale.

A Ferragosto del '72 un sub col pallino dell'archeologia li ritrovò nel mare di Riace. Sono un esempio di arte magnogreca. In origine erano "biondi".  

Tanto varrebbe ributtarli in mare. I Bronzi hanno 50 anni ma ahinoi ne dimostrano 2500. È passato (invano) mezzo secolo da quando il sub e archeologo dilettante Stefano Mariottini li trovò a 300 metri dalla spiaggia di Riace, in Calabria, nel caldissimo Ferragosto del 1972. E a mezzo secolo di distanza non se li fila quasi nessuno. Potevano essere un simbolo, un'icona del Sud. Macché. A distanza di cinquant'anni il modo in cui sono stati realizzati è ancora un mistero, come per i menhir di Stonehenge, la piramide di Cheope o le teste dell'Isola di Pasqua. Un giallo che profuma di mare e di storia ma anche di psichiatria: sono alti 1,98 e 1,97 metri e pesano 160 kg, hanno labbra e capezzoli di rame per imitarne il colore naturale, occhi di calcite, ambrati. Un Bronzo ha anche i denti d'argento. E si capirà perché.

Finalmente il governatore della Calabria Roberto Occhiuto ha chiesto di inserirli nel patrimonio Unesco. Ci vorranno molti anni, diciamo che ci si poteva svegliare un po' prima, non certo coniando un orrido logo che sembra uscito da WordArt. In Italia abbiamo le uniche statue al mondo ad avere la caruncola lacrimale realizzata con una pietra rosa posta fra occhi e naso. Ma non abbiamo più lacrime. Chisti simu, questi siamo. «I Bronzi potevano essere la Coca Cola della Calabria, c'era la possibilità di una declinazione universale ma nessuno ha investito nella loro narrazione», dice amareggiato Klaus Davi. Spostarli da Reggio Calabria sarebbe ingiusto ma soprattutto impossibile, perché per quanto siano simbolo di forza e vigore, le statue sono estremamente fragili. Altro che «ostaggio della 'ndrangheta», come dice Vittorio Sgarbi. Una forza debole, come il legame antropologico con quel che resta della Magna Grecia, spiega Carmelina Sicari nel suo breve saggio Profezia dei Bronzi: «I due guerrieri sono l'icona dell'uomo greco, totalmente compos sui (padrone di sé, ndr) e regista dell'armonia mente-corpo». Perché profezia? «Perché insieme sono la profezia dell'uomo futuro, capace di affrontare forti e temibili mutamenti mentre sorride di noi, dell'uomo che lo ha preceduto, carico di ammiccamenti e furbizie ma profondamente inetto».

Chi sono? E perché sono qui? E perché la loro storia è così importante? «Lo strato di bronzo di cui sono fatti sarà spesso poco più di un centimetro», dice Daniele Castrizio, professore di Numismatica greca e romana all'Università di Messina e membro del comitato scientifico del Museo archeologico di Reggio Calabria, autore di una App che li riproduce in 3D, forse l'unico che li conosce da sempre. La sua ricostruzione si basa su anni passati a spulciare libri polverosi ma anche laboratori di chimica. Le molecole di argilla con cui furono creati i modelli poi utilizzati per gli stampi in cera nei quali fu colato il bronzo non mentono. «I Bronzi erano biondi e dorati e furono realizzati ad Argos, nel Peloponneso greco, entrambi nella metà del V secolo a.C., a poca distanza temporale l'uno dall'altro, nella stessa bottega ma da maestranze diverse». La sua diagnosi medica è spietata («Una delle due statue ha una sorta di cancro alla gamba, non si possono spostare da qui»), il suo racconto da storico lascia a bocca aperta. E spiazza: «Erano cinque ed erano biondi e dorati, il nero lucido è il colore che assunsero dopo il restauro che subirono quando, dopo la conquista della Grecia e le spoliazioni del 146 a.C. di Lucio Mummio, furono trasferiti a Roma ed esposti almeno fino al IV d.C.». Non basta: «C'è un epigramma della Antologia Palatina che parla degli eroi di Argos portati via». E ancora. «Sono neri per una pittura allo zolfo dopo che si erano rotti, poi fusi e rimessi al loro posto. Le tracce sono state notate sulle natiche di A da Koichi Hada, professore dell'Università Cristiana di Tokyo, ipotesi confermata dal professor Giovanni Buccolieri dell'Università del Salento». Il braccio sinistro di A e l'avambraccio sinistro di B sono stati rifatti in epoca romana. Chi ha fatto B ha messo sulla forma interna ricoperta di cera dei salsicciotti di argilla, a simulare le costole. La statua B è diversa dalla A e ne corregge gli errori, come la scatola cranica deformata per l'elmo che in A era fissato con una barra di ferro, anche se il Bronzo giovane tra quelle arrivate sino a noi dall'antichità rimane comunque la statua perfetta nella tecnica di fusione del bronzo, formato da una lega che contiene rame acquistato in Spagna per una statua e a Cipro per l'altra. È stato modellato tutto a mano, i riccioli dei capelli sono stati lavorati singolarmente». La mano, le mani che li hanno fatti sono di Reggio Calabria? Forse. «Proprio ad Argos allora c'era la bottega di Pythagoras di Reggio, il bronzista considerato da Plinio tra gli eccelsi, con Fidia, Mirone e Policleto, nella cui bottega lavorava il nipote Sostrato».

La loro carta d'identità è intinta nell'inchiostro magnogreco ma anche nel Novecento. «Sono Eteocle e Polinice, figli di Edipo re di Tebe e fratelli di Antigone». Secondo Castrizio facevano parte di un gruppo di statue «che rappresentava il momento subito precedente il duello fratricida fra Eteocle e Polinice, fratelli di Antigone, del mito dei Sette a Tebe collegato con quello di Edipo». La statua della madre Euryganeia (o Giocasta, a seconda delle versioni), mai ritrovata, aveva le braccia allargate, disperata mentre cerca di dissuaderli dal combattere, davanti alla figlia Antigone e all'indovino Tiresia.

È una rivisitazione «buonista» della tragedia attica, quella magnogreca, contenuta nel Papiro di Lille, attribuito al poeta Stesicoro, che parla di una Tebaide, l'originario racconto della storia di Edipo e dei suoi figli, diversa da quella di Sofocle in cui Giocasta è morta suicida quando capisce di aver sposato il primo figlio, Edipo. Anche se secondo una versione la vera mamma di Eteocle e Polinice sarebbe Euryganeia, prima moglie di Edipo e figlia a sua volta di Iperfante. «Secondo la mia ricostruzione A fissa B perché erano l'uno di fronte all'altro. Sono loro», insiste Castrizio. Tanto che nel testo del poeta latino Stazio, che vede le statue ma non conosce la versione di Stesicoro, la statua B guarda in modo ostile (hostile tuens) la A, che per tutta risposta digrigna i denti. Ecco perché sono d'argento e la sua bocca è aperta.

E perché sono affondati? Probabilmente i Bronzi viaggiavano assieme ad altre opere d'arte verso Costantinopoli nel IV d.C. ma una tempesta avrebbe affondato la nave, disperdendone il prezioso carico.

Cosa resta di questa storia affascinante? Qualche pagina di giornale con cui incartare il pesce, qualche libro (come i due scritti da Giuseppe Braghò), e la baracconata del reporter Gerald Bruneau, che nel 2014 ingannò la Sovrintendenza trasformando i Bronzi in due icone gay, agghindandoli con boa di struzzo fucsia, slip leopardato e lunghi veli da sposa. Un oltraggio servito per raccogliere un mucchietto di clic per Dagospia e poco o nulla più. Ma almeno per un po' si è parlato di loro...

D'altronde, vedere ministri dei Beni Culturali dai Bronzi è un evento raro. Dario Franceschini che è ministro da sei anni ci è andato una volta con Matteo Renzi, Massimo Bray idem, Giovanna Melandri voleva fare due cloni da mandare alle Olimpiadi di Atene ma non li ha mai visti, ed è in ottima compagnia. Il progetto di portare le copie a spasso, peraltro, è stato sventato dopo la scoperta e l'inchiesta del sottoscritto nell'estate del 1998 sul settimanale Le Calabrie.

E dunque? A cinquant'anni di distanza la Calabria è rimasta più o meno la stessa, i Bronzi sono stati ripuliti e restaurati a dovere, il Museo guidato da Carmelo Malacrino che li ospita trasuda storia e reperti come l'intera città ma non ha più personale (solo 33 addetti su 95 disponibili), lui più che offrirsi personalmente come guida non può fare. L'ultimo dirigente al Museo se l'è preso la Sovrintendenza, che vuole smantellare la dirimpettaia Piazza de Nava, preda di una furia iconoclasta contro il suo stesso precedente parere. Sulla vicenda pende il sospetto di qualche magheggio, tanto che la Procura - che ha appena decapitato l'Università Mediterranea per presunto peculato di Rettore ed ex Rettore - vuole vederci chiaro. La 'ndrangheta, che qui detta legge e ordine persino ai funerali, da anni snobba i Bronzi quanto il piombo e preferisce bitcoin e cryptoasset per riciclare i ricavi del narcotraffico di cui è ormai monopolista mondiale. La classe politica reggina ha il respiro cortissimo, la città è praticamente morta, gli intellettuali latitano. Qui dove è nata la filosofia, la giurisprudenza e la matematica la mamma Giocasta i figli non se li è sposati, quelli che non sono scappati al Nord se li è proprio mangiati. Sono rimasti solo i Bronzi. E se potessero muoversi, si ributterebbero nel mare dove sono stati così bene.

 “Siamo gli eroi dell'archeologia”: il mondo dei tombaroli. Le Iene il 24 novembre 2019. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, dopo aver raccontato i troppi misteri sul ritrovamento dei Bronzi di Riace, ci fanno entrare nel mondo dei tombaroli, che per vivere trafugano reperti archeologici. Li seguiamo “all’opera” e ci facciamo raccontare come funziona questo lucrosissimo mercato. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti , nel servizio in onda questa sera a Le Iene su Italia1, tornano a parlare di reperti archeologici, dopo l’inchiesta sui troppi misteri nel ritrovamento dei Bronzi di Riace. Solo qualche giorno fa i carabinieri hanno smantellato un traffico di beni archeologici dalla Calabria al resto del mondo, arrestando 23 persone e recuperando reperti per un valore di diversi milioni di euro. Antonino Monteleone ci porta all’interno del mondo dei tombaroli, ovvero chi quelle opere le recupera materialmente per poi venderle al mercato clandestino di opere d’arte antiche. Un mestiere assolutamente illegale, ma molto redditizio. Li incontriamo e li seguiamo, durante una delle loro “scorribande”. “Sono tombarolo da quando so piccolo, 14 anni”, ci racconta uno di loro. “È una passione, cioè questa è la storia nostra, ti viene naturale, per me è stata na chiamata!”.

“Si guadagna bene?”, chiede Antonino Monteleone.

“Sì, prima era… c’era molto più guadagno, adesso la crisi sta pure qua… “. L’uomo rifiuta con forza la definizione di “bandito dell’archeologia”: “Beh io invece penso che siamo gli eroi dell’archeologia, perché tutto quello che viene trovato è grazie a noi, non agli archeologi”.
Quando gli facciamo notare che, però, ciò che lui trova non può essere visto in un museo, risponde: “Eh, perché nessuno me dà la possibilità di farlo vedere al museo. Perché se qualcuno me dicesse a me “scavame una tomba e porta al museo che te pago la roba” io non c’ho problemi… perché me devi fà fare il bandito, io non lo voglio fà il bandito”.

Bronzi di Riace: “Ho venduto io l'elmo scomparso”. Le Iene il 18 dicembre 2019. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti intervistano in esclusiva un uomo che dice di avere trafugato e venduto al Getty Museum di Malibù uno degli elmi sottratti alle celebri statue, ritrovate ufficialmente dal sub romano Stefano Mariottini il 16 Agosto del 1972: “L’ho venduto per 23mila dollari, convinto che poi avrei venduto anche i bronzi”. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano a occuparsi del ritrovamento di 50 anni fa dei due Bronzi di Riace, una vicenda ancora piena di misteri. Nei documenti originali redatti all’epoca dallo scopritore ufficiale, Stefano Mariottini, e dal responsabile delle operazioni di recupero, l’archeologo professor Pietro Giovanni Guzzo si parla letteralmente di “un gruppo di statue”, di uno scudo, di un elmo, che poi però non sono mai stati rinvenuti dai sommozzatori dei carabinieri di Messina. Vi abbiamo anche raccontato di alcune testimonianze, che parlano di ripetuti tentativi di trascinare via qualcosa di pesante dal fondo del mare da parte di una barca a motore proprio nei giorni del ritrovamento e addirittura di uno scudo e di una lancia che sarebbero stati portati via dalla spiaggia da alcune persone, a circa 700 metri dal punto dove furono tirate su le due statue. Vi abbiamo infine fatto ascoltare le dichiarazioni di un uomo, che racconta di aver saputo della storia di una statua che sarebbe stata trafugata in Calabria e portata in una villa a Roma, dove sarebbe stata comprata da un mercante d'arte che poi l'avrebbe a sua volta venduta ad un emissario del Getty Museum di Malibù, in California. Ma fin qua si è trattato di racconti di seconda mano. Adesso invece vi facciamo ascoltare la testimonianza diretta clamorosa di un uomo, che se fosse vera metterebbe in discussione la storia ufficiale di uno dei ritrovamenti archeologici più importanti di tutti i tempi. Era il lontano 1981 quando il settimanale Oggi raccontava di un mercante clandestino di reperti archeologici che ammetteva: “Ho venduto io al museo Paul Getty uno degli elmi sottratti agli eroi”. Una storia riportata qualche tempo prima con diversi articoli anche sul quotidiano il Messaggero, dal collega Mimmo Calabrò, oggi scomparso, negli articoli “I guerrieri avevano elmo e scudi: sono stati rubati”, “In azione i carabinieri il museo Getty nega” e “Museo Getty prove di commerci irregolari”. Di quel presunto venditore, aveva parlato anche il giornalista del Tgr Calabria Franco Bruno, che di lui aveva raccontato: “Era sicuramente una pedina in questo grande traffico di opere d’arte. Mi fece vedere due fotografie, una con uno scudo e un’altra con la lancia… i due oggetti che sosteneva che erano stati trovati, presi dove c’erano i Bronzi e poi venduti al Getty Museum”. Insomma, stando a quella testimonianza, i reperti dei bronzi mancanti sarebbero finiti al Paul Getty Museum di Malibù, che porta il nome del noto collezionista miliardario americano Paul Getty. Un museo che più di una volta ha comprato ed esposto importantissimi pezzi di dubbia provenienza, come nel caso dei meravigliosi Grifoni di Ascoli Satriano, o dell’incantevole Venere di Morgantina, tutte opere che poi il Getty Museum ha acconsentito alla restituzione all’Italia, ammettendo il loro trafugamento clandestino. Proprio Mimmo Calabrò, prima di morire all’età di 55 anni, aveva dato al nostro autore Marco Occhipinti un nome e un numero di telefono, che era rimasto però sempre muto. Le tracce di quest’uomo misterioso sembravano perdute del tutto, fino a quando l’archeologo di Reggio Calabria Daniele Castrizio, di cui vi abbiamo già parlato, non ci parla di un personaggio che sembrerebbe corrispondere proprio all’uomo che cercavamo da anni. “Si mormora da tanto tempo di alcune anomalie che riguardano queste parti mancanti dei bronzi... mmm… C’è una storia che potrebbe riguardare lo scudo, la lancia, l’elmo”. “Per quanto riguarda l’elmo, probabilmente l’elmo del bronzo B, invece, c’era una denuncia particolareggiata da parte di una persona la quale aveva dichiarato alla stampa e poi se n’era assunta le responsabilità, di avere venduto l’elmo al Paul Getty museum”. Castrizio prosegue nel suo racconto: “Questa persona a cui avevo fatto una perizia tecnica per un processo come numismatico eravamo rimasti in buoni rapporti, mi disse ‘lei studia i Bronzi di Riace professore, avrei ancora la foto di questo… di questo elmo… solo che non sono più in grado di prenderla…’” “Non le è sembrato un mitomane?”, chiede Antonino Monteleone. “No, no, no… questa persona tutto può essere meno che un mitomane, è una persona… se dice una cosa è quella”. Castrizio nega di sapere se si tratti di un trafficante d’arte, ma ne conferma l’affidabilità: “No, è affidabile come persona, tutto quello che poi nella nostra conoscenza mi ha detto, le informazioni che mi ha dato, cioè che… sono sempre così. Io per mia natura mi sono sempre tenuto lontano da tombaroli e collezionisti per cui non ho mai approfondito… Non l’ho mai fatto, per cui a Reggio sanno che io non sono molto avvicinabile, non fornisco prezzi, non do expertise, non faccio niente… Lo definirei una persona ricca di interessi. Per me è una persona competente della materia”. Quest’uomo, spiega ancora Castrizio, “mi ha inquadrato tutta la storia in un contesto della sua vita precedente che faceva ste cose…”. Insomma, Castrizio crede al suo racconto. Monteleone gli chiede: “Uno potrebbe dire, se questo ha venduto l’elmo dei Bronzi, dov’è esposto l’elmo dei Bronzi?” “Il problema è oggi, stroncare il collezionismo internazionale. Per un collezionista internazionale prendere una statua che è stata sul palatino e mettersela nel caveau, è una soddisfazione enorme, la fa vedere agli amici. Aspetterà cent’anni o andrà in prescrizione, duecento anni, ma ha acquisito una cosa di un valore inestimabile, quindi siamo noi Stato italiano che dobbiamo cercare di verificare, di bloccare tutto quello che possiamo”. Ci mettiamo sulle tracce di questo misterioso uomo, che dice di sapere che fine ha fatto l’elmo di uno dei bronzi di Riace e dopo lunghe ricerche e appostamenti lo raggiungiamo. L’uomo conferma di essere stato intervistato dal giornalista Mimmo Calabrò, e aggiunge di più: “L’elmo l’ho venduto io!!”. E racconta che quell’elmo sarebbe andato a prenderselo da solo, nella zona di Riace. “Io già quella zona lì la facevo dalla mattina alla sera, specialmente durante l’inverno. Mariottini quando ha notato quel casino che hanno fatto quei due ragazzi in quei minuti, un morto un morto un morto, perché l’avevano preso per un morto, incomprensibile, io conoscevo già quella zona, perché durante l’inverno andavo e i pescatori mi davano le monete queste cose qui perché io le monete diciamo uscivo pazzo in quei tempi… “ “Chi è che si è immerso e l’ha preso?”, gli chiede la Iena. E l'uomo risponde: “Uno di quelli, uno dei pescatori che stavano lì...Era distaccato, era a tre quattro metri, io avevo anche le foto dei bronzi”. E prosegue, accusando il sub che ufficialmente ha ritrovato i due Bronzi: “Mariottini… ha tentato di fregarseli lui prima… ha bruciato due o tre mo..., adesso non mi ricordo sono passati più di quarant’anni, sono stato interrogato anche eh, proprio per il fatto dei cosi mi hanno interrogato”. Ad interrogarlo, spiega l’uomo, sarebbe stato il capitano Giovinazzo. “Io non è che ho parlato con i carabinieri, i carabinieri me li hanno mandati”. L'uomo dice di avere confermato a Giovinazzo il suo racconto: “Allora il ministro era, quello romano come si chiama lo voglio tanto bene… Rutelli Rutelli!! Lui era ministro dei Beni culturali, avrà fatto la sua relazione, tanto il reato era caduto in prescrizione esatto e quindi non mi potevano fare niente, però a me… diede e mi dà ancora fastidio il fatto che Mariottini risulta quello che ha scoperto, quello ha bruciato due motori d’altobordo, quando ha visto che lui con i suoi mezzi non poteva fare niente, si è messo d’accordo con un suo parente che era capitano della Finanza, per farsi, per rafforzare il fatto che lui risultasse diciamo…”. Lo scopritore ufficiale dei Bronzi, quello che incassa il premio milionario, intende dire l'uomo. Si tratta, vogliamo sottolinearlo, di circostanze e valutazioni riferite da questo testimone, che non è possibile verificare del tutto. Ma continuiamo però ad ascoltare la sua versione: “Allora i due bronzi sono stati valutati 1 miliardo, lui si è preso 125milioni, 10%, 100milioni, detratte le tasse 85, io 85 milioni un piede mi vendevo... invece vendettero all’epoca… Non ha scoperto un cazzo perché è stato un farabutto che ha tentato prima di fregarci, non ci è riuscito e poi…”. I carabinieri, racconta ancora l’uomo, gli avrebbero mostrato alcune foto: “Della persona con la quale io trattavo, mi hanno messo 9 foto di pregiudicati, hehehe, e la foto di questo qui… “ “Ma questo nella foto chi era?”. Gli chiede Monteleone. “Era quello con il quale io avevo un rapporto lì a Riace e dintorni, quando mi diceva vieni che c’è qualcosa… è uno che non c’è più, che te lo dico a fare, è morto, da almeno 15 anni… un bidello… Quando mi chiamava lui da quelle parti vuol dire che c’era qualcosa di vecchio cose… Quando c’è mare forte e che si trovano le monete… Questo era un bidello in una scuola della Locride…”. L'uomo racconta di avere venduto l’elmo a 23mila dollari:” Perché sapevo che poi avrei venduto i due Bronzi, e invece so’ rimasto con le foto perché, e ancora oggi non riesco a trovare queste foto perché mi piacerebbe darle...”. Racconta che quelle foto subacquee sarebbero del 1972. “Quindi a Mariottini gliel’hanno preso sotto al naso quest’elmo?” “Sì perché lui non, lui pensava… allora, i ragazzi combinano quel casino, Mariottini capisce e Mariottini scopre quello che scopre… nel frattempo lui si organizza, nel frattempo qualcuno di là cerca di capire quello che questo Mariottini stava combinando… qualcuno scende e prende l’elmo…” Stando dunque al suo racconto, la scoperta dei Bronzi sarebbe avvenuta con un certo anticipo rispetto all’effettiva denuncia di Mariottini e dalla data della  denuncia ufficiale a quando i carabinieri arrivano sul posto tirando su i Bronzi, sarebbero passati altri 4 giorni. Il tempo sufficiente a far sparire un elmo, una lancia, uno scudo e chissà cos altro ancora? L'uomo racconta di avere portato l’elmo trafugato a Roma, al ristorante La Parolaccia, all’epoca gestito da un italoamericano, per farlo vedere a un tale di nome Jiri Frel. Un nome conosciuto, ovvero quello del famoso archeologo che tra il 1973 e il 1986 è stato curatore proprio del Paul Getty Museum. Il Bronzo, racconta ancora, sarebbe infatti finito al Junior Paul Getty Museum di Malibu, in California. “Gli americani pagavano in contanti, qualunque cifra… sai come se ne andavano da qui queste cose verso l’America? Con le navi… chi è che fermava una nave americana…” Paul Getty, racconta l'uomo, avrebbe avuto un grande potere all’epoca. “Era molto amico di Kissinger, Henry Kissinger, se tu ti ricordi il nipote di Paul Getty quando l’hanno rapito e non voleva pagare il nonno, è andato Kissinger a prenderlo… su pressione della madre, ha detto vai a pagare…”. Successe poi, dopo l’articolo di Mimmo Calabrò, che l’archeologo americano Frel fu intervistato sulla vicenda, ma negò di avere mai avuto a che fare con i tombaroli italiani. Il nostro testimone conferma che l’elmo in questione era proprio quello della statua B e così commenta l'affare concluso. “Non mi sono pentito, gliel’ho quasi regalato, perché sapevo che poi avrei venduto i due Bronzi no? Ho detto ‘dietro di questo c’è anche qualche altra cosa più importante’, senza specificare”. Insomma l’uomo racconta di essere stato sicuro  che poi avrebbe tirato su anche gli stessi Bronzi. L'uomo dice di non riuscire più a trovare la foto di quell’elmo… "Sono andato a controllare un paio di volte però le cose ho visto che non erano per come le avevo lasciate quindi o sono casa casa, o sono da qualche altra parte, non lo so nemmeno io”. Racconta anche del contatto con Jiri Frel. “Me l’aveva lasciato un antiquario di Roma, perché io una volta a Roma a via del Babuino, a via dei Coronari, ero di casa… Oggi ci sono tutti quelli che non capiscono un cazzo, sono nati ricchi tutti gli antiquari… sì tutti li conoscevo, facevano il retrobottega…”. “Quando io comunicavo che avevo qualcosa, veniva lui, veniva lui con la sua segretaria, una stangona bionda…” Se quello che ci ha raccontato quest’uomo fosse vero, avremmo finalmente trovato un testimone diretto di quello che è successo ad almeno uno dei reperti dei Bronzi di Riace di cui si parla sui documenti ufficiali. Reperti che poi però non sono mai stati effettivamente recuperati dalle autorità in quel lontano 1972. E se tutto ciò che il presunto venditore dell'elmo ci ha detto fosse vero, la storia dei Bronzi di Riace, una delle scoperte più importanti dell’archeologia di tutti i tempi, sarebbe tutta da riscrivere.

Bronzi di Riace e mercato nero: ecco come lavorano i tombaroli . Le Iene il 25 novembre 2019. Nella quinta puntata dell’inchiesta sui bronzi di Riace, Antonino Monteleone e Marco Occhipinti incontrano e seguono alcuni tombaroli romani, che da anni trafugano reperti archeologici e li vendono al mercato nero. La stessa fine dei presunti Bronzi di Riace mancanti? Antonino Monteleone e Marco Occhipinti ci portano a conoscere il mondo dei tombaroli, ovvero le persone che scavano di notte illegalmente per trovare reperti archeologici da vendere al mercato clandestino di opere d’arte antiche. Di reperti archeologici forse trafugati vi abbiamo già parlato nel servizio sul ritrovamento di 50 anni fa dei due Bronzi di Riace, che vi riproponiamo qui sotto. Attorno al loro recupero è nato un vero e proprio giallo, ambientato nella stessa regione, in Calabria, dove recentemente i carabinieri hanno sgominato con una maxi operazione un traffico clandestino di reperti archeologici, che dal sud Italia finivano in paesi stranieri di tutto il mondo. I misteri riguardanti i Bronzi di Riace sono davvero tanti. Nei documenti originali redatti all’epoca dallo scopritore ufficiale, Stefano Mariottini, e dal responsabile delle operazioni di recupero, l’archeologo professor Pietro Giovanni Guzzo si parla letteralmente di “un gruppo di statue”, di uno scudo, di un elmo che poi però non sono mai stati rinvenuti dai sommozzatori dei carabinieri di Messina. Vi abbiamo anche raccontato di alcune testimonianze, che parlano di ripetuti tentativi di trascinare via qualcosa di pesante dal fondo del mare da parte di una barca a motore proprio nei giorni del ritrovamento e addirittura di uno scudo e di una lancia che sarebbero stati portati via dalla spiaggia da alcune persone, a circa 700 metri dal punto dove furono tirate su le due statue. Vi abbiamo infine fatto ascoltare le dichiarazioni di un uomo, che racconta di una statua che sarebbe stata trafugata in Calabria e venduta a Roma ad un emissario del Getty Museum di Malibù, in California. Con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti torniamo a parlare di reperti archeologici e lo facciamo incontrando in esclusiva e seguendo sul campo alcuni tombaroli. “Faccio il tombarolo da quando so piccolo, 14 anni. È ’na  passione, cioè questa è la storia nostra, ti viene naturale, per me è stata ’na chiamata! Prima c’era molto più guadagno, adesso la crisi sta pure qua…”, racconta un tombarolo. Rifiuta l’etichetta di “bandito dell’archeologia” e dice: “Beh, io invece penso che siamo l’eroi dell’archeologia, perché tutto quello che viene trovato è grazie a noi, non agli archeologi… se qualcuno me dicesse a me ‘scavame una tomba e porta al museo che te pago la roba’ io non c’ho problemi… perché me devi fa’ fare il bandito, io non lo voglio fa’ il bandito”. l mestiere, sostiene il tombarolo, farebbe addirittura risparmiare soldi pubblici: “Comunque sia per scavà una tomba loro impiegano 100-150 mila euro quando noi magari co 4-5 ore la pulimo, allora daccene a noi 30-40 a noi ce sta bene, io sarei più contento eh…”. L’uomo racconta ad Antonino Monteleone del suo primo ritrovamento, un’urna del settimo secolo che conteneva le ceneri di un morto e un rudimentale rasoio. E poi spiega: “La squadra nostra è composta da quattro persone, poi ce stanno squadre da sei, squadre da tre, prima ce ne erano molte di più…”Monteleone gli chiede quale sia la cosa più bella che ha trovato e lui risponde di getto: “Un’idra, è tipo un boccale gigante a doppia tecnica, era de maestro”. Ma chi compra le opere d’arte trafugate? A spiegarlo è ancora il tombarolo: “Da me comprano privati, per fare un regalo così, possono spenderti millecinquecento euro… poi quando c’è un pezzo importante che vale soldi, c’è il collezionista che compra...”. Un bel guadagno, ma anche un bel rischio: “Penso che qualche annetto se me chiappano me lo fanno fa, guarda anche se c’era na pena severa, queste cose le devi provà. Io quando me c’ha portato la prima volta il mio maestro, nonché mio padre, io non mi interessava questa cosa..”. “Ti è mai venuto in mente che stavi di fatto rubando?”, gli chiede Antonino Monteleone. La risposta è netta: “Ma perché sto rubando? A chi sto rubando? Perché, a noi non ce rubano? Noi troviamo le tombe, troviamo la roba e loro vengono sempre dove abbiamo scavato noi..”. E loro, spiega ancora l’uomo, sono archeologi, carabinieri e “sta gente così che poi va a fare i recuperi… a chi rubo? Questa è roba nostra, perché è dello stato?”L’uomo ci racconta un po’ della sua vita: “Io c’ho na’ famiglia, e devo ringrazià sta terra, perché specialmente in momento di crisi se non c’avevo sto secondo lavoro, andavo a rubà. Le rapine non le faccio, non me piace fa del male alla gente, vado a piglià quello che m’hanno lasciato, che c’è de male scusa eh…”. Il tombarolo racconta che il pezzo più bello l’ha venduto a 180mila euro e che le transazioni, ovviamente, sono tutte in contanti. E ci spiega come funziona la trattativa. “So loro che vengono da me, io non vado a prende soldi… vengono a trovarti, c’hai niente? Sì, na cosetta… gliela fai vedé e ti ci metti d’accordo…”. A un certo punto, mentre stiamo parlando con questo tombarolo, si sente un rumore di elicottero. E siamo costretti a spegnere la telecamera. “So due… potrebbero esse pure carabinieri”. E racconta: “Una sera… stavamo a scavà e so passati due elicotteri e poi dopo so’ venuti subito la finanza o i carabinieri… “. Poi si sfoga con la Iena: “Di tutta ’sta storia sai che me fa girà più er cavolo? Che tutte quelle tombe che stanno a trovà le avemo trovate noi... Loro per trovà una tomba spendono 100 -200mila euro, capito? Per fa’ gli scavini col pennello e tutte le tarantelle, e poi dopo capito? Noi se dovemo fa un culo come un secchio per piacce du baiocchi, poi fanno quelli bravi, che so stati loro a trovalli, capito?”. Mentre parliamo, i tombaroli trovano alcuni reperti: “Eccolo, oh, eccolo oh, che cos’è? Questo è l’orla, vedi? Il frano ha spostato in avanti l’oggetto”. “Adesso qui intorno ci deve essere il corredo, ma queste so…”. “Ma questa che facciamo la portiamo al museo adesso?”, chiede Monteleone. La risposta è secca: “See col cazzo”. Ma di reperti, a quanto pare, ce ne sono anche altri: “Questo qui è greco… è della Grecia, di importazione… è il pozzetto vedi? Ce l’ho tutto davanti perché il morto sta là… Mo delle volte se trovano delle ossa, delle volte no… questo è bello eh, bello… eh! questo è bello davero”. Proviamo a fargli due conti in tasca. “A naso quando ti sei fatto co sta scavatina?” “Al prezzo de oggi? 1500 euro… “. “Sta necropoli so anni che gli stavamo appresso e c’ho messo parecchi anni per trovalla, però tutte le sere venimo, scavamo e trovamo, perché è piena… Cioè fino ad adesso qua c’avemo fatto 40 lavori, 40 tombe a stanza, a camera, c’hanno dato bei risultati, bella roba è scappata, vedi? Ecco un altro oggettino, te l’avevo detto che c’è sempre il compagno… Queste c’hanno sempre il compagno, sempre. Eccolo qua…”. E siamo a 1.700 euro di valore trafugato… L’uomo sembra conoscere molto bene ciò che ha ritrovato: “Un pezzo etrusco, settimo avanti Cristo… questo er dell’usanza funebre…questo qui ci beveva, ci metteva dell’acqua, mettevano la roba loro… Non si vergogna affatto del suo mestiere. “Perché me dovrei sentì in colpa? Perché tiro fori delle cose? e quelli che ammazzano la gente, quelli… ma tu che pensi del fatto che in molti musei stranieri ci sono delle opere pazzesche che potrebbero essere…”. Il tombarolo spiega alla Iena quali sono gli altri soggetti che popolano questo mondo molto particolare. “Sopra de me ce sta il commerciante… Sopra il commerciante? Che ne so io, non lo posso sape’, non lo so, io so quello più piccolo, so quello che guadagna meno de tutti…”E aggiunge: “Io penso che se ce facessero scavà tutti i giorni, penso che ce n’avemo pé fa altri 100 anni de scavi… 100 anni? Sììì, forse anche di più, cioè ce so zone dove hanno scavato i nostri nonni zii, noi c’annamo e trovamo la roba…”. Il tombarolo, che abbiamo seguito durante un trafugamento, non ha paura delle pene che lo attendono: “Se ci fosse una pena minima di 6 anni e un massimo di 20 anni sei sicuro che lo faresti ancora?”, gli chiede la iena. “Ehhh sì, perché me piace… che t’ho da dì? Se io a te ti dicessi se vai co na donna te dò 20 anni de carcere c’andresti co na donna? Hahaha ci penso, ci penso però ce vai”. E poi lancia un’ultima stoccata polemica: “Perché lo fa sparì lo Stato nostro, perché non se tiene cura de sta roba? Perché l’altri stati ce fanno i soldi co la roba nostra e noi invece no?”

FACCE DI BRONZO. Dagospia il 4 ottobre 2019. Antonino Monteleone approfondisce il giallo dei Bronzi di Riace, raccontando quella che si potrebbe rivelare una delle sparizioni più clamorose di opere d’arte dell’antichità. Nel farlo si è beccato anche un’aggressione con minaccia! Stefano Mariottini è l’artefice della scoperta archeologica più clamorosa del secolo scorso. È l’uomo che il 16 agosto del 1972 ha scoperto i famosissimi Bronzi di Riace, esposti al Museo Archeologico di Reggio Calabria. Grazie a questa scoperta il sub romano ha incassato il premio del ritrovamento di 125 milioni di lire. Ma il merito di quella scoperta fu contestato da quattro giovani del luogo. Una controversia risolta dal Giudice che ha stabilito il primato del sub romano. Nel servizio di questa sera a Le Iene, Antonino Monteleone approfondirà il giallo dei Bronzi di Riace, raccontando anche la storia di quella che si potrebbe rivelare una delle sparizioni più clamorose di opere d’arte dell’antichità. Le due statue, ammirate dai turisti di tutto il mondo, sono le uniche bellezze che si trovavano sul fondo del mare di Riace? La Iena è andata a parlare con Stefano Mariottini, ma non è sembrato molto contento di vederci. Mentre stiamo semplicemente facendo delle domande a chi ha scoperto i Bronzi, un uomo gli chiede se lo stiamo infastidendo e ci aggredisce. Come potete vedere nel video qui sopra il nostro Antonino si è beccato pure delle minacce per niente velate. Perché se uno prova a fare qualche domanda a chi ha fatto quella clamorosa scoperta non viene accolto per niente bene? Ma soprattutto, c’erano altri pezzi spariti nei momenti precedenti o immediatamente successivi al ritrovamento? Sono solo alcune delle domande sulla controversa storia del ritrovamento delle statue a cui proveremo a rispondere nel servizio di questa sera, dalle 21:25 su Italia1.

Bronzi di Riace: è stato rubato qualcosa prima o dopo la scoperta? Le Iene il 4 ottobre 2019. Affrontiamo uno dei più famosi gialli della storia dell’archeologia del Novecento con l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti: il ritrovamento dei Bronzi di Riace. Le due statue, ammirate dai turisti di tutto il mondo, sono davvero le uniche bellezze che si trovavano sul fondo del mare al momento della scoperta? Chi ha scoperto davvero i Bronzi di Riace, il più grande ritrovamento archeologico di tutti i tempi? Stefano Mariottini, il sub romano che ha riscosso il premio per il rinvenimento, pari a 125 milioni di lire, o i 4 ragazzi calabresi che avevano tra i 12 e i 16 anni e che ritengono di aver denunciato la scoperta per primi? È vero, come raccontano ancora oggi, che c’erano delle persone che stavano provando a portar via qualcosa dal fondo del mare di molto pesante tanto da fondere il motore di un’imbarcazione? Dove sono finiti la lancia, lo scudo, l’elmo e il terzo bronzo che sembra descritto nella denuncia di ritrovamento firmata dallo scopritore ufficiale Stefano Mariottini? E perché mai quando il nostro Antonino Monteleone lo raggiunge per chiedergli il perché di tante contraddizioni nei documenti ufficiali, tra quanto era stato denunciato e quanto poi è stato effettivamente recuperato, il nostro inviato viene accolto con insulti minacce e botte? Tutto questo e altro ancora cercano di scoprire Marco Occhipinti e Antonino Monteleone in questa loro inchiesta alla ricerca dell’arte perduta. Il 16 agosto del 1972 un sub romano di nome Stefano Mariottini fa una meravigliosa scoperta: il ritrovamento dei Bronzi di Riace. Per questo incassa il premio del ritrovamento di 125 milioni di lire. Anche se c’è chi sostiene che non fu il sub romano a scoprire quel tesoro, ma quattro ragazzi del posto. La questione è arrivata in un Tribunale, che ha stabilito il primato del sub romano. La paternità del ritrovamento non è l’unica controversia che si è sollevata attorno alla scoperta dei due Bronzi attualmente esposti al Museo Archeologico di Reggio Calabria. Nell’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti approfondiamo infatti anche un’altra questione. Alcuni sostengono che quei due splendidi bronzi, raffiguranti guerrieri greci e realizzati nel V secolo avanti Cristo, non siano proprio tutto ciò che sarebbe stato recuperato in quel lontano 1972. “Nessuno mai aveva visto quei documenti”, dice Giuseppe Braghò, studioso appassionato di archeologia che ha dedicato gran parte della sua vita a raccontare una storia dei bronzi di Riace diversa da quella ufficiale. Lo studioso si riferisce ai documenti sul ritrovamento dei Bronzi. “Il signor Mariottini, parlando di una delle due statue dice: ‘Al braccio sinistro presenta uno scudo”, racconta Braghò. “Chiunque capisce che questa statua, da lui scoperta, al braccio sinistro presentava uno scudo”. Di questo scudo, però, non c’è alcuna traccia. E non ci sono tracce neanche di un’altra parte dell’armatura: l’elmo, elemento di cui parla l’ispettore ministeriale Pietro Giovanni Guzzo nella sua relazione. Nella denuncia, inoltre, Mariottini parla di un “gruppo di statue”, espressione non usuale per chi vuole indicare la presenza di due sole statue. E non è finita qui: la prima statua, per come è descritta dal sub nella sua denuncia di rinvenimento, sembra molto diversa per posizione di gambe e braccia rispetto ai due Bronzi che tutti conosciamo. “Mariottini mente!”, dice Braghò ad Antonino Monteleone. “Perché descrive una statua che lì non c’è”. Così Monteleone va a parlare direttamente con chi ha scritto di suo pugno quel primo documento: Stefano Mariottini. Ma lo scopritore dei Bronzi non ci accoglie molto bene: “Ho evitato qualsiasi confronto richiesto e qualsiasi intervista sull’argomento”. Quando un altro uomo si avvicina chiedendo a Mariottini se lo stiamo infastidendo, scoppia il putiferio. “Vi ammazzo tutti quanti”, dice quest’uomo avvicinandosi in maniera minacciosa alla Iena. Perché se uno prova a fare qualche domanda a chi ha fatto quella clamorosa scoperta viene accolto così? Alla fine di un’accesissima discussione in cui intervengono altre persone, proviamo a riprendere il discorso. E uno dei presenti si lascia sfuggire qualcosa: “Alla fin fine il discorso è questo: i bronzi ha detto che li ha trovati lui, i soldi se li è presi lui, che cazzo devi fare di più? Però c’erano lance e scudo.” Alla domanda della Iena su chi possa essersi presi questi reperti, risponde: “C’era altra gente prima di lui”. “Lui è stato furbo quel giorno, ha sfruttato la situazione, questo è culo!”. Insomma, anche i pescatori del luogo sanno la storia della lancia e lo scudo, ma più che essere indignati sembrano provar invidia per chi si è aggiudicato il premio e per chi eventualmente si è portato a casa quei preziosissimi reperti. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti stanno provando a raccogliere delle testimonianze inedite sul campo per risolvere questo mistero, perché se davvero ci fossero alcuni pezzi dei Bronzi mai denunciati alle autorità si potrebbero riportare a casa, al museo di Reggio Calabria. Chi sa qualcosa su questo giallo parli e non esiti a contattarci, anche perché i Bronzi di Riace sono di tutti i calabresi, sono di tutti gli italiani.

Bronzi di Riace: “La terza statua esiste, fu trafugata e venduta”. Le Iene il 28 ottobre 2019. Antonino Monteleone, nel corso della terza puntata della sua inchiesta, raccoglie le confidenze esclusive e clamorose di un uomo: “Il terzo bronzo di Riace fu portato a Roma da alcuni calabresi e venduto”. Il terzo bronzo di Riace esiste davvero ed è stato rubato e poi venduto all’estero? Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano ad occuparsi dei troppi misteri nel ritrovamento dei Bronzi di Riace. Lo fanno con una testimonianza esclusiva, che sarebbe clamorosa perché se vera accrediterebbe la storia di uno dei più incredibili trafugamenti di opere archeologiche di tutti tempi. Possibilità di cui si dice fermamente convinto Giuseppe Braghò, uno studioso appassionato di archeologia che da anni si batte per scoprire la verità sul ritrovamento dei Bronzi di Riace: “Nessuno è mai entrato nell’archivio del museo storico, di questi grandi scienziati, accademici… a nessuno è venuto in testa di andare dove? alla fonte!!! Lì ho scoperto che qualcosa non, non, qualcosa non andava…”. Antonino Monteleone ha raccolto le confidenze di un presunto testimone della compravendita di un terzo bronzo, che racconta: “A Roma c’era un’altra statua che veniva da Riace, che avevano portato su i calabresi... Una cosa bella, di bronzo… so che se la sono venduta”. Nel primo capitolo della nostra inchiesta ci siamo domandati se le due statue siano davvero gli unici reperti trovati in quei fondali o se, accanto a questi, c’erano anche uno scudo e forse un terzo bronzo, come si evincerebbe dalla denuncia del ritrovamento compilata dal sub romano Stefano Mariottini, lo scopritore ufficiale dei due bronzi. Nel corso della seconda puntata di questa inchiesta esclusiva, Le Iene avevano poi raccolto la testimonianza dello stesso Braghò, che sostiene di aver conosciuto una testimone, Anna Diano, che avrebbe visto con i suoi occhi qualcuno portare via uno scudo e una lancia spezzata in due proprio dalla spiaggia di Riace e proprio nei giorni del ritrovamento delle due statue, a circa 700 metri da dove sono stati recuperati i bronzi. Ora arriva la clamorosa testimonianza di un uomo, che al nostro Antonino Monteleone racconta di sapere che il terzo bronzo fu trafugato, portato in una villa a Roma e venduto agli americani poco dopo il suo ritrovamento. Non perdete martedì sera a Le Iene su Italia1, a partire dalle 21.15, la terza puntata dell’inchiesta sui Bronzi di Riace, con tutte le incredibili rivelazioni raccolte da Antonino Monteleone e Marco Occhipinti.

Bronzi di Riace: “La terza statua è stata venduta e trafugata”. Le Iene il 30 ottobre 2019. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, nella terza puntata dell’inchiesta sui bronzi di Riace, raccolgono la clamorosa testimonianza di un uomo che racconta: “Alcuni calabresi portarono a Roma la terza statua. Che era stata trafugata da Riace, e la vendettero negli Usa, al Getty Museum di Malibù, in California". Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano a parlare del mistero del ritrovamento dei Bronzi di Riace e lo fanno con una testimonianza inedita e clamorosa: potrebbe davvero esistere un terzo bronzo, che sarebbe stato trafugato e venduto illegalmente all’estero. Una versione questa, che ci arriva da un appassionato di archeologia, che frequenta tombaroli e mercanti d’arte a Roma e che se fosse vera potrebbe rivoluzionare la storia di una delle più importanti scoperte archeologiche di tutti i tempi. Nel primo capitolo della nostra inchiesta ci siamo domandati se le due statue siano davvero gli unici reperti trovati in quei fondali o se, accanto a questi, c’erano anche uno scudo e forse un terzo bronzo, come si evincerebbe dalla denuncia del ritrovamento compilata dal sub romano Stefano Mariottini, lo scopritore ufficiale dei due bronzi. Nel corso della seconda puntata di questa inchiesta esclusiva, Le Iene hanno poi raccolto la testimonianza dell’appassionato d’arte ed esperto dei bronzi Giuseppe Braghò, che sostiene di aver conosciuto una testimone, Anna Diano, che avrebbe visto con i suoi occhi qualcuno portare via uno scudo e una lancia spezzata in due, proprio dalla spiaggia di Riace e proprio nei giorni del ritrovamento delle due statue, a circa 700 metri da dove sono stati recuperati i bronzi. Anna Diano fu ritenuta attendibile anche dai carabinieri che la sentirono, ma che non riuscirono a scoprire nulla di più. Ora arriva questa clamorosa testimonianza esclusiva, che confermerebbe i dubbi che lo stesso Braghò aveva già avanzato: “Nessuno è mai entrato nell’archivio del museo storico, lì ho scoperto che qualcosa non andava…”

A parlarci, chiedendo ovviamente di rimanere anonimo, è un uomo che dice di sapere qualcosa del terzo bronzo scomparso. “Praticamente uno, che qui a Roma faceva sto lavoro… un mercante che pigliava la roba e poi se la rivendeva, c’aveva i clienti buoni… c’è stata una persona che conoscevo bene, a cui era capitata in mano (la statua, ndr)… sarà stato il '72-‘73 la portano dentro la villa di un dottore che sta a Casal Palocco, e portano questo compratore… era uno che comprava, pagava lui con i suoi soldi e poi se la rivendeva, agli americani, ai musei…” Antonino Monteleone gli chiede di descrivere la statua che sarebbe stata trafugata e venduta: “era la statua di un uomo a grandezza.. come me, fa conto… non era una cosa romana, ma greca, quindi importante…” “A quanto l’avrebbe acquistata?”, gli chiede la Iena e lui risponde: “a quattrocento milioni di lire”. Il terzo bronzo, spiega ancora l’uomo, sarebbe stato venduto subito a degli americani, che “venivano a cercare queste cose, le cose più belle…”.

Oggi quella statua, spiega ancora l’uomo, non sarebbe esposta, ma quando gli chiediamo degli acquirenti, non sembra avere dubbi e fa riferimento addirittura al Getty Museum di Malibù, in California. Ma è possibile che un museo di fama internazionale acquisti o esponga opere di provenienza illecita? 

A risponderci è il giornalista e scrittore Fabio Isman, esperto di arte: “Ho calcolato che almeno 47 musei del mondo siano entrati in possesso, sapendolo, di materiale proveniente da scavi illegali in Italia. Anche il Louvre! Anche il British. Il Getty ha restituito una cinquantina di pezzi, ne aveva almeno 350 di provenienza italiana e dagli stessi mercanti sotto processo in Italia”.

Siamo andati allora dall’ex ministro della Cultura Francesco Rutelli per chiedergli come si ottiene la restituzione di un’opera che un museo straniero ha comprato clandestinamente. “Mi ricordo che una sera mandai a questo grande museo, Getty di Malibu, Los Angeles, una mail in cui gli comunicavo che dal giorno dopo l’Italia non avrebbe più collaborato, non avrebbe più mandato opere in prestito dai suoi musei pubblici perché loro evidentemente non volevano collaborare nel restituirci delle opere che con anni di lavoro era documentato, erano documentato state trafugate in Italia. Incluso la Dea di Morgantina, incluse decine di opere, i cervi che adesso si trovano ad Ascoli Satriano, insomma delle cose meravigliose. Quando sono arrivato l’indomani in ufficio preparandomi al braccio di ferro per dire allora annulliamo una mostra importante sul Barocco, ed altri, con una collaborazione già iniziata, arrivo in ufficio e trovo la mail del direttore del Getty che comunica "restituiamo tutto". Tutto. Ancora mi emoziono a ricordarlo. Tutto, e hanno pagato anche il viaggio”. 

Dopo questa inedita e clamorosa testimonianza sulla vendita, dopo il trafugamento, del presunto terzo bronzo, stiamo lavorando a verificare altre testimonianze che potrebbero cambiare la storia di uno dei ritrovamenti più incredibile dell’archeologia di tutti tempi. Continuate a seguire a Le Iene l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sui Bronzi di Riace.

Bronzi di Riace, parla un archeologo: “Le statue erano 5”. Le Iene il 3 novembre 2019. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano sul mistero del ritrovamento dei bronzi di Riace. Le Iene intervistano un archeologo e docente universitario, secondo il quale “i bronzi erano 5”. Quello con le braccia aperte, di cui parla Mariottini nella denuncia di ritrovamento, potrebbe essere la madre di Eteocle e Polinice, di cui ci parla il professor Castrizio. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti continuano a occuparsi dei troppi misteri nel ritrovamento dei bronzi di Riace, nella quarta puntata dell’inchiesta che potete vedere qui sopra. Siamo ritornati sulla questione della denuncia fatta dal sub romano Stefano Mariottini, che ha ufficialmente ritrovato le due statue, una delle quali viene da lui descritta come “a braccia aperte”. Statua che, stando alle nuove testimonianze raccolte, potrebbe essere un bronzo non ancora ritrovato, e forse trafugato e venduto a un museo americano, come vi abbiamo raccontato nell’ultima puntata dell’inchiesta. Per valutare questa ipotesi, abbiamo incontrato Daniele Castrizio, un archeologo e professore ordinario di numismatica all’università di Messina. Uno che i Bronzi di Riace li ammira e li studia da tempo, e a cui chiediamo: “Se io dicessi che i bronzi di Riace esposti al museo hanno le braccia aperte lei mi correggerebbe?” “Assolutamente. Non hanno le braccia aperte. Sono in una posizione tipica del guerriero per cui il braccio sinistro è tenuto ad angolo retto perché deve sostenere il peso dello scudo. Ed  entrambi tengono una lancia”. Il professore, sulla possibile esistenza di altre statue oltre alle due ritrovate ufficialmente da Mariottini, ha le idee molto chiare: “La mia teoria è che ci siano 5 bronzi, di cui uno è la madre che divide Eteocle e Polinice con le braccia aperte”. Antonino Monteleone è quindi tornato a sentire, anche alla luce di queste nuove dichiarazioni, il sub romano Stefano Mariottini. E ha scoperto anche un’altra circostanza legata a una persona vicina a Mariottini e al momento del ritrovamento dei due bronzi, che è assolutamente incredibile. 

“I bronzi di Riace erano 5 e uno aveva le braccia aperte”. Le Iene il 4 novembre 2019. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano ad occuparsi dei troppi dubbi nella ricostruzione ufficiale del ritrovamento dei bronzi di Riace. Lo fanno intervistando un archeologo calabrese che sostiene che il gruppo originario era composto da cinque statue. La Iena scopre poi che un parente del sub romano Stefano Mariottini, che trovò le due statue, era stato fermato dai finanzieri, che a casa avevano trovato reperti storici mai dichiarati. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano sul caso del ritrovamento dei bronzi di Riace, nella quarta puntata dell’inchiesta de Le Iene. Lo fanno dopo che, nelle scorse puntate, avevano mostrato le moltissime incongruenze nel racconto ufficiale del ritrovamento delle due statue. Questo racconto si basa sulla denuncia di ritrovamento del sub romano Stefano Mariottini, a cui è attribuita ufficialmente la scoperta dei due bronzi e a cui è andata la ricompensa di 125 milioni di vecchie lire. Un racconto nel quale troppe cose non tornano, a cominciare dal fatto che una delle statue ritrovate viene descritta come “a braccia aperte”. Mariottini poi parla di “un gruppo di statue” invece che di una coppia e descrive nel dettaglio anche uno scudo sul braccio sinistro di una di queste. Uno scudo che però non è stato mai ritrovato. Su quante possano essere davvero le statue appartenenti al gruppo dei bronzi, Antonino Monteleone ha sentito Daniele Castrizio, un archeologo e  professore ordinario di numismatica all’università di Messina, che ha una sua personale teoria. Castrizio, alla domanda secca di Monteleone, dice che, dovendoli descrivere, non direbbe mai che i due bronzi ritrovati da Mariottini siano “a braccia aperte”. “Assolutamente no. Non hanno le braccia aperte. Sono in una posizione tipica del guerriero per cui il braccio sinistro è tenuto ad angolo retto perché deve sostenere il peso dello scudo. Ed  entrambi tengono una lancia”. L’archeologo racconta una storia molto diversa da quella ufficiale: “La mia teoria è che ci siano 5 bronzi di cui uno è la madre che divide Eteocle e Polinice, con le braccia aperte”. Secondo il professor Daniele Castrizio dunque i bronzi di Riace farebbero parte di un gruppo di statue. “Sicuramente c’è il bronzo della madre dei due fratelli, una donna inginocchiata con le braccia aperte nel tentativo di fermare i figli. Ho semplicemente messo i due bronzi al posto di queste due statue di questo gruppo importantissimo, i fratricidi di Pitagora. Corrisponde l’anno, corrisponde il posto, corrisponde tutto. Corrisponde la terra di fusione, quindi corrisponde veramente tutto”. E così Antonino Monteleone decide di tornare proprio da Stefano Mariottini, per chiedergli conto ancora una volta di ciò che scrisse sulla denuncia ufficiale di ritrovamento dei due bronzi. L’uomo all’inizio dice di non voler parlare e di non essere disposto a rilasciare alcuna intervista,  ma di fronte all’insistenza della Iena sbotta: “L’ho scritto e allora? se l’ho scritto vuol dire che l’ho visto, una fesseria una cavolata dai… è come quello che state a fa’ qua voi, una cavolata…” E poi fa dell’ironia: “Eh e io non so un archeologo, a me sembrava uno scudo, a lei che sarebbe sembrato, un aeroplano?” “Io non mi immergo”, risponde Monteleone. “Ah e fa male, perché sott’acqua è bellissimo, non sa quello che perde… potrebbe trovare un altro bronzo, che ne so, altri cinque, dodici… fa molto male, sott’acqua glie farebbe bene, un pochetto…” Ma sulla storia del ritrovamento dei due bronzi e sul ruolo del sub Mariottini, dovete sapere ancora una cosa, che potrebbe essere solo l’ennesima “strana e casuale” coincidenza. Il sub romano aveva un parente, tale Alcherio Gazzera, che era professore di storia dell’arte in un liceo calabrese. Un uomo al quale proprio Mariottini chiese aiuto quando scoprì i Bronzi di Riace, coinvolgendolo nelle operazioni di recupero, qualche anno dopo quel ritrovamento, ebbe qualche problema con la giustizia. A raccontarcelo è Bruno Di Iacovo, il finanziere che materialmente sequestrò reperti di dubbia provenienza in casa di Alcherio Gazzera, zio della moglie di Stefano Mariottini. “Sono riuscito un po’ a ricostruire alcuni di questi rinvenimenti, facevano capo a questo professore, Alcherio Gazzera, dopodiché facemmo una serie di indagini e quindi una perquisizione a casa del professore. Abbiamo trovato circa un centinaio di monete dell’epoca greco romana, una specie di bassorilievo, raffigurante una donna con un bambino che si recava a prendere l’acqua a una fonte… e poi vari reperti diciamo”. Tutti reperti, va sottolineato ancora una volta, non denunciati alle autorità al momento del ritrovamento. Di Iacovo, però, ci tiene a precisare una cosa: “Se ero in grado in quel momento di conoscere i rapporti che potevano legare il Mariottini al professor Gazzera, quantomeno un’ipotesi investigativa l’avrei fatta”. E quando Antonino Monteleone gli fa notare che nei documenti ufficiali del ritrovamento compare il nome di Gazzera come l’uomo che mette in contatto Mariottini col sovrintendente Foti, dice: “Questo lo apprendo proprio in questo momento, l’avessi saputo subito guardi ci sarebbe stata un’immediata ipotesi investigativa, si è parlato di questo scudo, etc. etc. all’epoca in effetti non si parlò di questi reperti mancanti. Nulla fu detto”. Mariottini, su quello zio dal passato “scomodo” dice: “Alcherio essendo un esperto di…venne a vedere con la barca per riconoscere se erano effettivamente opere d’arte o se erano dei pupazzi di carnevale…” “Ok, poi 8 anni dopo gli hanno sequestrato 150 reperti..”, gli fa notare la iena Antonino Monteleone. “Ma questo è un problema di Alcherio Gazzera non lo dovete chiedere a me… Se lei per caso sua zia fa un mestiere diciamo la prostituta, lei per caso è un pappone?” Continuiate a seguire le nostre inchieste sul ritrovamento dei Bronzi di Riace, segnalandoci eventuali informazioni in vostro possesso. Noi non ci fermeremo fino alla verità.

“I Bronzi di Riace erano 5”: l'inchiesta de Le Iene arriva in Parlamento. Le Iene l'8 novembre 2019. Il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini ha risposto a un’interrogazione del senatore Iannone dopo l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti: “Se ci fossero elementi nuovi rilevati dalle indagini, informerò immediatamente il Parlamento”. L’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sui bronzi di Riace smuove non solo le autorità giudiziarie, ma anche la politica. Il senatore Antonio Iannone di Fratelli d’Italia ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministro dei Beni culturali Dario Franceschini (Pd) per chiedere spiegazioni sulle rivelazioni andate in onda a Le Iene. “Le sconcertanti rivelazioni, denunciate dalla trasmissione, riguardano le clamorose incongruenze tra la documentazione relativa al ritrovamento e i reperti effettivamente rinvenuti e oggi conosciuti”, ha detto il senatore Iannone. “Nelle carte si parla di ritrovamento, cito testualmente, di un gruppo di statue, presumibilmente di bronzo e non solo di due. La descrizione delle statue fatta dal subacqueo, che le scoprì, non coincide con quelle a noi note”, ricorda l’onorevole citando l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti di cui qui sopra potete vedere l’ultima puntata. “Inoltre mancherebbero, tra i reperti pervenuti, almeno uno scudo, un elmo e una lancia che sono invece citati nei documenti di ritrovamento. Dall'inchiesta televisiva sembra anche esistere un testimone oculare che parla della vendita di un terzo bronzo ad acquirenti americani”. Il ministro Franceschini ha risposto sostenendo che dal 1972 a oggi non sono mai emerse conferme circa l’ipotesi dell’esistenza di altre statue, aggiungendo però: “La Direzione generale archeologia, belle arti e paesaggio del Ministero, unitamente alla Soprintendenza e al comando Carabinieri, comunque valuteranno con tutta l'attenzione necessaria gli elementi che dovessero emergere in riferimento alla trasmissione andata in onda recentemente e che siano innovativi rispetto a quanto analizzato negli anni precedenti”. Franceschini aggiunge anche altro. Le forze dell’ordine e la magistratura si stanno infatti muovendo dopo i nostri servizi: “Aggiungo che questa mattina (ieri, ndr) dovrebbe esserci stato un incontro tra il suddetto Nucleo insieme ai comandanti del gruppo della compagnia dei Carabinieri del luogo con il procuratore di Locri al fine di avviare le prime indagini riferite alla trasmissione e l'autorità giudiziaria ha già chiesto la consegna dei video delle puntate per procedere ad una disamina completa di quanto emerso nel corso del programma”, ha detto il ministro. “Ovviamente, se ci fossero elementi nuovi rilevati dalle indagini, informerò immediatamente il Parlamento”. Noi de Le Iene ci stiamo occupando del caso dei Bronzi di Riace. Nelle prime puntate abbiamo parlato delle moltissime incongruenze nel racconto ufficiale del ritrovamento delle due statue. Nel quarto episodio dell’inchiesta invece Antonino Monteleone ha sentito Daniele Castrizio, un archeologo e  professore ordinario di numismatica all’università di Messina, che ha una sua personale teoria. L’archeologo racconta una storia molto diversa da quella ufficiale: “La mia teoria è che ci siano 5 bronzi di cui uno è la madre che divide Eteocle e Polinice, con le braccia aperte”. Secondo il professor Daniele Castrizio dunque i bronzi di Riace farebbero parte di un gruppo di statue. “Sicuramente c’è il bronzo della madre dei due fratelli, una donna inginocchiata con le braccia aperte nel tentativo di fermare i figli. Ho semplicemente messo i due bronzi al posto di queste due statue di questo gruppo importantissimo, i fratricidi di Pitagora. Corrisponde l’anno, corrisponde il posto, corrisponde tutto. Corrisponde la terra di fusione, quindi corrisponde veramente tutto”.

·        I Faraoni.

Da adnkronos.com l’8 novembre 2022.

 Una missione archeologica internazionale ha scoperto un tunnel scavato nella roccia sotto l'antico tempio egiziano di Taposiris Magna, che potrebbe condurre alla tomba perduta di Cleopatra, ultima sovrana dell'Egitto tolemaico dal 51 al 30 a.C..

La galleria è lunga 1.300 metri ed è situata a 13 metri di profondità, come precisa il sito internet Ancient Origins. 

Il Ministero del Turismo e delle Antichità egiziano ha annunciato il ritrovamento, descrivendo il tunnel come "un prodigio della tecnica ingegneristica antica", per molti aspetti simile al tunnel di Eupalinos sull'isola greca di Samos. A scoprirlo l'archeologa Kathleen Martinez dell'Università di Santo Domingo, da tempo è impegnata nelle ricerche su Cleopatra.

Cleopatra morì notoriamente suicida dopo che anche il marito, il generale romano Marco Antonio, si era suicidato. L'archeologa Martinez si recò per la prima volta in Egitto alla ricerca della tomba di Cleopatra circa 20 anni fa, convinta, dopo oltre un decennio di ricerche, che Taposiris Magna, situata alla periferia di Alessandria d'Egitto e dedicata a Osiride, il dio dei morti, fosse una delle principali candidate alla sepoltura della regina.

Dopo centinaia di e-mail ignorate, Martinez riuscì a ottenere un incontro al Cairo con il celebre archeologo Zahi Hawass, allora ministro delle Antichità egiziano, soprannominato "l'Indiana Jones dei faraoni". 

E lo convinse a concederle due mesi di tempo per condurre gli scavi nel sito. I lavori sono in corso dal 2004, ma il nuovo ritrovamento è la prova più convincente che Martinez è sulla strada giusta. "Questo è il luogo perfetto per la tomba di Cleopatra", ha dichiarato Martinez al blog Heritage Key. "Se c'è l'1% di possibilità che l'ultima regina d'Egitto sia sepolta lì, è mio dovere cercarla. Se scopriamo la tomba sarà la scoperta più importante del XXI secolo. Se non scopriamo la tomba, avremo comunque fatto grandi scoperte qui, all'interno del tempio e fuori dal tempio".

Finora gli scavi hanno rivelato mummie con lingue d'oro e un cimitero contenente mummie in stile greco-romano sepolte di fronte al tempio, a sostegno della teoria di Martinez secondo cui nell'area fu costruita una tomba reale. Oltre al tunnel, l'ultimo ritrovamento comprende due statue di alabastro di epoca tolemaica, una delle quali sembra essere una sfinge, oltre a vasi e recipienti di ceramica. Parte del tunnel è sott'acqua, forse a causa di antichi terremoti che colpirono la regione tra il 320 e il 1303 d.C. Questi disastri naturali potrebbero aver portato al declino di Taposiris Magna.

Tutankhamon era figlio di un incesto. Il faraone aveva una malformazione al piede e camminava zoppo con l’aiuto di un bastone. Nuova ricostruzione del volto. Elmar Burchia su Il Corriere della Sera il 20 ottobre 2014.

Incesto

Era il 4 novembre 1922 quando l’archeologo inglese Howard Carter scoprì la tomba del faraone bambino sotto i resti di un antico villaggio nella Valle dei Re, in Egitto. Fu uno dei ritrovamenti archeologici più ricchi della storia e la pietra fondante della moderna egittologia. Le tante leggende, teorie e maledizioni attorno al faraone continuano ancora oggi ad affascinare i ricercatori e non solo loro. Per un nuovo documentario di Bbc One, che verrà trasmesso domenica prossima, è stato ricostruito il volto del sovrano egiziano, attraverso più di 2 mila scansioni computerizzate sulla mummia. Inoltre, sono state effettuate analisi genetiche sulla famiglia. Se un precedente test del Dna aveva già identificato in Akhenaton il padre naturale di Tutankhamon, ora Albert Zink, direttore dell’Istituto per le mummie e l’Iceman dell’Eurac di Bolzano, ha evidenziare che la madre di Tutankhamon era in verità la sorella di Akhenaton, il faraone cosiddetto «eretico», il primo monoteista della storia.

I 130 bastoni

Zink ha utilizzato impronte genetiche e test sul Dna mitocondriale, ereditato solo dalla madre. «Albert ha dimostrato senza ombra di dubbio che Tutankhamon era il prodotto di un incesto: i suoi genitori erano fratello e sorella». Il documentario svela inoltre che il 19enne camminava zoppo a causa del piede equino-varo-supinato. Il giovane era perciò costretto a usare sempre un bastone (ne aveva 130). Tutankhamon era anche sofferente del morbo di Köhler, che limita l’afflusso di sangue agli arti. Per anni gli studiosi si sono interrogati sulla vita e la sorte del faraone bambino: tra le più gettonate ipotesi ci fu quella che il re fosse stato ucciso o che morì dopo un incidente con una biga. Ma le ultime analisi ritengono che la causa della sua morte sia riconducibile a una malattia ereditaria.

Tutankhamun, l’alba del faraone. Un archeologo testardo, un lord coraggioso e quei 12 gradini segreti. Christian Greco su Il Corriere della Sera il 5 Novembre 2022

In questa anticipazione del suo ultimo libro, il direttore del Museo Egizio di Torino Christian Greco ripercorre le avventurose tappe che portarono alla scoperta archeologica più importante degli ultimi 100 anni. Una storia culminata in un giorno di novembre, quando fu trovata la tomba del sovrano che lì riposava da 3300 anni

La tomba del faraone Tutankhamun, scoperta nella Valle dei Re nel novembre del 1922 (foto Kenneth Garret)

Nel 1908 il direttore generale del Servizio delle Antichità egiziano mise in contatto Howard Carter con George Edward Stanhope Molyneux Herbert, il quinto Conte di Carnarvon, che cercava un archeologo, esperto e di talento, da poter impiegare nella concessione di scavo che aveva ottenuto a Tebe. Carter, potendo ora godere di entrate stabili, si costruì una casa su una collinetta, dal nome Elwat al-Diban (“tumulo di mosche”), all’imboccatura della strada che porta alla Valle dei Re e chiamò la sua dimora “Castello Carter II” per distinguerla da quella che era stata la sua prima abitazione a Medinet Habu e che aveva definito “Castello Carter I”. Le campagne di scavo condotte prima dello scoppio della Guerra Mondiale erano state produttive anche se Lord Carnarvon desiderava delle scoperte di un certo peso che gli permettessero di acquisire oggetti di valore per ripagare in qualche modo tutti i suoi sforzi anche economici.

CARTER SI COSTRUÌ UNA CASA SU UNA COLLINETTA, DAL NOME ELWAT AL- DIBAN (TUMULO DI MOSCHE), SULLA STRADA VERSO LA VALLE DEI RE

La scoperta di Belzoni: la tomba di Seti I

Nel 1914, prima di lasciare l’Egitto definitivamente, Gaston Maspero diede una concessione di scavo presso la Valle dei Re a Lord Carnarvon e al suo archeologo Howard Carter. Nel corso del XIX secolo la Valle era stata esplorata a più riprese, a partire da Giovan Battista Belzoni che aveva ritrovato la tomba di Seti I, per arrivare agli scavi veri e propri condotti da Victor Loret e Theodore Davis. Carter era fiducioso che si potessero fare nuove scoperte, sebbene in molti ritenessero che ormai la Valle fosse stata esplorata in tutti i suoi aspetti e lo stesso Maspero avesse avvertito Carnarvon che questa concessione non avrebbe ripagato i costi che la spedizione avrebbe dovuto sostenere. Il riferimento del direttore generale del Servizio di Antichità era alla divisione di oggetti che era all’epoca in vigore. Nel caso del ritrovamento di una tomba intatta, infatti, tutto il contenuto sarebbe andato al Museo del Cairo; nel caso, invece, di una sepoltura che era già stata violata o oggetto di scavi precedenti il Servizio di Antichità avrebbe trattenuto oggetti di particolare importanza per la storia e l’archeologia, quali ad esempio mummie reali. Dato però che fino a quel momento né Loret né Davis avevano ritrovato una tomba che non fosse stata violata in antico, la prospettiva di un contesto intatto sembrava altamente improbabile.

Amenhotep III e la scelta di cambiare scavo

Carter cominciò a lavorare nel 1915 nella Valle Occidentale. Aveva notato che sul mercato antiquario erano apparsi degli oggetti la cui provenienza poteva essere la tomba di Amenhotep III, già investigata da Harry Burton su mandato di Theodore Davis. Cominciò quindi a lavorare in questo monumento ma interruppe i lavori dopo un mese e decise di spostare le operazioni nella Valle dei Re vera e propria. A causa degli eventi bellici per due anni e mezzo Carter, tuttavia, dovette rinviare l’inizio degli scavi. Nell’autunno del 1917 cominciò a indagare un’area che si estendeva fra le tombe di Ramesse II, Merneptah e Ramesse VI. Si trattava di un tratto situato al centro della valle, un triangolo che non era mai stato indagato in maniera sistematica e completa fino a raggiungere il livello della roccia. Bisognava indagare oltre i depositi che si erano sedimentati in seguito alle inondazioni causate da piogge torrenziali. Durante la prima stagione riuscì a trovare le baracche degli antichi costruttori delle tombe reali. Dal punto di vista logistico, i lavori erano piuttosto difficoltosi, in quanto l’area era molto vicina all’ingresso della tomba di Ramesse VI e bisognava tener conto della necessità di lasciar libero il passaggio per turisti e visitatori. La tomba di Ramesse IX, situata praticamente di fronte, costituiva invece il magazzino della spedizione e il luogo in cui si consumavano i pasti.

NELL’ESTATE DEL 1922 LORD CARNARVON INSISTETTE PER CAMBIARE IL LUOGO DEGLI SCAVI. L’EGITTOLOGO CHIESE DI CONTINUARE PER UN’ALTRA STAGIONE

La stagione successiva, svoltasi nel 1918-1919, non permise di lavorare in modo efficace in quanto Carnarvon insistette perché venissero dedicate sei settimane a una concessione nel Medio Egitto, a Meir. A Carter rimase solo una settimana per lavorare nella Valle e decise di concentrarsi su un’area diversa, di fronte alla tomba di Tuthmosis I. La campagna non portò scoperte significative ma permise, tuttavia, di scavare tutta l’area fino alla roccia vergine. Nelle due stagioni successive, venne abbandonata l’area al centro della Valle, per le ragioni logistiche sopra esposte, e ci si concentrò sulle zone al di sotto della tomba di Tuthmosis III e di Siptah.

I lavori procedevano meticolosamente ma dopo alcuni anni non vi erano risultati che Carnarvon potesse considerare significativi. Scavando vicino alla tomba di Merneptah erano venuti alla luce dei vasi in alabastro con il cartiglio di Ramesse II, ma questo non costituiva un ritrovamento abbastanza rilevante da continuare lo scavo, nell’ottica del finanziatore della spedizione. Nell’estate del 1922, presso la propria residenza inglese di Highclere Castle, Lord Carnarvon insistette con Carter per trovare una nuova concessione in un luogo che potesse essere più promettente, ma Carter chiese di continuare per un’altra stagione di modo da poter investigare l’area al di sotto della tomba di Ramesse VI, e Carnarvon alla fine accettò.

Scavare prima che i turisti invadessero l’area

Per poter condurre i lavori prima che il flusso di turisti potesse ostacolare le operazioni, si decise di anticipare l’inizio dello scavo al 1° novembre. Tre giorni dopo, i resti delle baracche degli antichi operai furono rimossi. Nella pagina del 4 novembre, Carter annota di traverso nel suo diario una semplice frase: “First steps of tomb found”, trovati i primi gradini di una tomba. I dodici gradini tagliati nella roccia che emersero uno dopo l’altro conducevano a una prima porta sigillata. Sulla superficie si vedeva lo stampo del sigillo della necropoli, ma nella parte superiore della porta non era possibile leggere alcun nome regale. Carter aprì un piccolo pertugio, dal quale vide che vi era un corridoio ricolmo di detriti alla fine del quale era situato un altro passaggio murato. A quel punto richiuse tutto, mise due squadre di guardiani a controllare il sito e a tenersi d’occhio l’un l’altro per evitare ogni possibile penetrazione della tomba, scrisse a Lord Carnarvon e attese il suo arrivo. Il 24 novembre, il giorno dopo l’arrivo di Carnarvon e della figlia Evelyn Herbert, i lavori di scavo ripresero. La scala fu liberata e nella parte inferiore del passaggio murato, sull’intonaco, fu possibile leggere il nome di Tutankhamun. L’entusiasmo fu subito smorzato quando si notò, sul lato sinistro in alto, che l’intonaco era stato tolto e ripristinato, un chiaro segno di una chiusura secondaria e quindi un indizio di una violazione antica della tomba.

QUANDO CARTER CREÒ UN FORO NELL’ULTIMA PORTA GETTÒ UNO SGUARDO DENTRO LA TOMBA E PRONUNCIÒ LA FRASE: «VEDO COSE MERAVIGLIOSE»

L’ARCHEOLOGO, LORD CARNARVON E LA FIGLIA LADY EVELYN TORNARONO IN SEGRETO ALLA TOMBA E FORSE ALLORA SCOPRIRONO “IL TESORO”

Blocco dopo blocco, la muratura fu smontata e si vide come il corridoio fosse riempito fino al soffitto di frammenti calcarei. In mezzo a questo ammasso era stato scavato, probabilmente da ladri, un tunnel che era stato successivamente riempito. Una volta svuotato il corridoio, il passaggio risultò bloccato da una seconda porta murata, intonacata e ricoperta da sigilli ovali della necropoli. Anche qui, nell’angolo superiore sinistro si notava un pertugio che era stato richiuso in antico. È in questa porta che Carter operò il foro attraverso cui gettò il primo sguardo dentro la tomba e pronunciò la frase, divenuta celebre, «vedo cose meravigliose». In realtà non sappiamo se quelle furono davvero le parole pronunciate o sono piuttosto frutto della rielaborazione letteraria di Arthur Mace, un altro egittologo della spedizione. A turno, Carter, Lord Carnarvon e Lady Evelyn osservarono attraverso il pertugio e videro le due statue nere che fungevano da sentinelle a un’altra porta murata, quella che dava accesso alla camera sepolcrale, ma sparso tutto attorno nell’anticamera erano ammassate grandi quantità di oggetti. Carter ci riferisce che dopo aver osservato tutto con attenzione, richiusero il foro, serrarono la griglia in legno posizionata sul primo passaggio, lasciarono le guardie in loco e tornarono al Castello Carter II.

La visita segreta, di notte, il 24 novembre 1922

L’archeologo riferisce che dormirono molto poco quella notte. Probabilmente proprio allora tornarono in segreto nella tomba, entrarono nell’anticamera e - attraverso un foro che era stato richiuso in antico nella parte inferiore della porta che conduceva nello spazio più interno e che, in seguito, coprirono posizionando davanti un cesto di vimini - giunsero fino alla camera sepolcrale, videro le cappelle dorate che circondavano il sarcofago in quarzite e probabilmente entrarono anche nel “tesoro”. Conferma di questa visita segreta, prima dell’apertura ufficiale della tomba, si trova in una lettera scritta da Lady Evelyn a Carter il 26 dicembre 1922, in cui riferisce dell’eccitazione continua che prende il padre anche nei momenti in cui non si sente bene, quando lei gli racconta del sancta sanctorum (ovvero della visione della camera sepolcrale, che sarà ufficialmente aperta solo il 16 febbraio 1923), e questo ha l’effetto dello champagne.

L’AUTORE. Christian Greco. Christian Greco, 47 anni, direttore del Museo Egizio di Torino dal 2014, è stato membro dell’Epigraphic Survey of the Oriental Institute of the University of Chicago a Luxor e, dal 2015, è co-direttore della missione archeologica italo-olandese a Saqqara. Nato nel 1975 ad Arzignano (Vicenza), si è formato principalmente in Olanda. Egittologo con grande esperienza in ambito museale, ha curato moltissimi progetti espositivi e di curatela in Olanda (Rijksmuseum van Oudheden, Leiden; Kunsthal, Rotterdam; Teylers Museum, Haarlem), Giappone (per i musei di Okinawa, Fukushima, Takasaki, Okayama), Finlandia (Vapriikki Museum, Tampere), Spagna (La Caixa Foundation) e Scozia (National Museum of Scotland, Edimburgh).

La tomba di Tutankhamon: cento anni dalla scoperta che cambiò l'archeologia. Il 4 novembre 1922 l’archeologo Howard Carter svelò la prima tomba egizia intatta nella Valle dei Re. Paolo Lazzari il 5 Novembre 2022 su Il Giornale.

La luce filtra debole da una fessura appena accennata. Le pupille si dilatano, in attesa di un miracolo che pareva inafferrabile. Lord Carnarvon si è letteralmente svenato per condurre mesi di ricerche, ma anche i mecenati devono incidere un punto in fondo alla frase quando le finanze si dissolvono senza essere accompagnate dai risultati. Però adesso Howard Carter è lì, fermo sulle ginocchia, lo sguardo proteso verso la tiepida lama brillante che gli si apre davanti. “Vedi qualcosa? Vedi qualcosa?”, lo incalza il nobile. Carter solleva la mano destra, come a zittirlo un istante soltanto. Sì, vede decisamente qualcosa.

Il ritrovamento della tomba

Il giorno è il 4 novembre del 1922 e quella scoperta sta per cambiare le sorti dell’archeologia moderna. Howard ne è esponente tenace, ma sta per gettare la spugna dopo mesi di scavi infruttuosi nella Valle dei Re, la striscia di sabbia e pietra che delimita l’odierna Luxur. Fino a quel momento sono stati ritrovati altri antichi luoghi di sepoltura, ma nessuna tomba dei faraoni si è mai rivelata intatta. Stavolta è diverso. Sfibrato dalla vaporosità della sue ricerche, Carter - che pure non è uomo arrendevole - medita di cedere. Carnarvon in fondo gli sta alle costole e ha già minacciato di chiudere i rubinetti. Quando ogni speranza sembra sul punto di svanire, quasi ci inciampa dentro, a quello che cercava. Una serie di gradini proprio davanti alla tomba di Ramses VI. Comincia a discenderli e avverte il connazionale britannico: “Vieni, forse ho trovato qualcosa”.

Un tesoro inestimabile

Il fondo di quella breve scalinata è un pugno nodoso alla bocca dello stomaco. Una stanza vuota. Carter, inizialmente avvilito, non lascia prevalere lo sconforto. Sa che tutto quello che sta vedendo risponde a un senso più ampio. Che deve pur esserci un’altra porta. E infatti c’è: reca in alto una serie di geroglifici. Sono quelli del faraone Tutankhamon.

Ovunque, da quella fessura, Carter intravede il promettente scintillio dell’oro. La gigantesca porta di pietra viene aperta con meticolosa accuratezza. Ci vorranno anni, addirittura, per mettere completamente in sicurezza la tomba e catalogare tutto. Carnarvon scalpita, ma non si può fare altrimenti. Giungeranno alla camera funeraria soltanto nel 1923, mentre per il sarcofago del giovane faraone bisognerà attendere il 1925, quando il facoltoso inglese se ne sarà già andato.

Dall’altra parte, comunque, si staglia un tesoro inestimabile: almeno cinquemila oggetti preziosi di diverso genere, tra statue che raffigurano persone, divinità e animali, catafalchi, letti, cofani, armi, gioielli e arnesi vari. Il sepolcro del faraone pare una matrioska: quando hanno finito di scoperchiarlo, Carter e la sua equipe si imbattono in una maschera dorata, tappezzata di lapislazzuli. Probabilmente il reperto egiziano più celebre di sempre.

Una decorazione "extraterrestre"

Quello più inatteso è invece collocato sul luccicante pettorale del Re bambino: un’esplosione di pietra preziosa che assume la forma di uno scarabeo e che, ad un più attento esame, si rivela un ricchissimo grumo di pasta di silicio proveniente dal deserto libico. Non un materiale qualsiasi: accertamenti successivi hanno rivelato come quella decorazione fosse il risultato del frammento di una cometa di ghiaccio esplosa sopra i cieli di Luxur 3.300 anni fa. Il "ferro venuto dal cielo", come lo chiamavano gli egizi.

Un funerale inatteso

Per quanto magnificamente intatta, la camera funeraria pare un raffazzonato profluvio di oggetti premuti dentro con inopportuna fretta. La spiegazione è da ricercarsi nella tenera età di Tutankhamon al momento della sua dipartita: a quanto pare nessuno poteva aspettarsi un epilogo così funesto e sulla tomba si sono fatte spazio due ipotesi. Da un lato c’è chi ritiene che sia stata creata in pochissimi giorni. Dall’altro chi sostiene che fosse stata pensata per un altro parente e riconvertita a fronte dello sciagurato evento. Il risultato resta comunque il medesimo: quello del faraone più celebre è un luogo di sepoltura tutt’altro che finemente meditato.

Alla ricerca di Nefertiti

La clamorosa scoperta rivitalizzò la carriera di Carter e aprì scenari inediti. Se lì c’era la tomba di Tutankhamon, si ipotizzò, certo poteva non essere peregrina l’ipotesi che nelle vicinanze, nascosta chissà dove, si trovasse anche quella di sua madre, la regina Nefertiti. Suggestioni che non troveranno conferma: i radar geotermici scandaglieranno senza successo la struttura negli anni successivi, senza cavare risposte. A distanza di un secolo, il ritrovamento della tomba di Tutankhamon rimane dunque saldamente al suo posto, come una delle scoperte più sensazionali nella storia dell’archeologia moderna.

Cent'anni di Faraone. Matteo Sacchi il 24 Luglio 2022 su Il Giornale. 

Il volto d'oro di Tutankhamon che regna sul presente più che sull'antico Egitto

Nel 1922, cento anni fa, spostando una enorme massa di detriti, veniva scoperta una scala di sedici gradini. Stretta e ripida, rinvenuta dalle manovalanze egiziane che lavoravano per gli scavi finanziati da Lord Carnarvon e diretti da Howard Carter, portava verso quella che è diventata la scoperta più nota di tutta l'egittologia: la tomba di Tutankhamon. Il giovane faraone, dal brevissimo e anodino regno (dal 1333 al 1323 a.C.), diventò in brevissimo tempo il volto di un'intera civiltà. Il suo volto triste ma serafico, così come è impresso nella sua maschera funeraria d'oro, è diventato un'icona riprodotta milioni e milioni di volte. Dalle rocce della Valle dei re sono emersi oggetti, reliquie sopravvissute al tempo, che hanno cambiato l'immaginario collettivo. Come preservato in una capsula del tempo, il re bambino - arrivato sul trono dopo una rivoluzione religiosa fallita, quella di Akhenaton, e una controrivoluzione di cui gli storici faticano ancora a ricostruire esattamente gli eventi - ha avuto nel XX secolo il suo vero regno. Da morto, questo giovane monarca che fu costretto a cambiare nome, che quasi certamente zoppicava gravemente ed era affetto da malaria, è diventato infinitamente più importante che da vivo. Sulla tomba, sui suoi scopritori si è creato un mito ben riassunto dalla frase attribuita a Howard Carter sin dal suo primo solitario sguardo, alla luce di una torcia, attraverso un buco praticato nella porta murata dell'anticamera del sepolcro: «Vedo cose meravigliose».

Proprio così si intitola il libro della storica dell'arte Christina Riggs pubblicato nel nostro Paese per i tipi di Bollati Boringhieri. Vedo cose meravigliose (pagg. 490, euro 28) non è il solito libro di egittologia o di storia dell'archeologia. Come spiega bene il sottotitolo, la Riggs guarda al passato per delineare il nostro presente, ovvero «come la tomba di Tutankhamon ha plasmato cento anni di storia». La studiosa dell'Università di Durham partendo anche dal suo personale e fanciullesco incontro con il mito di «Re Tut» - avvenuto grazie ad uno scalcinato proiettore alle elementari - ricostruisce la vicenda complicata della creazione di una narrazione collettiva in cui si sono intrecciati: scienza, marketing, crisi politiche, gelosie personali, questioni razziali, colonialismo, post colonialismo, orgoglio afro e saccheggio di bassa lega.

La tomba di Tutankhamon è diventata presto un palcoscenico per far andare in scena il presente, se si vuole uno specchio in cui riflettere quello che il presente voleva vedere di se stesso e del passato.

Partiamo dall'inizio sulle tracce seguite, con piglio da archeologa, dalla Riggs. Quella che venne presentata da subito come una grandissima scoperta scientifica (lo era) nacque subito anche sotto la buona stella dell'intrapresa commerciale. Lord Carnarvon aveva finanziato svariati scavi di Carter che aveva una formazione sviluppata sul campo ma non propriamente accademica. La scoperta della tomba quasi integra, antichi tombaroli avevano predato, molto parzialmente, solo le stanze esterne, arrivò quando le casse della campagna erano ormai agli sgoccioli. Divenne subito fondamentale far rendere la cosa più vendibile di quell'impresa: le fotografie realizzate da Harry Burton. Carnarvon firmò un contratto di esclusiva con il Times di Londra. Per dare a Carnarvon un anticipo di 5mila sterline e il 75% dei profitti delle vendite future, il principale quotidiano britannico avrebbe venduto i diritti delle immagini e della storia in tutto il mondo. La chiave di questi scatti era la sensazione di «inviolato» che trasmettevano. Contribuirono moltissimo a far partire la «Tutmania». Negli anni Venti, in cui si aveva il disperato bisogno di andare oltre la Prima guerra mondiale, il re emerso dalle sabbie divenne una perfetta arma di distrazione di massa. Si fece ricorso al suo nome persino per vendere le limonate, una casa produttrice di biscotti inglesi fece scatole da collezione ispirate alla tomba. Iniziarono a svilupparsi attorno agli scavi che avrebbero dovuto essere essenzialmente scientifici diverse tensioni. Ci fu chi, ad esempio il Daily Express, definì quella messa in piedi da Carter una «Tutankhamon s.p.a.», nel frattempo Lord Carnarvon era morto dando vita ad uno dei tanti spin off pop della scoperta: la maledizione.

Non bastasse, su questa situazione già complessa si andarono ad infilare anche tensioni post coloniali. L'Egitto dal 1922 si stava muovendo verso una sua indipendenza, anche se limitata, dall'Inghilterra. La tomba nei cui scavi la manovalanza locale aveva avuto un ruolo di primo piano, mai riconosciuto dagli occidentali, venne subito percepita come un simbolo del rinnovamento del Paese. Tanto più che la scoperta fece da booster al turismo lungo il Nilo e nella Valle dei re. Giusto per dire, il grande poeta egiziano Ahmed Shawqi arrivò a comporre un'ode al ritrovamento: «Salutate i resti della gloria del nostro Tutankhamon/ è una tomba che, per la sua bellezza, ha quasi fatto brillare le pietre e profumare l'argilla». Ovvio che in questo clima la gestione molto personalistica degli scavi fatta da Carter portasse allo scontro diretto col Servizio delle Antichità egiziane che pretese quantomeno la presenza di un ispettore. Finì con uno scontro diretto che portò nel 1924 allo stop dei lavori. La questione si ricompose ma continuò, come dimostra il libro della Riggs, a muoversi per decenni sotto traccia. E non parliamo di beghe archeologiche ma di legame con una civiltà. Gli egiziani hanno sentito Tutankhamon come un loro grande patrimonio e le mostre all'estero organizzate dopo gli anni '60, giusto per fare un esempio, si sono rivelate un perfetto passaporto diplomatico per tessere nuovi rapporti o favorire la raccolta fondi per spostare i templi minacciati dalla costruzione della diga di Assuan. Ma la tendenza occidentale, iniziata male con certi oggetti provenienti dalla tomba che Carter si portò a casa, a considerare «Tut» come solo incidentalmente di competenza egiziana è proseguita a lungo.

Sino a indispettire gli afroamericani. Perché? Perché nelle mostre negli Usa di oggetti provenienti dalla tomba loro vedevano la prova provata del grande peso e antichità della cultura africana. E invece questo tema secondo loro finiva sotto il tappeto perché vendeva poco. Ma i modi in cui l'antico monarca è stato tirato per la barbetta cerimoniale (che a un certo punto si è davvero staccata dalla maschera funebre) sono tantissimi e proseguono sino al presente. Riggs li elenca in dettaglio. Riportare alla vita qualcosa di sepolto significa riportarlo nel flusso del mutamento e anche del merchandising: è mutamento che paga bollette e teche corazzate. L'importante è saperlo, guardare i fatti con occhio fermo e sincero, come quello della maschera del faraone bambino. Che voleva guardare l'eternità e deve guardare noi che la guardiamo.

Tutankhamon come Forrest Gump, i segreti del Faraone ragazzino. Angiola Codacci-Pisanelli su L'Espresso il 24 Ottobre 2022. 

L’età del ferro, la fine delle piramidi, le radici dell’orgoglio black. A cento anni dalla scoperta della tomba, in un saggio le coincidenze che fanno di lui un personaggio simile a quello reso celebre dal film di Robert Zemeckis

Fanno cent’anni a novembre: è l’anniversario della scoperta della tomba di Tutankhamon, uno degli eventi più importanti nella storia della cultura del Novecento. Nel 1922, per la prima volta, gli archeologi hanno trovato la sepoltura di un Faraone che era sfuggita ai tombaroli dei millenni precedenti. Era la prima occasione di vedere un corredo sepolcrale intatto, di osservare quella raccolta unica di oggetti quotidiani e di opere d’arte, di provviste alimentari e di gioielli preziosissimi. E di esaminare le tracce dei riti dell’inumazione del Faraone: anche la ghirlanda di fiordalisi e foglie di olivo che forse era stata posata dalla giovane vedova sul sarcofago del marito, quei petali inariditi da millenni di calore ma conservati intatti dall’aria secca che commossero profondamente Howard Carter, l’archeologo inglese che firmò la scoperta. Tutto questo non è in nessun modo merito del “proprietario” della tomba: poteva essere uno qualunque dei Faraoni che si sono succeduti nei circa 3mila anni di storia dell’Antico Egitto. Anzi: tutti abbiamo sentito sminuire Tutankhamon. Tutti abbiamo sentito dire di lui che in fondo era un Faraone di serie B, che regnò per una decina d’anni, che compare in pochissimi monumenti antichi. E che insomma non avrebbe lasciato alcuna traccia nella Storia se non avesse avuto la fortuna di essere l’unico regnante dell’Antico Egitto la cui tomba è stata ritrovata intatta. Un “Faraone ragazzino”, lo potremmo definire: e speriamo che il lettore colga il richiamo affettuoso a Rosario Livatino, ucciso dalla mafia nel 1990, irriso da vivo come «giudice ragazzino» e beatificato da Papa Francesco nel 2021 come modello di un eroismo che non fa rumore. 

Anche il corredo funebre di Tutankhamon non doveva essere granché, rispetto a quelli dei Faraoni “importanti”. Il tesoro del Faraone ragazzino ci abbaglia, ma forse è soltanto perché è l’unico che ci è arrivato intatto, e anche il solo che è conservato tutto insieme: un destino privilegiato rispetto a quello degli altri Faraoni, le cui poche reliquie sono sparse tra Europa e Stati Uniti. Per decenni il tesoro di Tutankhamon è stato ammassato nelle vetrine di poche stanze – le più affollate – del vecchio, polveroso, affascinante Museo Egizio del Cairo che si affaccia su piazza Tahrir: proprio lei, la “Piazza della Libertà” che ha ispirato le manifestazioni della Primavera araba, la piazza del terrore dove era diretto Giulio Regeni, quando fu rapito per essere torturato e ucciso, il 25 gennaio del 2016, quinto anniversario dell’inizio della rivoluzione. Ora quelle sale sono vuote. Il corredo funebre del Faraone ragazzino è destinato a diventare il cuore dello scenografico Grand Egyptian Museum di Giza, annunciato da una spettacolare parata di mummie nell’aprile del 2021. Nel video di presentazione del futuro museo, la parte del leone la fanno i restauratori al lavoro sui reperti provenienti dalla tomba: carri e letti e tabernacoli di legno sapientemente ricoperto di lamine d’oro scintillante.

Abbiamo tante cose di Tutankhamon, e sappiamo così poco di lui. Le certezze riguardo alla sua biografia sono pochissime: quando salì al trono aveva al massimo 10 anni; morì che ne aveva compiuti a stento 18, nel 1323 a.C., e durante il suo breve Regno fu affidato a un collegio di saggi guidato dal generale (e futuro Faraone) Horemheb.

Si sposò presto con la sua sorellastra Ankhesenamon, di quattro o cinque anni più grande di lui; non lasciò eredi e morì per le conseguenze di una caduta, probabilmente un incidente di caccia, aggravate dalla malaria e da un difetto della circolazione del sangue. Tutto questo spiega l’empatia collettiva senza paragoni che circonda questo ragazzo che nella tomba portò con sé una ciocca di capelli di sua nonna, una quantità di immagini che testimoniano l’amore per sua moglie e le mummie in miniatura delle loro due figlie morte in fasce.

Dettagli come questi ce lo fanno sentire molto più vicino delle imprese grandiose che segnano i sessantasei anni del Regno record di Ramses II, o quelle degli altri Faraoni che hanno fatto la Storia: Menes, che unificò l’Alto e il Basso Egitto in un unico potentissimo Paese, Cheope con la sua piramide o la volitiva Hatshepsut, prima donna che riuscì a essere riconosciuta Faraone a tutti gli effetti.

Vero, certo. Ma Tutankhamon non è tutto qui. A guardare bene i millenni che ci separano dalla sua breve vita e i cento anni trascorsi dall’apertura della sua tomba, si scopre una specie di Forrest Gump. Come il personaggio inventato da Winston Groom e reso celebre dal film di Robert Zemeckis, che incontra Elvis Presley e John Kennedy e influenza la pace nel mondo e il movimento per i diritti civili, il Faraone ragazzino ha avuto la fortuna di trovarsi a “vivere” una quantità di avvenimenti importanti. Lo possiamo immaginare, seduto come Forrest Gump sulla sua panchina, a una quantità di bivi del cammino dell’Umanità, dove la Storia ha scelto una strada invece che un’altra e il destino degli uomini è cambiato.

Sono eventi epocali come la prima affermazione del monoteismo e l’inizio dell’età del ferro, momenti fondamentali per la società come l’imporsi di un certo canone di bellezza femminile o la riscoperta delle radici africane della cultura occidentale, o semplici colpi di fortuna: il più grande, sicuramente, è quello di aver schivato non solo i tombaroli dell’antichità, ma anche gli Indiana Jones dell’Ottocento e i trafficanti di reperti ancora attivissimi nel nostro XXI secolo. Come Forrest Gump, o come il vecchio Qfwfq, il misterioso testimone oculare della nascita dell’universo che conduce il lettore attraverso “Le Cosmicomiche” di Italo Calvino, quando succedeva ognuno di questi eventi Tutankhamon, in qualche modo, “era lì”.

Senza contare che con Forrest Gump il Faraone ragazzino condivide anche un’altra caratteristica: aveva un handicap. Se l’interpretazione di Tom Hanks nel film di Zemeckis è considerata la prima, toccante rappresentazione di un personaggio con sindrome di Asperger, pochi sanno che Tutankhamon era zoppo. Tra i 5.398 oggetti del corredo funebre, Carter si trovò davanti centotrenta bastoni: di canna o di legno, tagliati grossolanamente o decorati con cura, rovinati dall’uso o tenuti solo per bellezza, come un gioiello in più da sfoggiare durante le cerimonie.

Perché Tutankhamon poteva anche essere l’uomo più potente dell’Antico Egitto, ma era pur sempre un ragazzo con un piede storto, che non era in grado di camminare senza aiuto. I ritratti lo mostrano a volte appoggiato alla moglie, a volte a qualche dignitario. Un bassorilievo ritrovato nei pressi della Sfinge, dove andava per dedicarsi alla caccia, il suo hobby preferito, ce lo mostra sul carro con arco e frecce, ma seduto. In compagnia di Tutankhamon appoggiato al suo bastone, ripercorreremo rapidamente i momenti della Storia legati in qualche modo al suo nome. Sarà un viaggio nel tempo, nella religione, nella cultura, nell’estetica e nella politica non solo dell’Antico Egitto ma anche dei secoli seguenti. Un viaggio che può insegnarci molte cose imprevedibili sul mondo di oggi.

·        La Pittura.

Da lastampa.it il 21 agosto 2022.

Disegnare sei ritratti di celebrità, in modo realistico, a memoria in contemporanea, usando mani e piedi. Ha dell’incredibile la performance artistica di Rajacenna Van Dam che ha filmato il suo progetto di quattro ritratti nel suo studio d'arte a Rotterdam, nei Paesi Bassi. Ha scelto quattro personaggi, Angelina Jolie, Harry Potter, Shakira, Wonder Woman e Billie Eilish disegnando i quattro con le mani e al contrario e contemporaneamente ha realizzato altri due disegni con i ritratti di due dei quattro personaggi disegnando con i piedi. 

La passione dell'artista, che è anche presentatrice tv e cantante, per il disegno è iniziata quando aveva 16 anni e presto ha iniziato a condividere le sue fantastiche creazioni sui social media, attirando l’attenzione internazionale.

Dopo 400 anni due quadri diventano uno solo: mistero risolto da una copia di antiquari-detective. Delitti, indizi e un incidente probatorio ai raggi X. La tela del seicentesco Antiveduto Gramatica divisa, all'epoca, per fare un affare. Marina Paglieri su La Repubblica il 4 giugno 2022.

Il "Suonatore di Tiorba" di Antiveduto Gramatica, capolavoro seicentesco della Galleria Sabauda, potrebbe incontrare di nuovo la fanciulla e il giovane dediti alla spinetta e al flauto nella metà del dipinto di cui si erano perse le tracce. E' l'ipotesi suggestiva, ma fondata, che emerge dalla scoperta dei giovani antiquari torinesi Massimiliano Caretto e Francesco Occhinegro della parte mancante.

"Così i Cro-Magnon dipinsero per millenni le cattedrali di roccia". Matteo Sacchi il 3 Giugno 2022 su Il Giornale.

La celebre guida della grotta di Lascaux ci racconta i segreti degli artisti preistorici. Gwen Rigal, autore di "Il tempo sacro delle caverne", ripercorre la vicenda millenaria dell'uomo.  

Gwenn Rigal per molti anni è stato guida e interprete nella celeberrima grotta di Lascaux. Poche persone sono esperte quanto lui di pitture rupestri preistoriche. Ora è arrivata per i tipi di Adelphi la traduzione del suo Il tempo sacro delle caverne (pagg.300, euro 32). Un mirabolante viaggio nei millenni per scoprire i segreti degli artisti preistorici. Gli abbiamo chiesto di raccontare a Il Giornale questa iconografia misteriosa, e sviluppata per migliaia di anni.

La storia delle pitture rupestri preistoriche è molto lunga. È possibile tracciare una linea evolutiva? O linee evolutive più distinte?

«Ci sono milioni di opere rupestri preistoriche nel mondo. Se limitiamo il nostro studio all'arte parietale del Paleolitico superiore europeo, tra circa 41000 a.C. e 11000 a.C., è difficile osservare una chiara evoluzione. Ciò che colpisce soprattutto sono le invarianti: animali di profilo e simboli, uso frequente di rilievi naturali, nessun elemento contestuale, né oggetti né paesaggi. Prima della scoperta della grotta Chauvet in Ardèche, gli specialisti vi avrebbero parlato di inizi segnati da un'arte del contorno, dotata di pochi dettagli interni. I segni erano piuttosto essenziali e le estremità (corna, zoccoli) spesso rappresentate frontalmente. Qualche migliaio di anni dopo, i segni e i dettagli interni si moltiplicano, le estremità passano ad essere rappresentate di tre quarti. Una tendenza che si conferma man mano che ci avviciniamo alla fine della glaciazione, che segna anche la fine di quest'arte: le grotte più recenti mostrano spesso animali più naturalistici e le maggiori concentrazioni di segni. Ma la scoperta della grotta Chauvet nel 1994, con date che la collocano all'inizio dell'arte rupestre, intorno al 36000 a.C., ha messo in discussione questa visione evolutiva. Con Chauvet, ci rendiamo conto che il naturalismo, la prospettiva e gli effetti di sfocatura sono padroneggiati fin dall'inizio. Gli artisti preistorici non hanno perfezionato la loro arte nel tempo, hanno semplicemente fatto scelte culturali. Che alla fine rimase sorprendentemente stabile se consideriamo i 30mila anni che durò questa (pre)storia».

Cosa ci dicono questi dipinti su come interpretavano il mondo i nostri antenati Cro-Magnon?

«Ciò che colpisce è, soprattutto, la rarità della rappresentazione umana. Abbiamo molte parti del corpo umano, mani in negativo e vulve, in particolare. Ma i corpi interi sono rari. E quando sono rappresentati, sono le mani, i piedi e i volti che non lo sono. Le rappresentazioni femminili sono più numerose di quelle maschili, con caratteristiche sessuali spesso esagerate. Sono le famose veneri preistoriche. Quando sono gli uomini a essere rappresentati, a volte sono animalizzati e con il sesso in erezione. Tutto ciò suggerisce una visione del mondo in cui i confini tra natura e cultura, o tra umanità e animalità, non sono così netti come nelle nostre società attuali. L'uomo preistorico probabilmente non si vede padrone e possessore della natura, tenderebbe piuttosto a fondersi in essa. Inoltre, non mostrano mai nessuno, in particolare, nessun essere umano è chiaramente identificabile, il che potrebbe corrispondere a una società in cui l'individuo è invitato a ridimensionarsi a beneficio del gruppo. Non implica però necessariamente che fossero delle società egualitarie, alcune sepolture riccamente dotate che ci invitano a essere cauti su questo argomento. Infine, vulve e veneri ci mettono sulle tracce di artisti motivati da preoccupazioni per la fertilità. È una richiesta di rinnovamento della preda, questioni legate alla sopravvivenza del clan o anche miti che raccontano l'origine del mondo? La questione resta aperta».

Noi oggi abbiamo un'idea precisa dell'arte come ricerca della bellezza. Questi dipinti possono essere considerati arte? O sono, in un certo senso, strumenti magici principalmente religiosi?

«Attenzione all'etnocentrismo. L'arte non è un concetto universale. Tra i cacciatori-raccoglitori, l'arte è quasi sempre utilitaristica e spesso soprannaturale. Se ai nostri occhi queste persone sono artisti, non sono affatto sicuro che loro si considerassero tali. La magia è ovviamente una delle ipotesi più frequentemente avanzate per spiegare l'arte delle caverne: magia della caccia, magia della pacificazione, magia qualificante, magia della distruzione... Ma le prove mancheranno sempre».

Abbiamo un'evidente difficoltà culturale nell'interpretare certi miti o racconti nelle grotte. Qualcuno di essi potrebbe aver raggiunto, anche in forma mutata dai secoli i tempi storici?

«È illusorio sperare di decifrare un mito svanito a partire dai disegni sulle pareti di una grotta. E quasi altrettanto difficile immaginare che i miti preistorici possano esserci sopravvissuti, visti i molteplici episodi migratori che ci separano dai tempi glaciali e l'apparente fragilità delle nostre tradizioni orali. In modo del tutto controintuitivo, potrebbe tuttavia essere che certi miti della creazione, presenti in tutti i continenti, abbiano effettivamente un'antichità glaciale. I mitologi Jean-Loïc Le Quellec e Julien d'Huy hanno quindi lavorato molto sui miti dell'emersione, una versione molto antica dei quali doveva assomigliare a questa: All'inizio dei tempi, l'uomo e gli animali non erano ancora completamente separati l'uno dall'altro e vivevano nel sottosuolo. Fino al giorno in cui decisero di risalire in superficie seguendo le fratture della roccia. Quando emersero (attraverso buchi nel terreno o ingressi di caverne) apparve la morte. E poiché all'inizio dei tempi la roccia era ancora morbida, il loro passaggio da un mondo all'altro ha lasciato tracce sulla pietra. Una storia di questo tipo è abbastanza compatibile con molta arte rupestre europea».

Le pitture rupestri e le incisioni sono state conservate, ma è possibile che ci fossero molte altre forme di creatività di cui abbiamo perso le tracce?

«Certo. A causa della conservazione differenziale, che vuole che le vestigia diventino rare man mano che si sale nel tempo, si ha oggi l'impressione che Cro-Magnon dipingesse o incidesse solo sul fondo delle grotte. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Sappiamo oggi che gli uomini di Cro-Magnon non hanno esitato a marcare il loro ambiente. Ad esempio, il rifugio roccioso Cro-Magnon in Dordogna (sotto il quale fu ritrovato il primo scheletro con lo stesso nome) era scarlatto 27mila anni fa. Deve essersi visto da lontano! Ma abbiamo dovuto usare un microscopio e un software di elaborazione delle immagini per capirlo. La maggior parte di ciò che veniva prodotto all'aperto o su materiali deperibili è ormai scomparso. E non sto solo pensando alla loro arte; la loro lavorazione del legno e delle fibre vegetali era senza dubbio molto più sviluppata di quanto comunemente si immagini. Quanto ai pochi strumenti musicali rinvenuti (flauti, rombi, raschietti, litofoni, ecc.), se confermano l'esistenza della musica preistorica, ci lasciano solo immaginare».

Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 16 gennaio 2021.  

Chiunque può dipingere o scrivere un libro, non c'è al mondo un albo ufficiale che distingua pittori e romanzieri professionisti dai dilettanti. Se poi nella vita ti dedichi a "cose" di cultura, ben presto verrai raggiunto da richieste tipo "quando vieni a vedere i quadri di mia cognata?" oppure "mio cugino ha raccolto la storia della sua famiglia, davvero commovente". Ognuno usa il proprio tempo libero come meglio crede. Decenni fa politici quali Amintore Fanfani e Ottaviano Del Turco si dedicarono alla pittura e nel caso del sei volte presidente del consiglio anche con una certa ricercatezza. Ai vip, infatti, piace moltissimo dilettarsi con colori, tele e pennelli, quasi che l'arte offra loro una sorta di "upgrade" che mestieri più popolari non consentono. 

Ricchi annoiati a cui tutto è concesso manco fossimo in un film di Luca Guadagnino? Ogni caso fa storia a sé e non bisogna avere troppi pregiudizi. Cognomi altisonanti, genitori ricchi e famosi possono aiutare e al contempo destare qualche perplessità. Si sta parlando proprio in questi giorni del giovane pittore Rhed, 21 anni senza particolare curriculum: quadri abbastanza stucchevoli e dallo stile espressionista tipico di chi non sa dipingere costano già oltre 30 mila sterline. Nell'high society se ne parla perché è il figlio di Madonna (ottima collezionista) e di Guy Ritchie. Durerà? Improbabile.

MOSTRE Chi la passione per la pittura l'ha sempre avuta, anche prima del successo come attore, è Sylvester Stallone che per i suoi 75 anni ha ricevuto in regalo due mostre in altrettanti musei a San Pietroburgo e Nizza. I suoi quadri, decisamente carichi, sono un incrocio tra l'astrazione alla Pollock e la figurazione anni '80, stroncati dalla critica e dai colleghi, in diretta tv l'artista pop Mark Kostabi li definì un'autentica schifezza e Rocky non la prese affatto bene. 

L'esatto contrario è Bob Dylan di cui parlar male è impossibile perché il menestrello di Duluth qualsiasi cosa tocchi la trasforma in oro. Ha cambiato la storia della musica, ha vinto il Nobel per la letteratura, nel mondo dell'arte visiva è talmente accreditato da essere stato esposto persino da Gagosian, una delle gallerie più importanti al mondo, e in pianta stabile dalla Halcyon Gallery di Londra.

Rispetto agli altri i suoi quadri convincono perché sinceri, autentici, immagini del paesaggio americano, dei suoi stereotipi, di impatto e atmosfera. Senza scomodare il compianto Don Van Vliet, già Captain Beefheart nel giro di Frank Zappa, diversi rocchettari hanno deciso che la pittura sarebbe stata qualcosa di più di un hobby domenicale. Paul Stanley, la "star" dei Kiss, dipinge prevalentemente ritratti di icone della musica e dello spettacolo - Jimi Hendrix, Robert Johnson, Marilyn Monroe - con stile casereccio e naif. Paul Simonon, ex bassista dei Clash, è invece appassionato del mondo biker, dei giubbotti di pelle nera e delle vecchie Triumph, mentre Ron Wood ha immortalato gli altri Rolling Stones imitando, nientemeno, lo stile di Picasso.

E in Italia? Da noi questa particolare "isola dei famosi" è popolata soprattutto da presenze femminili. Pare che la passione per la pittura abbia raggiunto Romina Power fin da ragazzina e che l'abbia aiutata nei momenti più difficili. Come giudicare i suoi quadri? Volenterosi esempi di paesaggismo senza tempo con venature esotico-hippie, stucchevoli ma meno imbarazzanti dei ritrattoni di Amanda Lear che (purtroppo) venne avvicinata all'arte dal suo mentore Salvador Dalì. Convinta di sfruttare la luce riflessa del Maestro e ormai scomparsa dal mondo della canzone, il mito dell'ambiguità sessuale anni '80 ha continuato imperterrita a dipingere senza che nessuno abbia avuto il buon senso di dirle di lasciar perdere. 

Nel kitsch ci naviga da tempo Gina Lollobrigida e le sue sculture tardissimo-barocche. Marisa Laurito invece racconta universi da commedia dell'arte e maschere napoletane che a tratti sembrano la parodia della pittura figurativa di Fiume, Migneco, Brindisi, artisti molto amati nel dopoguerra e oggi dimenticati.

Tra i vip canori italici se la cava senz' altro meglio Tricarico, il cantautore milanese di Vita tranquilla, ma attenzione i suoi grovigli di segni, colori e immagini celano scene erotico-porno che lasciano ben poco all'immaginazione. In questa carrellata di dilettanti di lusso, non va certo dimenticato il principe Carlo d'Inghilterra, acquarellista di valore, dall'impianto tradizionale e raffinato. Una passione trasformatasi in discreta fonte di reddito, ma non avendo particolari necessità economiche talora devolve in beneficenza le somme guadagnate. A giudicare dalla placida dolcezza dei paesaggi sembra proprio che Carlo usi la pittura come antistress dalla vita familiare, complicata per tutti pure per un reale.

·        Il Restauro.

Pierluigi Panza per il “Corriere della Sera” il 9 marzo 2022.  

In occasione del 545° compleanno di Michelangelo Buonarroti, l'Accademia delle Arti del Disegno di Firenze ha presentato il nuovo allestimento della Sala del dio fiume dello scultore nella sua stessa sede di Orsanmichele e i risultati dell'intervento di restauro alle Cappelle medicee in San Lorenzo, capolavoro dell'artista toscano. Il restauro, meglio, il biorestauro o biopulitura che ha tirato a lucido il gioiello realizzato da Michelangelo tra gli anni Venti e Trenta del Cinquecento su commissione dei papi Medici Leone X e Clemente VII, è avvenuto utilizzando dei batteri che mangiano lo sporco.

Le studiose della Enea Anna Rosa Sprocati e Chiara Alisi, in collaborazione con ricercatrici dell'Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr-Ispc) hanno sperimentato una tecnica di biopulitura che usa ceppi batterici per rimuovere, in sicurezza, le macchie dal marmo. La capacità metabolica dei batteri costituisce una nuova frontiera del restauro usato qui, per la prima volta, su Michelangelo. 

La squadra di restauro, che ha interessato sia la parte architettonica (resta da fare la zona dell'altare) che quella scultorea della Sagrestia nuova, dove sono le tombe di Giuliano de' Medici duca di Nemours e suo nipote Lorenzo de' Medici duca di Urbino, è stata tutta al femminile. È stata guidata da Monica Bietti (con Daniela Manna, Marina Vincenti e con Eleonora Gioventù), che ricorda come dal 2013, «grazie alla collaborazione del Soprintendente Cristina Acidini, sia stato avviato uno studio per capire come rimuovere le tracce senza aggredire la materia».

L'intervento è partito dall'analisi delle singole parti dei monumenti tramite spettrografia, quindi sono stati eseguiti test esplorativi sullo sporco per individuare i ceppi di batteri più adatti per la pulizia, infine sono stati sviluppati in laboratorio i batteri poi applicati - con un supportante gel - al monumento. «Il sarcofago era alterato da macchie scure con presenza di proteine, fosfati, gesso, tracce di silicati e di ossalato di calcio riconducibili alla trasformazione dei liquidi organici derivati dalla sepoltura frettolosa e senza eviscerazione di Alessandro de' Medici avvenuta nel 1537», ricordano Sprocati e Alisi.

«Dopo aver testato undici diversi ceppi batterici, abbiamo scelto i tre migliori per la biopulitura: impacchi di cellule dei ceppi Serratia ficaria, Pseudomonas stutzeri e Rhodococcus sono stati applicati con supportanti inerti, che mantengono la giusta umidità e permettono di applicare e rimuovere l'impacco facilmente e senza lasciare residui». I tre batteri utilizzati sono stati scelti per il loro «appetito» verso i residui organici di olii, fosfati, colle e carbonati. 

La Serratia ficaria, per capirsi, è il batterio che causa infezioni urinarie o generate da trasfusioni e infusioni endovenose contaminate. Tempo un paio di notti, con una applicazione in stile «maschera viso», lo sporco se ne è andato. «I batteri utilizzati sono di origine ambientale, spontanei, innocui e scelti tra un'ampia collezione per metabolizzare selettivamente i depositi coerenti identificati in precedenza dalle indagini chimiche, senza spingere oltre la loro azione», concludono le due studiose. 

Michelangelo lavorò fino alla morte, avvenuta a Roma nel 1564, e si deve ritenere che ebbe un buon rapporto con i batteri: soffrì di gotta e di osteoartrite ma, nelle lettere, non parla di infezioni urinarie o simili.

·        Il Collezionismo.

Collezionisti d'Italia. Piera Anna Franini il 5 Aprile 2022 su Il Giornale.

Dimmi che opera d'arte hai e ti dirò chi sei. Avere un Fontana o un Botero in casa è privilegio per poche tasche, identifica con un battito di ciglia lo status economico di chi li possiede.

Dimmi che opera d'arte hai e ti dirò chi sei. Avere un Fontana o un Botero in casa è privilegio per poche tasche, identifica con un battito di ciglia lo status economico di chi li possiede. Prima di tutto, però, l'opera d'arte, l'oggetto di design, l'orologio o il gioiello carichi di storia comunicano gusti, valori, modi di essere e di vivere suggellando l'appartenenza a un'élite culturale. Senza dimenticare la vanità, visto che l'ambizione di tanti collezionisti è comparire tra i top collector delle riviste di riferimento, da ARTnews ad ArtReview o Art+Auction.

Gli esperti del settore spiegano che in questo campo gli italiani sono discreti e riservati, non amano ostentare, e resta il fatto che - in ogni caso - pochissimi vantano collezioni faraoniche paragonabili a quelle di Abramovich (pre-sanzioni, ora si vedrà), Pinault o Bezos. I top collezionisti tricolori che figurano di solito nelle maggiori classifiche internazionali sono solo due, Miuccia Prada con il marito Patrizio Bertelli e Patrizia Sandretto Re Rebaudengo.

Collezionare Bellezza procura piacere estetico ed è anche un investimento che genera aspettative finanziarie, cosa - quest'ultima - che vale soprattutto per le ultime generazioni.

Ma a prescindere dalle motivazioni d'acquisto, i collezionisti fanno bene al sistema dell'arte. Sono loro il motore del mercato e il mercato irrora il sistema dell'arte. Non vi sono dati ufficiali su quanti siano in Italia, ma incrociando i dati di gallerie, fiere ed aste si deduce che siano intorno ai 7mila: questo suggerisce Guido Guerzoni, esperto di economia dell'arte, docente alla Bocconi. Qual è il valore delle loro collezioni? Intesa Sanpaolo Private Banking ha condotto una ricerca per ricavare profili, tendenze, gusti, collocazione geografica dei collezionisti di italiani. Lo ha fatto in collaborazione con Artissima, fiera d'arte contemporanea di Torino, attingendo a un database di 4.700 persone. Secondo quest'indagine, una bella fetta di collezioni ha un valore tra i cento mila e un milione di euro. I collezionisti più facoltosi - spiega Guerzoni - investono in questi beni l'8% del patrimonio, con un 4% destinato a gioielli, preziosi, oggettistica, e il restante all'arte. Stando alla Barclays Ledbury Research, i paperoni cinesi stanziano per le collezioni il 17% del patrimonio, i Sauditi il 17%, i Brasiliani il 15%, gli Inglesi il 7%, gli Americani il 9%, e più la percentuale si alza e più dominano gioielli e metalli preziosi.

Il budget annualmente destinato dagli Italiani agli acquisti non supera i 50.000 euro nel 67% dei casi e per l'85% rimane comunque inferiore ai 100mila. La grande maggioranza (88%) acquista in media ogni anno meno di dieci nuove opere. Quanto alle professioni, i collezionisti di casa nostra si muovono tra finanza, mondo legale e imprenditoria, oltre il 50% vive tra Lombardia (30,7%) e Piemonte (21,2%), quindi Lazio (9,1%), Emilia-Romagna (4,2%) e Veneto (3,5%). Le tre aree urbane più dinamiche sono Milano (23%), Torino (16%) e Roma (9%), ma c'è poi una diffusione capillare nelle ricche provincie.

Milano lascia tutti alle spalle per via della lunga tradizione. Lo conferma Nicola Ricciardi, direttore artistico di Miart, fiera milanese (chiusa ieri) rivolta all'arte del Novecento e contemporanea. «L'edizione precedente si è svolta nel settembre 2021 quando ancora era difficile viaggiare. E nonostante la situazione complessa, la fiera ha avuto successo perché il flusso di collezionisti arrivava dai nostri territori». Per il suo piglio internazionale, Milano conosce un fenomeno diffuso all'estero e meno da noi: l'associazionismo dei collezionisti - il caso esemplare di Acacia - che si riuniscono per sostenere l'arte e gli artisti, condividendo passioni, gioie ma anche i dolori del collezionismo tricolore. Che sono anzitutto fisco e burocrazia (vedi anche il box in queste pagine).

Dopo un secolo dominato dal collezionismo maschile, si registra, se non proprio un'inversione di tendenza, certo un cambio di marcia. L'ultimo ventennio ha visto l'ingresso in scena di un pubblico di acquirenti femminili che ora rappresentano il 30% dell'intero segmento. Va però detto che oltre confine i numeri aumentano più che da noi, visto che nell'ultimo anno la spesa delle collezioniste è cresciuta addirittura del 13%.

In Italia l'età del collezionista medio è di 55 anni, mentre oltralpe, per non parlare di oltreoceano e Oriente, l'età scende. Al punto che la classe anagrafica più impattante - pari al 52% del totale dei compratori - è quella degli under 40, di fronte a una generazione X (i nati tra il 1965 anni e il 1980) che non supera il 32%. «All'estero - commenta Guerzoni - c'è un sistema economico diverso, che consente di diventare benestanti già in gioventù, soprattutto se si orbita nel mondo dell'alta tecnologia». In pratica si accumula alla svelta un tesoretto che consente di coltivare subito i piaceri che dalle nostre parti si riservano a un'età più avanzata.

Un elemento è comune a qualsiasi latitudine: i giovani sono più attenti dei padri e dei nonni ai risvolti economici, non si accontentano del dividendo estetico. Secondo la ricerca UBS (Art Collectors Survey 2021), fra quanti hanno speso più di un milione di dollari nel campo del collezionismo, ovvero il 15% del totale, 6 su 10 erano millennial.

Le tipologie più ricorrenti dei collezionabili d'arte sono i dipinti (21%), fotografie (17%), sculture (16,3%) e i disegni o altre opere su carta (16%). Il numero medio delle opere in collezione è 118. Ad averne meno di 20 sono il 29% degli appassionati, tra le 20 e le 49 il 27%, tra le 50 e le 99 il 16% e oltre quota 100 va il 24% del totale.

L'epoca vincente è la contemporaneità, solo il 13% dei collezionisti raccoglie arte moderna. I Vecchi Maestri, poi, sono una rarità, del resto le opere di valore disponibili sul mercato sono ormai poche: sono già finite nei musei o in qualche casa privata. Sono anche cambiati i gusti, aggiunge Guerzoni: «le generazioni precedenti avevano una vera e propria attrazione per l'antico, oggi difficilmente un collezionista vuole mettersi in casa ritratti devozionali, martiri e nature morte con selvaggina e fagiani sgozzati, tra l'altro poco consoni a dimore che privilegiano leggerezza e trasparenze». Cresce l'attrazione per gli artisti emergenti, sono in aumento le gallerie di giovani che promuovono coetanei sotto i trent'anni, «artisti già con una loro storia. L'emergente - continua Ricciardi - è una scommessa, però col rischio c'è la consapevolezza che se ne sostiene il decollo. E i costi dell'investimento sono contenuti». Secondo l'ultima rilevazione di ArtTactic (presentata nel Contemporary Art Market Report di luglio 2021), la fiducia nel mercato dei contemporanei è ai massimi storici.

Per la fine art, si compra anzitutto nelle gallerie, quindi nelle fiere e solo in ultima istanza ci si rivolge alle aste. Che invece godono di grande fortuna all'estero. Come mai questa differenza? «Nel nostro Paese - dice Guerzoni - scarseggiano le aste di contemporanea, il segmento più richiesto. Se si vuol comprare bene, puntando a una qualità elevata, ci si rivolge a gallerie e fiere». Il gallerista, poi, è persona fidata, con gli anni si costruisce un legame solido, per l'Italiano è il Virgilio della situazione anche perché in pochi possono permettersi un advisor a tempo pieno.

Dove finisce il paradiso di quadri, sculture fotografie, oggettistica preziosa? Nella maggioranza dei casi (82%) le collezioni private non sono accessibili al pubblico. Chi espone lo fa in casa, oppure in azienda (14%), o negli stessi depositi (15%). Però è in crescita il fenomeno di mecenati e filantropi che aprono un proprio museo, sostengono progetti e premi. Si va dalla Fondazione Prada, a Furla, Trussardi, Pirelli, Carlon a Palazzo Maffei. Ma la lista di anno in anno si allunga.

·        La Moda.

Sofia Gnoli per “il Venerdì di Repubblica” il 7 dicembre 2022.

Regno delle gonne minime e dei capelli lunghissimi, Carnaby Street non è più solo il nome di una via di Londra, ma il simbolo di un modo di vivere che si può ormai esportare, per esempio a Roma, in una strada di antiche tradizioni come via Margutta», testimonia un cinegiornale nel 1967. A raccontare l'estetica romana di allora, ora ci sono un libro a cura di Guido Gambetta e Simona Segre Reinach e una mostra virtuale (dal 16 dicembre su www.bub.unibo.it): Rodrigo Pais - Sguardi sulla moda dagli anni Cinquanta. Entrambi sono stati realizzati con una selezione di scatti del fotografo romano Rodrigo Pais (1930-2007), il cui ricco archivio (quasi 380 mila fototipi) è oggi di proprietà dell'Università di Bologna.

Più fotoreporter che fotografo di moda, in cinquant' anni di attività - collaborando con Vie nuove, l'Unità e Paese Sera - Pais ha realizzato oltre 15 mila servizi, spaziando dal cinema alla politica, dallo sport al costume. Piuttosto che nella cornice specchiata degli atelier o nell'atmosfera ovattata dei camerini di prova, i suoi scatti si concentrano sulla strada anticipando per molti versi il lavoro di quei "fotografi flâneurs" che oggi, girovagando per le metropoli, catturano l'air de temps per blog come The Sartorialist o FaceHunter. 

Il suo obiettivo spazia tra il Piper Club, regno romano delle ragazze yéyé, e comizi comunisti, come quello tenuto il 19 maggio 1971 in piazza Esedra. Se lì ritrae una ragazza che stringe a sé la bandiera ponendo l'accento sulla sua essenza di giovane donna libera e militante attraverso una vertiginosa minigonna, il servizio che realizza in piazza San Pietro il 4 agosto dello stesso anno ha tutto un altro sapore.

Dopo vari scandali, tra cui quello, chiacchieratissimo, del 6 maggio 1967 in cui Claudia Cardinale si presentò in udienza da Papa Paolo VI con una minigonna che sfiorava il ginocchio, dal novembre 1970 l'ingresso nella basilica di San Pietro venne regolato da una precisa normativa. Un dress code rigidissimo vietava minigonne e scollature profonde, come si evince dagli scatti del fotografo a una suora che, metro alla mano, vigila sulla lunghezza delle gonne delle turiste in visita. Altri tempi.

Trent'anni di Convivio Gianni Versace, Valentino Garavani, Giorgio Armani, Gianfranco Ferrè. Mariella Baroli il 2 Novembre 2022 su panorama.

La manifestazione torna a Milano, alla Fabbrica del Vapore, dal 3 al 7 novembre  Trent'anni di Convivio

Convivio nasce nel 1992 da un incontro tra alcuni dei più grandi protagonisti della moda italiana: Gianni Versace, Giorgio Armani, Gianfranco Ferrè e Valentino Garavani. Una mostra mercato - la più grande in Italia - dove i proventi della vendita dei capi vengono interamente devoluti a sostegno della lotta contro il virus dell’HIV. Un progetto innovativo e fuori dagli schemi che oggi celebra il suo 30esimo anniversario e per l’occasione torna a Milano dal 3 al 7 novembre, alla Fabbrica del Vapore. Coinvolgendo in maniera attiva le grife e le maison più rappresentative del mondo della moda e del design, n dalla prima edizione chiamate a donare capi di abbigliamento, accessori e oggettistica da mettere in vendita al 50%, Convivo ha dato un segnale significativo al sostegno della ricerca, rappresentata da Anlaids Lombardia, la prima associazione noprofit italiana nata con l’obiettivo di fermare la diffusione del virus. Nei suoi 30 anni, Convivio ha infatti coinvolto più di 800.000 persone e raccolto fondi per più di 25 milioni duro. Commenta il presidente dell’associazione, Andrea Gori: «Se da una parte l'HIV rimane la priorità della raccolta fondi di Convivio, dall'altra l'impegno è quello di dare un sempre maggiore contributo alle problematiche legate a possibili futuri eventi pandemici. In tutti questi anni abbiamo assistito a come le malattie infettive abbiano assunto un'importanza fondamentale nell'era della globalizzazione, in un mondo senza conni dove viaggiano le persone, ma anche i vettori delle malattie. Convivio si evolve, quindi, guardando a quelle che sono e saranno le sfide più attuali. Per non farci trovare impreparati». Tema di questa edizione speciale di Convivio sarà «Sport Couture». Il titolo, dalle molteplici sfaccettature, vuole veicolare il concetto di sport come cura di sé e come una delle prime attività cui ci si dedica quando si sta bene, fisicamente, e quando si sta meno bene mentalmente, come aiuto positivo. Ma vuole anche celebrare lo sport italiano e la sua forza; lo sport diventa così simbolo di rivalsa, di seconda opportunità, di gioco ma anche di impegno, rispetto, aggregazione e passione. Senza poi dimenticare il legame di Convivio con la moda, l’aspetto «couture» rimanda alle linee sportive e alle tante collaborazioni con il mondo dello sport che i maggiori brand hanno sperimentato negli ultimi anni. Vogue Italia sarà ancora una volta al anco di Convivio - prendendo lo scettro da Franca Sozzani, uno dei personaggi che più ha creduto nella manifestazione - con il direttore Francesca Ragazzi e altre gure di spicco del mondo Condé Nast come Simone Marchetti (direttore Vanity Fair Europe) e Francesca Airoldi (Chef Revenue Ocer).

Oltre al mercato - dove saranno presenti prodotti per la casa, abbigliamento, accessori, moda bambini, beauty, food & wine - nei cinque giorni dedicati alla manifestazione si terranno una serie di appuntamenti, intitolati «Convivio & More» dove poter capire, grazie a una serie di esperti e amici di Anlaids Lombardia ETS, come prevenire, come curare, come parlarne e dove informarsi, come essere d’aiuto per stare dalla parte del benessere e della Salute Globale. Tanti, inoltre, gli eventi collaterali che si affiancano al tradizionale shopping solidale, oltre alla possibilità per tutti di poter eseguire il test rapido per HIV, venerdì e lunedì dalle 15.00 alle 20.00, sabato e domenica dalle 11.00 alle 20.00 nello spazio di Casa Anlaids: come sempre, nel pieno rispetto della privacy e affiancati da giovani medici, operatori, volontari, infermieri. Sarà inoltre possibile acquistare il kit per test orale di nuova generazione a un prezzo agevolato. Ma Convivio pensa anche ai più piccoli, con uno spazio dedicato organizzato da Kikolle Lab per bambini da 3 a 8 anni. Laboratori e attività attorno al tema «Prendersi cura» per insegnare, anche ai più piccoli, l’importanza della prevenzione, della cura del proprio corpo, insieme alla generosità nell’affetto, l’inclusione e lo spirito di squadra. Nei corner i piccoli ospiti potranno sperimentare attività dedicate ai temi cari a Convivio, divertendosi con giochi, attività motorie, laboratori di riciclo e riuso creativo, con i «Libri illeggibili» e per diventare «Stilisti per un giorno».

Libera e rivoluzionaria: la lezione di Coco Chanel alle femministe oggi. Spazza via i corsetti e i bustini, lancia il trend dei capelli corti, realizza un profumo "per la donna che profuma di donna". Chanel non fu solo una stilista, fu un'attivista. Laura Lipari il 5 ottobre 2022 su Il Giornale.

Gabrielle Bonheur Chanel, Coco Chanel o semplicemente Coco, come la si voglia chiamare: persino il suo nome evoca bellezza ed eleganza. Non fu una donna, è un "demonio" travestito da leggenda. Tra il lusso e lo sfarzo, al centro dello studio, vi è lei: una minuta figura in controluce che emana potere a partire dalle sue mani poggiate sui fianchi, lo sguardo sicuro, i lineamenti duri. Le rughe del suo volto sono appositamente nascoste da un ampio cappello. Una delle sue convinzioni più assolute è che una donna non è mai elegante senza, così è sua abitudine portarlo persino a casa.

Dalle umili origini alla formazione di “Coco”

Gabrielle nasce il 19 agosto del 1883. Trascorre l’infanzia insieme alla sorella minore nell’orfanotrofio cattolico di Aubazine, perché orfane di madre e abbandonate dal padre, un povero mercante di stoffe. Le rigide regole del collegio plasmano il suo carattere ligio alle regole e al dovere, ma la sua creatività, spesso soffocata, cerca di farsi strada sin dalla tenera età. A 18 anni trova un impiego nella bottega Maison Grampayre dove una sarta la prende sotto la sua custodia. Anche la boutique è un ambiente angusto nel quale impara la disciplina, ma è lì che esplode la sua grande passione per la moda. 

La prima grande svolta della sua vita avviene durante l’incontro con il suo primo amante nonché suo primo finanziatore, l’ufficiale di cavalleria Étienne de Balsan. Sarà lui il primo a chiamarla affettuosamente “Coco”. La loro è una storia d’amore controversa e piena di alti e bassi, lui è un donnaiolo lei invece e alla ricerca di quella libertà negata per metà della sua vita. La trova per un breve periodo all’interno delle stalle della lussuosa villa di Balsan.

Qui avviene la sua prima grande illuminazione: la donna ha il diritto di cavalcare come un uomo, perché tanti fronzoli per andare a cavallo? La cosa più semplice sarebbe quello di indossare dei pantaloni che rendano più agili i suoi movimenti. Da questi pensieri partorisce uno dei primi modelli di emancipazione femminile: i pantaloni da cavallerizza e le cravattine lavorate a maglia.

Balsan ascolta le idee della sua amante ma non le comprende. Finanzia i suoi lavori, la porta ai circoli e le permette di crearsi la sua prima piccola clientela, ma è convinto che Coco sia solo in preda a una ribellione temporanea da assecondare. Gabrielle invece è temeraria e lo diventa ancora di più quando conosce quello che per lei sarà l’amore della sua vita: Boy Capel.

Lui è un industriale di Newcastle e ascolta con trasporto le innovazioni di quella giovane mora che ha davanti, per entrambi è un colpo di fulmine. L’uomo è convinto che lei sia sprecata in quel castello confinato a Compiègne. I due fuggono e si trasferiscono a Parigi e nel 1910 comprano una piccola boutique in Rue Cambon 31. È qui che avviene il miracolo.

Oltre qualunque limite sociale

I primi esordi sono segnati da un notevole successo nella vendita di cappellini di ogni genere, da quelli più bizzarri con piume e paillettes a quelli da portare quotidianamente. Dopo due anni Chanel inizia a lanciare una nuova sfida, mettendo sul mercato maglioni, gonne e qualche vestito. La sua politica rimane sempre la stessa: la donna può vestire comoda mantenendo la femminilità.

Come Michelangelo che scolpiva direttamente sul marmo senza abbozzare un risultato finale, lei non disegna alcun modello. Prende qualche stoffa e comincia a tagliare, poi prende degli spilli e le attacca al manichino, fa qualche passo indietro, osserva e decide se può andare oppure no.

Nel 1913 Capel apre per Chanel un nuovo negozio nella località balneare di Deauville. Anche qui la stilista guarda con attenzione gli abiti delle persone che la circondano, imita lo scollo dei marinai e li fa cucire sui maglioni da donna. L’obiettivo è spazzare via quei corsetti e bustini stretti e scomodi che aveva lasciato la Belle Époque.

La sua fama cresce sempre di più e con l’aiuto di Boy. Nel 1917 ha già cinque laboratori sparsi in Francia e al confine con la Spagna e trecento lavoranti. Sono anni d’oro, la sua vita è completamente stravolta. Comincia a fare la conoscenza di personalità come Paul Morand, Pablo Picasso, Jean Cocteau, Max Jacob e Igor Stravinskij. Chanel è instancabile, ben conscia di star per cambiare la storia della moda.

Non si ferma davanti a niente, neanche di fronte alla richiesta di Capel di frenare per lui. Tra l’amore e il lavoro Chanel sceglie il lavoro, perdendo così l’unico uomo che avrebbe dato tutto per lei. “Ho bisogno di essere libera per seguire il mio estro”, aveva risposto. Le cose peggiorano quando lui muore a 38 anni in un grave incidente stradale. Il lutto la porta a buttarsi a capofitto sulla sua impresa che resta quasi indenne durante la prima guerra mondiale e meno durante la seconda.

Il marchio, il taglio alla “maschietta”e il profumo

Irriverente e testarda crea il suo marchio da sé e disegna le due C intrecciate, che comincia a utilizzare sin dagli anni '20 del Novecento. Nel 1921 esce sul mercato una nuova fragranza: Chanel N°5, realizzato artificialmente con molecole sintetiche. Il primo profumo che “odora di donna, perché una donna deve odorare di donna e non di rosa” spopola presto sul mercato. La fragranza prende il nome di Nº 5 in quanto corrisponde alla quinta essenza scelta da Chanel, inoltre il numero 5 è il suo preferito. 

Un giorno, a causa di un incidente domestico, i suoi capelli prendono fuoco e decide quindi di tagliarli molto corti. Uscendo per strada è ammirata dalle donne che la guardano affascinate e imitano quel gesto, anch’esso carico di importanza rivoluzionaria. Chanel come icona, Chanel come stilista, ma anche Chanel come simbolo, Chanel come punto di riferimento a cui ispirarsi. Qualcuno le chiede il perché di tanta foga nel suo “femminismo”, la sua risposta era sempre: “Fino a quel momento avevamo vestito donne inutili, oziose, donne a cui le cameriere dovevano infilare le maniche; invece, avevo ormai una clientela di donne attive; una donna attiva ha bisogno di sentirsi a suo agio nel proprio vestito. Bisogna potersi rimboccare le maniche”.

Nel 1957 Coco Chanel vince l’ambito Neiman-Marcus Award, riconoscimento che premia le figure che si sono distinte nella cultura e nell’arte, anche chiamato l’Oscar della moda.

Oriana Fallaci incontra Coco e Gabrielle

Tra le pagine del suo libro “Se nascerai donna”, Oriana Fallaci riporta anche una delle sue primissime interviste fatta proprio al gigante della moda. Racconta di come una figura così esile riuscisse ad avere un aura maestosa tanto da ammutolire chiunque si trovasse al suo cospetto. 

Descrive il momento in cui, quasi intimidita, la giornalista si era seduta a distanza e Chanel aveva cominciato a parlare senza che lei le avesse fatto alcuna domanda, quindi si era affrettata a prendere nota di tutto quello che le diceva per non perdere niente. Sapeva che quell’appuntamento era unico nel suo genere. Il loro incontro era avvenuto quando ormai Madamoiselle era per tutti Coco Chanel e la Fallaci una semplice giornalista alle prime armi. Durante la sua intervista il punto focale era sempre la moda, ma cambiava il punto di vista: parlava chi creava abiti per indossarli non per sfoggiarli, al contrario delle opere che creavano i suoi colleghi. “I vestiti sono opere, capolavori in equilibrio, di armonia e audacia: ma non sono vestiti. Non possono indossarli le donne normali, perché diventano ridicole, ma i miei colleghi vogliono farle apparire ridicole. E sapete perché? Perché odiano le donne”.

Per la Fallaci il pensiero di Chanel era semplice: creare uno stile per una donna che viaggia e ha bisogno di vestire con grazia ma anche con comodità. Come riporta anche nei suoi racconti, non era soltanto una stilista, era soprattutto un'attivista. Quello che diceva era: “Non volete fare mestieri da uomini? Non volete entrare in politica? Non volete guidare le automobili? Come fate ad imporvi se non potete neanche respirare dentro il bustino?”.

Con Coco le donne cominciarono quindi a tagliarsi i capelli e ad accorciare le gonne, ad alzare la testa e a prendere in mano la loro vita. Proprio come fece quella ragazzina tirata fuori dall'orfanotrofio di Aubazine che pian piano costruì un impero firmato con il suo cognome. Coco, Gabrielle, Chanel, ricordata nei secoli successivi come "La Rivoluzionaria".

Le gonne a 40 centimetri da terra: Dior inventa il new look, Marlene Dietrich lo veste. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 16 Ottobre 2022. 

Il 24 ottobre 1957 moriva a 52 anni all’Hotel La Pace di Montecatini Terme. Fu la madre Madeleine la prima musa dello stilista: il suo fascino ottocentesco dietro una moda rivoluzionaria

Accadde che quel giorno, il 12 febbraio 1947, a Parigi facesse molto freddo: le pellicce erano più che giustificate. Nei saloni dell’atelier al 30 di Avenue Montagne invasi dalle creazioni floreali di Lachaume, l’attrice Rita Hayworth sedeva insieme alla suocera Begum Aga Khan avvolta nei suoi visoni, in attesa: erano le 10,30 e stava per andare in scena la rivoluzione dell’abito. Christian Dior stava facendo sfilare la nuova silhouette del dopoguerra e secondo la giornalista Carmel Snow, direttrice di Harper’s Bazaar, lo stilista aveva appena inventato il New Look: Parigi tornava capitale della moda dopo gli anni bui; ma per paradosso l’annuncio di quel piccolo tsunami estetico sarebbe arrivato alle signore di tutto il mondo da New York, perché quel giorno la stampa francese era in sciopero e i giornali Usa arrivarono prima a dover riconoscere la rinnovata supremazia europea.

Il Bar suit, l’abito assoluto e basico che le modelle indossavano in pedana, facendo volteggiare i petali dell’amplissima gonna a corolla sui volti delle dame, disegnava una silhouette che allora era nuova, e che era destinata poi a riapparire in infinite declinazioni fino a noi. Dopo i dolorosi minimalismi bellici il tessuto tornava a primeggiare e ondeggiare sui corpi delle donne per la gioia dei mercati tessili. Dove prima bastava pochissima stoffa, ora Christian Dior reclamava 15 metri per le gonne (25 per un abito da sera). Per quella giacchetta scultoreamente scolpita, che accompagnava torace e fianchi sottolineandoli, leggenda vuole che all’ultimo momento Dior, non soddisfatto delle forme della modella Tania, mandò il suo assistente Pierre Cardin, allora 21enne, a comprare dei piccoli batuffoli di lana e cotone per rimpolpare qua e là. Il corpo per Dior andava scolpito, e difatti lo costruiva lui, con le sue mani, battendo il martello su un manichino per lui troppo rigido, fino ad ammorbidirlo a caccia delle forme ideali. Per concludere faceva foderare tutti i suoi abiti con percalle e taffetà, e si assicurava che la sua gonna fosse alla Dior, a 40 cm da terra, presentandosi di persona a controllare, con un metro, la distanza fra orlo e pavimento.

Mentre arrivava la copertina di Time, la prima dedicata a uno stilista, Marlene Dietrich imponeva ai detestati produttori di Hollywood il New Look: «No Dior, no Dietrich». Debuttante tardivo, Christian: nella sua infanzia fra i profumi del giardino di famiglia a Granville, in Normandia, era nata tutta la sua ispirazione e là oggi, nella casa Dior, è ospitato il Museo Dior, con foto e oggetti personali e gli abiti appartenuti alla madre Madeleine, elegante, figlia e moglie di industriali, sua prima musa. Un paradosso che il famoso New Look sia nato dal fascino che il mondo quasi ottocentesco aveva prodotto sul giovane Christian. Che fu comunque molto moderno nella concezione del mercato, insieme al suo stile faceva nascere accessori, borse, cappelli, guanti, e soprattutto profumi («Il profumo di una donna dice molto più della sua calligrafia»), con visione a 360 gradi dello stile, e al prediletto mughetto dedicò un’intera collezione nel 1954. Il suo successo, folgorante, è durato 10 anni, moriva a 52 all’Hotel La Pace di Montecatini Terme il 24 ottobre 1957. 

Donne straordinarie. "Vietato pensare in piccolo". E tre sorelle divennero regine della moda. Zoe, Micol e Giovanna: tre giovani legate dalla stessa passione per la sartoria sono state tra le prime a scrivere la storia della moda e a rendere famoso il “Made in Italy” nel mondo. Laura Lipari il 26 Ottobre 2022 su Il Giornale.

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 La fama "Fontana" oltreoceano

 La nascita del “Pretino”

 La crisi del consumismo

È il 1938 e a Traversetolo, comune in provincia di Parma. Tre sorelle di cognome Fontana iniziano a imparare l’arte del cucito nella sartoria materna. Zoe è la più grande, poi segue Micol e infine Giovanna. Tutte e tre vivono quasi in simbiosi e condividono gli stessi interessi.

Il primo cambiamento della loro vita avviene con il trasferimento della maggiore a Roma per perfezionare le sue doti alla sartoria Zecca. Si stabilisce nella Capitale dopo il matrimonio e lì, successivamente, viene raggiunta dalle altre due: Micol inizia l’apprendistato in una sartoria mentre Giovanna cuce in casa.

Nel 1937 Zoe viene licenziata in tronco dopo aver saputo di essere incinta della prima figlia, ma trova subito lavoro nella sartoria Battilocchi che le affida il compito di seguire le clienti più importanti durante le prove dei loro abiti, tra queste c’è anche la figlia dello scienziato Guglielmo Marconi. È in quei mesi che Zoe apprende l’arte, l’empatia e il portamento di chi ha a che fare con personalità importanti.

Qualche anno dopo le tre giovani decidono di fare il primo grande passo mettendosi in proprio e aprendo una sartoria in via Liguria. Il loro stile è inconfondibile, le signore della Roma Bene sono attratte dalla manifattura degli abiti e incoraggiano le sorelle ad andare avanti. La loro fama accresce così tanto da raggiungere uno dei volti più noti degli anni ’40 e ’50: l’attrice messicana Linda Christian, che commissiona loro il suo abito da sposa.

La fama "Fontana" oltreoceano

Le immagini che vedono l’icona indossare un capo unico nel suo genere fanno il giro del mondo. La pubblicità mediatica rende popolare il volto e le creazioni delle tre sorelle Fontana. Le piccole sarte diventano uno dei primi simboli della moda italiana. Nel ’51 vengono contattate da Giorgini per partecipare a una sfilata alla quale saranno presenti alcuni compratori americani. È sicuramente una premessa per l’inizio del loro successo oltre l’Atlantico: le modelle percorrono la pedana con addosso i loro capi che vengono apprezzati e applauditi da chiunque si trovi in quella sala.

Nel frattempo il marchio spopola anche nel cinema. Il regista Alessandro Blasetti intuisce che l’attrazione del pubblico verso i suoi personaggi femminili derivava anche dallo stile italiano dei loro abiti e così Zoe, Micol e Giovanna vengono ingaggiate per confezionare i capi di quelle attrici emergenti. Da quel momento firmano i costumi delle più importanti pellicole cinematografiche italiane.

Quelle opere d’arte non passano inosservate sotto il naso dei grandi nomi come Audrey Hepburn, Rita Award, Myrna Loy che si recano presto nell’atelier italiano. Le tre sorelle sono ormai conosciute come “le sorelle Fontana” e questo nome diventa il loro marchio di fabbrica. In quelle stoffe mettono cuore e anima tanto che Micol durante un’intervista per un programma Rai aveva detto: “La storia è espressa sempre nel modo di vestire, in tutti i tempi, e in ogni abito c’è un pezzo ‘de core’”.

Linda Christian non è l’unica a volere fortemente un loro abito da sposa, anche la principessa Maria Pia di Savoia, figlia di Umberto II celebra il suo matrimonio con addosso uno splendido vestito fatto a mano e così la segue anche la figlia del 33esimo presidente degli Stati Uniti, Harry S. Truman che sentì parlare della loro fama casualmente durante una vacanza in Italia. Tuttora l’abito è conservato nel museo Truman. Per il suo debutto in società, la figlia del dittatore di Santo Domingo, Trujillo, sceglie il suo vestito fiabesco firmato Fontana che veste anche le numerose damigelle. Questa opportunità è decisamente proficua per le sorelle che con quel denaro danno il via alla costruzione del loro primo vero atelier.

Questa fama, soprattutto negli Usa, fa sì che le sorelle vengano invitate più volte a presentarle nuove collezioni. A spostarsi più frequentemente è Micol che effettuerà centinaia di viaggi oltreoceano. Ogni loro sogno diventa realtà, la loro popolarità è nota tra le più grandi celebrità mondiali. La moda italiana è al massimo del suo splendore. Hollywood trasforma Roma in un set a cielo aperto, ogni giorno le star più seguite passeggiano tra le vie della Capitale e acquistano i loro abiti e costumi per il loro set.

Le tre sorelle rimangono unite sia nel lavoro che nella vita privata fino alla fine, nonostante siano diverse caratterialmente. Zoe è la perfezionista, il motto è: “È inutile pensar in piccolo perché non ne vale la pena. Meglio puntare al 100%”. Il suo punto di riconoscimento sono i capelli raccolti in una crocchia che le danno l’aria imponente. Micol è chiamata “la girandolona” perché è lei a spostarsi nei vari Stati per presentare il loro prodotto, ama le novità e l’idea del marketing. Giovanna è quella che si è sempre occupata di tenere strette le radici della famiglia e del mestiere.

La nascita del “Pretino”

Un giorno Micol guarda distrattamene dei giovani sacerdoti giocar a calcio e in quel momento ha un’idea: imitare le forme delle loro vesti. Nel ’56, ottenuto il permesso dal Vaticano, assegna a un giovanissimo Renato Balestra il compito di disegnare “Il pretino”, un abito nero con rifiniture rosse e al collo una collana con un gioiello a forma di crocefisso. È decisamente una novità e una rivoluzione nel campo della moda utilizzare figure e rappresentazioni religiose. Diventa il pezzo celebre della maison.

Lo studio e la realizzazione di ogni abito è quasi maniacale, il segreto di ogni successo deriva dalla stretta collaborazione tra Zoe, Micol e i loro disegnatori. Ogni opera è unica nel suo genere e viene costruita sul corpo della cliente che entrava in stretta confidenza con le tre stiliste; il loro rapporto diventava così intimo da condividere anche i segreti, custoditi gelosamente dalle tre sorelle e il camerino si trasforma in un confessionale.

Amano farsi chiamare sarte piuttosto che creatrici perché il termine rimanda direttamente al tessuto. A seconda dell’abito il tempo della creazione è più o meno lungo. Per qualche modello necessita anche di 6/7 mesi. Il loro laboratorio, dove erano presenti le prime bozze, i disegni e i modelli di quelli che sarebbero diventati i capi per le varie collezioni, sono nascosti per mantenere il segreto ed evitare che ci siano imitazioni nell’alta moda.

Nel 1952 il regista Luciano Emmer gira nell’Atelier Fontana il film Le ragazze di piazza di Spagna. La loro etichetta sfonda anche il grande schermo e successivamente il piccolo nei primi programmi in bianco e nero: gli abiti di Mina hanno il loro tocco magico.

La crisi del consumismo

Dopo gli anni ’60 i tempi cambiano, i vestiti diventano confezionati e anche le sorelle Fontana si adeguano: aprono uno stabilimento che confeziona vestiti dove lavorano 195 persone in catena di montaggio, i capi unici si trasformano in capi per il vasto pubblico. Il consumismo imperante e le condizioni di lavoro portano molti lavoratori in piazza, tra queste anche le sartine. Lo sciopero selvaggio porta a un ritardo nella consegna dei capi. Per necessità le sorelle realizzano l’outlet che salva moltissimi capi. La grande fabbrica viene chiusa e si sostituisce con una più piccola. L’atelier di piazza di Spagna diventa il loro caposaldo. Zoe muore nel 1979 e Giovanna nel 2004. Nel 1992 il marchio viene ufficialmente venduto a un gruppo finanziario italiano, assieme al negozio in via di Fontanella Borghese.

Micol è l’unica Fontana ancora in vita e nel 2011 realizza il cammeo per la miniserie televisiva in due puntate Atelier Fontana - Le sorelle della moda, trasmessa su Rai 1. Nel 2013 festeggia 100 anni e per l’occasione organizza un concorso per giovani creativi: Hollywood sul Tevere. Il nome non è causale, infatti il tema rimanda a quella che fu la loro fortuna agli esordi. Inoltre crea la Fondazione Micol Fontana per rendere l’eredità creativa delle sorelle patrimonio della nuova generazione aprendo una sede dove sono custodite le loro raffinatissime creazioni in mostra. Muore nel 2015 all’età di 101 anni.

Karl Lagerfeld. Natalia Aspesi per “Il Venerdì” il 30 settembre 2022.

Silvia fendi ricorda quella sera del 18 febbraio 2019 quando, al telefono da Parigi, Karl Lagerfeld a fatica le dice «Sai che i medici non mi permettono di venire?». Tre giorni prima ce l'ha fatta, malgrado la stanchezza estrema, a ordinare fiori per un paio di principesse, un aereo privato lo attende per portarlo a Milano, dove il 21 ci sarà la sua sfilata per Fendi. Ai medici dell'ospedale americano di Neuilly dice «È incredibile possedere tre Rolls Royce e finire in una camera schifosa come questa». Si addormenta e la mattina dopo non si sveglierà. Il couturier muore, dopo una lunga sofferenza, di tumore alla prostata (lui dice al pancreas, gli sembra più elegante), a 86 anni. 

COME ERAVAMO LIBERI Lo racconta la sua ennesima biografia, Karl, di Marie Ottavi, redattrice di moda di Libération, 680 pagine divise in centinaia di capitoletti brevi ed esplosivi, che privilegiano i suoi amori senza corpo (odia toccare ed essere toccato, porta sempre i mezzi guanti), innamoramenti generosi seguiti da abbandoni improvvisi e definitivi, al centro di un mondo e di un tempo di massima frenesia omosessuale, quando non esistevano gli "invertiti", come si diceva allora, ma in certi ambienti pareva che lo fossero tutti.

Viviamo nel secolo in cui gli omosessuali vogliono amori coniugali, formano coppie tra le più salde, si sposano e mettono su famiglia diventando babbi appassionati, oppure lacrimano sui social perché temono di essere insultati se si baciano in pubblico. Quindi questa nuova biografia di Karl, più di altre, persino più di quella scritta dal tedesco Alfons Kaiser e pubblicata da Odoya un anno fa, può suscitare ai gay pensieri opposti: come eravamo sporcaccioni, oppure, però che divertimento, come eravamo liberi! 

Solo una signora, appunto questa giovane Marie Ottavi, poteva con totale leggerezza, leggiadria e massima audacia, arricchire di scostumatezze inedite soprattutto quei decenni, tra gli anni Cinquanta e gli Ottanta, di splendore, piacere, scandalo, perdizione e morte. Quasi a commemorare, oggi, i 40 anni (era il 1982) di quell'apocalisse, la nuova misteriosa infezione cui l'istituto Pasteur diede allora il nome di Aids.

BRUTTINO MA SICURO Di questo nuovo grande racconto della fastosa e festosa commedia che finirà in tragedia, i protagonisti sono tre, Lagerfeld, Yves Saint Laurent e il comune amante, Jacques de Bascher.

Inizia quando a Parigi arrivano da Orano in Algeria e da Amburgo in Germania Yves e Karl, appena ventenni, ambiziosi, col sogno della moda: diventano amici, passano le notti a ballare con le loro ragazze, le modelle Victoire e Anne Marie, vincono un concorso di stilismo, incuriosiscono due grandi del lusso, uno Dior, l'altro Balmain.

È per tutti e due l'ingresso nei mondi cui appartengono e di cui diventeranno il centro: la grande moda, la grande vita, la grande rete omosessuale. 

Yves è bello e molto fragile, di lui si innamora Pierre Bergé, un intellettuale che si occupa anche di politica, che per lui abbandona il pittore Bernard Buffet e ne diventa per sempre il compagno, il protettore, il padrone. E il socio della loro maison. Karl è bruttino ma molto sicuro, basta a se stesso e se mai sarà lui a diventare protettore e padrone di chi gli va a genio. Disegna per vari marchi, i più fruttuosi Chanel e Fendi, e il successo professionale e mondano, l'adorazione anche servile e interessata che circonda i due couturier, li allontana, fino a quando a dividerli per sempre, a renderli nemici, arriva Jacques, che il quasi quarantenne Karl conosce in una delle sue brevi serate senza alcol, senza droga, senza sesso, al Palace, immenso ritrovo parigino soprattutto gay.

SMARRIMENTI SADOMASO Jacques de Bascher, 21 anni, bello ovvio, «un aristocratico che non ha paura di niente», colto, stravagante, squattrinato, vive solo di notte, mantenuto da chi capita: da Karl lo sarà lussuosamente. Il ragazzo non ha preferenze, si lascia amare da signore che perdono la testa per lui e da ogni uomo che lo desidera. Saint Laurent si smarrisce in lui, nei suoi riti sadomaso, e vuole lasciare Pierre, che vorrebbe uccidere Karl perché non conosce gelosia e si diverte per le prodezze del suo amato.

Ma la frenesia di vita, di sesso in un giro sempre più pericoloso, i fine settimana chiusi nelle dark room parigine e di New York, mettono fine per sempre alla baldoria, a cui Lagerfeld ha partecipato solo come spettatore. Jacques seguirà un suo amante spretato per militare nell'estrema destra eversiva. Quando il test gli rivelerà di essere condannato, sarà Karl a stargli vicino lungo il calvario, sino alla fine. Lo sappiamo, moriranno in troppi, anche in Italia. Scrive Marie Ottavi: «Il lutto è permanente. Quelli che restano sono inconsolabili. La moda, la cultura, la notte, la pubblicità, tutte le corporazioni del divertimento hanno la bandiera a mezz' asta A un certo punto si smette persino di andare ai funerali».

BELLEZZA ALL'ASTA Per Karl e Yves la vita va avanti, col martellante susseguirsi delle sfilate che pretendono nuove idee, e la fama, e la ricchezza, e una specie di sfida a spendere, ad acquistare, hotel particulier, appartamenti e ville e castelli in giro per tutta la Francia e il mondo. Lagerfeld dice «mi piace collezionare ma non possedere» e infatti ogni tanto i suoi arredi, Art Deco o Louis XV e XVI, minimalisti o Grand Tour, Belle Epoque, Memphis o neoclassico Weimar vanno all'asta. Lo stilista non conosce la feroce depressione che sta distruggendo l'ex amico Yves, ma è inquieto, stanco, e cerca altri piaceri scoprendo «un nuovo passatempo che è una vera passione e gli permetterà di mantenere il controllo La fotografia lo salva da tutto, dalla monotonia in primo luogo e dalla sua solitudine quando cala la notte». 

È pazzo per i libri e per la cultura che gli regalano, al piano nobile del suo palazzo parigino ne possiede quasi trecentomila che sfonderanno il pavimento precipitando, senza grandi danni, al pianterreno.

Un'altra sua passione è il cibo, divora salsicce e dolci, arriva a pesare 102 chili: «Non ero colpito dalla mia pinguedine, ma una sera, davanti allo specchio, ero pronto a divorziare». Il primo novembre del 2000 Karl inizia una dieta rigidissima, in 13 mesi perderà 42 chili: nessuno lo vedrà più mangiare.

Un giorno a Milano, alla sfilata Fendi, appare sulla passerella un cavaliere filiforme stretto in un costume nero, stivali neri, mezziguanti neri, occhiali neri, camicia bianca dal collo alto per occultare le rughe, i lunghi capelli bianchi legati a coda di cavallo da un nastro di seta nero, pare un personaggio di Rossini. Lagerfeld è un nuovo uomo, fa un po' paura così fuori dal tempo, ma lui dice «ho la sensazione di essere stato ipnotizzato, anestetizzato, di volare col pilota automatico». 

Anni dopo, mi pare nel 2011, l'ho incontrato, identico, alla rotonda della Besana di Milano dove era esposta una sua fascinosa mostra fotografica dedicata alla Little black jacket indossata da donne meravigliose.

Lo ricordo incorporeo e scattante, senza età, eternizzato dal suo rifiuto del tempo. Continuava velocissimo a battere su un iPhone e un iPad tutti e due d'oro massiccio, lamentava la scomparsa della leggerezza, e della conversazione brillante in Francia e in Italia, già allora, «se dici una cosa che non sia noiosa e politicamente corretta, subito si scatenano ancor più noiose e scorrette polemiche».

E poi, veloce sull'iPad, tic tac tac, un fiume di foto della sua gatta birmana Choupette, pelo beige occhi di zaffiro, «capricciosa, buffa, viziata, soprattutto silenziosa Quando sono a Parigi mangiamo allo stesso tavolo, noi due soli, tovaglia bianca e piatti d'argento, di notte lei si acciambella nel mio letto.

È la sola presenza che accetto, detesto la vita coniugale, non potrei mai lavorare, soprattutto leggere, se non fossi completamente solo». Marie Ottavi ci informa che la servitù completa di maggiordomi poteva entrare in casa solo quando lui non c'era, e nessun amante ha mai potuto dormire nel suo stesso letto.

DAGONEWS il 19 agosto 2022.

Bella Hadid ha parlato della sua "tristezza" perché le è stato negata l'opportunità di crescere nella "cultura musulmana". Dopo il divorzio dei genitori e con la madre che l’ha portata a vivere in California si è sentita come se le sue radici palestinesi le fossero state estirpate. 

La modella, 25 anni, è la figlia della top model olandese ed ex star del reality Yolanda Hadid e dell’immobiliarista palestinese Mohamed Hadid. È nata a Washington, DC, dove ha trascorso i primi quattro anni della sua vita crescendo con i parenti palestinesi. 

Ma dopo che i suoi genitori si sono separati quando Bella aveva quattro anni, lei e i suoi fratelli - Gigi e Anwar - si sono trasferiti a Santa Barbara, in California, con la madre.

Parlando con GQ , la modella ha spiegato di voler esplorare quella parte della sua storia dopo essersi trasferita sulla costa occidentale: «Mi sarebbe piaciuto studiare e praticare la religione da bambina, ma non mi è stata data questa opportunità». 

Bella ha anche parlato di come spesso fosse l’unica ragazza araba della sua classe e di come sia stata bullizzata: «Sono stata oggetto di commenti razzisti. Mi sono sentita triste e sola». All'inizio di quest'anno, Bella ha ammesso di essersi pentita di essersi sottoposta a un intervento al naso all'età di 14 anni: «Vorrei aver tenuto il naso dei miei antenati».

"Avrei voluto studiare l'islam". Bella Hadid si pente anche della rinoplastica. Ormai adulta, Bella Hadid ha ammesso che le sarebbe piaciuto avvicinarsi alla cultura musulmana da bambina e se tornasse indietro non rifarebbe l'operazione al naso. Francesca Galici il 20 Agosto 2022 su Il Giornale.

Bella Hadid si è definita triste perché non è cresciuta con un'educazione musulmana. La modella, infatti, è figlia di una top model olandese, ed ex star del reality, Yolanda Hadid e di Mohamed Hadid, un noto immobiliarista palestinese. Lei è nata a Washington Dc e suoi genitori si sono separati quando lei era ancora molto piccola. Fino al quarto anno di età, Bella Hadid è cresciuta con i parenti palestinesi ma, dopo la separazione, sua madre ha deciso di lasciare Washington per trasferirsi in California, dove poi la modella è cresciuta.

Bella, sua sorella Gigi e il fratello Anwar hanno vissuto gran parte della loro gioventù a Santa Barbara, un luogo particolarmente ambito e chic per chiunque ami la mondanità, ma per la top model pare non sia stato così bello vivere in California. E, infatti, in un'intervista rilasciata al magazine Gq, Bella Hadid ha commentato: "Mi sarebbe piaciuto studiare e praticare la religione da bambina, ma non mi è stata data questa opportunità". Una rimostranza anacronistica da parte di Bella Hadid, ormai adulta, che non ha mai pubblicamente espresso un orientamento musulmano prima d'ora.

Il fatto di essere di origini arabe, stando al suo racconto, l'avrebbe esposta a prese in giro e derisioni da parte dei suoi amici dell'epoca, fino a subire vero e proprio bullismo: "Sono stata oggetto di commenti razzisti. Mi sono sentita triste e sola". E quindi, per completare il quadro della sua "tristezza", Bella Hadid ha anche ammesso che se tornasse indietro non farebbe l'intervento di rinoplastica effettuato ad appena 14 anni: "Sono stata oggetto di commenti razzisti. Mi sono sentita triste e sola". Non si conoscono attualmente i motivi per i quali Bella Hadid abbia avuto un così repentino e radicale cambiamento di visione. Fatto sta che, se proprio lo desidera, è sempre in tempo per avvicinarsi alla cultura musulmana e a quanto legato a quel mondo, comprese le imposizioni che non le permetterebbero di condurre la vita che, finora, la modella ha esibito sui social e non solo.

Perché la moda di Valentino ci pare di buon gusto e quella di Dolce&Gabbana no? Tra Valentino e Dolce&Gabbana, come tra Armani e Versace o tra Chanel e Schiaparelli lo scontro che si vede in superficie tra buono e cattivo gusto è in realtà uno scontro tra vincitori e vinti. ANDREA BATILLA su Il Domani il 19 luglio 2022.

Nei giorni scorsi si sono svolti due eventi importanti per chi segue la moda: la sfilata della collezione alta moda di Valentino a Roma, sui gradini di Trinità dei Monti, e quella di Dolce & Gabbana a Siracusa, di fronte alla cattedrale di Ortigia.

Tra Valentino e Dolce&Gabbana, come tra Armani e Versace o tra Chanel e Schiaparelli lo scontro che si vede in superficie tra buono e cattivo gusto è in realtà uno scontro tra vincitori e vinti, tra pensiero dominante e visioni laterali che non sono ancora state integrate.

Il valore storico culturale di tutti questi progetti è molto simile ma i giudizi che hanno suscitato e continuano a suscitare non lo sono perché cadono nella trappola di un pensiero che allinea ancora la sobrietà ad una supposta legge morale universale che in realtà non esiste.

Maria Luisa Trussardi: «Ho pensato al suicidio, ma sono guarita per amore dei miei figli». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 16 Luglio 2022.

«Sulla tomba di Francesco e di mio marito ci sono sempre delle rose rosse. Non sono credente». L’amicizia con Vittorio Feltri e il rapporto con Michelle Hunziker: «La separazione da Tomaso? Mi è spiaciuta, non l’avevo prevista».

«Ero una promessa della scherma, Nicola un bravo giocatore di golf. Ma appena ci siamo conosciuti abbiamo smesso di allenarci: uscivamo di casa solo per vederci». Maria Luisa Gavazzeni, classe 1945, vedova di Nicola Trussardi, mamma di Beatrice, Francesco, Gaia e Tomaso, ha conosciuto il marito da giovanissima, a Bergamo, la città dei Trussardi. «E dei Gavazzeni: c’era il direttore d’orchestra Gianandrea e anche le Cliniche Gavazzeni. All’Università mi chiedevano: “lei è parente di?”».

Già da giovanissima alle prese con un cognome ingombrante?

«Non come quello che ho avuto successivamente: ma ho continuato ad usarli entrambi».

Come è stata la sua infanzia?

«Serena. Dopo lo Scientifico mi sono laureata in Economia. Dissi a mia madre: “Vorrei fare la diplomatica o la giornalista a New York”. La sua risposta fu. “Tu non sei diplomatica, fai Economia che è meglio”».

Lei non è diplomatica?

«Sono difficile, non sono quel tipo di signora bene tutta un “ciao tesoro come stai”».

Il primo incontro con suo marito Nicola.

«A una festa. Io che fino ad allora non mi ero mai filata nessuno, mi innamorai: avevo 16 anni e Nicola 18. Le mie amiche mi sfottevano: “Alla fine hai trovato quello giusto, eh...”».

Due ragazzini.

«Però ci siamo sposati dopo 10 anni: l’azienda di guanti di Nicola, dopo Woodstock, attraversò un momento di crisi: nessuna voleva più vestirsi da ragazza perbene. Era arrivato Fiorucci in piazza San Babila: era tutto una zeppa e un fiore. Anche mio marito ha dovuto reinventarsi e ha cominciato a far borse».

Fino a quella intuizione: il levriero.

«All’inizio quelle borse fatte di pellami magnifici erano brutte, un po’ mollicce, destrutturate. Poi gli venne l’idea di stamparle. Era la chiave vincente, mancava il simbolo: dopo una ricerca dalla quale era uscito un ferro di cavallo e una carrozza, è saltato fuori il levriero».

Cosa rappresentava?

«Un Rinascimento di eleganza e dinamismo. E poi era nuovo: piacque anche a Francesco Alberoni, nostro professore alla Cattolica».

Il giorno del vostro matrimonio.

«Abbiamo scelto la chiesa di San Tomè, una basilica preromanica. Indossavo un abito di sartoria milanese, con un lungo velo in pizzo».

E siete diventati un simbolo di lifestyle.

«Eravamo una famiglia che viveva in provincia, ma con un affaccio internazionale».

Lei ha continuato a lavorare anche dopo la nascita dei figli.

«Era tutto scandito da regole efficienti. Alle 13 e alle 20 dovevamo essere a tavola, mi congedavo dall’ufficio mezz’ora prima. Gaia iniziava a raccontare e Tomaso le tappava la bocca: “Devo parlare io”. Ai nipoti, i miei figli raccontano: “La nonna ci diceva che a tavola dovevamo sentire uno spillo nella schiena”».

Una famiglia numerosa e un’azienda.

«Quando è nata Gaia mi si sono rotte le acque di ritorno dalla fabbrica. Nicola riposava, così mi sono fatta la valigia e alla fine l’ho svegliato: “Muoviti, andiamo che è ora!”».

Un’etica del lavoro lombarda.

«Non ho mai fatto la sciura delle camelie. Ho avuto poche amiche, ma con loro si parlava di letteratura, di arte, non di estetista. Mio marito voleva che gli stessi accanto nel lavoro».

Era una donna ascoltata?

«Molto. Lui era istintivo, io più analitica. Da ragazza comperavo riviste francesi e magazine piuttosto introvabili in Italia: potevo dire la mia anche sullo stile. Ma più che mai ero molto influente su alcune trattative».

Una zarina...

«Spesso si ottenevano cose che neppure i nostri dirigenti più capaci erano in grado di portare a casa. Si alzava il telefono e situazioni irrisolvibili imboccavano la strada giusta».

I suoi figli.

«Beatrice da piccola ti incantava, con i suoi capelli biondi: aveva già un carattere puntiglioso, una tosta. Francesco voleva girare per la casa con il suo camion, lei lo ostacolava».

Tomaso.

«È sempre stato speciale. A pochi mesi già si affacciava dalla culla poggiando il gomito e guardandosi intorno. Quando si è messo a studiare Filosofia mi faceva una capa tanta sui massimi sistemi. Ha un talento per i motori: una volta ha corretto persino Pininfarina. E cammina come suo padre».

Gaia.

«Era pazzesca, cantava, si sdraiava per terra: erano tutti innamorati del papà».

La morte di suo marito.

«Fu Tomaso a rispondere al telefono: “Mamma, il papà ha avuto un incidente”. Al Fatebenefratelli ricordo che gli sussurravo cose all’orecchio, ma non sentiva più. Gaia era a Londra, Beatrice a New York, Francesco in Giappone: tornarono alla spicciolata».

Come è cambiata la vita dopo il lutto?

«Era vietato cadere in depressione, cosa impossibile dopo che è mancato Francesco. Beatrice dopo la morte del fratello mi disse: “Mamma ci devi aiutare”, ma la perdita di mio figlio era un fatto per me inspiegabile».

Anche Francesco è morto in un incidente.

«Il mio amico Vittorio Feltri mi ha aiutato in quegli anni: mi chiamava di notte e mi trovava in lacrime. Sognavo di andare in barca a vela e di approdare in una spiaggia dove arrivavano Nicola e Francesco. Dicevo: “Non è che ora ve ne andate subito, eh...”. E poi mi svegliavo».

Come ha superato tutto?

«Andando in cura. Dopo la morte di mio marito, che era socio fondatore, mi hanno dato la Presidenza dell’Associazione Centro Dino Ferrari del Policlinico di Milano, che ho da 18 anni. Mi sono affidata al professor Elio Scarpini, un neurologo: prima di lui ho pensato al suicidio ma mi sono trattenuta per i miei figli. In fondo non sapevo come fare, perché avrei voluto che sembrasse una morte naturale».

E lentamente è guarita.

«Le mie amiche mi volevano trovare uno psicanalista Lacaniano, 10 anni di terapia, mi viene da sorridere. Io non avevo tutto quel tempo: quando perdi un figlio è come se ti strappassero la pelle di dosso».

Va spesso al cimitero?

«Sulla tomba di mio marito e mio figlio c’è sempre un mazzo di rose rosse. Non sono credente, non sono stata aiutata dalla fede».

L’azienda che contraccolpi ha avuto?

«Ho vissuto la cessione di una parte dell’azienda con dispiacere e rammarico, riconoscendo che erano stati fatti errori da alcune persone esterne che si sono rivelate deleterie. Non ci siamo accorti che c’erano criticità».

Che suocera è?

«Credo di essere una suocera amata e anche una nonna benvoluta dai miei 6 nipoti. Ho ottimi rapporti con Federico, il marito di Beatrice e con Adriano, il marito di Gaia: ogni tanto fa la gobba e gli dico “stai dritto!” Andavo d’accordo anche con Michelle».

La separazione tra Tomaso e Michelle.

«Mi è spiaciuto, non l’avevo prevista, ma non potevo escludere che accadesse. L’incontro con Michelle è stato tenero: si capiva che non aveva avuto tante cose positive dalla vita. Ho un ricordo di semplicità: prendeva il caffè e sistemava la tazzina sul lavandino. Dopo sei mesi che la conosceva Tomaso mi disse: “Mamma la sposo, è una brava persona”».

Vi siete sentite dopo la separazione?

«Sì, in modo normale. Li ha presentati Feltri, gli ho chiesto cosa pensasse dell’addio, mi ha risposto: “Che vuoi farci, dopo 10 anni ormai si separano tutti!”».

Come può descrivere il legame con Feltri?

«Una persona che aderisce in modo così profondo alla tua vita lascia un segno che comunque rimane, al di là dei percorsi diversi. Si può chiamare amicizia, anche se non c’è frequentazione, ma credo che sia qualcosa di simile o forse di più».

La sua famiglia era molto invidiata?

«Ricordo che Franca Sozzani ci diceva: “Siete belli, ricchi, intelligenti? Vi odiano!”».

Siete stati i pionieri in molte cose.

«All’inizio sei incompreso, poi imitato. Ci hanno seguiti tutti a ruota».

Il piatto che sa cucinare meglio?

«L’ossobuco oppure lo stinco. Per Oriana Fallaci cucinai storione, un pesce che non sa di pesce. Mi raccontò quando durante la guerra in Kuwait i militari le dissero: “You smell so good”. Indossava il profumo Trussardi uomo».

Le amicizie importanti.

«Pavarotti: in Italia era un grande tenore, ma in America era Dio. E poi Zeffirelli, Strehler, artisti come Consagra e Mitoraj, di cui abbiamo collezionato le opere. Più le persone erano geniali, più erano semplici: Albert Sabin, l’inventore dell’antipolio, era affascinato dalla moda. E Rita Levi Montalcini parlava della sorella pittrice e non del suo Nobel».

La sua casa all’Elba era un cenacolo.

«Avevo l’abitudine di festeggiare lì il vincitore dello Strega: vennero Margaret Mazzantini, Ernesto Ferrero, Niccolò Ammaniti. Oltre a Re Juan Carlos, che gareggiava con il suo Bribón».

La milanese fa molta beneficienza.

«Presiedo l’Associazione del Centro Dino Ferrari e porto avanti le attività di fundraising. Faccio anche parte del Comitato del Restauro del Museo Poldi Pezzoli di Milano: ho restaurato due Tiepolo che raffigurano dei cieli, immagino mio figlio Francesco tra le nuvole».

Lei è anche professoressa alla Sapienza.

«Insegno dal 2004 Fashion studies: un corso in inglese suggerito dal professor Francesco Forte. Alla prima lezione c’era gente in piedi: ora ho l’Aula Magna».

Che cosa è lo stile?

«Ha stile una persona raffinata, chi segue la moda tout court spesso non lo ha».

E la famiglia?

«Vivere bene in una famiglia è un grande impegno: della mia oggi fanno parte anche gli amici che mi hanno dato tanto appoggio».

I Della Valle. Gianni Agnelli? "Quando Diego Della Valle...": il clamoroso aneddoto di Vittorio Feltri. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 05 agosto 2022

Di seguito, pubblichiamo il ritratto di Diego Della Valle firmato Vittorio Feltri: compare nel libro "Com'era bello l'inizio della fine", pubblicato per Mondadori dal fondatore di Libero.

Sono trascorsi già oltre trent'anni dal giorno in cui conobbi Diego Della Valle. Correva l'anno 1990 e la di lui azienda era già importante, quantunque non fosse ancora il colosso che da lì a poco ebbe a diventare. Diego era poco più che trentenne e aveva già dato prova di possedere un talento imprenditoriale piuttosto spiccato, direi straordinario, ossia fuori dagli schemi. L'incontro avvenne in un ristorante di Milano, il St. Andrews, e a combinarlo fu Maria Luisa Agnese, mia vice direttrice all'Europeo, la quale conosceva già Della Valle poiché, allorché ella lavorava a Panorama, aveva fatto servizi riguardanti il noto imprenditore e i suoi marchi. Durante il pranzo lo interrogai, sebbene - in questo sono un giornalista forse atipico - non sia animato da una sviscerata curiosità nei confronti degli altri, a meno che l'individuo che mi sta innanzi non abbia in sé qualcosa di speciale e che io riesca a percepirlo.

Con i suoi modi, il suo garbo, la sua educazione, tipicamente meridionale, Diego aveva catturato la mia attenzione e, conversando, ossia ascoltando i suoi ragionamenti, con piacere mi resi conto che il giovane era un fuoriclasse. Da quel momento cominciammo a incontrarci spesso, abitudine che manteniamo tuttora, anche se i nostri pranzi, o meglio, le nostre cene, sono sporadiche. Quando si trovava a Milano, non mancava di telefonarmi. Diego ha la capacità di farti sentire il suo affetto e la sua amicizia ma senza smancerie. E in questo siamo molto simili. Con l'intercessione del nostro amico, Luca Cordero di Montezemolo, o Monte Prezzemolo, Diego aveva messo a segno un colpo formidabile. E pure da questo si evince il suo spiccato e incontenibile spirito imprenditoriale e affarista: era riuscito a fare indossare al mitico Gianni Agnelli, ritenuto già in vita una icona di stile ed eleganza, le poi celebri scarpe con i chiodini di gomma, inventate proprio da Diego.

Sia chiaro. Agnelli non se le infilò per fare un favore a Della Valle. Le provò, forse con un po' di scetticismo, e dopo non volle più togliersele. L'avvocato se le sentiva comode, come si usa dire, e, quando prendeva parte a qualche talk televisivo e accavallava con ineguagliabile nonchalance una gamba sull'altra, ecco che si svelava sfacciatamente la suola bizzarra, particolare, strana. Scelta felice e intelligente, in un nano secondo le scarpe con i chiodini erano divenute emblema di classe oltre che ambitissimo status-symbol. Il successo della calzatura ideata da Della Valle fu strepitoso e tuttora resta una delle più imitate del pianeta Terra. E non escludo che i mocassini di Diego vengano indossati persino su Marte.

L'INVITO AL PAESELLO

Il grande vantaggio di Diego, ovvero l'elemento che lo pone un gradino o più al di sopra degli altri, è costituito dalla sua più grande virtù, l'umiltà. Egli è rimasto un ragazzo di provincia, marchigiano, abitante di un piccolo paese, al quale Diego è visceralmente legato. E pure in questo non differiamo. Un giorno mi invitò a casa sua, nel suo paesello, Sant'Elpidio. Erano ancora gli anni Novanta, io ero passato già da un pezzo alla direzione del Giornale. Fui accolto in questa villa meravigliosa, imponente, gigantesca, dove mi fermai pure a dormire dal momento che il giorno seguente avrei dovuto prendere parte in qualità di concorrente ad una gara di trotto, la quale si sarebbe tenuta non lontano da lì, ovvero a San Giorgio, dove si trovava un ippodromo molto importante. Diego non soltanto mi trattò da ospite onorato, ma compì di più, molto di più, forse troppo di più: si offrì addirittura di accompagnarmi a San Giorgio e lo fece con un elicottero, mica in macchina. Avremmo dovuto percorrere forse quindici chilometri, il tragitto dunque era breve, farlo a bordo di un velivolo mi appariva lievemente insensato e poi io ho il terrore di volare dopo la mia esperienza nei cieli alla volta di Palermo con Marco Pannella, ma questa è un'altra storia.

Ad ogni modo non ebbi il coraggio di rifiutare la cortesia di Diego e fui costretto a vincere la mia fobia senza lasciarla tracimare neppure attraverso una impercettibile espressione facciale. Diego mi scortò fin dentro l'ippodromo con l'elicottero, mi preservò persino dalla fatica di compiere un solo passo, mancava solamente che gareggiasse al posto mio. Fatto sta che ero talmente emozionato e agitato per l'esperienza che nella gara non vinsi, anzi diciamo pure che perdetti clamorosamente, sebbene - senza falsa modestia - fossi avvezzo ai trionfi in questo genere di competizioni. Non ripartii per Milano quella sera, bensì mi trattenni ancora nei luoghi natali di Diego, il quale aveva combinato una sorta di incontro pseudo-culturale con i suoi concittadini, una conferenza nel corso della quale insomma discettammo più di vita che di politica, anche perché la vita è l'unica cosa che interessi sul serio alla gente. Intrattenni la platea tessendo l'apologia e l'esaltazione della cultura della provincia. Chi nasce lontano dai grandi agglomerati urbani, dalle metropoli, non è né tagliato fuori né tantomeno penalizzato in quanto per uscire dall'anonimato, dal conformismo tipico provinciale, devi realizzare qualcosa di eccezionale, distinguerti, emergere, essere diverso. E c'è chi, come il nostro Della Valle per l'appunto, si industria per riuscire, animato da una passione fuori dal comune.

Diego ricevette in eredità dal padre, persona abile, una piccola officina di scarpe e quella piccola fabrichetta il figlio l'ha fatta diventare un brand internazionale del lusso. Oggi in tutto il mondo si vendono i suoi prodotti made in Italy e questo signore ha una abilità diabolica nell'anticipare i gusti e le tendenze del mercato. Coglie le nuove mode e le impone. Nel marketing, dopo l'operazione Agnelli, ha seguitato ad azzeccarle tutte. Ultimamente, ad esempio, ha preso l'influencer Chiara Ferragni come testimonial e, non appena ciò è avvenuto, il marchio di Della Valle in borsa è schizzato a livelli importantissimi. Quelle di Diego sono intuizioni prodigiose. Nonostante non ami particolarmente il calcio, Diego ha investito pure in questo settore, acquisendo diversi anni fa la Fiorentina, di cui Andrea Della Valle è stato presidente. La squadra versava in uno stato di difficoltà estrema ed era crollata come categoria, ma con l'arrivo dei fratelli Della Valle essa ha risalito la china e pure velocemente. Insomma, qualsiasi cosa Della Valle tocchi essa diventa oro.

TAVOLA ROTONDA

Il mio amico è tipo abbastanza stravagante. Ogni anno mi offre ospitalità nella splendida Capri, dove ha una casa molto bella, eppure io declino l'invito, dato che non vado matto per le trasferte, sono tipo piuttosto sedentario. Tuttavia partecipo con piacere alle frequenti cene che Diego organizza nella sua abitazione di Porta Venezia, a Milano, a pochi passi dalla sede di Libero. Gli ospiti abituali, tra cui Marco Tronchetti Provera, Carlo Rossella, banchieri, industriali, c'è un po' di tutto, vengono radunati intorno a questa tavola rotonda e lì si discute, ciascuno esprime la sua opinione, si parla altresì di politica, va da sé, tuttavia sempre in tono un po' scherzoso. Diego Della Valle è il padrone di casa più squisito che si possa immaginare, sebbene non sia nato in una famiglia aristocratica da ogni suo gesto trapela una rara signorilità. Sorprende, ad esempio, il modo in cui egli riesce a mettere ciascuno a proprio agio, a partire dall'assegnazione dei posti a sedere, sempre compiuta con estremo equilibrio e intelligenza, passando per un menù semplice, mai sofisticato.

Qualche anno addietro, grazie a Diego, ho risolto un problema non poco pernicioso. Maurizio Crozza aveva preso a imitarmi in televisione e devo ammettere che guardandolo mi divertivo da matti, però la maniera in cui l'imitatore si conciava non era di mio gradimento e mi sembrava che non rispecchiasse affatto il mio stile. Allora mi recai in via Della Spiga, a Milano, in uno dei negozi di Della Valle per acquistare una giacca blu, Fay, del modello che io indosso non di rado, e inviarla a Crozza. Ho fatto di tutto per pagarla, ma non mi è stato permesso di mettere mano al portafoglio. Diego è così, la generosità fatta a persona. Da quel momento Crozza ha iniziato a vestirsi, anzi a travestirsi da Feltri, più decentemente, evitandomi parecchi mal di pancia.

Mentre durante la pandemia da coronavirus le aziende chiudevano, milioni di lavoratori si ritrovavano senza un impiego, una nuova organizzazione del lavoro, basata sul cosiddetto "smart-working" o "lavoro agile" ovvero da casa, si imponeva come abitudine di vita, Diego Della Valle, che non segue la corrente ma la traccia, ha costruito una fabbrica nelle Marche incrementando l'occupazione nella sua terra natia. Coraggio, o addirittura audacia, intraprendenza, modestia. Sono qualità che appartengono a Diego, il quale mi ha insegnato che l'umiltà non è mai segno di debolezza. Essa è una forza. Anzi di più, è potere. E quel potere lo avverti quando vedi Diego, che se ne sta in silenzio e osserva e ascolta tutti. In questo egli mi ricorda molto un altro grandioso imprenditore italiano, Antonio Percassi. Sono uomini non elaborati, con l'animo da colomba, con i piedi per terra e l'orecchio sempre rivolto verso il basso, i quali, allorché maturano una certezza, vanno avanti per la loro strada con testardaggine, credendo fermamente in quello che fanno. Ed è così che raggiungono i loro obiettivi e fanno valere la loro visione. Per compiere cose eccezionali occorre ascoltare, è innanzitutto questo il segreto. Ma cosa vi è di più difficile per l'essere umano?

Via da Gucci il genio che ci ha reso bellissimi, ha abolito le stagioni e inventato il mondo nuovo. Teresa Ciabatti su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2022.

Con Alessandro Michele alla guida della maison l’immaginazione ha regnato per 7 anni. Ora è inverno, La realtà ha vinto

23 novembre 2022: Alessandro Michele lascia Gucci. E, in un universo dove le stagioni non c’erano più, torna l’inverno. Cresciuto a Roma, nel quartiere di Monte Sacro Vecchio, Michele racconta poco di sé. O meglio: in sette anni racconta una storia, la sua, senza mai comparire direttamente. Nelle poche interviste rilasciate, rarissimi i riferimenti autobiografici. A Alessandro Borghi, su Rivista Studio, un accenno alla madre Eralda e alla zia Giuliana, gemelle, a cui dedica la sfilata Gucci Twinsburg: «Alle mie mamme gemelle, capaci di comprendere pienamente la vita solo attraverso la presenza dell’altra». Basterebbe questo per capire che Alessandro Michele non è solo uno stilista. Inventore, artista, narratore, genio - poco conta quale ruolo vada a ricoprire adesso, l’importante è che continui a esserci (meno interessante viceversa il destino di Gucci).

Il potere di stravolgere i canoni

Sempre a Borghi la confessione struggente: «Su di me, che non sono più lo stesso di quando avevo vent’anni, qualcuno potrebbe dire: - Quanto è brutto questo -. Invece io mi guardo allo specchio e mi dico: - Che fatica essere diventati belli essendo così diversi -». Alessandro Michele ha fatto passare la paura a milioni di ragazzi - e non solo quelli di oggi: mentre liberava il bambino di Monte Sacro, liberava tutti. Mentre indicava la bellezza lì dove nessuno la vedeva («Volevo smettere di pensare che casa mia non fosse abbastanza bella») usava il ruolo, il potere per stravolgere i canoni. Serie tv, romanzo epico, manifesto politico, rivoluzione, Michele crea qualcosa di grandioso che nel momento in cui accade modifica in profondità l’individuo, e di conseguenza la società, perché il cambiamento è personale, ci insegna, responsabilizzando il singolo e spingendo a essere ciò che si vuole (attenzione: non invito, non sollecitazione. Spinta).

Alessandro Michele ha detto: il nuovo mondo è così. E il mondo è davvero diventato così. Ha abolito le stagioni - forse il suo gesto più simbolico, eccolo l’universo privo di stagioni. Capace di raccontare una storia anche a noi che giovani non lo siamo da un pezzo, Michele ci ha svelato come custodire l’età perduta senza rimpiangerla. Con lui abbiamo desiderato la borsa Gremlins - probabile feticcio della sua infanzia, e della nostra. Ma oggi, che è tornato l’inverno, rinunciamo alla borsa. I giocattoli rientrano nelle ceste. Le storie di mostri buoni nei libri e nei film, stesso destino per i personaggi di fantasia. Tra realtà e immaginazione ha vinto la realtà, eppure nessuno potrà dimenticare che per sette anni ha regnato l’immaginazione. Per sette anni siamo stati tutti bellissimi.

I Versace. Antonio D’Amico, l’uomo che amò fino all’ultimo Gianni Versace. Maria Teresa Veneziani su Il Corriere della Sera l’8 Dicembre 2022

All’età di 63 anni è scomparso nella notte del 6 dicembre. Santo Versace il fratello dello stilista ucciso: «Nel segno dell’amore voglio ricordare Antonio, perché quello tra lui e mio fratello è stato grande»

Fu il grande amore di Gianni Versace e il suo compagno dal 1982 fino alla tragica scomparsa nel 1997. Antonio D’Amico è morto nella notte del 6 dicembre all’età di 63 anni. A dare la notizia è stato il suo amico e manager Rody Mirri. Proprio Antonio fu il primo a soccorrere lo stilista assassinato davanti alla sua villa, Casa Casuarina, con vista sul mare di Miami Beach, in Florida. Da mesi combatteva contro una malattia che si è rivelata fatale e che ha affrontato con grande forza e coraggio, racconta chi gli era vicino. Originario di Mesagne, nel Brindisino, dal 2002 viveva a Manerba del Garda, Brescia, dove aveva fondato una casa di moda che portava il suo nome, chiusa dopo tre anni. Dal 2002, insieme con alcuni soci avviò la gestione del ristorante «La Carera», cessando però l’attività dopo qualche tempo per tornare a occuparsi di moda nel ruolo di designer. Un anno fa aveva inaugurato la nuova linea di abiti sartoriali, Principe di Ragada.

La sua vita è stata segnata dal legame con il grande stilista: si erano incontrati nel 1982 quando Antonio aveva appena 22 anni e non si erano più lasciati, fino alla morte di Gianni quella tragica mattina del 15 luglio. Si erano conosciuti al ristorante dopo la prima di un balletto alla Scala, di cui Versace aveva disegnato i costumi. L’ultimo pensiero era il più bello e anche il più doloroso: «La sera prima di morire eravamo in piscina quando Gianni mi abbracciò e mi disse: qualunque cosa succeda, ricordati che ti vorrò sempre bene».

«Non mi toglierò mai l’angoscia per ciò che è successo — si era sfogato —. Con me è stato buono, generosissimo. Vivrò bene grazie a lui, potrei stare nelle sue case ma non ci metterò più piede, sarebbe una sofferenza». Dopo la scomparsa, D’Amico ebbe dei contrasti con la famiglia dello stilista che a suo beneficio aveva lasciato un vitalizio e l’uso delle sue dimore. Lui però preferì ricevere la liquidazione in un’unica soluzione per iniziare la sua nuova vita e avviare la carriera di stilista di moda «senza copiare Gianni. Lui era unico». Ora però è proprio Santo Versace — appena uscito in libreria con l’autobiografia «Fratelli - il mio atto di amore per Gianni» (Feltrinelli) — a rendere omaggio al compagno del fratello stilista con un sentito ricordo. «Negli ultimi tempi ci eravamo parlati parecchio — ha dichiarato —, tanto che ero al corrente della sua malattia. Scrivere il libro è stato per me terapeutico, ma più di tutto è l’amore a guarire: se non avessi avuto mia moglie Francesca non so se sarei mai uscito dal trauma. L’amore è in grado di guarire ogni ferita. Ed è nel segno dell’amore che voglio ricordare Antonio, perché il suo e di Gianni è stato grande». Antonio e Gianni furono una delle prime coppie omosessuali a fare coming out ufficialmente e a vivere il loro amore pubblicamente. Nella serie dedicata all’assassinio dello stilista andata in onda su Fox, Antonio D’Amico è stato interpretato da Ricky Martin.

Da lastampa.it il 6 dicembre 2022.

È morto nella notte Antonio D'Amico, designer, ex modello e compagno di Gianni Versace fino alla sua scomparsa. Aveva 63 anni e da mesi combatteva contro una malattia che si è rivelata fatale. 

In questo periodo - dice chi gli era vicino - ha sempre dato a tutti un esempio di forza e coraggio. Antonio D'Amico un anno fa aveva inaugurato la sua nuova linea di abiti sartoriali, Principe di Ragada. A dare la notizia stamani il suo manager e amico Rody Mirri.

D'Amico fu il compagno di Gianni Versace dal 1982 fino alla sua tragica scomparsa nel 1997, e suo collaboratore alla linea sportiva della maison. Lo stilista aveva lasciato a suo beneficio un vitalizio e l'uso delle sue dimore. Tuttavia D'Amico preferì ricevere la sua liquidazione in un'unica soluzione e l'adoperò per lanciare la propria carriera di stilista. La casa di abbigliamento Antonio D'Amico, con sede e showroom a Milano, nonostante l'ottimo avvio, cessò l'attività dopo tre anni a causa di difficoltà gestionali-manageriali, ma D'Amico proseguì nella sua attività sotto altre forme fino alla fine.

Di carattere riservato, e in pessimi rapporti con i fratelli Versace, D'Amico negli anni successivi alla tragica morte di Versace ha rilasciato pochissime dichiarazioni e solo due interviste, di cui l'ultima a dicembre dell'anno scorso, ospite in tv di Serena Bortone, quando si è concesso alle telecamere, raccontando la sua storia. Su un punto, nonostante i cattivi rapporti, era in completo accordo con la famiglia Versace: il rifiuto totale della serie tv che raccontò la morte di Gianni.

L’incontro con Gianni Versace avvenne nel 1982 durante un balletto e fu un colpo di fulmine.  "Quando siamo stati presentati a cena ci siamo lasciati così - ricordò Antonio con gli occhi lucidi nel corso della trasmissione televisiva - poi dopo qualche mese (perchè io ero fuori per lavoro) in cui lui mi scriveva sempre, io mi sono fatto sentire e lui mi ha chiesto il perchè non gli avevo mai risposto. Ma io neanche avevo avuto modo di leggere i messaggi». I due furono una delle prime coppie omosessuali a fare coming out e a vivere il loro amore pubblicamente per ben 15 anni.

Fu Antonio, quel tragico 15 luglio del 1997, a ritrovare Gianni Versace: "Fu il giorno che ha tagliato in due la mia vita e la parte che è rimasta si è sotterrata. Quella parte ci ha messo molto a riprendersi, sono ferite che non si rimarginano completamente. Quella scena in cui io l'ho ritrovato nella mia testa non si è mai cancellata. La rivedo ancora oggi, Quella mattina voleva per forza andarsi a comprare i giornali, io mi sono alzato sono andato a giocare a tennis e l'ho saputo dopo che era uscito. Nessuno poteva immaginare questo. 

Un'esperienza tragica, che segnò ulteriormente la sua esistenza, già segnata drasticamente dalla morte della sorella Maria, deceduta davanti ai suoi occhi, quando Antonio aveva appena 16 anni, a causa di una malattia cardiaca congenita. 

Si aprì per Antonio in quel momento il baratro della depressione: «Non avevo più ragioni d'esistere. Non aveva senso nulla. Ho ingoiato medicine per morire. Avevo scritto anche una lettera di addio».

Solo alcuni anni dopo Antonio ritrovò l'amore, come lui stesso raccontò in quell'occasione: «Ho un compagno da 16 anni. Sono per le storie lunghe. Una volta che scegli di stare con una persona per me è per sempre. Lui sarebbe contento di vedermi così sereno».

Addio a D'Amico, l'ex compagno di Versace. "La mia vita si fermò quando sentii quei colpi". Si erano conosciuti alla Scala nell'82. Era in casa la mattina dell'omicidio. Daniela Fedi il 6 Dicembre 2022 su Il Giornale.

È morto nella notte tra ieri e lunedì Antonio D'Amico, 63 anni, compagno di Gianni Versace dal 1982 fino al delitto di Miami.

Nato a Mesagne, in Puglia, aveva scoperto alcuni mesi fa di avere una malattia che gli è stata fatale. Viveva ormai da tempo a Manerba sul Garda dove aveva avviato insieme con alcuni soci il ristorante «La Carrera». Dopo la chiusura del locale era tornato a occuparsi di moda lanciando una linea di abiti sartoriali da uomo chiamata «Principe di Ragada» per cui aveva aperto un piccolo atelier a Lonate del Garda. Fisico da modello e profilo da medaglia, Antonio aveva incontrato Gianni alla Scala dove uno era di casa in quanto melomane e autore di meravigliosi costumi per i balletti di Bejart, mentre l'altro coltivava appena possibile la sua passione per la danza classica. La scintilla scoccò di li a poco e i due non si sono mai più lasciati fino alla maledetta mattina del 15 luglio 1997 quando il serial killer Andrew Cunanan freddò Versace con due colpi di pistola sulle scale di Casa Casuarina, la sontuosa villa acquistata dal designer nell'Art Deco District di Miami.

I primi ad accorrere sul luogo del delitto furono proprio Antonio che stava per fare la doccia dopo aver giocato a tennis di prima mattina e il cuoco. «La mia vita si è come fermata nel preciso istante in cui ho sentito i due colpi di pistola» ci raccontò un paio d'anni dopo quando si presentò come stilista di una linea di abbigliamento per uomo e donna.

Purtroppo l'esperienza maturata nell'ufficio stile della linea istante by Versace cui Antonio dava un contributo creativo, non era sufficiente nemmeno per cominciare. Nel mondo della moda circolò subito una feroce battuta della serie «non basta andare a letto con il vocabolario per imparare una lingua». Dopo un paio di stagioni Antonio ebbe il buon senso di chiudere lo show room in piazza Baiamonti a Milano e di fermare le spese pazze per fare per sfilate piene di top e con musica eseguita dal vivo da Elton John. Evitò così di dissipare a tempo record la cospicua eredità che gli aveva lasciato Gianni: un vitalizio di 50 milioni di vecchie lire al mese e l'usufrutto, sempre a vita, di tutte le case dello stilista. D'Amico chiese agli esecutori testamentari di versargli l'intera somma in un'unica soluzione. Santo e Donatella fecero fare i calcoli nel modo più preciso ed equo possibile. I fratelli Versace furono talmente inclusivi da concedergli il posto d'onore al funerale di Gianni: accanto alla principessa Diana nel Duomo di Milano. Entrambi hanno sempre riconosciuto che lui era stato il grande amore del fratello, la stampella cui si era appoggiato nei duri mesi di lotta contro una rara forma di tumore all'orecchio che hanno preceduto quella tragica morte. Ci piace pensare che adesso si possano ritrovare nelle regioni spirituali della pace.

Da "Il Foglio" il 3 dicembre 2022.

Dopo la cessione della Versace a Cammi Holdinas. nel settembre del 2018, e il progressivo abbandono delle deleghe e della presidenza dell'azienda fondata col fratello Gianni nel 1978, Santo Versace si è ritrovato imprenditore, ha differenziato gli investimenti, messo a segno da distributore il colpaccio di "Saint Omer' di Alice Diop all'ultima Biennale Cinema (Leone d'argento, Leone miglior opera prima). 

Una settimana fa ha presentato la fondazione che porta il suo nome e che ha sviluppato con la moglie, l'avvocata Francesca De Stefano, destinata a chi "vive in condizioni di fragilità e disuguaglianza sociale" (primi due finanziamenti per la Cittadella Cielo di Frosinone, della Comunità Nuovi Orizzonti e la parrocchia San Nicolò di Fabriano di Ancona. E poi c'è la sua versione dell'assassino del fratello Gianni, degli anni difficili che ne seguirono, delle cause per diffamazione intentate in tutto il mondo contro presunti e strampalati scoop sulle motivazioni dell'omicidio di Miami e tutte vinte.

C'è la storia della famiglia e quella di Donatella, la piccola di casa, e di sua figlia Allegra, la "principessa" dello zio Gianni, che ereditò la metà delle azioni, e c'è la storia di un'azienda che forse, non fosse stato per una certa epica discussione fra i due fratelli maggiori a pochi giorni da quei colpi di rivoltella, avrebbe avuto un destino diverso, quello che era peraltro già stato scritto: la fusione con Gucci, la quotazione in Borsa, il decollo del primo polo del lusso italiano. Il libro si intitola "Fratelli. 

Una famiglia italiana", lo pubblica Rizzoli e lo sta presentando per l'Italia Paola Jacobbi. In copertina ci sono Gianni e Santo Versace in barca. All'interno. il racconto della moda a Milano negli Anni Settanta e il ruolo di Walter Albini nella definizione della figura del designer come lo conosciamo oggi, oltre a molti retroscena fra cui uno, piuttosto intrigante, degli anni in cui Santo Versace fu parlamentare del Popolo delle Libertà e anche dei più fumantini e meno irreggimentabili (l'8 novembre del 2011 si rifiutò di votare il Rendiconto Generale dello Stato, innescando la crisi che portò alla caduta del governo Berlusconi IV). "Ho scritto questo libro per chiudere un'epoca, soprattutto la tragedia di Miami", dice. Ma in realtà dice molte altre cose. Come si può evincere da questo  abstract.

Ero appena stato eletto, chiesi a Berlusconi di poter organizzare una cena per promuovere Altagamma. La serata si svolse a Villa Madama. Ai tavoli il gotha degli industriali italiani, settore moda al gran completo, da Leonardo Ferragamo a Laudomia Pucci, da Carla Fendi a Claudio Luti, a Paolo Zegna. Sono seduto al tavolo principale, quello di Berlusconi. Al mio fianco c'è Paolo Bonaiuti. Vedo il suo nome sul cartellino del placement.

Poi vedo lui. Che era un uomo altissimo, tra l'altro. Impossibile non accorgersi della sua presenza. Nel giro di pochi minuti, prima dell'arrivo degli antipasti, Bonaiuti scompare come polverizzato dalla bacchetta magica di Harry Potter. Al suo posto c'è una ragazzina. 

Ci viene detto che è una cara amica delle figlie di Berlusconi, che è una grande appassionata di moda e che ha chiesto la cortesia di partecipare alla cena. Il nome?

Noemi Letizia. La rividi un anno dopo, su tutti i giornali, nella famosa fotografia che la ritraeva al suo diciottesimo compleanno. Santo Versace

Io, Gianni e l’Italia che ce la farà. Rita Cavallaro su L’Identità il 10 Dicembre 2022.

“L’Italia è un paese straordinario e riuscirà a superare tutti i suoi problemi”. Se ci crede l’uomo che ha creato l’impero della Medusa, diventato l’icona italiana per eccellenza nel mondo, non può che essere così. Santo Versace, d’altronde, è stato fin dall’infanzia un visionario, capace di realizzare tutti i sogni di suo fratello Gianni. E Gianni Versace era il genio creativo, l’artista che ha cambiato il mondo, usando i “costumi” per affermare gli usi. Lo stilista che ha rivoluzionato la donna, che reso le super modelle simulacro in grado di incarnare la nuova libertà, scevra dalla connotazione sessuale. Gianni Versace è la divinità scesa in Terra per portare il bello. Ma uno spietato assassino l’ha strappato troppo presto al mondo, in quel terribile 15 luglio 1997, quando le immagini del corpo dello stilista riverso nel sangue davanti al cancello della sua villa Casa Casuarina, al civico 1116 di Ocean Drive a Miami Beach, furono mandate in diretta da tutti i notiziari internazionali, mentre migliaia di persone in lacrime si accalcavano sulla scena del crimine per portare fiori e biglietti. Il killer, che sparò due proiettili in testa all’icona della maison di moda italiana, in quel momento era un gigolò gay di 28 anni senza arte né parte, che voleva diventare grande. Negli ultimi mesi aveva ucciso quattro persone nella sua folle fuga disseminata da una scia di sangue attraverso gli Stati Uniti, tanto che il suo nome era finito nella lista dell’Fbi dei dieci ricercati americani più pericolosi. Il 27 aprile, a Minneapolis, Cunanan aveva massacrato a colpi di martello sul cranio il vecchio amico Jeffrey Trail, al quale aveva rubato la pistola, una Taurus 40. Con la stessa arma, il 3 maggio, sparò alla testa a David Madson, la sua seconda vittima. E partì per Chicago, dove il giorno dopo torturò a morte Lee Miglin. Il 9 maggio fu la volta di William Reese, un guardiano del New Jersey che il gigolò uccise soltanto per rubargli il pick-up, con il quale arrivò poi a Miami. Ma non era ancora abbastanza per Cunanan. Al serial killer serviva una vittima illustre, un nome simbolo che avrebbe potuto per sempre suggellare la sua fama e renderlo indimenticabile. Quest’uomo era Gianni Versace. Cunanan a Miami si mosse indisturbato per due mesi, durante i quali architettò l’omicidio. Probabilmente studiando le abitudini dello stilista. La polizia non lo individuò neppure quando il 7 luglio il killer andò in un banco dei pegni per impegnare una moneta d’oro da collezione rubata al ricco Miglin, la sua terza vittima. Nonostante Cunanan avesse compilando il modulo con i suoi dati personali reali e avesse indicato come domicilio l’hotel degradato in cui alloggiava, il commesso andò in ferie e non inoltrò subito il documento alla polizia. Così quel 15 luglio, il gigolò poté agire indisturbato: sorprese Versace mentre stava per entrare a casa e lo freddò con la Taurus 40. Dopo il delitto, il 23 luglio, una telefonata che segnalava un’effrazione in una casa galleggiante di Miami Beach portò all’operazione che si concluse con l’irruzione nella house boat, dove i detective trovarono Cunanan morto, riverso sul letto: si era sparato alla testa. Per venticinque anni suo fratello Santo, che con Gianni ha creato e reso grande la maison della Medusa, ha cercato il silenzio, ha esitato a parlare dell’omicidio, dei suoi sentimenti, quasi per mettere un muro che lo proteggesse, chiuso com’era in una realtà parallela dove Gianni non era morto. Ma oggi il fondatore della maison Versace rompe ogni indugio, nel libro Fratelli. Una famiglia italiana, edito da Rizzoli, in cui ripercorre la sua vita con Gianni e racconta particolari inediti nell’incredibile viaggio che li ha consacrati nella storia.

Santo Versace, perché ha scritto Fratelli?

Fratelli è un atto d’amore nei confronti di Gianni. È la storia della mia vita insieme a mio fratello.

Eravate molto legati, vero?

Io e lui siamo le due parti della stessa mela, le due facce della stessa medaglia. Ci completavamo, perché lui era il creativo eterno bambino e io il pragmatico vecchio saggio.

Quindi lei lo mitigava?

Non direi. La follia era reciproca, perché lui era il grande creativo, ma io su come fare l’azienda, sugli spazi da prendere, sugli investimenti da fare ero più pazzo di lui.

E siete partiti insieme. Non solo due fratelli ma anche capi di un impero che è diventato un’icona mondiale?

Noi siamo partiti per realizzare dei sogni. Gianni sognava e io andavo dietro ai suoi sogni. Lui voleva volare, ma io stavo attento che le sue ali fossero solide, che non fossero quelle di Icaro.

È bellissima questa immagine. E la sua voce traspare emozioni dopo tutti questi anni. Mi parli dei sogni di Gianni.

Il suo sogno era creare. Lui voleva fare le collezioni, sognava di fare belli l’uomo e la donna.

Si spieghi meglio.

Dice bene nella sua recensione Natalia Aspesi: Gianni va visto come un creatore di bellezza. Il suo sogno era rendere belle sia le donne che gli uomini. E addirittura è andato oltre ogni sogno, perché quello che ha fatto lui è straordinario. Ha tolto agli uomini tutti i problemi sui blocchi mentali, come l’introduzione dell’uomo senza cravatta. Lo ha liberato da qualunque legame, da qualsiasi lacciolo. E dato alle donne una libertà che non avevano prima, le ha rese libere di vestirsi e di essere se stesse fino in fondo. Ha dato loro libertà, bellezza, la vena erotica ma senza mai trascendere. È straordinario.

Gianni ha stravolto il concetto dell’angelo del focolare?

Lui quel concetto non lo intendeva neanche, perché ha avuto l’esempio di nostra madre Francesca, una donna che ha sempre lavorato, ha creato l’atelier, è stata sempre autonoma. Ha avuto un esempio di una donna libera e attiva.

Che per quei tempi in Calabria era un unicum, vero?

Infatti. Per questo Gianni ha sempre visto le donne come protagoniste. Come le ho viste pure io. Noi, grazie all’esempio di mia madre, abbiamo capito che le donne sono straordinarie e che sono meglio degli uomini. Con tutto il rispetto di mio padre Antonio, che era eccezionale, era un’altra persona che io ho amato e con il quale mi sono formato. Gianni invece ha imparato da nostra madre. E da questi due genitori straordinari sono nati due eccellenze straordinarie.

Mentre suo fratello creava le collezioni lei cosa faceva per lui?

Tutto il resto. Vede, la creatività non porta da nessuna parte se è da sola. Io ho creato le aziende, il commerciale, ho scelto tutti i negozi nel mondo, i più belli, mi occupavo della comunicazione, delle campagne fotografiche. Ho fatto tutto quello che serviva per far sì che la sua creatività si trasformasse in una realtà di successo.

E si occupava pure dei fidanzati di Gianni. Lei nel libro scrive che suo fratello si fidava così tanto di lei da chiederle anche di risolvere alcuni problemi privati. Scrive testualmente: “Mi chiese di liquidare fidanzati che stavano diventando molesti o che lui non sopportava più”.

È la dimostrazione che io gli risolvevo tutti i problemi. Ero suo fratello maggiore.

Vi siete mai scontrati su punti di vista differenti, perché magari lui voleva andare troppo oltre?

Tra i due quello che andava oltre ero proprio io. Lui sul piano della genialità e della creatività andava oltre il muro, oltre tutto, perché la genialità dalla fine del secolo scorso è stata solo Gianni. Non esiste nessuno come Gianni. Però io non mi fermavo di fronte a nulla. Ero un intenditore, colui che trasformava i sogni in realtà. Lui sognava, io realizzavo i sogni. E andavo oltre i sogni.

Ma il 15 luglio 1997 quei sogni si sono infranti per sempre. Cosa ha provato?

Con Gianni è morta anche una parte di me. Se riavvolgo il nastro nella mia mente, rivivo tutto. Lo struggente dolore della perdita di mio fratello. La violenza con cui la nostra famiglia, da sempre unita negli affetti e nel lavoro, è stata scaraventata nel lutto. Il vuoto, incolmabile, che Gianni ha lasciato nella storia della moda.

Cosa ricorda del momento in cui le comunicarono che suo fratello era morto?

Rimasi scioccato. L’unica cosa che riuscì a dire fu: “Gianni non è morto, Gianni è immortale”. Mi sono spezzato dentro, per mesi e anni, a cercare di capire l’incomprensibile. Nei primi quattro anni dopo la sua morte, quando potevo, nel fine settimana, andavo a dormire nella casa sul lago di Como, proprio nel suo letto. Lo cercavo, inconsciamente volevo riportarlo in vita. Il mio equilibrio era relativo, però ho sempre lavorato e cercato di andare avanti. Sono passati venticinque anni e ho capito che ricordare purtroppo non serve né mai servirà a comprendere né ad accettare, però ho anche capito che ripercorrere quei momenti è terapeutico e, in qualche modo, mi riavvicina al pensiero di Gianni e ne tiene viva la memoria fuori, nel mondo.

E come è riuscito a superare quella che è stata la tragedia più grande della sua vita?

Nella mia vita, in realtà, ho avuto due eventi tragici. La morte della mia sorellina Tinuccia, che aveva tredici mesi più di me, e la morte di un fratello, che aveva due anni meno di me. La sorellina l’ho persa quando aveva dieci anni per una peritonite. Lui me l’hanno portato via, ucciso a cinquant’anni. Quindi il primo trauma me lo sono trascinato, probabilmente senza capirlo, per tutta la vita. Dal secondo, se non fosse arrivata mia moglie Francesca, forse non ne sarei mai uscito.

Allora è stato l’amore a salvarla?

L’amore è l’unica cosa che ti libera dalle cicatrici, è l’unica cosa che ti può far guarire. Ed è stato l’amore che mi ha fatto rinascere.

Ci parli di Francesca De Stefano in Versace.

Io ho avuto la fortuna, diciotto anni fa, di incontrare una ragazza bellissima. Una brunetta calabrese, un peperino di Reggio Calabria, mia conterranea. Pensi che la nonna di mia moglie era cliente di mia madre. E la madre di Francesca era cliente di Gianni. Cioè ci conosciamo da sempre. Solo che lei è molto più piccola di me, abbiamo venticinque anni di differenza, e io non l’avevo vista prima, perché ero già partito dalla mia terra quando lei era bambina. Me la ricordo sul passeggino, si figuri.

Com’è scoppiato l’amore tra voi due?

Lei venne con sua madre a Milano, che aveva un appuntamento con me, perché voleva dei consigli. E si portò Francesca. Io vidi questa stupenda ragazza e poi da cosa nasce cosa. D’altronde, se guardi Michelangelo, Raffaello o Leonardo Da Vinci ti innamori dei suoi quadri. Ecco, Francesca è il mio quadro e io mi sono innamorato di lei. Quando è arrivata, Francesca ha agito con il suo amore, facendomi superare gli anni in cui sono sopravvissuto, ma non ho vissuto. Ora ho voglia di recuperare il tempo che ho perso.

E lo sta facendo felicemente con Francesca.

Sì, senza di lei non ci sarebbe stata la guarigione, non mi sarei mai ripreso da Miami, ne sono sicuro. E non ci sarebbe stato neanche il libro. Perché nel corso di questi anni, man mano che insieme ci liberavamo dal dolore, ho pensato che era arrivato il momento giusto di fare anche un atto d’amore verso Gianni e di raccontare quella che è stata la nostra galoppata insieme, il nostro percorso, la nostra straordinaria vita. La sua che si è fermata a 50 anni, la mia che durerà ancora per tantissimo tempo, perché io ora voglio vivere. Infatti nel libro, oltre a ripercorrere tutta l’infanzia e la camminata fianco a fianco con Gianni, vado anche oltre. Perché nell’ultima parte parlo del futuro.

Cosa c’è nel suo futuro?

Il cinema e l’amore per gli altri.

Lei infatti è presidente di Minerva Picture e con sua moglie avete istituito, l’anno scorso, la Fondazione Santo Versace. Ci racconti.

Sì con Minerva abbiamo vinto alla 79esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia il Leone d’Argento e il Leone della critica con il film Saint Omer, che in questi giorni è nelle sale. E nel segno del cinema, della cultura e dell’amore per il prossimo io e Francesca, che non abbiamo figli, abbiamo dato vita al nostro figlio più grande, quello che ci permetterà di aiutare tutti i fragili, sia i bambini che gli adulti, a prescindere dall’età. Vogliamo stare accanto a chi ha bisogno.

È questo l’obiettivo della Fondazione?

Con la Fondazione Santo Versace vogliamo lasciare una cosa nostra, che andrà oltre noi e ci rappresenti nei secoli a venire. È la continuazione di quello che ho fatto con Gianni, perché nel cinema c’è creatività, e puntiamo agli Oscar. Ci siamo messi nell’industria cinematografica perché vogliamo fare il grande cinema italiano, quello che è stato di Federico Fellini, di Vittorio De Sica, di tutti quelli che ci hanno preceduto vincendo l’Oscar. Dall’altra parte c’è la voglia di stare accanto ai fragili e aiutare chi ne ha bisogno, perché è una cosa che ci hanno insegnato i nostri genitori. Sia i miei che quelli di Francesca erano persone che hanno sempre dato. Abbiamo dei progetti in cui crediamo molto, sulla base del concetto che ho applicato nella mia vita, ovvero quello di fare sistema, collegare tutte le fondazioni virtuose, in maniera che lavorando insieme si possa fare con gli stessi mezzi molto di più.

Santo, se le chiedessi due parole che pensa siano in grado di riassumere tutto se stesso?

Sono due verbi: fare e dare. Fare significa costruire. La maison Versace, il cinema, la Fondazione. E la Fondazione è il dare. Noi siamo stati fortunati e ora desideriamo che la nostra fortuna torni a chi ha bisogno. Io ho attraversato tante vite, ma la vita che sto trascorrendo adesso e quella degli anni a venire sarà la più bella. Fare il cinema e avere una fondazione che porta il mio nome. Più di così, cosa si può volere dalla vita?

C’è una domanda su tutte che si è posto con insistenza in questi anni e alla quale non ha saputo rispondere?

Sull’assassino di Gianni. Nonostante Cunanan fosse entrato da mesi nel mirino dell’Fbi, fosse stato inserito nella lista dei fuggitivi più ricercati d’America, nonostante l’Fbi fosse a conoscenza del fatto che si trovava a Miami a partire dal 12 maggio di quell’anno, non venne fermato. E poi non saprò mai perché Cunanan scelse di uccidere Gianni Versace. Infine ci sono le domande sul destino.

Quali?

E se Gianni quella mattina non fosse uscito? E se una telefonata l’avesse trattenuto? E se non fosse stato da solo, ma con il compagno Antonio D’Amico? Sono tutti se, se, se.

A proposito di Antonio D’Amico. Il compagno storico di suo fratello è morto pochi giorni fa, dopo una lunga malattia. Non vi frequentavate più dopo l’omicidio di Gianni?

Alla morte di Gianni io e Antonio ci siamo allontanati. Lui e mio fratello erano inseparabili e, quella tragedia immane, che mi ha portato a chiudermi in me stesso, allo stesso modo mi ha spinto ad alzare un muro anche con lui. Poi ho cominciato a scrivere il mio libro e questo è stato il passo per riallacciare i rapporti con Antonio.

Eravate in contatto negli ultimi momenti?

Ci sentivamo spesso, sapevo che era malato. E la sua scomparsa oggi mi colpisce molto, perché lui rendeva felice Gianni e io non avrei potuto non volergli bene, visto che volevo davvero molto bene a Gianni. Sa, non esiste né in italiano né in altre lingue, un termine per definire chi perde un fratello o una sorella. Non esiste l’equivalente di “vedovo” o “orfano”. Eppure è un dolore immenso, che poco si conosce. Io lo conosco fin troppo bene.

Natalia Aspesi per “il Venerdì di Repubblica” il 28 novembre 2022.

Questa autobiografia non sarebbe forse stata scritta se l'autore non avesse quel cognome, o per lo meno non l'avrebbe intitolata Fratelli. Ed è infatti soprattutto il rimpianto di anni in cui lui, Santo, e Gianni e Donatella erano una cosa sola di affetto, complicità, business, successo, denaro: erano i Versace, protagonisti dei grandi momenti di splendore, tra la metà dei 70 e la fine dei 90, nel tempo cupo di stragi fasciste, rivolte studentesche, Brigate Rosse, eroina e poi quel flagello dell'Aids che molto colpì proprio il regno felice della bella moda. 

I Versace hanno perduto Gianni 25 anni fa, assassinato misteriosamente a Miami davanti alla sua villa; Donatella forse da tempo si è allontanata da Gianni, non ha voluto collaborare al libro e neppure leggerlo, e lui, tra le tante fotografie che accompagnano il testo, ne ha scelta una sola in cui c'è anche lei, i tre fratelli insieme, reperto dell'incancellabile antica fratellanza. Forse rimossa, certo molto rimpianta.

La ferita tra fratello e sorella si è aperta nell'orrore della tragedia di Miami con quel testamento forse azzardato (secondo Santo redatto dopo uno dei loro tanti litigi ma che col tempo sarebbe stato corretto) che lasciava il 30 per cento di tutta quella ricchezza a Santo, il 20 a Donatella e il 50 alla di lei figlia Allegra, adorata dallo zio Gianni, una bambina allora di 11 anni, troppo fragile per sopportare quella morte e quel peso assurdo di responsabilità e denaro. «Questo significava che fino al 2004, quando Allegra avrebbe compiuto 18 anni, Donatella avrebbe avuto virtualmente in mano il 70 per cento della società... Era troppa pressione per tutti». 

Chi c'era ricorda a Milano il funerale in Duomo di un uomo, Gianni Versace, 50 anni, non solo celebre per il suo genio, ma anche molto amato per la sua gentilezza e generosità. Dietro le transenne la folla dei grandi eventi, davvero commossa, assisteva alla sfilata della celebrità il lutto, la principessa Diana, che poco più di un mese dopo sarebbe morta tra i rottami della macchina distrutta a Parigi, al braccio di Elton John in lacrime, e Carolyn Bessette, moglie di John Fitzgerald Kennedy Jr. che con lui sarebbe scomparsa in mare due anni dopo, e Sting con la moglie e i tanti colleghi compreso il grande rivale, Giorgio Armani, e quelle top model da lui inventate, donne grandi di vistosa bellezza, le donne degli uomini ricchi, che decoravano la Milano da bere, la bella vita craxiana.

Naturalmente si brontolò e Don Antonio Mazzi "scatenò" una polemica sul fatto che non si sarebbe dovuto concedere il Duomo per le esequie di un omosessuale...

Gianni era stato molto coraggioso a dichiarare pubblicamente di essere gay. Oggi si direbbe fare coming out. Lui lo fece senza giri di parole nel 1995, in un'intervista con il mensile della comunità gay americana The Advocate. Santo cita Richard Martin, curatore del Costume Institute del Metropolitan Museum di New York: «Non c'è dubbio che l'identità gay di Gianni Versace sia parte integrante del suo lavoro come stilista».

Mentre lo stesso Gianni in un'intervista aveva detto: «Se un uomo commenta la bellezza maschile, per esempio di un divo del cinema, la gente penserà che è gay... ma per le nuove generazioni le cose sono già molto diverse, credo che tra qualche anno ci sentiremo tutti di commentare qualunque tipo di bellezza senza temere di essere etichettati in un modo o in un altro». Nel luglio 2011, Santo era ancora deputato del Popolo della Libertà, cooptato da Berlusconi nel 2008, «ci fu la discussione sul disegno di legge che avrebbe dovuto introdurre l'aggravante di omofobia nel codice penale. 

Venne affossato. Io mi ribellai. In aula fui l'unico deputato della maggioranza a farlo». Finì la legislatura nel gruppo misto. «Non mi sono più candidato. In conclusione è stata un'esperienza deludente». Ricorda un aneddoto a una cena da lui organizzata per gli industriali del settore moda, presente Berlusconi. Un invitato se ne va e al suo posto arriva una ragazzina, «ci viene detto che è un'amica delle figlie di Berlusconi che è una grande appassionata di moda. Il nome? Noemi Letizia. La rividi un anno dopo su tutti i giornali».

Ancora prima dell'assassinio di Gianni, si era cominciato a ipotizzare legami illegali dell'azienda. «Noi non avevamo nulla da nascondere. Siamo calabresi, non mafiosi. Nel 2010 in una trasmissione televisiva si parlava di un libro sulle infiltrazioni mafiose al Nord. Nel libro c'erano palate di fango contro di noi... Gianni sarebbe stato ucciso all'interno di un ipotetico fantasmagorico scontro con gente che nessuno di noi ha ma incontrato né conosciuto. L'anno della morte di Gianni avevamo pagato centoquattro miliardi di lire di tasse. Non proprio un comportamento da azienda alla canna del gas che si rivolge alla 'ndrangheta».

Reggio Calabria, una famiglia per bene. Nonno materno Giovanni, calzolaio, anarchico mandato al confino dopo i moti dei Fasci Siciliani, papà Nino commerciante di carbone e poi di elettrodomestici, mamma Franca, tipica donna italiana d'epoca, sottomessa al patriarcato per poter comandare con pugno di ferro la famiglia, la sua gestione e il suo denaro. Tutti ubbidienti, in più lei sarta di lusso e di successo, 15 dipendenti, le signore di Reggio in fila per le sue toilette. Nascono Tinuccia, che morirà bambina, e poi Santo, e poi Gianni, e anni dopo Donatella. «Se qualcuno si aspetta che io in qualche modo attacchi mio fratello, o mia sorella, resterà deluso. Pur nelle incomprensioni e nelle difficoltà di alcuni momenti, il legame resta profondo e sincero». 

Santo si laurea in Economia e commercio a Messina, Donatella, molto studiosa, in Lingue a Firenze. Gianni ha già scelto altro; adolescente va a Parigi con la mamma «a comprare i cartoni di Dior, Chanel, Chloé» (così usava allora, le sarte italiane rifacevano il lusso parigino) e poi la convince ad aprire accanto alla sartoria una massima novità, la boutique di prêt-à-porter, chiamata Elle, diventandone il buyer, con immediato successo. 

Sono i primi anni 70, il made in Italy ancora non esiste, lo stilista è solo il collaboratore di produttori di abiti, il più noto è il meraviglioso Walter Albini che per primo oserà mettersi in proprio. Ma a Reggio Calabria c'è questo giovane compratore di gran gusto, perché non farlo salire al Nord? Ricorda Santo: «Per aiutare Gianni a realizzare il suo sogno prendo in mano la situazione...». Solo un paio d'anni dopo «cominciai a impostare la Gianni Versace a tavolino, a modo mio... investimmo una cifra che oggi fa ridere, venti milioni di lire, diecimila euro attuali...».

A Milano li raggiunse anche Donatella e iniziò per loro, ma anche per le tante celebrità del lusso italiano, un'epoca di meraviglie: persino per noi giornaliste che, dedicandoci alla moda, venivamo allora mal giudicate dai colleghi, ma in compenso avevamo accesso a ricevimenti stupendissimi, a cene fantasmagoriche, a sfilate sempre più pazze, a sederci accanto alle celebrità, e alle famose cose firmate, le borse e i cappottini che tutte le ragazze sognavano e che a noi venivano regalate.

Tra il 1981 e il 1986, i Versace comprarono l'antico palazzo Rizzoli di via Gesù, 4.281 metri coperti, un cortile di 600, un giardino di 900. I grandi saloni immediatamente adornati da arte neo-classica e reperti archeologici e opere della transavanguardia, mentre nella palazzina di New York si moltiplicavano i Picasso, seppur i meno epocali, e nella antica villa di Moltrasio brillavano barocchismi di ogni tipo. Ospiti i divi americani, le celebrità del rock, chiunque fosse giovane e gay: e in mezzo noi invisibili, col nostro flute di champagne al lume di mille candele, un po' stordite e certo grate. 

Pur di avere quel magnifico palazzo, io, dice Santo, «ero pronto a batterlo all'asta sino a 19 miliardi di lire». Gianni si fidava di lui così tanto che più di una volta gli chiese di «liquidare fidanzati che cominciavano a diventare molesti o che lui non sopportava più». Il lungo amore, sino alla morte, era stato per Antonio D'Amico, citato dal testamento ma escluso dall'azienda. 

Santo Versace ha 78 anni, due figli di primo letto e quattro nipoti, una bella sottile seconda moglie, Francesca, 25 anni di meno, che ha rinunciato alla sua professione di avvocato dopo essere stata dirigente della Presidenza del Consiglio dei ministri, ispettore di Finanza pubblica al ministero dell'Economia. Lui se ne vanta moltissimo e nel libro abbondano le foto della coppia. Lui ha abbandonato il mondo della moda e adesso si occupa di produzione cinematografica con la Minerva film e ha già vinto premi ai festival.

La Gianni Versace è stata venduta anni fa agli americani per due miliardi di dollari, e si chiama ormai solo Versace, un marchio che vuole dimenticare il suo creatore: si vende Versace anche su Instagram. Donatella continua ad essere il volto e la consulente creativa dell'azienda, Allegra si occupa delle campagne pubblicitarie con grande successo. Credo che sia suo il palazzo di via Gesù. Il solo estraneo a quello che è stato il regno che ha aiutato a nascere e crescere, è lui, Santo. Il dolore per essere stato cancellato, dall'azienda e forse dalla famiglia, gli ha dettato questi ricordi.

Quirino Conti per Dagospia il 16 luglio 2022.  

Dalle nuvole si capiva che si era arrivati a Milano: diverse da quelle plateali, ricche e sontuose che ci si era lasciati alle spalle, a Roma. Mentre queste erano sobrie, concise, seppure estese sulla città come un campo da calcio.  

Tuttavia, il segnale più convincente era il tassista: pugliese, dalla pronuncia inconfondibile come in un cinepanettone, non appena sentiva un indirizzo che poteva sottintendere “Moda” o “Stilista” istantaneamente si trasformava in un jet ultrasonico per funzionalità ed efficienza.  

Poiché anche lui in quella fase diveniva interprete di un fenomeno che stava trasfigurando il territorio lombardo, in quegli anni settanta, quelli della transverberazione di una città tristanzuola in un redditizio concetto estetico. E tutti i suoi cittadini, nei vari ruoli e competenze, si formarono su questa nuova identità. Se non altro, almeno per entusiastica adesione. 

Tanto che persino quegli edifici non ancora del tutto allineati alla costosa bellezza del momento apparivano scenograficamente testimoni di una particolare Bohème delle origini, assumendo i caratteri di una specie di Bateau-Lavoir e di tenero reperto archeologico. Così gli alberghi, anche i meno prestigiosi, si fecero particolarmente ospitali e complici già di mille consegne, depositi, messaggi, depistaggi e segreti. 

In tutto questo Barbara Vitti, a quel tempo potente concertista del sogno di Armani e Galeotti, progettava e formava proprio allora un club di teste coronate che mensilmente, con un appuntamento serale ai tavoli del Toulà, riuniva la migliore stampa dell’ambiente. E se non era la migliore, di sicuro rappresentava la più potente e impicciona. Una specie di Congresso di Vienna che ridisegnava potentati, sovranità e linee genealogiche. 

C’erano sempre N. A. già con zazzeretta colore del grano, R. E. orgogliosa dei suoi ascendenti sefarditi, A. R. immancabilmente addobbata da santona brasiliana; l’austera C. V. con codino e tenuta d’attacco; C. B. di “Vogue Uomo”, severa come una badessa cistercense; P. G. la più tenera e distratta anche perché interamente proiettata dentro i segreti del burraco; poi a sorpresa, in qualche sera più scura e piovosa, magari nomi nuovi prossimi a esibirsi e a meritare magari, da tutte loro, un diniego sferzante o un plauso appena accennato.  

Non c’era F. S. non ancora stratega per conto di Condé Nast, e troppo giovane per mescolarsi a un simile battaglione già rodato e potente. Mancava anche A. P. che in solitaria – deposto il kilt – stava ascendendo al suo ruolo con stranezze stilistiche, combini inauditi e un suo particolarissimo potere, inconciliabile con l’ortodosso ossequio armanesco delle altre socie. Tutto passava per le loro manie e sulle loro lingue con sentenze assolute e cadute precipitose, regni da sostenere e corone da abbattere.

Non partecipava nemmeno A. M. allora incontestabile Pizia di ogni pedana, generosa suggeritrice nel bene e terribile distruggitrice nell’errore.  

Comunque, per quel club c’era sempre un posto in prima fila ovunque e senza alcun ripensamento: destinatarie di ogni “save the date” prima di chiunque altro e degli omaggi più sofisticati. Grandi, grandissime, come nessuna mai più, e soprattutto “caratteristiche” – cioè al limite quasi esilaranti –, come le definiva ogni volta Natalia Aspesi quando, all’uscita dal Toulà, le guardava nel loro insieme continuare a ciarlare nell’attesa di un taxi. 

Poi le stagioni cominciarono a scorrere troppo velocemente, tanto che il triste Giacomino Leopardi, con la sua operina sulla Moda divenne sempre più realisticamente interprete della scena. Fino a quella dura stagione che portò l’obbligo del lutto nel mondo della Moda per i molti che se ne andranno, fino al grande Versace, e mentre per troppe assenze si cominciavano ad avvertire i primi scricchiolii di un potere che era sembrato eterno. 

Come un bosco in autunno anche quel bosco di intelligenze iniziò a ingiallire e ad annunciare l’inverno. Barbara se ne andò niente di meno che dalla Sicilia, dove si era appena trasferita. Poi fu la volta di qualche compagno e di molti amici, per un virus che inesorabilmente marchiava il mondo dello Stile.  

Mentre ci si sfrenava ormai in pettegolezzi sempre meno ridanciani, fino al ritiro di quasi tutte in una città che ora non le conosce più. Malanni, tristezze, rimpianti. Milano divenne acida, e quasi francese dopo le troppe cessioni e i troppi inghippi creati da unioni insane e avventurose.

Ora ci si telefona molto: fingendo anche qualche impegno con ancora l’attitudine al dominio di quel che è scomparso. F. S. non c’è più, ci sono nomi nuovi, ma con poca eco e con un’aura di rispetto sempre meno radiosa – persino maschi con pochette a cascata.  

Di quel tempo e di quel Club non resta che il ricordo di pochi, mentre chi può si ricicla in qualsiasi lavoro, più per ossessione che per necessità. Come una volta quando un loro battito di ciglia voleva dire una svolta e per qualcuno anche la felicità del successo. In un autunno sentimentale che non si addice alla Moda.

Intanto, le più pervicaci e caparbie, dopo aver penetrato con sudore di sangue ogni segreto della rete, fingono ora di sentirsi pronte a disquisire di MFT, criptovalute e beni virtuali. E seppure il consumatore pare poco incline al Metaverso, loro no. E così terrorizzano la collega meno sperimentale sproloquiando su avatar e generazione Z.  

Pronte perfino a nuove eventuali consulenze del genere shopping ibrido. Mentre purtroppo, per qualche trentenne assuefatta al “nuovo”, tutto questo appare già perfino il prossimo “passato”. 

Quirino Conti per Dagospia il 13 luglio 2022.  

A perpetuo turbamento e vergogna degli sciocchi, il sapientissimo Paolo De Benedetti, curatore editoriale tra i massimi, scritturista infaticabile e onnivoro indagatore di ogni sapere biblico, concludeva il suo sguardo sulla vita affermando di non aspettarsi altro dal profondo silenzio dell’Assoluto che un sospiro, un solo piccolo sospiro, e un alef dal suo amatissimo Elohim. 

Giacché stimare che il silenzio non rappresenti che la negazione stessa della Parola è da sciocchi. E, nonostante la fatica di divulgatori e scienziati positivisti, ancora non si è riusciti a spegnere il bisogno di “altro” oltre l’orizzonte dell’esistenza biologica.  

Ecco perché si parla con timore di chi ci ha preceduto nel congedo dalla vita. Forse perché potrebbero ancora adombrarsi nell’ipotesi di un racconto inesatto o di una terminologia irriguardosa? 

Anche solo per questo, parlare di Gianni Versace con ostentata disinvoltura pone oggi, a distanza di venticinque anni dalla sua morte, in autentica soggezione quanti provano a farlo: non riuscendo ancora a pacificarsi con il dubbio terribile di un’eterna sparizione e del nulla.

Ecco allora i giudizi sommari, le conciliate sintesi biografiche, le azzardate analisi totalizzanti e, per chi le compone e le elabora, quasi il timore mistico di essere ascoltati e trascendentalmente riconosciuti.

Non è questa, infatti, la stagione dei cimiteri, la morte non si addice alla stilizzazione della Moda. Seppure... 

Questo per quanto riguarda il complesso e variegato rapporto con la memoria di Gianni Versace. Chi non ricorda, infatti, la drammatica immagine di sua sorella in gramaglie e con un crocifisso stretto tra le mani? 

Anche solo per questo, i venticinque anni da una simile violenza sono una data che necessariamente deve mettere d’accordo osannanti e critici. Tutti: su talento, genialità e sovvertimento di ogni luogo comune. Tanto che commuove come opinioni un tempo ardite, taglienti e mordaci trovino ora una così grande conciliazione con il mistero del suo silenzio e perfino con le ombre suscitate a suo tempo dalla violenza inumana del suo martirio. 

Chi può dire in merito di non aver ferocemente combattuto, nella sua coscienza, con l’evidenza di giustificazioni piuttosto traballanti? Forse per gelosia, per vendetta o rancore. E quella innocente vittima in un lago di sangue, intesa perfino per malafede come il capro espiatorio di una giustizia lontana, segreta e irragionevole.

Poi capita anche che parlare di abiti, lussi e facezie di fronte al suo essere divenuto ormai come il Commendatore del “Don Giovanni”di Mozart sia un’ipotesi che raggela. Un anniversario pubblico, dunque, che pone il solito problema: può mai esistere, oltre i sentimenti di ciascuno, un rapporto equilibrato tra Moda, giornalismo, pubblicità, memoria e persino dolore?  

Anche se per Saint Laurent si è potuto parlare e sparlare senza alcun limite: per scritto e per immagini. Così come per Lagerfeld. Assenti e senza più voce in capitolo, giacché entrambi vittime di una stagione che non ammetteva sospiri dall’alto, tantomeno richiami mistici, oltre la paolina “carne”.

Ma ora altre sono le disposizioni dell’intelletto verso il Cielo e verso chi è entrato nella luce tenebrosa della morte. 

Senza nulla togliere alla sua passione, alla sua dedizione e alla sua capacità di iperscrtittura, Versace fu un gigante della comunicazione: un nome-mito, un macrosuccesso. Alla sua morte si precipitarono verso il suo trono deserto epigoni innumerevoli, da Cavalli a Tom Ford, a Mattiolo e a moltissimi altri assatanati da quel serto neoclassico di gloria. 

La stampa più vorace pensò allora, dalla sera alla mattina, di sostituirlo con il fedele Antonio, il suo compagno: e così come si avventò su una sua ipotetica affermazione (da riempire senza troppi problemi, quel terribile vuoto), con la stessa famelica energia se ne fuggì delusa quando comprese che l’affare non si sarebbe mai concluso. Se non come avvenne tra le sontuose pareti domestiche.

Comunque, oltre tanto dibattere, una speranza ci resterebbe; escatologica e perfettiva, direbbero gli studiosi: che dalla sua meravigliosa Calabria celeste, dove ora vive felice e in pace, Gianni Versace in nessun modo si curi delle tante commemorazioni – talora colme d’ipocrisia – che gli si intessono intorno. 

"Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti", e non distraiamo i viventi da quella meritatissima eterna felicità, oltre tutto e tutti. Contro un faticoso vociare che non può più sfiorarlo. Ora che alla crudele Medusa ha sostituito il volto raggiante del Mistero.

Quirino Conti per Dagospia il 16 gennaio 2022.  

Tra il 14 e il 18 gennaio, Milano è tornata – con una minestrina particolarmente allungata – a presentare le sue volenterose collezioni Uomo. 

Presenze di rilievo? Forse neppure una decina. E come in tutte le feste comandate, il ricordo del passato torna crudelmente a mordere. Soprattutto per le assenze. 

Gianni Versace avrebbe oggi settantasei anni, se fosse ancora costretto a calcolare la vita con degli aridi numeri. Per noi terrorizzati terrestri, una quantità neppure eccessiva, a guardarsi attorno: dal momento che il consumo, pur inscenando ormai teatrini appena post-adolescenziali, sposta continuamente un po’ più in là il limite della giovinezza. 

Ma per Gianni Versace non possono esserci dubbi. Fu crudelmente strappato dalla vita in un triste giorno del 1997. E da un luogo tanto impietoso da potervi inscenare l’ultima dimora di un Imperatore della Decadenza. 

Lo vollero a quel modo, come un Tiberio a Capri, il cinismo degli adulatori e, su tutti, l'avidità della stampa e dei suoi emissari, per poter finalmente dare fondamento alle loro morbose elucubrazioni. Ma Gianni Versace non era così. 

A lui toccò il destino di chi deve espiare origine e natura: quasi in un ottocentesco melodramma. E dopo che in tanti provarono senza esito a indossare la sua faticosa divisa, è naturale domandarsi cosa ne sarebbe stato di quella masnada di cortigiani che – assieme alla plebe redenta dal craxismo – sembravano aver cancellato per sempre Dio e il suo Paradiso. Ma Gianni Versace non era così. 

Perché dopo di lui, per i suoi interpreti – fotografi e narratori – calò impietosa la mannaia del Tempo. Ma Gianni Versace non era così. 

Dovette forzosamente adattarsi a tutti i “neo” inventati da scribi logorroici, a tutte le ebbrezze concertate dai suoi orchestrali, a tutte le finalità imbastite dai suoi sceneggiatori, che rimbalzavano dall’America a Milano.  

La Moda era questa, purtroppo, già molto prima che si scoprissero le trame dei suoi più solleciti seduttori: s’introducevano indossatori consenzienti, come tanti “pesciolini” di corte, nei letti di chi si voleva. E da qualche tempo il danaro liquefaceva le opinioni.  

Finché non arrivarono la stupefatta innocenza di Gianni Versace e la sua dolorosa fatica da giovane immigrato. Purtroppo non c’è stato chi non abbia voluto mescolare la sua epopea con quella del Rocco di Visconti. Ma lui non era così: piuttosto, semmai, la sua è stata l’epopea di un nuovo Ludwig, costretto al titanismo da un sogno costante di redenzione. Perché Gianni Versace era così: un innocente che gli applausi della più servile Accademia resero l’ideale vittima designata del suo Tempo. 

Il movente ignoto, i colpi, il sangue: quando Versace fu ucciso da un serial killer. Nel 1997 Gianni Versace fu ucciso da Andrew Cunanan, un serial killer già autore di altri 4 omicidi: il movente non è mai stato trovato. Angela Leucci l'11 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L’omicidio Versace

 Chi era Andrew Cunanan

 Un movente mai trovato

Il 15 luglio 1997 una notizia dagli Stati Uniti attraversò rapidamente l’Atlantico, giungendo in Europa e soprattutto in Italia. Gianni Versace, uno dei simboli dell’eccellenza italiana nella moda, stilista audace dalla mente e dalla mano riconoscibilissime, era stato freddato da due colpi di pistola mentre faceva ritorno alla sua sontuosa residenza di Miami, Casa Casuarina. Fu ucciso da un serial killer, Andrew Cunanan, ma esistono ancora punti oscuri in questa morte, in primis il movente.

“È caduto ai piedi della villa che doveva essere il monumento alla sua vita e sarà invece, per sempre, il mausoleo della sua morte - scrisse all’epoca Vittorio Zucconi - È stato ucciso come un principe che stramazza nel suo stesso sangue a un passo dai suoi ori, dai suoi broccati, dai suoi vasellami, con la mano tesa verso il cancello mentre il sicario già gli punta alla nuca l'arma che l’ucciderà”.

L’omicidio Versace 

Nel 1997 Versace era uno dei grandi simboli del made in Italy. La sua carriera era stata fondata su una cifra stilistica unica, capace di affascinare alcune delle donne più in vista e potenti del mondo all'epoca, in primis Lady Diana, tra l’altro amica personale dello stilista che sarebbe scomparsa anche lei di lì a poco.

La mattina del 15 luglio 1997, Gianni Versace uscì di casa per una passeggiata, recandosi in edicola per acquistare giornali e riviste. Al suo rientro un uomo sconosciuto gli sparò due colpi alla nuca, fuggendo tra la folla e lasciando la sua ultima vittima vicino al portone di casa in un lago di sangue. Il primo a giungere, per chiamare i soccorsi, fu il compagno dello stilista, Antonio D’Amico, mentre qualcuno cercava di rincorrere il killer, che però si dileguò facilmente.

Chi era Andrew Cunanan 

Nel 1997 Andrew Cunanan, riconosciuto ben presto come l’assassino di Versace, aveva 27 anni. Viene descritto come un uomo di origini filippine colto e intelligente, che aveva sbarcato il lunario in diversi modi fino a quel momento, soprattutto sfruttando i suoi diversi alias costruiti nel tempo, facendo il mantenuto con alcuni omosessuali anziani e prestando favori sessuali a pagamento sempre con gay molto ricchi e in là con gli anni.

“Aveva abbandonato il college dalla California - si legge sul sito dell’Fbi - Era molto intelligente, parlava due lingue e fin dalla sua adolescenza aveva cercato di vivere una vita ricca e agiata. Aveva integrato i suoi guadagni con strani lavori qua e là prestando servizio come prostituto e impegnandosi in relazioni a lungo termine con omosessuali più anziani che avrebbero potuto inondarlo di regali e denaro”. Ma quello che non si sapeva pubblicamente fino a quel momento era che Cunanan fosse un serial killer: come riporta il Time, prima di Versace aveva ucciso 4 uomini.

Uno era un suo amico, Jeffrey Trail, 28 anni ed ex ufficiale di Marina, ammazzato a martellate. L’altro era un uomo di cui si era innamorato, un architetto 33 enne di nome David Madson, lasciato morire nei pressi di un lago in Minnesota. C’era poi Lee Miglin, 72 anni, marito di un'ex ballerina e famosa imprenditrice nel campo della cosmetica scomparsa nel 2022: l’uomo fu seviziato con un cacciavite e sgozzato con delle cesoie. Infine Cunanan uccise quasi per caso un custode cimiteriale, William Reese di 45 anni, per rubargli un pick up rosso che utilizzò per raggiungere la Florida.

Al momento dell’omicidio Versace quindi l’Fbi lo cercava già, ma il cerchio si strinse attorno al giovane killer solo dopo che uccise lo stilista. Al momento gli inquirenti pensavano che l’artista italiano fosse stato colpito da un sicario su commissione - il fatto che fosse appunto italiano fece ben presto pensare a un delitto di matrice mafiosa - ma ben presto gli indizi si rivolsero tutti su Cunanan.

Il New York City Gay and Lesbian Anti-Violence Project offrì una ricompensa a chi lo avesse catturato. L’assassino fu braccato in una caccia all’uomo che durò giorni. Alla fine, il 23 luglio 1997, Cunanan fu stanato in una casa galleggiante: l’uomo, vistosi braccato, si sparò un colpo di pistola in bocca, suicidandosi.

Un movente mai trovato 

Nessuno ha mai saputo perché Andrew Cunanan abbia ucciso Gianni Versace. Molte ipotesi sono state fatte sia nell’immediato che nel corso del tempo. C’è chi ha detto che il killer fosse diventato vendicativo pensando di aver contratto l’Hiv, ma quel che è certo è che Versace non fosse contagiato da quel terribile virus.

Non si sa neppure se ci siano stati mai contatti tra i due. La giornalista Maureen Orth ha ipotizzato in un libro, poi utilizzato nella seconda stagione di American Crime Story, che assassino e vittima abbiano avuto uno o due incontri casuali, durante i quali Cunanan avrebbe messo al corrente Versace delle proprie origini italiane - la madre di Cunanan era una donna italoamericana, che di cognome faceva Schillaci.

Sono tantissimi gli interrogativi sul caso che non sono mai stati spiegati. Qualunque segreto avesse l’assassino, se l’è portato nella tomba.

JONATHAN MAYO PER IL DAILY MAIL il 28 luglio 2022. 

Gianni Versace, 50 anni, è stato lo stilista più famoso e appariscente del mondo nel 1997. Nato a Reggio Calabria nel 1946, è diventato apprendista nell'attività di sartoria di sua madre da adolescente.

Nel 1978, aprì la sua prima boutique a Milano creando un marchio multimilionario che ha vestito alcune delle più grandi celebrità del mondo, tra cui la principessa Diana, Jennifer Lopez, Madonna, Elton John, Liz Hurley. 

Nelle parole dell'ex direttore di ‘’Vanity Fair’’ Tina Brown, Versace, con l'aiuto della sua amata sorella minore Donatella e del fratello maggiore Santo, "ha trasformato lo stile da prostituta in alta moda" introducendo un nuovo livello di gioielli di lusso, fortemente influenzato dalla sua passione per l'Antica Grecia, con design d'interni e arredi. 

Poi, nell'aprile del 1997, un prostituto di 27 anni di nome Andrew Cunanan si imbarcò in una follia omicida.

Domenica 27 aprile 1997

Sin dalla sua adolescenza in California, Andrew Cunanan ha vissuto una vita edonistica. Ossessionato dalla moda, bramava lo stile di vita ricco di molti dei suoi compagni di scuola - tra i quali era noto per le sue storie inverosimili e bugie - in un ricco sobborgo di San Diego. A metà dei suoi 20 anni ha spacciato droga, venduto merce rubata e ha lavorato come “marchetta”. 

Gli amici credevano che Cunanan avesse il potenziale per la violenza. Parlava spesso di andare in una "corsa omicida in cinque stati". 

Recentemente, Cunanan è diventato sempre più dipendente dalla cocaina-crack e dal suo comportamento irregolare. La polizia sarebbe poi arrivata a credere che potesse anche essersi convinto di essere sieropositivo.

Cunanan vola a Minneapolis dove litiga con un amico di 28 anni, Jeff Trail. Successivamente attira Trail nell'appartamento del suo ex amante, David Madsun. Lì prende un martello da carpentiere da un cassetto della cucina e picchia a morte Trail davanti a Madsun. Successivamente spara a Madsun, 33 anni, alla testa con la pistola di Trail, lasciando il suo corpo sulla riva di Rush Lake, Minnesota. 

Sabato 3 maggio

Cunanan guida per 400 miglia a Chicago fino alla casa dell'anziano promotore immobiliare Lee Miglin. Tortura Miglin, legandogli mani, piedi e testa con del nastro adesivo, prima di tagliargli la gola e pugnalarlo più di 20 volte con le forbici. Cunanan fugge a New York sulla Lexus di Miglin. Il movente dell'omicidio di Miglin, o se i due uomini si conoscessero, non è mai stato stabilito. 

Venerdì 9 maggio

GIANNI VERSACE

Cunanan desidera disperatamente scaricare la Lexus perché sa che lo collegherà a Lee Miglin, quindi guida nel New Jersey alla ricerca di un nuovo veicolo. Spara al 45enne custode del cimitero William Reese - una vittima casuale - e ruba il suo pick-up rosso. 

Cunanan guida quindi per 1.250 miglia fino a Miami, in Florida, dove sa che Gianni Versace ha una casa. Cunanan ha deciso che il famoso stilista sarà la sua prossima vittima. 

La polizia non è mai riuscita a stabilire un legame tra i due uomini, ma gli amici di Cunanan affermano che si erano conosciuti in un bar gay a San Francisco nel 1990, dove ebbero una breve conversazione. L'amico Anthony Dabiere ha detto che Cunanan tornò a casa quella sera "in alto come un aquilone per il suo fine settimana con Gianni Versace, parlando di tutte le cose che hanno fatto insieme, di tutto il trattamento sontuoso che aveva ricevuto". Era tutta una fantasticheria e l'inizio di un'ossessione fatale. 

Lunedì 12 maggio

Cunanan arriva a South Beach, Miami, e fa il check-in in un hotel economico, il Normandy Plaza, dando il nome falso di Kurt De Mars. Con il passare dei giorni il manager dell’albergo nota che Cunanan, che è sempre stato una specie di camaleonte, cambia costantemente aspetto indossando una varietà di parrucche. 

Cunanan passa il suo tempo a leggere e guardare materiale pornografico mentre aspetta che Versace arrivi a casa sua a South Beach. 

Giovedì 10 luglio

Gianni Versace sbarca a Miami per una vacanza di due settimane con il suo compagno da 15 anni, lo stilista e modello Antonio D'Amico. 

Versace era stato a New York per parlare con la società di gestione degli investimenti Morgan Stanley per far quotare la sua azienda in borsa. 

La coppia arriva a Casa Casuarina, la sua villa di 35 stanze a South Beach. Gianni ha acquistato la casa in rovina nel 1992 e l'ha trasformata in un palazzo italiano con incredibili giardini e fontane. Il suo amico Elton John una volta disse: "Gianni era così stravagante che io al confronto sembrava l'incarnazione della vita frugale e del sacrificio di sé". 

Venerdì 11 luglio

L'FBI ha ora collegato le uccisioni di Jeff Trail, David Madsun, Lee Miglin e William Reese a Cunanan e lo ha inserito nella loro lista dei Most Wanted, offrendo una ricompensa di $ 10.000 per le informazioni che portano alla sua cattura.

Cunanan ha finito i soldi, quindi è uscito da Normandy Plaza senza pagare il conto e ha vissuto nel furgone rosso rubato parcheggiato in un garage vicino a Casa Casuarina. 

In un fast-food di South Beach, il cameriere Kenneth Benjamin riconosce Cunanan dalla sua foto segnaletica nello show televisivo America's Most Wanted e chiama la polizia. Kenneth viene messo in attesa per così tanto tempo che quando arriva la polizia Cunanan se n'è andato. 

Più tardi quella notte Cunanan va al Twist, un famoso club gay di Miami. Sulla pista da ballo, un giovane gli chiede: 'Cosa fai?' Cunanan risponde: "Sono un serial killer!" e ride. 

Martedì 15 luglio

3:30: Gianni non riesce a dormire e scende al piano di sotto per telefonare al suo ufficio di Milano per parlare con l'amico e collega Franco Lussana dei piani per la nuova collezione. 

Poi chiama la sorella Donatella, 42 anni, all'Hotel de la Ville di Roma dove sta provando i modelli per uno show televisivo italiano chiamato ‘’Donna Sotto Le Stelle’’. 

Le fa così tante domande sullo spettacolo che Donatella dice con rabbia: "Gianni, non puoi aiutarmi da lì!" e riattacca. Dopo circa 20 minuti di ulteriori telefonate, torna a letto. 

Gianni ha molto per la testa e non solo affari. Ha litigato con una delle sue clienti più famose, Diana, Principessa del Galles. Aveva usato le foto di Diana e dei suoi figli William e Harry in un libro intitolato ‘’Rock And Royalty’’, in aiuto della Elton John's AIDS Foundation. 

Il libro includeva anche foto di modelli maschili seminudi. Diana era inorridita e si rifiutò di scrivere la prefazione. Elton le scrisse dicendo senza mezzi termini quanti soldi era costata alla sua fondazione. 

Diana rispose con una lettera formale e arrabbiata indirizzata a: 'Caro signor John . . .' 

Diana è ora in vacanza con Dodi Al Fayed su uno yacht di suo padre, il magnate di Harrods caduto in disgrazia Mohamed Al Fayed, nel Mediterraneo, con immagini e dettagli della controversa vacanza "romantica" che riempiono giornali e riviste di tutto il mondo.

8:15: Lasciando addormentato il suo compagno Antonio, Gianni si veste con una maglietta nera, pantaloncini a quadri grigi e bianchi e sandali neri. Prende la grande chiave dei cancelli di Casa Casuarina e parte per la sua normale passeggiata mattutina lungo Ocean Drive. Dall'altra parte della strada, Andrew Cunanan lo osserva, un berretto da baseball che gli copre il viso. 

8:30: Gianni entra in un negozio chiamato News Cafe e compra alcuni giornali e riviste, tra cui il New Yorker e Vogue. 

Ama avere riviste sparse per casa: le usa come ispirazione e le copre con post-it pieni di idee. 

Di ritorno a Casa Casuarina, il vicino e amico di Gianni, Lazaro Quinana, arriva per giocare a tennis con Antonio, che sta prendendo un caffè in veranda. 

8:45: Gianni torna a casa e raggiunge i gradini della sua magione. Dall'altra parte della strada, Andrew Cunanan si alza ed estrae la pistola calibro 40 che ha rubato alla sua prima vittima, Jeff Trail. 

Gianni sorride alla passante Mersiha Colakovic, italiana residente part-time a South Beach, e tira fuori la chiave per aprire i cancelli. 

Cunanan cammina dietro Gianni, allunga il braccio dritto e spara a Gianni sul lato sinistro del collo. È così vicino che la polvere da sparo segna la pelle di Gianni. Il proiettile gli recide istantaneamente il midollo spinale, rimbalza sul cancello di metallo e poi, in una bizzarra svolta, uccide un piccione sul marciapiede.

Un uccello morto è un simbolo della mafia, quindi questo in seguito porta a false speculazioni sul coinvolgimento della mafia nell'omicidio. 

Gianni cade a terra e Cunanan spara ancora, questa volta in faccia, il proiettile che gli si conficca nel cranio. Mersiha Colakovic, a meno di 10 piedi di distanza e l'unico testimone, osserva sbalordito l'assassino che mette la sua arma in uno zaino e se ne va con calma. 

"Cunanan ha continuato per la strada come se niente fosse", ha detto. (Inizialmente, la signora Colakovic ha richiesto uno pseudonimo quando ha rilasciato la sua dichiarazione alla polizia perché, è stato riferito, temeva che fosse stato un colpo di mafia.)

Il sangue ora scorre giù per i gradini della villa.

8:46: Lazaro Quinana corre fuori dai cancelli e trova Gianni sdraiato a faccia in giù. Viene rapidamente raggiunto dal partner di Versace, Antonio, che ha detto in seguito: "A quel punto, tutto è diventato nero. Sono stato trascinato via, non ho visto più.' 

Lazaro controlla il battito di Gianni e poi grida: 'Chi ha fatto questo? Chi ha fatto questo?' Mersiha Colakovic indica Cunanan che ora è a circa un isolato di distanza. 

Antonio grida: 'Laz! Vai a prenderlo!' Lazaro corre per la strada gridando: 'Bastardo! Fermatelo!' Cunanan inizia a correre e si infila in un vicolo, e Lazaro lo segue, ma quando Cunanan si ferma e gli punta la pistola, indietreggia.

8:48: Uno del personale di Casa Casuarina chiama i servizi di emergenza sanitaria: 'Un uomo è stato colpito. È Gianni Versace. Abbiamo appena sentito degli spari e siamo usciti. È sui gradini di casa'. 

Cunanan raggiunge il pick-up rosso dove ha dormito. Si cambia i pantaloncini e la maglietta e si mette dei vestiti nuovi. Il piano di Cunanan era quello di fuggire nel camion, ma vede un'auto della polizia e decide di scappare a piedi.

8:55 : Un'ambulanza arriva a Casa Casuarina e, sebbene i paramedici non riescano a trovare segni vitali, fissano un tutore al collo di Gianni Versace e tentano la rianimazione. 

La polizia impedisce ad Antonio di salire sull'ambulanza perché ha bisogno che descriva loro l'assassino. Gianni viene portato al Jackson Memorial Hospital di Miami. Sui gradini insanguinati viene lasciato un unico sandalo nero Versace.

9:15 : A Milano, il fratello maggiore di Gianni, Santo, riceve una telefonata da un assistente che ha sentito che il designer è stato colpito da una fucilata. Santo dice subito a Donatella: "Un pazzo ha sparato a Gianni, ma stai tranquillo che sta già andando in ospedale e loro si prenderanno cura di lui". Santo inizia a capire come far rimpatriare Gianni in un ospedale in Italia. 

Nel 1978 stava aprendo la sua prima boutique a Milano e ha continuato a creare un marchio multimilionario che ha vestito alcune delle più grandi celebrità del mondo.  

Nel 1978 stava aprendo la sua prima boutique a Milano e ha continuato a creare un marchio multimilionario che ha vestito alcune delle più grandi celebrità del mondo.

9:21 : I medici del Jackson Memorial Hospital dichiarano morto Gianni Versace. Antonio è così sconvolto che deve prendere un sedativo. La polizia di Miami ha trovato il pick-up rosso e la pila di vestiti di Cunanan ancora bagnati di sudore. 

All'interno del veicolo ci sono il passaporto di Cunanan, proiettili e un biglietto del banco dei pegni per una moneta d'oro rubata alla sua terza vittima, la casa di Lee Miglin. 

9:30 : Donatella Versace chiama l'ospedale di Miami e le viene detto che suo fratello è morto. Urla così forte che le modelle fuori dall'Hotel de la Ville la sentono. Donatella sviene e Santo la aiuta a portarla nella sua suite attico.

10:00 : Decine di spettatori si accalcano intorno all'ingresso di Casa Casuarina. Uno dello staff di Gianni sta pulendo i gradini. 

Presto diventano un memoriale improvvisato ricoperto di carte e fiori. Nel frattempo, gli hacker stanno cercando di entrare nei computer del Jackson Memorial Hospital per rubare le cartelle cliniche di Versace.

A Roma, 30 guardie del corpo scortano Donatella e Santo attraverso una mischia stampa fino a una limousine che li porterà su un jet privato diretto a Miami. 

11:00 : John Reid, il manager di Elton John, gli telefona nella sua casa per le vacanze nel sud della Francia per dirgli che Gianni è stato assassinato. Elton scrisse in seguito: "Ho acceso la TV in camera da letto e mi sono seduto lì, a guardare il servizio, a piangere". 

Gianni e Antonio sarebbero dovuti partire per stare con Elton e il suo partner, David Furnish, la settimana successiva. 

La notizia dell'omicidio raggiunge la principessa Diana sullo yacht di Al Fayed. È scioccata e sconvolta e crede che Versace sia stato ucciso da un terrorista. 

Diana dice alla sua guardia del corpo Lee Sansum: "Pensi che mi faranno questo?" 

Diana chiama Elton per chiedergli come sta affrontando la tragica notizia e si scusa per la loro lite: "Mi dispiace, è stato uno sciocco litigio. Restiamo amici.' 

18:00 : A Miami, la dottoressa Emma Lew, medico legale, esegue un'autopsia sul corpo di Gianni Versace. La polizia ha anche portato il piccione morto, quindi esamina l'uccello, trovando minuscoli frammenti di metallo del proiettile nei suoi occhi.

Ormai la polizia ha controllato le targhe di immatricolazione del pick-up rosso di William Reese. Il veicolo e il suo contenuto, oltre a una descrizione dell'uomo armato, indicano che Andrew Cunanan è l'assassino. Viene lanciata una caccia all'uomo a livello nazionale e la polizia e l'FBI cercano di trovare un motivo per l'omicidio di Versace. 

3:30 : Donatella e Santo arrivano a Casa Casuarina dall'Italia, dove i giornali sono dominati dalla morte di Gianni Versace.

Scrive La Repubblica: «Fu ucciso come un principe adagiato nel proprio sangue, con una mano tesa verso i suoi dipinti a olio, i suoi arazzi, il suo oro». 

Casa Casuarina è ancora circondata da folle, spettatori, troupe televisive, stampa e fan in lutto.

mercoledì 16 luglio

10:00 : il corpo di Gianni è stato portato dall'obitorio dell'ospedale al Riverside Gordon Funeral Home a Miami. Donatella e Santo ricevono gli effetti personali del fratello morto: $ 1.173,63 in contanti e una piccola immagine della Vergine Maria. 

Donatella veste il corpo del fratello pronto per la cremazione. La velocità con cui il corpo di Gianni viene cremato porta a ipotizzare che lo stilista fosse sieropositivo e che i suoi fratelli volessero evitare qualsiasi test per mantenere segreta la sua malattia e proteggere il loro marchio di moda.

La famiglia Versace ha negato con veemenza che Gianni fosse sieropositivo. Quella notte, quando tutti se ne sono andati, Donatella apre i cancelli di metallo di Casa Casuarina e bacia il punto in cui è stato ucciso suo fratello. 

Martedì 22 luglio

18 : Una settimana dopo l'omicidio, stanno per iniziare i funerali di Gianni Versace al Duomo di Milano. 

L'edificio è gremito di nomi famosi del mondo della moda, della musica, del cinema e del teatro. L'Aga Khan è lì, così come la top model Naomi Campbell insieme ai colleghi designer di Versace Giorgio Armani e Karl Lagerfeld. 

Donatella ha detto: 'Gianni è stato ucciso come un cane randagio. Voglio che abbia un funerale degno di un principe».

Centinaia di poliziotti e uomini della sicurezza circondano l'edificio. Una principessa Diana in lacrime è seduta accanto a un sconvolto Elton John e viene fotografata mentre lo conforta accarezzandogli la mano; entrambi indossano Versace in omaggio al loro amico. Tra sole sei settimane, Elton suonerà Candle In The Wind al funerale di Diana presso la Cattedrale di St Paul. 

A Elton e Sting è stato chiesto dalla famiglia Versace di cantare il 23° Salmo, Il Signore è il mio pastore, ma la gerarchia della cattedrale non è contenta che due non cattolici si esibiscano e quindi li ‘’interroga’’ prima della funzione per vedere se sono "adatti". '.

Elton ha scritto: "È stato orribile, come essere trascinato fuori davanti alla scuola dal preside durante l'assemblea". 

Alla fine, i sacerdoti danno il loro permesso e Sting ed Elton cantano, mentre Donatella e Santo piangono. 

A migliaia di chilometri di distanza negli Stati Uniti, continua la caccia all'uomo di Andrew Cunanan. 

mercoledì 23 luglio

15:35 : A Miami Beach, a circa cinque miglia da Casa Casuarina, un custode di nome Fernando Carreira e sua moglie stanno controllando una grande casa galleggiante azzurra di cui si prendono cura per un cliente. 

La serratura della porta d'ingresso è rotta e tutte le luci del soggiorno sono accese; i cuscini sono sparsi sul pavimento. Fernando dice a sua moglie: "Qualcuno è qui, proprio ora". 

Improvvisamente c'è uno sparo al piano di sopra e la coppia fugge, convinta di essere stata colpita. 

Mentre gli elicotteri televisivi sorvolano la casa galleggiante, una squadra SWAT della polizia arriva per stanare l'assassino. Ma una volta dentro scoprono Andrew Cunanan sdraiato sul letto in una pozza di sangue.

Si era sparato in bocca, usando la pistola che aveva usato per uccidere Gianni Versace. 

Andrew Cunanan non ha lasciato un biglietto d'addio, così tante domande sulla sua follia omicida sono rimaste senza risposta. La polizia ipotizza che credesse di essere già condannato a morte per essere sieropositivo e sentiva di non avere nulla da perdere per i suoi atti atroci.

Antonio D'Amico lavora ancora come stilista e vive con il suo compagno nella campagna italiana. 

Dopo la morte di Gianni, Donatella ha assunto il ruolo di direttore artistico del marchio, posizione che mantiene ancora oggi. 

Fu devastata dall'omicidio di suo fratello e disse a Elton John: "La mia vita è come la tua candela nel vento! Voglio morire!' Elton l'ha aiutata a liberarsi dalla dipendenza da cocaina e pillole.

Oggi, Versace rimane un marchio di moda leader a livello mondiale e ha un valore di oltre 670 milioni di sterline.

Santo Versace: «Io e Gianni eravamo pronti a firmare la fusione con Gucci». Stefano Righi su Il Corriere della Sera il 14 Luglio 2022.

«Eravamo due facce della stessa medaglia». Il progetto era estremamente ambizioso e li avrebbe portati in cima al mondo dell’industria della moda.

Il 15 luglio 1997 sui tre gradini davanti a Casa Casuarina, a Miami Beach, in Florida, non morì soltanto Gianni Versace , fenomenale talento creativo della moda italiana, ma anche uno straordinario progetto finanziario e industriale che avrebbe probabilmente cambiato il volto e gli equilibri internazionali nel mondo della moda.

Quel maledetto martedì

Quel giorno era un martedì. La settimana precedente, venerdì 11 luglio, a Milano, negli uffici della Versace in via Manzoni 38, Santo Versace, presidente del gruppo, aveva firmato con la banca americana Morgan Stanley un accordo per portare in quotazione, nella primavera successiva, il gruppo Versace attraverso un accordo con Gucci, allora guidata da Domenico De Sole e Tom Ford. L’accordo venne firmato da Santo Versace e da Galeazzo Pecori Giraldi, che aveva al suo fianco Paola Giannotti de Ponti. In quella medesima occasione Versace, davanti ai due banchieri, telefonò a Pier Francesco Saviotti, allora amministratore delegato della Banca Commerciale Italiana con il quale si sarebbe dovuto incontrare la settimana successiva. Il progetto prevedeva infatti che Morgan Stanley e la Commerciale Italiana sarebbero stati i due lead del progetto di quotazione, a cui avrebbero partecipato, come co-lead, anche il Credito Italiano e Barclays. Il progetto era estremamente ambizioso e prevedeva la quotazione in Borsa della Versace nella primavera 1998.

L’acquisizione di Gucci per arrivare in cima al mondo

«Era un progetto straordinario — dice oggi Santo Versace, 77 anni —, che ci venne sottoposto da Morgan Stanley. Dal capitale di Gucci erano da poco usciti gli arabi di Investcorp e il momento era propizio per creare un polo mondiale del lusso a matrice italiana. Gucci era una vera public company. All’idea lavoravamo dal 10 marzo ’97. La quotazione sarebbe avvenuta a maggio ’98, tramite un aumento di capitale della Gucci e il conferimento della Gianni Versace. Il gruppo non sarebbe stato scalabile e sarebbe nata la prima realtà italiana, con marchi complementari e separati e una grande integrazione industriale. Gianni non si occupava di finanza aziendale, non ne voleva sapere. Era solo preoccupato di dare un futuro al gruppo. Dove vuoi che sia la Gianni Versace fra vent’anni, gli chiedevo? E lui: insieme a te, in cima al mondo. Per questo la quotazione piaceva a tutti».

Azienda famigliare nata nel 1972

Il rapporto tra i fratelli era molto stretto. L’azienda, una accomandita semplice, venne costituita a Reggio Calabria alla fine del 1972. Quattro i soci: Gianni, Santo e i loro genitori, Antonino e Francesca, lei sarta, lui commerciante. «Donatella inizialmente non c’era — spiega Santo — perché minorenne, andava ancora al liceo». Santo si era laureato in Economia e commercio nel 1968 a Messina e appena rientrato dal servizio militare come ufficiale di cavalleria aprì uno studio di commercialista.

«Il primo contratto da stilista di Gianni lo stesi io»

«Gianni firmò il suo primo contratto da stilista con Florentine Flowers, un’azienda di Lucca. Lo stesi io — ricorda Santo —. Poi arrivarono gli accordi con Callaghan, Genny, Complice, Alma, Spazio. Gianni era richiestissimo. Io lo seguivo facendo la spola, ma già allora mi portava via un terzo del mio tempo. Fu così che mi convinsi, tra la fine del 1976 e l’inizio del ’77 che era arrivato il momento di realizzare una linea autonoma, che portasse il nome di Gianni. Non era semplice. Ma trovai in Paolo Greppi, che a Novara aveva Callaghan e in Arnaldo Girombelli, che ad Ancona aveva Genny, Complice e Byblos, due partner importanti. Greppi e Girombelli erano pronti ad aiutarci, mettevano a disposizione le linee produttive, ma vollero che io mi trasferissi a Milano per occuparmi di tutto. Così lasciai Reggio e affiancai quotidianamente Gianni. Lui si occupava della moda, delle collezioni, io di tutto il resto. Eravamo due facce della stessa medaglia, una mela tagliata a metà. Aprimmo la prima boutique al 20 di via della Spiga in franchising nel marzo 1978, prima ancora della sfilata inaugurale della nostra maison: fu un successo incredibile».

La sorella Donatella comincia ad affiancare Gianni

Il gruppo era organizzato in quattro società. Due erano produttrici, dove i soci industriali avevano il 60 per cento, una si occupava di distribuzione e qui erano i Versace in maggioranza e poi c’era la holding Gianni Versace, interamente controllata dalla famiglia. «Negli anni entrò in società anche Donatella, che affiancava Gianni nella parte creativa. Erano i due vice presidenti, con deleghe operative, mentre dal ’72 al 31 dicembre 2018, quando vendemmo al gruppo Capri holdings, io sono stato l’unico presidente del gruppo e fino alla morte di Gianni anche l’unico amministratore delegato e direttore generale».

Morì un talento o straordinario talento e un visionario progetto

L’avventura dei Versace, una galoppata di 25 anni iniziata nel 1972 e conclusasi sui tre gradini di Casa Casuarina, fu un successo globale. Rivoluzionò il mondo della moda, della comunicazione, svelò il corpo dello star system e creò l’idea della top model. Nel 1997 il gruppo sfiorò i mille miliardi di lire di fatturato, fermandosi a quota 973, oltre 502 milioni di euro. «Eravamo nel pieno della forza creativa di Gianni — conclude Santo —. Quell’anno pagammo 104 miliardi di lire di imposte e l’accordo con Gucci ci avrebbe dato un’ulteriore spinta alla crescita». Due colpi di pistola interruppero il sogno.

Ottavio Missoni. «L’eleganza di Ottavio Missoni mentre mimava i suoi tuffi da ragazzo». Mauro Covacich su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

Mauro Covacich racconta lo stilista: antiretorico e curioso, sapeva ascoltare. «Mi chiedeva di Trieste: si va ancora a ballare in quel posto? È rimasta quella pasticceria?». «Gli ho chiesto di Zara e ha perso l’allegria: “Non esiste più, esiste solo dentro di me”» 

Si dice bello come un dio greco, ma si potrebbe dire tranquillamente bello come un dio dalmata se solo i dalmati avessero una mitologia adeguata. Lui comunque tra gli dei dell’Olimpo non avrebbe sfigurato per niente. La bellezza però avrebbe significato poco o nulla, se non fosse stata portata con la sua eleganza. E qui è necessario soffermarsi un attimo su che cos’è l’eleganza, anche per non essere equivocati, vista la professione di Ottavio Missoni.

L’eleganza c’entra poco con l’alta moda e gli abiti firmati, in particolare c’entra poco con la sua, quasi mai impreziosita da capi impegnativi: l’unica volta che ha dovuto indossare un completo blu per salire al Quirinale è entrato a comprarselo in un negozio Armani. L’eleganza di Missoni traspariva in ogni suo gesto, era la naturalezza con cui parlava del suo passato modesto, la semplicità con cui ammetteva di non praticare l’ambiente della moda, la sprezzatura con cui ascoltava chi tesseva le lodi del suo impero.

L’incontro

Ci siamo conosciuti una mattina in un teatro di Milano, invitati entrambi a un cosiddetto evento, organizzato perché parlassimo agli studenti del nostro rapporto con lo sport. Io venivo da un’assidua quanto mediocre pratica di maratoneta, lui era stato un campione della pista, aveva vinto vari titoli italiani, un campionato mondiale studentesco e nel 1948 era entrato in finale alle Olimpiadi di Londra. Nella sua Zara, sull’altra sponda dell’Adriatico, aveva imparato a correre i quattrocento piani, detti non a caso il giro della morte, e poi si era avventurato sui quattrocento ostacoli (il giro della morte più ostacoli), cioè due discipline tra le più difficili e tecniche dell’atletica leggera, per le quali è necessaria una preparazione maniacale, salvo che tu non sia dotato di un talento naturale così straordinario, diciamo alla Usain Bolt, da poterti allenare lo stretto indispensabile. Ma lui al suo talento guardava con indifferenza, sorridendo sornione quasi non valesse la pena soffermarcisi. Diceva che era cresciuto in mezzo a gente, i dalmati, la cui mentalità non vedeva di buon occhio chi si ammazzava di fatica. In generale la gente di mare, lo dico da triestino, ha una certa resistenza verso attività troppo stancanti, tipo allenarsi, o anche solo lavorare, è tutto tempo sottratto al sole, alla spiaggia, ai mille piaceri della vita.

La confidenza

In quell’incontro, dopo qualche tentennamento in italiano, mi aveva confessato in dialetto che lui non aveva studiato tanto, perché quand’era bambino succedeva spesso che sua madre, vedendolo dormire saporitamente, decidesse di non mandarlo a scuola. Ma questo, secondo me, era uno dei tanti modi che aveva per schermirsi, allegre iperboli, esagerazioni pour épater le bourgeois, e comunque il dialetto, pressoché identico al triestino, lui lo usava con disinvoltura ogni volta che il discorso prendeva una piega troppo pomposa e richiedeva di essere sdrammatizzato. Anche questa specie di antiretorica atteneva alla sua eleganza. A un certo punto, ad esempio, quando il moderatore lo aveva interrogato su quali erano i suoi insegnamenti ai ragazzi e quali le sfide che aveva dovuto affrontare nel corso della sua lunga esistenza, lui aveva risposto: «Mah, io di sfide non ne ho fatte. Ho sempre vissuto alla giornata. Tutto è avvenuto poco per volta, piano piano, senza porsi alcun traguardo, cercando di non complicarsi troppo la vita».

Dopo l’impegno pubblico, a cui si era presentato in jeans e scarpe da ginnastica — il collo della maglietta un po’ allentato, un tocco di maestosa trascuratezza —, pensavo dovesse volar via, costretto da un’agenda chissà quanto fitta, invece mi ha portato in un bar lì vicino e ci siamo messi a chiacchierare. Era Trieste ovviamente, non certo la corsa, il vero punto di contatto.

Le domande

Mi sommergeva di domande. C’era ancora quella tal pasticceria? Si andava ancora a ballare in quel posto? Si facevano ancora i tuffi a quel modo («a clanfa»)? Eravamo entrambi colpiti per come un tuffo inventato dai ragazzi chissà quanto tempo fa, prima anche di quando lui stesso si tuffava, fosse sopravvissuto e trasmesso di generazione in generazione nei gesti della gioventù, fino a quella che frequenta ancora oggi gli stabilimenti triestini. Lui ha anche mimato la posizione con le braccia, abbiamo riso di gusto insieme.

Aveva vissuto a Trieste tra il 1946 e il 1953, negli anni del protettorato americano, quando la città si risollevava dalla guerra tuffandosi in un’avventura esotica fatta di blue jeans, jazz e mercato nero di altre novità yankee. Lui era appena uscito dai quattro anni di prigionia in Egitto come soldato italiano e aveva messo in piedi insieme a un amico una piccola maglieria dove, immagino anche grazie ai suoi meriti sportivi, confezionava le tute della nazionale. Non era certo uno stilista. «Ma neanche dopo, sa? I disegni, le forme, i modei... ga sempre fato mia moglie, che ga el merito de averme fato vinir voja de lavorar. Mi fazevo i acostamenti dei colori, fazevo i zigzag».

Aveva il vezzo di non prendersi troppo sul serio, ma forse, più che un vezzo, era una lezione di vita. Dire di non essere uno stilista era il modo migliore per mostrare il suo stile. «Mi de la moda non so niente» ripeteva. Riguardo a quella che immagino sia l’invenzione che ha reso celebre la sua maison, unire nello stesso capo tessuti e colori diversi, diceva: «Lori lo ciama put together , mah — e faceva il gesto di scacciare una mosca —, in realtà xe un mismas! E cosa non xe bel el mismas? Varda i pastori, i xe sempre vestidi put together».

L’allegria incrinata

Ma nell’occasione del nostro incontro, al contrario di quello che potrebbe far pensare ciò che sto dicendo, non parlava solo lui, anzi, in prevalenza ascoltava. Era incuriosito, un uomo pieno di curiosità, voleva sapere di me, cosa combinavo, come mi andavano le cose, perché mi ero allontanato da Trieste, se ci tornavo ancora. Mi incalzava come un ragazzo. Se iniziavo una domanda, lui, prima ancora che la finissi, mi diceva: «dime, dime».

L’unico momento in cui l’allegria del suo sguardo si è un po’ incrinata è stato quando gli ho chiesto di Zara. «Ah, Zara no esisti più, la esisti solo qua dentro» e si è toccato la testa. Ho commesso un’indelicatezza, me ne sono accorto troppo tardi, il fatto è che a me la nuova Zara piace molto. Chissà se mi perdonerà?, ho pensato.

Quando siamo usciti dal bar ed è venuto il momento di salutarci, aspettavo che mi tendesse la mano, per un attimo ho anche temuto che si limitasse a un cenno distratto e via, invece, cogliendomi totalmente alla sprovvista, con la spontaneità di un compagno di squadra, mi ha abbracciato.

Calvin Klein, il re del minimal compie 80 anni. Con il suo stile essenziale ma ricco di sex appeal, ha portato la moda americana nel mondo: tra capi iconici e pubblicità controverse, ripercorriamo la storia dello stilista Calvin Klein per celebrarne l'ottantesimo compleanno. Giulia Mattioli su La Repubblica il 190 Novembre 2022.

Si dice che il primo buyer si sia recato nel suo atelier per sbaglio, e che abbia acquistato un numero consistente di cappotti confondendoli con quelli di un altro marchio. Il trampolino di lancio della fulgida carriera di Calvin Klein sarebbe dunque stato un errore, ma ben presto la società newyorkese - e poi il mondo intero - si sarebbe accorta che i suoi capi meritavano davvero di essere acquistati e indossati.

Giorgio Armani. Giorgio Armani, l’autobiografia: «Io brucio nel ghiaccio».  PAOLA POLLO su Il Corriere della Sera il 19 Novembre 2022.

Rizzoli manda in libreria martedì 22 novembre «Per amore», racconto a frammenti del maestro nato a Piacenza ed entrato nel mondo della moda nel 1975, per poi conquistarlo. Il privato, gli affetti, la creatività

Il re è nudo. Ma lui lo sa. Ha voluto spogliarsi agli occhi di quel mondo che di solito veste per raccontarsi, almeno una volta nella vita, per come realmente è. Perché ora? «Per amore». Che è anche il titolo, spiazzante, di questo libro firmato Giorgio Armani. «Chiunque prenda in mano questo volume, sono certo — già sa, lo “scrittore” — resterà sorpreso dal titolo, così morbido, oserei dire romantico, sentimentale. Così poco armaniano, in fondo». Una disamina che è consapevolezza di un sé che non si è mai perso: «Ho un’età sufficiente per non dover spiegare il mio modo di porgermi e comunque non l’ho mai fatto perché ciascuno è come è». E rubando la definizione al pittore Vasilij Kandinskij, Giorgio Armani materializza il suo modo di essere in una frase: «Sono come un pezzo di ghiaccio entro cui brucia una fiamma».

Il libro uscirà dopodomani, edito da Rizzoli. Un’autobiografia nata dalla costola di un coffee-table book per i 40 anni del marchio, dove le immagini, necessariamente, nascondevano il racconto, ma non per molto. Giusto dar loro spazio in un libro che, senza bisogno di infiocchettature, ha la stessa forza di un romanzo e che dagli anni del fascismo arriva sino ai giorni della pandemia. Ci sono scorci sociali, politici, umani così come lo stilista li ha vissuti. Non c’è un ordine temporale. Volendo il lettore può scegliere i capitoli dalle parole che li separano: Io, Fare moda, Parlare chiaro o Incontrare le star. Ma la sensazione non cambia: l’impressione è quella di avere fra le mani un romanzo che è come una lunghissima lettera d’amore («di espressione, di visione, di gusto e di stile») dedicata a chi con l’uomo e lo stilista ha percorso la stessa strada: la famiglia, gli amici, le donne e gli uomini.

L’incipit è pulito, la data di nascita: «Sono nato l’11 luglio del 1934, a Piacenza, una città di duemila anni e più, sulle rive del Po». Poi l’infanzia, l’arrivo a Milano, il servizio militare, la scelta di medicina e gli anni in Rinascente. I (primi) incontri fondamentali: con Nino Cerruti, una donna misteriosa e il socio Sergio Galeotti. La nascita del marchio e in pochissimo tempo il successo, la copertina di «Time» e un impero. Sino all’oggi e (a sorpresa) al dopo. Sullo sfondo la moda, naturalmente, ma per l’autore resta «un racconto di vita». «Questa è la mia storia, questi sono i miei valori», comincia ad annotare nella prefazione. E no, questo «non è un manuale, e non l’ho immaginato come tale, ma mi piacerebbe che da un documento tanto singolare nascesse in chi lo sfoglia una scintilla... per trovare una direzione nella vita e seguire la passione», chiude il finale.

Al centro, quel lavoro inaspettato per chi conosce Armani, un uomo che della riservatezza ha fatto uno dei punti di forza. «Sono concentrato e controllato, ma dietro c’è un’indole sanguigna e sensibile. Ho solo imparato a proteggermi, altrimenti il mondo avrebbe potuto approfittarne. Sono schivo e riservato. Alle feste e agli eventi mondani ho sempre preferito il mio studio, dove ancora oggi sono il primo ad arrivare e l’ultimo ad andar via», scrive. «Penso anche che il mio cinismo nei confronti della vita sia una sorta di difesa». Ma proprio tenendo nell’animo la considerazione di cui sopra, ci si rende conto, una riga dopo l’altra, che l’uomo e lo stilista non si tradiscono e a vincere è quella coerenza che ne ha fatto una delle persone più amate e ammirate al mondo: mai e poi mai oltrepassa la soglia che potrebbe sconfinare oltre, arrivando alla morbosità. Con leggerezza e sensibilità, e rispetto per sé e per gli altri, qui Armani riesce a raccontarsi quasi tutto, lasciando comunque qua e là angoli giustamente nascosti. E non si toglie neppure sassolini scomodi. Non ne ha bisogno. Non fa per esempio i nomi di quel politico italiano e di quell’importante imprenditore francese che non lo aiutarono nel 1998 a risolvere una situazione delicatissima, con 1.200 persone bloccate fuori dallo show in boulevard Saint Germain a Parigi. Forse la più grande delusione subita.

Armani vola alto. Racconta, ringrazia ed elogia. Ci sono fermezze e tenerezze, dolori e gioie. Per la prima volta parla dei giorni di sofferenza e disperazione accanto all’uomo con il quale cominciò tutto, Sergio Galeotti, e che si ammalò e se ne andò all’improvviso nel 1985, alla vigilia di un Ferragosto maledetto. O del rapporto con i suoi nipoti («non sono mai stato lo zione con cui giocare, ma ne sono diventato il padre»), elogiandoli a uno a uno: Silvana e Roberta Armani e Andrea Camerana, figlio della sorella Rosanna, una donna fra le più importanti nella vita di Giorgio Armani. Ci sono le sue meravigliose case, i luoghi del cuore, che lui vive per davvero, non inutili rappresentanze: da Pantelleria a Broni nel Pavese, dall’Engadina ad Antigua e a Forte dei Marmi e poi Milano, via Borgognone. La sua passione per lo sport. «Non ho mai fatto uso di droghe, non sono mai nemmeno caduto nella trappola del fumo. Eppure sono umano, non un monaco zen. Non ho mai cercato il piacere artificiale. L’adrenalina del lavoro per me è meglio di ogni allucinazione e stordimento procurato. È un vero orgasmo, se mi si passa il termine, un po’ forte ma efficace».

Una lezione di pudore e privacy a una società che dello show off ha fatto un credo cui Armani non si è mai convertito. «La fama l’ho sempre accettata come un obbligo, come la conseguenza di un grande impegno... Sono sempre stato troppo pragmatico per perseguirla come un gingillo o esibirla come un gioiello sfavillante». Non si tira indietro però in nessuna delle risposte che contano, persino a quella domanda che tutti non osano mai fargli, ma che lui intuisce. «Anche io un giorno dovrò cedere il comando e concludere il mio percorso di stilista: non avverrà nell’immediato, ma ci penso da tempo, perché voglio che il frutto di tanta fatica, questa azienda alla quale ho dato tutta la mia vita e tutte le mie energie, vada avanti, a lungo, anche senza di me. Il piano di successione l’ho preparato con il mio usuale programmatico pragmatismo e la mia grande discrezione, ma non lo rivelo adesso, perché ci sono ancora». Ma è in Per amore che nomina ufficialmente i «suoi fidi luogotenenti»: Silvana e Leo. L’amata nipote e il suo «braccio destro»: «In realtà si chiama Pantaleo (Dell’Orco ndr)... è la persona cui ho affidato i miei pensieri più privati, personali, di lavoro e non, che ha saputo tenere per sé con grande riserbo. Grazie Leo!».

Il qui e ora, perché la pandemia ha suonato per lui come una sveglia, un campanello di allarme: «Nessuno si è potuto sottrarre. Ho molto riflettuto e ho agito prontamente, ritrovandomi vicino alla gente come non mai. Questa vicinanza mi ha indotto a ripensare il libro, ad arricchirlo, facendo un documento molto personale: di impegno, dedizione, visione». Eccolo, lo scopo. Lasciare il segno. Non è forse questo il karma che il destino ha voluto per Giorgio Armani? Più che assegnato, trovato: «Del sacro fuoco della moda, quello di cui si parla quando si motivano le scelte di un creativo del settore — dice sorridendo sui racconti di altri colleghi — nessuna traccia. So che quanto sto dichiarando può provocare una specie di delusione in chi si aspetterebbe il contrario, ma voglio essere sincero. All’epoca non c’era alcun tipo di legame con la moda stessa e tantomeno avevo mai respirato l’aria di un atelier».

Fu grazie a donne speciali come sua mamma Maria o sua sorella Rosanna («lei è aliena a ogni banalità»), ma anche amiche per caso, che Armani capì il suo destino: «Fu l’ennesimo incontro con una donna (che resta anonima, ndr) a farmi scegliere un’altra strada professionale (sino a quel momento era solo un compratore, ndr), quella che sarebbe stata la mia. L’ho incrociata in corridoio, da lontano ne sentivo il profumo: intenso, indimenticabile, ondeggiava con la sua pelliccia di visone selvaggio… era la bellezza per eccellenza, ma anche molto discussa». Le osservava, le donne, eccome. A tal punto da decidere di volerle aiutare. Loro e gli uomini: «Il mio scopo nella moda era quello di rendere meno severa e rigida la figura maschile e meno manierata quella femminile, mantenendo però il tono elegante, la distinzione, quel farsi notare dalla testa e dalla stima di sé».

Il cinema come contenitore di ispirazione, ma anche le culture, le storie. «Sull’osservazione del reale io, invece, ho costruito il mio impero. Fin da subito ho rifiutato la figura, fuori del tempo, dello stilista chiuso nella sua torre d’avorio a pensare abiti stupendi per donne privilegiate». Dietro l’angolo, sempre il confronto, fondamentale. Per correggersi ed evolvere. «Crescere non vuole dire altro che adattare il mondo perfetto delle idee a quello imperfetto della realtà. Ci vuole una vita per farlo, ma alla fine ci si riesce». E la parola fine? «Questo lavoro è per me la vita, è un atto continuo di amore e trasmetterlo al mio pubblico in forma così intima e diretta, pure. E qui per davvero metto il punto. Per ora».

Per amore (Rizzoli, pp. 208, euro 19,90; in libreria da martedì 22) nasce da un libro illustrato edito nel 2015 da Rizzoli. Giorgio Armani ha rivisto e aggiornato il testo e ne ha fatto un’autobiografia, accompagnandola con fotografie personali. Giorgio Armani (Piacenza, 1934) nel 1975 fondò l’omonima azienda. Nel 2015 ha aperto a Milano lo spazio espositivo Armani Silos. È proprietario della squadra di basket dell’Olimpia Milano 

Maria Giulia Comolli per “Chi” il 31 luglio 2022.

Ottantotto. Sono 88 le candeline che Giorgio Armani ha spento lo scorso 11 luglio... sempre che si sia concesso una torta, lui che alla dieta è attentissimo da decenni. In ogni caso è facile pensare che il grande stilista non si sia soffermato granché su questo numero, per festeggiare altre cifre: negli ultimi giorni si è saputo che il fatturato netto del suo impero ha superato i 2 miliardi di euro, in crescita rispetto all’anno scorso come rispetto al precedente e, clamorosamente, in gran crescita anche rispetto al periodo pre pandemia. 

Il commento, compassato come nel suo stile, è stato: «Il mio gruppo ha dato prova di essere in salute, dal punto di vista patrimoniale e finanziario». E poi: «Sono sempre più determinato a proseguire nel mio percorso strategico di medio-lungo termine, seguendo i principi che sono alla base della mia filosofia creativa e di business... Un approccio solido e coerente che si è dimostrato valido anche e soprattutto in questi anni, così complicati per le nostre vite personali e professionali».

La notizia ha fatto il giro delle testate finanziarie mondiali. Ma dopo aver celebrato il risultato raggiunto – traguardo tagliato, si legge ancora nei giornali di settore, con un anno di anticipo rispetto agli obiettivi del gruppo – re Giorgio ha chiuso la sala riunioni, smesso la divisa d’ordinanza (leggi: maglia blu scura) e se ne è andato a Formentera. Dove gli obiettivi di “Chi” lo hanno avvistato in spiaggia con gli amici, di bianco vestito (ma il costume da bagno e il cappellino erano blu scuro, come recita la Bibbia dell’Armani-style). 

Lo stilista è arrivato nella incantevole baia di Ses Illetes in compagnia di un folto gruppo di amici e collaboratori a bordo del tender del suo yacht, il Maìn: 65 metri di pura eleganza che lo fanno considerare una delle imbarcazioni più raffinate del mondo (e non potrebbe essere altrimenti trattandosi di Armani). Via maglia e calzoncini, in slip e berretto, accompagnato da due amici, re Giorgio si è rinfrescato nelle acque cristalline di Illetes.

Prima della breve vacanza a Formentera, isola nella quale lo stilista è stato varie volte anche in passato, il Maìn di Armani era stato avvistato a giugno al largo di Stromboli, nel mare delle Eolie che lui tanto ama. E re Giorgio, seppure seminascosto dalla mascherina, era stato visto passeggiare tra le stradine di Panarea, altra isola della quale è un habitué. Nel suo book degli angoli di paradiso, la regina però è Pantelleria, in cui silenzio e privacy sono assolute e dove ha casa da anni. 

A Formentera, come mostrano le foto esclusive di “Chi”, si concede in via del tutto eccezionale quasi un “bagno di folla”, se così si può definire il fatto di stare in una spiaggia pubblica circondato da una discreta brigata di accompagnatori. Inutile dire che, anche così, anche su una spiaggia affollata, anche in compagnia, non c’è una sbavatura rispetto al suo rinomato savoir faire... Armani è sempre Armani, anche senza la maglia blu.

Giorgio Armani «Sono ancora rivoluzionario perché non camuffo le persone. La vittoria dell’Olimpia? Gioia purissima». Daniela Monti su Il Corriere della Sera l'1 luglio 2022.

Lo stilista compie 88 anni l’11 luglio 2022 e in anticipo sul suo compleanno si racconta. In occasione di una mostra fotografica che ha curato personalmente e inaugurata nel suo Silos a Milano durante la fashion week maschile. 

Giorgio Armani si muove nelle sale del suo Silos, a Milano, dove è appena stata inaugurata una mostra fotografica, che ha curato personalmente. Dopo quelle di Peter Lindbergh, Sarah Moon e Charles Fréger, per citarne alcune, ha voluto Magnum Photos - Colors, Places Faces per mandare un segnale positivo, perché dopo questi anni di grigio e di chiusura è arrivato il momento di riportare il colore nelle nostre vite, dice, e di ricominciare a viaggiare, anche se solo con la fantasia. La mostra è un caleidoscopio di immagini che raccontano luoghi e culture lontane, viste attraverso lo sguardo di dieci fotografi: c’è la Cina di Christopher Anderson, Dubai di Olivia Arthur, il Marocco di Bruno Barbey, la New York di Werner Bischof, Venezia di Gueorgui Pinkhassov... Qui, fra oggetti che ama, risponde alle domande sulla Fotografia (con la effe maiuscola) e sulle foto che hanno scandito momenti importanti della sua vita, su Milano che non ha mai tradito con nessun’altra città, sull’inquietudine per il tempo che passa ad un ritmo forsennato e non è mai abbastanza per leggere tutto ciò che si vorrebbe, guardare film, visitare mostre, scoprire luoghi, sulla fragilità degli 88 anni, che compie il prossimo 11 luglio 2022: «Farci i conti» dice «fa parte del processo stesso del crescere». E, infine, sull’amore.

Ci sono molti modi di intendere la fotografia. Roland Barthes scriveva la parola Fotografia con la lettera maiuscola, come fosse una divinità capace di salvare dalla morte. La Fotografia, per Barthes, non si limita a riportare le cose alla memoria, ce le fa sentire vive. Anche la sua idea di fotografia è legata alla salvezza?

«Credo che la fotografia sia una forma d’arte complessa, perché può essere documento, ricordo o narrazione che ci avvicina a ciò che non conosciamo. Come uomo e come creativo che lavora con le immagini sono affascinato da questo aspetto. La realtà, e così la fotografia che ne cattura per sempre il significato, appare diversa a seconda dello sguardo di chi osserva».

La fotografia analogica e la fotografia digitale: come ha vissuto il passaggio dall’una all’altra? C’è chi sostiene ci sia un abisso, non tanto tecnico, quanto legato alla perdita di consistenza fisica della seconda, alla sua voracità.

«Non conosco fino in fondo le implicazioni tecniche di questo passaggio. Certamente colgo l’impennata del numero di immagini che si è verificata con l’avvento della fotografia digitale e la parallela perdita di significato delle immagini stesse. Ormai una fotografia non è legata più soltanto a un momento speciale, perché ne scattiamo con naturalezza moltissime, ogni giorno. La percezione è che non si vive realmente se non si documenta e non si condivide istantaneamente ciò che si sta facendo. E per fare questo il telefono è il mezzo in assoluto più utilizzato. Ma in fondo si fotografa per abitudine, per scaramanzia, per sicurezza, perché poi spesso quelle immagini non si riguarderanno mai più. Mi chiedo se, sempre impegnati a immortalare il momento, si riesca a viverla a pieno questa realtà».

Dove conserva le sue fotografie? Quelle di lei bambino, i primi successi, i ricordi delle vacanze…

«Non sono un collezionista né un grande accumulatore di fotografie e in generale di oggetti. Le poche che conservo di me, da bambino, con la famiglia, quelle dei primi successi, sono appese a una parete in casa mia insieme ad altri disegni. Segnano le tappe della mia storia personale e a volte mi soffermo a guardarle, ma non tanto spesso perché per indole guardo sempre avanti e raramente indietro». 

Ci racconta qualcuno degli scatti che riassumono la sua vita, anche piccoli eventi, dettagli, ma che hanno segnato una tappa?

«Difficile scegliere… Per iniziare scelgo una foto di me piccolissimo che ho utilizzato per la copertina del mio libro autobiografico pubblicato nel 2015. In quello scatto ho gli occhi sgranati. Lo sguardo è simile a quello che ho ancora oggi, di grande curiosità verso il mondo. Il secondo scatto mi ritrae ancora bambino in occasione della prima comunione, vestito di tutto punto con lo spadino e l’abito scuro. C’è già quell’attenzione a ogni minimo dettaglio del vestire. E poi una foto di me con Lauren Hutton sul motorino a Pantelleria: un momento di pura spensieratezza. Non saprei dire quale, ma sicuramente includerei una delle foto fatte a fine sfilata, quando saluto il mio pubblico. Ogni volta è una grande emozione, come se avessi superato un esame. Una foto che ancora mi riempie di orgoglio è la cover del Time del 1982, quarant’anni fa. Ha rappresentato un grande traguardo in un anno molto importante per la mia carriera e avrà sempre un posto speciale nel mio cuore. Scelgo anche una foto recente, quella con il Presidente Mattarella che mi conferisce l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce lo scorso dicembre. E non può mancare una foto con Sergio Galeotti, colui che mi ha incoraggiato e sostenuto, spronandomi a fondare la mia azienda nel 1975. Quando è mancato è stata davvero dura, la perdita è stata improvvisa e mi ha costretto a diventare un imprenditore».

C’è una foto in cui Galeotti, seduto accanto a lei dietro il tavolo da lavoro, parla con qualcuno che nello scatto non si vede. Cosa stava dicendo? «Non lo ricordo esattamente. Sapeva risolvere problemi, era un uomo concreto, con una simpatia che gli derivava dalle sue origini toscane. Eravamo agli inizi e sebbene consapevoli degli ostacoli che avremmo dovuto affrontare, avevamo una meravigliosa sensazione di ottimismo». 

Penso ad altre due foto: la prima è in bianco e nero, con lei ci sono sua madre, suo fratello e un cagnolino, siete sul greto di un fiume. Chi era Giorgio Armani bambino?

«Ero un bambino curioso, timido ma aperto al mondo, con quel desiderio di scoprire che mi è rimasto».

La seconda è una foto corale, bellissima. Ci sono tutti gli stilisti geniali e visionari che hanno creato il Made in Italy. Lei sorride, sembra felice: è in camicia e cravatta, senza giacca, ha un paio di occhiali dalla montatura leggera, e abbraccia Mila Schön, in posa davanti a lei. Accanto ci sono Valentino, Versace, Ferré, Missoni, Moschino, Krizia, Biagiotti, Soprani… Cosa ricorda di quell’istante? Perché non ci sono state altre foto così?

«È un bellissimo scatto, documento di un momento vivo e produttivo per la moda italiana. Allora si faceva davvero sistema e, pur con una sana competizione, c’era una certa solidarietà e avevamo una grandissima lealtà gli uni verso gli altri. Ripenso a quel momento con un po’ di nostalgia, perché quel senso di comunità, di sistema del Made in Italy forse si è perso. Ciascuno di noi ha preso la sua strada, le aziende sono cambiate, lo scenario si è trasformato e noi abbiamo perso il desiderio di concertare le nostre azioni. Penso sia un problema che affligge non soltanto la moda, ma la società in generale, che tende a privilegiare l’individualismo. Forse non torneremo a quel punto, ma sono convinto che si possa e si debba fare molto per tornare ad agire in modo collettivo».

È una persona molto competitiva?

«Più che altro credo di essere una persona determinata. La mia sfida è soprattutto con me stesso, perché penso che si possa sempre migliorare ed è quello per cui mi impegno».

Che cosa le serve per lavorare? In quali condizioni riesce a esprimersi al meglio?

«Per lavorare mi serve uno spazio mentale sereno, può essere casa mia, il mio ufficio, un luogo qualsiasi dove pensare e dare libero sfogo alle mie intuizioni. In realtà mi basta alzarmi al mattino e cominciare la giornata».

Lei nella moda ha fatto la rivoluzione: c’è un prima e un dopo Giorgio Armani. Sta continuando a farla, quella rivoluzione, oppure oggi è altro che cerca?

«Quello era un tempo in cui la società stava cambiando moltissimo. Oggi il momento storico è diverso, le rivoluzioni sono molto più difficili. Quindi la mia idea è piuttosto di continuare a evolvere il mio linguaggio nella moda, che rimane forse ancora “rivoluzionario” perché legato alla valorizzazione della persona più che a uno stile che la camuffa. E poi penso che ci sia un momento per ogni cosa, bisogna essere giovani per voler scardinare il mondo. Quando si cresce le priorità cambiano».

Come si riesce a “durare” in un mondo in cui ciò che conta è l’effetto a breve periodo, la sorpresa?

«Con grande testardaggine, coerenza, e una certa sicurezza di sé. E anche cercando di non farsi scalfire da quelle inezie che sono così diffuse e che possono portare a cambiare strada e a sbagliare molto facilmente».

Milano 1985: storica foto di gruppo Made in Italy, da sinistra: Laura Biagiotti, Mario Valentino, Gianni Versace, Krizia, Paola Fendi, Valentino Garavani, Gianfranco Ferré, Mila Schon, Giorgio Armani, Ottavio Missoni, Franco Moschino e Luciano Soprani 

Il 15 luglio saranno 25 anni dall’assassinio di Gianni Versace. Cosa ricorda di quel giorno?

«Ricordo il grandissimo shock, la sensazione atterrita che una cosa del genere potesse capitare nel nostro ambiente, così vicino a me. Ripenso con grande tristezza a quel giorno di luglio».

A parte gli anni della giovinezza, trascorsi a Piacenza, ha sempre vissuto a Milano: non è mai stato tentato da altre città?

«No, non ho mai avuto questa tentazione perché il lavoro mi ha offerto prima la possibilità di viaggiare e poi di acquistare case nei posti che più amo. Quindi sebbene Milano sia il centro e la base del mio mondo, frequento anche altri luoghi, che possono essere di vacanza o città. Mi piace questa alternanza, e mi piace avere un porto sicuro che mi rappresenta, come la città in cui vivo».

Crede nel destino?

«Credo nel destino, ma il destino va aiutato con le nostre azioni. Da solo non basta, perché le occasioni capitano a tutti, ma poi bisogna saperle cogliere».

Ha imparato, con il tempo, a perdonare sé stesso o è sempre il suo giudice più inclemente?

«Ho imparato a essere più indulgente con me stesso, ma continuo a essere il mio giudice più implacabile. In fondo credo che il mio successo sia in parte dovuto a questo atteggiamento, insieme alla stessa tenace convinzione di quando ho iniziato».

Ha mai pensato di non farcela a diventare chi voleva essere? Se è vero che si impara dagli errori, quali sono stati quelli che le hanno insegnato di più?

«Dagli errori si impara, ma poi talvolta si dimentica. Tutti abbiamo dei momenti di sconforto nei quali pensiamo di non farcela. Anch’io ne ho avuti ma li ho superati, impegnandomi, trovando soluzioni e capendo che l’errore più grande che si possa fare è agire cercando di compiacere gli altri piuttosto che seguire le proprie idee. Ascolto le persone di cui mi fido, ma alla fine seguo il mio istinto e mi fido delle mie intuizioni. E se sbaglio posso rimproverare solo me stesso». 

Il rapporto con il cellulare: messaggi scritti o vocali?

«Ho il privilegio di avere un assistente personale che filtra molte telefonate per me. Ho uno smartphone come tutti, ma non lo uso in maniera ossessiva. Preferisco i messaggi scritti, quelli vocali non fanno per me».

Oggi c’è un modo maniacale di comunicare, si passano ore sui social, forse per eludere la propria solitudine, la solitudine di tutti. Lei ci ha fatto i conti?

«Capisco il problema a cui si riferisce, perché lo vedo nelle persone più giovani intorno a me, ma è qualcosa che fortunatamente non mi tocca».

Si è mai fatto un selfie?

«Una volta soltanto, quasi per gioco. Preferisco i ritratti tradizionali. Ma in realtà sono così esigente e preciso nel dare indicazioni a chi mi ritrae – angolazione, luci, sfondo, posa – che potremmo quasi definirli autoscatti». 

Stephen King ha postato un tweet in cui scrive: c’è così tanto da vedere, così tanto da leggere e così poco tempo. Sente anche lei quest’ansia per il tempo che passa e che non è mai abbastanza?

«Sì, provo anch’io una certa inquietudine. Ci sono tante cose da vedere, libri da leggere, film da guardare, mostre da visitare, luoghi da scoprire. L’elenco è infinito e il tempo sembra non essere mai abbastanza».

Vincere lo scudetto 2022 del basket con la sua Olimpia Milano cos’è stato: gioia pura?

«È stata gioia purissima, la felicità di vedere il grande impegno della squadra ricompensato con questo titolo così importante. Soprattutto è stato bello condividere questo trionfo con Leo (Leo Dell’Orco, sempre al suo fianco, ndr) che ha conquistato il primo scudetto in qualità di presidente».

Come festeggerà i suoi 88 anni?

«Come sempre con i miei affetti più cari in maniera molto privata».

Il trascorrere degli anni obbliga a confrontarsi, prima o poi, con la fragilità: lei che rapporto ha ora con il suo corpo?

«La fragilità ci caratterizza come esseri umani e riuscire a farci i conti è parte del processo stesso del crescere. Io mi ci confronto ogni giorno e faccio in modo di tenermi in forma con l’esercizio fisico costante, ma non esagerato, e con una dieta sana ed equilibrata».

La scrittrice francese Françoise Sagan riassume così l’amore: il desiderio di raccontare le cose soltanto a una persona. Lei a chi racconta i suoi pensieri a fine giornata?

«I miei pensieri più intimi e personali, li confido sempre e solo a Leo, collaboratore fidato e carissimo amico che mi è vicino da sempre e che ormai da tempo è parte della famiglia». Lo scorso 20 giugno, al termine della sfilata a Milano della sua collezione maschile per l’estate 2023, Armani aveva mostrato ai giornalisti l’anulare, «è l’anello che mi ha regalato Leo», aveva detto di un magnifico solitario incastonato in un fascia d’oro. Ricevendo in risposta uno spontaneo, fragoroso, applauso.

Giulia Caminito per “la Stampa” il 9 giugno 2022.

Fin da bambina ho amato il fuoco, m' è piaciuto guardare i rami secchi bruciare nei mucchi che mio nonno raccoglieva in giardino, sedermi sul bordo dei camini mentre le cosce diventavano bollenti: la stoffa, la pelle, i muscoli. Pensavo a Piccole donne, alle sorelle March, ai loro abiti che a tenerli troppo accanto alle stufe si rovinavano o al manoscritto di Jo gettato nel fuoco da Amy per vendetta - lei era rimasta a casa e le sorelle erano uscite per andare al ballo; lei era troppo piccola, loro entravano in società. Avrei tanto voluto anche io quelle gonne e quei manoscritti, avrei voluto gettare la carta nel fuoco e vederla accartocciarsi, diventare nera e poi cenere, sparire.

Avrei voluto, credo, avere dimestichezza col pennino, avere una bella grafia e sporcarmi come Jo le mani d'inchiostro, farmi riconoscere nel mondo come una ragazza che scrive. Le immagini romantiche dei camini accesi in ogni stanza, le gonne fruscianti da muovere davanti alle fiamme, come se fosse uno scherzo, una cosa da poco, e i costumi di scena che avevo visto nei film e a teatro, quelle ruote perfette, quelle gonne imperiose ed eleganti in realtà potevano bruciare una città intera. 

Nella seconda metà dell'800 furono moltissime le donne che morirono a causa della vicinanza al fuoco dei loro abiti, spostandosi avanti e indietro per il salotto o impegnandosi nelle faccende domestiche. Una delle donne rimasta più celebre aveva solo 14 anni e si chiamava Margaret Davey. Per la prima volta, sul rapporto di polizia si lesse «morte accidentale da incendio, causata da crinolina» parlando della disgrazia che le tolse la vita. Margaret era una delle tante bambine adoperate come cameriere e mal pagate, che riempivano le case dei ricchi, prime vittime di ogni incidente domestico.

Nel periodo della Rivoluzione Francese le donne si erano liberate dalle gabbie sotto alle gonne e dai corsetti eccessivi, ma, superato il periodo napoleonico e con la Restaurazione, in tutta Europa la moda femminile riprese a gonfiare gli abiti, fino al punto che una donna occupava nella stanza lo spazio di tre uomini. Sull'argomento lo scrittore francese Alphonse Karr - redattore capo di Le Figaro - scrisse che «due donne non stanno più insieme nei primi posti di un palchetto in teatro, né dentro una carrozza. Cinque donne sedute in vicinanza non possono chiacchierare in confidenza perché separate dalla loro ampiezza, bisogna che gridino. Un uomo seduto tra due donne scompare».

Il materiale delle sottogonne, la crinolina, diede il nome all'oggetto stesso, il sostegno che riempiva l'abito femminile per renderlo più pomposo, elegante. Prima della crinolina c'erano stati il verdugado e il guardinfante. Per tenere su le loro gonne le donne provarono di tutto, dall'ottone agli ossi di balena, fino a fili di ferro che risultarono più comodi: bisognava considerare il peso e la necessità di passare dalle porte, sedersi in carrozza o in auto, insomma vivere e non rimanere imbalsamate per via dei cerchi della gonna.

La crinolina funzionò in questo senso, si rese subito utile e venne usata da donne di tutte le età e di tutti i ceti sociali; anzi, indossare la sottogonna di crinolina divenne fondamentale per presentarsi in pubblico, ma anche nella casa, nella vita privata e domestica. Avere una gonna ampia e sostenuta era segno di decoro e di cura di sé, nessuna voleva sembrare sciatta o disperata, tanto meno le ragazze più povere. 

Portarla non era cosa semplicissima perché bisognava camminare facendo scivolare piano i piedi e tenendo il busto in avanti evitando di inciampare nell'orlo della gonna, e per sedersi la cosa si faceva ancora più complicata, visto che non era ammesso scoprire le gambe o tanto meno i mutandoni - di cui non faceva a meno neanche Rossella O' Hara. Spesso furono gli uomini a commentare con derisione le domestiche che, per risultare un minimo alla moda e libere di scegliere come vestirsi, volevano indossare le sottogonne, anche se queste erano difficili da gestire quando ci si doveva accovacciare per pulire i pavimenti e spolverare. 

Alcuni si lamentavano che questi piegamenti, mostrando la biancheria delle domestiche, li spingevano a gesti impuri, come a voler giustificare le molte ripetute violenze e aggressioni, sempre dando la colpa agli indumenti indossati dalle donne piuttosto che alla propria bestialità. 

Non capitava solo alle domestiche di avere questo tipo di incidenti mortali. È rimasta infatti a lungo nascosta la vicenda delle sorelle Wilde, le sorellastre del celebre scrittore. Mary ed Emily erano figlie illegittime di William Wilde e di loro non si seppe molto per parecchio tempo, ma le due vivevano comunque in un contesto agiato e andavano spesso alle feste e ai balli. La notte del 31 ottobre del 1871 si recarono a una festa di Halloween presso la Drumacon House in Irlanda. 

La serata trascorse tranquillamente nel divertimento generale fino a quando una delle due sorelle - forse Mary - concesse a un cavaliere l'ultimo ballo e nel danzare la sua gonna finì troppo vicino al camino prendendo fuoco. Le persone in sala iniziarono a urlare e a scappare, mentre Emily si avvicinò alla sorella per sedare le fiamme, ma non solo non ci riuscì, anche la sua crinolina prese fuoco. Alcuni dicono che le ragazze rotolarono giù dalle scale fino a finire nella neve per spegnere le fiamme, ma purtroppo avevano già bruciature di terzo grado su tutto il corpo. 

Le sorelle Wilde non morirono sul colpo ma passarono le settimane seguenti a subire atroci pene fino alla morte. Non venne mai data la notizia ufficiale della loro morte con nome e cognome esatto perché il padre non voleva si sapesse delle figlie illegittime e della loro scomparsa alquanto spaventosa. Le due divennero protagoniste di racconti di fantasmi e di congetture, come quella che racconta di una donna sempre vestita di nero e incappucciata che ogni anno fa visita alla loro tomba dal giorno del loro incidente.

·        Il Cappello.

A chi ha testa non manca il cappello. EDVIGE VITALIANO Il Quotidiano del Sud il 2 ottobre 2022.

Cappello in testa … ne esistono migliaia di modelli quelli dei grandi sono nei libri di storia. Il più noto? La bustina fatta con i giornali

È il cappello più popolare, più semplice e forse per alcuni più amato, ma non si sa da chi è stato inventato. Un cappello che specialmente in quell’Italia uscita dal dopoguerra che aveva voglia di costruire e ricostruire, rappresentava il lavoro che fa sporcare le mani. Il sacrificio e il desiderio di riscatto. Mattone sopra mattone. Risparmio dopo risparmio. È il cappello da muratore: una bustina di carta fatta con i giornali letti il giorno prima.

Una sorta di barchetta sulla testa. Sotto, nascosto tra i mille pensieri su come sbarcare il lunario, il desiderio di un futuro migliore. Una bustina che odorava di carta stampata, sostituita a volte da un sacchetto messo al rovescio così simile all’umile copricapo militare indossato da Eduardo De Filippo in “Napoli milionaria”, quando il tranviere Gennaro Jovine torna dalla trincea della prima guerra mondiale. Indimenticabile, come la coppola e la mantellina di lana fatta ai ferri che sempre Eduardo indossa in “Natale in casa Cupiello”. Uno stratagemma di Lucariello per affrontare il freddo in casa al risveglio e il caffè venuto male.

CAPPELLO IN TESTA SIMBOLO DI OGNI SOCIETÀ

A volerne riprendere la storia, capelli di ogni guisa hanno accompagnato gli uomini lungo i secoli. La moda in testa scrive un capitolo a sé e come altri accessori, racconta più di quanto si creda a uno sguardo non distratto dalla leggerezza o meglio dalla frivolezza apparente dell’argomento. I cappelli hanno indicato le epoche ma anche le appartenenze di classe e di ruolo, le provenienze geografiche, i mutamenti di costume, persino il maschile e il femminile e oggi probabilmente aggiungeremmo anche il “no-gender” dell’umanità.

I cappelli hanno fatto da “elmo” protettivo nell’era primitiva. Hanno tenuto al riparo dal freddo o dal caldo. Sono stati (e sono) protagonisti sulle passerelle ma anche per strada, sui libri di Storia e sulle tele di grandi pittori. Ammirati sul Grande Schermo e sui palcoscenici dei teatri. Hanno fatto innamorare registi e scrittori, stilisti e modaioli impenitenti.

Del resto, un cappello fa la differenza anche nel gesto di indossarlo o meno: levarsi il cappello è sinonimo di cortesia. È un modo per salutare ma indica anche rispetto verso l’interlocutore che si ha davanti. Tenere il cappello in mano fa subito pensare a un senzatetto che chiede l’elemosina e altresì ad un atteggiamento accondiscendente. E se persino la leggendaria Coco Chanel può apparire anacronistica con quel suo consiglio che recita “l’educazione di una donna consiste in due lezioni: non lasciare mai la casa senza calze, non uscire mai senza cappello”, il copricapo a dispetto delle mode ha attraversato indenne i secoli diventando un accessorio irrinunciabile. Creato in mille e una foggia.

Tra aneddoti, curiosità, fatti e leggende l’alfabeto dei cappelli restituisce un grande affresco popolato da eroi, divinità, uomini di chiesa e di potere, militari sul campo di battaglia e divi del Cinema, ma soprattutto donne e uomini di ogni epoca e continente. Come dire: “a chi ha testa, non manca il cappello”, recita il proverbio.

LA PRIMA RAPPRESENTAZIONE DI UN CAPPELLO IN TESTA

La prima rappresentazione di un essere umano con la testa coperta risale alla bellezza di 15 mila anni fa come testimoniano i graffiti trovati in una grotta a Lussac-les-Chateaux, in Francia. Coprirsi la testa in modo rudimentale rispondeva a uno scopo ben preciso: difendersi da pericoli come la caduta di sassi. Col tempo i copricapo diventano un simbolo, il pileo ad esempio nell’antica Grecia indicava l’appartenenza alle classi più umili. In pelle o feltro, era usato da maestranze, marinai e pescatori per ripararsi dal sole cocente; ma anche Ulisse viene rappresentato col pileo in testa.

Nell’antica Roma, invece, il cappello in testa era simbolo di libertà conquistata: veniva dato allo schiavo divenuto libero. Il primo cappello con la falda di origine greche lo indossavano eroi come Teseo e Perseo e, con l’aggiunta di alette d’ordinanza, il messaggero celeste Ermes. Testimonial di preziosi copricapo furono i potentissimi faraoni egiziani. Loro indossavano il nemes. La maschera funeraria di Tutankhamon lo testimonia.

Di cappello in cappello ecco apparire sulla scena  il cappuccio medioevale o  l’hennin: un cono allungato con un velo che faceva somigliare le donne che lo indossavano a certe fate protagoniste di antiche fiabe celtiche.

E ancora, capelli come simboli riconoscibili immediatamente come la corona di penne di tacchino selvatico, falco, airone o aquila che fa pensare senza tentennamenti agli indiani d’America e ai loro capi tribù. Capelli entrati nella leggenda come il copricapo con un diamante da 35 carati dell’immancabile re Sole. D’altronde, Luigi XIV in quanto a sfarzo non ha rivali.

Cappelli che intercettano i mutamenti di regime così che il vento della rivolta soffia forte anche sulle teste e dal tricorno, durante la  Rivoluzione Francese i soldati passano al bicorno. Il più famoso? Quello di Napoleone Bonaparte. Neanche a dirlo, il generale e poi imperatore lo portava in maniera diversa da tutti gli altri: di traverso. Il “Petit chapeau” come veniva chiamato il bicorno di Bonaparte completava l’immagine di Napoleone. Il generale ne indossa uno magnifico anche quando valica il Gran San Bernardo e viene immortalato in groppa al suo cavallo bianco da Jacques-Louis David. I cappelli e il potere vanno a braccetto, evidentemente.

L’800 E IL CAPPELLO COME GIOCO DI SEDUZIONE

L’800 a parte le velette che ombreggiavano gli sguardi delle donne in un intrigante gioco di seduzione nella vecchia Europa fino alla Belle Epoque, è il secolo del cilindro maschile. A renderlo iconico ci pensò il presidente americano Abramo Lincoln. Un metro e 93 di altezza, Lincoln appariva ancora più alto grazie al suo amatissimo  top hat che utilizzava persino come contenitore per documenti importanti.

Non meno interessante è la storia dei copricapo militari. L’Italia per dire, vanta un copricapo piumato conosciuto almeno quanto la canzone che lo accompagna e che fa così: “sul cappello sul cappello che noi portiamo, c’è una lunga, c’è una lunga penna nera”… È il capello degli Alpini: tra i più famosi dell’esercito italiano e c’è chi ne ricorda l’origine calabrese. In fatto di celebrità, tra i capelli piumati non è da meno quello che è l’emblema per eccellenza del Corpo dei Bersaglieri, detto anche “moretto”.

Regole precise che indicano lo status di appartenenza valgono egualmente per i copricapo ecclesiastici. Sotto il campanile a ciascuno il suo cappello secondo le indicazioni dell’araldica ecclesiastica e della scala gerarchica: la tiara era ad uso esclusivo del pontefice; il galero, per vescovi e cardinali. La cosa, però, non inganni perché questo cappello a falda larga con due cordoni che scendono ai lati dello scudo e si aprono in una serie di nappe, è quello che in uno stemma fa la differenza. Colore e numero delle nappe indicano l’ordine gerarchico.

C’è poi un cappello speciale extraliturgico destinato ai pontefici il cui uso si è ridotto nel tempo. Si chiama camauro: in velluto rosso e bordato di pelliccia di ermellino per l’inverno, di raso rosso per l’estate. E se ai papi è riservato altresì lo zucchetto bianco, ai preti tocca il saturno o il tricorno nero , ai vescovi la mitra e lo zucchetto violaceo. Lasciati i capelli dei preti – a giocare col titolo del romanzo di Emilio De Marchi, pubblicato nel 1888, diventato anche uno sceneggiato televisivo a firma di Sandro Bolchi – si torna ai cappelli per così dire modaioli.

L’ITALIA PATRIA DEL LEGGENDARIO BORSALINO

È l’Italia il Paese in cui nasce nel 1857 il leggendario Borsalino in un’azienda d’eccellenza con sede ad Alessandria. Dici Borsalino e buona pace per Johnny Depp, riaffiorano le note di “Suonala ancora Sam” perché questo cappello entra nell’immaginario collettivo col modello Fedora  indossato da Humphrey Bogart in “Casablanca” (1942). E poi c’è la bombetta creata a Londra nel 1860 da Thomas William Bowler. Il piccolo copricapo bombato conquista René Magritte che lo immortala su tela ma anche  Sir Winston Churchill,  Charlie Chaplin o   Stan Laurel  e  Oliver Hardy.

Se si cambia continente il cappello si chiama Panama, prodotto principalmente nella  provincia di Manabí  in Ecuador. A legare indissolubilmente questo cappello al nome di Panama, un evento di cui fu protagonista l’allora presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosevelt. Fu lui ad indossarlo durante l’inaugurazione del Canale di Panama, appunto. Di cappelli legati a personaggi storici se ne incontrano diversi. Basti pensare a Che Guevara, entrato nell’iconografia del Novecento insieme al suo basco nero con la stella.

QUEL CAPPELLO INTRISO DI STORIA CHE CINGE LA TESTA DEGLI “ISOLANI”

E poi ci sono cappelli che ti sembra di conoscere ma la cui storia è per certi versi una sorpresa. Un esempio? La coppola. Siciliana, sicilianissima la coppola è diffusa anche in Calabria, Campania  e Salento. Ma sicuri che sia proprio siciliana? C’è chi ricorda che in Italia la tradizione della coppola si attesta tra il tardo XIX secolo e la prima metà del XX secolo, quando, secondo alcune fonti, famiglie inglesi si stabilirono in Sicilia portando sull’isola i loro usi e costumi fra i quali il berretto piatto che, adottato dai siciliani divenne col tempo un vero e proprio simbolo della sicilianità.

A Saint Louis nei primi del Novecento i ragazzini che agli angoli delle strade vendevano i giornali erano muniti del classico  newsboy cap o “berretto da strillone”. A guardarlo è un parente molto vicino della coppola, mentre tra gli antenati ci finisce quella rossa con cui viene ritratto Masaniello a Napoli mentre incita alla rivolta.

ELISABETTA II, QUANDO IL CAPPELLO IN TESTA DIVENTA ICONA POP

E poi c’è lei, Elisabetta II. Si favoleggia ne abbia indossati oltre cinquemila. Dieci volte non di più, ciascun copricapo si è poggiato sulla aristocratica testa della regina che ha attraversato due secoli. Cappelli colorati e sempre abbinati agli abiti indossati. A pensarci bene quei cappelli regali erano la corona di stoffa che Sua Maestà sfoggiava più frequentemente. Un accessorio che la distingueva perfino in mezzo alla folla e ne tratteggiava la silhouette per certi versi pop, insieme all’iconica borsetta sempre dello stesso modello e l’immancabile rossetto che ripassava sulle labbra con incantevole disinvoltura, fosse pure durante cerimonie pubbliche. Sotto gli occhi del mondo sì, ma mai senza cappello.

·        Gli Orologi.

Cesare Giuzzi e Pierpaolo Lio per corriere.it l'8 luglio 2022.

L’ultimo colpo è di mercoledì sera, vicino a piazza San Babila. Un iraniano di 31 anni sta passeggiando nella Galleria Passarella quando viene avvicinato da due nordafricani. Fa solo in tempo a vederli sbucare e a ricordare di averli già notati poco prima, quando probabilmente avevano iniziato a «pedinarlo». Un paio di secondi e uno dei due gli blocca il braccio e sfila dal polso un Hublot da 6 mila euro.

Poi la fuga a piedi lungo le vie del centro. Un copione già visto molte volte nelle ultime settimane. Il caso più clamoroso il primo luglio con lo scippo di un Richard Mille da 700 mila euro — praticamente il valore di un quadrilocale in centro — ai danni di un 58enne italiano in corso Venezia. Ma l’elenco è lungo tra Rolex e Patek Philippe sempre da decine di migliaia di euro di valore.

In tutti i casi a colpire sono stati giovani nordafricani. Una novità dal punto di vista criminale perché per anni i furti e le rapine di orologi di lusso sono stati una specialità della scuola criminale napoletana. Ladri trasfertisti che salgono a Milano per pochi giorni, colpiscono in modo mirato e tornano a casa. Come testimoniato da decine di arresti eseguiti negli anni da polizia e carabinieri. Ora questo primato criminale, anche per la portata dei bottini, rischia di essere scalzato dalle nuove leve franco-algerine.

Giovani organizzati in batterie da tre o quattro persone che si appoggiano ad alberghi di bassa categoria e colpiscono per alcune settimane (questo spiega l’escalation degli ultimi giorni) per poi spostarsi in altre località. Ma che lo fanno in modo particolarmente organizzato: quasi sempre a piedi, con un complice che attende in motorino, agendo nelle zone del Quadrilatero o nei dintorni dei grandi hotel di lusso. Puntano soprattutto turisti un po’ sprovveduti dopo brevi pedinamenti in strada.

Un mese fa la polizia ha arrestato 4 algerini: uno accusato di aver rubato 3 Patek Philippe per un totale di mezzo milione e gli altri del furto di un Rolex Daytona da 40 mila euro. Orologi che contano su un commercio parallelo notevole, anche se «ricettati» perdono circa l’80 per cento del loro valore. Ma il mercato ufficiale bloccato, con tempi di attesa lunghissimi (per i Rolex) e una certa richiesta anche negli ambienti della malavita, li rendono facili da piazzare. In alcuni casi sono finiti in vendita online. Non affari per collezionisti, che pretendono scatola e orologio intonsi, ma perfetti per chi insegue la moda.

Gli specialisti napoletani però non sono scomparsi. Agiscono lungo la circonvallazione, si muovono in scooter e puntano soprattutto automobilisti: un complice urta lo specchietto, quando l’automobilista abbassa il finestrino i rapinatori arrivano e strappano l’orologio. Si concentrano nei periodi di fiere e grandi eventi, quando è più facile trovare prede facoltose. Nella casistica ci sono anche gambiani e marocchini. Terreno di caccia corso Garibaldi e corso Como in piena notte. Prendono di mira i reduci dei locali della movida magari un po’ brilli: li circondano, un abbraccio e l’orologio sparisce. 

DAGONEWS l'8 luglio 2022.

Volete un Rolex e pensate che vi basterà sganciare bei soldoni per mettervelo al polso? Vi sbagliate di grosso. Gli esperti hanno rivelato come gli acquirenti debbano "costruire una relazione" con il marchio di orologi di lusso, spendendo più di 100mila euro in orologi meno desiderabili, prima di riuscire ad “accedere” all’ultimo modello. 

A spiegare come il processo di acquisto di un orologio di lusso sia più complicato del previsto, sono proprio gli addetti ai lavori che raccontano come molti rimangono delusi all’idea di non poter acquistare il modello prescelto.

Nel caso del noto marchio di orologi di lusso, la domanda supera l'offerta e Rolex ha dovuto porre limiti a chi può acquistare un modello specifico di orologio, decidendo "se il cliente è il tipo di persona giusta" per indossare il proprio orologio. 

Inoltre, “migliore” è il cliente che qualcuno dimostra di essere, maggiori sono le possibilità che gli venga data la possibilità di acquistare orologi "rari". D’altra parte Rolex, per mantenere un’idea di esclusività, non ha intenzione di aumentare la produzione, vendendo più pezzi e dunque svalutando il marchio. Ma non tutti sono d’accordo, soprattutto i clienti delusi. Barry Finch ha raccontato a “The Telegraph” di aver tentato di acquistare un Rolex Oyster Perpetual da 5.500 euro, ma gli è stato detto che avrebbe dovuto "costruire una relazione" spendendo prima oltre 100.000 euro in altri modelli: «Rolex chiaramente non vuole che le persone normali acquistino i loro prodotti».

·        Le Case.

I grattacieli più belli del mondo: i vincitori dell'edizione 2022 di Skyscraper Award. Vince Valley Sono strutture imponenti, veri e propri monumenti e, a dispetto di quel che si può credere, la maggior parte si trova in Europa. Dalla più stretta del mondo a quella ispirata a Beyoncé, le torri più incredibili. Giulia Cimpanelli su Il Corriere della Sera il 30 settembre 2022.

Il podio 

Si trova ad Amsterdam, in pieno centro, il grattacielo più bello del mondo. Valley è un progetto che comprende uffici, appartamenti, spazi commerciali e aree culturali. È costituito da tre torri collegate che raggiungono un'altezza massima di 100 metri.

Tra vetro e pareti rocciose 

I bordi esterni delle tre torri sono rifiniti in vetro liscio specchiato, che mira a essere complementare con i vicini scintillanti edifici del quartiere degli affari, mentre le aree interne sono immaginate come pareti rocciose composte da pietra naturale. I suoi bordi irregolari e frastagliati sembrano casuali, ma il design è stato in realtà calcolato scrupolosamente utilizzando un software specializzato per massimizzare la luce del giorno e le viste all'interno. In questo modo si creano aree terrazzate private, terrazze aperte al pubblico, nonché imponenti appartamenti a sbalzo.

Attenzione alla sostenibilità

Attenzione alla sostenibilità 

La sostenibilità è al centro del progetto architettonico: l’edificio è un esempio di verde urbano. L'architetto paesaggista Piet Oudolf ha installato oltre 271 giovani alberi e 13.500 piante e arbusti più piccoli, che matureranno negli anni a venire e trasformeranno lentamente l'aspetto di Valley. La posizione dei grattacieli è stata scelta per garantire vento, luce solare e temperatura ottimali e per tenere conto delle esigenze di manutenzione.

La tecnologia 

La forma estremamente complessa – raccontano i progettisti - ha richiesto un impegno speciale: esperti di tecnologia di MVRDV hanno creato una serie di strumenti digitali per perfezionare l'edificio: da uno che garantiva che ogni appartamento avesse luce e vista adeguate, a un programma che ha reso possibile lo schema apparentemente casuale delle oltre 40.000 piastrelle in pietra di varie dimensioni che adornano le facciate.

La torre più stretta al mondo 

Il secondo posto va alla 111 West 57th Street, alta 435 metri. Progettata da SHoP Architects, la torre incredibilmente stretta - ufficialmente la più sottile al mondo con un rapporto larghezza-altezza di appena 1:24 - si erge su New York City. Presenta una facciata composta da pannelli in terracotta con 22 diversi contorni, che contrastano con i dettagli in bronzo e una facciata continua in vetro. All’interno alloggi di lusso: i suoi appartamenti possono costare oltre 57 milioni di dollari.

Il grattacielo dei cristalli 

Il terzo posto va al grattacielo forse più strano dell'intera selezione di quest'anno, la NV Tower, di A&A Architects. Situato a Sofia, in Bulgaria, il design dell'edificio alto 106 metri è in parte ispirato ai cristalli naturali. Per rafforzare il tema del cristallo, ogni piano dell'interno dell'edificio prende il nome da un cristallo ed è progettato per abbinarsi ai rispettivi colori di ogni cristallo.

La torre residenziale a Barcellona 

È ancora europeo il quarto grattacielo classificato: l’Antares Tower di Barcellona, progettata dallo Studio Odile Decq e alta 104 metri. È il più alto edificio residenziale di Barcellona.

Il «ponte di vetro» 

Al quinto posto troviamo la Bundang Doosan Tower a Gyeonggi-do, Corea del Sud. Alta 100 metri, ha una struttura a ponte.

Facciate cinetiche 

In sesta posizione si piazza Warsaw Unit. Il grattacielo della capitale polacca supera i 200 metri di altezza ed è caratterizzato da una facciata cinetica in grado di reagire a ogni raffica di vento e formare immagini sul grattacielo.

La torre ispirata a Beyoncé 

In settima posizione si classifica la Premier Tower di Melbourne, alta ben 246 metri, la cui linea sinuosa si ispira al corpo della cantante Beyoncè nel video Ghost.

I 10 grattacieli più famosi al mondo. TheWorldNews il 3 settembre 2022.

L'edificio più alto del mondo è il Burj Khalifa a Dubai, con i suoi 829,80 metri e 163 piani. Parliamo dei grattacieli, ovvero tutti gli edifici che superano i 300 metri di altezza e cambiano completamente l'aspetto della città.

Ora ci sono 208 edifici in tutto il mondo (il numero aumenta in modo significativo a 22.791 se si considerano tutti gli edifici di almeno 100 metri o più). New York è la città con il maggior numero di grattacieli al mondo, ma il 70% si trova in Asia.

Musement, una piattaforma digitale per trovare e prenotare esperienze di viaggio in tutto il mondo, ha analizzato i 100 grattacieli più alti del mondo e ha scoperto i 10 grattacieli più famosi. Due hashtag più popolari per ogni edificio. Dopotutto, questi incredibili edifici, che sovrastano lo skyline di alcune delle città più belle del mondo, sono diventati attrazioni turistiche e, grazie ai loro spettacolari ponti di osservazione, milioni di visitatori vengono a vederli ogni anno da una prospettiva completamente nuova.  

La prima posizione è dedicata a il Burj Khalifa. In effetti, il grattacielo più alto del mondo ha raccolto 6 milioni e 300.000 menzioni. La tua visita a questa meraviglia architettonica inizia con una presentazione multimediale che rivela lo sfondo della sua costruzione, quindi prosegue ai piani superiori. Gli ascensori ad alta velocità ti portano ai ponti di osservazione di at the Topal 124° e 125° piano e al Top Skyal 148° piano. Viste impareggiabili sul deserto e sul Golfo Persico a 555 metri sul livello del mare. Per completare l'esperienza, sorseggia una tazza di tè o un cocktail al lounge bar The Loungesituato al 152°, 153° e 154° piano.

Meraviglia degli Emirati allo storico Empire State Building (4.200.000 menzioni). Primo edificio di oltre 100 piani costruito a New York City, Empire è uno dei simboli più riconoscibili della Grande Mela grazie al suo stile Art Deco. Il grattacielo è stato anche l'edificio più alto del mondo dal 1931 al 1970. Questo è l'anno in cui è stata completata la Torre Nord del World Trade Center. Costruito in un tempo record di soli 410 giorni, l'Empire State Building attira più di 4 milioni di visitatori ogni anno. Oggi è aperto sette giorni su sette e le viste a 360 gradi della città dai suoi due ponti di osservazione all'86° e al 102° piano sono indescrivibili giorno e notte.

Medaglia di bronzo al Taipei 101, un grattacielo nella capitale di Taiwan. Assomiglia al gambo di bambù di vetro verde acqua, simbolo di forza e longevità nella cultura asiatica. Il grattacielo canta 816.000 menzioni, non solo per il suo design, ma per le sue caratteristiche uniche al mondo. Infatti, Taipei 101 è dotato del più grande ammortizzatore statico del mondo composto da 660 tonnellate di sfere d'acciaio. Oltre alla sua architettura elegante e alla tecnologia all'avanguardia, il grattacielo è famoso per i suoi ponti di osservazione interni ed esterni all'88°, 89° e 91° piano. Per un'esperienza ancora più memorabile, c'è anche un ristorante taiwanese all'86° piano del grattacielo, il luogo perfetto per godersi la vista notturna mentre si è avvolti da un'atmosfera glamour.

Con 797.000 menzioni, il numero 4 della classifica è il One World Trade Center, l'edificio più alto dell'emisfero occidentale. La sua storia è famigerata. Il grattacielo di 1.776 piedi (l'anno della Dichiarazione di Indipendenza) è stato costruito tra l'aprile 2006 e il giugno 2013, cinque anni dopo gli attacchi che distrussero le Torri Gemelle. La costruzione da 3,8 miliardi di dollari si ispira alla simmetria lineare e a un design che fa parte dell'evoluzione dei progetti dei grattacieli di New York City. I visitatori possono raggiungere l'Osservatorio panoramico tra il 100° e il 102° piano in soli 47 secondi tramite l'ascensore Skypod . Una volta raggiunta la cima, non solo godrai di panorami mozzafiato, ma imparerai anche di più sulla storia dell'edificio e della città di New York grazie alle mostre interattive.

La Willis Tower (561.000 menzioni) nel cuore di Chicago è arrivata quinta. Come l'Empire State Building, la Willis Tower ha detenuto il titolo di edificio più alto della terra per 25 anni dal suo completamento nel 1973.Skydeckdeve molto al suo successo sui social media. L'osservatorio, sospeso in una nicchia al 103° piano, attira ogni anno oltre 1,7 milioni di visitatori. Come se non bastasse,The Ledgeè stato aperto nel 2009. Alta oltre 400 metri, la terrazza in vetro offre viste uniche sulla città. Da qui, in una giornata limpida, puoi vedere quattro stati diversi: Michigan, Indiana, Illinois e Wisconsin.

Al sesto posto troviamo le Petronas Towers di Kuala Lumpur con 221.000 menzioni. Le due torri gemelle divennero rapidamente uno dei simboli più riconoscibili della città. L'architetto César Péri, il creatore di quest'opera, ha combinato i motivi tradizionali dell'arte islamica con le tecniche più innovative nel suo design. Le due torri, alte 170 metri, sono collegate da uno skybridgelungo 58,4 metri. Il clou è senza dubbio il ponte di osservazione all'86° piano, dove puoi ammirare la città da 370 metri da terra e approfondire la storia delle Torri Petronas attraverso mostre e display digitali.

Un settimo grattacielo si dirigerà verso Seoul, la capitale della Corea del Sud. Lo skyline della capitale è infatti caratterizzato dalla Lotte World Tower (110.000 menzioni). Ispirato alle tradizioni coreane, alla porcellana e alla calligrafia, questo edificio dal design moderno è anche certificato LEED Gold per i suoi standard di sostenibilità ambientale estremamente elevati. Al suo interno si trovano residenze, uffici, un hotel 7 stelle, un acquario e tanti altri servizi. Una delle attrazioni più famose della Lotte World Tower è Seoul Sky, l'osservatorio con pavimento di vetro più alto del mondo a 478 metri (finora). Dopodiché, solo pochi passi ti porteranno al parco divertimenti Lotte World, la "Disneyland" coreana.

La Shanghai Tower è all'ottavo posto nella classifica con oltre 104.000 menzioni. Con i suoi 632 metri di altezza, questo edificio si trova nel distretto di Pudong ed è l'edificio più alto della Cina. La facciata in vetro, con il suo design curvo che si attorciglia gradualmente man mano che sale, è particolarmente apprezzata sui social media. Un altro punto di forza è senza dubbio il top Osservatorio di Shanghai. Questo è uno spettacolare ponte di osservazione al 118° piano, che offre un panorama a 360 gradi della città. Salire all'osservatorio in uno degli ascensori più veloci del mondo è un'esperienza in sé.

9° posto, 74.000 menzioni, il grattacielo 30 Hudson Yards di New York. Situata al numero 30 nel quartiere di Hudson Yards a ovest di Midtown Manhattan, la popolarità di questa megastruttura è in gran parte dovuta al ponte di osservazione The Edge, inaugurato a marzo 2020. Emisfero occidentale, 335 metri di altezza. Da qui puoi vedere alcune delle attrazioni più iconiche della Grande Mela, tra cui Central Park e la Statua della Libertà.

Anche New York completa la classifica con il grattacielo One Vanderbilt completato appena due anni fa (59.000 menzioni). In questo breve lasso di tempo, One Vanderbilt si è imposto nelle classifiche (e tra gli appassionati di Instagram). Con i suoi 427 metri di altezza, questo grattacielo è uno dei più nuovi nel mutevole skyline della Grande Mela e la sua piattaforma di osservazione tra il 91° e il 93° piano è una delle attrazioni più famose della città è diventata una delle Oltre ai paesaggi onirici, la combinazione di arte e tecnologia fa parte del successo. Coloro che non soffrono di vertigini possono godersi un'avventura emozionante e coinvolgente progettata da Kenzo Digital per un'esperienza unica in uno dei cubi di vetro trasparente a 325 metri sopra Madison Avenue.

·        La Moto.

Tre amici avieri e l'amore per la velocità: così nacque Guzzi. Francesco Bei su La Repubblica il 21 Settembre 2022.  

A Civitavecchia la presentazione della V100 Mandello Aviazione Navale, prodotta in soli 1913 esemplari, come l’anno di fondazione dell’Aeronautica di Marina

La Moto Guzzi è la storia di tre amici, tre commilitoni appassionati di moto, aerei e motori. Velocità e ardimento, sogno comune dei ventenni di allora. Dei tre giovani uomini, uno – Giovanni Ravelli - è già famoso sulla stampa sportiva dell’epoca come il “Diavolo italiano”. Pilota di moto vincente in Italia all’estero, mantiene quel nome di battaglia allo scoppio della prima guerra mondiale. Arruolati nella neonata Aviazione navale (l’Aeronautica come arma a sé era ancora di là da venire), nelle notti d’Istria i tre ragazzi discutono del futuro e sognano di aprire insieme un’impresa motociclistica alla fine del conflitto. Ravelli, vero asso dei combattimenti aerei, continua a mietere intanto riconoscimenti e medaglie. Sulla motivazione della medaglia d’argento si legge: «Pilota di eccezionale abilità ed attività guerresca prima su idrovolanti, poi su apparecchi terrestri e da caccia, prese parte a centodiciassette missioni di guerra, costante esempio di entusiasmo ed ardire. Venezia, 10 gennaio-26 settembre 1918».

La guerra finisce ma il “Diavolo italiano” non vedrà la nascita dell’azienda immaginata con gli altri due amici, il meccanico Carlo Guzzi e il pilota Giorgio Parodi. Il suo biplano Nieuport si schianta infatti in fase di atterraggio sulla pista di Venezia. E’ il 1919 e due anni dopo, a Genova, i due amici sopravvissuti alla grande strage europea fondano la "Società Anonima Moto Guzzi", scegliendo come logo un'aquila da pilota proprio a ricordo dell'amico scomparso. Questa storia di amicizia e il legame tra Moto Guzzi e i piloti della Marina sono alla base della nascita della V100 Mandello Aviazione Navale, che sarà prodotta da Moto Guzzi in edizione limitata a 1913 esemplari, come l’anno di fondazione dell’Aeronautica di Marina, al prezzo di 15mila euro all'incirca.

La presentazione alla stampa avviene su un’altra eccellenza italiana, la portaerei “Cavour”: con i suoi 244 metri di lunghezza e 220 metri di pista di decollo, è la nave ammiraglia della Marina Militare. Per chi non è avvezzo alle procedure di bordo, è garantito l’effetto “wow” allo spuntare delle moto dalla piattaforma che solitamente porta gli F-35 e gli Harrier dall’hangar alla pista di decollo. Il nuovo modello è un’edizione speciale della V100 Mandello presentata quest’anno e in arrivo nelle concessionarie. La livrea dedicata si ispira al grigio opaco dei caccia F-35B in dotazione alla Marina. Le grafiche ricalcano fedelmente quelle del velivolo, con le insegne su entrambi i lati del cupolino, movimentato anche dalle tipiche strisce jet intake che segnalano le prese d’aria dei jet. Sui lati del serbatoio è in bella mostra la coccarda tricolore a bassa visibilità, lo stemma dell’Aviazione Navale spicca sul parafango mentre il “lupo” del Gruppo Aerei Imbarcati è sul codino. I contenuti della moto fanno di questo modello una vetrina tecnica di soluzioni ardite. V100 Mandello, ad esempio, è la prima motocicletta con aerodinamica adattiva: una coppia di flap si aprono ai lati del serbatoio al crescere della velocità, come l’alettone posteriore su certe supersportive a quattro ruote. Di serie ci sono il cornering ABS, le sospensioni semiattive e il cambio quick shift, solo per citare le novità più importanti. La potenza è di 115 CV e la coppia è di 105 Nm, con l’82% disponibile già da 3.500 giri/min.

Ma perché la Marina si presta a questa presentazione?  “Noi siamo l’arma silenziosa - dice l'ammiraglio Enrico Credendino, capo di Stato Maggiore della Marina – e pochi italiani ci conoscono davvero. Operiamo negli oceani, lontano da casa, mentre tutti vedono l’Esercito nelle strade e le Frecce tricolori nel cielo. Così, associandoci a un brand importante come Moto Guzzi, diamo visibilità anche al nostro lavoro e rafforziamo tra gli italiani la consapevolezza di vivere in un Paese proiettato sul mare, che ha 8000 chilometri coste”. Il capitano di vascello Enrico Vignola, comandante del Cavour, dà l’ordine e dalla poppa partono a tutta velocità verso la prua quattro V100 come fossero jet al decollo. Un altro effetto “wow”. Michele Colaninno, amministratore delegato alla strategia e al prodotto del Gruppo Piaggio, spera in questa moto per affrontare i tempi duri che ci attendono. Nell’hangar di nave Cavour si lascia andare a una confidenza: “Avremmo potuto investire altrove, portare la produzione all’estero come fanno in tanti, sarebbe stato più conveniente. Invece abbiamo deciso di rinnovare la storica fabbrica Guzzi sul lago di Como e restare. Perché crediamo in questo Paese e una Guzzi può nascere soltanto qui”.

·        L’Auto.

Roberto Faben per “La Verità” il 10 novembre 2022. 

Uno spaccato, romantico ma risoluto, della storia del cavallino rampante, si manifesta conversando con Piero Ferrari, classe 1945, vicepresidente della casa di Maranello, figlio ed erede di Enzo Ferrari. 

Il 2 novembre 2022, è mancato l'ingegner Mauro Forghieri, ex capo del reparto corse Ferrari con cui vinse sette mondiali costruttori. Come lo ricorda?

«Di ricordi belli con Mauro Forghieri ne abbiamo tanti, come il primo campionato di Niki Lauda vinto a Monza, con l'invasione di pista, momenti straordinari». 

Qual è il pilota della scuderia, conosciuto personalmente, che più l'ha colpita e perché?

«Jody Scheckter, non solo per aver vinto un Mondiale con noi, ma anche perché è persona dotata di grande intelligenza e humor. Lui, quando guidava, come i piloti della sua generazione, sembrava uno spericolato, ma non lo era. Vinse il mondiale e l'anno dopo disse: "Bene, sono campione del mondo di F1, ora cambio vita". È diventato un uomo di business e di successo». 

In un pilota di F1 contano più razionalità o estro?

«Secondo me non è quanto rischio si prendono, ma la capacità di concentrazione, di non subire lo stress del momento, prendere decisioni in millesimi di secondo». 

Gilles Villeneuve l'ha conosciuto bene. Cosa evoca di questa figura mitologica?

«Aveva grandi doti naturali. Poteva guidare qualsiasi mezzo a motore, F1, automobili stradali, barche, elicottero. Guidava tutto oltre il 100%, era sempre così. Al Gp di Long Beach, in qualifica, con gomme da qualifica, lui fece il giro e non rientrò al box, fece due giri ulteriori, rimanendo senza benzina sul tracciato. Forghieri s' arrabbiò moltissimo, gli chiese: "Perché?". Lui rispose che la macchina era molto divertente da guidare in controsterzo, come una macchina da rally con gomme degradate.

Questo era Villeneuve».

 E Michael Schumacher?

«È stato un grande campione, ha portato un cambiamento nell'autogestione del pilota, nella preparazione fisica, nel capire l'auto da corsa, non solo guidandola, ma anche osservando i dati tecnici. Aveva un computer per guardare i dati della telemetria. Portò il professionismo a un livello superiore». 

Niki Lauda.

«Con Niki Lauda siamo allo step, a livello professionistico, di 20 anni prima. Rispetto ai suoi compagni di avventura era più professionale. Dava informazioni molto dettagliate agli ingegneri, leggeva l'andamento della gara in modo unico, una lucidità fantastica». 

Clay Regazzoni.

«È stato un grande amico, ci siamo divertiti tanto, abbiamo giocato anche a tennis. A lui piaceva anche la vita al di fuori dell'automobile, non era pane e motori. Era molto veloce, ma non sempre come Lauda. Fortissimo in alcuni circuiti, in altri non altrettanto. Guidava molto più d'istinto rispetto a Niki». 

Nella sua infanzia, suo padre le parlava di corse e piloti?

«Sì, gli facevo domande. Vivevo a Castelvetro, qui vicino a Maranello. Di fronte a casa c'era un meccanico di biciclette che poi si occupò anche di piccoli motorini, i Mosquito. Ho imparato a montare e smontare i motori (sorride), a revisionarli, elaboravo i cinquantini, sostituivo il carburatore. Da lì la passione del capire come funziona un motore termico». 

In un'intervista tv a Enzo Biagi, Enzo Ferrari diceva di avere un carattere «scorbutico» e «brutalmente sincero».

«Di mio padre devo dire che quando parlava, sì, sembrava un po' brutale. Parlava con la stampa una volta l'anno, i giornalisti facevano a botte per venire alla conferenza stampa». 

Lei ha figli?

«Ho una figlia, Antonella, 54 anni, che ha due figli, Enzo di 34 e Piero di 22. Anche mia figlia è appassionata di auto. I miei nipoti si stanno inserendo bene nel mondo del lavoro e degli affari, sono contento». 

Nell'approccio educativo si ritiene diverso da suo padre?

«Sono diverso, per come mi relaziono con gli altri. Il suo carattere era stato forgiato da due guerre, io sono sempre stato più calmo, riflessivo». 

Di quali auto si serviva, per gli spostamenti, Enzo Ferrari?

«Ne ha avute tante. Ovviamente aveva sempre una Ferrari. Gliela facevano come piaceva a lui. Ha avuto tutte le versioni delle "2+2", si muoveva sempre col suo autista, allora non si usava la guardia del corpo, e un barboncino, sempre in macchina con lui. Di vetture da tutti i giorni ne aveva di vari tipi, molte Fiat, "1100 Turismo veloce", la 125 la 124, fino alle Ritmo, che prendeva normali però le faceva col motore Abarth perché non voleva il marchio Abarth. Ha avuto anche due Peugeot, perché era amico personale di Roland Peugeot, e anche la prima Renault turbo, l'acquistò perché voleva sapere com' era». 

E lei, ingegnere?

«Oggi uso frequentemente la Ferrari Roma, da sempre ho avuto Ferrari, in garage ho la «Enzo», non le ho mai vendute, le conservo». 

Quante ne ha?

«Una dozzina. Quelle che ho comprato e guidato». 

Nel giugno 1988, suo padre stava poco bene e le affidò il compito di ricevere Giovanni Paolo II, in visita a Maranello e Fiorano. Con il papa a bordo, lei guidò una «Mondial» cabrio. Che vi diceste?

«Parlare a Giovanni Paolo II era difficile perché emanava un carisma e una forza che, davanti a lui, non sapevi cosa dire. Atterrò con l'elicottero, si diresse verso la papamobile, credo fosse una Toyota, per fare un giro della pista e benedire i fedeli. Io ero un passo dietro a lui. Si rivolse al suo segretario: "Come mai non abbiamo una Ferrari oggi?". Il segretario mi disse: "Possiamo avere una Ferrari?". Dissi a un collaudatore: "Trovami una Mondial cabrio!". 

L'auto arrivò e, dopo la messa, volle fare il giro con la Ferrari. Io alla guida ero un po' preoccupato, perché la macchina era in riserva. Ma ce la facemmo». 

Del celebre duello tra Villeneuve e Pironi al Gran Premio di Imola 1982, suo padre disse: «Hanno assunto rischi non necessari».

Fino a che punto si contiene l'antagonismo tra i piloti di una stessa scuderia?

«Il pilota corre per vincere. Ma nella F1 di oggi abbiamo la telemetria, la radio, sappiamo cosa succede ogni secondo. La cosa importante è portare a casa i risultati per la Ferrari». 

Il primo campionato mondiale di F1, nel 1950, in cui debuttò anche la Ferrari «166 F1», serviva anche per promuovere la vendita di auto. Oggi è ancora così?

«Mio padre ha iniziato a produrre vetture Gran Turismo per finanziare le corse. Il suo scopo ultimo era quello. Oggi le vendite non sono in funzione delle vittorie. Negli ultimi due anni abbiamo avuto pochi successi in F1, ma le vendite sono andate bene ugualmente.

 Certo non posso immaginare una Ferrari senza competizioni. È una battuta, ma se un domani qualcuno deciderà di smettere di correre, spero di non esserci più». 

Suo padre la portava in vacanza sulla riviera romagnola?

«Mi diceva: "Domani facciamo un giorno di ferie al mare. Ti vengo a prendere alle 11, del mattino", perché prima andava in ufficio. Andavamo a Rimini, a dei ristorantini di pesce sul porto canale, si stava lì fino alle 15. Due passi e poi diceva: "Dai che facciamo in tempo a tornare in ufficio"». 

Chi acquista l'ultimo modello Ferrari, la «Purosangue», 725 cavalli: venerazione in garage o partenza immediata?

«È una vettura con quattro posti e quattro porte, permette di andare con chi vuoi, c'è un ampio bagagliaio, col piacere di guidare una Ferrari. La Roma che uso oggi ha due piccolissimi posti posteriori, una panchetta. La Purosangue è l'auto che aspetto di ritirare per averla ogni giorno». 

A quando la consegna?

 «(sorride) Ai primi dell'anno. Spero che me la diano».

 

Top ten ottobre, ecco le 10 auto più vendute in Italia e quanto costano. Federico Pesce su La Repubblica il 3 Novembre 2022

Mercato dell’auto in netta ripresa: dopo agosto e settembre in positivo, anche ottobre ha registrato un buon incremento (14,6%) rispetto allo stesso mese dello scorso anno. Tradotto in numeri parliamo di 115.827 immatricolazioni contro le 101.103 di ottobre 2021. Dal punto di vista delle aree geografiche, il Nord Ovest conferma il primo posto, con il 31,9% di quota. Il Nord Est scende invece al 28,1% mentre il Centro è stabile al 23,9%. L’area meridionale scende infine al 10,8% e quella insulare al 5,2%.

1. FIAT PANDA  (8.336 unità)

In testa alla top ten dei modelli più venduti a ottobre in Italia troviamo lei, la Fiat Panda, un’auto che dal 1980 ad oggi è stata prodotta in tre serie (la prima disegnata da Giorgetto Giugiaro) per un totale di 8 milioni di esemplari.  Con prezzi che oscillano fra i 15.400 e 18.400 euro, la Panda è disponibile in due alimentazioni: Benzina/GPL e Mild hybrid /Benzina. Le cilindrate vanno da 999 cc a 1242 cc con un range di potenze fra i 69 e 70 Cv. Il bagagliaio offre 225 cm3 di capienza che arriva a 870 cm3 a sedili abbassati.  

2. LANCIA YPSILON  - 3.662 unità

Secondo posto per un’altra vettura della galassia Stellantis: la Lancia Ypsilon è l’erede della omonima progenitrice del 2003 (che a sua volta discende dalla Y del 1995) e dal 2011 viene prodotta nello stabilimento di Tychy. Dopo essere stata venduta in Irlanda, nel Regno Unito e in Giappone, da maggio del 2017 è commercializzata solo in Italia. Il suo listino parte da 15.600 e arriva a 20.800 euro, con una scelta di due tipi di alimentazione: Benzina/GPL, Mild hybrid /Benzina. La cilindrata varia da 999 a 1242 cc con potenza di 69 Cv. Il bagagliaio va da 202 a 940 cm3. 

3. JEEP RENEGADE - 3.565 unità

Chiude il podio il piccolo Suv di casa Jeep, diventato in otto anni un bestseller del mercato italiano. Il suo esordio risale al Salone di Ginevra del 2014 dove fu presentato alla presenza di Mark Allen, capo del centro stile Jeep. I prezzi in questo caso partono da 25.400 euro per arrivare fino a 44.800, mentre la disponibilità delle alimentazioni vede 4 opzioni fra Benzina, Diesel, Plug-in hybrid /Benzina e Mild hybrid /Benzina. Il range di cilindrate è compreso fra i 999 e i 1598 cc, con potenze fra i 120 e i 240 Cv. Bagagliaio generoso da 351 cm3 fino a 1297 a sedili abbassati.  

4. CITROEN C3 - 2.959 unità

Giunta ormai alla sua terza generazione, la C3 fece il suo debutto al Salone di Francoforte nel 2001 con il compito di mandare in pensione la Saxo, vettura che oramai non era più in grado di tenere il passo con il mercato soprattutto in termini di normative europee. La gamma è piuttosto semplice, perché si propone a listino solo con le due tradizionali alimentazioni a benzina e a gasolio. I prezzi partono da 19.500 euro e arrivano fino a 25.500 e il range di cilindrata è compreso fra 1199 e 1499 cc, con potenze fra 83 e 110 Cv. Il volume del bagagliaio è di 300 cm3 fino a 1300 cm3.  

5. FIAT 500 - 2.940 unità

Sulla Fiat 500 si è già scritto praticamente tutto. Vera e propria icona del Made in Italy, qui possiamo solo ricordare che la versione esposta al Museo d’Arte Moderna di New York è quella disegnata da Dante Giacosa che esordì nel 1957. Il modello che conosciamo oggi ha invece iniziato il suo  percorso nel 2007, prendendo spunto dalla sua celebre antenata e offrendo nel tempo varie alimentazioni. Da quest’anno esiste solo il modello 1.0 Hybrid  con alimentazione Mild hybrid/Benzina, e il cui prezzo oscilla fra 17.800 e 20.500 euro. Unica cilindrata di 999 cc da 70 Cv e bagagliaio limitato a vantaggio di un look senza tempo: 185/530 cm3. 

6. FORD PUMA - 2.917 unità

Svelata per la prima volta al Salone di Francoforte del 2019, la Puma si basa sulla stessa piattaforma della Ford Fiesta. Nella top en di ottobre ha conquistato un buon sesto posto grazie a un design accattivante che racchiude due tipi di alimentazione - Benzina e Mild hybrid /Benzina -, cilindrate contenute, da 998 a 1499 cc e potenze comprese fra 125 e 200 Cv. I prezzi partono da 26.500 e arrivano a 37.750 euro, mentre il bagagliaio offre un volume di carico di 523 cm3 che diventa 1216 a sedili abbassati.  

7. TOYOTA YARIS CROSS - 2.586 unità

Settimo posto per il crossover nipponico, che ad agosto ha festeggiato i suoi primi due anni di produzione. Piccola curiosità: il suo debutto era stato previsto sulla passerella del Salone di Ginevra 2020, quindi a marzo. Poi a causa del Covid, fu svelata online il 23 aprile dello stesso anno.  Prodotta in Francia presso lo stabilimento di Valenciennes sulla nuova piattaforma modulare denominata TNGA, dispone di una sola alimentazione full hybrid/benzina con motore 1490 cc da 116 Cv. Il bagagliaio è generoso - 320/1000 cm3 - mentre i prezzi partono da 27.450 e arrivano fino a 34.900 euro. 

8. DACIA SANDERO - 2.473 unità

La terza generazione della Dacia Sandero riprende in sostanza la stessa filosofia con cui nel 2008 iniziò la sua avventura in Europa: offerta semplice, prezzi contenuti. Grazie a questa ricetta la Sandero è riuscita ad entrare a ottobre nella top ten del mercato italiano con un pugno di unità in meno rispetto alla ben più blasonata Yaris Cross (2.473 contro 2.586). Per la entry level bastano 11.700 euro che tuttavia lievitano a 16.950 per la versione top di gamma. Due alimentazioni a disposizione, Benzina e Benzina /GPL, un solo motore da 999 cc ma con potenze diverse fra i 65 e i 100 Cv, e per finire un bagagliaio di tutto rispetto, in particolar modo con i sedili abbassati: 410/1455 cm3.  

9. TOYOTA YARIS- 2.311 unità

Forse non molti sanno che il termine "Yaris" deriva da "Charis", la forma singolare di Charites (Cariti o Grazie), le dee greche che rappresentano fascino, bellezza e eleganza. In Italia, quando nel 1999 fece la sua prima apparizione sbaragliando in poco tempo la concorrenza, la bestseller Toyota si è conquistata il soprannome di “piccolo diavolo” per le sue doti di maneggevolezza e versatilità. La quarta generazione dispone di due alimentazioni Benzina e Full Hybrid/Benzina, con un propulsore da 998/1490 cc con potenze comprese fra i 72 e 261 Cv. Partendo da 141 cm3, il bagagliaio può arrivare fino a 950 di volume mentre i prezzi partono da 19.750 euro. 

10. RENAULT CLIO  - 2.254 unità

Chiude la top ten di ottobre la Renault Clio, vettura alla quale nel 1990 a cui venne affidato il compito di sostituire la Supercinque, una delle utilitarie più vendute in Europa. Da allora la casa francese ne ha sfornate cinque serie, l’ultima delle quali, quella attuale, presentata nel 2019. Con un prezzo di partenza di 17.200 euro e uno di arrivo di 26.400, la Clio viene messa a listino con 4 opzioni di alimentazioni: Benzina, Diesel, Benzina/GPL e Full Hybrid/Benzina. Le cilindrate sono comprese fra i 999 e i 1598 cc con potenze fra i 65 e i 143 Cv, mentre spicca la generosità del bagagliaio già in posizione standard, con 366 cm3 che diventano 1069 quando i sedili posteriori vengono abbattuti per fare spazio. 

Le dieci auto più costose e disponibili sul mercato. Roberto Gurian su La Repubblica il 20 settembre 2022.

Beato chi non ha limiti e può spendere praticamente qualunque cifra per un’automobile. Somme letteralmente da capogiro riguardano gli esemplari da collezione rari, rarissimi e anche quasi unici, contesi da un nemmeno troppo sparuto gruppo di collezionisti invitati alle aste che contano. Vera e propria forma di investimento, l’auto storica può arrivare a quotazioni difficilmente immaginabili. Il record è stato recentemente battuto dal privato che si è aggiudicato una delle due Mercedes 300 SLR Uhlenhaut mai realizzate per una cifra di 143 milioni di dollari, all’epoca dell’acquisto a maggio circa 135 milioni di euro. Una somma che batte la quotazione di un altro gioiello d’epoca, una Ferrari GTO del 1962, “battuta” attorno a 87 milioni di euro. Cifre considerevoli, sono un paio di decine di milioni, si possono spendere per vetture speciali in tiratura limitata ma si entra in un settore che esula dal vero e proprio mercato automobilistico. Quest’ultimo fa registrare una nuova entrata con la costosa Ferrari Purosangue che, tuttavia, non è l’auto in vendita tramite un listino ufficiale ad essere la più cara in assoluto. Scopriamo, listini alla mano, quali costano di più e di meno della nuova creatura di Maranello nella classifica delle 10 più dispendiose e disponibili sul mercato.

1 – Rolls Royce Phantom

Fedele alla tradizione che le vuole sfrenatamente lussuose, le Rolls Royce rimangono sul tetto del mondo. Il prezzo deriva dalla qualità di materiali ricercati e dalle finiture eseguite completamente a mano con cura artigianale nello stabilimento inglese di Goodwood. Il record appartiene alla versione EWB a passo lungo che si può acquistare per la modica cifra di 580.000 euro, ovviamente personalizzata secondo le preferenze del cliente. 

2 – Ferrari SF90

La sigla è quella di una monoposto di Formula 1 e identifica un’auto dalle caratteristiche speciali persino per una Ferrari. La propulsione ibrida permette di disporre di 1000 cv in combinazione tra un V8 turbo di 4 litri e il motore elettrico. Le prestazioni sono da vettura da competizione, con un tempo di 2”5 in accelerazione da 0 ai 100 orari e una velocità di 340 km/h. La più cara è la versione Assetto Fiorano per chi va spesso in pista: 498.000 euro. Il prezzo d’accesso è sui 440.000 euro. 

3 – Lamborghini Aventador SVJ

Le Lamborghini sono, da sempre, le auto preferite da chi non vuole passare inosservato. Fuori dal comune per l’aspetto ma, ovviamente, anche per le prestazioni e la tenuta di strada. La più costosa delle GT prodotte a S. Agata Bolognese è la Aventador, spinta da un fantastico V12 che arriva a 770 cv per la variante più cattiva, la SVJ (Super Veloce Jota) che è in listino a 475.000 euro nella configurazione Roadster. La coupé 433.000 euro come SVJ e 347.000 euro siglata S. 

4 – Rolls Royce Cullinan

Anche se di proprietà del gruppo BMW, la Rolls Royce non si dissocia dalla tradizione di costruttore di auto di lusso ai vertici con prezzi d’acquisto corrispondenti. Non scherza nemmeno la Cullinan, primo Suv del marchio che prende il nome dal diamante più famoso al mondo. Chi si accontenta della versione di base con il V12 di 6750 cc da 571 cavalli deve mettere in preventivo una spesa di 381.000 euro. Che diventano 420.000 esagerando con la versione Black Badge da 600 cv destinata ai più sportivi. 

5 – Ferrari Purosangue

(ansa)La più recente delle Ferrari ha caratteristiche particolari come le quattro porte che si aprono a libro e i quattro posti a bordo. Di speciale ha anche il V12 dei Maranello da ben 725 cv, che garantisce prestazioni di origine controllata, con una velocità di punta di 310 km/h. Guai a definirla come un Suv, nonostante il tamtam delle indiscrezioni l’abbia annunciata come tale. In arrivo a metà del 2023, sarà venduta a partire da 390.000 euro. 

6 – McLaren 765LT

Rivalissima della Ferrari nei Gran Premi di Formula 1 sino dagli anni ’70, la McLaren è divenuta una concorrente del marchio con il cavallino rampante anche per quanto riguarda le GT stradali. La gamma si è ampliata nel corso degli anni, pur se imperniata su varie versioni di un motore V8 bitubro di 4 litri. La più cara in produzione è la specialissima 765LT, che prende il numero dai cavalli disponibili ed è in vendita a partire da 382.000 euro. 

6 – Rolls Royce Ghost

Leggermente più compatta e slanciata della Phantom, la Ghost si può considerare come la piccola di casa Rolls Royce pur mantenendo dimensioni rilevanti. Comfort e lusso sono spinti ai massimi livelli, con il solito V12 biturbo da 571 cv a muovere un mezzo che dispone della trazione integrale come il Suv Cullinan. Quella che è la più economica delle Rolls Royce si vende a partire da 325.000 euro, che diventano 380.000 nella versione a passo lungo. 

7 – Bentley Mulsanne

Da sempre alter ego della Rolls Royce, anche la Bentley è stata acquisita da un gruppo tedesco, in questo caso quello che fa capo alla Volkswagen. Leggermente meno costose (si fa per dire…) delle Rolls, le Bentley sono comunque rifinite interamente a mano e personalizzabili a piacere con materiali di altissima qualità. Ai vertici del listino c’è la berlinona Mulsanne che nella configurazione a passo lungo viene commercializzata a partire da circa 379.000 euro.

8 – Aston Martin DBS

Tante vicissitudini societarie non hanno scalfito l’immagine e il blasone dell’Aston Martin. Il marchio britannico, leggendario per le vittorie in pista e la DB5 di James Bond, si è rilanciato anche in Formula 1 con l’obiettivo di vendere auto molto sportive e allo stesso tempo lussuose. Ai vertici spicca la DBS con il V12 di 5,2 litri da 725 cv che nella versione con tetto apribile Volante è in vendita a partire da 342.000 euro. 

9 – Lamborghini Huràcan STO

Come tutte le più recenti Lamborghini, anche la più compatta Huracàn è partita con una trasmissione basta sulle quattro ruote motrici. Le versioni a trazione posteriore sono arrivate in seguito anche su sollecitazione di chi le vuole usare in pista, non solo per divertimento. Ai vertici della gamma troviamo così la STO, spinta da un motore V10 aspirato da 610 cv e studiata per un uso estremamente sportivo. Costa 313.000 euro. 

10 – Bentley Continental GT

La più sportiva delle Bentley non rinuncia al lusso e alle finiture artigianali che sono i punti forti del marchio britannico. La versione di punta Speed è spinta da un motore a 12 cilindri disposti su tre bancate a forma di W in grado di erogare 659 cv per prestazioni di rilievo nonostante peso e dimensioni della vettura. Nella versione Convertible con tetto apribile, la Continental Speed è in listino a 307.000 euro.

Lamborghini, l'ambizione e l'immortalità del Made in Italy. Con Lamborghini - The man behind the legend il cinema prova a raccontare l'incredibile figura di Ferruccio Lamborghini, esponente di quel Made in Italy invidiato in tutto il mondo. Erika Pomella il 24 Ottobre 2022 su Il Giornale.

È stato presentato in anteprima mondiale ad Alice nella Città - sezione autonoma della Festa del Cinema di Roma - Lamborghini - The man behind the legend, pellicola diretta da Bobby Moresco che debutterà a gennaio nel catalogo Prime Video. Se, oggi, in Italia, il nome Lamborghini viene associato a Ginevra e alla sua avventura al Grande Fratello Vip, o ai singoli con cui Elettra cerca di scalare le classifiche musicali, è indubbio che il nome Lamborghini, con il toro che campeggia nello stemma, continua ad essere il simbolo immortale di un'eleganza e di una ricchezza fuori dalla portata dei comuni mortali. Qualcosa che trascende la quotidianità e che appartiene, appunto, al mito. È il protagonista stesso a dirlo all'interno della pellicola, quando dice: "Compri una Ferrari quando vuoi essere qualcuno. Ma compri una Lamborghini quando sei qualcuno".

Lamborghini, la trama del film

La pellicola, divisa in tre capitoli come fossero gli atti di una tragedia, racconta la storia di Ferruccio Lamborghini, personalità che si è imposta nel mercato automobilistico, rappresentando un marchio imprescindibile di quel Made in Italy invidiato in tutto il mondo. A interpretare il genio e magnate della nota casa automobilistica ci sono due attori. Da una parte Romano Reggiani, che interpreta Ferruccio Lamborghini agli albori, un giovane rientrato dalla guerra che non vuole ereditare la fattoria di famiglia ma vuole invece dedicarsi ai motori, fino alla creazione dei trattori Lamborghini che rappresentano il vero salto di qualità. Dall'altra c'è l'attore Frank Grillo, famoso per aver interpretato la bellissima serie Kingdom, che invece presta i suoi lineamenti al Ferruccio Lamborghini dell'epoca d'oro, quella delle grandi auto da corsa per cercare di rivaleggiare con Enzo Ferrari (interpretato da Gabriel Byrne).

Ambizione e passione

Quando si ha a che fare con un film biografico che vuole indagare personaggi illustri della storia moderna e contemporanea, si corre spesso il rischio di scivolare in una romanticizzazione troppo esagerata, che smussa i difetti ed insiste sui lati positivi al punto da risultare stucchevole. È un problema, questo, che non sembra riguardare Lamborghini - The man behind the legend, pellicola prodotta da Andrea Iervolino e Lady Monika Bacardi, con la loro Iervolino & Lady Bacardi Entertainment S.p.A. Il Ferruccio Lamborghini interpretato da Romano Reggiani e Frank Grillo non è un eroe convenzionale, né una figura del tutto positiva. Nella pellicola, al contrario, si vede un ragazzo pieno di sogni e passione, con una scintilla di genialità che gli permette di vedere concretamente ciò che altri non hanno nemmeno il coraggio di immaginare. È un creativo con la testa tra le nuvole e i piedi sulla Terra, che cammina perseguendo il suo obiettivo. La sua ambizione, tuttavia, per quanto ben motivata visti i successi poi della casata Lamborghini, è molto spesso accompagnata da un'indifferenza che non sfocia mai nella crudeltà, ma che lo identifica come un personaggio in qualche modo problematico. A tratti arrogante, che non si fa scrupoli a usare ciò di cui ha bisogno per arrivare ai suoi obiettivi, che sia usare i soldi dell'ipoteca sulla fattoria di famiglia o conquistare la donna del proprio amico per dare una madre a un figlio destinato a crescere nell'ombra di un padre che appartiene alla leggenda e che, forse proprio per questo, rimane inavvicinabile.

L'aspetto più interessante e più riuscito del film è proprio nella costruzione del suo protagonista, che sembra una fonte inesauribile di amore e rispetto per coloro che condividono con lui l'ambizione alla perfezione, mentre allo stesso tempo è un uomo difficile da avere nella vita quotidiana, che sia come compagno o come padre. In questo senso sono davvero magistrali le prove offerte dai due interpreti: Romano Reggiani si affaccia sul grande schermo offrendo al pubblico un ostinato desiderio di successo e affermazione così grande da non fermarsi davanti a niente e nessuno. Il suo Ferruccio ha la faccia pulita di chi pensa di essere una brava persona, ma lo sguardo acceso di un uomo ambizioso che non si preoccupa di mettere le mani sul volante quando sente che la guida di altri non è quella che serve alla sua vita. Frank Grillo, coi suoi sorrisi disarmanti e lo sguardo cupo di un animale pronto ad attaccare, rappresenta invece il Ferruccio Lamborghini che non si è mai arreso, che ha preso lo snobismo con cui è stato accolto nel mondo delle auto di lusso, per dimostrare la forza della propria voce e, soprattutto, della propria visione. L'unica pecca è la scelta di far recitare gli interpreti con un inglese dal marcato accento italiano del tutto inutile, che rischia di creare quell'effetto straniante che aveva già colpito House of Gucci. Sebbene sia un po' vago nelle date degli eventi narrati, Lamborghini - The man behind the legend è una pellicola dal ritmo incalzante, che non annoia mai, e che pone sotto la lente d'ingrandimento il cuore pulsante di un uomo ossessionato dalla sua ambizione e "principe" di un impero che ha fatto la storia.

Pedro Armocida per “il Giornale” il 24 Ottobre 2022.

Ieri, giorno di chiusura della 17esima Festa del cinema di Roma, anche se, curiosamente, la premiazione vera e propria è avvenuta sabato e ancora oggi ci sono delle proiezioni ufficiali, nella sezione Alice nella città maggiormente rivolta ai più giovani, è stato presentato un mito italiano diventato film: Ferruccio Lamborghini, il fondatore del celebre marchio automobilistico. Lamborghini, diretto da Bobby Moresco, premio Oscar con Paul Haggis per la sceneggiatura di Crash, e tratto dal libro Ferruccio Lamborghini.

La storia ufficiale (Minerva Edizioni), uno dei cinque scritti sul padre da Tonino Lamborghini, arriverà su Prime Video a gennaio del prossimo anno. In poco più di un'ora e mezza Bobby Moresco riesce a ripercorrere la vita e il genio applicato alle macchine di Ferruccio Lamborghini, nato a Renazzo, nel comune di Cento (Ferrara) nel 1916, che, appena tornato dalla Seconda guerra mondiale, inizia a progettare delle macchine agricole nel film vediamo il primo modello Carioca, un ibrido ante litteram con due serbatoi facendo diventare in pochi anni la Lamborghini Trattori, che aveva già il toro, suo segno zodiacale, come marchio, una delle più importanti aziende costruttrici italiane.

Amante delle auto sportive, dopo un confronto con Enzo Ferrari (nel film è Gabriel Byrne), rimasto leggendario, Lamborghini, interpretato dall'attore italo-americano Frank Grillo, agli inizi degli anni Sessanta inizia a produrre auto da corsa in proprio ottenendo un grandissimo successo con il mitico modello Miura: «È storia nota racconta il regista che ci sia stato quell'incontro tra questi due giganti della industria automobilistica mondiale. Ne hanno scritto in tanti ma la verità è che non c'erano testimoni e dunque nessuno sa che cosa si sono detti. Mi sono documentato tantissimo e ho comunque cercato di immaginare il loro dialogo che, anche se era tra due geni, per me era, prima di tutto, tra due esseri umani».

Per far capire di che cosa stiamo parlando, anche se le Lamborghini sono nell'immaginario collettivo, la produzione del film, Lambo Film, con quella esecutiva di Ilbe (la casa di produzione di Andrea Iervolino e Lady Monika Bacardi che curiosamente sta lavorando anche nel film su Ferrari diretto quest' estate da Michael Mann), e Notorious Pictures con la collaborazione di Prime Video, hanno portato alla serata di gala di presentazione otto auto d'epoca con, in testa, la famosa Lamborghini della Polizia di Stato, tutte precedute da un trattore Lamborghini.

Un colpo d'occhio che ha trasformato Via della Conciliazione nell'hollywoodiano Sunset Boulevard: «Io vivo a Hollywood racconta il protagonista Frank Grillo, padre calabrese e mamma napoletana dove è pieno di Lamborghini molto più che di Ferrari. Nell'interpretare Ferruccio Lamborghini ho cercato di capirlo sia come imprenditore che come uomo, per restituire quella scintilla che lo spingeva a essere geniale».

Certo, come ricostruisce il regista, «l'ascesa di Ferruccio Lamborghini da figlio di agricoltori a industriale di fama mondiale ha coinciso con il cambiamento dell'Italia del dopoguerra da nazione agricola a nazione industriale, è stato un periodo affascinante ed emozionante», ma l'altra realtà è che stiamo celebrando un mito italiano di proprietà, dal 1998, della tedesca Audi.

Alla conferenza stampa di presentazione c'era anche Tony Renis, sue due canzoni nel film rimasterizzate per l'occasione, che era molto amico di Ferruccio Lamborghini, morto nel 1993, e appare in un cameo: «Quando mi esibivo negli anni Sessanta nelle balere dell'Emilia Romagna lui veniva a sentirmi, era un mio ammiratore. Ho accettato subito di apparire e ho contribuito a trovare chi mi potesse interpretare da giovane. Stavo al telefono con il mio amico Gianni Morandi dicendogli che non trovavo un me per il film e lui mi ha consigliato suo nipote Giovanni, figlio di Biagio Antonacci».

Fenomeno DR 5.0: l’auto molisana è terza tra le crossover, regina del gpl. Le caratteristiche. Maurizio Bertera su Il Corriere della Sera il 6 Settembre 2022.

La vettura assemblata a Isernia è sempre più protagonista sul mercato italiano: con le 1.540 unità immatricolate in agosto è salita ai vertici delle classifiche. Portando la Casa, insieme ai modelli Evo, a un sorprendente 2,92 per cento di quota

Una crescita costante

La crescita di DR Automobiles non è una sorpresa, ma qualche anno fa non era ipotizzabile che la Casa molisana arrivasse a sfiorare il 3 per cento di quota sul mercato nazionale. Il 2,92 per cento nel mese di agosto, sentenziato dai dati Unrae, è superiore alla quota di marche storiche quali Skoda, Jeep, Opel e tre volte circa quella di Volvo. L’exploit è impressionante: 2.078 unità immatricolate tra i brand DR e Evo (solo a zero emissioni) nel mese contro 385 dell’agosto 2021. E nei primi otto mesi del 2022, la quota DR è all’1,58 per cento, con la certezza di un’ulteriore salita entro fine anno.

Regina delle GPL

Il risultato è in gran parte merito della DR 5.0: tre quarti delle immatricolazioni (1.540 unità) appartengono all’urban Suv della Casa molisana. Un numero che ne ha fatto - sempre in agosto - la terza crossover in Italia, preceduta da Ford Puma e Volkswagen T-Roc mettendo dietro modelli importanti come Renault Captur o Toyota Yaris Cross. E, siccome il venduto è quasi interamente motorizzato benzina/GPL, ecco il primato tra i modelli con questa alimentazione con il sorpasso su una corazzata quale Dacia Sandero che peraltro domina insieme alla cugina Duster la classifica da gennaio ad agosto 2022. Con questo ritmo, da qui a dicembre, la DR 5.0 potrebbe scalare altre posizioni.

Una gamma completa

Non è difficile spiegare il successo del marchio fondato dall’imprenditore Massimo Di Risio (da qui l’acronimo DR) nel 2006 a Macchia d’Isernia, con l’obiettivo di assemblare auto, con leggere modifiche estetiche, provenienti dalla Cina (sono di Chery Automobile) per metterle a punto e commercializzarle con il proprio marchio. Al di là del prezzo competitivo (che invece ispira nettamente l’altro brand Evo, basato su mezzi di Jac Motors), è stato il miglioramento costante della qualità a fare la differenza, facendo apparire il modello del debutto - DR 5 al Motor Show di Bologna 2007 - quasi la macchina dei Flinstone. Oggi, la gamma DR conta sui coupé Suv F35 touring Suv, 4.0 family Suv, 6.0 voyager Suv e appunto sulla 5.0 urban Suv.

Dr 5.0, il design

Sono molti aspetti, la 5.0 è un’evoluzione della DR 4.0: le differenze riguardano il paraurti anteriore, dallo stile più aggressivo e con mascherina ingrandita, i fari (qui a led) e la plancia, più moderna e con display centrale di 12,3" invece che di 9". È presente anche Android Auto (nella 4.0 c'è solo la funzione di mirroring). Le dimensioni sono di 432 cm (lunghezza), 183 (larghezza) e 167 (altezza) mentre il bagagliaio che in configurazione normale ha 340 litri di capacità arriva a 1.100 in quella massima. Il design è contemporaneo, proporzionato, senza forzature.

I prezzi

Due le varianti di motorizzazione, con trazione anteriore: 1.5 quattro cilindri aspirato (116 Cv) con il cambio manuale e turbo (154 Cv) con il cambio automatico CVT. In entrambi i casi si può chiede di montare l’impianto GPL che fa perdere qualche cavallo (si scende a 114 e 149) ma porta a una superiore economia di consumi: 9,8 litri/100 km per l’aspirato e 9,6 litri/100 km per la turbo. I prezzi sono allettanti, vista la buona dotazione di serie fermo restando che non si possono pretendere la serie di ADAS della fascia superiore: 21.900 e 23.400 euro per la 1.5 benzina e benzina/GPL; 24.900 e 26.400 euro per le turbo.

Gli altri brand

Come detto DR Automobiles sta spingendo il secondo marchio Evo (con i modelli Evo3, Evo4, Evo 3 Electric, Evo Cross 4) ma soprattutto è pronta al lancio dei primi modelli Sportequipe e del K2 di Ickx, i nuovi brand presentati lo scorso giugno che saranno commercializzati attraverso un network dedicato. E a Macchia d’Isernia si lavora all’allargamento del sito come si legge in una nota ufficiale: «Attraverso l'avvio della linea di produzione dedicata ai nuovi brand, l'ampliamento dello stabilimento produttivo già esistente, in cui oggi si lavora su tre turni, e il completamento del nuovo magazzino centrale». Sostanzialmente, è una storia in gran parte ancora da scrivere.

L'auto italiana più potente di sempre non è una Lamborghini e nemmeno una Ferrari. Ecco la Pininfarina Battista. Andrea Paoletti su Il Corriere della Sera il 4 Agosto 2022.

La Pininfarina Battista, hypercar realizzata a Cambiano, in Italia, è entrata da poco in produzione. Solo 150 esemplari per la super sportiva da 1900 CV, con un livello di personalizzazione estremo

È iniziato da poche settimane il conto alla rovescia per i fortunati acquirenti della hypercar Battista prima vettura prodotta da Automobili Pininfarina, la società italo-tedesca controllata dal gruppo indiano Mahindra. Si tratta dell’automobile più potente mai realizzata in Italia, grazie ai suoi quattro motori elettrici indipendenti, uno per ruota, in grado di sprigionare fino a oltre 1.900 Cv di potenza.

Aerodinamica raffinata e prestazioni mozzafiato

La hypercar elettrica dell'azienda italo-tedesca è in parte derivata dalla Rimac Nevera, (della quale è stato appena completato il primo esemplare di serie) con la quale condivide circa la metà dei componenti, tra i quali la fondamentale batteria, sempre prodotta da Rimac, dotata di 120 kWh di capacità. Questo pacchetto tecnico, combinato alla raffinata aerodinamica sviluppata nella galleria del vento di proprietà di Pininfarina, che ha compiuto 50 anni, permette di coprire lo 0-100 km/h in meno di 2 secondi e di raggiungere una velocità massima di 350 km/h. 

Produzione limitata per pochi eletti

Solo 150 fortunati potranno mettersi in garage questa sportivissima biposto della quale è iniziata da poco la produzione: dovranno aspettare almeno 10 settimane in quanto ogni auto viene assemblata da 10 artigiani che impiegano più di 1.250 ore per portare a termine il lavoro. Per l'esclusiva Battista Anniversario le ore diventano 1.340 e, complice la delicata finitura a mano della verniciatura, il tempo di attesa si allunga a 18 settimane. La personalizzazione e la scelta di materiali innovativi e particolari si spinge verso nuovi confini, basti pensare che i clienti che visitano l'Atelier Battista possono scegliere tra 128 milioni di configurazioni possibili solo per gli interni.

Servizio d’assistenza su misura

Anche l’assistenza ai clienti assume forme particolari; dal programma di manutenzione esclusivo di 5 o 10 anni denominato “Eccellenza” all’estensione di garanzia di ulteriori 7 anni del pacchetto “Futura”, per finire con l’opzione “Eterna” che prevede la consegna di un kit di parti di carrozzeria di ricambio che può essere specificato in fase di configurazione dell'auto. Nel malaugurato caso di un problema tecnico, niente paura: interviene il flying doctor, pronto a raggiungere l’auto ovunque si trovi, in qualsiasi parte del mondo. Tutto questo ovviamente ha un prezzo, che nel caso della Battista è di 2,6 milioni di euro.

Patente moto: niente più esami, basterà un corso. Ecco che cosa cambia prima di Ferragosto. Andrea Paoletti su Il Corriere della Sera l'8 Agosto 2022

In arrivo a breve una rivoluzione per le patenti A3 che promette di snellire le procedure, grazie a un semplice corso da seguire nelle autoscuole 

Patente moto: niente più esami, basterà un corso. Ecco che cosa cambia prima di Ferragosto

In arrivo grandi cambiamenti per tutti coloro che vogliono ottenere la patente di categoria A3 per guidare la moto: per conseguirla infatti non sarà più necessario sostenere alcun esame, ma basterà seguire un corso nelle autoscuole autorizzate. Il Decreto Infrastrutture-Bis infatti ha introdotto delle modifiche che però non saranno valide per tutti, ma solo per coloro che sono già in possesso di patente A1 (conseguibile dai 16 anni) o A2 (conseguibile a 18 anni).

L'ESPERTO RISPONDE

Patente scaduta: cosa fare per rinnovarla

Sparisce l’esame finale

La motivazione principale è sveltire le pratiche e risolvere il problema della carenza di personale delle Motorizzazioni, per questo motivo basterà attendere due anni dal conseguimento della propria patente A1 e A2 per beneficiare di una sorta di «scatto automatico» alla categoria A3 frequentando un corso in autoscuola con parte pratica e teorica della durata minima di 7 ore e senza il temutissimo «esame finale».

La «vecchia» normativa

Dal 2013 a oggi i possessori di patente A1 potevano, al compimento dei 18 anni, ottenere la A2 sostenendo un esame pratico di guida e, analogamente, chi aveva la A2, dopo due anni dal conseguimento della patente, poteva passare alla A3 (quella senza limitazioni di cilindrata e potenza) sempre a seguito di un esame pratico.

In vigore entro Ferragosto

L’entrata in vigore di questa nuova normativa è prevista tra il 10 e il 15 agosto, in quanto il Senato ha già approvato la normativa e si prevede che non ci saranno intoppi alla Camera, vista l’imminente scadenza del DL, prevista prima di Ferragosto. Una buona notizia sia a livello burocratico, con una semplificazione delle procedure, sia per i motociclisti, che potranno velocizzare il passaggio alle patenti delle categorie superiori.

Cosa sapere prima di prestare l’automobile a famigliari e conoscenti. I meccanismi imposti dalle leggi sono diversi e chi si accinge a prestare l’automobile dovrebbe conoscerli per evitare sorprese poco piacevoli. Giuditta Mosca l'1 Agosto 2022 su Il Giornale.

Per quanto possa essere cortese, prestare l’automobile può avere conseguenze sgradevoli. Occorre innanzitutto sapere che il libretto di circolazione deve riportare il nome di chi guida la vettura, così non fosse si possono rischiare multe fino a 712 euro e il sequestro del libretto medesimo. Questa è la definizione di massima, l’argomento merita un approfondimento perché è vario. Occorre stabilire il rapporto di parentela tra il proprietario dell’automobile e chi la guida, così come la durata del prestito.

E cosa dice la legge nel caso in cui il conducente di una vettura non sua dovesse prendere una multa o fare un incidente?

Prestare l’automobile è un contratto di comodato

Secondo l’articolo 1803 del Codice civile, il comodato d’uso si applica a chiunque presti un bene o immobile per un periodo o un uso determinato. Prestare la propria automobile anche soltanto per una manciata di minuti coincide con l’avere dato forma verbale a un comodato che trova ragione d’essere nella consegna delle chiavi della vettura.

Se si presta l’automobile a una persona non convivente per un periodo superiore ai 30 giorni occorre comunicarlo alla motorizzazione affinché sul libretto di circolazione vengano riportati i dati del conducente. Si tratta di fatto di una condizione che raramente le forze di polizia possono attestare con certezza ma, qualora ciò avvenisse, scatterebbe la già citata contravvenzione di 712 euro con il sequestro della carta di circolazione.

Come proteggersi da conseguenze sgradite

Il conducente che dovesse danneggiare l’automobile è chiamato a risarcire il danno anche se il comodato, come spesso avviene, è verbale. Occorre però comprendere soprattutto cosa avviene nel caso in cui il conducente violasse il Codice della strada o arrecasse danni a terzi. E se la questione sembra ovvia, la risposta è tutt’altro che scontata.

L’articolo 2054 del Codice civile stabilisce che il proprietario del veicolo risponde in solido con il conducente di ogni danno causato a persone o cose, a meno che il primo riesca a dimostrare di non essere al corrente che il conducente avesse preso possesso della sua automobile.

Il proprietario della macchina può esigere che il conducente firmi un accordo di non responsabilità in caso di danni causati a terzi ma ciò non lo solleva del tutto, perché il danneggiato può comunque chiedere il risarcimento in solido del danno. Un simile accordo ha tuttavia una sua logica, perché permette al proprietario della macchina di rifarsi, in un secondo momento, sul conducente.

Se la responsabilità civile richiama il principio di responsabilità solidale, la responsabilità penale ricade invece soltanto sul conducente.

Le multe e i punti

Anche per le violazioni del Codice della strada vale la responsabilità solidale per l’ammontare della multa. Se il conducente non la pagasse, l’onere cadrebbe sulle spalle del proprietario. Questa logica non può essere sovvertita da accordi di altra natura, se non la misura in cui il proprietario potrà rifarsi sul conducente in un secondo momento.

I punti della patente, invece, vengono tolti soltanto al conducente ma, se l’ammenda fosse comminata in differita (quindi il conducente non fosse colto sul fatto) il proprietario dell’automobile ha 60 giorni di tempo per rendere noti i dati anagrafici della persona che guidava la vettura al momento dell’infrazione al codice.

L’ipotesi della scrittura privata

Può sembrare un’esagerazione ma è l’unico modo che ha il proprietario per fare valere i propri diritti. Se non ha senso procedere con questa modalità per il prestito della vettura a un famigliare, assume un proprio spessore quando se ne concede l’uso a una persona estranea a gradi di parentela e per un periodo di tempo prolungato.

Se, come detto, accordi scritti non sollevano la responsabilità civile del proprietario ma gli permettono di rivalersi sul conducente in caso di bisogno, occorre tenere conto anche della questione assicurativa. I danni a terzi, in caso di incidente, vengono di fatto coperti dall’assicurazione del proprietario della vettura, al quale però la compagnia di assicurazioni aumenterà il costo della polizza. La scrittura privata può tenere conto anche di questa eventualità, fissando su carta l’obbligo del conducente di farsi carico del maggiore esborso che il proprietario potrebbe essere chiamato a sopportare. Se si ricorre alla scrittura privata è bene anche farsi consegnare la copia della patente del conducente, in modo da poterne comunicare i dati nel caso in cui prendesse una multa.

Monza, l'Autodromo Nazionale compie 100 anni: dall'asfalto drenante alla guida autonoma, la pista dove nascono le nuove tecnologie stradali. Cecilia Mussi su Il Corriere della Sera il 27 luglio 2022.

L'intervista ad Alessandra Zinno, direttore generale del circuito: «Per il Gp del centenario stiamo progettando diverse novità, ma intanto quotidianamente portiamo avanti i lavori tra università e nuove tecnologie

Cento anni e non sentirli. L’autodromo più famoso d’Italia (e forse d’Europa) li compie nel 2022: nel settembre del 1922, infatti, venne inaugurato il circuito di Monza, oggi Autodromo Nazionale Monza, a pochi chilometri da Milano. A quell’epoca era uno dei pochi circuiti sportivi esistenti al mondo, ne esistevano solo altri due: Brooklands (in Inghilterra, aperto nel 1907) e Indianapolis (negli Stati Uniti, in funzione dal 1909). Dei tre, l’autodromo brianzolo sarà però l’unico a diventare, con il passare degli anni, il Tempio della velocità. Qui, nel 2005, Juan Pablo Montoya arrivò a toccare i 372,2 km/h sulla sua McLaren, record ancora imbattuto per un pilota di Formula 1 in pista. Dalle curve sopraelevate sono passate Harley-Davidson e Maserati, tra chicane e varianti si sono dati battaglia piloti come Tazio Nuvolari e Alberto Ascari (che proprio a Monza morirà e a cui verrà intitolata anche una delle varianti), Michael Schumacher e Mika Häkkinen, ma non si può dimenticare che Monza ha «visto nascere» anche tantissime tecnologie del nostro quotidiano, provate in pista e poi arrivate sulle strade solo anni dopo. 

Le tecnologie testate

«Transponder, guard-rail e l’asfalto drenante sono stati testati per la prima volta nel Tempio della Velocità — ricorda Alessandra Zinno, direttrice generale dell’autodromo dal 2020 —. Tra le ultime sperimentazioni avvenute, invece, ci sono i progetti di guida autonoma del Politecnico di Milano. Siamo particolarmente legati nella nostra storia ai progetti che si occupano di sicurezza. Quest’ultima gioca un ruolo fondamentale non solo per la protezione dei guidatori (e nelle gare, dei piloti) ma anche per tutti i frequentatori delle strade. E noi vogliamo continuare a essere il laboratorio permanente che ospita queste innovazioni. Aci, gestore del circuito, ha tra i suoi focus più importanti proprio l’educazione alla sicurezza stradale». Ne sono un esempio l’antesignano dei moderni Telepass, il transponder (il collegamento satellitare per ricevere e trasmettere un segnale), l’asfalto drenante, che sarebbe servito non solo per le gare di moto o auto sportive ma anche per migliorare la sicurezza delle strade di normale percorrenza. Così come il guard-rail, la protezione che si trova ai lati delle carreggiate per «contenere» le auto in caso di sbandamento o impatto, prima testata dai piloti in pista a Monza.

Il Guardled è l'ultima tecnologia testata

E in gara le vecchie tecnologie all’autodromo vengono superate dalle nuove. Le competizioni del circuito dal 2020 vengono dirette dalla nuova direzione gara posizionata nei box, una struttura progettata «con le più moderne tecnologie presenti sul mercato, a partire dai materiali insonorizzanti fino alla parte impiantistica — spiega ancora Zinno —. Abbiamo un videowall composto da dodici monitor da 55 pollici ciascuno che permette ai tecnici di comporre differenti schemi di visione, a seconda delle esigenze della gara, grazie a una matrice video che consente di unire più schermi come fossero un solo apparecchio». Il contributo dell’Autodromo allo sviluppo tecnologico non accenna a rallentare e continua ancora oggi. Alla fine dello scorso anno è stato testato il Guardled, «un altro prodotto che ha l’obiettivo di aumentare la sicurezza stradale e di ridurre l’inquinamento luminoso». Si tratta di una tecnologia che consente di «illuminare le strade attraverso dei led posizionati sui guardrail a 40 cm da terra, con costi di manutenzione molto contenuti rispetto alla tradizionale illuminazione con i lampioni. Anche questo significa prestare attenzione alla sostenibilità ambientale e al rispetto dei luoghi». 

Il rapporto con le università

In pista si innova e si studia, come dimostrano le partnership stipulate con università e aziende del settore che hanno scelto l’Autodromo Nazionale Monza come aula a cielo aperto per i propri corsi. A fine 2021 è stato avviato un accordo con il dipartimento di Ingegneria dell’Università della Calabria, che prevede lo sviluppo di «nuove iniziative in ambito ricerca e sviluppo su tematiche attuali, quali innovazione tecnologica e ricavo di energia da fonti rinnovabili». Tra box e paddock si formano anche nuovi meccanici e ingegneri di pista iscritti alla Motorsport Technical School: la prima scuola in Italia per la formazione di ingegneri in ambito motorsport che ha trovato in Monza il luogo perfetto per chi sogna di lavorare con i motori. 

I preparativi per il centenario

E se pensate che tutto giri attorno a macchine e moto da corsa, Monza è pronta a stupire con i prodotti tech più avanzati del momento. Lo scorso anno è stato il primo autodromo al mondo a produrre Non fungible token (i beni in formato digitale certificati da blockchain). Un progetto che «continuerà nei prossimi mesi e ci saranno a breve delle novità, anche se è ancora presto per parlarne», ci confida la direttrice, che sta lavorando da tempo per organizzare il gran premio del centenario. Una prima sorpresa, però, è stata rivelata. «L’Airbus A350 dedicato a Enzo Ferrari al prossimo Gp, l’11 settembre, sorvolerà il circuito e saluterà la griglia di partenza. Sarà un momento unico e un’occasione di grande visibilità dell’Italia a livello mondiale. Inoltre, proprio il volo sarà alimentato con il carburante più ecologico al mondo (etanolo di origine vegetale, ndr), perché innovazione e sostenibilità vanno di pari passo». L’Autodromo insomma, è ancora in corsa. E non ha intenzione di rallentare.

La Bugatti Voiture Noire del 1938 è l’auto più costosa del mondo: 140 milioni di euro, ma è introvabile. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 17 Luglio 2022.

La Type 57 SC Atlantic è degli anni Trenta. Gli estimatori pagherebbero una fortuna, ma di questa edizione limitata si sono perse le tracce prima della Seconda Guerra Mondiale. 

Potrebbe essere battuta all’asta al prezzo più alto di sempre, circa 140 milioni di euro per una singola autovettura, ma la verità è che sia introvabile. Oggi non esiste alcun proprietario riconoscibile della storica Bugatti Type 57 SC Atlantic Voiture Noire, ma chiunque la ritrovasse per puro caso nel proprio garage diverrebbe milionario all’istante. La sua quotazione, a detta degli esperti, potrebbe agevolmente superare quella della Mercedes SLR del 1955, un modello che per i collezionisti aveva già raggiunto la cifra record di 135 milioni di euro.

Bolide introvabile

Nel caso della Bugatti, la difficoltà dei miliardari non riguarderebbe semplicemente il prezzo, ma la fortuna di ritrovarla in qualche deposito storico che fino ad oggi ne ha ignorato il valore. Negli anni Trenta questo modello venne infatti prodotto in pochissimi esemplari, al massimo una decina per un’edizione limitatissima, per poi scomparire dal mercato nell’arco di pochi anni, precisamente nel 1938, e mai più ritrovato dopo la Seconda Guerra Mondiale. Alcuni ritengono si sia convertita anche in un bottino di guerra, ma è definitivamente scomparso nel corso dei decenni successivi, nascosto chissà dove o danneggiato per via del conflitto.

Come una Formula 1 di allora

La sua peculiarità era racchiusa nell’approccio sportivo di guida, che permetteva di portare sulla strada un bolide capace di correre in un circuito di Formula Uno, raggiungendo la velocità di 153km/h. Un’andatura per nulla sorprendente al giorno d’oggi, ma che al tempo sarebbe stata difficile da sostenere per qualsiasi tipo di tracciato «urbano», per via dei suoi 135 cavalli. Il prezzo di questo modello cresce di molto nel campo del collezionismo, anche perché il design della vettura fu opera di Jean Bugatti, figlio di Ettore Bugatti, il fondatore italiano della casa automobilistica all’epoca tedesca, e poi francese. Sua caratteristica principale fu una celebre “aletta” che serviva nel complesso a tenere insieme le due metà che costituivano la carrozzeria del bolide, dal momento che questa era fabbricata in magnesio, un metallo che garantiva all’auto molta più leggerezza, per poi passare a una sperimentazione a base di alluminio. Altri tempi rispetto al mercato automobilistico attuale, ma proprio per via di quelle sperimentazioni presa in altissima considerazione.

La Voiture Noire oggi

La serie di questi modelli, completamente rinnovata nel tempo, rappresenta tuttora il fiore all’occhiello di Bugatti, tanto che anche il modello più recente oggi non viene venduto a una cifra inferiore agli 11 milioni di euro. Un omaggio alla classica Type 57 SC Atlantic di Jean Bugatti. Il suo design unico e aggiornato alle tendenze contemporanee del mercato delle auto viene valorizzato dalla carrozzeria in fibra di carbonio, ultima tappa del lungo processo di sviluppo cominciato negli anni Trenta, rivestito da una vernice altrettanto speciale denominata Black Carbon Glossy. Anche il motore è stato «leggermente» potenziato, un W16 8.0 da 1.500 cavalli. La velocità massima a bordo di questo mezzo raggiunge i 420km/h, con prestazioni totalmente migliorate rispetto a un tempo, ma il valore economico dell’esemplare da collezione, ancora oggi cercato da tutti per storia e per fama, resta imparagonabile per qualsiasi altra vettura al mondo. 

Tra moglie e marito è sempre meglio non mettere il dito... sul volante. Ilaria Salzano su La Repubblica il 24 Giugno 2022.  

Prima indagine globale del Women's World Car of the Year sulle abitudini di guida: il 43% delle donne e il 52,94% degli uomini quando guidano ricevono consigli, istruzioni o... altro. Questi i risultati del sondaggio

La Giornata internazionale delle donne al volante, un'iniziativa promossa dal WWCOTY, celebra la fine dei divieti di guida per le donne in tutto il mondo.

Il Women's World Car of the Year ha condotto la sua prima indagine globale per scoprire le abitudini e le emozioni a bordo di un'auto. Secondo i dati raccolti da WWCOTY nei cinque continenti, il 43% delle donne riceve istruzioni e commenti dal proprio partner quando è al volante. La percentuale sale al 58% quando a rispondere sono le utenti latinoamericane, mentre scende al 41,17% in Paesi come la Croazia e al 28,57% nella Repubblica Ceca. Nel caso dei conducenti maschi, la percentuale è del 52,94% a livello globale, anche se riconoscono che l'86,27% di loro è quello che si siede al volante quando si tratta di viaggi in famiglia. La percentuale sfiora il 100% in Italia e scende al 42% nel Regno Unito e al 25% in Germania.

Viaggiare con il partner sul sedile del passeggero è fonte di disagio per il 14,47% delle donne e l'11,76% degli uomini. A livello nazionale, spicca il dato della Spagna, dove il 21,4% delle donne intervistate si sente insicura al volante quando guida con il proprio partner; in Belgio la percentuale è del 16,27%; negli Stati Uniti è del 15% e in Portogallo del 12,5%.

La percezione della libertà e dell'indipendenza che l'automobile offre è praticamente unanime in tutto il mondo. Questa è l'opinione del 92,16% degli uomini e del 94,89% delle donne nel sondaggio globale condotto da Women's World Car of the Year.

Per le donne al volante, l'auto rappresenta nella maggior parte dei casi più di un semplice mezzo di trasporto. Essa offre l'accesso a un mondo ricco di possibilità, esperienze e sviluppo personale. Questo mondo si è aperto completamente il 24 giugno 2018, quando è stato abolito il divieto di guida per le donne in Arabia Saudita, l'ultimo Paese in cui non era consentito. È caduto così uno dei

grandi muri che ancora dovevano essere abbattuti nel mondo dell'automobile. Le donne hanno guadagnato mobilità, libertà personale e passione per le auto. Diventarono più visibili e resero la società consapevole del potenziale di oltre il 50% della popolazione.

Oggi le donne influenzano oltre l'80% degli acquisti di automobili nei paesi avanzati. Questa tendenza continuerà o crescerà nei prossimi anni, perché "la percentuale di giovani studentesse universitarie sta aumentando nelle aree sviluppate. La parità salariale comincia a diventare un obiettivo raggiungibile, i Consigli di Amministrazione non sono più esclusivamente maschili e negli elenchi delle persone più ricche del mondo non è raro vedere sempre più nomi di donne", afferma Marta García, Presidente esecutivo del WWCOTY. Un futuro di mobilità sostenibile e di uguaglianza non sarebbe possibile senza il contributo delle donne".

COME VOLSKWAGEN. Dieselgate, Fca ha ammesso la frode sui motori diesel americani. ANDREA MALAN su Il Domani il 04 giugno 2022

Fca ha commesso negli Usa una frode sui motori diesel paragonabile a quella della Volkswagen. Stellantis, che dopo la fusione Fca-Peugeot controlla FcaUs, ha ammesso che la sua filiale americana ha venduto tra il 2014 e il 2016 oltre 100mila veicoli dei marchi Jeep e Ram con motori diesel dotati di dispositivi illegali per aggirare i test sulle emissioni.

L’azienda ha accettato, in un accordo (settlement) raggiunto venerdì con il Dipartimento alla Giustizia statunitense, di pagare sanzioni penali per circa 300 milioni di dollari (poco meno di 300 milioni di euro) fra multa e rinuncia ai guadagni illeciti.

Stellantis afferma che «FcaUs ha raggiunto un accordo che risolve un'indagine penale del dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti su 101.482 veicoli con motori diesel venduti negli anni dal 2014 al 2016. L'accordo, soggetto all'approvazione del tribunale federale degli Stati Uniti, include una dichiarazione di colpevolezza.

Fca ha commesso negli Usa una frode sui motori diesel paragonabile a quella della Volkswagen. Stellantis, che dopo la fusione Fca-Peugeot controlla FcaUs, ha ammesso che la sua filiale americana ha venduto tra il 2014 e il 2016 oltre 100mila veicoli dei marchi Jeep e Ram con motori diesel dotati di dispositivi illegali per aggirare i test sulle emissioni.

L’azienda ha accettato, in un accordo (settlement) raggiunto venerdì con il Dipartimento alla Giustizia statunitense, di pagare sanzioni penali per circa 300 milioni di dollari (poco meno di 300 milioni di euro) fra multa e rinuncia ai guadagni illeciti. In base alla sentenza, FcaUs sarà anche soggetta a un periodo di sorveglianza di tre anni e dovrà collaborare alle ulteriori indagini del governo Usa sulla materia.

LA DICHIARAZIONE

Nel comunicato diffuso venerdì sera, Stellantis afferma che «FcaUS ha raggiunto un accordo che risolve un'indagine penale del dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti su 101.482 veicoli con motori diesel venduti negli anni dal 2014 al 2016. L'accordo, soggetto all'approvazione del tribunale federale degli Stati Uniti, include una dichiarazione di colpevolezza, una multa di 96,1 milioni di dollari e un’ammenda di 203,6 milioni di dollari sui guadagni derivanti dalla condotta». La decisione non ha conseguenze finanziarie, spiega Stellantis, in quanto l’azienda aveva già accantonato i fondi per pagare la sanzione.

Stellantis ricorda che «i reclami dei consumatori relativi ai veicoli in questione sono già stati risolti e non sono necessari ulteriori richiami». Nel gennaio 2019, in effetti, FcaUs aveva già raggiunto un accordo del costo complessivo (stimato a bilancio) di circa 750 milioni di euro per chiudere le cause intentate in sede civile dal Dipartimento di Giustizia Usa e quello della California nell'indagine sulle emissioni, e per risarcire gli acquirenti dei veicoli diesel.

LE ACCUSE

Le accuse a Fca erano state sollevate per la prima volta nel gennaio del 2017 dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti. All’epoca, l’allora amministratore delegato di Fca Sergio Marchionne le aveva definite «stronzate allo stato puro» (unadulterated hogwash). Queste stronzate, alla fine, sono costate a Fca un miliardo di euro.

Una volta ratificato dal tribunale, l’accordo raggiunto da FcaUS chiuderà definitivamente il caso. Resta invece aperto negli Usa il processo contro tre manager italiani di Fca: Emanuele Palma, Sergio Pasini e Gianluca Sabbioni; questi ultimi hanno lavorato alla Vm di Cento sui motori diesel Fca di grossa cilindrata destinati al mercato Usa. La Vm è stata per anni una joint venture tra Fiat e General Motors, e dal 2013 è interamente controllata dalla prima.

TEST ALTERATI

Le accuse delle autorità Usa sono state ricordate in dettaglio venerdì in un comunicato e accettate da Fca nell’ammissione di colpevolezza. Kenneth Polite, vice avvocato generale della divisione penale del dipartimento alla Giustizia, ha affermato che «FcaUs ha agito per più anni per ingannare le autorità Usa e i consumatori».

Secondo i documenti presentati dalla corte, «FcaUS calibrava di proposito i sistemi di controllo delle emissioni (dei veicoli in questione) in modo da produrre durante i test quantità di Nox (ossidi di azoto) inferiori a quelli prodotti durante la guida in condizioni normali da parte dei clienti». Fca, insomma, ha utilizzato nei veicoli diesel proprio quei dispositivi illeciti (defeat devices) di cui ha sempre negato l’esistenza e che furono anche alla base della condanna di Volkswagen.

GLI ALTRI

La sanzione a carico dell’azienda di Stellantis è nettamente inferiore ai quasi 3 miliardi pagati da Volkswagen in sede penale, soprattutto perché il numero di veicoli coinvolti è molto inferiore. Volkswagen aveva anche sostenuto costi enormi in sede civile e per i risarcimenti ai clienti, con un esborso complessivo (Europa compresa) stimato in oltre 30 miliardi di euro.

Le indagini avviate a tappeto in Europa sui motori diesel dopo la scoperta della frode Volkswagen sono in parte ancora in corso e coinvolgono Stellantis sia per la parte ex Fca che per quella ex Peugeot. Altri concorrenti sono ancora indagati, come Renault in Francia; la tedesca Mercedes nel 2019 ha accettato di pagare una multa da 870 milioni di euro per “violazione degli obblighi di sorveglianza”; la Bosch, fornitrice di centraline controllo motore per quasi tutti i costruttori, ha pagato oltre 300 milioni negli Usa ai clienti di Volkswagen e una sanzione di 90 milioni in Europa.

CAMPANILISMO NEI CONTROLLI

Le differenze nel trattamento dei motori diesel tra Stati Uniti ed Europa sono significative. I limiti Usa alle emissioni di ossidi azoto sono più severi; la normativa europea lascia inoltre ai costruttori margini di manovra notevoli, ammettendo ampie deroghe ai limiti sulle emissioni nocive in caso di rischi di danni ai motori. La ripartizione dei compiti di sorveglianza tra i vari paesi ha portato infine a una sorta di campanilismo in cui i singoli stati europei tendevano a “difendere” i propri produttori.

Per quanto riguarda la parte Fca, per esempio, le possibili irregolarità sui diesel erano emerse inizialmente in test condotti dalle autorità tedesche. È seguita una disputa fra Italia e Germania, con il governo italiano che, schierandosi dalla parte di Fca, ha rivendicato di essere l’unico possibile giudice della regolarità o meno dei motori omologati in Italia. Il risultato è che la Commissione UE ha inviato a Roma nel dicembre scorso una notifica per il mancato rispetto dell’obbligo di vigilare sulle regole di omologazione.

ANDREA MALAN. Per il Sole 24 Ore ha seguito le vicende economiche del settore auto a livello mondiale per oltre vent'anni, fino al maggio 2017. E sempre per il Sole

ho scritto anche di ferrovie, trasporti pubblici urbani e (più saltuariamente) di biciclette. Collabora con Automotive News Europe, filiale europea di un magazine statunitense.

Le auto che si guastano meno e quelle che hanno più problemi La classifica. Savina Confaloni su Il Corriere della Sera il 29 Maggio 2022.

L’Allgemeiner Deutscher Automobil-Club rivela quali sono i modelli più affidabili e quali i guasti più frequenti a cominciare dalla tenuta delle batterie.

La classifica dell’ automobile club tedesco

Dall’ultima classifica stilata dall’Adac, Allgemeiner Deutscher Automobil-Club, uno dei maggiori club automobilistici mondiali, emergono quali sono state sino ad oggi le auto più affidabili e cosa ha determinato i guasti più frequenti nel 2022. In questo caso, sono considerati più sicuri i modelli che hanno avuto la minor necessità di interventi da parte del soccorso stradale. La classifica evidenzia che ci sono 46 auto ritenute estremamente affidabili e 5 invece all’esatto opposto, con il maggior numero di guasti. L’indagine ha coinvolto 132 modelli di 22 marche, immatricolati in Germania in almeno 10.000 esemplari in uno degli anni compresi fra il 2012 e il 2019. Sono state escluse dall’indagine, quindi, le auto vendute con volumi inferiori a 10 mila unità l’anno, e le cause di panne provocate dal proprietario o non riconducibili all’auto, come la foratura di una gomma

Le 10 auto medie più affidabili

Per quanto riguarda le auto medio-piccole e medie meno soggette a danni, scalano i vertici della classifica sull’affidabilità dell’Adac la Mitsubishi ASX, la Volvo XC40, la BMW Serie 2, BMW X1, e BMW X2. Salendo leggermente di taglia sulle medie, le più affidabili del 2022 sono risultate la BMW X3, la Volvo XC60, Audi Q5, Audi A5, e Mercedes Benz GLC.

Le 10 piccole più affidabili secondo l’Adac

Secondo la classifica dell’Automobile Club tedesco, le citycar più affidabili del 2022 sono la Volkswagen up!, la Toyota Aygo, la Skoda Citigo, la Fiat 500, e la Opel Adam, mentre per quanto riguarda gli altri modelli di piccola taglia le cinque vincenti sono la Mini One, Suzuki Vitara, Suzuki Swift, Citroen C3, e Renault Captur.

I guasti più frequenti: batteria scarica

Secondo l’ADAC, negli ultimi due anni la situazione dei guasti in auto è peggiorata, con un aumento considerevole di richieste di intervento. Va comunque precisato che l’indagine è stata effettuata su auto di età compresa fra 3 e 10 anni, per le quali si sono calcolati i guasti, ogni 1.000 esemplari, occorsi nel 2021: è evidente che i casi di auto in panne sono più frequenti nelle vetture più anziane, immatricolate nel 2012 o 2013. La batteria scarica è la principale causa di panne nelle auto, nonostante l’affidabilità sia aumentata assieme all’elettronica di bordo. Secondo l’Adac, in alcune vetture la strategia dei costruttori di esaltare l’esperienza utente va spesso a discapito della batteria. Un esempio è l’attivazione del sistema infotainment quando l’auto rileva la smart key e apre le porte anche prima di mettere il moto: in questo modo si velocizza l’inserimento della destinazione nel navigatore, ma la batteria di avviamento col tempo ne risente.

La classifica delle cause di auto in panne

La batteria scarica è la prima causa di auto in panne, nel 46,2% dei casi, seguita da problemi a carrozzeria, sterzo, freni, telaio, trasmissione, nel 14,8% dei casi. Terzo gradino del podio per le cause di richiesta di soccorsi legate all’alternatore, motorino d’avviamento, cablaggi, e impianto d’illuminazione, nel 10,3% dei casi, che aumentano esponenzialmente a partire dal quarto anno di vita delle vetture. Seguono i problemi legati ai pneumatici nel 7% dei casi, al sistema alimentazione carburante nel 3,1% dei casi - anche se questi ultimi compaiono statisticamente solo a partire da un’età del veicolo di 10 anni per poi diventare sempre più frequenti-, all’ impianto di raffreddamento e climatizzatore nell' 1,9%. A chiudere la classifica della cause di guasti, sono i problemi all’impianto di scarico, filtro antiparticolato e catalizzatore, che sono molto più frequenti nelle auto immatricolate tra il 2007 e il 2013.

Quelle con più guasti

La ricerca dell’Adac riporta una tabella delle statistiche di guasto molto precisa, a uso dell’utente, con tutte le serie di modelli che sono state valutate, ordinate alfabeticamente e suddivise per classi di veicoli. Dalla valutazione della frequenza di rottura, che segue lo schema cromatico dal verde scuro (= molto basso) al rosso (= molto alto), i modelli con maggiori casi di guasti si rivelano essere stati la Opel Insigna tra il 2015 e il 2017, la Seat Alhambra dal 2014 al 2016, la Vw Sharan dal 2012 al 2015, le prime Hyundai i20 dal 2012 al 2014 e la Renault Clio nel 2014 e 2015, la Kia Ceed, la Ford S Max e la Peugeot 308 del 2012, Toyota Scenic e Renault Megane nel 2017, Smart Four Four nel 2015 e 2016. Per il 2019 il «bollino» rosso dell’Adac sulla maggiore incidenza di guasti che hanno reso necessario un intervento arriva sui modelli di Toyota Corolla, Toyota CHR e Ford Transit, Opel Insigna.

Le auto premium più affidabili: tedesche asso pigliatutto

Asso pigliatutto per le case automobilistiche tedesche quanto ad affidabilità nel segmento premium. I modelli vincenti secondo l’Adac sono infatti: la Volkswagen Touareg, BMW Serie 5 e X5, Audi A6, e Mercedes Classe E.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 21 maggio 2022.

La casa d’aste RM Sotheby’s ha confermato di aver venduto una Mercedes-Benz 300 SLR Uhlenhaut Coupé del 1955 per 115 milioni di sterline (135 milioni di euro), rendendola l'auto più costosa del pianeta. 

È stata venduta a un collezionista privato durante un'asta top-secret ospitata presso il museo Mercedes di Stoccarda in Germania il 5 maggio. L’importo pagato supera e di molto il record precedente per la vendita di un’auto di 63 milioni di sterline (74 milioni di euro). 

RM Sotheby's ha detto che l'auto, che è una delle due create nel 1955, è «sempre stata considerata uno dei grandi gioielli della storia dell'automobilismo» e che pochi immaginavano che il produttore tedesco l'avrebbe offerta a un acquirente privato.

Si è sempre pensato che la Mercedes non si sarebbe mai separata da una delle macchine più amate della collezione dell'azienda, che è considerata la "Monna Lisa" delle automobili per la sua rarità, pedigree da corsa, bellezza e indisponibilità. 

La casa d'aste ha confermato queste informazioni giovedì sera, affermando di aver lavorato in stretta collaborazione con Mercedes-Benz durante l'intero processo di vendita per «assicurarsi che fosse concluso secondo i più alti standard possibili».

Per comprare una Ferrari non basta avere i soldi. Le «regole» di Maranello per diventare clienti. Edoardo Nastri su Il Corriere della Sera il 4 Maggio 2022.

Non è sufficiente un conto in banca adeguato per mettersi in garage una Rossa. Ecco tutti i requisiti e le regole non scritte seguite dai maggiori collezionisti. 

Per comprare una Ferrari non basta avere i soldi. Le «regole» di Maranello per diventare clienti

Tornata a galla dopo addirittura sei anni, la notizia che Justin Bieber sarebbe stato inserito da Ferrari nella «black list» dei suoi clienti per aver abbandonato per oltre tre settimane la sua 458 Italia, ha riacceso il dibattito sui proprietari delle Rosse, dimostrando che non basterebbe essere ricchi per poterne acquistare una. Un idoneo potenziale d’acquisto infatti non è l’unico fattore che consentirebbe a un aspirante cliente di entrare in possesso di una vettura del Cavallino, almeno per quanto riguarda i modelli più esclusivi a tiratura limitata. Una politica che a Maranello applicano da sempre, o quasi, ma che ha avuto un’impennata a partire dal debutto della La Ferrari nel 2013 (709 esemplari tra coupé e spider per più di 1 milione di euro). L’obiettivo? Conservare nel tempo il prestigio dell’auto, trasformata, di fatto, in un’opera d’arte dal valore milionario, e farlo crescere ulteriormente con il passare degli anni con ricadute dirette sull’immagine del brand.

Il «programma fedeltà»

Il sistema seguito da Ferrari per scegliere i clienti dei suoi modelli più esclusivi segue un metodo assimilabile a un programma fedeltà che premia i possessori più affezionati e non necessariamente i più altospendenti. Per accedere alle Ferrari milionarie è necessario essere già in possesso di un buon numero di Rosse nel proprio garage, possibilmente dall’alto valore collezionistico e non modificate con kit di tuning o altri generi di orpelli, considerati per gli estimatori alla stregua di atti sacrileghi. Le condizioni impeccabili degli esemplari posseduti, la frequenza dell’acquisto, la fedeltà del compratore anche per quanto riguarda il rapporto con la Casa madre, sarebbero, poi, altre condizioni necessarie per appartenere alla club dei clienti perfetti.

Compri la Monza SP1? Hai anche la Daytona

Un esempio? Le indiscrezioni raccontano che tutti i clienti che hanno acquistato i 499 esemplari delle Monza SP1 o SP2 prodotte dal 2018 siano diventati proprietari anche delle Daytona SP3, che tuttavia, vista la produzione in 599 esemplari ha acquisito altri 100 fortunati compratori che hanno potuto parcheggiarla nel proprio garage accanto a qualche altra Rossa super esclusiva. Un dato non banale, soprattutto quando si parla di prezzi, visto che la risposta positiva alla chiamata di Ferrari per le Monza SP1 ed SP2 significava mettere in conto una spesa di almeno 1,6 milioni di euro, mentre per l’ultima Daytona SP3 i milioni di partenza salgono a due.

La quotazione

La quotazione dei potenziali clienti in lista è così importante che spesso il numero degli esemplari proposti in serie limitata corrisponde o si avvicina moltissimo a quello dei fortunati possibili acquirenti. Per queste vetture si parla di realizzazione «tailor made» e tutti i modelli sono venduti prima ancora di essere prodotti. Per la questione vendita le limitazioni non sarebbero affidate a clausole contrattuali tra Casa madre, concessionario e cliente, visto che potrebbero essere ritenute vessatorie, quanto piuttosto a un principio di buon senso. Insomma, nella maggior parte dei casi, sarà nell’interesse del collezionista Ferrari far perdurare questo suo status il più a lungo possibile.

Soddisfatti o... soddisfatti

Ecco allora che se proprio si è insoddisfatti dell’acquisto milionario sarebbe fortemente preferibile rivendere la vettura direttamente al concessionario ufficiale dove si è acquistata, evitando inutili pubblicità e, ancor più, le aste. Il dealer potrà così eventualmente comunicare a uno degli esclusi iniziali il ritorno a disponibilità del modello desiderato, sebbene con colori, accessori e configurazioni scelti dal precedente proprietario. La riconsegna ai concessionari ufficiali non può comunque essere una regola generale vincolante e lo dimostrano gli esemplari che ogni tanto sfuggono ai canoni di rivendita caldamente consigliati, dando adito a operazioni speculative decisamente poco gradite a Maranello. Il rischio sarebbe quello di uscire dall’elenco dei clienti preferiti. Insomma, per essere un vero collezionista Ferrari bisogna meritarselo.

L’Intervista a Enzo Ferrari di Catherine Spaak per “Autosprint” - 30 marzo 1982

«Ho trovato uomini che indubbiamente amavano come me l’automobile. Ma forse non ho trovato altri con la mia ostinazione, animati da questa passione dominante nella vita che a me ha tolto il tempo e il gusto per molte altre. Io, non ho mai fatto un vero viaggio turistico, non sono mai andato una volta in vacanza in vita mia, per me le più belle ferie sono quelle che trascorro in officina...». 

Credo anch’io che all’uomo basti una volontà ostinata, un’ambizione sorda, determinata, costante, per superare tutti gli ostacoli che incontra lungo il cammino della sua vita. Il punto focale pero e “per quale scopo”. 

A Fiorano, a Maranello non sono andata eccitata dai celebrati simboli della potenza, riverente e ossequiosa davanti al mitico cavallino rampante, nè in cerca di emozioni a trecento all’ora. Volevo incontrare un uomo, non la sua leggenda. Guardingo, sospettoso, mi osservava con impassibilità dietro spesse lenti scure. 

Capii perchè Ferrari intimorisce, l’arte di mettere gli altri alle strette non e fatta di parole ma di silenzi e di sguardi. Comunque, gli occhiali li tolse a meta colazione. Potrà sembrare strano ma abbiamo parlato di filosofia, mangiando un ottimo souflè. «Io mi sento solo dopo tanti avvenimenti e quasi colpevole di essere sopravvissuto».

Credo che questa sia la sola considerazione che possa fare un uomo all’età di 84 anni, per il quale la tecnica e il progresso meccanico sono stati l’unica ragione di vita. Piu di quanto ha fatto lui, sembra, non si poteva fare in questo mezzo secolo. Domani il mondo della ricerca e della tecnica in materia di automobili, andrà avanti comunque, forse meno rapidamente, con meno amore, ma tutto continuerà a mutare. 

L’imperatore, lo zar, il re della F.1 e pero solo, forse come il più umile dei suoi operai, sembra una favola per bimbi saggi e un po’ assonnati, eppure non lo e. A volte il più grande e anche il più piccolo. Dipende dall’angolazione e dagli occhi che guardano.

«La sola preghiera che so e questa: Dio, fatemi diventare buono». 

Forse Ferrari e cattivo? Direi proprio di no. Ne più nè meno degli altri. E forse poco pratico di cose spirituali. Sorride un po’ sornione e nostalgico quando sussurra: «La donna rimane il più bel premio al lavoro... La donna deve avere cinque qualità: essere una buona moglie, ottima madre, esperta cuoca, gentile e bella creatura con gli ospiti, passionale al punto di non far desiderare una scatenata amante».

E poi aggiunge, quasi per rassicurarsi nel timore di avere un dubbio: «Pensando anche a certi gemiti, sostenere che l’uomo schiavizza la donna e la considera semplice oggetto, mi sembra eccessivo». Forse che il piacere di una donna (vero o simulato), sia il perno del dare e dell’avere o dell’essere. Ma perchè stupirsi se Ferrari e pronto a dire che, se anima c’è è più probabile che ce l’abbia un motore anzichè un essere umano. 

Lei dunque, ingegnere, crede solo nel corpo, nella materia?

«E cos’altro ci dovrebbe essere?». 

Lei e solo un tubo digerente, metri d’intestino, acqua e un mucchietto di ossa?

«C’e il pensiero, mia cara, un grande computer fatto di innumerevoli cellule...».

E cosa c’è, ingegnere, che non cambia mai, al di là del corpo e della mente?

Ferrari mi guarda stupito, e si che di “attori” ne ha visti passare a Fiorano. Vede Ferrari, il guaio, secondo me, e tutto nell’identificazione, noi finiamo per diventare quello che crediamo di essere. 

Lei si è identificato con un meraviglioso motore e ne derivano conseguenze curiose, cosi si mescolano idee e sentimenti vari e si fa confusione con l’orgoglio, il possesso, la competizione, il senso patriottico, il coraggio, la moralità, la politica e il progresso. 

C’è gente un po’ esaltata che si rivolge a lei in questi termini: La Ferrari, ai vostri concorrenti mette paura, inquietudine, incute rispetto, riverenza, Lei, Ferrari, ha creato un desiderio in noi che possediamo macchine inferiori, una mira per la quale vale la pena combattere, possedere un giorno la vettura “non plus ultra”! Avete lanciato una sfida: e una Ferrari, siete degno di pilotarla? 

«Noi ascoltiamo attentamente il suono del motore e ci chiediamo: non e questo un motore che piange di protesta. No: questo e il suono d’un motore che urla di gioia, un suono che nessuna orchestra può suonare, una sinfonia di suoni che porta gioia alla mente e il sorriso sul volto». 

A me, tutto questo sembra pericoloso: può davvero, una Ferrari, rappresentare l’ideale di felicita d’un uomo? La gioia della mente? E non e grottesco che, come e avvenuto in California, una miliardaria si faccia seppellire al volante della sua Ferrari cabriolet, murate insieme per l’eternità in un blocco di cemento? Progredire e necessario, l’impegno di Ferrari e nobile, ammirevoli il suo contributo, la sua dedizione, la sua tenacia. 

Tuttavia Ferrari che dice che le donne le ha tradite, i motori mai, mi intenerisce perchè, secondo me, non si è accorto che, forse, la sola persona che ha tradito davvero e sè stesso. Chissà che il vero progresso, quello che cambia davvero qualcosa per il bene dell’umanità, non vada cercato dentro l’uomo anzichè fuori. La sinfonia più bella per gli uomini non e quella dei giri d’un motore, dovrebbe risiedere nel silenzio di un cuore ottantaquattrenne che ha trovato la pace, la serenità e che sa che non e non sarà mai, ne solo ne colpevole. 

Il suo nome e famoso in tutto il mondo, il suo marchio somiglia a una leggenda. Come si costruisce tutto questo?

«Lavorando immensamente e considerando il lavoro un’ancora di salvezza in mezzo a tanto disordine». 

In che cosa consiste l’alleanza Ferrari-Fiat?

«L’accordo Fiat-Ferrari e nato il 18 giugno 1969 e fu definito per assicurare alla mia azienda artigiana sviluppo e continuità, garantendo al tempo stesso a me la facoltà di continuare a interessarmi ai problemi connessi allo sport e al progresso dell’automobilismo».

E’ vero che le spese di gestione della Ferrari per la F.1 si calcolano quest’anno oltre i 9 miliardi?

«Nella mia conferenza stampa di fine anno ho avuto occasione di precisare che il disavanzo della Gestione Sportiva per l’anno 1981 e stato di lire 5.805 milioni (dei quali lire 500 milioni pagati dalla Fiat). Questa cifra, per il 1982, subirà ovviamente la lievitazione imposta dalla svalutazione». 

Lei ha detto che “lo Sport con la S maiuscola e stato ucciso dalla sponsorizzazione, dalla selvaggia speculazione commerciale”. Come mai le sue macchine sono tappezzate di adesivi Olivetti, Goodyear, Agip, Longinus ecc? La sua e una resa?

«Sostengo, da sempre, che l’unica pubblicità ammissibile e quella di coloro che contribuiscono all’evoluzione tecnica della vettura da corsa. Le Case da lei citate nulla hanno a che fare con la miriade di prodotti di consumo e voluttuari che hanno invaso l’ambiente fino al punto di personalizzare le vetture: sono sponsorizzazioni tecniche e possono, anzi, hanno il diritto di apparire».

E’ vero che Cartier ha comprato il suo marchio (il cavallino rampante) per un orologio?

«La Ferrari non ha venduto il suo marchio, ma ha in corso di perfezionamento un accordo con Cartier affinchè questa marca possa usufruire del cavallino rampante su diversi suoi prodotti che annualmente verranno sottoposti all’approvazione della Ferrari. Con ciò, la Ferrari ha inteso difendere il suo marchio su un mercato invaso da tanti profittatori, fidando che la Cartier saprà opportunamente difendere la concessione». 

Come pensa si concluderà la “guerra” fra motore aspirato e turbo?

«Sono quindici anni che esiste l’attuale F.1 e solo da due le Case tentano di esplorare compiutamente questa formula prima che essa concluda il suo ciclo nel 1984. Questa guerra preventiva al turbo, che non ha ancora vinto nessun campionato mondiale, e condotta da chi tende a trasformare i Gp di Formula Uno in una spettacolare corrida motoristica, nella quale sport e tecnica diventano degli intrusi disturbatori». 

Chi, secondo lei, deve comandare in questo giro d’affari senza regole fisse e che sembra allargarsi giorno per giorno?

«E’ vero: il giro d’affari si va allargando sempre più con la spinta dei piloti che esercitano e pianificano la commercializzazione del loro diritto d’immagine, mentre tante scuderie che da questa attività traggono alimento e guadagno non intendono spendere per il progresso tecnologico. Pero, le regole fisse esistono: ci sono regolamenti, c’è il Codice Sportivo, e tutto preordinato perchè tutto ritorni alla normalità. Manca soltanto la presenza di una forte autorità sportiva-legislativa che ne pretenda il rispetto».

Se e ambigua la regola sul peso alla partenza per le macchine in gara, perchè non la si cambia?

«La regola non è ambigua. Ne viene consentita una interpretazione distorta che, disinvoltamente operata da diverse scuderie, si traduce in aperta violazione dello spirito della legge. Con la stessa “buona fede” si potrebbe pretendere l’impunita per chi uccide una donna, soltanto perchè il codice punisce l’omicidio e non parla di “donnicidio”». 

Perche non si riesce a stabilire una più giusta formula di equivalenza per equilibrare i Cmc di cilindrata fra i vari motori?

«Non ritengo, allo stato attuale della ricerca tecnica, che si possa stabilire che l’attuale formula di equivalenza e ingiusta. Chi può dirlo?» 

A lei nuocerebbe (la suddetta formula piu giusta) o comunque i motori turbo sono i più forti?

«Ho già detto che la nostra ricerca tecnica e volta al progresso. I motori turbo sono una innovazione che si trova ormai sulla maggioranza degli attuali motori Diesel già entrati nelle vetture di uso comune e questo significa progresso, poichè questa strada tecnica offre la possibilità di ottenere motori meno inquinanti e con maggiore disponibilità di potenza a parità di consumo». 

A che servono i reclami se prima della partenza non si stabiliscono regole da rispettare?

«I reclami dovrebbero servire a far riconoscere le vere ragioni. Purtroppo mi sono convinto che oggi, nel nostro ambiente, pretendere la ragione equivale ad esporre la propria impotenza». 

Se e vero che il rapporto uomo-macchina in corsa e così suddiviso: telaio 33 per cento, motore 33 per cento, gomme 20 per cento; un pilota che contribuisca al 14 per cento vale davvero miliardi? Perche?

«Ho sempre sostenuto che nello sport dell’automobile, salvo rare occasionali eccezioni, i successi non sfuggono alla legge della pura mezzadria: cinquanta per cento di merito al pilota e cinquanta per cento alla macchina. Quello che guadagna oggi un pilota non può essere previsto da nessuna piattaforma sindacale ma, ripeto, la cessione del diritto della propria immagine e operazione che compete al solo soggetto interessato». 

Servono davvero la sperimentazione e la ricerca per la F.1 alla produzione in serie o dietro tutto questo c’è una diversa motivazione? Quale?

«L’automobile e nata e progredita con le corse. La competizione e il necessario avallo di qualsiasi ritrovato tecnico, poichè soltanto il pilota può trovarsi in uno stato di necessita che lo in- duce a una somma di manovre impensabili, imprevedibili, abnormi e pertanto solo la corsa, con le sue esasperate sequenze, può generare giudizi assoluti». 

Niki Lauda ha detto: “Oggi in corsa nelle curve l’accelerazione di gravita raggiunge i 3 g. Il tuo corpo pesa cioè tre volte tanto, come negli aerei in picchiata. Gli occhi si iniettano di sangue, sfuggono dalle orbite, la testa si reclina e tu non vedi più niente”. Non le sembra mostruoso tutto questo? E a che scopo, poi?

«Niki Lauda ha fatto un’affermazione che e stata confermata anche nel recente Gran Premio del Brasile. Tutti abbiamo potuto constatarlo. Aveva visto giusto il presidente della FISA Balestre quando decise la soppressione delle famigerate minigonne, che consentono velocita eccessive in curva. Il guaio e che egli non ha avuto poi la forza di far rispettare la disposizione di fronte all’avversione delle scuderie inglesi. Tutto questo e irrazionale e comporta responsabilità morali per coloro che hanno aggirato una disposizione tecnica estremamente valida e saggia». 

Secondo lei, la violenza delle corse di F.1, che può comportare anche la morte «in diretta», e spettacolo? Non siamo tornati ai tempi dei cristiani divorati dai leoni?

«C’e stato un Onorevole che ha dichiarato che le corse di F.1 sono un’espressione di violenza, ma io spero che lei non si associ a questo assunto. Le ho già parlato delle finalità di progresso che sono alla base della competizione: accanto a questo contenuto tecnico c’è nella competi- zione anche un aspetto spettacolare in grado di offrire al pubblico la somma di emozioni che compendia quell’ansia di superamento connaturata all’essenza e al gusto della vita umana». 

Cosa prova quando un pilota muore?

«Al di là dei valori sentimentali, potrei dire affettivi, ritengo un mio imperativo dovere cercare di conoscere se l’incidente e stato causato da ragioni tecniche. Io sento profondamente la responsabilità che mi assumo quando affido una mia macchina a un pilota e la considero sicura, nei limiti della perfettibilità umana». 

C’è guerra fra lei, Ecclestone e Jean-Marie Balestre. Cosa pensa dei metodi d’assalto?

«Non sono in guerra con nessuno. Rispetto le norme stabilite dalla FISA, nulla lasciando d’intentato affinchè tutti le rispettino. Questo ha portato disaccordi e contrasti, e ovvio, come pure e ovvio che ognuno trasferisce nella vita di tutti i giorni l’educazione che ha ricevuto». 

Cosa poteva fare Lauda per la Ferrari che non abbia fatto? Si e mai sentito in qualche modo responsabile dell’incidente del Nurburgring che rischio di costargli la vita?

«Come posso immaginare le disponibilità di un essere umano nei confronti dei suoi rapporti con una casa costruttrice che lo ha rivelato? Sia chiaro, comunque, che fra la Ferrari e Lauda non ci sono conti sospesi».

Perchè sono cosi poche le donne che riescono ad approdare alla F.1?

«Forse perchè la Formula Uno si addice più agli uomini che alle donne. Le eccezioni che ricordo, infatti, sono poche: Maria Antonietta Avanzo, Elisabetta Junek, Maria Teresa De Filippis, Lella Lombardi». 

Lei ha dichiarato: “La macchina mi ha sempre dato un grande senso di liberta”. lngegner Ferrari, per lei cos’e la liberta? E cos’è il coraggio?

«Ho letto che la nostra libertà finisce dove comincia quella altrui e che il coraggio e l’individuazione dell’esatto confine che le separa». 

Sono più di 50 anni che vive di motori, non si è stancato? Non ha mai avuto altri interessi, altre passioni?

«Si, effettivamente sono 63 anni che mi interesso di motori e di macchine e io attribuisco a questa passione il merito di avermi offerto uno scopo nella vita fra tanti crudeli tormenti». 

Cosa l’ha delusa di più in tutta la sua vita?

«L’impotenza a difendere la vita di un figlio che mi è stato strappato, giorno dopo giorno, per ventiquattro anni». 

E più forte chi comanda o chi sa ubbidire?

«Chi veramente comanda non ha bisogno di essere forte, poichè le sue capacita gli conferisco- no prestigio e consenso. Ubbidire, anzi, saper ubbidire significa aumentare costantemente la propria forza, apprendere, collaborare, e molte altre cose».

Che cosa vuoi dire vincere?

«Vincere non significa soltanto l’applauso della folla, ma soprattutto il riconoscimento della sintesi di tutto quello che abbiamo saputo fare e prevedere». 

Luigi Mascheroni per “il Giornale” l'8 aprile 2022.

L'automobile è creatività, innovazione, tecnologia, design, progresso, ingegneristica, arte. Ma soprattutto l'automobile è il proprio motore, il cui suono è unico. Ecco perché la grande mostra inaugurata ieri al museo Guggenheim di Bilbao, Motion, che ha per sottotitolo tre «A»: Autos, Art, Architecture (fino al 18 settembre), si chiude su un corridoio -tunnel lungo il quale scorrono in ordine cronologico le sagome minimaliste delle auto che hanno segnato la storia, dalla Patent Motorwagen prodotta nel 1886 dalla Benz (la prima auto con motore a scoppio) fino alla Formula 1 AMG della Mercedes (2020), lasciandosi dietro, in una esperienza sonora immersiva concepita da Nick Mason, membro dei Pink Floyd e pilota, il rumore del loro motore registrato in movimento.

Sound and power. Spazzando via decenni di retorica ecologista, piste ciclabili, monopattini e aree pedonali. Un'esperienza molto liberatoria. L'auto, prima di tutto, è libertà. Ciò che più la avvicina all'arte. Ed ecco qui la grande storia dell'automobile come oggetto d'arte, generatore di emozioni, motore di sviluppo e incarnazione dell'idea di Bellezza: come un dipinto di David Hockney, una scultura di Henry Moore, o anche solo una serigrafia di Andy Warhol...

Tre anni di lavoro, forse il progetto più complesso realizzato dal museo di Bilbao, un allestimento monumentale, la curatela di Norman Foster, architetto high-tech trai più celebri al mondo e strepitoso collezionista di automobili («La prima che ho guidato? Una Morris di famiglia, negli anni '50. La prima della mia collezione? Una Jeep dell'esercito americano»), un circuito di sette sezioni che corre lungo altrettante sale, e soprattutto una sfida, che in inglese si dice challenge.

Raccontare l'essenza dell'automobile attraverso tutte le discipline della creatività umana: l'auto, cioè il movimento, tra pittura, scultura, architettura, fotografia, cinema, moda, design. Motion ed emotion. Come dice Norman Foster, che è anche Lord, abito di velluto color prugna, calze rosse, 86 anni e un Pritzker Prize nel 1999, «l'auto non è solo tecnologia, ma espressione di una cultura». Si chiama stile. Inglese, italiano, francese, americano, tedesco...

Quattro ruote, cinque continenti, oltre quaranta veicoli esposti in mezzo alle sale e tutt' attorno dipinti, disegni, progetti, fotografie, video e manifesti, la mostra Motion, trai futuristi e il futuro, tra estetica e funzione, è un'esaltazione del divertimento- in poche cose l'uomo è stato così bravo come nel costruire automobili - e del movimento: «Le automobili non hanno solo influenzato la vita culturale del '900, ne hanno plasmato ogni aspetto, fisico e metafisico. E ogni parte della nostra vita, da sempre, viene toccata dalle conseguenze della mobilità, che definisce tutti i nostri comportamenti», è l'idea di Norman Foster, appassionato di auto di ogni tipo e non a caso architetto di boulevard, ponti, aeroporti, stazioni ferroviarie. Il futuro è sempre di corsa. E anche Foster, a dispetto degli anni.

Quelli dell'automobile sono quasi duecento, e già alle origini, quando non si parlava ancora di auto elettriche e citycar, ma la propulsione mediante motori elettrici competeva con prototipi basati sul vapore e sulla benzina, attorno al 1830 Robert Anderson sviluppò la prima auto esclusivamente elettrica, che il chimico olandese Sibrandus Stratingh costruì su piccola scala... E oggiguidiamo le ibride...

Eclettica, trasversale, eterogenea e basata sulle scelte («assolutamente personali») di Norman Foster, la mostra vive anche di paradossi. Nei primi tempi le auto salvarono le città dai cattivi odori, dalle malattie e dalla sporcizia provocati dai veicoli trainati da cavalli, eppure, nell'attuale epoca di allarme climatico, hanno assunto il ruolo di mostri che inquinano l'ambiente. Eppure, sono così belle...

Ecco una Ford «T» del 1914, in un inconsueto colore verde (le prime serie erano solo nere), la prima automobile a prezzo abbordabile: e lì c'è un autoritratto «automobilistico» di Man Ray del '36. Ecco la Rolls Royce 40/50 «Alpine Eagle» del 1914, lunga sette metri... Ecco la Voisin C7 «Lumineuse», affiacata dalle foto in posa di Le Corbusier. Ecco la cecoslovacca Tatra T87, la prima auto studiata in un tunnel aerodinamico. Tecnologia, Zeppelin e nazismo. Qui invece ci sono le auto-capolavoro (fu Arthur Drexler, negli anni '50, a descrivere le auto «sculture vuote con ruote»): la Delahaye Type 165 (1938): rossa, bella e impossibile.

La Bentley R-Type Continental (1953) sopra la quale, dal soffitto, pende un colossale mobile di Alexander Calder. Una Pegaso Z-102 «Cúpula» gialla («Un oggetto moooolto esclusivo...», come ci dice Foster). E una Bugatti Type 57 Atlantic, del '36, ideata e scolpita da Jean Bugatti con accanto due opere una pantera e un elefante - di Rembrandt Bugatti, lo zio. 

Poi c'è il salone delle auto «popolarissime», quelle di ogni giorno, ma che hanno segnato le epoche e le mode: la «Beetle» della Volkswagen (1951), «l'auto del popolo», appunto. La leggendaria Fiat 500 del '57. La BMW 600 del '57. La Austin Minor, anno 1966 con le fotografie di Mary Quant con minigonna in pendant su una Mini Optical... 

L'auto è sempre più moderna, sempre più veloce, sempre più irraggiungibile.

La sala «Sporting» è da sogno: Mercedes 300 SL Coupé con le portiere a «ala di gabbiano», 1955. La Ferrari 250 GTO in un esemplare del '62 e, perfezione per perfezione, là in fondo ci sono i progetti di Gio Ponti per il Pirellone, costruito fra il'56 e il '60. La Aston Martin DB5, quella di James Bond, e lì sulla parete scorrono le immagini del film Goldfinger, 1964. La Porsche 356 (l'arte che si fa leggerezza). E la Jaguar E-Type, che qui da noi guiderà Diabolik. 

Dalla realtà alle visioni. I Visionaries sono gli artisti, gli ingegneri e i designer che si sono spinti all'esplorazione di forme radicalmente nuove, oltre la velocità e il movimento. Fantascienza, forme fluide e prototipi unici. C'è la Citroën DS che negli anni Sessanta era il futuro. La Alfa Romeo BAT 7- che sta per «Berlinetta Aerodinamica Tecnica» - disegnata da Franco Scaglione nel '54. La Lancia Stratos Zero, del '70, senza portiere e parabrezza ribaltabile (all'epoca qualcosa fra la science ficton e Hollywood), e qui, tra aerei su ruote e utopie, bisogna alzare gli occhi e guardare le gigantesche foto «colorate» della serie Pit stop del 2007 del tedesco Andreas Gursky. Con i rumori delle Formula Uno in sottofondo, da brividi.

E per chi è convinto che il mito dell'automobile viaggi soprattutto on the road, ecco la sezione «Americana», l'ultima. Diner, distributori di benzina, gli scatti di Dorothea Lange e Marion Post Wolcott, i dipinti di Ed Ruscha e Robert Indiana, una monumentale Cadillac Eldorado Biarritz del '59, una Mustang del '65, alettoni stravaganti, volontà di potenza, una lunga corsa dal New Deal al presente, con giù in fondo, però, un pericoloso crash di John Chamberlain appeso alla parete. E speriamo, come si dice convinto Norman Foster, che il futuro dell'uomo sia ancora la città, e che le automobili diventino spazi sempre migliori per vivere. Di solito, cercando parcheggio.

L'algoritmo al volante. Report Rai PUNTATA DEL 18/04/2022 di Michele Buono

Collaborazione di Edoardo Garibaldi

Vanno forte, veloci come auto da Formula indy, ma a guidarle non ci sono divi da copertina, non c'è nessuno. 

Sono le auto senza pilota che si sono sfidate nella prima gara della storia di veicoli a guida autonoma. Negli Stati Uniti, le università di tutto il mondo se la sono vista con il Politecnico di Milano e l'Università di Modena Reggio Emilia che hanno lavorato sulle auto fornite dalla Dallara per renderle più veloci e intelligenti. Non è un mero esercizio di stile, ma un test importante sulla via dell'utilizzo della guida autonoma nel sistema di mobilità. Se, infatti, le auto possono correre, sorpassare a quasi 300 chilometri orari, allora saranno in grado di frenare in tempo per non investire un bambino che insegue un pallone per strada. Così possedere un’auto non sarà più necessario, né tantomeno guidarla. Circoleranno autonomamente per le città e gli abitanti le chiameranno, come si fa con i taxi. Solo che alla guida non ci sarà nessuno. L'inchiesta di Report farà intravedere le potenzialità di questa tecnologia, di come l'Italia sia spesso davanti agli altri nello sviluppo delle nuove frontiere e di come potremmo rischiare, ancora una volta, di non accorgercene. Il tutto raccontando due gare su due dei circuiti automobilistici più famosi degli Usa, Indianapolis e Las Vegas.

L’ALGORITMO AL VOLANTE di Michele Buono collaborazione Edoardo Garibaldi immagini Tommaso Javidi, Dario D’India montaggio Veronica Attanasio

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Deserto del Nevada, l’Arizona alle spalle e un centinaio di miglia per la meta. Tante storie da queste parti che non si fermano mai. Arrivano a una nuova frontiera e la scavalcano per andare oltre, sempre. Las Vegas. Due automobili si inseguono nell’autodromo. Cento, centocinquanta, duecento e spingono sempre più forte. Si guardano, si studiano e quando capiscono il momento migliore per sorpassarsi, solo allora accelerano. Tutto qua? - starete pensando - No. È che non c’è nessuno a guidare queste auto. Non c’è nemmeno il posto per il pilota. Fanno tutto da sole: vedono, ragionano e decidono. Non è solo una faccenda di corse. Queste automobili stanno scrivendo una storia più grande e in questa storia c’è tanta Italia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ed è la parte migliore dell’Italia; vedremo quale. Quella che sta contribuendo alla trasformazione epocale della storia dei trasporti, cioè un progetto, quello dell’auto a guida autonoma. Questo ci autorizza anche a ipotizzare un futuro e immaginare un’auto che senza piota ci viene a prendere sotto casa, anche quando saremo anziani e ci conduce dove ci serve e poi dopo magari ci lascia e va a prendere anche un’altra persona. E allora, se non la guidiamo quest’auto, ha senso possederla? Perché si tratterebbe poi di un servizio condiviso con altre persone. E se non la possediamo allora si potrebbe abbassare il numero delle auto, dei veicoli presenti in città; più spazio a disposizione anche per il verde, meno impatto ambientale, meno consumi energetici, costi sociali più bassi perché – se guida un’intelligenza artificiale magari il rischio di incidente è molto più vicino allo zero. Però deve essere allenata bene questa intelligenza artificiale e noi in questo campo, gli italiani, siamo tra i primissimi al mondo. Ma in pochi lo sanno. Ora questa idea è venuta ad una prestigiosa azienda italiana, la Dallara, che progetta e costruisce dei veicoli che poi sfrecciano sulle piste di Indianapolis e ha lanciato un’idea: dice “ma perché queste auto senza pilota non le facciamo gareggiare e le spingiamo al massimo delle loro potenzialità guidate da una intelligenza artificiale”? Bene. Questa sfida l’ha raccolta dall’altra parte dell’oceano da molti sponsor, dallo stato dell’Indiana e poi da 37 università in tutto il mondo. Ora per la prima volta nella storia correranno, gareggeranno veicoli senza pilota e sfrecceranno a trecento chilometri orari. Chi ha vinto? In palio c’è un milione di dollari. Però prima bisogna testare gli algoritmi in una gara virtuale. Il nostro Michele Buono.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Tutto comincia in provincia di Parma. Varano de’ Melegari, questa è la Dallara. Auto da corsa, da strada e le Indycar, quelle della 500 miglia di Indianapolis. Un giorno alla Dallara si chiesero: “E se permettessimo a un pilota di guidare una macchina prima che sia costruita?”. E fu così che prese forma questo simulatore. Di reale c’è solo l’oggetto, i piloti e gli ingegneri; il resto sono modelli matematici.

INGEGNERE DALLARA Cambiamo dei numeri, siamo noi a dirgli adesso guiderai una macchina più lunga, una macchina più corta, una macchina con più cavalli e tu ci dici se questa macchina è più guidabile.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO I vantaggi? La possibilità di simulare velocemente le condizioni più estreme di un veicolo e di correggere il progetto in diretta, prima di andare in produzione, in pista o su strada.

ANDREA PONTREMOLI – AMMINISTRATORE DELEGATO DALLARA GROUP Tutti ci avevano sconsigliato di farlo perché era una roba impossibile. Parafrasando Einstein, abbiamo assunto tutti neolaureati che non sapevano che era impossibile e l’hanno fatto.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Poi alla Dallara hanno rilanciato: e se facessimo correre queste macchine da sole, senza il pilota?

MICHELE BUONO Praticamente voi avete detto a dei ragazzi o poco più che ragazzi: sareste capaci a far viaggiare delle automobili sulla pista di Indianapolis a 300kmh, senza pilota?

ANDREA PONTREMOLI – AMMINISTRATORE DELEGATO DALLARA GROUP Noi l’abbiamo chiesto un po' a tutti, chi ha colto la sfida sono stati i ragazzi perché tutti noi abbiamo dei preconcetti pensando che questa cosa sia impossibile, molto difficile, molto costosa e che ci vuole moltissimo tempo.

MICHELE BUONO Voi che avete messo?

ANDREA PONTREMOLI – AMMINISTRATORE DELEGATO DALLARA GROUP Noi abbiamo messo le vetture

MICHELE BUONO Il resto, l’intelligenza che deve stare a bordo?

ANDREA PONTREMOLI – AMMINISTRATORE DELEGATO DALLARA GROUP L’intelligenza a bordo la metteranno questi ragazzi dell’università.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Le università di tutto il mondo raccolgono la sfida: devono dimostrare di avere un progetto di software e algoritmi all’altezza. Solo nove paesi vincono la selezione. L’Italia c’è. Due le università: Politecnico di Milano e Università di Modena e Reggio Emilia.

 MICHELE BUONO La sfida qual è?

MARKO BERTOGNA – ORDINARIO DIP. FISICA INGORMATICA MATEMATICA UNIVERSITÀ MO-RE Ovviamente è una sfida di velocità, è portare la macchina a quello che si chiama in gergo ai limiti del handling, ai limiti della controllabilità. Quando è l’essere umano a farlo, lo fa con tutta una serie di sensazioni che il pilota ha, che è difficile trasferire, codificare. In questo caso la sfida principale è prevedere cosa può andare male, un colpo di vento, una ruota che sterza un po’ troppo…

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Gli imprevisti allora diventano codici e algoritmi per simulare le condizioni di una gara e istruire i veicoli prima di andare in pista.

LUCA BARTOLI - STUDENTE DIP. FISICA INFORMATICA MATEMATICA UNIVERSITÀ MO-RE A questa automobile stiamo insegnando tutti i parametri in modo che riesca a sterzare e accelerare come farebbe una persona normale.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO La prima prova è in realtà virtuale. Si simula la pista di Indianapolis e a guidare sono gli algoritmi, e solo se saranno capaci di non combinare disastri si potrà fare la gara veramente. Le auto accelerano, si affiancano, si sorpassano, qualcuna va fuori strada ma alla fine tutte sono salve. Nella realtà virtuale. Vince il Politecnico di Milano e porta a casa centomila dollari reali. La gara - quella nella realtà - adesso si può fare. Questa non è una simulazione: Indianapolis sta scorrendo veramente sotto i sedili. Un milione di dollari la borsa per chi andrà più veloce e non manderà a sbattere l’automobile. Strade dell’Indiana. Questo è l’Indianapolis Motor Speedway. Adesso è tutto reale: le macchine, la pista, le curve e gli ostacoli.

MARKO BERTOGNA – ORDINARIO DIP. FISICA INGORMATICA MATEMATICA UNIVERSITÀ MO-RE Ci siamo! Oggi ragazzi sono emozionatissimo, sono venuto qua e avevo la pelle d’oca, è una cosa meravigliosa. Bello, bello, bello!

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Mancano una settimana alla gara e ancora tante prove. È la prima volta al mondo che delle auto senza pilota si mettono a correre in automatico.

MICAELA VERUCCHI - DOTTORE DI RICERCA INFORMATICA UNIVERSITÀ MODENA - REGGIO EMILIA Se prendiamo il pilone ci andiamo contro… vabbè! Abbiamo perso completamente un’antenna GPS e quindi la macchina si è fermata.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO È come se vedessero le auto: percepiscono curve e rettilinei, sanno quando è il momento di sterzare e di frenare. Dallara ha allestito le vetture, i team universitari in gara le insegnano a ragionare da sole. Dallara Stati Uniti, sede di Indianapolis. Che ci avete messo dentro le macchine?

STEFANO DE PONTI – AMMINISTRATORE DELEGATO DALLARA USA Questo in sostanza è tutto l’hardware, tutto quello che vedete che sostituisce il pilota, poi tramite un software, comandato quindi dagli studenti e da tutto il personale delle università, dà dei comandi al pilota/computer per fare tutte le operazioni di guida e rendere la macchina appunto autonoma.

ALEJANDRO JUNCOS - COORDINATORE TECNICO JUNCOS Le auto sono dotate di radar, telecamere e computer che mandano segnali a diversi motori elettronici per muovere il piantone dello sterzo, le ruote e agire sull’impianto frenante.

MICHELE BUONO Dov'è il cervello?

ALEJANDRO JUNCOS - COORDINATORE TECNICO JUNCOS È qui. Sono cinque computer che stanno al posto del pilota. Raccolgono tutte le informazioni che gli arrivano dalle telecamere e dai radar - ci sono anche dei GPS, eccoli - e in uno schiocco di dita sono in grado di prendere una decisione.

MICHELE BUONO Dove sono gli occhi?

ALEJANDRO JUNCOS - COORDINATORE TECNICO JUNCOS Gli occhi sono ovunque! MICHELE BUONO Ha più occhi di un essere umano?

ALEJANDRO JUNCOS - COORDINATORE TECNICO JUNCOS Certo! E vedono a 360 gradi per tutto il tempo che l’auto è in moto.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Mancano due giorni alla gara ed è necessario fare ancora molte prove. Alle automobili gli insegni il percorso, gli dici il numero di giri di pista e a che velocità andare. A guidare poi ci pensano loro. Traiettoria rispettata; velocità pure. È il turno del Politecnico di Milano. Test delle funzioni apposto; partenza.

FILIPPO PARRAVICINI – DOTTORANDO INGEGNERIA AUTOMAZIONE POLITECNICO DI MILANO Mi sa che abbiamo spinnato ma non abbiamo toccato nulla…

MICHELE BUONO FUORI CAMPO L’automobile si è bloccata all’improvviso come se avesse colto un pericolo ma non c’era niente davanti. Potrebbe aver visto troppo, magari un’ombra percepita come un ostacolo. Stanno imparando a comportarsi le automobili.

FILIPPO PARRAVICINI – DOTTORANDO INGEGNERIA AUTOMAZIONE POLITECNICO DI MILANO Comunque, è partita una frenata di emergenza gestita più o meno bene, la macchina ha fatto un 360, si è fermata in mezzo alla pista, non abbiamo toccato nulla, quindi siamo salvi. Ha raccolto tanti dati al massimo di velocità che avesse mai fatto chiunque qui.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO 235 chilometri orari. È una storia che si scrive giorno per giorno. Non esistono precedenti. È come se si stesse reinventando l’automobile e allora si può solo provare, correggere e provare ancora. La mattina in pista e la sera nelle proprie basi a Indianapolis.

AYOUB RAJI – DOTTORANDO INFORMATICA UNIVERSITÀ MODENA - REGGIO EMILIA Ciò che si fa poi tutti i giorni è quello di testare quindi in simulazione, cercare dei possibili - quelli che noi chiamiamo bug - e quindi dei fallimenti del codice e provare addirittura a portarlo al fallimento per poi trovare quel caso estremo e risolverlo in simulazione prima di andare ancora in pista.

SERGIO SAVARESI – ORDINARIO CONTROLLI AUTOMATICI DEI VEICOLI POLITECNICO DI MILANO L’intelligenza per domani è già fatta tutta, per domani dobbiamo solo, tra virgolette, cambiargli qualche parametro gli dobbiamo dire “quando sei fuori da curva 4, accelera molto velocemente”, tutto il resto lo sa già fare. Noi usciamo da curva 4 a 90 miglia h, 5 gli diamo un riferimento molto alto e a questo punto acceleriamo… tiriamo la quarta fino a 6500 giri non 7000 giri.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Quello che non deve succedere in gara è che le automobili diano di matto, si distruggano e facciano tanti danni. Si sta scrivendo il futuro, certo, ma ci stanno di mezzo investimenti, sponsorizzazioni e l’immagine dell’autodromo di Indianapolis.

MICHELE BUONO È la prima gara al mondo di questo tipo, che cosa vi ha fatto dire bene, corriamo il rischio?

DOUG BOLES - PRESIDENTE INDIANAPOLIS MOTOR SPEEDWAY Il nostro DNA. Questo circuito esiste da più di cento anni e nel 1909 - quando è stato costruito - la nuova tecnologia era l’automobile. La gara a guida autonoma - quindi - non è un rischio per noi ma un’opportunità per provare una nuova tecnologia che farà avanzare il concetto di automobile, e che sta portando le menti più brillanti di tutto il mondo a competere qui, all’Indianapolis Motor Speedway, proprio come abbiamo fatto con la 500 miglia dal 1911.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Costruito il circuito, s’inventarono la gara: 200 giri e nacque la 500 miglia e tanta innovazione, da pensare e da provare. 30 maggio 1911, eccolo Ray Harroun sulla Marmon Wasp con una innovazione tecnologica a bordo: uno specchio per vedere che gli succede alle spalle mentre pilota. Prima ci pensava un meccanico, seduto a fianco, a guardare da tutte le parti e riferire. Adesso niente meccanico per Ray, macchina più leggera e fu così che vinse quella 500 miglia. Il resto è storia, per lo specchietto retrovisore e la sicurezza.

MICHELE BUONO Come vede l’impatto di una gara a guida autonoma sull’industria automobilistica?

DOUG BOLES - PRESIDENTE INDIANAPOLIS MOTOR SPEEDWAY Costruirà le basi - credo - di molta tecnologia delle automobili nei prossimi due decenni e di come organizzeremo i trasporti in futuro. I frutti li vedremo nella nostra vita di tutti i giorni.

SIGRIDO RANUCCI IN STUDIO È un altro con la visione, Mr Doug Boles che è il presidente Indianapolis Motor Speedway. A investito di buon grado in questa tecnologia perché sa che rivoluzionerà il mondo dei trasporti. E poi ha anche un certo interesse perché vuole attrarre sul suo territorio i migliori talenti del mondo. E per questo solo arrivate le università statunitensi: dal prestigioso MIT di Boston, Berkley, l’Università dell’Indiana e della Virginia, l’Accademia di West Point dalle Hawaii. Vengono poi dall’India, dalla Corea del Sud, ma anche dall’Europa: i tedeschi dell’Università Tecnica di Monaco di Baviera e poi le nostre due università, il Politecnico di Milano e quella di Modena Reggio Emilia riunite in nove team. Ora, questi ragazzi che cosa devono fare? Devono allenare l’intelligenza artificiale: le auto vengono lanciate a una velocità vicino ai 300 chilometri orari e loro devono insegnare all’intelligenza artificiale a reagire a degli imprevisti. Le auto hanno occhi a 360 gradi - delle telecamere e dei radar – che lanciano immagini e input ben precisi a dei computer che li trasformano poi in input a dei motori che a volte accelerano, a volte sterzano, a volte frenano. Solo che quando c’è il pilota in carne umana, è lui che reagisce in base alle sue percezioni. Qui il pilota non c’è e quindi bisogna allenare per bene l’intelligenza artificiale a un imprevisto che può essere un colpo di vento, una 6 sterzata, un ostacolo. Insomma, bisogna allenare l’algoritmo all’imprevedibile. In questa gara di Indianapolis si parte con le macchine, le carrozzerie, i motori tutte uguali: tutte Dallara. La differenza la farà proprio chi allenerà e chi costruirà, scriverà bene l’algoritmo della intelligenza che le guiderà. La gara consiste questa volta nel raggiungere la velocità massima possibile e cercare di non andare fuori strada o di rimanere bloccati. In palio c’è un milione di dollari. Chi lo vince?

MICHELE BUONO FUORI CAMPO È tutto pronto nel circuito ovale di Indianapolis. Le macchine sono di un solo tipo, le Dallara Av-21, perché a gareggiare sono gli algoritmi. Quarantamila righe di codice, in media, guideranno queste automobili. Tutte le squadre hanno controllato e riscritto righe fino all’ultimo. MICHELE BUONO Le ultime correzioni che avete fatto?

MICAELA VERRUCCHI – DOTTORE DI RICERCA INFORMATICA UNIVERSITÀ MODENA - REGGIO EMILIA Le abbiamo fatte stanotte e sono andate bene.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Indianapolis Motor Speedway. La prima gara al mondo di auto senza pilota sta per iniziare. Sarà una gara di velocità. Sei giri di pista, una vettura per volta e le prime tre auto piazzate andranno in finale. Politecnico di Milano parte per primo, le manovre sono perfette, la velocità media è alta, ha superato i 200 kmh, di poco più veloci i tedeschi di Monaco di Baviera. Università di Modena Reggio Emilia, 140 miglia la velocità in questo momento, oltre i 225 kmh. La macchina si sta comportando bene. I piloni li vede, rallenta, li scansa e riprende velocità. Va sempre più forte.

MARKO BERTOGNA - DIPARTIMENTO SCIENZE FISICHE INFORMATICHE MATEMATICHE UNIVERSITÀ MODENA REGGIO EMILIA Michele! È ancora lunga, è ancora lunga!

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Le curve le percepisce, la vettura scala e sceglie la traiettoria migliore. Ricordiamolo, non c’è nessun pilota. La macchina sta guidando da sola. Per le università americane e della Corea del Sud la gara finisce alle semifinali. Gli algoritmi migliori e le macchine più veloci sono delle squadre europee: Università tecnica di Monaco, Politecnico di Milano, Università di Modena e Reggio Emilia - in testa alla classifica - vanno in finale.

MARCELLO CELLINA – INGEGNERE AUTOMAZIONE POLITECNICO DI MILANO POLIMOVE Ha funzionato questa mattina, non ci sono motivi per cui non dovrebbe funzionare oggi pomeriggio.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Politecnico di Milano. Giusto il tempo di riscaldare le gomme e i sensori percepiscono che si può aumentare la velocità. Va veloce Milano. Punte di oltre i 200 chilometri orari in curva. Spinge ancora di più sul rettilineo. La telemetria sta segnalando qualcosa di anomalo.

MICHELE BUONO Che è successo?

FILIPPO PARRAVICINI – DOTTORANDO INGEGNERIA AUTOMAZIONE POLITECNICO DI MILANO La macchina era buona, il controllore era buono, abbiamo perso il primo GPS dopo il primo giro e lì abbiamo incrociato le dita, abbiamo detto speriamo che regga. Stefano il nostro esperto di localizzazione stava guardando la telemetria, vede il secondo GPS che va e mi dice siamo andati, è finita, cinquanta metri dopo abbiamo toccato il muro e tutto qua.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Questa competizione serve a creare le condizioni estreme di un sistema di guida autonoma per stanare i problemi. I GPS a quelle velocità e vibrazioni non hanno retto. Parte la vettura tedesca. La squadra di Monaco setta la velocità a un livello leggermente più basso. Non vuole rischiare. Modena Reggio Emilia. Spingono forte gli italiani. La vettura sta superando i 250 chilometri orari. La telemetria è regolare. Attenzione! Qualcosa non sta andando nel verso giusto. La vettura rallenta.

MICHELE BUONO Che è successo?

MARKO BERTOGNA – ORDINARIO DIP. FISICA INGORMATICA MATEMATICA UNIVERSITÀ MO-RE Avevamo fatto il giro migliore di tutti, un bug dell’ultimo momento ci ha fregato, proprio l’ultimo. I ragazzi sono stati bravissimi, abbiamo dimostrato che l’Italia c’è, l’Europa c’è, stavamo facendo il grande record, un bug dell’ultimo momento, un 3 invece di un 4 e…

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Un errore umano. Sei erano i giri da fare, due di riscaldamento e quattro di velocità. Nel settaggio il team ha scritto che i giri di velocità erano 3 invece che 4, la macchina ha rallentato perché rispetta le regole e hanno vinto i tedeschi. Premio: un milione di dollari. Non era previsto un secondo premio in denaro ma l’organizzazione americana ha considerato il team di Modena - Reggio Emilia il vincitore morale della competizione - la loro vettura è stata la più veloce - e gli ha voluto consegnare centomila dollari.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Non è solo una faccenda di corse, abbiamo detto. Queste automobili stanno scrivendo una storia più grande: un modo nuovo di far muovere l’umanità.

FILIPPO PARRAVICINI – DOTTORANDO INGEGNERIA AUTOMAZIONE POLITECNICO DI MILANO Di fatto hai dimostrato che quando poi vuoi portare quella macchina a 50 all’ora in città si può fare e questo accelererà sicuramente il processo di diffusione della macchina a guida autonoma sicuramente.

PAUL MITCHELL - PRESIDENTE ENERGY SYSTEMS NETWORK E non solo nelle città. Può funzionare sulle autostrade, praticamente ovunque.

MICHELE BUONO Quale sarebbe l'impatto sulla società?

 PAUL MITCHELL - PRESIDENTE ENERGY SYSTEMS NETWORK Salverà molte vite umane perché i veicoli autonomi saranno più sicuri dei veicoli a guida umana e contribuiranno a ridurre il consumo di energia, quindi sarà un bene per il pianeta.

MICHELE BUONO Perché state investendo su questa storia?

ERIC HOLCOMB - GOVERNATORE DELL’ INDIANA Oggi su questa pista abbiamo conosciuto il futuro della mobilità, il futuro dei trasporti, le strade intelligenti, i veicoli intelligenti, l’energia intelligente, e noi vogliamo essere leader nel campo dell’innovazione di come ci muoveremo e di come trasporteremo le merci.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO È questo l’obiettivo degli organizzatori, degli sponsor privati e pubblici americani: arrivare per primi a possedere questa tecnologia che hanno visto maneggiare tanto bene da un’università tedesca e da due università italiane.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Italia, Modena. Al dipartimento di scienze fisiche e informatiche dell’università si sta allenando un sistema di intelligenza artificiale per automobili a guida autonoma per il trasporto privato.

MORENO RAZZOLI – STUDENTE INFORMATICA UNIVERSITÀ MODENA - REGGIO EMILIA In questo momento sto generando un data set che servirà all’intelligenza artificiale per imparare a distinguere la differenza tra un’automobile o un pedone, un ciclista e via dicendo e come localizzarli in uno spazio tridimensionale durante una fase che si chiama training.

MARKO BERTOGNA – ORDINARIO DIP. FISICA INGORMATICA MATEMATICA UNIVERSITÀ MO-RE È come insegnare a un bambino: servono veramente tanti esempi a una rete neurale per poter essere allenata, decine di migliaia.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Il sistema auto-apprende e capisce come comportarsi da quando il passeggero scrive la destinazione; quali velocità tenere e tutte le regole da rispettare. Che fare quando avvista delle strisce pedonali, o delle persone che camminano intorno alla macchina o che vogliono attraversare.

MICHELE BUONO Quindi pensare a un sistema di mobilità autonoma a regime in una dimensione urbana è possibile?

SERGIO SAVARESI – ORDINARIO CONTROLLI AUTOMATICI DEI VEICOLI POLITECNICO DI MILANO Sicuramente fra 10/15 20 anni al massimo vedremo le nostre città con auto autonome, completamente autonome in grado di rivoluzionare il nostro modello di mobilità. MICHELE BUONO Quindi il cambio di paradigma è questo, cioè dal possesso di un’automobile all’uso di un servizio trasporto, perché se la chiamo e mi trasporta dove devo andare a questo punto non è più necessario possedere un’automobile.

SERGIO SAVARESI – ORDINARIO CONTROLLI AUTOMATICI DEI VEICOLI POLITECNICO DI MILANO Certo è questa la rivoluzione: il completo cambio di modello dal possesso di un’automobile a un Servizio pubblico.

MICHELE BUONO A regime di quanto si potrebbe tagliare il parco delle autovetture?

SERGIO SAVARESI – ORDINARIO CONTROLLI AUTOMATICI DEI VEICOLI POLITECNICO DI MILANO Quaranta milioni oggi le automobili, quattro milioni in questo futuro con un modello completamente diverso di mobilità.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Parliamo ovviamente solo di numeri italiani. Da 40 milioni a 4 milioni che gireranno sulle nostre strade. Va da sé che a livello globale l’impatto sarebbe ben più importante e notevole in termini di spazio, di emissioni nocive e anche di costi sociali abbassati. Ora siamo all’alba di una nuova era della mobilità, ma anche dell’umanità, perché questi veicoli gireranno nelle cosiddette città intelligenti, su strade intelligenti con una energia ottimizzata. Speriamo anche quella intelligente. Gli americani lo sanno, per questo investono. Vogliono essere i primi e ci credono. E a loro non sembra neppure vero poter disporre dal cesto le ciliegie migliori. Di poter disporre di ricercatori che sono quelli più a livello avanzato in termini di tecnologie e conoscenze e che sono in grado anche di poter raggiungere in brevissimo tempo l’obiettivo stabilito. Basta che pagano, riescono a usufruire dei talenti che sono stati formati dalle altre università: quelle tedesche e anche quelle italiane. Noi invece da parte nostra, possiamo solo rischiare in mancanza di un ecosistema che li accolga questi talenti, di vederceli soffiare sotto il naso. È come se avessimo dei giacimenti di petrolio o di gas e poi alla fine regalassimo i barili, regalassimo il gas. Ed è un vero peccato perché qui stiamo parlando dell’industria del futuro: dell’automazione, della mobilità, della possibilità di creare nuove professioni. Per questo Dallara e gli americani ci credono e questa volta spostano il circuito: si va a Las Vegas. Sarà un po’ più complicato perché questa volta l’intelligenza artificiale dovrà stabilire, sfrecciando a 300 km orari, come, dove e quando superare un ostacolo. Questa volta in palio c’è il futuro.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO A tre mesi dalla prima gara mondiale, propongono un’altra competizione e vogliono alzare il livello della sfida.

MICHELE BUONO Che avete imparato a Indianapolis che vi spinge a chiedere una sfida ancora più complessa?

PAUL MITCHELL - PRESIDENTE ENERGY SYSTEMS NETWORK Abbiamo capito che è possibile andare veloci ma non è sufficiente, dobbiamo andare oltre. I veicoli a guida autonoma, quando saranno sul mercato, non viaggeranno uno per volta ma percorreranno strade e autostrade contemporaneamente, si incroceranno e si supereranno a 70, 90 miglia all’ora. Quindi è necessario fare subito questa prova.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Sfida accettata. Strade del Nevada. Tre mesi dopo le auto a guida autonoma dovranno correre e sorpassarsi nel Motor Speedway di Las Vegas.

MARKO BERTOGNA – ORDINARIO DIP. FISICA INGORMATICA MATEMATICA UNIVERSITÀ MO-RE Rispetto a Indianapolis è tutto molto più difficile perché dobbiamo fare i sorpassi rispetto agli altri veicoli che non sai bene che comportamento hanno, a che velocità andranno, a che velocità potremmo noi sorpassare e quindi è tutto un po' un punto di domanda.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Le squadre in competizione hanno già scritto gli algoritmi, adesso devono provarli in pista, raccogliere i dati giorno per giorno e metterli a punto prima della gara. Università di Modena e Reggio Emilia, base di Las Vegas. Come tutte le sere si guarda il video delle prove della mattina e si aggiorna la strategia. Inseguimento sulla stessa traiettoria, una delle due macchine sta aumentando di velocità, ha davanti l’altra automobile, qual è il ragionamento che fa la macchina?

MICAELA VERRUCCHI – DOTTORE DI RICERCA INFORMATICA UNIVERSITÀ MODENA - REGGIO EMILIA La riconosce come un ostacolo e dato che ha una velocità maggiore capisce che deve sorpassarla altrimenti colliderebbe con questo ostacolo

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Il loro algoritmo valuta in pochi secondi tra decine di opzioni differenti e decide la traiettoria ottimale per scartare l’ostacolo. Sorpasso e collisione evitata. La squadra del Politecnico questa mattina viaggia in direzione Arizona, destinazione Yucca. C’è una pista lunghissima nel deserto buona per fare una prova: lanciare la macchina senza pilota ai limiti del possibile e vedere che succede. A Indianapolis i GPS non hanno retto alle velocità altissime. I ragazzi hanno raccolto tutti i dati, analizzato tutte le fonti di guasti possibili, e adesso vogliono capire e cercano la rivincita. Partenza. Prende velocità la macchina. Sta andando sempre più forte la Dallara Av 21. Supera le 140 miglia orarie; 150, 160 e ancora di più; la macchina sta puntando verso una velocità mai raggiunta da un’auto a guida autonoma. Supera le 175 miglia orarie, a 175,96 si blocca, sono più di 282 chilometri orari. Intanto è stato battuto un record mondiale e i ragazzi hanno raccolto i dati che gli servono. Adesso la gara a Las Vegas. Eliminatorie per la finale.

MICAELA VERRUCCHI – DOTTORE DI RICERCA INFORMATICA UNIVERSITÀ MODENA - REGGIO EMILIA 271 di massima.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Le università italiane ancora una volta sono in testa alla classifica e vanno in finale con l’Università tecnica di Monaco di Baviera e la squadra dell’università di Seul, Corea del Sud.

MARKO BERTOGNA – ORDINARIO DIP. FISICA INFORMATICA MATEMATICA UNIVERSITÀ MODENA REGGIO EMILIA I due italiani primi, è una bella cosa per il nostro paese anche perché qua di gente ce n’è che lavora su queste cose.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Primo round: Politecnico di Milano contro Università di Seul.

MARCELLO CELLINA – INGEGNERE AUTOMAZIONE POLITECNICO DI MILANO Siamo riusciti a fare un sorpasso a velocità superiori ai 170 chilometri orari loro non sono riusciti, si sono ritirati quindi abbiamo vinto questo round di eliminazione.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Vince Milano, Seul è fuori. Adesso tocca a Modena Reggio Emilia contro Monaco di Baviera. Partenza. Le due auto prendono velocità. Si guardano, si studiano, fanno calcoli veloci su quello che hanno intorno per decidere il momento ottimale del sorpasso. La distanza si accorcia, l’auto di Modena si sta avvicinando alla vettura tedesca, è sulla stessa traiettoria e decide che il momento di sorpassare è questo. La Germania ritorna in testa. Modena! Monaco… Modena è fuori. Ultima gara per la vittoria adesso. A rappresentare l’Italia c’è solo il Politecnico di Milano. Dovrà sfidare i tedeschi dell’università tecnica di Monaco. Partenza. Le due auto stanno scegliendo le traiettorie. Aumentano progressivamente la velocità. Milano… Monaco… va in testa Milano.

MARCELLO CELLINA – INGEGNERE AUTOMAZIONE POLITECNICO DI MILANO Ora siamo in vantaggio.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO La Germania ritorna in testa.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Milano accelera.

MARCELLO CELLINA – INGEGNERE AUTOMAZIONE POLITECNICO DI MILANO Siamo di nuovo in vantaggio noi.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Tocca quasi i 280 km/h. La vettura di Monaco non demorde, tenta un sorpasso… il Politecnico di Milano ha vinto.

ANDREA PONTREMOLI – AMMINISTRATORE DELEGATO DALLARA GROUP Questi ragazzi sono riusciti a tirar fuori delle cose incredibili. Oggi abbiamo visto questa macchina che ha fatto oltre i 280 chilometri all’ora con la guida autonoma, è una cosa impressionante, e ho visto in pista per la prima volta un sorpasso fra due auto autonome. Forse non ci rendiamo conto tecnicamente che cosa vuol dire aver fatto questa cosa.

SIGFRIDO RANNUCCI IN STUDIO Forse lo capiremo un domani quando sarà passato quanto è stato importante aver lasciato spazio all’immaginazione. Quella però basata sulla conoscenza. Il computer è incredibilmente veloce e accurato ma è stupido: non ha il beneficio del dubbio. L’uomo è invece incredibilmente lento e inaccurato, ma sarebbe dotato di intelligenza. Quando parliamo di Intelligenza Artificiale non è null’altro che mettere a disposizione della velocità del computer, l’esperienza e l’intelligenza dell’uomo. Ne uscirebbe uno strumento dalle potenzialità incredibili, forse incalcolabili in questo momento. È ovvio che il futuro dell’umanità dipenderà da quello che saprà lei stessa costruire. La Nasa il 26 aprile prossimo, metterà a disposizione la base di Cape Canaveral al Politecnico di Milano. Si tratta della pista di atterraggio dello shuttle lunga circa 5 chilometri. La metterò a disposizione perché vuole far tentare al Politecnico un record, quello di superare il muro dei 300 chilometri orari per una macchina senza autista a guida autonoma. Im bocca al lupo Politecnico. Noi invece da parte nostra rischiamo di perdere e farci soffiare dei talenti, quello che è il patrimonio più prezioso per un Paese, la risorsa umana e con questo perdere un pezzo di Paese potenziale, che però è importante perché è quel pezzo di Paese che sa governare una tecnologia altrimenti non ci rimane che subirla la tecnologia.

·        L’emoticon.

Maurizio Stefanini per ilfoglio.it il 19 settembre 2022.

L’emoticon fa 40 anni. Nato a Medina nell’Ohio il 21 marzo 1948, dottore di ricerca presso il Mit nel 1977, l’allora 34enne Scott Elliot Fahlman è ingegnere informatico di quella Carnegie Mellon University di cui è oggi docente emerito, quando il 19 settembre 1982 in un messaggio inviato a una bacheca elettronica di quell’ateneo ha l’idea di usare simboli grafici per distinguere post seri da messaggi più scherzosi, e più in generale per esprimere stati d’animo.

Ovviamente, si sforzò di utilizzare quel che allora poteva offrirgli una qualunque tastiera. Questo fu il suo messaggio originale: 

 19-Sep-82 11:44  Scott E  Fahlman  :-)

From: Scott E Fahlman

I propose that the following character sequence for joke markers:

 :-)

Read it sideways.  Actually, it is probably more economical to mark things that are NOT jokes, given current trends.  For this, use

 :-(

 I due punti dunque rappresentavano gli occhi, il trattino il naso, e una parentesi chiusa o aperta, rispettivamente un sorriso o una bocca atteggiata a tristezza. Una innovazione, che in meno di due settimane prese piede nel mondo accademico. In seguito, con la diffusione di Internet e della comunicazione grafica tra dispositivi di telefonia mobile divenne un fenomeno di massa, arricchendosi col tempo di nuovi disegnini specifici fino alla creazione di un codice di simboli standard, che imperano in particolare su Facebook e WhatsApp. 

Già 20 anni dopo la cosa era divenuta abbastanza importante da giustificare quella ricerca in rete con cui nel 2002 un team di informatici esperti ritrovò il messaggio ritenuto perduto, e confermò il primato di Fahlman, che alcuni avevano messo in discussione. 

In realtà, c’erano già stati alcuni tentativi in tal senso. Il più celebre dello scrittore russo Vladimir Nabokov, autore di Lolita, che nel 1955 ipotizzava di rispondere alle domande dei giornalisti con uno speciale carattere tipografico. Ma l’emoticon al suo fondo attinge in realtà all’origine stessa della scrittura, che dai caratteri cuneiformi agli ideogrammi cinesi o ai glifi maya nasce appunto come “emoticon” via via sempre più stilizzate.

Nei geroglifici egiziani diventano poi un sistema simile al rebus, per poi attraverso Sinai, Fenicia e Grecia evolvere verso il modello dell’alfabeto, che però alla fine non è che una emoticon evoluta. Rovesciamo la A, ad esempio, e scopriamo la stilizzazione di un bue: significato di quella parola aleph in ebraico e fenicio, prescelta appunto per come iniziava. Insomma dall’Emoticon, e ritorno.

·        I Fumetti.

Diabolik compie 60 anni: ecco quanto vale oggi il primo numero "Il Re del Terrore". Massimo Balsamo su Il Giornale l'1 Novembre 2022

Lo scorso 1 novembre 1962 nacque l'abile ladro inventato dalle sorelle Giussani, signore borghesi di Milano che diedero vita a un antieroe ricco di contraddizioni

Tabella dei contenuti

 Quanti fumetti di Diabolik esistono

 Quali sono i fumetti più rari

 In che ordine leggere Diabolik

 Quanto vale il primo numero di Diabolik

Sono trascorsi sessant’anni dalla pubblicazione del primo numero di Diabolik. Il 1° novembre del 1962 uscì “Il re del terrore”, costo 150 lire. Il primo di una lunga serie di capolavori firmati dalle sorelle Angela e Luciana Giussani, signore borghesi di Milano capaci di dare via a un antieroe ricco di contraddizioni quanto ammaliante. 

Il primo numero di Diabolik è entrato nella storia, esattamente come il suo protagonista. Un ladro abile, esperto in chimica, capace di travestimenti straordinari. Ma anche dotato di un codice d’onore ben preciso e mai trasgredito. Da sessant’anni, inoltre, resiste anche Ginko, l’ispettore che ricorda da vicino un commissario francese e che continua a dare la caccia senza sosta al suo nemico numero uno.

Una delle novità del fumetto è anche il suo formato tascabile, pensato in primis per i viaggiatori, mentre a livello artistico ha segnato la nascita del fumetto nero italiano. Storie dal grande sapore cinematografico, celebrate sul grande schermo sia da Mario Bava (1968), sia dai Manetti Bros. (2021). Senza dimenticare gli spot pubblicitari, le serie animate e il grande merchandising ad hoc.

Quanti fumetti di Diabolik esistono

Sono 909 gli albi di Diabolik. Dal 1° novembre 1962 al 1° novembre 2022 sono stati pubblicati oltre novecento fumetti dell’amato ladro. Il numero dei sessant’anni è intitolato “Prossimi alla fine”. Ovviamente non si riferisce all’amore degli appassionati per l’antieroe romantico e decadente. Numeri incredibili, che stabiliscono un primato ineguagliato nel mondo del fumetto d’avventura nostrano.

Quali sono i fumetti più rari

In circolazione da sessant’anni, il fumetto delle sorelle Giussani è spesso al centro delle vite dei collezionisti. I numeri più rari di Diabolik sono sicuramente quelli della Prima Serie, come testimoniato dalle cifre da capogiro circolate sul web. “L’opera prima”, se così possiamo ribattezzarla, è sicuramente tra le più rare: parliamo de “Il re del terrore”, l’esordio del ladro e di Ginko. Impossibile non citare “L’inafferrabile criminale” del febbraio 1963, “L’assassino fantasma” del giugno 1963 e “L’arresto di Diabolik” del marzo 1963. Infine, segnaliamo “Terrore sul mare” del luglio dello stesso anno.

In che ordine leggere Diabolik

Diabolik si può leggere tranquillamente in ordine cronologico, ma bisogna fare una precisazione a tal proposito. I primi tre anni di pubblicazione del fumetto (1962-1964) vengono comunemente definiti “Prima Serie”, mentre il quarto anno (1965) viene chiamato “Seconda serie”. A partire dal quinto anno, la serie viene indicata con i numeri romani, come del resto è riportato nelle copertine dei vari albi. Ad esempio: Anno V, Anno VI, Anno VII e così via fino all’anno LXI, ovvero il 2022.

Quanto vale il primo numero di Diabolik

Come evidenziato in precedenza, il primo numero di Diabolik rientra tra i fumetti più rari della saga. E di conseguenza fa parte dell’elenco dei più pregiati, nonché costosi. Il numero 1 del 1° novembre 1962 – quindi della primissima edizione, non una ristampa – ha un valore che oscilla tra i 5 e i 20 mila euro. Molto dipende dal mercato e dalle “condizioni” del prodotto, ovvero il suo stato. Una cifra importante, ma bisogna considerare diversi fattori. In primis, la scarsa diffusione: “Il re del terrore” infatti fu venduto solo nelle principali edicole di alcune città del Nord Italia.

Sessant'anni di crimini e misteri. Il primo numero del fumetto apparve l'1 novembre 1962. Andrea Brusoni il 26 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Una mattina di novembre del 1962, a Milano, i pendolari affollano la stazione di piazza Cadorna. Per ingannare il tempo del viaggio sui vagoni delle Ferrovie Nord, una sosta all'edicola prima di partire è d'obbligo. L'occhio stavolta è attratto da qualcosa di nuovo, che attrae la sua curiosità: un piccolo albo con il primo piano di un volto mascherato e, più in piccolo, una donna che urla atterrita. Non può che essere così, d'altronde, perché il titolo è esplicito: Il re del terrore. È il numero uno di Diabolik, «Il fumetto del brivido», in vendita a 150 lire. Il formato è tascabile, in modo che si possa facilmente occultare: per l'epoca è una lettura forte, che sfida la (bigotta) pubblica morale. In effetti la giustizia si occuperà di Diabolik più volte, ma il ladro (nonché assassino) riuscirà a scampare ai numerosi tentativi di sequestro da parte delle autorità.

Questo primo storico albo cela un mistero: ancora oggi nessuno conosce l'identità del disegnatore, il colophon non riporta questa informazione. Sembra essere un individuo soprannominato «il tedesco»: vuoi perché indossa sandali e calzini corti, vuoi perché ha avuto un figlio da una donna tedesca. O più semplicemente perché è biondo. Dopo aver consegnato - in ritardo e continuamente sollecitato - le tavole del primo numero svanisce nel nulla e non se ne hanno più notizie. Negli anni Settanta comincia a circolare un nome, Angelo Zarcone, ma non vi è nulla di certo. Nel 1982 è addirittura il noto Tom Ponzi a investigare su di lui, senza ottenere risultati concreti. Tuttavia, se Diabolik non ha un papà, di sicuro ha due mamme: le sorelle Angela e Luciana Giussani. Milano ha recentemente celebrato il loro genio creativo intitolando loro il giardino di piazza Grandi.

È Angela ad avere l'intuizione. Abita a due passi dalla stazione Nord (il cucinotto dell'appartamento diventerà la prima sede dell'Astorina, casa editrice di Diabolik): osservando il via vai in piazza Cadorna pensa che sia venuto il momento per un nuovo prodotto editoriale, con dei tempi di lettura adatti alle distanze percorse dai pendolari. Svolge una piccola indagine di mercato (d'altronde è moglie e collaboratrice dell'editore Gino Sansoni) e scopre che il giallo è il genere preferito. Il suo pensiero corre a Fantômas, un feuilleton francese con protagonista un astuto criminale braccato da un ispettore. Può essere un soggetto interessante per una serie a fumetti. Ci vuole a questo punto un nome. La recente cronaca nera le viene in aiuto. Nel 1958 a Torino era stato commesso un feroce omicidio, l'assassino aveva scritto sotto il falso nome di «Diabolich» diverse lettere alla polizia autoaccusandosi e annunciando nuovi cadaveri. In realtà l'uomo fa perdere le proprie tracce, senza commettere ulteriori crimini. È probabile abbia copiato lo pseudonimo «Diabolich» dal romanzo Uccidevano di notte di Italo Fasan, dove agiva un assassino di nome «Diabolic». L'appellitivo è vagliato in una riunione di redazione insieme ad altri, e alla fine si impone, grazie alla «k» finale che conferisce esotismo, mistero e una manifesta durezza, sul più banale «Diabolicus». Al nome del protagonista, Angela decide poi di abbinare lo sguardo magnetico e la particolare attaccatura dei capelli dell'attore americano Robert Taylor.

Lo scorso febbraio uscì il numero 900 del fumetto e sorprende che il suo successo non sia stato immediato e che il personaggio abbia impiegato un po' a entrare nelle grazie dei lettori. Eppure, è così. La prima uscita, distribuita solo in alcune edicole del Nord Italia, viene in gran parte resa. Occorre circa un anno prima che Diabolik decolli. Una crescita che deriva dal miglioramento del fumetto come prodotto editoriale: l'arrivo di un nuovo autore, Enzo Facciolo, innalza la qualità dei disegni, le sceneggiature si fanno più rigorose. Sotto questo punto di vista, Angela e Luciana sono estremamente pignole: le storie devono essere credibili e verosimili. Spesso si rivolgono al loro medico di famiglia, Carlo Eugenio Santelia, per verificare che le dinamiche di un delitto non contengano errori. La consacrazione di Diabolik diventa manifesta quando nelle edicole comincia a comparire una serie di epigoni, tutti personaggi neri con la kappa: Demoniak, Sadik, Satanik, Kriminal, Zakimort e altri ancora.

È innegabile che nella storia del costume Diabolik sia uno spartiacque fin da subito. Il protagonista è un vero cattivo: ruba, uccide, si fa beffe della giustizia, convive more uxorio (questa poi!) con una giovane donna, Eva Kant, che da vittima era diventa la sua compagna di nefandezze. Tutto ciò, se da un lato stuzzica l'interesse dei lettori che non hanno mai letto nulla di simile, dall'altro mette sul chi vive i censori e i moralisti. Il terzo albo, L'arresto di Diabolik, viene citato in giudizio perché ritenuto lesivo della morale, si dice che incita alla corruzione. Negli anni successivi si susseguono i sequestri per offesa al pubblico pudore. In quel periodo mostrare in copertina una ragazza in costume mentre nuota basta a far intervenire la giustizia. Il vento del Sessantotto spazzerà via il bigottismo più becero. E, a proposito dei mutamenti nel costume degli italiani, non dimentichiamo che Diabolik si schiererà a favore del «no» nella campagna referendaria per l'abrogazione della legge sul divorzio, nel 1974.

La popolarità di Diabolik è dimostrata anche dalla trasposizione cinematografica realizzata nel 1968 da Mario Bava. Lo scorso anno i pirotecnici Manetti Bros. hanno portato sul grande schermo la loro versione proprio de L'arresto di Diabolik, con un cast di tutto rispetto: Luca Marinelli, Miriam Leone, Valerio Mastandrea. La pellicola non ha avuto il successo sperato e Marinelli non ha dato la propria disponibilità per il sequel. Sarà quindi Giacomo Gianniotti a indossare la calzamaglia nera nel nuovo film Ginko all'attacco!, in uscita il 17 novembre in occasione del 60º compleanno del criminale più amato dai lettori.

Le meravigliose "follie di Eta Beta" omino del 2447. È il 26 settembre del 1947 quando Eega Beeva, buffo personaggio dalle vaghe sembianze umane, si presenta ai lettori di The Walt Disney Company con la striscia The man of tomorrow. Felice Modica il 26 Ottobre 2022 su Il Giornale.

È il 26 settembre del 1947 quando Eega Beeva, buffo personaggio dalle vaghe sembianze umane, si presenta ai lettori di The Walt Disney Company con la striscia The man of tomorrow, che compare sui quotidiani fino al 27 dicembre dello stesso anno. Si dovrà però aspettare l'aprile del 1949, per vedere pubblicata sui primi cinque numeri dell'italiano Topolino la lunga storia tradotta col titolo di Eta Beta l'uomo del 2000, divisa appunto in cinque parti.

Per esigenze redazionali, è rimontata in un altro formato, con le vignette tagliate ai lati, i balloon spostati e alcune strisce eliminate per far quadrare i conti dell'impaginazione. I padri di Eta Beta sono due fuoriclasse: lo sceneggiatore Bill Walsh e il disegnatore Floyd Gottfredson. Tali illustri natali fanno sì che, diversamente da altri personaggi Disney (Pippo, Gambadilegno, Orazio, Pluto), Eta Beta faccia la sua comparsa direttamente sulle strisce, senza la lunga gavetta dei cortometraggi. Il nostro possiede un naso umano e non è, quindi, un animale antropomorfizzato. Si presenta rivelando di chiamarsi: Pluigi Psalomone Pcalibano Psallustio Psemiramide Pluff (tradotto dall'originale Pittisborum Psercy Pystachi Pseter Psersimmon Plummer-Push). Ovvio che Topolino gli trovi subito un soprannome!

Quest'esserino gentile e strampalato, ma forte come l'acciaio e dotato di straordinarie risorse tecnologiche, ha compiuto appunto 75 anni e la Panini Comics lo celebra ripubblicando alcune fra le più belle storie che lo vedono protagonista, riunite nel volume da collezione Le follie di Eta Beta.

In realtà, quest'ominide, così simile a E.T. di Spielberg, che arriva casualmente nella città di Topolinia, rinvenuto da Topolino e Pippo dentro una caverna sotterranea nei pressi del centro della Terra, dove i due amici precipitano per sfuggire a un temporale e ad un leone di montagna, è nato il 13 ottobre 2447. È, quindi, un uomo del futuro, sebbene lo striminzito gonnellino che da sempre costituisce il suo abbigliamento lo faccia più assomigliare a un cavernicolo. Ma Eta Beta è famoso per le sue contraddizioni: lo stesso minimale indumento appare infatti realizzato con un miracoloso tessuto del futuro, che gli consente tasche senza fondo, capaci di annullare il peso di migliaia di improbabili oggetti che vi nasconde, da un'incudine a un razzo spaziale...

Eta Beta parla mettendo una p davanti alle parole. Così, ad esempio, Calibano diventa Pcalibano... Si nutre di palline di naftalina e dorme su un pomolo del letto. Inoltre, fiuta i pericoli, prevede il futuro (scatenando una serie di divertentissimi guai) e possiede un cane: Pflip.

Veramente non è un cane, ma un «gangarone», cioè un incrocio tra una decina di animali diversi (un po' di cane, un po' di gatto, un po' di pipistrello, un po' di volpe ecc. ecc.), come attesta un puntuale pedigree; si nutre di misteriosi e invisibili «manzanilli» e scopre i bugiardi.

Ne Le follie di Eta Beta sono riproposte le avventure dell'omonima raccolta Walt Disney degli anni '70, edita nella collana Oscar Mondadori, accompagnate da un ampio apparato redazionale che fa da corollario alle storie: Eta Beta, l'uomo del 2000; Eta Beta e lo scassinatore fantasma; Eta Beta e l'atombrello; Eta Beta e la spia; Eta Beta e lo strano potere di Flip. Tutte storie cult, originariamente pubblicate tra il 1947 e il 1948.

·        I Manga.

Giovanni Gagliardi per “la Repubblica” l'11 agosto 2022.  

«Da un grande potere derivano grandi responsabilità». Una frase cult, pronunciata da uno zio al suo nipote adolescente. Quell'uomo è zio Ben, il ragazzo è Peter Parker e sta per diventare Spider-Man: una maschera pop che ha appena compiuto sessant' anni e dietro la quale può esserci chiunque, a prescindere da etnia, genere o nazionalità. Una versatilità che permette anche a Tyler Scott Hoover, cosplay professionista e modello, di indossare il costume di Spider-Man, pur non somigliando alla figura "canonica" dell'adolescente bianco, modesto e orfano, come è sempre presentato dalla casa editrice Marvel. 

Hoover, 32 anni, del Maryland, di discendenza bianca e nera è credibile quanto Miles Morales, l'adolescente afroamericano di origini portoricane apparso nei fumetti Ultimate (disegnati dalla "nostra" Sara Pichelli) e nel film di animazione Spider- Man - Un nuovo universo (2018). L'Uomo-Ragno appare per la prima volta nel numero 15 di Amazing Fantasy e, come tutti i personaggi di Stan Lee, Steve Dikto e Jack Kirby, ha super poteri e super problemi.

«Quando pensiamo ai supereroi pensiamo a miliardari in giacca e cravatta, scienziati brillanti o divinità nordiche», sottolinea alla Associated Press Angélique Roché, conduttrice del podcast Marvel's voices e coautrice del libro in uscita My super hero is black. E infatti lo "spiderverse" è popolato di altre incarnazioni come quella di Cindy Moon, la coreana- americana Silk. «Poiché Spider- Man significa così tanto per noi, dovremmo sempre essere aperti alle possibilità», afferma Roché.

Lo scorso luglio Spider-Man è stato inserito nella Comic-Con hall of fame durante la convention annuale di San Diego. I fan hanno indossato costumi con le varie trasformazioni del personaggio. Una scelta sicura per i cosplay che vogliono evitare le critiche dei puristi, cosa che non deve accadere, sottolinea Andrew Liptak, autore di Cosplay, a history: The builders, fans, and makers who bring your favorite stories to life: «Si tratta del tuo rapporto col personaggio, quello che indossi è il tuo "fandom" ». Secondo Liptak è ingiusto aspettarsi che i fan si vestano solo da supereroi il cui aspetto o colore della pelle corrispondono al loro.

Nel film Spider-Man: No way home, Electro/Jamie Foxx scherza con Spider- Man/Andrew Garfield dicendo di essere sorpreso che non fosse nero. Non si sa se questa sia un'anticipazione (è già accaduto nei fumetti di Captain America e nel quarto film che uscirà nel 2024 con protagonista Anthony Mackie). Secondo Hoover, Spider-Man non dovrebbe mai essere racchiuso in un solo aspetto.

«Così otterrai che si discuta sul fatto che T' Challa/Black Panther possa diventare bianco». Spider-Man non è definito dalla sua etnia ma dal suo status sociale e dalle lotte che ha affrontato. E questo, dice il cosplay, è ancora più vero per persone di colore ed etnie diverse.

DIETRO LE QUINTE DEL BOOM. Perché i manga hanno conquistato il mondo. LORIS CANTARELLI, critico, su Il Domani il 06 marzo 2022

I manga sono da mesi nelle prime posizioni delle classifiche dei libri più venduti. Negli ultimi mesi, un libro e una mostra hanno consentito di avere un quadro più coerente per scandagliare senza annegare la profondità di autori, personaggi e contenuti di un universo affascinante e quanto mai variegato.

Le vite di chi pilota robot giganti o si trasforma in supereroe, così come le vicende quotidiane di una Lady Oscar (che nel 2022 festeggia i suoi 50 anni del manga e i 40 del debutto animato in Italia) o di una principessa Zaffiro possono così assurgere a vere e proprie icone moderne, in un flusso che cambia di continuo il punto di vista di chi guarda, oltre a reinventare i generi dell’epica e il racconto dei sentimenti umani.

Giovani e meno giovani aprono gli occhi su temi particolarmente d’attualità che il manga esplora da decenni (e con dovizia di autori e personaggi: il che spiega molto del successo planetario), come le questioni di genere, la memoria storica e l’inclusività culturale, i percorsi di scienza e fantascienza, lo storytelling dall’universale al particolare, lo stile e la moda, il design urbano. 

LORIS CANTARELLIcritico. Direttore editoriale della rivista Fumo di China, che ogni mese comprende l’inserto Manga Giornale

Valeria Arnaldi per “il Messaggero” il 6 marzo 2022.

L'aumento di acquisti di libri online, abitudine acquisita da molti durante il lockdown. Le serie animate nipponiche proposte dalle piattaforme digitali, che hanno fatto avvicinare il grande pubblico anche a produzioni prima ritenute per appassionati. E, più semplicemente, la consuetudine di generazioni che sono cresciute davanti alle serie giapponesi e oggi sono ben felici di immergersi in tali atmosfere, appena hanno tempo per farlo. 

Senza dimenticare il diffuso interesse per la cultura nipponica, che vede protagonisti i bambini di ieri, quelli del cosiddetto anime boom - quando le serie animate giapponesi irruppero in modo massiccio nello scenario internazionale - ma anche i loro figli, educati a quello stesso immaginario. È un amore trasversale e intergenerazionale, accresciuto dalla pandemia con l'aumento di tempo libero e la condivisione di spazi e interessi in famiglia, a determinare il vertiginoso incremento di vendite di fumetti e manga in atto nel nostro Paese. 

Sono i numeri a dirlo. L'Associazione Italiana Editori, già lo scorso luglio, nel report sui primi sei mesi di mercato, registrava una crescita, nel settore fumetti, pari al 214 per cento. A, dicembre, nel report stilato con Aldus Up, Eudicom e Lucca Comics&Games, l'Aie ha documentato quasi nove milioni di lettori di fumetti - 8,7 - ossia il 35 per cento del dato complessivo e il 18 per cento della popolazione. Erano 7,27 milioni nel 2019 e addirittura 3,96 milioni nel 1996. Una crescita trainata dagli uomini, con una presenza importante fino agli under55. 

In tale contesto non stupisce che Star Comics, casa editrice di manga come Lamù, One Piece e Demon Slayer, sia arrivata ad essere la terza in Italia per volume di vendite, dopo Mondadori ed Einaudi. «La casa editrice quest' anno compie trentacinque anni e per la gran parte del tempo, abbiamo lavorato nel settore manga - racconta Claudia Bovini, direttrice editoriale Star Comics - negli anni Novanta il passaggio di serie animate nipponiche sulle Tv generaliste ha innescato l'interesse dei lettori. E quel processo si è successivamente rinnovato, grazie al sempre maggiore interesse per la cultura orientale, che ha portato il manga alla ribalta tra le nuove generazioni». 

La storia della passione per i manga è lunga. Bisogna risalire a Osamu Tezuka, non a caso definito padre dei manga o addirittura dio dei manga. Tra i tanti, anzi tantissimi, lavori pubblicati, cult come Kimba, il leone bianco e Astro Boy, negli anni Cinquanta. Poi, molti altri manga sono entrati nel nostro orizzonte culturale, da Lady Oscar di Riyoko Ikeda, a Candy Candy di Kyoko Mizuki, disegnato da Yumiko Igarashi, fino a Lamù di Rumiko Takahashi, nati negli anni Settanta.  

Ancora Capitan Tsubasa - l'animato Holly e Benji - ideato da Yoichi Takahashi, nei primi anni Ottanta. E così via, tra lavori oggi da collezione - «Candy Candy è uno dei titoli che ogni editore vorrebbe pubblicare», sottolinea Bovini - a successi come Dragon Ball di Akira Toriyama, One Piece di Eiichiro Oda, al venticinquesimo anno dalla prima uscita, fino a Demon Slayer di Koyoharu Gotoge, dato alle stampe nel 2016. 

«Demon Slayer è il manga con la tiratura più alta, ben 200mila copie, numeri importanti nel nostro Paese, che non si sentivano da tempo. Dragon Ball supera le centomila copie. A One Piece, di cui ad aprile lanceremo il centesimo volume, spetta l'onore del podio. La fetta più grande di pubblico è maschile, anche se in Italia, la platea femminile è forte», commenta Bovini. 

«Il mercato è cambiato molto nel tempo - dice Claudio Secondi, dal 1972 titolare della Casa del Fumetto a Roma, e per circa 45 anni distributore di manga in Italia - Una volta i numeri erano decisamente alti per tutti i manga, c'erano tante librerie specializzate e molte edicole. Numerose di quelle realtà ora non ci sono più. Erano i manga prima a trainare le serie animate, adesso è il contrario. Oggi le vendite da grandi numeri sono per manga e fumetti associati a serie tv». 

A quelli giapponesi si aggiungono nuovi lavori. E fenomeni. «Si sta affermando il manga coreano, aiutato da successi come il K-Pop, la serie Squid Game e simili», dichiara Bovini. Nuovi personaggi e nuove storie arricchiscono il bagaglio culturale collettivo. E mutano lo sguardo e l'immaginario.

·        I Giochi da Tavolo.

15 giochi da tavolo anni '80 che dovresti conoscere anche se non sei un "boomer". Hanno segnato più di una generazione e molti di questi giochi da tavolo sono utilizzati ancora oggi: ecco quali sono stati i più famosi degli anni '80. Alessandro Ferro il 31 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Giochi da tavolo che passione: una volta erano un must delle case degli italiani, adesso si trovano più che altro impolverati in alcune cantine o chiusi nei cassetti dei ricordi. La tecnologia degli anni Duemila con la possibilità di giocare a distanza con pc e smartphone ha portato in via d'estinzione le riunioni casalinghe con gli amici che sono andate avanti per anni se non decenni. I "Boomer" (nati tra il 1946 e il 1964) li hanno tramandati anche alla "Generazione X" ('65-'79) e ai "Millennials" ('80-'94), poi il processo è diminuito progressivamente dalla "Generazione Z": molti di questi giochi, però, hanno fatto la storia e sono conosciuti anche dai giovanissimi dei giorni nostri.

In ordine alfabetico, passiamo in rassegna i più famosi e "giocati" negli indimenticabili anni '80 e ancora venduti tra i nostalgici delle scorse generazioni.

1) Brivido

Tra i più giocati della seconda metà degli anni '80 c'è Brivido: dotato di un tabellone tridimensionale (tra i primi dell'epoca), il gioco consisteva nello scegliere tra un paio di pedine con la stampa di un bambino spaventato che venivano mosse tramite una bussola. "Se usciva la figura del teschio, si lasciava cadere il teschio fluorescente dalla scala della torre e ruzzolava a terra dall'alto della torretta nera centrale. Se il teschio colpiva la pedina si iniziava da capo", ricorda ii sito specializzato tutto80.it. L'essere tridimensionale e un gioco a base di un certo mistero (come pozioni e fantasmi) sono stati in grado di catturare l'attenzione di tanti appassionati dell'epoca.

2) Cluedo

Cluedo, "Il gioco poliziesco più diffuso nel mondo" si leggeva in alto sulla parte esterna della confezione, consisteva nel risolvere il caso di omicidio di sir Hugh Black il cui nipote aveva scoperto strane cose sullo zio assassinato. I partecipanti del gioco dovevano fare in modo di non diventare sospettati e risolvere tutti i tasselli per essere scagionati e risolvere il caso scovando l'autore del delitto, con quale arma era stato assassinato e la stanza della casa in cui era stato commesso il delitto. 

3) Crack

Enorme successo anche per il gioco da tavolo Crack (prodotto dalla Hasbro nel 1985), il cui obiettivo era quello di essere i primi a spendere un milione di dollari tra corse di cavalli, casinò e altre metodologie ma soltanto dopo aver aperto un debito. Soldi finti, dadi, tabellone e caselle ne hanno fatto un must tra gli appassionati di quella generazione che dovevano battere gli avversari cercando di indebitarsi quanto prima.

4) Defender

Tra i giochi che ha ottenuto più successo c'è Defender, nato inizialmente come videogioco e visto il boom messo anche in scatola. Il suo produttore, infatti, guadagnò oltre 115 milioni di dollari. Come dice il nome stesso, tutto ruotava intorno alla difesa da una specie aliena che minaccia alcuni coloni di rapimento per farli inserire tra le loro fila. La data di nascita è 1981 ma rimase sulla cresta dell'onda almeno per un decennio. Come si legge sui portali specializzati, divenne uno dei più importanti di quella che fu definita "età dell'oro" degli arcade perché furono creare anche apposite macchine commerciali a gettoni per dare la possibilità agli appassionati di cimentarsi anche durante una visita al centro commerciale o più comunemente nelle sale giochi.

5) Forza 4

Indimenticabile e famosissimo, Forza 4 ha fatto competere milioni di persone in tutto il mondo: nato le 1974, il boom si ebbe soprattutto a partire dal 1982. Uno contro l'altro, è un gioco di allineamento (7 colonne e 6 righe) in cui il giocatore doveva riuscire a battere l'avversario completando una fila con tutti i gettoni dello stesso colore (orizzontale, verticale o diagonale). La novità del gioco era rappresentata dalla forza di gravità: "la scacchiera è posta in verticale fra i giocatori e le pedine vengono fatte cadere lungo una griglia verticale, in modo tale che una pedina inserita in una certa colonna va sempre a occupare la posizione libera situata più in basso nella colonna stessa", spiegano gli esperti di tutto80.it.

6) Hotel

Tra i più venduti giochi da tavolo non si può dimenticare Hotel, prodotto dalla MB nel 1986 e che prevedeva fino un totale di quattro partecipanti. Come dice lo stesso nome, bisogna diventare proprietari di più alberghi possibile sfruttando il denaro del gioco evitando di perderlo e finire in fallimento. Un dado veniva lanciato in modo tale da spostare la propria pedina di tante caselle in base al numero: ogni casella dava la possibilità di compiere un'azione piuttosto che un'altra. Il gioco veniva vinto dall'ultimo giocatore ancora in possesso di hotel dopo che gli altri erano stati costretti a vendere quanto posseduto per espiare i debiti. 

7) Il pranzo è servito

L'enorme successo che ebbe in televisione grazie all'indimenticabile Corrado lo fece diventare anche un amatissimo gioco da tavolo prodotto nel 1983 dalla Editrice Giochi: stiamo parlando del Pranzo è servito dove giocarono un minimo di due concorrenti. A vincere sarà colui che riuscirà a far uscire le caselle con tutte le portate: primo, secondo, formaggio, frutta e dolce. Come dimenticare la musichetta che accompagnava il giro della ruota in attesa dell'uscita della casella.

8) Indovina chi

Un altro must ancora ben presente nelle case di chissà quanti italiani è Indovina Chi?, prodotto nel 1979 ma con un boom nel decennio 1980-90. Si gioca in due: c'è un tabellone con 24 figurine e tutti personaggi diversi, ognuno dei quali riconoscibile per alcune caratteristiche fisiche. Il giocatore dovrà scegliere la 25esima figurina da un altro mazzo che rappresenta uno dei 24 presenti nel tabellone: tramite alcune domande specifiche, l'avversario dovrà capire di chi è l'identikit andando per esclusione. La regola ben precisa, però, è che la domanda sia formulata in modo tale che la risposta possa essere soltanto sì o no: ad esempio, "Ha i baffi?", oppure "Porta gli occhiali?". In base alla risposta, si cercherà di capire di quale figurina e nome si tratta. Si fa una volta per uno, vince chi riuscirà a scoprire il colpevole. 

9) L'allegro chirurgo

Non soltanto gli amanti di Medicina, ma enorme successo anche tra tutti i giovanissimi degli anni '80 ebbe l'allegro chirurgo, dal cui "corpo" del malato bisognava estrarre le parti doloranti cercando di non toccare in alcun modo i bordi metallici delle varie parti del corpo altrimenti un segnale rumoroso avvisava il giocatore dell'errore. I giocatori devono prendere una carta dove è scritto la parte da "operare": a quel punto inizia il gioco che vince soltanto chi riuscirà a commettere meno errori.

11) Monopoly

Se bisogna fare riferimento al gioco da tavola per eccellenza, probabilmente, gli italiani penseranno al Monopoly, tra i più popolari di sempre giocato in 111 Paesi e tradotto in 44 lingue. Fu così amato da vedere un successo sempre crescente dalla sua immissione sul mercato, nel 1935, fino al vero e proprio boom negli anni '80. Italianizzato in Monopoli, si va da un minimo di 2 a un massimo di 8 giocatori e si gioca con un tabellone dove sono stampate numerose caselle divise, per colori, che compongono vie, corsi e imprese societarie. Presenti anche le caselle "probabilità", "imprevisti" e "prigione" e la casella del via. Nella confezione si trovano due dadi, case in miniatura di diversi colori e diverse banconote con vari tagli. Si dovrà decidere chi ricoprirà il l ruolo di banchiere che darà cinque contratti a partecipante in modo tale che i concorrenti possano venderli tra di loro in cambio di soldi. I dadi saranno determinanti perché, se il giocatore finirà nella casella con un terreno libero, potrà decidere di acquistarlo o meno. Nel caso dell'imprevisto, il giocatore dovrà pescare una carta da un altro mezzo e seguire le istruzioni in merito. Lo scopo del gioco è acquisire più terreni possibili così da mandare in bancarotta gli altri concorrenti quando finiscono in una casella di proprietà dell'avversario.

·        I Teatri.

Gli incompiuti. Report Rai PUNTATA DEL 18/04/2022 Giulia Presutti 

In Italia sono più di 400 i teatri chiusi, talvolta abbandonati da decenni. ​​​​​​

Uno su due è di proprietà pubblica e in larga parte si tratta di edifici storici, vincolati dalle sovrintendenze ai Beni Culturali che ne dovrebbero preservare, oltre alla funzione culturale, anche il valore architettonico e artistico. E invece spesso li chiudono per necessità di un restauro che poi, per mancanza di fondi, non viene completato: le città restano così prive del luogo di aggregazione più importante nella storia d'Italia. Report ha fatto un viaggio alla scoperta di questo patrimonio inutilizzato.

GLI INCOMPIUTI di Giulia Presutti Collaborazione di Chiara D’Ambros Immagini di Chiara D’Ambros, Dario D’India, Carlos Dias

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sono le immagini dei resti del teatro di Mariupol distrutto dai missili russi. Ecco, non l’ha salvato neppure il fatto che nel cortile davanti avevano scritto la parola bambini a segnalare la presenza appunto dei minori all’interno del teatro. I russi negano, le autorità locali hanno parlato di 300 morti tra i civili che avevano sperato di salvarsi all’interno del teatro. Nell’immediatezza il ministro della cultura Franceschini aveva annunciato la volontà dell’Italia di contribuire alla ricostruzione del teatro, proposta approvata dal Consiglio dei ministri. Questo perché ogni teatro, di ogni singolo paese, è parte integrante dell’intera umanità. È una dichiarazione, una scelta nobile e condivisibile. Tuttavia, oggi Mariupol è in mano russa, difficilmente la molleranno e vediamo difficile il fatto di poter contribuire alla ricostruzione del teatro. Ma i nostri di teatri in che situazioni sono? Ora, un censimento, che non è neppure tanto recente, 2008, fatto da alcuni volontari coordinati da un sovrintendente appassionato, Francesco Giambrone, hanno stimato in 428 i teatri chiusi nel nostro paese. Si tratta di un patrimonio inestimabile dal punto di vista artistico, architettonico, ma anche per il valore simbolico perché, se aperti, potrebbero dare un impulso alla resistenza e alla resilienza. La nostra Giulia Presutti.

FRANCESCO GIAMBRONE - SOVRINTENDENTE TEATRO DELL’OPERA DI ROMA Questo è il simbolo della città di Palermo, praticamente una sorta di identificazione di un’intera comunità con un grande monumento che però è un teatro d’opera. Il teatro chiude nel 1974 per motivi legati alla sicurezza, questi lavori non vengono mai fatti e il teatro rimane chiuso per 23 anni: è la stagione della grande offensiva della mafia. Tu lo vedi che mi si rompe la voce perché questo gigante nella piazza principale era chiuso e un’intera comunità è stata complice. Il teatro riapre proprio sull’onda di una grande riscossa civile dopo le stragi del ’92 e parte dai ragazzi, e parte dalle scuole perché i primi che hanno riaperto quel portone sono stati i bambini delle scuole. Allora quella stessa comunità che aveva girato le spalle alla bellezza si riprendeva il Teatro Massimo.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Francesco Giambrone ha curato un censimento di tutti i gioielli italiani che sono oggi abbandonati.

GIULIA PRESUTTI Quale motivazione può spingere a tenere chiuso e abbandonato un teatro?

FRANCESCO GIAMBRONE - SOVRINTENDENTE TEATRO DELL’OPERA DI ROMA In molti casi c’è stata necessità di interventi di adeguamento alle norme di sicurezza oppure di interventi di restauro.

GIULIA PRESUTTI Perché poi sono rimasti chiusi?

FRANCESCO GIAMBRONE - SOVRINTENDENTE TEATRO DELL’OPERA DI ROMA La mancanza di risorse ha impedito di fare i lavori di restauro e, perdurata l’inagibilità, il teatro è rimasto chiuso.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Per mancanza di fondi comunali il Massimo non può pianificare la stagione futura. La metà dei teatri chiusi infatti è di proprietà pubblica: comune, regione o demanio dello Stato. La maglia nera va a Lombardia e Sicilia ma in tutte le regioni d’Italia c’è un patrimonio inutilizzato.

ANDREA PENNACCHI - ATTORE Quando chiudi un teatro, non è che chiudi la bottega, chiudi la serranda. Quando chiudi un teatro, chiudi le porte in faccia a ragazzi, a signori, signore, pensionati. Cioè, chiudi la porta in faccia alla città: non è che chiudi tu dentro qualcosa, ti chiudi tu fuori da una roba preziosa.

GIULIA PRESUTTI Venezia, la città di Goldoni, quanti teatri sono chiusi?

ANTONINO VARVARÀ - DIRETTORE ARTISTICO TEATRO AURORA 2004-2014 Attualmente sono chiusi tre teatri, a meno che io sappia eh: il teatro Fondamenta nuove, il teatro della Murata e il teatro Aurora.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Persino nel centro storico di Venezia, patrimonio dell’Unesco, non siamo riusciti a tutelare un gioiello architettonico, l’Italia, un cinema teatro del primo Novecento che oggi è un supermercato Despar presentato su internet come un trofeo: “il punto vendita più scenografico al mondo”. Non lontano, a due passi da piazza San Marco, una finanziaria dei Benetton ha comprato un intero complesso con alcune parti risalenti a prima dell’anno mille. Ora ci sono boutique di alta moda e un hotel superlusso. E dentro c’è anche un teatro dell’Ottocento.

CONCIERGE HOTEL Dagli anni ’40 del secondo dopoguerra fino alla fine degli anni ’80 è stato il teatro del Ridotto.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Adesso viene utilizzato come sala per ricevimenti, anche se all’inizio i cittadini veneziani erano stati rassicurati: all’interno ci sarebbe stato anche un palcoscenico smontabile.

GIULIA PRESUTTI Quindi ogni tanto farci anche del teatro.

CARLO MONTANARO - EX DIRETTORE ACCADEMIA DI BELLE ARTI VENEZIA Era una delle clausole iniziali che un po’ alla volta è diventato altro.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Quel vecchio accordo è finito nel dimenticatoio. Proprio come un altro teatro veneziano, l’Arena Verde. Si trova sull’isola di San Giorgio, di fronte piazza San Marco. I posti a sedere sono millecinquecento ma l’arena è inutilizzata, perché l’ultimo spettacolo è andato in scena nel 2013.

CARLO MONTANARO - DIRETTORE ACCADEMIA DI BELLE ARTI VENEZIA 2006-2010 Io la vedo come uno dei tanti elementi di decadenza di Venezia.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Per la Fondazione Giorgio Cini, che ha in concessione dallo Stato l’Arena Verde e l’Isola di San Giorgio, la responsabilità è dell’acqua alta che ha reso pericolosa l’Arena e necessari continui interventi di manutenzione, che sono ancora in corso.

GIULIA PRESUTTI Non c'è uno stanziamento specifico diciamo di fondi, non mi sa dire quanto?

CRISTIANO CORAZZARI - ASSESSORE ALLA CULTURA REGIONE VENETO Noi in bilancio non abbiamo una linea di finanziamento dedicata alla riapertura dei teatri.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO La Regione Veneto per il 2022 ha stanziato 19 milioni per tutto il settore culturale.

GIULIA PRESUTTI Bastano questi 19 milioni?

ELENA OSTANEL - CONSIGLIERA REGIONALE Nel 2017 la Regione del Veneto metteva 30 milioni, sarebbe il minimo in questa legislatura per riuscire ad arrivare ad un livello appunto di investimento giusto.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Il Veneto è penultimo in Italia per investimenti in cultura: in un anno spende 3 euro e cinquanta per ogni cittadino. La più virtuosa, la Valle D’Aosta, arriva a 346.

GIULIA PRESUTTI Quindi c'è una sorta di federalismo diciamo culturale regionale?

FRANCO OSS NOSER - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE GENERALE DELLO SPETTACOLO TRIVENETO Una compagnia in Emilia-Romagna prende mille euro e 100 euro in Veneto. Non sono sullo stesso piano.

GIULIA PRESUTTI Come ho aperto il capitolo Veneto ho trovato svariati teatri chiusi abbandonati che erano diventati supermercati. Un problema c’è, non possiamo negarlo.

CRISTIANO CORAZZARI - ASSESSORE ALLA CULTURA REGIONE VENETO Il Veneto è l'unica regione a statuto ordinario che non impone l'addizionale Irpef regionale ai propri cittadini e quindi ha anche delle disponibilità del bilancio regionale complessivamente inferiori rispetto alle altre regioni.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO A Pisa c’è il teatro Rossi, un edificio del 1770 che è rimasto abbandonato per 40 anni. Le immagini dei palchi affrescati sono state girate nel 2018, quando un gruppo di lavoratori dello spettacolo lo teneva occupato in segno di protesta. Ora il Rossi è chiuso di nuovo e versa nell’incuria.

GIOVANNI CAMPOLO - ATTIVISTA Noi abbiamo tenuto ininterrottamente il filo con tutte le istituzioni coinvolte che nello specifico sono il Comune per competenza territoriale, il Demanio perché il bene dello Stato, la Soprintendenza perché il bene è vincolato.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Hanno anche scoperto che dal 2004 al 2009 la Sovrintendenza di Pisa ha fatto dei lavori all’interno, ma non è chiaro quali.

GIOVANNI CAMPOLO - ATTIVISTA Anche perché dei soldi sono stati spesi per poter rifare i bagni, per poter rifare il foyer, sicuramente è stata demolita la copertura di legno della platea che aveva anche un valore artistico. Ne hanno messa una di cemento armato.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO L’ex sovrintendente di Pisa Andrea Muzzi ci confida che durante il suo mandato i tecnici hanno studiato la struttura e l’hanno dichiarata “non agibile”. Per renderla sicura occorrerebbe un milione di euro. Ma allora i lavori fatti prima a cosa sono serviti?

ANDREA MUZZI - SOVRINTENDENTE AI BENI CULTURALI DI PISA 2015-2020 Questo non glielo so dire. Ci sono sicuramente dei documenti. Cioè, non mi ricordo esattamente, non vorrei dire una cosa per un’altra, ecco. E comunque sia erano dei lavori di livello molto limitato. GIULIA PRESUTTI Erano stati spesi diversi milioni di euro.

ANDREA MUZZI - SOVRINTENDENTE AI BENI CULTURALI DI PISA 2015-2020 Non mi pare ma questo non me lo ricordo, però.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Non se lo ricorda e dà la colpa a chi ha occupato il teatro. Ma la Sovrintendenza aveva in gestione l’edificio da ben prima.

ANDREA MUZZI - SOVRINTENDENTE AI BENI CULTURALI DI PISA 2015-2020 Noi non abbiamo fatto un progetto di lavoro, è questo il punto. Non avevo nemmeno i soldi, il ministero non ce li ha mai dati. Ci hanno dato selve di milioni su tante cose però sul teatro non potevamo nemmeno chiedere perché era occupato abusivamente.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Il 9 dicembre scorso Report ha scritto al Demanio, proprietario delle mura. È curioso che solo qualche giorno dopo il Demanio abbia pubblicato un bando. Il teatro viene dato in concessione al migliore offerente, per un canone annuo minimo di 212 euro, dai 6 ai 50 anni.

 PIERDANILO MELANDRO - ESPERTO IN CONTRATTUALISTICA PUBBLICA Lo stato sceglie di non investire direttamente con quel milione di euro ma lo chiede al privato e in cambio gli consente di sfruttare quel bene.

GIULIA PRESUTTI C'è un'attività culturale che consentirebbe a un privato di andare a compensare la spesa necessaria a questo punto per il restauro e la valorizzazione del bene?

PIERDANILO MELANDRO - ESPERTO IN CONTRATTUALISTICA PUBBLICA In questo caso potrebbe non esserci interesse dei soggetti privati.

GIULIA PRESUTTI Quindi il bando potrebbe andare deserto.

PIERDANILO MELANDRO - ESPERTO IN CONTRATTUALISTICA PUBBLICA Potrebbe, sì.

GIULIA PRESUTTI E il teatro rimanere chiuso?

PIERDANILO MELANDRO - ESPERTO IN CONTRATTUALISTICA PUBBLICA Sì.

GIULIA PRESUTTI Giulia Presutti di Report, Rai 3. Abbiamo mandato 10 mail, abbiamo telefonato ma non abbiamo ricevuto da voi nessuna risposta su questa storia del teatro Rossi. Il demanio ha scritto un bando che non è preciso e non spiega che appunto bisogna spendere almeno un milione di euro all’interno.

ALESSANDRO PASQUALETTI - DIRETTORE AGENZIA DEL DEMANIO PISA LIVORNO Questo bando è ancora aperto.

GIULIA PRESUTTI Quando scade il bando?

ALESSANDRO PASQUALETTI - DIRETTORE AGENZIA DEL DEMANIO PISA LIVORNO Scade a maggio.

GIULIA PRESUTTI Non c’è il rischio che questo bando vada deserto?

ALESSANDRO PASQUALETTI - DIRETTORE AGENZIA DEL DEMANIO PISA LIVORNO Se lei ha delle domande da fare, mi faccia la cortesia, ce le può inoltrare per scritto e poi provvederemo a confrontarci con la direzione e a rispondere.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Ci hanno risposto che non possono darci informazioni sulle offerte presentate perché il bando è ancora aperto. Una soluzione al problema se la sono inventata a Napoli. In un vicolo del centro un palazzo abbandonato del ‘500, ex asilo per orfani, nel 2012 è stato recuperato dai cittadini. All’interno per contrastare la chiusura dei teatri loro ne hanno costruito uno.

NICOLA CAPONE – RICERCATORE DI FILOSOFIA DEL DIRITTO Lo spazio era vuoto. Questo ci è sembrato un affronto alla mancanza di spazi per la produzione artistica e culturale e per cui un movimento ampio di lavoratori ha simbolicamente occupato questi spazi.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Nel 2015 il Comune di Napoli ha riconosciuto l’uso civico dell’ex Asilo: i cittadini se ne prendono cura e così possono utilizzarlo gratis.

LUIGI DE MAGISTRIS - SINDACO DI NAPOLI 2011-2021 Abbiamo escluso che se ne potesse fare un uso esclusivo e privatistico. Chiunque presenta un progetto lo può realizzare.

GIULIA PRESUTTI È di tutti.

LUIGI DE MAGISTRIS - SINDACO DI NAPOLI 2011-2021 È di tutti, perciò bene comune.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Qui provano fino a sette compagnie al giorno, gratuitamente. Ciascuno porta quello che manca.

CHIARA CUCCA - ATTRICE Questa era una sala vuota e piano piano ogni compagnia ha dato il suo apporto alla costruzione di questo spazio.

GIULIA PRESUTTI Perché le compagnie vengono qua a provare?

CHIARA CUCCA - ATTRICE Non tutti i teatri mettono a disposizione lo spazio a una compagnia anche giovane o non prodotta.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Il Comune paga le bollette ma in realtà risparmia: i funzionari hanno calcolato il vantaggio per le casse pubbliche.

MARGHERITA D’ANDREA - DOTTORANDA IN SOCIOLOGIA DEL DIRITTO È stato risparmiato all'incirca un milione di euro cioè soldi che la pubblica amministrazione avrebbe speso se avesse gestito lei stessa questo luogo e che in ogni caso avrebbe perduto nel momento in cui questo spazio fosse stato chiuso.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Quando un’amministrazione regionale o comunale dice non si può fare è vero?

LUIGI DE MAGISTRIS - SINDACO DI NAPOLI 2011-2021 La prima cosa che mi venne detta è sindaco, non si può fare, perché se non c’è una controprestazione di natura monetaria quella cosa non è legittima, ma questa primazia del denaro non c’è in costituzione, anzi.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO È chiuso dal 2009, ma a causa del terremoto, anche il Teatro Comunale dell'Aquila. Ci sono voluti anni per restaurarlo, con la supervisione del Segretariato Regionale del ministero della Cultura. È una testimonianza di quanto possa essere prezioso recuperare l'inestimabile patrimonio dei teatri. Durante il minuzioso restauro sono emersi affreschi dell'Ottocento fino a oggi sconosciuti. La Sovrintendenza spera che sarà riaperto nel 2023 ma in questi anni i cittadini non si sono mai arresi: hanno chiesto che gli spettacoli non si fermassero e hanno riempito la sala del teatro del Ridotto, risparmiata dalla devastazione del sisma.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ora, qualcuno dovrebbe anche quantificare quanto ci è costato abbandonare questo patrimonio. In termini di mancati incassi, per il deterioramento, per il mancato indotto ma anche semplicemente per i danni di immagine. Ma nessuno lo ha mai calcolato. La Direzione Generale Spettacolo del Ministero della Cultura ha detto che lei un censimento non lo ha mai fatto e che intendono finanziare le singole iniziative nei teatri per 420 milioni di euro per il 2022, non i teatri chiusi che possono anche crollare. Ora, la metà dei teatri è di proprietà pubblica e devono metterci bocca sopra sovrintendenza, enti locali, demanio. Troppi enti a parlare e a cantare, non si fa mai giorno. Ora, se uno mette sotto tutela un bene della sovrintendenza è perché lo giudica importantissimo per la storia del nostro Paese perché ha una funzione sociale ma allora perché me lo rendi inagibile per 40 anni? Poi ci sono dei costi che nessuno calcola mai, quelli del disagio sociale provocato dal degrado di un bene comune che doveva servire alla formazione, allo sviluppo di una persona. Su tutto questo non è previsto l’investimento di un euro del Piano Nazionale di Ricostruzione e Resilienza.

·        Il direttore d’orchestra.

Il direttore d’orchestra, un caso enigmatico. Entra in scena per ultimo, preceduto dall’orchestra. È osannato, riverito, corteggiato, persino temuto, e costituisce la personificazione del «potere» in musica. Ma non suona nemmeno una nota. Emanuele Arciuli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Settembre 2022.

Fra i musicisti, quello del direttore d’orchestra è certamente il più caso più enigmatico.

Entra in scena per ultimo, preceduto dall’orchestra. È osannato, riverito, corteggiato, persino temuto, e costituisce la personificazione del «potere» in musica. Ma non suona nemmeno una nota.

Sta lì, in mezzo a colleghi che eseguono una partitura, e nelle opere di teatro musicale deve dirigere pure i cantanti sul palcoscenico. Si sbraccia, si agita, guarda ora a destra ora a sinistra, spesso utilizza una bacchetta, ma non produce un suono che sia uno. Però riceve le ovazioni, talora con sguardo condiscendente, altre volte con sussiego. Ma proprio chi gli riserva tali onori, nella maggioranza dei casi ignora bellamente cosa ci stia a fare, quel signore in frac, sul podio, supremo atto di fede di un pubblico che, mentre lo applaude, si chiede che ci faccia lì.

Talvolta i commenti degli spettatori sono divertenti, e si possono ascoltare frasi di questo tipo: «Bravissimo il direttore, quanto si muove! Si vede che è tanto preso dalla musica», oppure «Certo che il direttore deve saper suonare tutti gli strumenti dell’orchestra!»; ma anche giudizi, qualche volta un po’ fantasiosi – diciamo – sulla qualità dell’interpretazione. Il pubblico ha il sacrosanto diritto di farsi un’opinione e di esprimerla, per carità. Anche se qualche volta sarebbe più sano ascoltare il concerto, cercare di capire e di aprirsi alla musica, anziché sentirsi in obbligo di dare voti, per giunta nella ingenua e del tutto errata convinzione che quanto più severo sei, più gli altri pensano che tu capisca.

Il carisma di certi direttori è percepibile da chiunque. Ma per coglierne davvero la statura è forse necessario conoscere la musica, o quantomeno sapere a cosa serve la sua figura.

Il direttore deve dare unità interpretativa a un brano di musica. Non si limita, cioè, a battere il tempo (con certe orchestre, e in certi momenti, è persino un compito pleonastico), anche se indicare un tactus, assecondare l’agogica (cioè la dinamica della musica, con i suoi accelerando e ritardando) e dare gli attacchi ai vari strumentisti rientra fra i suoi compiti ineludibili. È però il pensiero, l’idea, la logica, la ratio, ciò che il direttore cerca di comunicare all’orchestra, e che ne fa una figura indispensabile alla qualità di un’esecuzione. Un compito fatto di intelligenza, tecnica, sensibilità e carisma – quell’aura che esiste, e sulla quale c’è poco da fare: si possiede e non si può acquisire solo con la forza di volontà; anche se ci sono direttori che, della forza di volontà, hanno fatto un’arma importantissima. Altrettanto decisiva è poi l’abilità nelle prove che precedono il recital. È lì che si coglie, spesso, la differenza fra il mestierante e il fuoriclasse. Ed è lì che si “insegna la musica” all’orchestra, anche parlandole, spiegando a parole, ma soprattutto esprimendosi col gesto. Che è personalissimo e costituisce spesso un marchio di fabbrica del direttore. Gergiev, ad esempio, disegna con una piccola matita (al posto della bacchetta) degli arabeschi incomprensibili. Ma, misteriosamente, l’orchestra li capisce, e con lui funzionano. Altri sono chiarissimi nel gesto che, sostanzialmente, divide le battute in movimenti. Ma in quei movimenti c’è una ricchezza e una quantità di informazioni, di piccoli segnali, che differenziano il battitore del tempo (poco più che un metronomo) dal direttore vero. Quali sono i vostri direttori preferiti, in quali repertori e perché?

·        L’Arte in tv.

Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 25 marzo 2022.

Maurizio Cattelan, Francesco Vezzoli e pochi altri sono gli artisti italiani nati dopo il 1960, non esattamente giovani dunque, con una certa fama oltre i patri confini. Una strada impervia, per la quale c'è molto da lavorare, applicando una strategia comune ed evitando le iniziative casuali. 

È solo uno dei dati emersi dall'interessante report Quanto è (ri)conosciuta all'estero l'arte contemporanea italiana? commissionato da Generali Valore Cultura e presentato ieri al Palazzo Bonaparte di Roma, introdotto dai saluti del ministro della cultura Dario Franceschini e dal Country Manager & CEO di Generali Italia e Global Business Lines, Marco Sesana che ha detto: «Siamo in un momento particolare, che speravamo fosse solo di ripresa.

Ma proprio per questo è ancora più importante parlare di arte e cultura, che stimolano il dialogo e la riflessione tra persone e popoli. E il nostro obbiettivo da sempre è proprio dare accesso e diffusione alla cultura».

Gli autori della ricerca (pubblicata dallo studio di professionisti per l'arte e la cultura BBS-Lombard e Arte Generali, la piattaforma di servizi dedicata all'assicurazione delle opere d'arte) prevalentemente giornalisti ed economisti della cultura, sono partiti da una serie di interviste a 24 curatori museali e sono stati analizzati con l'intelligenza artificiale oltre 230mila artisti, 30mila musei e 3.600 città.

Quali artisti sono più conosciuti, quali sottovalutati, quali i limiti del sistema e le eventuali potenzialità? Partendo dal primo punto, oltre alle due superstar che hanno segnato gli ultimi decenni, le più riconosciute sono donne che spesso vivono all'estero - Vanessa Beecroft, Rosa Barba, Monica Bonvicini, Paola Pivi. 

Che non si viva di rendita sul glorioso passato lo dimostrano i dati percentuali della presenza italiana nelle biennali internazionali -persino a Venezia la "quota tricolore" oscilla tra uno sconcertante 2,6 al migliore 12% nell'imminente edizione - che si riduce drasticamente nelle mostre di ricerca fino a sparire nella prossima documenta che a partire da giugno prossimo non vedrà invitato nessun artista italiano. Eppure la copertura mediatica globale non è male, un 6,8% più di Germania e Spagna, una visibilità che cala di netto per gli over 60.

Insomma, di arte italiana si parla ma soprattutto dei "grandi vecchi", gli stessi che ottengono ottimi risultati di vendita nelle Italian Sales di Londra e New York (Fontana, Manzoni, Morandi, Burri, l'Arte Povera). Alla ricerca di nomi nuovi spuntano, per il 2022, Gian Maria Tosatti protagonista del Padiglione Italia, Quayola pittore digitale, lo scultore Fabio Viale e Marinella Senatore esempio di artista impegnata.

Per farsi (ri)conoscere all'estero prima ancora che di musei e istituzioni c'è bisogno delle gallerie e anche qui entriamo in una zona critica perché i nostri sono rappresentati soprattutto da spazi aperti da concittadini mentre appena 5 sono gli artisti italiani che lavorano con vere multinazionali quali Gagosian. È difficile l'affermazione per un giovane emergente o un mid-career. 

Tornando alle aste internazionali, che sono indicatori piuttosto precisi ma non assoluti del valore economico, appena 9 italiani nati dopo il '60 sono stati battuti di recente. Accanto ai soliti nomi spunta qualche sorpresa, come Cristiano Pintaldi, Nicola Bolla, Francesca Leone, mentre tra i primi al livello di fatturato ci sono pittori quali Velasco e Marco Petrus. Ma i numeri non sono qualitativi, dunque non dicono tutto.

Rispetto ad altri Paesi l'Italia non sfrutta la centralità di un'unica capitale ma si disperde in tanti luoghi interessanti persino in provincia. Unica città all'avanguardia risulta Milano, il cui "ecosistema artistico" favorisce un tasso superiore di successo, eppure basso se paragonato a Parigi, Berlino e Los Angeles. Che fare per migliorare un panorama troppo frammentario? Il report è molto chiaro e le conclusioni vanno verso la necessità di "fare sistema", cominciando dall'attingere a quelle politiche economiche che hanno dato poco sostegno al contemporaneo.

Andrebbero intraprese - dicono gli esperti - iniziative di natura fiscale per dotare il sistema di maggiore trasparenza, rendere piùfluido il trasferimento delle opere, rendere imponibili le cessioni tra privati con un meccanismo che distingua la speculazione dal collezionismo, estendere le agevolazioni dell'Art Bonus all'acquisto di opere di artisti contemporanei viventi, sospendere dall'imposizione fiscale le plusvalenze derivanti dalla cessione di opere in caso di reinvestimento o permuta di beni della medesima natura, uniformare l'aliquota Iva sulle importazioni, che è il 10%, a quella applicata nei Paesi concorrenti e diminuire l'Iva sulle compravendite effettuate all'interno delle fiere italiane a cui partecipano pure gallerie straniere. Uno strumento valido è il bando dell'Italian Council che dal 2017 al 2021 ha stanziato oltre 12 milioni di euro. Il denaro non può risolvere tutto ma un'economia ragionata può essere il primo supporto. 

Nicola Baroni per "il Venerdì di Repubblica" il 15 marzo 2022.

Quando i centralinisti di Telemarket, il giorno dopo una televendita di Alessandro Orlando, richiamavano i clienti, alcuni nemmeno ricordavano cosa avessero prenotato. Grafica di Schifano o scultura di Rabarama, cambiava poco: loro avevano già avuto quello che volevano. 

Non l'ennesimo multiplo spacciato per pezzo unico ma la performance del televenditore: quella sì, pezzo davvero unico. Lo stesso accade oggi che Orlando vende arte sul canale 124 del digitale: «Un signore ha confessato di aver acquistato un quadro solo per come ho pronunciato il nome dell'artista: Greuze», racconta compiaciuto ed esagerando il suono gutturale a metà tra gorgia toscana e erre francese. «La gente compra me, non l'oggetto».

Quarant'anni fa, correva il 1982, l'antiquario Giorgio Corbelli si trovò per le mani alcuni studi televisivi in provincia di Brescia cedutigli dal fondatore di ReteMia Giorgio Mendella per saldare i debiti. 

La tv commerciale era agli esordi e le televendite un buon modo per riempire gli spazi vuoti tra i programmi. Corbelli, che di programmi a 27 anni non ne aveva, si inventò il primo e unico canale di sole televendite d'arte e antiquariato.

Telemarket arrivò ad avere 250 dipendenti e un portafoglio clienti di oltre 350 mila nomi. I guai giudiziari del canale si sono sempre risolti in assoluzioni ma Corbelli nel frattempo è stato condannato per reati fiscali legati al fallimento di Finarte.

Anche Telemarketè fallita cinque anni fa e riacquistata da persone a lui vicine. Oggi trasmette in alcune fasce orarie sul canale 140. «La merce è sempre la stessa, ma a fare grande quel canale erano i suoi storici televenditori: Franco Boni, Bijan Parvizyar, Paolo Frattini, io stesso», ricorda Orlando, che nel 2015 si è messo in proprio.

Per averne conferma basta un giro sui social, dove questi personaggi sono diventati protagonisti di meme, video celebrativi e fan club nostalgici. Su YouTube un video in cui Orlando presenta "un tappeto imperiale fatto dal figlio del sole per il sultano di Persia" ha raggiunto quasi un milione di visualizzazioni: a metà tra la performance teatrale, il seminario di marketing e un corso di retorica.

Anche Francesco Boni (per tutti Franco), a suo tempo imitato da Corrado Guzzanti, continua a vendere arte in tv per l'azienda del figlio Arte Investimenti. «A Telemarket se andava male vendevi 20 quadri su 40 presentati. Oggi 4 o 5 su 15», racconta. «Ma c'è più spazio per fare informazione culturale».

Figlio e nipote di galleristi romani, Boni ha impugnato il martello da battitore per la prima volta a 16 anni, come racconta in Adesso parlo io, autobiografia appena pubblicata per Manfredi editore. Quando incontrò Corbelli aveva già una galleria a Palazzo Bernini a Roma: «Inizialmente ero scettico all'idea di poter vendere arte in tv. Fui smentito alla prima trasmissione: con un Gentilini, un Cascella e non so quanti Schifano feci 180 milioni di lire in quattro ore».

Boni accetta di lavorare per Corbelli a condizione di presentare artisti di livello: Guttuso, De Chirico, Savinio, Manzoni, Fontana. «Incontro ancora direttori di musei e critici che mi ringraziano per averli fatti appassionare all'arte. 

L'Italia ha la più alta percentuale di collezionisti al mondo e credo che Telemarket abbia contribuito. Oltre ad aver tirato la volata sul mercato ad artisti come Boetti e Schifano». Le televendite di Boni si dividevano in due parti: la prima informativa, con un linguaggio semplice, a cui parteciparono artisti come Arman e critici come Vittorio Sgarbi.

La seconda di vendita, in cui Boni insisteva sull'investimento economico, puntando sulla colpevolizzazione dello spettatore: chi non comprava non sapeva fare affari. «Bisognava creare la necessità di avere quell'oggetto. Ritmo e tono incalzanti, per dar l'idea che il tempo stesse per finire. Ripetere gli stessi concetti quattordici volte con leggere variazioni». 

I tic verbali - la risata trascinata e l'inconfondibile suono roco a intercalare - scandivano il ritmo, con risultati ipnotici. «Il trucco, quando si facevano presentazioni di un solo artista, era "bruciare" le prime opere, cioè fingere di vendere e poi presentarne altre simili».

L'unico tipo di vendita che Boni continua a non saper affrontare è quella ad personam: «Se mi trovo a tu per tu tendo a essere troppo onesto e a descrivere anche i difetti. Quando andavo a trovare mia moglie nella sua galleria mi proibiva di parlare coi clienti».

Se Boni puntava sui grandi nomi, Orlando puntava sui numeri: «Con una sola presentazione potevo vendere un'intera tiratura di cento serigrafie o sculture». Anche lui figlio di un gallerista, entrò in Telemarket nel 1995 e diventò subito il venditore di "tutto ciò che gli altri non vendono".

«C'erano magazzini strapieni di servizi di posate d'argento: ne ho vendute a tonnellate». Come? «Facendo leva sul peso, appunto: dicevo che c'era sempre meno argento in circolazione. E aggiungevo la passione: per esempio la gioia di apparecchiare per una persona che ami». 

Iniziò con 11 trasmissioni da quattro ore a settimana, in un'occasione arrivò al record di un miliardo di lire di prenotato. Non è mai andato sotto i centomila euro a trasmissione. Le sue presentazioni erano puro teatro: si sdraiava sui tappeti, abbracciava le sculture, si avvicinava alla telecamera oltre il limite consentito. In una diretta lanciò un piatto d'argento: «I telefoni impazzirono».

Captatio verso gli spettatori e ostilità contro cameraman e azienda. Alzava il tono in modo autoritario: «Tutti volevano che mi arrabbiassi perché faceva aumentare le chiamate, ma non potevo programmarlo perché non sarei stato naturale».

Quando, al termine di un discorso, pronunciava il suo "quindi?", lento e in crescendo, i telefoni cominciavano a squillare: diventò "il quindi di Orlando". La sua cifra era la passione: «Arrivavo al cuore della gente con delle storie che inventavo al momento».

Un tappeto Keshan da 1.490 euro? Nella televendita da un milione di visualizzazioni su YouTube lo presentava come se fosse proprio quello del celebre sultano Fershid. Peccato non sia mai esistito alcun sultano Fershid. «Ma il tappeto era davvero un persiano fatto a mano». E i prezzi? «Poco superiori a quelli di mercato, per tenere in piedi l'azienda. Ovviamente intrattenimento incluso». 

·        La Cultura Digitale.

Il paradosso dei manoscritti digitalizzati. Nuccio Ordine su Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022.

I finanziamenti sono destinati in gran parte alla trasformazione in formato digitale di intere biblioteche ma non si incentivano le discipline umanistiche per formare chi ne studi i contenuti.

Nel settore umanistico, sempre più povero di risorse economiche a causa dei continui tagli, la parola «digitalizzare» (si pensi alle direttive inserite nel Pnrr) funziona come un potente passepartout per accedere a numerosi finanziamenti. Progetti elaborati per trasformare in formato digitale intere biblioteche, archivi, documenti, lettere, manoscritti, libri illustrati, garantiscono un maggiore esito positivo rispetto ad altre proposte scientifiche. I vantaggi sono sotto gli occhi di tutti. Basta consultare, per esempio, i materiali offerti nel sito Gallica dalla Bibliothèque Nationale de France per avere a disposizione, comodamente connessi in un’aula dell’Università della Calabria, oltre sei milioni di preziosi libri e documenti. Un tesoro inestimabile che permette di studiare senza viaggiare. Si tratta di un processo, però, che genera anche una pericolosa contraddizione: il dominio della tecnologia, e il potenziamento delle discipline che ne favoriscono lo sviluppo, porta con sé una progressiva devalorizzazione dei corsi di studi umanistici.

Indurre gli studenti a pensare, come ha suggerito Boris Johnson ai giovani britannici, che solo i saperi dell’area Stem possono favorire lauti guadagni, produce automaticamente un pesante indebolimento dei dipartimenti umanistici. Scoraggiare i ragazzi — con argomenti fondati sulle ragioni del mercato — a studiare la filologia, la paleografia, la storia, la biblioteconomia, l’archivistica, le lingue antiche come il greco e il latino, sta minacciando, di fatto, l’esistenza stessa di queste materie nelle future proposte didattiche. E a cosa servirà digitalizzare miliardi di documenti se non formeremo persone competenti in grado di leggerli e capirli? Chi frequenterà più archivi e biblioteche? Desertificare le discipline umanistiche significa minare alla base il rapporto con il passato e con la storia, mettendo in serio pericolo il futuro della democrazia e dell’umanità.

·        Dalla cabina al selfie.

Marino Niola per “il Venerdì di Repubblica” il 22 novembre 2022.  

«All'artificialità ingessata di tanti ritratti preferisco le piccole foto delle carte d'identità. A quei volti puoi sempre fare una domanda». Lo diceva Henri Cartier-Bresson, il più grande fotografo della storia. Oggi quei volti non si contano più. Visto che nell'era del selfie crescono al ritmo di centinaia di milioni al giorno. 

Trasformando le domande di Cartier-Bresson in altrettante risposte. Che ci raccontano una storia cominciata giusto sessant' anni fa, nel novembre 1962, quando a Roma, nella Galleria Colonna, intitolata ora ad Alberto Sordi, la società Dedem installa la prima cabina italiana per fototessere. Ed è subito boom. Per mesi si formano file interminabili di persone ansiose di entrare nella scatola magica.

Che in soli tre minuti, per sole cento lire, stampa quattro fotine. È l'inizio del faccia a faccia con la propria immagine da cui avrà origine il selfie. In questo senso, la macchina per fototessera rappresenta il grande tornante di un percorso iniziato nel 1920 a New York, quando cinque fotografi della Byron Company - Joseph Byron, Ben Falk, Pirie MacDonald, Colonel Marceau e Pop Core - si fotografano sul tetto del Marceau Studio nella Fifth Avenue. La macchina è pesantissima, tanto che devono tenerla in due. Byron con la destra e Falk con la sinistra. E per raggiungere la distanza necessaria sono costretti a estroflettere le braccia in avanti come due clown.

La cabina fotografica di fatto ha creato un nuovo bisogno, quello dell'autoritratto low cost. Che diventa un acceleratore di modernità e di socialità, ma anche di narcisismo e di individualismo. In quel segmento di storia che sta fra i 60 e l'era della telefonia mobile, la macchina esercita una autentica attrazione "fotale". Quando se ne trova una, non si riesce a resistere alla tentazione di farsi uno scatto. 

Da soli, in coppia, in gruppo, in gita, con gli amici. In molti tentano di entrare nei Guinness zippandosi come sardine davanti all'obiettivo. «Andavamo sul seggiolino girevole per fare le facce o vedere se stavamo bene col cappello, per avere una foto da regalare alla fidanzatina. Volevamo far colpo prima di tutto su noi stessi», confessa l'autore Mario Chiodetti sul sito varesenoi.it.  

L'obiettivo Dedem ha immortalato le facce di tutti gli italiani, e spesso non solo le facce, visto che, una volta chiuse le tendine, molte cabine si trasformavano in set erotici abusivi dove immortalare i propri gioielli indiscreti. In realtà quelle fototessere hanno fissato su carta quella fame di vita, quell'ansia di novità, quell'euforia da Il sorpasso che segnano gli anni del miracolo economico. 

E via via, il ribellismo militante dei Settanta, l'edonismo reaganiano degli Ottanta e il giustizialismo rancoroso dei Novanta. Dal bianco e nero al colore, dall'analogico al digitale, dai primordi della tecnologia all'avvento degli smartphone. Insomma, la mutazione antropologica del nostro Paese in una interminabile striscia di istantanee. Che documentano look, posture, gesti, atteggiamenti, sentimenti. Mostrandoci come eravamo e come siamo diventati.

La differenza è che allora vivevamo con timidezza il rapporto con l'obiettivo. E la lotta tra l'attimo fuggente e l'eternità, che è la mission impossible della fotografia, ci vedeva immancabilmente perdenti. Perché il countdown finiva sempre per coglierci impreparati, quasi inebetiti, e lo scatto arrivava a tradimento. L'esatto opposto della naturalezza innaturale e della fotogenia di massa dei nativi digitali.

 Che adesso celebra il suo trionfo con il selfie, capace di catturare, trasfigurare e condividere ogni istante della nostra vita. Visibile e condivisibile in tempo reale. È una nuova egemonia dell'immagine, che diventa ideologia, liturgia, mitologia, diplomazia, strategia. Ecco perché politici e personaggi dello star-system si autoscattano spesso e volentieri. Come tanti ragazzi a una festa di compleanno.

O turisti sullo sfondo del Colosseo e del Vesuvio. O come gli adolescenti che di recente ho visto alla Pinacoteca milanese di Brera selfeggiarsi commossi davanti al Bacio di Francesco Hayez. Che non fosse una semplice moda, ma l'avvento di un culto dell'io, di una teologia laica del noi, è stato chiaro fin dal 2013, in occasione della commemorazione funebre di Nelson Mandela. 

Quando Barack Obama, David Cameron, allora premier del Regno Unito, e la prima ministra danese Helle Thorning-Schmidt si sono fatti un selfie fuori protocollo e in barba alla solennità della cerimonia.

Ma il vero botto lo ha fatto il mondo del cinema la notte degli Oscar 2014, quando l'attrice Ellen DeGeneres ha chiamato a raccolta per un selfie i divi seduti in prima fila. E ha messo il suo cellulare nelle mani di Bradley Cooper che ha preso d'infilata Julia Roberts, Meryl Streep, Kevin Spacey, Brad Pitt, Angelina Jolie, Jennifer Lawrence, Channing Tatum, Jared Leto, Lupita e Peter Jr. Nyong' o. L'istantanea hollywoodiana, postata su Twitter, ha inaugurato l'era della self generation.

Come dimostra il singolare presepe di Modern Nativity, un'azienda californiana. Dove San Giuseppe in versione hipster e la Madonna in leggings e top si selfeggiano col bambinello.

Mentre i Re Magi portano i doni in confezioni Amazon cavalcando monopattini da rider. Non si sottrae nemmeno papa Bergoglio spesso protagonista di selfie come quello del 25 settembre 2021 con i ragazzi dell'Earth Day.

Mentre Un Selfie con il Papa è diventato addirittura un format tv. Eppure, ancora oggi la vecchia cabina conserva il suo fascino. Molti la usano per immortalare i momenti che contano davvero, salvandoli dall'inflazione di immagini che il web scarica su di noi. Un po' di tempo fa ha fatto il giro della rete la domanda di matrimonio di Kevin, che con la scusa di una foto ricordo ha convinto la fidanzata Molly a sedersi sullo sgabellino girevole e a sorpresa le ha infilato l'anello al dito. Inutile dire che il fatidico sì di Molly, postato su YouTube, ha superato i due milioni di clic.

Forse perché quel fotogramma conserva l'aura dell'istante irripetibile. L'esatto opposto della serialità e della reversibilità degli scatti che ci spariamo a scuola, in cucina, al ristorante, in metro, in ufficio, in macchina, in autostrada, a letto, perfino in bagno. E purtroppo anche nell'ora della morte. 

Ogni giorno al mondo vengono postate su WhatsApp 6,9 miliardi di immagini. Mentre 1,3 miliardi sono condivise su Instagram. Entro il 2030 si prevede che su Google Images le foto saranno 382 miliardi. E il 92 per cento viene scattato con lo smartphone. Che ormai è un ibrido fra elettronico e umano, fra la fotocamera e il prolungamento anatomico degli occhi. Insomma, la nostra vita è tutta un selfie. Non è più una sequenza di momenti ed eventi, situazioni e occasioni, ricorrenze e ricordanze. Ma si è riconvertita in un flusso continuo di fotogrammi che possiamo scomporre e ricomporre. Colorare, scontornare, ritoccare, fotoshoppare, "filtrare", condividere, viralizzare.

Certo, fra quelle quattro fotine stinte e smunte che uscivano come una linguaccia dalle macchinette di stazione e i milioni di scatti che saturano la rete, c'è un abisso. Eppure, questo tsunami di pixel è partito proprio da quelle cabinette. Che per la prima volta ci hanno fatto sentire dei selfie made men.

·        I Social.

Il successo logora chi non ce l’ha. E se sei donna ti odiano anche di più. ELVIRA FRATTO su Il Quotidiano del Sud il 27 Novembre 2022

Il successo logora chi non ce l’ha in questo quadro spicca il fallimento dei Social Network nati per condividere stanno diventando laceranti

Il successo logora chi non ce l’ha. Forse ancor più del potere, perché il successo e il potere camminano allo stesso ritmo e muovono lo stesso passo, con l’unica differenza che il potere è la sublimazione, l’elevazione del successo; è ciò che si ottiene quasi di diritto una volta che il successo è stato tanto e consolidato.

Probabilmente è per questo che odiamo tanto chi ha più successo di noi: se volessimo vederla in chiave completamente distruttiva, diremmo che il successo altrui ci mette di fronte ai nostri stessi fallimenti, ci fa confrontare con i nostri limiti e ci spinge al cospetto delle nostre condizioni irrisolte; se invece volessimo interpretarla in maniera più moderata, ci suscita semplicemente un tipo di invidia particolarmente restia a rimanere nei ranghi, nei contorni di un disegno che dovrebbe raggruppare tutte le opinioni non richieste stando bene attente a non uscire.

IL SUCCESSO LOGORA E I SOCIAL DIVENTANO UN CAMPO DI INSULTI

È quello che, nostro malgrado, accade sui social ultimamente: ottenere un successo, non importa in che veste e forma, ci espone a un numero sempre crescente di critiche e insulti.

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Un po’ come dire che il successo dà alla testa, sì, ma quello degli altri. E, specularmente, sono i nostri insuccessi a renderci parte di uno spettacolo grottesco in cui chi performa diventa lo zimbello della piazza.

E se è pur vero che la tendenza odierna è quella di sovraesporre risultati straordinari a discapito dell’ordinario, se è pur vero che è molto più facile dipingere l’irraggiungibile (o il difficilmente eguagliabile) piuttosto che investire su chi rende nella media, spingendo a miglioramenti realistici, è vero anche che la gestione dei successi, propri ed altrui, è un concetto che in questo periodo sta decisamente sfuggendo di mano.

Sempre più spesso, è vero, vengono esaltate le “super doti”, giovani uomini e donne che conseguono lauree in tempi ristretti e mantenendo un’esistenza tutto sommato normale.

IL BENEFICIO DEL VERBA VOLANT E I DANNI DELLO SCRIPTA MANENT

Ma non dovrebbe, forse, essere questo l’obiettivo delle vite di tutti? Conseguire dei risultati senza che essi diventino il centro delle giornate e del mondo? La questione, però, è che anche quando si festeggia un successo, i punti di vista non vengono mai espressi con cognizione di causa. Fintanto che le parole venivano proferite esclusivamente a voce, fintanto che il dialogo poteva andare perduto un’ora, ma forse anche una manciata di minuti più tardi, il beneficio del “verba volant” era quanto di più prezioso potesse esistere per chi credeva che le parole fossero strumenti letali, che potevano ferire esattamente quanto un’arma; ma da quando esistono i social (o meglio: da quando hanno assunto certe derive) la palla è passata al decisamente più temuto “scripta manent”, che è il motivo per il quale celebrare i propri successi sulle piattaforme online sta diventando sempre più un campo minato in cui muoversi.

Che sia in anticipo di tre anni o in ritardo di cinque sulla tabella di marcia, la laurea, ad esempio, rimane una delle circostanze più foriere di opinioni non richieste, traboccanti di giudizi indesiderati che toccano proprio tutto, dal percorso personale del laureando o della laureanda fino alle motivazioni che l’hanno spinto o spinta a scegliere quel determinato percorso accademico piuttosto che un altro.

Insomma, da virologi a profondi conoscitori delle dinamiche di politica estera fino a filosofi della vita altrui, stiamo bene attenti a non lasciarci sfuggire mai la qualifica del momento, specie quando si tratta di mettere bocca su questioni di cui non conosciamo i margini.

IL SUCCESSO LOGORA E SE SEI DONNA È ANCORA PEGGIO

Ad aggravare la posizione, interviene il genere. Sì, di nuovo: perché non vorrete mica che che passi inosservato il fatto che una ragazza o una donna ottenga un posto di rilievo o consegua una laurea prestigiosa in tempi brevi; dove finirebbe tutto il divertimento, se la malcapitata non fosse accusata di aver intrattenuto privatamente il professore o l’assistente di turno? Come potrebbe mai iniziare la solita corrida senza i tradizionali, banali e stomachevoli pregiudizi sui quali si è costruita una vera e propria subcultura social?

L’uomo ottiene perché merita, la donna ottiene in virtù di un sistema di “do ut des” ambiguo, sottile, da sempre attribuito a tutte le ragazze, d’ufficio, dalla nascita, come un neo sulla pelle col quale si nasce e contro cui non ci si può far nulla, anche se rovina l’estetica del viso o del corpo.

E così, mentre tutto ciò che è “vintage” torna alla ribalta, la sola cosa che non riesce a rientrare nello spazio di una relazione sociale sana è la gentilezza, la capacità di gioire con morbidezza e comprensione per i successi degli altri e la maturità di mettersi in gioco con onestà e consapevolezza che quelli che sono i propri limiti possano in realtà essere un punto di partenza per gli altri.

Assistiamo a un fenomeno che forse non prospettavamo, a cui forse non avevamo pensato: il paradosso dei social network. Nati per condividere contenuti, probabilmente imploderanno per questo stesso identico motivo: l’impossibilità sopravvenuta di condividerli.

FACEBOOK DA STRUMENTO DI CONDIVISIONE A GOGNA PUBBLICA

Quando Mark Zuckerberg diede vita a Facebook, lo fece in un’ottica molto più ristretta di quello che poi, in realtà, è diventato.

Lo creò perché fosse un punto di contatto e condivisione all’interno della propria università, di uno spazio piccolo, in cui forse la malcelata invidia del prossimo poteva camuffarsi meglio; ma quando un fenomeno come quello di un social network così onnisciente diventa una vetrina a tutti gli effetti, le ripercussioni smettono di limitarsi all’interazione tra due compagni di corso e finiscono per sfociare, nel migliore dei casi, nella cancellazione dell’account da parte degli utenti che si vedono invasi da insulti.

Se pensate che questa sia una conseguenza marginale o trascurabile, siete in errore: cancellare il proprio account sommerso dalle critiche, in un’epoca in cui si comunica quasi esclusivamente online, è un’autocensura indotta a tutti gli effetti, e non è poco. Senza contare che è anche, con ogni probabilità, l’anticamera dell’implosione dei social, che finiranno perché presto nessuno avrà più niente da condividere o, verosimilmente, non vorrà più farlo.

IL SUCCESSO LOGORA MA SE SI TORNASSE AL VERBA VOLANT…

È nato prima il proprio insuccesso o il successo degli altri? Forse decidere tra l’uovo e la gallina era più facile – pardon: tra l’uovo e l’uccellino di Twitter.

E chissà che un giorno, anche sotto gli occhi dei più scettici, non torni di moda anche quel “verba volant” che diluisce tutto, quell’atteggiamento così “vintage” di rispetto reciproco, magari anche comprare il giornale in edicola senza consumarci i pollici scorrendo le notizie fino a dove sembreranno meno noiose.

(ANSA il 24 novembre 2022) - Under 14 e social network: iscrizione precoce e ricerca dell'approvazione sociale. È quanto emerge da una ricerca effettuata dal Dipartimento di Scienze Umane, Sociali e della Salute dell'Università di Cassino e del Lazio Meridionale, su un campione di oltre 2.000 ragazzi di età compresa fra gli 11 e i 13 anni. Secondo i dati, l'88% degli intervistati dichiara di usare con regolarità i social network, nonostante il limite di età per accedere alle piattaforme sia fissato per legge a 14 anni.

La percentuale sale al 100% nel caso dei tredicenni. E 4 ragazzi su 10 hanno un profilo pubblico, con i vari rischi legati alla gestione della privacy. "La condivisione di contenuti privati su piattaforme visibili in tutto il mondo, senza il diretto controllo e la supervisione degli adulti, espone il minore a rischi enormi, quali ad esempio cyberbullismo, adescamento online e, più in generale, violazioni della privacy", spiega il coordinatore della ricerca, Simone Digennaro.

 Lo studio ha anche messo in luce quali sono le app preferite dai ragazzi: oltre il 50% del campione dichiara di usare più di due ore al giorno WhatsApp, a pari merito con Tik Tok. Seguono Instagram, Youtube e Snapchat. Quest'ultima viene usata principalmente per modificare foto da postare poi su altri social, con circa il 30% del campione analizzato che dichiara di trascorrervi meno di 2 ore al giorno. La modifica delle immagini è una pratica diffusa fra le ragazze: tre quarti delle intervistate dichiara di farlo; circa il 50% con elevata frequenza.

Alta anche l'abitudine di scattare molte foto per scegliere la migliore da condividere online. Stando alle risposte, è confermato il progressivo ma avanzato abbandono di Facebook e la scarsa attrazione di Twitter per i pre adolescenti. Fra i nuovi social avanzano Discord, piattaforma VoIP e di messaggistica istantanea pensata per i gamer, e Twitch, nata per trasmettere e guardare live degli appassionati di videogiochi.

Non solo i tycoon della Silicon Valley l’ascesa di mandarini e pashà del web. Giovanni Vasso su L’Identità il 19 Novembre 2022

Con 58 miliardi di dollari di fatturato, Tik Tok è la nuova stella mondiale dei social. Solo in Italia, secondo le analisi di Audipress, è stato utilizzato da 14,4 milioni di persone. In pratica, un italiano con la connessione a internet su tre ha fatto (almeno) una capatina nel mondo virtuale che arriva dalla lontana Cina. Tik Tok è edito da Bytedance, fondata da Zhang Yiming nell’ormai lontano 2012. Ha solo 39 anni eppure vanta un patrimonio netto personale da quasi 55 miliardi di dollari. La sua è una storia molto simile a quelle che hanno costruito il mito della Silicon Valley. Smanettone, impiegato che brucia le tappe, lavorando per un breve periodo anche in Microsoft, fino a fondare una sua compagnia. Che sfonda quando s’inventa Toutiao. Che non è nient’altro che la fusione tra un social network e un aggregatore di notizie. In pratica, legge gusti e tendenze dell’utente e gli propone una serie di news che potrebbero interessargli. Finisce che quella start-up diventa il principale competitor di Baidu, il Google cinese. Ma al genio in fatto di tecnologia, Yiming unisce un certo fiuto per gli affari. Così nel 2015 acquista un’app che si chiama Musically e che, nonostante gli sforzi dei suoi creatori, non riesce a sfondare davvero. Passa qualche mese e diventa Tik Tok. Un colosso che oggi, secondo le stime, sarebbe utilizzato da un miliardo di utenti in tutto il mondo. La scelta di puntare su video brevi è vincente. Al punto che la sua creatura sfonda non solo in Occidente ma addirittura negli Stati Uniti. Zuckerberg gli fa la guerra, sia commerciale (Instagram lancia i Reels per tentare di arginare i danni) che politica. Donald Trump, allora presidente Usa, impone a Bytedance di cedere il ramo d’affari americano se vuole essere presente sul mercato statunitense. Non si può tollerare, tuonava il tycoon, che i dati degli americani finissero in mani cinesi. Si fanno avanti i colossi, come Oracle. Non se ne fa più nulla perché, intanto, alla Casa Bianca è arrivato il democratico Joe Biden. Tik Tok, intanto, continua a crescere guadagnando quote di mercato anche in Europa dove Bytedance ha arruolato, come portavoce, niente di meno che Nick Clegg, ex vice premier inglese, l’uomo che per la prima volta nella storia del Regno Unito, nel 2011, ha portato al governo i liberaldemocratici con il conservatore David Cameron.

A proposito di Inghilterra, brilla (anche nei social) l’astro indiano. Nei giorni scorsi, il pulcino Koo ha potuto festeggiare un insperato traguardo: con 50 milioni di utenti, è la seconda app di microblogging al mondo, subito dopo Twitter. Tra i fondatori c’è Aprameya Radhakrishna. Ma tra i suoi più grandi sponsor c’è il governo guidato da Narendra Modi. Difatti, il premier ha avuto uno scontro terribile con Twitter a cui aveva chiesto la disattivazione di alcuni profili ritenuti pericolosi dall’esecutivo. Al rifiuto, è seguita la fuga di utenti agevolata dall’approdo su Koo dei più seguiti politici del Paese. Oggi, Radhakrishna non solo festeggia un successo insperato ma celebra anche le potenzialità, ancora inespresse, della sua creatura: “Siamo l’unico social in grado di competere con i giganti globali come Twitter, Gettr, Truth Social, Mastodon e Parler”. Per ora, Koo ha collezionato utenti in cento Paesi, specialmente in quelli della diaspora indo-asiatica e negli ex possedimenti di sua maestà britannica. Ma presto la sua diffusione potrebbe crescere ancora. 

Migliaia di licenziamenti nell’hi-tech. La lunga notte del digitale negli Usa. Martina Melli su L’Identità il 19 Novembre 2022

Amazon si dichiara pronto a licenziare circa 10.000 dipendenti (meno dell’1% della propria forza lavoro complessiva) nella divisione hardware, ossia quella che realizza i prodotti della linea Echo, Alexa, Fire e Kindle, categorizzata sulla piattaforma come Devices & Services.

Lo ha annunciato Dave Limp sul blog ufficiale, attribuendo la manovra ad un “clima macroeconomico insolito e incerto”. Seppur non specificando quando esattamente questi tagli verranno finalizzati, ha “rassicurato” tutti che la sezione hardware rimarrà un’importante area di investimento dell’azienda.

Secondo diverse fonti accreditate, le stangate non colpiranno solo il dipartimento in questione, ma anche quelli retail, cloud gaming e le risorse umane. Non sembra che verranno invece toccati i lavoratori della sezione logistica e operativa.

Secondo le ultime dichiarazioni dell’amministratore delegato Andy Jassy, l’ondata di licenziamenti continuerà nel 2023.

“L’economia rimane in una situazione difficile e noi, negli ultimi anni, abbiamo assunto molto rapidamente” ha commentato.

Già all’inizio di novembre, a causa del grave rischio di inflazione e recessione per tutte le big del digitale, il colosso e-commerce ha deciso di bloccare le assunzioni, avvertendo gli investitori che questo quarto trimestre sarebbe stato molto debole, in un anno, il 2022, che è stato il peggiore dalla crisi del 2008.

Come avevamo già evidenziato attraverso la vicenda degli 11.000 licenziamenti di Meta, questo è un momento molto critico per le Big Tech e per il mercato dello shopping online.

I motivi sono presto detti: la pandemia del 2020, con le sue dure restrizioni spaziali e interpersonali, ha portato a un’escalation di consumi e di richieste in questi settori. In particolare, per quanto riguarda le vendite online in America nel 2020, si è parlato di un salto in avanti di 10 anni in tre mesi. E forse Amazon ne ha goduto più di tutti. La domanda era tale, che la company fondata da Bezos ha investito moltissimo nella forza lavoro, nei rifornimenti e nei magazzini.

Si pensava fosse un trend destinato a restare, un cambiamento radicale nei costumi e nelle abitudini della società, e invece, il ritorno alla vita di prima, la riapertura dei negozi, l’instabilità geopolitica, la crisi economica ed energetica, l’aumento dei carburanti e dei prezzi delle materie prime, hanno provocato l’arresto dei consumi e di conseguenza un’inflazione violenta di cui non si riesce a prevedere la fine. Un sostanziale errore di interpretazione del mercato, dunque, a dimostrazione del fatto che anche i grandi della terra possono prendere abbagli. Magari perché ormai sono assuefatti a volare troppo vicino al sole. Oltre alla questione economica, che indubbiamente decide le traiettorie delle grandi multinazionali, sta iniziando a prendere piede un dibattito sulla cifra etica e umana (o la mancanza di tale) di queste policy aziendali. Caso esemplare è Twitter, con i suoi licenziamenti di massa via mail e i post strafottenti di Elon Musk che appena entrato in consiglio di amministrazione, ha segato il 50% degli impiegati, minacciando il restante 50 che, qualora non fosse disposto a lavorare per lunghe ore ad alta intensità, farebbe bene a impacchettare le proprie cose.

In seguito a queste dure prese di posizione, interi team di ingegneri e informatici di altissimo livello hanno preferito dare le dimissioni.

Non solo licenziamenti a tappeto ma anche l’uso di strategie controverse per aumentare i profitti. In molte società digital e tech, infatti, vige lo stack ranking, un sistema di classificazione della produttività di ciascun dipendente rispetto ai colleghi. Un meccanismo, che a detta di molti, favorisce un clima di grande stress e competitività sul posto di lavoro, provocando problemi relazionali e disturbi a livello psicologico.

Gladiatori digitali. Report Rai. PUNTATA DEL 14/11/2022  di Antonella Cignarale

Immagini di Giovanni De Faveri, Carlos Dias e Cristiano Forti

Nel mondo dei videogames è esploso il mercato degli sport elettronici.

Competizioni videoludiche strutturate in veri e propri tornei, circuiti, leghe, in cui i giocatori singoli o a squadre si sfidano online e dal vivo, alla presenza di arbitri, commentatori, spettatori e fan. Un nuovo bacino di utenti in cui società e club sportivi procacciano talenti e i grandi marchi si tuffano per sponsorizzare i propri prodotti. Per molti players è agonismo, per altri è una professione, ma in Italia né l’uno né l’altra sono riconosciuti a livello istituzionale. La mancanza di una normativa specifica si ripercuote a cascata su tutto il settore, dai premi ai luoghi in cui praticare gli sport elettronici.

“I GLADIATORI DIGITALI” Di Antonella Cignarale Immagini di Giovanni De Faveri, Carlos Dias e Cristiano Forti Ricerca Immagini di Paola Gottardi Grafiche di Giorgio Vallati

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Nel mondo dei videogames un segmento di mercato che è esploso è quello degli eSports, gli sport elettronici: competizioni videoludiche in cui giocatori, singoli o a squadre, si sfidano online, in tornei virtuali. Ma quando si disputa la finalissima, il gioco si trasforma in uno spettacolo aperto al pubblico reale. Questa è la finale mondiale del videogioco League of Legend, giocata a Parigi di fronte a 20mila spettatori; il montepremi messo in palio è stato superiore ai due milioni di dollari.

MARCELLO MINENNA - DIRETTORE GENERALE AGENZIA DOGANE E MONOPOLI C’erano i gladiatori nell’Antica Roma, poi siamo passati ai tornei di calcio e di Premier League, io credo che ora stiamo muovendo verso gli eSports.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Le competizioni vengono trasmesse in diretta streaming e l’audience è in continua crescita. Su Twitch le ore dedicate dagli italiani a guardarle sono aumentate più del 300% in tre anni.

MARCEL VULPIS - VICEPRESIDENTE VICARIO LEGA PRO Determinate finali sono state seguite da oltre cento milioni di utenti, quindi numeri superiori alle persone che vedono in America il Superball.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Cinque discipline che simulano gli sport reali hanno preso parte alle Olympic Virtual Series, il primo evento eSport con licenza ufficiale del Comitato Internazionale Olimpico, inaugurate un mese prima delle Olimpiadi di Tokyo. A vincere la gara virtuale di GranTurismo è stato l’italiano Valerio Gallo.

VALERIO GALLO – CAMPIONE MOTORSPORT OLIMPYC VIRTUAL SERIES 2021 Si pensava che l’automobilismo vero potesse partecipare alle Olimpiadi mentre invece lo sono stati i simulatori di guida ad essere i primi ad entrare a far parte delle Olympic Virtual Series.

ANTONELLA CIGNARALE Hai avuto qualche riconoscimento anche dal CONI in Italia?

VALERIO GALLO – CAMPIONE MOTORSPORT OLIMPYC VIRTUAL SERIES 2021 In realtà no. È un agonismo a tutti gli effetti e quindi spero che ci sia più considerazione in futuro di questa cosa.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Gladiatori virtuali. Si tratta della nuova frontiera dello sport. Gli eSports. Buonasera. Sono competizioni al termine delle quali riconoscono anche un titolo. Nessuno avrebbe immaginato anni fa di trovare 20 mila persone radunate a fare il tifo per due che giocano con uno schermo. Si tratta di competizioni che, se riconosciute come sport, potrebbero entrare a pieno titolo nelle Olimpiadi. E con le federazioni in crisi, potrebbe accadere di tutto. La federazione automobilistica sta cercando il nuovo Ayrton Senna. Le squadre di calcio hanno bisogno di tifosi. Allora che cosa fanno? Creano il proprio avatar, comprano i videogiocatori intorno ai quali si radunano dei tifosi. E la speranza è che possano passare dalla squadra virtuale a quella reale. Creando anche l’indotto economico. All’estero gli eSports stanno spopolando. Il videogioco della simulazione di guida è stato riconosciuto dalla Federazione Internazionale di Automobilismo come sport. Allora, l’equivalente, la nostra Aci, ha chiesto la stessa cosa al Coni. Vedremo come andrà a finire. Ma per quello che riguarda tutti gli altri eSports come la mettiamo? La nostra Antonella Cignarale.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO La simulazione di guida è l’unico sport elettronico ad essere iscritto nel registro CONI come disciplina sportiva. A chiederne il riconoscimento è stata l’ACI, la Federazione per lo sport automobilistico, perché è una modalità per allenare i piloti reali e anche per scovare nuovi talenti tra i quattro milioni di appassionati ai videogiochi da avviare sulle piste reali.

MARCO FERRARI - DIRETTORE SPORT AUTOMOBILISTICO ACI Magari tra quei quattro milioni ci potrebbe essere un Senna o un nuovo Schumacher o un nuovo Leclerc italiano da far crescere nel mondo reale.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO A differenza della Federazione dell’Automobile, altre Federazioni non hanno riconosciuto gli sport elettronici come discipline sportive, neppure quello del calcio.

COMMENTATORE CAMPIONATO ITALIANO ESERIE A FIFA 2022 Ronaldigno ce l’ha sul mancino, dentro, Koulibaly… Il Toro fa 1 a 0.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Eppure, ogni club di serie A ha creato il proprio avatar, investendo in un team di videogiocatori per gareggiare nei campionati virtuali. Anche la Lega Pro ha organizzato il campionato della serie C elettronica: i players si sono sfidati indossando la maglia del club reale, con tanto di cronisti per lo streaming, fan e trofei.

MARCEL VULPIS – VICEPRESIDENTE VICARIO LEGA PRO Avremo in Italia, come già succede all’estero, dei momenti in cui magari nel prepartita ci saranno questi gamer. Tra questi ragazzi ci saranno i fan, quindi i tifosi del futuro che potrebbero entrare anche a seguire la partita tradizionale.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO In Italia i fan delle competizioni virtuali sono un milione e 620mila e spendono in eSports circa un miliardo di euro all’anno. A livello internazionale gli appassionati di eSports sono diventati il nuovo bacino di clienti che ha magnetizzato l’interesse dei grandi sponsor.

MARCEL VULPIS - VICEPRESIDENTE VICARIO LEGA PRO Un’azienda che oggi deve puntare a presentare i propri prodotti e parlare e dialogare con i giovani, qual è lo scenario migliore se non gli sport elettronici?

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Un mercato che cresce mentre la figura del videogiocatore professionista in Italia non è disciplinata.

NICOLÒ MIRRA AKA INSA- VIDEOGIOCATORE PROFESSIONISTA Se tieni premuto l’R2 mentre tiri, diventa più difficile per un portiere parare il pallone. ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Lui è Insa e come lavoro fa il videogiocatore: nella serie A virtuale ha giocato con la Roma, l’Inter e ora è nel team eSport dell’Atalanta. Il primo ingaggio lo ha ottenuto perché, oltre a sapere giocare bene, prometteva come influencer.

ANTONELLA CIGNARALE C’è uno stipendio fisso per un giocatore professionista?

NICOLÒ MIRRA AKA IN

SA- VIDEOGIOCATORE PROFESSIONISTA Sì, c’è uno stipendio fisso e poi ci sono delle percentuali sui premi, delle percentuali magari sull’attività di marketing. La maggior parte dei team, quando paga lo stipendio a un giocatore, pagano anche la palestra, ti mettono a disposizione qualcuno che ti segue su alimentazione. Poi oltre a questo, ovviamente, c’è tutto l’allenamento effettivo. Su Fifa un giocatore forte si allena tra le quattro e le sei ore al giorno.

ANTONELLA CIGNARALE Come giocatore professionista vorresti essere riconosciuto come sportivo a tutti gli effetti come un calciatore di serie A?

NICOLÒ MIRRA AKA INSA - VIDEOGIOCATORE PROFESSIONISTA Ci sarebbero più tutele; non sei fisicamente coperto da una federazione o da delle regole standard e da contratti standard.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO A differenza dell’Italia, la Francia si è preoccupata di disciplinare lo status di videogiocatore professionista, stabilendo che per ingaggiarlo le società devono essere autorizzate dal ministro per gli Affari digitali, definendo le condizioni e la durata dei contratti.

ANTONELLA CIGNARALE Oggi che cos’è che serve per tutelarli tutti?

DOMENICO FILOSA - PRES. COMMISSIONE SPORT TECH & ESPORTS – ASSOC. AVVOCATI DELLO SPORT Quello che serve sono delle linee guida a cui tutto il settore si debba ispirare. Il riconoscimento sicuramente sarà qualcosa che pone delle basi chiare da cui partire.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Regole specifiche servirebbero anche per i locali aperti al pubblico in cui si praticano gli eSports, oltre che per giocare, anche per allenarsi a livello professionistico. Il caso è scoppiato la scorsa primavera quando l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, in seguito ai controlli, ha sequestrato gli apparecchi perché non omologati. Ma c’è un problema.

ALESSIO CICOLARI - ESPORT PALACE L’omologazione prevede il fatto che la macchina non possa subire modifiche né nel software né nell’hardware. Sarebbe improponibile. Se non sono collegate alla rete, non possono eseguire i software che la gente utilizza sia per gli eSport che per i gaming.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO In attesa che si esprima il legislatore, la soluzione transitoria è stata quella di inquadrare questi apparecchi al pari di quelli che si trovano nei luna park itineranti per i quali non è prevista l’omologazione purché i giochi non diano premi in denari.

STEFANO SARACCHI – RESPONSABILE DIREZIONE CENTRALE GIOCHI – AGENZIA DOGANE E MONOPOLI La questione ha una rilevanza mondiale che deve, per forza di cose, essere affrontata. Gli sport elettronici potranno essere qualificati o come veri e propri sport o come fenomeno culturale.

ANTONELLA CIGNARALE FUORI CAMPO Al CONI è stato creato un Comitato Promotore per offrire consulenza alle federazioni sportive che volessero riconoscere il corrispettivo sport simulato.

GIOVANNI COPIOLI – MEMBRO DI GIUNTA NAZIONALE CONI Il fine ultimo dovrebbe essere quello di poter trasferire coloro che praticano questi sport elettronici o simulati verso gli sport reali.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO C’è una grande operazione di marketing intorno agli eSports. È un fenomeno che non puoi fermare. Sarebbe intelligente invece regolamentarlo. Tuteleresti i videogiocatori, molti dei quali sono anche minorenni, non sono regolamentati anche con regole certe neppure i luoghi dove giocano o si esercitano. All’estero invece sono regolamentati e hanno dato il via anche a una bella attività economica. Organizzano anche i mondiali, cosa che è inconcepibile in Italia perché non si può istituire un montepremi in denaro perché sarebbe illegale. Pochi giorni fa il Parlamento Europeo ha votato una risoluzione che impegna i paesi membri, le istituzioni a parlare del futuro degli eSports. 

Unhappy Life. Mastandrea, il mio pessimo servizio clienti e l’arte di raccontare i fatti propri agli sconosciuti. Guia Soncini su L’Inkiesta il 23 Novembre 2022.

Da quando stiamo sul palcoscenico tutto il giorno ci stupiamo se coloro che abbiamo conquistato parlando della nostra vita poi hanno opinioni perentorie su di noi. Scendiamo nell’arena e trasecoliamo se ci troviamo i leoni

«Martedì è morto mio padre». Quando Mattia Torre scrive “Migliore” siamo ancora nel mondo di prima: quello in cui se vuoi raccontare i fatti tuoi in pubblico bisogna che tu convinca un programma televisivo a invitarti. Non puoi accendere la telecamera del telefono e intrattenere il mondo coi tuoi lutti, le tue gioie, i tuoi amori, le tue malattie.

Quando sabato sera è apparso in tv Valerio Mastandrea, a interpretare con la regia di Paolo Sorrentino il monologo d’un perdente che non resta tale, la terza cosa che ho pensato era che uso strepitoso stesse facendo della voce – ma questo mica vorrete farvelo spiegare da me, andate a guardarlo, spiegare le voci è come ballare d’architettura.

La seconda cosa che ho pensato è che non so neppure se Mattia Torre avesse mai avuto una pagina social; Mastandrea ha un account su Twitter ma lo usa molto meno di Joyce Carol Oates, molto meno di Carlo Calenda, molto meno di qualunque abitante di questo tempo sbandato. Raccontare i fatti propri agli sconosciuti è un talento o è il rifugio di chi non ha talenti?

Philip Roth diceva che uno scrittore che mette su la maschera della prima persona singolare è uno che sta sul palcoscenico e si finge un secondo sé, sempre e comunque: sia che si finga migliore sia che si finga peggiore. Ma non è di scrittori, che stiamo parlando. È di gente che – non avendo amici cui dirlo, o non sembrandole vero ciò che non si svolge in pubblico – dice agli sconosciuti: martedì è morto mio padre. E non lo dice, come Mastandrea, protetto da un copione, tutelato dal fatto che in platea ci sono spettatori paganti, non lo dice nei panni di. Lo dice davvero.

È una forma di esibizionismo, certo. Una volta andavi in tv, adesso è cambiato lo strumento, non è che sia diverso, è solo più pericolosamente autogestito. Si può farlo con intelligenza? Si può essere esibizionisti con uso di continenza? Nessuno meglio di Mastandrea incarna la dimostrazione che gli strumenti sono solo strumenti, se siete abbastanza vecchi da ricordarvelo al Maurizio Costanzo Show. Poteva diventare Sonia Cassiani: è diventato Valerio Mastandrea (se non siete abbastanza vecchi da ricordarvi chi fosse Sonia Cassiani, chiudete l’internet e andate a fare i compiti).

La prima cosa cui ho pensato sono stata io (ma che eccezione, puntesclamativo) e il mio disastroso rapporto coi servizi clienti, quando il personaggio di Valerio Mastandrea ha spiegato che lui lavorava per Happy Life, il servizio per i titolari della carta Emerald (immagino che Torre avesse scelto lo smeraldo perché il platino e il diamante nelle carte di credito esistono davvero, e chi ha voglia di farsi fare causa; o forse aveva una qualche familiarità con Bologna, dove la carta smeraldo apre i cassonetti, e quindi rideva quanto rido io all’idea che sia un bene di lusso).

Un cliente lo chiama perché è a Lampedusa e vuole mangiare messicano. O vuole una Porsche gialla. O dell’acqua minerale di quella che dice lui, mentre si trova in Nepal (ogni volta che una famosa attrice americana fa qualche post ecologista di quelli che oggi non puoi non fare, se sei uno di quegli esibizionisti che tengono all’approvazione, penso a quella volta che era a Roma per promuovere un film e le ragazze della distribuzione giravano per la città disperate cercando l’acqua Fiji, l’unica che la signora bevesse, imbottigliata a diciassettemila comodi chilometri).

Sbavavo d’invidia pensando a Just Eat che mi lascia senza cena perché il fattorino non ha voglia di fare le scale. Pensando a quel negozio di vestiti inglesi cui chiedo come cancellare un acquisto sbagliato e che mi risponde alla mail dopo otto giorni, quando l’acquisto non solo è già arrivato ma l’ho pure già restituito. Pensando agli operatori telefonici ognuno dei quali è tenacemente odiato da clienti ed ex clienti sempre convinti che col prossimo cambierà tutto, non disposti ad arrendersi all’evidente cartello della cialtroneria: finché il wifi funziona, tutto bene; ma appena qualcosa non va, nessuno ti verrà in sollecito soccorso, per i miseri venti euro al mese che paghi.

Guardavo e pensavo quanto avrei voluto essere titolare di carta Emerald. Una volta credevo che, fossi mai diventata ricca, mi sarei concessa un autista. Un massaggiatore. Un cuoco. Ora so che la prima cosa in cui investirei è un servizio clienti che non mi metta in attesa con la musichetta per poi dopo diciassette minuti dirmi che non risolverà il mio problema ma ho diritto a tre euro di credito per il disagio.

Da quando stiamo sul palcoscenico tutto il giorno – e non a sbagliare da professionisti, non con un copione, ma ci stiamo coi nostri mi si è ammalato il cane, coi nostri è morto mio padre, coi nostri oggi è il mio anniversario di matrimonio e voglio festeggiarlo con voi che ci avete sempre seguiti – da quando i fatti nostri sono la valuta con cui paghiamo l’iscrizione a Happy Life, questo meccanismo ci ha mangiato i neuroni, e lo facciamo con sempre meno intelligenza. Ci stupiamo se coloro che abbiamo conquistato raccontando loro della nostra vita poi sulla nostra vita hanno opinioni perentorie. Scendiamo nell’arena e trasecoliamo se ci troviamo i leoni.

Poi Mastandrea smette di volere «le cose di una volta», passa da mite a spietato, e dice al capo dell’azienda che ne sposerà la figlia. «Ci mancherebbe altro: ci sposeremo in chiesa, certo», dice. E la quarta cosa che penso è che un classico è un’opera che sembra sempre stia commentando l’attualità, anche se non s’è mai sognata di farlo.

Tweet but verify. Non saremo mai abbastanza grati a Elon Musk per averci convinto a non credere ai social. Guia Soncini su L’Inkiesta il 12 Novembre 2022

Se il nuovo boss di Twitter smetterà di farci considerare tavole della legge tutto quel che viene detto sul giocattolone che c’intrattiene nelle sale d’attesa, saremo costretti a pensare che sta facendo un ottimo lavoro

L’altro giorno ho rivisto The Social Network, uscito nel 2010 e ancora insuperato come più bel film del ventunesimo secolo, apologo d’un sociopatico dal valore di mercato in continuo aggiornamento: la sceneggiatura finiva con «Facebook è attualmente quotata quindici miliardi di dollari»; nel film, alle immagini di Mark Zuckerberg che riaggiorna la pagina per vedere se la ex fidanzata ha accettato la sua richiesta di amicizia, si sovrappone il cartello: 25 miliardi di dollari; oggi, vassape’.

Perché non c’è stata una mitopoiesi di Jack Dorsey (quello che ha fatto Twitter) o di Elon Musk (quello che se l’è comprata di recente)? Perché nessuno ha imbastito un capolavoro su di loro? Perché Facebook è stato il primo approccio di massa ai social, e tutti gli altri erano troppo presto o troppo tardi o troppo di nicchia?

E quelle cifre, quelle del decennio scorso ma pure quelle attuali, come le calcoli? Quanto valgono i fatti di miliardi di persone che sono ben liete d’avere un posto dove tenere gratis le foto di famiglia, gratis le idee politiche, gratis gli impegni della giornata?

«Gratis» è, non serve un dottorato in sociologia per capirlo, la chiave. In The Social Network il giovane sociopatico era ossessionato dalla coolness: per essere cool, Facebook non doveva avere la pubblicità. Ma come guadagni, in un’epoca in cui quasi nessuno è più disposto a pagare quasi niente, se il consumatore con pretese di gratuità non lo vendi agli inserzionisti?

Oggi c’è pubblicità ovunque – su Facebook, su Instagram, su Twitter; su TikTok, persino, nonostante siano cinesi – ed è un sollievo: oggi che tutti usiamo i social network per vendere agli altri qualcosa, almeno quella degli inserzionisti è pubblicità dichiarata.

L’ossessione per la coolness è dunque, in una prima fase, scivolata in ossessione per la gratuità: «se è gratis, la merce sei tu» è diventata la frase che le persone dicono sentendosi intelligenti e sembrando in realtà il calendario di Frate Indovino, la nuova «il trasloco è il terzo evento più traumatico che possa capitarti». Negli ultimi anni, però, l’ossessione è slittata di nuovo: sui social network dobbiamo trovare la verità.

La sovrapposizione degli anni di Trump e di quelli della pandemia è stata letale per chi ambiva all’erklären e si è ritrovato con gli avvisi di sistema su come informarsi correttamente sui vaccini. Ovviamente gli avvisi li gestisce un algoritmo californiano, la cui ontologia è la stolidità: se in una storia Instagram date a qualcuna della vacca, esso si sente intelligentissimo percependo la radice di «vaccino» e mettendo quindi il suo bravo avviso che invita a informarsi sul Covid.

Questo tweet non dice la verità, avvisava pre-Musk l’algoritmo illudendosi di saperla riconoscere, la verità, se qualcuno scriveva che Biden si era arrubbato le elezioni del 2020: erano i modi goffi in cui i miliardari sociopatici di quel pezzettino di California rispondevano alle accuse di disinformazione. Mai dicendo «mica è colpa nostra se avete tirato su un pianeta di imbecilli scolarizzati, incapaci di distinguere una puttanata da una storia verosimile».

Mettendoci delle toppe che c’illudessero che i posti che guardavamo più a lungo dei giornali, dei libri, della tv, che quei posti su cui leggevamo scemenze mentre eravamo in bagno o alla fermata dell’autobus, che quei posti lì contenessero la verità, tutta la verità, la verificata verità.

Naturalmente la verità non esiste. Non perché: la postverità. Ma perché: Rashomon. Il medico che ha dei dubbi sui vaccini viene cancellato dagli algoritmi che non possono alienarsi quella maggioranza feticista della verità condivisa, quella maggioranza che dice assurdità quali «io credo nella scienza», come la scienza fosse un atto di fede e non una serie di tentativi che correggono gli errori precedenti, come la storia della medicina non fosse fatta di cose che credevamo facessero bene e poi invece no, come il parere di uno che compiendo gli stessi studi arriva a una conclusione differente potesse essere trattato come quello di Vongola75.

Ma certo non si può pensare che un algoritmo sappia distinguere il primario eterodosso dal demente cui nel gruppo WhatsApp della classe del figlio hanno detto che i vaccini rendono persino più autistici delle madri frigorifero. E d’altra parte la per molti anni accreditatissima teoria delle madri frigorifero non veniva da Brocco81, ma da un all’epoca stimato psicologo, sui cui studi nessun social aveva apposto la pecetta «sono tutte stronzate». Per decenni la verità è stata che Bettelheim era un genio, e adesso la verità è che era un cialtrone: ve l’avevo detto che la verità non esiste.

E quindi, quando arriva Elon Musk e decide che il bollino che conferma la verifica, da parte di Twitter, della tua identità, l’ambitissimo bollino che faceva sentire importanti gli aspiranti qualcosa, quel bollino lì ora è in vendita, e io domani posso con otto dollari comprarmi la verifica che dice che sono in effetti Guaia Sorcioni, anzi Pamela Anderson, anzi Zadie Smith, quando Elon fa implodere l’illusione della verità accertata e della gratuita garantita su quel giocattolone per adulti che è Twitter, per me è una buona notizia.

Non solo perché ne nascono casi che fanno molto ridere: un finto (ma verificato) account Chiquita dichiara che l’azienda ha appena fatto un colpo di stato in Brasile, e il vero (e verificato) account Chiquita si scusa: «Non facciamo colpi di stato dal 1954»; o un finto (ma verificato) account Tesla annuncia lo schianto d’una seconda Tesla sulle Torri gemelle. 

Non può che essere una buona notizia quando una beffa offre un osservatorio sulle voragini nell’etica pubblica: quando un account finto (ma verificato) della Eli Lilly twitta che l’insulina d’ora in poi sarà gratuita, e il vero (e verificato) account di Eli Lilly è costretto a smentire, si potrà sperare in un ciccinino d’imbarazzo nel ribadire che gli Stati Uniti sono quel grande paese in cui nel 2022 un diabetico può finire con un arto amputato perché l’insulina è troppo cara? Magari dall’imbarazzo nasce una qualche riforma piccina picciò? Bisogna essere molto impegnati a ritenere Musk il male assoluto, per non ritenerla una buona notizia.

La buona notizia sfugge agli intellettuali americani che lo accusano d’aver minato la credibilità delle informazioni, d’essere un distruttore, senza tenere presente la parte creatrice della distruzione (naturalmente: gli intellettuali americani pensano che Schumpeter sia un pilota di Formula 1).

Se quel che avrà ottenuto Elon Musk sarà che avremo smesso di credere a quel che viene detto su un giocattolone che c’intrattiene nei tempi morti nelle sale d’attesa, avremo smesso di credere ai volontari della gratuità intellettuale, avremo smesso di costruire pagine di giornali attorno a quel che ha twittato Tizio e a quel che gli ha risposto Sempronio, allora Elon Musk bisognerà ringraziarlo. 

Se poi, come ha prospettato ieri a dipendenti che non pare aver molta voglia di continuare a stipendiare, dichiarerà bancarotta, e darà inizio a una Lehman dei cuoricini – Zuckerberg ha appena licenziato undicimila persone: una pandemia di declino social, chi ci sperava più – e quel che fino a ieri ci sembrava imprescindibile in un attimo diverrà dinosauro in estinzione, allora io spero che a Musk saremo abbastanza grati da dargli il Nobel per la Pace.

Community: come funzionano i nuovi gruppi su Whatsapp. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 5 Novembre 2022.

In arrivo anche in Italia nelle prossime settimane nuove funzioni per facilitare la comunicazione: gruppi fino a 1.024 persone, file condivisibili fino a 2 giga e sondaggi.

Whatsapp ha lanciato Community (comunità), un progetto annunciato a inizio anno, ma attivo da oggi Gruppi di discussione più ampi. Più strutturati. Progettati per aiutare aziende, scuole e gruppi privati a comunicare meglio e in modo più organizzato. La società, controllata dalla holding Meta, ha reso noto che nei prossimi mesi sarà disponibile sia per iOS che per Android in tutti i Paesi dove è attiva.

Community: cosa prevede la nuova funzione

La nuova funzione consentirà agli utenti di connettersi sull’app di messaggistica all’interno dei gruppi che riterranno importanti. Si potranno creare community, o rendere community una chat di gruppo già esistente. Diverse le opzioni introdotte: maggiore controllo da parte degli amministratori; chiamate vocali e video con 32 persone; sondaggi; più facilità di condivisione e recupero dei file messi a disposizione di tutti, anche di dimensioni fino a 2 giga; gruppi estendibili fino a 1.024 utenti; possibilità di creare sottogruppi.

La sfida a Signal e Telegram

Le comunità sembrano, dalla descrizione fatta dall’azienda, qualcosa di simile ai gruppi di Facebook. Ma a differenza di questi non daranno la possibilità a ‘estranei’ di entrare nel gruppo. Anche perché, a differenza di Facebook, Whatsapp si basa sui numeri di telefono. Che comunque, precisa l’azienda, non saranno visibili a tutti. Una decisione presa per soddisfare le istanze più stringenti in termini di privacy.

Inoltre, le comunità sono nascoste, non pubbliche. A parte questo aspetto, sembra una mossa che avvicinerebbe Whatsapp più ad app come Telegram e Signal. Che però offre la possibilità di gruppi con decine di migliaia di iscritti e diverse funzionalità. E nelle comunità non si potrà accedere su richiesta, ma servirà essere invitati.

La nuova funzione di Whatsapp prevede che all’interno del gruppo si possano condividere messaggi e segnalarli come “importanti“. La creazione di sottogruppi è libera, e potrà essere fatta da singoli utenti. Con le nuove funzioni, Whatsapp “mira ad alzare il livello di comunicazione delle organizzazioni con un livello di privacy e sicurezza che non si trovano da altre parti”, ha commentato Mark Zuckerberg, CEO di Meta.

Al momento mancherebbero delle assicurazioni sul rischio che all’interno delle comunità si possano creare spazi per comportamenti illeciti. Gruppi d’odio, o di diffusione di materiale pornografico. Ma i test effettuati finora (50 in 15 paesi pilota) avrebbero minimizzato questo rischio. Redazione CdG 1947

Tutti contro Elon Musk, ma Twitter ha bisogno di un visionario dirompente. I sostenitori di Musk, che credono alla sua capacità visionaria e al voler estrarre valore da una piattaforma molto conosciuta, ma che dalla sua nascita non ha mai prodotto un dollaro di profitto per i suoi azionisti. Antonello Garzoni su La Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Novembre 2022.

Da quando Elon Musk, imprenditore seriale già conosciuto per le sue avventure in PayPal, Tesla e SpaceX, è diventato il nuovo proprietario di Twitter, il mondo si è diviso in due. I sostenitori di Musk, che credono alla sua capacità visionaria e al voler estrarre valore da una piattaforma molto conosciuta, ma che dalla sua nascita non ha mai prodotto un dollaro di profitto per i suoi azionisti. Il resto del mondo, che vede la sua ingerenza nella gestione di Twitter, dopo aver cacciato in maniera eccessivamente teatrale i suoi vertici, un pericolo per la libertà di comunicazione sino ad oggi espressa dai milioni di utenti dell’uccellino blu! Persino il «Financial Times» ha recentemente rappresentato la sua indignazione, dopo che Musk ha costretto i suoi dipendenti nel fine settimana a rientrare in ufficio per immaginare insieme un nuovo modello di business per far ripartire la piattaforma. Se anche il FT inizia ad indignarsi per la violazione del weekend dei manager di un’azienda in forte crisi, ci spieghiamo molto dell’attuale impasse governativa britannica.

Personalmente, non provo simpatia per Elon Musk e per i suoi metodi di gestione alla «una poltrona per due»! Trovo però necessaria una chiarezza sui fondamentali dell’operazione e sulla capacità di visione imprenditoriale che la caratterizza.

Twitter viene fondato nel 2006 da Jack Dorsey e deve la sua fortuna alla decisione di limitare a 140 caratteri ogni tweet, così da dare centralità al messaggio e favorirne la diffusione. Nel 2013, anno della sua quotazione alla New York Stock Exchange, registrava 500 milioni di utenti e 50 milioni di tweet al giorno. Una notorietà mondiale cresciuta nel tempo anche in Europa, facendone la piattaforma preferita da chiunque abbia qualcosa di sensato da dire (per le cose insensate c’è Facebook, vetrina del cosa sto facendo in questo momento).

La soddisfazione degli utenti non trova però altrettanta soddisfazione da parte degli azionisti. Dalla fondazione ad oggi, Twitter ha accumulato costantemente perdite. Rispetto a molte altre società high-tech, il valore dell’azione non è mai decollato e, oggi, quota quasi allo stesso prezzo del suo debutto nel 2013.

Ad occhi esperti, questa situazione è pienamente riconducibile ad una mancanza di chiarezza del modello di business, focalizzato sulla gratuità di accesso e sulla centralità delle entrate pubblicitarie che contano per il 90% del fatturato. L’altro 10% è dato dalla vendita di dati a pacchetto.

L’ingresso di Musk porta ad una totale revisione del modello di business, passando dall’idea del «tutto gratis» ad un abbonamento da 8 dollari al mese (per chi pubblica e non per chi legge). Secondo Musk vanno «tassati» gli editori per i loro contenuti prodotti (cosa in sé sorprendente e innovativa, perché di solito gli editori, soprattutto se famosi, vengono pagati per il loro diritto d’autore, anziché dover pagare per scrivere).

In realtà, in questo tentativo di riequilibrio, Musk fa leva sull’identità di una piattaforma che oggi è la più seguita dai giornalisti di tutto il mondo e su cui l’informazione prodotta ha una immediata ripercussione sulle notizie. E in un mondo dell’informazione così veloce come quello odierno, la rapidità di diffusione della notizia è un valore.

Peraltro, l’era del «tutto gratis» nel mondo di internet e dei social ha finito il suo ciclo e oggi non è più sostenibile non solo economicamente, ma anche socialmente. Essa infatti nasconde la grande insidia della vendita dei dati a terze parti per pubblicità o altri scopi (come ad esempio l’analisi dei dati in maniera aggregata, per valutazione di lanci di nuovi prodotti e campagne marketing). Senza arrivare a quanto accaduto per Cambridge Analytics, dove la finalità di manipolazione dei dati è stata usata in modo illecito, emerge una questione sociale di estrema importanza: non desideriamo che i nostri dati vadano in giro così liberamente! Così oggi preferiamo modelli di business a pagamento, dove non abbiamo interruzioni pubblicitarie e possiamo contare su servizi aggiuntivi. Netflix e Spotify sono gli apripista di questi modelli senza pubblicità e poco social, dove però si apprezzano i contenuti e i servizi.

E anche gli altri big del mondo high-tech, come ad esempio Meta (Facebook), sono in affanno per il loro modello ancorato alla gratuità e alla pubblicità.

Allora, in un’azienda che non fa profitti da 10 anni, dove la possibilità di bancarotta è sempre alle porte, ben venga un visionario che stravolge in chiave dirompente l’esistente, se è capace di riportare in asse un così importante mezzo di comunicazione e consentirne lo sviluppo futuro.

Wsj: «Meta, anche per Facebook arrivano i licenziamenti. A casa migliaia di persone». Redazione Economia su Il Corriere della Sera il 6 Novembre 2022

Meta, la società che controlla Facebook, starebbe per annunciare un piano di licenziamenti di massa a partire dalla prossima settimana. Lo rivelano alcune fonti al Wall Street Journal, secondo cui si tratterebbe di uno dei più grandi tagli di personale nell’ambito della recente ondata di crisi del settore tecnologico dopo la rapida crescita dell’industria durante la pandemia (che ha costretto anche Twitter a licenziare metà degli impiegati). I licenziamenti dovrebbero riguardare molte migliaia di dipendenti e l’annuncio sarebbe previsto per mercoledì prossimo. Alla fine di settembre, lavoravano per Meta più di 87 mila persone. I funzionari dell’azienda hanno già detto ai dipendenti di cancellare i viaggi non essenziali a partire da questa settimana.

Alla fine di giugno Zuckerberg aveva annunciato ai dipendenti che «realisticamente, in azienda ci sono probabilmente un po’ di persone che non dovrebbero essere qui». Durante la pandemia Meta, come altri giganti della tecnologia, ha fatto moltissime assunzioni: più di 27 mila nel 2020 e nel 2021, e poi altre 15.344 nei primi nove mesi di quest’anno, di cui circa un quarto nell’ultimo trimestre. Nel frattempo le azioni di Meta sono scese di oltre il 70% quest’anno: l’azienda ha dato la responsabilità al deterioramento generale della situazione economica, ma gli investitori sono stati spaventati anche dalle spese elevate e dalle minacce al core business dei social media. La crescita di questa attività in molti mercati si è peraltro arrestata a causa della forte concorrenza di TikTok, mentre la richiesta di Apple agli utenti di acconsentire al tracciamento dei loro dispositivi ha limitato la capacità delle piattaforme di social media di indirizzare gli annunci pubblicitari.

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I licenziamenti di Meta celano gli inaspettati passi indietro della digitalizzazione. Walter Ferri su L'Indipendente  il 10 novembre 2022.

Se ne parlava da giorni, se non da settimane, ma alla fine è successo: Meta si è accodata alla crescente lista di Big Tech che hanno compiuto ingenti tagli al personale nel disperato tentativo di ridurre i costi. Nello specifico, l’azienda guidata da Mark Zuckerberg ha messo senza troppe cerimonie alla porta il 13% della sua forza lavoro, ovvero più di 11.000 dipendenti. L’esempio di Meta non è anomalo, ma è estremamente eclatante ed evidenzia tanto una crisi del settore, quanto un cambio di rotta sulle previsioni di come la digitalizzazione stia attecchendo all’interno del tessuto sociale. 

Della questione avevamo già accennato a luglio, periodo in cui i giganti della tecnologia hanno iniziato a rallentare le previsioni di assunzione, tuttavia i fatti ci rivelano che la posizione allora pubblicamente adottata dai leader di categoria fosse tutto sommato ottimistica. A porte chiuse si parlava già di licenziamenti, ma ufficialmente l’imprenditoria doveva dimostrarsi propositiva e lanciata verso un futuro di crescita, così da non ammettere la parziale sconfitta che stava effettivamente subendo.

Le cause di questa “recessione” digitale vengono spiegate con precisione dallo stesso Zuckerberg: «all’inizio del Covid, il mondo si è rapidamente mosso online e la crescita dell’e-commerce ha portato a un aumento delle entrate fuori scala. Molti hanno predetto che questa accelerazione sarebbe stata permanente, che sarebbe proseguita anche in seguito alla conclusione della pandemia. […] Sfortunatamente questo non è stato il caso. Non solo il commercio online è tornato ai suoi numeri originari, ma la crisi macroeconomica, la crescente competizione e la perdita di indicatori delle inserzioni hanno motivato ritorni di molto inferiori di quando non mi aspettassi».

Il Big tra i Big, Meta, rinforza dunque l’idea da molti percepita che la conclusione delle restrizioni pandemiche – che non necessariamente coincide con la conclusione della pandemia – sia stata accompagnata da un desiderio di allontanarsi dallo schermo, piuttosto che dalla tendenza di perdersi all’interno del cyberspazio. Le cose sono perlopiù tornate a quella che pochi anni fa veniva considerata normalità, una tendenza che le testate specializzate in tecnologia etichettano infelicemente come “Great Reset”, forse non rendendosi conto che il colorito nomignolo si confonde facilmente con un omonimo progetto socio-finanziario tanto caro al World Economic Forum (WEF).

Questo rimando al passato non è altresì del tutto sincero, alcuni dati suggeriscono anzi che il tempo che le persone dedicano ad app e portali social siano ancora in aumento, piuttosto si può sostenere che a essere in dubbio sia il futuro digitalizzato prospettato da alcuni gatekeeper propensi al monopolio. La digitalizzazione prosegue, seppur più lentamente, il suo percorso, tuttavia dopo anni di abusi e comportamenti scorretti le Big Tech si trovano a dover convincere Governi e utenti che i servizi da loro forniti siano effettivamente in grado di aggiungere valore, di contribuire in qualche modo a migliorare la vita dei singoli individui e delle comunità tutte. [di Walter Ferri]

La grande crisi di Big Tech, tra licenziamenti di massa e flop: è come la fine della bolla delle dot-com nel 2000? Twitter, Meta-Facebook ma anche Stripe, Zillow, Peloton e tante altre: sono decine di migliaia i posti di lavoro persi. Amazon e Google fermano le assunzioni, Apple alla prese con problemi di produzione. Solo un aggiustamento dopo una crescita troppo rapida oppure è una crisi più strutturale, come quella di inizio XXI secolo? Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 7 Novembre 2022

Twitter ha licenziato venerdì scorso metà dei suoi 7.500 dipendenti (anche se ora ne sta richiamando alcuni essendosi accorta che, nella fretta imposta da Elon Musk, ha cacciato anche gente essenziale per il funzionamento della piattaforma). Quello stesso giorno, sempre a San Francisco, Lyft, l’alternativa a Uber nei servizi di trasporto individuale, ha licenziato 650 dei suoi 5.000 addetti mentre Stripe (software per pagamenti elettronici) ha messo alla porta 1.120 dipendenti. Nonostante l’elevata inflazione e il costo del denaro in forte crescita per il tentativo della Federal Reserve di raffreddare l’economia anche a costo di rischiare una recessione, i dati dicono che, dopo due trimestri negativi, il Pil degli Stati Uniti è tornato a crescere nel periodo luglio-settembre mentre anche a ottobre il mercato del lavoro è stato molto positivo: 263 mila occupati in più e disoccupazione scesa al 3,5%. Ma alla ripresa post pandemia di alcuni settori tradizionali – ristorazione, alberghi, trasporto aereo – fa riscontro, ormai dalla primavera scorsa, una brusca flessione delle imprese tecnologiche di ogni tipo: crollo dei profitti accompagnato prima da uno stop alle assunzioni (decretato in estate, ad esempio, da Amazon e Alphabet-Google), poi da ondate più o meno massicce di licenziamenti.

Dopo Twitter, Meta-Facebook

Quella più consistente potrebbe arrivare mercoledì con un brusco ridimensionamento della forza lavoro di Meta-Facebook, azienda che nell’ultimo anno ha perso addirittura il 70% del suo valore. I mercati la puniscono perché fatturato e profitti della pubblicità, cresciuti in modo spropositato negli anni scorsi, ora crollano, mentre il gruppo continua a investire decine di miliardi di dollari nell’avventura, dall’incerto futuro, del Metaverso. Mark Zuckerberg ha già detto che non intende fare passi indietro su questo fronte che considera essenziale per il futuro dell’impresa da lui fondata, ma ha promesso che Meta tirerà la cinghia nei suoi business tradizionali. O, meglio, la tireranno molti dei suoi 87 mila dipendenti. Secondo il Wall Street Journal l’azienda mercoledì annuncerà il licenziamento di molti di loro. Quanti? Le fonti del quotidiano dicono solo che saranno meno del 50% di Twitter. C’è chi parla di 10 mila, chi del 25% ma escludendo le grandi strutture di ricerca e sviluppo, soprattutto i Reality Labs, che Zuckerberg considera intoccabili.

Tutti tagliano

Ma i licenziamenti stanno arrivando, a pioggia, nelle aree più disparate dell’industria tecnologica: tagliano industrie elettroniche blasonate come la Philips (4.000 in meno tra Stati Uniti e Olanda) mentre a Boston DataRobot manda via 260 dei suoi mille tecnici e ingegneri. A Seattle Zillow, specializzata nella compravendita digitale di immobili, elimina 300 dei suoi 5.800 dipendenti a fronte di quella che viene definita «la crisi più dura del mercato real estate degli ultimi 40 anni». HelloFresh, fornitore di kit per pasti, tedesco ma con due terzi dell'attività negli Stati Uniti, dopo la rapidissima crescita negli anni della pandemia, ora licenzia 611 dipendenti mentre a Boston la Wayfair, gigante dell’arredamento online, ne manda via 870 e a New York Peloton, iconico produttore di cyclette, tapis roulants e altre attrezzature per il fitness collegate a Internet riduce gli organici di 500 unità. 

Effetto post pandemico o crisi strutturale?

Cosa sta succedendo? Un aggiustamento naturale dopo gli anni della pandemia quando, con la gente costretta ovunque dalla necessità della separazione fisica a rivolgersi ai servizi online, l’economia digitale è cresciuta a dismisura? O siamo di fronte a una crisi più strutturale come quella del 2000 quando esplose la prima bolla tecnologica? Probabilmente questa crisi è la somma di due fenomeni: sicuramente c’è il rallentamento fisiologico, post pandemia, del ricorso ad alcuni servizi online. Più sport all’aria aperta, meno fitness domestico, meno pasti consegnati a domicilio col ritorno al ristorante, mobili scelti nella showroom anziché vederli solo nei cataloghi digitali, e via di seguito. Ma questo sembra essere solo un fattore che accentua, esaspera, una crisi da crescita eccessiva che stava maturando da tempo. Sembra confermarlo il fatto che anche grandi industrie strategiche dei semiconduttori come Intel sono in crisi (in un anno ha perso metà del valore a pare si prepari a ridurre del 20% la sua forza lavoro).

Le eccezioni (per ora?): Amazon, Apple, Google, Microsoft

Mentre i tre giganti di big tech che per ora, pur avendo bloccato le assunzioni e fatto qualche taglio, non sembrano preparare massicci licenziamenti, cioè Microsoft, Amazon e Alphabet-Google attribuiscono buona parte della riduzione dei profitti al rallentamento delle loro attività nel cloud computing. 

Un caso a parte quello della Apple. Sfuggita fin qui alla crisi, la società di Cupertino ora deve, però, affrontare problemi di natura diversa: il taglio della produzione degli iPhone a causa della nuova ondata dei contagi Covid in Cina con conseguenti, nuovi lockdown nelle città dove si fabbricano gli smartphone. Nei prossimi anni, poi, l’azienda di Tim Cook dovrà districarsi tra i problemi logistici legati al trasferimento di molte produzioni negli Stati Uniti e in altri Paesi asiatici come il Vietnam, deciso per motivi economici e geostrategici. 

Amici e catorci. Matthew Perry e la dannazione di diventare famosi prima che tutti fossero famosi. Guia Soncini su L’Inkiesta il 5 Novembre 2022

L’autobiografia di Chandler-di-Friends parla di alcol e pastiglie e amanti, ma soprattutto di fama, che negli anni Novanta non era inflazionata come oggi

È il 1994 quando il ventiquattrenne Matthew Perry – che ancora non è Chandler di Friends perché Friends ancora non esiste – s’inginocchia sul pavimento del suo appartamentino di Los Angeles e dice a dio che può fargli tutto ciò che vuole, «basta che tu mi renda famoso».

Di “Friends, amanti, e la cosa terribile” (in Italia uscirà per La nave di Teseo) i giornali americani hanno scritto diffusamente. Delle amanti (quelle famose, da Julia Roberts a Gwyneth Paltrow, con la quale si trovò a pomiciare nella sua ultima estate da sconosciuto); di Friends (principalmente della Aniston, che amante non divenne perché accolse con «scoraggiante mancanza d’interesse» la cotta di Perry); e soprattutto della cosa terribile: le pastiglie, l’alcol, tutto quel che ha reso Perry un catorcio che, una volta letto il libro, è impossibile guardare come prima.

A me però pare che il tema dell’autobiografia di Chandler-di-Friends sia un altro. La fama. Trascrivo dalla pagina in cui s’è inginocchiato, una scena avvenuta tre settimane prima che lo scritturassero per Friends. Dice Perry che dio in effetti l’ha accontentato, ma che si è ricordato anche della prima parte della preghiera, e gli ha fatto veramente di tutto. (Sì, lo sa di essere stato lui a fare di tutto a sé stesso, ma è uno scrittore, e per il giro di frase si farebbe ammazzare).

«Dopo tutti questi anni, sono sicuro d’essere diventato famoso per non sprecare la mia intera vita a cercare di diventare famoso. Devi diventare famoso, per sapere che diventare famoso non è la risposta. Nessuno che non sia famoso ci crederà mai».

Lo so che non vi fa impressione: è perché è il 2022, e la fama è valuta corrente. Anche: è perché è il 2022, e la fama è inflazionata. Siamo tutti un po’ famosi, nessuno (quasi nessuno) lo è nella misura in cui lo era Chandler-di-Friends. Anche se persino i numeri ormai sono soggettivi, inquadriamola così: nelle annate deboli, negli Stati Uniti, Friends faceva venti milioni di spettatori, nelle annate forti trenta, il finale della serie lo videro in cinquantadue milioni (cinquantadue milioni seduti davanti al televisore in diretta, non calcolando quelli che l’hanno recuperato dopo in vhs).

Le piattaforme saggiamente si guardano bene dal diffondere i ridicoli numeri dei cosiddetti successi di oggi, quindi prendiamo un altro solido prodotto da rete generalista: alla tv americana, sono dieci anni che Grey’s Anatomy non supera i dieci milioni di spettatori; negli anni forti ne fa nove, in quelli deboli quattro.

Chandler-di-Friends era quello che alla tele veniva visto da cinquanta milioni di persone: la sua determinazione a essere famoso era ben riposta, e priva degli strumenti di oggi. Chandler-di-Friends lo conoscevano tutti: i turisti, e quindi se voleva andare in una clinica di disintossicazione in Svizzera doveva noleggiare un aereo privato; ma anche gli infermieri europei, per cui – quando gli si ferma il cuore durante uno dei molti interventi cui gli tocca sottoporsi essendosi letteralmente sfasciato di droghe – un colosso che «proprio non voleva che quello di Friends morisse sul suo tavolo operatorio» gli salta sul petto e gli fa cinque minuti di massaggio cardiaco, rompendogli energicamente otto costole. «Se non fossi stato in Friends, si sarebbe fermato dopo tre minuti? Friends mi aveva ancora una volta salvato la vita?».

Qualche tempo fa Chiara Ferragni ha chiesto su Instagram quanto avremmo pagato per avere dei contenuti in più da vedere sulla sua pagina, una sorta di abbonamento premium. Gli autopercepiti brillanti, quelli che passano le giornate a chiosare una realtà che non capiscono, si sono precipitati a riempire i social di «ma ti vediamo già fin troppo», non essendo loro chiaro come funzioni l’economia del sé. Ferragni, che lo capisce benino, sa che le sue borsette con l’occhio non ce le compriamo, ma per vedere più video di sua figlia che si rifiuta di dire «papà» altroché se siamo disposti a pagare.

(«Che cosa dirò quando completi sconosciuti mi ameranno, mi odieranno, e tutto quel che c’è nel mezzo», si chiede Perry rivisitando la sua ultima estate da non celebrità planetaria, prima che quel dio esaudisca quella sua preghiera, e non serve essere critici letterari per sapere che guaio siano le preghiere esaudite. La versione per Kindle dei libri ti fa vedere quali sono le frasi più sottolineate dai lettori. Tre giorni dopo l’uscita, una delle frasi più sottolineate nell’edizione americana del libro di Matthew Perry è: «Bisogna che proprio tutti i tuoi sogni si realizzino, perché tu ti renda conto che erano i sogni sbagliati». Ne avrei sottolineata una poco prima, che dice che la fama non riempie i buchi: li riempie la vodka – ma i lettori vogliono introspezione dolente, mica che la si butti in caciara).

Se proprio non riusciamo a essere famosi, vogliamo almeno che un famoso ci si fili, e su questa nevrosi si fonda una sottoeconomia di piattaforme sulle quali il famoso mette in offerta non i filmini dei figli ma i propri, personalizzati per noi della plebe. C’è una cifra con cui mio cognato può farsi dire «Guia, buon compleanno, sei proprio fortunata che tuo cognato ti voglia così bene» da attori, cantanti, sportivi, e tutto il cucuzzaro di celebrità a noleggio del ventunesimo secolo, sui vari Cameo, Vipresent, Hype Me.

A noleggio perché devono arrotondare: non sono più i tempi in cui il tuo telefilm lo guardavano in cinquanta milioni in una sera, e tu venivi pagato di conseguenza, e quando finivi di fare un po’ di anni in prima serata potevi anche non lavorare mai più. A un certo punto Julia Roberts manda un aereo privato a prendere Perry, che scrive «pensavo di essere ricco io: questa è ricchezza», e a quel punto sono passati cinque anni da Pretty Woman. Oggi, un’attrice con cinque solidi anni di carriera cinematografica prende la prima classe solo se paga lo sponsor.

Quindi, quando Elon Musk arriva e propone un tariffario col quale io posso mandare messaggi alla celebrità che non mi segue (che tu mi segua è stata fin qui precondizione perché io potessi scriverti in privato su Twitter) ma che decide di trarre profitto dalla mia urgenza di chiedere «Bobo Vieri, sono tanto tua fan, mi saluti?», non si capisce di cosa si scandalizzino tutti. Avete mai visto una diretta Instagram di un famoso? Li avete mai guardati i commenti? Tre quarti sono «mi saluti?»: certo che siamo disposti a pagare perché un famoso dica il nostro nome, certo che al famoso va bene arrotondare così.

L’unica cosa che ci piace quanto l’illusione che un famoso sappia il nostro nome è l’illusione che il famoso abbia i nostri stessi problemi. È la ragione per cui quello di Matthew Perry è il libro dell’anno: perché porta all’estremo la foto con un brufoletto che l’attrice strafiga instagramma dicendo che vuole farsi vedere imperfetta.

Nessuno è disposto a sputtanarsi quanto Perry. Sul sito di People c’è un’intervista video, e io non riesco a guardarla perché gli fisso i denti. Lo so che sono finti, ho letto quella parte del libro in cui gli saltano via prima gli incisivi e poi tutti gli altri, tra un disfacimento fisico e l’altro. E la valletta in me è devastata dalla lettura.

Come ogni valletta, voglio un uomo che mi faccia ridere, e quindi qualche anno fa Matthew Perry, forse l’americano coi migliori tempi comici tra quelli della mia generazione, era un mio sex symbol. E ora so che si è talmente sfasciato che a un certo punto gli hanno dovuto fare prima una coleostomia poi un’ileostomia (non ve lo dico cosa sono, se volete sentirvi male andate su Google), e ora so che i sacchetti che ti attaccano con questi interventi si sfasciano sempre.

«Ero in terapia da quando avevo diciott’anni, e se posso dire la verità a quel punto non avevo più bisogno di terapia: quello di cui avevo bisogno erano due incisivi, e un sacchetto della colostomia che non si rompesse. Quando dico che mi svegliavo ricoperto di merda, intendo: tra le cinquanta e le sessanta volte».

Fuori, i tabloid titolavano su Chandler in rehab, perché la fama te la dà e la fama te la toglie. Il padre di Matthew Perry gli ha raccontato che una sera da sbronzo si era reso ridicolo, e la moglie gli aveva detto ma ti pare, e lui era andato a fare una passeggiata e aveva deciso di smettere di bere. Il figlio quasi lo trova insultante. «Una passeggiata? Ho speso più di sette milioni di dollari cercando di disintossicarmi. Sono stato a seimila incontri della Alcolisti Anonimi. Sono stato in quindici cliniche di disintossicazione. Mi hanno internato in un reparto psichiatrico, vado in terapia due volte a settimana da trent’anni, sono stato per morire, e tu vai a fare una passeggiata?».

Il padre di Matthew Perry non è famoso, e non è ricco; una passeggiata è un lusso per anonimi che non si sono arricchiti vendendo in cambio l’anima al pubblico: «Mio padre non ha sette milioni di dollari da spendere in niente. La vita ti dà, la vita ti toglie».

L'anticipazione del saggio. Elogio e predicazione della banalità: come affrontare l’epoca digitale. Salvatore Patriarca su Il Riformista il 3 Novembre 2022 

Un tratto tipico dei sistemi complessi è che ogni elemento facente parte di tale complessità necessita di comprensione. La cultura e la società rientrano ovviamente in questa sorta di meccanismo metariflessivo. Anzi, in un momento nel quale la complessizzazione diviene il segno distintivo dell’epoca digitale, sembra non ci sia fenomeno che possa considerarsi estraneo alla complessità. E infatti tutto appare essere incluso in questo processo di continua metabolizzazione delle manifestazioni naturali e culturali, reali e simboliche, tecnologiche e virtuali. Almeno finché non si arriva davanti alla barriera che annulla ogni interesse significativo: la predicazione del banale.

«È una cosa banale» si dice in ambito oggettivo, oppure «È banale» se il riferimento è situazionale. Ma anche «Sei banale», se l’ambito è quello relazionale, e si potrebbe addirittura sfociare nell’auto-attribuzione di insignificanza: «Sono banale». Al di là delle infinite articolazioni che incontra la predicazione di quest’aggettivo, l’elemento che appare in prima istanza è l’assoluta comprensibilità di esso. Di fronte alla banalità non servono ulteriori commenti: è tutto lì. Qualcosa di autoevidente che non richiede ulteriore sforzo. Si potrebbe affermare, prendendo a prestito un’immagine fumettistica, che la banalità sia la kryptonite della complessità. E come accade a Superman che perde i propri poteri a contatto con il materiale proveniente dal suo pianeta d’origine, così avviene al complesso quando incontra il banale. Smette di essere loquace, non ha più bisogno di declinare se stesso. La comparazione con la kryptonite potrebbe essere svolta ulteriormente, perché anche la banalità rappresenta in qualche modo il passato della complessità. Una specie di complicatezza che ormai ha detto tutto e sulla quale diventa inutile soffermarsi ulteriormente.

E se invece, come la kryptonite che permette di comprendere numerosi aspetti della natura di Superman, il banale fosse uno strumento sinora poco utilizzato per entrare nelle dinamiche che caratterizzano l’attualità digitale e coglierne alcune implicite dinamiche operative, soprattutto rispetto alla costituzione della singolare identità del sé e al conseguente rapporto con la comunità? In altre parole, è forse giunto il tempo di prendere sul serio il banale. Circoscrivere una seppur parziale semantica del banale è un’operazione essenziale, perché permette di cogliere quanto pervasiva sia la presenza del banale nel quotidiano orizzonte di considerazione del vivere; e in tale orizzonte va incluso tanto quello del sé quanto quello comunitario della pluralità dei sé. Emerge da subito uno degli aspetti più particolari e decisivi della banalità o, meglio, della sua predicazione: una componente assiologica e morale. Essere banale, comportarsi banalmente, essere considerati tali sono tutte connotazioni che scivolano via via verso una componente valoriale di negatività. Il banale è una negatività in senso generale. La persona banale è invece una persona che è manchevole in senso specifico, a livello morale, come se non avesse la capacità di realizzare davvero se stessa e il compito che inerisce la propria natura.

Proprio questo squarcio verso la dimensione morale che coinvolge in maniera essenziale il tema della singolarità proietta lo sviluppo della riflessione verso una peculiare relazione che sembra caratterizzare la stessa fondazione dell’identità del sé nella contrapposizione all’essere banale. Si sviluppa un approfondimento che articola il banale e alcuni suoi contraria come la creatività, la novità e la distinzione. Rimane alla fine. come superstite significativa, una singolarità connotata in maniera autoaffermativa che riesce ad essere se stessa solo nella negazione dell’esistente e dell’altro da sé. Questa dinamica si realizza nei fenomeni ormai molto diffusi delle pratiche meditative/comportamentali a sostegno della specificità/differenzialità della singolarità, quanto nel ritorno di un primato della cura del corpo inteso come primaria forma d’espressione dell’eccezionalità del sé. Entrambe queste modalità affermative dimostrano una specifica inclinazione verso una componente metaforica improntata a un linguaggio performativo e a una retorica dell’azione come dell’atto differenziante.

La figura che ne risulta possiede i tratti di quella che potrebbe definirsi come una banalità consumata. È come se il reale, lo spazio comune che eccede la sfera del sé, venga progressivamente eroso dalla dinamica distintiva e venga condannato ad essere il serbatoio di ordinarietà da logorare attraverso il continuo movimento di separazione singolare. A questo primo movimento della banalità che si connota in maniera sottrattiva se ne contrappone un secondo di segno contrario, vale a dire accumulativo. Per cogliere questo processo bisogna rivolgersi ad alcune caratteristiche precipue dell’era digitale. Il primo elemento da prendere in considerazione è l’approccio modulare dell’informatica. Alla base di tutto c’è un dato, singolo, specifico, delimitabile, analizzabile, componibile; esso viene accumulato attraverso le reiterazioni d’uso, il replicarsi del calcolo connettivo, e si sviluppa verso modelli sempre più estesi, inclusivi e predittivi.

A fornire questa elaborazione è proprio la molteplicità dei sé che con l’espressività e la distinzione permettono la definizione di modelli comportamentali ed esperienziali. Si definisce così l’altra dimensione della banalità: l’attitudine accumulativa del digitale. Ogni singolarità diventa strumento di costruzione di un modello generalizzante. La libertà dalla banalità ricercata attraverso la differenziazione espressiva conduce verso un’ulteriore forma di banalizzazione che si nutre dell’accumulazione dei dati e della loro elaborazione. Tanto più il sé consuma il banale esistente, tanto più contribuisce a costruire l’accumulo di banalità del digitale; ogni novità nel mondo digitale è già sempre modello; ogni posizione di creatività già sempre in una diffusiva ordinarietà banale.

C’è inoltre una banalità necessaria che va accettata e trasformata utilmente. L’espressionismo del sé frantuma la comunità e isola la stessa singolarità. Bisogna recuperare gli echi dell’appartenenza comunitaria, e non solamente consumarli in un affannoso movimento distintivo. L’orizzonte comunitario è lo spazio che permette al sé e all’altro da sé di essere nella distinzione proprio perché garantisce l’ordinarietà condivisa. Lo spazio comunitario rappresenta la precondizione per ogni sé sia a livello identificativo sia a livello espressivo. La stessa dinamica di evoluzione della dimensione culturale umana si fonda infatti sui processi di condivisione delle esperienze, sulla sedimentazione di quelle più efficaci, sul contributo di ampliamento che ogni singolo apporta nel processo di evoluzione. Da qui passano l’elogio e l’accettazione necessari della banalità: riscoprire la dimensione partecipativa della costruzione di senso, evitando ogni tentazione totalizzante. Salvatore Patriarca

Paura del silenzio. La fine della società adulta, e noi. Guia Soncini su L'Inkiesta il 27 Ottobre 2022

Tutti bramano di apparire alla mano, carini e adolescenti perché nessuno sopporta l’impopolarità, e per questo siamo diventati tutti quindicenni

«La verità è che i ricchi e famosi sono da sempre cafoni con la servitù. Non è una bella cosa, ma fino a poco fa non era neanche una notizia. Adesso i social danno a ogni ristoratore, tata, scenografo, e passante che origlia una piattaforma in grado di raggiungere una platea globale. È molto più difficile, per la gente famosa, controllare la propria immagine, e quasi impossibile mantenere una reputazione impeccabile. Essere noti per la propria carineria è pericoloso».

L’ha scritto un critico culturale sul New York Times, giacché abitiamo un occidente così decaduto che ai critici culturali tocca commentare il fatto che sui giornali americani è una settimana che si parla d’un conduttore televisivo che avrebbe dato dell’incapace al cameriere di ristorante costoso che aveva più volte servito alla sua tavolata piatti sbagliati. È la storia meno interessante del mondo, e lui (il critico) ha fatto quel che poteva: l’ha presa dal lato della condanna alla simpatia.

Che fine hanno fatto gli adulti? Non quelli anagrafici: quelli disposti a comportarsi da adulti, e quindi anche a essere antipatici. Scorro i social dei politici, cerco un adulto disposto a essere sgradevolmente non quindicenne, e mi viene un dubbio: sono scomparsi assieme agli antipatici?

Quando avevo vent’anni c’era una canzone di De Gregori che diceva «i simpatici mi stanno antipatici, i comici mi rendono triste, mi fa paura il silenzio ma non sopporto il rumore». Di quei versi lì, l’unico ancora valido per le masse è «mi fa paura il silenzio». Il silenzio ci pare inconcepibile.

Un paio di settimane fa Stefano Bonaccini, presidente della regione Emilia Romagna e forse prossimo segretario del Pd (parlandone da vivo), ha twittato «Auguri, tesoro», con allegata foto di femmina, immagino sua moglie o fidanzata. Non ce l’aveva in casa, per farle gli auguri? Non ne aveva il numero di telefono? Probabilmente sì, ma esiste solo ciò che esiste in pubblico.

Se fate un giro sugli Instagram dei famosi, sono pieni di auguri di compleanno ad altri famosi di cui hanno il numero di telefono ma se non gli fanno gli auguri in pubblico poi magari esce un articolo che dice che hanno bisticciato. Ci fa paurissima il silenzio, sopportiamo benissimo il rumore.

Vogliono essere tutti simpatici, persino quelli che sembra facciano la gara contraria, persino quelli fatti a forma di caratterista antipatico di film dei Vanzina: Calenda, Salvini. Qualcuno ha ritagliato cinque tragici secondi d’una diretta TikTok di Matteo Salvini, il senatore legge i commenti, nella fattispecie questo: «Emmebi01 scrive un pensiero importante: ti cago in bocca».

Si può usare l’ostilità per catalizzare affetto? Certo che sì, sull’internet non si fa praticamente altro, e Salvini ha per l’internet lo stesso istinto di quelle che ci vendono mutande d’acrilico e penzierini sull’endometriosi. Guardate, mi attaccano, ma io resisto agli strali e sono qui a intrattenervi. Guardate, ho gli antipatizzanti: non mi trovate simpatico?

Persino Carlo Calenda, che pure ha impostato praticamente tutta la sua comunicazione su toni sprezzanti e determinazione a ribadirci quanto facciamo schifo come nazione (non che avesse tuttissimi i torti), ha un’aria sinceramente attonita quando non viene trattato come il più simpatico della scuola: si capisce che non vuol essere antipatico, vuol essere così naturalmente simpatico da venire amato anche se non si sforza di comportarsi da simpatico.

Sono tutti quindicenni cui piace piacere, forse perché gli preme piacere ai quindicenni. Hanno tutti dei figli, credo sia anche quello il problema. Piers Morgan, che fa il giornalista da quando io ero al liceo e ha diretto il suo primo giornale (il News of the World) a 29 anni, è stato ospite del podcast di Jordan Peterson, psicologo canadese che l’internet ama odiare. Prima del podcast, era stato Morgan a intervistare Peterson, e nel podcast gli spiega che è stato il figlio – che come tutti i ventenni non guarda la tv ma guarda YouTube, dove Peterson è una star – a spiegargli l’approccio giusto.

Papà, avrebbe detto il ventiequalcosenne al padre cinquantasettenne che fa interviste da più di trent’anni, l’arma più potente d’un intervistatore televisivo è il silenzio: l’intervistato si sentirà in imbarazzo, vorrà riempirlo, dirà qualcosa. La smania dei genitori della mia generazione di far sentire rilevanti i figli è sempre uno spettacolo straziante, ma non l’avevo mai vista arrivare a sostenere che la prima regola ovvia di qualunque intervistatore l’avesse dovuta svelare, a un intervistatore di lunghissimo corso, il figlio che puzza ancora di latte.

È che ormai dire che il mondo è del puccettone di mamma sua è l’unico modo certo e rapido di risultare simpatico alle folle, comportarsi come se del puccettone di mamma sua si fosse coetanei è l’unica modalità accettata, e da questo disastro forse non torneremo mai più indietro.

Ben Elton, autore comico inglese con molti antipatizzanti, prima che Liz Truss si dimettesse ha dato un’intervista al Times in cui a un certo punto diceva della Thatcher: «Era una politica che aveva profondi princîpi – e a me i suoi princîpi facevano schifo. Ma rispettavo il suo essere disposta a essere impopolare. Odiavo le sue azioni, ma rispettavo il suo carattere. Il problema con Truss è che sembra motivata solo dall’ambizione. Non ha princîpi coerenti, e questo è un riflesso di ciò che sta accadendo in generale alla politica».

Non vorrei generalizzare (era lo stesso Elton a raccomandare caldamente di non farlo, «Dobbiamo credere nella democrazia, se ci mettiamo a dire che tutti i politici fanno schifo ci ritroviamo col fascismo»), ma temo che il riflesso – su Truss, su tutti – di ciò che sta accadendo all’umanità sia che vogliamo risultare simpatici, alla mano, gradevoli, infantili. Non è per ambizione, che non siamo disposti a essere impopolari: è perché ci terrorizza il silenzio e che nessuno ci chieda più se possiamo fare un selfie assieme.

Perciò ci adeguiamo a ciò che la società – delle madri, dei puccettoni, dei cuoricini – esige per classificarci come simpatici. Non troppo adulti che annoia, non troppo colti che spaventa, non troppo ricchi che inquina (la povera Ferragni è finita a doversi far fotografare in economy, e neppure intende candidarsi a nulla, ma le leggi del consenso sono uguali per tutti).

Racconta quel critico del NYT che il comico John Mulaney sta portando in giro uno spettacolo in cui dice che piacere è una prigione. Essere simpatici è una galera, per saperlo basta essere mai stati in un luogo pubblico con una persona famosa, costretta a farsi autoscatti sorridenti con gente che non necessariamente la ammira: più spesso sa che è una persona famosa, e non vuole sprecare l’occasione d’averci una foto, la considera un proprio diritto, e la tapina celebrità deve sorridere e non dire ma che minchia vuoi da me, che neanche hai mai visto un mio film, altrimenti il tizio che fin lì non sapeva di che fama fosse famoso quello lì diverrà il suo più dettagliato detrattore, e dirà a tutta l’internet che altro che reputazione impeccabile, quel noto cafone.

Quand’avevo ventiquattr’anni c’era una canzone di Guccini che diceva «spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato»: all’epoca c’immedesimavamo tutti tantissimo nel suo Cyrano che preferiva la verità alla popolarità; oggi verrebbe liquidato come un insopportabile controcorrentista. Oggi che la Thatcher, a ogni «There’s no such thing as society», dovrebbe premettere: lo dico come madre.

 Agenda Soncini. Caro Instagram, con tutto il rispetto, ma chi ti conosce? Guia Soncini su L'Inkiesta il 25 Ottobre 2022.

Domenica ho pubblicato una storia sull’acquisto di un Smythson ma per l’algoritmo il contenuto incitava all’odio. Vi annuncio che la mia carriera di influencer è finita prima di cominciare

È con tristezza, delusione, e la frustrazione di chi vede i propri sogni svanire che vi annuncio che la mia carriera di influencer è finita prima di cominciare. Prima del primo video in cui promuovere una tisana dimagrante, un topper, un aspirapolvere, un paio di mutande d’acrilico.

Né più mai toccherò le sacre gifted, ove il mio corpo fanciulletto in adv – scusate, mi sono fatta prendere la mano, ma capite bene che è un momento di confusione mentale, fatico a prendere atto della fine d’ogni mia speranza.

È accaduto, infatti, che domenica mi sia accinta, come ogni ultima settimana d’ottobre della mia vita, a comprare un’agenda. Accade che ogni ottobre io vada a ordinare questa benedetta agenda sul sito dell’azienda inglese che la produce (Smythson, posso pure dire la marca gratis, tanto ormai è chiaro che nessuno mi pagherà più per dire le marche che uso, il mio sogno di bambina è svanito, né più mai potrò annunciarvi che consegniamo in tutta Italia isole comprese). Accade che ogni ottobre non mi ricordi quale dei loro millemila modelli di agende io voglia.

Certo che ho l’agenda dell’anno in corso, ma non ho mai sottomano un metro da sarta (ce ne saranno cinque, in casa, in una casa in cui nessuno ha mai neppure riattaccato un bottone: accessori abusivi da sartoria, oltretutto introvabili quando servono): non posso misurare quant’è grande quella che mi va bene, e quindi di quale misura devo sceglierla.

Perdipiù, della stessa misura questi ipertrofici dell’assortimento ne fanno varie tipologie, e insomma io ogni ottobre scrivo alla mia amica che compra la stessa agenda e le chiedo di dirmi quale perché da sola non sono in grado.

Poiché domenica mi sentivo socievole (ma pensa te), ho fotografato la ricerca di Google delle agende, e ho pubblicato nelle storie di Instagram la pagina, scrivendoci su che come ogni fine ottobre, essendo rimbambita, avrei dovuto chiedere alla mia amica che agenda volessi.

Qualche ora dopo ho aperto Instagram, e mi è comparsa una schermata che diceva «La tua storia non rispetta le nostre Linee guida della community» (maiuscole e sintassi analfabete come nell’originale). «Abbiamo rimosso il tuo contenuto storia perché viola le nostre Linee guida della community in materia di discorsi o simboli che incitano all’odio. Se pubblichi di nuovo qualcosa che viola le nostre linee guida, il tuo account potrebbe essere eliminato, compresi post, archivio, messaggi e follower».

Clicco «Ok» perché non c’è alcuna altra opzione, e perché – essendo ottimista in modi che la realtà non giustifica, e l’algoritmo giustifica ancora meno – sono convinta che a una schermata successiva mi comparirà la possibilità di obiettare «ma cosa cazzo dite, rincoglioniti: le agende azzurre in cima alla pagina di Google incitano all’odio di chi, di chi non può permettersi un’agenda che costa come cinque vestiti d’acrilico?».

Invece la schermata successiva dice così: «Avviso relativo all’account. Il tuo account potrebbe essere eliminato. Alcuni dei post precedenti non rispettavano le nostre Linee guida della community. Se impari e rispetti le nostre linee guida, puoi evitare che il tuo account venga eliminato». Sotto, c’è una lista di minuscole fotine di storie già eliminate dal zelante algoritmo che scambia un’agenda per il Mein Kampf o per vai a sapere cosa.

Riconosco solo la penultima, l’avviso mi dice che è stata eliminata per «violenza e istigazione alla violenza» la sera del 5 luglio. È la foto d’un pacco arrivato da una casa editrice, chiuso con degli impossibili legacci. Nell’angolo si vedeva un coltello da cucina.

Ricordo che all’epoca pensai: questo fesso algoritmo ha scambiato il coltello per un’arma fotografando la quale invitavo a un duello all’arma bianca, mica aprivo un pacco. Porello, fosse intelligente sarebbe un algoritmo cinese, invece è californiano ed è fesso. Cioè: riuscivo a ricostruire la scemenza della sua logica.

Perché io la scemenza la do per scontata – sennò ogni dieci minuti che passo sui social mi butterei dalla finestra – ma esigo che essa abbia una sua logica interna. Quando l’algoritmo ti castiga per una storia in cui ci sono delle foto di agende, e in cui la parola più forte che usi – e rivolta a te stessa – è «rimbambita», la logica va a meretrici e io abbandono il gioco.

Il che è un peccato, perché Instagram è ottimo, se non per farsi pagare dalle aziende per lodare i loro prodotti, almeno per cazziarle quando non sanno fare il loro lavoro (Cortilia, dico a te: ho ritardato d’un giorno il mio andarmene sdegnata da Instagram solo per la tigna di dirti quanto siete cialtroni). È un peccato, ma io non posso restare in un posto in cui non solo non fatturo (produttori di mutande d’acrilico, sentitevi in colpa a non avermi mai ingaggiata) ma in cui mi trattano pure come una dodicenne che deve mangiare le verdure e fare i compiti.

Se impari e rispetti le nostre linee guida poi puoi guardare mezz’ora di televisione e mangiare una Girella Motta dopo cena. Ma chi vi conosce, ma chi vi ha illuso che possiate darmi degli ultimatum, ma non vi permettete.

Ho amici che, quando un social cancella qualcosa di loro, fanno una sleppa di post indignati in cui si atteggiano a censurati dai poteri forti e si comportano come se avessero comprato uno spazio pubblicitario e la concessionaria non adempiesse al contratto.

A loro dico sempre ma che diavolo vuoi, la piattaforma è la loro, te la lasciano usare gratis, decideranno loro le regole della stanza dei giochi cui ti danno accesso. Lo penso ancora. Ma non posso stare col patema che, se domani posto la foto d’un topper chiedendo consigli sulle marche migliori, quelli scambino il topper per una divisa nazista (algoritmi che equivocano un’agenda son capaci di qualunque follia) e mi cancellino tutto l’account – il preziosissimo account che mi è indispensabile per guardare i video delle militanti ottuse e quelli dei figli della Ferragni –  o peggio mi minaccino di farlo.

Ho sempre avuto problemi con la disciplina, persino quando avevo l’età giusta per subirla. Figuriamoci se sono arrivata a cinquant’anni per farmi minacciare da uno stolido algoritmo di venire mandata a letto senza cena. E senza neanche un adv sul digiuno intermittente.

Nonna Guia. Il mondo (social) alla fine del mondo (quello vero). Guia Soncini su L'Inkiesta il 10 Ottobre 2022.

Arriveremo al termine delle nostre vite senza sapere perché l’umanità abbia inventato TikTok e gli altri strumenti che hanno ormai fritto le nostre sinapsi. E soprattutto perché nessuno ci ha più detto «Ti porto a zappare l’orto, vedrai come ti passa» 

Che cos’hanno fatto i social network al cervello della ragazzina che piange su TikTok perché la vittoria della Meloni ostacolerà il suo diritto di farsi scrivere “non binary” sui documenti? Che cos’hanno fatto i social network al cervello di Jon Stewart? Che cos’hanno fatto i social network al cervello di quelli la cui vita sentimentale si è sempre e solo svolta su Tinder? Che cos’hanno fatto i social network al cervello di Anna Delvey? Che cos’hanno fatto i social network al vostro cervello, o al mio?

Per quando i neurologi avranno abbastanza anni di dati da dircelo, da dirci come l’umanità ha inventato lo strumento che avrebbe fritto le sue sinapsi e poi ci si è accomodata dentro, sarete morti di vecchiaia voi che leggete ma, quel che è più grave, anche io che scrivo. Arriveremo alla fine delle nostre vite senza sapere come siamo diventati gli alieni in quella scena di “Mars Attacks!” in cui la musica country fa esplodere i cervelli dei marziani invasori.

Di Anna Delvey avete letto, o più probabilmente avete visto lo sceneggiato Netflix, “Inventing Anna”. È la ragazza un po’ russa e un po’ tedesca che per anni, approfittando della difficoltà di riconoscere una mitomane in anni in cui la mitomania è di serie, si è finta ricchissima riuscendo così a farsi dare soldi dall’alta società newyorkese (l’unico modo per farsi fare un prestito è apparire già ricche, questo non ce l’ha insegnato Anna ma la squattrinata Rossella O’Hara, nella scena in cui si faceva un vestito con le tende per andare a trovare il ricco Rhett in prigione).

Alla fine l’hanno processata e condannata per, tra le altre cose, aver usato un jet privato senza pagarlo (è successo prima: oggi le toccherebbe, per aver con quel volo inquinato, un secondo processo social per leso ambientalismo e cancelletti furibondi). Venerdì è uscita di galera e ha dato un’intervista al New York Times. Non dice niente d’interessante (ha molti progetti per il futuro, come le soubrette anziane), ma l’intervistatrice riporta che una delle condizioni degli arresti domiciliari è che stia lontana dai social network.

Il giudice ci è arrivato in modo spiccio, non ha atteso gli studi sulle sinapsi: se sei un’esibizionista millantatrice, Instagram condurrà alla rovina forse chi ti segue e sicuramente te. Se sei Anna Sorokina in arte (della truffa) Delvey, toglierti i social è come togliere l’eroina a Cristiana F.: una precondizione per tutto il resto.

C’è un’umanità, non dico adulta ma con diritto di voto, che senza i social non ha mai vissuto: quelle bettole che si danno un tono esistono da quando questi disgraziati erano all’asilo o alle elementari, essi non sanno cosa significhi muoversi in un mondo che ne è privo. Ci sono due recenti conversazioni su Twitter abbastanza sconvolgenti per il pubblico adulto, ognuna con migliaia di risposte.

La prima è il corrispondente sentimentale di «mi chiedo come facesse l’umanità a nutrirsi prima di Glovo». La ragazza articolava in un paio di tweet la sua perplessità: «Non riesco a capire come le persone trovassero l’amore prima dei social e delle dating app. Accontentarsi era la norma? Oppure tutti magicamente si sentivano attratti dalla persona seduta vicino a loro in classe? Ho chiesto al mio rabbino come si sono incontrati lui e la moglie: l’ha vista per caso mentre era in visita alla sua università, ha chiesto in giro come si chiamasse, anni dopo ha visto quel nome tra gli inquilini d’un palazzo in cui s’era appena trasferito in un altro stato! Cioè, una sequenza di eventi che non accadrà più d’una volta nella storia dell’umanità».

Insomma, la ragazza si chiedeva che inferno passassimo senza trovare anime gemelle sulle app di rimorchio, cioè senza vagliare prima d’incontrarlo che anche a Brocco97 piacessero Christopher Nolan e il gelato al pistacchio. L’avevo quasi dimenticata, poi ieri è arrivato il tweet perfettamente complementare. Fa così: «Le ragazze si mandano messaggi in cui dicono “sto andando a un appuntamento con un ragazzo che dovrebbe chiamarsi Brian, la geolocalizzazione è questa, se mi ammazza questa è la foto che ha su Bumble così potete farlo processare”, e le amiche rispondono “Ricevuto, sarà fatto, divertiti”».

Sotto a questo tweet, che a qualunque persona cresciuta in anni in cui avevamo neuroni normali e rimorchiavamo gente nei bar o ai giardinetti o in chiesa o alle feste o a scuola sembra la cronaca d’una follia, ci sono migliaia di risposte che non solo considerano la descrizione normale ma rilanciano. Anche noi gay lo facciamo, gli unici che non escono con qualcuno senza il terrore di venire ammazzati sono i maschi etero. La mia amica al primo appuntamento ha un segnalatore gps cucito nel reggiseno. Le mie amiche si sono presentate alle due di notte nel posto dov’ero col mio appuntamento perché era passata l’ora in cui le avviso che sono ancora viva dopo un primo appuntamento.

A parte che vorrei sapere perché l’esistenza di questo universo da incubo devo scoprirla da Twitter e se gli sceneggiatori dormono in piedi o cosa, ci sono due elementi che m’impediscono di capire una realtà che non mi appartiene e un tempo al quale sono per fortuna estranea. Uno è: ma quindi la possibilità di combinare un appuntamento via app ha completamente privato i vostri cervelli della capacità di notare un tizio carino a un tavolo del vostro stesso bar? Vengono date possibilità romantiche solo a Brocco97, il cui principale atout è essere uno che non avete mai incontrato?

La seconda questione, che è un sottoinsieme della macroquestione «Dio, lo so che non esisti, ma grazie di non avermi fatto avere vent’anni in questo secolo», è: se io avessi temuto che ogni primo appuntamento mi facesse diventare caso di cronaca nera, sarei ancora vergine. Non so – data la natura iperbolica del mezzo – se i timori di venire uccise raccontati sui social siano reali, ma posso assicurarvi, disperate ragazze mie, che non sono il normale prezzo da pagare allo scopare in giro. Vi assicuro che è esistito un tempo in cui nessuno si preoccupava che tornassimo a casa vive, perché l’alternativa era eccezionale. (Sospetto lo sia anche adesso: non mi pare la cronaca nera sia piena di tizie assassinate da Brocco97 quanto la postura sui social lascerebbe pensare).

Quando Jon Stewart ha deciso di smettere di condurre il Daily Show, a metà del 2015, vivevamo talmente in un altro mondo che l’ospite simbolico a chiudere il programma era Louis CK, allora il più presentabile tra i comici in circolazione. I successivi sei anni, Stewart li ha passati in una fattoria dove, oltre a diventare vegano, ha dato rifugio con la moglie ad animali maltrattati.

Quando è tornato, un anno fa su Apple+, aveva smesso di capire il mondo. Tra una puntata e l’altra fa dei podcast in cui parla coi suoi autori, venticinquenni che sembrano usciti da una versione postmoderna di United Colors of Benetton, ed è uno strazio vederlo perché mina una delle nostre principali certezze.

Specialmente in Europa, se vedi un adulto andar dietro alle istanze identitariste, puoi star certa che sia professionalmente un fallito. Uno che non ha combinato talmente niente nella vita che non gli resta che provare a vendere ai quindicenni libri che dicano quel che i quindicenni vogliono sentirsi dire. Con cui talmente nessun adulto ha voglia di parlare che ti spiega seriamente che i figli sono i suoi migliori amici. Ma Jon Stewart era il migliore. Il più figo, il più lucido, il più sagace.

La settimana scorsa è cominciata la seconda stagione di “The Problem with Jon Stewart”, e c’era lui che ci spiegava che non riempire di ormoni un bambino che si percepisce femmina è come non fare la chemio a un bambino col cancro. Pur essendo il migliore, se stai sei anni in campagna con le capre e guardi il mondo solo dai social, torni che ti si è fritto il cervello.

«Sono Sara, ho sedici anni, sono uno studente, e ad oggi non ho diritti». Sara e le sue eufoniche a casaccio e le sue concordanze non mammifere le ho viste solo su TikTok, il giorno dopo le elezioni, quando spiegava di far parte della comunità LBGT e le altre consonanti «da sette anni». Cioè da quando ne aveva nove.

Sara piangeva disperata perché ora non le scriveranno sui documenti che non è binaria (forse, oltre al voto ai sedicenni, Letta aveva promesso pure documenti non mammiferi, e io me lo sono perso). Sara però alla frase dopo piangeva per i suoi diritti di donna.

Quale YouTuber americano avrà messo nella testa di Sara queste scemenze? E quale realtà può competere con quel TikTok in cui Sara piange il proprio destino di mammifera senza che nessuno le dica «ti porto a zappare l’orto, vedrai come ti passa»? Sono diventata mia nonna, lo so. D’altra parte era una nonna, quella che metteva su la musica country facendo esplodere i cervelli agli alieni, prima che l’internet ci permettesse di fare tutti i personaggi ed essere tutto noi: la nonna, gli alieni, la musica, e soprattutto i cervelli esplosi.

Sono come tu mi vuoi. Il vescovo influencer e quelli che chiedono a te, proprio a te, che non sai nulla. Guia Soncini su L'Inkiesta il 4 Ottobre 2022.

Nessuno può permettersi di andare contro un pubblico che si sente come Kathy Bates di Misery non deve morire: tutti convinti di essere il fan numero uno e che tutto sia dovuto 

George Orwell era ricco di famiglia. Altrimenti non gli sarebbe mai venuto in mente d’elaborare il lussuoso concetto che gli intellettuali avessero il dovere di dire alla gente ciò che la gente non vuole sentirsi dire.

Neppure George Orwell, tuttavia, sarebbe così ardito da proporre temi e modi che vadano contro al consenso popolare oggi, che il consenso popolare guida in maniera indifferenziata tutto: la letteratura e la biancheria d’acrilico, la Chiesa e le capsule per il caffè espresso, l’istruzione e i reality.

Domenica sera ho detto all’internet una cosa che l’internet non vuole sentirsi dire (una dei milioni di cose che), e c’è stato il solito tamponamento a catena. Poiché la mia piroetta dialettica riguardava il diritto di lavorare nei consultori di chi ha rispetto al sesso un approccio simile a quello della moglie del Gattopardo, l’internet ha dato in escandescenze in modi mirabolanti (il consenso popolare è che non si devono permettere di dirci cosa fare capitooooo; non: di impedirci di farlo, quello accade ogni giorno grazie a una legge – la 194 – che gode del consenso popolare, il quale quindi si rifà sulla libertà d’espressione).

Nello spettacolo d’arte varia che ne è seguito mi sono presa della ciellina, di quella contraria agli anticoncezionali, e di colei che farebbe qualunque cosa per un cuoricino social. Una mia amica col dono della sintesi ha concluso: un vescovo influencer. Pensavamo fosse un ossimoro. La realtà ci ha come sempre superate quasi subito (è un secolo in cui la realtà è molto competitiva nei confronti della satira sociale).

Ieri mattina, lunedì, abbiamo tutti letto questo tweet: «Cari amici e lettori, vorrei iniziare a utilizzare questa piattaforma in modo più vario e dinamico, per condividere, conoscere, ascoltare. Chiedo a voi, quindi: cosa vi piacerebbe leggere? Che tipo di contenuti apprezzate?».

È Chiara Ferragni, la migliore delle figliocce di Angelo Guglielmi, che vuole rassicurazioni sulla mescolanza di alto e basso e ci domanda su quale piattaforma vogliamo farci vendere da lei sottomarche di gallette e su quale vestiti d’haute couture?

È una qualche aspirante Oriana Fallaci che s’assicura che il pubblico la segua nel giornalismo scomodo che quest’epoca si può permettere, e affida al televoto la prossima inchiesta: gattini abbandonati che nessuno adotta? Mancanza di pos sui taxi? Miliardari che si ostinano a non volare EasyJet? Quale scandalo preferite, o popolo dei like?

È Alfonso Signorini che si affida ai favori del pubblico per sistemare l’ultimo scandalo del penultimo reality, che cosa volete in trasmissione, l’editoriale sulla salute mentale, la famiglia del depresso, lo psichiatra che ci consiglia le goccine?

Macché: è Gianfranco Ravasi, ottant’anni tra due settimane, teologo e cardinale – o, come direbbe la mia amica, vescovo influencer.

I follower di Ravasi, nel rispettabile numero di centoquindicimila (ma coi contenuti a richiesta non potranno che aumentare), chiedono lezioni di teologia e commenti all’attualità, qualcuno chiede la Verità (sì, con la maiuscola), i più chiedono quel che chiede il pubblico di oggi: d’imparare in duecentottanta battute di tweet (o in due minuti di TikTok) quel che una volta si studiava una vita per sapere. C’era una volta il Bignami, era per gli asini: adesso è la scelta dei secchioni.

«Sono come tu mi vuoi» era la flautata promessa di Mina in uno spot Barilla di cinquantacinque anni fa, quando gli unici tenuti a fare ciò che il pubblico voleva erano gli industriali: faccio i rigatoni come tu li vuoi. Mina, nello spot, cantava in una galleria di specchi, il che è – converrete – poderosa metafora del presente. Se già cinquantacinque anni fa nel comprare un rigatone volevamo specchiarci, possiamo aspettarci che in questa epoca in cui ci specchiamo nel telefono non pretendiamo di rimirarci nel consumo di articoli e tweet, di mutande d’acrilico e reality?

Ieri il povero Zerocalcare ha pubblicato un video prospettando l’inferno, ovvero il firmacopie. Trattasi di quell’attività in cui gli scrittori di successo dedicano i libri al pubblico più caloroso. Zerocalcare però sui libri deve fare il disegno, e quindi ha dovuto stabilire delle regole d’ingaggio.

Abbiate pazienza, i ritratti non li so fare, non chiedetemi di disegnare vostra nonna, non sono capace e perdiamo un sacco di tempo.

La clientela affollerà comunque l’incontro (che il video prevede protrarsi fino alle due di notte per smaltire tutti i richiedenti dedica disegnata, e la tragedia è che è una previsione realistica), e pretenderà comunque un ritratto della nonna, perché ormai siamo tutti la Kathy Bates di Misery non deve morire: convinti che io sono la tua fan numero uno e tu mi debba perciò tutto.

Anche la scelta degli argomenti. Anche il posizionamento di mercato. Anche l’identificabilità, l’immedesimabilità, l’abbassare il lessico alla mia portata, altrimenti alla prima ipotassi smetto di leggerti perché te la tiri e mi fai sentire inferiore. Anche – soprattutto – la simulazione d’interesse per mia nonna.

Sono il pubblico: che tu sia vescovo, influencer, romanziera, conduttrice, comando comunque io. Cosa mai può andar storto.

Gli amici su facebook: Averne migliaia che ti ignorano o averne pochi, ma veri e sinceri?

Un antico detto dice: Chi trova un amico, ha trovato un tesoro. Oggi, nel tempo delle contraffazioni tutti voglion diventare ricchi. Succede, quindi, nel mondo virtuale dei social network che si hanno amici di cui si detesta e si contesta ogni post pubblicato, o che distribuiscono pillole di idiozie, specie quelli distinti ideologicamente da destra come da sinistra, passando dai 5stellati, o che ignorano quello che sei o che fai, se non addirittura ti detestano o travisano ogni tua opinione e, per sminuirti, non condividono i tuoi post, ma pubblicizzano il prodotto dei tuoi concorrenti. Amici, meglio perderli che trovarli, ma ce li si tiene comunque per far numero. Spesso gli stessi amici virtuali, per strada ti incontrano e non ti salutano. Io, di mio non ho mai chiesto l’amicizia a nessuno in un mondo omologato, ma ai miei amici faceboocchiani, che hanno chiesto ed ottenuto la mia amicizia, do il beneficio della verifica di solidità e sincerità ed attuo il controllo della strumentalità della loro richiesta. Al termine dell’anno amicale li cancello. Se rinnovano la richiesta di amicizia, chiedendomi il perché, si palese il loro interesse ad avermi come amico. Ergo: a quel punto ho trovato un tesoro.

Gianluca Nicoletti per "La Stampa" il 2 ottobre 2022.

I social sono colpevoli del suicidio di una ragazzina britannica. A queste conclusioni è giunta l'inchiesta, presentata ieri alla Corte dal coroner inglese Andrew Walker, che ha approfondito le circostanze del suicidio di Molly Russel , la quattordicenne che si tolse la vita nel 2017 nella casa della sua famiglia ad Harrow, quartiere a nord-ovest di Londra. 

Secondo l'analisi di Walker, il cui ruolo nel sistema giuridico inglese corrisponde approssimativamente a quello di un medico legale, la morte di Molly sarebbe stata determinata da un atto di autolesionismo estremo, scaturito in uno stato depressivo che l'avrebbe resa particolarmente vulnerabile, sicuramente però il suo precario stato di salute mentale sarebbe stato esasperato, fino a condurla a uccidersi, in grande parte per l'esposizione a contenuti particolarmente espliciti, che trattavano appunto di suicidio, depressione e autolesionismo. 

In estrema sintesi la sentenza esprime per la prima volta il concetto che i contenuti incontrollati di piattaforme social come Instagram o Pinterest possono essere considerati come cause scatenanti del suicidio di una persona minorenne. 

A tutti gli effetti Molly Russel prima di uccidersi si era avventurata attraverso una moltitudine incredibile di post, che trattavano delle patologie di cui lei soffriva. Solo negli ultimi sei mesi di vita, prima di uccidersi, avrebbe interagito o condiviso, solo su Instagram, 2.100 post a tema autolesionismo, suicidio, depressione. Nei giorni che hanno composto questi sei mesi di autosuggestione sui temi della sua sofferenza, sono soltanto dodici quelli in cui la sua navigazione non è stata attratta dagli argomenti che l'avrebbero indotta a uccidersi. 

La sentenza ha chiaramente trovato d'accordo l'ente di tutela dei minori in Inghilterra. La Children's Commissioner Rachel de Souza ha richiesto alle piattaforme citate nella sentenza di attivarsi per cambiare «dal punto di vista etico». Il padre di Molly, Ian Russell, ha descritto la discesa della figlia in un mondo infernale, in cui una volta caduti dentro non è possibile sfuggire, perché l'algoritmo, continua a consigliare sempre più contenuti coerenti alle proprie curiosità. Il caso ha suscitato un tale clamore che persino William, il Principe di Galles. ha detto la sua in un comunicato, che in realtà ribadisce un concetto di quelli che è scontato condividere: «La sicurezza online per i nostri bambini e giovani deve essere un prerequisito, non un aspetto secondario».

Una dichiarazione "d'ufficio" che, oltre a confermare un principio sacrosanto, non tiene conto della realtà che muove l'intero universo dei social network, che potrebbe essere sintetizzato in una cruda ma realistica massima: «Più ti tengo collegato a me più tu mi fai guadagnare. Per questa ragione, più alimento il tuo interesse con quello che mi fai capire tu voglia vedere, meno ti verrà voglia di staccarti da me». 

Su questo e solo su questo è articolato uno dei più colossali business della storia, per cui in cambio di una connessione all'immenso paese dei balocchi, l'intera umanità ha volontariamente svenduto la propria vita privata, ha accettato di barattare ogni più riposto segreto della propria attività relazionale, dei propri gusti delle proprie debolezze, di ogni più inconfessabile turbamento interiore.

Per Molly il rovello era l'angoscia di vivere, provocata da parassiti tossici che scavavano gallerie nel suo cervello. Il social network ha alimentato questi parassiti fino a farli diventare così forti da uccidere. 

Ha sicuramente ragione il coroner Andrew Walker, quando scrive nella sentenza che le immagini di autolesionismo e suicidio che Molly ha visto «non avrebbero dovuto essere a disposizione di un bambino», provando come gli algoritmi di Instagram e Pinterest abbiano portato la ragazzina a quell'effetto indigestione detto "binge watching" (abbuffata) di situazioni in cui gli atti autodistruttivi entravano in una narrazione quasi romanzata, al cui apice il suicidio veniva esposto come un esito ineluttabile. La parte in causa, ossia i rappresentanti di Pinterest e Instagram, hanno seguito le udienze e hanno ammesso che, nella fruizione da parte di Molly dei materiali "tossici" alla sua salute mentale, delle irregolarità rispetto le loro policy sicuramente ci saranno state.

Se non altro il fatto che Molly fosse iscritta a Instagram da quando aveva 12 anni. Non avrebbe potuto prima dei 13. Naturalmente si adopereranno, opereranno, provvederanno. Cambierà qualcosa? No stiamone certi, nulla cambierà. Il grande gioco che addestra gli umani all'esistere digitale piangerà per un po' una nuova vittima. Però non per questo potrà (o vorrà) fermarsi. La capacità dell'addestrare a gestire il gioco da parte degli umani meno attrezzati potrebbe certamente diventare una didattica obbligatoria. Qui però dovrebbe entrare in gioco la maturità culturale, che non si stimola certo con le sentenze.

Maledetto l’internet. L’insostenibile urgenza di commentare tutto pur non sapendo niente di niente. Guia Soncini su L'Inkiesta il 24 Settembre 2022

Ultimo caso, l’articolo di Francesco Piccolo. Ma non è solo colpa dei social se nessuno sa più cosa c’è scritto sui giornali o nei libri: avevamo perso la capacità di conservare le informazioni già da tempo. Solo che adesso non vediamo l’ora di giudicare, recensire, criticare cose di cui ignoriamo il contenuto

Stiamo come stiamo – usati, di seconda mano – intesi come elettorato ma anche, soprattutto, come tonicità dei neuroni. È colpa degli smartphone? No, forse, sì. Calenda sarebbe una persona normale se non dovesse dire la sua a tutti ogni quindici secondi? Lo sarebbe Vongola75? Lo sarei io? Saremmo adulti? Saremmo sani di mente?

L’altro giorno rievocavamo, con un amico, una presentazione d’un suo libro. Una decina o qualche misura simile d’anni fa. Ti ricordi, c’era anche Tizio, all’epoca scrittore più sfigato d’Italia, e ora più acclamato: nelle vite degli intellettuali esiste il secondo atto, chi l’avrebbe mai detto.

Ma tu, chiedo all’amico, i suoi libri di successo li hai letti? Quaranta, cinquanta pagine, risponde lui, con la voce screziata dal senso di colpa di noialtri cresciuti nell’epoca in cui dei film non si vedevano i due minuti che stanno in un TikTok, delle canzoni non si ascoltavano i quindici secondi che entrano in una storia Instagram.

Ed è in quel momento che sono così volgare da dirgli la verità: per me ormai la misura di cinquanta pagine lo colloca senza esitazione nella casella dei libri letti. Ricordo perfettamente l’estate del 2003: era quando lessi per intero un romanzo per l’ultima volta, non sono mai più stata così giovane da pensare servisse leggere più di cinquanta pagine per giudicare qualcosa, né da avere il tempo di farlo.

Ricordo l’estate, ma cosa ci fosse scritto dentro al romanzo no, sebbene mi fosse piaciuto tantissimo; evidentemente – pur mancando allora cinque anni all’uso a tempo pieno dei social network – il mio cervello aveva già perso la capacità di ritenere informazioni. Avevo già preso troppo sul serio lo «Slàcciati i pensieri» di Loredana Berté – d’altra parte dal Sanremo di Stiamo come stiamo erano già passati dieci anni.

Giovedì su Repubblica c’era un articolo di Francesco Piccolo sull’autunno del risparmio col riscaldamento semispento. Era scritto nel solito garbatissimo tono di Piccolo, non certo uno che prenda a coppini i lettori. Twitter era pieno, ma pieno, di indignazioni. Cosa ne sa lui che non è mica povero, e via di recriminazioni.

Certo che sono scemi, e certo che una volta non avremmo mai saputo cosa si dicessero i lettori nel chiuso dei loro tinelli o dei loro bar con bianchino o delle loro riunioni di consigli di classe. Non l’avrà mica inventata internet, la categoria dei lettori incapaci di leggere ma che ci tengono a dir la loro.

Però internet ha inventato quella micidiale combinazione di lettore che non legge e urgenza di commentare tutto; urgenza che ci era, sembra incredibile a dirlo oggi che è così pervasiva, ignota fino a non moltissimo tempo fa. Non riusciamo neanche a ricordare come fossero le nostre conversazioni quando non avevamo sbirciato tutti gli stessi titoli di articoli non letti, tutti le stesse due righe fotografate da Vongola75 d’un articolo di cui ignoriamo il contenuto sia noi sia lei.

Veramente il 29 settembre del 2001 c’era qualcuno che non aveva un’opinione su La rabbia e l’orgoglio?, ci chiederanno increduli i nostri nipoti con lo stesso tono a occhioni sgranati che avevamo noi quando chiedevamo come fosse questa Radio Londra a chi l’aveva ascoltata durante la guerra. Ebbene sì, piccini: c’era gente che la mattina d’abitudine comprava altri giornali, e il Corriere non l’aveva visto, magari gente che lo lesse due giorni dopo perché qualche amico che invece comprava il Corriere e aveva capito l’epocalità di quelle righe cortesemente le imprestava il proprio ritaglio.

No, non c’erano i giornali su Internet. No, nessuno ti mandava le foto degli articoli sul telefono. No, la conversazione collettiva non era una gigantesca cagnara in cui devi dire qualcosa di tutto senza sapere niente di niente. Era meglio? Beh, non potevi ordinare così facilmente la pizza a domicilio, né fotografarla per far sapere che l’avevi mangiata: ogni epoca ha i suoi vantaggi e i suoi limiti.

Giovedì sera un’amica m’ha detto con sconforto che una persona a lei cara le aveva chiesto se avesse letto che Ambra non paga l’affitto. Carlo voleva essere il Tampax di Camilla quando ancora leggevamo oltre i titoli cubitali, vi pare che oggi possa darsi la possibilità che l’informazione (e le nostre opinioni su di essa) siano qualcosa di diverso dal telefono senza fili? Soncini traffica in foto rubate di attori famosi, Richetti manda le foto del cazzo a tizie dal solido equilibrio psichico, Ambra non paga l’affitto, Saviano ha un attico a Manhattan, Piccolo ha scritto che se non sai come pagare le bollette devi esserne felice, John Wayne era frocio, mio cugino una volta è morto.

Perché l’amica che fa la commercialista o la pianista o la sarta dovrebbe leggere i giornali con un’attenzione maggiore a quella con cui scrolla Facebook, perché dovrebbe avere opinioni informate sull’attualità, perché dovrebbe sforzarsi di distinguere tra una cosa letta sul New York Times, su Cavalli e segugi, sulla bacheca d’un ex compagno di scuola? L’ha resa scema Zuckerberg, o Soros, o la senilità? Per noi soldati di ventura in questo metro quadro: sì, per adesso è molto dura.

Forse è solo che, quando non pretendevamo che tutti avessero sbirciato angoli di frammenti di ogni rassegna stampa, l’amica poteva parlarci delle corna della cognata, o di cose di cui avesse più contezza rispetto al titolo del giornale che non ha letto ma ha sentito commentare da un dj mentre diceva ai figli sul sedile posteriore di non rubarsi l’un l’altro la merenda e se non la smettete vi do in adozione a Tiziano Ferro (che ha letto da qualche parte che ha avuto dei figli, o forse li ha adottati, o forse ha solo detto che gli piacerebbero, o forse è solo andato in visita a un reparto pediatrico: ora non è che l’amica possa ricordarsi tutto, c’è pure l’Iva trimestrale da conteggiare).

Abbiamo tutti molto da fare, e l’economia dell’attenzione già deve dividersi tra consigli per non far aumentare le bollette, conoscenza superficiale dei programmi televisivi di cui parleranno in ufficio, partita a Candy Crush, e tu hai deciso chi votare? Fanno benissimo quelli che «purché non sia la Meloni»: vuoi mettere che vantaggio, non perdersi nei dettagli, t’avanzano pure due neuroni da dedicare ad altro. Per esempio a questo vocale da ascoltare a velocità doppia così posso smaltire altre due notifiche mentre sfoglio – senza capire cosa sto leggendo – questo libro che tra poco potrò dare per letto. L’app di Kindle si è complimentata: questa settimana ho letto qualche buon libro tutti i giorni. Non che sappia – la app, ma pure io – cosa ci fosse scritto, dentro a quel libro che ora corro a recensire su Amazon.

Totti, Noemi e i fratelli Bianchi. La rivolta degli omonimi: "La nostra estate rovinata dalle cronache". Lorenzo D'Albergo su La Repubblica il 9 Settembre 2022.   

Decine di profili di persone con lo stesso nome dei protagonisti dei tormentoni vengono trollati dai giustizieri del web. Ma qualcuno si ribella: "Abbiate pietà di noi"

Noemi, la cantante, perseguitata sul web e accusata di essere la stessa Noemi che ha rubato il cuore a Francesco Totti. Anche se cognomi e fattezze non combaciano. E poi, a proposito di cognomi, che dire della strana estate del fioraio Bocchi di Corso Vittorio Emanuele? A sua volta finito immeritatamente nel vortice del divorzio tra l'ex capitano della Roma e Ilary Blasi, è stato costretto a fare chiarezza su Facebook con un post piuttosto piccato: "Non so chi sia Noemi Bocchi" .

Siamo solo noi. Perché, con tutta una rete a disposizione, siamo sempre connessi con i soliti. Guido Caldarelli su L'Inkiesta il 10 Settembre 2022.

Studiare la complessità dei network significa rendersi conto di quanto siano interconnesse le nostre vite. Nel suo nuovo libro "Senza uguali" (Egea), Guido Caldarelli, ci conduce in un viaggio alla scoperta delle intricate maglie di cui è composta la società per scoprire la prevedibilità dei fenomeni nascosta dietro il caos apparente

Fin da piccoli siamo abituati al fatto che ci sono persone con cui non andiamo d’accordo, e sappiamo anche istintivamente come comportarci: evitiamo il più possibile gli antipatici e ci concentriamo sui nostri amici.

Storicamente è sempre stato così. Oggi però i social media portano questo effetto di esclusione a nuove vette: non solo ci permettono di non incontrare virtualmente chi non ci piace, ma addirittura ci consentono di annullarlo, di escluderlo per sempre dal nostro pubblico.

Questo fenomeno è alla base delle cosiddette echo-chambers, le “stanze dell’eco”. Ci capita di leggere un commento che non ci piace per niente? La nostra reazione sempre più spesso non è rispondere, anche con toni accesi, ma chiudere il contatto con quella persona.

Il fenomeno si può spiegare bene con il modello delle reti. In una rete connessa si possono scambiare messaggi tra punti qualsiasi utilizzando tutti i nodi intermedi necessari; questo è esattamente ciò che accade, per esempio, quando usiamo la posta elettronica.

Ma se cominciassimo a eliminare i collegamenti verso un particolare server perché il suo amministratore ci sta antipatico, allora la storia sarebbe molto diversa: in men che non si dica, la rete sarebbe ridotta a una serie di isole, senza traghetti che le colleghino.

Su social network come Facebook e Twitter possiamo farlo davvero: se un amico commenta criticando il rigore concesso alla nostra squadra e la cosa ci irrita al punto di non voler leggere più niente dello stesso tenore, ci basta eliminarlo dalla platea, senza che ciò comporti la nostra uscita dal social.

Ovviamente in questo modo rimarremo sempre più soli con gli altri tifosi della nostra squadra, e sarà difficile sapere ciò che pensano gli (ex) amici tifosi delle squadre rivali.

Ricordando il concetto di betwenness, è come se smantellassimo un ponte alla volta, magari partendo dai più importanti, tra quelli che collegano le isole di Venezia.

Prima avremmo i sestieri isolati e poi finiremmo con un arcipelago di isolette da cui non si può più uscire. In realtà questo procedimento – eliminare man mano gli archi per vedere dove sono i sottogruppi del sistema – abbiamo visto essere uno dei metodi alla base degli algoritmi che riconoscono la presenza di comunità all’interno di una struttura.

Si possono dare varie definizioni di questo concetto, che in generale ricadono in due tipologie: la comunità può essere definita dalle proprietà dei vertici, che non necessariamente impongono la creazione di legami all’interno della comunità stessa; oppure in base a come si addensano i sottografi (cioè i sottoinsiemi) del grafo della rete. 

da “Senza uguali”, di Guido Caldarelli, Egea editore, 134 pagine, 17 euro

Social, quanto spendono i partiti: la Lega in testa, M5S neppure un euro. Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera il 6 settembre 2022.

Son passati i tempi della famosa «Bestia» che, a colpi di post e di tweet, costruì e consolidò l’immagine del leader, ma la macchina della propaganda di Matteo Salvini e della Lega si avvale sempre dei social media più di tutti gli altri, avversari e alleati. Al di là di quel che si vede o si legge, lo dice la lista della spesa che rende pubblica Meta, la società di Mark Zuckerberg che controlla Facebook e Instagram. Anche se non è detto, anzi, che a maggior presenza nella rete corrispondano più voti. Proprio la Lega lo dimostra e vedremo perché.

Intanto, nella «Libreria inserzioni», se limitiamo lo sguardo al periodo 3 agosto-1 settembre, i post di marca leghista sono costati complessivamente poco più di 51 mila euro: 46 mila per la pagina «Matteo Salvini» e 5 mila per quella «Lega Salvini premier». Al secondo posto, si piazzano le sponsorizzazioni a favore di Giorgia Meloni, quasi 39 mila euro così suddivisi: 30 mila per «Fratelli d’Italia», 4 mila e 700 per «Giorgia Meloni» e 3 mila e 500 alla voce «FdI Camera». Al terzo posto negli esborsi si piazza il Partito democratico con 35 mila euro. A seguire, ecco Silvio Berlusconi (6 mila euro), Carlo Calenda (che però preferisce Twitter, 4 mila e 200), Gianluigi Paragone (3 mila e 920) e Coraggio Italia, il partito del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro (2 mila e 500). Il M5S, invece, per scelta, non compra spazi.

Ma vediamo nel dettaglio come vengono impiegate le risorse. Rispetto alla Lega, quel che spicca è la somma che il partito ha investito negli ultimi due anni e mezzo (i dati sono disponibili da aprile 2019): ben 567 mila euro. Se si pensa che a maggio 2019 il Carroccio alle elezioni Europee toccò il suo picco massimo (oltre il 34 per cento) per poi imboccare una lenta ma finora inarrestata discesa, qualche dubbio sulla resa delle campagne social può venire. Ma Salvini usa lo strumento con assoluta familiarità e anche nelle ultime settimane l’ha utilizzato per le sue battaglie. I post più gettonati riguardano gli immigrati, il reddito di cittadinanza, la flat tax e le bollette. Il suo pubblico, secondo quanto risulta a Meta, è prevalentemente maschile, per buona metà con più di 45 anni. 

Al contrario, Fratelli d’Italia tra il 2019 e oggi ha speso molto meno sui social 197 mila euro) ma ha accresciuto di molto i suoi consensi. I post sono tutti dedicati a Giorgia Meloni. Della leader vengono proposti video, frasi trend topic, annunci dei prossimi appuntamenti elettorali. Anche nel suo caso il pubblico è nettamente maschile e oltre la mezza età. Sul terzo gradino del podio, il Pd utilizza i social in modo molto diverso dai suoi competitor di centrodestra (250 mila euro dal 2019 ad oggi). I post non puntano sulla personalizzazione del leader ma sono più «istituzionali» e richiamano i temi principali della campagna elettorale: la scuola, le bollette, la guerra e le sanzioni alla Russia, la situazione economica. Il segretario Letta c’è ma in altri interventi ecco comparire Carlo Cottarelli, Graziano Delrio, Antonio Misiani e Anna Ascani. Nel caso del Pd, il pubblico ha un’età media più bassa (il 25% ha tra 18 e 24 anni) e con una componente femminile più rappresentata.

I politici su TikTok dimostrano, ancora una volta, di non aver capito nulla dei giovani. Giampiero Casoni il 02/09/2022 su Notizie.it.

I politici su TikTok dimostrano, ancora una volta, di non aver capito nulla dei giovani

Così si fa torto ai giovani e si cade nel luogocomunismo comodo di considerare loro imbecilli e noi coraggiosi e pazienti pionieri di nuove praterie. E non è affatto così. 

Noi italiani siamo fatti così: richiamammo Mattarella, rivorremmo Draghi e ricandidiamo Mastella. Sempre coi giovani in bocca, e con i giovani che oggi la politica va a tampinare scovandoli perfino nei loro santuari social. Perfino su TikTok dove un Silvio Berlusconi in versione “ue raga” ha fatto capolino e si è imbrodato dei 3 milioni di view ottenuti.

Il Cav lo ha fatto senza capire che quella non era empatia massiva dei giovani ma curiosità scientifica dei genitori.

Perché in certe cose anche le prof di “corsivo” come Elisa Esposito hanno ragione: ad un giovane su TikTok gli devi dire “Amio” o fargli vedere balletti fighi, ricette di cucina creativa e video smart, trucidi o divertenti, non puoi spiegargli la stagflazione, non senza aver mai gettato prima le basi scolastiche per incuriosirli sul tema.

Ma il motivo parallelo non è solo legato alla differenza di potenziale fra la veste leggera dei social e dei loro fruitori e la seriosa grevità di messaggi e messaggeri elettorali, così si fa torto ai giovani e si cade nel luogocomunismo comodo di considerare loro imbecilli e noi coraggiosi e pazienti pionieri di nuove praterie. E non è affatto così.

No, sui social emerge prepotente tutta la boriosa e voluta ignoranza che la politica ha sempre dimostrato, lungo decine di generazioni, per le fasce giovani della società, per i loro bisogni e per il loro linguaggio.

In Italia politica e società vuol dire tabelle Inps, vuol dire figure sempiterne e rugose che non schiodano mai dalla poltrona, vuol dire mantra “dell’esperienza” usato per mascherare la fame ostinata di un potere che ai giovani nessuno ha mai voluto trasmettere. In Italia la politica ha in target se stessa: i decisori con le foto della 600 del nonno su cui hanno imparato a guidare.

Da noi politica vuol dire abiti vecchi ma costosi, ignoranza abissale dei temi mainstream ed ossa che crocchiano mentre si mima quel nome in due tempi secchi con testa a metronomo – “Tik-crac-Tok” – con la stessa padronanza di un brontosauro in zona spritz.

La verità vera è che l’Italia giolittiana, quella dei notabili, dei parrucconi, dei “professionisti” avviati e bravi perché dotati di catetere non è mai morta.

Quell’Italia geriatrica e supponente attraversa come una vena fetida tutto l’arco parlamentare e tutta la storia di un paese che è solo e soltanto per vecchi e che non può scoprire i giovani per sopravvenuta utilità, li doveva guardare per l’evidente bellezza di ciò che sono e che sanno. Un Paese che oggi si ricorda dei giovani senza averli mai messi sul piano della progettualità e del dialogo e che oggi li vuole arruolare, in fregola anche per il fatto che oggi essi votano per la prima volta al Senato già dai 18. Senato come etimo insegna, Senato da senex, “vecchio”.

Vecchio come la voglia che non abbandonerà mai i nostri politici di truccarsi per sopravvivere all’evidenza della loro morte pubblica. E andare a cogliere frutti senza aver mai visto un albero.

VAFFANTOK. Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 2 settembre 2022.

«Ciao ragazzi, votatemi perché NON userò TikTok in campagna elettorale», proclama ironico e solitario l'onorevole Orfini del Pd, a conferma che la saggezza ama nascondersi dove meno te l'aspetti. 

L'invasione del social dei ragazzini da parte di una schiera di imbolsiti capipartito che fanno finta di parlare come se avessero quindici anni sta producendo effetti più imbarazzanti di un balletto di Vacchi. Da ragazzo mi capitò di ascoltare dal vivo un discorso di Spadolini a una platea di studenti. 

Neanche per un attimo quell'uomo, pur molto narciso, cercò di compiacerli. Azzardò addirittura una lunga citazione in latino. Alcuni lo trovarono noioso, altri reazionario, ma nessuno lo considerò patetico. Agli occhi di un adolescente, gli adulti che fanno gli adulti possono sembrare stronzi, ma mai patetici. Dovrebbero ricordarselo certi padri che cercano l'amicizia dei figli invece della loro stima.

Ma qualcuno dovrebbe dirlo anche a Renzi, Calenda, Conte, Berlusconi e a tutti gli altri pseudo-padri della Patria che si illudono di ottenere il consenso dei giovani facendo gli sbarazzini, senza però smettere nemmeno con loro di parlare soltanto di sé stessi. 

L'unico leader che sappia usare TikTok è Matteo Salvini. Il comizio siciliano in mezzo a un gregge di pecore, gravido di simbolismi, testimonia un talento naturale per l'intrattenimento spensierato che da lunedì 26 settembre, a voler dar credito a certi sondaggi, rischia di trasformarsi nella sua attività principale.

Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” il 2 settembre 2022.

«E che ci fai anche tu su TikTok? Ci mancavi solo tu!», dice il più giovane. «Ciao ragazzi benvenuti sul mio canale ufficiale di TikTok», dice quello più anziano. Divisi dall'anagrafe, ma uniti dall'essere stati presidenti del Consiglio, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi sono gli ultimi due arrivati sulla piattaforma social che fa impazzire i giovanissimi (dove ieri è sbarcato anche il Pd, con un video di Alessandro Zan e la promessa del segretario Enrico Letta di «discutere con i più giovani delle priorità che la politica spesso trascura»). 

Il look è un superclassico per entrambi. Camicia bianca e cravatta slim con nodo stretto per Renzi, col look da rottamatore che aveva poi portato a Palazzo Chigi e che ha mantenuto anche dopo la scissione dal Pd; doppiopetto blu rigoroso con cravatta a pois per Berlusconi, praticamente come si veste da una vita.

Renzi sceglie per l'esordio il metodo classico con cui un tempo ci si palesava per la prima volta in un posto in cui non si era mai stati prima: si presenta. «Il primo video arriva a 25 giorni dal voto, la campagna elettorale porta tutti noi a sperimentare modi alternativi per dialogare e discutere. Per molti di voi sono un esperto di first reaction shock (autoironico sulla celebre intervista in inglese alla Bbc, ndr ); altri mi ricordano come presidente del Consiglio, il più giovane della storia; altri soprattutto come sindaco della città più bella del mondo, di Firenze», dice. 

Dall'universale al particolare, dal pubblico al privato. In pochi secondi, Renzi ricorda di essere stato anche «un arbitro di calcio e un capoclan, non di camorra, ma un boyscout». E, pur mantenendo fermo l'impegno a lasciare il ruolo di frontman del duo Azione-Italia viva a Carlo Calenda, mette una bandierina là dove non l'aveva ancora piazzata.

Berlusconi, invece, adotta il tono amorevole del nonno che si imbuca alla festa di compleanno di uno dei nipotini: «Su questa piattaforma voi ragazzi siete presenti in oltre 5 milioni. E il 60% di voi ha meno di trent' anni. Soffro di invidia ma vi faccio comunque tanti complimenti». 

Solo posti in piedi, per adesso, su TikTok. Salvini, dopo l'uscita sul sequestro dei motorini ai ragazzi «casinisti» (il copyright è suo), lancia l'idea dei libri di testo gratis per scuole elementari e medie, e totalmente detraibili per le superiori; Calenda, lontano dalla tentazione di balli e balletti, rilegge la trama del Giorno della marmotta con Bill Murray scegliendo una chiave politica nazionale («I 5 Stelle volevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno e se so' magnati sia la scatoletta che il tonno»); Conte, con musica terrorizzante in sottofondo, segue la scia del suo «occhio ragazzi!», avvertendo i giovanissimi sui rischi (a suo dire) di votare per FdI. Adesso occhio a Renzi e a Berlusconi. Like e commenti si sprecano per tutti.

Qualcuno, però, finirà inevitabilmente per sperimentare la versione riveduta e corretta del vecchio adagio di Pietro Nenni sulle «piazze piene» e le «urne vuote». Anche perché mettere un like e seguire una pagina social è pure meno faticoso di andare in piazza. Molto meno.

Francesco Bechis per “il Messaggero” il 5 settembre 2022.

Il nuovo che avanza, il vecchio che resiste. Lo sbarco in massa dei politici italiani su TikTok (o Tik Tok Tak, copyright Silvio Berlusconi) non deve ingannare. Perché se l'iscrizione alla rete preferita dalla generazione Z viene sbandierata ovunque dai leader di partito, da Carlo Calenda a Matteo Salvini fino a Giuseppe Conte, è un'altra l'arena dove tintinnano le sciabole social delle forze in campo. 

Quando il gioco si fa duro, meglio puntare sull'usato sicuro. Cioè Facebook, la piattaforma che per prima ha dato il via alla caccia di voti sui social. A rivelare la corsia preferenziale ci sono i dati di Meta Ad Library. Lanciata nel 2018 come risposta del colosso tech di Mark Zuckerberg allo scandalo Cambridge Analytica, è un libro dei conti che elenca le spese delle pagine pubbliche in pubblicità e sponsorizzazioni. Negli ultimi trenta giorni di campagna elettorale in classifica svetta la Lega di Salvini, seguita dal Pd.

Le cifre? Non sono uno scherzo, se è vero che in un mese il Carroccio ha speso 46mila euro divisi in due pagine, Lega Salvini Premier e Matteo Salvini. Medaglia d'argento per il Pd che invece ha speso 33mila euro. Cifre variabili a seconda dei post. Il lancio della campagna TikTok con un video del parlamentare Alessandro Zan, ad esempio, è costato tra i 1.000 e 1.500 euro su Facebook, più del doppio della media.

E Giorgia Meloni? Scatta, sempre di più. Nel mese passato FdI è arrivata terza con 22mila euro spesi. Ma nell'ultima settimana è partito lo sprint, con quasi 5mila euro spesi al giorno. E la maratona social si sta trasformando in una cento-metri anche per gli altri leader. Come Calenda e Berlusconi, che negli ultimi sette giorni hanno speso rispettivamente 1.000 e 3.000 euro. Di Conte e 5Stelle invece non c'è traccia: non un solo euro in sponsorizzazioni social nell'ultimo mese. Se invece si allarga la lente su un periodo di tre anni la sorpresa si chiama Gianluigi Paragone: il leader di Italexit ha sborsato ben 140mila euro.

E qui la domanda sorge spontanea: investire queste cifre monstre serve a qualcosa? «Ha senso puntare su Facebook perché ormai sui social non c'è più una nicchia, ma oltre 40 milioni di italiani iscritti - nota Martina Carone di Youtrend. La strategia però conta, spiega l'analista. 

«Spesso i linguaggi adottati sono ormai obsoleti e infatti i giovani migrano su TikTok. E ci sono rischi da non sottovalutare: chi inizia all'ultimo rischia di farsi più male che bene. In campagna elettorale c'è una generica diffidenza di fronte a un'operazione percepita come costruita a tavolino». 

Un altro rischio è riposare sugli allori delle classifiche. Avere il record di follower sui social network, ad esempio, non significa avere il record di interazioni. Così un'analisi di Sociometrica e AidaMonitoring sull'ultimo mese di rush elettorale distingue i piani. Sul primo fronte è Salvini a rivendicare il podio, con più di 5 milioni di seguaci su Facebook, seguito da Conte, Di Maio e Meloni. Sul secondo però la classifica si ribalta, con la leader di FdI in testa per numero di like ricevuti, 1 milione e 600mila. E anche per il record di commenti. Che però non sempre sono una buona notizia.

First reaction, cringe. TikTok e la giornata nazionale della disperazione giovanilista dei politici. Guia Soncini su L'Inkiesta il 2 Settembre 2022.

Zan inaugura il canale Pd vantandosi di non essere riuscito a far approvare la “sua” legge e fa una frazione dei follower di Berlusconi. Renzi fa quello che i suoi gli hanno sconsigliato di fare e Salvini saluta tutti

Alle undici arriva Silvio B., che dice «il 60 per cento di voi ha meno di trent’anni: soffro di un po’ d’invidia ma vi faccio ugualmente tanti complimenti». A mezzogiorno e mezza arriva Alessandro Z., che dice «forse alcuni di voi mi conoscono per il ddl Zan, la legge contro i crimini d’odio che è stata affossata al Senato in modo vergognoso da quell’applauso dei senatori di destra».

Alle cinque del pomeriggio, il nuovo e scintillante account TikTok del Pd conta mille follower, quello di Silvio Berlusconi 168mila. D’altra parte: comprereste uno spettacolo usato da un cantante da crociera o da uno che si presenta rivendicando il fatto di non essere riuscito a far approvare il proprio disegno di legge?

In realtà Zan e Berlusconi e Renzi (che si è aperto anche lui un TikTok ieri, giornata nazionale della disperazione giovanilista dei politici) fanno la stessa cosa, nel loro esordio sul social del momento: dicono ai giovani non che hanno il dovere di crescere, non che devono mangiare le verdure, non che devono andare in camera loro a fare i compiti e parlare solo quando sono interrogati; dicono ai giovani: io sono come voi.

Berlusconi finge di credere, come il pubblico dei ventenni, che essere nati più tardi sia un invidiabile merito, mica un handicap. Zan la butta sul colore preferito da chi ha venti o trent’anni in questo secolo: il vittimismo, il rifiuto d’ogni assunzione di responsabilità, il feticismo della fragilità. Renzi elenca meme, «per molti di voi io sono un esperto di first reaction, shock», ragionevolmente certo che il pubblico cui i meme fanno schifo (io e altri quattro) cosa pensare di Renzi l’abbia deciso ben prima ch’egli s’aprisse un TikTok.

Al cui proposito, devo scusarmi – oltre che con l’elettorato: quando ho detto ai politici di sinistra che dovevano aprirsi un TikTok, mica pensavo d’essere così egemone – con Alessio De Giorgi.

Alessio De Giorgi è il responsabile della comunicazione social di Matteo Renzi. Quando lo chiamai per scrivere quell’articolo mi disse che se Renzi, a quaranta giorni dalle elezioni, gli avesse detto che voleva aprirsi un TikTok, lui l’avrebbe sconsigliato. Se lo sono, tutti quanti, aperto a ventiquattro giorni dalle elezioni. Alessio: nessuna più di me sa che frustrazione sia quando la gente con cui lavori non ti dà retta (a quanto pare mi danno retta solo i politici di sinistra, chissà cosa dice questo di loro e di me); ti giunga tutta la mia solidarietà.

Quelli di Renzi e Berlusconi sono account a loro nome. Il video di Zan inaugura il canale TikTok del Pd, e io avrei pagato per assistere alla riunione in cui s’è deciso che si dovesse aprire con lui, che l’incipit migliore che avevano da vantare fosse un disegno di legge per cui non erano riusciti a trovare i voti (cioè: in occasione del quale hanno dimostrato di non saper fare politica).

La ragione per cui non può funzionare – per cui da quel video ottengono una frazione degli abbonati di Silvio Berlusconi, e del Silvio Berlusconi del 2022, mica di quello del 1994 – è che sarà pure assai lodevole, nell’epoca degli istrionismi, un partito fatto a forma di partito, con un logo impersonale, con un nome impersonale, con un account TikTok su cui un giorno si esibisce un deputato e un giorno un altro; sarà pure lodevole, ma non può funzionare su quelle piattaforme lì: i social o sono personali o non sono.

Se Alessandro Zan aprisse un suo canale, sul quale dire che non è lui che non sa muoversi in Parlamento, è la destra che è cattiva ad applaudire, sul quale mettere le foto di quella vacanza in cui vide il politico di destra intento in passatempi non etero, sul quale dirci se è per la Mina o per la Patty, ecco, allora funzionerebbe.

Così, è appena un po’ meglio di Calenda che ci spiega il Gattopardo, e molto sotto a Salvini che fa le dirette in cui saluta uno per uno i passanti. Se avete mai seguito la diretta d’un personaggio noto – sia esso attore, politico, o marito di influencer – sapete che la gente non sta lì perché gliene freghi qualcosa di quel che il personaggio ha da dire. Sta lì come una volta sarebbe stata dietro a Paolo Frajese salutando la telecamera per farsi vedere dai parenti a casa. Il commento più frequente, durante ogni diretta d’un famoso, è «mi saluti?». I miei preferiti sono quelli che, dopo un paio di «mi saluti?» a vuoto, si offendono. «Vabbè, allora stacco, visto che non mi caghi». Essere cagati è considerato diritto costituzionale dai cittadini del 2022, e una delle più interessanti polemiche dell’estate è stata quella contro Alessandra Amoroso, cantante accusata del crimine di guerra d’aver negato un autografo a una fan, fermandosi pure a spiegarle perché (invece di lanciare alla folla monete bollenti come avrei fatto io al suo posto).

Comunque: Salvini queste cose non le ha studiate ma le capisce istintivamente (è davvero uno di loro, non deve utilizzare il metodo Strasberg per immedesimarsi nell’elettore medio smanioso dei suoi tre secondi di celebrità). E quindi li saluta tutti, uno per uno. L’effetto è quello di Radio Bologna International, quando io e le mie compagne di classe chiedevamo Hotel California e la dedicavamo alla terza B e a tutti quelli che ci conoscono.

È quasi mezzanotte, l’ora in cui Salvini ogni sera si collega. Vado a sentire se stasera saluta il Polo delle libertà (si chiama ancora così?) e tutti quelli che lo conoscono.

Gli ossessionati e la me mitomane. La fama farlocca sui social e la stalker della mia raccolta differenziata.

Guia Soncini su L'Inkiesta il 6 Settembre 2022.

Non serve essere il più grande comico vivente o candidarsi alla guida del Paese per ricevere disturbatori, attenzioni non gradite e messaggi da parte di sconosciuti che sanno tutto di te. Le piattaforme hanno reso tutti celebrità e non solo per un quarto d’ora, per sempre

L’altro giorno i social si agitavano in interpretazioni paranoiche del tizio che era salito sul palco di Giorgia Meloni – era un collaborazionista? era Guido Crosetto dopo una dieta? era uno senza il benestare del cancellettismo epperciò non autorizzato a cercare anche lui il suo spicchio di riflettore? – e io pensavo solo a quel momento in cui la Meloni aveva dovuto dire «fermi tutti» alle guardie del corpo, e al fatto che non solo devi mantenere sangue freddo e dare a un esibizionista risposte che non ti facciano sembrare una che appena va al potere gli invertiti li manda al confino, ma pure stare attenta che il tuo entourage non faccia dell’esibizionista un martire.

L’altra sera, sul palco a Londra, Dave Chappelle ha raccontato del tizio che l’ha aggredito su un palco americano, tizio che aveva un coltello a serramanico, il cui manico era a forma di pistola. «Un coltello la cui identità di genere era una pistola», aveva detto Chappelle all’epoca, indignando i suscettibili. Ma ci pensate, ha commentato l’altra sera, aveva una cosa che sembrava una pistola e tutti quelli che erano lì con me erano armati, ma ci pensate se avessero pensato fosse una pistola e gli avessero sparato.

Però Giorgia Meloni è la prossima presidente del consiglio che fa un comizio, e Dave Chappelle è il comico più famoso al mondo che fa uno spettacolo: sono quelli che una volta era (che ancora è) prevedibile fossero oggetto d’attenzione squilibrata, e infatti andavano e vanno in giro scortati. Quarantun anni fa, il tizio che voleva farsi notare da Jodie Foster sparava a Ronald Reagan, mica andava sotto casa d’un cronista disgraziato che aveva scritto sul giornale un trafiletto in cui criticava le doti recitative della Foster.

Poi sono arrivati i social, quell’infernale macchina grazie alla quale la previsione di Andy Warhol è andata a puttane. Siamo tutti famosi, anche se non facciamo niente di dirompente, e lo siamo sempre e per sempre, altro che un quarto d’ora.

Certo, «fama» è ormai un concetto relativo: al presente, quasi nessuno è Marilyn Monroe, intesa come figura nota anche a chi si trovi in coma da decenni (forse la regina Elisabetta o Madonna: gente diventata famosa in anni in cui la fama era una cosa seria). Ma quasi tutti abbiamo, grazie al più banale tweet in cui diciamo che non ci piace il cacao sul cappuccino, la capacità di toccare inconsapevolmente il tessuto ossessivo di qualche sconosciuto che a Scurcola Marsicana in quel momento decide che noi siamo una figura dirimente nella sua disperata vita. Perché suo nonno produceva cacao, e gli stronzi come noi l’hanno mandato fallito; o perché neanche a lui piace il cacao, e si sente capito e ha deciso che siamo migliori amici. Non importa se sia odio o amore: quello che non ti conosce e difende il tuo genio è tale e quale a quello che non ti conosce e dice che meriti l’ergastolo.

Niente è più spaventoso dello sconosciuto che ha un’ossessione per te (se l’ossessionato lo conosci, in genere t’illudi d’avere la situazione sotto controllo: a volte finisce male, e quindi forse la paranoia preventiva è un vantaggio). Per fortuna la maggior parte sono ossessioni millantate; tempo fa un apparente ossessionato fece tutt’una tirata sul mio avere una rubrica settimanale su Repubblica quando non scrivevo più per Repubblica da qualcosa come quattro anni, e fu molto rassicurante: sì, è abbastanza ossessionato da immaginarsi una mia rubrica, ma non abbastanza ossessionato da controllare regolarmente le stronzate che scrivo.

Questa spaventevolezza sembra non risultare chiara neanche ai benintenzionati. Quest’estate sono andata in vacanza in un posto incantevole, che non ho resistito dal fotografare, ma che mi sono ben guardata dal taggare. Un po’ perché, con quel che costava, ci mancava pure che gli facessi pubblicità gratis. E un po’ perché penso d’essere John Lennon e che, se segnalo in tempo reale dove sono, arriverà un disadattato col Giovane Holden in una mano e una pistola nell’altra.

È la ragione per cui l’altro giorno ho fotografato un menu londinese in cui l’hamburger aveva lo «nduja butter» ma poi non l’ho instagrammato: c’è gente abbastanza fissata da cercare il menu per capire dove mi trovo in quel momento. Lo so, pensate sia mitomane (lo sono), ma conservo tra gli elementi con cui scrivere un grande romanzo sulle altrui vite di silenziosa disperazione gli screenshot d’un gruppo pubblico di Telegram in cui alcuni fulmini di guerra scrutavano angoli di palazzi che vedevano in mie foto per ricostruire dove mi trovassi in quel momento e indovinare dove abitassi. Una volta per ricevere quel genere d’attenzione da incubo dovevi essere Liz Taylor, adesso le vale una Guaia Sorcioni qualunque.

Il posto incantevole, dicevo. Una tizia che non conosco ma che abita vicino a me e mi scrive ogni tanto e m’era fin lì sembrata sana di mente vede una foto di scogli, e mi scrive che sa dove sono. Ora, io dico: “So cos’hai fatto” è il titolo d’un film di paura, com’è possibile che persone normodotate non capiscano che «so dove sei» non è una cosa da scrivere a una sconosciuta, se non vuoi che quella sconosciuta ti metta nell’elenco di quelli da cui essere terrorizzata?

A Bologna il martedì raccolgono la carta, credo di averne già parlato. Non durerà, Matteo Lepore si vanta che eliminerà questa modernità della raccolta porta a porta, cosa potrà mai andar storto. Non durerà, ma per ora la carta si mette fuori dal portone. Lo facevo con una certa noncuranza: fatture di acquisti Amazon, riepiloghi di frutta consegnata a domicilio, dépliant inutili, giornali, libri. Sono mitomane ma non abbastanza da pensare che, come nei film americani, qualcuno vada a ravanare (scusate il bolognesismo) tra i miei rifiuti.

Poi, un giorno, mi arriva un commento su Instagram. È una tizia che scrive il mio indirizzo in tono secondo lei amichevole ed entusiasta (non ricambiato, direbbe Guzzanti). Sia benedetto Instagram che permette di rendere i commenti visibili solo a noi e a chi li lascia, almeno questa deficiente non può rendere noto il mio indirizzo al mondo. Da allora ogni tanto, quando mi prendo il disturbo di guardare i commenti su Instagram, ne trovo uno, nascosto al mondo, di questa gigantessa del pensiero e dell’azione. Nell’ultimo che ho notato scriveva: ho ancora una tua scatola sottratta alla raccolta. Cioè c’è una tizia, in un’epoca scarsa di Jodie Foster e di John Lennon, che s’impadronisce della mia differenziata e se la conserva in casa. Rimirando le etichette di Cortilia? Le istruzioni del Dyson? Le bozze cassate?

Qual è la soluzione? Rendere più impersonale la mia indifferenziata in modo che la pazza furiosa non sia in grado di riconoscerla (ma magari è abbastanza pazza furiosa da stare alla finestra e spiare quando scendo a lasciarla e sapere quindi qual è la mia scatola)? Fottermene pensando che almeno si sfoga così, invece d’accoltellarmi? Pensare a un complotto che s’impadronisce del mio rusco per spargerlo nei punti sbagliati nei giorni non deputati alla raccolta per farmi multare?

Oppure, ipotesi più faticosa, dire che va bene, ho torto io, ha ragione Lepore, eliminare la raccolta porta a porta non sarà una buona idea per rendere più pulita la città ma almeno è un modo per arginare lo stalking? Certo, bisogna poi vedere se la stalker che mi posso permettere è abbastanza determinata da andare a ravanare in eventuale cassonetto per la carta, nel qual caso più che a una riforma della differenziata toccherà pensare a una della Basaglia.

Indignazione selettiva. Quei comici che ci salvano dall’obbligo di non dare fastidio a nessuno. Guia Soncini su L'Inkiesta il 5 Settembre 2022.

Valeva la pena di andare fino a Londra per vedere Chris Rock e Dave Chappelle. Così è diventato ancora più chiaro come i monologhisti si impegnino più degli editorialisti a rompere i coglioni alle contraddizioni dell’Occidente. E, se fanno ridere, almeno lo fanno apposta

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«Sono stato sui giornali diciassette settimane. Poi la Russia ha invaso l’Ucraina». Dave Chappelle è convinto d’essere il più bravo comico vivente, è il monologhista più guardato su Netflix, e quest’anno è stato sui giornali: perché parte del personale di Netflix ha protestato contro la sua presenza sulla piattaforma; perché avrebbe fatto delle battute contro i trans (l’idea che una battuta sia contro qualcuno è una delle più interessanti forme di stupidità contemporanea); perché un tizio durante uno spettacolo a Los Angeles l’ha aggredito sul palco, poche settimane dopo che Will Smith aveva schiaffeggiato Chris Rock sul palco degli Oscar.

Quando compare sul palco di Londra su cui si è appena esibito Chris Rock (che è davvero il più bravo comico vivente), Chappelle è vestito come un pirla (come sempre), e fa un monologo quasi interamente dedicato a quelle diciassette settimane (ma molto meno noioso dei monologhi di Gervais su quelli che lo insultano su Twitter).

Le polemiche elencate, in particolare, valgono: il racconto di come Netflix non solo l’abbia difeso ma abbia imposto a tutti gli impiegati d’inchinarsi al suo cospetto; la battuta «non è vero che ce l’abbiano con me gli LGBTQ: quelli sono gli ebrei» (battuta che ovviamente verrà accusata d’antisemitismo: ve l’ho detto, la stupidità contemporanea è interessante); e una cronaca sublime di quella sera, in cui Chris Rock prese il microfono e disse dell’aggressore di Chappelle «Will Smith, eri tu?», e Chappelle «ero furioso: ti ha menato un mese fa e fai la battuta adesso, rubando il mio momento di gloria?».

È lì che penso a Jenni Konner, l’adulta che Hbo piazzò a badare la venticinquenne Lena Dunham come coautrice di “Girls”. A un certo punto Konner raccontò che l’eccezionalità di Dunham stava nel fatto che le altre avevano bisogno di tempo per elaborare: lei usciva con un tizio, la serata andava male, e la mattina dopo ne aveva già fatto materiale per una puntata.

A maggio avevo visto Chris Rock a Parigi. Aveva fatto quasi lo stesso monologo che ha fatto a Londra ieri e l’altroieri, com’è normale: si portano in tournée i monologhi comici per limarli e poi, quando sei soddisfatto, farli filmare da Netflix che ti darà decine di milioni di dollari, mica i soldi del teatro di Parigi grande come la mia cucina con gli incassi del quale Rock non si sarà pagato neanche la benzina dell’aereo privato.

Al cui proposito: tra le cose che Rock ha tolto dal monologo nella sua edizione londinese, tutta la parte sulla figlia capricciosa e bugiarda e viziata, che se la porti su un jet privato si lamenta non sia l’ultimo modello. Si sarà spaventato per le polemiche italiane sui voli privati? Teme Fratoianni? (Ha tolto anche quella battuta raggelante e stupendissima che era «siamo tutti per il safe abortion, perché col safe abortion ne muore uno solo invece di due»).

A maggio avevo visto Rock, dunque, e su Smith faceva mezza battuta. Tre mesi dopo, ne parla un po’ di più («Se mi ha fatto male? Ha interpretato Mohammed Alì, vedete voi»), ma è chiaramente ancora un tema in divenire, che chissà quanto spazio avrà nella versione finale del monologo.

Chappelle, invece, ha dei tempi di elaborazione à la Dunham, e si piglia tutta l’attualità. Da «io sono un americano e non so un cazzo di niente, ma mica credevo che gli ucraini avrebbero resistito così a lungo», a «sono contento che Will Smith si sia tolto la maschera di ragazzo perbene che si era costretto a portare tutti questi anni», al tizio che l’ha aggredito che l’avrebbe fatto offeso e ferito da una sua battuta sui senzatetto, essendo lui tale – «Per essere un senzatetto, era seduto in dei posti parecchio costosi» – e che è stato rilasciato con una cauzione di soli tremila dollari: «Se costa così poco vado ad aggredire Miley Cyrus, se costa così poco d’ora in poi salto addosso a un paio di persone che mi stanno sul cazzo ogni sera».

Nell’interminabile attesa che lo spettacolo inizi, sul maxischermo vanno immagini della storia della comicità americana: Joan Rivers, Richard Pryor, George Carlin, Eddie Murphy. Li guardi e pensi: certo, i colossi. Poi a un certo punto compare Wanda Sykes, e capisci che il punto non sono i fuoriclasse, perché nessun mercato può sopravvivere solo con fuoriclasse e mezze seghe. Capisci che il problema della comicità italiana non è la mancanza di genio (non è che Corrado Guzzanti e Checco Zalone siano meno giganteschi di Rock e Chappelle), ma la mancanza della classe media (nella comicità e nella società).

Sul metrò che mi porta alla O2 Arena, nessuno vuole venderti detersivi (con quel che inquinano) o biscotti (col male che fa il glutine): tutti i cartelloni pubblicitari vogliono venderti l’appartenenza al club dei giusti. La società di trasferimento di contanti vuole aiutarti a pagare i medici e le scuole di tuo figlio (mica a comprarti la coca); la fiera dei libri si batte contro la censura; la libreria educa contro il razzismo; il sindaco è contrario all’odio.

Ci ripenso quando Rock parla di Lulu Lemon, azienda di abbigliamento per lo yoga che espone in vetrina il cartello contro l’odio e la discriminazione e il razzismo e il sessismo. I loro pantaloni costano cento dollari, dice, quindi c’è qualcuno che odiano e discriminano: i poveri. «Preferireste dei pantaloni antirazzisti da cento dollari o dei pantaloni razzisti da venti?». (Rock la chiama «indignazione selettiva», quella per cui l’internet insorge per un aggettivo sbagliato ma non per cause meno di moda ma più concrete).

Nell’epoca delle buone cause prescrittive, ricordarci che «it’s the economy, stupid» è una delle cose più rilevanti che si possano fare. E nell’epoca in cui gli intellettuali sono troppo impegnati a cercare di compiacere il pubblico per permettersi di dire cose impopolari, a prendersi questo disturbo sono rimasti un po’ di comici. Che siano quelli di Netflix che per una volta decidono di non compiacere i suscettibili perché Chappelle gli porta troppi abbonamenti per rinunciarci, o quelli di Lulu Lemon che fatturano con le buone cause («Lo sapete cosa fa Elon Musk quando vende una Tesla? Si fa succhiare il cazzo»), rompere i coglioni alle contraddizioni dell’Occidente è una cosa che ormai viene meglio ai monologhisti comici che agli editorialisti (e non solo perché i primi, se fanno ridere, lo fanno volontariamente).

Certo, non dar fastidio a nessuno è una strategia rispettabilissima: Jerry Seinfeld ci ha fatto centinaia di milioni di dollari, Sebastian Maniscalco fa tour da decine di migliaia di spettatori. Ma per fortuna ci sono anche quelli che non si limitano, per stare tranquilli, a parlare di com’è noiosa la suocera o cattivo il cibo in aereo. È una delle molte divisioni degli Stati Uniti; un posto, dice Rock, meno compatto dell’Ucraina: «Se la Russia c’invadesse domani, metà degli americani direbbe: beh, diamogli una possibilità».

Nessuna immagine è innocente. Ambigui, complici, mai neutrali. Tutti gli scatti contengono un preciso punto di vista sulla realtà. Come svelano i racconti visivi di questa violenta estate. Wlodek Goldkorn su L'Espresso il 29 Agosto 2022. 

Le immagini non sono innocenti e le verità che trasmettono sono molteplici, spesso ambivalenti, sempre soggette alla nostra interpretazione perché sono fatte dallo sguardo di chi le produce, del fotografo (professionale o meno), di chi filma un evento con il suo smartphone; uno sguardo che successivamente incrocia l’occhio di che ne usufruisce. E né lo sguardo né l’occhio sono tabula rasa, guidati invece da opinioni e pregiudizi, talvolta da ideologie o utopie future o nostalgiche o anche dalla libido (che non tratteremo qui), da un racconto precostituito.

Gianluca Nicoletti per “La Stampa” il 30 Agosto 2022.

Il privato è un rimasuglio del passato. È impensabile nutrire nostalgia dei tempi passati in cui era possibile avere una vita non condivisa da chiunque. 

Bisogna far pace con l’idea che non avremo più una zona riservata in cui coltivare lontano da occhi estranei i nostri legittimi momenti di relax, come pure piaceri, passioni, allegrezze di varia maniera. 

Scordiamoci l’anonimato, l’indifferenza, la zona confortante dove sia legittimo fare quello che ci piace, fosse anche festeggiare in piacevole compagnia, alzare il gomito, folleggiare, palpeggiare e fare cose stupide, futili, ardite fino alla sconcezza che condivisa e discretamente praticata non rappresenta reato, sopraffazione, attentato al buon costume, vilipendio alle tavole della legge.

Da quando è avvenuta la quasi totale transumanza, di ogni abitante di ogni città del mondo, nella dimensione allargata degli umani digitalmente potenziati, ogni attimo del nostro esistere è a rischio di video divulgazione. 

«Welcome to favelas» è la frase che introduce centinaia di migliaia di video che quotidianamente riprendono e pubblicano incidenti stradali, risse, azioni di Polizia, persone che sbroccano, tafferugli, irregolari e «devianti» di ogni tipo (e qui calza a pennello il discusso attributo di chi turbi la quiete di ogni quotidiana invariabilità), insomma tutto quello che rompe la routine nella direzione dell’orrido, del ridicolo, del tragico, del patetico, dell’umanamente commiserevole.

Chiunque può fregiarsi del nome multiplo di segnalatore di episodi da favela, l’esistenza del collettore stimola la lussuria dell’immortalare e pubblicare. 

Ognuno può rispondere come crede all’accusa di violatore del privato altrui. Alimentare l’archivio di «Welcome to favelas» può essere millantato come un contributo alla documentazione di episodi di cronaca: spesso è stato pure verosimile. Indubbiamente se visto in questa ottica senza fotoreporter amatoriali e improvvisati non si sarebbe prodotta documentazione di atti efferati, violenze, omicidi, stupri ecc. 

Le cronache recenti traboccano di video «rubati» e condivisi che, a ragione o a torto che sia sono diventati essi stessi argomento di dibattere sulla liceità di riprendere, diffondere, usare strumentalmente la prova di un atto in sé immondo. 

Solo per completezza qui ricordo i recentissimi casi dell’ambulante assassinato per strada a Civitanova Marche, come quello della donna stuprata, sempre per strada, a Piacenza.

In entrambe le circostanze chi filmava e condivideva non sembrava nemmeno rendersi conto del parossismo del suo gesto, compiva l’atto che oramai è naturale in chiunque abbia una telecamera incorporata alla sua coscienza, documentando secondo il presunto dovere civico di promuove in una dimensione «epica», pubblicamente fungibile, ogni episodio che sfugga dalla norma. 

Tutto questo con la probabile convinzione che sia giusto così, perché tutti lo farebbero e quindi perché non approfittarne, centellinando una nuova forma di lussuria per la delazione, forse sentendosi persino investiti di una missione di lecita repressione della divergenza.

Ognuno è tentato a farlo, molti se ne astengono pur faticando, i più non resistono e si abbandonano al reportage, senza nessuna razionale valutazione delle possibili conseguenze nelle vite di chi si riprende; tanto nell’omettere soccorso privilegiando il documentare, quanto nel diffondere ogni truculenza incurante delle conseguenze nella vita della vittima o dei suoi congiunti. 

Poi va considerata la stessa attitudine ad auto proclamarsi «archivisti del tempo digitale» nei confronti di personaggi avvolti dall’aura della celebrità. Qui scattano antichi meccanismi di rivalsa nei confronti di chi si ritiene appartenente a un élite ai più interdetta.

È «l’avvoltoio da fotocamera», versione forse meno ossessionata del «leone da tastiera» che spara contro chiunque lo sovrasti in prestigio sociale. Il vip watching degli sfigati fuori dai locali in Costa Smeralda è oramai storia del passato. Ora l’intento è sentirsi Robin Hood e derubare i ricchi per dare ai poveri. 

Il furto si riduce a sgraffignare momenti ritenuti socialmente dannosi alla fama del personaggio, per distribuirli a chi non ha nulla per affrancarsi dal suo status di reietto anonimo, cosi si pasce dello spettacolo di teste mozzate a colpi di smartphone. 

Sputtanare è facile basta filmare nella notte di Torino un signore di spalle che barcolla per sancire che si tratti di Pavel Nedved ubriaco. Potrebbe essere anche lui ma avrà diritto di una sbornia? No la diagnosi dell’avvoltoio è «crisi da mezza età».

Non basta poi, sempre un simil Nedved appare a stretto giro in un video probabilmente di anni fa durante un “trenino” in una festa privata mentre si aggrappa alle poppe di una prosperosa ragazza che fa la locomotiva. E allora? Vogliamo giudicarlo alcolista affetto da satiriasi per questo? Se pure fosse non sarebbe per lui lecito esserlo? 

La pretestuosità bieca di questo comportamento, ampiamente sdoganato, è la vicenda political bacchettona che ha travolto la premier finlandese Sanna Marin. Alla ragazza che balla a una festa tra amici in un prive di Helsinki viene imputato l’averlo fatto abbracciata stretta a più di un uomo. 

Due ragazze del gruppo si baciano… Per tutti è Sodoma e Gomorra, qualcuno ci ha marciato ma se l’ha potuto fare è perché non mancano i paladini della virtù, che filmano e mettono da parte. 

Persino la grottesca vicenda dello sbrocco da Suburra di Albino Ruberti, che sta costando carissimo all’ex Capo di Gabinetto del Sindaco di Roma, è stata giocata su un ignoto documentarista. Poco cambia se ha agito strumentalmente a giochi politici interni, il metodo è collaudato e funziona proprio perché mimetizzato in un uso collettivo e ampiamente tollerato.

Chiunque può oggi sputtanare, come fosse un gioco, un passatempo divertente o ancor più un diritto civile. Quando il giustiziere collettivo colpisce chi ci sta antipatico di solito tendiamo a giustificalo con indulgenza, quando ci graffia nella nostra carne invochiamo la privacy. Di certo, dovunque ci collochiamo, non sarà più possibile per noi uscirne.

Il vicepresidente della Juventus vittima di invasione della privacy. Pavel Nedved come Sanna Marin, i video del festino privato dati in pasto ai social. Antonio Lamorte su Il Riformista il 29 Agosto 2022 

Qualcuno ha giocato un brutto tiro a Pavel Nedved. Da stamattina sui social l’hashtag impazza, i commenti si sprecano, le immagini sono ormai virali. Qualcuno azzarda un paragone con il caso della premier della Finlandia Sanna Marin, al centro di una polemica salita alla ribalta delle cronache mondiali per le immagini girate a una festa privata con amici. Pochi giorni dopo è il turno del vicepresidente della Juventus, campione ceco e Pallone d’Oro.

I video hanno cominciato a circolare da ieri sera, passando di cellulare in cellulare, e sono ormai virali sui social network e sui media. In uno l’ex calciatore balla sulle note di un reggaeton, in un trenino disinibito con tre ragazze, forse in un locale di Torino. E allunga le mani. Non risulta nulla di non consenziente, niente di illegale. Un secondo video riprende una persona di spalle, che barcolla in strada, presumibilmente sotto gli effetti dell’alcol. Ha i capelli lunghi e folti, biondi, non si volta mai, non c’è alcuna evidenza si tratti dell’ex calciatore e dirigente juventino, ma tant’è. In un altro si vede il calciatore mentre si dirige verso il locale.

Si tratta sempre della vita privata di una persona, certo nota, ma in alcun modo ripresa in occasioni pubbliche o professionali. È l’ennesima invasione della privacy. Che poi possa risultare di cattivo gusto, a seconda dell’opinione personale, è un punto che lascia anche il tempo che trova. Nedved ha sempre provato a proteggere la sua sfera privata. Si è sposato con la connazionale Ivana, con la quale ha avuto due figli chiamati Pavel e Ivana, ed è stato dato dal gossip spesso separato o divorziato.

Dal 2019 il pettegolezzo, soprattutto in Repubblica Ceca, è via via cresciuto, pur senza alcuna dichiarazione ufficiale da parte della coppia. E si è scritto di altre relazioni dell’ex atleta, così come di un viaggio in questi giorni in Italia di alcune amiche di Nedved. Del gruppo farebbe parte anche l’attuale compagna dell’ex calciatore. Gossip. Non è chiaro però a quando risalgano i video. E se pure quella persona ripresa alle spalle, a tradimento, era davvero Nedved, non è filmata alla guida, alle prese con un atteggiamento pericoloso anche per altri oltre che per sé stesso. I video però sono diventati virali, l’invasione completa, il tiro mancino portato a segno. Sui social è compatta la tifoseria bianconera a difendere l’ex beniamino, tantissimi i meme e tanta ironia. Più utenti a condannare la diffusione delle immagini che il calciatore.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Devastata la vita privata dell'ex Pallone d'Oro. Chi è la nuova fidanzata di Pavel Nedved, la cantante e attrice Dara Rolins: foto e video prima della gogna. Redazione su Il Riformista il 29 Agosto 2022 

Ripreso con il cellulare e dato in pasto al mondo dei social, sempre pronto a puntare il dito e a indignarsi per qualsiasi cosa. Giornata difficile per Pavel Nedved, ex calciatore e Pallone d’Oro, da anni dirigente della Juventus dove ricopre l’incarico di vice-presidente del club più titolato d’Italia.

Il video del campione della Repubblica Ceca che balla in un locale di Torino con due ragazze è diventato virale in poche ore. Non è chiaro se sia stato girato lo scorso weekend o settimane precedenti. Resta tuttavia una invasione della privacy, una gogna gratuita, l’ennesima, che va a intaccare i rapporti personali dell’ex calciatore di Lazio e Juve.

Nedved da qualche mese ha infatti una relazione con Dara Rolins, popolare cantante e attrice slovacca. Entrambi hanno la stessa età, 49 anni, e dallo scorso aprile, così come emerge dal profilo Instagram della donna, seguita sui social da quasi 700mila followers, fanno coppia fissa con viaggi negli Stati Uniti (a Los Angeles la Juve era in tournée questa estate) e giornate spensierate sul lago di Como.

In questi giorni la Rolins è in Italia con alcune amiche. E’ stata a Villa Crespi a Novara e anche a Marassi per Sampdoria-Juventus della scorsa settimana (22 agosto) proprio insieme al vicepresidente bianconero. Le ragazze che ballano con lui nel video non sembrano, tuttavia, essere le amiche della Rolins, stando almeno alle foto pubblicate da quest’ultima sui social.

In precedenza Nedved, dopo la fine del matrimonio con Ivana Nedvědová, durato 25 anni e dal quale sono nati i due figli della coppia (che si chiamano come i genitori, Pavel e appunto Ivana), ha frequentato per un periodo la fantina ceca Lucie Anovcinova, più giovane di 15 anni. 

Trova le differenze. Il video di Meloni, quello di Civati e la scoperta che non contano i fatti, ma solo le nostre simpatie. Guia Soncini su L'Inkiesta il 30 Agosto 2022

Giorgia posta un video di uno stupro e viene sommersa di insulti, Pippo le immagini fuori da una mensa dei poveri di Milano e viene lodato. La violazione della privacy è uguale, ma il trattamento, a seconda della curva di tifosi, è diverso

Oggi giochiamo a «trova le piccole differenze», come nelle estati del Novecento in cui facevo i giochi facili che mia zia mi lasciava sulla Settimana Enigmistica. Come sapete, il gioco consiste nel guardare due immagini praticamente identiche e notare quali dettagli cambino.

La prima immagine è dell’agosto 2022. Giorgia Meloni, candidata che non piace alla gente che piace, prende dal sito d’un quotidiano il video d’uno stupro. È ripreso da lontano, e lei lo pubblica per stigmatizzare l’accaduto (e, ovviamente, per fare campagna elettorale). Viene investita dalla compatta disapprovazione di chiunque non sia suo collaboratore. Come hai potuto pubblicare senza l’autorizzazione della vittima quelle immagini, la sua privacy, la riconoscibilità dalle grida anche se non si vede niente, passeresti sopra a tutto per la propaganda. Vergogna, persino, le dicono, visto che ormai siamo diventati tutti il Gabibbo.

La seconda immagine è anch’essa dell’agosto 2022. L’altroieri Giuseppe Civati, candidato che piace alla gente che piace, ripubblica (al posto da cui l’aveva preso ci arriviamo dopo) un video girato fuori da una mensa dei poveri di Milano. C’è gente che non ha da mangiare e che è in fila per un piatto di minestra. Si vedono tutti quanti in faccia. Alcuni di noi provano a obiettare che forse la gente in fila per chiedere l’elemosina non è contenta di venire pubblicata, e che nel dubbio sarebbe bene astenersi. Civati non risponde (né cancella il video, come alcuni l’avevano invitato a fare), ma tra i benintenzionati le risposte sono surreali.

Certo, tu non vuoi vedere i poveri. Certo, quando non hai i soldi per mangiare pensi proprio ai social. Certo, ora stai a vedere che uno debba vergognarsi d’essere povero. Ma perché, una che viene stuprata deve invece vergognarsi d’essere stuprata? Sono sicura non voleste intendere questo, cari i miei stolidi benintenzionati. Sono sicura che, se sedate il cane di Pavlov in voi e l’urgenza di schierarvi, sarete d’accordo che rispettare la privacy delle persone in difficoltà è una richiesta ragionevole. Persino se sono povere.

Il video originale, condiviso da un tizio e poi ritwittato da Civati, l’ha pubblicato un account (italiano) che, quando sono andata a controllare, lo accompagnava con le parole «This is Mario Draghi’s Italy». Ah, vedi. Dopo la fidanzata di Coso dei Måneskin che inventa l’endometriosi, Mario Draghi che inventa la povertà. Che decennio creativo. Tra i retweet, menzione d’onore all’americano che dice non possiamo permettere che l’America finisca così. Ah, vedi. In America finora erano scarsi in quanto a povertà, meno male che c’è l’export delle grandi idee italiane.

Chissà se Civati il video non l’ha tolto perché impegnato a far dei figli, mangiare, bere, leggere, amare, grattarsi, e aveva le notifiche di Twitter disattivate. O perché ha letto i consigli delle persone ragionevoli ma non concordava: lasciare lì in bella vista gente che chiede l’elemosina e non ha acconsentito a finire in mondovisione gli sembra proprio una buona idea. La terza ipotesi, quella che sappia che è una cosa schifosa ma gli sembri possa pagare elettoralmente, non voglio neanche prenderla in considerazione.

Nel gioco di oggi c’è un trucco. Le piccole differenze tra le due immagini non sono differenze tra le immagini: sono differenze tra chi le guarda. Attengono alla nostra incapacità di valutare i fatti, essendo noi accecati da simpatie e antipatie. Non riteniamo che i poveri si possano pubblicare come ci pare e piace e le stuprate no: riteniamo che Civati sia dei nostri e la Meloni no.

Qualche anno fa, una troupe di Mediaset s’introdusse con la forza a casa mia. Era un reato, come ha stabilito il tribunale in primo grado e poi in appello: non si può entrare a casa della gente e riprenderla se non vuol essere ripresa, chi l’avrebbe mai detto. Quando quel video fu mandato in onda, le reazioni non avevano niente a che fare col video: avevano a che fare con l’antipatia o la simpatia che chi lo guardava provava per me.

Ancora oggi c’è gente che scrive sui social che se lo guarda sghignazzando, il video d’un reato, ed è la stessa gente che stigmatizza la Meloni quando posta un altro video di reato, e che davanti a quel reato lì mica sghignazza: perché è più sensibile allo stupro che alla violenza privata? No, perché la signora ucraina stuprata non aveva mai scritto su Twitter qualcosa con cui essa gente si trovasse in disaccordo: non si era macchiata di antipatia, meritandosi perciò violenza. Il codice penale non ci interessa granché; il codice dei nostri umori, moltissimo.

Quando Vongola75 dice quanto si diverte a guardare me che mi agito per far uscire un pregiudicato da casa mia, non è dissimile da Marsupio88 che dice ma quali poveri, quelli in fila sono scrocconi col cellulare. Soprattutto, entrambi – e altri milioni di simpatizzanti e antipatizzanti d’ogni scandale du jour – sono la prova che aveva ragione Thoreau, e la maggioranza della gente continua a vivere vite di silenziosa disperazione, e almeno i social la illudono che quelle vite siano meno silenziose.

Ma più che altro sono il segno che per il discorso pubblico non c’è speranza, incistati come siamo nelle nostre curve di tifoseria, nella nostra incapacità di vedere la realtà, di vedere a che punto sta la piccola differenza tra ciò che giusto perché lo è, e ciò che lo diventa solo perché è l’ingiusto che accade al soggetto giusto: quello della curva avversaria.

I due episodi e le diverse reazioni. I video dello stupro di Piacenza e di Alika ucciso a Civitanova: la doppia morale della sinistra che ora attacca Meloni. Hoara Borselli su Il Riformista il 26 Agosto 2022 

Sono giorni che sta tenendo banco la polemica da quando Giorgia Meloni ha pubblicato sui social il video relativo allo stupro che si è consumato a Piacenza ai danni di una donna ucraina per mano di un richiedente asilo. Video che è stato diffuso da diverse testate giornalistiche, tra cui Il Messaggero e che è poi stato pubblicato.

Io non voglio entrare nel merito se sia giusto o sbagliato averlo pubblicato ma voglio guardare alle conseguenze anche perché si sta parlando di un’inchiesta nei confronti della Meloni rispetto alla pubblicazione di questo video. Ed ecco qui l’ipocrisia e la doppia morale.

Tutti voi ricordate il tragico evento di qualche settimana fa. L’episodio del giovane nigeriano Alika ucciso per strada a Civitanova Marche. Il suo video ovviamente è stato diffuso su tutti i social e abbiamo assistito alla sua morte in diretta senza che nessuno si preoccupasse di offuscare la sua faccia. Invece nel video non si identificavano le identità delle due vittime ma si sentivano soltanto le voci.

Omicidio di Civitanova, il disturbo bipolare e la rabbia della famiglia di Alika: “Aveva un tutor, perché non era vigilato?”

Tutti i social hanno subito cancellato il video di Piacenza e invece, con mio stupore, è rimasto online il video di Alika. Allora qui c’è qualcosa che non va perché se vogliamo parlare di rispetto dell’identità di una persona è giusto che venga rispettata la dignità di una ragazza che viene stuprata ma anche quella di un uomo di colore che muore per strada.

Non mi sembra che la sinistra si sia indignata rispetto alla diffusione del video di Alika a differenza di quello che è successo per il video pubblicato da Giorgia Meloni. È qui che c’è la distonia, il doppiopesismo, la doppia morale.

Lo stesso Letta non ha proferito parola sullo stupro senza trascendere nella polemica e pensare più alla campagna elettorale. Lasciamo da parte le sterili polemiche, lasciamo da parte la magistratura e cerchiamo di rendere più sicure le nostre strade ed evitare che questi episodi accadano. 

Hoara Borselli. Inizio la mia carriera artistica come una delle protagoniste della fortunata "soap opera" CENTOVETRINE per essere poi chiamata dal Cinema a rivestire il ruolo di protagonista nel film PANAREA. Il grande successo è arrivato con la trasmissione BALLANDO CON LE STELLE, vincendo la prima edizione. Ho proseguito partecipando alle tre edizioni successive. Da lì il ruolo da protagonista nella tournèe teatrale la febbre del sabato sera, dove ho calcato, a ritmo di "sold out", tutti i più grandi teatri italiani. A seguire sono stata chiamata come co-conduttrice e prima ballerina nel programma CASA SALEMME SHOW, quattro prime serate su Rai1. In seguito ho affiancato Fabrizio Frizzi nella conduzione della NOTTE DEGLI OSCAR, poi Massimo Giletti nella conduzione di GUARDA CHE LUNA sempre su Rai1. Poi ho condotto il Reportage di MISS ITALIA. Sono stata protagonista della fiction televisiva PROVACI ANCORA PROF, otto puntate in prima serata su Rai1 e TESTIMONIAL di importanti aziende di vari settori.

L'orrore in strada e gli avvoltoi della campagna elettorale. Il video della donna violentata a Piacenza, Meloni e Salvini si accendono solo quando l’aggressore è straniero. Redazione su Il Riformista il 22 Agosto 2022

La violenza sessuale subita da una donna di 55 anni a Piacenza da parte di un 27enne migrante richiedente asilo diventa tema di scontro politico con accuse di sciacallaggio e di cavalcare una vicenda solo perché vede protagonista un giovane di nazionalità straniera. Un episodio vergognoso che però trova sensibile partiti come Fratelli d’Italia e Lega solo quando i protagonisti in negativo hanno la pelle nera e sono sbarcati in Italia in fuga dai loro Paesi. Come se gli altri stupri e le altre violenze commesse sulle donne, che sono all’ordine del giorno, fossero di serie B perché vedono protagonisti cittadini italiani.

I fatti raccontato di un 27enne arrestato all’alba di domenica 21 agosto dalla polizia dopo essere stato bloccato in strada mentre stava violentando la donna, di nazionalità ucraina, che stava passeggiando da sola nel centro storico della città emiliana.

Quest’ultima è stata aggredita e gettata a terra sul marciapiede dal 27enne che ha iniziato a violentarla. A lanciare l’allarme un residente della zona allertato dalle urla della donna. E’ partita così la chiamata alla polizia intervenuta poco dopo per bloccare l’aggressore originario della Guinea con lo status di richiedente asilo.

La donna è stata ricoverata all’ospedale di Piacenza in forte stato di choc con la neoeletta sindaca Katia Tarasconi (Pd) ha condannato l’episodio invitando le forze politiche impegnate nella campagna elettorale a non strumentalizzare la vicenda. “Spero – ha detto – che non si scada nella strumentalizzazione riguardo la nazionalità del delinquente, come se fosse colpa di chi si impegna per l’accoglienza e l’integrazione se un richiedente asilo commette un crimine. La colpa è del richiedente asilo in questione”.

Nel frattempo qualcuno ha girato il video della violenza, diffondendolo sui social. Il filmato è stato oscurato e utilizzato da Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, che non ha perso occasione per ricordare che “non si può rimanere in silenzio davanti a questo atroce episodio di violenza sessuale ai danni di una donna ucraina compiuto di giorno a Piacenza da un richiedente asilo. Un abbraccio a questa donna. Farò tutto ciò che mi sarà possibile per ridare sicurezza alle nostre città“.

La vicenda è stata tuttavia strumentalizzata oltre che da Meloni anche dal leader della Lega Matteo Salvini che ha annunciato che sarà presto a Piacenza “per confermare l’impegno della Lega per restituire sicurezza al nostro Paese: 10.000 poliziotti e carabinieri in più nel 2023, più telecamere accese e blocco degli sbarchi clandestini. Richiedente asilo e stupratore. Basta! Difendere i confini e gli italiani per me sarà un dovere, non un diritto“.

Immediata la replica del Pd con la senatrice Valeria Valente, presidente della Commissione Femminicidio e candidata al Senato in Campania, che accusa: “A Piacenza è accaduto un fatto gravissimo, un richiedente asilo originario della Guinea ha tentato di stuprare una ragazza ucraina, è stato fermato dai passanti e poi dalle forze dell’ordine. Tuttavia la destra sa bene che la violenza contro le donne non c’entra con l’inesistente invasione dei migranti”. Poi incalza: “Fdi e Lega non parlano mai delle donne violate e della loro dignità, l’accento è sempre tutto sull’uomo e sulla sua nazionalità, per alimentare a fini elettorali la paura dell’invasione dei migranti, che non esiste“.

“Le dichiarazioni di Fdi e Lega – aggiunge – rispecchiano il loro maschilismo bieco. Tutti sanno che la violenza maschile è un dramma di natura culturale, è diffusa tra gli italiani come tra gli stranieri. Ciò che è accaduto a Piacenza è gravissimo e l’uomo arrestato sarà perseguito. Come deve essere sempre: le donne vengono stuprate anche dagli italiani e i femminicidi avvengono soprattutto in famiglia. Come la mettiamo, Meloni e Salvini? Prima gli italiani?“.

Condanna anche da parte del segretario del Pd Enrico Letta: “Il video postato da Giorgia Meloni su uno stupro è un video indecente e indecoroso, invito tutti a fare una campagna elettorale in cui si parli delle cose e ci si confronti anche animatamente. Ma non si può essere irrispettosi dei diritti delle persone”.

La stessa Meloni ha rispedito al mittente le “menzogne” e la “propaganda” sullo stupro: “Non consento a Enrico Letta di diffondere menzogne sul mio conto e fare bieca propaganda sul gravissimo stupro di Piacenza. Il video pubblicato sui miei social – ha sottolineato – è oscurato in modo da non far riconoscere la vittima ed è preso dal sito di un importante quotidiano nazionale, a differenza di quanto da lui sostenuto. Questi metodi diffamatori e che distorcono la realtà sono ormai caratteristici di una sinistra allo sbando, lo sappiamo tutti da tempo, ma a tutto c’è un limite. Soprattutto quando si parla di stupri e violenza sulle donne. E mi vergogno francamente di leader politici che mentre usano uno stupro per attaccare me non spendono una parola di solidarietà per la vittima (circostanza non vera, ndr), evidentemente – ha concluso Meloni – per paura di dover affrontare il tema dell’emergenza sicurezza aggravato dall’immigrazione illegale di massa. Che livello”.

Anche il leader del Terzo Polo Carlo Calenda si schiera contro Giorgia Meloni: “Denunciare uno stupro è un atto dovuto. Mostrarlo per fini di campagna elettorale è un atto immorale e irrispettoso in primo luogo per la donna che lo ha subito, che certamente non vorrebbe essere esposta sui social in questo modo. Giorgia Meloni? Vergognati”. 

Arcangelo Rociola per lastampa.it il 25 agosto 2022.

Per gli hacker di tutto il mondo è una semi divinità. Il suo nome circola negli ambienti informatici da almeno 20 anni. Non il suo vero nome in realtà, ma quello da hacker: Mudge. E sul suo lavoro la voce è unanime: Peiter Zatko è un mito. Una volta disse che lui il suo team avrebbero potuto mettere fuori uso internet in tutto il mondo in meno di 30 minuti. Era vero. Ha lavorato per organizzazioni governative statunitensi e ricoprendo ruoli delicati dopo gli attacchi dell’11 settembre.

Zatko è l’ex manager di Twitter che martedì ha accusato la società di avere scarsa cura della propria sicurezza informatica, della privacy degli utenti, di avere le porte aperte a infiltrazioni informatiche malevole, ma soprattutto di non poter fare nulla contro gli account falsi sulla piattaforma. Semplicemente perché non ha gli strumenti per contrastarli. Musica per le orecchie di Elon Musk, che proprio per l’incertezza sul numero di account falsi vuole far saltare il suo accordo per comprare il social per 44 miliardi di dollari.

Zatko ha lavorato per poco più anno a Twitter come capo della sicurezza. Twitter lo ha licenziato a gennaio di quest’anno per scarso rendimento sul lavoro. Il sospetto è che Mudge possa aver agito per ripicca. Vero o no, il suo è uno dei profili più adorati nel mondo della sicurezza informatica. 

E' considerato tra i massimi esperti di un mondo complesso e accessibile a pochi, e dove ci vuole studio e costanza per arrivare ai vertici. Eppure Zatko non ha studiato informatica o sicurezza. Al college preferisce studiare musica. Si diploma al Berklee college of Music di Boston come il migliore della sua classe. Prima dell’hacking di sistemi informatici, la sua passione sono il violino e la chitarra. Il Rock progressive il suo genere preferito. Da ragazzo suona anche in una band. Rock progressive, manco a dirlo: i Raymaker. 

Ma dopo l’università Zatko è stato assunto dalla Bbn Technologies, un'azienda di ricerca e sviluppo informatico. Anni Novanta. Albori della sicurezza informatica. Lì fonda il suo gruppo di sicurezza aziendale, ha dichiarato alla rivista Berklee Alumni. Mentre lavorava alla Bbn, Zatko si è unito a un gruppo di amici hacker per formare il collettivo L0pht, sede a Boston, che si proponeva di trovare e divulgare le vulnerabilità nel software delle aziende, compreso Microsoft Windows.

"Li abbiamo messi un po’ alla berlina e ci hanno odiato per questo, ma questo è stato uno dei motivi principali per cui Microsoft ha creato un team di sicurezza", dichiara poi Zatko alla rivista Berklee Alumni. Nel 1998, Zatko compare al Senato statunitense, insieme ai suoi colleghi di L0pht. 

Le istituzioni Usa chiamano il gruppo a testimoniare sulle vulnerabilità delle infrastrutture critiche di internet. Disse che il gruppo aveva scoperto un exploit che avrebbe "permesso a lui e ai suoi colleghi di mettere offline l'intera rete Internet in 30 minuti". Una doccia fredda per il Senato.

Ma le vulnerabilità risultarono concrete e l’hacker continuò a lavorare nel giro delle istituzioni. Zatko ha continuato a fornire consulenza all'amministrazione di Bill Clinton sulla sicurezza informatica e il suo lavoro con il governo degli Stati Uniti è proseguito anche dopo la presidenza di Clinton. 

"Prima dell'11 settembre ho lavorato molto con il governo e dopo gli attacchi ho fatto ancora di più", ha dichiarato Zatko. "Ho preso un'aspettativa dalla mia azienda e ho svolto un lavoro pro bono per il governo. Ero un cittadino con le capacità di cui il Paese aveva bisogno e sentivo che era mia responsabilità aiutare".

Da lì la sua carriera ha preso il volo. La Defense Advanced Research Projects Agency (Darpa), una divisione del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, ha assunto Zatko nel 2010 come responsabile di programma. 

Dal 2013 al 2015 lavora a Google, ma lascia l’incarico per andare a lavorare alla Casa Bianca gli ha chiesto la creazione di un software per stabilire la sicurezza dei software per i consumatori.

Nel 2016, Zatko e sua moglie Sarah progettano e sviluppano uno strumento che applica punteggi di sicurezza al software. Come richiesto. La coppia dichiara di averlo costruito nel proprio scantinato. 

Zatko è entrato a far parte di Twitter come responsabile della sicurezza dell'azienda nel 2020, poco dopo che un hack di alto profilo ha compromesso diversi account di celebrità. Un lavoro normale. Fino al licenziamento. E alle accuse.

Elon Musk ha chiesto a Zatko di testimoniare al processo sul caso Twitter che si svolgerà a ottobre in Delaware. Non è difficile immaginare che possa svolgere un ruolo chiave per indurre i giudici a decidere in favore del capo di Tesla. 

Da repubblica.it il 22 agosto 2022.

Chi è senza colpa social scagli la prima pietra. E però ne fischiano già parecchie, l’altro ieri contro due giovani capilista del Pd: quello che ci ha rimesso il posto in Basilicata aveva fatto pure lo spiritoso sottomettendo la credibilità dello stato di Israele a una specialità di pastasciutta, “il mollicato” di una leggendaria trattoria di Avigliano, “Mauariedd”. 

Ieri ben tre sassate. Una contro un ulteriore capolista under 30 del Pd, Marco Sarracino, in Campania, pizzicato a inneggiare nel 2019 alla Rivoluzione d’ottobre e all’Unione sovietica; una seconda, sul versante opposto, ai danni di un esponente marchigiano di Fratelli d’Italia, Guido Castelli, che si affacciava nerovestito su Facebook facendo il saluto romano, in data imprecisata, ma sul portone della Cripta Mussolini. Infine sempre via social si è scoperta che una candidata napoletana dei cinque stelle, Claudia Majolo, qualche anno fa non solo pubblicava hashtag tipo #Berlusconiamoremio, ma si scagliava proprio contro i grillini facendo loro pesare che “o’ Nan’”, cioè il Cavaliere, insomma secondo lei “chiavava” assai più di loro e “con le femmine più belle”.

I SOCIAL E L'EFFETTO BOOMERANG. Estratto dall'articolo di Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 22 agosto 2022.

Chi è senza colpa social scagli la prima pietra. E però ne fischiano già parecchie, l'altro ieri contro due giovani capilista del Pd: quello che ci ha rimesso il posto in Basilicata aveva fatto pure lo spiritoso sottomettendo la credibilità dello stato di Israele a una specialità di pastasciutta, "il mollicato" di una leggendaria trattoria di Avigliano, "Mauariedd". Mentre la collega Rachele Scarpa oltre alle critiche a Israele ha sciorinato elogi alla patrimoniale altre tre sassate. 

Una contro un ulteriore capolista under 30 del Pd, Marco Sarracino, in Campania, pizzicato a inneggiare nel 2019 alla Rivoluzione d'ottobre e all'Unione sovietica; una seconda, sul versante opposto, ai danni di un esponente marchigiano di Fratelli d'Italia, Guido Castelli, che si affacciava nerovestito su Facebook facendo il saluto romano, in data imprecisata, ma sul portone della Cripta Mussolini.

Infine sempre via social si è scoperta che una candidata napoletana dei cinque stelle, Claudia Majolo, qualche anno fa non solo pubblicava hashtag tipo #Berlusconiamoremio, ma si scagliava proprio contro i grillini facendo loro pesare che "o' Nan'", cioè il Cavaliere, insomma secondo lei "chiavava" assai più di loro e "con le femmine più belle". 

Sia consentito di non entrare nel merito delle singole vicende, anche perché altre, e poi altre, e altre ancora ne usciranno fuori. Più interessante è la frequenza di questi agguati della memoria digitale resi massivi, a destra come a sinistra, dall'imponente e disinvolto uso dei social, specie da parte delle giovani generazioni, secondo moduli che potrebbero definirsi di autolesionismo postumo; ossia un giorno, lillo lallo, pubblichi una roba che, come un boomerang al rallentatore, prima o poi ti ritorna addosso. 

Si può quindi aggiungere che come un tempo esistevano gli agit-prop, esistono oggi squadrette di sicari che perlustrano il web alla ricerca di post e foto potenzialmente compromettenti. Hai voglia infatti a cancellare. Perché lì dentro resta assolutamente tutto. […]

È difficile stabilire se l'odierna visibilità, figlia della moltiplicazione degli schermi, sia la causa o un effetto di questi procurati incidenti; sta di fatto che il regime dell'auto- apparenza accompagna passo passo una classe politica che nei social si esprime attraverso un costante sfogo di narcisismo, esibizionismo, imprudenza, faccia tosta, leggerezza e volatilità.

In altre parole le piattaforme digitali sono a tutte le età e a tutti i livelli del potere l'ideale palcoscenico dell'odierna crisi italiana, ma anche il luogo meno difeso rispetto alle possibili, anzi certissime incursioni del nemico (pure lui, comunque, in via di disfacimento). [..]

Connessi in modo parossistico alla rete, finiscono in realtà per sconnettersi dalla realtà scoprendosi, anzi offrendo di buon grado il fianco a qualsiasi malintenzionato che sappia sfruttare, prima durante e dopo la campagna elettorale, promesse a vanvera, sparate contraddittorie, selfie con gentaccia, sfacciati assenteismi, microfoni accesi e vocali imperdonabili; e ancora account fasulli, lodi auto- sbrodolate, paparazzate abituali od occasionali, citazioni assurde, errori di grammatica, e giù fino ai colpi di sonno, ai titoli di studio fasulli, ai posteggi in seconda fila e alle risatine durante i funerali. […] 

QUANTI CADUTI PER UN TWEET IN RETE. Estratto dall'articolo di Massimiliano Panarari per “La Stampa” il 22 agosto 2022.  

Ne "uccide" - in senso metaforico - più Twitter della spada. E degli stessi veti incrociati delle correnti interne ai partiti. Di recente, le cronache politiche sono uno stillicidio di candidature mancate o ritirate a causa di improvvidi tweet e post che riemergono dal passato. Un «twittericidio» che sta lasciando diversi caduti sul campo. […] 

Grande Fratello Internet? Social-maccartismo? Il punto è che le tracce digitali non vanno "in prescrizione", e per la politica non vale il diritto all'oblio. Così Twitter, insieme agli altri media sociali, si è trasformato in un armadio permanente degli scheletri di chi ambisce a una carica elettiva e, proprio per questo, dovrebbe darsi un profilo pubblico rigoroso o, quanto meno, rammentare il proverbio «un bel tacer non fu mai scritto». 

Adesso, giustappunto, valido specialmente sui social, dove si invera la profezia di Zuckerberg sull'avvento della trasparenza assoluta. Perciò, come avviene negli Usa, pure i partiti nostrani dovrebbero fare un po' di vetting (la verifica preventiva delle "credenziali" di chi presentano all'elettorato).

Maurizio Ferraris per “La Stampa” il 20 agosto 2022.

Non essendo mai stato su un social, ho qualche difficoltà a capire l'invettiva di Paolo Crepet contro i social, che a me non hanno mai dato alcun fastidio. Non possedendo, purtroppo, un social, non dispongo degli strumenti atti a valutare l'attendibilità della profezia di Crepet intorno alla loro prossima scomparsa.

Quello che apprendo da strumenti molto tradizionali come i giornali è che ogni generazione ha i suoi social, e scrivendo "ogni generazione" non mi riferisco all'avvicendarsi dei boomer, dei millenial, della generazione Z e così via, ma al genere umano dalle sue origini. Una delle caratteristiche dell'umano è di essere un animale sociale, dotato di tecnica, compresa quella forma di tecnica che è il linguaggio e, più avanti, quell'altra tecnica che è la scrittura.

Non ho alcuna difficoltà a immaginare che quando la scrittura è diventata di uso corrente, per esempio in Grecia, ci sarà stata qualche invettiva contro la scrittura. 

Anzi, non devo nemmeno immaginarlo, perché c'è stata davvero: Platone, nel Fedro, ha scritto che la scrittura conferisce un falso sapere, e fa circolare le idee fra persone che non sono preparate a capirle. Mi sembra di ritrovare in Crepet qualcosa di questa condanna, anche se è più coerente di Platone, perché se quest' ultimo deplora per iscritto la scrittura immagino che Crepet non abbia postato sui suoi social, posto che ne abbia, la sua requisitoria.

Così, non dobbiamo pensare che la tecnica sia solo moderna, c'è dall'origine dell'umanità, e, ben lungi dal disumanizzarla, la umanizza, perché senza di essa saremmo solo degli animali particolarmente deboli e disadattati. Che oggi la tecnica, invece che a scavare buche o avvitare bulloni, ci aiuti a esprimere i nostri sentimenti e le nostre idee, mi sembra un indiscutibile progresso. Che quei sentimenti e quelle idee possano essere spregevoli, aberranti, idioti o anche solo stereotipati, dipende da chi li esprime, non dallo strumento. 

Di qui due effetti prospettici su cui vale la pena di riflettere. Ci saranno stati sicuramente degli imbecilli nelle caverne, solo non hanno lasciato traccia, ed è su questa circostanza che si è fondato il mito del buon selvaggio; che oggi l'imbecillità sia più documentata, grazie ai social, è un male o un bene? Secondo me è un bene, non solo perché è più documentata anche l'intelligenza, ma anche perché, comunque la si metta, l'ignoranza è un male. Più interessante ancora però è un altro fenomeno: ogni tecnologia naturalizza quella precedente.

Oggi Crepet e altri biasimano i social e le notorietà immeritate che producono, ma trent' anni fa Popper trovava gli stessi difetti nella televisione, settant' anni fa Heidegger se la prendeva con le macchine per scrivere, trovando, chissà perché, più "naturale" la scrittura a mano (un'altra mediazione tecnica del pensiero, proprio come lo è il linguaggio, tanto è vero che sono cose che si imparano esattamente come andare in bicicletta), Nietzsche biasimava i giornali e la tendenza a diffondere e abbassare la cultura. 

Sono sicuro che i social avranno degli eredi, ma sono altrettanto certo che un Crepet dell'avvenire li criticherà rimpiangendo i bei social di una volta.

Vorrei finire con due aneddoti. Il primo riguarda Goethe, cui molti rimproveravano i suicidi provocati dal Werther, che (non dimentichiamolo) è un romanzo basato sul social dell'epoca, la corrispondenza epistolare. Rispose: e quelli che muoiono nelle miniere inglesi? In effetti, quei minatori avevano una vita durissima che era risparmiata ai lettori del Werther; e chiunque abbia a cuore l'umanità non può non rallegrarsi del fatto che oggi così tanti possano stare sui social invece che in miniera.

Il secondo riguarda Kant, che nel 1771 recensì un libro in cui il medico pavese Pietro Moscati dimostrava, prove scientifiche alla mano, quali e quanti danni fossero venuti agli umani dall'adozione della stazione eretta. Dopo aver esaminato con partecipazione la lista delle disgrazie della civiltà, Kant non la contestava, ma concludeva che l'umano, invece che tornare a quattro zampe, deve «adattarsi agli incomodi che gli vengono dall'aver sollevato il suo capo così orgogliosamente sopra i suoi vecchi camerati». 

De te fabula narratur: ci sono degli incomodi nei social (evitabilissimi, basta non leggerli) ma costituiscono un passo in avanti nel cammino, purtroppo infinito, che si chiama "umanità".

Mo me lo segno. Ho scoperto il segreto di TikTok e ora so perché è meglio dei penzierini su Twitter. Guia Soncini su L'Inkiesta il 20 Agosto 2022

I social sono una benedizione perché fanno sfogare gli indignati, i quali altrimenti accoltellerebbero i passanti. Ma ci voleva la Cina per inventarne uno che ripristinasse le classi sociali in cui i giullari dilettanti si esibiscono, e noialtri ci mandiamo i video dicendoci privatamente «ma ti rendi conto»

Sono mesi che m’interrogo su TikTok. Sul perché sia così ipnotico. Su cos’abbia di diverso dagli altri social network. Su Troisi e Savonarola. Su cosa stiamo diventando (questo meno, anche perché ogni volta che sto per pormi una domanda filosofica mi ricordo di quell’Altan che «Chi siamo? Dove andiamo? Che codice fiscale abbiamo?»).

Chiara Galeazzi ha scritto sul Foglio che TikTok è l’unico social sul quale si vedono i lavoratori, e io che sono un animo semplice ho pensato che in effetti l’algoritmo nelle scorse settimane era passato dal mostrarmi video di Crepet al mostrarmi video di gente che si lamenta degli stipendi bassi. Una mia amica più veloce a pensare ha commentato l’osservazione della Galeazzi dicendo: è perché è cinese (TikTok, non la Galeazzi).

La risposta l’ho trovata su Twitter, mentre facevo la cosa che quelle come me (perdigiorno abituate a trarre sostentamento dalla propria sfaccendatezza, gente senza morale che con le presenze social gratuite degli altri fa libri, articoli, e altra roba di cui poi non divide gli incassi coi vari Vongola75 che tanto l’hanno ispirata) più spesso fanno su Twitter.

Ci sono quelli che su Twitter promuovono il loro lavoro («ho scritto di», premettono al tema del giorno, aggiungendo poi speranzosi il link d’un articolo che nessuno clicca perché tutti passano le ore successive a insultarli per il titolo).

Ci sono quelli che su Twitter dicono la loro sul mondo, perché dirla ai congiunti a cena pare non bastare più, bisogna dire al mondo che si tiene all’ambiente, che si è contro la guerra, che gli assorbenti dovrebbero essere gratis e gli aerei privati inquinano (quest’ultima cosa bisogna dirla su un social i cui server inquinano quanto tutti gli aerei privati di tutti i fantastiliardari del mondo).

E poi ci siamo noialtri cialtroni che stiamo su Twitter come negli anni Novanta si guardava il Tg4: fammi vedere quanto riescono a coprirsi di ridicolo oggi.

Ero dunque intenta in quest’attività quando sono incappata in un account qualunque, di quelli costantemente indignati. Questo che chiameremo Tizio ce l’ha, con la stessa enfasi, con Israele e con Aranzulla, con me e con la Meloni, con Makkox e con Bolzaneto. Tutto è sullo stesso piano di «Vergogna, puntesclamativo», «Che schifo, puntesclamativo». Niente che non abbiamo già visto un milione di volte.

Però, a scorrere i suoi tweet, ogni tanto ce n’era uno personale. Così come quelli indignati, essi erano grida nel vuoto, privi di cuoricini e di risposte, giacché gli indignati sono troppi perché il mercato dia retta a tutti, e anche scrivere cose che si prestino al facile consenso degli utenti non ti garantisce attenzione.

I tweet in cui Tizio lasciava intuire gravissimi problemi personali erano privi d’interazioni, si spera, perché tra i suoi follower quelli che lo conoscono a quel punto l’avranno chiamato chiedendo «oh, come stai?». Fuori dall’internet, persino la gente dell’internet conserva una qualche normalità, credo. Oppure Tizio è solo punito dall’algoritmo e nessuno si è accorto del suo malessere: malesseri non diversi dai suoi sono premiati da centinaia di manifestazioni di solidarietà performative (guardami, sono buono, cuoricino i disagiati).

Io, che non conosco Tizio e non ho la pazienza di fingere preoccupazione per il benessere degli sconosciuti, quegli squarci di malessere li ho presi come un indizio. Tizio vive una vita povera di soddisfazioni ma può sfogarsi sui social, dove si scorda per qualche minuto di quel che non va nella realtà e si trasforma in castigatore di ingiustizie politiche e sociali, vite dei famosi, ricchezze immeritate.

Come ogni volta, ho detto a me stessa che i social sono una benedizione: meno male che Tizio ce li ha, sennò magari accoltellerebbe i passanti. Meno male che Vongola75 può scrivere quanto le fanno schifo i miei articoli, la mia sintassi, la mia stessa esistenza, almeno si sfoga e non me la trovo sotto casa con una pistola e una copia del Giovane Holden (questo è il punto che dovete ritagliare per metterlo su Twitter e dire che quella mitomane di Soncini si sente Lennon).

Twitter è lo stato sociale che nessuno Stato era riuscito a inventare: un posto dove, a costo zero per la fiscalità generale, Carneade possa sentirsi rilevante, sentirsi alla pari con la popstar, l’ospite televisivo, il politico, il ballerino, l’imprenditore, ai quali rimarca quanto essi non godano della sua approvazione, quanto gli facciano schifo, quanto non possano illudersi di contarlo tra i suoi fan. E, mentre annoiati dal volo privato il ballerino e l’imprenditore e il politico scorrono le notifiche, alzeranno forse mezzo sopracciglio e penseranno a Troisi con Savonarola: sì, mo me lo segno.

Tutte queste cose le ho pensate un milione di volte, ma di fronte alla misera vita di Tizio ne ho pensata un’altra. La premessa è: tutto questo ci dice che è giusto che Tizio stia sui social. E che gli studi legali che si arricchiscono facendo causa ai Tizio del mondo compiono un’impresa immorale: vogliamo che Tizio possa dirmi che sono una raccomandata incapace che ha fatto carriera dandola via a pagamento, anzi neanche, essendo io troppo cessa pure per darla gratis? Vogliamo che possa sfogarsi in questo modo innocuo, o che mi accoltelli?

La premessa è questa, e il pezzo di ragionamento che non avevo finora fatto è: ma se è cosa buona giusta e doverosa e salvifica che sui social ci stia Tizio, cosa ci facciamo noi? Cosa ci facciamo noi normali, noi con qualche piccola soddisfazione, un lavoro, una vita, uno straccio d’equilibrio psichico (precario, per carità)? Stiamo lì perché se Troisi non è alla finestra poi Savonarola come si sfoga?

Forse sì. E allora, ecco il segreto di TikTok. Che chi diavolo ha tempo e voglia di produrre video, diventa un lavoro, mica è come il penzierino su Twitter che ci metti cinque secondi e fai prima a scriverlo che a ponderare se sia il caso. TikTok è il social dove guardi gli incidenti stradali senza partecipare. Dove dai la possibilità a Tizio di dire quanto gli fai schifo, ma senza intervenire (che poi usiamo «bullismo» per tutto, e non per l’unica seria forma di prepotenza: mettersi a rispondere sui social a gente che non ha gli strumenti dialettici neanche per intervenire in assemblea di condominio).

Ci voleva la Repubblica Popolare Cinese per inventarsi un social che ripristinasse le classi sociali. In cui i giullari dilettanti si esibiscono, e noialtri ci mandiamo i video dicendoci privatamente «ma ti rendi conto», senza avere la tentazione di fargli vedere, ai dilettanti dell’esibizionismo, come si racconta una barzelletta nel mondo adulto, quello dei professionisti.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” l'1 agosto 2022.

I passanti invece di intervenire filmavano la scena con il telefonino. Molti tg hanno mandato in onda frammenti di questa terribile scena: quattro interminabili minuti in cui Alika Ogochukwu è rimasto in balia della furia di Filippo Ferlazzo, che l'ha prima colpito con la stampella che gli aveva tolto di mano, poi una volta a terra lo ha picchiato e schiacciato «a mani nude», fino a soffocarlo. 

Non so perché quelle persone non siano intervenute, non so come mi sarei comportato. So che  il nesso tra la morte e la sua rappresentazione in diretta è uno dei temi cruciali che da tempo attraversano le riflessioni sui media, uno di quei temi cui il cinema ha dedicato attenzione, a partire da L'asso nella manica di Billy Wilder a La morte in diretta di Bernard Tavernier, da Dentro la notizia di James L. Brooks ai cosiddetti «snuff movie», filmati amatoriali in cui vengono esibite torture con inevitabile epilogo.

Grazie alla rete, la morte non è più un tabù: dev'essere raccontata, mostrata, esibita quasi per la paura che una tragedia non vista resti invisibile, cioè inesistente. Ma i media siamo noi, sempre più pornograficamente addestrati a pedinare la morte in diretta. Inutile dare la colpa ai social, alla mania narcisistica di dover certificare la nostra giornata con foto, video, messaggi. 

Da molto tempo (per noi, almeno dalla tragedia di Vermicino) qualcosa si è spezzato per sempre, la morte si è fatta spettacolo, il nostro occhio si è indurito. Il catalogo delle atrocità è così sterminato che le domande legittime rattrappiscono sul nascere: un «accrescimento senza progresso», diceva Musil, che si risolve nella tranquilla connivenza della tragedia e del suo contrario.

La tragedia diventa abitudine per assuefazione, per indifferenza. La rete è il nostro nuovo ambiente di socializzazione, «luogo» in cui impariamo a comportarci, a divertirci, a soffrire. Persino a filmare un omicidio.

Sara Marino per mowmag.com l'1 agosto 2022.

Dopo l’omicidio di Alika Ogorchukwu, 39 anni, ammazzato a mani nude in pieno centro a Civitanova Marche fra la totale indifferenza dei passanti, ci si interroga su come sia possibile che un episodio così violento sia potuto accadere senza che nessuno intervenisse. Anche perché i video della sua straziante agonia sono diversi e testimoniano come l’ambulante, da qualche tempo anche disabile a causa di un incidente, sia stato finito da Filippo Ferlazzo, 32 anni, dopo una colluttazione e una agonia di almeno 4 minuti.

E mentre viene smentito il movente dell’operaio ora in carcere, e cioè che Alika abbia fatto degli apprezzamenti poco graditi verso la sua compagna, la comunità di Civitanova si mobilita almeno per dare sostegno alla famiglia del nigeriano. Alla moglie Charity Oriachi, distrutta dal dolore, e al figlio della coppia di soli 8 anni che, come vi abbiamo raccontato, è in stato di choc. Così, per uscire dal dibattito social e dalle contrapposizioni politiche, abbiamo chiesto il parere della scrittrice Barbara Alberti, una delle menti più lucide del nostro Paese, anche in momenti così bui. Allargando il discorso alla nostra società “di razzisti e consumisti fottuti” - ha tuonato – si è scagliata contro l’indifferenza di chi non ha fatto nulla per evitare la tragedia. 

Barbara Alberti come è possibile che si sia consumato un omicidio così feroce nell’indifferenza di chi si è limitato a riprendere la scena col cellulare senza intervenire?

È l’atroce simbolo di quello che siamo diventati, dei guardoni impotenti e assassini, perché chiunque assiste a questo e non aiuta si unisce all’assassino. Tutte le persone che non l’hanno soccorso sono complici di questo assassinio, questo non è l’assassinio di uno solo è un linciaggio, è come se gli altri avessero preso parte all’omicidio perché è proprio questo che hanno fatto. Tutti coloro che non sono intervenuti sono complici e sono sotto uomini. Ormai l’omicidio è diventato spettacolo, noi non siamo persone, siamo non persone.

In un’intervista in proposito, Don Vinicio Albanesi, fondatore della Comunità di Capodarco nelle Marche, da sempre impegnata nella tutela dei più deboli, riportava le confessioni di una ristoratrice che parlava di come spesso le persone di colore non potessero essere impiegate come camerieri perché sgradite ai clienti.

Perché siamo razzisti. Discriminare chi non è come te è una forma di paura, di diffidenza.

Eppure spesso si dice che la società civile è più avanti della politica ….

Siamo noi che ci chiamiamo civili, ci chiamiamo società civile, ma perché? Perché abbiamo dei diritti? Questo episodio cancella completamente la retorica della società civile, questa è la scena di un linciaggio a cui hanno partecipato con il cinismo addirittura del godere dello spettacolo.

Lei pensa che questa intolleranza montante nei confronti delle persone di colore derivi da un senso di impoverimento che pervade la società?

Cosa si odia? Si odia il povero. Si sono sempre odiati i poveri se poi hanno un colore della pelle diverso è una scusa maggiore. Noi terra di migranti non vogliamo i migranti evidentemente anche perché la cosa è organizzata malissimo dallo Stato. Basti prendere come esempio la continua criminalizzazione del presidio umanitario Baobab Experience che opera a Roma, associazione di santi laici, che fanno ciò che lo Stato dovrebbe fare. Ma d'altronde frustrati come siamo, noi che non siamo più uomini siamo consumisti. Abbagliati da un mondo che non possiamo avere ci scanniamo fra di noi, siamo diventati dei materialisti fottuti.

Siamo in piena campagna elettorale. E mentre la destra è sotto attacco di chi la accusa di aver soffiato sul fuoco dell’intolleranza, la sinistra arranca sui temi che dovrebbero esserle propri. Come vede il prossimo futuro?

La sinistra non c’è, la sinistra ha tradito, è diventata un’altra cosa. Magari ci fosse una sinistra ispirata, vera, magari ci fosse un partito radicale, un Marco Pannella! Non ci sono persone ispirate, non ci sono persone invasate, è venuta a mancare questa logica che il bene dell’altro è anche il proprio bene, è una logica della sopravvivenza, non è una massima cristiana, noi siamo dei suicidi.

E a destra cosa vede?

In assenza della sinistra la destra cresce, se non sai esprimere un ideale, un progetto, un programma… La destra che parla di sostituzione razziale e di irricevibilità di una legge sullo Ius soli è una destra che mi spaventa, è una destra aggressiva, che sta dalla parte del più forte e con gli ideali di sempre. D’altronde è tutto un grande omicidio.

Luca Josi per Dagospia il 31 luglio 2022.  

Ricordate queste due immagini? Più o meno, quel racconto è cominciato così.

Forse, in una caverna. Accadde che per vanità, testimonianza di un’impresa o per far ingelosire il suo vicino di grotta, qualcuno decise di fissare su una parete un racconto di una vicenda di cui era stato spettatore o protagonista. In questo caso, si tratterebbe di una pittura rupestre di 45.000 anni, australiana, la più antica del mondo (fino a quando non se ne troverà una più antica e via dicendo; un po’ come la misurazione del debito pubblico o dell’origine dell’universo).

Poi l’uomo è andato avanti con invenzioni straordinarie e ha conosciuto la parola al posto del verso, poi la scrittura del pensiero, rischiando ogni volta la perdita di qualcosa (per Socrate quella parola scritta avrebbe impigrito la memoria, per l’uomo primitivo, forse, il linguaggio si è manifestato come un dispositivo di comunicazione che atrofizza  e poi nebulizza una capacità e altri talenti che l’uomo poteva avere dentro di sé e cominciava a delocalizzare in un’infinita delega di un’infinita “cloud”; tipo Wikipedia rispetto al nostro archivio mentale).

Nel novecento una scoperta ha teletrasportato le emozioni della grotta, smaterializzandole e delocalizzandole. Quando l’uomo cominciò ad assistere a ripetizioni del reale e a confonderle con quelle teatrali che ammirava da qualche millennio - pensate a quante vendette, assassini e stragi si narravano in quelle rappresentazioni - qualche geniale intellettuale cominciò a descrivere i rischi di questo futuro (e da Benjamin a Pasolini troverete quello che vi serve; ma io qui mi fermo, perché pur rispettando la mia solida incompetenza, che di questi tempi candida a parlare e occuparsi di quasi tutto, esistono esperti, intellettuali e filosofi, che vi sapranno descrivere tutto questo molto meglio). 

Ma sostanzialmente, potrebbe essere andata così, per mitridatizzazione (da Mitridate, che ingurgitava una goccina di veleno al giorno per immunizzarsi dai rischi di corte).

Quando l’uomo cominciò a perdere il contatto con la concatenazione degli altri sensi, a mangiare animali che non aveva visto soffrire, a vincere guerre che non aveva combattuto, a emozionarsi per eventi che, a lotteria, gli si presentavano sotto i suoi occhi - uno per migliaia di quelli che si consumavano nel reale e che beneficiavano di documentazione - l’uomo iniziò a stararsi dal suo sé. Vedendo sangue e stragi nei film, alternate a stragi e sangue nella realtà, ma veicolate dallo stesso strumento, quanto sarebbe risultato facile distinguere, non coinvolgersi, partecipare e contemporaneamente essere trascinati da quelli reali?

È accaduto per queste generazioni di bambini, me compreso (quando lo fui), cresciuti tra peluche di animali umanizzati e parlanti nei loro cartoni, che poi mangiano regolarmente nei loro piatti perché, forse, loro immaginano nati direttamente negli scaffali e sui banconi di qualche supermercato avvolti in  una placenta di cellophane e prezzata (e non è un sermone da vegetariano, ma un assurdo di una società che rimuove la morte, non comprende la vita e pensa che gli animali li si possa solo mangiare e non ammazzare; perché se ne occuperà qualcun altro. Forse). 

Così, dopo aver letto qualche chilo di articoli sullo stordimento di un mondo che s’interroga sul suo piano inclinato di devastazione per l’assassinio di quel uomo di colore da parte di un uomo bianco (c’è anche questo) e degli uomini, prevalentemente bianchi, che riprendevano la scena, mi è tornato il flash di quelle due immagini: quella prima grotta e quell’anziana che fotografa il suo Cristo morente (Dago, onore a Dago, fu il principale editore di quella immagine). 

Nella retorica dei palinsesti non lineari - la tv generalista era quella dei contenuti decisi da altri e tu sceglievi quali scelte seguire secondo gli orari decisi da loro, mentre le piattaforme decidono cosa tu puoi guardare e tu decidi quando - siamo passati a quella del contenuto autoprodotto.

Così, accade che non riconoscendo più una strage vera da una di finzione, una guerra cinematografica da una dietro casa, l’uomo contemporaneo ascolti un solo imperativo: quello di testimoniarla in primis a se stesso per poi raccontarla ad altri.

Quindi, nella miliardaria storia della terra, il recente uomo è ancora, semplicemente, quella bestia che disegna. E fotografa (e commenta molto; a partire dal sottoscritto). A Civitanova, non c’è nessuna città nuova. C’è solo il solito uomo. Forse.

“Make Instagram Instagram again”. La grande ribellione contro la TikTokizzazione dei social. DANIELE ERLER su Il Domani il 27 luglio 2022

Una petizione firmata da 195mila persone chiede di tornare al passato, quando Instagram era semplicemente il social network delle fotografie. Invece sta andando in una direzione diversa, in cui diventeranno sempre più importanti i video degli sconosciuti. Come una sorta di grande imitazione di TikTok

Avete mai avuto la sensazione che i social network tendano ad assomigliarsi fra loro? Non è una sensazione, è una scelta di business che segue la precisa volontà di trattenere gli utenti, prima che si spostino altrove. Ora sta però crescendo la ribellione di chi invece vorrebbe tornare indietro nel tempo e fare di Instagram quello che era nel passato. Semplicemente un posto dove condividere belle fotografie. «Make Instagram Instagram again», secondo uno slogan che fa il verso a Trump.

E la polemica è stata innescata da Tati Bruening, una fotografa che sul suo account Instagram (@illumitati) ha pubblicato il suo manifesto: «Smettila di cercare di essere TikTok, voglio semplicemente vedere foto carine dei miei amici». Il post è stato paradossalmente ripreso anche da parecchi influencer (praticamente in una sorta di protesta contro sé stessi, che ricorda il Tafazzi di Mai dire gol). Dopo Kim Kardashian si è accordata anche Chiara Ferragni.

Il manifesto si è trasformato in una petizione su change.org che al momento della scrittura di questo articolo superava le 195mila adesioni. 

FARE STORIE

Il problema è che Instagram non è più (solo) un social per fotografi da tempo. Almeno da quando ha introdotto le “storie” che sono diventate forse il suo marchio di fabbrica per eccellenza. Ma che in realtà erano anche loro un’imitazione di un altro social network, in quel caso Snapchat.

Se si allarga lo sguardo, Meta ha costruito parte del suo business su una certa capacità di imitare i social network concorrenti, riuscendo in un certo senso a replicarne le esperienze. Così le “storie” sono oggi presenti anche su Facebook e su WhatsApp. E la sensazione è appunto di avere a che fare con strumenti diversi, ma sempre simili fra loro.

TIKTOK

Ma TikTok ha fatto una cosa diversa. Non ha semplicemente introdotto una nuova funzione, ha rivoluzionato il modo in cui si vive l’esperienza social. Basandosi su un algoritmo costruito sui gusti degli utenti, ha creato una serie di trend, dando notorietà a persone sconosciute.

La fruizione dell’app è in genere passiva: non ci si confronta con gli amici, ma si scorre attraverso i vari contenuti come se si facesse zapping. Se si vuole diventare parte attiva, allora si punta ad attrarre un pubblico potenzialmente infinito di sconosciuti.

E così anche Instagram ha perso la sua logica di condivisione di fotografie fra pochi intimi (inizialmente erano soprattutto amici e familiari). Sono nati prima gli influencer e poi i “reel”, una sorta di imitazione di TikTok. La petizione di Bruening vorrebbe riportare indietro il tempo.

IL FUTURO DI INSTAGRAM

Il fenomeno è diventato così influente che anche Adam Mosseri, il capo di Instagram, è stato costretto a rispondere. E in sostanza ha confermato che non si torna più indietro: il futuro dei social network sono i video, non le fotografie. Non lo ha scelto la società, sostiene, ma gli utenti che stanno andando tutti in quella direzione. «Rimarranno le foto perché sono parte della nostra storia e le adoro – ha detto Mosseri – ma, se devo essere sincero, Instagram sarà sempre di più un posto per i video».

Questo significa che l’algoritmo suggerirà anche i video (e i reel) di persone estranee, che non si seguono. In una sorta di grande ibrido che assomiglierà sempre di più a TikTok.

DANIELE ERLER. Giornalista trentino, in redazione a Domani. In passato si è laureato in storia e ha fatto la scuola di giornalismo a Urbino. Ha scritto per giornali locali, per la Stampa e per il Fatto Quotidiano. Si occupa di digitale, tecnologia ed esteri, ma non solo. Si può contattare via mail o su instagram.

(ANSA il 18 luglio 2022) - Il Papa torna contro le fake news e sottolinea che "l'uso dei media digitali, in particolare dei social media, sollevato un certo numero di gravi questioni etiche". "A volte e in alcuni luoghi, i siti dei media - dice in un messaggio al congresso mondiale di comunicatori cattolici di Seul - sono diventati luoghi di tossicità, incitamento all'odio e notizie false". E' necessario dunque "contrastare la menzogna e la disinformazione", aggiunge sottolineando "la necessità di aiutare le persone, soprattutto i giovani, a sviluppare un senso critico, imparando a distinguere il vero dal falso, il giusto dall'errato, il bene dal male". 

I social dimostrano quanto sia complicata l'arte del dialogare. Le relazioni d’affetto prive di interesse sono rare giustappunto perché parafrasando lo stesso Aristotele la massa ama ricevere del bene ma quando deve farlo evita perché si sa non si guadagna nulla. Alessandra Peluso su la Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Luglio 2022.

«Tutti sanno dire, ma pochi sanno parlare», pochi sanno ascoltare e riconoscere le tappe di una conversazione. Già con Nietzsche e agli inizi della modernità si individua il dramma della non presenza dell’ascolto, dell’assenza del silenzio, della non coscienza della parola che nella contemporaneità assume toni tragici giungendo perfino ad annullare tali momenti indispensabili per la relazione dell’Io e del Tu. O del lei?

Con la diffusione dei social si è reso sempre più visibile quanto sia complicato dialogare e come molti avendo l’opportunità di dire credono nella presunzione dell’Io: si abbattono le differenze, il rivolgersi con un «lei» a una persona diventa quasi un fenomeno irriverente dove a risultare ineducato è chi tende all’altro con rispetto e la giusta distanza al cospetto di chi invece crede che tutti siano amici. L’amicizia – ricordiamo – è un sentimento che per Aristotele costituisce la trama intricata delle relazioni umane ma che ha anch’essa differenti tipologie. Le amicizie sono rare. Hanno bisogno di tempo. Di conoscersi e riconoscersi reciprocamente. Di consuetudine. Di fiducia. Poi ci sono quegli «amici per l’utile che sciolgono l’amicizia insieme al venire meno dell’utile: non erano amici l’uno dell’altro, ma del profitto».

Le relazioni d’affetto prive di interesse sono rare giustappunto perché parafrasando lo stesso Aristotele la massa ama ricevere del bene ma quando deve farlo evita perché si sa non si guadagna nulla. L’umano non è cambiato. È mutata la storia. Le epoche. Ma non l’uomo. Con la contemporaneità difatti e con ciò che determina questa età si sono acuite tali problematiche già presenti, insite nelle società e che il mondo digitale come un evidenziatore giallo le ha poste in luce per chi sa porgervi lo sguardo. Se è opportuno ma non indispensabile che ognuno esprima la propria opinione, non tutte le opinioni valgono allo stesso modo e non si possono considerare indistintamente giuste o sbagliate, a favore o contro.

Massificare le opinioni comporta un’indifferenziazione costante e una confusione di parole. Non siamo sulla Torre di Babele dove ognuno parla la propria lingua e non viene compreso, bensì ci troviamo su un piatto volante dove l’orizzontalità mescola e rimescola fino a produrre l’indistinto. «La nausea». Si mostra a noi il triste risultato dell’incapacità di comunicare. È un’arte. Ce lo insegnano illustri maestri quali in particolare Plutarco, Seneca, Cicerone. Le lezioni dei classici. Dialogare è un’arte. Così l’ascolto e il silenzio. Si insegnano e si apprendono durante la vita scolastica e famigliare in primis, o almeno dovrebbe accadere. È fondamentale educare al dialogo: rispettare i momenti di ascolto e di silenzio anche per dialogare con se stessi e sapersi ascoltare. È essenziale imparare a farlo. Talvolta la mancata alfabetizzazione depauperata dall’umiltà e dalla saggezza non guida alla conversazione ma a imporre magari alzando il tono della voce e ad attaccare l’interlocutore con «tu sei contro quello, o a favore di quello, ognuno resta del proprio parere»: si tratta di espressioni pregiudizievoli che denotano chiusura e incapacità di arricchirsi attraverso il dialogo perché l’altro diventa solo un elemento di disturbo e non di crescita. Sono momenti che mi ritrovo a osservare e che vivo con estremo disagio, tacendo il più delle volte.

Questo può accadere anche tra persone istruite, fra persone di una certa familiarizzazione alla cultura o forse non nel significato autentico della «cultura» che Georg Simmel, filosofo della modernità, riconosce, «Erkennte», come «incontro»: la cultura non è un semplice possesso di contenuti del sapere, ma un sapere penetrato «nella vitalità dello sviluppo soggettivo dell’individuo e la cui energia spirituale trova la concretezza in una cerchia quanto possibile vasta e sempre più estendentesi di contenuti ricchi di valore», in altre parole essa è «meglio definita come incontro e questi è ben riuscito quando la persona viene non soltanto divertita ma anche sfidata, non soltanto istruita ma anche potenziata, impara delle nozioni ma diventa anche molto più consapevole e più raffinata, grazie a ciò che apprende ed esperisce nell’entrare in rapporto coi prodotti dell’attività intellettuale ed estetica di altri».

In altre parole, dietro la fenomenologia della cultura si possono celare uomini frustrati, insoddisfatti del proprio «esserci», carenti di affettività, incapaci di ammettere l’errore. Ebbene, la cultura è un percorso che conduce all’anima. Ricercarla è vitale, sebbene raggiungerla risulti arduo, senonché impossibile. È rilevante provarci. Sempre. Per conoscersi e riconoscersi nei propri limiti.

In definitiva, nell’abisso del non incontro, della non cultura, dell’alienazione del soggetto nella non accettazione del diverso, il telos è quello di educare al dialogo e finanche «educare alla vita», a stimare la vita, la persona nel rispetto delle differenze individuali, dei momenti che contraddistinguono l’interazione umana, il tempo della vita: silenzio, ascolto. Tutti hanno il diritto di parlare, giusto, ma non tutti possono pretendere di essere ascoltati se non sono consapevoli di chi sono e a chi si rivolgono.

L’omologazione annulla le differenze e questo non è un bene, significa in altre parole, non essere avvezzi al paradigma della ragione, della «filosofia della coscienza» nonché alla «filosofia del linguaggio», o per meglio dire, dell’«agire comunicativo» (Habermas). L’attore sociale non deve indossare solo maschere ma è legittimamente chiamato a saper parlare e a interagire con l’altro. Con libertà e responsabilità. Riconoscenza. Gratitudine. Detto altrimenti, Etica.

Chieti, il nonno lo sgrida perché passa troppo tempo al cellulare: 15enne lo uccide e poi pubblica il video. Redazione Tgcom24 il 9 luglio 2022.

Era stato rimproverato perché passava troppo tempo al telefono. Per questo un 15enne di Bucchianico (Chieti) ha prima litigato con la nonna e poi ha aggredito con violenza il nonno, colpendolo mortalmente con un aspirapolvere, una sedia e sferrandogli anche dei calci. Durante le violenze, il giovane - seguito dai servizi sociali per problemi psichiatrici - si è ripreso con il cellulare per poi pubblicare le immagini sul suo stato di WhatsApp. Il 78enne è deceduto in ospedale a Pescara, mentre il ragazzo è stato arrestato con l'accusa di omicidio volontario aggravato. Ora è ricoverato al Policlinico di Chieti, piantonato dai militari.

La dinamica - Il ragazzo, malato psichiatrico e proveniente da un contesto familiare problematico, era stato affidato ai nonni materni con cui viveva da anni. Dopo il loro rimprovero per l'eccessivo uso del cellulare, il 15enne ha avuto un alterco con la donna e in seguito con l'uomo, che era intervenuto in difesa della moglie. Stando a quanto emerso, lo ha colpito ripetutamente al volto e allo sterno con un aspirapolvere e una sedia. Mentre gli saltava addosso con i piedi, ha anche filmato la scena con lo smartphone per poi postarla.

I soccorsi - A chiedere aiuto alle forze dell'ordine e ai soccorritori del 118 è stata la nonna. Giunti nella villetta di Bucchianico, hanno trovato il 78enne in gravissime condizioni, con fratture al viso e le costole rotte. Dopo le violenze, il 15enne si è rinchiuso nella propria camera, dalla quale è uscito solo su sollecitazione dei carabinieri. Sotto shock, è stato trasportato all'ospedale di Chieti, dove è piantonato dai militari.

I rilievi - Il telefonino è stato sequestrato dai carabinieri insieme ad alcuni indumenti e altri reperti. I militari della sezione investigativa scientifica del nucleo investigativo del Comando provinciale di Chieti hanno eseguito rilievi fotografici e altri accertamenti nell'abitazione dove è avvenuto il delitto.

I problemi psichiatrici - Il giovane dovrà presentarsi all'Aquila, il prossimo 11 luglio, dinanzi al gip del tribunale per i minorenni Italo Radoccia per l'interrogatorio di convalida. Il ragazzo, la cui patologia è certificata, era seguito da tempo dai servizi sociali dell'ambito distrettuale sociale numero 13, di cui fa parte anche Bucchianico. Dal Comune fanno sapere che era in fase di completamento la pratica per inserirlo in una struttura riabilitativa.

La reazione del sindaco - "È una tragedia immane, non doveva succedere. È una tragedia in tutti i sensi, quasi ci si sente impotenti e ci si pone la domanda: che cosa si doveva fare di più?", ha detto il sindaco Carlo Tracanna. "Nel lato negativo, questa vicenda è un insegnamento che ci deve far riflettere sempre di più e cercare in tutte le maniere in questi casi di affrontare il problema prima che sfoci in una tragedia. La nonna veniva a parlare con me e qualsiasi cosa ci chiedeva eravamo sempre pronti ad affrontarla per esaudire le sue richieste. Dall'anno scorso non veniva", ha ricordato.

Le parole del parroco - "Questa situazione ci richiama alla responsabilità e all'attenzione reciproca con gli altri", ha detto il parroco di Bucchianico, padre Germano Santone. "È un episodio che genera dolore e un po' anche impotenza davanti a una situazione del genere, dinanzi alla sofferenza che certamente anche questo ragazzo probabilmente vive, ha vissuto e vivrà", ha aggiunto.

Da blitzquotidiano.it il 9 luglio 2022.

Ha rischiato grosso una mamma 50enne di Lecco che aveva proibito l’uso del cellulare e del tablet alla figlia 15enne, ritenendo che avesse sviluppato una dipendenza dal cellulare. Querelata dall’ex marito e padre della ragazza, ora la donna dovrà svolgere 180 ore di lavori socialmente utili in un Comune della Brianza Lecchese. Per il giudice ci sarebbe stato un “abuso dei metodi correttivi” da parte del genitore. 

Toglie cellulare e tablet alla figlia 15enne, mamma denunciata

L’episodio, scrive Il Giorno, risale a dicembre del 2018 quando la mamma decise di sottrarre alla figlia tutti i dispositivi (tablet e smartphone) connessi ai social. La ragazza andò su tutte le furie e  ne scaturì un litigio violento. 

La 15enne finì al Pronto Soccorso dell’ospedale di Lecco con alcune contusioni. Il padre dell’adolescente, informato di quanto accaduto, decise così di sporgere querela nei confronti dell’ex moglie. 

La decisione del giudice

La 50enne, finita a processo, non ha trovato un accordo con l’ex marito, che si è costituito parte civile nel processo. Nella giornata di ieri, il giudice ha deciso di optare “sulla messa alla prova” infliggendo alla mamma 180 ore di lavori socialmente utili in un Comune della Brianza Lecchese. 

Nessuna condanna, invece, per “aver ripreso con metodi forti” la figlia. “Ho optato per questa scelta solo per evitare a mia figlia di essere chiamata a testimoniare in un procedimento che l’avrebbe vista contrapposta al padre”, ha dichiarato la donna che ha già risarcito l’ex marito e la 15enne. “Ho voluto uscire velocemente da questa situazione”, sono state le sue parole al termine dell’udienza

Alessandro Vinci per il corriere.it il 9 luglio 2022.

Tutt’a un tratto la piccola Alexis aveva iniziato a non essere più la stessa. «Stava diventando depressa, arrabbiata, ritirata», ricordano i genitori Kathleen e Jeff Spence. I quali da Long Island, nello Stato di New York, ora chiedono giustizia a Meta, il colosso dei social network di proprietà di Mark Zuckerberg. 

Vani erano stati infatti i primi tentativi della coppia di capire cosa non andasse nella figlia. Poi tutto si era fatto più chiaro: malgrado avesse appena 11 anni, aveva aperto di nascosto un profilo su Instagram. Peccato però che l’età minima richiesta dal servizio fosse (e continui a essere) di 13. 

Risultato: lo sviluppo, da parte della giovanissima utente, di una forte dipendenza digitale che in breve tempo era arrivata a causarle sintomi come «ansia, depressione, autolesionismo, disturbi alimentari e, alla fine, anche idee suicide».

La svolta dopo i Facebook Papers

Sono le parole riportate nella causa per lesioni personali che i coniugi hanno deciso di intentare contro Menlo Park, depositata lunedì presso un tribunale distrettuale della California. Perché mentre in un primo momento i due avevano affrontato la vicenda con sostanziale impotenza, l’anno scorso le rivelazioni della whistleblower Frances Haugen – i cosiddetti Facebook Papers – li hanno convinti che quanto accaduto ad Alexis sia stato frutto non solo dell’incapacità di Meta di verificare la reale età degli iscritti, ma anche della negligenza con cui la società ha affrontato negli anni il problema (peraltro arcinoto) dell’assuefazione causata dalle sue piattaforme. Il che potrebbe configurare gli estremi per una responsabilità diretta perseguibile dalla giustizia Usa, e magari non solo. 

«Nostra figlia stava scomparendo»

In attesa di scoprire se il caso farà giurisprudenza, Kathleen e Jeff hanno raccontato alla Abc: «Il fatto che Alexis (oggi 19enne, ndr) sia ancora qui è davvero un miracolo perché abbiamo combattuto con le unghie e i denti per lei. Abbiamo fatto tutto il possibile, le abbiamo fornito l’aiuto di cui aveva bisogno e ci sono stati momenti in cui eravamo molto preoccupati per la sua incolumità». Brutti ricordi che non si cancellano: «Non sapevamo cosa stesse succedendo – hanno proseguito –. Sappiamo solo che nostra figlia stava scomparendo. Lentamente, pezzo dopo pezzo, stavamo perdendo la bambina amorevole e sicura di sé che conoscevamo».

Acqua passata, fortunatamente. Ma il problema resta attuale, anche alle nostre latitudini: secondo l’ultimo rapporto Eures, per esempio, oltre quattro giovani italiani su cinque sono a rischio dipendenza da smartphone. Non bastasse, con l’arrivo del Metaverso c’è chi teme che la situazione possa peggiorare ulteriormente.

Ci innamoriamo se lasciamo i social. Sapere troppo di tutti e dare in pasto la propria vita agli altri o controllare quella degli altri: l’amore è l’opposto del controllo. Lisa Ginzburg su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Luglio 2022

Quando ci innamoriamo? In quali particolari momenti, frangenti, a partire da quali condizioni interiori? Certo, giocano molto la fortuna degli incontri, le possibilità propizie che la vita ci mette o non ci mette di fronte, le persone giuste, le situazioni adatte, i giochi del destino, le trappole e gli incantamenti della sorte... certo, conta moltissimo tutto questo, ma noi, quando è che ci innamoriamo? Accade per una strana convergenza di concause; e ora, all’inizio di questa estate arroventata, quando le prime vacanze incominciano, e ricordi di antichi amori si disegnano nella mente di chi è più maturo, o speranze di innamoramento prendono a pulsare in chi è più giovane, entrambi corroborati da meravigliosi tramonti sul mare, nuotate, musiche e aperitivi, ecco si può ascoltare quanto dentro si sè si è pronti.

Disposti a innamorarsi, o invece no. Perchè per dirla con Shakespeare, essere pronti è tutto. E per prima cosa ci si innamora perché si è pronti, non per altro. In virtù di una condizione di apertura e disponibilità. Di un mescolarsi di tensione e rilassatezza, di centratura su sè stessi e profonda curiosità e disponibilità verso il prossimo. A proporzione di un amalgamarsi di solidità e vulnerabilità.

Già, la vulnerabilità: quanto è importante per innamorarsi. Qualcosa deve sentirsi dolcemente smarrito e disorientato perché l’amore arrivi. Deve stagliarsi indeterminato e vago, privo di intenzione e di determinazione. Si innamora chi non vuole arrivare da nessuna parte, chi non ha specifici propositi nè progetti: chi ha lasciato gli ormeggi dell’autocontrollo e del controllo, mollato la presa da un affannoso seguire la realtà. Difficile impresa: intorno a noi tutto e’ controllo, tutto si incastra in un paradigma di continuo monitoraggio. Nel controllo viviamo, e soffochiamo.

Se si è sui social, per esempio, e su quelli si passa (è giocoforza vada a finire così) una parte sempre troppo cospicua della giornata, di fatto si impiega il tempo controllando le vite altrui nel mentre si dà in pasto la propria al mondo. Basta seguire le «storie» di Facebook o di Instagram per sapere chi è in vacanza e dove, chi è in ufficio o sul terrazzo di casa, dal veterinario o in metropolitana, in campagna o a Manhattan, tutti lì a scattare foto con il cellulare, perennemente esaltati, offuscati dalla presunzione che quelle immagini a getto continuo interesseranno il mondo.

Controlliamo le vite degli altri, così come seguiamo compulsivamente le notizie sulle homepage dei quotidiani, qui anche dominati dalla medesima illusione - che monitorare di continuo la realtà ci aiuti a sopportarne il peso, che quegli aggiornamenti flash gravissimi e ansiogeni alla realtà corrispondano. Per non parlare del controllo esercitato dalla comunicazione, quel «messaggiarsi» continuo che si risolve di fatto in un costante reciproco localizzarsi, seguirsi a distanza individuandosi nello spazio.

E allora, tra tanto ininterrotto monitorare e controllare il mondo e l’altrui vivere, dove va a porsi l’innamoramento che del controllo è l’opposto? uno stato che presuppone al contrario sospensione, incertezza, il riempirsi dolcemente i pensieri con ipotesi e domande circa il mistero dell’altro, della sua vita sconosciuta nel suo magnetico, misterioso scorrere.

Ci si innamora perché ci si può permettere di sentirsi sospesi e un po’ sognanti. Pronti a dare e a ricevere, a mescolarsi e ad aprirsi. Ma ci si innamora, anche, perché il controllo come dimensione onnipresente e come stile di vita smette di funzionare per noi, e avvertiamo, improvvisa e prepotente, la voglia di schiuderci alla sorpresa, al non detto, al non saputo, al non monitorato. Essere pronti è tutto Shakespeare fa dire ad Amleto. Pronti a innamorarsi: che è il contrario dello stare in piedi rigidi come sentinelle a sorvegliare tutto quel che capita a noi e a chiunque conosciamo, o conosciamo solo virtualmente . Pronti ad arrenderci, invece. A mollare la presa e arrenderci. Allora e solo allora il dio alato dell’innamoramento potrà accorgersi di noi e venire a farci la sua visita magica, dirompente, sconvolgente, rivoluzionaria.

Perché diciamolo, e prima ancora pensiamolo. In questi tempi di reciproco controllo maniacale, compulsivo e ossessivo, nevrotico e nevrotizzante, innamorarsi è di sicuro il gesto più rivoluzionario che possiamo compiere. La risposta più libera e vitale da opporre a tutto quanto, controllandoci, ci rende sentinelle atrofizzate nello sterile sforzo di continuamente monitorare e sorvegliare: senza sentire, senza ascoltarsi, senza amare.

Piange il Blackberry. I fastidiosi Telefonicamente Problematici che non rispondono subito alle mie urgenti chiamate. Guia Soncini su L'Inkiesta il 2 Luglio 2022.

Odio le persone che mi fanno perdere tempo. Se scelgo di telefonarti e non voglio mandarti un messaggio è perché so quali mezzi sono adatti a quali conversazioni. Perché farmi aspettare?

L’altro giorno ho chiamato la più intelligente tra le mie amiche Telefonicamente Problematiche. Non ha risposto, come sempre. Come sempre quando mi serve qualcosa che non può aspettare, le ho mandato un messaggio con scritto di chiamarmi. Il che già mi fa bestemmiare: ti ho chiamato, non mi hai risposto, per le persone sane di mente è ovvio richiamare. Per i Telefonicamente Problematici no: a loro bisogna specificare che devono richiamare, tipo i mariti cui devi dire sette volte di far riparare lo scaldabagno, i figli cui devi dire sette volte di fare i compiti, gli editori cui devi dire sette volte di riscrivere la quarta di copertina.

A quel punto l’amica – che, ricordiamo, è della razza sua la più intelligente: pensa gli altri – mi ha scritto che era incasinata e non sapeva quando avrebbe finito: non potevo scriverle? Ora, io ho un brutto carattere. Sono insofferente a molte cose, e hanno quasi tutte a che fare col tempo. Perché devi farmi perdere tempo a comporre un messaggio in cui ti spiego la ragione per cui la conversazione che dobbiamo avere non può avvenire via messaggi? Perché non dai per scontato ch’io sia molto più intelligente di te e sappia quali mezzi sono adatti a quali conversazioni?

Ho perso un minuto per comporre un messaggio d’una riga e mezzo in cui sintetizzavo un pasticcio in corso, lei mi ha risposto dopo dieci secondi «esco di qui e ti chiamo», e dopo un minuto m’ha chiamata. Ovvero: abbiamo avuto la conversazione che avremmo avuto cinque minuti prima se solo lei avesse dato subito per scontato che, se la chiamavo, un motivo c’era. Invece ha dovuto farmi perdere tempo a convincerla. Ha dovuto farlo perdere a me, che non ho fatto figli per non dover ripetere loro di fare i compiti.

Ieri ho telefonato alla più scema tra le mie conoscenti TP. Non mi ha risposto. Era l’una. Mi ha scritto: sono a un pranzo, scrivi. Ho pensato: ma brutta cretina, secondo te se ti chiamo è perché voglio scriverti? Ma brutta cretina, sei a un pranzo e ti pare più educato metterti a prendere a ditate il touchscreen a tavola per rispondermi che dire scusate un attimo sento cosa vuole la Sorcioni? Ma brutta cretina, ma secondo te io ho tempo di mettermi a comporre messaggi, sebbene avvantaggiata dall’avere un Blackberry con una vera tastiera mentre voi TP mandate messaggi pieni di refusi composti con diti unti su vetro Apple?

Poche ore dopo (ieri doveva esserci un allineamento di costellazioni, e i TP erano in gran spolvero) ho ricevuto un lunghissimo messaggio di testo di una vecchia amica, della più ridicola sottospecie di TP: quelli che hanno come frase di stato su WhatsApp «non ascolto i vocali».

Negli anni Novanta Gino e Michele scrissero uno dei pezzi invecchiati peggio della storia del giornalismo di costume italiano. La protagonista, da essi detta «il puttanino» (oggi li lincerebbero per meno), era una signora che, tra le corsie del supermercato, commetteva la nefandezza di telefonare dal cellulare al marito per sapere che formato di pasta volesse.

Una cosa che oggi facciamo tutti, trent’anni fa davvero era una cosa che ti faceva sembrare un’esibizionista vanziniana? Forse. Quel che è certo è che, se vuoi fare satira sociale, la cosa principale che devi saper fare è distinguere tra i mostri e le avanguardie, tra le eccezioni e le profezie. Oggi che chiamare dal supermercato è una cosa che sono ragionevolmente certa facciano sia Gino sia Michele, pare assurdo che ci sia stato un tempo in cui la trovavamo una esilarante burinata.

Coi messaggi vocali finirà nello stesso modo, ma è iniziata molto peggio. Negli anni Novanta, quelli che schifavano il cellulare non lo avevano, o lo usavano di nascosto e pochissimo. E comunque raramente si presentavano al mondo dicendo mi chiamo X e non possiedo il cellulare. I dichiaratori di non ascolto dei vocali, invece, scambiano questa scemenza per un’identità da rivendicare, se la mettono in biografia, ne fanno una dichiarazione d’intenti. E poi, quando lasci loro un vocale (se sei prepotente, certo non ti fai inibire dagli avvisi di non ascolto; se conosci la natura umana, sai quanto contino le dichiarazioni d’intenti), lo ascoltano entro cinque secondi. Se facessero una gara tra riceventi di vocali per vedere quale di essi faccia più velocemente diventare azzurro il microfonino che indica l’avvenuto ascolto, vincerebbe senz’altro un TP.

Quindi l’amica che dichiara di non ascoltare i vocali mi scrive un lungo messaggio di testo, per dettagliarmi le avvincentissime ragioni per cui non ha risposto a una mia telefonata del giorno prima. Messaggio la cui compilazione le ha portato certamente via più tempo di quanto ne avrebbe trascorso al telefono con me (che dovevo solo comunicarle di avere la possibilità di prenotarle una cosa che voleva, possibilità nel frattempo scaduta: i TP perdono un sacco di occasioni, un po’ tipo Gino e Michele che mangiavano la pasta del formato meno preferito perché non avevano risposto alle mogli che chiamavano dal supermercato).

Il fatto è che il vocale è una grande metafora. Chi non lo ascolta dice scemenze tipo eh ma se io sono in mezzo a una riunione come faccio a sentirti (sentimi dopo: mica sei un cardiochirurgo cui devo comunicare la disponibilità d’un organo da trapiantare), tipo eh ma io due minuti per ascoltarti non ce li ho (invece due minuti per mandarmi dieci righe piene di refusi non solo ce li hai ma sono molto ben spesi); ma la vera verità è che è una gara di egoismi.

Scriverti richiede l’esclusiva. Chiamarti o lasciarti un vocale è una cosa che posso fare mentre lavo i piatti, apro a Glovo, cammino, scrivo questo articolo, faccio il cambio degli armadi, faccio asciugare lo smalto. La voce, diversamente dal testo, non richiede concentrazione, mani occupate, occhi sullo schermo. È più impegnativo per te che ricevi il vocale e devi abbassare il volume di qualche podcast per ascoltarlo? O per te che sei maschio (mi spiace) e quindi non sai stare al telefono facendo altre cose? Eh, ma questi son problemi tuoi, caro il mio TP. Dovevi trovarti un’amica più altruista, o meno impegnata a far asciugare lo smalto.

Giornata internazionale del selfie, se ne scattano mille al secondo: la 'selfite' non risparmia nessuno. Marino Niola su La Repubblica il 21 Giugno 2022.

Dal Papa a Francesco Totti, a Obama. L'autoscatto del terzo millennio è diventato la sintesi visiva della nostra vita, minuto per minuto, giorno per giorno e ha cambiato il rapporto che ciascuno di noi ha con la propria rappresentazione

Oggi si celebra la giornata internazionale del selfie. L'autoscatto digitale che ha inaugurato la civiltà dell'immagine condivisa. E ha rivoluzionato il rapporto che ciascuno di noi ha con la propria rappresentazione. Con la faccia pubblica di sé stesso.  

In poco più di dieci anni, l'autoritratto social è diventato il più universale dei modi per comunicare. E la sua ascesa è stata inarrestabile.

L’economia del selfie. Quelli che comprano un libro contro gli autoscatti per farsi un autoscatto con l’autore. Guia Soncini su L'Inkiesta l'11 Luglio 2022.

Cronaca di un “firmacopie” a un festival culturale e della decisione di mettere in atto una strategia che non piacerà all’editore (intanto, devo ricordarmi di fare una foto con Natalia Aspesi, così quando morirò lei potrà instagrammarla e nessuno dubiterà che ci conoscessimo)

Sono due amiche. Una ha il libro da farsi dedicare, e fa la parte di quella che mi sa. L’altra dice «Possiamo farci un selfie?», e lei la interrompe, «Lo sai che non le piacciono».

Siamo a un festival culturale, giacché in Italia ci sono più festival culturali che nomi di carboidrati (avete mai provato a mediare tra chi chiama quella squisitezza «gnocco fritto» e chi «crescentina»? In confronto la pace tra Russa e Ucraina è una passeggiata di salute).

Siamo a un festival culturale, io ho presentato il mio ultimo libro, e mi sono giocata alcuni classici di repertorio. Uno di essi racconta di Gianni Morandi, di quello spettacolo al Duse di Bologna, quello in cui chiedeva di non usare i cellulari fino ai bis, e quando iniziavano i bis la gente si alzava dalla platea, correva verso il palco, gli dava le spalle mentre lui cantava “Banane e lampone”, e si autoscattava con Morandi sullo sfondo: se non puoi postare la foto di te stessa allo spettacolo di Morandi per fare invidia a tua cognata, che ci sei andata a fare allo spettacolo di Morandi?

È sempre lo stesso meccanismo: è vieppiù importante che in questo istante ci sia anch’io. Qualche sera fa sono andata a un concerto con un’amica, quando siamo uscite da lì il figlio ventenne le aveva scritto chiedendole se si fosse autoscattata nel camerino del cantante. Non l’aveva fatto, non l’avevamo fatto. Il figlio ha trasecolato e s’è convinto che non ci fossimo davvero state, in quel camerino. Se vai nel camerino d’un tizio famoso e non gli fai fare un filmato personalizzato da far vedere ai familiari, ci sei stato davvero?

Di recente Natalia Aspesi mi ha detto: ma tu non hai neanche una foto con me. Quando hai 93 anni, la morte è un’eventualità cui pensi con una certa consuetudine: aveva paura che poi mi prendessero per millantatrice di familiarità, ma figurati se eravate amiche, non hai neanche uno straccio di foto assieme.

Poiché anche quando di anni ne hai 50, ma essi fanno media con la pressione a 250, alla morte pensi con una certa qual frequenza, ho pensato che sì, in effetti devo farmi una foto con Natalia, così quando muoio può instagrammarla e nessuno, neanche i ventenni, dubiterà che ci conoscessimo.

Uno dei più sottovalutati privilegi del presente è l’essere invisibili. Lo noti in special modo quando sei in giro con una persona famosa. Hai tutti gli accessi e i vantaggi dell’essere famoso – una valuta che nel presente vale quanto e più della ricchezza: se sei famoso ti tengono nei ristoranti gli stessi buoni tavoli dei ricchi, ma alla fine non paghi il conto – ma nessuno ti rivolge la parola, ti chiede foto, ti racconta quanto i figli i nonni i vicini di scrivania siano pazzi di te.

(Il più importante lascito di “Misery non deve morire” è il brivido che coglie ogni persona sana di mente quando qualcuno le dice: sono tanto tuo fan).

Qualche settimana fa ero a un evento pubblico assieme a un’amica famosa. A un certo punto arriva un tizio, la saluta, le fa delle domande sui suoi familiari, le presenta la fidanzata. Lei non aveva idea di chi fosse il tizio, mi ha detto poi, ma questo non è rilevante (non serve la fama, per non riconoscere le persone: basta essere distratti). Il dettaglio interessante è che il tizio a un certo punto le dice: sei qui da sola? Lei mi indica, sono a cinque centimetri da lei e siamo evidentemente insieme, e dice un po’ stupita: no, sono con lei. Era stupita perché è famosa, e non sa che, di fianco ai famosi, i non famosi acquisiscono il superpotere dell’invisibilità.

Il non famoso è quello cui chiedi di scattarti la foto col famoso. Un ex segretario (o qualcosa del genere) di Elisabetta II raccontava alla Bbc, durante i festeggiamenti per il Giubileo, d’una volta in cui, passeggiando in campagna, avevano incontrato dei turisti americani. Si erano fermati a fare conversazione spicciola, ed era chiaro che i turisti non l’avevano riconosciuta. E infatti a un certo punto le avevano detto: ma se ha casa qui da sessant’anni avrà incontrato la regina. E la vecchia beffarda lo aveva indicato: lui la conosce bene, lui può raccontarvi. E i turisti avevano voluto farsi la foto con lui, mica con l’ignota vegliarda.

Ma voglio sperare non abbiate già dimenticato le amiche che la foto la volevano con me, dopo essersi fatte dedicare un libro in cui spiego che alla gente non frega niente delle tue opere: ti seguono su Instagram per vedere i tuoi cappuccini, le tue vacanze, i tuoi pori dilatati, mica perché abbiano intenzione di comprarsi i tuoi libri, o almeno non per leggerli; al massimo, se sei uno YouTuber di quelli che fanno gli incontri col pubblico, per farsi la foto quando vengono a farselo dedicare; al massimo, se sei un influencer con milioni di persone al seguito, per venire da te ripostati quando fotografano la tua copertina e godere d’una scheggia d’un riflesso d’un quindicesimo di secondo di celebrità.

Dunque queste due amiche si fanno firmare un libro che spiega che meccanismo fesso sia quello che stanno mettendo in atto, chiedono un autoscatto per confermarmi che ho capito il mondo, io faccio questa benedetta foto, esse ringraziano, salutano, si allontanano, io firmo altri libri, chiacchiero con altra gente, e poi, una mezz’ora dopo, vedo che sul tavolino di quello che in frasifattese si chiama “firmacopie” è rimasto un libro.

Ma di chi è? Ah boh. Mica sarà una copia dedicata, aprilo un po’. Era il loro. Il libro comprato da quelle così mie fan da volere l’autoscatto, ma non abbastanza mie lettrici da non dimenticare lì il tomo in cui avevano appena investito diciassette euro.

Uno dei presenti ha suggerito d’approntare una nuova strategia. Invece di buttare diciassette euro per un libro che v’affatica leggere, datemene dieci in contanti e ci facciamo solo la foto. L’editore sarà felicissimo d’apprendere che la sto prendendo in seria considerazione.

Smartphone e social ai figli, i capi del web li vietano. I motivi. Milena Gabanelli e Francesco Tortora su Il Corriere della Sera il 22 Giugno 2022.

Le linee guida dell’Oms sono chiare. Per i bambini da zero a due anni vale il divieto assoluto di essere piazzati davanti a uno schermo, dai due ai quattro anni non si deve mai stare per più di un’ora al giorno a guardare passivamente schermi televisivi o di altro genere, come cellulari e tablet. Dai 6 ai 10 anni la soglia critica si ferma a 2 ore. L’Oms spiega che il tempo trascorso davanti allo schermo può danneggiare i bambini e indica correlazioni con sovrappeso, obesità, problemi di sviluppo motorio e cognitivo e di salute psico-sociale. Inoltre l’eccessiva esposizione ai dispositivi rischia di ledere la capacità di esprimere emozioni e comunicare efficacemente. 

Il digital divide si è capovolto

Fino a poco più di un decennio fa il digital divide separava gli adolescenti delle famiglie agiate che avevano la possibilità di collegarsi a Internet e scoprire il mondo digitale dai coetanei privi di un adeguato accesso alla Rete. Oggi, con il veloce sviluppo della tecnologia, accelerato dalla pandemia, si è creata una realtà opposta. Lo studio più completo lo hanno fatto gli americani su loro stessi. Nel 2011 solo il 23% degli adolescenti americani possedeva uno smartphone, oggi la percentuale è del 95%. Secondo una ricerca dell’associazione non profit «Common Sense Media» gli adolescenti di famiglie a basso reddito trascorrono in media 8 ore e 7 minuti al giorno davanti a uno schermo per intrattenimento, mentre i coetanei con reddito più elevato si fermano a 5 ore e 42 minuti. Il problema è l’onnipresenza dei dispositivi (il 45% dei teenager Usa è consapevole di essere dipendente dallo smartphone). Chi in assoluto tiene lontano i propri figli dall’iperstimolo tecnologico e dalla dipendenza dai social sono proprio i creatori di questi dispositivi: i manager della Silicon Valley scelgono per i loro eredi un’educazione mirata che limita radicalmente l’uso dei device. 

Cosa succede nella Silicon Valley

Steve Jobs, il fondatore di Apple, non permetteva alle figlie adolescenti di usare iPhone e iPad. Bill Gates, fondatore di Microsoft e quarto uomo più ricco del mondo, non ha dato ai figli il cellulare prima dei 14 anni e ha imposto regole ferree come il «coprifuoco digitale» (a letto senza schermi) dopo essersi accorto che la maggiore, Jennifer Katharine, usava troppo i videogiochi. Anche Sundar Pichai, amministratore delegato di Alphabet e Google, ha vietato lo smartphone ai due figli fino ai 14 anni e ha limitato a poche ore al giorno la visione della tv. Satya Nadella, amministratore delegato di Microsoft, monitora attentamente i siti web visitati dai figli facendosi mandare rapporti settimanali sul loro uso. Stessa strategia di Chris Anderson, ex editore di Wired e amministratore delegato di 3D Robotics, che ha educato i figli imponendo limiti di tempo e controlli su ogni dispositivo elettronico presente in casa, oltre a bandire gli schermi dalla camera da letto fino a 16 anni. Evan Williams, co-fondatore di Twitter, Blogger e Medium, ai figli adolescenti ha sempre preferito comprare libri anziché gadget tecnologici mentre Tim Cook, amministratore delegato di Apple, ha proibito al nipote i social network. Susan Wojcicki, Ceo di YouTube, ha autorizzato lo smartphone solo quando i suoi 5 figli hanno cominciato a uscire da soli e ha deciso di sequestrare tutti i device durante le vacanze per aiutarli a «concentrarsi sul presente». Infine Evan Spiegel, co-fondatore e amministratore delegato di Snapchat, con la moglie Miranda Kerr ha permesso al figliastro Flynn di trascorrere al massimo un’ora e mezzo alla settimana davanti agli schermi. 

Le scuole senza tecnologia

I pionieri del web, come tanti altri manager della Silicon Valley, non si limitano a vietare i dispositivi tecnologici in casa, ma scelgono asili e scuole tutt’altro che hi-tech. Gli istituti pubblici americani che ospitano i figli delle classi medie e più povere diventano sempre più digitalizzati (ciò si è rivelato particolarmente positivo negli anni del Covid perché ha permesso a tutti gli alunni, anche quelli più svantaggiati, di seguire le lezioni da remoto). Ma mentre Google e Apple cercano di piazzare i loro software nelle scuole pubbliche per offrire ai piccoli «le competenze del futuro», nella Silicon Valley e in altre aree abitate da dirigenti del settore tecnologico sono sempre più popolari le «Waldorf Schools» che promuovono l’approccio educativo sviluppato a partire dal 1919 da Rudolf Steiner: apprendimento attraverso attività ricreative e pratiche. A Los Altos c’è la Waldorf School of the Peninsula, con circa 320 studenti dall’asilo nido alla scuola superiore (2/3 hanno genitori che lavorano per i giganti del web): per i più piccoli soprattutto giocattoli di legno e interazioni all’aria aperta. 

Si tratta di uno dei 270 istituti steineriani negli Stati Uniti, 52 solo in California. In Italia ce ne sono 97 (65 scuole dell’infanzia, 30 scuole del primo ciclo e 2 scuole superiori, con 4 mila alunni e 500 insegnanti). Nel mondo sono oltre 3.100 con circa un milione di alunni e un aumento del 500% di iscrizioni negli ultimi 20 anni.

Secondo i sostenitori di questo metodo pedagogico, che insegna le frazioni tagliando la frutta in parti uguali, i computer inibiscono il pensiero creativo dei bambini e riducono i tempi di attenzione

A Los Altos solo a partire dalla terza media è previsto l’uso limitato di gadget tecnologici. I costi delle iscrizioni sono alti (si va dai 23 mila dollari dell’asilo ai 45 mila del liceo), ma nonostante l’assenza di lavagne interattive e di aule cablate a detta della scuola la preparazione è garantita: il 95% dei ragazzi che si diplomano nell’istituto - spiega il sito ufficiale - sono riusciti a entrare nelle più prestigiose università americane e a laurearsi in modo eccellente. Per chi non può permettersi queste rette restano scuole e asili pubblici che hanno scelto, in maggioranza, aule cablate e device. Nella vicina Menlo Park dove ha sede il quartier generale di Meta, la pubblica Hillview Middle School propone il programma iPad 1:1 ovvero per ogni alunno un iPad su cui studiare. La rete di scuole materne esclusivamente online «Waterford UPSTART» è presente in più di 15 Stati e serve oltre 300 mila bambini all’anno. 

Proibiti gli smartphone alle babysitter

Gli adolescenti e i pre-adolescenti americani (8-12 anni) di famiglie a basso reddito, non potendosi permettere doposcuola e corsi extra-scolastici, restano almeno due ore in più davanti agli schermi rispetto ai benestanti. Noorena Hertz ne «Il secolo della solitudine», spiega che i genitori della Silicon Valley arrivano a includere nei contratti una clausola che vieta alle babysitter di utilizzare, per qualsiasi scopo, smartphone, tablet, computer e tv davanti ai bambini. «Mentre i più ricchi - scrive Hertz - possono pagare perché i loro figli conducano vite con un ridotto uso di schermi, assumendo tutor umani invece di metterli davanti a un tablet, per la stragrande maggioranza delle famiglie questa non è un’opzione praticabile». Le tate della Silicon Valley che spesso lavorano per il colosso online «UrbanSitter» accettano la sfida e ispirandosi al passato propongono ai bambini giochi da tavolo e attività fisica.

I social e il nuovo corso del Congresso

I magnati della Silicon Valley conoscono bene i danni che possono provocare in tenera età i gadget tecnologici dal «design persuasivo» sviluppati con la collaborazione di psicologi infantili. Adesso a correre ai ripari potrebbe essere il Congresso Usa. Nel settembre 2021 l’ex product manager Frances Haugen ha presentato alla sottocommissione del Senato sulla protezione dei consumatori migliaia di documenti riservati di Facebook (non si chiamava ancora «Meta»), poi pubblicati dal Wall Street Journal, che dimostravano come la società fosse consapevole dei disagi psicologici e della dipendenza provocati dal social network negli utenti più giovani. Nell’ultimo discorso sullo stato dell’Unione Joe Biden ha promesso una norma per salvaguardare i bambini dai pericoli online e il Congresso è pronto a chiedere alle piattaforme di cambiare modello di business. Per ora Meta ha bloccato «Instagram Kids», versione del social per under 13. Da febbraio è fermo in Senato il «Kids Online Safety act» un progetto di legge bipartisan sulla protezione dei bambini che vieta alle piattaforme web di raccogliere dati da utenti che hanno meno di 16 anni: per mesi la sottocommissione sulla protezione dei consumatori ha raccolto prove sulla profilazione dei minori da parte dei social a fini pubblicitari. C’è anche questo sfruttamento nei 115 miliardi di dollari guadagnati da Facebook nel 2021, e nei 28,8 miliardi portati a casa da YouTube. 

La tecnologia è neutra

Come gli Stati Uniti, anche l’Italia punta sullo sviluppo digitale della scuola pubblica. Già ora gli studenti di primarie e secondarie utilizzano dispositivi elettronici in classe e a casa (circa l’88% dei bambini e ragazzi tra i 9 e i 16 anni). Il Pnrr prevede un investimento complessivo nell’istruzione di 17,5 miliardi, di cui 2,1 miliardi per realizzare la transizione digitale e dotare gli istituti degli strumenti più innovativi in modo da «trasformare le aule in ambienti di apprendimento connessi e digitali».

La questione chiaramente non è la tecnologia digitale in sé, che è sempre più parte integrante della nostra vita, e contribuirà a migliorarla, ma come educare i bambini all’utilizzo dei dispositivi senza diventarne dipendenti

Anche su questo terreno la distanza fra ricchi e poveri si sta allargando: i primi più stimolati a sviluppare memoria, concentrazione, empatia e capacità comunicativa, i secondi assorbiti nel mondo solitario del virtuale e con sempre maggiore difficoltà a relazionarsi.

OnlyFans, come funziona ed è possibile «rubare» foto e video? Redazione Login su Il Corriere della Sera il 5 Giugno 2022.

Il caso di Mery Liviero, ex concorrente di Masterchef, e il portale su cui proporre su abbonamento le proprie performance, spesso a luci rosse. Cos’è Onlyfans e quali protezioni hanno in contenuti

Cos’è Onlyfans e il caso Mery Liviero

Di OnlyFans si torna a parlare per il caso che coinvolge Mery Liviero, ex concorrente di Masterchef che ha sporto denuncia perché sue immagini e video sono stati presi dalla piattaforma e condivisi su chat private WhatsApp e altri canali.

Ma prima di tutto, che cos’è Onlyfans? È una piattaforma che offre un servizio di intrattenimento tramite abbonamento. Una volta iscritti, gli utenti di OnlyFans possono abbonarsi — a pagamento — al profilo dei loro creator preferiti, così da poter accedere a contenuti esclusivi (video, foto, messaggi etc). Questa è la definizione tecnica del sito. OnlyFans tuttavia è famosa perché, grazie a una politica estremamente tollerante sui contenuti, è diventata la piattaforma privilegiata per condividere foto e filmati erotici o apertamente pornagrafici. Ed è diventata un mezzo, per singoli o coppie, per monetizzare creando una fan-base pagante.

Quanto costa Onlyfans?

OnlyFans è online dal 2016 ed è di proprietà della società Fenix International Limited: secondo numeri recenti la piattaforma conta oltre 170 milioni di utenti e un milione e mezzo di creator. Secondo OnlyFans, il pagamento totale corrisposto a chi pubblica sulla piattaforma supera i 5 miliardi di dollari.

Al sito ci si può iscrivere gratuitamente (bisogna avere 18 anni), ma la maggior parte dei contenuti è a pagamento: ci si può abbonare ai profili delle persone che si vogliono seguire, pagando una quota, ma si può comprare anche un contenuto una tantum, in alcuni casi (da 5 dollari in su). Ci sono anche profili con contenuti gratuiti ma generalmente gli utenti sanno che, per vedere i contenuti del loro creator preferito, devono mettere mano al portofoglio. E molti lo fanno.

Il prezzo di un abbonamento può essere mensile o annuale. A decidere il costo è lo stesso creator, in una forbice contenuta tra 4,99 dollari e 49,99 dollari al mese. Chiunque si iscrive può sia abbonarsi a profili, sia diventare creator: basterà aggiungere le informazioni di pagamento (per esempio, un conto bancario).

Cosa rende OnlyFans diverso dagli altri social

Cosa lo rende OnlyFans diverso da altri social network? La possibilità di pubblicare contenuti che altrove non troverebbero spazio. Un esempio sono le foto di nudo o i contenuti a contenuto sessuale esplicito, che su Instagram sono vietati (come noto è vietato pubblicare anche soltanto immagini di nudo femminale in cui siano visibili i capezzoli). È proprio questa tolleranza di OnlyFans ad aver attratto, nel corso degli anni, migliaia di creator del mondo del porno e lavoratori del sesso. Il boom della piattaforma è arrivato con la pandemia di Covid, quando attori e attrici del mondo dell’hard, ma anche sex worker a pagamento, si sono ritrovati improvvisamente chiusi in casa, senza poter lavorare. E così hanno deciso di riversare i loro contenuti su OnlyFans, continuando a guadagnare in modo sicuro.

La formula del successo, come ricorda Greta Sclaunich in questo articolo, passa attraverso tre punti: chiunque può diventare creator, c’è spazio per ogni tipo di pluralità, i contenuti sono a pagamento dunque esclusivi dunque personalizzabili. «Rappresentano, secondo chi studia questi fenomeni, i primi segnali di come si sta evolvendo il porno in Rete».

L’anno scorso OnlyFans aveva deciso di cambiare rotta e di limitare i contenuti pornografici. Poi ha fatto marcia indietro.

Gli italiani e le italiane su OnlyFans

Tra gli italiani iscritti alla piattaforma come creator ci sono le due attrici porno Malena e Valentina Nappi, che, a oggi, hanno rispettivamente 28,2 mila e 353 mila “Mi piace”. Nappi, nella biografia del suo profilo, invita i fan a iscriversi e a inviarle un extra per parlare con lei e richiedere contenuti esclusivi, per esempio. Ma anche la showgirl Antonella Mosetti (Non è la Rai, Ciao Darwin, Grande Fratello Vip) e lo sportivo Paolo Patrizi, cinque volte campione di Trial, che scrive di aver scelto di approdare su OnlyFans per «accontentare i fan».

Mery Liviero è presente su OnlyFans con un nickname e ha spiegato di essersi lanciata in questa avventura perché «grazie al lavoro da modella finanzio l’apertura di un canale di ricette su YouTube. Non avrei mai avuto la possibilità di acquistare il materiale adeguato o una casa adeguata alle necessità, con una cucina decente dove creare video».

È possibile scaricare foto e video da OnlyFans?

Non esiste alcun pulsante “salva” su OnlyFans per archiviare foto e video. La piattaforma prende molto seriamente la tutela del copyright dei contenuti, anche perché l’accesso a pagamento è un punto centrale del sistema. Ha adottato anche contromisure contro i metodi più immediati: salva con il tasto destro del mouse, screenshot, screen recording.

Tuttavia, acquisire contenuti (foto ma anche video, benché sia un po’ più complesso) da OnlyFans non è certamente impossibile né richiede abilità avanzate da hacker. Esistono persino estensioni per i browser più diffusi che, con un clic, attivano il download.

Questo avviene però soltanto sui canali a cui si è abbonati, non c’è un modo per aggirare il paywall.

Chiaramente, una volta portati sul pc o sullo smartphone i contenuti, è poi possibile condividerli ovunque, anche se le policy di OnlyFans vietano esplicitamente questa possibilità («Do not reproduce, print, distribute, attempt to download, modify, create derivative works of, publicly display, publicly perform, republish, download, store or transmit any Content, except as permitted under the Terms of Service»). I profili di abbonati OnlyFans pizzicati a condividere contenuti fuori dalla piattaforma vengono bloccati e disattivati.

·        La scienza, la cultura ed i social. I Divulgatori.

Jim Al-Kalili: «Il primo insegnamento della scienza? Il coraggio di ammettere i propri errori». Essere pronti a rivedere quello che si è imparato. E felici di condividere quello che si sa. Il grande divulgatore anglo-irakeno spiega il suo metodo di lavoro. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia culturale arabo-islamica. Angiola Codacci-Pisanelli su L’Espresso il 23 novembre 2022. 

L’appuntamento con Jim Al-Khalili è per sabato 26 novembre al Parco della Musica. È uno dei più importanti tra gli incontri con scienziati di tutto il mondo in programma per il Festival delle scienze. Che per la sua diciassettesima edizione raduna a Roma (ma con molti eventi anche in streaming e quindi disponibili ovunque) 120 ospiti impegnati tra la ricerca scientifica e la divulgazione.

E proprio della divulgazione è un maestro Al-Khalili, un fisico teorico (insegna all’università del Surrey) prestato alla televisione, probabilmente il volto più famoso delle trasmissioni scientifiche in Gran Bretagna. In Italia i suoi libri sono pubblicati da Bollati Boringhieri: il più recente, “Le gioie della scienza”, è un invito ad applicare il metodo scientifico ad ogni occasione della vita quotidiana. Nato a Baghdad (il suo vero nome non è James ma Jamil, “bello”) Al-Khalili ha lasciato l’Iraq per la Gran Bretagna, il paese di sua madre, a 17 anni: per questo la prima domanda di questa intervista si riallaccia all’ambiente in cui è cresciuto e ha svolto i suoi primi studi.

Ultimamente i ricercatori stanno rivalutando l’importanza degli studiosi arabi nella storia della scienza. A questo tema lei ha dedicato un lungo documentario della Bbc, “Science and Islam”. Il fatto di essere nato in Iraq l’ha messa in contatto più stretto con quel mondo?

«Penso che essere nato in Iraq mi abbia semplicemente reso più consapevole di questo periodo storico che è in gran parte sconosciuto in Occidente. Non sono religioso (mia madre era cristiana e mio padre era un musulmano agnostico) e quindi non sono stati certo motivi religiosi che mi hanno spinto a raccontare queste storie. Né penso che fosse dovuto a qualche motivo culturale. Sono prima di tutto uno scienziato e il mio interesse è in come la conoscenza scientifica si sviluppa nel corso della storia e si diffonde attraverso le culture, le civiltà. Quello che ho voluto condividere con i lettori erano principalmente storie non raccontate che fanno parte del patrimonio condiviso dell'umanità».

Lei è in famoso divulgatore, e riesce a rendere comprensibili concetti molto complessi anche a chi non ha studiato fisica. La capacità degli scienziati di farsi capire dal pubblico è particolarmente importante in un periodo in cui l’opinione pubblica sembra lasciarsi affascinare da teorie completamente false. C’è un segreto per riuscire a farsi capire e apprezzare da un pubblico di non addetti ai lavori senza cadere nella semplificazione eccessiva?

«Il motivo principale che mi spinge a divulgare la scienza è perché mi piace farlo: non è un desiderio altruistico di insegnare qualcosa al pubblico. Vedere qualcun altro capire qualcosa del mondo mi dà lo stesso piacere che provo quando lo scopro da me. Lo dico sempre: che senso ha imparare qualcosa di affascinante se non lo racconto agli altri? Quanto al segreto per una buona comunicazione, che si tratti di scienza, arte, storia, ecc., è entrare in empatia con il proprio pubblico, vedere l'argomento dal punto di vista del pubblico piuttosto che dal mio. Mi chiedo cosa sanno e cosa penseranno di un certo concetto dato che non hanno le conoscenze di base che ho io. Quindi uso il linguaggio con attenzione e faccio appello a ciò che penso funzionerà meglio in termini di spiegazione».

In un capitolo del suo ultimo libro, "Le gioie della scienza" lei invita a non aver paura di cambiare idea. Le sarà capitato di dover ammettere un errore: vuole raccontarcelo?

«Mi succede in continuazione: è così che funziona la scienza! Se gli scienziati non ammettessero i loro errori o non cambiassero le loro opinioni, la scienza non progredirebbe mai. A differenza della politica, ad esempio, ammettere gli errori nella scienza è una forza piuttosto che una debolezza. Qualche anno fa stavo girando un documentario per la Bbc sulla forza di gravità. Dopo aver finito di filmare ci siamo resi conto che una spiegazione che avevo dato riguardo alla teoria della relatività di Einstein era sbagliata. Piuttosto che limitarmi a rifare quelle sequenze, ho insistito per dire nel film che avevo commesso un errore e che avevo dovuto correggerlo. Molte persone hanno pensato che io sia stato coraggioso a farlo, ma non ha niente a che fare con il coraggio. È proprio così che facciamo scienza: sbagliamo le cose e impariamo dai nostri errori e non c'è da vergognarsi in questo».

Lei scrive che Keats accusava Newton di aver ucciso la poesia dell’arcobaleno, eppure si continuano a scrivere poesie sull’arcobaleno e anche sulla luna, dopo che l’uomo ci è arrivato (e ci è arrivato davvero, al contrario di quello che credono i complottisti). Ci può dire qualcosa sulla forza della poesia, e sulla sua capacità di “sopravvivere alla scienza”?

«La poesia e la scienza sono due modi diversi di descrivere il mondo. L'umanità ha bisogno di entrambi. Ma ognuna delle due parti si è resa colpevole di criticare l'altra, e questo è un peccato. Quello di Keats e Newton è un esempio di un poeta che non capisce la scienza. L'esempio opposto è quando al famoso fisico britannico è stato chiesto di confrontare scienza e poesia. Ha detto che nella scienza prendiamo un concetto complicato e cerchiamo di renderlo il più semplice possibile, mentre la poesia prende un concetto semplice e lo rende il più complicato possibile. Quindi, entrambe le parti hanno molto da imparare».

Chiuderò con una domanda cattiva. Anche la bibliografia del suo libro, come praticamente tutte quelle dei saggi che provengono da Gran Bretagna o Usa (e parlo di saggi su qualsiasi argomento: anche sulle cattedrali francesi o su Galileo Galilei), contiene solo libri provenienti da quella che Amitav Gosh chiama “Anglosfera”. Non teme di perdersi qualcosa? Per fare un solo esempio, i libri di Giorgio Parisi sul volo degli storni nel cielo di Roma…

«Touché! Sì, certo, ha ragione. In un certo senso questo è un segno di pigrizia da parte dello scrittore (io), ma è anche effetto della scarsa disponibilità di traduzioni in inglese di scrittori in altre lingue. Ovviamente leggo e anzi cito gli scritti di scienziati non britannici, per esempio Carlo Rovelli, che è però estremamente noto a livello internazionale. Ma devo impegnarmi di più, lo so».

La scienza a portata di tutti. Elisabetta Tola si racconta.  Martina Piumatti il 4 Novembre 2022 su Inside Over.

Laurea in scienze agrarie all’Università di Padova, un Ph.D in microbiologia alla UCC di Cork, in Irlanda. Nella Bologna dei primi anni Duemila arriva la svolta. L’esordio, per caso, in radio, poi, un master in comunicazione della scienza alla SISSA di Trieste per imparare a ‘pesare’ l’impatto dell’informazione scientifica nel contesto pubblico. Elisabetta Tola, conduttrice di Radio3Scienza, firma importante di diverse testate italiane e internazionali, ceo e co-fondatrice dell’agenzia di comunicazione formicablu e di Facta, ci spiega qual è stata la molla che le ha fatto scattare la passione per il giornalismo scientifico e perché oggi non ne possiamo più fare a meno.

Sei laureata in agraria con un dottorato in microbiologia, ma hai deciso di fare la giornalista. Perché questo cambio di rotta?

Per prima cosa, nella Bologna del ‘99 l’ambiente della ricerca era molto meno internazionale del contesto in cui ero abituata in Irlanda durante gli anni del dottorato. Poi, lo dico molto sinceramente, forse per me il fuoco sacro della ricerca non c’era. Contestualmente in quel momento ho avuto l’opportunità di collaborare con una radio locale, Radio Città del Capo, inizialmente per cose che non avevano nulla a che vedere con la scienza, ma poi, quando hanno scoperto che avevo un background scientifico, mi hanno chiesto di fare delle piccole pillole, dei piccoli approfondimenti a tema scientifico. E quello mi ha aperto un mondo perché ho pensato: “Prendere gli argomenti scientifici che conosco e portarli all’interno di un discorso informativo, collegandoli ai temi politici, economici e sociali…questo è quello che mi piace!”. Erano i tempi in cui si parlava di OGM e nasceva il bisogno forte di un’informazione scientifica. E io mi sono trovata nel posto giusto al momento giusto. Così ho deciso di tornare a scuola per fare il master in Comunicazione della scienza, ho continuato a lavorare in radio a Bologna per un anno e poi ho iniziato a lavorare come giornalista freelance. Ma in realtà, devo confessare, che è quello che ho sempre sognato, da quando ero piccola e pensavo che fare la giornalista fosse uno di quei lavori impossibili.

Pensi sia imprescindibile una laurea a tema per fare divulgazione scientifica? 

No. Indispensabile è avere una cultura molto trasversale. Più che avere una laurea scientifica è utile sapere come funziona il mondo della scienza, capire quali sono i modi in cui si produce la conoscenza scientifica, come viene validata, la differenza fra conoscenze convalidate e opinioni all’interno del contesto scientifico. Certo, allora per me è stato utile averla. Ma, come dico sempre anche ai miei studenti, serve assolutamente una formazione nel campo della comunicazione, della sociologia, del modo in cui l’informazione poi viaggia nel contesto pubblico. 

Molti scienziati-medici preparatissimi spesso sono degli scarsi divulgatori. Quindi non basta saperne tanto di qualcosa per poi saperne parlare?

Anzi, delle volte è limitante. Al di là della grande competenza bisognerebbe avere contezza dell’impatto che l’informazione può avere sulle persone. Perché, lo abbiamo visto in questi anni di pandemia, delle volte gli esperti, anche in buona fede, fanno delle affermazioni durante contesti informali come i talkshow, che poi prendono una serie di altre strade di cui non sono più consapevoli e che è difficilissimo andare a correggere. Questo perché manca formazione su come funziona l’informazione digitale.

Durante la pandemia la divulgazione scientifica è salita alla ribalta. È aumentata la consapevolezza e l’interesse per le questioni sanitarie, ma anche la diffusione di fake news. È tutta colpa dei social network o anche del giornalismo, che qualche volta ha prestato il fianco a strumentalizzazioni?

Io non darei la colpa ai social. Il problema è che l’intero sistema informativo non ha tenuto. A partire dagli esperti, perché molti non erano preparati a stare nel contesto pubblico. Improvvisamente si sono trovati in televisione, sui social, sui giornali senza  essere stati preparati adeguatamente agli effetti della comunicazione. Sappiamo bene che la pandemia avrebbe richiesto non solo un piano pandemico ma anche un piano di comunicazione che sarebbe servito a contenere tutti i problemi di disinformazione o misinformazione. In cui i giornalisti italiani hanno avuto un ruolo, perché gran parte non hanno una formazione scientifica né una formazione sulla comunicazione della conoscenza scientifica. Si sono trovati a coprire qualcosa non avendo gli strumenti per interpretare quello che veniva loro detto dall’esperto di turno. E la dimostrazione è che spesso pretendevano certezze, quando invece chiunque lavori in campo scientifico sa che chiedere certezze è una sciocchezza.

Un consiglio per riconoscere una bufala e uno per interpretare e comunicare un dato scientifico in modo imparziale?

Io non amo molto il termine fake news. Il vero problema è l’informazione inaccurata, tutta la disinformazione che gira, cioè il fatto di prendere delle informazioni estrapolandole da un contesto e facendole diventare un’altra cosa. Il mio consiglio è di stare attenti al linguaggio. Diffidare dei toni certi, di affermazioni apodittiche o di opinioni strettamente personali collegate a toni complottistici. Per chi deve comunicare, invece, consiglierei di considerare quanto l’esperto considerato come fonte sia davvero preparato su quel tema. Quindi, banalmente leggersi bene il curriculum! Il secondo consiglio è crearsi un’agenda di esperti e sentire sempre voci indipendenti per avere dei feedback validi.

Dopo tre anni di Covid, secondo te il giornalismo scientifico ne esce peggiore o migliore?

Migliore, perché ha imparato a ragionare sugli errori. Peggiore, perché si è un po’ affermata l’idea che il giornalismo scientifico serva a dare certezze. Quello non dovrebbe essere assolutamente il suo ruolo.

E la consapevolezza media in tema salute è cresciuta o, invece, ci fidiamo ancora meno della scienza?

Secondo me la consapevolezza media è cresciuta tantissimo, perché in giro si sentono discorsi sulla necessità nella scienza di aspettare i tempi, le validazioni, oppure le persone parlano di varianti del virus anche quelle più anziane che magari non hanno alcuna formazione scientifica. Io mi fido molto di più del pubblico che del giornalismo. C’è un po’ la presunzione, da parte di chi fa informazione, di dover sempre abbassare il livello. In realtà, si tratta solo di trovare il linguaggio giusto.

Tu hai un approccio crossmediale e usi più mezzi di divulgazione. Quale si presta di più per parlare di scienza e perché?

Non credo che ci sia un mezzo migliore, credo che ognuno di noi funzioni meglio su mezzi diversi. Io funziono bene su tempi un po’ più lunghi, quindi per me la radio è perfetta. Ma adoro anche il web, la scrittura e il podcast. I social li uso molto come fonte, soprattutto per monitorare il discorso pubblico, ma non come mezzo per lavorare. Poi, ti posso fare l’esempio di una mia amica e  collega, Beatrice Mautino, che è una divulgatrice ormai molto nota e che, invece, va benissimo su Instagram. È la combinazione fra la persona che comunica e la sua capacità di comunicare con quel mezzo a intercettare un pubblico.

Il rischio di fare il giornalista scientifico è che, data la tecnicità, i contenuti risultino poco potabili ai più. Qual è il trucco, se ne hai uno, per essere sicura di arrivare a tutti?

Io sono una giornalista, quindi il mio obiettivo non è quello di spiegare in modo dettagliato e accessibile tematiche scientifiche. Quello è il lavoro del divulgatore in senso stretto, il cui capostipite sappiamo tutti essere stato Piero Angela. A me interessa più occuparmi dell’impatto, del ruolo, delle connessioni fra scienza e altri ambiti. La complessità è ciò che mi incuriosisce di più e cerco di comunicare riportandola al contesto concreto, di vita delle persone.

Spesso il giornalismo scientifico viene considerato come settoriale, difficile, ‘noioso’. Perché non è così?

Macché noioso, al contrario è affascinante il viaggio che ci fa fare nella vita, le opportunità che ci apre, non solo per capire il mondo in cui viviamo ma anche per vivere. Tutto quello che facciamo, i bisogni più basici, come alimentarsi in un certo modo, scegliere una data attività fisica o tecnologica: tutto questo ha dentro un cuore scientifico. In questo momento storico non c’è cultura né progresso senza scienza. Faccio un esempio su quello che è successo a Seul. Noi, anni fa, a Radio3Scienza ci siamo occupati, in occasione di un caso analogo, di una branca della scienza che studia i movimenti della folla. Ecco, capire come applicarla potrebbe essere decisivo per prevenire questi eventi e salvare vite. La scienza è dentro ogni cosa.

Al netto della pandemia che ha monopolizzato il settore, qual è il tema scientifico del futuro su cui punteresti?

Il tema dei temi è la crisi climatica in tutte le sue diramazioni e come riusciremo a gestirla. Due temi che amo molto, invece, sono: la produzione alimentare, che è da sempre centrale perché l’umanità si è sempre dovuta alimentare anche prima di questa ‘cosa organizzata’ che conosciamo oggi; l’altro è l’utilizzo dell’intelligenza artificiale in tutti gli ambiti sociali: dal controllo alla sorveglianza, all’opportunità di analisi dei grandi dati, fino all’abilità di individuare meccanismi di protezione collettiva o meno. È un tema di cui ci occupiamo troppo poco, ma i cui impatti sono già ben presenti.

Cosa pensi dell’uso massiccio dei social da parte di medici-divulgatori per raggiungere anche un target più giovane e trasversale? 

Io penso che dipenda sempre da chi lo fa e da come lo fa. Ho visto bravissimi medici in questo periodo trovare una propria voce in ambito social, costruendo un dialogo diretto e un canale di fiducia con il proprio pubblico. Che è una chiave anche per gestire paure, incertezze, dubbi e per ragionare insieme su cosa significhi affrontare un certo rischio. Cosa molto utile, soprattutto per un pubblico giovane che magari per informarsi usa solo i social. In questo caso trovo sia fondamentale che il divulgatore abbia ben presente la grande responsabilità di cui è investito. Mentre trovo deleterio che stia lì per impartire lezioni o per scatenare polemiche con chiunque.

Un esempio valido?

Una molto brava è Roberta Villa, che da inizio pandemia ha usato Instagram per discutere con le persone dando spazio alle loro domande a partire da dubbi, paure e incertezze. Tutto con un tono accogliente, rispettoso e mai offensivo. Poi, c’è tutta una generazione di divulgatori molto giovani e molto bravi che usano i social, da Instagram a Twitch, con notevoli capacità di interazione con il proprio pubblico.

Quindi, la scienza ha ormai imparato a parlare da sola o serve ancora il giornalista scientifico?

Serve tantissimo. Il giornalista scientifico deve avere il ruolo di capire i bisogni informativi del pubblico o dei pubblici, per aiutare a comunicare dei contenuti difficili, facendo attenzione a come questi possono essere contestualizzati. E la capacità del contesto ce l’ha il giornalista, molto meno l’esperto, che di solito è sintonizzato solo sul proprio settore. Per cui, non credo assolutamente che la comunicazione disintermediata possa sostituire il giornalista scientifico. MARTINA PIUMATTI

Orazio Antinori, il patriarca degli esploratori italiani. Marco Valle il 17 Ottobre 2022 su Inside Over.

Il 17 novembre 1869 il Canale di Suez divenne una realtà. Quel giorno un corteo di trenta navi impavesate scese dal Mediterraneo al Mar Rosso. In testa l’Aigle, lo yacht imperiale francese con a bordo una raggiante imperatrice Eugenia e Ferdinand de Lesseps, poi il Greif, con Francesco Giuseppe d’Austria, il Gril con Federico Guglielmo di Prussia, il Valk con i principi d’Olanda, la corvetta inglese Rapid con Sir Elliot, ambasciatore britannico a Costantinopoli, l’Archontia con l’ambasciatore russo Ignattieff. Sulle rive, sventolando orifiamme e stendardi, migliaia di cavalieri accompagnavano solennemente il lungo convoglio. Uno spettacolo grandioso, unico. Fuochi, colori, musiche, bandiere. Sovrani, principi, ambasciatori, tecnocrati e giornalisti. «L’Africa», come scrisse il “Times”, «era diventata un’isola». L’evento del XIX secolo.

Purtroppo la rappresentanza ufficiale italiana mancava: alla vigilia il duca Amedeo d’Aosta, terzogenito di Vittorio Emanuele dovette rientrare per emergenze politiche legate alla questione romana. Ciò nonostante, il regno, seppure in scala minore, non perse l’occasione di “mostrar bandiera”: sei navi — Principe Tommaso, Principe Amedeo, Principe Oddone, Scilla, Italia, Sicilia — parteciparono all’inaugurazione con a bordo una folta delegazione della Società geografica italiana guidata dal suo segretario generale, il marchese Orazio Antinori. Un personaggio straordinario.

Nato a Perugia il 23 ottobre 1811, sin da giovanissimo, insofferente del bigottismo familiare e del provincialismo dell’ambiente domestico, abbandonò gli stufi per dedicarsi da autodidatta alle scienze naturali e a 26 anni si trasferì a Roma dove incontrò Carlo Luciano Bonaparte (figlio di Luciano, fratello minore di Napoleone) che lo assunse come collaboratore per le sue ricerche zoologiche. Un periodo di studi fecondi interrotto però dalle rivoluzioni del 1848 e dallo scoppio della prima guerra d’indipendenza italiana. Abbandonato il laboratorio del principe, Antinori, fervente patriota e ammiratore di Mazzini, s’arruolò e andò a combattere gli austriaci nel Veneto dove venne gravemente ferito. Alla caduta del governo pontificio Orazio rientrò nella capitale per aderire alla Repubblica romana; eletto deputato della costituente, nel 1849 fu nuovamente in prima linea assieme a Garibaldi per difendere Roma dalle truppe francesi. Caduta la Repubblica imboccò la strada dell’esilio.

Dopo un lungo pellegrinare tra la Grecia, l’Asia minore, Creta e Cipro, nel 1858 si trasferì in Egitto. Era l’Africa tanto sognata e l’inizio di una sconfinata passione per genti, paesaggi e animali. L’anno dopo Orazio s’inoltrò nel Sudan e strada facendo incontrò un leone che gli chiudeva la strada ruggendo. Senza scomporsi Antinori si sedette, lo osservò e iniziò a disegnare: il felino si chetò e rimase in posa per tutto il tempo necessario per poi sparire nuovamente nella foresta….

Nel periodo sudanese assieme all’amico Carlo Piaggia il marchese risalì il Nilo Bianco sino alla confluenza con il Bahr al-Ghazal per poi proseguire sino alla sconosciuta Nguri, arrivando quasi ad un passo dall’Equatore. Purtroppo la spedizione si trasformò presto in una vera e propria odissea africana — «le continue piogge, le febbri, la dissenteria, il vitto scarso e cattivo minacciavano di seppellirci tutti sul luogo» — e a malincuore Antinori fu obbligato a tornare a Khartoum.

Uno sforzo non vano. Nel travagliato viaggio l’esploratore raccolse un importante documentazione scientifica sui territori attraversati confermando così la sua fama di naturalista e geografo. Come sottolinea Roberto Battaglia, fra i pionieri italiani Antinori «era il primo, che avesse affrontato l’esplorazione del continente dotato di buone cognizioni di scienze naturali e capace inoltre di documentare direttamente, per mezzo delle sue splendide collezioni, la propria opera. Ciò spiega il successo, e l’ospitalità subito concessa ai suoi scritti dalle riviste geografiche tedesche. In due soli anni era assurto a figura autorevolissima tra gli esploratori italiani: gli impulsi romantici della passione risorgimentale si congiungevano in lui alla più scrupolosa capacità di osservazione scientifica».

Rientrato in Italia nel 1861 l’antico mazziniano si conformò senza troppi problemi alla monarchia sabauda e l’anno dopo vendette per una cifra ragguardevole (20mile lire del tempo) al governo italiano le sue ricche collezioni ornitologiche. Una boccata d’ossigeno che gli permise viaggi di studio in Sardegna e poi in Tunisia. 

Il 12 maggio 1867 a Firenze, allora capitale provvisoria del regno d’Italia, partecipò con Cristoforo Negri e Cesare Correnti alla fondazione della Società geografica italiana di cui divenne segretario generale. La Società rappresentava il limitato ma già influente segmento “espansionistico” e “africanista” italiano: una compagine di viaggiatori, pubblicisti, politici, imprenditori, militari, qualche scienziato — in nuce il futuro “partito colonialista” — assai insoddisfatta del “ripiegamento” dei governi della Destra storica e fortemente convinta che il Risorgimento non si fosse compiuto e l’Unità non bastava. Per colmare il pesante divario tra l’Italia e le economie europee avanzate e permettere al regno d’accedere al ristretto club dei “grandi”, era necessaria una nuova grande impresa oltremare. Sull’esempio della Royal geographical society, della Société de gèographie e degli analoghi sodalizi prussiani, russi, belgi ed austriaci, l’associazione assunse da subito una fisionomia marcatamente politica e si propose come laboratorio dell’espansione italiana. Nella ricerca di regioni e mercati dove il Paese avrebbe potuto affermarsi si parlò e si discusse di acquisire, come già intravisto da Cavour e Massaja, pezzi di Africa orientale ma anche di inoltramenti nel Levante, nell’Oceano Indiano, in Nuova Guinea e persino in Polinesia o nelle lontanissime Aleutine. Una somma di velleità e sogni, sicuramente, ma anche progetti e (limitati) investimenti per influenzare e indirizzare la politica estera del regno. Seguendo il principio “Voir c’est avoir”, s’iniziarono a pianificare spedizioni e immaginare conquiste territoriali.

La prima ricognizione nel Corno d’Africa toccò proprio ad Orazio Antinori. Nel 1870, due mesi dopo i festeggiamenti sul Canale, l’irrequieto patrizio perugino s’imbarcò a Suez assieme due giovani naturalisti, Odoardo Beccari e Arturo Ismel, verso l’Eritrea e l’Etiopia dove rimase sino al ‘72 raccogliendo e annotando tutto il possibile sulla fauna e la flora della regione, ancora semi sconosciuta, ma soprattutto annodando rapporti con i potentati indigeni e indagando le complessità della società abissina. Un doppio risultato complementare alla parallela penetrazione italiana sulla costa del Mar Rosso. Il primo, timido e incerto passo della nostra vicenda coloniale. 

Dopo due anni di ricerche e studi in Africa Antinori fece ritorno in patria per dedicarsi completamente alla Società geografica ma con lo sguardo sempre rivolto all’Africa. Nel 1876, a sessantasei anni, si fece affidare il comando di una grande spedizione che attraversando l’Etiopia doveva raggiungere i laghi equatoriali Vittoria e Tanganica. La missione prese da subito una pessima piega: predoni, rapine, incidenti. Una notte, incalzata da bellicose bande indigene, la spedizione dovette guadare di gran lena il fiume Hawash in piena. Un disastro. Gli esploratori rischiarono d’annegare e i flutti inghiottirono gran parte dei materiali. Ma Antinori non era tipo da arrendersi. Faticosamente riuscì a portare la carovana (o ciò che ne restava) sull’altopiano etiopico sino all’accampamento del negus Menelik, re dello Scioa dove incontrarono il missionario Guglielmo Massaja, consigliere del sovrano.

Grazie ai buoni uffici dell’intraprendente frate Orazio entrò presto nelle grazie di Menelik. In seguito ad un incidente di caccia che privò Antinori dell’uso della mano destra, il re concesse al perugino un appezzamento di terreno a Let-Marefia. Il suo “buen ritiro” ma anche una stazione scientifica e una fiorente colonia agricola.

Negli anni Antinori continuò le sue ricerche sull’acrocoro abissino studiandone la flora e la fauna e immaginando uno sviluppo economico per la regione. Nelle sue relazioni spedite puntualmente, assieme a casse di preziosi reperti, alla Società geografica l’ormai anziano esploratore descrisse con precisione estrema quelle “terre incognite” che ormai erano diventate la sua seconda patria. Un amore viscerale. Ai sodali e ai familiari che lo sollecitavano a rientrare in Italia rispose: «meglio cento volte la tenda del beduino, meglio il dorso del cammello, meglio la continua lotta e la sublime incertezza dell’indomani. In Africa, in Africa! Io voglio morire libero come la sua natura!». Antinori non millantava. La “nera signora” lo colse il 26 agosto 1882 a Lèt Marefià. Gli abitanti lo seppellirono all’ombra di un secolare sicomoro. 

Giovanni Battista Belzoni, un Indiana Jones padovano nella terra dei faraoni. Marco Valle il 17 Ottobre 2022 su Inside Over.

Nell’estate del 1799, all’indomani del ritorno di Bonaparte dall’Egitto, Parigi visse una stagione d’innamoramento sfrenato per l’Oriente. In un balenio le acque della Senna si confusero con quelle del Nilo e l’Egitto divenne una moda, una fissazione.  Fu “l’egyptomanie”.

Attraverso le immagini di Dominique Vivant Denon, l’illustratore dell’impresa e nuovo direttore del museo del Louvre -, lo stile “Retour d’Egypte” si affermò ovunque: l’alta società (e non solo) si scoprì improvvisamente “egizia”, riempiendo i salotti di sfingi, erme, mostri favolosi con corpo di leone e testa umana, fantasiose riproduzioni in scala dei templi di Tebe, Edfu, Karnak. Un turbinio che coinvolse, ovviamente, lo stesso Napoleone; come già ricordato, nelle sue conversazioni con Las Cases a Sant’Elena il grande corso tornava volentieri sull’impresa africana: “Rimpiangeva parecchio di non aver fatto costruire un tempio egizio a Parigi; era un monumento di cui avrebbe voluto arricchire la capitale”.

L’amore della Francia e dell’Europa per l’Oriente non si placò nemmeno dopo Waterloo. La mania divampò con nuova forza man mano che da Parigi a Londra, ma anche a Torino (il Museo Egizio, fondato nel 1824 da Carlo Felice, è il più antico spazio del mondo dedicato interamente alla cultura faraonica), i musei si riempivano di preziosi reperti provenienti dall’Egitto, allora in pieno sommovimento modernizzatore. E qui inizia la nostra storia.

Il protagonista si chiama Giovanni Battista Belzoni, un personaggio straordinario dalla vita romanzesca. Nato a Padova il 5 novembre 1778 da una modesta famiglia (il padre Giacomo Belzon era barbiere) e già da giovanissimo si dimostrò uno spirito inquieto. All’età di 13 anni scappò per raggiungere Roma ma arrivato a Ferrara fu costretto a desistere e a tornare a casa. Tre anni più tardi, questa volta con il consenso familiare, realizzò il suo sogno di stabilirsi a Roma dove entrò in seminario e qui, cosa bizzarra per un’aspirante religioso, iniziò ad appassionarsi sia alle questioni di idraulica che ai trattati d’archeologia.

Ad interrompere gli studi (e ad archiviare per sempre la sua tiepida vocazione…) ci pensò Napoleone Bonaparte, dal 1798 conquistatore della città eterna oltre che di gran parte dell’Italia. Per evitare la coscrizione nell’esercito francese Belzoni decise di cambiare aria e, dopo un soggiorno a Parigi e ad Amsterdam, nel 1803 raggiunse Londra, il primo punto di svolta.

Nella capitale britannica, Giovanni cambiò il cognome in Belzoni e si diede al teatro. Era alto oltre due metri e aveva un fisico imponente e una muscolatura imponente. Divenne così il “Patagonian Sanson” (Sansone della Patagonia) ed il suo numero principale era sollevare, con un apparecchio di ferro legato al corpo, una piramide umana di 15 persone. Sposò una donna eccentrica quanto lui, Sarah Parker-Brown, e assieme per anni girarono il Regno Unito e, al seguito dell’esercito di Sua Maestà, l’Olanda, la Spagna e il Portogallo organizzando memorabili spettacoli con macchine di fuoco e acqua (la vecchia passione per l’idraulica).   In più, tra una tournée e l’altra, il padovano era stato iniziato alla loggia massonica del duca di Sussex (fratello di re Giorgio IV), un onore inusitato al tempo per un attore sebbene famoso ma sempre d’umili origini e straniero.

Il secondo punto di svolta fu un passaggio a Malta nel 1815. Qui, mentre l’astro di Bonaparte si offuscava definitivamente, Belzoni incontrò più o meno casualmente Ismail Gibraltar, agente di Mohammed ‘Alì pascià, il nuovo padrone dell’Egitto. L’occasione tanto attesa da Giovanni, ormai stufo del teatro e ansioso di nuove avventure: ai suoi occhi il tanto decantato quanto misterioso l’Egitto era il palcoscenico perfetto. In più al Cairo comandava Mohammed. Spieghiamo. Il pascià era un ufficiale albanese inviato dal sultano di Costantinopoli nel 1801 sul Nilo per riprendere il controllo del paese; fattosi nominare governatore, aveva annientato spietatamente l’opposizione dei mamelucchi, la casta militare d’origine turca e circassa che da secoli controllava il paese e consolidata la sua autorità aveva intrapreso un vasto programma di riforme: formata una burocrazia relativamente moderna, aveva sviluppato l’agricoltura – migliorando i sistemi d’irrigazione e introducendo la coltivazione del cotone, del riso e della canna da zucchero – e impostato una prima industrializzazione del paese. Nella sua ansia di rinnovamento, il “khedive” – desideroso di colmare il pesante ritardo tecnologico con l’Europa – aveva deciso avvalersi dell’aiuto di esperti stranieri, per lo più francesi ma anche britannici, tedeschi e italiani e proprio Ismail Gibraltar, vero e proprio “cacciatore di teste”, era uno dei reclutatori più attenti.

Appena il gigante padovano gli confidò il suo amore per l’idraulica, Gibraltar lo assunse. Come racconta Gaia Servadio nella sua bella biografia dedicata a Belzoni (L’Italiano più famoso al mondo, Bompiani): “Il pascià possedeva due prototipi di macchine dinamo, mirabile novità, dono degli inglesi. Una però si era rotta e l’altra pur integra, non si sapeva come funzionava. Ci voleva un Belzoni. E Belzoni doveva pensare alla sua famiglia, alle sue responsabilità e alle sue ambizioni. Voleva essere conosciuto e riconosciuto. L’offerta del pascià era una manna del cielo: trovare un’attività più dignitosa e solida di quella del teatrante non gli sembrava vero. In Egitto si poteva fare fortuna. E lui, intelligente e sveglio, voleva riuscirci”.

Arrivati in Egitto, dopo un breve passaggio ad Alessandria, Giovanni, Sara e il servitore James Curtin entrarono al Cairo e dopo qualche settimana furono ricevuti da Mohammed ‘Alì a cui il pirotecnico Belzoni propose una nuova macchina idraulica, ben più potente dei meccanismi regalati dai britannici.  Ottenuto l’assenso (e una promessa di compenso) dal pascià, si mise subito al lavoro sul suo prodigio meccanico ma senza successo. La nuova macchina non piaceva per nulla ai latifondisti locali per nulla entusiasti di un salto tecnologico che avrebbe tagliato drasticamente la mano d’opera e ridotto il loro potere sui contadini. Alla fine Mohammed preferì non irritare i suoi dignitari e Belzoni, dopo tante speranze, si ritrovò disoccupato. Il terzo punto di svolta e la sua fortuna.

Sull’onda dell’“egyptomanie” si era ormai scatenata in tutto il Paese la prima grande stagione di scavi archeologici. Una passione e una moda ma anche, sotto traccia, un nuovo pretesto per il proseguimento sulle rive del Nilo dello storico duello franco-britannico per la supremazia nel Levante e sul Mediterraneo. La fazione francese era gestita dal canavese Bernardino Drovetti, ex ufficiale napoleonico già console francese ad Alessandria: un personaggio molto ben introdotto a corte e per nulla disposto a cedere spazi di manovra ai rivali britannici. A sua volta Londra aveva inviato come console al Cairo l’ambizioso Henry Salt, diplomatico, agente dell’Intelligence Service e massone, per affiancarlo allo svizzero Johan Ludwig Burckhardt, arabista, grande viaggiatore e una delle spie più efficienti di Sua Maestà. I due non persero tempo e arruolarono il padovano incaricandolo di compiere ricerche archeologiche, recuperare reperti – e intanto mappare il territorio e prendere contatti con i vari capi… – per conto del governo britannico.

Prima missione fu il recupero a Tebe del busto colossale di Mennone, in realtà Ramses II, e il suo trasporto al British Museum. Un incarico difficilissimo ma Giovanni non si spaventò; sfruttando le sue competenze d’idraulica, riuscì a far scorrere l’imponente monumento su tronchi di legno sino al fiume e da lì al porto di Alessandria. Belzoni così raccontò l’impresa: “Era opinione di quelli che avevano visto il colosso l’essere quasi impossibile il rimuoverlo… Incontrai diverse difficoltà per mancanza di macchine e gli ostacolo che mi posero gli agenti francesi, pure vi assicuro che la perseveranza fu abbastanza per superare tutto. Alla fine mi riuscì di trasportarlo fino al Nilo, colà lo imbarcai, ed ora, con infinito piacere, sta collocato nel Museo Britannico”. Un trionfo.

Iniziò allora, fra l’estate 1816 e l’autunno 1818, una fortunosa serie di scoperte tra cui il ritrovamento di sei tombe nella Valle dei Re tra cui il magnifico sepolcro di Seti I nella Valle dei Re, chiamato poi Tomba di Belzoni e l’apertura dell’accesso al misterioso tempio di Abu-Simbel, casualmente scoperto nel 1813 nella remotissima Nubia da Buckhardt. L’ingresso del complesso era ostruito da una montagna di sabbia che incappucciava anche le spettacolari statue scavate nella montagna, ma Giovanni non si perse d’animo e, in due viaggi, riuscì disvelò il sudario di pietrisco e sabbie che avvolgeva Abu-Simbel per poi entrare, primo uomo dopo millenni d’attesa, all’interno del mausoleo. Seguirono poi la scoperta della città perduta di Berenice sulle sponde del Mar Rosso, l’identificazione della cosiddetta “Valle delle Mummie” e la ricerca, nel Fayyum, del famoso “labirinto” citato da Erodoto (si trattava in realtà del palazzo del re Amenemhet III presso Hawára) e, ancora più a ovest, dell’oasi di Giove Ammone.

Nel marzo del 1818 Giovanni scoprì l’ingresso segreto della piramide di Chefren, ritenuta sino allora inviolabile. Entrato all’interno della piramide, Giovanni risalì stretti cunicoli e corridoi strettissimi arrivando sino alla camera sepolcrale ma non vi era alcun tesoro. La tomba era già stata violata. Tanta delusione ma l’esploratore volle comunque lasciare il segno dipingendo sulla parete la sua firma: “Scoperta da G. Belzoni, 2 marzo 1818”. La scritta è ancor oggi ben visibile…

L’avvenimento destò in tutta Europa eco ed entusiasmo, e venne festeggiato in Inghilterra e a Padova, la città natale, con il conio di medaglie commemorative. Dopo anni di avventure Giovanni era ormai famoso ma, inevitabilmente, anche invidiato e temuto. Il suo attivismo lo aveva reso ingombrante agli occhi del console Salt e assolutamente inviso al suo rivale Drovetti che a più riprese cerco di ostacolarlo e, nel 1818, persino d’accopparlo. Il brutto episodio avvenne nel tempio di Karnak in seguito ad una lite per il possesso di un obelisco: gli uomini del piemontese circondarono Belzoni e schioppettarono dei colpi intimidatori. «Quando intesi lo sparo pensai che era venuto il momento di vendere cara la pelle. Smontai dal mio asino ma in quel momento apparve il signor Drovetti che mi assicurò che non correvo alcun pericolo sinché egli era presente». Insomma, una minaccia pesantissima che convinse l’esploratore, dopo un inutile appello alla giustizia egiziana, a lasciare per sempre l’Egitto e a tornare in Europa.

Prima tappa Venezia e poi, dopo vent’anni assenza, la natia Padova. Nel dicembre 1819 suoi concittadini accolsero trionfalmente il figlio del barbiere divenuto una celebrità che, commosso da tanto affetto, donò alla città preziosi papiri due belle statue della dea Sekhmet rinvenute durante gli scavi a Tebe (oggi conservate nella sala egizia del prestigioso Caffè Pedrocchi). Nel febbraio 1820 i coniugi Belzoni erano nuovamente a Londra dove Giovanni scrisse in inglese la relazione dei suoi viaggi e delle sue peregrinazioni— “Narrative of the operations and recent discoveries within the Pyramids, temples, tombs”—; il libro ottenne un notevole successo con edizioni in francese, in italiano e riduzioni popolari.

Nei tre anni passati nella capitale inglese Belzoni organizzò le prime esposizioni d’arte egizia e curò altre pubblicazioni sull’argomento ma presto la voglia d’avventura riprese il sopravvento e nel 1823 partì da Londra alla ricerca delle sorgenti del fiume Niger. Dopo un passaggio in Marocco si recò nel golfo di Guinea e dall’attuale Nigeria s’inoltrò verso l’interno. Giunto in un piccolo villaggio chiamato Gwato venne colpito da un virus e il 3 dicembre 1823 morì. Venne sepolto nella foresta che subitamente inghiottì la sua tomba.

Nel 2019, dopo un lungo oblio, la città di Padova ha ricordato l’esploratore con una grande mostra significativamente intitolata L’Egitto di Belzoni, un gigante nella terra delle piramidi. Nell’introduzione del catalogo, editato da Biblios, Marco Zatterin scrive come a distanza di duecento anni Giovanni: “Colpisce chiunque abbia dentro il cuore un pezzo di Indiana Jones. Belzoni è il padre dell’egittologia moderna, dei faraoni che danno spettacolo. Usò metodi rozzi, ma propose una visione di ampio respiro e un “metodo” scientifico inedito. Belzoni rese l’ordinario straordinario e viceversa, così la sua vita non può essere raccontata come fosse un’esistenza qualunque”.

Pietro Savorgnan di Brazzà, il friulano che inventò il Congo. Marco Valle il 17 Ottobre 2022 su Inside Over.

Nella galleria dei nostri esploratori vi è un nome che brilla su tutti: Pietro Savorgnan di Brazzà. Il conte-esploratore rimane un personaggio leggendario, unico. D’origine friulana, nato a Roma, conquistò per la Francia un impero e, soprattutto, il rispetto degli africani. Caso unico nel processo di decolonizzazione, ancor oggi la capitale del Congo ex francese, porta il suo nome: Brazzaville.

Ecco la sua storia. Figlio del conte Ascanio, appartenente a una famiglia di patrizi friulani della Repubblica di Venezia riparata a Roma dopo la cessione della Serenissima all’Austria, appena quattordicenne Pietro fu ammesso all’Accademia navale di Brest e nel 1871 ottenne la prima nomina. Naturalizzato francese, nel 1875 il giovane ufficiale s’imbarcò per l’Africa equatoriale con un compito arduo: esplorare il bacino del Congo e porre le basi per un’eventuale colonizzazione.

Con pochi mezzi, recuperati grazie ai denari di famiglia (i contributi di Parigi furono sempre scarsi), Brazzà s’inoltrò nell’immensità dell’Africa per riapparire tre anni, quattro mesi e dodici giorni più tardi con una documentazione scientifica d’eccezione e un patrimonio di preziosi contatti con i capi locali. Un grande successo personale per il conte, fautore di un colonialismo rispettoso delle tradizioni locali, e l’occasione per la Francia di rilanciare il confronto coloniale con la Gran Bretagna e rintuzzare le mire dello spregiudicato Leopoldo II del Belgio, grande sponsor di Stanley, personaggio geniale quanto spietato.

Iniziò così un sorprendente duello a distanza tra il nobile friulano e l’avventuroso statunitense, tra Parigi e Bruxelles, una disfida (geopolitica, economica ma anche culturale) che appassionò i media dell’epoca inquietando non poco le cancellerie occidentali. Del resto la posta in gioco era importante: il dominio del Congo, lo scrigno dell’Africa.

Nel 1880 l’aristocratico tornò nuovamente nel continente nero per inoltrarsi nella regione dei Batéké, l’etnia maggioritaria della regione, instaurando un solido rapporto d’amicizia con Makoko Iloo, il loro capo spirituale e politico. Con la forza degli argomenti (non dei fucili…) Brazzà convinse il sovrano a celebrare il rito della “Sepoltura della guerra” nel villaggio di N’Gombila, una cerimonia che metteva fine a secoli di faide tribali. Presenziarono, convocati da Makoko, quaranta capi Apfuru e Ubandi e tutti assieme, sotto lo sguardo di Brazzà, innalzarono “l’albero della Pace”. Ancor oggi, ogni primo ottobre, la repubblica congolese ricorda con una festa nazionale quel giuramento lontano.

In quei giorni Brazzà stipulò un “trattato d’amicizia” con cui Makoko pose il suo popolo sotto la protezione di Parigi, sottraendolo alle cupidigie di Leopoldo e alle mene di Stanley. In cambio di una bandiera tricolore, il re indigeno volle donare al nuovo amico un frammento del suo regno: l’area su cui oggi sorge Brazzaville.

Un successo pieno che il re del Belgio tentò d’ostacolare con ogni mezzo: al suo rientro, Brazzà venne accolto da una stampa negativa aizzata dai denari leopoldini; il governo parigino traballò, nessuno voleva più riconoscere il trattato con Makoko. Il conte era un utopista ma non uno sprovveduto. Dimostrando una certa lungimiranza, Brazzà si fece riprendere da Paul Nadar, il grande fotografo parigino, nel suo atelier.

Tra tutte le immagini, una rimarrà nel tempo: Pietro vi appariva negli abiti con i quali aveva attraversato l’altipiano dei Batéké, a piedi nudi, con la testa avvolta in un pezzo di stoffa, simile ad un esploratore del Sahara. Lo sguardo profondo, penetrante, quasi rimosso dal mondo. Un ritratto fotografico, esasperatamente romantico.

I giornali s’impadronirono immediatamente del personaggio, della sua immagine. Un successo pieno. In poche settimane l’erratico Brazzà — un friulano testardo e timido — divenne il packaging di saponette, sigarette, cioccolata, formaggi e altri prodotti. Anche Louis Vuitton, ditta all’epoca artigianale, progettò e realizzò per il valoroso esploratore una brandina da viaggio e un baule.

Pochi mesi dopo, il conte infilò un altro successo mediatico. Avvertito della presenza di Stanley a un banchetto all’Hotel Continental di Parigi, si presentò proprio mentre l’americano stava concionando volgarmente sul suo conto. Nell’imbarazzo generale, Pietro fece il suo ingresso a sorpresa e salutò Stanley, rispondendo agli insulti con parole signorili. Applausi dalla platea, imbarazzo dell’oratore: la stampa parigina aveva il suo eroe.

Il 20 novembre 1882 il parlamento all’unanimità ratificò il trattato e il 15 febbraio Brazzà fu nominato Commissario generale per i territori africani. Un incarico importante per il nostro protagonista e l’occasione per una nuova spedizione, questa volta franco-italiana. Forte della sua fama, l’uomo riuscì ad imporre al ministero delle colonie la presenza di una missione scientifica italiana; a capo vi erano il naturalista Giacomo Savorgnan di Brazzà, fratello minore di Pietro, e un comune amico friulano, l’etnologo Attilio Pecile. Parigi acconsentì a condizione che Giacomo si assumesse personalmente la maggior parte delle spese. La missione fu un successo e coronò dieci anni di sforzi e fatiche.

Per Brazzà era arrivato il tempo delle responsabilità, del governo. Alla Conferenza di Berlino le potenze avevano risolto la questione congolese regalando a Leopoldo due terzi della regione (lo Stato libero del Congo rimase dominio personale del sovrano sino alla sua morte e fu lasciato in eredità al Belgio) mentre alla Francia fu riconosciuta l’altra porzione, subito affidata a Pietro.

Fedele ai suoi ideali, il conte cercò di organizzare il possedimento secondo le sue “linee di vetta”. Una battaglia splendida ma perduta sin dall’inizio. Il complesso industriale e militare parigino — e, per motivi opposti, anche i missionari — non tollerarono a lungo l’esperimento di Brazzà. Un “colonialismo di civiltà”, attento alle tradizioni e agli usi locali, non era compreso nei piani delle banche di Parigi e, tanto meno, nei sogni dei “piccoli bianchi” catapultati dalla metropoli all’Equatore. Sino all’ultimo Pietro cercò d’opporsi agli sfruttatori e al saccheggio delle risorse; nel 1898 fu rimosso dall’incarico e si ritirò ad Algeri.

Nel 1903 i giornali rivelarono gli orrori commessi in Congo dai coloni francesi. L’opinione pubblica rimase turbata, agitata. Il governo improvvisamente si ricordò di lui, l’unico personaggio credibile, e lo incaricò di una missione d’inchiesta. Possibilmente breve. Sebbene malato, da buon ufficiale, Pietro accettò l’incarico ma il suo viaggio si rivelò un calvario. Appena sbarcato s’accorse che le sue speranze erano svanite e il Congo, il “suo” Congo, era diventato un inferno. Uomo d’onore, si rifiutò di redigere un rapporto rassicurante, che avrebbe dovuto rimarcare le differenze tra le atrocità del regime leopoldino e la presunta bonarietà della colonizzazione francese. Scrisse invece una relazione durissima — una sorta di testamento spirituale — da presentare al governo.

Durante il viaggio di ritorno, le condizioni di Brazzà peggiorarono e il 14 settembre morì a Dakar. Parigi tributò un funerale di Stato ma la moglie Thérese – convinta che fosse stato avvelenato da agenti governativi – rifiutò che venisse sepolto nel Panthèon e scelse il cimitero di Algeri. Nel 1908 il parlamento francese votò a maggioranza l’annullamento dei rapporti di Pietro; la relazione venne insabbiata, ed è stata pubblicata per la prima volta solo nel 2014 da un piccolo editore parigino, Le Passager clandestin.

Per decenni le sue spoglie riposarono nella capitale algerina. Sino al 3 ottobre 2006. Quel giorno, con un ultimo omaggio, gli eredi di Makoko vollero riportare i resti del magnifico friulano sulle sponde del grande fiume. Il Congo.

Dopo una lunga amnesia l’Italia e il Friuli hanno deciso di ricordare Brazzà. Da qualche anno, con un intreccio fortemente evocativo, l’aeroporto regionale di Ronchi dei Legionari è intestato al conte-esploratore. Nel castello di famiglia a Moruzzo (Udine) i discendenti hanno organizzato il  Museo Storico Pietro Savorgnan di Brazzà e sempre in Friuli operano diverse associazioni che, nel segno di Pietro, cercano di valorizzare lo sforzo dei numerosi (e ancora misconosciuti) esploratori, missionari, geografi e scienziati locali. A tutti loro, nel 2011, Udine ha dedicato una bella mostra, significativamente intitolata Hic sunt Leones, organizzata dal Museo friulano di Storia Naturale. Un successo di pubblico e critica.

Sempre su queste coordinate il piccolo Comune di Fagagna ha voluto onorare un suo figlio avventuroso e dimenticato, Attilio Pecile. Negli spazi del Palazzo Comunale, è stata esposta la straordinaria collezione di arte africana – in gran parte conservata al Museo Pigorini di Roma – raccolta da Pecile, etnografo e naturalista, durante le spedizioni compiute assieme agli amici Pietro e Giacomo Brazzà nel Congo e in Gabon. Di notevole interesse il poderoso catalogo, “L’Africa di Attilio Pecile”, che ripropone la riedizione anastatica di parti del libro “Al Congo con Brazzà” di Elio Zorzi, edito da Garzanti nel 1940, sezioni del suo diario — a cui s’ispirò anche Joseph Conrad per il suo “Cuore di tenebra” — e la trascrizione di note inedite.

Per gli appassionati un piccolo gioiello che riporta a tempi lontani. Sfogliandolo sembra d’udire l’ultimo avvertimento di Brazzà ai suoi amici: “Partite senza armi, senza scorta. Andate soli… Ricordatevi sempre che siete degli intrusi e nessuno vi ha invitato”.

Chi è Luca Mercalli, climatologo (anche in tv), scrittore e accademico. Silvia Curletto il 26 Maggio 2022 su newsmondo.it.

Luca Mercalli è noto al pubblico italiano per le sue diverse partecipazioni televisive in qualità di divulgatore scientifico e climatologo.

Alla scoperta della figura di Luca Mercalli, climatologo, meteorologo, divulgatore scientifico e accademico italiano. Anche autore di diverse opere letterarie e saggi, Mercalli non solo intraprende una brillante carriera ma si fa anche conoscere dal grande pubblico italiano entrando sulla scena televisiva, in particolare a Che tempo che fa. Scopriamo quindi cosa c’è da sapere sulla sua attività professionale e anche qualche curiosità sulla sua vita privata.

Luca Mercalli: la biografia

Nato nella città piemontese di Torino il 24 febbraio del 1966, Mercalli si interessa fin da piccolo alla meteorologia. Ai diciotto anni consegue il diploma di Cultura aeronautica in Meteorologia, un’attestazione rilasciata da Servizio Meteorologico dell’Aeronautica Militare. Continua la sua formazione accademica con il conseguimento della laurea prima all’Università degli studi di Torino e in seguito presso l’Università di Grenoble in climatologia e glaciologia, con un master in geografia e scienza della montagna.

Luca Mercalli: la carriera professionale

Si dedica con impegno alla divulgazione di uno stile di vita che abbia il minor impatto possibile sull’ambiente. In qualità di esperto sulle tematiche ambientali è stato anche ospite di alcune trasmissioni televisive, tra cui il programma Che tempo che fa, condotto da Fabio Fazio. Durante la sua carriera collabora con l’Ufficio Agrometeorologico della regione Piemonte e con la Società meteorologica italiana, di cui in seguito detiene la presidenza.

Durante gli anni Novanta fonda la rivista Nimbus e nel contempo interviene in diverse trasmissioni televisive quali Rai 3 Ambiente Italia e Scala Mercalli, da lui condotto nel 2015 ed incentrata sul tema della sostenibilità ambientale. Giornalista pubblicista dal 2001, collabora con numerose riviste e testate giornalistiche, come La Stampa e Il Fatto Quotidiano, per cui dal 2020 cura anche la rubrica fissa domenicale SOS Clima. Mercalli ricopre anche il ruolo di docente per diverse università ed è anche il responsabile dell’Osservatorio Meteorologico del Real Collegio Carlo Alberto di Moncalieri.

La vita privata di Luca Mercalli

Non si conoscono i dettagli della vita privata del climatologo Mercalli. Persona abbastanza riservata, anche se presente sui social non pare amare condividere assieme ai suoi followers le informazioni riguardo alla sua vita privata e alla sua situazione sentimentale, sembra però essere sposato. Anche l’ammontare dei suoi guadagni economici sembra destinato a rimanere un dato privato.

3 curiosità sul climatologo e divulgatore scientifico

Vive in Val di Susa, in una abitazione adatta alla indipendenza energetica.

L’accademico è presente sul social network di Facebook.

Nel 2004 riceve il premio AICA – Comunicare con i cittadini fa bene all’ambiente, Alba.

Da giovane ha fatto fare una vacanza alla sua famiglia a Ginevra, per poter acquistare dei libri di meteorologia introvabili in Italia.

Salvatore Aranzulla: «Risolvo ogni giorno problemi tech. Altrimenti mi annoio». Irene Soave su Il Corriere della Sera il 2 Agosto 2022.

Patrimonio, storia e progetti dell’uomo che ha insegnato agli italiani a usare internet (e che fa più clic di Amazon). 

Voce delicata, sorriso esitante, Salvatore Aranzulla va a letto alle 22, si sveglia alle 7.10, fa una passeggiata «per pensare» e il resto del giorno lavora da casa. «Non mi piace essere riconosciuto». All’allestimento del suo attico nell’esclusiva cittadella di Citylife, a Milano, ha dato perciò «massima importanza»: «cinquanta punti luce», domotica da centomila euro, bottoni d’allarme in ogni stanza in memoria forse di vecchi attacchi di panico; un impianto che «cambia l’80% dell’aria ogni ora», guardie armate in giardino, uno scaffale di manga e sei di manuali di alta pasticceria, il suo hobby più longevo. Il più recente è la palestra: «Ho il 13% di massa grassa, sto lavorando per scendere a 12. Perfetti si è a 8%, ma alcune funzioni fisiche sono a rischio. Segno su una app le calorie», una volta monitorava anche l’alvo. Perché gli importa tanto? «Non mi piace lasciare andare le cose».

Non è del resto senza «un rigore che non vedo altrove» che si lancia un’azienda come la Aranzulla srl, one-man-band senza dipendenti (ma solo collaboratori) in crescita da due decenni: il primo articolo sul suo sito, «Come installare una stampante», è di gennaio 2002. Ancora oggi, a 32 anni, Aranzulla programma codice e studia contratti, fa consulenze (a 10 mila euro l’ora) e scrive articoli.

Il sito Aranzulla.it, visitato in Italia più di Amazon, dichiara per il 2021 3,8 milioni di fatturato: offre 15 mila pagine su problemi tech di ogni calibro, da «come accendere il pc» a come scegliersi un antivirus, una compagnia telefonica, uno smartphone. È tanto cliccato (690 mila utenti al giorno) che se si cerca su Google «come usare Google» il primo risultato è una pagina del sito di Aranzulla e non di Google stesso. Anche di sé, quando può, Aranzulla parla tramite dati. «Questo mese ho perso 20-30 minuti di sonno ogni notte. Eppure ho orari rigidi, assumo melatonina, un anello traccia come dormo».

E come dorme?

«Male. Basta un pensiero o uno spiraglio di luce e non prendo sonno. Sabrina, la mia compagna, stanotte è entrata a letto con lo smartphone. L’avrei strozzata. A volte mi chiede se può abbracciarmi: amore, le dico, mi abbracci domani, devo dormire».

E se avrete un figlio?

«Non dormirà con me. Mi spiace, ma devo dormire. Senta, io oggi ho da programmare quindicimila righe di codice per il sito. Se fai un errore nella terza, le altre dopo sono da buttare. Ci va precisione. Se non dormi non ce l’hai».

È stressato?

«Potrei non lavorare più. Lo faccio perché mi piace. Ma appena metto il naso fuori dall’ufficio impazzisco: il mondo del lavoro è pieno di scappati di casa».

Cioè?

«Le aziende assumono giovani incapaci per risparmiare. Ci ho a che fare ogni giorno. Vogliono un testimonial. Dicono: fissiamo una call. Io chiedo prima: avete il budget? Risposta: per ora no, ma sentiamoci lo stesso, anche solo per raccontarci le vacanze. Le vacanze? Ma che lavoro fa questa gente illicenziabile? Telefona?»

Sugli «scappati di casa» diventa inarrestabile: 40 minuti di esempi. «Da scriverci un libro»

Del rapporto della sua generazione con il lavoro si discute molto ultimamente.

«Quando sono venuto a Milano, a diciott’anni, il mio sito fruttava 36 mila euro l’anno. Ci dovevo pagare le tasse, l’affitto, la retta in Bocconi. Non è che potessi non lavorare. Oggi mi pare che i genitori difendano sempre i figli, facendone imbecilli. I modelli sono rapper analfabeti e tiktoker che lasciano la scuola. Cambia l’algoritmo, e vanno in rovina. A cinquant’anni chi si occuperà di loro?».

Il suo sito come guadagna, e quanto?

«Il fatturato 2021 era di 3,8 milioni. Il 50% viene da pubblicità. Il 25% da link affiliati alle aziende. Il restante 25% sono i corsi che faccio, le collaborazioni in cui sono testimonial. Da due anni ho disdetto tutti i miei investimenti in prodotti di banche italiane, che sono costosi e hanno rendimenti imbarazzanti. Faccio da solo».

Sono vent’anni che risponde ai dubbi informatici degli italiani. Cosa ci interessa di più?

«Le domande cambiano. Oggi la più frequente è come funziona Only Fans [sito di contenuti spesso erotici a pagamento, ndr], e se bisogna pagare».

Le piace sempre il suo lavoro?

«Al trentesimo compleanno ho preso due settimane di pausa. Mi cullavo con l’idea di non lavorare più: potrei. Ma mi annoiai. In un giorno ho finito i miei libri di Agatha Christie, Netflix mi stufava. Ieri c’era un procedimento che richiedeva 68 minuti. Io e il mio programmatore lo abbiamo riprogrammato, ora ne impiega uno. Questa roba per me è meglio del sudoku».

Torna spesso dalla sua famiglia a Mirabella Imbaccari, nel catanese?

«No, e mia madre è nera. Ci sentiamo quindici volte al giorno, ma io viaggio poco, per la pandemia. L’anno scorso sono andato a Taormina una settimana, in un resort a cinque stelle, e non ho pensato di allungare fino a casa: dai miei o muori di caldo o muori di freddo. Scenderò a settembre per votare».

Chi?

«Certo non i vincitori annunciati, responsabili di questo disastro».

Vede di più i suoi fratelli?

«Giuseppe, detto Puccio, installa fibra ottica. Davide fa l’operaio in Austria. Ha imparato il tedesco da solo. Elia studia. Ci sentiamo spesso. Hanno due, quattro e sei anni meno di me. Con Puccio una volta litigavamo: diceva che con tutti i miei contatti non l’ho mai aiutato nel lavoro. Mia madre era con me e anche lui ora ha capito».

Qual era la lezione?

«A casa mia teniamo in gran conto l’autonomia e il non chiedere favori. Se non sei responsabilizzato diventi cretino».

Cosa pensa del reddito di cittadinanza?

«Folle assistenzialismo».

A lei è mai andato male qualcosa, senza che ne avesse colpa?

«No».

Il telefono suona. Prende un appuntamento.

«Lunedì andrò a provare un macchinario per sciogliere il grasso. Ne ho 600-700 grammi che non riesco a buttare giù. Non è facile. Domani è il compleanno di Sabrina: solo di cena saranno mille calorie, e sono astemio».

È mai andato da uno psicoterapeuta?

«Ne ho provati due. Avevo una colite ulcerosa da stress e attacchi di panico. Ma mi è parso inutile. Se il capo di una grande azienda mi dà un consiglio, lo ascolto. Ma a queste persone non davo molto valore».

Perché gli attacchi di panico?

«In palestra sono svenuto sotto un bilanciere da cento chili. Potevo morire. Di lì ho iniziato a soffrirne. Ne ho parlato in una seduta, e ho avuto un attacco anche lì. La terapeuta non sapeva che fare. Mi aiutò Sabrina, che venne a prendermi».

Come è nata la vostra storia?

«Nel 2018, a pranzo con una mia collaboratrice, Irene, sua amica. Sabrina stava attaccata al cellulare. Da quello di Irene le ho scritto: basta chattare! E le ho lasciato il mio numero. Al primo appuntamento ci siamo trovati estremamente antipatici. Lei lavora in banca, è una concreta: diceva che l’economia digitale è inconsistente, che non capiva come potesse generare valore. A me, capito?»

Proprio mentre parliamo di lei, in cucina entra Sabrina, classe 1990 come Aranzulla, bancaria a un esame dalla laurea in Economia. Minuta, capelli dorati, occhi blu scuro. Mai vista perché sui social di Salvatore, di comune accordo, non compare mai. «Io non ce l’ho neppure, Instagram», sorride. «Non vorrei che la nostra storia diventando pubblica cambiasse. Stiamo tanto bene così. Prima, di Salvo sapevo solo che era il capo di Irene».

Salvatore, questo la offendeva?

«Mi ha rincuorato. Sono un diffidente. Solo che questo appuntamento fu pessimo. Dopo qualche tempo ci siamo risentiti, e chi sa perché ci abbiamo voluto riprovare. Scattò qualcosa. Non ci siamo più lasciati».

Sabrina, prima Salvatore diceva che ogni tanto la strozzerebbe.

«E viceversa. Ma io senza di lui sarei sregolata e persa. Lui senza di me… diciamo che sono la sola cosa della sua vita che non rientri in un file Excel».

L’egoismo della pesca. Io, Aranzulla che son io, Aranzulla che non sono altro. Guia Soncini su L'Inkiesta il 3 Agosto 2022

In un’intervista al Corriere, la star degli spiegoni tecnologici per impediti analogici difende la sacralità del sonno, soprattutto di fronte alla minaccia dei bambini, un po’ come Nanni Moretti e molto come Guia Soncini 

Una volta «si vede che sono un uomo» era una battuta. Era quando si potevano fare le battute, quando nessuno le scambiava per affermazioni serie perché i deliri ideologici non erano ancora così pervasivi.

Quando Nanni Moretti parlava con la pancia della moglie e diceva al futuro figlio che il papà aveva «bisogno di dormire molto, e un sonno continuo, non frammentato», era il 1998, ed era un altro mondo.

Un mondo in cui un uomo poteva mettere in scena un sé stesso che di fronte alla gravidanza pensa innanzitutto al proprio sonno, alla propria tranquillità, all’intoccabilità e alla sacralità di sé, di sé, soltanto di sé, e nessuno lo accusava di maschilismo tossico, di rifiuto del lavoro di cura condiviso, di vessare la povera madre che se non diventava capo del mondo era perché lui non si faceva impiantare due tette per allattare al posto suo.

Ma, soprattutto, un mondo in cui io, seduta nella platea del Nuovo Sacher, potevo guardare lo schermo e dire: ah, Nanni Moretti sono io, io che pure mi preoccuperei innanzitutto che quell’arnese piangente non mi svegliasse, io che pure innanzitutto penso a me, io che pure col cazzo che sono disposta a sacrificarmi.

Oggi, nulla di tutto ciò sarebbe possibile, perché la mia ammirazione perpetua per il personaggio più egoista sullo schermo sarebbe scambiata per un’identificazione di genere. Ti rivedi in Vito Corleone, ti rivedi in Rhett Butler, ti rivedi in Michele Apicella: è chiaro che sei un uomo, ti hanno assegnato alla nascita il genere sbagliato.

Oggi, in tempi terribilmente più retrogradi degli anni Novanta, non è possibile non essere un cliché culturale. Sei un bambino cui piace il rosa? Sei una bambina, abbiamo sbagliato crocetta sul modulo anagrafico. Sei una bambina cui piace giocare a calcio? Sei un bambino, non preoccuparti, ora ti diamo gli ormoni così non ti crescono le tette.

Ci sarebbe da discutere di come questa impostazione sia la più omofoba che sia mai esistita (meglio riempirti di ormoni che ti faranno venire l’osteoporosi, che crescere una piccola lesbica), ma io invece voglio parlare della pesca.

Da giorni, gli americani che seguo su Twitter discutono di una vignetta d’una tizia che su Instagram si chiama momlife_comics, e racconta la propria vita con due figli e un marito inetto. La vignetta della pesca è costruita con le due diverse reazioni di lei e di lui scoprendo che c’è un’ultima pesca perfettamente matura. Lei pensa: la tengo per i bambini, a loro piacciono così tanto le pesche. Lui pensa: la metto nel mio frullato.

Una persona sana di mente – cioè: io – ne desume che siamo di fronte a due deficienti. Lei si sacrifica per due che se mangiassero una merendina sarebbero contenti uguale; lui spreca la pesca in un frullato misto in cui il sapore d’una frutta che puoi gustare poche settimane all’anno verrà confuso e diluito.

Twitter, un raduno di gente che non ha mai contribuito al pil di nessuno Stato e passa le giornate a trarre morali sulle vite altrui, decide che la tizia deve divorziare, giacché vessata da un patriarca che passa sopra alle esigenze familiari ed è un egoista delle pesche.

Per inciso, tutte le vignette della signora hanno questa convenzione narrativa qui: il marito non sa dove siano i bicchieri nella loro cucina, il marito quando scaricano la spesa dalla macchina prende un sacchetto mentre lei ne prende dieci – il marito sono io.

Chissà se la fidanzata di Salvatore Aranzulla disegna fumetti. Ieri il Corriere ha pubblicato quella che già premierei come miglior intervista dell’estate. A uno che forse non avete mai sentito nominare ma che è il risultato che vi viene fuori se guglate «come si invia una pec» o «come si cancella la cronologia»: Aranzulla si è arricchito capendo che siete subnormali e che, per quanto dipendiate dalla tecnologia ormai in tutto, non la sapete usare.

L’intervista è piena di meraviglie quali «il mondo del lavoro è pieno di scappati di casa. Le aziende assumono giovani incapaci per risparmiare. Ci ho a che fare ogni giorno. Vogliono un testimonial. Dicono: fissiamo una call. Io chiedo prima: avete il budget? Risposta: per ora no, ma sentiamoci lo stesso, anche solo per raccontarci le vacanze. Le vacanze? Ma che lavoro fa questa gente illicenziabile? Telefona?».

Aranzulla ha un gigantesco senso di sé: ce l’avreste anche voi, se vi foste rapidamente arricchiti soccorrendo l’umana stupidità. Oltretutto mi par di capire sia un enfant prodige: ha 32 anni, e l’intervistatrice Irene Soave racconta che ha cominciato col post «Come installare una stampante» nel 2002, quindi dodicenne. Piccoli geni equilibrati non ne esistevano nel mondo analogico, figuriamoci oggi.

Comunque, a un certo punto arrivano, nell’intervista ad Aranzulla, Nanni Moretti e la pesca. Ricopio il passaggio.

«Basta un pensiero o uno spiraglio di luce e non prendo sonno. Sabrina, la mia compagna, stanotte è entrata a letto con lo smartphone. L’avrei strozzata. A volte mi chiede se può abbracciarmi: amore, le dico, mi abbracci domani, devo dormire». «E se avrete un figlio?». «Non dormirà con me. Mi spiace, ma devo dormire».

È una vita che dibatto di come le camere separate non siano un segno di disamore: è la camera da letto comune che è un segno di poca ricchezza e scarsità dei metri quadri. Certo che se c’è una pesca buona la voglio per me. Certo che il mio sonno è sacro e se accendi la luce t’ammazzo e pretendo pure le attenuanti. Si vede che sono Aranzulla.

Eugenio Spagnuolo per gazzetta.it il 25 aprile 2022.

L’anno scorso la rivelazione, proprio su queste pagine: Salvatore Aranzulla, oracolo di tutte le risposte ai nostri problemi hi-tech, è un appassionato di bodybuilding, disciplina “fisica” a cui applica la stessa, certosina, passione che ha per l'informatica. Una contraddizione in termini? Niente affatto, perché come racconta oggi Aranzulla a Gazzetta, i suoi progressi e le sue evoluzioni atletiche sono state rese possibili anche dall’uso strategico di fogli di calcolo, app e una bilancia “intelligente”.

Il Metodo Aranzulla (dal titolo di un suo famoso libro) applicato al fitness, insomma. A un anno di distanza il tecnologo più amato dagli italiani ci parla anche della sua dieta, di come uno stile di vita sano, oltre a regalargli un fisico statuario, lo aiuti a tenere a bada un disturbo auto-immune e mette in guardia dai rischi che corriamo quando usiamo i social al posto dello specchio. 

L’anno scorso hai raccontato a Gazzetta della tua passione per il bodybuilding, generando un certo stupore: in pochi si aspettavano che il re delle guide tech avesse il pallino della palestra, delle diete. Come l’hanno presa follower e lettori?

"Mi continuano a scrivere in tanti, in particolare su Instagram. Tanto stupore, che un po’ mi diverte".

È spuntato fuori anche un action figure che ti raffigura in versione muscle man.

"L’ho scoperto per caso: un giorno ho visto un meme… Pensavo fosse un fotomontaggio. E invece era vero. Una cosa molto simpatica, me lo hanno anche inviato". 

E oggi come procede con gli allenamenti e tutto il resto? Dalle foto sembra bene...

"Mi sono stabilizzato su 4 allenamenti a settimana. Rispetto a un anno fa la mia condizione fisica è migliorata, lo vedo anche io. Ma…". 

Ma?

"Ho smesso di confrontarmi con le immagini fitness che girano sui social: riferimenti impossibili per un essere umano. Invece i feedback che mi arrivano da chi mi segue mi danno la misura dei miei miglioramenti dal punto di vista fisico".

Come si allena Salvatore Aranzulla rispetto all’anno scorso?

"L’allenamento è invariato. Sempre a casa con la mia attrezzatura fitness in 4 sedute a settimana da un’ora, 2 per le gambe, 2 per parte alta del corpo. È un allenamento che adeguo in base ai periodi e alla voglia di sperimentare nuove cose quando avverto fastidi o dolori. Esempio la Lat machine per i dorsali: ho notato che cambiando la presa avvertivo meno fatica. Ma lo schema di allenamento resta pressoché lo stesso". 

Segui qualche teoria dell'allenamento in particolare?

"No, un allenamento tradizionale, ma lo adatto al macchinario multi-funzione che ho in casa e ai manubri. E cerco sempre di progredire tra una sezione e l’altra, aumentando i carichi. Alla fine funziona qualsiasi tipo di allenamento, purché ci sia una progressione". 

Qual’è l’esercizio che ti dà più soddisfazione?

"Mi piace il lavoro che sto facendo sul dorso, mi sono impegnato tanto per migliorare i carichi. Non era il mio punto forte, ma sono riuscito a portarli a un livello analogo dei pettorali". 

Autostima a parte, quali benefici hai ottenuto dall’allenamento?

"Da quando ho ripreso ad allenarmi non ho mai avuto alcuna ricaduta della colite ulcerosa, la malattia con cui convivo da anni. Anche la terapia avrà fatto la sua parte. Ma quel che so è che non ho mai più avuto ricadute: in passato le avevo una volta l’anno e stavo davvero male. Credo che allenarsi aiuti a scaricare lo stress. Poi seguo un’alimentazione equilibrata. E anche questo conta". 

Segui una dieta in particolare?

"Ho provato ad andare in deficit calorico. Ma mi sono reso conto che dopo una settimana non lavoravo più bene e non riuscivo a concentrami così sono tornato a una dieta normo-calorica". 

E una dieta normo-calorica non è sufficiente per i tuoi scopi?

"Sì e no. Ho i miei obiettivi di dimagrimento. Sono alto 1,70 cm e peso 66 kg. L’anno scorso avevo raggiunto una percentuale di grasso attorno al 12% del peso corporeo. Così mi sono immerso in una fase di crescita muscolare, mangiando di più e la percentuale di grasso è salita al 14/15%. Poi qualche problemino di salute mi ha fermato e ho perso massa muscolare. E ho deciso di tentare una dieta ipocalorica: ma non riuscivo più a lavorare e mi mancavano le energie. Quindi ho deciso di tornare al mantenimento fino all’estate. E in quel momento ho capito una cosa…". 

Siamo curiosi...

"Alla fine tutto questo mettere peso e dimagrire e viceversa funziona per atleti che fanno solo questo nella vita o per chi fa uso di sostanze dopanti. Per tutti noi che ci alleniamo in maniera amatoriale è diverso. Con una dieta spartana rischiamo di non riuscire a lavorare. E poi a volte ci lasciamo condizionare troppo dalle immagini dei social: Tik Tok e Instagram ti mostrano persone che hanno percentuali minime di grasso corporeo, qualcosa impossibile nella realtà se non per periodi brevi e per pochissime persone. Ci sono cascato anche io che secondo i dati Dexa ho una condizione fisica migliore del 99% degli uomini della mia età. Eppure se mi confronto con quanto vedo sui social mi vedo male".

Non di rado chi pratica bodybuilding non ha una reale percezione fisica di sé. Lo ha ammesso persino Schwarzenegger...

"È vero. E può diventare un problema. Io ho imparato a guardare a me stesso, a concentrarmi sui miglioramenti nei carichi e nel progredire in quello che posso". 

Usi qualche integratore?  

"Proteine in polvere, creatina e un multi-vitaminico quando non riesco a mangiare tutta la frutta che vorrei. Stessa cosa per le proteine: le prendo se non riesco ad arrivare alla quota proteica del giorno".

A proposito di pasti proteici, una tua ricetta tipo?

"Sono siciliano, mi piace tanto il polipo. Quindi pasta col polipo. Per fare prima lo compro già cotto, a vapore, lo faccio a cubetti, aggiungo 10 grammi di olio, 100 di pomodorini e un po' di acqua di cottura della pasta. Il risultato è un sugo con una percentuale di grassi vicina allo zero. E con 120 g di polipo si raggiunge la quota proteica giornaliera. È un alimento molto nutriente". 

Quale metodo usi per calcolare la percentuale di grassi?

"Ho una bilancia professionale che mi aiuta a calcolarla. È una stima soggetta a errore ma grosso modo ci prende". 

E poi come traduci tutto questo in una dieta?

"Non è complicato. Mi peso tutti i giorni e tengo il conto delle calorie. Così, in base al peso e alle calorie assunte il giorno prima, riesco a stabilire quanto dovrò mangiare nei pasti della giornata, per correggere il surplus o il deficit dei giorni precedenti e tendere verso l’obiettivo che mi sono dato". 

Il Metodo Aranzulla applicato alla dieta. Non hai pensato di diffonderlo?

"Mi piacerebbe fare un’app, ma ce ne sono tantissime. Per ora tutto si basa su fogli di calcolo, che sono una reminiscenza di quando studiavo statistica all’Università. Ci ho messo circa 5 anni per crearli. Magari un giorno li pubblico e li metto a disposizione di tutti". 

Il fine ultimo di tutto questo impegno?

"Invecchiare in buona salute. Ultimamente mi sono appassionato alla scienza della longevità. Leggo tanti i libri a riguardo. Uno, soprattutto, mi sento di consigliarlo: La grande via di Franco Berrino e Luigi Fontana, un gran bel libro che fornisce molte indicazioni utili per invecchiare in modo sano. Che poi è quello che vogliamo tutti. O no?".

Giancarlo Dotto per “Diva & Donna” il 26 aprile 2022.

Non passa inosservata. Si affaccia puntuale nella hall dell’albergo in tacchi alti e completo rosa bubble-gum, la rossa con gli occhi verdi. 

Ha trovato il tempo di cambiarsi dopo essere stata sul set del nuovo film di Giovanni Veronesi, dove fa da supporto come consulente scientifica. 

Vive a Milano ma, essenzialmente, è una donna in continuo movimento. Origini genovesi, di sangue scozzese, dall’isola di Skye, una perla sull’Atlantico nella costa nord-ovest del Regno Unito.

Antenati erratici almeno quanto lei, navigatori per lo più. (“Sono andata a cercarli in Scozia, ma non li ho trovati, si sono tutti sparpagliati nel mondo”). 

La rockstar della fisica italiana (copyright di Ozy, il noto magazine californiano, dopo un suo monologo in lingua inglese a San Francisco) è alle prese, tra l’altro, con il suo nuovo libro per la Mondadori, uscita prevista a gennaio 2023. 

Su Wolfgang Pauli, uno dei padri fondatori della meccanica quantistica. “Un genio che amava la vita, andava a bordelli e beveva whisky” racconta lei che, in quanto a carburante, al whisky preferisce un calice, meglio due, di vino rosso.

Complicato circoscrivere una come Gabriella Greison. Laureata a pieni voti in fisica nucleare, un master alla prestigiosa Ecolé Polytechnique, un bizzarro intermezzo come giornalista sportiva, attratta dall’idea di raccontare i miti sportivi aspettando di farlo con quelli della fisica, scrittrice, performer teatrale, divulgatrice scientifica sotto ogni specie, teatro, podcast, libri, articoli, radio e televisione. 

Creatura proteiforme e un’ossessione piantata come un chiodo nella testa dove alloggia un quoziente d’intelligenza di 157, appena sotto a quello di Einstein, (per capirci la media degli umani è tra gli 80 e i 90): la fisica.

I suoi intrattenimenti fanno da anni il tutto esaurito nei teatri italiani e non solo, parlando di meccanica e sovrapposizione quantistica.  Un’opera permanente. Pura passione in continuo svolgimento. Un vortice. Greison potrebbe essere il nome di un tornado, una tempesta perfetta. Fosse nata ai tempi di Torquemada, sarebbe stata certamente legata a un palo e bruciata viva. Non per eresia, ma per eccesso di fiamma. Sarebbe stata la vittima, la fiamma e il rogo allo stesso tempo. Il fuoco di Eraclito, che tutto brucia e tutto trasforma, a partire da se stesso. 

Donna rara, inafferrabile, come le fluttuazioni delle particelle, quando è diventato riconoscibile il tuo destino?

 “Da bambina smontavo tutto. La curiosità irrefrenabile di scoprire come erano fatte le cose. Inizia tutto così”. 

Smontavi anche oggetti utili?

“Certamente. Televisori, radio, elettrodomestici vari. Ma poi non sapevo rimontarli. I miei mi sgridavano di brutto. In seguito ho capito che lì c’era il mio destino. Quando sei sgridato da bambino, quello è il tuo destino”.

Che altro?

Chiedevo cos’era la relatività e mi rispondevano: “Buona piccola, lo capirai da grande”.  Ma perché dovevo aspettare di diventare grande?”.  

Diventi grande. La laurea in fisica nucleare. Il master alla prestigiosa Ecolé Polytechnique in Francia.

“Una scuola militare dove si forma l’eccellenza francese. Volevo fare fisica 24 ore su 24. Facevo esperimenti con il laser, nelle camere a nebbia. Francois Amiranoff, il mio docente, mi raccontava storie che non avevo mai sentito dei grandi della fisica”. 

Da lì in poi?

“La fisica è un ponte di pace. Un mondo fuori dal mondo. Tutto questo lo voglio portare in Italia, mi dicevo. Ragazza spocchiosa, andavo a proporre le mie cose ovunque”. 

Spocchiosa non è il termine giusto.

“Diciamo sfacciata, allora. Ventenne, andavo a proporre il mio progetto di divulgare la fisica al Corriere della Sera e a Repubblica”. 

E loro?

“Mettiti in fila in ragazzina, aspetta il tuo turno. Fai la tua gavetta. Fu Radio Popolare la prima a darmi fiducia. “Impara a usare il mixer e fatti il tuo programma di fisica. Mi facevo un culo così. Pagata zero”. 

Qualcuno t’incoraggiava all’epoca a seguire i tuoi sogni?

“Margherita Hack. Veniva al mio programma e m’invogliava in tutti i modi. Con lei mi divertivo come una matta”.

Nel frattempo, ragazza eclettica, ti sei ritrovata a scrivere anche di calcio.

“Mi assegnarono anche uno spazio sportivo. La mattina insegnavo fisica nelle scuole e facevo la guida turistica nel museo della scienza e della tecnica di Milano, il pomeriggio parlavo e scrivevo di sport”. 

Appassionata di pallone?

“Una parentesi. Scrivere dei grandi dello sport, studiare gli agiografi di Messi e Ronaldo, mi ha preparato a raccontare i grandi della fisica del ventesimo secolo. Volevo scrivere come Hemingway. Lo emulavo. Ma, fare la guida nei musei è stata la mia grande palestra”. 

In che modo?

“Raccontare storie a gente che aveva pochissime nozioni di fisica e vederli incantati, appesi alle mie labbra. Lì è partita la scintilla”. 

La sfida. Parlare di “funzione d’onda” nella microfisica e farla diventare un concetto comprensibile.

“Una volta che entri nel ragionamento della fisica quantistica non ne esci più. Diventa un modo di vivere e di vedere il mondo. Bob Dylan aveva trovato la sua religione nella musica, io nella fisica”.

Lo trovi a suonare, Bob Dylan, alla sua età, nelle cantine più assurde del pianeta.

“Einstein, nei suoi ultimi anni, non faceva più conferenze strapagate per migliaia di persone, ma andava nel Bronx e insegnava ai neri, davanti a una ventina di ragazzi, e parlava con ognuno di loro”. 

Tu, “rockstar della fisica”, hai una passione per il rock.

“Uno dei momenti più eccitanti è stato nel 2015, all’Auditorium di Roma, quando alla destra del mio camerino c’era quello di Patti Smith. Ti rendi conto?”. 

Una parentesi utile, scrivere di sport.

“Mai lasciata del tutto la fisica, ma dovevo staccare. Quando arrivi a studiare certe cose ti coinvolge troppo la testa. Non vedi più quello che gli altri vedono. È successo ai più grandi. Pauli, Schrodinger, Bohr, lo stesso Einstein”.

Hai chiuso con le storie dello sport?

“Ho dovuto. Ho una memoria eidetica. Leggo e assorbo tutto, solo a guardare le immagini. Leggo di come cresce l’orchidea e me lo ricordo. Devo stare attenta a quello che leggo. Devo selezionare”. 

Non è stato tutto facile.

“A un certo punto stavo sprofondando. Solo porte in facce. Nella scienza c’è tanto maschilismo. Non c’era mai stata una divulgatrice donna. Per di più carina e ben vestita”. 

Donna, giovane e bella. Uguale inattendibile.

“La fisica nell’immaginario era una donna brutta, sciatta e ingobbita sui libri. Lo racconto nel mio Sei donne che hanno cambiato il mondo. Marie Curie e Rosalind Franklin dovevano autofinanziarsi ed entrare dalle porte di servizio”. 

La Montalcini?

“Il padre voleva che stesse a casa a curare la famiglia”. 

La tua fisica preferita?

“Lisa Randall, Bionda, bellissima. La prima donna ad avere una cattedra di fisica. Una combattente. Pensavo a lei quando mi criticavano perché mi presentavano con i tacchi alti e abiti colorati. “Cos’è, Non solo moda?”, dicevano”. 

Tornando a quando sprofondavi?

“Avevo lavorato per anni sul congresso di Bruxelles del 1927, il più grande ritrovo di cervelli che cambiò la storia della fisica. Ero ossessionata da quella storia. Le case editrici mi rimbalzavano”. 

E tu?

“La tristezza infinita. Piangevo sempre. Da Roma tornavo il fine settimana nella mia tana fuori Genova. Sembrava la casa di una serial killer. Tutti i post-it alle pareti, un leggio, io che parlavo da sola”. 

Sembrava l’antefatto della follia.

“Era, invece, l’antefatto della mia rinascita da scrittrice e performer teatrale. L’editore Salani mi pubblica L’incredibile cena dei fisici quantistici. A seguire il teatro. Più di 700 repliche del mio Monologo quantistico”. 

Hai avuto un sostegno formidabile in quei giorni difficili.

“Giancarlo Giannini. Avevamo scritto insieme la sua biografia. Un anno di lavoro. Mi dava tanti consigli. Senza sapere cosa mi frullava nella testa, mi spiegava come si sta su un palcoscenico. Una volta, non potendo venire a vedermi, mi fece arrivare in camerino un mazzo con 101 rose”. 

Ti avvii a diventare l’Alberto Angela in gonnella.

“Sono laureata in fisica, ho studiato tanto per realizzare il mio progetto. La consapevolezza che mancava una persona capace di trasferire una passione come la fisica e farla capire alla gente”. 

Teatro, televisione, radio, ti sei data anche ai podcast. Questioni di fisica si chiama.

“Parto dalla vita di tutti i giorni Spiego cos’è il tramonto dal punto di vista della fisica. Racconto quello che succede in cucina, i funzionamenti della moka o del tostapane, partendo dal primo principio della termodinamica”. 

Riscontri?

“Una marea. Mi scrivono in tantissimi. Al “Teatro Carcano” di Milano, serata unica, c’erano 850 persone. Solo Saviano ha fatto più di me nella stagione”. 

Hai fondato una tua comunità.

“Rispondo a tutti e mi fermo a parlare con tutti nei foyer dei teatri. Sono positiva, non parlo male di nessuno. Dico loro con il sorriso: non stare dove e con chi non ti fa fiorire”. 

Ce ne sono di improvvisati che pontificano di quantistica in rete.

“Youtube è pieno di cialtroni e millantatori. C’è un modo facile per stanarli. Sei un fisico? No? Allora sei solo “rubbish”, come diceva Pauli. Mondezza”.

Il treno ora va. Tardi, ma è partito…

“Ero pronta da sempre e poi succede il miracolo. Gli stessi giornali che mi rimbalzavano hanno cominciato a cercarmi. Mi avevano riconosciuto. C’erano voluti quindici anni”. 

L’inferno della pandemia?

“Se studi l’infinitamente piccolo della fisica, non può esistere alcun inferno”. 

In tutto questo, hai spazio e tempo per una cosiddetta vita privata?

“Sono fidanzata da più di un anno con una persona normalissima. Lui vende bellissimi oggetti vintage. È il mio gancio con la realtà. Con lui non parliamo di fisica. Se devo farlo, chiamo Roger Penrose”. 

E ora?  

“Mi manca solo una cosa. Un programma serale su Raiuno, ma vanno bene anche Raidue o Raitre. La mia è non è ambizione, ma una necessità impellente. È il momento di raccontare la fisica quantistica a tutti. Hai la mail di Franco Di Mare?”. 

Per finire?

“Tutto quello che abbiamo intorno è questione di fisica”.

La scienza e i social. Barbero e i suoi fratelli, da studiosi a stelle del Web. Morning Future su L'Inkiesta il 4 Marzo 2022.

Utilizzare il proprio metodo scientifico e accademico per entrare nelle case e nelle cuffie di milioni di italiani: dai divulgatori che puntano sullo storytelling agli accademici-divulgatori come lo storico Alessandro Barbero.

Il professor Barbero non è un divulgatore storico. Lui è uno storico-divulgatore. Se a una prima lettura può sembrare una sottigliezza – anche solo un’inversione lessicale – o un semplice gioco di parole, non lo è. Queste locuzioni rappresentano invece due modi differenti di narrare, nel suo caso specifico, la storia. Di più, Barbero racconta di quel segmento di storia che non ha neppure un nome “suo”: Medioevo, epoca di mezzo, tra altre due. La rivoluzione nel paradigma di storico-divulgatore del professor Barbero è radicale perché non porta l’analisi, le ricerche e gli studi di anni nelle aule universitarie, non “riempie” solo – in epoca pre-Covid – le aule per i suoi seminari. Entra in casa delle persone, anzi direttamente nelle orecchie grazie a un podcast registrato in modo amatoriale durante le sue conferenze. E con la figura del divulgatore esiste un abisso incolmabile.

Alessandro Barbero è forse l’esempio più emblematico di una figura di docente/accademico-divulgatore che si sta affermando, o meglio, che sta arrivando a tutti, grazie a strumenti digitali come YouTube o i podcast. Portando le competenze scientifiche e la materia, dalle aule universitarie a tutti.

Le ricerche e gli studi più avanzati dell’Accademia, dalle aule alle cuffie bluetooth

È utile restare ancora sul caso dI Barbero, perché è fondamentale per capire come il professore non sia un semplice divulgatore “prestato alla storia”. L’accademico piemontese non è uno storico che abbandona le “linee guida” del suo mestiere per avvicinarsi al pubblico, diventando pop. Alessandro Barbero è un docente di storia che spiega agli uditori del suo podcast in che modo proceda la storiografia.

Le sue regole e le sue lezioni si possono anche estendere ad altri campi: ma questo è uno scarto che fa successivamente chi lo ascolta in cuffia, non è lui a suggerirlo. Così come il suo fare fact checking e contrastare le fake news legate al Medioevo. Un esempio emblematico è lo ius primae noctis (dal latino, diritto della prima notte) che viene attribuito ai feudatari medievali che giacevano la prima notte di nozze con la sposa perché quest’ultima, come tutto il resto, dalle terre al bestiame, era di loro proprietà.

Barbero in modo disarmante e scientifico spiega come non vi siano testimonianze dell’esistenza e diffusione di tale diritto nell’Europa medievale, né nelle fonti dell’epoca delle autorità laiche (re, imperatori), né da parte di quelle ecclesiastiche. Ogni riferimento conosciuto risale, infatti, ad epoche successive. Ecco il metodo storico applicato alla divulgazione che insegna e spiega il Medioevo.

I’m Facts, Medical Facts

Un fact checking specialistico e una divulgazione diffusa della scienza medica sono portate avanti da anni dal virologo Roberto Burioni sul suo blog Medical Facts, ben prima che la pandemia lo (sovra-)esponesse. Burioni è da anni attivo come ricercatore nel campo dello sviluppo degli anticorpi monoclonali umani contro agenti infettivi. Su Medical Facts, al di là delle sezioni dedicate a spiegare la pandemia e i vaccini, è interessante notare come il metodo del podcaster e storico Barbero si assimili a quello del blogger Burioni: entrambi sono docenti/accademici-divulgatori che arrivano a tutti, con un clic, non restano all’interno di una cerchia di pubblico accademico. In voce e per iscritto, rendono disponibili a tutti gli strumenti della loro materia per leggere un tempo storico passato come il Medioevo – attraverso le fonti storiografiche – nel caso di Barbero, o una malattia, un dolore e le frontiere della ricerca nei trattamenti di cura, nel caso di Burioni, che, in Italia, è stato uno dei primi a parlare di vaccino a mRNA, prima dell’arrivo del vaccino anti-Covid, argomentando in modo comprensibile e con il supporto di fonti e testi scientifici, la portata rivoluzionaria di queste ricerche.

Quando lo Spider-Man della cucina è un professore di chimica

Recentemente l’ultimo film Marvel, “Spider-Man: No Way Home”, è diventato il miglior incasso cinematografico in tempo di pandemia, e su Rotten Tomatoes ha infranto uno storico record sul sito aggregatore di recensioni: con il 99% di pareri positivi da parte del pubblico, “Spider-Man: No Way Home” è diventato il film con il punteggio più alto. Se l’amichevole Spider-Man di quartiere, come ama definirsi Peter Parker, sfonda sullo schermo dopo averlo fatto nei fumetti, il “chimico di quartiere” Dario Bressanini dopo aver conquistato l’Accademia ha avuto successo anche su YouTube. Chimico e docente universitario, Bressanini è scrittore di successo e influencer che grazie ai principi della chimica sfata i falsi miti della cucina e spiega con la scienza come migliorare le proprie performance ai fornelli. In mezzo, presidia i social network per smontare la “fuffa” che riempie il web, smontando a picconate scientifiche e con un velo di humor tutto quello che di peggio ci hanno fatto credere su bio, chilometro zero, diete e detox. Contrasta le fake news legate al mondo del cibo, dimostrando quanto possa essere politico anche questo tema, che crea fazioni e svela le fragilità umane.

F***ing divulgazione

La figura di accademico-divulgatore “veste” perfettamente anche il creatore di “Fucking genius”, fottuti geni. Questo è il nome del podcast creato dal fisico Massimo Temporelli che parla di innovatori e innovazioni, da Einstein a Jobs, da Leonardo da Vinci a Marconi, passando per i Ragazzi di via Panisperna fino a Elon Musk. Il fisico ha dato vita a un podcast irriverente ma rispettoso, che racconta le grandi figure della storia in grado di cambiare la nostra evoluzione. Talenti che hanno incontrato nella loro epoca l’ambiente ideale per modificare la traiettoria della cultura e della civiltà, portandoli a trovare quelle soluzioni che ne fanno, a buon titolo, dei “fottuti” geni.

La divulgazione “brutta” e la divulgazione “bella”

Regole per l’uso: scordarsi aplomb e lo stile di Piero Angela. Barbascura X, dottorato in Chimica Verde e ricercatore accademico, utilizza infatti lo stile della stand up comedy e un vestiario alla Pirati dei Caraibi per la sua “ciurma” di naviganti della Scienza Brutta. Questo è infatti il nome del suo canale YouTube seguito da oltre 720mila follower, dove il ricercatore tarantino (che non vuole rivelare il suo vero nome) divulga la scienza. E con un’inesauribile vena parodistica – che avvicina molti giovani – racconta aspetti meno conosciuti delle scienze naturalistiche, dell’evoluzione in particolare, sfatando miti e leggende radicate nell’immaginario collettivo.

C’è poi quella che si può definire “la regina delle divulgatrici scientifiche”, colei che ha messo ordine sulle verità e sui falsi miti della cosmesi: Beatrice Mautino. Laureata in Biotecnologie industriali, ricercatrice in Neuroscienze all’Università di Torino e divulgatrice scientifica, Mautino cura la rubrica “La ceretta di Occam” su Le Scienze. Raggiunge 205mila follower su Instagram con la pagina “divagatrice”, e ha anche un canale YouTube.

·        La Capitale della Cultura.

E’ Pesaro la Capitale italiana della Cultura 2024. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Marzo 2022.

Le dieci città finaliste erano Ascoli Piceno, Chioggia (Venezia), Grosseto, Mesagne (Brindisi), Pesaro, Sestri Levante con il Tigullio (Genova), Siracusa, l’Unione dei Comuni Paestum-Alto Cilento (Salerno), Viareggio (Lucca) e Vicenza

La Capitale italiana della Cultura per il 2024 è Pesaro. Così ha comunicato il ministro della Cultura Dario Franceschini, annunciando la fine dei lavori della commissione presieduta da Silvia Calandrelli. Il titolo di Capitale italiana della cultura viene assegnato per la durata di un anno, e la città vincitrice riceverà un milione di euro per la realizzazione del progetto. Le dieci città finaliste erano Ascoli Piceno, Chioggia (Venezia), Grosseto, Mesagne (Brindisi), Pesaro, Sestri Levante con il Tigullio (Genova), Siracusa, l’Unione dei Comuni Paestum-Alto Cilento (Salerno), Viareggio (Lucca) e Vicenza.

Pesaro ha vinto non perché ha presentato un calendario di appuntamenti, ma perché ha indicato una via di sviluppo: 45 i progetti pilastro divisi in 5 aree tematiche, che intrecceranno grandi artisti ed eventi diffusi sul territorio. Ci sarà una performance in cui i visitatori potranno incontrare Marina Abramovic mentre viene lentamente inghiottita dall’acqua e il “bosco risonante” di suoni e luci costruito attorno a 33 alberi monumentali, le installazioni lungo la Bicipolitana (la rete di ciclabili diventata un modello) e la creazione di energia sostenibile durante la Mostra internazionale del Nuovo Cinema. 

Come si legge nelle note di presentazione si tratta di “un percorso in cui Pesaro non sarà sola perché è stata attivata una “strategia collettiva” pensata per coinvolgere tutti i 50 Comuni della Provincia di Pesaro e Urbino e il sistema di enti, associazioni e professionisti della cultura con cui la città del Rossini Opera Festival ha intrecciato negli anni rapporti ormai solidi. Dunque, una candidatura plurale che rafforzerà il brand di Pesaro e di un territorio che punta e investe sulla cultura come motore di sviluppo“.

Il sindaco di Pesaro Matteo Ricci ha festeggiato salutando con una doppia foglia di Ginkus Biloba, pianta che sopravvisse alla bomba atomica di Hiroshima, con i colori della bandiera Ucraina e dedicando la vittoria a Kharkiv, appunto in Ucraina, un’altra città “musicale” come Pesaro. Ricci ha ringraziato la sua squadra che ha proposto un progetto che ha convinto la giuria, basato sull’identità musicale della città, sede del prestigiosissimo Festival Rossiniano.

Il Ministro Dario Franceschini

Il ministro della Cultura Franceschini dopo la proclamazione della vittoria, è tornato sulla decisione del comune di Pesaro di dedicare la vittoria all’Ucraina: “È molto bello il gesto con cui il sindaco di Pesaro ha dedicato la vittoria a Capitale italiana della Cultura 2024 a Kharkiv. Veramente un gesto molto simbolico e molto forte. Dobbiamo continuare a guardare avanti, speriamo che nel 2024 tutto questo sia da molto tempo alle spalle“.

Il primo cittadino pesarese commentando la vittoria su Facebook, ha scritto che la comunità cittadina è pronta a cogliere la grande opportunità: “Con la cultura si impara a vivere insieme; si impara soprattutto che non siamo soli al mondo, che esistono altri popoli e altre tradizioni. Si impara e si cresce. E il mio desiderio è proprio questo. Portare il Comune di Pesaro ad essere ancora più grande ed aperto, a costruire un nuovo rapporto con lo spazio, sostenibile e innovativo, fondato sempre di più sulla bellezza e sulla cultura del fare. Buon lavoro a Pesaro e ai pesaresi“. 

L’assessore alla Cultura delle regione Marche, Giorgia Latini, ha invece dichiarato che la vittoria di Pesaro è un “grande orgoglio”, che “fa salire le Marche sul gradino più alto”. Il risultato, secondo l’assessore, è da attribuire alla capacità di creare un progetto che mixa natura e cultura, e si augura che si occasione per rilanciare le Marche “a partire dalle aree interne: rete e progettazione integrata saranno gli obiettivi strategici della politica culturale regionale per la rigenerazione dei borghi“. Redazione CdG 1947

Il sospetto di Sgarbi: “Le capitali della cultura italiana? Sette su sette sono di sinistra, che coincidenza”. Marta Lima domenica 20 Marzo 2022 su Il Secolo d'Italia.

La recente indicazione di Pesaro come città “capitale della cultura” per il 2024 (nel 2023 saranno Bergamo e Brescia) chiude un cerchio: da quando è stata istituita la legge che sceglie e destina fondi a un Comune incaricato di svolgere attività culturali d’eccellenza per un intero anno, è stata sempre premiata una amministrazione di centrosinistra. Strana coincidenza, che anche Vittorio Sgarbi fa notare in un post su Fb: “Perdura il sospetto, da me e da altri avanzato, che la capitale italiana della Cultura tocchi invariabilmente a città governate dal centrosinistra, fin qui sette su sette, come se città bellissime come Vicenza e Ascoli dovessero pagare il peccato di essere governate dal centrodestra”.

Sgarbi e le capitali della cultura di centrosinistra

In un lungo articolo su “Il Giornale“, il critico d’arte proprio oggi si era dichiarato “molto compiaciuto della vittoria della città sorella di Urbino, Pesaro – con Urbino una sola provincia – capitale italiana della Cultura per il 2024, rispetto ai dossier di 23 città candidate”, ponendo però dei dubbi di natura politica.

“Essere Pesaro capitale gioverà a tutte le Marche. E Urbino non mancherà di sostenere la città sorella con la forza assoluta della sua corte rinascimentale, anche celebrando quest’anno il sesto centenario della nascita di Federico da Montefeltro. Voglio però indirizzare alla città più importante del mondo per la tradizione e l’idea stessa di architettura, nel nome di Palladio, cioè Vicenza, il mio rammarico per la sconfitta, il che dimostra l’errore del ministro Franceschini nell’avere istituito, come premio di consolazione (dopo lo choc della nomina di Matera capitale europea della cultura) queste capitali di «serie B» dell’Italia sublime, mettendo le città in concorso l’una contro l’altra, sulla base di programmi più proclamati che sostanziali. Non si possono porre in competizione, con un titolo illusorio, città che esprimono e producono cultura come fossero squadre in uno stadio, oltretutto con dimensioni e infrastrutture molto diverse; come, nella stessa regione, è assurdo contrapporre Pesaro ad Ascoli, città bellissima che meritava un eguale riconoscimento….”, dice Sgarbi, che poi va al punto.

La lottizzazione della sinistra sulle città prescelte

In Sgarbi “perdura il sospetto, da me e da altri avanzato, che la capitale italiana della Cultura tocchi invariabilmente a città governate dal centrosinistra…”. “Così come, evidentemente, si rispetta una ripartizione per regioni, sarebbe giusto anche un equilibrio nella valutazione politica delle amministrazioni: come Pesaro dalla sinistra, Ascoli è stata sempre ben governata dal centrodestra. E il buon governo dovrebbe essere un criterio di valutazione. Onore dunque a Pesaro, ma con l’amarezza di aver visto mortificate città non meno importanti.

La vera capitale italiana della Cultura? È l'Italia. Vittorio Sgarbi il 20 Marzo 2022 su Il Giornale.

Nel 2024 sarà Pesaro, e così perdiamo eccellenze come Vicenza e Ascoli. Ma è giusta questa "gara"?

Sono molto compiaciuto della vittoria della città sorella di Urbino, Pesaro - con Urbino una sola provincia - capitale italiana della Cultura per il 2024 (il ministro Dario Franceschini lo ha annunciato mercoledì, raccogliendo l'indicazione di una giuria ristretta che per mesi ha studiato e valutato i dossier i 23 città candidate).

Pesaro è una città poetica e nascosta, nella quale vi è una delle più belle architetture del mondo, Villa Imperiale, mirabile per l'architettura e gli affreschi. La denominazione «Imperiale» deriva dal fatto che l'imperatore Federico III d'Asburgo, di passaggio a Pesaro nel 1469 alla volta della sua incoronazione a Roma, pose la prima pietra. La prima costruzione fu avviata per volere di Alessandro Sforza. Nonostante avesse i caratteri di «luogo di delizia» fuori della città, manteneva caratteri tipici dell'architettura difensiva, come coronamenti merlati (successivamente eliminati) e torrette. Nel secondo decennio del XVI Secolo il duca Francesco Maria I della Rovere e sua moglie Eleonora Gonzaga, che avevano riconquistato il ducato di Urbino dopo un lungo esilio a Cesena e Mantova, affidarono all'architetto Gerolamo Genga il compito di rinnovare e ampliare l'edificio esistente, avendo deciso di stabilire la corte a Pesaro. L'ampliamento si configurò come una architettura autonoma rispetto alla preesistente, con l'aggiunta di un corpo quadrangolare, logge nei quattro lati e paramento murario in laterizio a vista. Genga coordinò un vasto programma di decorazione nelle stanze della parte più antica, con importanti affreschi di molti artisti: Dosso e Battista Dossi, Raffaellino del Colle, Francesco Menzocchi e Agnolo Bronzino. Dietro al nucleo originario della costruzione fu predisposto un sistema di giardini terrazzati con giochi d'acqua. Intorno a un'opera grandiosa come questa Pesaro, al di là della bontà del progetto e dei programmi presentati alla commissione esaminatrice, può autorevolmente affermarsi come la capitale della Cultura, così come intorno al palazzo ducale, alla casa di Rossini, al Rof, a palazzo Olivieri.

Pesaro è una città multipla, turistica e industriale, una città dolce, colta, comoda, viva. Lì lavora il più importante scultore italiano, Giuliano Vangi, cui, in dialogo con i classici, Giovanni Pisano, Tino di Camaino, Donatello, Michelangelo, il Mart di Rovereto sta preparando una grande mostra.

Essere Pesaro capitale gioverà a tutte le Marche. E Urbino non mancherà di sostenere la città sorella con la forza assoluta della sua corte rinascimentale, anche celebrando quest'anno il sesto centenario della nascita di Federico da Montefeltro.

Voglio però indirizzare alla città più importante del mondo per la tradizione e l'idea stessa di architettura, nel nome di Palladio, cioè Vicenza, il mio rammarico per la sconfitta, il che dimostra l'errore del ministro Franceschini nell'avere istituito, come premio di consolazione (dopo lo choc della nomina di Matera capitale europea della cultura) queste capitali di «serie B» dell'Italia sublime, mettendo le città in concorso l'una contro l'altra, sulla base di programmi più proclamati che sostanziali.

Non si possono porre in competizione, con un titolo illusorio, città che esprimono e producono cultura come fossero squadre in uno stadio, oltretutto con dimensioni e infrastrutture molto diverse; come, nella stessa regione, è assurdo contrapporre Pesaro ad Ascoli, città bellissima che meritava un eguale riconoscimento.

Se Pesaro ha Villa Imperiale, Vicenza ha simboli universali come la Rotonda e la Basilica; e Ascoli Palazzo del Capitano e la sua piazza.

Leggere Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia (1957) rassicura: «Ascoli Piceno è una tra le più belle piccole città d'Italia, e non ne vedo altra che le assomigli. André Gide la prediligeva bella come alcune città della Francia del Sud, non tanto per questo o quel monumento, ma per il suo complesso, la qualità antologica, l'incanto che viene da nulla e da tutto. Bisogna avervi passeggiato, a cominciare dalla piazza del Popolo, la piazza italiana che insieme con quella di San Marco a Venezia dà più di un'impressione di sala, cinta da porticati, chiusa dalla stupenda abside di San Francesco; o costeggiando il Battistero del Duomo; o lungo le rive scoscese del Tronto; e per le strade strette, chiamate rue, dove i palazzi non si contano; e che si allargano in piazzette Ascoli è città di torri Si succedono molti stili, il romanico, il gotico, il rinascimentale, il barocco con chiese dalle pareti di pietra, senza finestre; un travertino d'un grigio caldo, uniforme, senza intonaco tutto ornato, lavorato, istoriato e su ogni porta e finestra, vedi frutta, fogliami, cariatidi femminili, fiori, animali, stelle, o anche semplicemente proverbi e sentenze scolpite». Dopo queste parole, come privarla dello status di capitale?

E perdura il sospetto, da me e da altri avanzato, che la capitale italiana della Cultura tocchi invariabilmente a città governate dal centrosinistra, fin qui sette su sette, come se città bellissime come Vicenza e Ascoli dovessero pagare il peccato di essere governate dal centrodestra.

Così come, evidentemente, si rispetta una ripartizione per regioni, sarebbe giusto anche un equilibrio nella valutazione politica delle amministrazioni: come Pesaro dalla sinistra, Ascoli è stata sempre ben governata dal centrodestra. E il buon governo dovrebbe essere un criterio di valutazione.

Onore dunque a Pesaro, ma con l'amarezza di aver visto mortificate città non meno importanti.

Le mie considerazioni critiche sulla istituzione - voluta dal ministro Franceschini - della capitale italiana della Cultura riguardano dunque la profonda convinzione della grande bellezza equivalente, e incomparabile, di molte città, originariamente capitali dell'arte italiana, come certamente Ferrara, Urbino, Mantova, e naturalmente Venezia e Firenze.

Roma naturalmente non gareggia, e non credo neppure Napoli, ma Verona e Bari hanno, incredibilmente, ceduto il passo a Procida, capitale silenziosa di quest'anno. Palermo e Parma hanno confermato la loro naturale condizione; ma Pistoia perché? E in che cosa si è manifestata nel 2017? Bella città, ma in cosa capitale? Né si è distinta per particolari iniziative. La stessa Matera, lanciatissima, nell'anno capitale è stata inferiore alle aspettative e al compito solenne. In attesa della prossima capitale europea nel 2033, tocca ora, in nobile gemellaggio e corrispondenza con Nova Gorica, a Gorizia, nel 2025. Una fatalità per riunire, in Europa, ciò che il Comunismo aveva diviso, alzando muri.

Nessun dubbio che Pesaro meriti il riconoscimento, cui ha contribuito con equanime valutazione anche Gianni Letta, testimone per la città, non tanto per un primato nell'arte, rispetto alla perdente Vicenza, quanto per la qualità del progetto culturale che Pesaro, anche più di Urbino, ha coltivato in questi decenni, con importanti iniziative e, indiscutibilmente, con il successo universale, dopo il declino di Spoleto, del Rof, il festival rossiniano.

Proprio per questa attività meriterebbe, come potrà accadere con Urbino nel 2033, di essere capitale europea della Cultura. Ma oggi il mio compiacimento per la vittoria di Pesaro non può essere comunque limitato per lo sconforto di Vicenza e di Ascoli.

·        Oscar made in Italy.

Da 'Sciuscià' a 'La grande bellezza', la lunga storia degli Oscar made in Italy. Giovanni Gagliardi La Repubblica il 24 Marzo 2022.   

Il nostro Paese è quello che ha avuto più riconoscimenti per il miglior film straniero. E, in generale, è il più premiato dopo gli Stati Uniti. Il recordman è Fellini che ha ricevuto cinque statuette, seguito da De Sica, con quattro.

L'Italia è il Paese che ha vinto più Oscar per il miglior film straniero e che, in assoluto, ha ottenuto più statuette dopo gli Stati Uniti nelle varie categorie. Una sessantina i premi ricevuti nel corso della storia dell'Academy tra registi, attori, costumisti, sceneggiatori e musicisti.

Una storia lunga, iniziata con il neorealismo nel 1947, quando Sciuscià di Vittorio De Sica vinse un premio speciale (allora denominato "onoriario"), che sarebbe stato la base dei futuri Oscar ai film in lingua straniera (oggi film internazionali). Poi, con l'istituzione dell'Oscar al miglior film straniero è stata per decenni una lunga sequenza di successi. 

Il più premiato è stato Federico Fellini, con 5 Oscar: film straniero per La strada (1957), Le notti di Cabiria (1958), 8½ (1964), e Amarcord (1975). De Sica ne vinse altri 3 con Ladri di biciclette (1950), Ieri oggi e domani (1965), Il giardino dei Finzi Contini (1971).

L'anno prima, nel 1970, Elio Petri conquistò l'Oscar per miglior film straniero con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Nel mezzo ci si potrebbe mettere anche Le mura di Malapaga (1951) di René Clement, coproduzione italofrancese, (un po' più italiana che francese).

Nella categoria miglior regista per il nostro Paese per ora solo un Oscar, quello consegnato a Bernardo Bertolucci nel 1988 per il kolossal L'ultimo imperatore. A Paolo Sorrentino invece il grande merito di aver riportato l'ambito riconoscimento dell'Academy in Italia dopo ben 15 anni con La grande bellezza nel 2014.

Roberto Benigni, infatti, nel 1999 aveva portato a casa 2 statuette, per il miglior film straniero e per il miglior attore protagonista con La vita è bella. In precedenza la statuetta per il miglior film straniero era andata nel 1990 a Nuovo cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore e poi a Gabriele Salvatores con Mediterraneo nel 1992.

E, naturalmente, bisogna ricordare i due riconoscimenti come attrici protagoniste a due grandi stelle italiane: Anna Magnani, che vinse nel 1955 per La rosa tatuata e a Sophia Loren nel 1962 per La ciociara, film diretto da De Sica.

Un altro grande vanto per l'Italia sono le categorie "tecniche", dove abbiamo artisti di livello assoluto, come la costumista Milena Canonero (4 Oscar). Poi, con 3 statuette a testa, anche il grande fotografo Vittorio Storaro, il musicista Giorgio Moroder, il mago degli effetti speciali Carlo Rambaldi (creatore di E.T. e Alien) e gli scenografi Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo. Con loro tanti altri premiati che vanno da Danilo Donati a Pietro Scalia, da Gabriella Pescucci a Luciana Arrighi.

Oscar a Ferretti-Lo Schiavo: "E' per l'Italia"

Ovviamente non si può dimenticare il maestro Ennio Morricone, che dopo tante delusioni vinse con The hateful eight di Quentin Tarantino, dopo aver preso un Oscar alla carriera. Un onore quest'ultimo toccato anche a Sophia Loren, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni e Lina Wertmuller.  

Gli Oscar per il Miglior film straniero

1947 Sciuscià di Vittorio De Sica. Sciuscià è un termine della lingua napoletana (dall'americano "shoe-shine") utilizzato per indicare i ragazzini lustrascarpe che si guadagnano qualche spicciolo sulle scarpe dei soldati americani. Il regista racconta la storia di sopravvivenza di questi bambini profondamente legati alla difficile vita del dopoguerra italiano.

1950 Ladri di biciclette di Vittorio De Sica. Uno dei capolavori del neorealismo, quello che con Roma, città aperta (1945) è più noto all'estero. Tratto dall'omonimo romanzo di Luigi Bartolini, racconta la storia di Antonio Ricci, un attacchino comunale che durante il primo giorno di lavoro rimane vittima del furto della sua bicicletta. Con il figlio Bruno si mette alla ricerca del ladro in una Roma del dopoguerra, incontrando solidarietà, apatia e malevolenza.

1951 Le mura di Malapaga regia di René Clément (Francia/Italia). Nei caruggi genovesi si snoda la drammatica storia della passione composta, scoppiata tra un marinaio - ricercato dalle autorità per aver commesso l'omicidio dell'amante - e Marta, una giovane madre di Malapaga.

1957 La strada di Federico Fellini. Nonostante l'enorme notorietà che questo film ebbe, Fellini incontrò molte difficoltà prima di realizzarlo: venne rifiutato da tutti i produttori e distributori ai quali lo propose poiché ritenuto di scarso interesse commerciale.

La Strada: tra i film da non perdere per Spike Lee

1958 Le notti di Cabiria di Federico Fellini. Il film censurato di circa sette minuti (per volere della chiesa) dovrà aspettare quaranta lunghi anni per uscire restaurato nella versione integrale, recuperando la sequenza tagliata dell'"uomo col sacco".

Federico Fellini e Giulietta Masina: l'amore nel mito

1964 8½ di Federico Fellini. Considerato uno dei capolavori del regista e uno dei migliori film di sempre ha vinto anche l'Oscar per i costumi per film in bianco e nero (Piero Gherardi). Una storia incentrata sulla crisi esistenziale, professionale e sentimentale del suo protagonista principale, il regista Guido Anselmi interpretato da Marcello Mastroianni.

Falk con Mastroianni in "8 e mezzo"

1965 Ieri, oggi, domani di Vittorio De Sica. Il film è articolato in tre episodi ambientati in tre grandi città italiane (Milano, Roma e Napoli), tutti interpretati da una delle coppie leggendarie del cinema italiano: Sophia Loren e Marcello Mastroianni. Un omaggio alla donna e al ritratto di un Paese che cambia parallelamente alla condizione femminile.

Vittorio De sica

1971 Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri. Uno dei massimi esempi di denuncia sociale, dalle atmosfere cupe e con l'interpretazione di Gian Maria Volonté. All'origine del film l'idea dell'assassino che sfida la giustizia convinto che il potere gli possa consentire di continuare a essere al di sopra di ogni sospetto.

1972 Il giardino dei Finzi Contini di Vittorio De Sica. Questo film regala al regista il suo quarto Oscar. La storia racconta dell'isolamento sociale e della bella vita condotta dall'appartata famiglia ebraica Finzi Contini nella villa di Ferrara fino a trasformarsi in una tragedia con l'introduzione delle leggi razziali fasciste e lo scoppio della seconda guerra mondiale.

1975 Amarcord di Federico Fellini. Film che lo consacra al suo quarto Oscar, andando alla pari con Vittorio De Sica. Amarcord è la derivazione dell'espressione romagnola "a m'arcord" ("io mi ricordo" in dialetto romagnolo, il dialetto del regista). Ed è proprio questo che Fellini vuole fare, ricordare la sua infanzia, le sue origini, gli anni passati in una Rimini dei primi anni 30.

A Venezia "Amarcord" restaurato, la clip della tabaccaia

1990 Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore. Con questo film si spezza il digiuno lungo quindici anni: finalmente una nuova vittoria italiana. Il paesino della Sicilia Giancaldo, che appare nel film, non esiste realmente ma è il nome di una montagna che sovrasta Bagheria, città natale del regista.

Restaurato 'Nuovo cinema Paradiso'

1992 Mediterraneo di Gabriele Salvatores. Un manipolo di otto soldati del Regio Esercito Italiano nel 1941 ha l'ordine di presidiare un'isola greca dell'Egeo, apparentemente deserta, dove rimane sino all'inverno del 1943 fra avventure, amori e tribolazioni.

1999 La vita è bella di Roberto Benigni. Il film viene candidato anche come miglior film dell'anno (l'unico italiano nella storia) ma vince come miglior film straniero. La tragedia della Shoah, raccontata con comicità e con un'ironia che solo un toscano come Benigni poteva essere in grado di raccontare sulle note indimenticabili ed emozionanti della colonna sonora di Nicola Piovani.

Cerami, "La vita è bella"

2014 La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Il protagonista è Toni Servillo che interpreta la parte di Jep Gambardella, giornalista napoletano da tempo trasferito a Roma, uomo di successo disilluso, che festeggia i 65 anni con un grande party da cui si vede tutta la grande bellezza di Roma e dove i frequentatori sono la parodia di loro stessi.

"La grande bellezza" vince ai Bafta - la scena clou del party

Tutti i vincitori italiani

Con 5 Oscar

Federico Fellini: film straniero per La strada (1957), Le notti di Cabiria (1958), 8½ (1964) e Amarcord (1975); Oscar alla carriera nel 1993

Con 4 Oscar

Vittorio De Sica: film straniero per Sciuscià (1948), Ladri di biciclette (1950), Ieri, oggi e domani (1965) e Il giardino dei Finzi Contini (1972)

Con 3 Oscar

Giorgio Moroder: colonna sonora per Fuga di mezzanotte (1978), canzone per Flashdance (1983) e Top Gun (1986)

Milena Canonero: costumi per Barry Lyndon (1975), Momenti di gloria (1981) e Maria Antonietta (2006)

Carlo Rambaldi: effetti speciali per King Kong (1976), Alien (1979) e E.T. (1983)

Dante Ferretti e Federica Lo Schiavo: scenografia per L'aviatore (2005), Sweeney Todd (2008) e Hugo (2012)

Vittorio Storaro: fotografia per Apocalypse now (1980), Reds (1982) e L'ultimo imperatore (1988)

Con 2 Oscar

Piero Gherardi: costumi bianco e nero per La dolce vita (1962) e 8½ (1964)

Vittorio Nino Novarese: costumi per Cleopatra (1964) e Cromwell (1971)

Danilo Donati: costumi per Romeo e Giulietta (1969) e Il Casanova di Federico Fellini (1971)

Bernardo Bertolucci: film e sceneggiatura non originale per L'ultimo imperatore (1987)

Roberto Benigni film straniero e attore protagonista per La vita è bella (1999)

Sophia Loren: attrice protagonista per La ciociara (1962) e Oscar alla carriera (1991)

Pietro Scalia: montaggio per Jfk (1992) e Black hawk down (2004)

Ennio Morricone: Oscar alla carriera (2007) e The hateful eight (2016)

Con 1 Oscar

Anna Magnani: attrice per La rosa tatuata (1955)

Pietro Germi, Ennio De Concini, Alfredo Giannetti: sceneggiatura originale per Divorzio all'italiana (1963)

Pasqualino de Santis: fotografia per Romeo e Giulietta (1969)

Elio Petri: film straniero per Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1971)

Nino Rota: Colonna sonora per Il padrino parte II (1974)

Gianni Quaranta e Elio Altamura: Scenografia per Camera con vista (1987)

Ferdinando Scarfiotti, Bruno Cesari, Osvaldo Desideri: Scenografia per L'ultimo imperatore (1988)

Gabriella Cristiani: Montaggio per L'ultimo imperatore (1988)

Manlio Rocchetti: Trucco per A spasso con Daisy (1989)

Giuseppe Tornatore: Film straniero per Nuovo Cinema Paradiso (1990)

Francesca Squarciapino: Costumi per Cyrano de Bergerac (1991)

Gabriele Salvatores: Film straniero per Mediterraneo (1992)

Luciana Arrighi: Scenografia per Casa Howard (1993)

Gabriella Pescucci: Costumi per L'età dell'innocenza (1994)

Nicola Piovani: Colonna sonora per La vita è bella (1999)

Dario Marianelli: Colonna sonora per Espiazione (2006)

Mauro Fiore: Fotografia per Avatar (2010)

Michael Giacchino: Colonna sonora per Up (2010)

Paolo Sorrentino: Film straniero per La grande bellezza (2014)

·        I Balbuzienti.

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 5 marzo 2022.

Bruno il Bello faceva uscire pazze le ragazze di un secolo fa. Pazze se era in tight con cilindro e bastone, pazze se era strizzato in un giubbetto da promenade, pazze se aveva la pipa in bocca sotto un flat cap o mostrava la camicia bianca aperta sul petto e la smorfia malandrina... 

Nessuno forse, ai tempi del «muto», ebbe i trionfi di Bruno Kastner. Dandy adorato per l'eleganza, salutato come il Rodolfo Valentino mitteleuropeo, votato nel 1921 miglior attore tedesco, rubacuori al fianco delle attrici più celebri, dalla prima sex symbol Asta Nielsen a Mia May, star di oltre un centinaio di film (tra i quali una serie poliziesca), visse anni d'oro fino a quando, nel 1923, fu coinvolto in una rovinosa caduta in moto.

Miracolosamente sopravvissuto ma allontanato dalle luci della ribalta, riuscì per un po' a reggere il declino e le perfidie sul tipo di lesioni riportate in quell'incidente stradale ma non al debutto nel 1930 in un film sonoro, Das Land des Lächelns, «La terra dei sorrisi»: balbettava. 

Una catastrofe, per un attore. Già prostrato da dolori e barbiturici, via via più isolato nel mondo che l'aveva visto vincente, ridotto a vivacchiare con meste serate teatrali nelle città termali, una notte di giugno del '32 non ce la fece più. 

Tornò in albergo, legò una corda a una trave e s'impiccò. Quanti furono, nella storia, a togliersi la vita sotto il peso schiacciante nella fatica immensa di parlare con gli altri? 

Mah... Certo è che le parole ingiuriose («balbuziente di mer...») scagliate giorni fa da un calciatore contro un avversario sono da sempre sale sulle ferite di moltitudini di uomini affetti da balbuzie.

Quel «disordine nel ritmo della parola nel quale il paziente sa con precisione quello che vorrebbe dire», spiega l'Oms, «ma nello stesso tempo non è in grado di dirlo a causa di involontari arresti, ripetizioni e/o prolungamenti di un suono». 

Un disordine associato dai tempi più remoti, ricorda l'Accademia della Crusca, ai barbari: «Barbaro. Dal latino barbarus, che è dal greco bárbaros "straniero" nel senso di "balbettante, incapace di farsi capire"».

Una catalogazione a doppio taglio. Lo dice una lettera di Aristotele che consigliava ad Alessandro, scrive Plutarco, di comportarsi coi greci da stratega, con i barbari da padrone «e di curarsi degli uni come amici e famigliari, degli altri come animali e piante». 

Tesi condivisa ma a parti rovesciate (come scrive l'etnologo russo Mikhail V. Kriukov in Razze e società) dallo storico cinese Ban Gu che nel I secolo d. C. scriveva che, a differenza dei cinesi, «i barbari... tengono i capelli sciolti e chiudono i loro abiti sul lato sinistro. Hanno volti umani e il cuore di bestie selvagge.

Portano abiti diversi da quelli usati nell'impero di Mezzo, hanno altri usi e costumi, altro cibo e altre bevande, parlano una lingua incomprensibile... Di conseguenza, un governo saggio deve trattarli come bestie selvagge». 

Va da sé che Ovidio, esiliato da Augusto a Tomis, oggi Costanza, sul Mar Nero, nell'opera Tristia si sfoga: «Barbarus hic ego sum quia non intelligor illis», qui il barbaro sono io, perché nessuno mi capisce.

Certo è che tra gli affetti da balbuzie, elencati oggi a pioggia (da Anthony Quinn a Tiger Woods, da Alberto di Monaco a Marilyn Monroe, da Joe Biden a Paolo Bonolis!) sui siti web che reclamizzano libri, video, ambulatori, metodi strabilianti, alcuni hanno avuto un peso davvero enorme sulla storia. Su tutti, a leggere il libro dell'Esodo della Bibbia, Mosè.

Il quale, ricevuta da Dio l'investitura, tentò di sottrarsi: «"Perdona, Signore, io non sono un buon parlatore (...) sono impacciato di bocca e di lingua". Al che il Signore replicò: "Chi ha dato una bocca all'uomo o chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non sono forse io, il Signore? Ora va'! Io sarò con la tua bocca e ti insegnerò quello che dovrai dire". 

Mosé disse: "Perdona, Signore, manda chi vuoi mandare!" Allora la collera del Signore si accese contro Mosé e gli disse: "Non vi è forse tuo fratello Aronne, il levita? Io so che lui sa parlare bene. Anzi, sta venendoti incontro. Ti vedrà e gioirà in cuor suo.

Tu gli parlerai e porrai le parole sulla sua bocca e io sarò con la tua e la sua bocca e vi insegnerò quello che dovrete fare. Parlerà lui al popolo per te: egli sarà la tua bocca e tu farai per lui le veci di Dio"». 

Aveva una ferita alla bocca subita da bimbo a causa della prova cui l'aveva sottoposto il faraone facendogli scegliere tra un gioiello d'oro e una brace che il piccolo portò alla bocca perché luccicava ancora di più?

Oppure adottato dagli egizi era cresciuto parlando quella lingua madre? Che le cause della balbuzie lascino ancora margini di dubbio, del resto, è confermato da mille testimonianze. 

Una per tutte, quella di Mario Vargas Llosa, sepolto anni fa dalle proteste («c'è chi arriva a proporre di bruciare tutte le mie opere») di lettori feriti da un paragone «maldestro» su «balbuzienti ed afasici afflitti da enormi problemi di comunicazione per via del linguaggio rozzo e rudimentale». Un brutto scivolone, ammise su «El País»: «Porgo pubblicamente le mie scuse a tutti i balbuzienti del mondo».

Narrò i «nove mesi di inferno» dai salesiani a Lima, tormentato perché parlava «con l'accento dei bambini nati sulle Ande, trascinando la erre e pronunciando la esse come "sc"», e giurando di avere tra gli amici parecchi balbuzienti di talento: «Uno è un filosofo poliglotta che tartaglia soltanto in spagnolo e quando fa lezione in inglese parla in maniera fluida e senza esitazioni». 

Una cosa è certa, scrive il romanziere peruviano: «Le balbuzie sono semplicemente un problema espressivo, non legato né all'intelligenza, né all'immaginazione né al talento, come dimostra il fatto che molti grandi della scienza e delle arti fossero balbuzienti».

E furono davvero tanti. Il primo a venire in mente, ovvio, è Demostene. Scrive Plutarco, citando Demetrio Falereo che diceva di averlo saputo dallo stesso Demostene: «Per porre rimedio a una pronuncia poco chiara e alla balbuzie e riuscire ad articolare bene le parole, si infilava in bocca dei sassolini e contemporaneamente declamava qualche passo; volendo, inoltre, rinforzare anche la voce, faceva conversazione mentre correva o si inerpicava per qualche salita e intanto, tutto d'un fiato, proferiva discorsi o versi». 

Nicolò Cavallaro (o Fontana), nato poverissimo, orfano a 6 anni e ferito alla bocca a 12 da un soldato francese nel «sacco di Brescia» (1512) riuscì a diventare (da autodidatta!) un genio della matematica fino a duellare coi massimi rivali e firmare i propri lavori, come sfida, col nomignolo di Tartaglia. 

Né era più sciolto San Carlo Borromeo, di cui il biografo Giovanni Pietro Giussano scrisse nel 1610: «Non era molto fecondo di parole, anzi più tosto si mostrava impedito nella favella; ben che alcuni attribuissero ciò ad arte, volendo dire ch'egli premeditasse le parole prima di dirle per guardarsi da tutte i difetti della lingua».

E che dire di Alessandro Manzoni, al quale secondo Antonio Stoppani «forse nocquero nelle scuole la timidezza, il temperamento nervoso, e la balbuzie, difetto che, ordinariamente più esagerato nei bambini che negli adulti, si esagera ancor più negli uni e negli altri per effetto della soggezione»? 

Lo riconosceva lui stesso: «Io la parola la vedo; essa è lì: ma non vuole uscirmi dalla bocca». Al punto che, scrive il biografo, arrivò a scherzarci su declinando all'inizio l'offerta d'un seggio al Parlamento Subalpino: «"Supponete" diceva celiando cogli amici "che un bel momento mi volga al Presidente, e domandi la parola. Il Presidente mi dovrebbe rispondere: Scusi! onorevole Manzoni; ma a lei la parola non la posso dare"».

Colpa di traumi adolescenziali aggravati dall'innocente crudeltà dei bambini? Certo non fu mai innocente la ferocia degli adulti. Basti leggere Svetonio sull'imperatore Claudio, afflitto dall'infanzia da un disordine neurologico: «Se parlava, sia scherzando, sia seriamente, aveva molti tratti ridicoli: una risata sgradevole, una collera ancora più odiosa che faceva sbavare la bocca ben aperta e inumidiva le narici, inoltre una balbuzie e un ondeggiamento della testa che, se era sempre continuo, si intensificava a ogni atto, per quanto piccolo fosse». 

Col risultato che fu vittima fin da ragazzo di ironie, sberleffi, piccole prepotenze quotidiane: «Se arrivava un po' in ritardo a cena, otteneva un posto a tavola a fatica e solo dopo aver fatto il giro della sala da pranzo; ogni volta che sonnecchiava dopo il pasto, cosa che gli accadeva quasi sempre, veniva bersagliato con i noccioli delle olive o dei datteri...».

Per non citare l'affilata ferocia di Seneca che nell'Apokolokyntosis, satira sulla morte di Claudio, manda l'imperatore appena morto (avvelenato) sull'Olimpo per farlo buttar giù come «mostro» dagli altri Dei. Pare avere colpito tutti, nei millenni, la balbuzie. 

Dal re Battos (in greco antico: balbuziente) fondatore della colonia greca della Cirenaica a Luigi II detto il Balbo re della Provenza e dell'Aquitania, dal conte Oliba «Cabreta» signore della Cerdanya (citato nelle cronache medievali perché faticava tanto a estrarre le parole che batteva la terra tre volte come una capretta) all'imperatore d'Oriente Michele II il Balbo, fino a Giorgio VI d'Inghilterra, il padre della regina Elisabetta II, la cui storia è stata raccontata ne Il discorso del re, vincitore di quattro Oscar.

Film magnifico che trascurava un dettaglio: anche Winston Churchill, che un giorno esultò «s-s-simply s-s-splendid!» («s-s-semplicemente s-s-splendido») inciampava spesso nella balbuzie. Due su due dei vincitori contro Hitler. 

L'aneddoto più delizioso, però, è quello su Luigi XIII, il figlio di Caterina de Medici, narrato da Amerigo Scarlatti sulla rivista «Minerva»: un giorno, mentre era a caccia, Luigi XIII, avendo perduto di vista il falco da lui lanciato un momento innanzi, si volse a un cavaliere seguito che gli si trovò vicino in quell'istante e si mise a gridargli: «L'oi... l'oi... l'oi... l'oi... l'oiseau», per domandargli se vedeva dov'era volato l'uccello.

Il cortigiano a cui si era rivolto era il conte di Thoiras, che per la prima volta era stato ammesso a una caccia reale e che, avendo ben capito ciò che sovrano gli domandava, prese subito a rispondergli sullo stesso tono: «Le voi... le voi... le voi... le voilà...». Immaginatevi il re di Francia! Paonazzo. 

«Per fortuna era sopraggiunto in quell'istante un altro cortigiano il quale fu pronto a dire al re: «Vostra maestà ignora certamente che il conte di Thoiras ha l'onore di essere balbuziente!». Sapete come finì? Fece perfino carriera...

·        Cultura Stupefacente.

Controcultura. Gli scambi di stroncature fra i maestri della classica. Sinfonia di note stonate: Beethoven "detestabile", Mozart "pasticciere", Chopin "signora nevropatica". Mattia Rossi il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

Diciamo subito che Una storia dilettevole della musica (Marsilio, pagg. 496, euro 19) è una delle storie della musica più originali e spassose mai scritte. A dire il vero, però, non si tratta di una canonica storia della musica: Guido Zaccagnini ha raccolto in quasi 500 pagine le migliori diatribe tra musicisti, i loro insulti e le ingiurie alle quali i grandi che hanno scritto la musica occidentale non si sono minimamente sottratti.

Prendete, per esempio, l'intoccabile genio di Mozart: i giudizi su di lui furono sempre idilliaci? No di certo: se per Ravel la sua musica era accompagnata «da una qualche aridità», Debussy ammise: «Detesto cordialmente i Concerti di Mozart»; per Berlioz, un semplice vocalizzo nel Don Giovanni rappresentò «uno dei più odiosi ed insensati crimini contro il buon gusto e il buon senso che si possono segnalare in tutta la storia dell'arte» e il Tuba mirum del Requiem «un disappunto assai spiacevole»; e quando Stravinskij commentò la produzione sacra di Mozart non andò per il sottile: «Le sue Messe sono pasticceria rococò». Le lingue biforcute di Debussy e Stravinskij colpirono anche un altro colosso, Beethoven: «Le sonate sono scritte molto male per il pianoforte», scrisse il francese definendo il lied Adelaide «una pagina che il vecchio Maestro ha dimenticato di bruciare»; «detesto Beethoven e le ultime Sonate e i Quartetti più di ogni altra cosa», chiuse il russo. Ma sul compositore di Bonn la lista dei detrattori è lunga e Zaccagnini la riporta fedelmente: Haydn, Paganini, Cherubini, Verdi, Rossini, Satie, Hindemith.

In fatto di vetriolo, Wagner, che si dice dirigesse l'ebreo Mendelssohn con i guanti, era messo parecchio bene: Händel «non è un musicista»; «Haydn era e rimarrà un servitore principesco al quale era affidato il compito, in qualità di musicista, di distrarre un padrone che viveva nella sfarzosità»; non parliamo dell'ebreo Mayerbeer che «doveva i suoi successi alla corruttibilità dei direttori d'orchestra parigini, era un astuto imbroglione, traviante e traviato»; definì inoltre Rossini «un grosso epicureo, farcito non di musica - giacché se ne è svuotato da molto tempo - ma di mortadella» (e il buongustaio pesarese gli rispose che lui era «arrosto senza sugo»); a Berlioz «manca ogni senso della bellezza»; «un genio davvero grande muore sempre troppo presto, il che non avviene con Mendelssohn, Schubert e Schumann, spiriti di secondo, terzo e quart'ordine»; neppure risparmiò le opere sacre del suocero Liszt, «un trastullarsi infantile».

Certo, Wagner fu anche bersagliato a sua volta: «L'oro del Reno è una confusione incredibile» (Cajkovskij), «la musica è terribilmente grossolana» (Rimskij-Korsakov), «La valchiria è un'opera terribilmente noiosa, senza temi, senza movimento, ma con una gran quantità di rumore» (Prokofiev), «un'azione insulsa che cammina più lenta d'un treno omnibus» (Boito), «ho sentito il Lohengrin a Vienna e ho sonnecchiato anch'io in quel torpore. Ma vi sonnecchiano anche i tedeschi!» (Verdi). In livore antiwagneriano, però, Richard Strauss è imbattibile: «Siegfried è stato abominevole. Un gatto sarebbe crepato e persino rocce si sarebbero trasformate in frittata per paura di queste ributtanti dissonanze. Le orecchie ronzavano a causa di questi aborti di accordi, seppur li si possa ancora chiamare così. L'intero escremento potrebbe essere ridotto a cento battute, giacché è sempre la stessa solfa ed è sempre noiosa». Un altro maestro di colpi bassi fu Stravinskij e il suo racconto di una rappresentazione del Parsifal wagneriano al quale assistette merita: «Dopo un quarto d'ora non ce la facevo più». Fortuna sua che «finalmente giunge l'intervallo e mi pago con due buone salsicce e un boccale di birra». Anche Mendelssohn, quanto ad astio, non scherzava: Liszt «ha molto di dita, poco di testa, l'improvvisazione era penosa e piatta, zeppa di scale»; Cherubini «è asciutto e rinsecchito dal fumo»; Purcell «è spesso debole e talvolta degenerato». Velenosissime le definizioni del russo Borodin: Bach «una mummia», Chopin «una signora nevropatica». Ma, del resto, Borodin faceva parte del Gruppo dei Cinque assai portati a tagliarsi colletti vicendevolmente.

E poi, a margine delle schermaglie, ci sono tante curiosità: la passione di Saint-Saens per i lepidotteri, la collezione di ombrelli di Satie, la goliardia di Puccini e il suo hobby per la caccia, gli amori di Debussy... Una storia della musica così riesce a farci amare ancor di più quei geni dello spartito.

Alberto Fraja per “Libero quotidiano” il 31 ottobre 2022.

Il perfido Antonio Salieri non fu il solo musicista a provare una invidia crudele nei confronti di un collega, tal Wolfgang Amadeus Mozart da Salisburgo. Sì, certo venuto in possesso delle partiture originali dell'asso austriaco, eccezionalmente «senza nemmeno una correzione», ebbe modo di rendersi conto di avere di fronte un genio all'ennesima potenza. Un talento però immeritato, secondo il compositore italiano, al quale pareva inconcepibile che un uomo "volgare" come quello potesse essere baciato da una sorta di ispirazione divina.

Di grandi compositori del passato squassati dal malanimo nel giudizio verso altri musicisti la storia è prodiga. La riassume il bel libro di Guido Zaccagnini Una storia dilettevole della musica. Insulti, ingiurie contumelie e altri divertimenti (Marsilio, 460 pagine, 19 euro). Il senso del volume di Zaccagnini, musicologo e voce di Rai Radio 3, può essere il seguente: non sempre i grandi seguaci di Euterpe si comportarono da galantuomini l'uno verso l'altro. Anzi. 

A Felix Mendelssohn, per dire, il monumentale fautore della Bach-Renaissance, Hector Berlioz non andava per niente a genio. «La sua orchestrazione è un orribile guazzabuglio, un tale pasticcio sconnesso che una persona, dopo aver avuto una partitura tra le mani dovrebbe lavarsele». Quelle finesse! Non meno Gaetano Donizetti che con Berlioz usò l'arma affilata della presa per i fondelli. «Egli è un pover' uomo, ha fatto un'opera e fu fischiata, fa delle sinfonie e si fischia. Fa degli articoli e si ride. Tutti ridono e tutti fischiano».

Attenzione però perché anche il signor Berlioz un stinco di santo non era e le cose non le mandava a dire. Questo il suo giudizio su Joseph Haydn. «I suoi assoli di flauto e tutte le sue bonomia mi danno le contrazioni e la voglia di uccidere qualcuno». Non solo. Il geniaccio francese ce l'aveva a morte con i musicisti italiani. Un odio che condivideva con Robert Schumann altro invidiosone di proporzioni ciclopiche. Secondo l'uno e l'altro i nostri compositori avevano colonizzato l'Europa. Ovunque andasse si trovava sempre qualche musicista italiano di troppo ( forse perché erano i più bravi?).

Non è tutto: Berlioz fu amico di Richard Wagner salvo, poco dopo, arrivare ad odiarlo ricambiato. E veniamo a quello che a parere di Zaccagnini è forse stato il più cattivo di tutti, Stravinskij. Il titolo del capitolo dedicato al maestro russo è giù tutto un programma: Come essere amico del mondo intero ma di nessun musicista. «Detesto Beethoven e le ultime Sonate e i Quartetti più di ogni cosa» confessava. In particolare Igor' Fëdorovi non sopportava gli ultimi tre dei sedici Quartetti scritti dal collega tedesco (nota: proprio quelli che sono universalmente considerati degli indiscussi capolavori).

Stravinskij stroncò il Quartetto in la minore opus 132 servendosi di volgari metafore gastronomiche: «Due fette di minuetto e tre di inno fanno un cumulo che somiglia a un sandwich a cinque strati, salvo che gli strati di inno e quelli di minuto non reagiscono l'uno con l'altro». Ma Beethoven stava sul gozzo anche ad un altro fuoriclasse, Franz Joseph Haydn che dell'autore de L'Eroica disse: «Non verrà mai niente fuori da quel giovane». Mai profezia fu più cannata. 

Sulle bordate di Prokof'ev contro ostakovilg è il caso di stendere il proverbiale velo pietoso. Il libro di Zaccagnini, dal taglio divulgativo e sommamente ironico, non è solo una storia di baruffe chiozzotte tra titani delle sette note. Esso è anche un itinerario affascinante nelle segrete «stanze della musica», condito di divagazioni storiche, letterarie e poetiche. Dove si racconta, tra l'altro, della passione per i lepidotteri di Camille Saint-Saëns e il pallino di Erik Satie per gli ombrelli, e il Puccini double face, dandy nel bel mondo e «or Giaomo» per gli amici.

Un affresco riuscito in cui l'autore ricompone in modo originale i vari filoni che nel corso dei decenni hanno attraversato le fasi stilistiche della musica, disegnando un percorso avvincente che va da Beethoven a Strauss, passando per Schubert, Schumann, Brahms, Wolf e Mahler. Ma il quid di cui tener maggior conto è la volontà di far rivivere i dissidi tecnici, morali e concettuali tra i grandi della musica così da poterli osservare da un'ottica più umana tale da sollecitare «una riflessione e conferire a questi monumenti della nostra civiltà musicale un tocco di umanità: che potrà, forse, farceli sentire più vicini; e magari farceli amare di più».

Livia Tan per “Libero quotidiano” il 23 maggio 2022.

Ma questi cosa si fumavano? Esordisce così Alessandro Paolucci, introducendo il lettore alla Storia stupefacente della filosofia (Ed Saggiatore), attraverso un viaggio, o sarebbe meglio chiamarlo trip, che ci svela quanto i paladini del sapere, i semidei che chiamiamo filosofi, fossero strafattoni fin dall'antichità. 

A cominciare proprio dal padre della filosofia, Platone, che esorta i suoi discepoli a uscire dalla caverna, per vedere la luce. 

Per avere un'anteprima dell'aldilà, spiega Paolucci, ai tempi dell'antica Grecia dovevi essere in lista per partecipare al culto di Eleusi. 

Soltanto lì, dopo trance e balli, e grazie a una bevanda magica allucinogena, probabilmente a base di parassita cornuto di grano, i filosofi pronunciavano la parola d'ordine che svelava il sapere divino. 

Come i Blues Brothers, scrive Paolucci, Eschilo, Socrate e Platone erano «in missione per conto di Dio» e il pensiero occidentale si fonda sul trip di Eleusi. E se gli antichi greci inseguivano l'astrazione, anche gli imperatori romani, per fare Roma, ebbero bisogno di un aiutino. Lo sapeva bene Marco Aurelio, grande stratega e filosofo, che soffriva d'ansia e insonnia cronica. 

La sua salvezza fu la teriaca, una pozione magica che per secoli fu considerata prodigiosa, sopravvalutata secondo Plinio il vecchio, riformulata dal mago delle ricette antiche Galeno di Pergamo, pusher ufficiale dell'imperatore. 

Dentro la teriaca c'era di tutto, soprattutto oppio, e molte altre sostanze pulp. Divenne l'antidepressivo di Marco Aurelio, e lo aiutò a conquistare il mondo.

Il padre della psicanalisi Sigmund Freud, invece, aveva uno strano modo di concepire le dipendenze. 

Con la scusa di sperimentare su di sé in nome della ricerca scientifica, finì per diventare cocainomane. 

Freud infatti provò il "farmaco" e gli parve prodigioso. Curava tutto: dolore, stanchezza, depressione, ed era anche un buon alleato per serate mondane e iper lavoro. 

Sembrava funzionare anche per i morfinomani, come il collega Fleisch Marxow, che si era gravemente tagliato il pollice della mano e assumeva morfina per lenire il dolore. 

Freud gli prescrisse cocaina, via endovenosa, e lì per lì sembrò giovargli, fino a quando cominciarono a comparire terribili allucinazioni di insetti e serpenti che strisciavano sulla sua pelle. Il poveretto morì a 45 anni, forse nell'atto di iniettarsi un grammo di cocaina, la sua dose giornaliera. 

Tuttavia Freud, ossessionato dalla polvere bianca, fini per commettere grossi errori di valutazione imparando ad inalare cocaina dalle narici, sempre per amor di ricerca...

Quel che resta evidente, insinua Paolucci, è che il dottor Freud sapeva far parlare i pazienti sdraiati sul lettino, forse resi così ciarlieri dopo aver assunto il farmaco consigliato dal medico di fiducia. «Questa sera prendere tanto oppio da perdere la ragione». 

Ottimi anche i propositi di Friedrich Nietzsche che nel 1882 da Rapallo scriveva agli amici Paul Rée e Lou Von Salomé, cercando rimedi per lenire l'emicrania. 

Fritz, il super uomo bullizzato da Wagner, il filosofo a metà tra "il dottor House e Marylin Monroe", non era un fumatore di oppio, lo assumeva come medicinale per dominare il mal di testa cronico, rimediare alla perdita della vista all'occhio destro, e controllare i momenti di pura follia che gli facevano abbracciare un cavallo, piangendo disperato.

L'Ecce homo dal pensiero forte, infatti, soffriva terribilmente per una probabile malattia neurodegenerativa, e per sopportarla provò di tutto, pur di continuare a pensare, a leggere, e a scrivere brevi e potenti aforismi. Manca quello sul superuomo che ha bisogno di tenerezza.

Perfino Walter Benjamin, l'intellettuale più complesso e geniale del Novecento, s' infatuò della visione stupefacente che regala l'hashish, annotando l'esperienza in un libro che uscì postumo: Sull'hashish (1972).

Lo sperimentò nel 1927, mangiandoselo, e, rilevando l'illimitata benevolenza che produceva, scrisse: «Le stesse strade di prima, solo disseminate di rose». 

Lo riprovò per capire gli effetti sulla percezione del tempo, sulla società, sulla lettura. L'hashish era propedeutico per Benjamin: contro la massificazione imperante era necessario cambiare visione, cercare la via d'uscita, tornare a riveder le stelle. 

Purtroppo non visse abbastanza per continuare a riflettere sulle storture del Novecento, come invece ebbe la fortuna di sperimentare Ernest Junger, che lo percorse tutto, dividendo a metà la propria biografia: fino ai cinquant' anni fu un pluridecorato uomo militare, cervello conservatore e scrittore di successo, dopo i cinquanta divenne il miglior amico di Albert Hoffmann, lo scienziato svizzero che sintetizzò l'Lsd. Insieme fecero viaggi pazzeschi, seduti in poltrona, come richiedeva la loro (terza) età.

Così, ricorda Paolucci, Junger trascrisse i suoi diari di bordo nell'opera Visita a Godenholm (1950) in cui si raccomandava di strafarsi con moderazione, e visse felice e contento fino a 103 anni, senza rilevanti problemi di salute. Insomma, un precursore di Keith Richards.

A dimostrazione del fatto che ti puoi drogare con qualunque cosa, c'è Sartre. Il paladino dell'esistenzialismo infatti, che snobbava la salute e idolatrava la mente, si sparava almeno 20 pasticche al giorno di un medicinale a base di aspirina e anfetamina. Così Jean Paul Sartre si carburò per scrivere la Critica della ragione dialettica (1960). 

I farmaci, confessò a Simone De Beauvoir, lo facevano sentire come se il suo intero sé divenisse opera. 

Perse l'uso di un occhio, ebbe un ictus, fu ricoverato, ma niente lo terrorizzava, tranne antipatici "ritorni" di un trip di mescalina consumato in gioventù. Da allora infatti, visioni di granchi e aragoste lo tormentavano, inseguendolo ovunque.

Chiude la stupefacente rassegna di Paolucci il gigante della filosofia francese Michel Foucault, il ragazzo che non voleva fare il chirurgo come il padre, e gli rubava i farmaci dall'armadietto, l'omosessuale che, assaggiato il frutto proibito in California, decise di riscrivere interi capitoli della sua Storia della sessualità. 

Perché se inizialmente Foucault sperimentò oppio e hashish, per riflettere sulla follia e la dimensione onirica a cui le droghe ti conducono, fu il viaggio psichedelico nella Death Valley, in compagnia di uno sconosciuto e con soundtrack di Strauss, che definì: «La più bella esperienza della mia vita», a ispirarlo davvero. 

Pare quindi che restare stupefatti sia pratica antica per gli amanti del sapere in cerca della luce divina. Curioso che l'autore del saggio, sui social, sia noto come @Dio.

·        I pseudo intellettuali.

Così Bianciardi ritrasse (cinquant'anni fa) l'"intellettuale" di oggi. Massimiliano Parente il 18 Maggio 2022 su Il Giornale.

Ostenta umili origini, parla di ciò che ignora, sposa una ricca e... disimpara a scrivere.

Bret Easton Ellis tagliò corto quando Giuseppe Culicchia gli chiese un consiglio per gli aspiranti scrittori: «Sposate una donna ricca». Ma molti libri per aspiranti scrittori sono stati sfornati dall'editoria, soprattutto da noi in Italia, visto che c'è più gente che scrive di quella che legge. Il più celebre fu I 21 modi di non pubblicare un libro, di Fabio Mauri con prefazione di Umberto Eco, quest'ultimo altrettanto tranchant: «Mai libro è stato pubblicato perché l'aspirante autore ha inviato il suo manoscritto a un editore». In linea di massima la società culturale non è poi cambiata così tanto, basti pensare che già all'epoca di Balzac le illusioni erano già perdute.

Meno noto è un pamphlet di Luciano Bianciardi, Non leggete i libri, fateveli raccontare (ora edito da Neri Pozza), scritto a puntate nel 1966 sul settimanale ABC fondato da Enrico Mattei e che sembra scritto adesso, mentre gli intellettuali si lamentano di quanto si stesse bene ieri (in realtà è solo la vecchiaia). Bianciardi, nato a Grosseto come il sottoscritto (e come il sottoscritto se n'è scappato, lui a Milano, io a Roma), era già noto per La vita agra (uscito nel 1962), romanzo contro la sete di denaro della borghesia che fu elogiato da Indro Montanelli e l'autore ne rimase stupito: «Invece di mandarmi via a calci in culo, come meriterei, mi invitano a casa loro».

Il libro è uno spasso, segno che la società culturale italiana è sempre stata l'arte di arrangiarsi in un Paese in cui della cultura non è mai fregato realmente niente. A cominciare dalla parola «intellettuale», che non si capisce cosa voglia dire, per quelli di sinistra «chiunque non eserciti un lavoro manuale», una definizione un po' generica «dal prete al portalettere, su su fino a Benedetto Croce, tutti quanti cadevano nel cestone dell'intellettualità».

A dominare la società era il marxismo, ma Bianciardi anticipa l'idea di radical-chic coniata da Tom Wolfe. «Nel secondo dopoguerra, per esempio, era un discreto vantaggio l'origine operaia o contadina: figlio di un bracciante, figlio di un minatore erano titoli di merito». Ovviamente poi puntando alla carriera, come impiegati qualsiasi (condizione da Bianciardi sempre rifiutata, si licenziò anche dalla Feltrinelli), basti pensare a tutti gli autorini nostrani che fanno la fila per avere il famoso premio e aspirare al successo, che per Bianciardi era «solo il participio passato del verbo succedere». E comunque anche l'operaio «vuole esattamente quello che vogliono gli altri: il frigorifero, l'utilitaria, la camicia bianca, la domestica a ore e i film di James Bond». In fondo è il motivo per cui nel Paese con il più grande Partito Comunista d'Occidente nel 1948 il Fronte popolare perse le elezioni di fronte al Piano Marshall.

Gli studi? Bianciardi era avanti. Laurea sì, ma senza necessariamente finirla. In ogni caso non in una facoltà umanistica (meglio scientifica), che al massimo porterà a una carriera scolastica o universitaria. «In seconda elementare un ragazzo normale scrive già come un beatnik, e continuerebbe volentieri su questa strada, ma la maestra, con tanta pazienza e tanta fatica, ha saputo poi correggerlo, i professori hanno fatto il resto e adesso, a vent'anni, il Nostro scrive esattamente come Giuseppe Lipparini. Toccherà a lui la fatica di disimparare, riapprendere i modi dell'anacoluto pregnante, dell'antisintassi, passare da Manzoni a Verga, da Verga a Gadda, da Gadda a Kerouac».

Nascere figli di aristocratici purché colti è un vantaggio, l'aspirante scrittore «a diciotto anni ha avuto la sua prima esperienza sessuale da una nave scuola accreditata nei migliori salotti letterari, dà del tu a Pasolini, sa discutere al momento giusto di alienazione, di Gestalt, di op-art, insomma è un giovane prodigio, nato con la camicia. Il guaio suo è proprio questo: le cose gli sono andate troppo bene durante l'infanzia e l'adolescenza, quasi sicuramente tirerà innanzi per la strada più facile, vivrà di rendite paterne, a trent'anni sarà vecchio e stanco». In effetti la strada della frequentazione aristocratica è riuscita a uno solo: Alberto Arbasino. Ma lì perché Arbasino era un genio. Tuttavia tanti altri, se ci pensate, ci hanno vivacchiato bene, tra Lotta Continua e la villa a Capalbio.

A proposito di televisione, le frasi consigliate da Bianciardi sembrano le stesse degli intellettuali di oggi (il livello si è ancora abbassato, per esserlo basta essere degli opinionisti), quando non si sa cosa dire, per esempio se non si è virologi o esperti di geopolitica, «ecco alcuni esempi di frasi-cerotto, indispensabili per dire e insieme per non dire: «pur nei suoi limiti», «anche se non siamo perfettamente d'accordo», «lasciamo stare per il momento il», «ammesso e non concesso», «un qualcosa di indefinibile», «in qualche misura», «non è impossibile». Sembra di sentire gli esperti delle maratone di Mentana che parlano della guerra in Ucraina (non c'erano ancora gli Orsini, o forse essendo tutti sul libro paga dell'Urss erano tutti Orsini).

Quanto al come vivere dignitosamente da intellettuale, si torna al viatico di Bret Easton Ellis, sposare una donna ricca, ma qui bisogna essere più attenti, perché non siamo negli Stati Uniti, e dunque andrà scelta una castellana, «bella ma matura, d'una venustà un po' svanita, gli anni mai meno di trenta, meglio ancora se quasi quaranta. Ricca, la castellana, deve essere di esperienze e di informazioni, il miglior capitale nel nostro campo di attività». Appena fatta carriera come intellettuali, sfruttando le amicizie della nobildonna, la signora si può anche lasciare, «e nessuno avrà niente da ridirci: era prevedibile, penseranno al massimo: non poteva durare; ha resistito anche troppo, poveraccio, con quella carampana».

·        Le lettere intellettuali.

Alighieri files. Il Dante shakespeariano che da disoccupato si fa diplomatico. Rita Monaldi, Francesco Sorti su l'Inkiesta il 17 Agosto 2022.

Nel secondo volume della trilogia teatrale sul grande poeta fiorentino, scritta da Monaldi & Sorti e pubblicata da Solferino, Firenze è succube delle disonorevoli mosse di spietati usurai che minacciano la città 

Noi formiamo le nostre convinzioni sull’apparenza; e, troppo presuntuosi, consideriamo l’aiuto del cielo alla stregua dei nostri fatti umani. Ma è il cielo ad agire, esso prende la mira, e fa centro, pur se il dardo si spezza nel colpo.

E anche Paolo… la risposta che Dante in quel momento leggeva sulle labbra del proprio cuore gli giunse alle orecchie dal podestà come in un’eco:

“Ah, se solo avessi potuto dare Francesca a Paolo anziché al fratello: la donna che lo amava sarebbe stata sua moglie!” La donna che lo amava sarebbe stata sua moglie… Ecco, qui c’era il succo, il segreto, la scintilla che mancava. Il podestà non aveva detto “la donna che Paolo amava”, ma “la donna che lo amava”. Di fronte all’amore non puoi tirarti indietro… Incapace di proferir motto per la commozione, Dante fu certo che nelle parole di Guido il Vecchio era stato un’ultima volta Paolo a parlargli, a spiegargli, a consolarlo, a illuminargli la via. Gemma era sua moglie. E lo amava.»

Dante e il podestà rientrano. La bara viene attorniata da quattro valletti. Forese si fa innanzi e, aperto il rotolo, legge il sonetto di Dante.

Venite a ’ntender li sospiri miei, oi cor gentili, chè pietà ’l disia: li quai disconsolati vanno via, e s’e’ non fosser, di dolor morrei; però che gli occhi mi sarebber rei, molte fiate più ch’io non vorria, lasso! di pianger sì la donna mia, che sfogasser lo cor, piangendo lei. Voi udirete lor chiamar sovente la mia donna gentil, che si n’è gita al secol degno de la sua vertute; e dispregiar talora questa vita in persona de l’anima dolente abbandonata de la sua salute.

[…]

Dante si aggira errabondo per Firenze come un cane ferito: piange e sospira, sbaglia più volte strada, infine imbocca un vicoletto a caso che lo conduce a un piccolo giardino, dove una fontanella spande il suoDante no tintinnante del suo zampillo. Si siede sul bordo di pietra della piccola vasca, e dà finalmente sfogo al turbamento.

[…]

«[…] risplende ai miei occhi il tuo volto come una luna argentea, sul traslucido seno degli abissi, attraverso l’umore delle mie lacrime. Bah! Ma che scempiaggini dico? Datemi un altro Dante che capisca me stesso. Parole, aiutatemi! Cervello, datti da fare! Uomini, siete contenti al quia? Oh quanto è corto il dire, e come fioco al mio concetto!»

Esausto, si lascia infine scivolare a terra ai piedi della fontana, e s’assopisce. Ma dura poco: si desta di scatto, come preso da una febbre, s’alza in piedi e lascia in fretta il giardino. Anzi, corre: verso il cortile di casa Alighieri.

Arriva sudato e ansimante, mentre il sole ancora graffia con le sue dita rosacee l’intonaco delle mura in cortile. Di lì passa nel suo studiolo. Le ferite nell’animo di Dante stanno cercando una benda di marmo: l’antico stemma di famiglia a strisce marmoree, quello degli avi Elisei. E a fianco, quello a scacchi bianconeri di zio Geri. Sono ancora lì in alto, sulla parete soleggiata dove egli stesso alcuni anni prima li aveva spostati dal cortile dopo averli messi allo scoperto, grattando l’intonaco a mani nude, fino a insanguinarsi i polpastrelli. Quella volta aveva funzionato: fissare i simboli di marmo a strisce e quadri bianchi e neri, poi sentirsi calare addosso quel torpore, e poi… 

da “Ahi, serva Italia! Dante di Shakespeare II”, di Rita Monaldi & Francesco Sorti, Solferino, 624 pagine, 21 euro

Lettere e girasoli. I carteggi inediti delle sorelle di Vincent Van Gogh. Willem-Jan Verlinden su Linkiesta l'11 Agosto 2022

Il rapporto del pittore con il fratello è celebre, meno noto è quello con le donne della sua famiglia. Come spiega Willem-Jan Verlinden nel suo libro, Anna, Elisabeth e Willemien hanno esercitato una grande influenza nell’immaginario dell’artista

Amsterdam, Parigi, 1885-1888

Nell’agosto del 1885, sei mesi dopo la morte di Dorus, nelle vite dei Van Gogh ci fu un nuovo ingresso, quello di Johanna Gesina Bonger, detta Jo. Era cresciuta ad Amsterdam in una famiglia liberale, con nove tra fratelli e sorelle, e i suoi genitori abitavano al numero 137 della Weteringschans, sulla diagonale opposta rispetto al nuovo Rijksmuseum, che era stato aperto nell’estate del 1885. Sorella minore di Andries Bonger, amico di Theo a Parigi, Jo era destinata a svolgere un ruolo importante nella famiglia, sia perché sposò Theo, sia perché fu amica delle sorelle e diventò come una quarta figlia per Moe.

Fu lei che alla fine avrebbe tenuto in vita il cognome Van Gogh e salvaguardato l’eredità di Vincent. Jo conobbe Theo il 7 agosto 1885, quando era a Parigi in visita a suo fratello Andries. A ottobre, su suggerimento di Theo, lei e Lies dettero avvio a quello che sarebbe diventato un lungo carteggio; Theo intuì che gli interessi in comune delle due donne le avrebbero portate a intrecciare un rapporto profondo, e infatti entrarono ben presto in confidenza.

«Mai la mia coscienza è più turbata di quando mi ricordo degli innumerevoli libri che da bambina mi venivano nascosti in ogni cantuccio e in ogni fessura della casa, e sui quali spesso riuscivo comunque a mettere le mani; di quelle volte che a letto li divoravo, tremante di paura, e del rimorso che provavo quando venivo sorpresa».

Sono parole che Lies scrisse a Jo il 17 novembre 1885 da Villa Eikenhorst a Soesterberg, dove aveva passato gli ultimi sei anni assistendo la signora Du Quesne-van Willis.

Lies amava la letteratura. Da bambina non lasciava passar giorno senza dedicarsi almeno un’ora alla poesia. A quattordici anni scriveva versi sulla natura e, come le sorelle, teneva un album di poesie, che conteneva composizioni dei suoi familiari, di compagne di classe e amici, di alcuni dei Du Quesne e di due conoscenti. Erano queste le persone di cui si circondava quando aveva ventisei anni. 

Jo condivideva il suo amore per la letteratura. Aveva studiato da insegnante di inglese, e quando incontrò Theo e cominciò la sua corrispondenza con Lies lavorava come traduttrice. Questo incontro tra le future cognate, portato avanti attraverso le lettere, avrebbe preso la forma di un’entusiastica corrispondenza che durò per tutto l’inverno. Si sarebbero viste di persona solo qualche mese dopo, ad Amsterdam. Le lettere che si scambiarono prima di quell’incontro evocano l’immagine di due giovani donne ansiose di concedere uno sguardo nei propri cuori e nelle proprie menti, come spiegava Jo: «È per questo che mi piacerà professare le mie convinzioni in tema di letteratura, pittura, musica, tutte cose di cui ahimè conosco così poco, ma che rendono la mia vita tanto ricca e godibile». 

Le loro lettere erano qualcosa di più di dialoghi accademici sulle arti. Affrontavano anche il loro aspetto e la loro vanità, l’esperienza amorosa, il lavoro e il reddito, l’avversione alle faccende domestiche e specialmente alle pulizie primaverili – un’incombenza considerata dovuta per una donna. A Jo, Lies scrisse: «Innanzi tutto, il tuo volere un lavoro dignitoso, il tuo desiderio di fare qualcosa di diverso dalle solite faccende domestiche ripetute nella medesima monotona sequenza – anch’io provavo lo stesso prima di venire qui! E tuttavia, come te, amo la mia casa, e mi chiedo se, come me, tu trovi noiose le pulizie. Ma non pretendo certo di essere una letterata; ho l’ardire di ammettere che non lo sono; a volte mi cucio perfino i vestiti da sola, sebbene solo quando non mi posso permettere di farmeli fare. Preferirei di gran lunga non farlo».

Nella stessa lettera esprimeva i propri sentimenti nei riguardi di Theo, ben più profondi dell’affetto che provava per Anna, Wil, Vincent e Cor, e paragonava quella sua devozione all’amore che legava la stessa Jo al fratello Andries. «Anche tu senti questo anelito ad amare? Spesso su ciò ci inganniamo, e tuttavia cadiamo di nuovo facilmente nel medesimo errore. L’unica persona che ho amato sempre e costantemente è, come te, mio fratello Theo. Nessuno, fra le mie sorelle o gli altri fratelli, potrebbe mai essere paragonato a lui».

E poco tempo dopo scriveva: «Nella tua lettera hai menzionato la Eliot. Hai mai letto Il mulino sulla Floss? Spero di sì. Non pensi che descriva benissimo l’amore tra un fratello e una sorella?».

Dopo le insistenze di Jo, Lies acconsentì a dare una descrizione di se stessa: «Come sono? Da un certo punto di vista avevi ragione, vale a dire sono petite, tutt’altro che alta come Theo, e di corporatura più esile! Ma non sono bionda. Quando negli anni del convitto la direttrice si sentiva in dovere di dirmi qualcosa di odioso, diceva che avevo i capelli rossi. Io, però, direi che sono di una bella tonalità di castano, come potrebbe definirlo la gente. Sapeva perfettamente di toccare un punto dolente, quella donna malvagia; e io, che in realtà mi immaginavo che fosse un mio vantaggio, perché non dovevo metterci i bigodini».

Jo rispose in tono: «Ora ti devo una descrizione; corporatura – alta, più alta di tuo fratello – occhi – marrone scuro – capelli ancora più scuri, di fatto neri, e la scorsa settimana sono stata così stupida da tagliarmeli corti, per cui al momento devi immaginare che sembro un ragazzo. Beh, qui arriva un’altra confessione – vorrei tanto essere bella, bella davvero, non per una sciocca civetteria, bensì per un motivo puramente estetico. Ma senza dubbio è bene che non lo sia, perché sicuramente sarei stata anche vanitosa; qualche impiccione dice che lo sono già, mi prendono in giro perché mi guardo tanto allo specchio. Come vedi, ti racconto tutto. Ad essere onesta, devo dire che mi piace apparire per quanto posso attraente, e se potessi permettermelo, vorrei sempre essere ben vestita. Mi piace vedere qualcuno che si veste con eleganza, per cui l’armonia dei colori è fondamentale; mi irrita molto quando la gente spende un sacco di soldi e ciò nonostante il risultato è privo di gusto! A volte ho stati d’animo di una semplicità puritana e m’immagino che sarei potuta diventare una buona suora capace di rinunciare al mondo e alle sue vanità». 

Lies rispose in modo altrettanto franco. «La prima cosa che faccio quando sono sola è guardare nello specchio per vedere cosa sembro o capire come può vedermi la gente». 

Le riflessioni di Lies sugli anni passati al convitto avevano un sottinteso leggermente più amaro. Vi paragonava le sue insegnanti alla Regina delle nevi di Hans Christian Andersen: «Ci arrivi con un cuore immacolato coltivato nel tepore domestico, sensibile a qualsiasi parola scortese, per niente abituato alla meschinità di una donna che si presenta nell’opuscolo come una che ama come una madre le ragazze che le vengono affidate. Bisogna che freni la lingua se penso a come quel giovane cuore, così desideroso di crescere attaccato e abituato al calore umano, sia stato respinto dalla freddezza. Immagino che tu conosca le favole di Andersen, no? Da bambina le imparavo a memoria, e ancora oggi penso che siano straordinariamente poetiche e belle. Conosci quella della Regina delle nevi, come stringe la bambina al suo cuore gelido finché l’amore e tutto quel che vi era di buono nel cuore della bambina diventa di ghiaccio. Vedi, tutte le maestre sono una Regina delle nevi come quella, almeno tutte quelle che ho incontrato». 

In una successiva lettera sarebbe ritornata sull’esperienza del convitto, parlando di un indesiderato ma ardente ammiratore.

«Avevo solo tredici anni quando andai al convitto di Leeuwarden, sebbene vivessimo nel Sud del Brabante. Avevo così tanta nostalgia di casa che Pa mi tenne lì solo un anno e poi mi mandò a Tiel, dove rimasi fino all’epoca dell’esame. Là andavo sempre fuori, perché una donna che mi aveva preso “en amitié” cominciò a portarmi ovunque. Le volevo bene come a una madre, e lei mi adorava. Purtroppo, in casa sua alloggiava un giovane, cioè, non era neanche così tanto giovane, ma ci era arrivato ancora ragazzo. Era estremamente formale e distaccato, sembrava sempre che non si accorgesse neppure di me, però si sentiva in dovere di darmi consigli su un sacco di cose, ma io non lo volevo affatto, e per quel motivo lo trovavo terribilmente irritante, come ebbi ampiamente modo di chiarire. Nonostante ciò, mi fece un’appassionata dichiarazione, che mi lasciò stupefatta e turbata e di cui parlai immediatamente con la mia amica».

In seguito, Lies confessò un’altra avventura romantica – stavolta il sentimento era reciproco – che nel 1879 le aveva reso difficile lasciare Dordrecht, ma senza rivelare il nome del giovane. «La nostra relazione era segreta», confidò a Jo, finché un amico la scoprì e ne scrisse a Pa. Questi arrivò in tutta fretta da Etten. «All’epoca avevo diciott’anni, mi trovavo in un ambiente molto piacevole dove mi sentivo felice e completamente a casa, quei disgraziati anni della scuola erano ormai alle spalle […]. Conobbi un giovane, aveva la mia stessa età e stava per diventare uno studente; non aveva un’intelligenza eccezionale, ma era eccezionalmente bello, e quel che in realtà mi attraeva era il suo essere diretto e onesto. Aveva già visto molto del mondo, e le circostanze lo avevano reso più grande della sua età.

Oh, Jo, come lo amavo, come lo amavo! Nessuno seppe della nostra relazione finché un mio amico, cosiddetto tale naturalmente, la scoprì e ne scrisse a casa. Pa venne subito, mi parlò e io gli parlai. Sebbene fosse ricco e credesse in ciò che voleva, era anche troppo giovane perché una ragazza potesse impegnarsi con lui, e ogni contatto doveva essere interrotto, la corrispondenza rigorosamente proibita. Per Pa fu difficile, perché anche a lui piaceva, e lo riteneva un tipo responsabile, che aveva preso la cosa seriamente. Sì, vabbè, una vecchia storia. Non ho mai più saputo niente di lui. Una volta, quando proprio non ce la facevo più, gli ho scritto. Mi rispose con poche parole, dicendo che aveva dato la sua parola da uomo a Pa, e non voleva infrangerla. All’epoca mi amava con tutto il cuore, ma ora? Come potrebbe un giovane che ha tutto il mondo nelle sue mani, ammirato e ricercato, rimanere fedele a un amore così lontano nel tempo? Dopo di ciò, mi ritirai qui, dove non ho mai incontrato un solo esponente dell’altro sesso».

Non era una cosa da poco dirlo, per lei, considerando cosa stava accadendo in quel periodo a Villa Eikenhorst. Ma ciò sarebbe venuto alla luce in seguito – e per alcuni dei suoi familiari addirittura decenni dopo. Oltre che dell’aspetto e delle questioni di cuore, nelle loro lettere le future cognate parlavano principalmente del loro amore per i libri. Jo scriveva: «La mia più grande ambizione è scrivere qualcosa di originale, ma è un’ambizione talmente elevata che potrei non realizzarla mai. Per consolarmi, ricordo a me stessa che George Eliot cominciò a scrivere più tardi, ma io ho già ventitré anni, e se mai dovessi riuscire a fare qualcosa, è questo il momento. Tuo fratello mi ha un po’ raccontato della tua opera letteraria (come vedi, non eri una completa estranea per me), ma vorrei saperne di più».

In seguito aggiunse che la letteratura, più di qualsiasi altra cosa, fornisce uno sfogo al nostro bisogno di «confidare a qualcuno tutte le nostre incertezze, preoccupazioni e problemi […]. I miei libri soddisfano quel bisogno meglio di tutto. In quelli della Eliot in particolare ho sempre trovato incoraggiamento e conforto, ma ce ne sono tanti! Tu ami soprattutto Longfellow! Io non sono sicura; penso che il mio poeta preferito sia Shelley, ma li amo tutti, da Beets e De Génestet a Goethe e a Shakespeare. Goethe! Conosci qualcosa di più commovente di Gretchen!?».

Jo amava diversi poeti-predicatori olandesi, come Nicolaas Beets, noto anche con lo pseudonimo Hildebrand, e Petrus Augustus de Génestet, oltre a giganti letterari stranieri, ma aveva poca affinità con gli scrittori francesi: «Ora devo confessarti un’altra mia avversione, che ti sembrerà strana. Non amo affatto la letteratura francese. Quanto spesso sono stata motivo di ridicolo a causa di questo per André [suo fratello Andries], il quale pensa che io abbia vedute ristrette, ma che ci posso fare. Non sto parlando della poesia, perché quella in realtà è piacevole all’orecchio e deliziosa, perfino incantevole, ma della prosa! Continuo a immergermici, ma scoraggia talmente, mi rende così delusa dall’umanità e di tutto ciò che va oltre le parole. A prima vista la società francese è elegante, garbata e civile, poi dentro è così superficiale, decadente e vuota, puah».

Lies ammise che neanche lei amava molto i romanzi francesi.  Oltre ai racconti riguardanti la famiglia, la città e le esperienze di vita, ogni lettera toccava la loro passione per la letteratura e i loro scrittori preferiti. Lies scrisse: «Amo Dickens, tu? Vorresti per cortesia rispondermi a questo? Mi piace così tanto sentirti parlare degli scrittori, perché sebbene sia del tutto d’accordo con la tua opinione, non potrei mai esprimerla così completamente e chiaramente come fai tu».

Al che Jo rispose: «Credo che siamo pienamente d’accordo su questo punto, perché anch’io lo amo. Copperfield, Dombey e Nickleby sono i miei preferiti par excellence. Mi ricordo bene quando ho letto Copperfield per la prima volta. Pensavo che mi si spezzasse il cuore per la compassione». Lies rispose con entusiasmo all’amore di Jo per i libri, sentendo chiaramente che aveva trovato uno spirito affine: «Immagina soltanto, per quanto impossibile possa essere, che dovessimo scrivere un libro insieme… Sono sicura che le nostre parole e le nostre idee sarebbero così assolutamente identiche che il pubblico riterrebbe l’opera il prodotto di un solo autore. Oh, mia cara Jo! Cosa non darei per vederti! Non ho mai osato parlare alle mie sorelle né a nessun altro come faccio con te; sicuramente riderebbero di me».

Le motivazioni che spingevano Lies a scrivere non erano, per sua stessa ammissione, puramente letterarie: «Devo essere onesta e confessare qualcosa di cui mi vergogno, perché in verità è così in contrasto con la mia indifferenza al denaro, ma la mia principale ragione per scrivere è?… guadagnare! Senza dubbio storcerai il naso al solo pensiero di una donna che scrive per guadagnarsi da vivere. Farei anch’io così. La passione, il talento e l’arte non ci sono forse dati per uno scopo diverso da

quello di venderli? Non posso che essere interamente d’accordo con te. Purtuttavia, per me la vita sarebbe molto più interessante se sapessi che non ci sarà mai un giorno in cui io possa essere dipendente, che il mio desiderio di fare di più per gli altri venga appagato. Vedi dunque, cara Jo, per quale motivo vorrei guadagnare; ma senza una reputazione, senza conoscenze o mecenati nel mondo letterario, ciò non è possibile in questo paese, per chi abbia come genere principale la poesia. Preferisco infinitamente scrivere versi piuttosto che romanzi, sebbene abbia scoperto che questi ultimi sono almeno pagati quando vengono pubblicati a puntate. Poi, non ho da lamentarmi e sono davvero soddisfatta delle recensioni; ma se potessi, mi dedicherei alla traduzione». 

Da “Le sorelle Van Gogh”, di Willem-Jan Verlinden, Donzelli editore, 304 pagine, 30 euro

Pirandello, le assenze e il filosofo Gentile. Riemerge uno scontro scolastico tra geni. Le missive del drammaturgo raccontano la lite sugli orari e la docenza. Matteo Sacchi il 3 Agosto 2022 su Il Giornale.  

«Con una pervicacia inaudita il signor Gentile seguita a perseguitarmi. Non è affatto vera l'intermittenza delle mie lezioni; e puoi sincerartene tu stesso guardando il registro delle mie lezioni, che troverai sullo scaffale sotto il palchetto dei registri». Così un affranto Luigi Pirandello scriveva al collega docente Manfredi Porena (celebre filologo), il 26 maggio 1922, lamentandosi dei rimproveri nei suoi confronti da parte del filosofo Giovanni Gentile, Regio Commissario dell'Istituto Magistrale di Roma e futuro ministro dell'Istruzione del governo di Benito Mussolini (a partire dall'ottobre del 1922).

La lettera da cui è tratto lo stralcio fa parte di un carteggio inedito tra Pirandello e Porena, custodito nel Centro archivistico della Scuola Normale Superiore di Pisa, e ora pubblicato dalla rivista Nuova Antologia (Fondazione Spadolini - Edizioni Polistampa) a cura di Elio Providenti, noto studioso pirandelliano e per quasi trent'anni, dal 1964 al 1993, direttore del Servizio Biblioteca e Archivio del Quirinale.

Gentile aveva contestato formalmente allo scrittore e drammaturgo (che vincerà il Nobel nel 1934) ripetute assenze dalla cattedra di stilistica del Magistero a causa dei suoi impegni artistici nei teatri. E Pirandello per difendersi chiedeva all'amico di testimoniare in suo favore in sede disciplinare: «Caro Porena, vedrai che, tranne qualche breve assenza per malattia... e tranne una breve gita a Milano per il mio Enrico IV (per cui andai personalmente a chieder licenza a S. E. Anile, e di qui le ire del signor Gentile, che pretendeva che mi recassi da lui!), gita, del resto, che non mi fece perdere che due soli giorni di lezione; togliendo le vacanze di cui abbiamo tutti goduto per Natale, Pasqua, ecc., e tenendo conto che i miei giorni di scuola nella settimana sono soltanto due, il mercoledì e il venerdì; vedrai, dicevo, che io ho fatto regolarmente come gli altri le mie lezioni, che finora sono sessantadue o sessantatré e che saranno circa una settantina a fin d'anno. Ti dico questo per la verità. E te ne do la prova nel mio registro. So la tua amicizia per me e conosco la tua coscienza». Poi l'attacco diretto al filosofo maestro dell'idealismo: «Credi, caro Porena, che il signor Gentile è mosso contro me da un laido rancore. Ma tu regolati come la tua coscienza ti detta. Comunica, se vuoi, questa lettera agli altri nostri Colleghi, e credimi sempre, con l'antico fraterno affetto tuo Luigi Pirandello».

Nel finale della lettera però il drammaturgo pare preda dello sconforto. Spiega in un post scriptum: «Domanderò a fin d'anno, non so ancora se l'aspettativa per motivi di salute, o addirittura il riposo. Ma non vorrei che paresse per paura del signor Gentile - precisava -. Nella mia coscienza, a cui puoi credere, non ho nulla da temere di nessuno. Non ho fatto assenze che non siano state giustificate da motivi di salute o da licenza avutane da S. E. il Ministro. Nessuna, nessuna per negligenza del mio officio d'insegnante».

In effetti dall'anno a seguire si dedicò sempre di più al teatro sino a fondare fondò la Compagnia del Teatro d'Arte di Roma attiva dal 1925.

Alberto Riva per “il Venerdì di Repubblica” l'8 maggio 2022.

Alcune sono celebri e tragiche, come l'ultima che Virginia Woolf lasciò al marito Leonard prima di riempirsi le tasche di sassi e svanire nel fiume. «Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi». Altre sprigionano vita, come quella di Federico García Lorca a Juan Ramírez de Lucas, alias Juanito: «Smettila di disperarti. La disperazione è dei deboli e tu devi sempre ricordarti che sei un vero uomo». 

Comunque vada, lasciarsi non è uno scherzo, ma per lettera può essere un'arte e un sofisticato esercizio retorico. Lo rivela Come dirti addio. Cento lettere d'amore, da Saffo a García Lorca, golosa carrellata di splendori e miserie sentimentali curata dalla scrittrice Cristina Marconi per Neri Pozza.

Cento addii tra verità e letteratura (ci sono anche i congedi di ivago, Jacopo Ortis e Cyrano, tra gli altri), ma il bello è certamente frugare nei cassetti autentici. D'Annunzio con Barbara Leoni è didattico («sii cauta, nella vita») e si preoccupa dei posteri: «Ti sarò gratissimo se tu vorrai rimandarmi indietro tutte le mie lettere, invece di bruciarle». Non solo, le vuole in buono stato: «Compi con pazienza questo atto estremo e fa che mi giungano intatte». 

Verlaine con il giovane Rimbaud è disperatamente sardonico: «Vuoi che ti baci mentre muoio?». Mentre Frida Kahlo salutando Diego Rivera non rinuncia a una macabra ironia: «Questo è tutto, ora posso andare in pace a farmi tagliare a pezzettini». Richard Burton approfitta per somministrare a Liz Taylor una seduta di psicanalisi spiccia: «Non dimenticare mai le tue strane virtù. Non dimenticare che sotto quella vena sguaiata e turpiloquente c'è una raffinatissima SIGNORA puritana».

Napoleone, invece, accomiatandosi da Giuseppina scivola inevitabilmente nell'autocelebrazione: «La storia del mio regno sarà curiosa; visto sinora solo di profilo, mi mostrerò tutto intero». I poeti, quelli veri, puntano sulla sincerità, così Marguerite Duras quando decide di lasciarsi alle spalle il giovane amante più letterario che reale: «Dunque Yann, è finita. Ti amo ancora. Farò di tutto per dimenticarti, spero di riuscirci». 

E Leonard Cohen, nel 2016, saluta per sempre Marianne che sta per morire, con l'umiltà dei sapienti: «Sono pochi passi dietro di te ma abbastanza vicino da stringerti la mano». Qualche mese dopo l'avrebbe raggiunta.

Alessandra Quattrocchi per “il Venerdì di Repubblica” il 6 luglio 2022.

Passioni amorose di genere vario, debiti, aneddoti, alcolismo, primadonnismo, lacrime e gossip distribuiti su tre secoli in Epistolario altrui (Bompiani) di Masolino D'Amico. Un florilegio nato dalla ricca biblioteca del critico e dai tempi morti del lockdown: «Mi sono accorto che avevo tante collezioni di lettere; mi piacciono quelle significative che tracciano un ritratto. Avevo in testa tre o quattro persone che sono i lettori ideali di queste lettere e so che si divertirebbero». 

Da Napoli John Keats, certo di morire presto di tisi, piange per la fidanzata Fanny Browne; Evelyn Waugh racconta con verve un esilarante episodio di guerra; Lord Byron riporta le sue indiscrezioni veneziane con l'amante Marianna; Dylan Thomas chiede soldi alla principessa Caetani; Norman Mailer si dichiara «vuoto, logoro, piatto, annoiato, strizzato come uno strofinaccio»; Dirk Bogarde si giustifica con Joseph Losey per aver accettato Morte a Venezia di Visconti e scrive che Mastroianni «sapeva di non essere adatto» e comunque «ODIAVA il film».

Molte lettere sono legate a paesaggi italiani, ritradotte tutte dall'inglese. Un librino, un divertissement: D'Amico lo racconta in ambientazione molto adatta, dalla terrazza della Casa del Cinema a Roma.

Se la raccolta è anche un po' autobiografica, è perché certo l'anglista non ha mai conosciuto Samuel Johnson o George Bernard Shaw, ma li ha studiati tutta la vita, e per lavoro proprio e frequentazioni di famiglia ha costeggiato tutto il grande teatro e cinema italiano. 

Per esempio, ci sono le lettere disperate di John Gielgud quando, nel 1961, il mirabile attore inglese è costretto a passare qualche giorno in Toscana con Franco Zeffirelli. Spiega D'Amico: «Zeffirelli aveva debuttato all'Old Vic con un Romeo e Giulietta di grandissimo successo, e Gielgud si affidò al giovane genio per mettere in scena a Stratford l'Otello, che non aveva mai osato affrontare».

Ma ecco come Gielgud descrive l'atmosfera di Castiglioncello: «Orridi letti duri, stanze vuote, poca acqua calda, scogli puntuti da cui fare il bagno, tempeste, pazze spedizioni nell'auto di Franco, Joan Sutherland e un entourage di sei persone... una folle gita a Spoleto per vedere i balletti di Robbins, e Franco è partito così tardi che siamo arrivati quando erano appena finiti!».

Un'Italia da Dolce Vita, ma l'esperimento in teatro poi andò male: «Al solito» dice D'Amico «Zeffirelli lasciava che gli attori facessero quello che volevano e costruiva una cornice, con scenografie complicatissime che a Stratford non sapevano montare, mentre Gielgud aveva bisogno di essere protetto; la prima fu disastrosa. Mi diverte perché mia madre a quella prima ci andò...». 

Suso Cecchi d'Amico, sceneggiatrice di capolavori, plana anche in una lettera di Visconti, e qui il ricordo di D'Amico non è mediato: «Luchino aveva preso le distanze dall'edizione statunitense del Gattopardo, perché avevano completamente stravolto il film cambiando il doppiaggio e rimontando alcune scene.

Al debutto a New York, lui e mia madre uscirono a metà film. Poi Visconti venne a sapere che in Inghilterra stavano proiettando proprio quella versione, e a Londra lui ci teneva. Telefonò in emergenza a casa nostra, c'ero solo io e mi disse: "vieni qui subito, dobbiamo scrivere una lettera al Times". Andai, la scrivemmo, col mio inglese di allora. Cinquant' anni dopo l'ho trovata nell'archivio del Times, oggi è tutto online...».

C'è anche la serissima, preoccupata missiva di Elia Kazan al direttivo dell'Actor's Studio, la celebre scuola di Lee Strasberg che insegnava l'esigenza di introdursi nella psicologia del personaggio, totem di tanto cinema americano. 

Lettera del 1987: il regista di Fronte del Porto e Gli ultimi fuochi, rientrato a guidare la scuola, scopre con orrore l'impreparazione dei giovani allievi nell'Abc della scena: «Tutta la nostra gente manca di addestramento... abbiamo trascurato molte delle zone più importanti del talento di un attore per la nostra preoccupazione per la psiche... Una conseguenza fu che alcuni dei nostri attori parlavano bene ma spesso non producevano niente di più che una posa psicologica con occhi vitrei».

Un altro filo conduttore: i ritratti di tanti scrittori inglesi, di un'epoca distante senza telefoni: «In Inghilterra si scriveva molto, in tutto l'Ottocento e anche prima; la posta era efficiente, a Londra le lettere arrivavano subito, e poi le conservavano, con la loro carta pesante e la bella grafia» continua D'Amico.

«Meravigliosa è la lettera con cui Oscar Wilde, esiliato a Parigi dopo la condanna per sodomia, scrive per congratularsi del matrimonio dell'amica Frances Forber-Robertson. Un uomo distrutto che tira fuori quell'allegria triste... Straordinario Jonathan Swift che racconta di aver aiutato a negare la grazia a un uomo condannato per stupro. Il sottosegretario era disposto a salvarlo, in base al vecchio concetto che una donna non può essere violentata... Cosa? Una donna dev'essere violentata perché è una puttana? E lo fece impiccare, ma che modernità: nel 1711!».

E ancora: Lady Montague da Brescia racconta in dettaglio alla figlia di come abbia sedato un italico marito furioso perché aveva scoperto la moglie a letto con un altro (1753). E poi c'è Lewis Carroll che scrive a Gertrude Chataway, una delle bimbette di cui era invaghito, della bocca che gli faceva male per aver «dato troppi baci», eppure gliene doveva «ancora centottanta»: letterina deliziosa quanto ambigua dell'autore di Alice, che «per vent'anni ha fotografato queste bambine nelle sue stanze a Oxford, e diventava una belva se qualcuno insinuava che ci fosse qualcosa di improprio; era completamente scisso fra l'amore per le bimbe e il suo profondo moralismo vittoriano» commenta D'Amico.

Nel libro ogni lettera è preceduta da una premessa di contesto: «ma sono rimasto fedele al mio principio di fare introduzioni e note più brevi possibili». Maldicenze, segreti: «Il gioco è spiare a casa di qualcuno; è come ascoltare le chiacchiere di amici». Ma con la coscienza a posto: sono, in fondo, tutti passati a miglior vita. 

·        L’Artistocrazia.

Antonio Riello per Dagospia il 23 giugno 2022.

ARTISTOCRAZIA. Per ottenere questa specie di status molte persone, già traboccanti di fama e successo, si intestardiscono a dipingere, esporre (e tentare di vendere) i propri quadri. 

La pittura come hobby non è certo una novità. Un tempo si usava da parte degli addetti ai lavori, non senza  un certa ombra di disprezzo, l'espressione "pittori della domenica". I risultati naturalmente potevano essere più o meno di qualità, ma rimaneva comunque un passatempo abbastanza innocuo. 

Il dipingere era pensato come una terapia rilassante, una virtuosa distrazione. Tra chi praticava questo svago ci sono stati anche statisti di rilievo. Il più noto e prolifico è stato senz'altro Winston Churchill. Ai nostri giorni Charles Mountbatten-Windsor (noto ai più come Principe di Galles), nel suo piccolo e con regale discrezione, non trascura di trastullarsi con acquerelli e matite.

Tale Valentina Matvienko, presidente della Camera Alta del parlamento della Federazione Russa, invece non risparmia ai suoi compatrioti (che notoriamente di problemi ne hanno già tanti) la vista dei suoi imbarazzanti dipinti ad olio. 

Il caso Hitler, spesso citato, è in realtà completamente diverso: il soggetto si considerava un artista vero e proprio che si era prestato (a suo dire, quasi controvoglia) alla politica. Sebbene la sua personale produzione grafico-pittorica fosse piuttosto scadente una speciale ossessione per le Arti e l'Architettura accompagnò sempre la criminale attività del capo del Nazismo. 

Che piaccia o no, si trattava di qualcosa simile ad "un artista al potere". O meglio, era la storia di uno che (abusivamente) si riteneva tale. Va aggiunto che in effetti il suo invasato narcisismo-istrionico-oratorio richiama talvolta (non nei contenuti per fortuna...) le intemperanze di maniera di certi performer tardo-moderni. 

Anche in Italia abbiamo avuto politici "di razza" dediti amatorialmente ai pennelli e all' acquaragia.  Amintore Fanfani dipingeva e gli era riconosciuto anche un pizzico di talento. Anche il discusso Ottaviano Del Turco (una delle anime socialiste della CGIL) non trascurava le Belle Arti.

La novità è che c'è una trasversale tendenza: in parecchi personaggi, già comunque di successo, si è fatta strada l'idea che essere considerati "artisti professionisti" sia molto chic. L'obbiettivo è agguantare uno status speciale che sembra essere diventato assai di moda. La fama già acquisita nei rispettivi campi (musica, cinema, etc. etc.) non basta più.

Ma neanche la tradizionale ricetta/scorciatoia di far parte dell'elitaria schiatta dei collezionisti e sostenitori è ormai sufficiente: l'Arte Contemporanea adesso la devi fare, esporre e vendere. Si tratta di appropriarsi di un'identità artistica a tutto tondo. Si aspira a vedere la propria faccia pubblicata sugli inviti di qualche bel museo.

 E' noto ai più, ma evidentemente non a questi aspiranti-artisti, che chi campa in pratica di questa professione, in dati momenti, finisce di certo per anelare a mestieri più sicuri, affidabili e "normali". E comunque, almeno, conosce bene a memoria i versi di Lorenzo da Ponte tratti da Le Nozze di Figaro:...."molto onor poco contante". 

Il mica-tanto-misterioso pittore RHED al secolo altri non è che Rocco Ritchie, figlio di Madonna e Guy Ritchie. Durante la settimana di Frieze 2021 a Londra ha fatto una grande mostra/party dove i suoi olii sono andati (quasi) a ruba a prezzi assurdi.

Qualche critico d'arte come Mervyn Davies non l'ha nemmeno trattato tanto male. Altri sono stati ferocemente più diretti: "i suoi pastrocchi sono roba adolescenziale" e via così (o peggio). Rimane il fatto che l'ingresso all'inaugurazione era piuttosto esclusivo ed affollato (forse avrà utilizzato l'ufficio stampa della madre....). L'importante, qualcuno ha detto, è che lui si senta finalmente un artista. Chissà se anche il tradizionale viatico bohémienne fatto di incertezza, ristrettezze e delusioni è incluso nel pacchetto?

Bob Dylan (Sì, lui) confeziona opere (dipinti, disegni e sculture in ferro) in continuazione e organizza delle mostre. Chi lo conosce bene sostiene sia da tempo questo un suo primario interesse. Ha realizzato perfino un cancello in ferro battuto per un casinò nel Maryland. 

Si ispira principalmente al Far West Americano (accidenti! molto originale....) La cosa grave è che l'usualmente esclusivo (forse il colorito termine gergale "cagacazzi" è qui più adatto) Chateau La Coste, in Provenza, espone una sua ingombrante scultura all'aperto e anche dei dipinti (posti, per non sbagliare, vicino a quelli di Matisse e Chagall).

Un caso bizzarro è quello dell'attore irlandese Aidan Turner (la star di Poldark e di Hobbit) che ingaggiato per la serie televisiva su Leonardo da Vinci si è talmente immedesimato nella parte da diventare un instancabile (e mancino) pittore. Però astratto, in questo caso. E' solo all'inizio della sua carriera artistica....Vedremo se incontrerà il suo mecenate, quello della svolta. 

Non deve mancare naturalmente l'arte al femminile. In Italia abbiamo la leggendaria Romina Power che dopo i noti trascorsi canori nazional-popolari si è data alla pittura. Da anni si destreggia con una pittura "etnico-naif" e la espone instancabilmente. Da persona intelligente e sensibile quale è c'è da sperare che dia il giusto rilievo a questa sua attività. Anche la cantante Canadese Joni Mitchell comunque non scherza, si definisce "una pittrice mancata a causa delle circostanze).

Ronnie Wood (Sì, Rolling Stones) dipinge pure lui, ma almeno negli anni Sessanta ha frequentato l'Ealing Art College. Si qualifica tranquillamente come pittore da diversi anni. In realtà ha un certo grado di autoironia che lo rende in fondo accettabile. Ha esposto nel 2020 alla Ashridge House Gallery, dove tutto era inevitabilmente in vendita. 

 Tra le opere un curioso remake del quadro di Eugéne Delacroix, "Giacobbe che combatte contro l'Angelo del Signore" dove Keith Richards and Mike Jagger combattono per il possesso di una chitarra. La Bibbia secondo i Rolling Stones, altro che trasgressione....

Stephen Hough, considerato dal Times "uno dei grandi pianisti di questo tempo" ama dipingere ed esporre. Per fortuna anche lui non si dà troppe arie, parla delle sue composizioni astratte come se fossero delle semplici decorazioni. Quotazioni ragionevolmente contenute.

John Taylor, il bassista dei Duran Duran, espone a Ibiza una serie di quadri post pandemici assieme a Nick Rhodes (il tastierista del gruppo). Massiccia e mondanissima inaugurazione. Sempre tutto rigorosamente in vendita. Confessano pubblicamente che l'arte è la loro vera passione. Buone notizie in fondo: tutti quelli che segretamente, da una vita, strimpellano qualche strumento potrebbero avere assicurato, per ragioni di pura simmetria cosmica, un luminoso futuro musicale.

Criticare e/o sbeffeggiare questi fenomeni del mondo dello spettacolo viene naturale ed è ovviamente fin troppo facile.  Certamente meno evidente è che, per un buffo scherzo del destino, questo momento potrebbe essere proprio quello giusto per provare a sdoganare le smanie artistiche di attori e pop star. Siamo, in realtà, di fronte ad un interessante paradosso.

Nell'Arte Contemporanea (quella vera e seriamente "impegnata") si sta prepotentemente affermando una tendenza curatoriale (vedi ad esempio nella quindicesima edizione di DOCUMENTA appena inaugurata a Kassel) che tende a deprofessionalizzare il ruolo dell'artista. In altre parole si considerano legittimamente attivi nel ruolo artistico soggetti che anche solo estemporaneamente (per ragioni politiche, geografiche, etniche, di razza/genere o anche semplicemente accidentali) hanno contribuito alla creazione di processi o eventi artistici. 

Tutti possono impersonare il ruolo dell'artista. Le relazioni sociali e umane diventano un ingrediente artistico più rilevante della capacità tecnica (e in generale anche di quella inventiva). Giusto o sbagliato che sia, nell'influente ambito delle teorie artistiche postcoloniali, questo atteggiamento è un elemento concreto e già debitamente affermato. Tra le sue tante possibili (ed imprevedibili) conseguenze nulla va, giustamente, escluso.