Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA CULTURA

ED I MEDIA

SECONDA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Scienza è un’opinione.

L’Anti-Scienza.

Alle origini della Vita.

L’Intelligenza Artificiale.

I Benefattori dell’Umanità.

Al di là della Luna.

Viaggiare nello Spazio.

Gli Ufo.

La Rivoluzione Digitale.

I Radioamatori.

Gli Hackers.

Catfishing: la Truffa.

La Matematica.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Libero Arbitrio.

Il Cervello Allenato.

Il Cervello Malato.

La Sindrome dell'Avana.

Le Onde Celebrali.

Gli impianti.

La disnomia.

La nomofobia.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Geni.

Il Merito.

Ignoranti e Disoccupati.

Laureate e Disoccupate.

Il Docente Lavoratore.

Decenza e Decoro a Scuola.

Una scuola “sgarrupata”.

Gli speculatori: il caro-locazione.

Discriminazione di genere.

La Scuola Comunista.

La scuola di Maria Montessori.

Concorso scuola truccato.

Concorsi truccati all’università.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tutti figli di…Neanderthal (nord) e Sapiens (Sud).

Come si usano.

Sapete che…?

Epifania e Befana.

Il Carnevale.

Gioventù del cazzo.

Gli Hikikomori. 

La Vecchiaia è una carogna…

Gemelli diversi.

L’Ignoranza.

La Rimembranza.

La Nostalgia.

Gli Amici.

La Fiducia.

Il Sesso.

Il Nome.

Le Icone.

Il Linguaggio.

La Fobia.

Il Tatuaggio.

Il Limbo.

Il Potere nel Telecomando.

Gli incontri casuali di svolta.

I Fantozzi.

Ho sempre ragione.

Il Narcisismo.

I Sosia.

L’Invidia.

L’Odio.

Il Ghosting: interruzione dei rapporti.

Gli Insulti.

La Speranza.

Il Dialogo.

Il Silenzio.

I Bugiardi.

Gli stolti.

I Tirchi.

Altruismo.

I Neologismi.

Gli Snob.

I Radical Chic.

Il Pensiero Unico.

La Cancel Culture.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

La P2 Culturale.

L’Utopia.

Il Cinema di Sinistra prezzolato.

Il Consenso.

I Negazionismi.

I Ribelli.

Geni incompresi.

Il Podcast.

Il Plagio.

Ladri di Cultura.

Il Mecenatismo.

I Beni culturali.

Il Futurismo.

I Bronzi di Riace e di San Casciano dei Bagni.

I Faraoni.

La Pittura.

Il Restauro.

Il Collezionismo.

La Moda.

Il Cappello.

Gli Orologi.

Le Case.

La Moto.

L’Auto.

L’emoticon.

I Fumetti.

I Manga.

I Giochi da Tavolo.

I Teatri.

Il direttore d’orchestra.

L’Arte in tv.

La Cultura Digitale.

Dalla cabina al selfie.

I Social.

La scienza, la cultura ed i social. I Divulgatori.

La Capitale della Cultura.

Oscar made in Italy.

I Balbuzienti.

Cultura Stupefacente.

I pseudo intellettuali.

Le lettere intellettuali.

L’Artistocrazia.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Achille Bonito Oliva.

Alberto Angela.

Aldo Busi.

Aldo Nove.

Alessandro Baricco.

Alessandro Manzoni.

Alfred Hitchcock.

Amy Sherald.

Andy Warhol.

Andrea Camilleri.

Andrea G. Pinketts.

Andrea Palladio.

Andrea Pazienza.

Annie Ernaux.

Antonella Boralevi.

Antonio Canova.

Antonio de Curtis in arte Totò.

Antonio Pennacchi.

Arturo Toscanini.

Banksy.

Barbara Alberti.

Billy Wilder.

Carlo Emilio Gadda.

Carlo Levi.

Carlo Linati.

Carmen Llera e Alberto Moravia.

Cesare Pavese.

Charles Baudelaire.

Charles Bokowski.

Charles M. Schulz.

Chiara Valerio.

Crocifisso Dentello.

Dacia Maraini.

David LaChapelle.

Dino Buzzati.

Donatello.

Elisa De Marco.

Emil Cioran.

Emilio Giannelli.

Emilio Lari.

Ennio Flaiano.

Ernest Hemingway.

Espérance Hakuzwimana. 

Eugenio Montale.

Eva Cantarella.

Ezra Pound.

Fabio Volo.

Federico Fellini.

Federico Palmaroli. 

Fernanda Pivano.

Francesca Alinovi.

Francesco Guicciardini.

Francesco Tullio Altan.

Francisco Umbral.

Franco Branciaroli.

Franco Cordelli.

Franz Peter Schubert.

Franz Kafka.

Fulvio Abbate.

Gabriel Garcia Marquez.

Gabriele d'Annunzio.

Georges Bataille.

George Orwell.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel.

Giacomo Leopardi.

Gian Paolo Serino.

Gian Piero Brunetta.

Giampiero Mughini.

Giordano Bruno Guerri.

Giorgio Forattini. 

Giorgio Manganelli.

Giovanni Ansaldo.

Giovanni Verga.

Giuseppe Pino.

Giuseppe Prezzolini.

Giuseppe Ungaretti.

Giuseppe Verdi.

Grazia Deledda.

Guido Gozzano.

Guido Harari.

Ian Fleming.

Ignazio Silone.

Indro Montanelli.

Italo Calvino.

Jane Austin.

John Le Carré.

John Williams.

José Saramago.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Lawrence d'Arabia.

Leonardo da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Leopoldo (Leo) Longanesi.

Luciano Bianciardi. 

Luchino Visconti.

Louis-Ferdinand Céline.

Marcel Proust.

Mariacristina Savoldi D’Urcei Bellavitis.

Marcello Marchesi.

Marco Giusti.

Mario Picchi e Aldo Palazzeschi.

Mario Praz.

Massimiliano Fuksas.

Maurizio Cattelan.

Maurizio de Giovanni.

Melissa P.: Melissa Panarello.

Michel Houellebecq.

Michela Murgia.

Michele Rech, in arte Zerocalcare.

Nietzsche.

Oliviero Toscani.

Oriana Fallaci.

Orson Welles.

Pablo Picasso.

Pier Paolo Pasolini.

Pietrangelo Buttafuoco.

Pietro Scarpa.

Renzo Piano.

Riccardo Muti. 

Richard Wagner.

Roberto Benigni.

Robert Byron.

Roberto Giacobbo.

Roberto Saviano.

Sacha Guitry.

Saint-John Perse.

Salvatore Quasimodo.

Sebastián Matta.

Sergio Leone.

Staino.

Stephen King.

Susanna Tamaro.

Sveva Casati Modignani.

Tiziano.

Truman Capote.

Umberto Boccioni.

Umberto Eco.

Valentino Garavani.

Vincent Van Gogh.

Virginia Woolf.

Vittorio Sgarbi.

Walt Disney.

Walt Whitman.

William Burroughs.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. La Distrazione di Massa: Propaganda e realtà.

La Sociologia Storica.

Il giornalismo d’inchiesta.

I Martiri.

Se questi son giornalisti...

Il Web e la Legione di Imbecilli.

Gli influencer.

Le Fallacie.

Le Fake News.

Il Nefasto Amazon.

I Censori.

Quello che c’è da sapere su Wikipedia.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

Gli Oscar comunisti.

Lo Streaming.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Pizzo di Stato.

Mediaset.

Il Corriere della Sera.

Il Gruppo Editoriale Gedi.

Primo: la Verità del Il Giornale.

Alberto Matano.

Alda D'Eusanio.

Aldo Cazzullo.

Alessandra De Stefano.

Alessandra Sardoni. 

Alessandro Giuli.

Andrea Scanzi.

Andrea Vianello.

Beppe Severgnini.

Bernardo Valli.

Bianca Berlinguer.

Bruno Longhi.

Bruno Vespa.

Camillo Langone.

Carlo De Benedetti.

Cecilia Sala.

Cesara Buonamici.

Claudio Cerasa.

Corrado Formigli.

Davìd Parenzo.

Diego Bianchi in arte Zoro.

Elisa Anzaldo.

Emilio Fede.

Ennio Simeone.

Enrico Mentana.

Enrico Varriale.

Enzo Biagi.

Ettore Mo.

Fabio Caressa.

Fabio Fazio.

Federica Sciarelli.

Filippo Ceccarelli.

Filippo Facci.

Fiorenza Sarzanini.

Franca Leosini.

Francesca Fagnani.

Francesco Giorgino.

Gennaro Sangiuliano.

Giacinto Pinto.

Gian Paolo Ormezzano.

Gianluigi Nuzzi.

Gianni Minà.

Giorgia Cardinaletti.

Giovanna Botteri.

Giovanni Floris.

Giovanni Minoli.

Giovanni Tizian.

Giuliano Ferrara.

Giuseppe Cruciani.

Guido Meda.

Ivan Zazzaroni.

Julian Assange.

Hoara Borselli.

Lamberto Sposini.

Laura Laurenzi.

Lilli Gruber.

Lina Sotis.

Lucio Caracciolo.

Luigi Contu.

Luisella Costamagna.

Marcello Foa.

Marco Damilano.

Marco Travaglio.

Maria Giovanna Maglie.

Marino Bartoletti.

Mario Calabresi.

Mario Giordano.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Massimo Gramellini.  

Maurizio Costanzo.

Michele Mirabella.

Michele Santoro.

Michele Serra.

Milo Infante.

Mimosa Martini.

Monica Setta.

Natalia Aspesi.

Nicola Porro.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo del Debbio.

Paolo Zaccagnini.

Pierluigi Pardo.

Roberto D'Agostino.

Roberto Napoletano.

Rula Jebreal.

Salvo Sottile.

Selvaggia Lucarelli.

Sigfrido Ranucci.

Tiziana Alla.

Tiziana Panella.

Vincenzo Mollica.

Vincenzo Palmesano.

Vittorio Feltri.

 

  

 

LA CULTURA ED I MEDIA

SECONDA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Tutti figli di…Neanderthal (nord) e Sapiens (Sud).

Il Neanderthal? Era un gourmet. Mangiava pure focacce con noci. Storia di Redazione su Il Giornale il 24 novembre 2022.

L'uomo di Neanderthal? Era un foodie. E mangiava anche pane e nutella, o almeno qualcosa di simile. Mette in discussione tutto quello che pensavamo di sapere a proposito della dieta del nostro antenato il ritrovamento avvenuto nella grotta di Shanidar, nell'Irak, a circa 800 chilometri a Nord di Baghdad, dimora dell'ominide che visse nel che visse nel Paleolitico medio, compreso tra i 200mila e i 40mila anni fa. Gli scavi, guidati da Chris Hunt, professore di paleoecologia culturale alla Liverpool John Moores University, hanno portato alla luce dei resti di cibo bruciati. Si tratta non soltanto degli alimenti più antichi su cui l'uomo contemporaneo abbia potuto mettere le mani (datano a circa 70mila anni fa) ma anche la dimostrazione che i Neanderthal non mangiavano soltanto carne di animali cruda o bacche, ma avevano un regime alimentare assai più complesso.

Lo studio dimostra che l'uomo di Neanderthal mangiava cibi elaborati, che prevedevano varie fasi di preparazione. «Abbiamo le prove che gli uomini del Paleolitico ammollavano e macinavano i semi», dice l'archeobotanico dell'Università di Liverpool Ceren Kabukcu. Hunt e i suoi colleghi hanno anche cercato di riprodurre una ricetta, usando semi raccolti nelle vicine grotte. Il risultato è una focaccia con un sapore di nocciola che fa pensare a un moderno pane e nutella. «Davvero molto appetibile», garantisce Hunt.

L'uomo di Neanderthal usava prodotti di origine vegetale come noci selvatiche ed erbe, spesso combinate con legumi, come lenticchie e senape selvatica. Contrariamente all'uso moderno però non decorticava i semi e li mangiava quindi amari, cosa che forse incontrava il suo gusto.

Neanderthal e Sapiens vissero assieme per almeno 1400 anni, poi cos’è successo? Eugenia Greco su L'Indipendente il 26 ottobre 2022.

Gli archeologi affermano che i Sapiens e i Neanderthal avrebbero convissuto in Europa per almeno 1400 anni durante il Paleolitico superiore iniziale, permettendo loro di influenzarsi a vicenda oltre che riprodursi. Sono stati infatti analizzati dei reperti di entrambi i gruppi in Francia e nel nord della Spagna, i quali hanno rivelato che gli Homo Sapiens erano presenti circa 42.500 anni fa mentre i Neanderthal 40mila anni fa, prima di scomparire 1000 anni dopo. Questo significa che le due specie avrebbero convissuto nella stessa area in un lasso di tempo durante il quale si sarebbero mescolate tra di loro.

Durante gli scavi in una decina di siti archeologici tra Francia e Spagna, gli archeologi hanno scoperto 38 manufatti attribuiti ai Neanderthal e 28 ai Sapiens i quali dimostrano che i primi sono apparsi per la prima volta tra 45.343 e 44.248 anni fa e sono scomparsi tra 39.894 e 39.798 anni fa. Quelli appartenenti ai Sapiens sono apparsi per la prima volta tra 42.653 e 42.269 anni fa, ed è così che è stato stabilito che i due gruppi hanno vissuto insieme da 1.400 a 2.900 anni, un periodo piuttosto lungo durante il quale si sarebbero influenzati, ad esempio copiandosi a vicenda alcune tecniche per la produzione di gioielli e utensili. Tutti i manufatti sono stati datati tramite l’utilizzo del radiocarbonio, tenendo però conto dell’escursione di Laschamp ovvero di quando, circa 41mila anni fa, avvenne una repentina inversione magnetica che alterò temporaneamente la quantità di carbonio-14 (radiocarbonio) presente nell’atmosfera e negli esseri viventi. Dalle ricerche sono emerse alcune somiglianze nei manufatti, dovute probabilmente a scambi culturali.

Ma poi cosa è successo ai Neanderthal? Le ipotesi sono tante. Una di queste afferma che nella loro estinzione avrebbero giocato un ruolo cruciale alcuni drastici cambiamenti climatici avvenuti in Europa circa 40mila anni fa, i quali avrebbero portato il susseguirsi di condizioni di freddo estremo e di siccità. La testimonianza di tali variazioni climatiche deriva dalle analisi delle stalagmiti, formazioni calcaree che emergono dal suolo delle grotte carsiche per la caduta continua di gocce d’acqua ricche di calcite. La loro formazione necessita infatti dell’infiltrazione di acqua piovana dall’esterno, e questo le rende una prova inconfutabile della presenza o assenza di pioggia. Nello specifico tali formazioni calcaree crescono in strati sottili, e ogni variazione di temperatura altera la loro composizione chimica. Pertanto gli strati conservano un archivio naturale della storia climatica di una determinata area, che può essere comprovata tramite le datazioni radiometriche.

Gli archeologi a sostegno della teoria climatica indicano una correlazione tra i periodi freddi e l’assenza di strumenti dei Neanderthal, e ritengono che i Sapiens siano riusciti a sopravvivere perché più capaci ad adattarsi all’ambiente. Pare infatti che i Neanderthal fossero sì abili cacciatori in grado di controllare il fuoco, ma dipendenti da una dieta poco variegata a base per lo più di carne, al contrario degli uomini moderni che avevano una dieta più ricca, fatta anche di pesce e vegetali. Durante i periodi rigidi quindi, le fonti alimentari dei Neanderthal iniziarono a scarseggiare e questo li rese più vulnerabili.

Un’altra ipotesi sulla loro scomparsa parla di una vera e propria invasione da parte dell’uomo moderno in concomitanza di una più avanzata tecnologia di caccia. Sembra infatti che le prime popolazioni Sapiens fossero dieci volte superiori alle popolazioni locali di Neanderthal e che, di conseguenza, di fronte alla maggioranza dei primi, la capacità di questi di competere per le stesse aree geografiche, per lo stanziamento e per la caccia, sia stata fortemente minata. Nello specifico emerge una superiorità nelle innovazioni tecnologiche e comportamentali, le quali permisero ai Sapiens di invadere e sopravvivere in popolazioni più numerose in tutto il continente europeo. Pertanto, di fronte a questo tipo di competizione, i Neanderthal si sarebbero inizialmente ritirati in regioni più marginali e meno fruttuose per poi cominciare a estinguersi, con molta probabilità anche a causa dell’improvviso deterioramento delle condizioni climatiche.

Un’altra spiegazione, secondo alcuni ricercatori, risiederebbe nella sopracitata escursione di Laschamp, ovvero un lasso di tempo di circa 2mila anni in cui il campo magnetico terreste subì un crollo improvviso comportando l’aumento delle radiazioni ultraviolette. Secondo questa teoria il mutamento del campo magnetico della Terra e una variante genetica di una proteina sensibile ai raggi UV, furono determinanti nella selezione degli ominidi. I Neanderthal sarebbero stati infatti diversi dai Sapiens per il recettore arilico (AhR), che li avrebbe resi più vulnerabili all’ondata delle radiazioni ultraviolette.

Infine c’è chi non esclude il diretto incontro con l’Homo Sapiens come possibile causa della sparizione del Neanderthal, in quanto il primo sarebbe stato portatore di malattie e infezioni che il sistema immunitario del secondo non sarebbe stato in grado di combattere. Un fenomeno analogo agli indiani d’America con i conquistadores. [di Eugenia Greco]

·        Come si usano.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 28 novembre 2022.

Da strane scale a oggetti come i porta-banane e il crea palle di neve, sembra che al giorno d'oggi ci sia un mercato per tutto. 

Bored Panda ha pubblicato un elenco di oggetti da tutto il mondo assolutamente inutili, tra cui un corrimano così piccolo da non avere alcuna utilità. 

Nel Regno Unito, una rampa per disabili conduce a una serie di scale, e ci chiediamo chi abbia dato il permesso di costruirla.

Una toilette pubblica negli Stati Uniti sembra essere stata costruita al contrario, dato che l'orinatoio si trova all'interno di un cubicolo ed il bagno è all'aperto. 

Ecco la classifica  degli oggetti più inutili:

Viene dagli Stati Uniti e garantisce che le vostre palle di neve siano sempre perfette. Naturalmente, mentre voi siete impegnati a farle, i vostri amici vi avranno già colpito ripetutamente da palle create con le mani. 

Per la persone che uccidono le piante d'appartamento: Questo Pet Rock, venduto nei negozi del Regno Unito e degli Stati Uniti, potrebbe essere il regalo di Natale perfetto.

Questa invenzione, progettata e utilizzata in Cina, serve a contenere la banana durante gli spostamenti. Nessuno ha detto all'inventore che le banane sono dotate di una propria "custodia"? 

Una marca cinese di acqua sostiene di essere adatta a chi è a dieta. Non sapevamo che l'acqua potesse essere più ipocalorica di quanto non lo fosse già.. 

Il corrimano più piccolo del mondo, negli Stati Uniti. Perfetto se non avete bisogno di andare oltre il primo gradino.

Questo cartello statunitense è piuttosto inutile perché indica qualcosa di abbastanza ovvio, ma in caso di dubbi: il marciapiede finisce dopo 6 metri! 

Costruzioni al contrario. Questo bagno pubblico negli Stati Uniti sembra pensare che gli uomini vogliano sedersi sul water in pubblico ma usare l'orinatoio in privato? 

Tristezza pelosa! Questa invenzione statunitense serve per "non dover mai più toccare i vostri animali domestici", il che ci porta a chiederci perché mai dovreste avere un animale domestico. 

Un cancello a scopo decorativo. Questo cancello, trovato nel Regno Unito, è il cancello più inutile che esista, dato che si può semplicemente camminare intorno ad esso. 

Questi sedili sugli autobus, visti nei Paesi Bassi, sono stati installati in modo da impedire ai passeggeri di sedersi.  

L'anguria più inutile di sempre? Questo coltivatore di angurie, negli Stati Uniti, deve essere rimasto deluso quando i suoi sforzi si sono rivelati piuttosto.. infruttuosi..

I 15 oggetti che abbiamo sempre usato nel modo sbagliato. Sono piccoli ma rivoluzionari trucchi che renderanno più semplici diverse azioni della nostra quotidianità. Da lavarsi i denti a mangiare un pacchetto di patatine senza sporcarsi. Cecilia Mussi su Il Corriere della Sera il 14 Novembre 2022.

I dettagli che fanno la differenza

Una linguetta da girare nel modo giusto, un bottone da spingere o da tirare, il verso corretto da utilizzare. A volte basta poco, pochissimo per utilizzare gli oggetti nel modo migliore e magari anche più semplice. Ma soprattutto per semplificarci la vita in modo significativo. Qui abbiamo raccolto un po' di consigli che forse non tutti conoscono, che speriamo vi possano essere utili. Per esempio, la linguetta della classica lattina di Coca Cola cela un piccolo segreto: girandola verso il foro, diventa un porta cannuccia. Una pratica soluzione senza il minimo sforzo.

Il sacchetto di patatine va accartocciato

Un altro trucco che potrebbe svoltare le nostre cene o gli aperitivi improvvisati. Prendiamo un sacchetto delle patatine: tutti lo apriamo e poi versiamo il contenuto in una ciotola, oppure «peschiamo» direttamente dal suo interno. Errore, perché se invece accartocciassimo il fondo del sacchetto, formeremmo una sorta di «porta patatine» da cui prenderle senza ungerci e senza il pericolo di farlo cadere.

Versare bevande dai contenitori senza disperderle

Il latte, il succo di frutta oppure anche l'acqua. Nei contenitori di Tetra Pack ora si trova di tutto. Ma sapete come si versa nel modo corretto per evitare di sporcarsi? Il beccuccio da cui esce il liquido deve stare nella parte alta della confezione, perché così l'aria non creerà quel fastidioso effetto «a cascata» per cui molto di quello che vorremmo bere alla fine andrà perduto. Provare per credere.

Come spremere il tubetto del dentifricio 

Utilizzare un oggetto nel modo giusto vuol dire anche non sprecarne il contenuto. Lo possiamo capire subito con il tubetto del dentifricio. Quando ne abbiamo consumato più di metà, molti tendono a ripiegarlo su se stesso per farne fuoriuscire il contenuto ma così però ne perdiamo un po'. Meglio quindi utilizzare una forcina o una molletta per chiudere i sacchetti: facendola scorrere partendo dalla parte finale del tubetto e risalendo verso l'ugello, avremo la certezza di non perdere neanche un po' di dentifricio.

Le forcine? Si usano al contrario

Come sbucciare la banana senza rovinarla

Il picciolo della banana serve per sbucciarla senza difficoltà ma siamo sicuri che sia così? Per evitare i filamenti che spesso si formano intorno al frutto sembra sia meglio sbucciarla partendo dalla parte inferiore.

L'aglio si pela senza mani

Lo sappiamo, l'aglio è uno degli ingredienti peggiori da usare in cucina, forse secondo solo alle cipolle. L'odore e il sapore che rilascia infatti è molto acre e può resistere per diverso tempo. Per evitarlo, si può partire dalla buccia: pelarlo senza contatto (e quindi senza avere le mani maleodoranti) si può. Basta inserire gli spicchi all'interno di un piccolo contenitore, coprirlo e scuoterlo. 

L'hamburger mangiato come professionisti

Vi piacciono gli hamburger? Allora dovete assolutamente conoscere questo trucco per mangiarli come veri professionisti (e per non sporcarvi come spesso succede, aggiungiamo). È molto semplice: prendete il panino e capovolgetelo. In questo modo la farcitura rimarrà ben ferma all'interno delle due fette di pane e riuscirete a mangiare tutto con più facilità.

Le caramelle si offrono in questo modo

Alzi la mano chi non ha mai perso una caramella mentre la offriva agli amici porgendola dal contenitore di plastica. Forse perché non sapeva, come tanti, che il modo corretto per farla uscire è utilizzare la linguetta che si trova proprio attaccata alla scatola. Ne verrà «pescata» sempre una e sarà più semplice afferrarla.

Il porta mestolo delle pentole

Come diciamo dall'inizio, sono spesso i dettagli a fare la differenza. Avete mai notato quel foro che si trova alla fine dei manici delle pentole? Non è lì per caso. Se per esempio state cucinando un sugo o la pasta, lì potete inserire un mestolo senza doverlo appoggiare a un altro piatto. Comodo, vero? 

Il mestolo per gli spaghetti che pesa la pasta

Rimaniamo sempre in cucina con questo altro particolare. Vedete questo mestolo per gli spaghetti, o insomma per qualsiasi formato di pasta lunga? Il foro che si trova nella parte centrale non serve solo per far fuoriuscire l'acqua in eccesso quando li dobbiamo scolare. Prima di buttarla in acqua, infatti, la possiamo dosare semplicemente riempiendo quel buco: sarà l'equivalente di una porzione.

Il verso giusto della carta igienica

Dalla cucina al bagno di casa, parliamo ora di carta igienica. Quante volte ci capita di strapparla male, con i bordi che si spezzano o facendola «srotolare»? Forse è perché la tiriamo dal lato sbagliato. Come si vede in questa immagine, infatti, il bordo deve essere rivolto verso l'esterno per facilitare lo strappo. In caso opposto, il rotolo rimane vicino al muro, che può essere sporco e inoltre non consente di strappare bene la carta.

I sacchetti del supermercato 

Se andare al supermercato vi crea stress provate a usare questo stratagemma per ordinare i sacchetti della spesa. Il bordo del seggiolino, infatti, ha dei ganci (sì, guardate bene), adatti proprio ai manici delle buste. Che lì si potranno agganciare senza alcun problema e rimarranno ben bloccati fino a quando non raggiungeremo la nostra macchina. 

La carta stagnola? Così rimarrà sempre al suo posto

Torniamo in cucina con la carta di alluminio, o carta stagnola. Il suo problema è che spesso si rompe e che altrettanto spesso non riusciamo a riporla nel contenitore in ordine. Come risolvere il problema? Anche qui è questione di dettagli: se guardate bene, sul bordo del contenitore c'è una parte tratteggiata da schiacciare. Così facendo il rotolo verrà bloccato e il foglio non si muoverà più.

·        Sapete che…?

L’imperatore romano Sponsiano è esistito davvero? Un nuovo studio dice di sì. Redazione Cultura su La Repubblica il 25 Novembre 2022.

La moneta di Sponsiano scoperta in Transilvania nel 1713

L'indagine di un gruppo di esperti britannici su alcune monete ritenute fino ad oggi false gettano luce sulla sua figura: quella di un comandante che nella lontana e turbolenta Dacia decise di proclamarsi leader

Nella lunga teoria degli imperatori romani che conosciamo, uomini alla guida di uno sterminato impero, o aspiranti tali, c’è stato finora un vuoto non riconosciuto? Lo sostiene un nuovo studio britannico, condotto da un team di studiosi dello University College di Londra e dell’Università di Glasgow, guidati da Paul N. Pearson, secondo il quale la figura di Sponsiano, condottiero militare e aspirante imperatore, sarebbe realmente esistita.

Samuele Finetti per il “Corriere della Sera” il 27 novembre 2022.

Il primo fu Augusto. L'ultimo Romolo Augustolo. In mezzo, lungo cinque secoli, si sono succeduti decine di imperatori, chi più e chi meno celebre. Ora, secondo un professore inglese, nella lista ne andrebbe incluso uno sino ad oggi sconosciuto, Sponsiano, la cui esistenza è stata rivelata da quattro monete coniate 1.800 anni fa. 

Paul Pearson insegna alla facoltà di Scienze naturali dell'University College di Londra, ma nel corso di una ricerca «laterale» si è imbattuto nella fotografia di una delle quattro monete ritrovate in Transilvania, in Romania, nel XVIII secolo (nel 1713, per l'esattezza). Su una faccia una effigie e un nome in latino, «Sponsianus», collocabile apparentemente in epoca romana.

Apparentemente perché, secondo gli esperti che l'esaminarono nei decenni successivi, non si trattava che di un falso. A esprimere il giudizio definitivo fu, nel 1863, Henry Cohen, a quell'epoca stimato numismatico della Biblioteca nazionale di Francia: «Ridicole copie», decretò, e le monete finirono in un vecchio armadio dell'Hunterian Museum di Glasgow. 

Lì le ha scovate Pearson, che ha voluto sottoporle a esami chimici e fisici per dimostrarne l'autenticità. Effettivamente le analisi hanno restituito risultati incoraggianti. I segni sulla superficie sarebbero compatibili con un reperto risalente al III secolo d.C., e pure le microscopiche formazioni di minerali sulle due facce sarebbero dovute al lungo periodo in cui le monete sono rimaste sottoterra senza entrare in contatto con l'ossigeno. Infine c'è il valore dell'oro da cui sono state ricavate: al prezzo attuale, 16.700 sterline (poco meno di 19.500 euro), «una spesa simile non compatibile con l'opera di un falsario», sostiene Pearson.

Tanto gli è bastato per affermare ai microfoni della Bbc che «abbiamo trovato un imperatore» e, di conseguenza, dare il la al dibattito tra gli storici, divisi tra chi appoggia la sua tesi e chi, invece, esprime un certo scetticismo (tra gli altri Richard Abdy, curatore della collezione di numismatica romana del British Museum, che ha bollato la ricostruzione come «pura fantasia»). 

«Anzitutto è necessario stabilire con certezza l'autenticità della moneta e verificare che il nome "Sponsianus" compaia nei database epigrafici», spiega Luciano Canfora, professore emerito di filologia greca e latina dell'Università di Bari. «A quel punto, si deve rispondere alla domanda più importante: qualunque usurpatore può essere definito "imperatore"?». 

Già, perché secondo Pearson, Sponsiano non sarebbe stato altro che un condottiero dell'allora Dacia, provincia del confine orientale dell'Impero, che si sarebbe autoproclamato imperatore attorno al 260 d.C. «Non sarebbe un caso isolato, specie in un periodo tra i più travagliati della storia dell'Impero, quello della cosiddetta "anarchia militare" - continua il professor Canfora - altri comandanti, alla testa anche di un numero esiguo di legioni, presero quel titolo. Ma sono considerati appunto degli usurpatori, niente di più».

Pearson però non ha dubbi: «Sono convinto che la nostra ricerca abbia stabilito con certezza che le monete, e la storia di Sponsiano, siano vere: la nostra interpretazione è che fu incaricato dalle popolazioni locali di mantenere il controllo militare di una regione allora circondata e isolata dal resto dell'Impero. E per garantire la stabilità economica di quel territorio fece coniare una moneta propria». Una decisione, quest' ultima, che accomunerebbe Sponsiano agli imperatori veri e propri: «Coniare una moneta è il primo gesto di potere», sottolinea il professor Canfora, che formula due ipotesi plausibili sull'«imperatore scomparso»: «O Sponsiano è un personaggio reale, che comunque andrebbe di molto ridimensionato. Oppure siamo dinanzi a un'invenzione fanciullesca, e allora ci faremmo delle risate».

Silvia Lambertucci da ansa.it il 25 novembre 2022.

I resti dei pasti che si consumavano sugli spalti, spesso e volentieri carni cotte al momento su improvvisati bracieri, insieme a qualche pizza e verdure, un po' di frutta. E poi le ossa degli animali feroci, orsi, leoni, leopardi ma anche cani, persino i bassotti, tutti costretti a combattere tra loro sull'arena oppure oggetto delle battute di caccia, le terribili venationes, che per tanti secoli hanno divertito il popolo romano, tanto quanto le lotte tra gladiatori. 

Il Parco del Colosseo presenta alla città i primi risultati di un progetto di ricerca sul sistema idraulico e sulle fogne dell'Anfiteatro Flavio e quello che ne viene fuori è anche una fotografia affascinante di tutto il contesto legato agli spettacoli di duemila anni fa. Con il giallo di una splendida e consunta monetina dorata, un sesterzio in oricalco coniato sotto l'imperatore Marco Aurelio che chissà come è finita anche lei nella fogna insieme a una cinquantina di monete più povere.

E il mistero ancora irrisolto delle naumachie, le battaglie navali a cui accennano le fonti antiche quando raccontano dei favolosi cento giorni di Ludi voluti da Tito per inaugurare il nuovo teatro - si era nell'80 d.C.- che chissà se si sono fatte davvero riempendo d'acqua l'enorme arena o se invece erano solo parodie di quelle più grandi che si svolgevano altrove. "E' presto per dirlo", ci spiega Federica Rinaldi, l'archeologa responsabile del Colosseo che ha coordinato le ricerche affidate agli speleologi di Roma Sotterranea in team con archeobotanici archeozoologi e l'architetto Fabio Fumagalli, "l'archeologia è una disciplina lenta, ora bisognerà mettere a sistema, integrandoli, i dati archeologici, anche quelli condotti sugli elevati murari degli ipogei, con quelli più specificatamente idraulici. Senza trascurare le fonti antiche, che da Marziale passando per Svetonio e Cassio Dione, non sono mai completamente esplicite".

    Tant'è, l'obiettivo di partenza di questo progetto tutto sotterraneo, spiega la direttrice del Parco Archeologico Alfonsina Russo, era capire meglio il funzionamento delle fogne antiche e dell'idraulica dell'Anfiteatro. Per ampliare le conoscenze storiche, certo, ma non solo. Perché c'è da risolvere un problema pratico che si trascina da tempo immemore, quello degli allagamenti dei sotterranei, sempre più frequenti e problematici adesso che il clima è cambiato e pure Roma è bersagliata da temporali che assomigliano alle bombe d'acqua dei monsoni. Un problema, come fa notare Barbara Nazzaro, responsabile tecnico del monumento, che da almeno due secoli impegna archeologi, ingegneri, esperti di idraulica. La speranza insomma, è che le scoperte arrivate da queste indagini possano aiutare a trovare la strada per risolvere l'assillo degli allagamenti, magari proprio partendo dal ripristino di una parte delle fogne antiche.

Che poi era quello che avrebbero voluto fare, ma non ci riuscirono, i grandi ingegneri dell'Ottocento. Cominciata a gennaio 2022 e conclusa in agosto - come precisa Martina Almonte, responsabile unico del procedimento (Rup) - l'indagine ha interessato in questa fase soprattutto il collettore Sud dell'anfiteatro, che era ostruito e fuori uso più o meno dal 523 d.C., quando il Colosseo ha smesso di essere un anfiteatro per poi essere usato nei modi più diversi, trasformandosi in una sorta di condominio e poi in una fortezza, ospitando un ospedale e persino una filanda con i suoi operai. 

    Mentre i marmi meravigliosi che lo ricoprivano andavano ad abbellire i grandi palazzi rinascimentali e barocchi e tanti degli enormi blocchi di travertino servivano a costruire altro, dal Palazzo della Cancelleria a Palazzo Farnese. Seppelliti sotto la terra che si accumulava mischiandosi alle macerie, gli antichi condotti vennero di fatto dimenticati. Ed è per questo che tutte le cose che soprattutto all'ultimo, intorno al VI secolo, erano finite in quella fogna sono rimaste intatte, 'congelate' per secoli in quel condotto dove l'acqua non scorreva più. 

Come il lucente sesterzio di Marco Aurelio, che l'archeologa Francesca Ceci, esperta di numismatica, ha studiato a lungo. Marco Aurelio regnò tra il 160 e il 180 d.C. Il sesterzio è stato emesso nel 170-171 per celebrare il decennale dell'imperatore filosofo che rinnovava i voti per chiedere agli dei altri dieci anni di regno felice. In pratica uno strumento di propaganda, volutamente coniato in oricalco perché doveva stupire con la sua lucentezza, tanto più che era normale per un imperatore ingraziarsi il popolo distribuendo soldi proprio durante i giochi. Ecco allora che si spiegherebbe come quel sesterzio del colore dell'oro è arrivato fino a noi: "Volando con la fantasia- ipotizza l'archeologa- possiamo immaginare le luccicanti monete lanciate sulla folla, e una di queste, la nostra, caduta nella sabbia dell'arena e poi spazzata via insieme al sangue di uomini e animali". Solo un'ipotesi, certo, ma suggestiva, quella del volo di una piccola moneta dalla folla alla fogna. Per raccontarci, più di 1500 anni dopo, il fascino e la follia di quei giochi e di quei giorni. (ANSA)

Da corriere.it il 22 novembre 2022.

Il pianeta Terra resta un posto non solo molto affollato (abbiamo appena superato la simbolica soglia degli 8 miliardi di esseri umani viventi) ma con una geografia sorprendente. A volte qualche fatto apparentemente assurdo, che a scuola non ci hanno insegnato, rispunta fuori sui social e diventa virale. È il caso ad esempio dell'unica isola che per 6 mesi appartiene a uno Stato e per i 6 mesi successivi a un altro Stato. Possibile? Sì e non è neppure troppo lontana da noi. Si chiama Isola dei Fagiani e i due Paesi che la gestiscono come fosse un appartamento in multiproprietà sono Francia e Spagna.

L'isola, un'isoletta fluviale nel Golfo di Biscaglia, come ci ricorda anche Wikipedia, è «il più piccolo territorio al mondo governato mediante un condominio». Dal 1º agosto al 31 gennaio il territorio è sotto il controllo della Francia, nella municipalità di Hendaye e gestito dal comandante della base navale dell'Adour e da due delegati, che si fanno chiamare - nientepopodimenoché - "viceré".  Dal 1º febbraio al 31 luglio di ogni anno l'isola dei Fagiani è sotto il dominio della Spagna, amministrativamente nel comune di Irun, che la esercita attraverso il comandante della base navale di Hondarribia. 

Da dove nasce il particolarissimo governo dell'Isola dei Fagiani? È amministrata in questo modo da quasi 4 secoli, più precisamente dal 1659, quando con la pace dei Pirenei venne stabilito il confine franco-spagnolo (ma l'assetto attuale di alternanza è Ottocentesco).

Sull'île des Faisans (come la chiamano i francesi) o Isla de los Faisanes (per gli spagnoli) non c'è nulla da vedere in verità. Neppure i fagiani. Cosa di cui si lamentò persino Victor Hugo, quando raccontò il suo passaggio da quelle parti nel libro "En voyage (tome II)": «Il n’y a pas de faisans dans l’île des Faisans, qui n’est qu’une façon de plateau vert. Une vache et trois canards représentent les faisans ; comparses loués sans doute pour faire ce rôle à la satisfaction des passants» (non ci sono fagiani sull'isola dei Fagiani, che è solo una sorta di pianoro verde. Una mucca e tre anatre rappresentano i fagiani; comparse ingaggiate, senza dubbio, per interpretare questo ruolo per la soddisfazione dei passanti).

L'isola dei Fagiani non l'unico posto della Terra che svetta per la sua unicità: a seguire ecco altri 11 luoghi da conoscere, se non di persona (per molti sarà davvero difficile) almeno attraverso Google Maps. 

L'Alaska agli italiani è nota per essere lo stato degli Usa più freddo, quello delle foreste e degli altri. Di Sarah Palin se siete appassionati di politica americana. E poco altro. Pochi sanno però che è anche lo stato più occidentale e allo stesso tempo più orientale degli Stati Uniti. Si spinge talmente ad occidente da arrivare, paradossalmente, all’emisfero orientale. 

Breve riassunto di geografia: il meridiano fondamentale è quello che funge da riferimento per la definizione della longitudine degli altri punti della superficie e a cui è assegnata la longitudine 0°. Per la Terra è il meridiano di Greenwich. Ora, immaginate la Terra come una palla con un elastico intorno ad essa, che passa dai due Poli e divide la Terra da nord a sud. Da una parte c'è il Meridiano "zero" (0° di longitudine), dalla parte opposta il 180° Meridiano. Insieme definiscono gli emisferi orientale e occidentale.

Bene, gli Stati Uniti cadono quasi completamente nell'emisfero occidentale. Fanno eccezione le Isole Aleutine dell'Alaska, che si allungano fino al bordo estremo dell'emisfero occidentale (l'isola Amatignak è il punto più occidentale degli Stati Uniti) ma poi sconfinano anche nell'emisfero orientale. Semisopochnoi è infatti un'isola che fa parte delle Rat, un gruppo delle Aleutine occidentali e appartiene ancora all'Alaska: occupa così la posizione più orientale del territorio negli Stati Uniti, a soli 23 minuti a ovest del 180º meridiano. Nell'emisfero orientale.  Per questo l'Alaska è lo stato più settentrionale, occidentale e orientale degli Stati Uniti. 

Il medio oriente è l'area nota per essere la culla delle più antiche civiltà stanziali. Qui c'è anche la città che può vantarsi di essere la più antica del mondo, o per lo meno quella che ospita essere umani, ininterrottamente, da circa 11 mila anni: è Damasco, capitale della martoriata Siria.

Come noto a tutti è l'Everest (8.848 m) la montagna più alta della Terra. Ma avessimo i muscoli di Superman e volessimo spiccare un balzo verso lo Spazio, ci converrebbe saltare da un'altra vetta.

Se infatti invece si prende in considerazione la distanza dal centro della Terra, il record di montagna più alta del mondo spetta al Chimborazo, una delle vette più celebri delle Ande, collocato in Ecuador, che raggiunge i 6.310 metri. Ma le altitudini sono calcolate, per convenzione, rispetto al livello del mare. Se invece le calcolassimo al centro della Terra alla vetta, il Chimborazo sarebbe alto 6.384,4 metri, mentre l'Everest si fermerebbe a 6.382,3 metri.  

Questo accade per il fenomeno dello schiacciamento della Terra, in corrispondenza dei poli, determinato dalla rotazione del nostro pianeta. Benché il Chimborazo sia 2.547 metri più basso dell'Everest (rispetto al livello del mare), la sua sommità (molto più vicina all'equatore) dista dal centro della Terra  più della cima himalayana. E quindi si protende verso lo spazio più dell'Everest: se Superman dovesse saltare verso un altro pianeta farebbe bene ad andare in Ecuador.

Restiamo a parlare di monti: la più lunga catena non è quella delle Ande, nonostante gli oltre 7.000 chilometri della celebre cordigliera. A vincere nettamente la sfida è la Dorsale Medio-Atlantica, che come una cicatrice segna a metà il fondale dell’oceano Atlantico. Si estende da poco a sud del Polo Nord fino all'Isola Bouvet, nell'oceano Atlantico a una latitudine di circa 20 gradi al di sotto del Sudafrica. La dorsale medio-atlantica è lunga circa 16.000 km ma fa parte di un sistema di creste e avvallamenti oceanici lungo circa 40.000 chilometri (dorsali oceaniche). È ben visibile in Islanda e in poche altre isole, i suoi punti di emersione. 

L'Antartide ospita quasi tutta l'acqua dolce del Pianeta: ben il 90% (circa) delle riserve d'acqua dolce della Terra è nella calotta glaciale antartica. Un "freezer" sterminato, che si estende per 14 milioni di km quadrati e ha un volume stimato di 30 milioni di km cubi di ghiaccio. Ecco perché dovremmo essere piuttosto preoccupati per le notizie che riguardano la fusione dei ghiacci antartici, dovuta al riscaldamento globale.

L'Italia ha molti, splendidi laghi. In Finlandia c'è la regione dei Mille laghi (sono di più, in verità). Ma c'è uno Stato che da solo vanta più laghi di tutti gli altri Paesi del mondo messi assieme: è il Canada. Lo stato del Nord America non solo è secondo più esteso della Terra (dopo la Russia) ma è per il 9% ricoperto da specchi d'acqua dolce e quelli con una superficie superiore ai 3 km quadrati sono addirittura più di 31 mila. 

Per qualche motivo dovete scappare dall'Italia e volete andare il più lontano possibile? Impostate il navigatore con rotta Isole Chatham. Si tratta di un arcipelago che si trova circa 800 km a est della Nuova Zelanda. La posizione delle Chatam è quasi perfettamente agli antipodi dell'Italia: se scegliete l'Isola di Sud-Est sarete sulla terra emersa più lontana dal Bel Paese, a circa 19.250 km da Roma.

C'è un'isola dentro un lago che è su un'isola dentro un lago, dentro un'isola. Detta così sembra uno scioglilingua tipo i trentini a Trento. Ma è proprio così, anche se confonde le idee peggio di un'inception da film di Nolan. Proviamo a spiegare. Il lago Taal sull'isola di Luzon, all'estremità settentrionale dell'arcipelago delle Filippine, ha una caratteristica unica. È uno dei soli due laghi al mondo, al momento, ad avere un'isola «di terzo ordine» al suo interno. In altre parole, il lago Taal (che si trova all'interno dell'isola di Luzon) ha al suo centro un'isola (Volcano Island) che ha un lago (Crater Lake), il quale lago contiene a sua volta una piccola isola chiamata Vulcan Point.

Una situazione quasi unica. 

L'altro caso, meno spettacolare guardando una mappa, è in Canada: qui, in una delle tante regioni lacustri di cui abbiamo già parlato, c'è un'altra (e molto più grande) isola senza nome all'interno di un piccolo lago, anch'esso senza nome, che è a sua volta circondato da un'isola leggermente più grande. Un'isola, a sua volta, all'interno di una serie di laghi a circa 90 chilometri dalla costa meridionale di Victoria Island. La potete guardare qui su Google Maps. 

La salsedine vi causa brutti sfoghi sulla pelle? Può provare ad andare nel punto terrestre più lontano dal mare: si trova nel deserto Dzoosotoyn Elisen nella regione dello Xinjiang in Cina (46° 17' N, 86° 40' E). Per raggiungere la spiaggia più vicina dovrete percorrere ben 2.645 chilometri (verso l'Oceano Indiano o in alternativa verso il mar Glaciale Artico). 

L'ideale opposto della località precedente è il punto marino più lontano da ogni terra emersa: viene chiamato anche Punto Nemo in onore del capitano del Nautilus creato da Jules Verne. Si trova nell'Oceano Pacifico (48° 53' S, 123° 24' O), a ben 2.688 chilometri dall'Isola Ducie nelle Isole Pitcairn, dall'Isola Siple nell'Antartide e da Motu Nui, isolotto nei pressi dell'Isola di Pasqua.

La città con il nome più lungo è Krung Thep Mahanakhon Amon Rattanakosin Mahinthara Yuthaya Mahadilok Phop Noppharat Ratchathani Burirom Udomratchaniwet Mahasathan Amon Piman Awatan Sathit Sakkathattiya Witsanukam Prasit. Per comodità tutti la conoscono con il suo "nickname": Bangkok. Difficile battere un nome composto da 21 parole (la traduzione della frase sopra è, più o meno: «La città degli angeli, la grande città, l'eterna città gioiello, la città inespugnabile del Dio Indra, la grande capitale del mondo dotata di nove gemme preziose, la città felice, ricca di un enorme palazzo reale che assomiglia alla dimora celeste dove regna il dio reincarnato, una città data da Indra e costruita da Vishnukarma»).

Se invece nella classifica volessimo includere solo i nomi composti da una singola parola vincerebbe la collina neozelandese Taumatawhakatangi­hangakoauauotamatea­turipukakapikimaunga­horonukupokaiwhen­uakitanatahu (85 lettere), parola maori che significa «La vetta dove Tamatea, l'uomo dalle grandi ginocchia, l'alpinista delle montagne, l'inghiottitore di terre che viaggiava, suonava il flauto nasale alla persona amata»

·        Epifania e Befana.

Caccia ai tre Re Magi. Antonio Rocca su La Repubblica il 6 Gennaio 2022. Viaggio nell’iconografia segreta dei sapienti venuti la notte di Epifania. Tra Pisano, Stefano da Verona, Gentile da Fabriano e i tarocchi. Tra gli evangelisti il solo a fornire informazioni sui magi fu Matteo, che descrisse l’arrivo a Gerusalemme di alcuni magi senza specificarne il numero, il nome o le caratteristiche fisiche. In realtà quasi tutto ciò che sappiamo di questi sapienti ci deriva dai vangeli apocrifi e dalla tradizione popolare che, nel corso dei secoli, ne ha definito il ruolo di re, ha elencato i doni e ha stabilito che Melchiorre abbia tratti europei, Gaspare orientali e Baldassarre sia invece nero. 

IL SIMBOLO PIÙ MISTERIOSO. Nella mirra portata dai Magi si incontrano amore e morte. Bruno Giurato su editorialedomani.it il 5 gennaio 2022. L’epifania non è uno stato di cose, è un evento. L’etimo (greco: epi-faino) segnala la ripetizione di una manifestazione. La manifestazione si ripete non in modo identico – sarebbe semplice compulsione – ma in un modo ogni volta diverso. Il Vangelo di Matteo parla di tre doni: oro, incenso, mirra. Quest’ultima sarebbe stata offerta proprio dal “Black magus”. L’oro sarebbe il simbolo della regalità, l’incenso di divinità, la mirra di morte. Nella narrazione dell’Epifania i simboli, in particolare quelli meno frequentati manifestano oscillazioni imprevedibili. Sono appunto contenitori di narrazioni non concordi, non stereotipate, non riducibili a formule. 

BRUNO GIURATO. Laurea in estetica. Ha scritto per Il Foglio, Il Giornale, Vanity Fair e altri. Ha lavorato a Linkiesta.it e al giornaleoff.it. Ha realizzato trasmissioni di cultura e geopolitica per La7 e Raidue. È anche musicista (chitarrista) e produttore di alcuni dischi di world music.

Epifania e Befana 2022, significato e curiosità del 6 gennaio. Chiara Barison su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2022. Una ricorrenza religiosa ma anche tradizione legata alla calza donata ai bambini da una vecchia signora che vola su una scopa. Anziana, rugosa, vestita di stracci, accompagnata da un gatto (preferibilmente nero) e il cui unico mezzo di trasporto è una scopa volante. Stiamo parlando di chi, se non della Befana? L’arrivo della vecchietta dai modi gentili, ma che a tratti incute timore, segna il momento più malinconico delle festività natalizie. Il 6 gennaio si celebra infatti l’Epifania (dal greco «manifestazione», «rivelazione improvvisa» riferita alla visita a Betlemme dei Re Magi in adorazione di Gesù): albero e addobbi scintillanti tornano negli scatoloni, mentre la maggior parte degli studenti italiani fa i conti con il rientro a scuola. Se è vero che non ha nulla da invidiare a Babbo Natale quanto a popolarità, è altrettanto vero che le sue origini restano misteriose e sconosciute.

Befana, dal culto della dea Diana

Secondo storici e antropologi l’antesignana di quella che oggi chiamiamo Befana è la dea Diana, divinità romana della natura selvaggia, della caccia, dei cicli lunari e delle coltivazioni che, armata di arco e frecce, frequentava i boschi in compagnia delle ninfe. Per sapere quando sarebbe passata la dea bisognava contare 12 giorni partendo dal 25 dicembre. La tradizione voleva che la divinità si manifestasse la dodicesima notte volando sui campi in compagnia di altre donne con l’obiettivo di rendere fertile la terra per le semine imminenti. L’avvento del cristianesimo però tenta di mettere fine al culto della dea Diana e dà inizio alla persecuzione delle donne considerate streghe. Il testo più antico in cui si possono trovare tracce della criminalizzazione del mito di Diana è il Canon Episcopi dell’abate Reginone di Prûm che fa riferimento a «talune scellerate donne, rivoltesi a seguire satana, credono e professano di cavalcare nelle ore notturne sopra certe bestie, insieme a Diana dea dei pagani» e invita a trattarle come delle «infedeli».

L’incontro con i Re Magi

Il cattolicesimo dà un’altra versione della leggenda legata alla Befana, narrando che si tratti di un’anziana signora in cui i Re Magi si imbattono mentre seguono la stella cometa che li guida verso Betlemme. Fermandosi a chiederle informazioni la esortano a unirsi a loro per fare visita alla grotta in cui nascerà Gesù. Lei declina l’invito ma si pente quasi subito: scende in strada con un carico di dolci da donare a tutti i bambini che incontra sul suo cammino proprio nella speranza che si tratti di Gesù. In cambio, i piccoli le donano scarpe e calze di cui potrebbe avere bisogno nel corso della sua traversata.

I suoi simboli: la scopa, la notte, il camino

Oltre alla calza piena di dolciumi o carbone, ci sono simboli legati alla leggenda della Befana altrettanto poetici, ma meno conosciuti. L’anziana viene infatti raffigurata a cavallo di una scopa di saggina che simboleggia l’atto di spazzare via le fatiche dell’anno appena trascorso in vista di quello nuovo. La notte e il buio rappresentano invece il lungo inverno in cui Madre Natura, ormai esausta dopo aver dispensato tutte le sue forze durante l’anno, si prepara a morire per rinascere in primavera. Posata la sua scopa in cima al tetto della casa, la Befana si cala poi all’interno delle abitazioni scivolando attraverso la canna fumaria. Il camino rappresenta la connessione tra i due mondi, il cielo (magico) e l’ambiente domestico (reale).

La Befana nel mondo

Non tutti i bambini del mondo nella notte tra il 5 e il 6 gennaio aspettano la Befana. Quelli spagnoli ad esempio aspettano i Re Magi, ai quali scrivono una letterina spiegando quali regali vorrebbero ricevere. La sera prima del Dìa de los Reyes Magos, puliscono le scarpe e le collocano in un punto della casa che sia ben visibile, cosicché i Magi capiscano a chi devono lasciare i doni. Inoltre, si preoccupano di mettere a disposizione acqua e cibo in modo che i tre astronomi e i loro cammelli possano rifocillarsi durante il viaggio tra una casa e l’altra. In Ungheria invece sono proprio i bambini che vanno di casa in casa vestiti da Re Magi e in cambio ricevono qualche spicciolo. Così come in Romania, dove i bambini girovagano per le abitazioni raccontando storie. In Francia si prepara la galette des rois, un dolce di pastasfoglia ripieno di crema alle mandorle all’interno del quale viene nascosta la fève (che può essere una mandorla o un cece, così come un piccolo oggetto prezioso o una statuina di porcellana) e chi la trova viene proclamato re per un giorno con tanto di corona dorata di cartone posata sulla testa. Anche in Germania il 6 gennaio rappresenta l’arrivo dei Magi a Betlemme ma da calendario non si tratta di un giorno festivo.

6 gennaio, arriva la Befana! La nonnina che si divide il cielo con Santa Claus. Emma Brancati su Il Quotidiano del Sud il 6 gennaio 2022.

E se provassimo a salire sulla scopa della Befana e a fare con lei il giro del mondo nella notte tra il 5 e il 6 di gennaio? Le sorprese non mancherebbero.

L’amata vecchina che si porta via tutte le feste e in Italia mette nella calza il carbone per i discoli o i dolcetti per i più meritevoli porta con sé riti e tradizioni. Basta fare anche solamente un giro sui vari siti internet e scoprire che la nonnina è attesa e festeggiata non ovunque e non allo stesso modo, però.

Si scopre così che in alcuni Paesi il 6 gennaio è ritenuto un festivo, mentre in altri coincide con un qualunque giorno lavorativo. In tal caso – che si tratti di Re Magi o di Befana – si resta a secco di doni. Non solo, Paese che vai tradizione che trovi perché le Befane non sono tutte le stesse.

Andiamo, ad esempio, dai cugini d’Oltralpe: in Francia, ai bambini in particolare per la Befana è riservato un dolce speciale che si chiama Galette des Rois. Al suo interno c’è una fava. Il motivo è presto detto: chi trova la fava diventa re o regina per un giorno.

Spostiamoci in Spagna, ai piccoli spagnoli più che attendere la Befana tocca attendere i Re Magi ed è per questo che si mettono tre bicchieri d’acqua all’uscio così che i loro cammelli possano dissetarsi.

In Islanda il 6 gennaio coincide con la festa del tredicesimo Babbo Natale – la conta inizia l’undici dicembre – che partecipa alla festa della Befana in compagnia di elfi e folletti. La magia è assicurata.

Si chiama, invece, Padre Gelo è protagonista del Natale Ortodosso che in Russia si festeggia proprio il 6 gennaio mentre alla vecchietta che lo accompagna è stato dato il nome di Babuschka.

Ancora, il 6 gennaio non è un giorno festivo nel Regno Unito, anche se la chiesa lo celebra ancora. Anche di là della Manica, troviamo un dolce dedicato. Si chiama Twelfth Night Cake e al suo interno ha un semino di fagiolo: come per le Galette des Rois chi lo trova sarà incoronato re o regina.

In Germania, il 6 gennaio è conosciuto con il nome: Heilige Drei Könige, Dreikönigsfest o Dreikönigstag e viene celebrato soprattutto nella chiesa cattolica ma è anche presente nel calendario della chiesa evangelica.

Nella maggior parte degli stati federati è un giorno lavorativo. Solo in tre di essi il 6 gennaio viene commemorato come il giorno della  venuta dei Re Magi e sulla porte delle case compaiono le lettere C + M + B + ad indicare i nomi di Magi o un’abbreviazione del latino Christus mansionem benedicat (Cristo benedica questa casa).

In America poi le calze si appendono al camino solo a Natale e a riempirle ci pensa Santa Claus e della Befana non vi è traccia.

La bellezza viene di notte. Ti so vecchietta, bruttina e con un senso profondo di giustizia. Antonio Staglianò su Il Quotidiano del Sud il 6 gennaio 2022.

Cara Befana, stavolta scrivo a te! anche tu sei frutto dell’immaginazione umana e sei diventata un tratto simpatico della nostra cultura popolare. Esisti così, come personaggio fantastico e non devi crucciarti troppo se sei un po’ bruttina e vecchia.

Si, lo so, assomigli a una strega, piuttosto che a una fatina. Fattene una ragione, perché rispetto al tuo omologo natalizio – l’anziano omone con le renne, chiamato Babbo Natale – , tu, a uno sguardo meno superficiale, manifesti una “grande bellezza”. Non ci credi? È la sacrosanta verità invece.

Certo, gli umani devono poter riconoscere la bellezza là dove splende, non rimanendo irretiti dalle apparenze effimere dello sfondo lussureggiante delle pubblicità che rendono “ciechi” per poter meglio consumare. In occasione del centenario della nascita di Dostoevskij sono tanti a ripetere (un po’ maldestramente) quella frase dell’Idiota: “la bellezza salverà il mondo”.

Leggendo il romanzo si sa che Ippolit (un giovane nichilista morente) domandò al principe (=l’Idiota), senza alcuna risposta: “è vero principe che un giorno voi diceste che la bellezza salverà il mondo?”. Il principe fece silenzio, come Gesù alla domanda di Pilato: “cosa è la verità?”. E Ippolit incalzò: “Si, ma quale bellezza?”.

Se i piccoli fossero educati alla “grande bellezza” (oh, scusa, mi pare giri un bel film di Paolo Sorrentino con questo titolo), magari potrebbero scoprire la tua. Con il nome che porti riesco a pensarti quasi fossi una persona vera: pare derivi dal greco Epifania.

Da Vescovo gioisco perché mi rimandi all’autentico Natale di Gesù. Non si capisce bene chi ti abbia immaginata per primo. Tante storielle raccontano del tuo casuale ritrovarti sui passi di quei Magi in cerca del Bambino di Betlemme. Alcuni raccontano che portasti proprio a Gesù la prima calza coi doni. Questa immaginazione ti rende in qualche modo “viva”: l’accetto, perché non ha la presunzione di confezionare un Natale senza Gesù bambino.

Ti confido l’amarezza di vedere come tutto si sia ridotto a “clima natalizio” o a “magia” di un Natale consumistico e falso- l’ha detto l’altro ieri papa Francesco. Natale dice che “qualcuno è nato per noi”. È la festa di Gesù e noi facciamo festa senza il festeggiato (don Tonino Bello). E qual sarebbe la bellezza del Natale, se si sono perduti totalmente i valori umani della solidarietà, della fraternità e della giustizia e ognuno pensa solo a sé stesso e ai regali che deve ricevere? Tu un po’ di giustizia la pratichi però: ecco la tua bellezza.

La tua figura non mente: ti so vecchietta, bruttina, su di una scopa volante e con un senso profondo di giustizia. Tu porti doni solo ai bambini che lo meritano. E per quelli che non lo meritano, non solo non porti doni, ma lasci il carbone come ammonimento per ravvedersi. Sei una “bella” vecchietta, perché rappresenti l’anno appena trascorso: è quindi come se l’esito del tuo viaggio notturno, nei primi giorni del nuovo anno, riveli il bilancio di come ci si è comportati.

Sai, mi affascina pensarti in volo di notte, tra i comignoli fumiganti dei caldi focolari. Tu con la tua scopetta di paglia, in compagnia delle silenziose stelle che, da buone amiche, ti confidano le complesse strade dei desideri umani. In fondo siamo “polvere di stelle”, noi esseri desideranti. Già il Leopardi qualche tempo fa cantava “… e quando miro in cielo arder le stelle; dico fra me pensando: a che tante facelle?” È anche questo che fanno le stelle: parlano con te, perché tu possa giudicare saggiamente e con giustizia i comportamenti, i sogni e le aspirazioni dei cuccioli dell’uomo. Potrai premiarli se sono buoni o eventualmente ammonirli, se reputi che siano stati dannosi per il loro progetto di vita. Tu “dai a ciascuno il suo”, per la giustizia. E ora ti chiedo, come e a partire da cosa tu giudichi “quale sia il suo di ciascuno”? A partire dalla legge morale che è dentro di te e in ciascuno di noi (I. Kant), senza però dimenticare il “cielo stellato sopra di noi” che tu giri in lungo e in largo con la tua scopa di paglia. Magari hai incontrato “Colui che scende dalle stelle” e si dirige alla grotta di Betlemme, dove hai intravisto direttamente quanta è bella la sua umanità. Anzi hai considerato che solo in quella umanità si trova davvero la grande bellezza. In quella umanità c’è tutto il sogno bello di Dio per ogni essere umano: un potenziale immenso di bellezza d’amore.

Ecco allora altri due motivi perché mi stai a genio: perché voli e perché lo fai ecologicamente, senza inquinare. Mi piace perché voli: d’altronde ogni uomo che coltiva bontà e bellezza di vita dovrebbe concepirsi sempre in volo, immerso nelle altezze del pensiero contemplativo, disponendo così di quella vista d’aquila che permette di mirare lontano e in profondità. E la tua umile scopetta di paglia, anche quella mi piace: mi ricorda che la povertà, l’essenzialità, permette all’uomo di librarsi in alto con libertà, senza far rumore e senza recare danni a nessuna cosa creata. Insomma sei ecosostenibile e carbonfree.

E sì cara Befana, anche se sei frutto di immaginazione, mi sei simpatica per la giustizia, la povertà – “vieni di notte, con le scarpe tutte rotte”, dice una nenia dedicata -, la libertà e l’altruismo che rappresenti.

Allora anche quest’anno immagino che tornerai a visitarci la notte tra il 5 ed il 6 Gennaio, nel giorno in cui la Chiesa celebra l’Epifania di Nostro Signore, cioè la manifestazione a tutti i popoli di Gesù salvatore. Tornerai a riempire secondo il tuo giudizio le calze che tutti i bambini ti faranno trovare appese o sul caminetto, o ai piedi del loro letto, o sulla porta di casa. Raggiungici cara Befana con i tuoi doni. Magari a te concederemo anche stavolta di offrirci doni più dimessi di quelli che a Natale i nostri piccoli avranno già ricevuto. Sola una cosa ti chiedo: diversamente da quello che l’omone con le renne ci ha educato ad attendere (diseducandoci l’anima alla voglia di “cose”, di regali costosi), magari io gradirei che ti fermassi a distribuire solo “dolcetti e caramelle” perché tutti i nostri bambini siano educati alle gioie semplici e senza pretese, ai sorrisi che non hanno prezzo e che fanno maturare il cuore. Perciò, vai da tutti e non solo da alcuni, come Gesù Bambino che è venuto per tutti, in particolare per i più poveri.

Vieni pure, dunque, cara Befana e rammenta a tutti noi, piccoli e grandi, il viaggio di quei Magi cercatori, anche loro confidenti di una stella: indicò loro il desiderio di tutta la creazione (e di tutti i tempi) di vedere il vero volto di Dio. Unisciti nel tuo viaggio a quei Magi e ai loro doni per il bambino Gesù: l’oro e l’incenso per compiacersi di quel bambino tutto buono e tre volte santo; la mirra per indicare il sacrificio necessario per la salvezza di tutti noi, talvolta così meritevoli di carbone perché imbruttiti dal nostro peccato, ma comunque sempre amati da Dio.

Ciao, cara Befana, magari riuscirò a vederti in volo, se nel cuore della notte mi ritroverò in preghiera a scorgere il cielo – per “riveder le stelle, bisogna togliersi fuori dall’inferno” (cfr. Dante Alighieri) -, chiedendo a Dio che, in Gesù, l’Amore si manifesti ancora per tutti e per ognuno, come l’unica luce per la mente e la vera pace per il cuore.

La scopa torna a volare con Bettino. LA BEFANA, ABOLITA DA ANDREOTTI IL POLITICO CRESCIUTO IN VATICANO, RIABILITATA DAL LEADER SOCIALISTA DOPO I PATTI CON LA CHIESA. Cleto Corposanto su Il Quotidiano del Sud il 6 gennaio 2022.

C’è la Befana e c’è la festa dell’Epifania. Le due cose coincidono nella data, che è quella tradizionale del 6 Gennaio. Ma ci sono alcune differenze. O, meglio, il discorso è un po’ più complesso.

L’origine dell’Epifania è antichissima: pare risalga addirittura al II secolo d.C. e serviva per ricordare il battesimo di Gesù. Era celebrata, sembra, dalla setta degli gnostici seguaci di Basilide, maestro religioso di origine greca e probabilmente fra i primi commentatori dei Vangeli. Questi credevano che l’incarnazione di Cristo fosse avvenuta al suo battesimo e non alla sua nascita.

In seguito, eliminati gli elementi gnostici, la Festa dell’Epifania fu adottata dalla Chiesa Cristiana Orientale. Solo verso il IV secolo l’Epifania  si diffuse in anche in Occidente, e fu quindi adottata anche dalla Chiesa di Roma nel V secolo. Da allora, l’Epifania è la festa cristiana  che celebra la rivelazione di Dio agli uomini nel suo Figlio, il Cristo ai Magi: il termine di origine greca “epiphàneia” significa  appunto “apparizione” o “rivelazione”.

a Befana, invece, pare abbia un’età molto più avanzata:  è vecchia di secoli e la sua origine, folkloristica e pagana, precede di molto la stessa affermazione del cristianesimo. Dipende quasi certamente anche da questo la curiosa mescolanza di elementi che ancora oggi la caratterizzano, pur se del tutto assimilata all’interno delle festività religiose. Non è facile neanche per gli studiosi risalire al momento esatto in cui è nata la tradizione folkloristica della Befana: qualcuno ipotizza di potersi spingere fino al X secolo a.C., ma la tesi è dibattuta e non paiono esserci fonti sufficienti per dirimere definitivamente la questione.

I ricercatori invece concordano nell’identificare il VI secolo a.C. come quello in cui la figura della Befana è  entrata stabilmente nei riti propiziatori pagani. All’epoca si trattava quasi certamente di un rito propiziatorio personificato dell’avvicendamento delle stagioni (e più in generale del ciclo di mutamento della stessa natura): in questa prospettiva, le feste in suo onore sarebbero quindi legate alla speranza che alla stagione fredda, l’inverno, potesse far seguito un raccolto abbondante.

Anche la stessa iconografia che la rappresenta come  una vecchia dalle vesti logore, andrebbe letta nella direzione appunto di un rito di passaggio fra differenti cicli naturali. In seguito, nell’antica Roma i riti pagani preesistenti furono inglobati a quelli dell’epoca, in una sorta di integrazione nel proprio pantheon politeista; spesso la Befana veniva anche identificata con  la dea Diana, e forse è nata in quel momento l’idea che volasse, con la scopa sui campi coltivati, in una sorta di atto benaugurante.

Oltre al 25 dicembre, quindi, data scelta come giorno di Natale pare dalla festa pagana del Sol Invictus, quando il sole vince sul giorno più lungo dell’anno, il solstizio d’inverno, era tradizione festeggiare 12 giorni dopo la dea Diana, dea dell’abbondanza e della cacciagione.  Dodici giorni dopo il solstizio d’inverno si celebrava la morte e la rinascita – l’Epifania, appunto – di Madre Natura.

Festeggiare l’Epifania, insomma, rientra a pieno titolo in quelle che i sociologi chiamano azioni macro-rituali, che hanno la precisa funzione di favorire la coesione interna e la continuità delle forme sociali collettive.

Émile Durkheim e Randall Collins si sono occupati a lungo dello studio dei rituali religiosi, arrivando a definire il rituale come una sorta di vera e propria batteria, in grado di produrre energia sociale. Secondo questa interpretazione, attraverso determinati rituali si verifica il passaggio tra l’essere in forma individuale e l’essere in forma collettiva e, appunto, colui il quale aderisce al rito diventa polo di questa batteria.

Il rito permette insomma la creazione di un “noi”, attraverso la fusione delle identità sociali che vanno a formare un’identità collettiva. Tale fusione risulta più o meno durevole a seconda delle modalità e della frequenza con cui il rituale viene riprodotto e consolidato nel tempo.

I rituali avrebbero quindi un ruolo importante sui singoli – e sui gruppi – in quanto favoriscono l’operazione di uscita dalla routine quotidiana per essere elevati al contatto con qualcosa di sacro che essi stessi contribuiscono a creare.

Il tutto permette ai membri del gruppo di sentirsi parte di una comunità morale con la conseguente trasformazione dei sentimenti individuali in collettivi. Ogni rito ha degli effetti: ricarica la forza e l’energia dei partecipanti mentre questi venerano i simboli del gruppo ed esaltano il legame che li unisce. Non è quindi forse un caso che la festa dell’Epifania – la Befana, nella sua duplice veste – sia diventata così popolare, soprattutto fra i più piccoli: richiama infatti la tradizione religiosa di Santa Lucia, che dispensava doni ai bambini prima della Befana, come faceva San Nicola prima dell’avvento di Babbo Natale. E non è un caso neanche che in Italia fu il fascismo, a partire dal 1928, a rinvigorire la festività della Befana intesa come un momento di attenzione alle classi più povere.

L’idea e l’organizzazione furono di  Augusto Turati, che sollecitò commercianti, industriali e agricoltori a dare risorse per i bambini più poveri. La gestione dell’evento fu curata dalle organizzazioni femminili e giovanili fasciste ed ebbe un successo straordinario, tanto da entrare nel modo di dire: il detto “befana fascista” rimase per molti anni anche dopo la guerra e le aziende continuarono per molti anni, sino ai giorni d’oggi, a prevedere pacchi-dono per i figli dei rispettivi dipendenti. Sino ad oggi ma con una parziale interruzione.

Nel 1977 una apposita legge, emanata il 5 Marzo, abolì una serie di festività previste nel calendario fino ad allora: erano anni di austerity per la crisi petrolifera, anni di domeniche a piedi per gli italiani quando il governo del cattolicissimo Giulio Andreotti abolì con un colpo di spugna Epifania  (forse anche per un legame proprio con il fascismo), San Giuseppe, Ascensione, Corpus Domini, Ss. Pietro e Paolo (ma non a Roma), mentre slittarono alla prima domenica di Giugno e alla prima di Novembre la celebrazione della Festa della Repubblica e quella dell’Unità. Austerity anche nel calendario, insomma. Ci furono cenni di rimostranze per tutte le cancellazioni, naturalmente; ma le critiche maggiori vennero proprio per l’abolizione della festa dell’Epifania, anche da parte della Santa Sede. L’allora Pontefice Paolo VI arrivò a dichiarare che “l’Epifania è più importante liturgicamente della Pasqua”, ed è rimasta famosa la battuta che il Premier avrebbe fatto al commesso Navarra: «Forse – chiosò Andreotti – aveva ragione Mussolini quando disse che governare gli italiani non è difficile: è inutile». 

Mugugni e proteste ufficiali andarono avanti per qualche anno; toccò quindi a Bettino Craxi, che nel frattempo era succeduto ad Andreotti nella carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, fare un passo indietro.

Nel 1985, il  governo Craxi  ripristinò la Befana, in  attuazione dell’intesa con la Santa Sede per i nuovi Patti Lateranensi. Un’assenza di sette anni come festività ufficiale sui calendari, insomma. Poi, appunto, il ritorno al colore rosso della festività, per il piacere dei più piccoli; e forse anche per un rituale, uno dei tanti, che serve a ciascuno di noi a figurarci e viverci come una comunità. 

L’attesa vana dei semprescalzi. Angelo Gaccione su Il Quotidiano del Sud il 6 gennaio 2022. Per Allegra… A casa sua non aspettavano alcuna Befana; in verità non l’aspettava quasi nessuno nel quartiere; sapevano per certo che da lì non sarebbe passata. Come avrebbe fatto, del resto, ad orientarsi in quell’intrico di vicoli tanto stretti, fra quei budelli così poco illuminati, in mezzo a quelle case sbilenche addossate le une alle altre, a restare in equilibrio su quell’acciottolato sconnesso? E potevano chiamarsi comignoli quei miseri mozziconi di malta sbrecciata, quei poveri tubi di lamiera arrugginiti che si alzavano sui tetti? Non era mai passata dai loro padri, non era mai passata dai loro nonni, e non sarebbe passata da loro. Non ricordava di aver mai visto un regalo tra le mani degli altri bambini del rione: erano poveri come lui e la Befana si teneva lontana da quartieri come il loro. Solo i ricchi sono buoni, e solo i ricchi ricevono regali, questo lo aveva imparato presto. Era vecchia dicevano gli adulti, una vecchia stanca e affaticata, e non possedeva gambe per andare dappertutto, giungere in tutte le case. Di vecchie stanche e oppresse dalla fatica ce n’erano in ogni casa, con le mani raggrinzite, le dita stortate, le gonne fino ai piedi, i fazzoletti neri fra i capelli. Le insultavano chiamandole brutte befane, ed era certo che la Befana fosse brutta e vecchia e non avrebbe mai potuto essere generosa.

“Questa notte passerà” annunciò sua madre cogliendo tutti di sorpresa una gelida sera di gennaio in cui la neve aveva spento ogni voce, attutito ogni rumore, seppellito sotto una spessa soffice coltre bianca, vicoli, slarghi, tetti, ballatoi, davanzali, tanto da rendere il paesaggio un’unica massa informe luccicante e immota. “La calza è già sospesa al ferro del camino” aggiunse, ed era vero. Una robusta calza di lana grezza che mani sapienti avevano lavorato ai ferri, pendeva vuota, sotto la misera cappa del focolare che il fumo aveva reso di un nero infernale. Aveva la sinuosa forma del piede e allungava verso l’alto il cilindro del gambale. Le anziane sferruzzavano in tutte le case, spesso scucendo e recuperando lana da vecchie maglie per farne calze, berretti, mutandoni, che i nipoti si passavano l’un l’altro.

Com’era possibile che proprio quell’anno la Befana sarebbe passata dal loro quartiere per giungere alla loro casa? E come avrebbe potuto una vecchia priva di forze muoversi con un pesante sacco sulle spalle in tutta quella neve in cui si sprofondava quasi fino al bacino? L’avrebbe riconosciuta sommersa da tanta neve? E perché sua madre era così sicura di quella visita? Cos’era accaduto di particolarmente straordinario perché si compisse il miracolo? Lui non ricordava nulla, e se c’era stata qualche buona azione non se ne aveva avuta notizia. Provava a pensarci ma non affiorava che qualche frammento sbiadito, qualche brandello evanescente.

“Se ha proprio deciso di passare, io la sorprenderò” disse fra sé, e si ripromise di restare sveglio tutta la notte, fino a quando non avesse sentito il chiavistello della porta sollevarsi. Perché dal loro comignolo la Befana non avrebbe giammai potuto calarsi, di questo era fin troppo certo.

Guadagnato il letto infilò la testa sotto un risvolto di coperta e finse di dormire. Restò immobile per un lasso di tempo che a lui parve interminabile e solo quando si accorse che la casa era piombata nell’oscurità e nel sonno, si tirò su e sbarrò gli occhi. Era buio pesto e non si distingueva neppure un’ombra. Non restava che mettersi in ascolto, disporsi ad una paziente e vigile attesa. Man mano che la notte avanzava il silenzio diveniva sempre più denso e più solido. Infine si era fatto così totale, che se un topo avesse osato uscire dal nascondiglio, l’eco del suo zampettare gli sarebbe arrivato nitido e preciso fino al giaciglio. Arrivò invece l’eco dei passi di sua madre, un eco che si era impresso dentro di lui da un tempo lontano e che vi risuonava. Un eco che avrebbe saputo riconoscere fra mille, in qualunque luogo e in qualunque tempo, ad occhi chiusi, al buio come ora, e come gli era poi accaduto nell’età adulta quando ogni innocenza muore.

Nella calza aveva trovato due mandarini, dei fichi cotti al forno intrecciati a crocetta, una noce, una manciata di lupini, due mele piccole e sode dalle guance rosse e gialle, dei mostaccioli a forma di pesce, di alberelli, di comete. Si vergognava di tanta abbondanza e non fece parola con nessuno, non rivelò nulla neppure ai compagni del quartiere. Non gli avrebbero creduto se avesse detto loro che era arrivata ed era stata generosa, lo avrebbero preso per un bugiardo. Preferì tenersi tutto per sé: come convincerli che la sua era stata una Befana giovane e bella?

“Passerà la Befana quest’anno, nonno?”

“La tua sì, la mia non più”. 

Desiderio di meraviglie. Sogni, cioccolato e la lettera a mio figlio nascosti nel fondo della calza. Domenico Dara su Il Quotidiano del Sud il 5 gennaio 2022. Figlio mio non immaginavi di trovare questa lettera stamattina in fondo alla calza nascosta dalle barrette di cioccolato e da una banconota di 20 euro.

Ma ogni tanto qualche sorpresa fa bene che ci dimentichiamo spesso del nostro bisogno di stupore.

Queste parole non esistevano ancora ieri sera quando ci siamo dati la buonanotte.

Sono nate stanotte all’improvviso che non riuscivo a dormire e sono venuto qui sul divano a fissare tra le luci intermittenti dell’albero di Natale le calze appese al mobile.

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Quand’ero bambino non sapendo ancora nulla di Numa Pompilio e della ninfa Egeria mi chiedevo perché non un cestino o un secchio ma proprio una calza con quella forma insolita stretta insidiosa che la mano deve far fatica ad arrivare fino in fondo che ero sempre convinto che qualche parte del dono rimanesse impigliato tra i fili della cucitura.

Una forma strana che definisce i tuoi desideri puoi volere tutto ciò che vuoi purché possa stare lì dentro e così da bambino nei giorni prima della festa cercavo nei cassetti la calza più grande che anche un paio di numeri in più sarebbero bastati a dilatare i desideri e non importava se tutte le calze fossero rammendate.

Poi non ricordo l’anno preciso quella festa cominciò a mettermi tristezza.

La Befana è un epilogo uno strascico viene sempre dopo è la porta che si chiude e io non volevo chiuderla e allora c’erano volte che avrei voluto dire a mia madre ti prego stanotte non appendiamo la calza ti prego stanotte non facciamolo non facciamo finire tutto questo ma non riuscivo a dirlo e così quando la preparavo la sera prima avrei voluto mettermi a piangere e lo facevo dopo ma attendevo aspettavo di andare nel mio letto e spegnere la luce ed essere solo.

Stanotte all’improvviso ho sentito tutto il peso di questa tristezza crollarmi addosso e mi sento come quella calza appesa e vuota e se scrivo a te proprio a te solo a te stanotte è perché tu un poco quella calza l’hai riempita ci hai infilato dentro una moneta l’hai impreziosita ma la calza continua a rimanere appesa desolante.

Scrivo a te perché mi somigli ed è come se scrivessi a me stesso mi confessassi allo specchio mi somigli negli occhi abbassati negli scatti rabbiosi nell’ira incontrollabile e inarginabile che irrompe a segno del suo continuo e clandestino rodimento mi somigli nella ritrosia del passo strascicato nel chiedo scusa rintoccato a battiti regolari nella parola zoppicante e sussurrata agli altri inudibile e mi somigli anche in ciò che non mostri al mondo perché è legge umana di uniformare al nostro sentire le persone che amiamo e io ti amo e ti uniformo a me somigliante nei silenzi nei pensieri negli affanni e vorrei scoprire cosa nascondi sapere la tua vera vita dove la vivi con chi e cosa aspetti anche tu perché anche tu aspetti tutti aspettiamo l’obolo lasciato nella calza vorrei scoprirlo perché tu non me lo dirai mai come mai io l’ho detto perché non ci fidiamo della parola non ci fidiamo del mondo.

Scrivo a te perché mi somigli e io non avrei voluto che fosse così la mia irrequietezza specchiarsi in te che me la ricordi ogni giorno e perdonami se non sono stato come avrei voluto l’ultimo anello e me la ricordi amplificandola come quegli specchi che ingigantiscono i nei i pori le rughe che alla fine dimentichi finanche cosa stai realmente guardando.

Siamo gli stessi anche se piantati in terreni diversi che pensavo il mio malo seme dipendesse dalla mancanza di concime di acqua di sole ma poi la vita non è questione di presenze o assenze è solo questione di porzioni giuste dosi corrette quantità misurate.

Non ho sbagliato vita ho semplicemente errato nel suo dosaggio confondendo ettolitri e decigrammi.

Mi somigli in tutto quello che fai per questo scrivo a te in questa notte e non so se sto veramente scrivendo o solo immaginando nella luce che vive e muore nel buio che vive e muore di scrivere queste parole non so nemmeno se esistono queste parole o sono solo l’eco della triste visione di calze appese di feste passate senza che accadesse il miracolo atteso che questa a pensarci è la vera tristezza di questa notte l’ultima possibilità persa per sempre l’attesa disattesa la speranza spezzata che quando sotto l’albero non troviamo ciò che volevamo non disperiamo fino in fondo perché c’è ancora una possibilità non disperare se quello che aspettavi non è arrivato tra soldatini e pastelli a cera perché c’è ancora la calza, la calza piccola ma vuota, la calza che va riempita, la calza che ha macinato chilometri e chilometri e salite e pendii solo per essere appesa e riempita e allora aspettiamo la Befana l’ultima speranza che mi porti quello che voglio ma che non ho scritto nella letterina di Natale nemmeno come postilla perché certe cose non si chiedono per iscritto e nemmeno per voce.

Certe cose si aspettano e basta.

Che poi come fai la mattina quando infili la mano nella tasca e togli fuori la prima caramella e poi la seconda e poi il carbone che si mangia e poi la moneta e poi poi poi continui a frugare fino in fondo e poi continui ancora come se non fosse una calza quella che stai esplorando ma l’universo intero infinito o la luna la luna dove ritrovare quello che abbiamo perso la luna che tu continui a scavare scavare e infilare la mano e vorresti che non finisse mai quella calza mai come fai come alla fine a toglierla fuori vuota vuota vuota.

Solo stanotte avrei potuto scriverti questa lettera che forse nemmeno esiste ma solo stanotte non il giorno del tuo compleanno o la sera di Natale o qualunque altra festa solo stanotte avrei potuto perché io non ho mai dimenticato quella mano vuota ma tu si tu puoi figlio dimenticarla tu che mi somigli come fossi io stesso in te dentro di te tu che mi somigli tu puoi dimenticare la mano vuota e puoi farlo adesso immediatamente appena queste parole finiranno e avrai svuotato la calza ti basterà indossarla ecco si fai questo per me alla fine di questa lettera che forse nemmeno esiste prendi la calza e infilaci dentro il piede e cammina per il mondo come se io non ci fossi e non dirmi niente quando i nostri occhi s’incroceranno non dirmi niente come se queste parole non fossero mai esistite 

Più adulti con le mani nere. Trovavo il carbone vero dentro la calza anche se ero stata buona. Elvira Fratto su Il Quotidiano del Sud il 5 gennaio 2022. In pochi ci pensano, in tanti lo ignorano, ma la Befana è il primo richiamo alla responsabilità delle nostre vite. 

Io l’ho capito quasi subito. Del resto, l’Epifania è “epì-fàinomai”, che dal greco significa “ciò che si manifesta”: l’Epifania è manifestazione. E ogni sei gennaio, grandi o piccoli che siamo, veniamo richiamati alle nostre responsabilità proprio da quest’ultima festa, quella che forse sotto sotto è anche la più odiata e che si porta appresso il fardello di essere l’incompresa e bistrattata fautrice della fine dei giochi, delle vacanze e della leggerezza. 

“Tutte le feste si porta via”, e lo diciamo col piombo tra le labbra, colpevolizzando questo sesto giorno del nuovo anno che già solo per il fatto che arriva per toglierci qualcosa, parte male. 

Però manifesta il nostro dovere, la nostra responsabilità. 

Quando da bambina toccava a me fare i conti con la responsabilità e il dovere, lo facevo con baldanzoso orgoglio. Non ero certo una bambina problematica: ero, piuttosto, il corrispettivo umano di un comodino.

ducata, composta, gentile, quasi fatata. Una specie di San Francesco d’Assisi in scala che tutti adoravano incontrare. Sotto sotto, sapevo di non meritare il carbone che trovavo puntualmente, ad ogni Epifania, dentro la calza appesa al camino eppure, sepolto sotto i cioccolatini e i torroni, era sempre lì che mi aspettava, a gonfiare il fondo della calza e sporcarmi le mani. 

Sì, famiglia tradizionalista, la nostra: talmente tradizionalista che all’epoca non esisteva il carbone in versione dolce, ma neanche un suo qualsiasi palliativo: la “mia” Befana era così intellettualmente onesta che il mio carbone era vero, verissimo, proprio preso dal camino e buttato nella calza. 

La mia Befana era anche la Befana dei regali stimolanti, intelligenti, al contrario di Babbo Natale che invece era il bonaccione barbuto che rimetteva tutti i peccati e dimenticava di buon grado le marachelle infantili, lasciando al loro posto dei bei pacchi regalo perfettamente corrispondenti a quanto richiesto nella rituale letterina: l’Amazon del 1998, potremmo dire. Ogni nostro desiderio, mio e di mio fratello, era un ordine. 

La Befana no. La Befana non guardava in faccia nessuno: mia madre e mio padre, a volte, per rendere il tutto più veritiero, ci raccontavano di plausibilissime discussioni tra Babbo Natale e la Befana, dibattiti in cui la bilancia pendeva tra un doveroso pizzico di rigidità e la rituale bontà del Re indiscusso del 25 dicembre. 

“Perché devi essere così arcigna?” si narra che Babbo Natale chiedesse alla severa collega, “non possiamo soltanto lasciar loro i regali e basta? A che serve il carbone?”

“Non capisci!” ribatteva duramente la Befana, “ci vogliono i regali, ma ci vuole anche il carbone!”

La trovavo una cosa di un’idiozia infinita. Babbo Natale aveva ragione su tutta la linea: i regali e il carbone non c’entravano niente! Non erano correlati, giocavano in due campionati diversi. E a me sarebbe tanto servito un Sindacato dei Bambini Delusi che mi tutelasse davanti al Giudice dei Giocattoli. 

Perciò io, creaturina così dedita allo studio, alla lettura e decisamente inoffensiva rispetto al mio vulcanico fratello, molto più vivace e amante delle sfide già in tenera età, assimilavo la prima, grande ingiustizia della mia vita: il carbone nella calza, anche se non lo meritavo. 

Ad ogni modo, i regali della Befana me li godevo tutti: libri, giochi di società, cose utili per la scuola. “È cattiva, ma ha buon gusto”, dicevo tra me e me, armata di quella stessa presunzione che nascondeva il mio disappunto, per mostrare alla Befana di essere una sua degna avversaria. E però continuavo a non spiegarmi quel carbone. 

Con il passare degli anni, la Befana è passata sempre meno da casa mia. Io crescevo, i libri li compravo da sola, i giochi di società li avevo ormai quasi tutti. Mio fratello aveva nettamente ridotto il suo potenziale distruttivo, era diventato un ragazzo gentile, posato e dall’animo nobile: non c’era più niente da aggiustare, o almeno così pareva. 

Io, invece, all’alba di ogni nuova Epifania, aspettavo sempre più la resa dei conti, aspettavo che si manifestasse di nuovo la mia responsabilità. Paradossalmente, più gli anni passavano e più andava a finire che il carbone me lo sarei meritato. 

Ci ho pensato tanto e alla fine ho capito cosa volesse dire la Befana a Babbo Natale, quando lo rimproverava dicendogli: “ci vogliono i regali, ma ci vuole anche il carbone!”

Ho capito che il carbone ti tiene con i piedi per terra, che i regali ingigantiscono una bontà che lui ridimensiona. Quando tocchi un regalo non ti segna la pelle, e questo contiene un sottotesto importante: il regalo, come viene, se ne va. Il carbone, invece, ti macchia, si fa ricordare. “Sì, sei stato buono”, dicono i regali, “ma c’è sempre qualcosa che puoi migliorare”, aggiunge il carbone. 

Mia madre questo lo sapeva bene. Il carbone che la mia mano piccola e contrariata trovava puntualmente sul fondo di quell’ingrata calza non era una punizione: era uno sprone. Un incentivo, un rilancio, piume nuove per ali più solide e piene, ché da bambini si ha più bisogno di incertezze che di certezze. 

Secondo i greci l’Epifania era il modo con cui la volontà divina si manifestava con segni potenti, significativi. 

A me l’Epifania invece ha sempre dato l’idea che tutto tornasse su un piano incredibilmente umano dopo le feste che imbellettano tutto: modi di fare, cortesie, sorrisi forzati. La Befana ha il grande pregio di portarmi davanti ai miei limiti ogni anno, ad inizio anno, come a dirmi: “guardali bene e abbi cura di loro, durante il tuo viaggio”.

All’Epifania si azzera tutto. Noi non siamo i regali che riceviamo, ma il carbone che ci rimane sulle mani e nel fondo della calza, lì dove nessuno guarda. E forse, alla fine, pure noi stessi abbiamo un fondo, dentro, in cui non guardiamo mai e che facciamo finta che non esista. 

Da bambina il mio lato migliore era tutto ciò che avevo: troppo acerba per commettere errori, ma già abbastanza grande da sapere cosa fossero. 

Col tempo quegli errori li ho fatti e forse la Befana non è più passata perché, finalmente, si è accorta che ci sono arrivata, che ho finalmente capito che col carbone si può fare tutto, perfino disegnare, e che i disegni di quel tipo sono di un’intensità che qualunque matita può soltanto sognare. Il carbone sa cosa significa essere disprezzati, oh, eccome se lo sa; eppure ciò che scaturisce da esso ha un valore che, seppur colto a scoppio ritardato, ha effetto permanente. 

Adesso non guardo più la Befana con lo sdegno cavalleresco che fermava il tremolìo del mio mento di fronte a quel l’immeritato carbone. Adesso la Befana l’aspetto alla finestra con una tazza di the caldo e qualche biscotto e ci facciamo grandi risate sul tempo, la stranezza folle della gente, le grandi domande della vita che alla fine invece sono piccole, talmente piccole che le perdi nel fondo delle tasche e poi le devi rifare da capo. 

E quando il suo tempo è finito e se ne va, mentre trascina la scopa di saggina per terra, così leggera che pare un sussurro, la richiamo indietro, tendo la mano e le dico: “dammi il carbone che mi spetta”. 

I doni appesi al soffitto di nonna. Una caccia al tesoro per tutta la grande casa, poi alzammo gli occhi…Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud il 5 gennaio 2022.

La neve fuori ad imbiancare i giorni delle feste e il fuoco dentro, nella casa di mia nonna. Sempre acceso, anche d’estate.

La grande fornace rivestita di piccole piastrelle bianche e lucenti a casa di mia nonna serviva a scaldarsi ma anche a cucinare lentamente pietanze antiche ; serviva ad accompagnare le ore pigre delle letture e dei giochi ma anche ad accogliere chi arrivava e far ritrovare chi ci abitava.

Scaldarsi, cucinare e raccontare. Era quello il cuore della casa di mia nonna; quello il luogo in cui lei incantava me e le mie sorelle – e poi via via i fratelli e i cugini che arrivarono negli anni – con le sue storie fantastiche ma anche con la magia dell’uovo cotto sotto la cenere mentre in una sorta di “soffitta-piccionaia” i colombi volavano liberamente e capitava che te li ritrovassi zompettare anche in cucina. Colombi ma anche conigli.

Mia nonna era una incantatrice: anche della grande fatica in campagna condivisa con mio nonno, lei sapeva fare un dono trasformandola in racconti mirabili che seguivano il mutare delle stagioni. L’incantesimo di un dono fatto di parole, di quelli che poi – negli anni a venire – torna puntualmente a manifestarsi in certi momenti della vita. Sapeva fare tutto, ma dico proprio tutto mia nonna: persino i cestini intrecciati, i mestoli di legno intagliato, ogni tipo di provvista comprese le amarene sotto spirito che io ci andavo matta. Sapeva riparare le scarpe rotte, lavorare a maglia, cucinare sapientemente, fare il vino e l’olio, tessere al telaio che era una meraviglia o farci monili con qualunque cosa le capitasse tra le mani.

Bella – così io la ricordo – con gli occhi di un grigio azzurro sempre acceso e di una rigidità tale che guai a dirle che il pane del giorno prima era troppo duro o che ti eri attardata a giocare o a passeggiare ed eri arrivata col fiatone corto a tavola apparecchiata: semplicemente saltavi il pranzo e mangiavi il pane tutto, anche quello del giorno prima e del giorno prima ancora…

«Il pane non si butta», diceva mentre affondava nel latte quello più duro trasformandolo in una zuppa da mangiare a colazione.

Una combattente che ti pigliava il cuore anche con certi scherzi architettati ad arte. Come quando mi faceva credere che il rumore degli zoccoli dei muli che stavano nelle stalle al piano terra erano le catene di un nobile fantasma che non prendeva pace, o quando s’inventava storie di spettri e ombre. Io, del resto – sempre dietro alle fantasticherie alimentate dalle letture di libri e libricini – ero perfetta per cadere nel tranello di quei racconti dello spavento che una volta appurata la verità finivano tutti con una risata.

Mia nonna era questo e molto di più.

Da lei bambina insieme alle mie sorelle trascorrevo spesso le feste di Natale: una gioia che ora – come una madeleine di Proust – ha il sapore della scirubetta fatta con la neve soffice e pulita che lei raccoglieva sul balcone e aromatizzava con amarene, mandarini o arance.

E da lei l’anno in cui miei zii – praticamente due ragazzi – tornarono da Torino dove lavoravano in Fiat e Pirelli, trascorsi anche un’Epifania indimenticabile. L’attesa carica di aspettative non andò delusa.

Io e le mie sorelle sapevamo in cuor nostro che quella sarebbe stata una Befana speciale: due zii che tornavano da Torino con i primi stipendi in tasca non potevano che aver parlato con la Befana per farci recapitare doni favolosi. A rendere tutto ancor più speciale ci pensò mia nonna. Buttate giù dal letto prestissimo – ma con lei era praticamente impossibile restare a poltrire – mangiato l’uovo cotto sotto cenere, indossati i vestiti della festa, raccolti in code, trecce e treccine i capelli quel 6 gennaio cominciammo a fare il giro della casa per trovare i regali della Befana.

Ora, siccome la casa di mia nonna era piuttosto grande, con le camere nelle camere e un “passetto” – così si chiamava il corridoio – che le collegava era facile perdersi e sperdersi dietro i suoi indovinelli: «guardate sotto i letti», «forse sono in cucina, nella credenza», «no, saranno nel salottino, sotto i divani», «sopra in soffitta, tra le scartoffie», «sotto, dove ci sono le botti di vino, chissà che non li abbia messi là…». Insomma fu tutto un andare e venire, sbirciare e ri-sbirciare, scendere e salire per le scale… ma dei giochi nessuna traccia. Sconsolate e ormai sul punto di mollare la caccia al tesoro, non ricordo se a venirci in soccorso fu mia madre o mia zia con un piccolo segno del capo verso l’alto.

Come non pensarci prima?! Poteva mai una nonna come la mia farci trovare i regali nei posti consueti o dentro la calza? Signornò! Alzammo gli occhi verso il soffitto che era piuttosto alto e meraviglia delle meraviglie là dove nessuno di noi avrebbe mai cercato, appese alle travi c’erano delle piccole, fiammanti biciclette che la Befana aveva comprato per noi naturalmente a Torino… Fu un attimo di gioia e luce la Befana torinese si materializzava davanti ai nostri occhi di bambine. La domanda all’unisono fu una e una sola: «Ma allora la Befana esiste veramente?».

La favola diventava realtà e portava con sé una lezione per la vita.

Alzare gli occhi, non rinunciare a sognare ma restare con i piedi per terra: ecco la lezione di quella caccia al tesoro inventata da mia nonna. Io non l’ho dimenticata neanche ora che mi son portata a casa le sue cose: i pettini del telaio, i fusi, e quei tesori di lino, cotone e seta che lei ha tessuto per me negli anni e che uso quotidianamente. La Befana torinese è ancora viva in certi “ti ricordi?” che si fanno con la famiglia al completo riunita a Natale.

“Ti ricordi quando nonna appese le biciclette al soffitto?” …

·        Il Carnevale.

Da corriere.it il 7 settembre 2022.

Due minuti del carnevale di New Orleans del 1898, nel raro filmato cercato per decenni

Questo filmato del 1898 potrebbe essere il più antico filmato sopravvissuto di New Orleans ed è stato ritrovato, grazie al coinvolgimento di diversi storici e archivisti, nell’Eye FilmMuseum di Amsterdam. Nelle immagini viene mostrata la celebre parata del Mardi Gras (Martedì Grasso) pianificata, nel caso specifico, dalla Rex Organization.

Lo storico e archivista della Rex Organization, Will French, la considera una delle primissime video notizie diffuse a livello globale. Il filmato è stato mostrato per la prima volta ai visitatori del Louisiana State Museum in occasione del 150esimo anniversario della Rex Organization (1872 - 2022).

·        Gioventù del cazzo.

"Mini-naja volontaria". La Russa la rilancia e la sinistra impazzisce. Il presidente del Senato annuncia un ddl per portarla a 40 giorni e avvicinare i ragazzi alle forze armate. Fausto Biloslavo il 12 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La mini naja ogni tanto emerge come un fiume carsico, ma poi ritorna nel dimenticatoio. Il fautore, da sempre, con l'Associazione nazionale alpini (Ana) è Ignazio La russa, che lo aveva proposta quando era ministro della Difesa. «Ho predisposto, ma non lo presenterò io perché come presidente del Senato non posso e lo farà un gruppo di senatori, un disegno di legge per portare a 40 giorni», quella che è conosciuta come mini naja volontaria. Una norma già esistente, ma mai finanziata e attivata. Fonti della Difesa fanno notare fanno notare al Giornale «che il modo con cui è stata lanciata ed i contenuti non sono stati nemmeno commentati dal vertice politico». In questi tempi rischia di essere uno spreco di risorse. E piuttosto bisogna parlare seriamente di riserva operativa.

La legge 119 approvata in agosto dal precedente Parlamento prevede una riserva di 10mila persone, in caso di emergenza legata al terrorismo, ai conflitti o alle pandemie, altri problemi sanitari di massa e catastrofi naturali.

La Russa ha rilanciato la mini naja nel suo discorso in chiusura delle celebrazioni organizzate ieri dagli alpini a Milano per ricordare tutti i Caduti. «Quando c'era il servizio militare il periodo di addestramento durava 40 giorni - ha dichiarato - Credo sia giusto fare una legge che consenta di passare 40 giorni nelle Forze Armate».

La scelta volontaria è necessaria perché rendere la mini naja obbligatoria sarebbe fuori dalla storia e costerebbe non poco. La Russa. «A fronte di questa partecipazione prevediamo una serie di incentivi» spiega La Russa, come crediti per la carriera scolastica e per i concorsi pubblici. Gli abili arruolati per i 40 giorni dovrebbero andare dai 16 a 25 anni di età.

A dare manforte a La Russa ci ha pensato il presidente dell'Associazione nazionale Alpini, Sebastiano Favero: «Vogliamo che i giovani di oggi possano avere la possibilità di fare un'esperienza concreta e vera a servizio della Patria». In pratica si tratterebbe di campi scuola, che permettono ai giovani di sentirsi parte del Paese con una divisa addosso, anche se temporanea. E poi potrebbero portare «linfa a tutte le associazioni d'arma», osserva La Russa. L'ultima volta ci aveva provato Forza Italia nel 2019 con Matteo Perego di Cremnago, primo firmatario. I costi erano a carico del Fondo di riserva del ministero dell'Economia e prevedeva l'acquisizione di 12 crediti universitari. La mini naja, però, non è decollata. Nonostante nel 2017 l'allora ministro della Difesa, Roberta Pinotti, del Pd aveva aperto le porte alla richiesta dell'Associazione alpini. Un progetto di servizio obbligatorio civile che avrebbe aiutato l'Ana ad affrontare la lenta e inesorabile erosione degli iscritti alle Forze Armate professionali.

L'opposizione ha subito sparato a palle incatenate: «Idea ridicola», sintetizza il verde Angelo Bonelli; per il dem Alessandro Zan La Russa è «inappropriato». Dubbi anche fra i moderati di Azione. «Il presidente La Russa sa che si tratta di cose già viste e sperimentate, diciamo, un secolo fa? - dichiara Daniela Ruffino - Quando sui muri dell'Università o nelle stazioni si leggeva il celebre motto: Libro e moschetto fascista perfetto».

A parte le provocazioni per fare rispuntare sempre il fascismo, morto e sepolto, il vero tema è la riserva operativa di 10mila persone soprattutto adesso in tempi di guerra nel cuore dell'Europa. Le Forze Armate dovrebbero contare su 150mila uomini, ma siamo al di sotto delle aspettative.

Mini servizio militare: perché ha senso l’idea di La Russa. Corrado Ocone su Nicolaporro.it il 12 Dicembre 2022

Il servizio militare un tempo non era solo un momento di addestramento all’uso delle armi nell’eventualità, non troppo remota, che lo Stato chiamasse i suoi “figli” a “servire la Patria”. Era anche una tappa inderogabile nella formazione individuale, nonché un rito di passaggio all’età matura.

La naja serviva, prima di tutto, a creare un momento reale di condivisione fra giovani appartenenti a classi sociali diverse e anche di diversa provenienza geografica. E serviva poi a trasmettere ai giovani quelle virtù civili, e anche virili se è lecito dire, che la cultura dominante riteneva essenziali per dare tempra alla classe dirigente e linfa alla vita della società. Che quel mondo sia finito, è inutile dire: oggi la formazione passa per diverse e più variegate “agenzie”; le virtù civili, che non sono più quelle virili (si esalta anzi in continuazione il lato “femminile” o addirittura “fluido” degli esseri umani), hanno ceduto il posto a un amoralismo e indifferentismo di massa; i giovani viaggiano, realmente e virtualmente, in maniera un tempo inimmaginabile e non hanno bisogno della leva per integrarsi e condividere esperienze.

Che senso ha allora riproporre, come ha fatto ieri Ignazio La Russa ad una riunione degli alpini a Milano, un progetto di legge relativo a un servizio militare accorciato e su base facoltativa (per quanto incentivato, attraverso un meccanismo di “premi” che comunque aborre a una coscienza liberale)? Celiando, si potrebbe dire che un senso ha già mostrato di averlo perché ha subito scatenato i riflessi incondizionati di una sinistra anch’essa ferma con le lancette degli orologi al tempo in cui la vita militare, e le forze di difesa, erano associate a una mentalità militarista e guerrafondaia se non “fascista”. Ma senso soprattutto ne ha perché si connette strettamente a quell’idea di Patria e di comunità che la destra meloniana vuole riabilitare e porre al centro del dibattito pubblico.

In quest’ottica, i 40 giorni del servizio militare ridotto dovrebbero essere sia propedeutici alla riconquista di un rapporto di fiducia fra cittadini e forze armate sia formativi per il giovane in vista dell’auspicabile sua educazione civica. Recuperare, a tutti i livelli, il senso dello Stato (e delle istituzioni) senza però ricadere nei vizi dello statalismo: è lungo questo crinale che probabilmente la destra di governo giocherà nei prossimi mesi la sua partita. E per l’Italia dei luoghi comuni, delle mode e dei conformismi mentali e pratici, che poi spesso altro non sono che la copertura della ipocrita ricerca del proprio particolare, è sicuramente una buona notizia.

Corrado Ocone, 12 dicembre 2022

L'accusa degli adolescenti italiani: «Gli adulti non ci ascoltano». Storia di Giuseppe Pastore su Avvenire il 22 novembre 2022.

La percezione di non essere ascoltati. L’idea diffusa che la scuola non sia un luogo sicuro. Proprio come i social, spazi virtuali di incontro e condivisione che, spesso, diventano veicolo di violenza. E, quindi, di sofferenza. Tre adolescenti su 10 dichiarano di aver assistito a un episodio di violenza di genere. Ma il 74% di loro crede che le giovani vittime non siano prese sul serio dagli adulti. Sono dati sconfortanti quelli raccolti dall’osservatorio Indifesa (realizzato da Terre des Hommes e OneDay Group) sulla base di un sondaggio che ha coinvolto oltre 10mila ragazzi e ragazze, tra i 15 e i 19 anni, della community di ScuolaZoo, il portale di informazione per gli studenti italiani.

«C’è uno scollamento sempre più grande tra mondo dei giovani e mondo degli adulti che sembra essersi completamente dimenticato degli adolescenti», commenta Paolo Ferrara, direttore generale di Terre des Hommes Italia. È per questo che l’organizzazione - dal 2014 - porta avanti l’osservatorio Indifesa: uno strumento per ascoltare gli adolescenti sui temi della violenza di genere, delle discriminazioni, del bullismo, del cyberbullismo e del sexting (scambio di messaggi e contenuti sessuali).

Un orecchio teso alle confidenze dei più giovani che, quest’anno, propone le loro riflessioni a ridosso del 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne.

I dati della violenza tra i giovanissimi

Ad emergere è un atto di accusa verso gli adulti. Verso genitori, educatori e mentori che dovrebbero interpretare il malessere di un adolescente e aiutarlo ad uscirne. Ma anche verso il mondo istituzionale che, invece, dovrebbe agire ascoltando anche le istanze di chi non ancora non ha una tessera elettorale in tasca. I ragazzi e le ragazze coinvolte nella ricerca, infatti, parlano chiaro: il 74% di coloro che hanno assistito a episodi di violenza di genere (tre su dieci) sostengono che studenti e studentesse vittime di violenza non vengano presi sul serio dal mondo degli adulti.

E a guardare i luoghi in si è assistito a questi episodi, l’indagine acquista l’aria di una sconfitta. Al primo posto, secondo gli adolescenti intervistati, c’è la scuola (44%), uno spazio pubblico. Al secondo, invece, ci sono i social (28%): spazi virtuali diventati rapidamente parte della vita di ognuno, ma ancora sforniti probabilmente di adeguati strumenti di controllo e prevenzione. E poi, per il 22% dei ragazzi, c’è la famiglia o la coppia, seguite dallo sport (6%). Assume un profilo ben preciso anche il tipo di violenza a cui assistono i più giovani: violenza psicologica (46%), violenza fisica (24%), violenza in rete (20%) e violenza sessuale (10%).

Ascoltare la violenza per impedirla

«Se i più giovani hanno timore di non essere creduti nel denunciare atti di violenza, significa che il mondo degli adulti sta sbagliando qualcosa nel modo in cui ascolta e interagisce con loro», spiega Gaia Marzo, direttrice della communicazione di OneDay Group e membro del comitato scientifico di Indifesa. «È per questo – aggiunge – che da anni, insieme a Terre des Hommes lavoriamo per scoprire e rendere noti gli scenari e i problemi delle nuove generazioni in materia di discriminazioni e violenze, nella speranza che istituzioni, aziende e famiglie possano recepire e mettere in atto azioni concrete».

Un obiettivo che l’osservatorio Indifesa porta avanti non solo con la sua web radio (Network Indifesa), in cui i più giovani realizzano programmi radiofonici per diffondere la conoscenza e promuovere la riflessione su violenza, discrimanzioni e stereotipi di genere, ma anche attraverso i due punti di ascolto, a Parma e a Milano, per donne e ragazze vittime (o a rischio) di violenza. Spazi sempre più preziosi. Lo dicono le storie e i numeri. Come quelli del dossier Indifesa del 2022 di Terre des Hommes secondo cui sono 15 milioni nel mondo le ragazze tra i 15 e i 19 anni che hanno subìto rapporti sessuali contro la loro volontà. Testimoni di sofferenza, ma soprattutto voci che bisogna imparare ad ascoltare.

Se gli adulti non credono alle violenze. Eleonora Ciaffoloni su L’Identità il 22 Novembre 2022

Online, sul lavoro, tra le mura domestiche e nello sport: la violenza di genere si mostra ancora una volta come un fenomeno pervasivo e a danno delle donne, anche delle più piccole.

A raccontare e riportare le esperienze di violenza attraverso dati e testimonianze è l’Osservatorio Indifesa, realizzato da Terre des hommes e OneDay group, con il coinvolgimento di più di 10.000 adolescenti delle community di ScuolaZoo, di cui fanno parte ragazze e ragazzi tra i 15 e i 19 anni di tutta Italia. Ad emergere in maniera netta nel lungo rapporto sono tutti i reati a sfondo sessuale, in cui le vittime sono prevalentemente di genere femminile e, spesso, anche bambine. Secondo il report, tra gli abusi “le fattispecie che registrano la percentuale più alta di vittime bambine sono la violenza sessuale aggravata 88% e la violenza sessuale 87%” che sono aumentate rispetto al 2020, come si sono registrati aumenti anche per “gli atti sessuali con minorenne (83%), la detenzione di materiale pornografico (82%), la corruzione di minore (76%), la prostituzione minorile (67%) e per la pornografia minorile (69%). Numeri preoccupanti e numeri in crescita: la spiegazione per la moltiplicazione di questo genere di reati – oltre il 41% in più – si nasconde dietro al Covid-19 e la fornisce all’interno del rapporto Stefano Delfini, il direttore del Servizio Analisi Criminale della Direzione Centrale della Polizia Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza: “Nel 2021 si assiste, per quasi tutti i reati analizzati, a un incremento dal 2020, anno particolare perché segnato dalle restrizioni legate alla pandemia. Dai dati emerge un fenomeno non marginale e molto grave per le conseguenze sullo sviluppo psico-fisico delle vittime” con “gravi conseguenze psicologiche protratte nel tempo”. Un aggravamento che pone l’attenzione sulle vittime, ma anche sul contesto, perché c’è anche un’altra percentuale a creare allarme. Dai dati riportati si nota come il 74% dei giovani crede che studenti e studentesse vittime di violenza non vengano presi sul serio dagli adulti. Inoltre, sul totale, ben tre giovani su dieci ha dichiarato di aver assistito a un episodio di violenza di genere. A spiegare il fenomeno, il Direttore Generale Terre des Hommes Paolo Ferrara che evidenzia la presenza di “uno scollamento sempre più grande tra mondo dei giovani e mondo adulto, che sembra essersi completamente dimenticato degli adolescenti”. Un allarme riguardo la percezione della violenza nei ragazzi, ma anche un’accusa rispetto al contesto di crescita dei giovani del nostro Paese. Infatti, dalle risposte sul contesto in cui si è assistito a episodi di violenza, al primo posto c’è la scuola (44%), poi i social (28%), di seguito la famiglia o la coppia (22%) e all’ultimo posto lo sport (6%). A far paura non è solo la percentuale riguardante i luoghi educativi, ma anche quella relativa agli spazi virtuali, in cui “il 58% delle giovani donne e adolescenti sono state molestate, subendo diverse forme di violenza come violenza verbale, body shaming, minacce di stupro e violenze fisiche”. Statistiche che preoccupano, ma che allo stesso tempo aiutano a comprendere la realtà circostante e a far emergere forme di violenza sommerse: “È fondamentale lavorare sulla raccolta dati” dice il direttore Ferrara, “tuttavia, dobbiamo anche concentrare il nostro impegno su informazione e sensibilizzazione, perché le radici della violenza di genere rimangono soprattutto culturali” e “in questo Terre des Hommes c’è e ci sarà”.

(ANSA il 17 novembre 2022) - Nel mondo quasi 46.000 adolescenti muoiono a causa di suicidio ogni anno - più di uno ogni 11 minuti. La maggior parte delle 800.000 persone che muoiono per suicidio ogni anno sono giovani e questa è la quinta causa di morte tra i 15 e i 19 anni. Sono i dati diffusi dall'Unicef in occasione della Giornata Mondiale dell'Infanzia e dell'Adolescenza (20/11), dedicata al tema della salute mentale e psicosociale. Nel mondo 1 adolescente su 7 fra i 10 e i 19 anni soffre di problemi legati alla salute mentale e secondo i dati di un sondaggio il 50% si sente triste, preoccupato, o angosciato.

L'Unicef Italia ha lanciato la petizione "Salute per la mente di bambini e adolescenti", che ha raccolto oltre 13.000 adesioni. L'obiettivo è quello di mobilitare l'opinione pubblica affinché sostenga le raccomandazioni che rivolge ai Ministri competenti in materia, per garantire investimenti e azioni di qualità volte a supportare e proteggere la salute mentale di ogni bambina, bambino e adolescente.

Quasi la metà di tutte le problematiche legate alla salute mentale, denuncia l'Unicef, iniziano entro i 14 anni di età e il 75% di tutte le problematiche legate alla salute mentale si sviluppano entro i 24 anni, ma la maggior parte dei casi non viene individuata e non viene presa in carico. Gli effetti della pandemia da Covid-19 hanno peggiorato la situazione. Sul tema l'Unicef Italia ha lanciato un sondaggio, realizzato sulla piattaforma digitale indipendente U-Report sostenuta dalla stessa associazione, al fine di rilevare la percezione di benessere psicosociale e salute mentale fra un campione di adolescenti di età compresa fra i 10 e i 19 anni; su 194 rispondenti: il 28% si sente ottimista; il 12% triste; il 14% preoccupato; il 14% angosciato; ed il 10% frustrato.

Fra le circostanze che causano apprensione le difficoltà economiche personali o della famiglia (17%), il senso di isolamento (19%), la distanza dalla famiglia e dagli affetti (8%), i litigi e tensioni all'interno della famiglia (7%), emergono come i fattori più preponderanti. Tuttavia, il 41% degli adolescenti afferma di non aver richiesto aiuto a nessuno, il 22% di aver cercato aiuto da coetanei ed amici e l'11% ai familiari.

L'11% dichiara di essersi rivolto presso psicologi presenti nelle scuole e nelle comunità ed il 7% presso i servizi sociali e sanitari. Fra le ragioni per non aver richiesto aiuto, il 22% afferma di non ritenerlo necessario, il 10% di non sapere a chi rivolgersi, il 10% di temere di richiedere aiuto, e l'8% di avere timore del giudizio negativo degli altri. L'indagine rivela che gli adolescenti vorrebbero sentire parlare più spesso di salute mentale e benessere psicosociale dalle istituzioni (34%), dalle scuole (31%), dai famigliari (7%) e dai media (7%).

Il futuro che non c'è. Gioventù bruciata, al Sud è boom di giovani che non studiano né lavorano. Francesca Sabella su Il Riformista il 10 Novembre 2022

Non lavorano, non studiano, non hanno un futuro: sono i giovani del Mezzogiorno, li chiamano Neet. E come sempre l’incidenza dei Neet raddoppia nel Sud rispetto al Nord. È maggiore tra le donne, nelle due fasce d’età dei 25-29 anni (30,7%) e 30-34 anni (30,4%). E più si cresce con l’età, più aumenta la loro quota. La regione d’Italia con la più significativa presenza di Neet è la Sicilia, con il 41,1%. Subito dopo c’è la Calabria, con il 39,9% e quindi la Campania, con il 38,1%.

Una fotografia che definire allarmante è poco e come sempre i ragazzi del Sud risultano un passo indietro ai coetanei del Nord. La fotografia è stata scattata da ActionAid e Cgil che hanno analizzato nel Rapporto Neet tra disuguaglianze e divari. Alla ricerca di nuove politiche pubbliche. E non va meglio nel resto del Paese, l’Italia infatti è il paese europeo con il più alto numero di Neet, vale a dire di giovani dai 15 ai 34 anni che non si stanno costruendo un futuro né accademico né lavorativo (nel 2020 più di 3 milioni, con una prevalenza femminile di 1,7 milioni). I Neet sono per il 56% donne e la prevalenza femminile resta invariata negli anni: un trend che conferma come per una donna sia molto più difficile affrancarsi da questa condizione. Le disuguaglianze di genere si riproducono anche osservando i ruoli in famiglia dei Neet: il 26% sono genitori e vivono fuori dal nucleo familiare di origine; tra questi c’è un’ampia differenza tra donne e uomini che vede un 23% di madri Neet rispetto ad un 3% di padri Neet. La più alta percentuale di giovani Neet donne pari al 27% sul totale della popolazione Neet si concentra tra le persone inattive che non cercano e non sono disponibili; il 20% delle Neet sul totale della popolazione dei Neet italiani sono madri inattive.

«La motivazione all’inattività— è stato specificato — è spesso legata alla disparità di genere nei carichi di cura che impediscono o suggeriscono alle donne di rimanere fuori o uscire dal mercato del lavoro. I Neet italiani sono per la maggior parte inattivi, persone che, scoraggiate, hanno smesso di cercare lavoro: il 66% del totale, quindi 2 su 3, e tra questi circa il 20% non cerca ma è disponibile. C’è una tendenza ad essere inattivi soprattutto tra i diplomati (32%) o con un titolo di studio minore (16%). Rispetto ai disoccupati (coloro che cercano regolarmente un lavoro) il dato preoccupante è relativo al tempo: il 36,3% dei disoccupati è in cerca di un lavoro da più di un anno. Quasi 1 su 2 ha avuto precedenti esperienze lavorative e tra questi il 54,3% è donna». Un immobilismo che rischia di risucchiare le nuove generazioni.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Stefania Aoi per repubblica.it il 7 novembre 2022.

Una vicenda denunciata alla polizia dalla professionista attiva nello sportello d’ascolto in un istituto tecnico di Torino. Ci sono state delle indagini. «E si è scoperto che le persone che avevano avuto rapporti col ragazzino erano degli uomini maggiorenni», ricorda Ronzoni, che è anche consigliera dell’Ordine degli Psicologi.

Dopo l’allarme lanciato della psicoterapeuta Annalisa Perziano, che avvertiva sul pericolo Onlyfans, un sito dove due ragazzine minorenni sue pazienti scambiavano video osé e si accordavano per fare sesso a pagamento, parlano altri psicologi, raccontando di un fenomeno sommerso che emerge solo quando l’adolescente ha un problema, ma che potrebbe essere molto più esteso.

 Tracciano un quadro allarmante, di comportamenti che rasentano in alcuni casi la prostituzione, alla ricerca forsennata di piacere agli altri. Su sette professionisti contattati da Repubblica e che operano nelle scuole, ben sei hanno avuto minorenni che hanno confessato questo genere di attività. «Purtroppo, — racconta Ronzoni — anche se i siti di questo tipo richiedono la maggiore età, è facile entrarci anche se si è più giovani».

Non è nemmeno il denaro ad attrarre questi adolescenti più di tutto. Spesso arrivano da famiglie benestanti. Alle volte sono proprio i genitori a portarli dallo psicologo. Come nel caso di Valentina (altro nome inventato), 14 anni. «È stata colta in flagrante dalla madre mentre condivideva foto di parti intime sul web. Mentre la seconda paziente mi è stata portata per altri problemi», racconta la psicologa Alessandra Fresia, che oltre a lavorare nel reparto di Neuropsichiatria infantile dell’ospedale di Asti, segue uno sportello in una scuola della cittadina piemontese.

Le due ragazzine erano state vittime di bullismo in passato perché un po’ grassottelle. «E per loro andare online è stato un modo per cercare approvazione, per sentirsi belle e apprezzate e non a disagio come nella vita reale», spiega Fresia. 

Un fenomeno spinto anche dalla pandemia, dall’impossibilità di vedere le persone dal vivo. E che provoca una dipendenza simile a quella dei social, dalla necessità di vedere aumentare il numero dei like. «Non è un caso che Instagram abbia voluto nasconderli», ricorda la psicologa. Convinta che per aiutare i ragazzini serva un’educazione sentimentale e un patentino per i telefonini. «C’è chi regala lo smartphone ai bimbi per la prima comunione — conclude — ma questi possono avere competenze tecniche non hanno consapevolezza dei pericoli del web».

Il racconto di Mauro Martinasso, direttore del Centro di psicologia Ulisse di Torino, che lavora in 12 scuole all’ascolto degli studenti, non si discosta da quello delle colleghe: «Ci hanno segnalato circa 6 casi tra tutte le scuole», spiega il professionista. Aggiungendo: «Questo non vuol dire nulla, perché noi intercettiamo solo quei casi che arrivano alle nostre orecchie, ma c’è anche chi non racconta. Il fenomeno potrebbe essere più esteso di ciò che vediamo». 

C’è poi chi non scambia foto di nudo sui siti ma su whatsapp con il fidanzatino. Enrica Cavalli, che segue lo sportello d’ascolto di un liceo di Torino, racconta di aver raccolto le confessioni di ragazzine di 17 anni: «Anche mandare al proprio ragazzo foto osé può essere pericoloso perché se le immagini vengono condivise con terzi possono creare problemi. Nei casi più gravi c’è chi è arrivata al suicidio».

Ha sentito i colleghi parlare di casi simili, anche Andrea Dughera che coordina un’equipe di 7 persone che lavorano in 39 scuole torinesi. «Viviamo in una società — afferma Norma de Piccoli, docente di psicologia sociale di comunità all’università di Torino — dove il tema dell’oggettivazione del corpo è sempre più diffuso. Lo dimostra anche l’aumento delle richieste di chirurgia estetica: ormai c’è chi misura il proprio valore in base al fisico. E gli adolescenti non sono esclusi da questo fenomeno».

Francesco Specchia per “Libero Quotidiano” il 6 novembre 2022.

A naso, il ragazzino ha otto anni, appiccicati su un sorriso triste e uno sguardo di sfida. È un nero d'Africa, si chiama Junior, ed è anche una star di Tik Tok sulla scia del molto più noto Khaby Lame che, però, nella sua leggerezza, non potrebbe essergli più diverso.

Junior è a suo agio in video. Lo è meno, evidentemente, in mezzo a ragazzini più grandi, ad occhio tra gli undici e i quindici anni.

 E i più grandi, di sera, incuranti della piazza affollata di Rimini dove accade tutto, cominciano a circondarlo; lo provocano su una virilità in anticipo sui tempi, e lo incitano a prendersi a botte con un altro ragazzino, sconosciuto, che passa di lì per caso. I due bimbi si spaventano, sono paralizzati, vogliono scappare. I grandi li avvicinano eli rinchiudono nell'angolo di un ring invisibile: "Picchiatevi! Picchiatevi!". E, alla fine, incitati dalle grida belluine degli astanti, come in un combattimento clandestino fra galli messicani, o fra bulldog del Nicaragua, i piccoli si spingono allo scontro, mulinano spinte, pugni e testate, si massacrano di botte.

CORNICE DI SANGUE Grida e sangue a fiotti diventano la cornice di un'ordalia che nulla ha d'umano. Queste scene vanno a loop su Tik Tok e vengono mandate in onda su Raidue dal programma Ore 14, con le opportune pixillature sul volto dei minorenni. Ore 14, da qualche giorno, va denunciando questa nuova efferatezza tanto di moda fra undre 14. «Si tratta di un fight club per bambini» dice in diretta il conduttore Milo Infante «mai vista una roba del genere...».

 Non avrei voluta vederla neanch' io. L'immagine dei bambini che tentano di fracassarsi ossa e setto nasale e lasciano sul marciapiede qualsiasi brandello d'umanità è una delle più penose che un padre possa osservare. Il mio figlio più piccolo ha l'età di Junior, il mio più grande quella del suo boia.

Chiudo gli occhi. Rabbia e impotenza sono nella stessa lacrima. Dopodiché, Infante fa scorrere un altro filmato, un'altra lentissima, spiazzante liturgia dell'orrore. 

PROTAGONISTE Stavolta le protagoniste sono due ragazzine adolescenti che sembrano amiche. Sembrano. Nel momento in cui gli eccitati coetanei maschi chiedono loro di prendersi a pugni -a pagamento «dalle un pugno, dai ti do cinque euro!» - le due si trasformano in Erinni. Si tirano capelli, si avvinghiano, rotolano a terra fino a sfondarsi le gengive. 

Ancora più impressionante. E a tutto questo s' aggiunge l'estemporanea rissa di adolescenti a Cassino, pubblicata da Rainews: due giovani donne che cominciano a lanciarsi sedie in testa come nei vecchi incontri di wrestling, mentre una folla di coetanei orribilmente beoti riprendono la scena per impiattarla sui social.

DISAGIO IMPERANTE E il pensiero, qui, non mi corre più al romanzo Fight Club di Chuck Palahniuk; qui non c'è alcuna metafora nascosta dietro al consumismo di massa e al disagio della classe media mentre il protagonista, un impiegato inghiottito dal proprio crudele alter ego «auspica la distruzione della civiltà a favore del ritorno di un deserto primigenio», come ringhiava Palahniuk. No. In questo caso non sussistono alibi letterari.

Non c'è metafora, non esiste uno scopo sociale.

Nei gesti puramente bestiali che scandiscono le risse non riverbera nessun sogno, nessuna provocazione, perfino nessuna patologia. Qui è come nel Signore delle mosche di William Golding: si vedono soltanto gruppi di ragazzi rimasti soli e senza guida in un'isola dove cominciano un po' alla volta a regredire ad uno stato sempre più primitivo, fino ad arrivare al disprezzo totale e reciproco della vita umana.

IMPUNITI Il problema più grosso è che ragazzi simili che scorrazzano nelle piazze d'Italia sono sì impuniti, ma pure inconsapevoli di non sapere maneggiare ogni senso d'etica. Quando la polizia li ferma, di solito, piangono tutti come vitelli e si stupiscono, e non si capacitano neppure della gravità dei loro gesti. Junior, il pischello, lo si rivede anche in altri video; è famoso per un slogan idiota ma di successo fra i giovani «a me non mi piacciono i mangiapasta come Sferaebbasta».

Di lui, in Rete, gira un'intervista in cui, a chi gli chiede se picchierebbe suo padre per un milione di euro, risponde: «Certo che lo farei fratello, perché sono povero come la merda». Questo a otto anni. La redazione di Ore 14 è sconvolta quanto me. Ha fatto un esposto, ha denunciato i fatti di Rimini alla Polizia postale di Milano che l'ha passata alla Procura lombarda che l'ha trasferita per competenza ai colleghi di Rimini (se ne occupa il vicequestore Lisa De Berardino). Vuole evitare l'emulazione, e impedire che queste challenge assurde possano portare ad situazioni ancora più devastanti. La denuncia va sempre bene, anche se temo possa essere tardi. Golding scriveva «gli umani producono il male come le api producono il miele». Ma non è tanto quello. L'incubo peggiore è che i tuoi figli, in tutto questo, possano essere non tanto le vittime, ma i carnefici...

Ragazzi violenti e senza bussole: dove sono le guide? Non si dica che la violenza giovanile c’è sempre stata, che le loro bande si affrontavano sin dagli anni ’50 (in America, dove il cinema ne faceva degli eroi.). Bianca Tragni su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Ottobre 2022.

Ma che succede nella nostra scuola? Un genitore schiaffeggia un professore; un gruppo di studenti spara a una professoressa e poi la deride; una Dirigente, cioè un capo, non difende i suoi professori, un’altra vuol «rieducare» i ragazzi con una lezioncina di educazione civica. Poi ci sono bande che assaltano le scuole nottetempo e rubano computer, distruggono suppellettili, sporcano tutto; altre che si affrontano nelle strade con mazze, calci, pugni fino a ferire, uccidere, addirittura suonando e cantando musica rap con la pistola in mano. E soprattutto umiliare chi violento non è.

Non si dica che la violenza giovanile c’è sempre stata, che le loro bande si affrontavano sin dagli anni ’50 (in America, dove il cinema ne faceva degli eroi.) No, oggi è diverso. Oggi la cultura della violenza e della sopraffazione si respira nell’aria, come nel ‘500 a Firenze si respirava l’arte. Oggi l’aria è inquinata non solo fisicamente dal Co2, ma moralmente con l’assenza totale di valori morali: il rispetto, la stima, il timore riverenziale, la solidarietà, il «bene». Ma chi insegna a questi ragazzi cos’è il bene e cos’è il male? L’unico insegnamento che hanno da tutto e da tutti è il divertimento, il piacere a tutti i costi. Per mezzo del denaro e quando sono saturi anche di quello, per mezzo di strumenti di sopraffazione: mazze, pistole ad aria e così via.

Di chi la responsabilità? A forza di buonismo e di comodo perdonismo, questi ragazzi non hanno più un bussola, un esempio, una guida. Dove sono i genitori? Troppo spesso relitti di famiglie sfasciate, anche loro pensano solo al proprio piacere, come andare in pizzeria o in discoteca a mezzanotte portandosi dietro i pargoli ciondolanti di sonno; o come fare sesso con l’ennesimo «compagno» di letto, magari mettendo il sonnifero nel biberon della figlioletta e lasciandola sola a morire nella sua culla. Casi unici, estremi? No, sono la classica punta dell’iceberg. Nella migliore delle ipotesi questi genitori fanno i sindacalisti dei figli, corrono a scuola a protestare incivilmente per un brutto voto o una sanzione data ai loro coccolatissimi virgulti (vedi lo schiaffo al docente di Bari).

E dove sono i Presidi (col nome originale, pieno di autorevolezza e non di burocratismo)? Gloria alle tante donne che sono arrivate a questo piccolo vertice della scuola; ma vederle con labbra rigonfie di silicone, con collane vistose, truccatissime, sembrano dive della TV, più che educatrici, docenti dei docenti, guide esemplari degli studenti. Come? Con tutto, col gesto, con l’apparenza, con la parola, coi sentimenti, col Diritto, con i valori della scuola, della società, della vita. Questo deve essere un Capo, comunque si chiami e di qualunque sesso sia. Ricordo le scuole francesi, dove la Preside doveva vestire rigorosamente con un sobrio tailleur, per distinguersi dai docenti e da tutti gli altri frequentatori della scuola. Certo non è più il tempo delle divise scolastiche (che però in Inghilterra ci sono ancora), ma il riconoscimento dei ruoli e il conseguente rispetto è anche un valore, di per se stesso. E dove sono i preti? Un tempo il catechismo, le funzioni religiose, le preghiere, le prediche, le piccole attività sportive dell’oratorio erano educative. Anche il famoso «neanche un prete per chiacchierar» di Celentano era un fatto educativo. Chi, fra i preti ruspanti di oggi, tutto jeans e magliette, sport e campiscuola, ha tempo per chiacchierare con i ragazzi? La confessione non si usa più. Ma a volte la chiacchierata confidenziale valeva ancora di più.

E dove sono gli allenatori? Questi nuovi sacerdoti della nuova religione dello sport, officiata in tantissime palestre, tutto muscoli e integratori, potrebbero essere i numi tutelari dei ragazzi, tanto tutti fanno sport. E si imbevono dei miti e dei successi dei campioni delle varie discipline. E si vestono con «divise» che se non sono tutte uguali sono una produzione seriale a valanga di articoli sportivi. Questi allenatori dovrebbero almeno inculcare i tanto elogiati valori dello sport: la lealtà, la collaborazione, il riconoscimento dei ruoli, il successo non competitivo ecc.

E invece….oggi genitori, preti, maestri, allenatori si chiamano asetticamente «agenzie educative». E dell’agenzia hanno il mangement del vil denaro, dell’educazione….non hanno nulla. Dov’è l’afflato d’amore e di severità dei padri e maestri, dei sacerdoti di Cristo e degli atleti del mens sana in corpore sano? Chi potrà rispondere a questi interrogativi che ci angosciano nel presente? Sociologi, psicologi, psicanalisti, pedagogisti, affinate i vostri strumenti di analisi, indicateci le cause, suggeriteci qualche rimedio. Perché non ne possiamo più di vedere minorenni depravati, piccoli delinquenti che crescono…

La violenza dei giovani frutto della fragilità che può dipendere da noi. La prima considerazione è che stiamo raccogliendo quanto seminato. E, occorre riconoscerlo, abbiamo seminato poco e male. Michele Partipilo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Ottobre 2022

Foggia, quattro ragazzi spruzzano dello spray al peperoncino nei corridoi e la preside è costretta a far evacuare la scuola. Rovigo, una docente di un istituto superiore viene colpita da alcuni pallini in gomma, esplosi da uno studente con una pistola ad aria compressa, mentre faceva lezione in classe; l'episodio è stato ripreso da un altro studente, che lo ha diffuso sui social. Bari, un insegnante è stato vittima di una  spedizione punitiva guidata dal padre di un’alunna cui aveva messo una nota in condotta. Sono solo alcuni degli ultimi episodi che riguardano i giovani e la scuola. Il tema è quanto mai vasto e non può essere affrontato senza tener d’occhio la società attuale nel suo complesso.

La prima considerazione è che stiamo raccogliendo quanto seminato. E, occorre riconoscerlo, abbiamo seminato poco e male. Sul piano dell’istruzione in sé l’avvicendarsi di ministri e di relative riforme ha prodotto una frammentazione e una confusione che si è riversata sulla qualità dell’istruzione. Negli ultimi vent’anni si sono succeduti 11 ministri, compreso l’attuale Giuseppe Valditara, che dovrà occuparsi anche del «merito». Orientamenti politici diversi, per un lungo periodo (dal 2008 al 2020) accorpamento con Università e ricerca, visioni confuse e contraddittorie sul futuro hanno reso impossibile la coerente realizzazione di un progetto educativo e scolastico. La riconosciuta autonomia ai singoli istituti ha contribuito poi all’idea di una scuola fai da te, dove si svolgono molte attività complementari ma insufficiente attività curriculare, anche perché le scuole devono farsi propaganda per attrarre più iscritti. I risultati si vedono ai test Invalsi o ai test d’accesso all’Università, una disfatta.

Ma va anche detto che sulla scuola è stata riversata l’intera responsabilità educativa dei ragazzi. Le famiglie hanno in larga misura abdicato al loro ruolo e quella che la legge non a caso chiama «responsabilità genitoriale» è stata delegata appunto alla scuola, ai media, ai nonni. Per il lavoro, per gli impegni, per le separazioni sempre più numerose, la famiglia non è più il luogo di educazione per antonomasia. Nel frattempo sono scomparse anche altre agenzie che contribuivano molto alla formazione dei più giovani: a cominciare dalle parrocchie per finire alle scuole dei partiti. Oggi sopravvivono solo le associazioni sportive; in alcune si insegnano i valori autentici dello sport, in molte altre l’aspetto competitivo ed economico prende il sopravvento trasformandole spesso in luoghi diseducativi. Né si può tacere sul contesto generale: parliamo di ragazzi cresciuti nella stagione dei diritti senza che qualcuno abbia spiegato e mostrato loro che esiste un rovescio della medaglia fatto di doveri.

Terzo elemento da considerare è l’influsso dei media e in particolare di Internet sulla vita sociale e scolastica. Da un lato la scuola ha spinto moltissimo sull’utilizzo di strumenti elettronici nello studio, con i tablet preferiti ai libri di carta, senza però preoccuparsi delle conseguenze che questi mezzi producono sugli individui e sui ragazzi in particolare. Cala la capacità di concentrazione, si fa molta fatica a memorizzare contenuti, si riduce il tempo dell’attenzione che secondo alcuni studi americani e tedeschi oggi sarebbe attorno ai 5 secondi, viene facilitata la tendenza a isolarsi, i soggetti più fragili diventano prede da colpire, come mostrano i numerosi e crescenti episodi di cyber bullismo. Ma di questi effetti nessuno se ne è preoccupato e anzi tutti, a cominciare dagli stessi genitori che ci capivano meno dei loro pargoli, hanno inneggiato al progresso e preferito quegli istituti «più moderni», meglio, più di tendenza.

Molte scuole ora proibiscono agli alunni l’ingresso in classe con il telefonino, strumento perverso che se da un lato permette di mantenere sempre i contatti con i genitori, dall’altro serve per riprendere e diffondere – fino ai limiti dell’estorsione – gli episodi che avvengono in classe, per dileggiare gli insegnanti, per estraniarsi completamente dalle lezioni. Un divieto tardivo e ancora poco esteso perché malvisto anche dagli stessi insegnanti, che a loro volta dovrebbero rinunciare allo smartphone.

L’insieme di tali situazioni non è senza conseguenze sullo sviluppo di un soggetto in divenire. I due anni di pandemia con la conseguente didattica a distanza hanno mostrato in maniera inequivocabile i danni subiti dai giovani. Sarebbe un errore considerare quei danni conseguenza diretta della Dad, che invece ha funzionato da catalizzatore, facendo emergere situazioni di fragilità nascoste sotto pelle e che venivano camuffate con altri problemi.

Ciò che si può dire oggi è che siamo di fronte a generazioni di ragazzi che hanno sempre meno consapevolezza delle conseguenze delle loro azioni. Lo spruzzo al peperoncino come le sfide – talvolta pericolosissime – lanciate all’interno di gruppi ristretti, i cosiddetti challenge, sono esempi di tale irresponsabilità. Ed è su questo fronte che bisogna lavorare, innanzitutto abbassando le inutili protezioni erette dai genitori, che magari così cercano di superare il senso di colpa per il poco tempo che dedicano ai figli, per l’assenza di dialogo, per la mancanza di attenzioni. Se non torneremo a seminare e molto su questi terreni diventati aridi e impervi, le future generazioni non solo saranno sempre più ignoranti e violente, ma soprattutto non saranno in grado di diventare classe dirigente di un Paese che oggi si affida ancora agli ottantenni.

Estratto dell'articolo di Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 25 ottobre 2022.

[…] Immagini di bambini abusati, violenze inaudite, persone e animali squartati, simboli nazisti e fascisti. Foto ricevute e diffuse su alcuni gruppi social, proprio da giovanissimi che ora sono finiti al centro di una indagine della Polizia postale di Pescara: 7 gli indagati, che hanno un'età tra i 13 e i 15 anni, più altri 22 la cui posizione è ancora al vaglio della procura dei minori dell'Aquila, e quasi un migliaio (circa 700), che erano iscritti ai canali telegram, whatsapp, instagram, dove l'orrore circolava da più di un anno.

A dare il via all'indagine è stata la denuncia di una mamma, che si è rivolta al Servizio emergenza infanzia 114 per denunciare quello che stava accadendo. Il figlio, di 13 anni, le aveva fatto vedere alcune delle immagini incriminate e lei ha deciso di chiedere aiuto. […]

Gli investigatori hanno analizzato oltre 85.000 messaggi in 5 diversi gruppi social. Sono stati coinvolti i Centri operativi della Polizia postale di Puglia, Lazio, Lombardia e Campania, perché a far circolare video e foto pedopornografiche sono stati, al momento, due tredicenni abruzzesi, due di Roma, uno di Milano, un campano e una ragazzina pugliese.

[…] «Si faceva fatica a guardare le chat, tanto l'orrore - spiega la dirigente della Polizia postale di Pescara, Elisabetta Narciso - Ci siamo chiesti come potesse aver fatto un ragazzino a diffondere immagini così crude senza avere difficoltà, senza paure o raccapriccio». […] La Postale sta ora valutando se esistano delle responsabilità tra i genitori: dalla complicità alla mancanza di controllo. E se, dietro questo macabro giro, ci possa essere la regia di un adulto. […]

Gli investigatori rilevano, poi, quanto, troppo spesso, nei contesti social si tenda a banalizzare eventi terribili del passato e a mostrare assoluta indifferenza per violenze e stupri, anche nei confronti di bambini piccolissimi. «A volte - dicono - si assiste a una gara a chi posta l'immagine più sprezzante o truculenta, al fine di stupire, all'insegna dell'esagerazione». […] 

Romina Marceca per repubblica.it il 25 ottobre 2022.

L'operazione si chiama "Poison" perché per la polizia postale quelle immagini scambiate tra ragazzini dai 13 ai 15 anni sono veleno. Corpi mutilati, cadaveri, immagini di Hitler e Mussolini, video raccapriccianti, atti di crudeltà verso gli uomini e gli animali, foto di bambini vittime di abusi sessuali. 

C'era tutto questo in cinque gruppi Whatsapp e Instagram. Sette minori sono stati già segnalati alla procura per i minorenni, tra loro c'è anche una ragazzina. Su altri 22 e sui loro genitori ci sono accertamenti in corso. Ma i gruppi contavano 700 ragazzini e oltre 85mila messaggi.

Denunciati sette minori in tutta Italia

Un veleno che scorreva nelle giornate dei minorenni tra Roma (dove sono stati denunciati due ragazzini), Campania, Lombardia e Puglia. La prima denuncia è stata di una mamma che si è rivolta al Servizio Emergenza Infanzia 114. Il figlio aveva subito una estorsione. In cambio di foto porno avrebbe dovuto ricambiare con immagini pedopornografiche. La mamma si è resa conto di tutto quello che stava accadendo controllando il suo cellulare.

Le chat erano divise per categorie: Zoofilo, Splat, Necrofilo, Pedopornografico e Porno. L'inchiesta è partita dal Centro operativo sicurezza cibernetica della polizia postale di Pescara, coordinata dalla procura per i minorenni di L'Aquila, per diffusione e detenzione di materiale pedopornografico e che ha portato all'identificazione e alla denuncia dei 7 minori.

Le indagini si sono estese grazie all'impulso del C.N.C.P.O. (Centro Nazionale per il Contrasto alla Pedopornografia Online) del Servizio polizia postale e delle comunicazioni di Roma che rintraccia su gruppi social, oltre ai contenuti pedopornografici, anche stickers/meme di carattere zoofilo, necrofilo, scat, splatter, di violenza estrema, apologia del nazismo/fascismo, atti sessuali estremi e mutilazioni, atti di crudeltà verso essere umani e animali.

Immagini e video raccapriccianti di vittime innocenti il cui dolore, invece di scuotere le coscienze, è stato oggetto di scherno, divertimento e condivisione da parte del gruppo di adolescenti. Una poca sensibilità nei confronti di quelle immagini che deriva anche dall'età dei minori che, ancora, non sanno scindere cos'è giusto e cosa sbagliato. 

Le indagini su 85mila messaggi

Gli investigatori della polizia postale, con un lavoro certosino, hanno analizzato oltre 85.000 messaggi in 5 diversi gruppi social, allo scopo di identificarne gli autori. Nella fase delle perquisizioni sono stati coinvolti anche i centri operativi di Sicurezza cibernetica della Postale di Puglia, Lazio, Lombardia e Campania. I sette minori indagati sono accusati di  aver ricevuto e inviato, sui gruppi social, diverse immagini di bambini, anche di tre o quattro anni, vittime di abusi sessuali. 

Gli altri 22 minori si sono limitati all'invio dei "Meme". Non sono esclusi provvedimenti con l'intervento dei servizi sociali a sostegno dei ragazzi e delle loro famiglie.

"L'operazione di oggi ha confermato un fenomeno dilagante tra i giovanissimi, i quali, spesso, nei contesti social banalizzano eventi terribili del passato o mostrano assoluta indifferenza per violenze e stupri, anche nei confronti di bambini piccolissimi; a volte si assiste ad una gara a chi posta l'immagine più sprezzante o truculenta, al fine di stupire, all'insegna dell'esagerazione", scrive in un comunicato la polizia postale. 

Il capo della polizia postale: "Assuefazione all'orrore"

"Stiamo cercando di comprendere se ci sono adulti che pianificano questa diffusione di immagini - spiega Ivano Gabrielli, direttore del Servizio polizia postale e delle comunicazioni - Quello che vediamo nelle nostre indagini è un'assuefazione a un percorso che è sempre più drastico, cruento e raccapricciante". 

E aggiunge: "L'esposizione a immagini di questo tipo abbassa la soglia critica dei ragazzi rispetto a quelli che sono episodi che possono essere vissuti nella vita reale. E' pericoloso. Chi aderisce a queste chat lo fa in modo cosciente per far parte del gruppo e dare prova di essere coraggioso nel gestire anche certi tipi di immagini".

Psicologia e benessere, la Generazione Z e il disagio mentale: parlarne di più aiuta a crescere. Andrea Federica De Cesco su Il Corriere della Sera il 17 Ottobre 2022

Sui social, #mentalhealth è un hastag fortissimo: decine di miliardi le visualizzazioni su TikTok, milioni i post su Instagram. Grazie anche alla pandemia, i ragazzi hanno messo le loro esperienze in comune, superando la «vergogna» della malattia. La linea degli psicologi e qualche cautela

Questo articolo e molti altri servizi dello Speciale Psicologia e Benessere sono stati pubblicati su 7 del 21 ottobre, che trovate in edicola. Ne proponiamo online alcuni (vedi i link nel Leggi anche) estratti per i lettori di Corriere.it

Questa non è solo l’epoca in cui il numero di persone con disturbi mentali ha raggiunto livelli mai toccati prima. È anche l’epoca in cui di disturbi mentali si parla più che mai. Secondo il 72% dei 3.330 partecipanti a un sondaggio del Corriere della Sera con ScuolaZoo (community dedicata alla generazione Z), rispetto a due anni fa, di psicoterapia e salute mentale si parla soprattutto sui social, che pure rappresentano uno dei principali responsabili dell’aumento dei disturbi mentali, in particolare tra i giovanissimi. L’87% si è imbattuto nel tema su Instagram, TikTok & Co., e il 36% ha pensato di fare un incontro di psicoterapia proprio dopo averne sentito parlare sui social. La conferma arriva da chi con i social ci lavora, come Caterina Zanzi. «Rispetto a otto anni fa, quando ho iniziato il mio lavoro online, il tema si è fatto più frequente. E questo ha contribuito a far diminuire lo stigma che da sempre aleggia sui temi delle malattie mentali e della loro cura», commenta la fondatrice del blog Conosco un posto .

Su Tik Tok

«Parlarne, insomma, è già qualcosa. Soprattutto per noi Millennials, figli di una generazione che ha posto il tema della salute mentale molto ai margini della conversazione. La Gen Z mi pare si sia liberata ancora di più di questi stigmi, e su TikTok se ne parla ancora più che su Instagram». Su TikTok ad agosto l’hashtag #mentalhealth aveva 42 miliardi di visualizzazioni, su Instagram contava 41 milioni di post. Sono cifre enormi, in continua crescita: ad aprile erano rispettivamente 30 miliardi e 37 milioni. Ed è una crescita che pare rispecchiare quella degli accessi negli studi professionali. «Il Covid e la guerra in Ucraina, insieme alla crisi economica e ai disastri ecologici, sono stati fattori psicosociali importanti per l’incremento della richiesta d’aiuto», spiega Luigi Janiri, professore di psichiatria alla Cattolica e presidente della Fiap (Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia).

Il cambio di rotta

«In generale c’è stato un cambio di rotta epocale, un aumento dell’incertezza che fa sì che non si pensi più in termini progettuali». I vari lockdown, in particolare, hanno anche dato una spinta importante per quanto riguarda la progressiva normalizzazione della psicoterapia. «All’improvviso ci siamo trovati a casa con noi stessi e i nostri problemi. È come se il Covid avesse detto “ora fermiamo tutto e facciamo i conti con quello che hai dentro”», osserva Francesca Picozzi, psicologa clinica classe 1995 molto seguita su TikTok (@francescapicozzipsico). «Durante la pandemia come molti altri colleghi ho registrato un forte aumento della domanda, aumento che nel mio caso è stato di circa il 30%, con il 70% dei nuovi ingressi da Instagram», racconta la psicologa e psicoterapeuta Valeria Locati, @unapsicologaincitta sui social, autrice e conduttrice del podcast Storytel Original Ansia? Parliamone. «Questo aumento non dipende solo dal fatto che le persone sono state peggio. La consapevolezza del bisogno di prendersi cura della propria salute mentale stava già crescendo. Un altro motivo è che con la pandemia si è diffusa di più la psicoterapia online, che pure c’era sempre stata. In questo modo la psicoterapia è diventata parte della vita di un numero maggiore di persone».

Instagram Therapists

Proprio durante l’emergenza sono state create nuove piattaforme di videoterapia, come Gli Psicologi Online e Serenis, e sono state rafforzate quelle che esistevano già, a partire da Unobravo e dal servizio online del Centro Medico Santagostino. La società però aveva iniziato a cambiare visione della salute mentale già prima della pandemia, come sottolineano Janiri e Locati. «Uno sdoganamento importante è avvenuto all’inizio degli anni 2000 con la serie tv I Soprano », ricorda Jonathan Zenti, scrittore e autore del podcast Problemi . «Il resto lo ha fatto Instagram». Il proliferare dei cosiddetti TikTok o Instagram therapists ha portato l’American Psychological Association a pubblicare, nel 2021, delle linee guida rivolte ai professionisti della salute mentale su come usare i social media. Ma a parlare di psicoterapia e salute mentale su Instagram & Co. non ci sono solo gli specialisti. Ci sono anche influencer e celebrità (dalla supermodella Bella Hadid alla ginnasta Simone Biles). E poi, utenti qualunque e persone con disturbi mentali che condividono pezzi della loro quotidianità, per lo più molto giovani. E persino millantatori di vario genere.

Aurora Ramazzotti

Se la crescita dei contenuti social sulla salute mentale da un lato ha contribuito e sta contribuendo ad abbattere gli stereotipi e a creare una community di ascolto e supporto per chi è in difficoltà, dall’altro il fatto che la salute mentale sia diventata un trending topic ha anche risvolti negativi. «Alcuni ragazzini si sono resi conto che parlando di salute mentale possono ottenere follower e visualizzazioni», commenta Aurora Ramazzotti, conduttrice con Valeria Locati di Blue Chats, una serie di talk sulla salute mentale giovanile pubblicati sui canali di Freeda. È su TikTok nello specifico che emergono le derive più inquietanti, come racconta Francesca Picozzi: «Si trovano video di ragazze che si mostrano prima e dopo aver assunto determinati farmaci [psicotropi] che fanno prendere peso: può succedere che chi li vede decida di non sottoporsi alla cura. In altri video utenti per lo più molto giovani elencano i disturbi mentali che hanno o reputano di avere». Picozzi lo riconduce a un bisogno di appartenenza, con film quali Joker e serie tv tipo Euphoria come punti di riferimento. La sofferenza psichica finisce così per essere romanticizzata, diventando oggetto di fascinazione. Ed è proprio sui social, il regno dell’immagine, che si costruisce l’estetica dei disagi mentali. «A volte etichettarsi un disturbo fa quasi figo», prosegue Picozzi. È un fenomeno che ha colto anche Caterina Zanzi: «Stare male fa schifo e forse bisognerebbe stare attenti alla possibilità di “mitizzare” condizioni di squilibrio psichico». Un altro rischio, altrettanto insidioso, è quello della banalizzazione: dai balletti su TikTok con in sovraimpressione frasi che descrivono “i dieci sintomi della depressione” all’idea che le sedute con la o lo psicoterapeuta siano degli impegni da incastrare nella “settimana tipo”, insieme alla palestra o all’estetista. «Chiunque ne sente il bisogno dovrebbe poter andare in terapia, ma non come se fosse una sorta di tagliando da fare per forza», commenta Valeria Locati.

Il giudizio della massa

«Alzo le antenne quando sento dire “la mia terapeuta ha detto che devo fare così”. La terapia non può essere una moda. Se racconti il tuo percorso come se lo fosse vuol dire che qualcosa non va». Secondo Daniela Collu, conduttrice radiofonica e scrittrice, il punto è che spesso dietro alla normalizzazione c’è il giudizio altrui: «Certo che se qualcosa passa attraverso l’esperienza comune è più facile accettarla. Ma mi fa paura che la normalizzazione dipenda dal giudizio della massa. Penso che invece sia importante rispettare i tempi, i modi e le posizioni dei singoli». Locati e Picozzi sono convinte che la responsabilità di come si parla di psicoterapia e salute mentale sia in gran parte della loro categoria. «I professionisti devono sapere se e come rispondere alle richieste dei loro follower», commenta Picozzi. E Locati aggiunge: «Vedo una certa confusione tra cos’è la divulgazione e cosa la psicoterapia. Sui social non si può divulgare cosa accade nella stanza di terapia. Si può invece provare a offrire spunti di riflessione, in una logica non lineare». Picozzi, che ha un pubblico di ragazze adolescenti, realizza sketch il più generici possibile: «Molti nei commenti mi fanno domande, spesso sull’ansia. Invito a trovare uno spazio dove parlare».

Distinguere le persone serie da chi improvvisa

Certo è che, come dice Daniela Collu, non sempre è facile «distinguere le persone serie da chi improvvisa». E proprio per questo motivo la conduttrice nell’autunno 2020 ha pubblicato su Medium un elenco di specialisti intitolato Sostegno psicologico e dove trovarlo. «È vero che si tende a chiamare qualsiasi tipo di problematica con il nome di una malattia mentale», prosegue la conduttrice. «Comunque penso sia molto positivo che si sia squarciato il velo e che ci si possa interrogare su quello che si sta vivendo. Persone felici, equilibrate e consapevoli fanno una società felice, equilibrata e consapevole. La salute mentale altrui è una cosa da cui il resto del mondo trae vantaggio e fortuna». Valeria Locati è convinta che proprio Collu e gli altri influencer che si occupano - anche - di salute mentale abbiano un ruolo importante nel ridurre i pregiudizi sul tema. Al tempo stesso, sottolinea Jonathan Zenti, ci sono alcuni punti critici: «Gli influencer in genere parlano soltanto degli aspetti che rientrano nell’utilizzo borghese ed edulcorato della psicoterapia, tralasciando questioni come il supporto psicologico in carcere. La parte più oscura è diventata ancora più oscura, quella leggera ancora più leggera. E mi pare che faccia più figo parlare di andare in terapia anziché andarci. Ecco perché spesso si riporta quello che dice lo psicoterapeuta».

Aurora Ramazzotti

D’altra parte condividere la propria esperienza - sui social o altrove - può innescare un circolo virtuoso. «Lo trovo salvifico, aiuta a sentirsi meno soli nel dolore», dice Aurora Ramazzotti, sostenitrice della proposta di legge lombarda per istituire lo psicologo di base. «Per questo credo che Fedez abbia fatto bene a pubblicare l’audio della seduta dallo psicologo di quando ha scoperto di avere un tumore. Io voglio far passare il messaggio che non si va dallo psicologo solo dopo che si è toccato il fondo». È un pensiero condiviso da Danila De Stefano, ceo e fondatrice del servizio di psicologia online Unobravo: «Sarebbe importantissimo ragionare in un’ottica preventiva e prendersi cura della propria salute mentale sempre, a 360 gradi». La prima generazione a mostrare una maggior apertura verso la terapia è stata, come diceva Caterina Zanzi, quella dei Millennial, ribattezzata “Therapy Generation”. Tornando alla ricerca del Corriere con ScuolaZoo, il 54% dei partecipanti tra i 26 e i 35 anni e il 60% tra i 36 e i 49 anni ha detto di avere fatto qualche forma di psicoterapia. E tra chi non ne ha fatta rispettivamente l’80% e il 60% ha intenzione di farne.

La cultura del «sudarsi tutto»

Per quanto riguarda la generazione Z, a intraprendere percorsi psicoterapeutici è stato il 32% dei partecipanti tra i 14 e i 18 anni e il 41% di quelli tra i 19 e i 25. Tra chi ha risposto di no, il 69% dei primi e il 79% dei secondi vorrebbe provare. Un ritratto della Gen Z prova a farlo Francesca Picozzi: «Spesso sono ragazzi molto sofferenti e introspettivi. D’altra parte, sono più aperti verso la cura rispetto agli adulti. Molti nei commenti mi dicono che vogliono andare dallo psicologo, ma i genitori non vogliono. Ci si lamenta dei ragazzi che si lamentano, ma nessuno pensa “Il mondo dovrebbe essere diverso”? Perché dovremmo sacrificare la nostra salute mentale, le nostre energie per un lavoro da otto euro all’ora? I social hanno aiutato i ragazzi a uscire dalla cultura del sacrificio, dalla logica secondo cui bisogna sudarsi tutto». È un ritratto in linea con le parole di Alessia La Volpe, 20 anni, testimonial per la prevenzione dei disturbi alimentari: «Siamo considerati la generazione dei depressi e dei fannulloni. Ma siamo proprio noi a cercare di portare alla luce la tematica della salute mentale: a scuola, in TV, sui social e persino nel “mondo degli adulti”».

Senza vergognarsi della propria fragilità

La ceo di Unobravo Danila De Stefano è dello stesso parere: «I giovani si confrontano su come si sentono, si confidano e si espongono di più senza vergognarsi della propria fragilità, senza sentire il bisogno di nasconderla. Molti, tra le generazioni più adulte, tendono invece ad aspettare che il malessere diventi insopportabile». Le generalizzazioni, però, come sempre sono sbagliate. Anche nella generazione Z, per esempio, le donne sono tendenzialmente più sensibili ai temi della salute mentale e più aperte verso la psicoterapia degli uomini. «La Gen Z non è un blocco uniforme. Ci interfacciamo con ragazze e ragazzi che provengono da territori e contesti sociali e familiari diversi», osserva Valerio Mammone, direttore editoriale di ScuolaZoo. «Le differenze, in termini sia di sensibilità sia di possibilità economiche, sono evidenti. Per questo è fondamentale portare esperti di salute mentale nelle scuole (ScuolaZoo promuove l’istituzione dello psicologo scolastico, al centro di una proposta di legge presentata dal deputato Emilio Carelli, ndr): perché il cambio di percezione e l’accesso alle cure siano a disposizione di tutte e tutti e non solo di chi ha la fortuna di nascere in contesti più fortunati o sensibili».

Insufficiente offerta pubblica dedicata a salute mentale

Ariman Scriba, attivista per la salute mentale, ha cominciato a parlare di disagio e malessere psichico due anni fa, dopo il suicidio del fratello. «Il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani. Non trovo accettabile che i ragazzi perdano la vita per problemi non compresi. In contesti di disagio, soprattutto tra persone di classe sociale bassa, è difficile trovare uno spazio di cura», dice. Secondo l’attivista, in Italia l’offerta pubblica dedicata alla salute mentale è insufficiente: «Sono servizi che offrono un numero limitato di sedute e per accedervi bisogna attendere a lungo. Invece i percorsi terapeutici in genere necessitano di tempo e quando si chiede aiuto spesso si è in una situazione di emergenza. Inoltre gli ospedali psichiatrici ancora oggi assomigliano a luoghi di tortura». Sono parole che fanno venire in mente il manicomio raccontato dal giornalista Gabriele Cruciata nel podcast La gabbia dei matti, su Storytel, ossia il Santa Maria della Pietà di Roma.

La Legge Basaglia e quel che resta da fare

«La situazione è migliorata molto grazie alla legge Basaglia, che ha rappresentato una vera riforma culturale. Dopo la sua introduzione i problemi mentali hanno iniziato a essere affrontati non più con la segregazione, ma con l’inclusione», spiega Cruciata. «Basaglia sosteneva che i manicomi dovessero essere aperti. Cambiando l’approccio la società esterna si è resa conto dell’esistenza delle persone con disturbi mentali, che prima non venivano viste». Scriba ritiene però che ci siano «troppa superficialità e troppo individualismo. Credo che la cura dovrebbe essere comunitaria, ha poco senso porsi sempre sul sé. Certi disagi profondi non vengono colti, non ci sono strumenti umani per gestirli. Le persone che soffrono rimangono ai margini». L’individualismo è un problema evidenziato anche da Jonathan Zenti: «Si esalta la psicoterapia perché non abbiamo spazio ed energie per sostenere le difficoltà altrui. Parlare della cura evita di parlare della malattia».

In generale il fatto che si parli così tanto di psicoterapia, osserva Zenti, «è un brutto segno. Bisogna mettere in discussione le condizioni che ci portano alla psicoterapia, il tipo di vita che facciamo». Zenti racconta che un contributo fondamentale per la formazione del suo pensiero lo hanno dato Il giudizio psichiatrico di Giorgio Antonucci (uno dei padri dell’antipsichiatria) e il libro di Giuseppe Bucalo Dietro ogni scemo c’è un villaggio, che mette in relazione la malattia mentale con l’ambiente circostante: «Viviamo in un mondo stressante, iper competitivo. Il ricorso alla psicoterapia è un sintomo del fatto che siamo umanamente in difficoltà. Il risultato ottimale sarebbe che nessuno ne avesse più bisogno».

La dittatura dei puccettoni. Solo chi non ha figli può capire l’idiozia dei genitori che esaltano i loro scemissimi eredi. Guia Soncini su L'Inkiesta il 19 Ottobre 2022

Persone in teoria normodotate assecondano senza freni la sedicennitudine della società e si emozionano per i pensieri banali e retorici della prole. Ma perché?

Chi ha figli è invitato a non leggere questo articolo. Se decidete comunque di leggerlo, non ne sarete contenti, e mi scriverete che, siccome non ho figli, non posso capire. Senza che lo leggiate, vi anticipo subito che avete doppia ragione d’innervosirvi: questo articolo teorizza che solo chi non ha figli possa capire.

È domenica sera. In una delle poche case in cui i figli non stabiliscano il palinsesto, e in cui non si guardi quindi qualche porcheria per adolescenti, il televisore è acceso su Calenda intervistato da Fabio Fazio. L’ultima domanda è se sia concepibile un’unità delle opposizioni sul tema della pace.

Poco dopo, una madre twitta tutta fiera di puccettone di mamma sua. Il tweet fa così: «Mio figlio ascolta Carlo Calenda a Che tempo che fa che dice: i dittatori bisogna fermarli. Si parla di Putin, di Russia. Lorenzo, alla fine, commenta: si è dimenticato di ricordare cosa ha fatto Hitler, bisogna ricordarlo. Lo ha nove anni. Fa la primaria. Stiamo crescendo buoni cittadini».

Quello della Germania e della seconda guerra mondiale è l’unico esempio che Calenda abbia fatto, come sa qualunque adulto abbia guardato la trasmissione. Lorenzo non lo sa perché Calenda non ha detto la parola «Hitler», e Lorenzo non ha la più pallida idea, avendo nove anni, di cosa significhino le parole «sudeti» «Cecoslovacchia» «seconda guerra mondiale». Lorenzo ha nove anni, e tutto quel che sa è uno slogan da maglietta: Hitler cattivo.

Il dramma (uno dei drammi) è che una volta avremmo pensato che un Lorenzo quarantenne avrebbe saputo argomentare in maniera più sofisticata, e oggi sappiamo che c’è un pieno d’adulti che molto più in là dei concetti (incredibilmente contrapposti) «dittatura brutta» e «guerra brutta» non vanno. Il dramma (un altro dei drammi) è che la madre che twitta non è sola, nella feticizzazione del puccettone di mamma sua.

In questo periodo ne incontro uno al giorno. Gente con cui parlo abitualmente, gente che ha il mio numero di telefono, e vi prego di credere che già questo costituisce una notevole selezione all’ingresso. Gente normodatata, e anche qualcosina in più, che mi dice che bisogna fare i plurali con l’asterisco perché la figlia ci tiene. E tu dici: ma tua figlia ha sedici anni, non capisce niente di niente per statuto, per neurologia, per natura. E loro ti rispondono: ma il futuro è suo. Sì, cocco bello, ma è suo quando di anni ne avrà quaranta, e guarderà alla sé stessa di oggi sghignazzando, e domanderà a te novantenne che intanto stai toccando il culo alla badante: «Papà, ma tu perché non mi dicevi che gli asterischi erano una stronzata?».

Ormai dovrei esserci abituata, eppure la dittatura dei ragazzini mi sconvolge ogni volta. Perché mi aspetto, dai miei coetanei, che abbiano dell’avere dieci o quindici o vent’anni ricordi vivi quanto lo sono quelli che ho io: io me lo ricordo, quanto ero scema. E sono sollevata che, da me, nessuno s’aspettasse altro che la scemenza propria della mia età. Nessuno che non fossero i miei genitori, che allora erano un’eccezione e oggi sarebbero la norma: gente convinta d’aver generato un genio. Tuttavia neppure loro erano così fessi da adeguare al mio intelligentissimo volere di scemissima adolescente le loro scelte o il loro linguaggio.

(Certo che avrei potuto essere così scema da lanciare la passata di pomodoro contro un quadro valutato miliardi, e per fortuna a quel punto qualcuno m’avrebbe preso a coppini, invece di scrivere tweet pensosi sul fatto che bisogna ascoltare le istanze dei giovani. È perché i nostri genitori erano meno scemi di quanto siamo, come genitori, noi? O sono questi perpetui palcoscenici che hanno reso evidente ogni rincoglionimento, anche quello una volta nascosto della convinzione che il puccettone di mamma sua sia un faro culturale?).

Stavo leggendo Piante che cambiano la mente, il libro di Michael Pollan, tradotto in italiano da Adelphi. Nel capitolo sulla caffeina, spiega la sua difficoltà nello smettere di bere caffè per sperimentare l’astinenza e capire come descriverla. E a un certo punto la traduttrice fa dire, a uno che scrive in una lingua senza genere e per cui quindi basta e avanza la parola «writer», «ancora prima che lo scrittore (o la scrittrice) possa sperare». E io a quel punto sono più interessata al carteggio che ci sarà dietro a quella stortura.

Buongiorno, signor Pollan, scusi se la disturbiamo, ma in Italia c’è questa nuova sensibilità, cioè in realtà non c’è nessuna nuova sensibilità, è una cosa che sta a cuore a chi ha tra i dodici e i ventidue anni, gente cui non s’è ancora finito di sviluppare il cervello e che certo non spende venti euro per leggerla, però siccome un po’ degli adulti che vanno dietro alla scemenza giovanile sono quelli che recensiscono i libri, e mica possiamo passare per retrogradi ai loro illuminati occhi, ecco, le dispiace se aggiungiamo il femminile di writer a quella frase, una parentesi di passaggio, quasi un ripensamento?

Ma certo, avrà detto Pollan, che essendo americano non ha la più pallida idea di cosa sia una lingua romanza ed essendo americano ci tiene tantissimo a essere inclusivo, includete tutti, allargate, no al maschile sovraesteso no alla guerra no al petrolio no a dover pagare il biglietto per vedere Van Gogh.

Solo che, come Pollan non sa essendo anglofono, le lingue coi generi non hanno mica solo il problema dei mestieri. E quindi nella stessa frase lo scrittore che però forse era scrittrice «deve ritrovare la fiducia in se stesso», e allora perché non «se stesso (o se stessa)», e alla frase successiva dev’essere «il solo a possedere» non so cosa, e allora non perché «il solo (o la sola)», a quel punto dovresti riempire di parentesi tutto il testo, ed è ovvio che non lo fai, mica è un articolo di Soncini che è pieno di parentesi e incisi e ostacoli tesi a scoraggiare il lettore (o la lettrice), è un libro che vorresti anche vendere, e quindi il tuo tentativo di assecondare la sedicennitudine della società resta un’incompiutezza, che d’altra parte è caratteristica ontologica dei sedicenni e quindi va bene così.

Poi alla mamma di Lorenzo glielo scrivono, che Calenda veramente ha parlato dei sudeti. Lei dice forse abbiamo acceso tardi, e loro crudelmente insistono, è stata l’ultima cosa che ha detto. A un certo punto risponde «Lo ha 9 anni, non ha studiato quella parte di storia. Ma sentiva di dover aggiungere Hitler al ragionamento sui dittatori. Questo mi ha colpito». È fiera di puccettone di mamma sua che ha «Hitler» come riempimento automatico alla casella «dittatori».

Quando avevo l’età di Lorenzo, andava moltissimo un romanzo per bambini intitolato Quando Hitler rubò il coniglio rosa. Per fortuna non c’erano i social e nessuno si filava i bambini, per fortuna mia madre quant’era intelligente la puccettona di mamma sua lo diceva al massimo alle cognate, per fortuna oggi nessuno può venire a rinfacciarmi tweet che dimostrassero che, per quel che ne sapevo, la più imperdonabile colpa di Hitler era stata costringere una bambina berlinese a separarsi dal suo peluche.

Estratto dell'articolo di Claudia Guasco per “il Messaggero” il 12 ottobre 2022.

«Ora basta, fila in camera tua». Seguono, di norma, strilli, pianti e ripicche. È la punizione più vecchia del mondo e, dal 2008, è inserita dal Consiglio d'Europa nell'opuscolo che suggerisce ai genitori come comportarsi in caso di malefatte di un figlio piccolo. 

Ha rotto il vaso di porcellana del salotto? Si rifiuta di fare i compiti? Primo, nervi saldi: «Bisogna reagire al comportamento scorretto con spiegazioni e in modo non aggressivo, con castighi come il time out, la riparazione dei danni o una decurtazione della paghetta». Ma proprio il time out, l'obbligo per il bimbo di andare nella sua stanza, sarà depennato dalle norme di comportamento del buon genitore. Il quotidiano francese Le Figaro ha intercettato una mail nella quale la direttrice della Divisione per i diritti dell'infanzia, Regina Jensdottir, definisce la punizione «obsoleta», il Consiglio d'Europa ha riflettuto e l'opuscolo che la incoraggia, ancora disponibile in rete, sarà presto modificato.

GESTIONE DEI CONFLITTI Soddisfatta StopVeo, una delle associazioni che hanno fatto pressione ritenendo il time out inadatto a risolvere le situazioni conflittuali. Ma segue dibattito. «In fondo, mi sembra una sanzione moderata. Poi bisogna capire i motivi perché il bambino è obbligato ad andare in camera sua», riflette Benjamin Sadoun, psichiatra infantile presso l'University Hospital Group di Paris. 

E la stessa StopVeo è cauta: «Segnaliamo che molti genitori fanno riferimento a questa soluzione per risolvere i problemi, ci auguriamo che l'abolizione venga spiegata dalla pedagogia e soprattutto sostituita da suggerimenti per provvedimenti meno violenti. Resta la raccomandazione che, se la tensione sale, meglio lasciare che il bambino pianga da solo e vada a calmarsi piuttosto che peggiorare le cose».

L.D.P. per "la Verità" il 15 ottobre 2022.

«Spesso aggrediscono per il gusto di far male, di umiliare, per rimarcare una superiorità. Sottrarre un oggetto non è tanto una rapina fine a sé stessa, ma un modo per punire, spogliando la vittima dei suoi beni. Le ragazzine sono talvolta più violente dei coetanei maschi perché hanno un modo di attaccare sofisticato, usano l'arma psicologica, puntano a colpire il lato fragile». Andreana Pettrone è una psicologa specializzata in psicoterapia sistemica relazionale. 

Fa parte del pool di medici che partecipano al progetto Informa a Napoli: con un camper fanno la spola davanti a tre istituti tecnici di Napoli che abbracciano una vasta area urbana. «È un errore pensare che la violenza sia solo nei ceti più disagiati, che si sviluppi in famiglie che vivono in condizioni di marginalità sociale. L'aggressività unita alla spavalderia la troviamo anche tra i ragazzi benestanti». 

Pettrone dice che il fenomeno più dilagante è quello delle gang rosa: «Sono gruppetti di adolescenti che iniziano con piccoli atti di bullismo e poi in un crescendo di violenza, organizzano veri e propri raid contro loro coetanee. Di solito agiscono in branchi tutti al femminile. I pretesti sono i più disparati: da ritorsioni sentimentali, alla punizione per una presunta maldicenza o semplicemente il gusto di umiliare chi è isolata, chi non riconoscono come una loro pari». 

Secondo la psicologa vale molto l'omologazione fisica: «Chi non condivide un look, un atteggiamento dominante, è esclusa e bullizzata». Le frasi che ricorrono spesso a spiegare gli attacchi violenti - «non risparmiano alla vittima calci, pugni, graffi, sputi» - sono: «Meritava solo di essere picchiata» e «se l'è andata a cercare». Ma se poi viene chiesto loro di dare una spiegazione ulteriore, «non sanno cosa dire, c'è un vuoto linguistico disarmante», spiega Pettrone. 

A differenza dei coetanei maschi, le ragazze usano con compiacimento narcisistico i video che mettono sulle reti sociali. «Si compiacciono non solo di aver umiliato la vittima, ma anche di avere un riconoscimento pubblico, tramite i like, delle loro bravate. Cercano spesso una platea maschile come a dimostrare di essere più dure degli uomini. Il piacere maggiore lo traggono dal consenso dei coetanei maschi. Si scambiano tra loro nelle chat i commenti e li rilanciano alla ricerca di una approvazione più ampia possibile». 

Le modalità di aggressione, dice la psicologa, sono ripetitive. «Circondano la vittima, che di solito ha l'apparenza debole. L'aggrediscono e la filmano. L'obiettivo è totalizzare più like possibili sui social. La loro speranza è che i video diventino virali». Talvolta si formano gang miste.  

«Le ragazzine vengono accettate perché fidanzate di uno del branco, c'è una sorta di iniziazione sessuale. Ma una volta entrate nel gruppo tendono in breve tempo a uscirne per creare una loro gang. Mentre tra i maschi la gerarchia è più marcata, tra le femmine è sfumata, sono quasi tutte sullo stesso piano, non ci sono leader. Sono sfacciate, audaci e la maggior parte abituate alla violenza in famiglia, per loro l'aggressività è naturale. Quelle che vengono da famiglie benestanti, spesso emulano i video». 

E la reazione dei ragazzi? Pettrone commenta che «tendono a minimizzare gli atteggiamenti violenti delle coetanee, a sminuirne il valore perché si sentono in competizione e in un certo senso le temono. Talvolta sono divertiti dalla tipologia delle ragazze cattive e questo non fa che accrescere il loro compiacimento.  

Si sentono al centro dell'attenzione maschile e la loro smania di protagonismo è soddisfatta. Fanno a gara sul social Tiktok per le bravate. Acquisiscono una parità distorta nella violenza. Imitano molto le eroine dei film che hanno tratti mascolini e ostentano forza e aggressività». Pettrone, raccogliendo le esperienze dei ragazzi, ha rilevato che ci sono videogiochi e film diventati modelli «cult» di violenza. Come il Gta, in cui vince chi ruba e violenta le donne.  

È vietato ai minori ma dilaga proprio tra di loro. «Lo spaccio di droga, lo sfruttamento della prostituzione e l'incitamento alla violenza non dovrebbero costituire la principale trama di un videogioco per adolescenti. Eppure alcuni di questi videogiochi che si basano proprio su una serie di attività criminali finalizzate a conseguire i punti sono molto vendute tra i giovani», spiega la psicologa. 

«Più si spara, più si uccide e più si sale nella graduatoria. La classifica si scala facilmente se tra le vittime ci sono i poliziotti. In ragazzi già predisposti all'aggressività, film e giochi forniscono modelli, lanciano messaggi negativi che trovano terreno fertile tra le baby gang». Nel camper del progetto Informa arrivano anche i genitori. Pettrone sottolinea che tali fenomeni di violenza di gruppo sono radicati soprattutto lì dove le famiglie sono assenti: «I genitori non sanno più mettere un limite, stabilire regole. 

Il che consente di scrollarsi di dosso le responsabilità. C'è la cultura dell'adolescente che deve essere libero. Così accade che difendono i figli anche di fronte ad atti gravi. Cercano di addossare la colpa all'esterno, agli insegnanti, agli amici».

Bullismo: le cause, i segnali da non sottovalutare e come comportarsi. Un fenomeno attuale alla cui base vi è la scarsa autostima. Alla vittima e all'aggressore è consigliato un percorso psicoterapeutico. Maria Girardi l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il bullismo è purtroppo un fenomeno tristemente attuale e in costante crescita. Secondo uno studio condotto dalla ONG internazionale Bullismo Senza Frontiere tra gennaio 2021 e febbraio 2022, in Italia 7 bambini su 10 subiscono ogni giorno una qualche forma di vessazione. Il numero totale dei casi ammonta a 19.800. Il bullismo consiste in una serie di comportamenti violenti messi in atto da una o più persone (i cosiddetti bulli) nei confronti di una o più vittime. Si tratta di aggressioni fisiche e verbali che hanno gravi ripercussioni psicologiche su chi le subisce. Il malcapitato, infatti, può sviluppare depressione e modalità autolesionistiche che, se non comprese e trattate per tempo, possono addirittura sfociare nel suicidio. Seppur la maggioranza dei casi si verifichino a scuola (gli adolescenti sono a maggior rischio), non è affatto raro che le realtà bullizzanti prendano piede anche tra gli adulti, ad esempio in ambito lavorativo e sportivo oppure sul web.

La parola bullismo deriva dal verbo inglese "to bull" che significa appunto "prevaricare". In realtà il termine "bullo" nella lingua italiana non ha avuto sempre un'accezione negativa. Basti pensare, ad esempio, che nel dialetto romano risalente alla seconda metà dell'Ottocento esso era spesso seguito dall'espressione "de Roma" o "de Trastevere" per indicare i popolani, spesso mossi da un desiderio di realizzazione personale, che capeggiavano un determinato rione. Le prime ricerche sul bullismo come oggi lo conosciamo furono svolte nei Paesi scandinavi a partire dagli anni Settanta. Tra questa è nota un'analisi derivata dalle indagini condotte dallo psicologo Dan Olweus in seguito al suicidio di due studenti stanchi di subire le ripetute vessazioni inflitte loro da alcuni amici.

Tipologie di bullismo

Il bullismo può essere diretto o indiretto. Nel primo caso si verificano aggessioni esplicite e le vittime predilette sono soprattuto i bambini e i ragazzi. Il secondo, invece, è caratterizzato da strategie di controllo sociale e di manipolazione che portano chi le subisce all'isolamento sociale. Queste dinamiche sono più frequenti tra le ragazze e sul posto di lavoro. Quattro sono le tipologie del fenomeno:

Fisico. Il bullo assalta la vittima con azioni violente quali calci, spintoni e schiaffi. Inoltre mette in atto furti o distrugge gli effetti personali di chi è preso di mira;

Verbale. Il bullo aggredisce la vittima con insulti, urla, minacce e parolacce. Mette altresì in giro calunnie sulla stessa;

Cyberbullismo. Il bullo tormenta la vittima tramite il web insultandola o diffondendo sui social foto, video e informazioni personali;

Sociale. Il bullo si pone l'obiettivo di creare un vuoto sociale attorno alla vittima che viene esclusa da cene, riunioni e compleanni.

Si può parlare di bullismo nel momento in cui esistono tre condizioni: la premeditazione, la reiterazione e lo squilibrio relazionale tra bullo e vittima. È bene poi ricordare che esistono forme più sottili di vessazioni che, ad ogni modo, non sono meno gravi: risatine, sguardi, sussurri, pettegolezzi.

Cyberbullismo e mobbing

Una deriva molto diffusa del bullismo è il cyberbullismo, ossia la sua trasposizione in ambito virtuale. Le aggressioni vengono rivolte al malcapitato attraverso la tecnologia e quindi con una serie di azioni quali: divulgazione di foto, video e informazioni personali, invio di messaggi pregni di insulti e minacce, commenti offensivi, telefonate a qualsiasi ora del giorno e della notte. Il cyberbullismo può riguardare chiunque, anche persone adulte. A dar manforte ai bulli è poi l'anonimato offerto da internet che consente loro di sfogare frustrazione e rabbia in maniera "protetta". Rientra infine nel cyberbullismo il cosiddetto "revenge porn", ovvero la pratica di diffondere sul web foto e video intimi che la stessa vittima ha condiviso ingenuamente con il suo persecutore.

Botte alla disabile per un like su Instagram

Il bullismo in ambito lavorativo prende invece il nome di "mobbing" e si manifesta con determinati comportamenti messi in atto dai colleghi (mobbing orizzontale) o da un superiore (mobbing verticale): emarginazione, calunnie, pettegolezzi, insulti, diffusione di informazioni personali. Si può parlare di mobbing nel momento in cui le persecuzioni sono reiterate per almeno sei mesi.

I protagonisti del bullismo

Tracciare un profilo preciso dei protagonisti del bullismo è difficile se non impossibile perché ogni caso, con le sue infinite sfumature, è a sé. Tuttavia numerosi studi concordano sul fatto che, quasi sempre, il bullo ha una personalità narcisista. A caratterizzarla, dunque, è l'arroganza, l'egocentrismo, l'estroversione e l'esibizionismo. In realtà dietro tutta questa baldanza si cela una persona che teme il rifiuto e che pertanto vive in continua competizione con il mondo e mal sopporta critiche e fallimenti. Il tono dell'umore è tendenzialmente basso. La frustrazione che permea il suo animo è spesso espressa attraverso scatti di rabbia. Il bullo cerca di riempire il proprio vuoto interiore con continue gratificazioni materiali. L'empatia verso il prossimo è totalmente assente così come l'autostima personale.

Un libro contro i bulli

Seppure tutti possano essere presi di mira, la vittima prediletta condivide con il suo persecutore la mancanza di amor proprio. La maggior parte delle volte, per via di alcune sue caratteristiche (aspetto fisico, disabilità, religione, orientamento sessuale, etnia) viene isolata ed è quindi priva di una rete sociale. Quella stessa cerchia di soggetti che, pur assistendo alle aggressioni, non fa nulla per paura o per indifferenza. Possono quindi definirsi complici al pari di coloro che aiutano il bullo direttamente o indirettamente a sfogare il suo livore. Ad esempio incitandolo, ridendo e riprendendo le violenze con il cellulare.

Bullismo: cause e conseguenze

Secondo gli esperti il bullismo è l'esito di un'interazione di fattori genetici, sociali e ambientali:

Fattori genetici. Da alcuni studi è emerso che nei bulli le aree cerebrali che regolano il controllo degli impulsi, il rinvio della gratificazione e la capacità di comprendere le relazioni di causa-effetto funzionano in maniera anomala. Inoltre la possibilità di insorgenza di comportamenti violenti aumenta se coesiste un disturbo neurologico o una familiarità con deficit verbali e delle funzioni esecutive;

Fattori sociali. A condizionare gli atteggiamenti del bullo è quasi sempre un ambiente familiare caratterizzato da una scarsa tolleranza alla diversità che dunque, in un certo senso, lo "autorizza" a riversare la sua rabbia su individui da lui considerati distanti. Inoltre la madre è spesso una donna che coinvolge il figlio nei conflitti della famiglia e che lo punisce utilizzando le maniere forti;

Fattori ambientali. La violenza domestica è un importante campanello d'allarme così come l'uso di alcol e di droghe.

Le conseguenze del bullismo riguardano entrambi gli attori: la vittima e il bullo. A breve termine la vittima, oltre a vivere con angoscia l'isolamento sociale e lo scarso rendimento scolastico o lavorativo che segue alle vessazioni, può sviluppare disturbi psicosomatici che danno voce al suo malessere (mal di testa, gastrite, insonnia, stanchezza cronica). A lungo andare potrebbe avere difficoltà nella gestione della rabbia e delle relazioni sociali e soffrire, altresì, di disturbi psichiatrici e dell'umore.

Anche il bullo è a rischio. A breve termine, al calo del rendimento scolastico o lavorativo, può seguire l'abbandono degli studi o dell'impiego. A lungo termine, invece, i suoi disagi potranno esprimersi attraverso l'abuso di sostanze stupefacenti o con l'adozione di un comportamento violento in ambito familiare e sociale.

Bullismo: i segnali di pericolo e come comportarsi

Gli adulti vittime di bullismo manifestano un malessere più sfumato, non sempre di facile interpretazione. Sono presenti sentimenti di tristezza e di sfiducia, accompagnati da cambiamenti del tono dell'umore. Nei bambini e negli adolescenti, invece, i campanelli d'allarme sono più chiari e devono destare immediatamente dei sospetti:

Evitamento scolastico;

Diminuzione del rendimento scolastico;

Sbalzi d'umore;

Disturbi del sonno;

Malesseri frequenti quali mal di pancia e mal di testa;

Isolamento sociale;

Richiesta eccessiva di soldi;

Presenza di lividi, escoriazioni, vestiti strappati, oggetti rovinati.

Che si aggredisca o che si subisca è fondamentale, con il sostegno della famiglia e della scuola, intraprendere un percorso psicoterapeutico al fine di individuare le radici del disturbo e di superarlo. A tal proposito si rivela efficace la terapia cognitivo comportamentale. Le vittime imparano così a riconoscere i segnali emotivi della rabbia e quindi a difendersi. Ma al tempo stesso lavorano sulla propria mancanza di autostima e sulle conseguenze ad essa correlate. Il bullo, invece, prende consapevolezza dei suoi schemi disfunzionali e migliora le sue abilità sociali.

Le difficili relazioni tra ragazze e ragazzi. Il bullismo è realtà più che tangibile. Un fenomeno di cui per fortuna si parla più di prima, ma che è sempre esistito. Lisa Ginzburg su La Gazzetta del Mezzogiorno l'8 Ottobre 2022.

Buongiorno Lisa, mia figlia ha 13 anni, e da quando è ricominciata la scuola torna a casa sempre malinconica e di malumore. Io e il padre le abbiamo chiesto con insistenza il motivo del suo turbamento: alla fine ce lo ha raccontato. Una sua compagna si sente bullizzata dai maschi della classe e sta cercando la solidarietà delle altre femmine. Loro non gliela danno perché non hanno «prove», il clima nella classe è diventato di tutti contro tutti e l’atmosfera è molto pesante. Come genitore sono colpita da quanto siano violente e difficili queste relazioni tra i ragazzi e le ragazze. E non so bene come stare vicina a mia figlia.

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Gentile Signora, la prima adolescenza, ah che tormento! Devo dire ne conservo pochi, oscuri ricordi – è strano come la nostra memoria molte volte sappia liberarsi di certe questioni passate le più spinose: una forma di amor proprio, mettiamola così. Perché senza dubbio si tratta di una lunga fase di tormento, di umori a dir poco lunatici, di una insicurezza di sé che rende le relazioni con gli altri coetanei decisive ma anche così fluttuanti, così «strane». Strana è anche la vicenda che lei descrive: provo a immaginare questo fronteggiamento tra ragazzini maschi probabilmente immaturi, troppo aggressivi, e dall’altra parte una ragazza che non sa come avere a che fare con loro, né sa come difendersi e cerca l’appoggio delle altre femmine.

Il bullismo è realtà più che tangibile: ne troviamo sui media cronache quotidiane. Un fenomeno di cui per fortuna si parla più di prima, ma che come altri fenomeni in realtà è sempre esistito. Che conta, tra le sue derive più tristi, accanto a quella di violenza palese e palese esclusione della «vittima» (il bullizzato) anche la triste conseguenza di generare un clima di omertà. Chi ha visto, chi ha le prove, chi non ha visto e non ne ha: indagini inquisitorie, spesso ossessive, con tutti gli sconquassi che episodi del genere comportano sul piano delle relazioni interpersonali tra compagni. Chi dovrebbe concretamente occuparsi di dirimere situazioni del genere comunque secondo me sono i professori. Nessun altro più di loro. Loro a dover creare solidarietà tra i ragazzi, tra i maschi e le femmine ma anche tra gli appartenenti a ciascuno dei due generi. Analogamente a come succede nelle famiglie, tra i fratelli e le sorelle, dove la solidarietà «in orizzontale» non funziona, significa che qualcosa non va a livello «verticale»: che l’unione e l’alleanza non vengono favorite, insegnate, trasmesse. Come mai i professori di sua figlia non percepiscono queste tensioni? Come mai non si impegnano per impedire questo clima di ostilità, omertà, offesa e sospetto estesi? Magari come lei e suo marito avete fatto con vostra figlia, si tratta di fare in modo che i ragazzi possano sfogarsi, dar voce ai loro problemi. Fare in modo che ragazzi parlino, si aprano, comunichino di più e meglio tra di loro.

Manca il venire ascoltati, per moltissimi adolescenti: sentire che esiste uno spazio a loro dedicato in cui dar voce alle loro insicurezze, al senso di mancanza, ai vuoti, e perché no, anche alla loro depressione (stato d’animo demonizzato e temuto, ma che quello anche fa parte dell’età, ne è componente endemica). Per stare più e meglio vicina a sua figlia potrebbe spingerla a trasmettere tal genere di messaggio ai suoi professori: che si occupino, oltre che di insegnare, anche di creare maggiore armonia tra loro allievi. Si diano da fare per uscire dall’asfissia di questi microclimi di reciproche accuse, omertà, gravi silenzi. Per il poco che so e capisco degli adolescenti di adesso (fermo restando che ogni tentativo adulto di decifrare l’adolescenza è fallace in partenza, perché trattasi di età il cui mistero quasi mai è approcciato con il dovuto rispetto), mi sembra che abbiano un gran bisogno di ascolto. Sentire che si dà loro importanza. Dopodiché, nello specifico, se la compagna di scuola di sua figlia chiede una solidarietà che non le viene data dalle altre ragazze per mancanza di «prove», può essere che una parte di ragione sia anche loro. L’intera faccenda (forse un po’ assurda e spropositata ma chissà come andata per davvero, e di sicuro per questi ragazzini importantissima) ha assunto una portata anche etica, che interpella l’onestà del singolo comportamento di ciascuno, e questo, a voler vedere il lato positivo della storia, è un aspetto positivo, un terreno di possibile maturazione di tutti.

Che li si rispetti: ecco di cosa gli adolescenti più hanno fame, sete, bisogno. Sentirsi visti, considerati, ecco l’importante. Come genitori e come professori l’adolescenza può esasperare; ma sono tanti, troppi gli adulti che voltano la testa dall’altra parte pur di non guardare. Magari perché le dissimmetrie di quella fase della vita nel fondo ci spaventano. Un’età «troppo» complicata: e invece santa complicazione, foriera di tali meravigliosi frutti. Abbracci forte e sua figlia e vada a parlare con i suoi professori. Qualcosa migliorerà, ne sono sicura.

Sesso? No, grazie. Cresce la generazione dei senza desiderio. In un’epoca di corpi esposti e passioni esibite, a sorpresa avanza la recessione sessuale. Come svela una ricerca che raccontiamo in anteprima. Simone Alliva su L'Espresso il 19 settembre 2022.

In principio era il sesso. Una forza potente, libera e primitiva. Presenza originaria, ingombrante per le religioni, che spesso tentano di incanalarla, controllarla e regolamentarla. Il sesso esiste e resiste da sempre. Eppure, oggi la mancanza di libido ed erotismo si estende davanti a noi come un inatteso arcipelago arido. È un tempo nuovo, molto diverso da quello che ci lasciamo alle spalle.

Estratto dell'articolo di Michela Allegri per “il Messaggero” il 6 ottobre 2022.

Pestaggi di gruppo tra ragazzini, violentissimi, organizzati in chat e filmati con i cellulari. Ma anche foto di compagne di classe minorenni svestite, video che immortalano momenti intimi e privati dati in pasto agli amici, condivisi con centinaia di giovanissimi. Una di loro, imbarazzata perché un suo filmato hard era diventato virale, racconta di avere tentato il suicidio. Un'inchiesta choc della Procura dei minorenni di Roma fotografa il degrado dell'adolescenza. Non c'entrano quartieri ed estrazione sociale: i giovanissimi sono organizzati in bande che coprono praticamente ogni zona della Capitale.

Tutto è iniziato nell'aprile 2021, con gli appuntamenti organizzati al Pincio, la terrazza di Villa Borghese che si affaccia sul cuore di Roma: gruppi di ragazzini - tra i 13 e i 17 anni - si sono incontrati per «sfondarsi di botte», raccontano entusiasti nei messaggi. Ed è culminato il 2 maggio del 2021, con il pestaggio di un diciassettenne disabile pubblicato in una diretta Instagram. È proprio dagli atti di questa inchiesta - la Procura ha chiuso le indagini a carico di 5 minori e della fidanzata di uno di loro - che emerge l'orrore. […] 

LE BANDE

C'è la banda «18», per esempio, che su WhatsApp riunisce 100 ragazzi: il gruppo frequenta le zone Garbatella e Eur. E poi ci sono i loro acerrimi nemici del gruppo «17», che frequenta Roma Nord. [...] Sono queste due baby gang le protagoniste della maxi-rissa organizzata al Pincio il 10 aprile 2021. 

La rissa viene raccontata negli sms come un'impresa memorabile: «C'erano almeno 30 camion delle guardie, npoi capì, li avemo pestati e semo scappati». E ancora: «È partita pure na coltellata[…] Un amico ha paura delle indagini: «Ve se bevono», cioè «vi arrestano».  […] La situazione precipita all'inizio di maggio, con il pestaggio del diciassettenne disabile. Il video, diffuso sui social, fa scalpore tra le comitive. In molti denunciano il gesto e i «17» giurano vendetta. 

[…] Con l'intervento della Polizia, dopo la vicenda del diciassettenne, i ragazzini cercano di disfarsi delle prove e abbandonano le chat. Ma in settembre viene inaugurato un nuovo gruppo: «Siamo tornati». […]

I VIDEO

E poi ci sono i video di minorenni nude che girano nelle chat di gruppo. «Non si deve sapere che li avete», scrive uno. Poi invia due clip: «Buon divertimento». Un amico chiede i video di una compagna di classe che trova carina. «La ho», dice un altro. Poi invia i file in cui si vede una ragazza in topless intenta a ballare. […] 

"Il problema è come le famiglie si relazionano con i figli". Gioventù bruciata tra social e violenza, la colpa “è dei genitori che fanno i giovincelli”. Francesca Sabella su Il Riformista il 13 Settembre 2022 

“Il 21esimo secolo ci sta portando delle forme di violenza che sono barbare, l’aspettativa di un tempo caratterizzato dall’educazione, dalla

conoscenza, dall’educazione sono tramontate. Temo che ci troveremo davanti una generazione che non ha contezza e strumenti per poter affrontare la realtà che è ben diversa da quella che vivono imprigionati sui social”. Ne è convinto Giacomo Di Gennaro, professore di sociologia giuridica, della devianza e mutamento sociale presso l’Università Federico II di Napoli

Professore, i nostri ragazzi inghiottiti da una spirale di violenza, ma anche di solitudine e fragilità. La tecnologia che ruolo ha in questo momento?

Un primo aspetto che io sottolineerei è ovviamente l’uso del digitale e come attraverso il web e i social passi una quantità di informazioni, di messaggi, alcuni anche attrattivi a forte contenuto violento. È il carattere ambivalente della tecnologia. Ritengo sicuramente che l’uso dell’informatica, del pc e dei social sia un fatto positivo, si accede alle informazioni in maniera immediata, però è anche vero che c’è un imprigionamento che conferisce un nuovo volto anche alla modalità con cui si organizza e si prepara la violenza. Questo imprigionamento riguarda esattamente l’uso del cellulare e dei social-media che funzionano come dispositivi che filtrano e selezionano in maniera anche più grave alcuni messaggi e alcuni eventi. Come dicevamo per i decenni precedenti, cioè che si formavano le tribù, oggi è uguale: parliamo di tribù digitali. E questo conferisce alla violenza un volto nuovo, un carattere e una modalità di realizzarla e rappresentarla del tutto nuova. Ci sono situazioni violente che vengono organizzate ex-ante e poi si consumano di persona, organizzando anche l’incontro. Nello stesso momento, i social diventano dei dispositivi per incanalare delle condizioni di assoggettamento e vittimizzazione.

La tragedia del ragazzino di Gragnano lo ha dimostrato…

Sì. Non riusciva più a sostenere quel peso. Stigmatizzazione così forte da non reggere. Veniva da una famiglia perbene, andava bene a scuola, aveva proprio il profilo di un ragazzo che può essere facilmente vittimizzato. Le tribù digitali trovano dei terreni ideali in ragazzi che sono bravi e tranquilli. Abbiamo una popolazione che agisce in maniera cinica, violenta: c’è un agito violento di ragazzi e ragazze e sottolineo ragazze che stanno entrando su terreni dove la mascolinità e il machismo tipico del genere maschile viene assunto nelle maniere più deteriori. Ormai nello stile di condotta e nell’agito violento di molte ragazzine si riproduce l’atteggiamento tipico del maschilismo più retrivo.

C’è un problema di mancato controllo da parte dei genitori sui figli e sui social che utilizzano o c’è altro?

No, più che mancato controllo ritengo che le barriere regolative dei comportamenti dei figli, le famiglie le hanno abbassate se non totalmente annullate. Ho l’impressione che uno degli effetti di lunga durata di quella che è stata la rivoluzione del ’68 è che sono venute fuori generazioni che non sono più capaci di esercitare l’autorità e la responsabilità genitoriale. Parlo di autorità, non di autoritarismo. Questo vuol dire che un adulto per il modo in cui agisce e per il modo in cui si relaziona al proprio figlio, diventa un punto di riferimento ed è considerato una persona che ha qualcosa di più da dire rispetto a me figlio, a me giovane. E questo non c’è più: noi ci troviamo difronte a genitori che vogliono fare i giovincelli. C’è una cultura del giovanilismo che ha talmente imbrigliato i genitori che non sono più capaci di fare i genitori, cioè di essere autorevoli nei confronti dei figli. E quindi non li seguono. Ci sono ragazzi di tredici, quattordici anni che alle 3 del mattino sono ancora in giro per la città, ma che insegnamento possono ricevere dagli adulti se gli è concesso questo? La briglia regolativa degli standard educativi e di che cosa fare e cosa non fare si è talmente allentata che i ragazzi oggi fanno quello che vogliono. C’è un problema serio che investe le famiglie e che riguarda come le famiglie si relazionano ai figli e come li rendono responsabili. Basti vedere quanto è aumentato il consumo di alcolici tra i minori: in maniera esponenziale. Io voglio mettere in connessione le due cose: cioè comportamenti dei ragazzi e responsabilità dei genitori.

Come si costituiscono queste tribù digitali?

Si costituiscono perché si sono abbassate le barriere di regolazione della vita quotidiana di questi ragazzi tanto è vero che i genitori non hanno più il controllo di quante ore il ragazzo passa sui social. Non hanno il coraggio e la forza di sottrarre questi strumenti ai loro figli. Un’esposizione elevata deve essere regolata altrimenti genera dipendenza. Ci sono studi di tutto il mondo che parlano di dipendenza digitale e dimostrano che l’elevata esposizione digitale ha degli effetti spaventosi sui neuroni e sulla capacità percettiva dei ragazzi, perché ne abbassa la qualità.

Come si inverte questa deriva sociale e culturale?

Moltiplicando i luoghi nei quali i genitori possano acquisire l’abc del controllo dei dispositivi tecnologici dei propri figli. Ma io non sono d’accordo sul fatto di scaricare sulla scuola ogni limite che appartiene alla vita sociale. Perché se noi ci aspettiamo che la scuola faccia educazione alla legalità, educazione sessuale, educazione allo sport, educazione ed educazione, mi viene da chiedere: ma la scuola ha preso il posto della famiglia? Perché se ragioniamo così, la conoscenza, la trasmissione del sapere, le competenze chi le insegna se la scuola non ha più tempo? Dobbiamo prendere atto che la maggior parte delle famiglie non svolge più il suo ruolo. La scuola deve educare alla comunicazione, devono imparare a raccontare ai genitori ciò che gli succede fuori casa. La scuola deve innervare il vantaggio della comunicazione, dal canto loro i genitori non devono assumere una funzione di giudici ma di ascoltatori che poi aiutano a risolvere la questione.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

"Ucciditi", tredicenne giù dal balcone. Ipotesi istigazione al suicidio dietro alla morte di Alessandro. Almeno 3 identificati. Stefano Vladovich su Il Giornale il 3 Settembre 2022

«Falla finita». «Ti devi uccidere». Identificati almeno tre cyberbulli, prossimi indagati per istigazione al suicidio. Alessandro Cascone, 13 anni appena, non ce l'ha fatta più. Giovedì mattina ha preso una sedia della cucina, ha aperto la zanzariera della finestra e si è arrampicato sul balcone di casa, in via Lamma 7 a Gragnano. Il cavo dell'antenna tv staccato, in un primo momento, ha fatto pensare a un drammatico incidente domestico. Invece Alessandro si è lanciato dal quarto piano, giù per 15 metri, finendo su un parcheggio privato. Morto all'istante.

I soccorritori, allertati alle 11,20 dai vicini che hanno sentito lo schianto, non hanno potuto fare nulla. La salma, in attesa degli esami di laboratorio, è stata portata all'Istituto di medicina legale di Castellamare di Stabia. Ma ai carabinieri della stazione di Gragnano e del nucleo operativo di Castellamare la storia dell'antenna da sistemare non convince affatto. Sequestrano immediatamente il cellulare di Alessandro, spulciano uno a uno i messaggi via chat e, soprattutto, i post sui vari social. Non ci vuole molto per scoprire le vessazioni quotidiane cui il 13enne era sottoposto: minacce di morte, insulti di ogni genere, offese crudeli e, soprattutto, l'invito a togliersi la vita. La conferma che Alessandro si è suicidato, poi, è nell'ultimo messaggio inviato alla fidanzata. Poche parole di addio che mettono la parola fine a tutti i suoi incubi. E ai dubbi degli investigatori. Presa a verbale dal procuratore Nunzio Fragliasso, alla presenza dei genitori, l'adolescente conferma. «Alessandro era preso di mira da vari ragazzi, anche più grandi di lui». I carabinieri, intanto, avrebbero già individuato gli autori dei messaggi di morte, alcuni della stessa età di Alessandro, alcuni maggiorenni, altri di pochi anni di più. Tanto che l'informativa è stata inoltrata anche alla Procura dei Minori di Napoli che dovrà interrogarli nelle prossime ore. «L'istigazione al suicidio, di solito, è un reato difficile da sostenere - spiegano al comando provinciale di Napoli -. Non basta dire a una persona ammazzati e poi essere accusati di averla indotta a farlo. Ma quando uno viene preso di mira sistematicamente, senza tregua, allora l'ipotesi di reato è concreta». Fondamentale, nelle prossime ore, l'analisi completa delle chat e dei post inviati ad Alessandro via social, anche quelli rimasti in rete per poco tempo (come le storie «a tempo» su Instagram), per formulare le accuse per il gruppo di bulli. E iscrivere i primi responsabili sul registro degli indagati. Solo allora, spiegano ancora gli inquirenti, sarà possibile procedere all'esame autoptico, con il conferimento dell'incarico al medico legale e la nomina dei periti di entrambe le parti. Uno scenario, assicurano gli inquirenti, moto prossimo. «L'autopsia ci sarà entro domani», chiosano. Fra gli accertamenti anche gli esami tossicologici per stabilire se il 13enne, per compiere l'estremo gesto, abbia bevuto alcol o assunto droghe. Figlio unico di un agente di commercio e di un'avvocatessa, il ragazzo al momento del dramma era solo in casa. Iscritto all'ultimo anno della scuola media, Alessandro era un adolescente come tanti, educato, preciso, e molto preparato a scuola, come ricordano gli insegnanti. Ma anche un ragazzino molto fragile. La «vittima» ideale da tormentare per i bulli di turno. Il sindaco di Gragnano, Nello D'Auria, ha sospeso ogni attività programmata e dichiarato il lutto cittadino.

Il suicidio di Alessandro, quella molla che trasforma un ragazzo in aguzzino. Claudia de Lillo su La Repubblica il 5 settembre 2022.

Lo vessavano, pare. Sul suo cellulare hanno trovato messaggi inequivocabili. "Ti devi ammazzare", gli scrivevano. "Buttati giù". "Ucciditi". Chissà se volevano veramente che quel tormento diventasse ineludibile imperativo. Chissà cosa pensavano. Chissà cosa pensano ora che il loro bersaglio non c'è più. 

Alessandro aveva tredici anni, una ragazzina a cui ha lasciato un messaggio, genitori che lo amavano. Ce lo raccontano alto, bello, intelligente, bravo a scuola.

È precipitato dalla finestra del quarto piano di casa sua a Gragnano, in provincia di Napoli. Sembrava un incidente. Invece no.

La Procura di Torre Annunziata ha aperto un'inchiesta. Ipotesi di reato: istigazione al suicidio. Tra i cinque indagati ci sono dei minorenni.

Questa storia apre abissi spaventosi su cui è difficile sporgersi. Alessandro avrebbe iniziato la terza media, come mio figlio, come tanti figli e tanti nipoti. Per quello che sappiamo di lui, Alessandro poteva essere nostro. Acerbo, criptico, inafferrabile, fragile, perfetto. Sono un po' tutti così, no? La sua potenziale prossimità dà le vertigini. Nell'inevitabile e involontario transfert, è con le vittime che ci immedesimiamo, con i loro genitori innamorati, con i loro affetti spezzati.

E quei cinque, tra cui qualche minorenne, iscritti nel registro degli indagati? Bulli senza volto e senza contorno, prevaricatori, estensori di imperativi indicibili, tessitori di trame atroci. Da loro distogliamo lo sguardo e il pensiero. Groviglio di devianza. Vergognoso fallimento sociale. Chi sono costoro? Giovani del quartiere. Non facevano parte delle amicizie di Alessandro. Ergo sono altro da noi. Ne siamo sicuri? Per ogni vittima c'è almeno un carnefice. E se anche lui fosse potenzialmente nostro? Non ce lo domandiamo mai. Anche figli e nipoti bulli sono acerbi, inafferrabili e fragili. Anche in loro esistono abissi che attraversiamo inconsapevoli.

La vita all'apparenza perfetta della vittima "avrebbe scatenato l'odio e il rancore dei carnefici". È una delle ipotesi al vaglio degli inquirenti. L'altrui felicità è una miccia tanto potente?

Cosa trasforma un "giovane del quartiere", un adolescente qualsiasi, un ragazzetto goffo e imberbe in un vettore implacabile di odio e rancore? Quando, in una chat, un emoji vira in imperativo mortifero?

L'improvvisa coscienza della propria forza - fisica o psicologica - può scatenare il desiderio incontenibile di farne uso. O abuso. L'analfabetismo emotivo, prerogativa frequente, non sempre sanabile, dell'adolescenza, provoca corto circuiti nelle relazioni. Chi non sa dirsi infelice, invidioso, frustrato, triste, cercherà la propria voce lungo la strada sudicia e dritta dell'aggressività e della violenza.

I bulli si nutrono dell'altrui fragilità. Alcuni se ne ubriacano fino a sentirsi onnipotenti. Hanno scritto "Ucciditi" ed è successo veramente. E adesso è finita per tutti.

Le minacce dall'ex e dai suoi parenti: contro Alessandro un complotto di famiglia. Conchita Sannino su La Repubblica il 7 Settembre 2022.  

La sorella della 14enne e altri consanguinei tra i sei cyber bulli indagati. Uno dei maggiorenni già denunciato per il pestaggio di un ragazzino di 12 anni

Tappati in casa, in fuga dallo scandalo, pronti a difendersi. I ragazzi accusati di aver spinto Alessandro a compiere quell’assurdo volo - giovedì scorso, dal balcone della propria abitazione, saranno forse gli unici, oggi, a non scendere in strada, per prendere parte all’addio che gli sta preparando il paese. Sono quasi tutti imparentati tra loro, si scopre. 

Gragnano, l’ex fidanzatina la regista di insulti e minacce ad Alessandro. Mariella Parmendola su La Repubblica il 6 Settembre 2022.

Svolta investigativa nell'indagine sulla morte del 13enne. Un’altra ragazza tra gli indagati che hanno ricevuto gli avvisi di garanzia

L’ex fidanzatina. Era lei la regista della strategia per terrorizzare Alessandro e punirlo per avere scelto un’altra. La rottura di un rapporto tra ragazzi, con il cuore ancora da bambini, è diventato il motivo di una ritorsione sempre più crudele. Tanto da indurre il tredicenne ad uccidersi pur di liberarsene. È lei, a cui Alessandro aveva voltato le spalle per una nuova ragazzina, una delle due giovani tra i sei bulli che hanno trasformato la sua vita in un inferno.

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 5 settembre 2022.

Mentre si indaga per chiarire il motivo che ha fatto finire nel mirino di una banda di bulli il tredicenne suicida giovedì scorso a Gragnano, ci si attende a breve l'invio delle prime informazioni di garanzia da parte della procura della Repubblica di Torre Annunziata e di quella minorile di Napoli titolari del fascicolo aperto dopo la tragedia. 

Sono sei i nomi che probabilmente già oggi verranno trascritti su altrettante informazioni di garanzia in cui è ipotizzato il reato di induzione al suicidio. Almeno quattro dei destinatari sono minorenni, uno è maggiorenne e ancora non è chiaro se la sesta persona abbia già raggiunto o no la maggiore età. In ogni caso si tratterebbe di giovani che hanno superato i quattordici anni e quindi sarebbero tutti imputabili. E inoltre sarebbero anche estranei all'ambiente scolastico del ragazzo, che frequentava le medie inferiori.

Le informazioni di garanzia consentiranno agli indagati di nominare i consulenti di parte che potranno assistere all'autopsia alla quale sarà sottoposto il corpo del tredicenne. La data dell'esame non è stata ancora fissata, ma anche qui ci si attende una decisione in tempi brevi, sia perché così le indagini si arricchirebbero di un elemento fondamentale, sia - e soprattutto - per consentire alla famiglia di organizzare i funerali. Quel giorno a Gragnano sarà anche proclamato il lutto cittadino.

Le indagini affidate ai carabinieri stanno cercando di chiarire i tanti punti ancora oscuri di questa vicenda. A cominciare dall'episodio che avrebbe scatenato l'assalto di messaggi minacciosi inviati via chat al tredicenne dal gruppetto di bulli. Trattandosi di una vicenda che coinvolge soprattutto minorenni, il riserbo degli inquirenti è assolutamente strettissimo. 

Tuttavia pare che all'origine dello scontro di tanti contro uno ci fosse una vicenda assolutamente banale, una discussione, se non proprio una lite, nata per questioni adolescenziali. Qualcosa che si sarebbe potuto chiudere subito e senza strascichi e che invece ha innescato un meccanismo di violenza verbale che ha portato fino alle più estreme conseguenze. Tra i messaggi di insulti e minacce ricevuti dal tredicenne nei giorni precedenti il suicidio ce ne sarebbe anche almeno uno molto esplicito in cui gli si intimava di uccidersi.

L'epilogo della vicenda dimostra che quei messaggi hanno avuto il peggiore effetto possibile sull'equilibrio psichico del ragazzo. Ma sia i suoi familiari che i suoi amici non riescono a spiegarsi perché lui non abbia voluto confidare a nessuno quello che gli stava accadendo. L'unico messaggio lo ha riservato alla fidanzatina, ma soltanto per dirle addio poco prima di lanciarsi dal balcone.

Per il resto non ha detto niente a nessuno. Sulla tragedia di Gragnano è intervenuta ieri anche la ministra dell'Interno Luciana Lamorgese: «Stiamo facendo tutti gli accertamenti e le verifiche sui siti e sui messaggi da cui trarre notizie».

Gragnano, il suicidio di Alessandro a 13 anni: tra gli indagati anche due ragazze. Fulvio Bufi su Il Corriere della Sera il 6 Settembre 2022.

Secondo le due Procure che indagano sarebbe stato spinto al suicidio da parte di bulli. Prima di lanciarsi nel vuoto ha inviato un messaggio alla fidanzatina. Ci sono anche due ragazze tra i sei indagati per istigazione al suicidio. 

È una storia di ragazzi. Ragazzini, anzi. Una storia che non sarebbe stata diversa da milioni di altre, se fosse rimasta nei binari dell’ordinarietà da cui era partita. Amori e fidanzamenti — termini per intendersi ma parole e concetti troppo grossi per chi ha 13 o 14 anni — che cominciano e finiscono nel giro di una settimana o un mese e dopo ne comincia uno nuovo. Cose normali a quell’età. Ma questa storia da normale che era è diventata sporca. Una sporca storia di bullismo e minace e insulti di tanti contro uno. E poi sempre peggio, fino all’epilogo tragico, con un ragazzino che precipita dal quarto piano e che poco prima manda alla fidanzatina un messaggio d’addio. Una storia della quale ora si definiscono i contorni e i retroscena. E di ognuno di quei bulli che mandavano i messaggi a valanga senza pensare alle conseguenze si comincia a delineare il ruolo e l’intensità della partecipazione. E si scopre che all’origine di tutto ci sarebbe stato un fidanzamento interrotto, una nuova ragazza che prende il posto di quella che c’era prima, e questa che reagisce con rabbia e rancore.

La dinamica

Ci sono passaggi formali ancora da attraversare nella tragedia di Alessandro, il tredicenne di Gragnano morto giovedì scorso volando dal balcone del quarto piano mentre era solo in casa. All’inizio sembrava un incidente perché lui, quando è caduto al suolo, stringeva tra le mani il filo dell’antenna, e si era quindi pensato che si fosse sporto per sistemare il cavo e avesse perso l’equilibrio. E invece poi è venuta fuori la storia delle chat di insulti, le minacce, i messaggi espliciti che lo invitavano a uccidersi. Ora che tutte le persone coinvolte sono state avvisate in modo da poter nominare un proprio consulente che assista all’autopsia per la quale oggi sarà conferito l’incarico, si delinea anche come era formato il gruppetto, almeno nelle persone individuate finora. Quattro minorenni (tre ragazzi e una ragazza) e due maggiorenni, tra cui ancora una ragazza. La storia riserverà sicuramente ulteriori sviluppi, perché la vicenda resta complessa e delicata. Per i sei indagati si ipotizza l’ istigazione al suicidio ma poiché la vittima è minorenne e ha anche meno di 14 anni potrebbe essere equiparata a persona non in grado di intendere e volere e configurarsi quindi addirittura il reato di omicidio. Ma qualunque sia lo scenario che prenderà corpo alla fine, appare ormai chiaro che sia stata quella decisione di Alessandro di lasciare la ragazza con cui stava e di cominciare a frequentarne un’altra a scatenare tutto. Però solo gli atti che le due procure (quella di Torre Annunziata e quella minorile di Napoli) adotteranno nei prossimi giorni potranno far capire meglio quale ruolo avrebbe avuto ognuno degli indagati e quanto pesante sia la responsabilità dei due maggiorenni. Tante cose restano da capire, anche se chi parla senza sapere non manca mai.

Le polemiche

Antonino Briguglio, coordinatore delle attività sportive della Scuola Ufficiali dei Carabinieri, commentando la vicenda, ha scritto un post in cui si legge: «Se allevi conigli non puoi pretendere leoni...magari la colpa è di chi non ha saputo far crescere adeguatamente quel ragazzino». L’Arma si è subito dissociata, ricordando il proprio impegno contro il bullismo, e ha fatto scattare un provvedimento disciplinare.

Titti Beneduce per corrieredelmezzogiorno.corriere.it il 5 settembre 2022.

Ha suscitato indignazione e polemiche il commento postato su Linkedin e poi cancellato da un ufficiale dei carabinieri a proposito di Alessandro, il ragazzino di 13 anni che si è lanciato nel vuoto a Gragnano perché minacciato dai bulli. «Se allevi conigli — scriveva l’ufficiale, coordinatore delle attività sportive della Scuola ufficiali dell’Arma — non puoi pretendere leoni. Magari la colpa è di chi non ha saputo far crescere adeguatamente quel ragazzino. Il problema con un bullo si risolve, da sempre, dimostrandogli che non hai paura di lui». 

Parole da cui il Comando generale dei carabinieri ha subito preso le distanze: «In merito ai contenuti pubblicati su una piattaforma social da parte di un ufficiale in relazione al suicidio di un 13enne, trattasi di commenti espressi a titolo personale, le cui responsabilità ricadono esclusivamente sull’interessato». Sul commento espresso dopo la morte del giovane di Gragnano, inoltre, l’Arma, «dal canto proprio, ha avviato un procedimento amministrativo per le valutazioni disciplinari».

Gianluca Nicoletti per “La Stampa” il 6 settembre 2022.

All'ufficiale Carabiniere Antonino Briguglio, detto Nino, mi piacerebbe poter domandare come si faccia ad allevare un figlio leone. È solo per saperlo, sono curioso, dal momento che in lui alberga la granitica certezza che un ragazzino di 13 anni che si suicida, perché distrutto dalla violenza lucida e continua di un manipolo di giovani criminali, abbia la colpa di essere stato educato dai suoi genitori a fare il coniglio. 

Di sicuro lui sarà un allevatore di leoni provetto, dal momento che è il coordinatore delle attività sportive dei futuri ufficiali dell'Arma. Immagino che per i conigli tra i suoi allevi non ci sia posto. Ci può anche stare, potrei però non dovere arrivare alla conclusione che chi non se la senta di affrontare il gruppo di bulli che lo martirizza con la Katana di Kill Bill, magari non ha proprio la vocazione di fare il difensore della legge.

Viene da pensare piuttosto cosa dovrebbero aspettarsi le innumerevoli vittime di prepotenti, già silenti e spaventate? Nel caso prendessero quel poco coraggio residuo decidessero di rivolgersi ai Carabinieri? Magari si sentirebbero dire da chi è stato formato con il metodo Briguglio che è colpa sua, perché è un coniglio. 

Certo ora scatterà l'onda del "dagli al buonista", più o meno la stessa che gridò al vilipendio delle Forze Armate quando qualcuno provò a fare una riflessione su quanto fosse lecito per allegri portatori di fiasco, convenuti a un raduno di ex Alpini, trattare le donne come orde di allupati (lupi o leoni sempre fiere sono, nessuno si offenda!). 

Prevedo ora un nuovo scatenarsi del fior fiore dei teorici del necessario ritorno alla maschia rudezza, coloro che chiusero quella vicenda con la sommaria sentenza che, alla fine, nessuna di quelle donne ha denunciato, era solo propaganda femminista, o il solito antimilitarismo dei comunisti con il Rolex.

Premesso che non sono mai stato comunista, nemmeno di sinistra. L'occhio di tigre mi fa pena come il figlio leone. Mai ho posseduto un Rolex, anzi non porto l'orologio da anni. Vorrei solo aggiungere, forse sorprendendo chi s' aspetta il j' accuse generico all'Arma, che non credo, anzi sono strasicuro, che il teorema Briguglio appartenga nemmeno da lontano ai protocolli di chi addestra i futuri ufficiali. 

Questo mio convincimento però porta con sé una conclusione assai più grave. L'idea belluina e arcaica della giustificazione di chi soverchia, adducendo la colpa di un comportamento passivo della vittima, fa parte probabilmente di una parte retrograda del nostro patrimonio genetico.

Con lo sforzo costante di civilizzarsi, molti di noi sono riusciti a relegarlo in un luogo recondito e inaccessibile del proprio pensare e interagire sociale.

Ci siamo civilizzati grazie alle analisi critiche della storia passata che leggevamo, la cultura a cui si conformavano le persone che scrivevano in libri e giornali, quelle che sedevano nelle aule del Parlamento, quelle che occupavano posti di rilievo nel pantheon delle celebrità. Ci saranno stati sicuramente tra loro farabutti, ipocriti, millantatori, disonesti; è innegabile. È altrettanto certo però che, almeno negli ultimi decenni, fossero state messe rigorosamente al bando le parole e i concetti che giudicavano un valore l'istinto predatorio, la violenza del forte sul debole, il vituperio di ogni fragilità intesa come attentato alla stirpe.

Quello che ora preoccupa è invece il consenso, diffuso e fomentato, che sembrerebbe premiare il recupero di una virile postura di rivolta contro il mondo moderno. È proprio in questa ubriacatura generale di una vittoria imminente della stirpe dei forti, puri e impavidi, che Antonino Briguglio ha pubblicamente osato scrivere quello che pensava. Il suo è stato il segnale che è già pronto a schierarsi a proteggere il credo di chi salirà sui carri del trionfo.

Vorrei sbagliarmi, temo però che dopo di lui saranno in molti a dare la colpa del tramonto dell'Occidente agli «psicoterapeutici che sproloquiano in tv», per poter finalmente abbandonare ogni scrupolo e gridare al mondo intero che «Per vincere ci vogliono i leoni». Si informassero però quanto fu funesto cantarlo in passato, magari inventerebbero nuove metafore per il marciare pregustando l'ebrezza di un nemico già sbaragliato.

Lutto cittadino a Gragnano. L’ultimo saluto ad Alessandro, lacrime e musica per l’addio al 13enne: “Che brutto scherzo”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 7 Settembre 2022 

Quasi un migliaio per l’ultimo saluto ad Alessandro, il 13enne di Gragnano morto la scorsa settimana dopo essere precipitato dal quarto piano dell’abitazione dove viveva. Tantissimi giovani presenti, alcuni compagni di scuola hanno esposto uno striscione (“Alessandro vive”) con la data della scomparsa, 3 settembre scorso.

Tra le lacrime e gli applausi della folla è arrivata la bara bianca di Alessandro. “Avevamo 3 anni quando ci siamo conosciuti, abbiamo subito legato… io e te c’eravamo ancora. Non pensavo che ci saremmo allontanati così presto, che brutto scherzo che hai fatto. Non posso crederci che non ci sarai più, saremo amici per sempre, non ti dimenticherò mai”. Recita così la lettera scritta da un amico di Alessandro, ma che non ce l’ha fatta a leggere a tutti. Al suo posto una donna ha letto le toccanti parole del ragazzo.

Ad accompagnare la cerimonia la colonna sonora di “Nuovo Cinema Paradiso” e brani classici tra cui quelli di Einaudi. Il chiostro dell’antica chiesa di Sant’Agostino, in Piazza San Leone, è pieno di tante persone che hanno voluto dare l’ultimo saluto ad Alessandro. A celebrare i funerali don Paolo Anastasio. Oggi a Gragnano è il giorno del dolore e del lutto cittadino, tutta la città si è fermata.

Il dolore dell’intera comunità è enorme. I genitori di Alessandro hanno indossato la maglietta bianca con foto de figlio. Per tutta la cerimonia non si sono staccati per un istante della bara bianca del figlio. L’hanno accarezzata, hanno mandato baci al loro unico figlio. Alla fine della cerimonia nel Chiostro, il papà ha chiamato a raccolta tutti gli amici del figlio intorno alla bara bianca.

Tra le lacrime e la commozione la migliore amica di Alessandro ha letto una lettera: “Non voglio rassegnarmi alla tua morte, mi manchi piccolo angelo, la mattina penso di aver fatto un incubo. Avevamo un colore in comune, ti voglio bene Best friend. Ti ricordo quando mi accompagnavi sotto casa con la pioggia, il diluvio. Sempre. Ora ti immagino ridendo”. Dopo la cerimonia si sono radunati tutti nel Chiostro cantando sulle note di “Nostalgia” di Blanco, tra le lacrime. Hanno fatto volare palloncini bianchi verso il cielo tra gli applausi e la commozione.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Colpevoli di non aver compreso il tuo malessere”. “Le ragazzine facevano a gara per te”: lettera della prof ad Alessandro, precipitato dal balcone a 13 anni. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso su Il Riformista il 7 Settembre 2022 

“Caro dolce Alessandro, eccoci qui riuniti in questa oasi di Pace a darti il nostro saluto. Mai avremmo immaginato a darti un saluto così. Eri buono e bravo, te ne sei andato così presto, lasciandoci senza fiato, colpevoli di non aver compreso il tuo malessere. Averti avuto come alunno è stato un dono”. Sono queste le parole di Teresa Barbato, professoressa delle medie di Alessandro, il 13enne di Gragnano morto la scorsa settimana dopo essere precipitato dal quarto piano dell’abitazione dove viveva.

Una folla di amici, familiari e cittadini di Gragnano è accorsa nel chiostro di sant’Agostino per l’ultimo saluto al 13enne. Sulle magliette bianche c’era stampata la foto del ragazzo e la scritta “Alessandro Vive”. Palloncini bianchi, lacrime e applausi hanno accompagnato la cerimonia. Alla fine alcuni amici hanno letto alcune lettere. Tra questi anche l’insegnante delle medie. “Eri speciale – ha scritto la professoressa – di una tenerezza infinite, con quei tuoi modi riuscivi a fare breccia nel cuore di tante ragazzine che facevano a gara per attirare la tua attenzione e tu nemmeno te ne accorgevi. Nessuno ti dimenticherà mai, ricordo quando durante le pause in classe parlavamo dei tuoi innamoramenti. Spero che adesso hai imparato a volare, hai recuperato anche l’ala che ti mancava. Addio piccolo angelo del paradiso. Eri un dono, non siamo riusciti a farti percepire il nostro amore”.

Secondo le prime indagini, ancora in corso, dietro la drammatica morte di Alessandro ci sarebbero aggressioni, minacce, insulti e intimazioni che lo avrebbero spinto a togliersi la vita. Un inferno che Alessandro avrebbe vissuto senza dirlo a nessuno. Sei gli indagati per istigazione al suicidio, due maggiorenni e quattro minorenni, tra cui una ragazza di appena 14 anni. Quest’ultima sarebbe l’ex fidanzatina di Alessandro che dopo essere stata lasciata avrebbe organizzato la feroce vendetta. Secondo quanto riportato dal Corriere, tra gli indagati ci sarebbero legami di parentela: cinque di loro sarebbero cugini, il sesto un amico. Le indagini, ancora all’inizio, chiariranno il loro ruolo nella vicenda anche scandagliando i dispositivi elettronici della vittima e degli indagati.

“La famiglia chiede l’accertamento della verità, che vengano accertati i fatti realmente accaduti. Qualora dovesse confermarsi l’ipotesi accusatoria con il coinvolgimento di soggetti terzi chiaramente chiederanno giustizia. Oggi però chiedono silenzio e rispetto: oggi è il giorno dell’addio al piccolo Alessandro”. Così Giulio Pepe e Mario D’Apuzzo, legali della famiglia di Alessandro, hanno detto a LaPresse, all’arrivo in chiesa per i funerali del ragazzino. “La partecipazione della città è emotiva; si è stretta intorno ai familiari perché i fatti che stanno emergendo, se dimostrati, rappresentano un fatto grave che interessa l’intera comunità”, hanno aggiunto. Tanti gli amici che hanno partecipato all’ultimo saluto ad Alessandro. Dopo la cerimonia si sono radunati tutti nel Chiostro cantando sulle note di “Nostalgia” di Blanco, tra le lacrime. Hanno fatto volare palloncini bianchi verso il cielo tra gli applausi e la commozione. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso

Il caso di Gragnano. Alessandro e i bulli, la distanza tra vita reale e vita virtuale: “L’allarme è suonato e non possiamo far finta di nulla”. Viviana Lanza su Il Riformista il 7 Settembre 2022 

Alessandro, le minacce dei bulli, le offese ricevute in chat, il suicidio. La sua ex fidanzatina, gli amici bulli, l’indagine per istigazione al suicidio. Gragnano, i genitori increduli, il lutto cittadino.

Da qualunque prospettiva la si guardi, questa storia mette i brividi. Superata l’eco mediatica, che ovviamente si nutre dei particolari che trapelano giorno dopo giorno, resta un senso di impotenza. Cosa possiamo fare per questi ragazzi? Viene da chiedersi. Cosa si può fare per i bulli, che hanno dai tredici ai diciassette/diciotto anni e si trovano ora a fare i conti con le conseguenze gravissime dei loro comportamenti (ammesso che la ricostruzione investigativa, basata finora su quanto raccolto dalle chat dei ragazzi, trovi riscontro e conferma: istigazione al suicidio è l’ipotesi di reato).

Cosa si può fare per i bambini o i ragazzi come Alessandro, quelli presi di mira e schiacciati da offese e minacce continue. Cosa si può fare per i genitori, che puntualmente cadono dalle nuvole di fronte a fatti come questo, siano essi i genitori della vittima o dei bulli. Cosa possiamo fare tutti noi? Forse iniziare a prendere consapevolezza che non basta avere dimestichezza con le impostazioni e le app di uno smartphone, e soprattutto che non basta che l’abbiano i nostri ragazzi.

Forse prendere atto che ci siamo catapultati, e soprattutto catapultiamo ragazzi e bambini, in un mondo che ancora stiamo imparando a conoscere, e ci vorrebbe quindi molta più cautela. Un mondo social che può avere mille insidie, tanto più gravi quanto più si è giovani o inesperti. Regaliamo ai ragazzi smartphone, cover, cuffie e ciao. Ci illudiamo che basti poi controllare di tanto in tanto le loro chat per sentirci a posto.

Ci illudiamo che basti che i ragazzi sappiano usare account e app, senza spiegare loro quali pericoli si possono nascondere in quell’universo così smisurato a cui si accede con click. E forse non lo spieghiamo perché neanche noi lo sappiamo bene. Quanta distanza c’è tra vita reale e vita virtuale? E quanta distanza ci sfugge ogni volta che un ragazzo si interfaccia con il mondo del web, dei social, della realtà “virtuale”? La storia di Alessandro questa distanza la azzera, la riduce. E manda in frantumi anche una serie di false certezze che ogni genitore si dà quando regala al proprio figlio smartphone e connessione facile. A Gragnano è il giorno del lutto cittadino, della tristezza, dello stupore, di quel senso di impotenza di cui dicevamo prima.

«Abbiamo assistito ancora una volta a una tragedia che continua a lasciarci senza parole. Siamo tutti sconvolti, emotivamente e moralmente. La morte di un ragazzo che si stava appena affacciando alla vita è sempre innaturale e crudele, quando ad essa sono legati moventi dettati dalla violenza verbale e psicologica da parte di altri adolescenti e giovanissimi ci rendiamo conto che l’allarme è suonato e non possiamo far finta di nulla», dice monsignor Francesco Alfano, vescovo di Castellammare. «Nessuno può lavarsi le mani – aggiunge –. Cerchiamo di capire senza giudicare, di sostenere e non additare. Serve un’educazione sentimentale che offra ai giovani nuovi modelli, servono percorsi formativi e figure professionali specializzate nella relazione con l’altro capaci di mediare, accompagnare e intuire». 

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

LA PROTESTA DEI BAMBINI DI MELEDUGNO CONTRO IL DIVIETO DI GIOCARE A PALLONE. Da blitzquotidiano.it l'11 agosto 2022.  

Dopo aver trovato un cartello col divieto di giocare a pallone in piazza, un gruppo di giovanissimi di Roca a marina di Melendugno (provincia di Lecce), ha manifestato sulle panchine del paese trascorrendo il tempo con gli occhi incollati allo smartphone. La protesta era accompagnata da uno striscione: “Criticate tanto la nostra generazione ma ci avete tolto il pallone”.

Sindaco vieta gioco del pallone, ragazzi protestano con tanto di striscione

Il primo cittadino, Maurizio Cisternino, ha così deciso di incontrare i giovani manifestanti promettendo loro che troverà un’altra zona in cui potranno giocare. “A breve – spiega il sindaco – individueremo un’area dove potranno giocare in libertà. Ora il divieto nasce per tutelare soggetti fragili come anziani e mamme con i passeggini. Mi sono giunte segnalazioni da parte di persone infastidite da quanto avveniva all’interno della piazza. Così abbiamo deciso apporre questo segnale di divieto, perché la piazza non può essere un luogo dove poter giocare a calcio, ma si passeggia si sta in comitiva. In questo caso c’è anche un parco giochi con bambini più piccoli”.

Sindaco: “Non è una decisione punitiva, presto troveremo un’altra area”

“Per tutelare tutti – prosegue – è stata presa questa decisione, che non vuole essere assolutamente punitiva. Ho promesso a questo gruppetto di ragazzini che sarà interesse della mia amministrazione a stretto giro, ormai per questa estate non facciamo più in tempo, di attrezzare un’area dedicata a loro”.

La rivolta dei ragazzi: se ci vietate il pallone condannati al cellulare. Matteo Basile l'11 Agosto 2022 su Il Giornale.

Una piazzetta. Felpe e zainetti come pali. Nessun arbitro. Nessun arbitro né cronometro. Un pallone. Gioia pura. Fino a poco tempo fa, la consuetudine. Interminabili partite in cui si scimmiottava il campione, si stringevano e si rompevano amicizie in un attimo, ci si sentiva fenomeni per un gol che forse però era palo, no era fuori, chissà. Ore sotto il sole, finché una mamma guastafeste non gridava «È pronto!», e tutti a casa per la cena. Ginocchia sbucciate, l'unico pericolo. Il burbero del paese scocciato dagli schiamazzi che minacciava di bucare il pallone, l'unico rischio. Generazioni di ragazzini sono cresciuti così. Liberi, spensierati e felici. Poi arrivano gli smartphone, le app, i giochi, i social. Le distanze che si annullano, i contatti reali spariscono. I click sostituiscono abbracci e pacche sulle spalle. E via a parlare di giovani persi di qua e valori cancellati di là. Ma quando i ragazzini tornano in piazzetta a giocare, capita che a bucare il pallone siano miopia politica e burocrazia.

Succede a Roca, paesino vicino a Melendugno, in Puglia. La piazza è appena stata rifatta ed ecco spuntare il divieto tassativo di giocare a pallone. Ma la legge non ha fatto i conti con i giovani, proprio i giovani di oggi messi all'indice. La generazione telefonino avrà anche i suoi difetti ma sa bene come comunicare e passa al contrattacco. Uno striscione in piazza con scritto «criticate tanto la nostra generazione ma ci avete tolto il pallone» e una foto potentissima: decine di ragazzini sdraiati, uno per panchina, annoiati ed estraniati con in mano un telefonino. Ci togliete il pallone? Ecco come ci riduciamo. Tanto che il sindaco incontra i giovani e gli promette una piazza a traffico limitato tutta per loro e per le loro partitelle. Bravi ragazzi. Un gol da applausi. Vittoria d'altri tempi.

Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 19 agosto 2022.

Contrordine: ritirate l'espressione "Great Resignation" e abbracciate il "Quiet Quitting". Che poi in sostanza significa sempre mettere la vita davanti al lavoro, senza però rinunciare allo stipendio, ma facendo solo il minimo indispensabile per conservarlo. 

È la nuova tendenza che sta emergendo ovunque, soprattutto fra i giovani millennial e quelli della Generation Z, e accomuna anche le grandi superpotenze rivali del futuro, come Usa e Cina, dove si chiama "mo yu", ossia la filosofia di "toccare i pesci".

Tutto è partito dal Covid, che da una parte ci ha messi davanti alla realtà della vita, breve e fragile, e dall'altra ci ha obbligati a sperimentare le meraviglie dello smart working. All'inizio ciò ha spinto milioni di persone verso la "Great Resignation", ossia le dimissioni di massa, perché il pericolo immanente di morire ha spinto tutti a rivedere le priorità, e magari dedicare più tempo alle cose che ci piace davvero fare. 

Col passare dei mesi però questo concetto si è evoluto, andando oltre l'emergenza dell'epidemia, e saldandosi con modi di pensare e tendenze di lungo termine. I giovani in particolare non vedono più l'utilità di mettere il lavoro e la carriera davanti a tutto il resto, per almeno due motivi: primo, impegnarsi così tanto non paga più, e passare intere giornate davanti al computer o seduti in ufficio raramente corrisponde poi agli avanzamenti di carriera e di stipendio sognati; secondo, anche se così fosse, non è detto che ne valga la pena.

Quindi è meglio tirare il freno e rinunciare alle ambizioni più complicate, facendo il meno possibile sul lavoro, senza però spingersi fino al punto di perderlo, perché poi senza soldi il cane si morde la coda e diventa difficile realizzare i veri desideri. 

La Gallup ha realizzato uno studio intitolato "State of the global workplace 2022 Report", da cui risulta che solo il 21% dei dipendenti è davvero coinvolto nelle proprie mansioni, e solo il 33% si considera in una condizione di crescita e benessere. Il 44% si sente stressato, record di sempre, e la maggioranza non ritiene che la sua occupazione abbia davvero uno scopo o un significato profondo. In Paesi come la Gran Bretagna la situazione è drammatica, al punto che solo il 9% dei lavoratori si considera "engaged" o entusiasta.

Negli Stati Uniti va un po' meglio, cioè il 31%, ma Gen Z e millennial sono particolarmente sfiduciati, e queste non sono percentuali su cui è possibile costruire la prosperità futura di una superpotenza. Il fenomeno però è globale, e neppure i rivali cinesi si salvano. Anzi, secondo un'inchiesta pubblicata da Quartz, i giovani della Repubblica popolare pensano di aver definitivamente perso il treno e la possibilità di salire sulla scala sociale come i loro genitori.

Lavorare duro non porta più al successo, come predicava il fondatore di Alibaba Jack Ma, perché il Paese ha già raggiunto il picco demografico, la manodopera a basso costo non è più così importante, e i modelli dello sviluppo globale stanno già cambiando verso una direzione che non favorisce più Pechino. Perciò, invece di sprecare tutte le energie per una fatica sostanzialmente inutile, i giovani cinesi preferiscono "toccare i pesci".

Arrivano al lavoro il più tardi possibile, prendono lunghe pause pranzo, staccano appena il contratto glielo consente, e magari sfruttano lo smart working per fingere di essere occupati, quando in realtà stanno leggendo un libro o schiacciando un pisolino. Magari qualcuno in Italia si chiederà dov' è la novità, visto che noi abbiamo perfezionato tecniche simili da un paio di millenni, ma il punto qui non è solo l'elogio della pigrizia. È un radicale cambio di mentalità, che riguarda anche chi va a fare onestamente il proprio lavoro, senza però sforzarsi più di tanto, perché la vita viene prima.

Anticipazione da Oggi il 3 agosto 2022.

«Ci sono ragazzi che quando non sanno cosa fare decidono di picchiarsi un po’: siamo a livelli stellari di idiozia. I ventenni mi sembrano impazziti, in balia dei social e di Tik Tok. Se continua così, serviranno militari davanti ai luoghi di ritrovo. Comincio a pensare che ci sia bisogno di qualche divisa in più», dice Linus, conduttore e direttore di Radio Deejay, in un’intervista pubblicata sul numero di OGGI in edicola da domani. 

Da conoscitore del mondo giovanile, si spiega così l’esplosione di violenze, risse e aggressioni degli ultimi tempi: «Nella pandemia questi ragazzi sono diventati grandi senza relazionarsi con gli altri, chiusi in casa a lanciarsi messaggini via WhatsApp. I bollori dell’adolescenza sono stati compressi in quasi due anni di Covid. Adesso esplodono così, per un niente, in maniera aggressiva». 

Colpa delle famiglie? «Non tiriamo in ballo la famiglia», sostiene Linus. «L’educazione familiare buona o cattiva c’è sempre stata, stavolta facciamo la tara e passiamo oltre. La clausura forzata e la mancanza di gruppo hanno deresponsabilizzato questi sedicenni o diciottenni. C’è un egoismo autoriferito, privo di ogni valore. Ci sono ragazzi che fanno una bravata e la postano su Tik Tok per sentirsi fenomeni. Altri esibiscono la loro arroganza come distintivo per i social. Non si calcolano i danni di certe sopraffazioni. Mi spaventa la gratuità di tanta violenza».

Come se ne esce? Secondo Linus: «Creando delle barriere all’ingresso delle discoteche, facendo capire ai ragazzi che quando si sbaglia, non ci sono scuse. E mettendo più vigilanza nei locali e nelle strade».

Da tgcom24.mediaset.com il 2 agosto 2022.

Un gruppo di giovani ha aggredito un ragazzo poco più che maggiorenne sul lungomare di Reggio Calabria. L'episodio, accaduto nella notte tra sabato e domenica, è stato reso noto con un post pubblicato su Facebook dal sindaco, attualmente sospeso, Giuseppe Falcomatà. Gli aggressori del giovane sarebbero stati almeno una ventina, tra cui alcuni minorenni. 

Il ragazzo è stato colpito ripetutamente con pugni, calci, caschi da motociclista e sedie di plastica. Sull'episodio sta indagando la polizia. Il giovane vittima del pestaggio è stato sentito dagli investigatori, ma non avrebbe fornito chiarimenti sui motivi dell'aggressione.

Vittorio Feltri, la morte di Giulia e Alessia? Gli adolescenti hanno bisogno dei limiti. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 07 agosto 2022

La vera tragedia è quella a cui sono condannati a vita coloro che restano. I genitori di Giulia e Alessia Pisanu, rispettivamente di 15 e 17 anni, saranno perseguitati fino alla fine dei loro giorni dal dolore più atroce che possa sperimentare un essere vivente, ovvero la perdita di chi ha messo al mondo. Nutro per questo un profondo rispetto nei confronti della loro sofferenza e un senso di pietà persino lacerante che tuttavia non mi impediscono, essendo un giornalista e avendo acquisito da decenni questa sana deformazione professionale, di trarre dal fatto di cronaca alcuni ragionamenti, riflessioni, insegnamenti, che puntualmente però non apprenderemo. Li disattenderemo anche questa volta. Eppure mi tocca esprimere alcuni concetti, a mio avviso, fondamentali, affinché drammi simili a quello che si è verificato a Riccione non accadano mai più, o almeno non avvengano tanto di frequente. Qualcuno ipotizza, e non possiamo di certo escluderlo fino ai risultati degli esami tossicologici, che le ragazzine avessero assunto droghe, magari a loro insaputa, e che questo spiegherebbe quindi il motivo per il quale siano state travolte da un treno.

Mi domando: non sono sufficienti lo stordimento di una notte trascorsa in discoteca, la stanchezza derivante dal non avere affatto dormito, essendo già le 7 del mattino, per motivare lo stato di confusione e di perdita di controllo delle minori? Dobbiamo sempre dare la colpa all'uomo nero, che versa sostanze stupefacenti nei drink? Non è stato nessun uomo nero ad ammazzare le sorelline. Giulia e Alessia, semplicemente, non avrebbero dovuto essere lì, da sole, raminghe, in una stazione ferroviaria, luogo notoriamente insidioso a qualsiasi latitudine e a qualsiasi età, alle 7 del mattino, lontane da casa, senza un adulto di riferimento, in balia di qualunque genere di rischio, semmai avrebbero dovuto essere nelle loro camerette a dormire, o al massimo in cucina, appena sveglie e in procinto di fare la prima colazione.

Tuttavia nessuno osa compiere questa osservazione di buonsenso e necessaria, in quanto oramai si viene catapultati automaticamente nel tritacarne del politicamente corretto, del pietismo esasperato e fine a se stesso, del buonismo tossico e ottuso, in base al quale soffermarsi su questi ragionamenti equivale a gettare discredito sulle vittime e a colpevolizzare i loro familiari. Non sono assolutamente queste le mie intenzioni. Il padre afferma che le figlie hanno tanto insistito per ottenere il permesso di recarsi a Riccione a fare festa che egli, per sfinimento, ha ceduto. Non trovo sia errato consentire agli adolescenti di frequentare le discoteche, per di più in estate. Vietarglielo sarebbe ancora più controproducente, ma i ragazzi hanno bisogno di regole e una regola sacrosanta è quella che impone un orario decente entro il quale rincasare, il famoso "coprifuoco" che evidentemente oggi è desueto. Superato tale limite orario, i genitori devono porsi in uno stato di allarme e intervenire.

L'anomalia dunque è proprio questa, ossia che le due fanciulle siano state tutta la notte fuori casa come se fossero donne mature e non minorenni. Per di più, c'è il fattore distanza. Riccione dista oltre un'ora e venti di automobile dal paese in cui abitavano le sorelle, non erano dirette nel locale dietro l'angolo. La madre, dal canto suo, dichiara: «Erano tanto responsabili che non mi spiego come siano finite sotto il treno». Ma per quanto un giovane possa essere ritenuto responsabile ed esserlo, egli è e resta un essere uomo ancora non compiuto, senza esperienza, inconsapevole delle storture e delle insidie del mondo, quindi è soggetto da tutelare. Nessun adolescente è tanto assennato e giudizioso da conoscere ogni sorta di pericolo e da proteggersi in maniera autonoma dalla moltitudine di trappole della società odierna, che è molto più complessa rispetto a quella in cui sono cresciuti i suoi genitori. Trattiamo quindi i fanciulli per quello che sono, ossia fanciulli e non individui autonomi, "adulti e vaccinati".

Il suicidio seconda causa di morte tra i ragazzi, ma 6 regioni non hanno reparti di neuropsichiatria infantile. Benedetta Mura su Il Corriere della Sera il 4 Agosto 2022.

In Italia sono poche le strutture che possono aiutare bambini e adolescenti con disagi psichici. Il problema è nazionale: fondi e personale insufficienti per gli ospedali pubblici. Mentre le richieste di aiuto dei più giovani continuano ad aumentare

In Italia sei regioni non hanno un reparto di neuropsichiatria infantile: Val D’Aosta, Abruzzo, Marche, Molise, Calabria e Basilicata. Un ragazzo che ha bisogno di essere ricoverato, quindi, deve per forza spostarsi in un’altra regione. «Un’assurdità», commenta Stefano Vicari, professore di neuropsichiatria infantile all’Università Cattolica di Roma e responsabile del reparto di Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, reparto che ospita bambini e ragazzi fino ai 18 anni. «Le strutture sono poche. Ogni volta che devo dimettere dei pazienti che non sono di Roma e magari vengono da un’altra regione, mi ritrovo spesso senza strutture che li possano seguire dopo il ricovero», racconta Vicari. «Una volta mi è capitata in cura una ragazza che aveva tentato il suicidio ingerendo farmaci. Poche settimane dopo la ragazza è tornata perché aveva assunto nuovamente dei farmaci che la madre aveva lasciato sul tavolo. Questo è successo perché non c’era una struttura nella sua città che la potesse seguire dopo l’emergenza e perché i genitori non sempre sono in grado di farlo».

L’allarme del Bambino Gesù

Nei ragazzi tra i 15 e i 24 anni, il suicidio è la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali. Negli ultimi anni sono aumentati di sette volte gli arrivi al pronto soccorso dell’ospedale Bambino Gesù di Roma per tentato suicidio, ideazione suicidaria, autolesionismo e depressione. Nel 2021 ci sono stati 1.201 casi, rispetto ai 155 del 2011. In crescita anche i ricoveri: 330 nel 2020, 492 nel 2021, 240 a maggio 2022. La pandemia ha sicuramente favorito il peggioramento delle condizioni di salute mentale di molti giovani. «Dall’inizio dell’emergenza Covid abbiamo registrato un aumento del 30% delle richieste d’aiuto», spiega Vicari. «Durante la prima ondata, a marzo 2020, c’è stata una lieve diminuzione. I ragazzi andavano meno in ospedale per paura del contagio. Mentre con la seconda ondata, tra l’autunno del 2020 e l’inverno del 2021, c’è stato un rialzo causato anche dal fatto che i genitori sono tornati alle loro vite, al lavoro in ufficio, mentre i ragazzi sono rimasti soli. E l’effetto è stato devastante».

Un terzo dei casi ha disturbi alimentari

Chi chiede aiuto agli specialisti di neuropsichiatria infantile per il 40% manifesta comportamenti autolesivi e di ideazione suicidaria mentre per il 30% sono persone con disturbi alimentari, in gran parte ragazze. Quest’ultime nel complesso rappresentano la fetta più grande degli arrivi in pronto soccorso, 65% contro il 35% dei maschi. All’interno il reparto può ospitare otto posti letto. Le stanze sono spoglie, con mobili, sedie e letto ancorati al pavimento, i sanitari in acciaio. Tutto è stato realizzato per evitare che venga divelto, rotto, lanciato per aria e affinché i ragazzi non possano farsi del male. Il Bambino Gesù essendo una clinica privata e legata al Vaticano non ha particolari difficoltà in termini di risorse. «Abbiamo un’importante disponibilità di fondi», spiega Vicari, «ma il problema sta nella rete assistenziale nazionale. Abbiamo bisogno di una risposta strutturale, nel Lazio e su tutto il territorio. Si deve lavorare affinché i servizi delle Asl funzionino».

Il Gemelli in attesa di un reparto

Le criticità presenti a livello pubblico e nazionale le ha denunciate anche Gabriele Sani, professore di psichiatria all’Università Cattolica di Roma e direttore dell’unità operativa complessa di psichiatria clinica e d’urgenza del policlinico Gemelli di Roma. «Parliamo di un’emergenza nell’emergenza», dice Sani. «Il numero di cliniche specializzate negli ultimi anni è aumentato in maniera significativa ma su tutto il territorio il personale, soprattutto medici e psicologi, è sotto organico». Nelle cliniche convenzionate la richiesta è talmente tanta che l’attesa può arrivare fino a 30 giorni, «non c’è mai un posto libero».

Al Gemelli, una delle strutture sanitarie più importanti in Italia, non c’è ancora un reparto di neuropsichiatria infantile adatto al ricovero. Progetto ancora in fase di ideazione e a cui stanno lavorando la Fondazione Gemelli e la Regione Lazio. Al momento c’è un ambulatorio, aperto da tre anni, che effettua solo day-hospital, senza possibilità di ricoverare i pazienti. «Il problema è nazionale. Alla salute mentale si dedica sempre troppo poco, in Italia è solo 3% rispetto all’8-10% dei paesi del nord Europa», conclude Sani.

I dati Istat in controtendenza

Secondo i dati Istat , invece, il fenomeno dei suicidi tra i giovani, dai 15 ai 34 anni, ha attraversato una lunga fase discendente. Nel 2011 ben 588 ragazzi si erano tolti la vita (486 maschi e 102 femmine) mentre nel 2019 (ultimo dato disponibile) ne erano stati registrati 514 (414 maschi e 100 femmine), pari a un calo del 12% in otto anni. Ma la linea non è sempre stata in discesa. Anzi, ci sono due anni, 2012 e 2017, in cui c’è stato un rialzo significativo rispetto all’anno precedente: +5,3% rispetto al 2011 e +11,4% rispetto al 2016.

Facen do una divisione geografica, l’Italia settentrionale rimane la zona con il maggior numero di suicidi tra giovani: 257 a nord, 86 al centro, 68 al sud e 64 nelle isole (dati Istat 2019).

I suicidi tra i giovani in Europa

Allarmanti i numeri dell’Unicef: in Europa sono 1200 i ragazzi nella fascia di età 10-19 anni che, ogni anno, si tolgono la vita: tre al giorno. A livello europeo, però, l’Italia si colloca nella seconda fascia più bassa in merito al tasso di suicidio giovanile per i ragazzi tra i 15 e i 19 anni. Secondo i dati Eurostat l’Italia ha un tasso che oscilla tra 2,06 del 2011 e 2,47 del 2019. Cifra che segna un aumento nell’arco di otto anni ma che viene di gran lunga superata dai tassi registrati nei paesi del nord e centro Europa come Estonia (12.9), Lituania (12.7), Lussemburgo (12.02), Finlandia (11.4), Lettonia (11.2), Norvegia (9.3), Islanda (9.05).

La formula della vita. La fortuna esiste ed è la cosa che ci salva in quegli anni in cui siamo scemi. Guia Soncini su L'Inkiesta il 2 Agosto 2022.

Gli editorialisti dolenti sul caso delle due sorelle travolte da un treno devono fingere che le disgrazie raccontate nelle cronache siano un film con una morale, ma non si può proteggere nessuno da niente e la disciplina c’entra poco. C’entra il caso

Vi ricordate di quando eravate scemi? No, non cinque minuti fa, quando siete andati sui social di qualche professore che ha idee politiche divergenti dalle vostre a dirgli che egli è la vergogna dell’università. Neppure cinque giorni fa, quando avete imparato tutti i nomi delle ultime settantacinque identità di genere pervenute per non farvi dare dei poco inclusivi dal quindicenne di casa.

Vi ricordate di quando era normale foste scemi, giacché il cervello non vi si era ancora finito di formare, giacché nessuno (tranne Enrico Letta) pensa che prima dei trent’anni l’essere umano sia capace d’intendere e volere – vi ricordate dei vostri sedici anni?

Le mie amiche si dividono in quelle che a sedici anni erano sante e sgranano gli occhioni quando racconto che sono viva per miracolo, e quelle che facevano vite da sedicenni, e quando faccio presente che preoccuparsi per i sedicenni è un gioco a perdere iniziano a ricordare le loro peripezie, e rabbrividiscono.

A sedici anni (ma pure a quattordici, ma pure a diciotto) io ero la figlia che nessuna persona sana di mente vorrebbe avere, la figlia che se ce l’avessi avuta avrei mandato in un collegio militare, la figlia che l’inferno ha mandato per punirti di chissacché.

Nei momenti di carità interpretativa, sempre più frequenti, io dico che sì, va bene, i miei genitori erano scemi e criminali, ignoranti e velleitari, senza qualità e senza senso morale, ma gestiscila tu una quindicenne che devi andare a prendere alle due di notte al pronto soccorso di Trento perché s’è bevuta un litro di tequila.

Il grande non detto dei discorsi sull’educazione e la genitorialità e le generazioni e i tempi che signora mia cambiano e le droghe e l’alcol e il sesso e il sarcazzo è: la fortuna è fondamentale. La fortuna è ingiusta e imprevedibile e non c’è metodo educativo che te la procuri; e senza sei, scusate il doppiaggese, fottuto.

Sono mai stata così scema da attraversare i binari? No, per fortuna no. Sarei potuta finire come le due ragazze morte a Riccione? Sì, certo che sì. Però sono stata fortunata.

Sono stata fortunata che non si sia mai sfracellato nessuno di quelli che guidavano i motorini coi quali tornavamo nella notte dalla Baia Imperiale o proprio dal Peter Pan (passano i secoli ma le quindicenni sceme di Bologna vanno sempre nelle stesse discoteche della riviera romagnola, gli unici marchi che non hanno mai bisogno di restyling), dopo avere bevuto tutta notte, ilari e idioti e pure sbronzi.

Sono stata fortunata che non mi abbia mai ammazzato mai nessuno dei tipi loschi con cui m’infrattavo nella fase tipi loschi della mia adolescenza, che non m’abbia mai stuprato nessuno di quelli con cui facevo la cretina per poi sottrarmi a mutande già scaldate, che mi facessero impressione gli aghi facendomi superare gli anni Ottanta senza mai provare l’eroina (ogni volta che ci ripenso mi pare una missione impossibile: chissà quale dio mi si era affezionato, per farmi stare al riparo dalla più adatta a me delle scorciatoie).

Un’amica tempo fa mi ha raccontato che la figlia aveva passato la notte fuori con l’inganno. Le aveva detto che dormiva da un’amica, le aveva dato il numero della madre dell’amica perché potesse controllare, ma il numero ovviamente era quello dell’amica stessa, che aveva mentito alla mia amica mentre la figlia se la spassava chissà dove. Non era successo niente di grave, giacché la fortuna esiste (e anche: la statistica delle bravate che finiscono male è per fortuna infinitesimale, rispetto al numero enorme di stronzate che si fanno all’età delle stronzate).

Però alla mia amica era preso un colpo, e voleva punire severamente la figlia. All’uopo, mentre minacciava collegi militari che già sapeva non avrebbe mantenuto, aveva chiamato la madre dell’amica della figlia, cercando una socia di ritorsioni. Quella le aveva detto: eh, ma c’è stata la pandemia, devono sfogarsi. (Mesi fa un tassista milanese mi disse che c’erano le baby gang che accoltellano la gente perché i ragazzi sono stati in casa e ora devono sfogarsi. Chissà se anche Arancia meccanica era conseguenza d’una pandemia).

La mia amica era furibonda e pronta a dare la colpa dell’inettitudine dei giovani d’oggi alla scarsa disciplina imposta loro dalle famiglie. È vero che la scarsa disciplina è un problema: a me nessuno ha mai proibito niente, e il risultato è una vita faticosissima passata a educarmi da sola; a educare sinapsi che non hanno più l’elasticità dei quindici anni e mica mi ubbidiscono. Ma è anche vero che la fortuna non è meritocratica. Possono vietarti novantanove volte d’andare in discoteca, e alla centesima finalmente ci vai e finisci sotto un treno. Possono non vietartelo mai e in mille sbronze, stanchezze, disattenzioni può non capitarti mai niente di grave.

Sono uscita di nascosto la notte per tutti gli anni del liceo, e sono viva per raccontarlo. Sono viva per raccontare d’essere stata scema e di non averne pagato le conseguenze, ma il problema è che raccontarlo non serve a niente, giacché la vita non è un film col messaggio. Non c’è una lettura educativa di come vanno le cose, una parabola didattica da trarne. Magari non esci mai la sera e fai tutti i compiti e poi il Nobel non lo vinci comunque perché, appena finisce di formartisi il cervello, invece che un treno sui binari t’investe una macchina sulle strisce.

È il problema rappresentato per gli editorialisti dolenti da queste storie qui, che dovrebbero mettere dei punti fermi morali, e invece ci dicono solo quel che non vogliamo sentire: che la vita va come le pare, e che non puoi proteggere nessuno da niente, e che non c’è una formula sicura per vivere non dico fino a cent’anni, ma almeno finché il tuo essere scema diventa scelta e non fisiologia.

Andrea Camurani per il “Corriere della Sera” il 27 luglio 2022.

«C'è una cosa che ultimamente mi ronzava nelle orecchie. Quel "oh, Dani" pronunciato da perfetti sconosciuti. "Bro", "Bella zio": ma chi li conosce, chi li ha mai visti? È una cosa che comincio a non sopportare più del mio lavoro. E così». E così Daniele Lamperti, 45 anni titolare dal 2011 della discoteca Village Summer Disco di Varese ha voluto dare una lezione a quei clienti maleducati e strafottenti, spesso sconosciuti, vista la capienza del locale in riva al lago, mille persone. 

«Sabato abbiamo chiuso. E visto che circolavano voci fra le più strane, dalla rissa con coltellate ai sigilli della questura, ho fatto un post su Facebook per spiegare il motivo reale della chiusura». E lo ha fatto con toni un po' forti, Lamperti. «Ci avete rotto il c.!». «È stata una provocazione. C'è chi ha continuato con atteggiamenti maleducati, specie sui social. Ma non credevo che il mio caso suscitasse un tale interesse».

Oltre ai commenti social è arrivata anche la solidarietà degli habitué e non solo. «Con mio grande stupore sono stato contattato da baristi, cassieri, esercenti: dal locale del centro storico al negoziante che vende scarpe. Tutti a darmi ragione. E a confessarmi che anche loro sono esasperati da certi atteggiamenti dei clienti». 

«In una discoteca - spiega il titolare del Village - può capitare il tipo violento o il gruppetto di ragazzini che fanno a botte. Gestisco anche il ristorante di fianco al locale da ballo, e pure lì, su cento clienti che si fermano a cena, ne bastano tre per avvelenarti la serata: non c'è bisogno di vedere gente che arriva alle mani, bastano pochi gesti, un timbro di voce sopra le righe o un paio di rispostacce. Lo stesso vale per un commerciante: è difficile assistere a scene di violenza in un negozio che vende pantaloni, ma atteggiamenti legati alla maleducazione e al malcostume sì, ci sono e sono frequenti. E questo sta cominciando a irritare».

Purtroppo, ad avere questi atteggiamenti pare siano soprattutto giovanissimi: «Diciassettenni che mostrano denunce fasulle di smarrimento dei documenti o fingono di conoscere questo o quello della sicurezza per entrare - prosegue - e quando vengono ripresi offendono e fanno gli strafottenti col personale. Ma ci sono anche soggetti più maturi che si comportano in questo modo, trentenni che si pavoneggiano. Purtroppo, nella massa, viene notato solo chi si distingue perché maleducato. Le persone per bene passano inosservate». 

L'altro aspetto sorprendente è che, riferisce Lamperti, «il 99 percento dei clienti ha capito» e gli ha dato ragione. Ed è anche per loro che il Village riaprirà. «Arriviamo da un periodo di lavoro estremamente intenso e una piccola pausa ci stava. Certo, potevo andare in vacanza, ma ho voluto dare un segnale. E vista l'enorme eco, dovremo cercare le parole giuste per comunicare la riapertura, che potrebbe già avvenire il prossimo weekend: ho una trentina di lavoratori a cui rendere conto. E poi i clienti (quelli giusti appunto, ndr ) che hanno voglia di divertirsi. Del resto siamo rimasti l'unica discoteca di Varese».

Sul caso ieri è intervenuto anche Linus su Radio Deejay: «I ragazzi sembrano tutti impazziti, il punto di partenza probabilmente è che sono mancati due anni di vita, quelli della pandemia», ha detto.

Se pure i buttafuori evitano i maleducati. "Aldilà di qualsiasi vostra deduzione, interpretazione o invenzione non abbiamo chiuso perché ci mancano i permessi". Tony Damascelli il 27 Luglio 2022 su Il Giornale.

«Aldilà di qualsiasi vostra deduzione, interpretazione o invenzione non abbiamo chiuso perché ci mancano i permessi, perché ci hanno fatto chiudere, perché è successo qualcosa di irreparabile o perché non funziona l'impianto o per problemi tecnici come in precedenza abbiamo annunciato... Bensì abbiamo chiuso perché CI AVETE ROTTO IL C...O! Siamo saturi dei vostri litigi, la vostra arroganza, la vostra supponenza, la vostra maleducazione la vostra ignoranza, la vostra mancanza di rispetto per chi lavora, il vostro tutto dovuto, le vostre attese al cancello per ore aspettando uno sguardo amico per non pagare, per bere gratis, per sentirsi protagonisti con un bracciale del privé, siamo stufi del vostro fammi il drink carico, il vostro Bro, il vostro Zio, il vostro Fra quando non sappiamo nemmeno chi siete... Siamo esausti dei vostri documenti falsi, quelli sul telefono, le vostre denunce di smarrimento, i vostri sono amico di... Ci spiace solo per il restante 99% dei clienti che sono fantastici! Per ora arrivederci FORSE!». Parole secche, parole sante, direbbero certe madri e certi padri, aggiungo i nonni tutti. Il comunicato porta la firma di Daniele Lamperti, titolare del locale Village Summer Disco in via al Garrett, numero 1 di Varese. Trattasi, dunque, di discoteca, capienza persone mille, spesso si tracima e allora basta, ha scritto il boss, addirittura i buttafuori si buttano fuori loro, non sopportano più la folla urlante fuori e dentro, hanno scoperto che si balla ma soprattutto si sballa, il linguaggio rappaiolo, le furbate da mariuoli, dunque «giò la clèr», saracinesca abbassata o cancelli chiusi, in attesa del fine settimana quando, probabilmente, la marea tornerà a chiedere un drink fino alle ore 3.30 al venerdì notte e alle 4 il sabato. E se fosse tutta pubblicità? Può anche darsi, ma il Lamperti è arrivato ai limiti mentre gli ronza per la testa il Blasco, «voglio una vita maleducata, voglio una vita che se ne frega, che se ne frega di tutto sì, voglio una vita che non è mai tardi». Ciao, bro.

Aridatece Crepet. Ora mamma corre a casa a farti lo zainetto per andare in vacanza (o a fare la rivoluzione). Guia Soncini su L'Inkiesta il 25 Luglio 2022.

I miei coetanei svolgono una serie di mansioni, guardarobieristiche e non solo, al servizio della loro prole quasi-adulta. E si guardano bene dal contrapporsi a qualsiasi ribellione, precipitandosi anzi ad assecondarla. Ancelle sì, educatori mai

Questo è il periodo dell’anno in cui si esce di più la sera, in città. Manca infatti pochissimo ad agosto; il che, nella nazione fondata sulla cottura al dente della pasta e sulla chiusura di tutto ad agosto, significa che manca poco al momento in cui molte persone partono per qualche meta di villeggiatura. Occorre quindi vedersi, salutarsi, mica partirai senza prima una birra.

No, non sono qui a chiedere retoricamente che bisogno abbiamo di vedere prima delle partenze – cioè: prima di agosto e prima di Natale – gente che stiamo serenamente senza vedere il resto dell’anno. Sono qui a notare una costante di queste serate: a un certo punto, c’è sempre una donna che deve andare via prima, nel gruppo di amici.

È una donna piacente o no, trentenne o quarantenne o cinquantenne, con un lavoro o che vive di rendita, interessata ai segni zodiacali o alla scissione dell’atomo, che ha studiato a Harvard o a Massa Lubrense, che fino a quel momento ha parlato male del sindaco o bene dell’ultimo libro di Carofiglio. Sono donne che non hanno niente in comune l’una con l’altra, tranne una caratteristica.

Sono donne con un figlio. Un figlio sufficientemente grande da andare in vacanza da solo. E il figlio il giorno dopo parte, per questa benedetta vacanza senza la mamma. Per questa vacanza con la morosa, o con gli amici, o col padre da cui la madre è separata.

E la madre deve andare via prima, sbuffando o comunicando ansia, malvolentieri o col compiacimento di chi si sente indispensabile, perché «domattina mio figlio parte e devo fargli la valigia».

Il figlio è declinato al maschile perché tutte le donne che ho visto in queste sere d’estate avevano figli maschi, ma sono abbastanza certa che sia uguale per le femmine e che non possiamo assegnare l’esclusiva di quel piscialettismo che è poter andare in vacanza da soli ma non potersi fare la valigia da soli al patriarcato e ai suoi esponenti: temo che la valigia da mammà se la facciano fare anche le quindicenni, non solo i quindicenni.

Temo sia un problema diffuso, e se non mi capitasse una madre con mansioni di guardarobiera a sera lo saprei comunque avendo installato sul telefono TikTok. Quello di TikTok è il primo algoritmo intelligente che mi accada di vedere. Non so come faccia a conoscermi – non gli ho dato elementi, non ho seguito nessuno, non ho messo cuoricini – ma fin dal primo minuto mi ha proposto quasi solo video ipnotici. Molti dei quali di Paolo Crepet. Il ventunesimo secolo è quel posto nel quale ti guardi intorno e dici: ma io perché ho passato gli anni Novanta a sghignazzare ogni volta che vedevo Crepet ospite di Vespa, Crepet è un’oasi di ragionevolezza, Crepet è il mio candidato alla presidenza della Repubblica.

«Ci sono dei genitori che fanno lo zainetto ai figli. Un papà, oppure una mamma, perché pari opportunità nell’idiozia. Pensa te nascere con due genitori così, che ti dimostrano tutti i giorni che sei un perfetto idiota, totalmente idiota, talmente idiota che non sai fare neanche lo zainetto. Cosa sarà di te? Il nulla. Pensa: i tuoi sponsor sono i primi a dirti che non sai far niente. Pensa che forza che gli dai, che coraggio che gli dai. E voi pensate che questi ragazzini diventino che cosa, dei mangiatori di orizzonti? Ma va’ là».

Insomma dice Crepet che non sono loro a essere piscialetto, siamo noi che li rendiamo tali. Noi, la peggior generazione di tutti i tempi, che, non bisognosa di procurarsi una carriera tanto i genitori ci hanno intestato appartamenti, abbiamo deciso che avremmo inscenato la collettiva finzione che essere genitori fosse un ruolo impegnativo, un compito a tempo pieno, una mansione usurante. Che i nostri figli senza di noi non fossero in grado di fare i compiti, figuriamoci la valigia.

In questo temo che ci abbia condizionati il cinema, che negli anni Ottanta usava il senso di colpa del genitore in carriera come espediente narrativo preferito per umanizzare il personaggio. In “Doppio taglio” (1985), il bambino che deve fare una ricerca per la sua classe delle elementari pretende la collaborazione della madre, Glenn Close, che la mattina dopo deve difendere Jeff Bridges dall’accusa di aver ammazzato la moglie. La madre lo liquida, lui recrimina, lei si sente in colpa e lo insegue. Una vera madre del 1985 gli avrebbe detto: non rompere i coglioni, un’udienza per omicidio è più importante di un compito delle elementari. Non avrebbe neanche dovuto rimarcare che le gerarchie esistono: negli anni Ottanta lo davamo per scontato.

Una ragazzina cresciuta vedendo Glenn Close (e mille altri madri del genere cinematografico sensodicolpista) si sarà convinta che quello fosse il vero ruolo d’una penalista: dar corda ai compiti dei figli. Poi, certo, era suo compito crescere e distinguere tra realtà ed espedienti narrativi, ma non siamo una generazione sveglissima: dalla ragazzina alla quale facciamo la valigia ci facciamo spiegare l’identità di genere, senza mai dire alla prole «ma smettila con queste puttanate» ma anzi ripetendo tutti seri ai nostri coetanei che nostra figlia è queer anzi è Batman anzi è un genio incompreso e comunque ha deciso di cambiarsi nome, lieti di essere al servizio suo e dei suoi capricci vita natural durante (o almeno finché non finiranno i soldi dei nonni).

Guai all’insegnante che alla nostra piccina desse un brutto voto o anche solo osasse dirle di non andare a scuola in bikini: il bikini glielo abbiamo comprato noi, che certo non la contraddiciamo se ella ci dice che le pare una buona idea andare in classe vestita da spiaggia; noi che della prole siamo ancelle e guardarobiere e mai mai mai educatrici. Mi chiedo quanto ci metteranno, le quindicenni d’oggi, a cominciare a vestirsi da suora: se nessuno ti vieta i jeans strappati sul culo, che gusto c’è a metterteli?

Una vita da guardarobiera e altre mansioni al servizio d’una prole alle cui ribellioni ci guardiamo bene dal contrapporci, precipitandoci anzi ad assecondarle: a che ora è la rivoluzione, te lo chiedo così posso venire a prenderti quand’hai finito. Con queste premesse, qualcuno – non certo io – finirà per chiedersi se sia poi così inspiegabile che una guardi la figlia di un anno, si renda conto che tra quindici o vent’anni dovrà ancora accudirla a tempo pieno, e quel punto preferisca lasciarla morire. (Sì, certo, sto facendo apologia d’abbandono di minore e omicidio premeditato: è proprio quello lo scopo ultimo del ragionamento, si vede che ad avere i quindicenni come interlocutori vi si è sviluppata la capacità di leggere).

Milano di notte, viaggio in taxi dal tramonto all’alba: droga, escort e ragazzi zombie. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 10 Luglio 2022. 

«Porto le prostitute da un hotel di lusso all’altro». Il cambio: «Un tempo i taxisti erano quasi tutti di sinistra, siamo cambiati con gli anni 90»

Nell’era virtuale, il sedile accanto al conducente di un taxi notturno è uno degli ultimi posti dove sentire il respiro di una grande città; e per raccontare Milano com’è, non come dovrebbe essere, o come vorremmo che fosse. L’accordo con Corrado — nome di fantasia: «Non voglio far arrabbiare né qualche collega, né qualche vigile» — è cominciare all’imbrunire e staccare all’alba. Se qualche passeggero chiederà spiegazioni, Corrado risponderà che vicino a lui, dietro la mascherina, c’è un suo amico, futuro collega, che sta facendo pratica.

Corrado premette: «Si prepari. Quando ho iniziato, trentasei anni fa, i milanesi la notte chiamavano il taxi e uscivano con due obiettivi: divertirsi, e fare l’amore. Ora la maggioranza vuole bere, e drogarsi».

Ore 22 - Quartiere Isola

«Queste sono due mignotte» mi soffia all’orecchio il tassista, mentre carichiamo due ragazze. «Come fa a dirlo?». «Straniere, bell’aspetto, bei vestiti. Alto bordo». Devono andare in un celebre ristorante di via Piero della Francesca, dove hanno un appuntamento. Una è greca, l’altra spagnola di Maiorca. Appena scendono, Corrado spiega: «La prostituzione per strada non c’è quasi più. Le ultime le conosciamo quasi tutte: come Manuela, una superstite, che aspetta i clienti dietro Porta Nuova. Le altre ricevono in casa o vanno negli alberghi: vedrà verso le 2 quante chiamate arriveranno dagli hotel di lusso. Sono loro che tornano, o vanno da un altro cliente». È meglio adesso? «No. Era meglio prima. Più gente c’è per strada, più si è sicuri. Le prostitute erano esseri umani. Sentimentali. Tante erano amiche dei tassisti. Qualcuno di noi ha perso la testa e la famiglia, per una ragazza caricata fuori dal night. Io ero amico di Camilla: un’istituzione. Pugliese. Tutte le sere, fissa in via Ripamonti. Le portavo una rosa e mi faceva un sorriso meraviglioso. Ma ora Camilla ha più di settant’anni, forse è morta. Queste sono robot. Se le aspetti con un mazzo di rose, ti guardano come uno scemo».

Ore 24 - Bicocca

Nelle prime due ore si lavora tra Porta Nuova e i Navigli. «Una volta, questo per noi era il periodo più conteso della serata — spiega Corrado —. Portavi belle coppie. Ristoranti, cinema, teatri, sale da ballo: disco i giovani, liscio gli adulti. Adesso i cinema sono quasi tutti chiusi. A teatro vanno solo i vecchi: il Carcano è spesso pieno, ma l’ultima volta ho portato due genitori con la figlia, e lei ha sbuffato tutto il tempo; i teatri per i giovani sono come per noi un calesse o un landò, roba d’altri tempi. E in discoteca non si va a ballare, ma a sballare. Guardi ad esempio questi tre che ci stanno aspettando». Sono un ragazzo e due ragazze, vanno a una festa, alla Bicocca. Un quartiere rinato: dopo la chiusura delle fabbriche, racconta Corrado, era diventato un dormitorio di vagabondi, anche pericoloso; adesso c’è l’università, l’arte, il design. «E la droga. Ha visto lo sguardo vitreo di lui? Era già fatto. Non si ha idea di quanta gente si droghi». Ma lei Corrado come lo sa? «Guardi, il modo migliore per fare il tassista di notte senza correre rischi è parlare con i clienti, e far credere di essere come loro. Con un drogato, parlo di droga. Ho visto l’eroina, la cocaina, le droghe sintetiche. Le più recenti non sono pastiglie, si fumano». La conversazione è scandita dai bip delle chiamate. «Questa è un’abbonata; e agli abbonati si risponde sempre. È una giornalista di Sky. Così le mostro il boschetto di Rogoredo».

Ore 1.30 - Rogoredo

Corrado mi indica quelli che arrivano, e quelli che escono. «I ragazzi con la faccia da zombie devono ancora farsi. Quelli iperattivi o in estasi sono appena fatti». La giornalista di Sky deve andare a casa, in centro. Spiega Corrado che i vip sul taxi ormai non capitano più. «Io sono milanista, e ho avuto l’onore di portare Gullit, Rijkaard, Panucci. Il migliore è Franco Baresi. Nella vita privata è come in campo: una persona seria». Purtroppo Corrado non ha mai realizzato il suo sogno: «Avere sul mio taxi Gianni Rivera. Mio nonno era tassista, mio padre pure. Ho due fratelli, entrambi tassisti. Siamo tutti milanisti. Da ragazzo abitavo a San Donato e vedevo sempre Rivera mangiare la bistecca alla Ruota, con Romeo Benetti o con Carletto Schnellinger. Ho preso la licenza nella speranza un giorno di portarlo in giro per Milano. Non ci sono mai riuscito». 

Oggi i calciatori non prendono il taxi; hanno tutti l’autista. «Però carico spesso Roberto Vecchioni. È abbonato: lo porto in via Mecenate a registrare la trasmissione di Gramellini. Ho accompagnato anche Renato Pozzetto e i Fichi d’India. Ma le più simpatiche sono Loredana Bertè e Asia Argento, due matte vere. Una volta a Linate ho caricato Fabrizio Corona; c’era pure Belén, ma stavano litigando, così lei ha preso un altro taxi... Di solito gli artisti sono gentili, cortesi. Tranne un attore comunista, che conosciamo tutti perché ha sempre una banconota da 500 euro, e siccome nessuno di noi ha il resto cerca di andarsene senza pagare...». E i politici? «Anche loro hanno l’autista. Una volta ho portato Ignazio La Russa e Daniela Santanchè. Mi piacciono, perché la penso come loro». 

Un tempo i tassisti erano quasi tutti di sinistra, racconta Corrado. «Siamo cambiati con gli anni ’90. Qui a Milano abbiamo appoggiato la Lega; a Roma hanno scelto Alleanza Nazionale. Poi Bossi e Fini hanno fatto quel che han fatto. Salvini si è seduto a tavola con Draghi, e ci ha traditi. A Sala di noi non importa niente: perché non ci lascia passare da via Broletto? Perché ha ridotto Buenos Aires a una corsia? Ora siamo quasi tutti con la Meloni». 

I tassisti scioperano anche contro l’accordo con Uber. «Non vogliamo essere taglieggiati da una multinazionale, che ci chiede la percentuale sugli incassi. Abbiamo le nostre App; usiamo quelle, no? In America i tassisti sono immigrati disperati che lavorano per conto altrui. Noi abbiamo pagato la licenza, io novanta milioni di lire del 1986: è la nostra liquidazione. Adesso secondo i miei calcoli vale 140 mila euro. Già siamo piccoli; non possiamo farci schiacciare». Ma Uber c’è in tutto il mondo. «Sì, ma noi abbiamo la tariffa fissa; la loro dipende dal traffico e dalla richiesta. C’è gente che ha pagato delle corse da Malpensa trecento euro...». 

Ore 2.30 - Navigli

Nelle zone della movida i taxi mancano, la gente si sbraccia per strada, ma Corrado è inflessibile: «Di notte non puoi caricare così, a caso. Devi sapere chi porti. Con le chiamate hai il numero del cellulare, spesso sai anche la destinazione. Hai il nome; anche se tanti danno un nome da donna, pensando di avere l’auto più velocemente».

In effetti sia Alexandra sia Henriette si sono rivelate due uomini. Ora a Porta Genova abbiamo appena caricato una coppia che deve tornare a casa. Non si rivolgeranno la parola per tutto il tragitto. Lei è molto seccata perché il tassametro segna già dieci euro, Corrado le spiega gentilmente che c’è il notturno; ma non la convince.

Obietto che a noi clienti capita — non a Milano — di essere truffati davvero. Racconto a Corrado le ultime due volte in cui ho preso un taxi a Palermo. La prima volta sono partito da Punta Raisi su un’auto che segnava già trenta euro; il suo collega non aveva azzerato il tassametro della corsa precedente. La seconda volta il tassametro era coperto da un sedile reclinato, e il tassista pretendeva 29 euro per una corsa urbana di pochi minuti... «Io non sono mai stato convocato in via Messina 53 in vita mia» taglia corto Corrado, con fierezza. Via Messina 53 è la storica sede delle auto pubbliche di Milano (ora trasferita in via Sile), a cui arrivano le proteste.

Ore 3.30 - Cornetteria

Sosta nel cuore della notte in un locale aperto 24 ore su 24. «È un posto sicuro: è di un calabrese. Nei bar dei calabresi non succede mai niente. Il problema è che tutto sta passando in mano ai cinesi». La sicurezza, dice Corrado, i tassisti se la fanno da soli. «Le telecamere, sia quelle dentro l’auto sia quelle per strada, non servono a molto. I ladri se ne fregano. Ho visto spaccare finestrini, rubare e fuggire sotto gli occhi delle telecamere. Ma quando ci provano con noi, diamo l’allarme schiacciando un bottone, la centrale avverte le macchine vicine, e i colleghi arrivano a darti manforte. Ci facciamo giustizia da soli: quattro sganassoni, e finisce lì. Sulla polizia non possiamo contare: c’è, ma non è qui per noi. I vigili, peggio ancora: lei ha visto una pattuglia in tutta la notte? Qualche tempo fa sono stato testimone di un accoltellamento in piazzale Lagosta. Mi hanno fatto aspettare due ore, mi hanno fatto un sacco di domande, e non hanno preso nessuno. Ma io paura non ne ho. Se hai paura, non fai il tassista di notte a Milano. Hanno provato a rapinarmi una sola volta, ho reagito, e quello è scappato».

Ci sono quartieri più sicuri rispetto a una volta. «È vero, non vedi più la gente bucarsi. È tutto molto meglio organizzato». Corrado nel corso della notte mi mostra la darsena, il piazzale della stazione Centrale, i giardini di Porta Garibaldi intitolati ad Anna Politkovskaja. «Lo spaccio funziona così. Il cliente chiama, il pusher manda un ragazzo che passa la dose a uno di questi qui, che la consegna al destinatario. Così sono in tre. Beccarli non è facile; e se un poliziotto ci riesce, li rilasciano il giorno dopo». Sotto i portici ci si prepara per la notte, due clochard hanno attrezzato delle brandine con i materassi e tutto. Un rider, che somiglia in modo impressionante al ciclista con le trecce rasta di «Non è un paese per vecchi», quasi ci viene addosso in contromano. «Ma secondo lei — sorride il tassista — questi alle quattro del mattino portano a casa della gente le pizze prosciutto e funghi?».

Cominciano ad arrivare le chiamate dalle discoteche, ma Corrado le respinge. «Mica sono matto. Nella migliore delle ipotesi ti vomitano in macchina, nella peggiore tirano fuori il coltello e non ti pagano».

Ore 5 - Discoteca

Si torna a Rogoredo per caricare una ragazza dell’Est, di pessimo umore. Corrado spiega che sta tornando da casa di un cliente. Poi chiama un ragazzo: cerca un «bangla», deve comprare dieci birre e portarle agli amici; così si ritorna allo stesso indirizzo. Alla fine della notte Corrado avrà incassato 332 euro: solo due corse sono state pagate in contanti; altre due con i voucher aziendali; le altre con la carta. «Io arrivo a incassare ottomila euro al mese; ma lavorando sette giorni su sette. Tra spese e tasse me ne restano meno della metà; solo il radiotaxi mi costa 2400 euro l’anno. E ho tre figli». 

Alla fine della notte fa fresco, e la signora anziana seduta in piazza Bonomelli sembra avere proprio freddo. Corrado si intenerisce, la fa salire, le dà un passaggio fino al dormitorio di viale Ortles. Insisto perché accetti una delle chiamate in arrivo dalle discoteche. Finiamo al Plastic di via Gargano. «Qui una volta ci ho portato Edwige Fenech, un’altra la Carrà. Era un posto bellissimo». Due camion con le salamelle, drag queen praticamente su trampoli. La chiamata è di una coppia, neanche giovanissima. Pure loro non si scambieranno una sola parola in tutto il viaggio. Non vomitano e non puntano il coltello; lei però all’arrivo chiede lo sconto. Il tassametro segna 23; «facciamo venti cash?». Corrado, inesorabile: «Lo sconto è morto». 

Poi spiega: «Io lo sconto lo faccio alle ragazzine, non a chi può pagare. Ci trattano sempre peggio. Se lo ricorda Luca, il nostro collega ammazzato a calci al Vigentino perché per sbaglio aveva messo sotto un cane, e si era fermato a soccorrerlo? Una volta eravamo un’istituzione: ti invitava il ristorante, perché magari poi ne parlavi bene; per ogni spettacolo che produceva, David Zard faceva una prova generale per un pubblico di soli tassisti. Adesso ci considerano schiavi. L’altro giorno mi ero fermato per prendere un caffè e andare in bagno, e un tizio mi ha preso a male parole: voleva un taxi, e lo voleva subito. Il mese scorso un nero che non voleva pagare il notturno mi ha messo le mani addosso; ho chiamato la polizia, quello è scappato, e hanno chiesto i documenti a me. La vita sociale è in ribasso, sa?».

Lo chiamano degrado dei rapporti umani. «È così. Con la pandemia, poi, troppi negozi hanno chiuso. Fanno la spesa su Amazon, si parlano sui social. E non fanno quasi più l’amore; se non, come ha visto, a pagamento. Si fidi: una volta a Milano si scopava molto, ma molto di più. Certo, può succedere ancora adesso che una donna sola, dopo una corsa costosa, si offra di pagare in natura. Ma io lo trovo degradante. Una volta capitava che un tassista e una passeggera facessero l’amore per il piacere di farlo. Ora non capita più». Albeggia. Corrado prima di andare a casa passa a salutare Manuela, più che altro per mostrarmi che, a differenza di Camilla, è ancora viva. «Questa è Milano — mi saluta il tassista —. Negli anni ’80 era una città più violenta, più armata. Tanti salivano a bordo con la pistola. Eppure la vita era più dolce, più ricca, anche umanamente. Ora la città è meno violenta, ma più aggressiva».

Roberta Scorranese per il “Corriere della sera” domenica 24 Luglio 2022.

La generazione derubata dei sedici e dei diciassette anni avanza in jeans e miniabiti color bronzo o panna. Davide, Francesca, Lorenza e Giovanni sono in coda dalle dieci e mezza di sera. Sanno che qui niente comincia prima di mezzanotte, ma sanno anche che la fila presto si ingrosserà fino a ricoprire di teste giovani il curvone della via Aurelia che si impenna fino al promontorio di Capo Mele, dove Laigueglia lascia il posto alla Marina di Andora, Riviera di Ponente. 

A La Suerte, storica discoteca a strapiombo sul mare, non «si fa porta» (non si comincia a far entrare) prima delle undici e tre quarti e Davide, Francesca e gli altri ne approfittano per un primo carosello di selfie davanti alla scritta a caratteri colorati. D'altronde questa è l'estate dei loro diciotto anni, la prima estate vera di una generazione a cui il Covid ha rubato i rossori, i primi incontri, persino i «parapiglia, scatta il gioco della bottiglia», come Elio e le Storie Tese chiamavano quel misto di eccitazione e ansia nelle feste dei sedicenni.

«E finalmente si balla», dice Davide, faccia da bambino, come ce l'hanno tutti in questa folla di centinaia di giovanissimi che lungo il perimetro di una notte intera si avvicenderanno per le alte gradinate che uniscono i tre piani della Suerte, cinquantacinque anni di musica. 

Già, si balla. Questo dovrebbe essere il minimo per una discoteca, però ci si dimentica in fretta che nella primavera scorsa i locali riaprirono ma si doveva stare fermi per evitare i contatti sudati, al massimo un drink, al massimo un ancheggiamento sulla sedia. «Era surreale - raccontano dallo staff -: ricordiamo la dignità dei ragazzi che venivano qua e si sedevano buoni buoni, tutt' al più dondolavano con le gambe. E, giuro, ho visto gente in pista con la mascherina».

Ore 23.45 La «porta» Stanotte invece le uniche mascherine che si vedono sono quelle dipinte con l'eyeliner nero intorno agli occhi di Laura e Pamela, che arrivano strette in due abitini viola. Avranno diciott' anni? La carta d'identità sventolata alla porta dice di sì. Il metal detector è il secondo passaggio: aprire le borsette per le ispezioni, mentre la paletta disegna il profilo dei due corpi magri senza «beep» sospetti. Laura e Pamela possono entrare. «Veniamo da Alassio, ci hanno accompagnato i genitori», dicono sfumando nella serata in una nuvola di flash del telefonino. 

Tante altre Laura e Pamela fanno la fila per mostrare i documenti, perché se non si è diciottenni non si entra, a meno che non si sia accompagnati da maggiorenni. Eccone una, di minorenne: si chiama Paola e ha un top verde smeraldo, che viene immediatamente segnalato al bar («Alla ragazza in verde date solo analcolici», gracchiano le radioline del sistema di sicurezza, donne e uomini vestiti di nero che punteggiano tutto il complesso sul mare).

Perché una cosa è certa: questa notte è una notte giovanissima, quasi post-puberale.

Diciotto, diciassette, diciannove, venti, massimo ventuno o ventidue. Dove sono i trentenni? «Boh», fa Sofia scrollando le spalle, come se parlassimo di «creature replicanti» che abitano un universo parallelo. Lei è in vacanza ad Albenga e deve tornare presto a casa, mamma e papà non sgarrano. Taxi? «No, c'è la navetta della discoteca che ci accompagna». 

 Diciotto anni e il suo ingresso (25 euro con un drink) e il suo secondo cocktail (10 euro, ma qui tutto dipende dalla serata e dallo spettacolo in scaletta) è assicurato. «La notte è lunga, ne vedrà di belle», dicono due rosse. E sì, per vederne di belle bisogna mettersi accanto ai bodyguard della «porta»: in un grosso cesto messo di fianco all'entrata finiscono subito una lattina di birra, un coltellino, un oggetto non meglio identificato, una grossa bottiglia di gin mezza vuota. Materiale clandestino, nascosto in grandi tasche o borse o camicie ampie, nella certezza di eludere i controlli. 

«Qualcuno prova a entrare già "bevuto" - dice Angelo Pisella, proprietario della discoteca -, qualcuno tenta di portare dentro gli alcolici per darli di nascosto ai minorenni accompagnati. Sia gli uni che gli altri li sgamiamo subito». A loro non importa se sei giovane o adulto: se sei «fatto» o «bevuto» non entri. Intanto, come per un messaggio mandato dagli dèi della notte, nella musica interlocutoria che precede la serata, si riconosce Elton John che canta «It' s seven o' clock, and I wanna rock/ Want to get a belly full of beer». E dicci, Elton, che cos' è la trasgressione per questa generazione con camicie bianche e facce da bambini?

Ore 01.00 Nei bagni Inutile cercarla nei bagni de La Suerte, la trasgressione. Solo ragazze che si sistemano i capelli e che controllano i messaggi sullo smartphone. Non c'è nemmeno quel viavai sospetto che porta sempre le stesse persone sulla soglia della toilette. «Il problema - continuano due ragazzi in maglietta azzurra - è che quelli che "si fanno" in discoteca oggi ci arrivano già "fatti"».  

È per questo che la security diventa importante. Sul petto delle guardie spicca una specie di occhio elettronico: è una body-cam: se qualcuno dà in escandescenze la security lo riprende.

La «porta» procede implacabile la sua scrematura: troppo giovane e da solo? Via. Occhio vitreo sospetto? Non c'è posto, ci spiace. Abbigliamento eccessivo? Non c'è il nome in lista, ci spiace. Si usano tutti i deterrenti possibili.

Le cronache però raccontano di notti sballate in tutta Italia, anche tra giovanissimi. «Ma è facile da capire: io non ho alcun interesse a far circolare la droga qui dentro, anzi», dice Pisella. Ma circola? «No, assolutamente no». Rispondono di no anche Daniele e Luca, che a distanza sembravano due trentenni ma era un miraggio della notte di salsedine. Occhio alle bottiglie d'acqua (qui una costa 3 euro al bancone): se è colorata vuol dire che ci hanno sciolto dentro i cristalli.  

Ma che senso ha, ragionano, venire a «farti» qui quando oggi tutto lo trovi online e a poco prezzo e puoi consumare quello che vuoi a casa di un amico facendoti riaccompagnare in taxi? Un kit di sballo (una specie di tester con varie sostanze, intuiamo) costa meno di una serata in pizzeria, assicurano. Sì, ma come si resiste a ballare tutta la notte?

«E chi dice che si balla tutta la notte? Questa è roba vecchia», fa Luca. O di un'altra generazione, ormai scivolata nei trenta-quaranta. In effetti, più che un rave, questa serata sembra una festa dell'alternanza continua: gente che va dalla spiaggia alla pista del piano di sopra, gente che esce e gente che continua a entrare anche dopo le due, a quattro ore dalla chiusura, gente che si dà il cambio in pista e che si sdraia sul divano con il telefonino. 

È come se l'inclinazione a stufarsi presto - cifra di una generazione di diciottenni, la generazione Netflix - avesse rivestito il concetto di trasgressione con un velo di transitorietà, di finitezza. Con buona pace di Freddie Mercury, che in questo momento sta urlando «Don't stop me now». Non sulla pista, ma nelle mie cuffie (sì, quelle che ho indossato per un poco, di nascosto, il tempo di una sosta rinfrancante dall'unz unz unz unz ).

Ore 02.00 La nuvola «Ma sotto, in spiaggia, c'è musica meno commerciale?», chiede all'aria salata una ragazza rossa di capelli, bellissima, sui diciannove. Ci sono due deejay diversi, proprio per favorire il saliscendi sui gradoni e il ricambio. E questa passerella di ragazze e ragazzi in jeans o tacchi a spillo o semplicemente tuta-pantaloni è un pezzo dello spettacolo, regolarmente filmato e fotografato, perché la festa è qui solo in parte: il resto è sulla nuvola. Sul «cloud», cioè. 

Perché il buio di questa notte sul mare è bucato dalle luci della pista e dai telefonini sempre accesi: si filmano mentre ballano, mentre riposano, mentre passeggiano, mentre salgono o scendono le gradinate, mentre si baciano o si salutano. Così, lentamente, muore una generazione di festaioli che andavano in discoteca per perdere la testa, e avanzano quelli che di feste ne fanno due: una qua e una su TikTok.

Forse Bruno, un papà che ha aspettato la sua Simona all'esterno, esagera quando dice che «vengono qui solo per filmarsi e postare su Instagram», ma qualcuno potrebbe negare che buona parte del divertimento sta lì? «Noi andavamo in discoteca per rimorchiare - scuote la testa il papà in jeans e camicia -, questi vengono qui per farsi le foto e poi se ne vanno». È davvero così?

«Ti taggo», dice una. «Mettici la funzione live», dice un'altra. «Ma certo che ci si corteggia ancora - ride Marzia, sui vent' anni -. Voi vi facevate dare il numero, noi ci messaggiamo su Instagram. C'è uno con cui mi scrivo da mesi e non ho mai sentito la sua voce». Manco un vocale? «E a che serve?».  

Come sono gli approcci di solito? «Se uno ti piace gli chiedi il nome e poi lo "segui". Gli metti qualche like alle foto e ai video. Se lui ricambia il follow il giorno dopo gli mandi un messaggio». Ma non potete parlare su un divanetto, la sera stessa? «Boh. Sì, certo». Il gusto dell'inseguirsi sulla nuvola prima di farlo dal vivo dà un nome alla smania di selfie che si intreccia nell'aria questa notte: è come se ci si raccontasse prima online e solo dopo dal vivo.

Non è che questa vita virtuale finisce per soffocare il gusto - forse anche il rischio - di un corteggiamento tradizionale? Silenzio. Qualche risatina. Come se si parlasse di cose marziane. E il sesso? «Magari! Un miracolo», ride Davide. Perché? «Non so, è come se fossimo ancora in lockdown da quel punto di vista. Siamo come congelati». Per molti di loro questa è la prima estate d'amore. Che cosa vuol dire per voi "perdere la testa"? «Forse anche solo una notte fuori a ballare». «Una canna ogni tanto». «Sposarmi». E la nuvola virtuale si riempie di un carosello di immagini appena scattate. 

Quello che però è reale è l'alcol che continua a girare, benzina della notte e di una danza che si fa più accesa, frenetica. Non ci sono incidenti, giusto un battibecco tra due ragazzi con il viso arrossato. Così come la musica si confonde con le voci, sempre più calde, sempre più urlanti.

A proposito, sono le due. Non è forse ora di cominciare ad abbassare i volumi? «Cosa!? È adesso che comincia tutto», dice Davide. E infatti, come in un'apparizione mitologica, dal terrazzino della consolle ecco tre bellissime ballerine callipigie (in greco antico «dalle belle natiche», e, aggiungiamo, scoperte) che lanciano un segnale percepibile agli iniziati della notte e che per noi profani suona più o meno così: «Siete caldi? Si comincia».

Ore 04.00 In pista Ma il punto, per gli «osservatori» che si sforzano di restare svegli con caffè nero, è che tanti - parliamo di decine e decine di persone - cominciano ad arrivare adesso. Uno sciame caldo che scivola verso la spiaggia. E considerato che alle sei si va tutti a casa, uno si chiede: vale la pena pagare per stare così poco? E, soprattutto: dove siete stati finora? «In giro», è la risposta evasiva che danno tutti. Viene il dubbio: ma non è che la discoteca è diventata quello che una volta era «l'after», cioè una coda del divertimento della nottata? Le ipotesi si sprecano: una festa privata prima e «disco» dopo? 

«Oppure, più semplicemente, sono stati in qualche altro posto - chiosano dalla discoteca -. Quello che a noi interessa è che siano sobri. Ma sa quanti ne arrivano che magari sono stati in altri locali più "tolleranti"?». Adesso la folla è al culmine, le ballerine sono le registe involontarie di una danza dove si mescolano teste bionde, brune, rosse, folte o rasate: «fottitene e balla», cantava lo scorso inverno Dargen D'Amico, nella consapevolezza che sarebbe stata la parola d'ordine di questa estate «dove si balla».

La «porta» però è ancora implacabile e vale la pena fare un salto lì nell'ora che comincia a calare di tono: c'è chi chiama un taxi, c'è chi aspetta la navetta e si appoggia (sfatto) al muretto, c'è chi commenta la serata e guarda le foto, c'è chi si apparta, c'è chi si avvia a piedi, la serata luccica e c'è la luna che guida i passi - anche quelli leggermente barcollanti - lungo l'Aurelia. Ma lo sapevate che questa è la strada del «Sorpasso»? Una voce buca il silenzio imbarazzato dei reduci: «Grande film, l'ho visto con mia nonna durante il lockdown». Sì, ha detto proprio «mia nonna». 

Ore 05.00 Sui divani Intanto la notte si abbassa anche sugli ultimi irriducibili della pista. Qualcuno ha ceduto al divano, qualcun altro dorme sulle ginocchia di una che guarda il telefonino. Tutti sembrano chiedere qualcosa: un po' di sonno, un taxi, un'acqua. È l'ora in cui si è più fragili, anche se questa è l'estate dei loro diciotto anni. Una bellissima giovane donna castana (non vuole dire nemmeno il nome ma è tedesca e ha scelto Alassio per le vacanze) è qui da sola.  

Non cerca nulla, solo un po' di musica e di notte. Finalmente, dall'ultimo divanetto un po' appartato, ecco una tenerezza stanca, di quelle che fanno venire voglia di dare ragione un po' a tutti. Il primo bacio vero in una notte diciottenne, l'ultimo bacio senza telefonino davanti, che non finirà su Instagram perché non ce n'è bisogno: la marea ha già inghiottito tutto e non parlerà, perché i segreti del mare sono per sempre.

Questione di "autoresponsabilità”. Iscritta all’Università da 18 anni, il giudice le toglie il mantenimento: il papà non dovrà più dare soldi alla figlia 36enne. Elena Del Mastro su Il Riformista l'1 Luglio 2022

Ogni mese dava alla figlia 300 euro come stabilito dal giudice ai tempi della separazione. Peccato che la figlia in questione avesse 36 anni e che da 18 anni fosse iscritta all’Università senza mai accennare alla laurea. O meglio, dando cenni di speranza, ma senza mai raggiungere davvero il traguardo. Così il papà pensionato, stufo di questo atteggiamento, ha chiesto al giudice di poter sospendere l’assegno di mantenimento. Il tribunale di Napoli gli ha dato ragione: “È questione di autoresponsabilità”.

A raccontare l’assurda vicenda il Corriere del Mezzogiorno. Protagonista un ex bancario di Portici, provincia di Napoli che alla figlia aveva anche comprato un appartamento. La giudice gli ha dato ragione, ribaltando un precedente verdetto, e sospendendo l’assegno.

Il bancario in pensione di Portici, alcuni anni fa si è separato consensualmente dalla moglie, ex estetista. La figlia, che da grande voleva fare il medico, si è iscritta all’università all’età di 18 anni, ma 18 anni dopo non è ancora riuscita a coronare il suo sogno. E il padre si è stufato di versarle l’assegno mensile. Il presidente del Tribunale, però, gli dà torto e conferma l’accordo sottoscritto al momento della separazione.

Un altro giudice, quello del processo civile avviato con l’istanza di divorzio, accoglie invece le lamentele dell’ex bancario, che chiedeva di rivedere gli accordi stipulati in precedenza a proposito del mantenimento della figlia. E decide di sospendere l’assegno. “Tenuto conto – si legge nel provvedimento, pubblicato dal quotidiano – dell’età della figlia, del tempo trascorso dall’iscrizione all’università, dal tenore della documentazione sul percorso e sullo stato di avanzamento degli studi“, va “sospeso l’assegno di contributo al mantenimento della figlia in ragione del principio di autoresponsabilità, atteso che è trascorso quantomeno il doppio del tempo previsto per il corso di laurea”.

Invano l’aspirante dottoressa ha cercato di dimostrare di essersi impegnata negli studi e che non è colpa sua se non si è ancora laureata, accampando anche questioni di salute. Il padre, che tempo fa le ha pure regalato un appartamento da circa 300 mila euro, ha invece sostenuto che non era affatto così: non solo non studiava, ma non si è mai nemmeno data da fare per cercare un qualche lavoro.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Bimbo ruba un ovetto Kinder, poi si pente e scrive una lettera: «Chiedo scusa». Il Dubbio il 17 giugno 2022.  

A raccontarlo è un negoziante di San Marino, che ha ricevuto la lettera con dentro 10 euro per risarcire il danno. A scriverla un bambino svizzero di 12 anni.

Un bambino svizzero di 12 anni ha rubato un ovetto kinder da un negozio di San Marino e dopo essersi pentito a inviato una lettera di scuse con dentro 10 euro per risarcire il danno. Ne dà notizia direttamente il commerciante coinvolto, Danilo Chiaruzzi, gestore dell’Alimentare Chiaruzzi, pubblicando un post sui propri social con la fotografia della lettera di scuse.

«Ormai non mi sorprende più nulla – scrive il negoziante su Facebook – con quello che abbiamo passato in questi anni, ma oggi mi sono ricreduto. Mi è arrivata una raccomandata dalla Svizzera, scritta a mano con all’interno 10 euro come lettera di scuse di un padre il cui figlio mi avrebbe rubato in gita un ovetto kinder. Sono rimasto allibito e questa dovrebbero leggerla tanti ragazzi che quotidianamente, per gioco o sfida mi rubano patatine caramelle o altro! Gli risponderò con una cartolina e un invito a tornare a trovarci pet stringergli la mano!».

Nella lettera di scuse, scritta in tedesco, e datata 3 giugno 2022 si legge «Caro signore o signora, mi chiamo Benjamin, ho 12 anni e vengo dalla Svizzera. Domenica 30 maggio sono entrato nel tuo negozio e visto che non avevo soldi ho rubato un “joy kinder” (2,10 euro). Mi dispiace molto e so di aver sbagliato. Per fare pace con Dio e con te ti do 10 euro come forma di compenso».

Casumanitudini. Fenomenologia delle lagne della generazione O (come ovina). Guia Soncini su L'Inkiesta il 22 Giugno 2022.

Quelli per cui nulla esisteva prima di loro e che per essere in sintonia con i tempi si inventano stigmi, sessualità e traumi su cui basare dolenti memoir che poi diverranno serie di Netflix.

Dobbiamo parlare della Generazione O. “O” come “ovina”. La generazione per cui nulla esisteva prima di lei, per cui nessuno è mai stato infelice come lei, per cui – risolti i bisogni primari e pure quelli secondari – la vera sfida è quella d’inventarsi sempre nuovi traumi, sempre più deliranti.

È una generazione che spazia oltre la generazione: ai ventenni puoi sperare finisca poi di formarsi il cervello, diventino normodotati, e si vergognino tantissimo delle prove della loro scemenza giovanile, per fortuna nel frattempo scomparse assieme alle piattaforme su cui erano state caricate (Instagram prima o poi morirà, diversamente dai diari di carta della mia gioventù, che ogni tanto spuntano fuori da qualche cassetto facendomi morire d’imbarazzo per la cretina che fui); il guaio è quando a cinquanta sei scema come una ventenne.

È una generazione, quella ovina, che ne include almeno tre, tra cui la mia: i peggiori adulti della storia del mondo, i peggiori genitori della storia dell’umanità; all’inseguimento di figli ai quali – invece di dare coppini ribadendo che essi è naturale e fisiologico non capiscano un cazzo di niente – diciamo che certo, loro sì che ci spiegano la vita, certo, anzi aspetta che mi sforzo d’essere scemo quanto te.

Quando vedo una ventenne che dice che non è binaria, m’intenerisco; quando vedo una quarantenne che dice che non è binaria vorrei prenderla a coppini finché non va a ripassare i mammiferi sul sussidiario.

Da giorni c’è una certa attenzione rispetto all’account TikTok di Netflix, per un video di cui poi parliamo; ma, prima, vorrei parlare d’un altro video, sempre caricato sull’account Netflix in occasione del mese del Pride (quel mese in cui, non potendo essere orgoglioso d’aver inventato il vaccino per l’Aids o il wifi, sei orgoglioso di andare a letto con quelli con cui vai a letto).

Nel video che non è una notizia, quello di cui non stanno parlando tutti, c’è una tizia coi capelli rosa che annuncia alla madre e alle amiche d’essere pansessuale. E a questo punto, abbiate pazienza, mi tocca divagare.

Avrete visto che col mese del Pride sono arrivate le bandierine. Ognuno ha la sua, ché mica il mondo poteva essere semplice, vai a letto con gli uomini, con le donne, con tutti e due, con nessuno dei due. Macché. Ogni sfumatura ha innumerevoli sottinsiemi, ognuno determinato a considerarsi speciale e meritevole d’etichetta personalizzata.

I non scopanti, per esempio (asessuali, in gergo medicalizzato), che dovrebbero essere i meno identitaristi e militanti di tutti (non si scopa soprattutto per non sobbarcarsi le annesse scocciature: se devi farne una militanza, tanto valeva la copula), essi hanno sedici (sedici) sottoinsiemi con relativa bandierina.

Sono considerati nel novero: autocorisessuali, quelli che non sentono connessione tra sé stessi e l’oggetto del loro desiderio (ai miei tempi ci chiamavano «quelli che subito dopo chiamano un taxi»); demisessuali, quelli che non provano attrazione sessuale senza un legame sentimentale (ai miei tempi: «quelli che si fermano a dormire»); e pure, con la loro brava bandierina grigia e rossa, quelli cui non va di praticare atti sessuali su altri, ma cui va di riceverne. Cioè, quelli che gli va bene se glielo ciucci, ma che proprio non ci pensano a leccartela.

Se fossimo disposti a fare gli adulti, prenderemmo da parte le nostre figlie e diremmo loro che le bandierine dello spettro delle identità asessuali sono una presa in giro, e che l’ultima è la descrizione del maschio eterosessuale medio. Ma non lo siamo, e quindi diciamo ma certo, piccina, è uno dei sedici tipi di asessualità, il tuo moroso non è affatto un egoista di struggente ordinarietà.

Quindi, nel video di Netflix, multinazionale all’inseguimento di giovani che scroccheranno l’abbonamento ai genitori, capelli rosa fa il gran annuncio. È pansessuale (ai tempi di Borotalco: «ppe’ me pò èsse bisessuale, trisessuale, quadrisesssuale, pentasessuale: so solo che da quel punto di vista è da applauso»). Un’amica le chiede se quindi ha avuto esperienze con donne.

Capelli rosa, facendomi morire di tenerezza, risponde che esperienze no, però ha avuto «crush». Crush significa cotta, ma i ventenni di oggi non sanno l’italiano né l’inglese, figuriamoci se sanno tradurre l’uno nell’altro. Dicono «crush» convinti significhi qualcosa d’intraducibile, «slur» fantasticando sia diverso da «insulti», «cringe» certi che sia ben altro da «imbarazzo».

Al di là della lingua in cui si esprime, capelli rosa veicola un concetto di cui non si rende del tutto conto (ma gli adulti di Netflix sì, e infatti sono loro che meritano il 41 bis per aver fatto di capelli rosa e delle altre un fenomeno da clic, invece di mandarle in camera loro a fare i compiti). Hai avuto esperienze? Ho avuto crush. Quindi, amore della tua mamma, non sei pansessuale: sei vergine. Vergine che si dà un tono di mondo. Assunta Patanè, ma senza un Monicelli a renderti memorabile.

E veniamo al video che ha infranto l’onda. C’è una ragazza parecchio bellina che racconta d’una ginecologa che l’ha traumatizzata costringendola a fare coming out. Alla prima visita, l’indelicata dottoressa le ha chiesto se avesse rapporti sessuali protetti. Quindi intendeva con uomini, si stranisce la piccina. Quindi ho dovuto dirle che mi piacciono le ragazze. Quindi trauma.

È molto interessante quel che succede nei commenti a quel video, e nei moltissimi repost in giro per piattaforme: nessuno le dà ragione. Quindi c’è un confine del trauma immaginario. Quindi c’è un «questo è troppo» anche per la generazione O. Quindi non vale proprio tutto.

(Il divario generazionale è quella cosa per cui le sue coetanee s’indignano perché esistono preservativi femminili e anche una lesbica deve stare attenta alle malattie e ha ragione la ginecologa, e io penso che sono proprio una cariatide: ai miei tempi «protetti» significava dalle gravidanze ben prima che dalle altre malattie).

La ragazzina bellina che voleva solidarietà nella sua indignazione contro la ginecologa raccoglie più «ma cosa dici, ma non sai niente» dell’adulta che – ventotto anni dopo Prozac Nation, cinquantacinque anni dopo La valle delle bambole, trentanove anni dopo Valium di Vasco Rossi – loda il proprio stesso coraggio nel dire che ha preso tre gocce di Lexotan con tutto lo stigma verso gli psicofarmaci che c’è in giro (ma che invidia che ti facciano qualcosa tre gocce, vuol dire che di solito ti curi con l’omeopatia o con le tisane di malva).

La ragazzina bellina e biondina raccoglie più accuse di falsificare la realtà della poetessa che, in interviste in cui nessun intervistatore la contraddice, dice che l’endometriosi non è una malattia riconosciuta dal servizio sanitario nazionale (l’endometriosi, che era persino tra le fragilità per cui potevi vaccinarti in anticipo dal Covid), e quindi c’è uno stigma (parola del semestre). Alla poetessa nessuna adulta dice «ti avrei voluta vedere ad avere l’endometriosi negli anni Ottanta, quando ti dicevano: quante storie, pigliati un Moment». Nessuna obietta, perché nessuna vuole non essere in sintonia con lo spirito del tempo.

Per esserlo, inventiamo stigmi, inventiamo sessualità, inventiamo oscurantismi, inventiamo traumi: fino a quello della biondina, misteriosa eccezione, valevano tutti. La risposta alle molte domande «ma che ci fa questa sull’account di Netflix» nei commenti alla biondina forse è questa: non sapendo inventare invenzioni che valgano il Nobel, inventiamo casumanitudini sulle quali basare dolenti memoir che poi diverranno serie di Netflix.

Piscialettissimo. I ragazzini sono scemi, ma noi che ci adeguiamo ai loro tic siamo anche peggio. Guia Soncini su L'Inkiesta il 3 Giugno 2022.

La Rai ha deciso di allinearsi allo spirito del tempo mandando in onda programmi sullo scontro generazionale. Ma è una formula già usata da decenni. La generazione dei giovani “che salveranno il mondo” ma che non sanno nulla lo ignora, gli altri fanno finta di nulla.

Quando, venticinque anni fa, ho lavorato per la prima volta in Rai, la frase che sentivo più spesso dire era «I vecchi poi muoiono»: era la motivazione che i dirigenti si davano per il goffo inseguimento del pubblico giovane. Era una motivazione meno fessa di «questa generazione ci salverà» e altre puttanate che noialtri adulti diciamo dei ventenni d’oggi.

All’epoca noialtri ventenni eravamo figli della generazione che aveva inventato la ventennitudine: quelli che avevano avuto vent’anni negli anni Sessanta. Quindi forse eravamo vagamente complessati, vagamente consapevoli di non essere altrettanto rivoluzionari (noi che avevamo sì e no avuto la Pantera, noi che avevamo avuto i paninari), il che mitigava il delirio d’onnipotenza connaturato all’età.

Quelli d’oggi, figli di noialtri disgraziati, sono convinti d’essere i primi e gli ultimi ventenni della storia del mondo, e che ogni cosa che accade a loro sia specialissima, esclusiva, inedita, degna d’attenzione. E noi – i peggiori genitori della storia del mondo – non osiamo contraddirli.

Il risultato è che martedì, tra indiscrezioni e annunci ufficiali, è stata data notizia di ben tre programmi autunnali (tutti e tre della Rai, quindi alla fine saranno di più: vuoi che le altre reti lascino libero il campo?) il cui scopo è contrapporre giovani e adulti.

Solo che gli adulti non sono più adulti: sono boomer, uno dei tic lessicali più sciatti della storia del mondo. Boomer sarebbe chi è nato negli anni del boom (cioè: nel dopoguerra); solo che i ragazzini d’oggi – persino più analfabeti di quanto fossimo noi alla loro età – lo usano indistintamente per chiunque abbia il difetto d’essere più adulto di loro. E noi cosa facciamo? Ci adeguiamo.

E quindi uno dei programmi – condotto dalla mia coetanea Alessia Marcuzzi – s’intititolerebbe Boomerissima, una parola che mi fa venir voglia d’andare a darmi fuoco nell’ufficio di Fuortes. Pensate a un programma degli anni Ottanta in cui i giovani baccagliano con gli adulti, e pensatelo intitolato Matusissimo. Un brivido.

La cosa interessante è che, a furia di non contraddire questi ragazzini che siamo convinti salveranno il mondo (lo salveranno da noi, mormoriamo indossando il cilicio), siamo diventati scemi quanto loro. E quindi parliamo dello scontro televisivo tra generazioni come fosse una novità, un guizzo creativo, un’invenzione di ora. Siamo come loro quando credono che le canzoni degli anni Sessanta siano nuove perché qualcuno le ha campionate su TikTok.

Negli anni Novanta in tv non c’era praticamente altro: quasi più programmi sullo scontro generazionale di quanti ci toccherà scanalarne in autunno. Lo stesso Pierluigi Diaco (che condurrà uno di questi tre nuovi programmi) nasce televisivamente in un programma di metà anni Novanta in cui si confrontava coi grandi. Un programma generazionale fu la prima conduzione di Ambra dopo Non è la Rai. E poi c’era lei, l’unica autrice televisiva italiana degli ultimi decenni: Maria De Filippi.

Prima di tutti, lo scontro tra generazioni se l’era inventato lei, trent’anni fa, con Amici. Che non era la gara di balletti di adesso, era un programma del sabato pomeriggio in cui gli adolescenti andavano a raccontare i loro disagi.

Amici era un programma di gente poco più giovane di me, loro erano liceali e io avevo vent’anni, e lo ricordo impagabile nel farmi pensare che per fortuna non ero uno di quei piscialetto che vanno a lamentarsi della vita in uno studio televisivo.

Sono passati trent’anni e i piscialetto hanno tutti fatto più carriera di me, e forse dipende da quello lo sterminato spazio che abbiamo deciso di concedere ai ragazzini d’oggi: certo, ora sono solo dei cretinetti che ci chiamano boomer, ma metti che domani ce li ritroviamo autori televisivi, direttori di giornale, piccoli potenti che possono tornarci utili. Forse questo giovanilismo è una strategia simile a quella battuta di Spike Lee: ricòrdati di me da ricco, io mi ricordo di te da povero.

Ho saltato, nell’elenco giovani/vecchi delle trasmissioni che furono, un altro format degli anni Novanta. Era un programma in cui liceali impegnati politicamente andavano a discutere col ministro dell’Istruzione. Andava in onda su Videomusic, se l’era inventato Flavia Fratello (all’inizio di questo secolo, in Inghilterra, Mtv fece una cosa analoga; fece notizia perché i ragazzini discutevano con Tony Blair: facile fare la tv quando hai lo star system).

Tra le promettenti liceali che la Fratello aveva trovato in giro per scuole e aveva messo in uno studio televisivo intuendone le potenzialità, c’era una certa Giorgia Meloni. Per allora sarò morta di colesterolo e pressione alta, e purtroppo mi perderò la nemesi che arriverà tra una trentina d’anni.

Quando le mie coetanee smaniose di dire che i ragazzi di oggi sono i migliori della storia del mondo, sono migliori di noi, sono quelli che aggiusteranno tutte le nostre nefandezze, quando le mie coetanee di sinistra pronte a inchinarsi a ogni capriccio di gioventù si ritroveranno con una Giorgia Meloni allevata nella tv del senso di colpa, nella tv costruita dalla mia generazione per dar lustro alla loro. E si chiederanno chi sia il responsabile di questa deriva a loro così sgradita, e non si guarderanno allo specchio.

Estratto dell’articolo di Maria Vittoria Giannotti per “La Stampa” il 24 aprile 2022.  

[…]

Le protagoniste di questi episodi di violenza che, per più di un anno, hanno sconvolto Siena, sono dieci insospettabili ragazzine di buona famiglia di età compresa tra i 14 e i 15 anni: ora dovranno rispondere di atti persecutori, lesioni, minacce, pubblicazione e diffusione di materiale violento, in un caso anche il reato di atti persecutori aggravato dall'odio razziale per l'aggressione a una coetanea di origini straniere. 

Le adolescenti sono state individuate dalla squadra mobile dopo una lunga indagine coordinata dalla procura minorile del capoluogo toscano. Tutte frequentano le scuole superiori della città e la maggior di loro non ha alle spalle contesti familiari difficili, un buon livello di agiatezza e di istruzione. 

Gli inquirenti sono riusciti a identificarle passando al setaccio i social network, dove le giovani diffondevano i video delle loro imprese. Secondo gli investigatori, i filmati servivano a dare una sorta di perversa credibilità al gruppo, che nel tempo acquisiva sempre nuovi elementi. A dare il via alle indagini, a dicembre, è stata la denuncia di una coetanea, ma gli agenti hanno individuato almeno una decina di episodi - tra il 27 giugno del 2020 e il 19 febbraio scorso - e sono in corso le indagini per appurare se siano state commesse altre violenze. […]

Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” il 24 aprile 2022.  

La mattina, zainetti in spalla, frequentavano la stessa scuola come brave studentesse. Ma, al suono della campanella, dieci ragazzine tra i 14 e i 15 anni si trasformavano in spietate picchiatrici. 

La loro parola d'ordine era violenza. Da far esplodere ovunque, nel mondo reale e in quello virtuale. Scegliendo accuratamente i luoghi (alcuni ribattezzati ring), vicoli del centro storico, sottopassaggi, piccole piazzette periferiche, un'antica fortezza, nei quale adescare e aggredire le loro vittime. E poi c'era Internet, per diffondere i video dei loro blitz. 

Non mancava la chat che la capo banda, 15 anni ancora da compiere, aveva battezzato «baby gang», una sorta di quartier generale per programmare i raid punitivi, decidere le prede da spaventare o picchiare e reclutare nuove bulle. Lo scopo della «squadraccia»? La violenza fine a se stessa. «Non c'erano furti, nessuna di loro si appropriava delle cose degli altri. Quello che contava era la spettacolarizzazione delle aggressioni», raccontano gli investigatori della Mobile di Siena.

La gang aveva un'organizzazione quasi militare. Con una leader indiscussa ma anche ragazzine che avevano compiti ben precisi. C'era chi doveva scegliere i luoghi degli agguati, chi garantire la sicurezza, chi proporre quali coetanee aggredire. 

E c'era persino l'addetta alle riprese video con lo smartphone, veri e propri trofei da visionare sulla chat e diffondere sui social. Una tecnica mediatica per umiliare le «prede» e dimostrare la potenza e la crudeltà della banda alla quale si doveva rispetto e ubbidienza. All'interno della banda sembra ci fosse anche una sorta d'improbabile tribunale che impartiva punizioni a chi, per esempio, decideva di abbandonare la banda. 

La baby gang è stata sgominata dopo mesi di indagini dalla squadra mobile senese coordinata dalla Procura dei Minori diretta da Antonio Sangermano. Le indagini sono partite dalla denuncia di una delle vittime.

È stata lei, dopo essere stata aggredita per la seconda volta, a rompere il muro del silenzio per paura di altri agguati, e a presentare denuncia. Almeno una decina le aggressioni fino ad oggi accertate dalla polizia, molte delle quali nel centro di Siena, ma anche nelle aree periferiche dei comuni limitrofi. Quando gli agenti della mobile hanno perquisito le loro abitazioni, alcune ragazzine si sono messe a piangere. 

Altre, compresa la capo banda, sono rimaste impassibili. Sono accusate di atti persecutori (in un caso aggravato dall'odio razziale), lesioni, minacce, pubblicazione e diffusione di materiale violento.

I Neet in Italia sono 3 milioni: ritratto di una generazione esclusa da tutto. Non studiano, non lavorano, non si integrano con la società. Ma sono ragazzi tutt’altro che sdraiati: fragili, preda del crimine, disoccupati e sfiduciati. E ora uno studio li esamina, cancellando finalmente i comodi stereotipi. Gloria Riva su L'Espresso il 4 Novembre 2022.

«Non mi hanno rinnovato il contratto», la voce di Gaia trema. Sono passati cinque mesi da quando l’azienda di moda l’ha sostituita «con una stagista neppure retribuita», ma ancora non si dà pace. Per lei, che ha 25 anni, quel tirocinio era il riscatto di una vita di sacrifici. I suoi sacrifici, certo, ma soprattutto quelli della madre, cassiera in un supermercato di Cormano, periferia Nord di Milano.

Lorena Loiacono per “Il Messaggero” il 23 aprile 2022.

Non studiano, non lavorano e non stanno neanche cercando di farlo. Sono insoddisfatti della loro vita e la pandemia, in questo, non ha potuto far altro che aggravare la situazione. 

È questo l'amaro ritratto dei giovani italiani che emerge dal rapporto Bes 2021 Il benessere equo e sostenibile in Italia diffuso dall'Istat. L'Italia infatti ha il triste primato in Europa del maggior numero dei cosiddetti Neet, Not in Employment, Education or Training, vale a dire i giovani di età compresa tra 15 e 29 anni che non sono inseriti né in un percorso scolastico o formativo né in un'attività lavorativa.

Nel 2021 il 23,1% dei giovani non studia né lavora, il dato è in leggero calo rispetto al 2020 quando i giovani senza alcun tipo di occupazione avevano raggiunto il 23,7%, ma resta comunque il picco d'Europa. 

E rappresenta, praticamente, un quarto della popolazione compresa tra l'età adolescente e l'età adulta. Purtroppo l'incidenza di Neet aumenta tra le donne arrivando al 25% di ragazze che non studia né lavora mentre tra gli uomini scende al 21,2%.

Non solo, a far la differenza sono anche i territori. Ci sono regioni in cui il dato aumenta vertiginosamente raggiungendo anche quasi 4 ragazzi su 10. È il caso, ancora una volta del Sud e delle sue profonde difficoltà occupazionali. 

Le regioni italiane con la quota più elevata di Neet sono infatti la Puglia con il 30,6% dei giovani, la Calabria con il 33,5%, la Campania con il 34,1% e la Sicilia che raggiunge addirittura il 36,3%. 

Si tratta di un fenomeno in crescita, soprattutto in Italia: basti pensare che nel 2008 i Neet rappresentavano il 19,3% dei giovani in Italia e il 13,1% in Europa e la crescita in Italia è stata più veloce di quanto non sia avvenuto nella media Unione Europea.

Ad esempio nel primo trimestre del 2021 è stato registrato un incremento dell'incidenza dei Neet, rispetto al trimestre precedente, più in Italia, con un +0,6%, che nel resto della Unione Europea con un +0,1%. In Italia, anche in questo caso, l'aumento è stato più pesante per le donne, con un punto percentuale, rispetto agli uomini con un +0,2%.

Il fenomeno dei Neet riguarda diversi fattori, si va dalla dispersione scolastica e universitaria fino alla ricerca di un lavoro che non arriva e che, quindi, neanche si cerca più.

Ma c'è un altro aspetto, decisamente legato all'emotività e alla sensibilità dei più giovani, che desta allarme. Nei due anni di pandemia è raddoppiata infatti la percentuale di adolescenti, tra i 14 e i 19 anni, insoddisfatti della loro vita: nel 2019 erano il 3,2% del totale, nel 2021 sono diventati il 6,2%. 

«Si tratta di circa 220 mila ragazzi che si dichiarano insoddisfatti della propria vita e si trovano, allo stesso tempo, in una condizione di scarso benessere psicologico - ha spiegato il presidente dell'Istat, Gian Carlo Blangiardo, nella presentazione del rapporto sul Bes - gli stessi fenomeni di bullismo, violenza e vandalismo a opera di giovanissimi, degli ultimi mesi, sono manifestazioni estreme di una sofferenza e di una irrequietezza diffuse e forse non transitorie». 

Tra i campanelli di allarme non c'è solo la sensazione di insoddisfazione ma anche le cattive abitudini sempre più presenti: la sedentarietà tra i giovani è passata dal 18,6 al 20,9% mentre tra i 14enni e i 17enni i consumatori di alcol a rischio sono addirittura il 23,6%.

«Le politiche giovanili, nel nostro Paese che invecchia - ha aggiunto Blangiardo - hanno di rado ricevuto attenzione prioritaria e risorse adeguate. Il quadro fornito dagli indicatori del Bes suggerisce che è tempo di cambiare strategia. Fuori da ogni retorica, si può dire che le politiche per il benessere dei giovani siano, oggi più che mai, politiche per il benessere del Paese tutto intero». 

Le condizioni di benessere psicologico dei ragazzi infatti, sempre nella fascia compresa tra 14 e 19 anni, nel 2021 sono peggiorate, soprattutto tra le ragazze: il punteggio per le femmine, infatti, è diminuito di 4,6 punti rispetto al 2020 scendendo a 66,6 ragazze su 100 mentre i maschi hanno perso 2,4 punti, arrivando a 74,1 su 100.

Da tg24.sky.it l'8 aprile 2022.

L’offesa su internet equivale alla diffamazione mezzo stampa. Dare ad esempio del "bimbominkia" a qualcuno online costituisce reato per cui va punito. Ad affermarlo è la Corte di Cassazione in una recente sentenza. Il termine "bimbominkia" non si può usare sui social perché definisce una persona con un quoziente intellettivo sotto la media, spiega la Suprema corte. Oltretutto se l'epiteto viene usato in un gruppo Facebook con oltre duemila iscritti scatta il reato di diffamazione aggravata.

La sentenza

La sentenza che coinvolge il termine “bimbominkia” riguarda l'animalista trapanese Enrico Rizzi, a cui è stata rivolta l'offesa. Oltretutto Rizzi in passato era stato condannato dalla Cassazione per le offese rivolte al presidente del consiglio regionale Diego Moltrer.

All'indomani della sua morte aveva usato appellativi come “vigliacco” “infame” e “assassino” per via della sua passione per la caccia. Ora è stata un'amica di Moltrer ad insultare Rizzi definendolo "bimbominkia".

Il termine “bimbominkia”

Nel gergo giovanile, il “bimbominkia” è un utente web che si comporta in modo stupido e infantile, intervenendo continuamente nelle discussioni e mostrandosi fastidioso o irriguardoso verso gli altri. Si caratterizza spesso in un quadro di precaria competenza linguistica e scarso spessore culturale per un uso marcato di elementi tipici della scrittura enfatica, espressiva e ludica.

Scuola, così si è rotto il «patto educativo» fra genitori e insegnanti. Gianna Fregonara e Orsola Riva su Il Corriere della Sera il 27 Marzo 2022.

Troppo indulgenti con i propri figli, ansiosi e frustrati, per 2 docenti su tre i genitori, con le loro continue interferenze, sono uno degli aspetti più problematici del lavoro. 

Sostanzialmente degli impiccioni. Questo sono, o meglio sono diventati, i genitori per gli insegnanti dei loro figli. Le continue interferenze delle famiglie sempre pronte a sindacare sulle scelte di maestre e professori rappresentano ormai una delle principali problematiche della professione docente. O almeno così la vedono gli insegnanti interpellati dal sondaggio Ipsos, presentato al congresso della Cisl del 16 marzo . Per il 70 per cento dei docenti è questo uno degli aspetti più critici della loro quotidianità. Del resto è notizia di questi giorni che in un famoso liceo di Milano, lo scientifico Leonardo da Vinci, si è scatenata una tale faida - oggetto del contendere: la gestione del cosiddetto «contributo volontario» pagato dalle famiglie - che l’ufficio scolastico regionale si è trovato costretto prima a mandare gli ispettori e poi a decretare la chiusura del consiglio d’istituto per «ingerenza nella potestà in materia didattica dei docenti» e «prevaricazione delle competenze del dirigente scolastico» da parte dei rappresentanti dei genitori.

Indulgenti e ansiosi

Non sorprende che, in questo clima spesso arroventato, i giudizi reciproci siano tutt’altro che lusinghieri. Nove insegnanti su dieci (87 per cento) ritengono che i genitori siano (troppo) indulgenti con i propri figli, uno su due (53 per cento) che siano assenti, tre su cinque (58 per cento) che siano ansiosi e infine il 62 per cento che siano frustrati. Mentre, dal lato opposto della barricata, tre genitori su quattro (il 77 per cento) accusano i docenti di essere poco presenti, appena pochi di meno li bollano come frustrati (70 per cento), due su tre li trovano ansiosi E un papà e una mamma su quattro li giudicano troppo severi con i propri figli.

Il tempo andato

Non è sempre stato così. Per un insegnante su due i rapporti scuola-famiglia sono peggiorati nel tempo. Mentre al contrario il 38 per cento dei genitori ritiene che si siano rafforzati. Una diversa percezione probabilmente dettata dal fatto che i docenti sentono di aver dovuto cedere su molti aspetti, mentre specularmente le famiglie percepiscono di aver conquistato spazi che prima si guardavano bene dal reclamare. Sono dati che fanno dire a Nando Pagnoncelli, che ha presentato i risultati, che «il patto educativo» è ormai un’espressione svuotata di significato.

Il clima positivo per i genitori

Che il patto educativo vada ripensato è ancor più evidente se si considera «l’asimmetria» dei giudizi espressi da genitori e docenti, per dirla ancora con Pagnoncelli. Un insegnante su tre non è per nulla soddisfatto, o lo è molto poco, del suo rapporto con i genitori della classe, mentre soltanto uno su quattro si dichiara pienamente appagato. I genitori, invece, descrivono come tutto sommato positivo «il clima con il corpo insegnanti» e considerano con una certa autoindulgenza il loro rapporto con la scuola, perché pensano che ad essere troppo invadenti e puntuti nei confronti della scuola siano sempre gli altri genitori, mai loro.

Fuori

Va da sé che alla domanda se debbano/vogliano partecipare di più alla vita scolastica, gli insegnanti oppongono un netto no ai genitori: il 35 per cento preferiscono che se ne stiano a casa loro. Per loro le famiglie dovrebbero fidarsi di più degli insegnanti (91 per cento), ascoltarli maggiormente nell’educazione dei figli (90 per cento). L’86 per cento dei genitori invece vorrebbero partecipare ancora di più.

Bocciati e promossi

La buona notizia è che, in generale mamme e papà sono abbastanza contenti della scuola nella quale hanno iscritto i propri figli, non ne vedono grandi difetti e sono disposti a difendere la loro scelta: l’86 per cento dei genitori promuove la propria scuola, il 40 per cento le assegna un voto tra il 6 e il 7, non moltissimo ma pur sempre sufficiente, mentre quasi uno su due è disposto a darle tra 8 e il 10. Ma quando è ora di parlare della scuola italiana in generale, il giudizio diventa molto più severo: il 31 per cento dei genitori ritiene che il sistema scolastico sia da bocciare. Un pregiudizio culturale che non trova riscontro nell’esperienza.

I giovani benaltristi. L’ideologia liquefatta e il deludente nichilismo degli studenti. Dante Monda su L'Inkiesta il 9 Marzo 2022.

Per le nuove generazioni è difficile aderire a una interpretazione generale del mondo, che orienti l’analisi e dunque l’azione. Dopo anni di crisi e di sfiducia è rimasta solo una pura indifferenza che mette in discussione il senso di manifestare per l’Ucraina.

Monza, Brianza, lunedì 7 marzo. Entro in classe per una lezione su Thomas Hobbes. Come spesso capita, il mio progetto naufraga. A spiazzarmi sono le domande dei ragazzi: dirette, senza vergogna. Vogliono sapere cosa sta succedendo in Ucraina. E perché stiamo per andare, in quarta ora, a una marcia per la pace nelle vie del centro. A che serve.

Le loro osservazioni, oltre a far saltare la lezione, smontano anche alcune mie aspettative. Infatti emerge chiaramente che i ragazzi non sono quelle creature ingenue, sognatrici e creative che ancora qualcuno crede. E soprattutto non corrispondono, questo è sicuro e posso giurarlo, a quell’immagine di rivoluzionario utopista valida (forse) in passato ed esemplificata dal monologo-autoritratto titolabile “quando avevo sedici anni” che Michele Serra ha recitato l’altro giorno a Che tempo che fa, con un effetto, a parere di chi scrive, quantomeno anacronistico.

Se i giovani degli anni Settanta, come ricorda Serra, credevano «che “fate l’amore e non la guerra non fosse solo uno slogan”, ma un programma politico», sicuramente oggi le cose non stanno così. E che sia un bene o un male onestamente non lo so. D’altronde qui non si vuole dare giudizi morali ma solo testimoniare, quasi a mo’ di reportage da questo fronte che mi capita di frequentare, che le cose sembrano un po’ più complesse di come alcuni (ormai pochi, ma che vanno su Rai 3) credono.

Da un lato, le parole che oggi provengono da dietro i banchi di scuola suonano del tutto estranee a una qualsiasi consapevole e complessiva visione della realtà sociale, antropologica o storica. Ho notato ad esempio un dettaglio che mi sembra rivelatore: un errore diffusissimo nelle interrogazioni è l’utilizzo improprio del termine ideologia al posto di filosofia, o teoria, o visione del mondo o anche religione.

Si sa, quando la parola diventa buona per tutto allora non significa più niente, e così sembra che il significato del concetto stesso di ideologia, così fondamentale nel secolo scorso, si sia liquefatto.

Sembra banale prenderne atto ancora, dopo tre decenni o più di pensiero post-ideologico, ma l’esperienza sul campo lo conferma: si fa fatica a rinvenire, non dico un sistema dogmatico, ma anche una qualsiasi esplicita interpretazione generale del mondo, che orienti l’analisi e dunque l’azione. Fra le notizie di attualità che colpiscono di più i giovani non c’è spazio per nessuna generalizzazione di valore normativo: l’espressione che tronca ogni universalizzazione è «dipende».

In un certo senso quasi nessun mio studente connette chiaramente l’analisi e la sintesi: è molto difficile sentire nello stesso discorso una frase del tipo «se le cose stanno così… allora bisogna fare in questo modo». Sembra mancare il salto dal dato alla tesi, dalla notizia all’interpretazione e dunque alla prescrizione. Ciò non vuol dire che vi sia una carenza intellettuale, ma solo un impianto cognitivo diverso da quelli tradizionali: più incompiuto, ma per questo anche più aperto al nuovo.

Questo è quanto sembra accadere nelle loro costruzioni argomentative, almeno a livello consapevole.

Infatti c’è un altro lato della medaglia. A ben guardare, che si parli di storia, filosofia o attualità, dietro ogni affermazione di dati di fatto e relative opinioni particolari, pur sconnessi da una qualsiasi sintesi consapevole, sembra intravedersi di tanto in tanto un presupposto non detto, una sorta di messaggio nascosto che, lo ammetto, a volte mi spaventa e spero sia un’allucinazione. Suona più o meno così: «È tutto inutile».

Ieri un’alunna, ad esempio, sosteneva che «la marcia per la pace non serve a niente, perché agli ucraini che noi manifestiamo non cambia molto, hanno bisogno di altro». Al di là dell’aspetto semplicemente emotivo, colpisce l’impianto paradossalmente ideologico di quelle parole. Sono parole che volano, irriflesse, buttate là senza dietro un pensiero. E tuttavia quel vuoto non è neutrale: in natura il vuoto è sempre colmato.

Nello specifico, a insinuarsi fra quei giudizi sommari mi sembra esserci un misto di sentimenti e moventi inconsapevoli, fra cui una certa dose di pura indifferenza mascherata dall’ormai classico schema retorico del benaltrismo. Tutto, ma proprio tutto, è inutile perché tutto è indifferenziato in quanto meno importante di altro. Marcia per la pace? Invece dovremmo aiutarli economicamente. Parliamo di Ucraina? È solo una news che fa tendenza: perché parliamo solo di questo? In fondo ne parliamo solo per egoismo da europei: perché non parliamo del Pakistan?

Ripeto, non voglio dare giudizi affrettati. In fondo il moralismo è l’altra faccia del disincanto: tutto è inutile perché tutto è corrotto. Voglio solo porre la questione nei termini più completi possibili a partire dal mio punto di osservazione: l’impianto privo di ideologia dei ragazzi che concluderanno questo secolo è una prospettiva non solo irreversibile, ma per molti versi promettente, che ci proietta verso la costruzione del nuovo libera da molti vecchi fardelli; proprio per questo però occorre educare alla scelta come metodo scientifico e pratico che rompa la retorica sterile di un’indifferenza omologante e fondamentalmente immatura.

C’era una volta la realtà. I sedicenni del 2022 non sono i più sfortunati di sempre, sono solo ignoranti (come tutti gli adolescenti). Guia Soncini su L'Inkiesta il 10 marzo 2022.

Gli adulti di questa epoca hanno fatto i figli tardi e li trattano come vacche sacre. E alcuni di loro, come il direttore di Oggi, si compiacciono del vittimismo, pure per interposta generazione, perché è il modo più veloce per ottenere moltissimi cuoricini e retweet dolenti

Un giorno della terza elementare ci vennero a prendere a scuola prima che finissimo il tempo pieno: avevano sparato al Papa, chissà cosa stava succedendo, magari la mossa successiva era far saltare in aria una scuola elementare di Bologna.

Il mese successivo, i bambini della mia età guardarono in diretta i tentativi di recuperare un loro coetaneo che stava morendo in tv, dopo essere cascato in un pozzo.

Quando ero al liceo l’Aids era una roba con cui si moriva, e si prendeva facendo l’unica cosa che t’interessi fare a sedici anni: scopare (oppure facendoti di eroina, che a quei tempi era diffusa quanto la Red Bull oggi).

Questa lista di dolenze non serve a dire che siamo stati la generazione più sfortunata di tutti i tempi, ma a dire che siamo stati gli ultimi ad avere dei genitori adulti. I genitori di oggi, per gli ottenni che vedessero un bambino agonizzare in un pozzo, come minimo chiederebbero il bonus psicologo.

I genitori di oggi, i genitori della mia generazione, dico spesso che li ha rovinati la Pixar. Se convinci gli adulti che debbano avere gli stessi consumi culturali dei loro figli, poi ti ritrovi con genitori adolescenti anche allorché quarantenni, cinquantenni, sessantenni. Gente che, all’età che una volta avevano i nostri genitori o i nostri nonni, invece del loden ha la felpa col cappuccio, e invece di Thomas Bernhard legge Zerocalcare.

Li ha rovinati la Pixar ma soprattutto li hanno rovinati i cuoricini. È l’unica spiegazione che trovo al fatto che una persona intelligente come Carlo Verdelli ieri abbia fatto un tweet così concepito: «Una ragazza di 16 anni a suo padre: “Prima il Covid, adesso la guerra da vicino. Quello che stiamo provando noi negli ultimi due anni, voi ve lo siete risparmiato per tutta la vita”. Dice il vero. Noi adulti da giovani avevamo sogni, loro incubi».

I sedicenni hanno tutto il diritto di non sapere niente, e da ben prima di questo secolo stupido.

Avevo dodici anni quando Roberto Roversi scrisse Chiedi chi erano i Beatles, una canzone la cui protagonista, la ragazzina bellina col suo sguardo garbato gli occhiali e con la vocina, non sa niente di niente. «I Beatles non li conosco, neanche il mondo conosco. Sì, sì: conosco Hiroshima, ma del resto ne so molto poco, ne so proprio poco».

Gli adulti, però, invece di blandire la loro inettitudine, incoraggiare il loro vittimismo, e rifiutarsi di comportarsi da adulti, potrebbero per esempio raccontar loro che no, non sei il sedicenne più sfortunato di tutti i tempi. Tua madre, avesse avuto la pandemia, non avrebbe avuto tutto il mondo nel telefono, avrebbe parlato con gli amici lontani sì e no una volta a settimana perché le interurbane costavano. Tua nonna non aveva la lavastoviglie, e se viveva fuori città neppure l’acqua corrente. La tua bisnonna s’è fatta due guerre mondiali.

«Mi ha detto mio padre: l’Europa bruciava nel fuoco. Dobbiamo ancora imparare: noi siamo nati ieri»: com’è che nel 1984 il sessantunenne Roberto Roversi sapeva rappresentare una differenza tra adulti col dovere della memoria storica e adolescenti per cui il mondo è cominciato il giorno in cui hanno cominciato il liceo, e nel 2022 il sessantaquattrenne Verdelli non ha voglia di farlo?

È perché gli adulti di oggi fanno i figli tardi e quindi poi, invece di considerarli ontologicamente scemi, li trattano come vacche sacre? È perché a compiacersi del vittimismo, pure per interposta generazione, si prendono moltissimi cuoricini, e retweet dolenti, e approvazione da una generazione (la mia) che ha sostituito il combinare qualcosa col riprodursi? È perché vincere il Nobel è faticoso, e dire «i bambini non si toccano» è facile e popolare, e quindi a un certo punto ci siamo detti ma chi me lo fa fare di sbattermi, e ci siamo buttati sui cuoricini?

Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, mia madre viveva a Milano. Nel decennio successivo, raccontava così l’aver abitato in mezzo agli anni di piombo: «Non potevi andare dal parrucchiere senza aver paura che ti sparassero». Un’adulta di oggi direbbe che andava in biblioteca, o a fare volontariato, o altra dolenza che la facesse sembrare la vittima con le giuste caratteristiche che amiamo cuoricinare. Col parrucchiere fai l’impopolare fine di quelle che si dolgono per l’Ucraina dalle Maldive.

Al cui proposito, e della guerra vicina che mai prima dei sedicenni d’oggi nessuna generazione aveva dovuto subire: quand’ero piccola esisteva la Jugoslavia, sono certa che Verdelli se ne ricordi, e sappia com’è finita e tutte le cose che non sa chi i Beatles non li conosce. Magari può raccontarlo, che l’Europa bruciava nel fuoco, a una sedicenne che debba ancora imparare: lei è nata ieri, ma lui no.

Torino, annuncia la sua morte su Instagram e poi si lancia sotto il treno su cui viaggia la madre. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 3 febbraio 2022.

Giulio Massimo aveva 19 anni. Si è tolto la vita alla stazione di Carmagnola dopo aver pubblicato un post sul socialz 

Giulio Massimo aveva 19 anni

«D’ora in poi non uscirò più di casa perché non so farmi rispettare». Raccontava tutto di sé su Instagram Giulio Massimo, 19 anni. Arrabbiato con la vita, insultava tutto e tutti sui social. Ce l’aveva con chi non lo capiva. Con chi criticava il suo modo di vivere. Lo ha fatto fino all’ultimo, descrivendo anche la sua morte. Si è lanciato sotto il treno su cui viaggiava la madre, che da Torino tornava a casa su un convoglio di pendolari.

Nato a Parigi, viveva con la mamma a Cuneo e ha scelto la stazione di Carmagnola per togliersi la vita. Lo hanno visto avvicinarsi ai binari con una camminata lenta ma decisa, con il telefonino in mano. Poco prima aveva registrato un messaggio, una «storia», contro i controllori, inquadrando l’insegna blu e il convoglio fermo. A loro urlava la sua rabbia per averlo fatto scendere dal treno perché senza biglietto. «I soldi non ve li do anche se mi fate scendere». Poi ha raggiunto la parte esterna della stazione e lì ha atteso il treno partito da Torino alle 16,45 e che doveva arrivare alla fine del suo viaggio a Savona. Alle 18 ha deciso di farla finita.

La ricostruzione l’avrebbe fatta il macchinista agli agenti della Polfer. «Speriamo che non sia mia figlio» ha detto la madre. Poi una volta sui binari lei stessa ha riconosciuto il corpo del figlio raccontando dei suoi problemi psichiatrici. Ha poi riferito che era al telefono con lei quando ha deciso di lanciarsi sotto il treno. Con il telefono ancora acceso.

I suoi documenti sono stati trovati dopo lunghe ricerche, mentre quasi subito è stato trovato il cellulare. Non è escluso che poco prima del gesto abbia inviato qualche messaggio per preannunciare le sue intenzioni. La circolazione è rimasta bloccata per almeno un’ora. Una volta ripresa, tredici treni hanno subito ritardi di oltre un’ora, mentre altri sono stati parzialmente cancellati.

Simona Lorenzetti per corriere.it il 4 febbraio 2022.

«Sono sconvolta, ti conoscevo da quando eri piccolo. Andavamo insieme a cavallo, eravamo migliori amici. Non ci posso credere, vorrei tornare indietro. Vorrei che andasse diversamente». 

È sui social, su Instagram, che va in scena la liturgia del dolore che accompagna la morte di Massimo Giulio, il diciannovenne di Cuneo che mercoledì pomeriggio si è suicidato alla stazione di Carmagnola lanciandosi sotto un treno. 

Non un treno qualunque: quello sui cui viaggiava la mamma Ilaria che stava rientrando a casa dal lavoro, da Torino. E non è un caso neanche che il cordoglio, il rammarico e il senso d’impotenza che provano coloro che lo hanno conosciuto trovino sfogo sui social.

Massimo ha scelto di uccidersi e pochi istanti prima di buttarsi sotto il treno ha registrato un messaggio, una «storia», contro i controllori, inquadrando l’insegna blu e il convoglio fermo. 

A loro urlava la sua rabbia, lo avevano sorpreso senza biglietto e avevano interrotto il suo viaggio. «I soldi non ve li do anche se mi fate scendere». Poi qualcosa è scattato nella sua testa e tutta quella insofferenza l’ha canalizzata contro se stesso. 

Nella villetta bianca e rosa in cui viveva con la madre e il fratello regna il silenzio. «Non voglio che parliate di lui. Non c’è niente da dire», grida la mamma chiudendosi la porta alle spalle. Mentre il figlio maggiore si allontana insieme con un amico: «Non disturbateci».

A parlare è invece il profilo Instagram di Massimo, che restituisce l’immagine di un ragazzo che amava la musica metal. I capelli colorati, l’abbigliamento, le borchie e le espressioni del viso ricordano i ritmi ossessive e i suoni distorti della musica hard rock. 

E forse anche lui aveva una visione distorta della vita. «Non ho niente da fare in quarantena. È per questo che faccio storie», «D’ora in poi non uscirò più di casa perché non so farmi rispettare» scriveva sulle tante immagini che postava nella sezione «storie» del proprio profilo. 

La home page, invece, appare scarna: solo una decina di fotografie postate cinque giorni fa «durante la quarantena». La sigaretta in mano, le unghie dipinte di rosso, il cappellino da baseball indossato al contrario.

«Grevissimo», si legge in un commento al quale lui risponde con dei cuori rossi. Frasi che oggi lasciano il posto al dolore: «Ci mancherai». «Aveva un cuore d’oro — racconta un’amica —. La musica metal era tutto per lui. Ne parlava con passione e foga». 

Ricordi che riaffiorano dal passato. «Non ci frequentavamo da un paio d’anni. Non avevamo litigato, solo preso strade diverse — spiega —. Non era fortunato con le ragazze: un sacco di volte ho dovuto consolarlo».

Non tutti capivano la sua eccentricità e passione metal. «Aveva dei grattacapi con alcuni ragazzi che lo prendevano in giro. Gentaglia che non sa rispettare le scelte altrui, ma lui non si faceva abbattere da queste cose». 

Coloro che oggi piangono per lui ammettono «che si erano persi di vista». Nel quartiere lo vedevano sempre allontanarsi a piedi da solo. «Era un bravo ragazzo, educato — racconta la barista sotto casa —. Mi spiace tanto».

Bullo a 8 anni: resta da solo in classe. Redazione il 29 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Le famiglie esasperate da botte e offese non mandano i figli a scuola.

Da solo a otto anni tra i banchi. È la lezione che i genitori degli alunni di una classe elementare della scuola primaria Collodi, a Jesi (Ancona) hanno voluto dare a un bambino, il bullo della classe.

Un segnale forte, quello delle famiglie di non mandare a scuola i figli in segno di protesta contro il comportamento, che il ragazzino avrebbe da due anni. Parlano di «botte, pugni sul naso, amuchina negli occhi, banchi lanciati». «Abbiamo deciso di tenere i nostri figli a casa perché non ci sentiamo più al sicuro - dicono mamme e papà -. Sono due anni che i nostri piccoli subiscono botte, interruzioni di lezioni, parolacce e insulti da parte di un bambino di 8 anni. Abbiamo fatto una relazione al vice questore, sono state attivate anche figure professionali e assistenti sociali, ma nulla. Le maestre le hanno provate tutte. Chiediamo a gran voce che vengano adottate misure efficaci a tutela dei nostri figli». Da tempo la preside conosce la situazione, ma non approva la scelta estrema delle famiglie.

«Sono perfettamente a conoscenza della situazione e sono intervenuta ripetutamente negli ultimi due anni - commenta Lidia Prosperi, dirigente scolastica dell'Istituto comprensivo San Francesco -. La scuola sta facendo quello che può con i mezzi a disposizione. Non ignoriamo il problema, ma nessuno ha purtroppo la bacchetta magica». Ci sono state riunioni, incontri con lo psicologo scolastico, tra genitori e la preside spesso ha parlato con il bambino. La situazione è migliorata ma il clima in classe è sempre difficile. «L'esasperazione dei genitori è sfociata in un modo assolutamente inadeguato e inopportuno - ha ribadito Lidia Prosperi -. Persone che hanno ragione sono passate dalla parte del torto. Il problema c'è, e non lo nego, ma la risposta scelta ha superato i limiti».

Faida tra ragazzine, il giudice le ferma togliendole ai genitori. Alessandra Ziniti su La Repubblica il 9 febbraio 2022.  

Sassari, rissa col tirapugni davanti alla scuola e promesse di vendetta. Le due minorenni private dei telefonini e mandate in comunità. «Pestala Claudia, pestala!». «Sangueee...». Sembra un combattimento di galli, ma in mezzo a quel cerchio di ragazzi che filmano col telefonino e condividono in diretta social, ci sono due adolescenti che fuori da scuola, l’istituto alberghiero di Sassari, se le danno di santa ragione. La più grande delle due, 16 anni, in classe è arrivata portandosi dietro da casa nello zaino un tirapugni.

Da tgcom24.mediaset.it il 9 febbraio 2022.

Il 24 gennaio, fuori dall'istituto alberghiero di Sassari, era scoppiata una violenta rissa tra due adolescenti di 15 e 16 anni, ripresa con i cellulari di conoscenti e compagni di scuola e diventata virale sui social. 

Per l'episodio e per altri simili (risalenti alle ore immediatamente precedenti a quello) sono indagate oltre alle due ragazze (una delle quali armata con un tirapugni), anche altre due maggiorenni. Circa dieci giorni dopo, la squadra mobile della Questura di Sassari, su disposizione del Giudice del Tribunale per i minorenni di Sassari, ha eseguito la misura cautelare del collocamento in comunità nei confronti delle due minorenni.

Come riporta La Repubblica, le ragazze - che ora si trovano a 100 chilometri di distanza l'una dall'altra - sono state portate via da casa, non possono usare i telefoni, non vanno a scuola e possono incontrare la famiglia una sola volta a settimana. 

La rissa - Le indagini avevano permesso di accertare che in quegli scontri a più riprese erano stati usati un manganello metallico, una pietra, un martello e un tirapugni. Le quattro ragazze sono state denunciate per rissa, mentre le due minorenni anche per porto abusivo di armi. Secondo quanto ricostruisce La Repubblica, sembra che le maggiorenni abbiano spalleggiato le altre due e che anche loro si siano poi affrontate. Pare che tutto sia nato per motivi di gelosia. 

Entrambe le minorenni erano affidate ai servizi sociali. "I genitori la stanno vivendo male, ritengono il provvedimento sproporzionato e sono in ansia sapendo la figlia in un ambiente sconosciuto in un momento difficile. 

Ma io sono fiducioso nel provvedimento del giudice, questa storia non si chiuderà in tempi brevi", ha detto al quotidiano il legale di una delle due minorenni, mentre l'altro ha annunciato: "Ho già presentato ricorso. Il provvedimento del giudice è stato comunque una scossa per ragazze che le famiglie non sono state in grado di aiutare".

Flaminia Savelli, Marco De Risi per "il Messaggero" il 22 febbraio 2022.

Un ragazzo conteso e la lite sfocia in rabbia e sangue. Il dramma della gelosia tra due ragazzine si è consumato ieri pomeriggio a Roma nell'oratorio della parrocchia. La situazione è degenerata tanto in fretta che nessuno dei testimoni è riuscito a dividerle e a impedire il peggio. Con un epilogo drammatico: la vittima trasportata in codice rosso al pronto soccorso e l'altra, fermata e denunciata dalla polizia. 

Sullo sfondo la parrocchia Santa Maria Madre del Redentore di Tor Bella Monaca, periferia est della Capitale dove appena il giorno prima si era svolta una marcia pacifica contro la criminalità che imperversa nel quartiere, una delle principali piazze dello spaccio della città.

La miccia ieri pomeriggio intorno alle 17 si è accesa però tra due ragazzine, di 15 e 17 anni. La lite è iniziata con una discussione sfociata nel sangue in pochi minuti. Prima le parolacce, le offese. Poi la 15enne ha tirato fuori dalla tasca un coltello ferendo per tre volte la rivale in amore: un colpo alla mano, alla clavicola e alla schiena. La diciassettenne è crollata a terra mentre l'altra è stata bloccata da alcuni presenti che intanto hanno chiamato i soccorsi. 

LA RICOSTRUZIONE «Lui è mio, solo mio» avrebbe gridato mentre con il coltello infieriva sull'altra ragazza. Il piazzale dell'oratorio di via Duilio Cambellotti si è riempito di poliziotti e soccorritori in una manciata di minuti. «Che le hai fatto? Perché?» ha ripetuto fino allo sfinimento la mamma della ragazza aggredita avvertita da alcuni residenti del quartiere e accorsa nell'oratorio della chiesa.

I sanitari del 118 dopo aver soccorso sul posto la ferita, l'hanno trasportata in codice rosso al policlinico Tor Vergata. I poliziotti del distretto Casilino invece, hanno avviato le indagini per ricostruire la dinamica dell'aggressione e il movente del gesto. Hanno ascoltato i presenti al momento della discussione, gli amici delle due ragazze e i parrocchiani. Molti sono i punti ancora da chiarire. Ma i contorni sono stati ben definiti. «Abbiamo provato a dividerle ma non ci siamo riusciti. Quando abbiamo visto il coltello, era già troppo tardi» hanno riferito i testimoni ai poliziotti. 

LE INDAGINI «L'aggredita si è difesa, ecco perché il primo taglio l'ha colpita alla mano. Quindi ha cercato di allontanarsi ma è stata colpita una seconda volta alla clavicola e infine ha provato a scappare tentando la fuga, ma la 15enne non le ha lasciato scampo e le ha dato un ultimo colpo alla schiena» spiegano gli investigatori. Fino a tarda sera gli uomini della scientifica hanno proceduto con i rilievi sul luogo dell'aggressione. Hanno seguito la lunga scia di sangue lasciata dalla 17enne: hanno trovato tracce dell'aggressione sul cancello della parrocchia e poi lungo i 200 metri verso l'interno, nel piazzale dell'oratorio.

Quindi i poliziotti hanno avviato gli interrogatori. In serata è arrivato il primo bollettino medico: nessuna delle tre coltellate ha raggiunto gli organi vitali. La vittima resta ricoverata per essere monitorata ma non è in pericolo di vita e non ha mai perso conoscenza. 

Quindi la denuncia a piede libero a carico della 15enne che ora dovrà rispondere per lesioni aggravate, minaccia aggravata, e porto di oggetti atti a offendere. Delle indagini sono incaricati gli agenti del distretto Casilino coordinati dalla dirigente Isea Ambroselli. 

L'ARMA Impegnati da ieri nella ricostruzione dell'aggressione, ai poliziotti resta un punto cardine ancora da chiarire. La 15enne infatti si è presentata armata di un coltello che i poliziotti hanno trovato durante il sopralluogo nella parrocchia. Dai primi accertamenti, si tratterebbe di un coltello da cucina. Il sospetto è che tra le due adolescenti, tutte e due residenti a Tor Bella Monaca, la rabbia sia montata nel corso dei giorni precedenti.

Che ci siano stati pregressi e vecchie ruggini e che ieri la situazione sia infine degenerata. Una prima risposta al pesante interrogativo potrebbe trovarsi nelle chat e nei cellulari delle rivali in amore già sequestrati e che verranno analizzati nei prossimi giorni. Ma la spinta alla chiusura del caso potrebbe arrivare anche dal ragazzo al centro della contesa. 

Nelle prossime ore verrà ascoltato e il racconto potrà aiutare gli investigatori ad accertare la dinamica dei fatti e a ricostruire il quadro in cui si è consumata l'aggressione. «Le testimonianze ci hanno indirizzati sulla pista della gelosia, ma il movente e l'intero quadro devono essere ancora chiariti» precisano gli investigatori. Una questione comunque delicata per l'età giovanissima delle ragazzine.

Raffaella Troili per "il Messaggero" il 22 febbraio 2022. 

La Tenda che svetta verso il cielo, quella che è la chiesa simbolo di Tor Bella Monaca, assediata dalle luci blu delle volanti della polizia. Nel pomeriggio quando già fa meno buio, sono solo le 17 e i genitori sono tranquilli, una giovane viene accoltellata per motivi di gelosia, nel piazzale davanti alla chiesa di Santa Maria Madre del Redentore, in via Duilio Cambellotti. 

Proprio dove si riuniscono i ragazzi, dove c'è l'entrata dell'oratorio. La paura prende forma nelle grida dei presenti, dei parrocchiani, dei passanti. Una mamma: «Uscivo dall'Eurospin che sta davanti è ho visto tanta polizia davanti alla chiesa. Ho pensato a mia figlia, mi sono spaventata».

Un luogo che cerca di raccogliere, come tante altre realtà, i ragazzi dal territorio, al centro di un fatto di sangue. «La 17enne frequentava l'oratorio, la giovane che l'ha aggredita pare di no», le voci si rincorrono nel quartiere. Gelosia, dietro l'accoltellamento. Pochi giorni prima un altro episodio di bullismo tra ragazzini di 12/13 anni era stato sedato in tempo, rientrato perché un passante è intervenuto, sempre lì. 

«STIAMO IMPAZZENDO» Bocche cucite in parrocchia, dove il parroco è assente per motivi familiari, il vice parroco dice d'esser tornato da un ritiro. Il quartiere invece si interroga, impaurito. Due ragazze e un fatto di sangue, laddove di cronaca nera ce n'è già abbastanza. 

«Ci stiamo impazzendo tutti», posta qualcuno sul gruppo di quartiere, «io ero presente, ho visto la mamma farsi largo tra la polizia e gridare disperata che hai fatto?». Volontari, catechisti, evitano di parlare. «In questi due anni di pandemia è saltato tutto a livello sociale, i minori non hanno regole, hanno perso quasi tre anni oramai di scuola e di testa, nel nostro quartiere chi la faceva la didattica a distanza... - riflette amareggiato Mario Cecchetti storico presidente del Centro sociale Tor Bella Monaca.

«Li vedo, anche a scuola, sono disorientati. Anche in classe sono saltate le regole, è saltato tutto. Figurarsi, in un quartiere particolare, dove già a monte manca la famiglia. E più va avanti e più va peggio. I ragazzi sono abbandonati a se stessi». E ieri un normale pomeriggio su via Duilio Cambellotti si è trasformato in tragedia. «La strada era chiusa, non facevano passare nessuno - raccontano i presenti - abbiamo pensato a uno scippo, una rapina finita male. Mai avremmo pensato che una ragazzina avesse accoltellato un'altra, qui ne succedono tante, ma non è facile immaginare una lite all'oratorio, tra ragazze».

IL TAM TAM Il tam tam si è subito diffuso, «Tor Bella Monaca fondamentalmente è un paese», dicono i vecchi residenti, sono scattate le telefonate ai figli, alle scuole, qualcuno ha provato ad avvicinarsi alla chiesa. Ma la strada è rimasta bloccata. Almeno fino alle 18 quando Mirko è passato in scooter. «La chiesa era tutta chiusa. Ed era tutto spento, c'era uno strano silenzio, mi ha colpito. Anche se non sapevo niente». E sicuramente non ha pensato che all'ombra della Tenda della chiesa nel cuore di Tor Bella Monaca, una ragazza si era da poco trascinata in cortile inseguita da una coetanea, un po' più piccola, conosciuta nel quartiere.

Estratto dell’articolo di Alessandra Ziniti per "la Repubblica" il 9 febbraio 2022.

«Pestala Claudia, pestala!». «Sangueee... ». Sembra un combattimento di galli, ma in mezzo a quel cerchio di ragazzi che filmano col telefonino e condividono in diretta social, ci sono due adolescenti che fuori da scuola, l'istituto alberghiero di Sassari, se le danno di santa ragione. 

La più grande delle due, 16 anni, in classe è arrivata portandosi dietro da casa nello zaino un tirapugni. Ed è con quello che picchia con furia Martina che di anni ne ha appena 15. Il suo viso, sotto i capelli biondi, è una maschera di sangue. Ma neanche questo spinge i compagni a intervenire per dividere le due ragazzine che si pestano con una violenza inaudita, incitate dalle fazioni di amici.

Fino a quando Martina non resta lì per terra e Claudia se ne va via con il suo tirapugni. È la rivincita del primo round, avvenuto il sabato sera precedente quando a prevalere era stata l'esile Martina. Ma che non sarebbe finita lì tra le due adolescenti, spalleggiate da due amiche di poco più grandi (che si sono poi affrontate anche loro con manganelli, martelli e pietre), appare subito chiaro agli investigatori della Squadra mobile dopo un'occhiata ai social su cui i video della rissa sono già diventati virali.

Martina, il viso spaccato, annuncia vendetta: «Ti vengo a prendere e stavolta ti ammazzo». «La prossima volta ti stendo», la replica di Claudia. È il 24 gennaio. Quindici giorni dopo, le due bullette piangono davanti agli agenti della Squadra mobile che le portano via da casa.  (…) 

Giacomo Nicola per "il Messaggero" il 10 febbraio 2022.

Insulti quotidiani. Vessazioni continue. Alla fine lui, la vittima di bullismo, non ce l'ha più fatta e ha reagito accoltellando il compagno di classe. Lo studente, 15 anni, è stato denunciato dalla squadra mobile di Rimini per aver ferito un suo coetaneo con alcuni fendenti. Erano mesi che veniva bullizzato dall'altro ragazzo in un crescendo di insulti e scherzi quotidiani. L'episodio si è verificato in un laboratorio dell'istituto professionale Leon Battista Alberti, nel centro studi La Colonnella, durante una normale lezione pratica.

All'ennesimo insulto il ragazzo ha tirato fuori un coltello che si era portato da casa e ha colpito il compagno più volte. Alla scena ha assistito l'intera classe che neppure immaginava una reazione del genere, visto il carattere normalmente bonario dell'accoltellatore che, secondo le testimonianze, non aveva mai reagito. La vittima, descritta come un adolescente «piuttosto esuberante», è stata immediatamente soccorsa e trasportata all'ospedale Bufalini di Cesena con diversi tagli all'altezza della milza. Le ferite sono considerate serie, ma non gravi. I medici in ogni caso hanno deciso di tenerlo sotto osservazione per le prossime ore, stabilendo una prognosi di 40 giorni.

LA DISPERAZIONE L'aggressore è stato sentito immediatamente subito dopo dalla polizia alla presenza di alcuni professori e dei genitori. «Ero esasperato, sono ormai mesi che questa situazione va avanti», ha raccontato il ragazzo ancora sconvolto. E così sono venuti alla luce mesi di vessazioni, insulti e sfottò a opera del compagno di scuola. Ha riferito di essere stato bullizzato con parole pesanti che arrivavano a somigliare a minacce di aggressioni fisiche.

Un comportamento da bullo che il 15enne aveva già denunciato agli adulti. Anche la madre ha detto di essere a conoscenza della situazione. Lui alla fine non ne poteva più e ha pensato di vendicarsi. L'idea di mettere la parola fine allo stillicidio di episodi, per sua stessa ammissione, sarebbe maturata nei giorni scorsi. Ed è per questa ragione che si è presentato a lezione portandosi dietro un coltello a serramanico. La sua furia è scattata non appena l'altro ha iniziato a insultato. Uno scatto, poi la colluttazione e alla fine l'accoltellamento. Gli altri ragazzi sono stati fatti uscire e nel laboratorio è rimasto solo l'aggressore.

IN LACRIME Gli agenti al loro arrivo lo hanno trovato in lacrime. Durante l'interrogatorio si è in parte pentito di quanto successo. La preside dell'istituto è stata già ascoltata dalla polizia e quando starà meglio sarà sentito anche il 15enne ferito. Entrambi i giovani sono originari di Rimini. La polizia, dopo averlo sentito, lo ha denunciato a piede libero per «lesioni gravi» e lo ha affidato ai genitori. Il caso per competenza è stato poi trasmesso alla Procura dei minori di Bologna.

Qualora invece emergessero elementi a carico del ferito, anche in mancanza di querela di parte, si potrà procedere d'ufficio. Lo stesso Istituto tecnico Leon Battista Alberti di Rimini, solo poco tempo fa, era stato al centro di un altro caso di cronaca. Al cambio dell'ora nella mattinata di mercoledì 1 dicembre, uno studente minorenne aveva puntato una pistola finta contro una professoressa al cambio dell'ora. L'arma era effettivamente una replica: il tappo rosso di ordinanza era apposto sul giocattolo comunque una ricostruzione fedele e la pistola era di fatto innocua, ma l'insegnante per poco non era svenuta.

A confermarlo erano stati anche i colleghi che l'avevano incontrata nei corridoi. Lo studente in questione, poco dopo, era stato sospeso. La notizia, poco prima di Natale, fece il giro dei social. Oggi, la stessa scuola, è di nuovo al centro dell'attenzione per un altro caso di cronaca.

Da leggo.it il 10 febbraio 2022.

Flessioni sulle rotaie, sassate, sputi e lanci di bottiglie sul tram con dentro il conducente. È l'ultima bravata che un gruppo di 15 giovanissimi ha messo in scena a Milano.

È accaduto in via Rubens, come mostra un video postato dalla pagina Instagram «Welcome to favelas» in cui si vede un ragazzo che fa piegamenti sulle braccia in mezzo alle rotaie, impedendo all'autista di proseguire la marcia.

Intorno a lui ci sono altri ragazzi, alcuni filmano la scena col cellulare e altri lanciano sassi e oggetti contro il mezzo. Dopo pochi secondi il tranviere ritrova lo spazio per proseguire la corsa e si allontana. 

Il video condiviso sui social ha suscitato molte polemiche perché riaccende il tema delle baby gang fuori controllo.

«Mi chiedo quando si deciderà l'amministrazione comunale a intervenire con decisione adottando dei provvedimenti seri e concreti per riportare la legalità nelle nostre strade», ha commentato l'assessore alla sicurezza di Regione Lombardia, Riccardo De Corato.

Era terrorizzato dai baby bulli "Meglio morire", lascia la scuola. Un undicenne vessato da mesi abbandona gli studi. La disperazione dei genitori: "Nessuno lo protegge". Redazione il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

Treviso Botte e insulti per mesi e mesi, poi l'ultima crudele sfida: «ora gettati nel Piave». Ha vinto invece la voglia di vivere di un undicenne contro il bullismo messo in atto contro di lui da tre compagni di scuola fra i 12 e i 14 anni. Il ragazzino ha raccontato le angherie subite un anno fa sia in aula che nello scuolabus ai suoi genitori e loro, venerdì, hanno presentato denuncia contro i tre adolescenti per atti di bullismo e istigazione al suicidio.

Uno stillicidio continuo fatto di pestaggi, soprusi, sempre con l'immancabile cellulare in mano per registrare ogni singola bravata e rendere tutto ancora più umiliante. «Meglio morire che andare a scuola» ha detto tra le lacrime il giovane ai familiari, che vivono nell'hinterland trevigiano, dopo l'ultimo episodio del terzetto, con l'invito a gettarsi nelle acque del fiume. È il padre della vittima a ricostruire gli eventi. «Era da tempo che mio figlio si era distaccato da queste amicizie - conferma - Aveva visto che i compagni si lasciavano andare spesso a comportamenti che riteneva sbagliati, come ad esempio suonare i campanelli e poi fuggire. Non era una compagnia adatta».

Ma i bulli hanno fatto scattare la ritorsione, compresi gli insulti per essere il figlio di una coppia di cui uno dei due è immigrato. La mamma, esasperata, ha dovuto ritirare il figlio da scuola. Ora la famiglia punta il dito sulla dirigenza scolastica, il cui comportamento viene ritenuto deludente nei confronti dei colpevoli. «Ai miei tempi avrebbero convocato i ragazzi (che frequentano la seconda e la terza media nello stesso istituto della vittima) e gli avrebbero parlato, anzi gli avrebbero fatto una vera e propria ramanzina con i genitori presenti. E invece - accusa l'uomo - tutto quello che ci hanno saputo dire è il percorso che intendono seguire. Una strada che ritengo impregnata di burocrazia». Nessuna possibilità neppure di rientrare in aula per continuare a seguire le lezioni, proteggendo l'undicenne. «Ci è stato risposto - spiega il genitore - che non era possibile dato che non avrebbero potuto garantire la presenza di una persona a presidio della sua incolumità». Copione di bullismo adolescenziale non troppo diverso ad Andria, dove due minorenni di 15 e 14 anni sono stati denunciati con le accuse di tentata rapina aggravata in concorso e lesioni aggravate. Anche in questo caso si tratterebbe di episodi di sopraffazione che si sono verificati nella stessa città ai danni di un tredicenne, colpito da uno schiaffo in volto e da alcune spinte, dimesso poi dall'ospedale con sette giorni di prognosi.

In questo caso è stato il rifiuto a consegnare 2 euro ad un distributore automatico di cibo a scatenare la rabbia contro il tredicenne, che ha tentato inutilmente di fuggire. Una volante della Questura dopo aver notato l'anomalia del viavai dei ragazzi, anche con l'acquisizione delle immagini dei sistemi di video-sorveglianza, ha ricostruito l'accaduto, identificando i due presunti responsabili.

Minacciato dai bulli, la mamma: «Mio figlio un giorno mi disse: meglio morire che andare a scuola». Parla la madre che ha denunciato tre ragazzini che da oltre un anno perseguitano il figlio. «Finché non mi garantiscono la sua sicurezza non lo mando più in classe». Pierfrancesco Carcassi su Il Corriere della Sera il 26 novembre 2022.

Signora, lei ha denunciato i tre bulli che da mesi perseguitano suo figlio arrivando a minacciarlo di morte: immagino non sia facile per una mamma raccontare certe cose.

«Questo è il problema. La gente mette la testa sotto la sabbia di fronte al bullismo e fa male, ma io combatto fino alla fine».

Quando si è accorta che suo figlio veniva bullizzato?

«Parevano cavolate tra ragazzi. All’inizio dell’anno mio figlio chiedeva al papà di portarlo a scuola. Io gli rispondevo: “Hai l’abbonamento, vai tu, non far fare l’autista al papà”. Non ci ho pensato fino a quando mi ha risposto: “Meglio morire piuttosto che andare a scuola”. Da un mese e mezzo che mio figlio si mangia le unghie continuamente e non vuole più andare a scuola».

A quel punto la situazione era già seria.

«Mi diceva che gli faceva male il cuore, che ha questa brutta sensazione di non valere niente… A 11 anni? Non siamo a Londra o a Milano, siamo in un piccolo paese, un posto tranquillo».

Che cos’hanno fatto quei ragazzini a suo figlio?

«Mio figlio viene minacciato anche sul cancello della scuola. Sull’autobus che prendono per andare a scuola i bulli gli fanno le foto col telefono, dicono: «La metto su TikTok, meglio che tu vada a morire». E gli fanno il segno del taglio con il dito alla gola, per dire “sei spacciato”».

Nessuno ha fatto niente sul momento?

«L’autista del bus ha intimato al bullo che ha fatto quel gesto di smetterla e ha minacciato di farlo scendere. Ma poi ho sentito che raccontava in giro che non sapeva più cosa fare con quei ragazzi... In paese li hanno visti appiccare fuochi, alcune mamme li collegano a furti, qualcuno li ha visti girare di notte a mezzanotte e mezza. O sono coincidenze o è l’inizio di una baby gang».

Da quanto tempo c’è questa situazione?

«Circa quindici mesi. Da piccoli erano amici per la pelle con mio figlio. Venivano da noi a dormire. Fino a poco fa mio figlio usciva con questi ragazzini, sono del paese. Un giorno però volevano appiccare il fuoco in un parcheggio lì vicino. Mio figlio ha detto di no. Da quel momento è diventato “cagasotto”».

È stata un’escalation.

«Dopo una settimana lo invitavano a giocare a calcio per dispetto: al campo non si presentavano, poi gli dicevano: scemo che ci sei andato, non hai amici. Da “cagasotto” è diventato “poveraccio perché hai una bici usata”, “inglese di m...”. Fino a “meglio che ti ammazzi, ti buttiamo nel fiume Piave con la bicicletta, non vali niente”. Ora lo seguono mentre fa la spesa, e da settembre la situazione è peggiorata. Uno di loro gli ha detto: ah, adesso andiamo anche insieme a scuola, sei finito».

Ha ritirato suo figlio da scuola.

«Mio figlio non andrà più a scuola finché non mi possono garantire la sua sicurezza. Abbiamo incontrato la vice preside due giorni fa, non mi ha lasciato finire di parlare. Mi ha detto che la situazione fuori dalla scuola la interessa, non possono fare niente. Io ho spiegato che le cose succedono anche a ricreazione (il ragazzo e i bulli sono in classi diverse, ndr) quando vanno in bagno, quando stanno in corridoio».

Che cosa le hanno risposto?

«Che mio figlio dice bugie. Ma io sono nata in Gran Bretagna: noi puntiamo tanto sull’onestà e se uno racconta bugie la punizione è il doppio. Mio figlio lo sa. La preside durante un altro incontro mi ha chiesto di raccontare tutti i fatti ma alcuni non li ha considerati: per esempio quella volta che mio figlio è andato a chiedere aiuto a una professoressa che lo ha mandato via».

Che cosa vorrebbe dalla scuola?

«Io voglio solo che prendano i responsabili e tirino loro le orecchie, come si faceva una volta. “Cosa fate ragazzi? Non voglio casino”. A Londra si fa così nelle scuole».

Lo ha chiesto?

«Si sono rifiutati: “Che cosa vuole signora una guardia del corpo?”. Sono rimasta così scioccata… Ho messo in chiaro che mio figlio non andrà a scuola finché non avrà protezione. I ragazzi che lo perseguitano sono sempre in giro, in corridoio, in bagno, fanno quello che vogliono… E i docenti continuavano a ripetere che non possono fare niente. È una vergogna. Mi hanno detto solo: “Sono ragazzini...”».

Conosce i genitori dei bulli?

«Ho chiesto spiegazioni al papà di alcuni di loro, di origine marocchina. Mi ha risposto: sei razzista. Ma io sono inglese di origine indiana, mio papà è musulmano, mia mamma è cattolica, io sono protestante. Ho sangue misto. Quando ha sentito dell’origine di mio papà ha detto ai figli: non devi picchiare il nostro fratello. E a me: “Sono ragazzi, non posso fare niente”. La mamma di un altro bullo mi ha chiuso la porta in faccia. Allora sono andata dai carabinieri».

Ha fatto denuncia contro i ragazzi?

«Per le minacce di morte. E lunedì farò denuncia contro la scuola perché non possono proteggere mio figlio e anche per le parole di razzismo verso di me: i professori quando mi hanno ascoltata mi hanno detto di parlare italiano perché, da madrelingua inglese, non ho dato loro del “lei”».

E con i bulli ha provato a parlare?

«Certo, li conosco. La prima volta che gli ho chiesto perché si comportassero così con mio figlio mi hanno risposto che avevano litigato, e hanno chiesto scusa. Poi hanno cominciato a evitarmi. Sanno che sono arrabbiata. Uno di loro che ha preso a botte mio figlio si è scusato. Ora non lo picchia ma sta con il gruppo quando lo prendono di mira».

Sa se altri genitori hanno avuto problemi simili?

«Si, il figlio di alcuni vicini di casa usciva sempre con gli stessi bulli. Suo padre ha redarguito i ragazzini perché non voleva stesse con loro. Ma tutti mettono la testa sotto la sabbia. In chat le mamme lo dicono che è ora di farla finita. E allora parlate, dico io! Io non ho paura che si sappia chi sono. Vado avanti fino alla morte. In questo paese bisogna essere aggressivi, partire in quarta, sennò le cose non vengono risolte».

Si era mai trovata in una situazione del genere?

«Ho un’altra figlia, ora maggiorenne, che a scuola è stata presa di mira da un bullo. Le tirava i capelli, si sono picchiati ma è stato un solo episodio, poi risolto. Quella era una delle solite cavolate da bambini. Ma non ho mai vissuto nulla di simile ad ora».

È pesante per tutta la famiglia.

«Un incubo (sospira, ndr), non ne posso più di sentire i nomi di questi ragazzi. Ma faccio quello che devo fare, non mollo finché qualcuno non fa qualcosa. Mio figlio ha diritto ad andare a scuola. Mi hanno proposto di cambiarla ma io non ho intenzione di farlo. Non tornerà finché non mi possono assicurare che non gli succede nulla. Se non possono farlo loro, andrò io nei corridoi».

Lei sembra pronta a tutto.

«Sono in Italia da decenni e tra qualche mese prendo la cittadinanza, qui ho messo radici ma resta la mentalità inglese: quando si parla di figli non ci ferma nessuno. Sto male quando vedo mamme che non fanno niente per proteggere i figli, non sanno cosa può capitare. Una mia amica anni fa ha perso la figlia per la stessa cosa, per il bullismo: aveva 14 anni, era in carne e con gli occhiali, si è tolta la vita. Non bisogna mai prendere sottogamba queste cose. La scuola si deve svegliare».

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Le pene di una madre per la figlia bullizzata. «Ora sta bene, sorride. Ma io continuo a sentire di essere stata sbagliata, non in grado di farla sentire al sicuro». Lisa Ginzburg su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 novembre 2022.

Ciao Lisa, ti scrivo di qualcosa che è successo tempo fa, quasi un anno ormai, e riguarda mia figlia. Lei ha dodici anni adesso, ma allora era undicenne quando io e il padre abbiamo scoperto una brutta storia che ci aveva tenuto nascosta. Era stata «bullizzata», come si dice, da due suoi compagni di classe, un maschio e una femmina. Lo ha raccontato allo psicologo della scuola, e lui ci ha convocati. Si è scoperto che la cosa andava avanti da mesi: ricatti, soprusi, richieste crudeli, le facevano fare di tutto. La cosa più difficile, oltre alla grande pena per mia figlia, è stato accettare che non ce ne avesse parlato. Ora sta bene, si è ripresa, sorride. Ma io come madre continuo a sentire di essere stata sbagliata, incapace di saper capire, vedere, non in grado di farla sentire al sicuro così da parlare e confidarsi con noi. Quasi un anno fa è successo, ma ancora mi sento distrutta e non capisco come ne uscirò.

Grazie.

Cara R., che cosa dura realizzare che per tanto tempo un figlio (una figlia) è stato oggetto di umiliazione, vessazioni psicologiche, che sta soffrendo circostanze pazzescamente dolorose non comprese né in nessun modo subodorate da noi come genitori.

Posso bene immaginare il senso di inadeguatezza, la mortificazione profonda che puoi provare come madre. Da parte tua una mancanza, una cecità, forse una resistenza a voler percepire, sì. E d’altra parte: certi tormenti del tutto intimi, certe cose che ci feriscono nel profondo, alle persone più care molte volte è troppo difficile dirli, confidarli: all’età che ha tua figlia, e forse a tutte le età.

Siamo toppo vulnerabili in quei frangenti per poterci aprire a chi amiamo di più, e se in quei mesi tua figlia non riusciva a parlarne con voi, magari è stato anche perché quel che stava vivendo era troppo più grande di lei, una ferita per una vicenda assurda, indicibile, solo sua. Meno lacerante, un po’ meno insostenibile confidarlo a uno psicologo, un terapeuta che rappresentava per lei qualcuno di esterno.

Non hai intuito prima, non hai percepito mentre accadeva che tua figlia vivesse quell’incubo. Dopo però, quando la cosa è venuta fuori, sono certa tu sei stata assolutamente all’altezza del tuo ruolo di madre, che le sei stata vicina nel modo più giusto, con infinito amore e delicatezza e rispetto. Se adesso è serena e sorridente, se è riuscita a superare questa esperienza tanto traumatica, incontrando nuovi amici nuova fiducia negli altri, sarà anche perché l’avete seguita e accompagnata con tutto l’amore e il sostegno che il momento e il suo malessere chiedevano.

Non dovresti rimproverarti troppo. Guardare avanti invece. Le sei stata accanto, nel suo silenzio prima, nella crisi dopo, nel malessere che sarà seguito alla confessione fatta allo psicologo infine. Sei stata solida, sempre a disposizione, una bravissima madre, e di più ancora lo sarai dando fiducia alla vita, pensando a come questa brutta storia avrà rafforzato tua figlia, insegnandole autostima, la cura di sé dell’amor proprio compresa una maggiore apertura, la cura dell’armonia di una buona comunicazione con il mondo.

Del resto le cose, nei legami forti come sono quelli famigliari, vanno sempre in parallelo. Più riuscirai a perdonarti come madre per ciò che non hai saputo fare – per non avere visto, non avere capito quello che stava succedendo a tua figlia, più le darai forza e strumenti per andare oltre e lasciarsi alle spalle questo capitolo brutto. E sorridere e vivere, e star bene sempre di più: anche con voi, con te. Che ci siete stati, sempre. Perdonati, sorridi: le cose sono andate moto oltre, l’umiliazione è una brutta ferita ma cicatrizzata, la tua non intuizione passata una mancanza umanissima, una forma quella anche di protezione, che devi solo perdonarti.

Ti tormenta, ma anche passarci ti avrà migliorato, rendendoti la madre unica e umanissima che sei. Sorridi ai sorrisi di tua figlia, ogni serenità in più sarà un passo verso il progresso del vostro benessere. Un abbraccio virtuale

I dati di "Terre des hommes". Allarme bullismo, un adolescente su due ne è vittima. Francesca Sabella su Il Riformista l'8 Febbraio 2022. 

Un adolescente italiano su due dichiara di essere stato vittima di atti di bullismo e cyberbullismo. Sette adolescenti su dieci dichiarano di non sentirsi sicuri mentre navigano su internet coltivando relazioni digitali. «La Campania, purtroppo, non fa eccezione e presenta diverse criticità con una esplosione di casi di violenza soprattutto tra giovanissimi», ha commentato Domenico Falco, presidente del Comitato regionale per la Comunicazione della Campania, in occasione della Giornata mondiale contro bullismo e cyberbullismo.

«Di fronte a questi dati, divulgati da “Terre des hommes” con la relazione “Indifesi 2021’ – ha aggiunto -, si impone l’attivazione di tutte le misure possibili a sostegno di un’intera generazione sotto assedio che sta pagando duramente gli effetti di due anni di emergenza pandemica. L’isolamento sociale delle vittime e un utilizzo errato dei social media sono le principali cause da combattere. Il Corecom Campania – ha aggiunto Falco -, negli ultimi quattro anni, ha promosso campagne di prevenzione dei fenomeni di bullismo e cyberbullismo e di educazione digitale che hanno coinvolto circa 80 tra istituti scolastici, campi scuola e oratori delle cinque province campane».

Ai seminari hanno partecipato oltre seimila studenti che hanno avuto l’opportunità di conoscere il fenomeno del cyberbullismo, confrontandosi con esperti e rappresentanti delle istituzioni e delle forze dell’ordine. «L’obiettivo raggiunto -ha spiegato Falco – è stato quello di fornire loro un segnale forte di sostegno da parte di una rete sociale che parte dalle famiglie e prosegue con la scuola, con le donne e gli uomini in divisa, con i sindaci e con le associazioni e i parroci, che è pronta ad aiutarli a portare fuori il disagio e a denunciare. Dobbiamo proseguire su questa strada – ha concluso – per la costruzione di un Patto istituzionale affinché nessuno si senta solo nel combattere il bullismo».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Cosa fare se mio figlio è un bullo? I comportamenti da tenere sotto controllo e come intervenire. Nella giornata mondiale contro il bullismo e il cyber bullismo abbiamo intervistato la psicologa dell’infanzia Serena Costa per capire cosa fare se ci accorgiamo che nostro figlio si comporta da bullo. Intervista a Dott.ssa Serena Costi. Psicologa dell'infanzia. A cura di Francesca Parlato il 7 febbraio 2022 su Fanpage.it.

Il 7 febbraio ricorre la Giornata Mondiale contro il Bullismo e il Cyberbullismo, secondo un'indagine delle Nazioni Unite, uno studente su tre, tra i 13 e i 15 anni, ha subito nella vita almeno un episodio di bullismo e in Italia poco più del 50% degli 11-17enni (numeri che arrivano da uno studio ISTAT) ha subito un episodio offensivo, non rispettoso o violento da parte di altri ragazzi. Spesso episodi di violenza, fisica o verbale, tra ragazzi sono considerati normali, sono minimizzati ma è importante invece capire come riconoscere e distinguere un semplice litigio da un comportamento prevaricatore, prepotente, dove c'è un'asimmetria di potere e soprattutto l'intenzionalità di fare del male o offendere o anche escludere un compagno da un gioco o da una situazione di gruppo. Come indicano le statistiche, di bullismo si parla quasi sempre superati gli 11 anni, quando iniziano le scuole medie, quando delle dinamiche comportamentali sono già strutturate. "Ma prima capiamo come evitare di arrivare al bullismo, meglio è. – ha spiegato a Fanpage.it la dottoressa Serena Costa, psicologa dell'infanzia e autrice del blog "Connettiti alla psicologia" – Più facile sarà intervenire con i nostri figli per chiarire cosa c'è di sbagliato in certi comportamenti".  

Mio figlio è un bullo? I comportamenti da controllare

Per un genitore può essere emotivamente complicato rendersi conto di alcuni comportamenti del proprio figlio, eppure ci sono dei segnali piuttosto chiari, che possono farci capire che siamo di fronte a degli atteggiamenti preoccupanti. "Intanto dobbiamo notare se il bambino ricorre a metodi aggressivi per ottenere quello che vuole. Se è pretenzioso, se ha un atteggiamento di superiorità nei confronti dei compagni, se tende a sottometterli". Oltre ai segnali che riguardano la sfera della rabbia però ce ne sono altri che hanno a che fare con la capacità di gestire le emozioni. "Di solito sono bambini che fanno fatica a esprimere le loro emozioni e i loro bisogni. Non provano dispiacere o senso di colpa se si accorgono che hanno ferito qualcuno, fisicamente o prendendolo in giro, addirittura sono quasi contenti. E questo succede sia a casa con i genitori che con i fratelli e le sorelle o con i compagni di classe". Moltissimo contano anche le dinamiche familiari. "Se i genitori sono aggressivi, se ricorrono a questo tipo di modalità comunicative o di relazione, è probabile che anche i figli lo faranno, perché riflettono ciò che vedono".  

Cosa fare se ci rendiamo conto che nostro figlio è aggressivo

Se ci accorgiamo che nostro figlio mette in atto questo tipo di comportamenti, la prima cosa da fare è cercare di riaprire un canale comunicativo. "Dobbiamo cercare di entrare in sintonia con lui, con i suoi bisogni reali. Cerchiamo di capire cosa ha scatenato quei comportamenti e di provare a sviluppare le sue capacità emotive". Uno dei punti deboli di un bambino aggressivo è spesso la gestione della frustrazione. "I genitori dovrebbero imparare anche a lavorare su questo aspetto. Bisogna allenare i ragazzi a questa competenza. Si è visto che ci sono due stili genitoriali che favoriscono l'insorgere di comportamenti da bulli: uno stile autoritario, fatto di troppe regole e divieti, che ingabbia i bambini e uno stile troppo permissivo, che va sempre incontro ai bisogni del bambino, che crescerà credendo che tutto sia dovuto. Per questo è importante trovare un equilibrio, un bilanciamento". 

Un bambino bullo va punito?

Punire, sgridarlo, tentare la strada del dialogo? Cosa fare se nostro figlio si è comportato in maniera scorretta con un altro bambino? "Vale sempre la pena dialogare – suggerisce la psicologa – Facciamoci intanto raccontare la sua versione, facciamogli capire che lo stiamo ascoltando, siamo accoglienti. Non limitiamoci a criticarlo. Aiutiamolo ad analizzare quello che dice: se si deresponsabilizza, dicendo "Non ho fatto niente" facciamolo ragionare sulle sue emozioni, chiediamogli se per caso ha paura di essere sgridato. Spieghiamogli che non esiste solo il suo punto di vista e che bisogna ascoltare tutte le versioni di quello stesso episodio. E invitiamolo a riflettere sulle conseguenze di quel comportamento". Se però questi atteggiamenti aggressivi non sono sporadici ma diventano un’abitudine, allora è il caso di stabilire delle conseguenze negative. "Una punizione serve a scoraggiare un comportamento negativo, ma non deve essere umiliante. Deve sempre essere costruttiva. Ad esempio se nostro figlio ha ferito con le parole qualcuno la punizione potrebbe essere scrivere una lettera di scuse. L'obiettivo è responsabilizzarlo". Chiedere scusa però non deve essere neanche un atto imposto o un semplice escamotage per risolvere un problema, è importante trasmetterne il valore reale. "Si chiede scusa per riparare, ma non dobbiamo obbligare a chiedere scusa se il bambino non ne capisce il motivo. Bisogna lavorare proprio sull'empatia".  

Quando è il caso di rivolgersi a un esperto

È molto importante quando un bambino mostra degli atteggiamenti di questo genere non identificarlo con il suo comportamento. Oggi è facile dire “sei un bulletto” ma è più corretto dire che si sta comportando come un bullo: "Non etichettiamo mai il bambino che si comporta da bullo come tale. Analizziamo e critichiamo anche i suoi atteggiamenti ma senza identificarlo con la parola bullo. Preserviamolo, si tratta sempre di un bambino che deve essere aiutato. Il rischio è andare incontro a una profezia che si autoavvera ‘Tutti mi dicono che sono un bullo e allora mi comporto come tale’”. In questi casi stringere alleanze con educatori e insegnanti è essenziale per intervenire sul bambino. "Facciamogli capire che nessuno lo vuole punire e basta ma che vogliamo aprire un canale comunicativo, che vogliamo accogliere i suoi bisogni. Se lo capisce sarà più disponibile a parlare, altrimenti inizierà a temere l'adulto, a pensare che voglia limitare la sua libertà e si chiuderà sempre di più. Sicuramente non è un lavoro facile, ma più si è alleati con le figure educative di riferimento, più si riesce ad essere efficaci". In alcuni casi può essere anche utile rivolgersi a uno psicologo o a un terapeuta. "A volte un genitore può rivolgersi a un esperto anche solo per  per avere un semplice consiglio, un aiuto che può rivelarsi importante. In alcuni casi invece, quando al bambino non si riesce a far capire l'importanza di cogliere le emozioni degli altri, quando non si riesce a mettere un freno a certi comportamenti può essere utile proprio avviare un percorso più strutturato. Prima si interviene meglio è. Se ci accorgiamo che esistono queste dinamiche di esclusione, se se la prende con qualcuno in maniera ricorrente cerchiamo di muoverci presto, più si va avanti più diventerà complicato affrontare questi comportamenti".

"Volevamo uccidere le maestre". Bambini trovati con i coltelli nello zaino per imitare Squid Game. Valeria Di Corrado su Il Tempo il 28 febbraio 2022.

Invece delle merendine, negli zaini avevano portato dei coltelli di plastica appuntiti. «Volevamo uccidere le maestre». Questa l’assurda e drammatica spiegazione che hanno dato alcuni bambini della quarta elementare dell’istituto comprensivo Pablo Neruda di via Casal del Marmo, a nord di Roma, dopo essere stati scoperti lo scorso 16 febbraio con le «armi improprie» di cui si erano muniti. Gli alunni (tra di loro ci sono anche un paio di bambine) si sarebbero ispirati a «Squid Game», la violenta serie tv sudcoreana distribuita in tutto il mondo sulla piattaforma di streaming Netflix dal 17 settembre 2021. «Non si erano mai verificati episodi simili. È un istituto tranquillo», commenta Laura Gonzalez Rodriguez, del Comitato genitori della scuola.

Il "gioco del calamaro" (questa la traduzione) narra in 9 episodi la storia di un gruppo di persone in difficoltà economiche e indebitate che, pur di vincere i 33 milioni di euro in palio, rischia la vita in una strana gara composta da 6 giochi abitualmente legati al mondo dell’infanzia, come le biglie e il tiro alla fune. I giocatori sono tenuti costantemente sotto controllo da guardie mascherate: chi perde viene ucciso brutalmente e ogni morte aggiunge soldi al montepremi finale. 

Negli ultimi mesi, in alcuni istituti scolastici italiani, sono stati segnalati episodi di bambini presi a botte dai compagni durante la ricreazione come penitenza per aver perso a «un, due, tre, stella» (uno dei giochi proposti in «Squid game»). C’è chi è arrivato a imitare il gesto della pistola puntata, per imitare i protagonisti della serie. La visione è vietata ai minori di 14 anni, con siti che consigliano comunque di aspettare i 18, proprio per la violenza di alcune scene e per l’impianto della trama. «Sicuramente si tratta di una serie tv non adatta ai bambini. Ma il vero problema è che manca il filtro dei genitori - spiega Angelo Bonaminio, psicoterapeuta di preadolescenti, adolescenti e giovani adulti, specializzato nell’uso e nell’abuso delle tecnologie digitali, e socio dell’ArpaD - Ci sono sempre stati film e cartoni violenti.

Il mezzo, che sia la tv o un videogioco, di per sé è neutro. La differenza, rispetto al passato, è che i genitori non esercitano la loro autorevolezza. E le menti di alcuni adolescenti, senza il filtro degli adulti, sono più influenzabili di altre. Qualsiasi contenuto può essere compreso con la mediazione di un referente adulto adeguato. Invece molti genitori sono concentrati solo sulla performance scolastica; pensano a dare il "contentino" ai propri figli, comprando le scarpe o il cellulare più costoso». Tra l’altro, esiste anche il tasto del «parental control» per impedire la visione. Ma spesso non viene impostato dai genitori per paura che i figli restino esclusi dai compagni.

"La violenza esplode e non è tutta colpa della pandemia Covid". Luca Fazzo il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il professor Guglielmo Gulotta, uno dei massimi esperti italiani di psicologia forense, lancia l'allarme sulla violenza giovanile in città. Preoccupano la caccia agli oggetti-feticcio, il sesso senza rispetto e l'esibizione social.

Il lockdown, la compressione in stati ristretti, la rinuncia alla socialità non possono costituire gli alibi per il dilagare della violenza giovanile nel tessuto urbano milanese: perché siamo davanti a un fenomeno nato ben prima della pandemia e con cui dovremo confrontarci anche per molti anni dopo di essa. A spiegarlo è Guglielmo Gulotta, uno dei massimi esperti italiani di psicologia forense: il terreno dove si incrociano lo studio dei comportamenti criminali e dei processi mentali.

Professor Gulotta, da settimane le cronache milanesi ribollono di episodi sconcertanti, a volte l'impressione è che le cosiddette baby gang agiscano ormai fuori da ogni controllo. Da dove nasce questo fenomeno?

«Siamo davanti a una delle due forme di aggressività adolescenziale più vistose di questi tempi. Una è il bullismo, l'altra è l'organizzazione in bande giovanili più o meno strutturate. Bullismo e gang vengono a volte vissute come facce di fenomeni analoghi, ma in realtà hanno differenze sostanziali. Il bullismo si esercita contro obiettivi noti, ed è spesso perpetrato da un soggetto singolo, magari attorniato da altri che svolgono una funzione da coro o da claque. Le gang, invece, sono alimentate dalla coesione collettiva e colpiscono indiscriminatamente».

Qual è la molla che le spinge in azione?

«Una risposta ci viene dalla modalità stessa con cui veniamo a conoscere le loro azioni: questi ragazzi pubblicano per vanteria sui mass media e sui social le loro imprese che altrimenti resterebbero a volte sconosciute. La definirei trasgressione ludica. Poi, ovviamente, c'è dell'altro».

Ovvero?

«Sicuramente la conquista di beni materiali di consumo che sono fuori dalla loro portata e che hanno una forte valenza di status: dai telefoni ai capi di abbigliamento. D'altronde si tratta di bande urbane di vario tipo e dalla composizione quanto mai variabile, perché ne fanno parte sia ragazzi nati nella nostra cultura che di culture differenti, ma accomunati quasi sempre dalla provenienza da classi sociali disagiate. In loro la conquista dell'oggetto-feticcio si accompagna a una voglia di riscatto e diventa una sorta di reazione ai trattamenti ingiusti, o presunti tali, che ritengono di aver subito dalla società degli adulti».

Nelle analisi di questi giorni molti hanno indicato il disagio da lockdown come fattore detonante.

«Adesso la pandemia ha la colpa di tutto... Certo, dopo la fine del lockdown abbiamo avuto la percezione di una impennata, ma da qui a fare di un dato temporale anche un dato causale ce ne corre. Questo è un problema che nel mondo esisteva da ben prima del lockdown».

Che rapporto hanno con le regole? Trovano soddisfazione nel violarle o semplicemente le ignorano?

«Tutti noi violiamo le regole continuamente, perché se le applicassimo rigidamente il mondo si fermerebbe. In questi ragazzi c'è sicuramente qualcosa in più: la trasgressione della regola diventa un valore in sé, un motivo d'orgoglio, una conquista da esibire. Anche a costo di essere identificati e pagarne le conseguenze».

La dinamica è la stessa anche quando l'aggressività della banda prende di mira soggetti deboli come le ragazze? Le scene di Capodanno sono inquietanti.

«In parte sì, purtroppo. Quello che è andato in scena in piazza Duomo è stata una serie di episodi connotati, e lo dico con mille cautele e tra mille virgolette, anche da un aspetto ludico. Tra le regole che si possono violare in nome della trasgressione, c'è stata anche quella del rispetto per l'altro sesso. Le aggressioni sono state rese possibili da un meccanismo psicologico classico dell'agire di gruppo, la dispersione della responsabilità: più siamo e più si può fare, come se la responsabilità finisse tutta a un soggetto che agisce collettivamente e non ai singoli che ne fanno parte. E alla fine la soddisfazione del piacere sessuale non è diversa dalla gratificazione del rapinare un oggetto di lusso: hai delle spinte che non puoi soddisfare individualmente, la forza e la confusione ti convincono di poter fare quello che a quattr'occhi non oseresti».

"Nordafricani, trap e crimini: l'identikit delle baby gang”. Sofia Dinolfo il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.

Cresce il numero delle azioni violente messe in atto dalle bande dei baby criminali. Il maggiore Silvio Maria Ponzio spiega a IlGiornale.it le dinamiche che si celano dietro queste organizzazioni.

Proliferano i reati commessi da parte delle baby gang. Rapine, violenze e minacce sono gli atti illeciti compiuti, con maggiore frequenza nel weekend, dalle bande di delinquenti di minore età. Da Nord a Sud, un’escalation di denunce da parte delle vittime e diversi gli interventi delle Forze dell’Ordine diretti a garantire l’incolumità pubblica. Al momento, Milano risulta essere la città maggiormente colpita da questo fenomeno tanto da richiedere in Parlamento un dibattito sull’emergenza sicurezza nel capoluogo lombardo da parte degli esponenti politici del centrodestra.

La richiesta è partita dopo l’ennesimo episodio di violenza di sabato 19 febbraio nelle vie della movida milanese: Corso Como e piazza Gae Aulenti. Quella notte è successo di tutto con almeno otto risse, “sgabelli in faccia” e “teste spaccate”, come hanno raccontato alcuni testimoni su Instagram. I carabinieri sono al lavoro per debellare questo fenomeno con ferrate indagini e arresti. Gli ultimi sono quelli eseguiti il 2 marzo scorso dal Comando Provinciale di Milano. In manette sono finiti 8 minori appartenenti alla baby gang “Z4”. Ma come si formano questi gruppi? Perché stanno seminando così tanto terrore? “Siamo di fronte - dice a IlGiornale.it il maggiore Silvio Maria Ponzio – a una delle manifestazioni patologiche della devianza giovanile”. Il maggiore Ponzio è il comandante della Compagnia Carabinieri Milano - Porta Monforte e ci ha raccontato diversi dettagli che riguardano le dinamiche delle baby gang.

Cosa sono le baby gang?

"Le baby gang, al pari della 'mala movida' e del 'bullismo', rappresentano una delle manifestazioni patologiche della devianza giovanile. Sono comitive di giovani che, spesso accomunati in rete da particolari nickname identificativi (per esempio il codice di avviamento postale del quartiere in cui vivono e riferimenti alla zona che frequentano) e da caratteristici elementi distintivi (abbigliamento, tatuaggi, linguaggio, gestualità, luoghi di aggregazione e genere musicale), si avvalgono della forza intimidatrice del gruppo per commettere, talvolta con l’uso di armi da taglio o di semplici riproduzioni (scacciacani o pistole giocattolo prive del tappo rosso), svariate attività delittuose. Queste, determinano importanti riflessi in termini di ordine e sicurezza pubblica sia nelle aree cittadine (per lo più periferiche) di provenienza, sia in quelle più spesso centrali, in ragione della presenza di maggiori attrazioni e di locali di tendenza, ove i comportamenti antisociali/violenti, sia pure finalizzati ad affermare la presenza sul territorio e a rimarcare la superiorità sulle bande rivali (in taluni casi arrivando a vantare rapporti di amicizia con soggetti contigui alla criminalità organizzata), si manifestano nelle più disparate forme delinquenziali (risse, furti e rapine in danno di passanti, danneggiamenti, atti vandalici e di bullismo, spaccio di stupefacenti, blocchi stradali per la realizzazione di video musicali, eccetera)".

Come si formano?

"Possono costituirsi quasi per gioco, prendendo come esempio i modelli proposti dalle serie televisive o dalle nuove tendenze musicali, sulla base di pregresse amicizie o assidue frequentazioni tra giovani che, vivendo nello stesso quartiere e accomunati dai medesimi interessi, decidono di unirsi in gruppo e di delinquere in un secondo momento, ovvero nascono come vere e proprie associazioni criminali (per esempio le 'pandillas', tipiche delle comunità sudamericane stanziatesi in Italia) dedite alla commissione di reati, prevalentemente di natura predatoria. In questo caso sono gruppi dominanti stabili nel tempo, guidati da un leader, con una precisa gerarchia interna e con rigidi codici comportamentali che prevedono, talvolta, il superamento di determinate prove per poterne diventare un membro".

Quali sono i fattori aggregativi?

"La musica trap/rap, non certo come forma musicale particolarmente apprezzata dai millennial quanto invece come strumento di divulgazione di contenuti aggressivi e antisociali tramite testi e video spesso oggetto di azioni emulative, costituisce uno dei principali fattori di aggregazione e di costruzione di specifiche identità all’interno delle baby gang. Queste canzoni utilizzano spesso codici narrativi ricchi di slang codificati e di sistemi di occultamento usati per circoscrivere i destinatari dei contenuti ed escludere chi non appartiene a uno specifico contesto territoriale, naturalmente istituzioni e forze di polizia comprese. I brani sono affreschi della vita di periferia, di paragoni tra chi vive nel lusso e chi ai margini della società, di luoghi, simboli e fattori aggregativi (come strade, piazze, giardini pubblici, panchine, passamontagna, tute acetate, scarpe, orecchini, tatuaggi, eccetera)".

Perché stiamo assistendo al veloce proliferare delle loro attività criminose?

"La devianza giovanile è un complesso e mutevole fenomeno sociale, comprendente una serie di condotte che, pur non integrando necessariamente la commissione di reati, possono infrangere regole sociali, morali e di costume, incidendo sensibilmente sulla percezione di sicurezza di una comunità. Alla base dei problemi comportamentali tipici delle nuove generazioni, siano essi illegali o percepiti come trasgressivi e inurbani, vi sono sempre fattori di rischio individuali (come disturbi del comportamento e della socializzazione) e ambientali (per esempio condizione familiare, contesto socio-economico, difficoltà di integrazione dei minori stranieri, consumo di stupefacenti e alcool, emulazione di modelli negativi diffusi da web, da particolari generi musicali, social e serie tv). Se da un lato la pandemia potrebbe aver contribuito ad aumentare sentimenti di stress e preoccupazione tra i giovani per averne limitato le occasioni di socializzazione e di espressione a seguito della chiusura di scuole, di centri sportivi e attività ricreative, dall’altro non si può non tener conto del fatto che il fenomeno era noto anche prima dell’attuale emergenza sanitaria".

Quali sono le cause del disagio dei giovani

"Tra le principali cause alla base del disagio giovanile e degli atti devianti vi sono sicuramente i contesti familiari problematici (conflittualità tra i genitori, maltrattamenti, abusi, assenza di comunicazione o scarso interesse per le attività svolte dai figli), il deterioramento di un’efficace modello educativo, in parte dovuto al precoce abbandono del percorso scolastico, e la tendenza alla rigorosa selettività tra i membri di un gruppo, con la conseguente marginalizzazione di chi non si adegua o conforma ai modelli di riferimento. Credo che sia del tutto naturale che, durante l’adolescenza, il giovane si confronti con il mondo esterno per acquisire fiducia in se stesso e costruirsi come adulto. La voglia di esplorare il mondo e di avviare nuove relazioni lo porta a cercare un gruppo di coetanei con cui confrontarsi".

Cosa può accadere?

"Tuttavia è proprio qui, nella cerchia delle sue amicizie più strette, che il minore esprime la propria personalità attraverso l’azione, sperimentando e adoperando nuove e diverse modalità di interazione. Egli mette in pratica ciò che ha appreso dai contesti di socializzazione precedenti e, attraverso i comportamenti violenti o trasgressivi, tenta di comunicare il suo desiderio irrefrenabile di affermarsi e di superare i limiti in una cornice di autonomia. Il giovane ricerca quelle attenzioni che non ha ricevuto, quelle possibilità che la vita non gli ha offerto e che ritiene di non poter ottenere attraverso il contesto socio-familiare di provenienza. Ecco allora che la strada e ogni spazio pubblico diventano il luogo ove il ragazzo si sente osservato dagli altri, dove costruisce la propria identità e la propria reputazione, cimentandosi anche in rapporti di opposizione, conflittualità e forme estreme di violenza a tal punto da minimizzare le possibili conseguenze delle sue azioni".

Qual è la forza delle baby gang?

"La forza delle gang deriva dal fattore identitario di provenienza (la costante affermazione di vivere in un quartiere notoriamente malfamato incide molto sulla capacità di ingenerare timore nelle vittime più vulnerabili), dalla capacità di agire in branco secondo logiche di deresponsabilizzazione del singolo, di protezione reciproca e di assoluta indifferenza e spregiudicatezza alle regole più elementari della civile convivenza. Talvolta sono gruppi che, non avendo uno scopo razionale preciso, agiscono impulsivamente nel tentativo di provare una sensazione di ‘potenza’ e ‘superiorità’, colpendo le persone (in genere coetanei) ritenute più ‘deboli’. In altri casi, sono giovani che sfruttano esperienze criminali maturate in passato per commettere reati con modalità operative consolidate".

E la cronaca ci conferma diverse storie.

"Recenti indagini svolte dai carabinieri del Comando Provinciale di Milano hanno consentito di accertare che alcuni giovani appartenenti alla baby gang 'Z4', una delle 13 finora censite nel capoluogo meneghino, in più circostanze, anche con l’uso di armi da taglio, tra ottobre 2021 e gennaio hanno commesso violente aggressioni ed efferate rapine a danno di passanti. Gli atri punti di forza delle baby gang sono rappresentati dall’ottima conoscenza del territorio e dalla capacità dei singoli membri di comunicare tra loro utilizzando gruppi o canali social 'riservati' per concordare modalità operative, darsi appuntamenti e perfino organizzare risse, con la presuntuosa convinzione di poter eludere eventuali controlli da parte delle forze di polizia".

Perché riprendono e pubblicano sui social le loro violente attività?

“I baby gangster del 5G impiegano la tecnologia per divulgare, attraverso i principali social network, i video delle proprie azioni delittuose con una duplice finalità. Comunicativa, per esprimere spavalderia, arroganza, assenza di paura e senso di impunità dei propri appartenenti; celebrativa per effettuare proselitismo, acquisire consensi, dimostrare la caratura criminale del gruppo e accrescerne il ‘prestigio’ agli occhi delle gang avversarie. Il video e le foto costituiscono una sorta di ingresso trionfale nella piazza virtuale, tale da celebrare le gesta di cui la gang è capace anche nei confronti di chi è contro di loro. Nell’epoca in cui l’immagine di sé e il like sono elementi imprescindibili per l’adolescente in cerca della propria identità, il video con migliaia di visualizzazioni e condivisioni diventa un efficace strumento di motivazione e incitamento a delinquere”.

Hanno un leader? Come viene “eletto”?

“Alcune gang sono strutturate in modo tale da avere al loro interno un leader (il più delle volte appena maggiorenne) che si autoproclama tale in ragione della maggiore aggressività e carisma mostrati in determinate circostanze o per il solo fatto di essere stato già ristretto in istituti penali o in comunità, di avere maggiore disponibilità di denaro o seguito sui social. A lui non si può disobbedire: farlo significherebbe proporsi quale capo alternativo. Qualche volta si pone come una sorta di guida. Tutti lo reputano una persona fidata, pronta a dispensare consigli o parole di conforto. Altre gang, invece, si autoregolano, lasciando spazio decisionale ai sodali”.

Quanto conta il fatto di essere gruppo per una “buona riuscita” dei cattivi propositi?

“Direi fondamentale. Il gruppo è una sorta di piccola comunità. Quanto più è unito e saldo, tanto più i suoi componenti saranno spregiudicati, determinati e coraggiosi. Molto probabilmente nessuno degli appartenenti alla gang riuscirebbe a compiere atti così violenti o illeciti se dovesse attuarli da solo. Il senso di appartenenza a un gruppo stimola la solidarietà e l'aiuto reciproco in caso di necessità. La condivisione delle responsabilità e l’anonimato contribuiscono a far diminuire la paura e il senso di colpa che il singolo potrebbe provare nel compimento di un'azione illecita”.

Generalmente che famiglie hanno alle spalle questi ragazzi?

“I membri delle gang attive sul territorio milanese sono prevalentemente minorenni di età compresa tra i 12 e i 17 anni, anche di sesso femminile, italiani e immigrati di seconda o terza generazione (con una maggiore incidenza di nordafricani), alcuni dei quali già gravati da precedenti, che coabitano nelle zone periferiche delle aree metropolitane e nei vasti complessi residenziali di edilizia popolare. Talvolta sono minori stranieri 'non accompagnati' che, vivendo in strada o in stabili abbandonati a causa della frequente indisponibilità di posti letto nelle comunità di accoglienza, sono più proclivi alla commissione di reati".

Più in generale?

"È un fenomeno trasversale che, generalmente, interessa giovani che appartengono ai ceti sociali più bassi o a famiglie disagiate, in cui gli stessi genitori sono gravati da precedenti penali o affetti da dipendenze. Ciononostante, proprio in funzione di taluni fattori aggregativi come la musica, succede che anche i ragazzi ‘perbene’ e apparentemente meno problematici entrino a far parte delle bande, in questo caso non certo per fame di riscatto bensì per conquistare uno status sociale, per sconfiggere la noia di una vita ‘normale’ e per diventare famosi tra i coetanei mediante comportamenti antisociali e violenti”. 

È possibile correggere il cammino di questi ragazzi e portarli sulla buona strada?

“Certo. Occorre un’azione corale e congiunta, non soltanto al livello di forze di polizia ma da parte di tutte le componenti della società a cui viene demandato il delicato compito dell’educazione, coniugando percorsi riabilitativi e di inserimento per chi ha già sbagliato con efficaci iniziative preventive e di contrasto al fenomeno. L’obiettivo deve essere da un lato quello di sviluppare nei giovani una maggiore consapevolezza del disvalore sociale delle azioni commesse e delle relative conseguenze, dall’altro quello di rafforzare il network istituzionale al fine di ridurre la dispersione scolastica, coinvolgere maggiormente i giovani in attività sportive ed extrascolastiche (come volontariato, partecipazione a lavori socialmente utili e così via) e aiutare quei genitori assenti o distratti a correggere i comportamenti devianti dei figli con percorsi di socializzazione positiva e di inclusione”.

Come agite per prevenire questi fenomeni?

“L’Arma dei Carabinieri, nell’ambito del progetto di ‘diffusione della cultura della legalità tra i giovani’, con la collaborazione dei responsabili degli istituti scolastici, realizza una campagna annuale di incontri con gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado con lo scopo di educare gli studenti all’esercizio della democrazia, nei limiti e nel rispetto dei diritti inviolabili, dei doveri inderogabili e delle regole comuni condivise, quali membri della società civile, promuovendo al tempo stesso negli alunni la consapevolezza dei valori fondanti e dei principi ispiratori della Costituzione italiana per l’esercizio di una cittadinanza attiva a tutti i livelli del sistema sociale. In fondo, come sosteneva San Giovanni Bosco, ‘dalla buona o cattiva educazione della gioventù dipende un buon o triste avvenire della società’".

Ci può raccontare qualche esperienza con la quale si è confrontato nel corso del suo lavoro?

“Qualche mese fa mi sono occupato del caso di una bambina di 12 anni che, mentre si trovava al parco, è stata brutalmente aggredita e poi rapinata dello smartphone da una baby gang della zona come atto ritorsivo, perché la vittima era attratta da un compagno di scuola, di cui si era invaghita anche una coetanea della banda. A distanza di qualche ora, ancora dolorante per le percosse subite, la giovanissima si è presentata insieme alla mamma presso la stazione dei carabinieri indicatale dal maresciallo che qualche giorno prima aveva conosciuto a scuola durante un incontro sul bullismo. La piccola vittima ha trovato la forza di confidarsi con i genitori e di denunciare l’aggressione. All’odio e alla violenza ha risposto con il coraggio. I membri della gang sono stati tutti identificati e deferiti alla competente autorità giudiziaria. A ognuno di loro abbiamo consigliato di leggere ‘La fabbrica del male’ di Jan Guillou”.

Antonio Calitri per “il Messaggero” il 3 marzo 2022.  

Il fenomeno delle baby gang dilaga in tutta Italia con Milano che guida la classifica nazionale dei reati commessi da minori. E con questi gruppi di piccoli criminali dove la presenza degli italiani diminuisce a vantaggio di quella di immigrati o figli di immigrati. E si abbassa anche l'età di queste gang, con l'ultima operazione dei Carabinieri milanesi che ieri ha sgominato un gruppo di quartiere formato da otto minorenni di età compresa tra i 17 del più grande e i 12 dei più piccoli.

Si tratta di una banda di giovani delinquenti che imperversava nella zona Sud-Est di Milano, tanto radicata nei quartieri di Corvetto e Calvairate che si erano dati il nome di Z4 gang, ovvero Zona 4 come è stato rinominato amministrativamente il municipio, così da essere riconosciuti come i ras del posto. Questi otto ragazzini, sono indiziati a vario titolo e in concorso tra loro delle ipotesi di rapina, tentata rapina e lesioni personali aggravate in concorso.

Il gruppo avrebbe commesso, secondo quanto recita una nota delle forze dell'ordine, «in più circostanze, violente aggressioni e 14 rapine (anche tentate) in danno di passanti che avvicinavano con banali pretesti all'interno di parchi, sui mezzi di trasporto pubblico, nei pressi delle fermate o nei principali luoghi di aggregazione giovanile, sottraendo loro smartphone e altri oggetti di valore».

È una delle almeno 13 bande individuate dagli investigatori dell'arma milanese dall'analisi dei social network dove questi gruppi, seppur in forma anonima, documentano le loro imprese. Milano quindi si conferma capitale e vero e proprio laboratorio della criminalità giovanile. Pochi giorni fa, gli investigatori avevano scoperto anche un nuovo fenomeno, quello della baby gang pendolare, proveniente dalle banlieue.

Da Novara dove sono stati documentati questi spostamenti, ma anche da altre città a circa mezz' ora di treno dal capoluogo lombardo, ogni weekend bande di ragazzini sbarcano in stazione centrale di Milano e da lì si dirigono verso i quartieri della movida restando spesso ai margini e mettendo nell'obiettivo ragazzi e ragazze che si allontanano da soli o in coppia dalla zona più frequentata e li aggrediscono.

Poi a fine serata, con i bottini di smartphone e portafogli conquistati o semplicemente con le registrazioni di aggressioni gratuite sui loro telefonini, riprendono il treno e tornano alle loro case dell'hinterland. Piccoli criminali che intanto fanno salire in classifica la città che secondo l'ultimo report della Direzione centrale di Polizia Criminale dal titolo I minori nel periodo della pandemia vede Milano al primo posto in Italia per numero assoluto di segnalazioni di minori denunciati o arrestati in Italia, con 1.442 casi tra il 1° gennaio e il 31 agosto 2021.

Al secondo posto si piazza Roma con 1.214 casi registrati nello stesso periodo, seguita, all'ultimi gradino del podio da Torino con 948 denunce. Occorre precisare però che la Capitale rientra solo per numero assoluto di denunce, ma se si ripartiscono i numeri per la popolazione, Roma scende in coda alla classifica delle città metropolitane analizzate che al contempo vede salire Bologna e Firenze in particolare.

Non che a Roma non si registri la presenza delle baby gang. Proprio ieri gli agenti della squadra informativa del distretto Prenestino hanno sgominato una composta da tre minori e un maggiorenne che gestiva lo spaccio dell'hashish ai giardinetti del Quarticciolo e aveva trasformato il luogo come una piazza di quelle che si sono viste nella seria di Gomorra.

Furti, rapine e aggressioni anche fini a se stesse e ultimamente anche all'arma bianca vengono realizzate da minor nella zona di San Lorenzo. Neppure il centro storico, tra i palazzi delle istituzioni nazionali che dovrebbero essere tanto presidiate resta escluso. Poco più di una settimana fa un rider di 30 anni è stato aggredito da una babygang formata da una quindicina di ragazzini all'uscita del Mc Donald's in Piazza delle Cinque Lune, a pochi passi dal Senato della Repubblica.

Crescono le babygang e nello stesso tempo cambiano. Se fino a pochi anni fa, soprattutto quelle straniere si sfidavano tra loro per gestire gli affari delle varie zone, adesso sono cambiate sia le composizioni di questi gruppi che gli obiettivi che sono ormai soprattutto persone esterne alle gang, da rapinare o semplicemente da aggredire. 

Aumentano le gang di stranieri ma anche quelle di italiani, figli di immigrati cresciuti in Italia ma spesso con modelli educativi lontani a quelli occidentali. In generale è crescita di due punti percentuali l'incidenza dei reati commessi dai minorenni stranieri, rispetto al totale, passando dal 44,17 al 46,11%.

Il Piemonte è la regione con la maggiore incidenza dei minori stranieri nei reati, con il 57,54%, quasi 6 reati su dieci commessi da minori sono stati fatti da uno straniero. Seguono l'Emilia Romagna (54,73%) e la Lombardia (52,92%). Solo decimo il Lazio con un'incidenza del 43,51%.

Sintesi dell’articolo di Roberto Gonella e Laura Secci per “La Stampa”, pubblicata da “La Verità” il 26 febbraio 2022. 

Assediato dalle baby gang, un parroco di Asti ha dovuto chiamare più volte la polizia per potere terminare la celebrazione della messa. «Sono una trentina, ragazzi e ragazze delle medie, tutti italiani», racconta don Paolo Lungo, 54 anni, dal 2013 parroco di Nostra Signora di Lourdes nel quartiere periferico della Torretta. 

«Spaccano i vetri e spaventano i fedeli. Si ritrovano sul sagrato o poco distante». Per arginare i raid, i fedeli e il sacerdote sono spesso costretti a chiedere l'intervento delle forze dell'ordine: la questura si trova a poche centinaia di metri.

Ma anche i poliziotti vengono trattati con arroganza e senza timore. Don Lungo, tuttavia, ha deciso di non denunciare i giovani teppisti: «Non hanno ancora varcato la soglia che li porterebbe a gettare via la loro vita e non dobbiamo spingerli a farlo».

(ANSA il 17 febbraio 2022) - Fiamme nella tarda serata di ieri in un bar a Ghedi, in provincia di Brescia. È il locale di Yuri Colosio, 27 anni, che, in una puntata della trasmissione Le Iene andata in onda proprio ieri sera, aveva raccontato di essere vittima di bullismo da parte di una baby gang locale.

"Appena finito il servizio delle Iene questo è il risultato e l'ennesimo sopruso che dobbiamo affrontare. A questo punto anche combattere per il diritto al lavoro diventa difficile" ha scritto sui social Colosio mostrando le foto del suo locale danneggiato. Sulla vicenda indagano i carabinieri.

Estratto dell'articolo di Brunella Giovara per “la Repubblica” il 25 febbraio 2022.

È andata così. Il kebabbaro aveva appena chiuso, bussa un ragazzino e chiede aiuto. «Aprimi, vogliono ammazzarmi». L'uomo, musulmano timorato di Dio, lo nasconde giusto in tempo perché bussa un altro ragazzino, e ha una pistola. «Non ho aperto, ho fatto scappare l'altro dal retro. Quanti anni avevano? Quattordici, più o meno. E io chiedo: cosa sta succedendo, qui a Novara?».

Succede quel che succede in tutta l'Italia del Nord, nelle città medie come è questa, dominata dal Monte Rosa e dalla cupola dell'Antonelli, 121 metri con un Cristo Salvatore.

Ma qui, come a Brescia, Padova, Trento, Pavia, in queste banlieue di provincia chi salverà il futuro dei teenager poveri, stressati dalla pandemia, violenti, spesso seconda generazione e quindi ancora più incattiviti, ma anche italiani, ragazzini per bande che si formano, svaniscono e ricreano, su un ritmo trap che qui fa «Hey Hey Hey, Novara City/ Oh Oh Oh, fanculo la pula».

Eppure è un posto tranquillo, questa città sulla rotta Torino-Milano, ogni 25 minuti un treno ti porta in Centrale, «andiamo a fare serata a Milano», talvolta finisce in tragedia come a Capodanno, le ragazze violentate davanti al Duomo. 

L'ultimo rapporto del Servizio analisi criminale della Polizia spiega il trend in crescita di reati minorili, dei 25mila ragazzi denunciati o arrestati nel 2021. Le regioni più colpite, Lombardia, Emilia Romagna e Piemonte. Perciò Novara, città tipo, 100mila abitanti, 15mila stranieri, «non peggio di altre realtà», dice il sindaco Alessandro Canelli, Lega.

«C'è un fenomeno di baby gang, ma sono ben conosciuti, monitorati dalle forze dell'ordine. Nelle metropoli ci sono state situazioni limite, io spero che non si arrivi a questo». A fine agosto la polizia ha chiuso l'indagine Quiet adolescence, fermando la banda (dodici, dai 14 ai 17 anni) che da mesi colpiva al Parco dei Bambini. 

Ne accerchiavano uno, lo picchiavano e gli portavano via collanina, cellulare, soldi. Dopo le denunce hanno minacciato le vittime sui social, poi di persona. Metà italiani, metà stranieri.

All'inchiesta ha partecipato la polizia giudiziaria della Procura per i minori di Torino, seguendo profili Facebook e Instagram, là dove viaggiano veloci le chiamate alle armi, i video delle imprese, la trap e la drill. 

L'eroe novarese è Zefe, Kazir Siffedine, famiglia marocchina. Fermato a Milano nell'aprile 2021: nel quartiere San Siro 300 ragazzi molto aggressivi stavano partecipando a un video con lui e altri due trapper, Neima Ezza, e Baby Gang, cioè Zaccaria Mohuib. 

Zefe aveva un machete, quindi denunciato per porto abusivo di armi. E non poteva venire a Milano, per via di un obbligo di dimora, dopo una rissa a Novara. Ha vent'anni, si trascina dietro migliaia di ragazzini che si riconoscono nei contenuti violenti dei suoi testi.

Lui dice «voglio dare voce a chi non ce l'ha. E voglio comprare una villa a mia madre», visto che è nato a Sant'Andrea. Ma i ragazzi percepiscono solo il messaggio violento, "O la fame o la fama", sta scritto su un muro delle "case bianche" di via Bonola, così marce che il Comune le abbatterà. 

Nel frattempo gli stessi ragazzi vanno a vedere la città che scintilla: «Milano, il centro del Nord, offre locali, corso Como, i vip, i calciatori», dice Marco Terraneo, docente di Sociologia alla Bicocca. 

«A Novara, a Lodi, in provincia questo non c'è, ovvio che loro si dirigano verso quelle luci che brillano. Ma ne sono esclusi».

Denuncia una baby gang, bruciato il locale di Yuri dopo il nostro servizio. Le Iene News il 17 febbraio 2022. 

Ieri, mercoledì 16 febbraio, vi abbiamo parlato con la nostra Nina, della denuncia di Yuri che ci ha raccontato di essere vittima degli attacchi di una baby gang a Ghedi (Brescia). Poco dopo la messa in onda del nostro servizio il locale del ragazzo è stato dato alle fiamme. Ecco perché, soprattutto ora, alla violenza bisogna rispondere con la cultura, l'integrazione, l'inclusione, la riqualificazione. Per i nostri giovani

Ieri è andato in onda il servizio di Nina Palmieri “Nel mirino della baby gang”: Yuri il proprietario del bar di Ghedi aveva subìto più volte, insieme ad altri locali della zona, degli attacchi da parte di una baby gang e ci aveva scritto chiedendoci una mano, esasperato dalla situazione e gridando il suo diritto a lavorare tranquillo. 

Poco dopo la messa in onda del servizio però è accaduto un atto gravissimo: Yuri ci ha contattato disperato e ci ha detto che qualcuno aveva dato fuoco al suo locale. 

Un infame gesto intimidatorio che va condannato senza se e senza ma: adesso speriamo che le forze dell’ordine facciano chiarezza e identifichino al più presto possibile i responsabili. 

Yuri ha prontamente denunciato anche stavolta e noi continueremo a essere al suo fianco, così come ci ha chiesto di fare fin dal primo momento in cui ci ha scritto. 

Ovviamente per chi si macchia di questi reati sono previste delle sanzioni da parte della legge, ma siamo convinti che non si possa ridurre il tutto a una considerazione meramente repressiva. Al netto dell'infamia accaduta a Yuri lo ribadiamo ancora una volta: come società civile abbiamo dei doveri, uno di questi è  “ascoltare” la rabbia e la violenza gratuita che circola tra i nostri ragazzi, un ascolto che si deve tradurre in una ricerca di soluzioni che tendano a individuare la causa del disagio, perché spesso la violenza è sintomo di un disagio represso, sintomo che qualcosa non sta funzionando. 

In alcuni vostri commenti abbiamo letto “sono tutti stranieri, è colpa loro”, e invece no, vi diamo una notizia: ci sono anche tanti italiani; abbiamo letto di immondizia umana da gettare via... abbiamo letto che la soluzione è rispondere con la violenza. No, non si cura questa ferita rispondendo con odio. No, non serve a nessuno. Oltre che con le sanzioni della legge alla violenza si risponde con la cultura, con l'integrazione, con progetti di inclusione e riqualificazione. 

Bisogna coinvolgere le famiglie, le scuole e tutti i luoghi dove si costruisce una società, e dove i giovani imparano a essere dei cittadini. 

Siamo noi l'esempio dei nostri giovani, e rispondere alla violenza con la violenza rende semplicemente le nostre vite peggiori… 

Grazie per i tantissimi messaggi di solidarietà, vi terremo aggiornati su quanto sta accadendo a Yuri.

Brescia, denuncia la presenza di una baby gang a “Le Iene” e gli incendiano il locale. Luca Bertelli su Il Corriere della Sera il 17 Febbraio 2022.

A Ghedi, una banda di ragazzini sta terrorizzando il paese e soprattutto Yuri Colosio, proprietario del locale “Mi Vida’: dopo la denuncia al programma di Italia Uno (e l’aggressione al padre), l’ennesimo sopruso ai suoi danni.  

A poche ore dal servizio delle Iene di ieri sera, in cui denunciava la presenza di una baby gang (ragazzi tra i 18 e 20 anni ma anche minorenni) che a Ghedi sta terrorizzando da mesi gli abitanti, Yuri Colosio ha trovato il proprio locale, il “Mi Vida” di Ghedi, devastato da un incendio doloso.

«Questo è il risultato e l’ennesimo sopruso che dobbiamo affrontare. A questo punto anche combattere per il diritto al lavoro diventa difficile», ha scritto su Facebook il giovane, 27 anni, che a Nina Palmieri di Italia Uno aveva parlato apertamente di risse e violenze nel proprio paese ad opera di gruppi di ragazzi, dalle 15 alle 20 persone, armati di coltello e machete e con i volti coperti dai passamontagna.

Cinque le denunce già presentate da Colosio ai Carabinieri: il proprietario del ”Mi Vida” aveva deciso di chiuderlo per una settimana dopo l’aggressione al padre, ultimo capitolo di una lunga serie di episodi tra cui un pugno rifilato al buttafuori, la distruzione di tre vetrate del locale e una rissa in discoteca. «Dopo l’aggressione a mio padre ho deciso di chiudere il bar per una settimana: fuori dalla porta c’era un bigliettino, apri o muori. Si muovono sempre in gruppo - dice - e se rispondi ti saltano addosso». Alla riapertura, alla presenza delle telecamere e dei carabinieri, tutto era filato liscio. Così anche nei giorni successivi, prima del servizio trasmesso a Le Iene (dove era stato organizzato anche una sorta di incontro chiarificatore tra Colosio e il leader della baby gang, con ogni probabilità un trapper straniero) cui è seguito l’incendio doloso di stanotte.

Monica Serra per "la Stampa" il 2 febbraio 2022.

A lanciare l'allarme, a metà dicembre in tv, era stato un padre veronese: «Mia figlia di 14 anni è a capo di una baby gang che semina il panico tra le sue coetanee». Il fenomeno crea molte preoccupazioni, a Verona come nel resto d'Italia. La notte della vigilia di Natale la polizia arresta otto ragazzi accusati di aver aggredito e tentato di derubare altri giovani in discoteca. 

Qualche giorno più tardi cinque baby rapinatrici prendono di mira una coetanea fuori dal centro commerciale Adigeo, per portarle via il giubbotto e nel parapiglia picchiano anche il fidanzato della vittima. 

L'ultimo episodio risale a lunedì della scorsa settimana: un incendio alla scuola media Dante Alighieri che distrugge la biblioteca. Anche se gli investigatori sono cauti e le indagini sono in corso, qualcuno si affretta a parlare baby gang. 

E a scendere in campo per «difendere gli spazi della città», oltre alle istituzioni, sono i neri di Casapound che, sul loro profilo Facebook «Il Mastino Verona IV», si fotografano all'Arco dei Gavi e in altri luoghi simbolo del centro, con striscioni al seguito («Baby gang? Non nella mia città»), per ribadire che quei «fragolini», «mentecatti tossicodipendenti col borsello non avranno mai spazio a Verona». «Guai a parlare di ronde», tiene a precisare il loro portavoce, l'avvocato Roberto Bussinello.  

«Noi andiamo nei bar e nei luoghi di aggregazione solo per invitare le persone a riappropriarsi della città». E sui social sono tanti a seguirli e ad apprezzare. Ma che cosa sia accaduto nel corso di queste escursioni notturne - se effettivamente, al di là delle foto, ci sono state - è ora oggetto delle indagini della questura e della Digos di Verona. Nel frattempo, l'allarme baby gang è finito al centro dell'ultimo Comitato per l'ordine e la sicurezza che, come ogni venerdì, si è tenuto in Prefettura.  

«Non permetteremo che l'escalation di violenza vista in altre città, con rapine e attacchi alle auto delle forze dell'ordine, colpisca anche Verona», ha commentato al termine il sindaco Federico Sboarina che ha annunciato «il pugno duro» delle istituzioni contro i giovani violenti. «Finora abbiamo monitorato le zone e gli orari in cui queste bande si ritrovano. Li conosciamo. Ma interverremo con ancora più fermezza presidiando il territorio e, dove richiesto, entrando nelle scuole». 

Con l'accordo dei dirigenti scolastici, ha rilanciato il primo cittadino, «proporrò anche di entrare negli istituti con i cani antidroga, ovviamente in maniera rispettosa della privacy e degli studenti». Un'altra iniziativa, il 23 gennaio, era già stata lanciata dal presidente della Commissione consiliare alla Sicurezza, Andrea Bacciga: l'istituzione di uno sportello comunale gratuito di sostegno psicologico per i giovani bulli, per le loro vittime e per i loro familiari.  

«Si chiamerà "La Famiglia si rigenera" e punterà all'educazione e alla cura di questi ragazzi fragili che hanno bisogno di un sostegno psicologico che spesso le famiglie non si possono permettere», spiega Bacciga che, con l'assessore alla Sicurezza, sta lavorando al progetto.

M.Ser. per "la Stampa" il 2 febbraio 2022.

Tutto è cominciato con una chiamata dei carabinieri. La figlia denunciata per un furto di leggings al Decathlon. Mario (nome di fantasia) non riusciva a credere che la sua bambina di 14 anni era diventata all'improvviso «una bulla, che va in giro a picchiare le coetanee. E con altre sei ragazze è a capo di una baby gang.  

Si fanno chiamare Pr.zz, che sta per Porta rispetto zocc Una banda che rapina, picchia, pesta, e che può contare su una trentina di gregarie e su circa seicento seguaci sui social», dove le adolescenti pubblicano video e foto dei furti, delle aggressioni e dei momenti di svago, passati a «fumare una canna in centro». È un padre arrabbiato Mario, che ha provato a parlare alla figlia, ma non ci è riuscito. Che si è «sentito abbandonato dalle istituzioni».

E così ora va in giro a denunciare la situazione di tanti giovani sui giornali, in tv. Vuole creare un'associazione, «la chiamerò Parent's gang e ho già aperto una pagina Facebook», per setacciare il web con l'aiuto degli esperti e segnalare le baby gang alla polizia. Partiamo dal principio. Quando ha capito che sua figlia stava cambiando?  

«Sono un padre separato. Un anno fa, in pieno lockdown, non la vedevo mai. Una sera la mia ex moglie mi ha chiesto aiuto perché la ragazza, che aveva 13 anni, l'aveva aggredita in casa, chiamata putt, ed era scappata. All'una di notte, con l'aiuto della polizia, l'abbiamo trovata a casa dei nonni». 

Da lì sono iniziati i problemi? 

«All'inizio sembrava ribellione adolescenziale. Poi però sono arrivate le telefonate di madri e padri di suoi coetanei che aveva aggredito ed erano intenzionati a denunciarla. 

Ho chiesto scusa, ho provato a sistemare le cose, a parlare con lei ma si rifiutava di ascoltarmi. Dopo la chiamata dei carabinieri che l'avevano beccata a rubare abbigliamento sportivo in un negozio ho capito che aveva toccato il fondo. A mia figlia non mancano i soldi, non ha certo bisogno di rubare». 

Così ha scoperto che era a capo di una baby gang? 

«Le capette sono sette ragazze tra i 13 e i 16 anni che vengono da tutta la provincia: tra loro c'è mia figlia. In comune non hanno neanche la scuola, si sono conosciute in centro a Verona. Seminano il panico, filmano i loro furti, i pestaggi, le azioni violente e li pubblicano sui social dove hanno un grande seguito. Ai gruppi su Instagram e Facebook si possono iscrivere solo i minori di 18 anni». 

Che cosa ha fatto? 

«Non c'era modo di farla ragionare. Mi sono rivolto a uno psicologo, ho intrapreso un percorso con la mia ex moglie. Mia figlia si è presentata solo alla prima seduta, poi ha smesso di comunicare con me. Ma credo che l'aiuto di un professionista sia fondamentale per provare a uscire da questo incubo». 

E ora che rapporto ha con sua figlia? 

«Non mi parla, mi scrive ti odio nei messaggi, è arrabbiata perché racconto la nostra esperienza. Dice che è tutta colpa mia. L'altra sera è intervenuta nel corso di un incontro pubblico online a cui partecipavo. Ha preso la parola per dire che sono stato io ad abbandonarla. Mi ha accusato di non darle affetto. Non sono io che ho chiuso i ponti con lei, anzi sto facendo il possibile per tenerli aperti. Non capisce che faccio tutto questo per il suo bene, per provare a salvarla, perché non voglio che rovini la sua vita e quella degli altri». 

Ma dopo questa esperienza ha capito che cosa spinge sua figlia e tanti ragazzi alla violenza? 

«Il lockdown, tante ore tutto il giorno chiusi in casa e attaccati a cellulari e computer, al web e ai social soprattutto, come Tik Tok, dove circola di tutto e nessuno controlla, hanno avuto un peso enorme. I giovani hanno accumulato tanta rabbia e ora la stanno sfogando in questo modo. Troppi genitori minimizzano il problema ma, mi creda, queste non sono bravate da adolescenti». 

Andrea Priante per corrieredelveneto.corriere.it il 15 febbraio 2022.

«Mio figlio Tancredi non ha preso parte alla rissa in questione e sono pronto a querelare chiunque accosti il suo nome a un’aggressione». Così, il mese scorso, tuonava l’esponente di Fratelli d’Italia, già europarlamentare (2004-14), Alfredo Antoniozzi, riferendosi all’ormai famosa aggressione subita da un gruppo di ragazzi trevigiani a Capodanno, a Cortina d’Ampezzo. Ma ora ad accostare ufficialmente il nome del diciottenne romano a quello che - stando al racconto delle vittime - fu un vero e proprio pestaggio, sono proprio i quattro veneti usciti malconci dall’incontro con la comitiva di turisti romani.

Lunedì mattina, a sei settimane dal fatto, l’avvocato che li rappresenta si è presentato in questura a Belluno per depositare formale denuncia. Nella querela per lesioni, l’unico nome che compare è proprio quello di Tancredi Antoniozzi, perché la sua foto, rintracciata sui social, è stata riconosciuta dai trevigiani. Toccherà alle indagini della procura - che si potrà avvalere anche dei filmati delle telecamere di sorveglianza presenti in Corso Italia - il compito di identificare gli altri romani che avrebbero partecipato.

Il documento

Nel documento presentato dal loro legale, le vittime - tra i 17 e i 18 anni, tutti dello stesso liceo di Treviso - ripercorrono quanto accaduto dal loro arrivo a Cortina il 30 dicembre, per festeggiare il Capodanno, fino alla notte tra l’1 e il 2 gennaio. La versione è per tutti la stessa: sarebbero stati affiancati dal gruppo di romani mentre stavano cantando «una canzone imparata nei campi scout» che si conclude con un «Alé Treviso! Alé Treviso!». 

Lo dimostrerebbe anche il video della durata di 15 secondi che è stato allegato alla querela e nel quale si intravede l’esatto momento in cui le comitive si incontrano. Il gruppo di cui faceva parte Antoniozzi li avrebbe inseguiti fino all’altezza dell’Hotel de La Poste prendendoli a cinghiate e poi colpendoli con calci e pugni. 

Il tutto inneggiando alla Lazio. Tre dei ragazzi trevigiani sono finiti all’ospedale (un 17enne ha perso i sensi a causa dei colpi) mentre un quarto, che pure è stato malmenato, non ha ritenuto di presentarsi al pronto soccorso. Nella denuncia raccontano di essersi sentiti vittima di «una caccia all’uomo» e assicurano che i turisti romani li avrebbero aggrediti «per divertimento». Saranno le indagini a chiarire come siano andate realmente le cose.

L'onda delle nuove baby gang che assedia le città. Ventimila minori denunciati in un anno. Alessandra Ziniti su La Repubblica il 23 febbraio 2022.  

Il nuovo report della Polizia. Da ragazzi violenti a bande criminali, come si armano sul web e poi spaventano le piazze

Sale anche la presenza degli stranieri. Il direttore dell’Anticrimine: se puntiamo solo sulla repressione abbiamo già perso. Chiamarla malamovida è riduttivo, perché da Milano a Bologna, da Padova ad Ancona, quelli che assediano città metropolitane e piccola provincia sono veri e propri gruppi criminali giovanili, nuove bande multietniche, capaci di aggressioni violente, che spesso si formano sul web e sul web si armano e si radicalizzano su posizioni estremiste. Qualcosa di più delle baby gang, un fenomeno più ampio che, dopo due anni di pandemia, richiede un approccio differente. «In Italia non abbiamo il fenomeno delle banlieue e non ci arriveremo. Ma se puntiamo tutto sulla repressione arriviamo tardi e abbiamo già perso. Non possiamo né militarizzare le città né mettere il coprifuoco. Qui si tratta di mettere a punto un sistema di rete con tutti gli attori in campo», dice Francesco Messina, direttore centrale anticrimine della Polizia. 

Le cronache e i dati dei primi due mesi dell’anno confermano un trend di reati minorili in crescita come certificato dall’ultimo report del Servizio analisi criminale della Direzione centrale della Polizia criminale sui minori nel periodo della pandemia. Crescono del 10 % i minori denunciati o arrestati (circa 25.000 nel 2021), crescono fino al 20% i reati di lesioni personali, danneggiamento, minacce, omicidio doloso, rapina, resistenza e violenza a pubblico ufficiale. Crescono i traffici di stupefacenti e cresce (dal 44 al 46 %) la percentuale degli stranieri (o molto spesso italiani di seconda generazione) all’interno di queste bande. Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna le Regioni più colpite. 

«Da più di dieci anni ci portiamo dietro un malessere e una sofferenza giovanile che ora, dopo due anni di pandemia, di didattica a distanza, di mancanza di socialità, di divieti di assembramento, sta sfociando in una violenza sempre più diffusa — è l’analisi di Messina che è stato capo della Mobile a Milano ma da questore ha conosciuto le realtà di Torino, Varese, Perugia, Caserta — È il fallimento della famiglia, della scuola, della Chiesa, delle agenzie sociali primarie. E come dice il procuratore dei minori di Milano Cascone, non siamo ancora al picco e il web costituisce un grande pericolo». 

È proprio nella rete, chiusi nelle loro stanze e lasciati soli con i loro pc, che moltissimi ragazzi che non sono cresciuti in ambienti criminali si avvicinano a comportamenti illegali, a quei reati che prima — con la distanza del web — sembravano lontani e ora che si torna in strada hanno assunto la fisicità della prossimità. «I ragazzi — si legge nel report — hanno sperimentato un senso di smarrimento che li ha indotti ad assumere atteggiamenti devianti mediante l’utilizzo del web e dei social: il maggior ricorso alla rete ha accresciuto sia i rischi di venire virtualmente a contatto con contenuti di carattere illecito sia la commissione di condotte delittuose online». 

Sul web sono nate condotte sociali penalmente rilevanti, sui social e sulle app di messaggistica i giovani sono stati irretiti «da una propaganda estremista online con il rischio di attivare processi di radicalizzazione» sul dark web guadagna spazio il mercato di droghe sintetiche e sostanze psicoattive, ma anche di armi. E sui social si lanciano sfide per «maxirisse in strada in cui protagonista assoluta è una violenza gratuita da postare sui social, anche con finalità emulative, confidando sull’effetto amplificatore della rete». 

In questo quadro, l’utilizzo da parte dei questori dei Daspo Willy (i provvedimenti di allontanamento dai luoghi della movida di soggetti violenti) si è decuplicato e dal Viminale si prova ad approntare un piano che coniughi prevenzione e repressione. «La legislazione è adeguata, gli strumenti di intervento li abbiamo — spiega Messina — Bisogna che attorno al tavolo dei comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza siedano tutti gli attori, compresi i rappresentanti dei pubblici esercizi a cui chiediamo di fare la loro parte di sicurezza aggiunta».

Carugate, la baby gang chiamata «20061» come il codice postale: rapine e vandalismi, tre arresti. Federico Berni su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2022.

Tre i minorenni raggiunti da ordinanze del Tribunale dei minori. L’indagine è partita dall’assalto a un 33enne, colpito con pugni al volto. I ragazzi, tra i 16 e i 17 anni, si vantavano delle «imprese» sui social. 

Hanno scelto il numero del codice postale di Carugate, 20061, per dare il nome alla loro banda, responsabile di almeno nove episodi criminali, tra rapine di strada, aggressioni violente, danneggiamenti e un caso di minaccia a pubblico ufficiale contro i carabinieri. Sono tre i minorenni raggiunti da ordinanze restrittive emesse dal Tribunale dei minori - due in carcere minorile e una di obbligo di permanenza a casa - a conclusione delle indagini condotte dai carabinieri della stazione di Carugate e della compagnia di Pioltello, comandata dal capitano Francesco Berloni.

Tutti ragazzi di nazionalità italiana tra i 16 ei 17 anni, che sui social ostentavano il soprannome «20061», appunto il codice postale della cittadina del Milanese dove imperversavano con le loro azioni violente. L’indagine è partita da un episodio dello scorso ottobre, quando un 33enne è stato colpito con pugni al volto ed è stato costretto a consegnare cellulare, cuffie wireless e computer portatile.

Attraverso le immagini delle telecamere di sorveglianza e i profili social del giovani, i militari sono riusciti a identificare i tre, accusati, tra l’altro, anche di aggressioni contro una guardia giurata e un sottufficiale della Finanza. Le misure sono state eseguite a Brugherio, in provincia di Monza e nella vicina Carugate.

Massimo Ammaniti per "la Repubblica" il 24 gennaio 2022.

Il padre di uno dei ragazzi che ha partecipato al feroce festino di Capodanno nella villetta di Primavalle, venuto a conoscenza delle gesta non proprio onorevoli del figlio in quella nottata, ha esclamato come viene riportato dai giornali: «Sono basito!» Anche noi nel leggere le vicende di quella notte siamo rimasti basiti: 28 ragazzi e ragazze maggiorenni e minorenni, questa volta tutti italiani, non si sono privati di nulla, hashish, cocaina, alcol e psicofarmaci come Rivotril e Xanax. 

Non è stato un pusher a portare questo cocktail micidiale con effetti simili alla droga dello stupro, sono stati i ragazzi dei Parioli, quartiere romano della borghesia benestante, a rifornire i partecipanti della festa, fra cui vi erano anche giovani di Primavalle e di Torrevecchia, quartieri di periferia abitati da un ceto sociale diverso, che fungevano da padroni di casa.

In genere gli adolescenti sono piuttosto selettivi nella scelta degli amici, ma in questo caso la droga e il sesso sono stati il collante che ha fatto incontrare giovani di estrazioni sociali così diverse. Questo festino avveniva nella notte del Capodanno 2021, durante una nuova ondata della pandemia, quando erano state reintrodotte misure restrittive che vietavano gli assembramenti al chiuso. Ci possiamo chiedere se i genitori fossero a conoscenza che i figli anche minorenni si sarebbero recati ad un festa pericolosa per il contagio, ma anche per l'uso di droghe. 

È vero che il mondo degli adolescenti e dei giovani è spesso sconosciuto agli occhi dei genitori, come ha scritto nel suo libro "Mio figlio" la scrittrice Sue Klebold, madre di Dylan, uno degli autori del massacro della scuola Columbine negli Stati Uniti. Nella festa di Primavalle non ci sono stati morti, quantunque dalle testimonianze raccolte dai carabinieri sarebbe emerso che uno dei ragazzi avesse impugnato la pistola per minacciare uno dei partecipanti alla festa, al momento di distribuire la droga. Ben presto il festino ha mostrato le intenzioni di chi l'aveva organizzato, droghe a volontà e sballo col venir meno di ogni inibizione soprattutto verso le ragazze parioline costrette a subire abusi di gruppo.

Fra queste Bianca, dal suo soprannome, una ragazza spagnola di quasi 16 anni ospite di una delle ragazze dei Parioli, costretta a subire per tre ore le violenze fisiche e sessuali dei ragazzi di Primavalle, uno dei quali si è presentato davanti a tutti mostrando come trofeo il sangue della ragazza sulla sua maglietta. La stessa ragazza portata poi in ospedale per le lesioni che presentava ha avuto una prognosi di trenta giorni. Da quanto si legge nelle cronache dei giornali la madre della ragazza avrebbe spinto la figlia nei giorni successivi a sporgere denuncia per le violenze subite.

Colpisce che già in passato fosse stata vittima di un'altra violenza sessuale ad Anzio, dove era stata caricata in macchina da alcuni giovani che poi avevano abusato di lei. In quel caso non era stata sporta denuncia, probabilmente per evitare di finire sui giornali e subire la derisione e il rifiuto dei coetanei, come poi è successo da parte delle ragazze della festa. Basta vedere il breve video comparso su Tik Tok in cui due ragazze ammettono di «aver perso qualcuna per strada». Ben più brutali i ragazzi, che dopo aver abusato di lei, l'hanno insultata in modo volgare. 

La povera Bianca è finita in questo gorgo violento senza che nessuno dei ragazzi e delle ragazze della sua comitiva alzasse un dito per difenderla dalle violenze dei borgatari. Quantunque di classi sociali e frequentazioni molto diverse, i ragazzi e le ragazze che hanno partecipato e assistito all'orrore del festino sono accomunati dalla stessa indifferenza e dall'omertà ed impunità, come risulta nell'intercettazione di uno dei ragazzi di Primavalle che si scaglia contro "l'infame" che aveva fatto denuncia. «A regà... ce semo andati a divertì » è stata la parola d'ordine, moralità zero, nessun pentimento e riconoscimento delle proprie responsabilità e soprattutto nessuna empatia per le ragazze vittime degli abusi, quasi una pratica accettabile.

A volte la disgregazione e la marginalità sociale possono provocare queste amoralità, ma in questo caso è successo anche ai figli della borghesia che frequentano costose scuole private. Questo fallimento educativo ci riporta alla mancanza di una guida educativa di queste famiglie borghesi che regalano ai figli macchinine, cellulari costosi, vacanze a Cortina, scuole private, spesso abbandonandoli a loro stessi. Come hanno confermato molte ricerche psicologiche i genitori, oltre a sostenere l'autonomia dei figli, dovrebbero svolgere un'azione di monitoring seguendo ciò che i figli fanno e chi frequentano, sapendo mettere dei limiti nonostante possano verificarsi dei conflitti. È sicuramente un compito impegnativo, ma è l'unica strada per aiutare i figli ad affrontare i possibili rischi che possono comprometterne la direzione personale.

Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" il 24 gennaio 2022.  

Non c'è giorno che non si dica peste e corna dei giovani di oggi, ai quali si rimprovera di essere violenti, stupratori e chi più ne ha più ne metta. In effetti, le cronache grondano di imprese delinquenziali realizzate addirittura da imberbi, che suscitano allarme e generale riprovazione. Siamo d'accordo con chi grida allo scandalo. Contenere il moltiplicarsi di episodi disdicevoli attribuibili ai ragazzi è una urgenza, ma aggiungo che il problema dei furori giovanili non è una novità dei nostri tempi, bensì qualcosa di antico come il mondo.

Gli adolescenti sono sempre stati particolarmente irrequieti e ne hanno combinate di tutti i colori. Senza risalire a epoche lontane, rammento quello che accadeva nel secolo scorso, negli anni Cinquanta, quando io ero un adolescente. Allora spopolavano i teppisti (da "teppa", ossia "periferia") che nelle grandi e piccole città si segnalavano perché solevano aggredire i passanti, li derubavano, li picchiavano. A lungo andare ci fu una sorta di normalizzazione e il termine "teppisti" è uscito dalle abitudini lessicali degli italiani. Tuttavia, gli agguati e i reati proseguirono esattamente come prima. Cambiano le parole, però i fatti non mutano mai. 

Semmai peggiorano. Sul finire degli anni Sessanta gli studenti furono protagonisti di una stagione di pestaggi impressionanti di matrice politica. Il Paese era preda di estremisti politici che menavano come martelli, spaccavano teste come fossero mele, erano intenti a perseguire una rivoluzione proletaria. Non paghi, i liceali e gli universitari che si erano impegnati ad occupare atenei alzarono la mira prendendo a uccidere con armi da fuoco quelli che consideravano nemici del popolo. Nacquero le cosiddette "Brigate Rosse", "Lotta continua" e vari altri gruppi di assassini.

Le loro vittime furono centinaia, il terrorismo ideologico si impadronì della penisola. Per tre lustri l'Italia fu campo di battaglia di comunisti e generi affini, ogni dì un corteo, decine e decine di cittadini sospettati di essere borghesi venivano sprangati con chiavi inglesi. I morti ammazzati furono copiosi. Eppure, adesso, di tutto questo ci siamo dimenticati, acqua passata non macina più. Come ci siamo scordati degli esordi del fascismo che si affermò all'inizio del Novecento malmenando selvaggiamente gli avversari.

Ovviamente quelli che ricorrevano alle mani e alle bottiglie di olio di ricino erano giovanotti, non certo persone anziane desiderose di incassare una pensione. Le leve odierne che vengono accusate di commettere misfatti specialmente notturni, di organizzare risse in piazza e di molestare fanciulle in fiore non meritano senza dubbio di essere elogiate, ma non ci vuole molto per capire che non sono peggiori dei loro antenati. Anzi. Purtroppo l'umanità non evolve mai, è sempre pronta a delinquere e a segnalarsi per azioni brutali e spietate. 

Noi non intendiamo assolvere coloro che attualmente in verde età vanno in giro a turbare la quiete pubblica, semplicemente ci permettiamo di fare presente che non eravamo più saggi di loro. Le ultime generazioni forse fanno un po' meno schifo delle vecchie.

Pierpaolo Lio per il “Corriere della Sera” il 5 Febbraio 2022.

La sfida rossonerazzura che si gioca sul rettangolo verde del Meazza. E il duello fra (t)rapper a colpi di «dissing» (invettive in rima) e pistole che va in scena sulla piazza social e sull'asfalto del quadrilatero di case popolari a due passi dalle luci della «Scala del calcio». È questo derby a costare l'arresto a Kappa 24k, l'ultimo rapper della vivace scena milanese a finire in carcere. Stasera si riempirà lo stadio.  

Un mese fa la vicina piazza Monte Falterona s' è svuotata in un lampo. Due crew rivali, quaranta persone in strada, sette esplosioni, un ragazzo a terra ferito da un proiettile all'altezza dell'arteria femorale. Per quell'agguato, pochi giorni dopo finisce in manette Carletto Testa, 51 anni, il ras di via Fleming, con un passato fatto di precedenti per armi, condanne per narcotraffico, sorveglianza speciale. 

Dall'indagine della Squadra mobile, guidata da Marco Calì e Vittorio La Torre, è lui a sparare ad altezza d'uomo e ferire un 26enne egiziano finito in mezzo per caso. Ieri anche la vittima designata del regolamento di conti è stata arrestata. È Islam Abd El Karim, 32 anni, nome d'arte «Kappa 24K», 187 mila follower su Instagram, precedenti per rapina, stupefacenti, evasione. Quella sera è lui a lanciare la sfida: «Venite qui, siamo in piazza, vi sparo in faccia», urla al telefono.  

Anche lui è armato. Ed è sempre lui il primo ad aprire il fuoco (quattro i colpi sparati in aria) alla vista degli avversari. Islam è il leader degli emergenti «Refreel 24k», collettivo rap determinato a scalzare il primato della «7zoo»: Rondo da Sosa, Baby Gang, Neima Ezza, Simba La Rue, Keta e via dicendo. Migliaia di visualizzazioni, primi contratti discografici di peso, ma anche una collezione di problemi con la giustizia. 

La sfilza di daspo ha suggerito al più famoso Rondo di volare oltremanica, mentre Baby Gang ed Ezza sono uno in carcere e l'altro ai domiciliari per un'inchiesta su alcune rapine. In questo «vuoto di potere» s' inserisce la tentata scalata del nuovo gruppo alla supremazia musicale del quartiere che sul rap sta modellando chance d'uscita dall'emarginazione.  

Agli sfottò segue lo scontro. È l'8 gennaio: «24k» riunisce gli amici per regolare i conti, in particolare con Keta. Sono spintoni, insulti, schiaffi. Nella rissa il suo gruppo ha la meglio. Per questo gli avversari si rivolgono a Testa, nome di peso nel milieu di San Siro che finisce però pestato e disarmato. «Le ha prese anche lui, lo ha steso per terra come un verme», racconterà 24k al telefono. 

Un affronto da vendicare. Passano due ore, sono le 20.30, e Testa e i suoi si ripresentano in piazza. Ad aspettarli c'è 24k, che impugna l'arma sottratta all'avversario. Spara in aria. Testa risponde. Le sirene svuotano la piazza. Nel quartiere c'è «un clima di tensioni fra i gruppi e di desiderio di rivalsa con azioni violente e intimidatorie, anche di tipo scenografico», è la fotografia del gip Natalia Imarisio, e in questo contesto 24k evidenzia «spregiudicatezza, indole violenta, abituale dedizione al crimine».

Milano, arrestato il rapper Kappa 24K per la sparatoria di San Siro: «Gruppi rivali in lotta per i soldi dei dischi». Redazione Milano  su Il Corriere della Sera il 4 Febbraio 2022.

In carcere Islam Abdel Karim, conosciuto sulla scena della «trap» milanese come «Kappa 24K»: nella sparatoria dello scorso gennaio in piazza Monte Falterona, avrebbe esploso alcuni colpi di pistola in aria 

Il rapper milanese Kappa 24K

Un altro rapper della scena milanese in carcere. Dopo l’arresto di Baby Gang e Neima Ezza, venerdì mattina è toccato al 32enne Islam Abdel Karim, in arte Kappa 24K. È accusato di «detenzione e porto sulla pubblica via di arma comune da sparo ed esplosione in aria di più colpi d’arma da fuoco in luogo pubblico affollato». L’inchiesta della Procura milanese punta a fare luce sulla sparatoria dell’8 gennaio in piazza Monte Falterona, in cui era rimasto ferito un egiziano di 26 anni, avvenuta tra due gruppi rivali.

Chi è «Kappa 24K»

«Testa calda come Carlo Testa/Non fare troppo il gangsta/finisci con tre buchi in testa». Le rime sono di Islam Abdel Karim, 32 anni, padre e madre egiziani e cuore a San Siro. Nome d’arte «Kappa 24K» è una delle anime del gruppo «Refreel 24K», rapper emergenti del «fertile» quadrilatero Aler. È il blocco tra via Civitali, Paravia, Carlo Dolci e Ricciarelli. Musica arrabbiata, soldi, cocaina, armi, come gli amici/nemici Neima Ezza, Baby gang, Sevenzoo e Rondo da Sosa.

I soldi della trap

Ci sarebbe stata una lite per la ripartizione delle commissioni discografiche destinate ai vari gruppi rap della scena milanese ad innescare la sparatoria che ha portato in carcere il rapper Kappa 24K. Ne sono convinti gli investigatori della Squadra Mobile. Gli agenti, nell’ambito dell’inchiesta coordinata dalla Procura di Milano, hanno eseguito alcune perquisizioni alla ricerca di armi da fuoco e munizioni in zona San Siro, a Legnano e a Motta Visconti. Per la sparatoria era già stato arrestato un noto pregiudicato milanese di 51 anni per tentato omicidio e le indagini hanno appunto scoperto che quella sera si era verificato uno scontro fra due gruppi rivali che si erano subito allontanati dopo l’esplosione di alcuni colpi di pistola. La Scientifica aveva analizzato sette bossoli trovati a terra di diverso calibro. L’8 gennaio, nel pomeriggio, i due gruppi si erano resi protagonisti di una rissa nella quale Kappa_24K e i suoi amici avevano avuto la meglio. Il gruppo rivale, poi, con il 51enne che è stato arrestato, era andato in piazza Monte Falterona per vendicarsi. L’egiziano 26enne era stato rimasto ferito gravemente dal pregiudicato e Kappa_24K aveva risposto esplodendo diversi colpi d’arma da fuoco con una pistola detenuta illegalmente.

Cristiana Mangani per "il Messaggero" il 21 gennaio 2022.  

Musica e rapine, canzoni e aggressioni: è la nuova deriva di alcuni giovani rapper milanesi, che hanno largo seguito sui social, fanno incetta di follower tra i giovanissimi e raccolgono centinaia di migliaia di visualizzazioni per i loro video. Suonano musica trap, derivazione del rap degli ultimi anni, con testi immersi nel disagio della periferia, dei ragazzi di seconda generazione, tra crimine, droga e regole della strada.  

Ma allo stesso tempo i nuovi rapper milanesi stanno finendo sempre più al centro di indagini e provvedimenti della magistratura, tra risse, disordini, aggressioni, e finiscono per essere protagonisti non solo dell'ultima scena underground, ma sempre più della cronaca nera. 

Ieri sono stati arrestati per una serie di rapine i due nomi più conosciuti di questo panorama musicale degli ultimi anni, Baby Gang, nome d'arte del ventenne Zaccaria Mouhib, e Neima Ezza, ossia Amine Ez Zaaraoui anche lui 20 anni, entrambi finiti al centro di una inchiesta della procura milanese per scontri con le forze dell'ordine durante la realizzazione di un video in zona San Siro, il loro quartiere, il 10 aprile dello scorso anno.  

In un'indagine dei carabinieri di Pioltello e degli agenti dell'Ufficio prevenzione generale della Questura di Milano, coordinata dal pm Leonardo Lesti, il primo è finito in carcere e il secondo ai domiciliari, così come un terzo giovane. Quattro gli episodi contestati, a vario titolo: tre casi avvenuti in una zona centrale della movida milanese, tra le Colonne di San Lorenzo e piazza Vetra nel maggio 2021, e l'ultimo a Vignate, nel Milanese, lo scorso luglio. 

Nelle 14 pagine dell'ordinanza firmata dal gip Manuela Scudieri si legge che in una delle quattro rapine, quella del 23 maggio, i due rapper avrebbero portato via a un ragazzo una collanina d'oro da mille euro. Neima Ezza, secondo l'accusa, gli avrebbe dato uno «schiaffo» e gli avrebbe strappato la collana dal collo, dicendo alla vittima «non ti muovere, altrimenti finisce male».  

In un altro colpo del 12 luglio Baby Gang, che è difeso dal legale Niccolò Vecchioni, sarebbe riuscito a prendere a un altro malcapitato, anche lui giovanissimo, auricolari, contanti e chiavi dell'auto, mentre una persona non ancora identificata, che era con lui, gli avrebbe anche puntato «una pistola» contro.  

Ez Zaaraoui, sintetizza il giudice, ha «la personalità di chi assume un ruolo di comando nel gruppo criminale», mentre Mouhib ha un «profilo di pericolosità sociale» anche perché avrebbe usato «un'arma» e «minacce gravi». Entrambi, insieme con un 19enne, avrebbe realizzato «rapine in gruppo facendosi forti della forza intimidatrice», sono «soggetti» abituati a compiere «reati contro il patrimonio» e che hanno una «particolare spregiudicatezza sintomo di una concreta pericolosità sociale». 

Neima Ezza, scrive ancora il gip, è «formalmente incensurato», ma ha avuto «un ruolo da protagonista» nella commissione di «due rapine», mentre Baby Gang ha una serie di «precedenti penali». Per quest' ultimo la Questura di Sondrio di recente ha chiesto l'applicazione di una misura di «sorveglianza speciale» per due anni, presentando ai giudici milanesi oltre 300 pagine di atti per dimostrare che, tra il 2020 e il 2021, è stato denunciato per «diffamazione e violazione della proprietà intellettuale, istigazione a delinquere, porto abusivo di armi, vilipendio della Repubblica, delle istituzioni e delle forze armate, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale». 

E ha ricevuto fogli di via dalle città di Lecco, Milano, Cattolica, Misano Adriatico, Riccione, Rimini e Bellaria Igea Marina. «Dal 2012 fin ad ora, da quando avevo 11 anni, ogni estate l'ho passata o in galera o in comunità», diceva il 20enne tempo fa in un'intervista video. Mentre Neima Ezza cantava: «Ho fatto del male per stare bene. E ho venduto morte insieme a bene. Non mi puoi far male, no non mi puoi toccare. Giravamo in centro, strappavo le collane. Ho visto la fame, ho visto piangere mia madre». E il video su YouTube ha fatto 363.410 visualizzazioni dallo scorso 14 gennaio. 

L'ambiente rap più violento è emerso già dagli atti di un'altra inchiesta che di recente ha portato all'arresto di un 51enne per una sparatoria sempre in zona San Siro. In un'intercettazione Islam Abdel Karim, noto come 24K, tirava in ballo Rondo da Sosa, rapper molto in voga tra i giovani, come mandante e «per questioni - ha scritto il gip - legate all'ottenimento di contratti musicali». Un'ipotesi sulla quale si sta ancora investigando, ma che potrebbe riservare ulteriori sviluppi.

Andrea Siravo,Monica Serra per "la Stampa" il 21 gennaio 2022.  

«Lo buttano in gabbia pensando che il ragazzo cambia. Ma esce, fra', con più rabbia». Il video della canzone Rapina di Baby Gang e Neima Ezza è stato pubblicato su Youtube il 28 maggio: sette milioni e mezzo di visualizzazioni. «Fermi tutti, questa è una rapina», canta Baby Gang, armato e col volto coperto dal passamontagna, poco prima di colpire davvero. Un'altra volta. Nessun filtro: dalle canzoni ai fatti, e viceversa. I rapper milanesi della Seven zoo, la periferia di San Siro, i palazzi dei ricchi da una parte, lo stadio dall'altra, rapinano ancora. 

Non li ferma il successo, oltre un milione di ascoltatori mensili su Spotify, le interviste, i soldi, i contratti con le case discografiche. A tornare in carcere è il ventenne Zaccaria Mouhib, alias Baby Gang, per una rapina del 12 luglio a Vignate, hinterland est di Milano. Fino a ieri senza macchia, ai domiciliari finisce il coetaneo Amine Ez Zaaraoui, in arte Neima Ezza, per due rapine di gruppo a maggio alle Colonne di San Lorenzo.  

Ma anche il 19enne Samy, Samuel Matthew Dhahri, qualche precedente e un affidamento in prova per una rapina del 22 maggio. Quattro in tutto gli episodi contestati dal pm Leonardo Lesti che ha coordinato le indagini condotte da polizia e carabinieri. A riconoscere gli autori, che nella realtà hanno agito senza passamontagna, sono le stesse vittime. L'ordine di cattura del giudice Manuela Scudieri mette in fila i fatti. Sono le 22 del 23 maggio quando un ragazzo viene accerchiato da tre coetanei alle Colonne di Milano. 

Uno lo colpisce con uno schiaffo al petto e gli strappa la catenina d'oro: «Non ti muovere, altrimenti finisce male». Ventiquattro ore prima un altro giovane aveva subito una rapina identica. Quando gli agenti mostrano l'album fotografico Baby trap le due vittime non hanno dubbi: «È Neima Ezza». «Seppure formalmente incensurato», Ez Zaaraoui ha un «ruolo di protagonista che mette in evidenza la personalità di chi assume il comando del gruppo criminale», scrive il gip.  

Per Baby Gang è la fama a rendere immediata l'identificazione. È il 12 luglio: un 21enne è seduto sul lato passeggero di una Renault Clio al campo sportivo di Vignate mentre un suo amico sta comprando dell'hashish. In due si avvicinano armati di pistola. Lo minacciano di morte mentre lo derubano di 130 euro, gli AirPods, le chiavi dell'auto. Poi fuggono su una Mercedes. 

È l'amico della vittima a riconoscere il rapper: «L'auto mi è rimasta impressa: ho notato che il sedile del passeggero era occupato dal noto cantante Baby Gang». Per il gip le rapine sono state realizzate con «una particolare spregiudicatezza sintomo di una concreta pericolosità sociale». Che per Baby Gang era già nota dalle 350 pagine di fascicolo depositato al tribunale, che sta valutando la sorveglianza speciale.  

«Questo qui sono io», racconta in un'intervista Baby Gang, che entra ed esce di prigione da quando aveva 15 anni. Di pari passo con il successo colleziona Daspo e fogli di via a Milano, Lecco, Riccione, Cattolica, Rimini, Misano Adriatico e Bellaria Igea Marina. «Beccaria, San Vittore, Opera, Bollate», canta. Ed è tutto, fin troppo, vero.  

Lodovico Poletto per "la Stampa" il 19 gennaio 2022.  

I primi usavano lo spray urticante per creare il caos. E nel caos rubare tutto quel che potevano. Ma ancora non li chiamavano baby gang. Gli ultimi fanno rapine in centro città, senza neanche provare a nascondere il viso. Organizzano risse. Maxi risse. Si muovono in branchi. Senza capi né regole. Dalla gang entri ed esci come e quando vuoi. «Bande fluide» le chiama chi se ne intende. Un giorno ci sei, il giorno dopo vai con altri a fare danni altrove. 

I primi hanno fatto due morti e mille feriti cinque anni fa. Era giugno. C'era la finale di Champions League tra Real Madrid e Juventus proiettata su un maxi schermo nella piazza-salotto di Torino. La piazza San Carlo dei bar storici, delle banche, del passeggio. Spararono il gas e la gente fuggì, calpestando tappeti di vetri, cadendo, sfregiandosi. È perdendo la vita. Da allora è accaduto di tutto. Accade di tutto. 

Eccola qui la Torino criminale che ha messo da parte le bande che sparavano in mezzo alla strada in guerre di camorra e mafia, ha accantonato come pezzi d'antiquariato i grandi rapinatori che assaltavano i furgoni portavalori con il kalashnikov in braccio e quelli che organizzavano i rapimenti. Le «baby gang» sono l'ultima emergenza criminale. Le «bande fluide» che ritrovi ovunque: a far rapine in centro, oppure la notte di capodanno a Milano a molestare e violentare le ragazze. 

«Un fenomeno nato dal disagio sociale. Dall'esclusione. Dalla difficoltà di integrazione» dicono a Barriera di Milano, ex quartiere operaio diventato il simbolo di quanto sia complicata la strada verso l'inclusione e l'integrazione tra nuovi e vecchi torinesi. Case popolari e famiglie di ogni etnia. Corso Giulio Cesare come spina dorsale: in 500 metri trovi negozi gestiti da persone di almeno 30 nazionalità. Lì dietro, nelle strade traverse, sono nate e cresciute le prime baby gang. Il collante era musica. 

Chi la faceva cantava - e ballava - il disagio. Imitava oppure clonava i trapper delle banlieue francesi più che quelli del Bronx. Insomma era più periferia e lungomare di Nizza che deserti metropolitani newyorchesi. C'era e c'è più francese come lingua comune in queste bande, più bambarà come lingua che unisce che spanglish. Al massimo trovi l'italiano mescolato all'arabo: una lingua nuova che ancora non è stata battezzata con un nome. 

Ecco, bisogna partire da quel giorno in piazza San Carlo per parlare di baby gang. Allora erano ragazzini figli di gente arrivata dal Maghreb a caccia di soldi. Bisogna guardare a quella storia e poi fiondarsi al primo autunno di pandemia, quando le baby gang - da qualcosa di impalpabile, più intuito che dimostrato - diventano un fenomeno che puoi toccare la notte in cui assaltano il centro durante una manifestazione anti lockdown. 

Ne arrestano una trentina, dai 15 ai 27 anni. Quella notte è stata la banlieue che è entrata in centro a Torino ed è andata a prendersi ciò che non può permettersi di comprare nei negozi. È la prima volta che - apertamente - si parla di nuove forme di criminalità minorile. Piccoli spacciatori di periferia che diventano altro. Hanno storie tutte uguali. Padri in galera oppure spariti. Sfratti in arrivo. Il lavoro che non c'è.  

E madri che fanno fatica a mettere insieme il pranzo con la cena lavando gli scalini dei palazzi del centro. E loro, i ribelli di seconda generazione, sono lì nel mezzo con il profilo Instagram zeppo di foto con la merce rubata. Che fanno i bulli e cantano con la musica sparata a tutto volume. «È un problema di criminalità, ma prima di tutto sociale. Vanno date risposte per evitare derive» diceva allora Luca Deri, presidente della Circoscrizione 7 di Torino. 

Ma intanto le gang erano già formate. E poi si sono clonate anche in altre periferie. E nei Comuni della cintura. Dalle botte ai luna park, alle spedizioni punitive come quella di quasi 200 ragazzi che si affrontano a Nichelino il passo è breve. Sabato scorso in piazza c'erano da una parte le baby gang locali e dall'altra c'erano «quelli di Barriera» arrivati in massa con gli autobus della Gtt per vendicare un amico picchiato. 

Baby gang che si muovono sulle note del trap torinese: «L'aroma del sangue che ho in bocca, le prime botte, le armi. E frate...». Per carità, questa è soltanto musica che prova a farsi strada. Ma tante volte diventa bandiera per la rivalsa. La forza del branco. Anzi dei branchi. «In un certo tipo di affermazioni emerge con chiarezza quella che chiamo "la sindrome dello specchietto retrovisore". 

Questi ragazzi si vedono in un futuro prossimo nella stessa situazione che vivono oggi. Non vedono prospettive, quindi esorcizzano le loro paure con la forza: il senso è prendersi qualcosa che loro credono inarrivabile» commenta nelle pagine di cronaca di questo giornale Georgia Zara, docente del dipartimento di Psicologia dell'università di Torino. Che parla di «delinquenza fisiologica». Ma mai di allarme sociale.  

Eppure adesso le baby gang fanno paura. Più degli scippatori. Più degli spacciatori. Sono l'emergenza con la «E» maiuscola. In centro attorno alla zona dell'Università, vanno a caccia di ragazzini. Gli portano via tutto ciò che ha valore. Telefonini, ovvio. E poi giubbotti felpe firmate. Soldi. Ne hanno arrestati quattro o cinque, ma è poca roba. Uno va in galera e tre ne arrivano. 

Sono maghrebini, per lo più. Parlano italiano. Abitano in zona Barriera. Baby gang fotocopia. Figlie - ideali - degli assaltatori del centro di un anno fa. Allora ne avevano presi una trentina. Ma quella notte in via Roma a saccheggiare erano molti, ma molti di più.

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" l'11 febbraio 2022.

I tabulati telefonici del rapper sul luogo e all'ora della rapina, ma compatibili anche con una ragione del tutto diversa dalla rapina. E soprattutto la possibilità che una interferenza mediatica (e cioè la notorietà sui social del volto del cantante) abbia inficiato il riconoscimento fotografico del supposto bandito, operato (non per intento calunniatorio ma per errore di persona commesso in buona fede) da due vittime rapinate in auto di 130 euro e di due auricolari a Vignate (Milano) il 12 luglio scorso.

Per questi due motivi il Tribunale del Riesame di Milano ieri ha annullato l'ordinanza che da 20 giorni su richiesta del pm Leonardo Lesti deteneva in carcere in custodia cautelare il 20enne lecchese Zaccaria Mouhib, alias Baby Gang nell'universo musicale dell'hip-hop attorno a San Siro.

Già nell'arrestarlo il 20 gennaio la gip Manuela Scudieri aveva escluso una seconda rapina (una collanina d'oro il 23 maggio in piazza Vetra a Milano) perché a quell'ora il cellulare del rapper risultava agganciare in realtà un cella telefonica non di Milano ma di Cerro al Lambro. 

E anche nel caso della prima rapina c'era già stato un errore di riconoscimento di un'altra persona su Instagram, che le vittime «in termini di certezza» avevano indicato come uno due rapinatori (quello con la pistola), e che invece «la prosecuzione delle indagini consentiva di appurare essere in realtà totalmente estraneo ai fatti». 

«Ora - ragiona il Tribunale - questo dato non può non illuminare negativamente anche l'individuazione fotografica effettuata a carico di Mouhib», l'asserito complice senza pistola.

Riconoscimento che per le giudici Mannocci-Cucciniello-Amicone può peraltro essere stato influenzato dal fatto che Baby Gang, con «profilo Instagram con 617mila followers e di cui in quel periodo a Milano erano stati affissi manifesti pubblicitari in zone di grande affluenza», è un cantante «noto tra i giovani dell'età dei rapinati, e la familiarità con il suo volto potrebbe averli condizionati». 

Ma la sua presenza attestata (in orario compatibile con la rapina) dalla cella telefonica che "copre" la zona di Vignate? Qui le giudici trovano plausibile la spiegazione del difensore Niccolò Vecchioni: il rapper, che ha un foglio di via da Milano per precedenti guai giudiziari e vive a Sondrio, quando è autorizzato ad andare a lavorare nella casa discografica Warner trova scomodo pendolare tra Sondrio a Milano, e preferisce alloggiare a casa di un amico appunto a Vignate, Eliado Tuci. 

Argomento che il Tribunale accoglie anche perché i tabulati collocano Baby Gang a Vignate non solo al momento della rapina, ma anche sette ore prima, e nei tre giorni precedenti allo stesso orario. 

Alla Procura, che valorizzava che i rapinati avessero indicato il modello (Mercedes nera) e la targa dell'auto appartenente alla madre di Tuci, e da Tuci usata spesso con Baby Gang a bordo, le giudici indicano taluni approfondimenti per colmare i ritenuti «profili di lacunosità e debolezza» nell'accusa.

 Padova, la lista dei mille cattivi ragazzi: «schedati» per fermare le baby gang. Marco Imarisio inviato a Padova su Il Corriere della Sera il 12 febbraio 2022

L’elenco del prefetto ai sindaci: «Si sfidano sui social per fare a botte». Nimis (Coordinatore rete studenti): «Ci sono tanti miei coetanei delle scuole del centro». 

Mobilitiamoci, dicono tutti. Come se fosse facile, e per fare cosa, poi. L’hanno definita la lista nera, oppure, in alternativa la lista dei cattivi ragazzi, ma sono astrazioni buone al massimo per un titolo di giornale o di notiziario. È il numero che colpisce. Sono mille, e poco importa se si tratta di una cifra tonda o meno. Qualche giorno fa il prefetto di Padova Raffaele Grassi, «vigile ma non preoccupato», annuncia la nascita di un Osservatorio sul disagio giovanile, per contrastare il fenomeno delle mega risse tra ragazzi che sembrano diventate un appuntamento fisso del sabato cittadino. A margine, fornisce qualche numero. Polizia e Carabinieri hanno provveduto a identificare circa un migliaio di ragazzi tra i 14 e i 18 anni di età, con i loro nomi che Grassi ha segnalato ai rispettivi Comuni di residenza. «Quasi tutti provenienti dalla provincia, molti dei quali stranieri di seconda generazione, che nel fine settimana si danno appuntamento tramite i social per fare a botte».

I fatti

La prima volta fu il 15 gennaio, e non volò neppure uno schiaffo. L’evento e il luogo erano stati così annunciati sui social che a Prato della Valle, la piazza più grande della città, luogo di passeggio e di aperitivi, erano schierati reparti mobili giunti dall’intera regione. La replica avvenne sette giorni dopo, e si trasformò in un rimpiattino tra forze dell’ordine e ragazzi, concluso dietro il piazzale della stazione, tra via Trieste e la confinante piazza De Gasperi, nella zona fino a pochi anni fa più malfamata. Anche qui, solo qualche scaramuccia e un gran lavoro di individuazione da parte delle forze dell’ordine, all’altezza dei due capolinea del tram. Nome, cognome, e documento di identità, niente più di questo. Ragazzi senza alcun precedente penale nella stragrande maggioranza dei casi, che nelle settimane successive ci hanno riprovato, con scarso successo.

Resta quella cifra, mille e non più mille, esorbitante anche per una città che è la tredicesima più grande d’Italia, ma con duecentomila abitanti non ha certo ritmi, tempi e alienazioni da metropoli. E soprattutto manca una vera causa, che certo non giustificherebbe, ma forse aiuterebbe a capire. All’inizio, ben prima del 15 gennaio, si è trattato dello scontro tra bande diverse, entrambe della zona dell’Arcella, il quartiere a ridosso della stazione. Era la Vigilia di Natale, c’era un discreto numero di coetanei estranei alla contesa ma muniti di telefonino per riprendere la scena. Ben presto si è persa la memoria del pretesto iniziale. «Solo i primi eventi sono riconducibili a dinamiche da gang. Poi è diventato altro, un appuntamento fisso che si è aperto a tutti i giovani della città. La rissa stessa ha perso ogni ragione di rivalsa, è diventata un semplice momento di aggregazione, chi vuole ci sta, chi vuole assiste, comunque l’importante è esserci».

Lo studente

Marco Nimis sa di cosa parla. Quei ragazzi li conosce, non fosse che per una semplice ragione anagrafica. Ha diciotto anni, lo scorso giugno si è diplomato al liceo Cornaro, dal 2019 è coordinatore regionale della rete degli studenti medi. Con il garbo che è proprio di chi è ormai abituato a fare politica, contraddice anche l’identikit rilasciato dal prefetto, e una strisciante distinzione tra alto e basso dei ceti sociali. «Non sono solo ragazzi del circondario, ci sono anche tanti miei coetanei che frequentano le scuole del centro, è diventata una moda quasi trasversale».

Certo, Padova non è il Bronx degli anni Settanta, e le risse non sono un fenomeno solo locale. Appena ieri, la notizia di undici ragazzi di Monselice, italiani di seconda o terza generazione, indagati per associazione a delinquere «finalizzata agli atti violenti». Ma qui c’è una dimensione di massa e soprattutto non c’è un vero perché. È legittimo accontentarsi del bicchiere mezzo pieno, in fondo non è successo nulla, e le uniche denunce sono arrivate perché i ragazzi identificati erano privi di mascherina. «Questi eventi sono falliti» dice il sindaco Sergio Giordani, che guida una giunta di centrosinistra e a maggio sul tema della sicurezza reale o percepita si giocherà la rielezione. «Lo ritengo un fenomeno marginale, e passeggero. Con la fine del Covid, i ragazzi torneranno a fare altre attività, e questa rabbia che tentano di scaricare passerà».

Il prefetto

Anche il prefetto Grassi derubrica gli appuntamenti del sabato a effetti collaterali della pandemia. «Sono giovani che cercano lo scontro sulla base dell’appartenenza a un Comune, o a una singola scuola piuttosto che un’altra» aggiunge, lodando la virtù dell’intervento preventivo. Sostiene invece Nimis che il virus e i lockdown hanno senz’altro influito, ma non spiegano tutto. Anni fa, per arginare i fenomeni di spaccio e delinquenza, l’area dietro la stazione venne spianata per farci un piazzale con parcheggio. Adesso stanno per essere costruite in tutta la città una dozzina di spazi pubblici per l’attività ricreativa e sportiva. Chissà se serviranno. Non per buttarla in sociologia, ma davanti a quel numero così esorbitante, anche qualche domanda bisognerebbe pur farsela.

L’altra emergenza. La violenza del branco e i nostri ragazzi lasciati da soli. Alessandra Senatore su L'Inkiesta il 18 Gennaio 2022.

Tra le giovani generazioni è ormai evidente un profondo disagio emotivo e comportamentale, che sfocia in atti di brutalità e aggressione sempre più frequenti. Anziché discutere di varianti e mascherine, occorre dare uno sguardo anche a questa realtà, forse più difficile e impegnativa.

Da mesi ovunque si discute con metodica costanza e si approfondiscono in modo ormai quasi maniacale tutte le possibili sfaccettature e gli aspetti connessi all’emergenza pandemica: non c’è trasmissione televisiva – generalista o meno – in cui non ci si profonda in ragionamenti, analisi e previsioni dati alla mano, oltre alle inevitabili critiche su questa o quella scelta politica.

Ecco, mi piacerebbe che altrettanta attenzione e il medesimo zelo analitico venissero rivolti ad un fenomeno che da qualche tempo sembra essere sempre più drammaticamente evidente ed inquietante e che riguarda l’esistenza di un profondo disagio emotivo e comportamentale tra le giovani generazioni.

Ormai assistiamo, con una frequenza direi statistica, ad episodi di violenza che hanno come protagonisti ragazzini tra i 13 e i 18 anni. Il “branco”, come spesso viene richiamato, aggredisce, stupra, picchia e a volte addirittura uccide, ma quando usiamo questa parola non stiamo parlando di un entità astratta – anche se questo agisce guidando le singole individualità – perché stiamo pur sempre parlando di ragazzini, i nostri figli, quelli che dovremmo essere noi a guidare.

Il fenomeno è quanto mai complesso e cruciale per la nostra società, perché l’attraversa in modo indiscriminato: si tratta di adolescenti di varia estrazione sociale, italiani e stranieri, abitano le periferie ma anche i quartieri “bene” delle città. Quello che li accomuna è una rabbia fine a se stessa che trova sfogo in azioni scriteriate senza ragioni o inibizioni e che ha come catalizzatori alcool e droga.

A volte sembra che non abbiano coscienza delle loro azioni, come se fosse virtuale, alla stregua del mondo social che frequentano, e che nel confronto con la realtà non abbiano dei riferimenti a cui ancorare il senso del proprio sentire e del proprio agire.

Io credo che siamo davvero di fronte ad un fenomeno sociale ormai patologico, rispetto al quale non ci si può limitare al semplice dovere di cronaca e ad una mera indignazione, derubricandolo come un “caso”, perché la frequenza con cui si presentano certi episodi è ormai tale da farlo emergere in tutta la sua evidenza.

C’è qualcosa che non va nel processo evolutivo di questi ragazzi, per capire come intervenire e correggerlo va compreso nelle sue cause profonde. Non è solo questione di noia, come qualcuno dice liquidando la questione. Le ragioni di un fenomeno sociale vanno sempre cercate tra gli elementi di quel sistema sociale.

C’è un’emergenza sociale in corso a cui dobbiamo rivolgere un’attenzione prioritaria che coinvolga non solo i principali agenti di socializzazione, come famiglia e scuola, ma anche le istituzioni e soprattutto i mezzi di comunicazione. Non ultima la politica, certo, che deve occuparsi del futuro di una società. E cosa lo è più di loro?

Duecento giovani, bastoni e pugni: «Guerrieri della Notte» a Nichelino. Massimiliano Nerozzi Il Corriere della Sera il 16 gennaio 2022.   

Con il buio pesto delle sette della sera, pare un fotogramma da I guerrieri della Notte sabato in piazza Aldo Moro, dietro il supermercato Coop, a Nichelino: tra decine di ragazzini, tutti minorenni, pronti a menarsi a cazzotti e con bastoni raccattati per strada. Non va a finire come nel film di Walter Hill, cioè con pericolose maxi risse, solo grazie all’intervento delle pattuglie dei carabinieri. Morale: 52 giovani, tra i 13 e i 16 anni, identificati dai militari, e due giovani finiti al pronto soccorso, seppur solo per lievi escoriazioni. Ma lo scenario era ben più vasto, con un centinaio di ragazzi, in maggior parte di origine nordafricana, arrivati da Barriera di Milano e da altri quartieri a nord di Torino proprio per sfidare un’ottantina di coetanei, residenti in paese. Motivo della manesca tenzone, un regolamento di conti, forse per una precedente aggressione avvenuta nel periodo natalizio alle giostre, sempre a Nichelino.

«Sicuramente qui abbiamo qualche difficoltà per baccano notturno — dice il sindaco, Giampietro Tolardo — invece episodi come quello di sabato purtroppo succedono in tutte le aree metropolitane, per dinamiche tra quartieri diversi». Quindi: «Non sono preoccupato, però già da tempo con l’associazione Large Motive stiamo promuovendo un’educazione di strada, cercando di occuparci di politiche e disagio giovanile».

L’altra sera, come spesso avviene, l’appuntamento era stato concordato via social e pure per questo i carabinieri hanno sequestrato diversi cellulari per tentare di risalire all’identità di tutti i partecipanti. I gruppi dai quartieri nord erano arrivati, sugli autobus di linea, attorno alle 19, e avrebbero trovato ad aspettarli circa ottanta coetanei: impossibile non notarli, così diversi cittadini e lo stesso sindaco hanno avvertito il 112 che ha spedito sul posto pattuglie della tenenza di Nichelino, impegnate nei servizi di controllo del territorio, altri rinforzi dal comando provinciale. È iniziato il fuggi fuggi nelle vie limitrofe, con il regolamento di conti che s’è ridotto a piccole scaramucce, qua e là, ma appunto senza gravi conseguenze. Nessun danno a vetrine o arredi urbani, mentre i clienti di alcuni bar scappavano dal retro.

Da livornotoday.it il 16 gennaio 2022.

Un ragazzo e una ragazza ripresi in un video mentre fanno sesso a scuola. Il filmato diventa subito virale sulle chat degli studenti e, in qualche modo, arriva persino a qualche genitore nonché ai professori che informano la dirigenza scolastica dell'accaduto, da subito al lavoro per chiarire internamente la vicenda, tutelare i giovanissimi e, eventualmente, prendere i dovuti provvedimenti. 

Succede in un istituto superiore di Livorno nella mattina di ieri, venerdì 14 gennaio. Nel video, girato dall'esterno dell'edificio presumibilmente da qualche coetaneo e arrivato anche alla polizia postale, si vedono i volti dei due studenti a una finestra dell'ultimo piano della scuola mentre sembrano intenti a consumare un rapporto sessuale.

Spetterà adesso alla dirigenza scolastica approfondire la vicenda nel rispetto e nella tutela di tutti e ricostruire quanto successo all'interno della scuola.

Livorno, sesso a scuola e scandalo. Il video dalla finestra: chi sono i due amanti. Libero Quotidiano il 16 gennaio 2022.

Alla didattica a distanza due studenti di un istituto superiore di Livorno hanno preferito decisamente una lezione a distanza... ravvicinata. E proibita. Scandalo nel capoluogo labronico per il video, diventato subito virale nelle chat scolastiche e non solo, che immortala un ragazzo e una ragazza intenti a fare sesso tra le quattro mura della scuola. 

Succede tutto la mattina di venerdì 14 gennaio, spiega il sito Livorno Today. I due giovani travolti da irrefrenabile passione hanno pensato bene di scaldare il gelido clima di gennaio appartandosi e abbandonandosi a un fugace rapporto sessuale. Hanno però scelto una location rischiosa e decisamente incauta: non paghi di farlo nell'istituto, circondati da altri studenti, professori e bidelli, i due giovanissimi amanti hanno deciso di piazzarsi proprio davanti a una finestra. Così dall'esterno qualche curioso che per caso ha alzato il naso e guardato in direzione dell'ultimo piano, è riuscito a scorgere le sagome dei due, in atteggiamenti inequivocabile. E come sempre più spesso accade, il terzo incomodo ha girato il video e girandolo in rete alle proprie conoscenze.  

Risultato: il filmato del rapporto clandestino è arrivato in qualche modo ad alcuni genitori e agli insegnanti, che hanno subito informato la dirigenza scolastica per prendere i provvedimenti necessari e anche per tutelare i diretti interessati, minorenni. 

Antonio Socci e i giovani: "Ansia e solitudine, è la pandemia della disperazione". Libero Quotidiano il 17 gennaio 2022.

C'è un'altra pandemia in corso e stavolta colpisce soprattutto i giovani. È una pandemia esistenziale che ha conseguenze drammatiche. Da una recente ricerca, promossa dalla Fondazione Soleterre e dall'Unità di Ricerca sul Trauma dell'Università Cattolica di Milano, sulle conseguenze della tempesta Covid, emerge che il 17,3% degli adolescenti ascoltati pensa che sarebbe meglio morire o farsi del male. Il campione analizzato è piccolo (150 adolescenti fra i 14 e i 19 anni, interrogati a dicembre scorso su come hanno vissuto il lockdown e la pandemia), ma il panorama che ne emerge è davvero allarmante. Per esempio, il 40,7% di loro afferma di aver difficoltà a dare un senso a ciò che prova; il 34% dichiara di non saper controllare il proprio comportamento quando è turbato; il 69,3% dice che il trauma da pandemia è diventato parte della propria identità; il 34,7% fa fatica ad addormentarsi; il 12% afferma di non sentirsi in forma e il 36% di sentirsi triste. È chiaro che la condizione esistenziale dei giovani, già fragili e smarriti, si è drammatizzata con il Covid che ha messo a nudo le nostre giornate, ma c'era già una preesistente situazione di mancanza di proposte educative (per i giovani) e di vuoto di relazioni umane significative (per tutti). È

la grande pandemia spirituale delle nostre società occidentali. L'ha sottolineato nei giorni scorsi Davide Prosperi, attuale responsabile di Comunione e Liberazione, sul Corriere della sera. Ha scritto: «Già diversi anni fa il Surgeon General degli Stati Uniti, l'ufficiale sanitario dell'amministrazione, sosteneva senza esitazioni che la minaccia più grave alla salute pubblica non era il cancro o il diabete, ma la solitudine. Gli studi degli economisti Anne Case e Angus Deaton sulle "morti per disperazione" mostrano i nessi fra la riduzione dell'aspettativa di vita in alcune fasce della popolazione americana e il diradarsi dei legami sociali. Quante volte ci siamo ripetuti, riecheggiando le parole del Papa, che nessuno si salva da solo». Il problema da esistenziale diventa medico. Anche un recente rapporto Unicef ha sottolineato la necessità di prevenire o affrontare l'insorgere dell'ansia e della depressione fra i giovani. Si è rilevato addirittura che il 13% dei giovani tra 10 e 19 anni, nel mondo, vive con una diagnosi di disordine mentale (cioè ha avuto un aiuto psichiatrico o cose simili). È un dramma che finora non è stato considerato e studiato come si doveva, pure dalla medicina. Ma è grave. Anche perché secondo alcuni ricercatori la depressione può legarsi a patologie come infiammazioni, asma o malattie cardiovascolari. Risulta inoltre che il suicidio sia, nel mondo, la quarta causa di morte negli adolescenti fra 15 e 19 anni (dopo gli incidenti stradali, la tubercolosi e la violenza interpersonale): in Europa e Nord America è la seconda. C'è chi crede che la risposta possano essere dei corsi nelle scuole per l'incremento di "life skills", le abilità nella gestione delle emozioni e dello stress: dovrebbero dare capacità di adattamento, di far fronte alle sfide della vita e poi pensiero critico e creativo. Come se «il guazzabuglio del cuore umano» si risolvesse con una tecnica "americana".  

AZIENDALISMO - Il Parlamento sta decidendo di avviare già dal prossimo anno questa sperimentazione. Sarà uno spreco di soldi e ore scolastiche? Forse sì. Sembra un approccio molto aziendalista, che divide la persona in parti da rendere più efficienti. L'uomo invece è uno: la fuga di Enea, la foresta oscura di Dante o le vicende di Renzo e Lucia fanno capire la nostra vita ed esprimono in parole le nostre emozioni. La fatica dello studio della matematica o del greco o della chimica impone una disciplina anche fisica (diceva già Gramsci) che porta controllo di sé e dello stress. E sono le stesse materie curriculari che devono dare capacità critiche e creative. Del resto quali ricerche sono alla base di questa sperimentazione? Nella comunità scientifica non ci sono pareri concordi. Un recente editoriale di Nature (7 ottobre) si è occupato della generale situazione di disagio giovanile (anche dei problemi di ansia e depressione) arrivando a conclusioni deludenti. Giancarlo Cesana, medico e docente universitario con molti titoli specifici (fra l'altro, anch' egli per anni responsabile di Comunione e Liberazione, una grande realtà giovanile) ha analizzato sull'ultimo numero di Tempi sia il rapporto Unicef che l'editoriale di Nature ed ecco il suo giudizio: «il mio commento è che per un problema effettivamente grave e urgente quale il peggioramento della salute mentale delle giovani generazioni il contributo degli scienziati, stando all'editoriale di Nature, appare veramente scarso e prospetticamente povero... È completamente tralasciata la considerazione dell'educazione e della libertà. 

La libertà che come scopo ed esito dell'educazione non è fare quello che si vuole, fosse anche la scienza, ma adesione al vero. Forse che l'aumento dell'ansia e della depressione nei giovani possa essere la conseguenza di una educazione mancante o sbagliata, di una libertà monca, non adeguatamente utilizzata? Forse che la questione non è, o non è semplicemente scientifica? Non sono domande da poco, visto che la maggioranza delle persone, anche quelle colte come gli scienziati, consapevolmente o di fatto, pensano diversamente e che i giovani continuano a stare peggio». Il dilemma in sostanza riguarda la stessa condizione umana. Albert Camus, che vinse il Nobel per la letteratura a 44 anni, iniziava "Il mito di Sisifo" con queste drastiche parole: «Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto - se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie- viene dopo. Questi sono giuochi: prima bisogna rispondere». Al di là della provocazione filosofica sul suicidio, l'uomo ha bisogno di scoprire il senso dell'esistere, di incontrare una proposta (in famiglia, a scuola, nella società) o un volto che indichi uno scopo esauriente per vivere, uno scopo che affascini e risponda alle aspettative e alle domande. Altrimenti si è smarriti e infelici. Ci si ammala del male di vivere perché «il cuore dell'uomo è un abisso» (salmo 63).

·        Gli Hikikomori. 

Marco Crepaldi (Hikikomori Italia): “Nel nostro Paese ci sono circa 100mila ragazzi reclusi in casa”. Lisa Pendezza il 29/03/2022 su Notizie.it.

Marco Crepaldi, psicologo e fondatore dell'Associazione Hikikomori Italia, fa luce sul fenomeno dei ragazzi chiusi in casa per scelta. 

Negli ultimi due anni siamo stati abituati a familiarizzare con parole come lockdown, quarantena e isolamento. Ma c’è anche chi della reclusione ha fatto uno stile di vita molto prima che il Covid entrasse a far parte della nostra vita: i cosiddetti hikikomori.

Ne abbiamo parlato con Marco Crepaldi, psicologo e fondatore dell’Associazione Hikikomori Italia. 

Partiamo dalla domanda più ovvia: chi sono gli hikikomori e cosa significa questa parola?

Questa parola nasce in Giappone e viene usata per identificare quelle persone che si isolano dalla società e che passano tutto il tempo in casa o addirittura nella propria camera da letto. Possiamo definirli casi di isolamento sociale giovanile. È un fenomeno originariamente individuato in Giappone, ma che ha le stesse caratteristiche in casi anche nel resto del mondo, Italia compresa.

È un fenomeno che nasce in adolescenza ma, non avendo una data di scadenza, può durare potenzialmente tutta la vita. Nasce tra i giovani, ma purtroppo riguarda sempre meno giovani.

Nel senso che diventa cronico?

Esattamente. L’età media di inizio è intorno ai 15 anni, ma è una condizione che tende a cronicizzarsi perché si autoalimenta. L’isolamento ha origine nell’ansia sociale, nella paura del giudizio, nella sensazione di non riuscire a legare.

La tendenza alla solitudine non fa che peggiorare la situazione: più si sta isolati, più si fa fatica ad uscirne in un circolo vizioso che può durare anche tutta la vita. In Giappone ci sono hikikomori over 40 che hanno cominciato in adolescenza.

Quanti hikikomori si stima che ci siano in Italia?

A differenza del Giappone, non abbiamo un sondaggio statale. Noi, come associazione, stimiamo un centinaio di migliaia di casi.

Sicuramente il problema è incredibilmente diffuso, riceviamo decine di richieste di aiuto ogni giorno.

Sono numeri impressionanti per un fenomeno di cui si parla così poco.

È una bolla che prima o poi esploderà. Non se ne parla abbastanza contando che è un problema che crea tanti disagi agli hikikomori stessi e alle loro famiglie. Nei prossimi anni dovremo per forza parlarne di più.

Hai detto che l’età media di inizio è intorno ai 15 anni, quindi ancora in anni di obbligo scolastico. Come funziona in questi casi? Non c’è un intervento degli assistenti sociali?

Capita, purtroppo, ma non è un problema di mancanza dal punto di vista genitoriale. È vero che c’è l’obbligo scolastico ma c’è anche la possibilità per i ragazzi di andare avanti in forme alternative, per esempio in forma domiciliare. C’è infatti un aumento di casi di home schooling. Questo comporta un aumento dell’aggravio del lavoro dei genitori. In altri casi, il ragazzo non accetta neanche questo tipo di servizio e si chiude completamente nella propria camera da letto e a questo punto non c’è molto che si possa fare. Le armi che si hanno sono poche.

Anche perché non basta aprire a forza la porta della camera per mettere a tacere il disagio profondo che queste persone sentono.

Esatto, serve un percorso psicologico, serve pazienza e un intervento multidisciplinare che coinvolge anche psichiatri ed educatori, oltre naturalmente a insegnanti e genitori.

Nel caso in cui il ragazzo non collabora e non vuole uscire neanche dalla propria stanza, come si interviene?

Questo è il grande problema. Chi ne soffre non chiede aiuto, quasi mai. Quando c’è una completa chiusura da parte del ragazzo l’unica strada è lavorare sui genitori per dargli gli strumenti per aiutare il figlio. In casi estremi e gravissimi si può pensare a un intervento coatto, ma credo che sia più grande il rischio del beneficio nel caso degli hikikomori.

Com’è generalmente la famiglia di un hikikomori? Hai notato dei pattern ricorrenti? Ci sono famiglie con una predisposizione maggiore a questo tipo di situazione?

Spesso gli hikikomori hanno una famiglia molto apprensiva, in particolare la madre, mentre il padre ha un profilo già emotivamente fragile e incapace di costruire un rapporto con il figlio. Questo tipo di rapporto sfavorisce l’autonomia del figlio e il passaggio dall’adolescenza all’età adulta inteso come step evolutivo e psicologico. Spesso sono famiglie con un alto grado di scolarizzazione e questo porta a un’ulteriore pressione sul figlio per essere all’altezza delle aspettative.

Forse anche per questo – la tendenza all’eccellenza e la pressione sociale – è un fenomeno particolarmente diffuso in Giappone.

Assolutamente sì, non è un caso. Il Giappone ha una società molto competitiva, ma in realtà tutte le società lo sono. Il successo personale è sempre più una nostra preoccupazione, ci si sente sempre meno belli, bravi e felice degli altri. Un hikikomori non è altro che un ragazzo che si nasconde e che cerca riparo da questo tipo di pressione e di alte aspettative interiorizzate.

Questo disagio e questa difficoltà a integrarsi, a stare al passo con gli altri, è qualcosa che tutti prima o poi provano. Per gli hikikomori esiste una sorta di spettro che comprende vari gradi di “disagio” o c’è una linea netta di demarcazione?

Hikikomori non è al momento una diagnosi, è un fenomeno sociale ma è stato studiato a livello scientifico cross-culturale.

Ci sono delle comorbidità?

L’ansia sociale può essere spesso associata ad ansia, depressione, apatia, tendenza all’autolesionismo, alla dipendenza da internet come conseguenza dell’isolamento, disturbi dissociativi e così via.

A proposito della dipendenza da internet, è l’unico modo per avere un contatto con il mondo esterno. Togliere anche quello può essere uno stimolo a uscire di casa o invece è fonte di peggioramento?

È un errore molto comune e altamente sconsigliabile, si ottiene solo una maggiore aggressività del ragazzo verso se stesso con atti autolesionistici o verso i genitori. La dipendenza da internet, in ogni caso, non è il problema ma una conseguenza dell’incapacità di integrarsi con gli altri, quindi il problema a monte non è comunque risolto.

Ci sono degli hikikomori che tramite internet riesce a lavorare da remoto?

È molto raro che un hikikomori lavori, proprio perché è un disagio sociale che allontana da qualsiasi tipo di impegno. Hanno appreso la fuga come meccanismo di difesa davanti a qualsiasi tipo di difficoltà.

Chiaramente è un disagio che colpisce anche la famiglia e gli amici, gli hikikomori fanno male a tutti quelli che stanno attorno a loro. Ma se io fuori casa sto male e dentro sto bene, stare in casa è malattia? Perché non continuare?

Ci può essere una prima fase di “luna di miele” in cui ci si convince che l’isolamento sia la soluzione ai propri problemi, ma è quasi sempre un’illusione perché sul lungo termine è altamente improbabile che si possa tenere questo stato di benessere. Al contrario, ci si sente fuori da tutto, dipendente dalla famiglia. La scelta dell’hikikomori non è sostenibile se non tramite i soldi della famiglia. In Giappone danno una pensione agli hikikomori con genitori anziani e non più in grado di lavorare.

Qui in Italia?

Anche se prendessero il reddito di cittadinanza, il punto è: sono in grado di utilizzare questi soldi, di badare a se stessi, banalmente cucinare, pagare le bollette eccetera? Oltre al fatto che, anche se è vero che esistono persone più solitarie di altre, nessuno è fatto per stare da solo tutta la vita.

Qual è l’età media degli hikikomori in Italia?

Tra i 20 e i 25 anni, molti iniziano durante l’università. È un periodo molto difficile perché è la fase di inserimento nel mondo adulto e può diventare difficile trovare la motivazione per fare qualsiasi cosa.

È prevalente nei maschi o nelle femmine?

Al 70-80% nei maschi.

Come mai?

Ci sono vari fattori. Il principale è che l’uomo è educato a tenersi molto di più le cose dentro per non mostrarsi debole, tende a non chiedere aiuto, anche a diventare orgoglioso nel proprio dolore. Per questo costruiscono meno relazioni intime a cui confessare una propria debolezza. Questa scarsa competenza emotiva porta a volte ad avere una scarsa cognizione della propria condizione. Chiedono molto meno aiuto anche agli psicologi.

Una conseguenza della mascolinità tossica.

Io parlo molto anche di difficoltà maschili e questo ha portato anche a qualche fraintendimento. La mascolinità tossica danneggia sia gli uomini che le donne, purtroppo è un tema su cui le persone tendono a polarizzarsi ma spero che col tempo si capisca che, se è vero che gli uomini hanno tanti vantaggi in questa società, è anche vero che non riescono a emergere tante debolezze come emergono invece quelle del genere femminile.

C’è anche una distinzione a livello geografico?

Sì, sembra che il fenomeno sia più diffuso nel Nord Italia. Quello che accomuna tutti questi ragazzi è la scarsa motivazione, insufficiente a superare la paura di uscire di casa e affrontare le proprie difficoltà. Ma se trovano qualcosa di abbastanza stimolante possono trovare di nuovo degli stimoli a uscire dalla propria stanza.

Tu nella tua vita hai mai vissuto una fase simile alla condizione di un hikikomori?

Non ho mai nascosto di aver vissuto una fase difficile. Non mi sono mai isolato del tutto, perché ne avevo davvero paura: è una cosa che se uno arriva a fare è perché non ha alternativa. Poi ho avuto la fortuna di trovare degli amici che sentivo molto affini e questa è una fortuna che molti hikikomori non hanno. L’hikikomori diventa tale quando perde i contatti con il gruppo di amici e da lì è difficile tornare indietro perché subentra la vergogna e la sensazione di aver ormai perso troppo tempo. Ecco perché è importante intervenire presto, per non perdere completamente i rapporti sociali. 

Hikikomori, chi sono i ragazzi che non escono mai dalla stanza. Favij: «Non si sentono capiti». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2022.

Arriva il documentario n cui si racconta il fenomeno dei ragazzi auto reclusi. Lo youtuber: anch’io sono stato depresso, loro sono persone che si sentono inutili.  

Il termine giapponese hikikomori significa letteralmente stare in disparte. Nel tempo, sono stati chiamati così quei giovani che decidono di ritirarsi dalla vita sociale, chiudendosi nella propria stanza senza contatti con il mondo esterno, se non attraverso un pc. Un fenomeno con numeri importanti: riguarda oltre centomila persone solo in Italia, senza contare tutte quelle di cui non si ha conoscenza. Ragazzi che scelgono di rifugiarsi in una sorta di limbo, dove il tempo non conta più, in cui la realtà diventa altra e gli unici rapporti possibili sono quelli virtuali. Debutta oggi, alle 21.15, su Sky Documentaries (e in streaming su Now) un documentario che racconta quattro di questi giovani — Eva, Alessandro, Michele e Davide —, entrando lì dove nessuno ha accesso: le loro camere. Essere Hikikomori. La mia vita in una stanza, scritto e diretto da Michele Bertini Malgarini e Ugo Piva mostra dunque le vite di chi non sa vivere fuori dal recinto che da solo si è costruito. Un malessere subdolo, le cui ragioni sono spesso difficili da riconoscere.

Lo sa bene anche chi dalla sua stanza è poi riuscito a parlare a tutto il mondo, Lorenzo Ostuni, in arte Favij. Seguito da oltre sei milioni di persone su YouTube, «creatore di contenuti web» da quando aveva 16 anni (oggi ne ha 26), Favij conosce bene l’impatto che può avere la realtà virtuale su quella reale. «Anche io a lungo non mi sono sentito capito. Succede anche agli hikikomori, persone che di fatto si sentono invisibili, inutili. Hanno perso la speranza, per questo è molto importante far capire loro che possono essere ascoltate». La psiche può innescare meccanismi complessi: «Io, ad esempio, faccio un lavoro splendido ma chiuso nella mia stanzetta. Mi capita di stare a lavorare notte e giorno a un progetto, a un video, perdendo la cognizione del tempo. E andare avanti così per un po’, senza uscire, per giorni, anche quattro, ricordo... Mi è successo poi di avvertire un senso di disorientamento alla fine, una volta terminato il tutto, in cui mi chiedevo: e adesso? Come impiego le mie giornate?».

Un malessere che, ammette, «di base ho sempre avvertito, in cuor mio. Da un annetto ho deciso di lavorarci su. Mi sono accorto ad esempio che per me il lockdown non è stato un problema: sono abituato a stare chiuso in casa. Nella fase dura io non sono uscito un giorno: né per fare la spesa o una passeggiata. Mai. E non era un problema». Ed è così che uno degli YouTuber più amati ha capito viceversa di avere un problema: «Era come se tutte le emozioni si allineassero e avessero lo stesso gusto. Le mie giornate erano tutte uguali: mi alzavo, facevo quello che dovevo fare, guardavo un po’ di tv e andavo a dormire. Senza entusiasmi. Era depressione, certo». Per risollevarsi ha deciso di fare psicoterapia: «Mi ha dato gli strumenti per capire che ho già fatto molto più di quanto mi sarei aspettato. Sono una brava persona, questo deve bastarmi per non curarmi del giudizio della gente. L’esposizione aveva per me questo rovescio della medaglia e ho capito che la tecnologia mi portava lontano dal vivere come volevo».

Se gli hikikomori non avessero la tecnologia uscirebbero prima dal loro rifugio? «Forse. Io ho cercato di ridurre l’uso che ne facevo, preferendo la vita reale. Ora viaggio il più possibile. Di base ho imparato ad ascoltarmi: sembra un’ovvietà ma è molto difficile riuscirci». Quando ha capito che andava meglio? «Quando non chiamavo più ogni sera mio padre in preda a paure assurde: tutte ipotesi di cose che mai sarebbero successe». Un traguardo che lo spinge a dire a chi deve ancora fare quel passo «di non aver paura di farsi aiutare. E di guardare gli schermi solo quando qualcosa ci interessa davvero e non per inerzia. Se no è il momento di spegnerli e uscire».

·        La Vecchiaia è una carogna…

GLI OCCHI DEL BOOMER. Adolfo Spezzaferro su L’identità il 29 Novembre 2022

Negli anni Ottanta, in piena moda dei cosiddetti paninari – i piumini Moncler, le Timberland con la suola con il carrarmato, i jeans Levi’s 501, i burinissimi cinturoni El Charro – imperversavano i capi contraffatti. I meno abbienti che volevano seguire la tendenza indossavano abiti e accessori taroccati. Il timore era sentirsi tagliati fuori, di non piacere alle ragazze perché vestiti in modo non à la page. Un meccanismo di certo non inedito ma che in quegli anni era preponderante, perché frutto della prima grande ondata di moda giovanile fortemente orientata dal business della pubblicità, delle riviste, della tv, fino ad arrivare al cinema, con dimenticabilissimi film come Sposerò Simon Le Bon (il cantante della band Duran Duran, che al di là della moda inguardabile suonava alla grande). Chi vi scrive negli anni ’80, da bravo boomer, era un adolescente che ovviamente non seguiva la moda (anche se però aveva rivisitato il dress code di sottoculture importate dal Regno Unito con un ritardo di diversi anni), che non andava da Burghy ma si dimenava a suon di punk rock. Oggi siamo alle prese con un qualcosa di altrettanto taroccato – sempre per poter essere di tendenza, alla moda o più banalmente accettati – ma di più costoso e pure più assurdo. I finti follower sui social: gli aspiranti influencer non possono avere pochi “seguaci” e quindi almeno all’inizio se li comprano. E che siano finti lo si capisce benissimo andando a vedere i loro profili dai nomi “esotici”. Ecco, ancora una volta la moda (in questo caso social) non è segno di eleganza. Ma roba da poveracci (dello spirito).

Gemma Gaetani per “La Verità” il 30 Agosto 2022. 

Luciano Pignataro è critico gastronomico ed enologico del Mattino di Napoli, anima di 50 Top Pizza, del sito Lucianopignataro.it, seguitissimo sul Web e, sintetizzando, si può definire l'ambasciatore della Campania in Italia, nel mondo e anche alla stessa Campania, spesso inconsapevole del suo grandissimo valore. 

Per chi non lo conosce, può raccontarci il Cilento?

«Il Cilento è una grande subregione della Campania, precisamente tutto il suo territorio meridionale che, grossomodo, va da Paestum, che ne è la porta settentrionale, a Sapri, dove ci fu lo sbarco di Carlo Pisacane e comprende posti molto conosciuti al mondo come Palinuro, Velia, sede della scuola eleatica, la Certosa di Padula. Sono territori ancora integri e sono strettamente collegati al vicino Parco del Pollino, tra Basilicata e Campania, con cui formano un grandissimo polmone verde».

Lei ha notato un fenomeno particolare in queste zone

«Sì, il Cilento è un'area blu, cioè presenta una grandissima percentuale di centenari.

Il fatto ebbe un grande risalto mediatico nel 2016 segnatamente ad Acciaroli, frazione di Pollica, se ne parlò anche sulla stampa anglosassone. Da qui nacque l'idea di realizzare un libro sulla longevità studiando il metodo Cilento». 

La notizia erano i tanti centenari cilentani?

«Sì, la media di vita in Cilento è più alta di 5 anni della media italiana, già molto alta.

Perlomeno prima del Covid. La media di vita italiana è superiore agli 80 anni, in Cilento è di 85 per gli uomini e 92 per le donne».

Lei si è occupato degli americani Ancel e Margaret Keys. Che legame avevano con il Cilento?

«I Keys codificarono proprio in Cilento la dieta mediterranea, una dieta spazza arterie che aiutava tutto il nostro apparato cardiocircolatorio a mantenersi in forma, a differenza di altri stili di vita soprattutto anglosassoni che prevedono molti grassi animali, molti cibi contraffatti, molto cibo industrializzato. Nel corso degli anni abbiamo scoperto che questo tipo di cibo non è pericoloso solo per l'apparato cardiocircolatorio ma può originare numerose forme tumorali, colon, intestino, fegato». 

Quando si identifica una blue zone, si indaga sui motivi che determinano questa longevità. Lei ha esteso il significato di dieta cilentana, raccontandola come una dieta esistenziale. Quali sono i suoi 5 pilastri?

«Una "dieta" comportamentale. I cui 5 pilastri sono modalità di vita ben conosciuti, che noi avremmo come innate ma che purtroppo stiamo perdendo. Il primo è il movimento: noi siamo una macchina pensata per muoverci in continuazione, muoversi poco è molto dannoso per l'organismo. Come in tutte le civiltà rurali, nel metodo Cilento ci si mantiene in attività fino a tardi.

Nelle professioni urbane, una delle più longeve è quella dell'avvocato, perché continua a muoversi ed esercitare fino a tarda età, anche oltre gli 80 anni. Lavorare moderatamente, senza stress, contribuisce a mantenere il corpo in attività. Secondo pilastro, il cibo. Terzo, tenere in piedi relazioni sociali. Noi siamo animali da branco, abbiamo conquistato la Terra lavorando di squadra: non siamo forti, non siamo veloci, non abbiamo grandi qualità naturali, però abbiamo sviluppato questa capacità relazionale che nel corso degli anni ci ha allungato la vita e che rende più facile affrontare le situazioni di difficoltà.

Quarto, dare il giusto tempo alle cose, il riposo, inteso non come assenza di attività ma come parte integrante di un nostro bisogno di stare bene e non essere unicamente e sempre assorbiti dal lavoro concepito come valore assoluto». 

L'ossessione tutta contemporanea della produttività

«Esatto. Ma bisogna darsi il tempo giusto. Anche per coltivare il quinto pilastro che è la spiritualità, intesa non solo come religiosità. Certamente, se uno crede è notevolmente avvantaggiato, ma spiritualità vuol dire anche coltivare il piacere di andare a vedere una mostra, di guardare un paesaggio, coltivare tutta una serie di emozioni interiori che non devono essere finalizzate al lavoro. Una vita completa, insomma, che abbiamo perso progressivamente dalla Rivoluzione industriale in poi perché abbiamo accentuato l'aspetto della specializzazione e dell'iperspecializzazione. 

Ricordiamo tutti l'alienazione del famoso film di Charlie Chaplin Tempi moderni. Si tratta di recuperare tutte le funzioni. Ecco perché "metodo Cilento". Che non vuol dire voler tornare indietro alle società rurali di un tempo, ma significa avere l'intelligenza di darsi il giusto tempo anche nelle grandi città». 

Quindi non è tanto, o non è solo, un Dna cilentano, ma è una modalità esistenziale cilentana che noi possiamo esportare anche fuori dal Cilento?

«Il Dna è importante, fa tanto, però fa tanto anche come si vive. Il libro è stato scritto a quattro mani e gli inserti scientifici del professor Vecchio spiegano studi precisi, statistici. Almeno un terzo di alcune gravi malattie dipendono dal modo di alimentarsi, tante malattie dipendono dal non fare movimento e dal non seguire questi precetti. Ecco perché è importante adeguarsi».

Mi ha colpito la parte in cui lei spiega che la dieta cilentana aiuta a prevenire e contenere la demenza senile e in Cilento ci sono meno casi di Alzheimer rispetto alla media italiana. Quindi, si invecchia di più e meglio, perché il problema di essere anziani è anche quello di perdere brillantezza cerebrale e cognitiva.

«La cosa fondamentale, forse, più che vivere a lungo è vivere bene. È importante tenersi in attività, sentirsi vivi, fare qualcosa. Per esempio, molti anziani continuano a coltivare l'orto. L'orto dà una soddisfazione incredibile.

Quando tu la mattina hai fatto l'orto per due ore, senti di aver fatto qualcosa di positivo e questo sentimento di benessere interiore aiuta a stare meglio». 

Oltre a fornirci prodotti biologici autoprodotti «Ça va sans dire...». Ci riassume la dieta cilentana?

«Parte dal presupposto che l'uomo è un animale onnivoro e quindi niente è proibito. Però bisogna seguire le proporzioni, l'equilibrio. È la famosa piramide, che recentemente è stata anche aggiornata, in cui alla base ci sono le cose che dobbiamo mangiare in abbondanza come verdura, frutta, cereali, legumi. Poi piano piano si sale e all'ultimo ci sono gli zuccheri e la carne, che non sono alimenti proibiti, ma da prendere nelle giuste proporzioni». 

Con cautela?

«Noi con la carne abbiamo un problema: quello che era il cibo dei ricchi è diventato il cibo dei poveri».

Impoverendosi, anch' essa a volte, qualitativamente

«Sì, con gli allevamenti intensivi. Con questo modello alimentare anglosassone basato sui grassi animali che si è imposto un po' ovunque ci sono state gravissime conseguenze, gravissime patologie che si sono diffuse. E una qualità della vita molto bassa per gli animali e pessimi effetti per l'ambiente. La carne sicuramente non va demonizzata, noi siamo animali che mangiano carne tant' è vero che la digeriamo, però dev'essere misurata».

Forse ne mangiamo troppa e di cattiva qualità?

«Esatto. La carne si deve accompagnare alle fibre, che aiutano anche la digestione. Queste sono novità che la scienza e la nutraceutica stanno fornendo. Per esempio, pomodoro più olio d'oliva non è un uno più uno che fa due, ma tre, nel senso che queste due sostanze interagendo fra di loro danno ulteriori benefici rispetto alla sola somma delle due sostanze prese singolarmente. Questi precetti sono il risultato di una pratica che c'è sempre stata ma adesso ne conosciamo le conseguenze scientifiche». 

È la famosa sapienza popolare. In Cilento mangiano da sempre come gli scienziati oggi ci dicono che ci farebbe benissimo mangiare.

«Sì. Mangiavano, perché le abitudini alimentari sono cambiate anche qua. Sicuramente stando al Sud è molto più facile seguire questi precetti perché nel patrimonio della gastronomia napoletana e meridionale in genere la verdura, gli ortaggi, i legumi, hanno sempre una grandissima importanza, non sono alimenti di complemento, spesso hanno una centralità, pensiamo alle paste con i legumi che fanno tanto nella tradizione napoletana e che sono piatti vegetariani, vegani, se vogliamo, naturali, mangiati continuamente. Bisogna ritornare a questo.

Fondamentale è saper fare la spesa ogni giorno, mangiare alimenti di stagione. È fondamentale per noi e per chi produce questi alimenti. Invece noi abbiamo perso questo contatto con la produzione del cibo, abbiamo l'idea che possiamo avere tutto sempre ma è un'idea profondamente sbagliata dal punto di vista alimentare». 

Tanti non conoscono la stagionalità reale, pensano che la natura funzioni così come la vedono esposta al supermercato dove troviamo tutto fuori stagione

«Avere i limoni d'inverno, fuori stagione, vuol dire importare i limoni argentini che sono seppelliti nei solfiti proprio per avere una vita più lunga. Dobbiamo stare molto attenti quando scegliamo e fare la spesa ogni giorno vuol dire conoscere i prodotti ogni giorno. Non si può trovare la scusa che non abbiamo tempo per questo».

Hygge danese, ikigai giapponese, zen, buddhismo: siamo spesso affascinati dalle filosofie di vita non italiane ma nel nostro paese abbiamo modelli validi e importanti come appunto il modello cilentano.

«È il modello della dieta mediterranea, che è il più compatibile dal punto di vista del rapporto con l'ambiente e del rapporto con la salute» 

Molochio, la California studia i segreti dei centenari calabresi. EDVIGE VITALIANO su Il Quotidiano del Sud il 26 agosto 2022.

La Calabria, Molochio, i segreti dei suoi “centenari” al centro di uno studio in California

In Calabria, a Molochio, si vive cent’anni. Non da soli, come caso unico, ma con gli amici. Il viaggio alla scoperta di come la longevità sia diffusa porta dritti dritti in Aspromonte dove si trova una delle più alte concentrazioni di ultracentenari d’Italia e per questo rappresenta un caso di studio per scienziati da tutto il mondo.

MOLOCHIO E I SUOI CENTENARI AL CENTRO DI UNO STUDIO CHE PARTE DALLA CALIFORNIA

Il territorio è protagonista del primo studio randomizzato in Italia sul ruolo di una particolare nutrizione che sposa la scienza e la dieta dei centenari locali. Uno studio che verrà condotto nei prossimi 18 mesi dalla Fondazione Valter Longo nata nel 2017 su iniziativa del professore di cui ha il nome con l’obiettivo di portare avanti attività di ricerca e cura in relazione alle problematiche legate all’alimentazione, prendendo come punto di riferimento i regimi alimentari dei cluster di popolazione più longevi e cercando di diffondere una corretta cultura del cibo.

CITTADINANZA ONORARIA PER VALTER LONGO

In attesa che lo studio in programma e i suoi risultati vengano raccolti, elaborati e resi noti oggi il Comune di Molochio in provincia di Reggio Calabria, ospiterà la cerimonia di consegna della cittadinanza onoraria a Valter Longo, Presidente della Fondazione, Direttore del Programma di Ricerca su Longevità e Cancro presso l’IFOM di Milano e Direttore dell’Istituto di Longevità alla University of Southern California, nonché uno dei massimi esperti mondiali di tematiche legate alla nutrizione, alla genetica e all’invecchiamento.

Come si legge nelle motivazioni del conferimento della cittadinanza onoraria, Valter Longo “ha condotto delle ricerche importantissime sulla longevità a Molochio ed è arrivato a capire che questa comunità è una delle più longeve al mondo. Facendo questo ha portato il piccolo centro aspromontano alla ribalta delle cronache internazionale e Molochio oggi, grazie a lui, è conosciuto in tutto il mondo come ‘il paese dei centenari’.

Ancora oggi il professore, che fieramente ha sempre professato le sue origini molochiesi, conduce studi scientifici sulla nostra popolazione ed è impegnato in studi clinici indirizzati a diminuire l’insorgenza di determinate patologie”.

CHI È VALTER LONGO, LO SCIENZIATO CHE STUDIA LA LONGEVITÀ ORIGINARIO DELLA CALABRIA

Una storia con la valigia in mano quella del legame tra il paese dell’Aspromonte e lo scienziato come tante che accompagnano narrazioni legate al Sud d’Italia. Longo classe 1967, figlio di calabresi, originari proprio di Molochio non ha dimenticato la terra d’origine. «La Calabria ha un passato di stile di vita longevo, con alcuni paesi, come Molochio, che sono testimoni della sua tradizione caratterizzata da una dieta povera di proteine e carne e ricca di legumi e ingredienti vegetali. Tuttavia, negli ultimi decenni, sotto la spinta della realtà postmoderna, la Calabria, come altre aree del Mediterraneo, ha lentamente abbandonato le proprie abitudini ed usanze per omologarsi a una realtà globale perdendo gradualmente molte tradizioni, cultura e stile di vita che racchiudono un’antica saggezza e che hanno contribuito a creare il mito di una dieta portatrice di salute e longevità.

Nel presente, la percentuale di bambini e adolescenti in eccesso di peso tra le più alte in Europa e le malattie croniche maggiormente presenti nella popolazione calabrese in età adulta ci deve far riflettere sull’importanza di ritornare ad una nutrizione che riflette sia questo patrimonio storico, ma anche molti dati scientifici necessari a massimizzare l’opportunità di vivere fino a cento anni sani», fanno sapere tra le altre cose dalla Fondazione Valter Longo.

MOLOCHIO E I SUOI CENTENARI STUDIATI ANCHE IN CALIFORNIA

Dati, percentuali, analisi e soprattutto lo studio presentato a Varapodio lo scorso 14 luglio che prevede l’adesione volontaria di un campione di almeno 500 partecipanti disposti a sottoporsi a cicli di regimi alimentari proposti dai nutrizionisti della Fondazione Valter Longo per una durata di circa 18 mesi.

L’”esperimento” «è monitorato da biologi nutrizionisti specializzati nella Dieta della Longevità della Fondazione Valter Longo che daranno ai partecipanti, che volontariamente aderiranno allo studio, le indicazioni su come sottoporsi gratuitamente al trattamento in questo percorso di miglioramento della propria condizione clinica».

Diversi gli elementi e i biomarcatori che saranno oggetto di analisi durante lo studio clinico allo scopo di comprendere gli effetti della Dieta della Longevità sui pazienti e sul loro stato di salute. Ma che cos’è la Dieta della Longevità? In poche parole è un tipo di alimentazione ideato da Longo basato su 5 pilastri della longevità con il duplice obiettivo di prolungare la gioventù il più a lungo possibile e minimizzare le malattie. Il regime dietetico si basa su un’alimentazione che unisce tradizione e scienza ma anche pratiche, come il digiuno: quello notturno, di 12 ore, e la dieta mima digiuno periodica (un ciclo di 5 giorni ogni tre mesi).

LA DIETA DELLA LONGEVITÀ PROMOSSA DA VALTER LONGO

«La Dieta della longevità è un tipo di alimentazione che unisce i cibi storicamente presenti sulla tavola delle persone più longeve alle scoperte scientifiche degli ultimi 30 anni – ha spiegato Valter Longo – L’alto numero di centenari che caratterizza alcuni paesi della Calabria, infatti, suggerisce che la Dieta della longevità, che cambia con l’età, abbia avuto un ruolo importante nei record di longevità raggiunti da Molochio, Varapodio e alcuni Comuni limitrofi. La Dieta della longevità prevede soprattutto alimenti di origine vegetale come i legumi, i cereali integrali, verdure, frutta a guscio e altri prodotti locali, tra cui i limoni.

Quanto ad alimenti di origine animale, fino ai 65 anni prevede principalmente il consumo di pesce 2-3 volte alla settimana, soprattutto azzurro e di piccole dimensioni, data la miglior qualità nutrizionale e la minor presenza di inquinanti, in particolare di metalli pesanti. Dopo i 65 anni di età, il quantitativo di proteine (ma anche la varietà dei cibi, anche di origine animale) può aumentare, per contrastare la perdita di massa muscolare e ossea che si ha con l’età. È fondamentale, però, essere seguiti da un nutrizionista come quelli che lavorano per la nostra Fondazione».

Alla tavola della longevità, per dirla col titolo di uno dei libri del professor Longo, dunque si può scegliere tra cereali, verdure, legumi, pesce, frutta a guscio ma anche i limoni. Non solo, l’uso dell’acqua locale rientra tra le abitudini di queste popolazioni e lo studio mira anche a valorizzarne il consumo.

LA CERIMONIA DI CONFERIMENTO DELLA CITTADINANZA ONORARIA

Ma torniamo alla giornata di oggi. La cerimonia per il conferimento della cittadinanza onoraria al professor Longo, avrà luogo alle 18.30 in piazza Mons. Quattrone alla presenza delle autorità e dei rappresentanti della società civile. Oltre al sindaco Marco Giuseppe Caruso, saranno presenti il presidente del GAL Batir, Emanuele Oliveri, il direttore di Confagricoltura Calabria, Angelo Politi, la presidente del Consiglio comunale, Vita Malivindi e il vicesindaco, Domenico Garreffa.

MOLOCHIO E I SUOI CENTENARI STUDIATI IN CALIFORNIA, L’OCCASIONE PER RISCOPRIRE UN PASSATO LONTANO

L’appuntamento istituzionale può essere anche un’occasione per un viaggio in un passato lontanissimo, alla scoperta di storie e leggende che ruotano intorno a Molochio il cui toponimo deriva dal greco malakos, da cui molokhion, in latino moloche con il significato di malva: fiori che si accompagnano ad alberi da frutto tipici della macchia mediterranea. In quello che viene anche chiamato l’antico giardino delle malve, ci si arriva costeggiando ulivi secolari e agrumeti, boschi collinari di castagno e via via salendo d’elci che nelle zone più interne somigliano a foreste quasi inaccessibili, faggi, pini larìcio e abeti bianchi.

Una vegetazione raccontata anche da Paolo Gualtieri, nel volume Sacro Trionfo Delli Santi di Calabria, edito nel 1610. Tra quelle pagine si accenna addirittura a un’erba così denominata: “Molochi, termine greco, che santo nella nostra favella suona, detto così dall’erba molochi, molto simile alla malva, della quale comandò Pitagora nei suoi simboli che si seminasse e si raccogliesse, ma non si mangiasse, mentre disse: “Herbam Molochen ferito, non tamen mandito”, quasi avesse voluto dire che le cose sante si devono propagare non consumare”.

MOLOCHIO E I SUOI CENTENARI, UNA STORIA DAL SAPORE ANTICO CHE SEDUCE LA CALIFORNIA

A Molochio dove tra l’altro sorge il primo Santuario in Italia dedicato alla Madonna di Lourdes inaugurato nel 1901, pure i modi di dire sono legati al passare del tempo. C’è chi ricorda, ad esempio, un detto in uso nella Piana di Gioia Tauro: “E’ cchjù vècchiu du’ Bambinedu ’i Mulòchiu!” (È più vecchio del Bambino di Molochio!). Il riferimento è alla statua di un Bambinello di legno scolpito e colorato, con il braccio destro in alto benedicente e con i capelli lunghi e ondulati.

L’opera viene attribuita a qualche artista di scuola napoletana del XVII secolo, o di data anteriore ed è conservata nella Chiesa Matrice “Santa Maria de Merula”.

Giordano Tedoldi per “Libero quotidiano” il 25 agosto 2022.

Ieri mattina, durante l'udienza generale nell'aula Nervi, concludendo la catechesi dedicata al tema della vecchiaia, papa Francesco ha dichiarato: «La morte fa un po' paura ma c'è sempre la mano del Signore, e dopo la paura c'è la festa», e ancora, rivolgendosi ai suoi "coetanei", cioè i "vecchie le vecchiette" come li ha chiamati non senza un sorriso sornione, ha ricordato che: «Gesù, quando parla del Regno di Dio, lo descrive come un pranzo di nozze, come una festa con gli amici».

Diciamolo pure: ieri papa Francesco ha fatto un elogio del trapasso, ha pronunciato, sia pure con le parole semplici, umili e dirette che gli sono proprie, un vero e proprio inno alla morte. Bisogna esserne sconcertati? Scandalizzati addirittura? Sarebbe un grave errore, e vorrebbe dire non capire la personalità del pontefice, molto più complessa e contraddittoria di quel che a volte vogliono far credere certi suoi adulatori.

Innanzitutto, papa Francesco è una personalità di profonda cultura, anche se non ama ostentarla e rifugge dalle citazioni dotte e nei suoi discorsi si astiene da speculazioni troppo sottili quali quelle del suo predecessore Ratzinger. 

E quindi non possiamo nemmeno escludere che, dicendo che il bello comincia con quel difficile passaggio che è la morte, abbia riecheggiato una splendida elegia del poeta americano Walt Whitman, "Quando i lillà fiorivano, l'ultima volta, nel prato davanti alla casa", all'interno della quale c'è una lunga sezione che celebra la "nera madre che sempre ci scivoli accanto con passo leggero", la morte appunto, che il poeta chiama "grande liberatrice", e della quale scrive: "Io canto gioiosamente i morti che fluttuano perduti nel tuo amoroso oceano, lavati dalle onde della tua beatitudine, o morte".

E pazienza se Whitman, che era un singolare personaggio con idee panteiste, non è precisamente un riferimento ovvio per il capo della religione cattolica; quando si ha a che fare con Bergoglio conviene non dare nulla per scontato, e liberarsi dei pregiudizi. 

Del resto, il papa ha semplicemente ribadito con parole apparentemente paradossali un concetto fondamentale della dottrina cristiana, e cioè che la "vera" vita, quella suprema, comincia dopo questa terrena. Da questo punto di vista, temere la morte, concepirla come l'annientamento assoluto, non è solo angosciante, ma è anche un atteggiamento profondamente anticristiano. 

Ecco allora che, rovesciando la prospettiva laica, che vede la vita su questa terra come l'unica a nostra disposizione, e dunque logicamente esalta la giovinezza e considera la vecchiaia una tragica sciagura, papa Francesco ha ricordato ai "vecchi e alle vecchiette" che lo ascoltavano che, da buoni cristiani, non solo non hanno nulla da temere, ma la loro età va vissuta con pienezza, emozione, senso di attesa trepidante, perché si avvicina il "bello", cioè, in termini cristiani, la vita eterna in comunione con Dio.

Vale la pena sottolineare che questo rovesciamento di prospettiva è benefico e salutare anche per chi cristiano non è, perché a forza di ossessionarsi solo sul l'aspetto strettamente fisico e materiale della nostra esistenza, e separando giovinezza e vecchiaia come due tronconi nettamente separati, in cui nel primo si gioisce (anzi si deve gioire, perché poi non si potrà più), e nel secondo si soffre ogni genere di pene, non può che rendere infelice anche il miscredente. 

Si può anche non arrivare al punto di dire che "il bello comincia con la morte", specialmente se non si è cristiani, ma certo la paura paralizzante del trapasso, il considerare la vecchiaia, e dunque i vecchi, solo come resti di un'esistenza che ormai ha perso tutto il suo gusto e non può che avviarsi in direzione di un inglorioso tramontare, non è certo qualcosa da auspicare.

Ben vengano dunque le parole rinfrescanti, provocatorie (ma in fondo, come abbiamo detto, perfettamente in linea con il pensiero cristiano) del pontefice. Parole che sono anche un notevole progresso rispetto alla comune rappresentazione che, della morte, il cristianesimo ha fornito ancora nel recente passato, e cioè di un passaggio tremendo, angoscioso, in cui non è affatto scontato che il povero peccatore incontri Maria, Cristo, e trovi la beatitudine, giacché potrebbe anche dover scontare un lungo soggiorno nell'inospitale landa infernale. 

Nei discorsi di Bergoglio, di questa orribile prospettiva non c'è traccia, e in questo sembra allinearsi a certi pensatori moderni: che il vero inferno sia già riscontrabile in questa vita, su questa terra. Di là, al confronto, di qualunque cosa si tratti, sarà bellissimo.

Fedez, Tortu e il potere dei nonni: «I nostri successi sono merito loro». Gaia Piccardi  il 24 agosto 2022 su Il Corriere della Sera

«Torno a fare il nonno, arrivederci». Nel commiato di Mario Draghi alle istituzioni c’era l’orgoglio d’appartenenza al più nobile mestiere non corporativo nel Paese in cui gli adulti diventano grandi senza mai abdicare al ruolo di nipoti. L’Italia è una Repubblica democratica fondata sui nonni, l’allungamento della vita li rende centrali nella geografia degli affetti di molti ventenni e trentenni, inclusi i protagonisti dello sport e le stelle dello spettacolo: all’ultimo censimento (luglio 2021) i nonni d’Italia erano 12 milioni, celebrati ogni anno il 2 ottobre e portati alla ribalta dai campioni olimpici di Tokyo, dai politici, dai cantanti nei post su Instagram in un continuo circolo virtuoso di gratitudine e affetti, perché non c’è niente come la scuola non pedante dei genitori dei genitori, la loro capacità d’esempio e racconto, la generosità nel condividere luoghi e ricordi. «La correggo — dice Paolo Crepet, psichiatra, sociologo, scrittore —, siamo una Repubblica fondata sulle età e sulle diversità, la nostra più grande ricchezza».

Lorenzo Musetti è l’ultima onda della nouvelle vague del tennis italiano emergente, ha 20 anni compiuti da poco e tutto il diritto di scegliersi punti di riferimento pop e contemporanei e invece, nella domenica in cui conquista il primo torneo importante della carriera, sulla terra di Amburgo contro un satanasso spagnolo di nome Carlos Alcaraz, sceglie di dedicare l’emozione che ricorderà per sempre a nonna Maria: «Nel suo scantinato, a Carrara, è cominciato tutto. C’era uno spazio ampio, dove da bambino non correvo il rischio di fare danni con racchetta e pallina. Il mio primo maestro è stato il muro di nonna: ho perso il conto delle ore che ho passato là sotto».

L’Olimpiade di Tokyo

Dedicato ai nonni: il ritornello dell’Olimpiade più felice della nostra storia. Il 24 luglio 2021 un adolescente di Mesagne, Puglia, inaugurava una straordinaria mietitura di medaglie (saranno 40, alla fine, di cui 10 d’oro) abbattendo nella finale del taekwondo il tunisino Jendoubi: «Mio nonno è mancato un mese fa — si è commosso Vito Dell’Aquila, fresco di Inno —, mi mancheranno la sua pasta al forno, le polpette, la parmigiana e tutto ciò che di buono cucinava. Mi mancherà essere accompagnato a scuola, in palestra, dappertutto. Mi mancherà la sua mano pesante sulla mia spalla». A Tokyo festeggiavano americani, caraibici, africani, cinesi, giapponesi. Ma nessuno aveva i nostri nonni. «Un fenomeno tutto mediterraneo, moltissimo nostrano — spiega Crepet —, siamo un Paese per vecchi ed è un complimento. Possiamo insegnare l’arte di essere anziani: dentro la vecchiaia risiedono le nostre radici più profonde».

I nonni made in Italy hanno punteggiato l’Olimpiade giapponese, quello di Vito si chiamava come lui, dietro il bronzo della judoka Odette Giuffrida c’è Renato, romano di Montesacro, il totem «che qualsiasi medaglia avessi riportato a Roma l’avrebbe colorata d’oro», il sollevatore di peso Mirko Zanni ha subito telefonato a nonna Emidia a Cordenons, lei l’ha ricambiato con il complimento più originale: «Sei il nipote più bello di tutta l’Olimpiade!». E dietro lo smagliante oro di Filippo Tortu, protagonista di un’ultima frazione turbo della staffetta 4x100, c’è anche un pizzico di merito di Titta, la mamma di mamma Paola che nella villetta con piscina in Brianza ha immolato pacchi di pastasciutta alla fame da lupo del nipote: «Ho cercato di essere molto presente nella sua vita — ha raccontato —, e di lasciare ricordi che spero non si cancellino». In vacanza in Sardegna, nella casa di Golfo Aranci, Titta è stata la prima ad immaginare il trionfo del quartetto Patta-Jacobs-Desalu-Tortu, a costo di sentirsi dare della pazza. «Sono ottimista di natura, ho pianto di gioia: mi ero raccomandata con Filippo che non mollasse fino alla fine». Accontentata anche a Monaco di Baviera la settimana scorsa, dove lo sprinter azzurro ha vinto il bronzo europeo nei 200 metri: Titta, fiera, ha risposto presente.

Eredità e riconoscenza

La pandemia si è accanita contro di loro, ma la rivincita è dietro ogni angolo. Marco Da Graca, palermitano classe 2002, 1,85 di muscoli ed esuberanza, è il bomberino uscito dal vivaio della Juve che ha inaugurato la stagione a Las Vegas: la prima rete stagionale dei bianconeri, contro il Chivas durante la tournée americana, l’ha segnata lui, il centravanti cresciuto con i poster di Messi, Neymar e Ronaldo in camera. «Un’esperienza indimenticabile, il sogno che tutti i bambini tengono chiuso nel cassetto. Ai miei amici, al ritorno, ho offerto da bere però la dedica va ai miei nonni, in particolare al nonno, con cui ho un legame speciale perché fin da piccolo mi ha accompagnato a tutti gli allenamenti e alle partite. Da quando ho sette anni, in casa o in trasferta, c’è sempre stato. Sono arrivato a Torino da Palermo ragazzino. I primi mesi non sono stati facili. Ho sempre sperato di arrivare in prima squadra per dare un senso a tutti i sacrifici che abbiamo fatto». Ed è a Peppino, 90 anni, uno dei 1700 abitanti di Narbolia (Oristano), che la palleggiatrice della Nazionale Alessia Orro ha portato l’oro sbranato dall’Italia del volley all’ultimo Europeo. Il video del loro tenerissimo incontro ha fatto il giro dei social: «Nonno è il mio specchio, la mia testardaggine è la sua. Quando cadiamo, ci rialziamo subito: dopo l’ictus l’ho trovato su una scala a raccogliere le olive...».

La magia dei gesti

Perché questa gratitudine trasversale tra generazioni che una volta non avevano niente da dirsi? La vita più lunga, certo, ma anche la magia del capirsi, in un esperanto infarcito di pazienza e tanti vocaboli lost in translation, tra nativi digitali e venerandi vegliardi. «È una lingua speciale che si basa sul raccontare — spiega Crepet —, tra il nipote smanettone e il nonno poco pratico di Tik Tok e app la comunicazione prende altre strade: il nonno è l’esperienza, più e meglio del padre. È una figura fondamentale: i nonni siamo noi, sono la cultura dispiegata sotto i nostri occhi; i genitori ci sono troppo vicini, i loro genitori hanno la giusta distanza per insegnarci senza farcelo pesare. I nonni, soprattutto quelli emigrati, sono la nostra storia, identità, complessità». Una volta i nonni partivano per la guerra e non tornavano più: «I conflitti, le malattie e, spesso, le cattive condizioni di lavoro li hanno falcidiati».

Al centro del villaggio restavano le nonne, a volte con la loro ruvidezza (nessuno ha insegnato loro l’affettività) ma anche con un’impareggiabile magia dei gesti: «Guardare una donna anziana che fa l’uncinetto, che prepara la sfoglia o gli gnocchi non è banale per un bambino — sottolinea Crepet —. E magari il nonno ha un garage attrezzato che ti rimette a posto la bicicletta in un pomeriggio. Per non parlare della meraviglia dell’orto: generazioni unite da semina e raccolto. Ecco perché del linguaggio, benché ai ricordi di un nonno che ha visto giocare a San Siro l’Inter allenata da Herrera o il Milan di Rocco non si vorrebbe mai rinunciare, si può anche fare a meno».

La libertà nell’amore

I nonni non sono retorici né pedanti né autoritari. Sono come sono. Dispensano biscotti, paghette, consigli: la loro personalissima versione dell’amore. Spesso senza il ricatto emotivo (inconscio) del genitore che chiede qualcosa in cambio. Matteo Renzi ha dedicato un affettuosissimo post su Facebook alle due nonne: quella materna, Maria, ha 102 anni. «Cresciuta tra Napoli e Bari — ha scritto Renzi —, ha vissuto una vita piena di difficoltà ma anche gioia. Ha incontrato il grande amore nel romagnolo Achille, portato via troppo presto da un tumore. Si è ritrovata vedova con sei figli, il più piccolo di otto anni. Non ha mai mollato: sorretta da una fede straordinaria, è stata una roccia per la famiglia». La nonna di Fabio Rovazzi, scomparsa il 17 gennaio scorso alla viglia del 28° compleanno del cantante, è stata salutata dal nipote con un post pieno di sentimento: «Ti avevo comprato carte giganti perché avevi cominciato a vederci meno ma, nonostante questo, riuscivi sempre a battermi. Sono felice di pensare che hai finalmente raggiunto il nonno, che ti aveva lasciata sola da due anni. Immaginarvi di nuovo insieme mi rende l’uomo più felice del mondo». E la nonna di Fedez, Luciana Violini, ha addirittura un profilo Instagram con 187 mila follower. Il 29 marzo ha compiuto 91 anni, Fedez l’ha voluta sul red carpet di The Ferragnez, la serie su Prime, a lei non manca l’ironia: «Con la mia collega», ha scritto postando una foto con Chiara Ferragni.

Il valore del tempo

Certo i nonni bisogna saperli fare («Guai eccedere con il cuore tenero» avverte Crepet), oltre che arrivarci. «Oggi è interessante il ruolo di entrambi: l’allungamento della vita ha creato le pari opportunità dei nonni. E quando Draghi dice che torna a fare il nonno, non è una battuta: si chiama cura. Va in cerca di una terapia dell’anima: rispondere alle domande di un ragazzo, fare la insieme o una passeggiata in campagna con il nonno che ti spiega se l’uva sta maturando bene per la vendemmia, sono atti guaritivi. C’è un pensiero su di sé, nella frase di Draghi. C’è il desiderio esplicito di riprendersi il tempo, perché la condizione per fare il nonno è averne, di tempo. La cura miracolosa, ecco, è saper staccare e dedicarsi al futuro, cioè i nipoti. E pazienza se il nonno ci mette un po’ di più a fare le scale: poi ti ricompensa per averlo aspettato senza borbottare, raccontando aneddoti pazzeschi». La maieutica dell’affabulazione, la poesia dei gesti. «Come ti tiene in braccio un nonno o una nonna, nessuna tata. I nonni sono la cinghia di trasmissione della nostra comunità. Se hai la fortuna di restare un’ora sull’argine di un fiume a pescare con un nonno, quella non è un’ora. È una vita».

(ANSA il 10 agosto 2022) "La sicumera di fermare il tempo - volere l'eterna giovinezza, il benessere illimitato, il potere assoluto - non è solo impossibile, è delirante". Lo ha detto papa Francesco nell'udienza generale nell'Aula Paolo VI, una delle ultime dedicate al tema della vecchiaia. "La vecchiaia è nobile - ha sottolineato il Pontefice -, non ha bisogno di truccarsi per far vedere la propria nobiltà: forse il trucco viene quando manca nobiltà". E "il tempo passa, ma questo non è una minaccia, è una promessa", ha aggiunto. 

Commentando il Vangelo di Giovanni, il Papa ha osservato che "la vecchiaia è il tempo propizio per la testimonianza commossa e lieta di questa attesa" di "opere più grandi". "L'anziano e l'anziana sono in attesa, in attesa di un incontro", ha spiegato. "Nella vecchiaia - ha proseguito - le opere della fede, che avvicinano noi e gli altri al regno di Dio, stanno ormai oltre la potenza delle energie, delle parole, degli slanci della giovinezza e della maturità".

Ma proprio così rendono ancora più trasparente la promessa della vera destinazione della vita, e qual è la vera destinazione della vita? Un posto a tavola con Dio, nel mondo di Dio", ha sottolineato. Per Francesco, "sarebbe interessante vedere se nelle Chiese locali esiste qualche riferimento specifico, destinato a ravvivare questo speciale ministero dell'attesa del Signore - è un ministero, il ministero dell'attesa del Signore -, incoraggiando i carismi individuali e le qualità comunitarie della persona anziana".

Secondo il Papa, inoltre, "una vecchiaia che si consuma nell'avvilimento delle occasioni mancate, porta avvilimento per sé e per tutti". Invece, "la vecchiaia vissuta con dolcezza vissuta con rispetto per la vita reale scioglie definitivamente l'equivoco di una potenza che deve bastare a sé stessa e alla propria riuscita". "Scioglie persino - ha aggiunto - l'equivoco di una Chiesa che si adatta alla condizione mondana, pensando in questo modo di governarne definitivamente la perfezione e il compimento. 

Quando ci liberiamo da questa presunzione, il tempo dell'invecchiamento che Dio ci concede è già in sé stesso una di quelle opere 'più grandi' di cui parla Gesù". "Ricordiamoci che 'il tempo è superiore allo spazio' - ha quindi avvertito Bergoglio -. È la legge dell'iniziazione. La nostra vita non è fatta per chiudersi su sé stessa, in una immaginaria perfezione terrena: è destinata ad andare oltre, attraverso il passaggio della morte. Perché la morte è un passaggio. Infatti, il nostro luogo stabile, il nostro punto d'arrivo non è qui, è accanto al Signore, dove Egli dimora per sempre". 

"Qui, sulla terra, si avvia il processo del nostro 'noviziato': siamo apprendisti della vita, che - tra mille difficoltà - imparano ad apprezzare il dono di Dio, onorando la responsabilità di condividerlo e di farlo fruttificare per tutti. Il tempo della vita sulla terra è la grazia di questo passaggio", ha argomentato. Per il Pontefice, "la nostra esistenza sulla terra è il tempo dell'iniziazione alla vita, che solo in Dio trova il compimento. Siamo imperfetti fin dall'inizio e rimaniamo imperfetti fino alla fine. Nel compimento della promessa di Dio, il rapporto si inverte: lo spazio di Dio, che Gesù prepara per noi con ogni cura, è superiore al tempo della nostra vita mortale. 

"Ecco - ha soggiunto -: la vecchiaia avvicina la speranza di questo compimento. La vecchiaia conosce definitivamente, ormai, il senso del tempo e le limitazioni del luogo in cui viviamo la nostra iniziazione. La vecchiaia è saggia per questo, i vecchi sono saggi per questo.

Per questo essa è credibile quando invita a rallegrarsi dello scorrere del tempo: non è una minaccia, è una promessa". Francesco ha concluso evidenziando che "la vecchiaia è la fase della vita più adatta a diffondere la lieta notizia che la vita è iniziazione per un compimento definitivo. I vecchi sono una promessa, una testimonianza di promessa, E il meglio deve ancora venire, ecco il messaggio del vecchio e della vecchia credenti. Il meglio deve ancora venire. Dio ci conceda una vecchiaia capace di questo!".

Vecchiaia benedetta fino all'ultimo respiro. Rossella Palmieri su La Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Agosto 2022.

Non toccate gli anziani. La loro età, fragile e innocente, ha bisogno di dolcezza e di rispetto, queste sconosciute da chi dovrebbe darle, se non per cuore, di certo per mestiere. E che non si venga a dire che è colpa del Covid; sì, forse lo è anche, perché ha esasperato intemperanze e aridità, ma la cura è qualcosa che prescinde dagli accidenti e dalle pandemie. Si può averla come misura interiore poco o tanto, ma non è concesso di trasformarla in violenza e mostruosità, in turpiloquio e gratuite angherie. «Io voglio benedire la vita fino all’ultimo respiro», scriveva il medico e letterato Paolo Mantegazza nel suo Elogio della vecchiaia. Era il 1895. Sembra così lontano eppure ci si può trovare dentro tutta la modernità di oggi, perché il tic-tac dell’orologio della vita vale ora come allora. Guardate un anziano: ha gli occhi lucidi perché ha visto come minimo guerre e povertà, poi magari benessere, figli e nipoti, gioie, dolori e infine il declino. Che dovrebbe avere il sapore delle carezze e non dei lividi, di nutrimento e non di schiaffi.

Deve odorare di Stella maris come emblematicamente si chiama la casa che abitano, ed evocare, anche alla loro età, il de-siderio. De-sidus significa mancanza delle stelle; quindi a smuovere il desiderio è una ricerca sempre appassionata. Ce li immaginiamo ancora «alla ricerca» questi nonnini di tutti: ricerca di un buon piatto – di quelli che mettono il buonumore – o di una passeggiata in quel giardino che sembrava odorare di alberi e di tranquillità. Sembrava. Al di là di quella cancellata hanno vissuto orrori di ogni tipo. Crediamo in Mantegazza quando dice che «non v’è giornata senza il crepuscolo della sera, e non v’è vita perfetta senza la vecchiaia» e pertanto, cari nonni della Stella maris, che vi possa essere elargito ciò che vi è stato ingiustamente tolto. Sappiate che al di là di quelle stanze dell’orrore c’è chi vi pensa con tenerezza e spera che i lividi spariscano presto dai vostri volti e di più ancora le ecchimosi che vi sono state inflitte dentro. Il fatto è che – siamo certi – dimostrate tempra anche quando vi torturano. Urlate ma resistete.

«È certamente difficile essere felici da vecchi. Ma anche qui conviene ricordare un dogma fondamentale dell’arte di vivere: la felicità è sempre una cosa difficile e rara, come difficili e rare sono tutte le cose migliori di questo mondo», ci dice ancora Mantegazza. Possiate sentire oltre la cancellata della Stella maris la carezza di questo vivace e convinto inno alla vita.

L’arte del conservare e la lezione della zia. A lezione di tradizione meridionale con Michele Mirabella

Teneva nell’armadione una scatola che recava una scritta: «Lacci inservibili». Chiesi la ragione e rispose «stip ca’ truv». Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Luglio 2022

La parola di oggi è «zio» dal greco ϑϵϊοϛ, dal lat. tardo thius. Altro non spiega il di-zio-nario, ma precisa: fratello o sorella, zia in questo caso, del padre o della madre. Lodo le zie. Intendiamoci, lodo anche gli zii, ma elogio soprattutto le zie. Le zie sono state importanti per le generazioni mature, hanno costituito una falange benemerita di memorie storiche e un giacimento insostituibile di ricordi, piccola pedagogia, buon senso, rassicurazioni. Con laffermarsi della esosa voga dei figli unici, la figura preziosa declinerà nel panorama antropologico italiano, così come quella dei cugini, insostituibili compagni di giochi e di apprendistati e delle cognate, quando di buon carattere, magnifiche e dei cognati, gagliardi sfidanti di scopone, di mangiate e bevute e di risse politiche.

Avevo una zia che sia chiamava Lucrezia, guarda un po’, che teneva nell’armadione della camera da letto una scatola bianca, di quelle sobrie e senza fronzoli, che avevano contenuto le scarpe che recava una scritta: «Lacci inservibili». Io, bambino, chiesi la ragione di quella provvista e mi rispose «stip ca’ truv», come si dice da noi per ammonire: «conserva che troverai». Non ricordo se zia lo abbia tradotto in italiano, perché l’aneddoto si sovrappone all’aneddoto, il vecchio racconto alla citazione e via scrutinando nel «sembra ieri» che affascina spesso il nostro malinconico attardarci nella memoria. La signora godette ottima salute fino a un’età veneranda e questa circostanza ha, forse a che fare con la sua mentalità provvida e prudente che prima di buttar via qualcosa, rifletteva, titubava, aspettava. Per anni ho riso con mio fratello e le mie sorelle (allora c’erano le famiglie numerose) di quella stramberia e non ci siamo curati di capire quale ragione avesse la signora per conservare dei lacci inservibili. Adesso lo so. Sarà l’età, sarà l’esperienza, ma di certo, ho imparato il sottile piacere del conservare. Un piacere che, evidentemente, fa bene alla salute fisica e mentale. Ed è prezioso ausilio per la Storia.

Non si tratta dell’altezzosa passione dell’archeologia o dell’astuto calcolo dell’antiquariato, si tratta proprio del piacere di conservare o, meglio, della scaramanzia verso il futuro oscuro e indecifrabile. Il bello è che conservo non solo quanto posso o quanto proprio non mi fa schifo di quanto arriva dal supermercato del consumismo, ma, soprattutto, cerco, recupero, archivio e custodisco il passato recente o il recente che «passato» lo sta diventando che, prima, avrei dilapidato in un giovanile furore di rinnovamento quotidiano. Quest’altra frenesia m’è assicurata dalla frequentazione accanita e deliziosa dei mercatini dell’usato e del trovarobato dove è possibile reperire la paccottiglia meravigliosa di una recherche minuscola e ludica: non solo dischi e libri, ma, anche, soprammobili, giocattoli, utensili, indumenti, cappelli, cravatte, gilet, figurine e tutto il bric-à-brac reperibile nel mercato delle pulci. Tito Livio avrebbe detto «Ire per nundinas». Voleva dire nono giorno, l’ultimo dei mercati. Ma voleva anche alludere al mercanteggiare della politica: andare a comprare consensi. Non è il mio caso.

Cosa c’è dietro questa meticolosa e piccola follia? La voglia, forse, di disvelare che il Tempo regola la nostra storia di uomini, da un canto, distruggendo molte opere del nostro breve destino, anche quelle meglio pensate e, dall’altro, mettendo a nudo la verità concordemente col suo trascorrere implacabile. E, allora, dopo le mareggiate del tempo trascorso, resta sulla spiaggia il rudere austero e la testimonianza solenne, il rottame e il reperto, qualche nota, dei versi, preziose pagine di parole sparse.

È vero. Ma resta anche il quotidiano ricordo di quello che ci ha aiutato a vivere, a sopravvivere, ad amare e soffrire, a patire il tempo, a tirare avanti: l’oggettistica della vita di tutti i giorni, non importante, non catalogata nelle istruzioni per l’uso della professione, del lavoro, della fatica alta di vivere, ma l’attrezzeria semplice del tirare a campare. Il collezionismo conservativo e non speculativo prende avvio dalla voglia dolce di riordinare le idee e i ricordi che sono, si, rintracciabili nelle Grandi Opere nostre o di altri passeggeri che hanno transitato nella storia del pianeta, ma anche in piccole prove di abilità e di praticità nel renderci la vita meno complicata o meno amara.

Nella vetrinetta troveremo, così, un temperino a più lame, il quaderno nero col bordo rosso, la trombetta, dei pennini, la pupa di Lenci, un abbecedario, una trottola, un vecchio ventilatore di bachelite funzionante, la foto della classe quinta della Scuola elementare «Giuseppe Garibaldi», lo spremilimoni di alluminio, un uovo di legno per rammendare, una scatola di «Cucirini Cantoni», un santino della Madonna di Pompei, il manuale del perfetto aggiustatore, la macchina fotografica del nonno, un libro di fiabe e anche, perché no, i lacci inservibili di nostra zia.

Estratto dell’articolo di Francesco Bisozzi per “il Messaggero” l'1 luglio 2022.

Oggi in Italia la silver economy, ossia l'insieme di attività, servizi, prodotti e beni di consumo rivolti agli over 65, vale il 30 per cento del prodotto interno lordo. Le famiglie con un capofamiglia over 65 sono quelle con meno debiti e i redditi più alti. Il patrimonio medio dei cosiddetti Silver è pari a 292mila euro, che nel complesso fanno oltre 4mila miliardi di ricchezza, il 41% di quella di tutti gli italiani. 

Solo il patrimonio immobiliare degli over 65 (l'86,7% vive in case di proprietà) raggiunge quota 2.558 miliardi. Sono questi i numeri che emergono dal Quaderno di approfondimento del Centro studi e ricerche di Itinerari previdenziali, presentato ieri a Montecitorio.

Così il presidente del centro studi Alberto Brambilla: «La silver economy è diventata la terza economia a livello globale, in Italia quasi il 24% della popolazione ha più di 65 anni, parliamo di 14 milioni di persone, che nel 2050 diventeranno 19 milioni», ha spiegato Brambilla. Tra i presenti c'era anche Gian Carlo Blangiardo. Così il presidente dell'Istat: «Avremo 25,5 milioni di over 50 nel 2070». Insomma, si va verso la più grande transizione demografica di tutti i tempi. Solo in Italia la silver economy vanta un giro d'affari compreso tra i 323,5 e i 500 miliardi di euro, vale a dire tra il 20 e il 30 per cento del Pil. […]

[…] Il 42,1% degli over 65 vive in coppia senza figli, i Silver soli sono il 30,5%, quelli in coppia conviventi con i propri figli il 12,8%. […] Oggi ci sono in Italia 17mila persone con almeno 100 anni, fra 30 anni saranno 80 mila, dicono i dati Istat. Le persone con almeno 90 anni sono invece 800 mila. Nel 2070 arriveranno a 2 milioni e 237 mila.

COSA ASCOLTANO GLI SCRITTORI. Il potere delle note musicali condiziona anche il silenzio della scrittura.  FABIO BACÀ su Il Domani il 05 giugno 2022

Lo scrittore finalista allo Strega e al Campiello, maestro di ginnastica dolce, ci guida tra sinapsi, note e romanzi chiacchierando con molti scrittori e romanzieri.

Per la longevità del nostro cervello: «Studiare, leggere, essere disponibili ad affrontare novità, conoscere nuove persone, sentire musica di tutti i tipi e camminare almeno venti minuti al giorno.».

Io stesso raccomando agli allievi dei miei corsi di ginnastica dolce, quasi tutti ultrasettantenni, di prendersi cura della propria materia grigia mettendola quotidianamente alla prova: apprendere una lingua straniera, camminare scalzi anche d’inverno e imparare a suonare uno strumento musicale. FABIO BACÀ

Giordano Tedoldi per "Libero quotidiano" il 27 Febbraio 2022.

Qual è il limite teorico della vita umana? Se lo sono chiesto gli scienziati del Politecnico di Losanna e, usando metodi statistici, si sono anche dati una risposta: non c'è un limite teorico. In altre parole, secondo la statistica, non c'è nessuna evidenza inoppugnabile che, un certo giorno, dobbiamo morire. E, forse con una punta di irriverenza, ci viene in mente il motto paradossale del regista Monicelli, che campò 95 anni e si congedò dalla vita di sua volontà, secondo il quale «solo gli stronzi muoiono».

Ma battute a parte, lo studio, pubblicato sull'autorevole rivista "Royal Society Open Science", è alquanto confortante: dunque pare che, naturalmente soltanto in teoria e in base a calcoli probabilistici, potremmo vivere per sempre. Ma a smorzare un po' l'ottimismo di questo incredibile risultato arriva una precisazione, e cioè che tutti, indifferentemente dal sesso o dalla nazione di provenienza, incontriamo, lungo il corso della vita, un punto critico, che gli stessi scienziati hanno individuato al compimento dei 108 anni. Eh sì, perché, sempre stando ai numeri, a quella fatidica e veneranda età, affermano gli scienziati svizzeri, corrisponde un «anomalo aumento della mortalità». Ma pensa! E chi l'avrebbe mai detto che a 108 anni si fosse più cagionevoli.

Ma di nuovo, al bando l'ironia: in fondo è pur sempre un dato interessante, perché uno potrebbe anche essersi spaventato di aver raggiunto quota 100 anni, o aver tagliato il traguardo dei 105, e invece no, non c'è ragione di preoccuparsi davvero finché non si arriva ai 108. È un fatto statistico: è quella la cruna dell'ago, il setaccio. Da quel giorno in avanti, ogni anno acquistato è sottoposto a una sorta di lancio della monetina: si ha il cinquanta per cento delle probabilità di sfangarla, e dunque il cinquanta per cento di crepare. Insomma, per arrivare, ad esempio, a 130 anni, bisogna, ogni anno, fare sempre testa.

Se esce croce, sarà quella sulla propria tomba. Scamparla non è impossibile, ma la probabilità è inferiore a 1 su un milione. Considerato che c'è gente che gioca continuamente al Superenalotto, dove le probabilità di vincere sono più o meno le stesse (se non inferiori), tutto sommato non c'è ragione di disperarsi troppo nemmeno se si è giunti alla soglia dei 108 col suo "aumento anomalo della mortalità". D'altronde la cosa bella degli studi scientifici è che, spesso, come in questo caso, sono assolutamente paradossali, e ci invitano a vedere il mondo sotto un'ottica completamente diversa. Per l'uomo della strada, il limite della vita umana c'è eccome e, più o meno, a lume di naso, si aggira attorno agli ottanta-novanta anni.

Non per niente i centenari fanno notizia come fossero esseri soprannaturali. Ma gli scienziati non ragionano come l'uomo della strada, altrimenti non sarebbero quello che sono. Immersi nei loro numeri, nei loro algoritmi, sono sempre pronti a smentire il nostro buon senso, talvolta con notizie allarmanti, altre con dolci illusioni: morire? Non è affatto scontato. Si può andare avanti, teoricamente, per sempre, anche se le probabilità, a un certo punto, si fanno talmente ridotte da diventare, in pratica, una sentenza di morte. Ma per la mente scientifica, anche uno zero virgola infinitesimale è una chance. Figurarsi quanto se la possa giocare, allora, un 108enne, con ben il cinquanta per cento di probabilità di mangiare il panettone del prossimo Natale.

Grazie dunque agli scienziati del Politecnico di Losanna, per questa iniezione di fiducia e di speranza (che, in verità, per alcuni potrebbe essere una condanna; la vita eterna, magari ridotti in condizioni fisiche non dissimili da quelle di vampiri o zombie, non da tutti è agognata...), però bisogna anche tenere conto che, quel miserello, l'uomo della strada insomma, continua cocciutamente a credere più al suo buon senso, alla sua praticaccia della vita, che non ai numeri degli studi scientifici - quest' ultimo di Losanna non è il primo, già nel 2000 la rivista Science diceva che dal 1969 la longevità umana aumentava di 13 mesi ogni anno, e smentiva la barriera "fisiologica", allora fissata intorno ai 120 anni -, e, per così dire, sa o per meglio dire sente o intuisce che a una certa età si trova agli sgoccioli

Da "Libero quotidiano" il 20 gennaio 2022.

Voleva essere una «fuga» per la vittoria, per la libertà. Invece il tentativo di scappare dalla casa di riposo in cui si trovava, calandosi dalla finestra con le lenzuola, si è trasformato, per Mario Finotti di 91 anni, in un drammatico finale. Ospite dalla scorsa estate dell'opera pia «Francesco Bottoni» di Papozze, in provincia di Rovigo, l'uomo è stato trovato senza vita, a penzoloni dalla finestra della struttura. 

L'anziano si era legato delle lenzuola alla vita e poi, verso l'alba, ha tentato di calarsi dalla finestra della sua stanza, al primo piano. Finotti, però, non è riuscito a controllare il peso del corpo durante la discesa e, probabilmente, in un movimento a pendolo repentino ha subito un colpo risultato mortale.

La scoperta della morte è avvenuta la mattina, verso le sei e mezza, al cambio di turno degli operatori della Rsa. «Siamo scossi per quanto accaduto», racconta il direttore della struttura, Luca Avanzi, «Mario Finotti stava bene, non soffriva di patologie degenerative. Non si sa cosa gli sia passato per la testa, perché da un punto di vista psicologico era sereno. Anche la scorsa settimana, la nipote aveva parlato con la psicologa in videochiamata ed era emerso un buon quadro psicologico dell'anziano».

Nipote e pronipote del novantenne vivono a Bologna e sono gli unici parenti con cui la vittima aveva contatti. Da tre settimane, per altro, si trattava di contatti esclusivamente per via telematica, a causa della sospensione delle visite in presenza alla casa di riposo di Papozze, per via dei protocolli Covid. «Il tema della solitudine delle persone anziane che si trovano lontano dalla propria casa e dagli affetti», spiega Avanzi, «è un tema che può essere centrale rispetto all'episodio. Gli operatori e gli infermieri non riescono a sostituirsi alla famiglia. 

Di certo l'ospite poteva uscire e andare dove voleva dalla casa. Finotti era anche un uomo solare; l'età e l'inizio di deficit cognitivi forse hanno contribuito al triste epilogo». Un incidente fatale, quindi, come confermato anche dalla Procura, dopo un primo intervento dei carabinieri di Adria, a Papozze con Suem e vigili del fuoco per il recupero della salma. 

Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" il 21 gennaio 2022.

La notizia anche Libero l'ha pubblicata ieri, tuttavia essa merita una chiosa. Un novantunenne ha cercato di fuggire da una casa di riposo dove era ospite da qualche tempo e in cui - evidentemente non si trovava a proprio agio. I suoi famigliari erano spesso assenti, forse abitavano lontani dall'ospizio e non potevano rendergli visita di frequente. 

L'uomo, Mario Finotti, sta di fatto che verso mattina ha pensato di poter riconquistare la propria libertà e ha escogitato di evadere, forse colto all'improvviso da spirito di ribellione. Ha preso delle lenzuola, le ha intrecciate e, aggrappandosi ad esse, ha tentato di calarsi dalla finestra.

Operazione complicata e pericolosa, tanto è vero che egli non è riuscito a realizzarla restando incolume. Infatti la discesa è stata resa vana da una caduta, causata forse dalla rottura del drappo annodato frettolosamente. Il capitombolo in cortile è stato fatale al vecchio. Morto sul colpo. 

Ora tutti, anche il personale infermieristico della struttura, si domandano perché l'anziano abbia provato a mettere a segno una fuga niente affatto prevista. Sostengono i responsabili del ricovero che Mario fosse sereno, il suo quadro psicologico perfetto, sebbene il gesto estremo suggerisca il contrario. Plausibile che non ce la facesse più a campare come un recluso e desiderasse andarsene per i cavoli suoi, anche se le prospettive fuori dal gerontocomio non fossero rosee.

Sta di fatto, probabilmente per effetto dell'età, che non sopportava più di permanere sigillato fra quattro mura in attesa di trasferirsi al cimitero. Sarà perché anche io non sono più giovane, ma capisco perfettamente l'origine delle sue pulsioni: correre per strada a fare due passi al di là del perimetro dell'istituto, per quanto ben gestito, che somiglia a una prigione. 

Personalmente sono solidale con Mario Finotti, se a 91 anni hai ancora qualche energia, brami di spenderla respirando aria fresca, non in una stanza gremita di altri matusalemme che non ti forniscono alcun conforto. Purtroppo la vecchiaia è sottovalutata, considerata da figli e nipoti come una scocciatura da cui stare lontani.

Un tempo i nonni erano venerati, non soltanto sopportati e supportati, e i loro discendenti li ritenevano testimoni preziosi della vita passata, da consultare per la loro saggezza. Oggi, invece, sono trattati quali individui ingombranti, rompiballe, da ostracizzare il più possibile per evitare noie. Ai più fortunati, si fa per dire, capita di essere corteggiati per strappare loro una quota della pensione. Questo è il costume odierno, che vergogna!

Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 21 gennaio 2022.

Non sapremo mai perché Mario Finotti si sia calato dalla finestra con un lenzuolo attorcigliato alla vita come un evaso. Da che cosa stava scappando? Era arrivato nella casa di riposo vicino a Rovigo l'estate scorsa, a novant' anni suonati. Ma non rientrava in nessuno dei luoghi comuni con cui di solito si ritiene comodo incasellare la vita. Non era malato. Non si sentiva abbandonato. 

Andava d'accordo con le infermiere. Riceveva visite regolari da nipoti e pronipoti. Aveva un carattere indipendente, e prepotente, a detta degli amici. Perché aveva ancora degli amici. Ma allora da che cosa stava scappando, quando ha atteso l'alba per scendere dal primo piano con un'imbracatura da film? Forse gli era presa nostalgia di casa, distante pochi isolati. Lui, così allergico ai legami da non avere mai sopportato nemmeno una badante, ha deciso di stringersi a un lenzuolo e, nel tentativo di toccare terra coi piedi, è andato invece a sbattere la testa contro il muro. No, non conosceremo mai le ragioni del suo tentativo di fuga finito in tragedia.

Come l'amore, la libertà non ha un perché. È il perché. Il corpo ci ossessiona a tal punto da indurci a pensare che un uomo sia fatto solo di prestazioni fisiche e intellettuali, e che quando i movimenti e i pensieri cominciano a perdere colpi, evaporino anche i sogni e le pulsioni. Invece quella sfera, che la razionalità rifugge, esiste in un poppante come in un vegliardo, ed è forse l'unica cosa di noi che conta davvero, alla fine.

·        Gemelli diversi.

Gli esseri umani non sono come i piselli di Mendel. Quanto (non) ci somigliamo in famiglia. Anna Meldolesi su Il Corriere della Sera il 29 Giugno 2022.

Il padre della genetica compie 200 anni e un po’ li dimostra. I meccanismi dei caratteri trasmissibili sono più complessi di quelli che abbiamo imparato a scuola. L’intelligenza, per esempio, si fa beffe della semplicità mendeliana: persino il colore degli occhi dei figli può riservare sorprese, mentre in tribunale il DNA non è sempre la prova regina. È tempo di una nuova idea (più articolata) di ereditarietà? 

Questo doppio articolo, pubblicato su «7» in edicola il 29 aprile, inaugura una nuova rubrica del magazine del Corriere: «Due punti». Intesi come due punti di vista che qui troverete pubblicati online in sequenza: prima l’articolo di Anna Meldolesi, poi quello di Chiara Lalli. Buona lettura

Il 20 luglio del 1822, in un piccolo villaggio dell’attuale Repubblica Ceca, nasceva Gregor Mendel. Il suo compleanno è l’occasione per celebrare la nascita della genetica, ma anche per porsi qualche domanda scomoda. Concentrare tanta enfasi sul famoso esperimento dei piselli, nella divulgazione e nei libri di scuola, aiuta a capire la genetica del XXI secolo? Gli esperimenti di incrocio di Mendel sono una pietra miliare della storia del pensiero, ma la maggioranza dei caratteri non segue schemi di ereditarietà semplici come quelli decifrati nel giardino del monastero di Brno. I bambini non somigliano a mamma e papà come i piselli in un baccello. Quelli erano semi gialli o verdi, lisci o grinzosi, destinati a diventare piante con fiori bianchi o viola. Con acume e pazienza Mendel li ha sgusciati in combinazioni regolari di caratteri divergenti, dominanti o recessivi, che si manifestano o restano nascosti, secondo leggi matematiche elementari. Ora pensate alla genetica che vedete nelle vostre famiglie e nel mondo. Non si comporta così l’altezza, che dipende da un elevato numero di geni e dalla qualità dell’alimentazione. Per non parlare dell’intelligenza, che si fa beffe della semplicità mendeliana. Grazie agli studi sui gemelli si stima che la dipendenza dalla nicotina sia ereditabile al 60%, l’età della menopausa al 47%, il mancinismo al 26% e via calcolando. Per molto tempo la biologia è stata rappresentata come un incastro di tre grandi scoperte: la genetica di Mendel, l’evoluzione di Darwin e la doppia elica di Watson e Crick. Ma è molto più ricca di così. Oltre al giallo e al verde, ha innumerevoli sfumature di giallognolo. Ci sono variabilità, interazioni, complessità, ecco un assaggio. Oltre ai geni classici esistono quelli che “saltano”. Aumentare le copie di un gene può spegnerlo invece di rendere il carattere più evidente. Gli organismi sono mosaici di cellule con differenze genetiche accumulate durante lo sviluppo. L’ambiente lascia dei segni (epigenetici) sull’espressione dei geni. Ed esistono persino i “ gene drive “ che violano le leggi di Mendel azzerando il contributo di un genitore. Uno storico della scienza (Gregory Radick) ha provato a cambiare il programma di studio dei suoi allievi, riducendo il tempo dedicato a Mendel e soffermandosi su un pensatore più interessato al ruolo dell’ambiente (W. F. R. Weldon). Il risultato è che hanno maturato una visione più complessa (più moderna?) della genetica. Insomma il bicentenario merita di essere festeggiato ma attenzione a non restare fermi a una narrazione ottocentesca. Forse il miglior regalo per Mendel è sollevarlo dalla responsabilità di rappresentare un corpus di conoscenze troppo pesante per le spalle di un genio solo.

«Hai il 3% di possibilità di avere gli occhi azzurri” c’è scritto sul mio profilo di 23andme, che è una delle società che permette di fare un test del DNA a casa propria e poi di navigare nel proprio genoma. Il 3% può sembrare poco, ma è un “errore” piuttosto grossolano. Se poi a quel 3% aggiungiamo le percentuali degli altri colori sbagliati (le sfumature di verde e di nocciola) arriviamo al 73%. Soltanto il 27% è la percentuale che ci ha azzeccato: marrone scuro. Ma com’è possibile sbagliare così tanto? Mi torna in mente un film giallo visto molti anni fa in cui la soluzione del mistero aveva a che fare con il colore degli occhi: se i due genitori avevano gli occhi azzurri anche il figlio doveva per forza averli dello stesso colore. Questo perché, spiegava l’investigatore, il colore dell’iride è determinato da un gene recessivo e due geni recessivi non possono che dare quel risultato fenotipico. Mia nonna diceva «salta una generazione» secondo una regola probabilmente appresa dall’osservazione di alcuni casi o dalla speranza di avere un nipote che le somigliasse. Immaginate la mia sorpresa nello scoprire che non è proprio così nemmeno per i due genitori con gli occhi chiari. Che è molto più complicato e che se è possibile tentare previsioni, dobbiamo ricordarci che è sempre un calcolo probabilistico. E non vale solo per il particolarissimo colore degli occhi di Liz Taylor, correlato a una mutazione genetica. In generale meno siamo esperti di genetica e di genomica, più ci illudiamo di avere una specie di bacchetta magica per prevedere e inferire alcuni tratti somatici (o perfino personalità e malattie), per risolvere i misteri esistenziali e, sempre più, i crimini. Questa incertezza infatti mi fa subito pensare all’uso forense del DNA e ai casi che negli ultimi anni sono stati costruiti intorno a un profilo genetico. Nel dominio forense è ancora più importante ricordare il carattere probabilistico delle inferenze perché è ovviamente molto rischioso convincersi che l’assassino abbia certe caratteristiche. Un errore simile si può fare interpretando alla lettera la profilazione psicologica, ma è forse più facile sbagliare a leggere il DNA proprio per la sua apparente certezza. Dall’analisi del DNA si possono disegnare alcune caratteristiche per restringere la ricerca nelle fasi investigative - questo prima della possibilità di comparare il materiale trovato sulla scena del crimine e i sospettati - ricordando però sempre che stiamo usando una bussola non perfettamente calibrata. In caso poi di match tra DNA e sospettato, la genetica non ha altro da dire. Rimane un insegnamento per noi: la scienza avanza e dobbiamo essere sempre pronti a rivedere le convinzioni semplicistiche. È questa la più importante regola che arriva dal metodo scientifico.

·        L’Ignoranza.

Emanuela Griglié per “La Stampa” il 29 giugno 2022. 

Sembrava che i millennial (i nati tra il 1980 e il 1995) fossero i peggiori consumatori di sempre e avrebbero rovinato un sacco di cose: niente più vino, addio matrimonio, motociclette, case di proprietà, lettere e buste, vacanze in hotel. E sembravano pure intransigenti nel non investire in flaconi di ammorbidente, fazzoletti e diamanti (vabbè).

Ma poi è arrivata la generazione Z a farli quasi rimpiangere, almeno secondo il report di BofA Global Research "OK Zoomer", che ha indagato i consumi dei nati tra il 1996 e il 2016. Stilando un altro elenco di oggetti che, causa annichilamento della domanda, rischiano di finire fuori produzione (insieme ai fax, le mappe cartacee, le calcolatrici, le sveglie, le radio: rimpiazzati dallo smartphone).

Intanto i ragazzi delle Gen Z avrebbero valori precisi che li guiderebbero negli acquisti, seppure con qualche stridente contraddizione. Per esempio, affermano di preoccuparsi assai dell'impatto ambientale dei prodotti ma poi sono quelli che comprano fast fashion (la moda più inquinante che c'è), soprattutto a uso social, dove è fondamentale fotografarsi con varietà di abiti e accessori. 

Secondo varie ricerche, più o meno scientifiche, gli under 30 non sono interessati ad avere: automobili (meglio la mobilità in sharing), rasoi, alcol, accessori per il golf inteso come sport (dal 2008, 5 milioni di giocatori in meno). Oltretutto odiano visceralmente gli skinny jeans, quelli super attillati, amatissimi dai loro fratelli maggiori, e pure i campanelli delle porte, definiti «strani e spaventosi» in un sondaggio su Twitter del Guardian.

«Non comprerei mai una cravatta o una televisione», dice Simone Berlini, milanese, 22 anni, influencer del collettivo Defhouse che, con 40 milioni di follower, funge da osservatorio privilegiato sulle nuove generazioni. «Invece sì scarpe, componenti per la moto, esperienze culinarie». Emily Pallini, romana di 19 anni, anche lei TikToker della Defhouse, investe in «prodotti per la cura del corpo, borse e accessori. Sono attenta agli sprechi e i vestiti anziché buttarli li regalo. Nel mondo make up e skin care compro solo prodotti non testati sugli animali. No agli ombretti colorati».

Ma ora che sul mercato si affacciano anche gli Alfa, i nati dal 2010 in poi, lo scenario si complica. Ancora troppo giovani per essere abbordati frontalmente dal marketing, hanno in compenso genitori molto indirizzati e che stanno un sacco di tempo su Instagram a postare fotogenici bebè. 

 «C'è un sottogruppo di mamme millennial che investe nei migliori prodotti che può permettersi per i figli», ha spiegato Heather Dretsch, professoressa di marketing alla North Carolina State University. «Con la conseguenza che la prossima generazione avrà gusti molto simili a quelli dei genitori millennial, a differenza della Gen Z». Forse amanti di un'estetica minimalista e dai colori pastello, gli Alfa saranno comunque i primi a muoversi in un mondo di marchi digital first, e nel digitale probabilmente si immergeranno anche a fare acquisti.

 Almeno così scommette Mark Zuckerberg con il suo Metaverso, dove da questa settimana si possono comprare abiti per avatar firmati da Balenciaga, Prada e Thom Browne. Ma al di là degli elenchi più o meno incrostati di stereotipi con prodotti in via di estinzione, il cambiamento nelle abitudini di acquisto a cui stiamo assistendo è intenso. Anche perché non va trascurato che i millennial sono la prima generazione dal 19° secolo a stare peggio dei loro genitori, una disgrazia che probabilmente la Gen Z e la Gen Alfa erediteranno.

«Un trasformazione nella modalità del consumo c'è e riguarda soprattutto i 16-24enni», ci spiega Stefano Micelli, docente di business alla Ca' Foscari. «Qualcosa di profondo sta accadendo in alcuni settori, in particolare nella moda, dove vediamo un atteggiamento radicalmente diverso collegato al tema, molto sentito, della sostenibilità. 

Così se la mia generazione il vintage non l'avrebbe mai considerato, oggi per un ventenne è più che normale. Andiamo verso un mondo in cui prevarranno tre tendenze di consumo: il lusso, lo sharing e l'upcycling, ovvero prendo cose che già esistono e le rifaccio. L'ultimo è sicuramente il trend più interessante».

Le parole d'ordine sono refitting e upcycling, ovvero l'utilizzo delle nuove tecnologie per dare una seconda vita agli oggetti. «Processo che passa attraverso una nuova artigianalità, più urbana e tecnologica, in grado di impiegare strumenti tradizionali ma aggiornati alla contemporaneità e che riguarda settori diversissimi, dai mobili alle biciclette. 

«Un esempio che mi piace molto è quello di William Amor a Parigi, un vero virtuoso, che fa fiori bellissimi con sacchetti della spesa riciclati, lui è un po' la star di questo artigianato a base di materiali poverissimi», aggiunge il professore, che coordina il progetto upskill40, proprio per aiutare gli artigiani a riposizionarsi nel futuro.

«Sono esperimenti che iniziamo a vedere in questi anni e che incrociano un mercato che è quello dei più giovani. La sensazione è che il settore del riuso avrà bisogno di nuovi business model, ma è anche evidente che è quello più in grado di intercettare il favore di generazioni che hanno un'estetica diversa e disponibilità economiche più ridotte delle precedenti». 

Ilvo Diamanti per “la Repubblica” il 29 giugno 2022.  

Da oltre due anni viviamo una vita diversa, in un mondo (e un modo) diverso. Perché la "nostra vita" e il "nostro mondo" sono oscurati da diversi motivi di inquietudine. Di fronte ai quali, tuttavia, occorre guardare oltre. Senza rassegnarsi. Guardando avanti, senza inseguire il passato. Sono questi i principali tratti dello scenario disegnato dalla XIV edizione dell'Osservatorio Europeo curato da Demos, per la Fondazione Unipolis, che si concentra sui temi e sugli aspetti della Sicurezza.

La ricerca è stata condotta, di recente, in alcuni fra i più importanti Paesi Europei e presenta diversi motivi di interesse. Perché ci permette di allargare lo sguardo intorno a noi, superando i confini del nostro tempo inquieto. Infatti, negli ultimi anni abbiamo attraversato - e stiamo attraversando - il "Tempo del Virus". Che oggi ci sembra meno pesante perché, nel frattempo, è subentrato il "Tempo della Guerra", dopo che abbiamo assistito ("in diretta") all'invasione russa in Ucraina. Non molto lontano dai nostri confini. Siamo, quindi, passati da una paura all'altra.

È indicativo l'atteggiamento verso gli "stranieri". Gli immigrati, nel passato recente, davano un volto alle nostre paure, mentre, oggi, preoccupano frazioni limitate di persone, non solo in Italia. Questa "fluidità delle paure" suggerisce attenzione e cautela. Sottolinea, infatti, come si tratti, comunque, di questioni latenti. Che potrebbero tornare al centro dell'attenzione pubblica.

Se ci concentriamo sul presente, i problemi che generano maggiore inquietudine riguardano, in primo luogo, la condizione economica.

 In secondo luogo, l'impatto della guerra. Due temi coerenti e connessi. Perché la guerra rende precaria la condizione economica, personale e sociale. Come si osserva e si percepisce, anzitutto, in Polonia. Ai confini dell'Ucraina, in prossimità della Russia. Le aree critiche, in questa fase. L'emergenza economica, in particolare, ha praticamente raddoppiato l'incidenza sul sentimento dei cittadini. Oggi coinvolge circa il 40% dei cittadini, nei Paesi "analizzati".

Soprattutto negli stati che hanno particolare presenza sui mercati. Come la Germania, la Francia e, soprattutto, il Regno Unito. Dove la Brexit, evidentemente, non è servita a migliorare il clima d'opinione. Anche in Italia, peraltro, appare larga l'insoddisfazione generata dall'aumento dei prezzi e dal costo della vita. Le tensioni in Europa, per altro verso, hanno favorito la fiducia verso l'Unione Europea. 

Inoltre, hanno saldato il rapporto dei cittadini anche con le altre istituzioni di governo. In questo quadro appare evidente il disagio delle generazioni più giovani. Che vedono il proprio futuro in patria "frenato": bloccato, dalle generazioni precedenti. Adulti e anziani. Un orientamento particolarmente marcato in Italia. Dove i più giovani, per questa ragione, ritengono utile "emigrare". Per avere un futuro.

È questa la vera "questione" sollevata dall'indagine. "Il futuro dei giovani". Quasi una tautologia. Perché i giovani sono il futuro. E se ritengono utile fuggire, si eclissa i l nostro futuro. Anche per questo gli europei e gli italiani, in particolare, allungano il tempo della giovinezza. Nei Paesi europei considerati nella ricerca ci si definisce giovani fino a 40 anni. In Italia: oltre i 50.

Al tempo stesso, la vecchiaia si allontana. Comincia a 68 anni nei Paesi analizzati. Per gli italiani sale a 74 anni. Questa gioventù in(de)finita, senza limiti precisi, ha effetti di segno diverso. In primo luogo sulla prospettiva verso il mondo e verso il futuro. I giovani si proiettano nel mondo, verso l'Europa. Perché si sentono frenati e vincolati.

Svantaggiati nella "mobilità" sociale. Nelle opportunità di carriera. Lo sguardo "globale", tuttavia, determina insicurezza. E favorisce l'impegno su questioni importanti, come la tutela dell'ambiente, il contrasto al riscaldamento globale. Problemi che i giovani dovranno affrontare (e pagare) più degli altri. In Italia, questa tendenza appare più accentuata.

I giovani, infatti, sono il "Laboratorio della società". Perché ne anticipano e delineano i mutamenti. Il futuro. Al proposito l'indagine fa emergere molti segni di In-Sicurezza. In tutti i Paesi. Ma, soprattutto, in Italia. Dove le età della vita - e la gioventù, in particolare - appaiono difficili da "de-finire". 

Cioè, de-limitare. E ciò proietta l'immagine di una gioventù in-finita. Mentre la vecchiaia avanza. E noi fatichiamo ad accettarla. Così, de-limitiamo il futuro. Dei giovani. E di tutti noi. Con il rischio di perdere di vista l'orizzonte. E dimenticare il passato. Per questo conviene ascoltare i giovani. E guardare avanti. Senza illudersi di fermare il tempo. 

L’ignoranza, da vizio. La fortuna di cui compiacersi. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 29 Giugno 2022.

Caro Aldo, lei si indigna perché Fedez non sa chi era Strehler. E siccome dirlo sarebbe molto semplice, un regista di teatro, fa giri di parole chiamando in causa le sue ex donne che mi chiedo cosa c’entrino. Ora a me Fedez non interessa, ma ho una forte idiosincrasia per quelli con la puzza sotto il naso. Strehler è morto quando Fedez aveva 8 anni quindi è difficile che un bambino andasse a teatro soprattutto a vedere le commedie dirette da questo regista che non erano propriamente Mary Poppins. Una rappresentazione teatrale finisce quando si chiude il sipario, è la sua natura. C’eri? Ne hai potuto godere. Non c’eri? Stop. Si può raccontare, osannare, mitizzare un autore o un attore teatrale ma la sua opera muore con lui. E un ragazzo può tranquillamente non conoscerlo. Dani Rami

Caro Dani, Racconta Montanelli nelle sue memorie («Soltanto un giornalista», Rizzoli) che quando lavorava in America incontrò un gruppo di lettori. Uno gli contestò un suo articolo. Il grande Indro cominciò: «Lei non ha capito…». E quello, sferrando un colpo al tavolo: «Se io non ho capito, l’imbecille è lei!». Siamo tutti nani sulle spalle di giganti; a maggior ragione, dei giganti dobbiamo fare nostra la lezione. Quindi, se lei non ha capito, la colpa è mia. Non è tanto interessante che Fedez sappia o non sappia chi era Giorgio Strehler: uno tra i più grandi registi e attori del Novecento, come gli ha spiegato Gerry Scotti, che al confronto pareva Bobbio. Trovo più interessante che Fedez abbia chiamato a correi o meglio a complici e sodali tutti noi: «Chi cazzo è Streller, raga?». Siamo sempre stati ignoranti. Ma l’ignoranza era considerata un vizio di cui vergognarsi; non una virtù di cui andare fieri. Un limite da superare; non una fortuna di cui compiacersi. La retorica del ragazzo o della ragazza di estrazione popolare che non ha potuto studiare è insopportabile. In Italia esiste, finanziata dai contribuenti onesti, la scuola pubblica, gratuita, obbligatoria. I nostri nonni, che davvero non avevano potuto studiare, cercavano di informarsi in tutti i modi possibili. È vero che a scuola non si studia Strehler. Ma se si leggono, non dico i libri, ma i giornali o i siti dei giornali non è difficile imbattersi nel suo nome, ad esempio nel racconto delle donne che l’hanno amato, da Ornella Vanoni ad Andrea Johansson. Si scoprirebbe così che Strehler non era un santo, ma un uomo la cui storia è interessante conoscere.

L’ignoranza al potere. MASSIMO GRAMELLINI l'11 Novembre 2016 su La Stampa.

L’ignoranza è una brutta bestia, diceva mio nonno tranviere, che si spezzava la schiena con gli straordinari per consentire al figlio di prendere il diploma e al nipote, un giorno, di imbroccare qualche congiuntivo sulle pagine di un giornale. Oggi mio nonno, come tanti elettori di Trump, non si vergognerebbe affatto di avere studiato poco. Anzi, trasformerebbe il suo complesso di inferiorità in una forma di orgoglio, non considerando più la cultura uno strumento di crescita economica e sociale, ma il segnale distintivo di una camarilla arrogante di privilegiati. E userebbe l’unica arma a sua disposizione, il voto, per fargliela pagare, «a quei signori». Già, ma per fargli pagare cosa? Semplice: di avere raggiunto un traguardo che alla sua famiglia è precluso.

L’ignorante detesta chi ha studiato perché detesta una società che non consente più a suo figlio di farlo, obbligandolo a contrarre debiti spaventosi per strappare un «foglio di carta» che nella maggiore parte dei casi non garantisce il miglioramento delle sue condizioni, ma si traduce in una mortificazione ulteriore di stipendi bassi e lavori precari. Ogni conservatore diventa rivoluzionario solo quando non ha più nulla da perdere. Allora viene invaso dal rancore e va in cerca di un capro espiatorio e di un vendicatore. Quasi sempre sbagliando mira. Perché è stata la finanza, non la politica e tantomeno la cultura, a costruire questo mondo di sperequazioni odiose. E non sarà un dilettante allo sbaraglio a trovare la formula magica per restituire agli esclusi il progresso perduto.

L'IGNORANZA AL POTERE? ANCHE L'ARROGANZA NON SCHERZA. Massimo Famularo il 14 Novembre 2016 su stradeonline.it. 

Massimo Gramellini in un recente editoriale, ci parla di suo nonno e di come sia l’ignoranza e l’invidia del successo (che evidentemente assume sia appannaggio di chi ha studiato) il tratto caratterizzante dell’elettorato di Trump e l’elemento alla base del suo successo. 

La quantità di non sequitur che l’editorialista della Stampa è riuscito ad infilare poche righe di commento è ragguardevole, in ogni caso il risultato più eclatante che riesce a conseguire è il moto di empatia che riesce a suscitare nei confronti dell’oggetto delle sue critiche: io non mi sento ignorante, né escluso, né vittima della globalizzazione eppure le cose che scrive mi fanno venire una gran voglia di diventare un sostenitore di Trump.

Suo nonno si spezzava la schiena, ma oggi non si vergognerebbe di aver studiato poco. Perché una persona di quell’epoca si sarebbe dovuto vergognare di non aver studiato? Qual è il nesso con il non vergognarsi oggi? Su che cosa basa il presunto complesso di inferiorità che attribuisce a chi non ha studiato?

Ma quando scrive “non considerando più la cultura uno strumento di crescita economica e sociale, ma il segnale distintivo di una camarilla arrogante di privilegiati” si rende conto di essere la personificazione di questo tipo di prospettiva? E ancora: “l’ignorante detesta chi ha studiato perché detesta una società che non consente più a suo figlio di farlo, obbligandolo a contrarre debiti spaventosi per strappare un «foglio di carta» che nella maggiore parte dei casi non garantisce il miglioramento delle sue condizioni, ma si traduce in una mortificazione ulteriore di stipendi bassi e lavori precari.”

Quindi il problema è l’ignoranza, ma anche no perché in verità è il costo degli studi (e quindi il non poterseli permettere genera invidia), però a ben guardare anche chi prende il pezzo di carta poi non migliora le condizioni di partenza… quindi cosa dovrebbero invidiare questi ignoranti?

Ma la summa della totale inconsistenza degli argomenti e della confusione nell’esposizione è data dal passaggio “perché è stata la finanza, non la politica e tantomeno la cultura, a costruire questo mondo di sperequazioni odiose.” Indulgere ulteriormente nell’analisi del testo sarebbe noioso e inutile, Gramellini e gli altri “intellettuali di regime” non hanno interesse a guardare cosa succede nella realtà o a provare a comprenderla perché non ne hanno bisogno: la loro cultura gli garantisce lo status che ben inquadrava il Belli ne li soprani der monno vecchio e che Alberto Sordi ha voluto riprendere col personaggio del Marchese del Grillo.

SI tratta di un’arroganza profonda e sprezzante nei confronti del popolo bue che dovrebbe seguire docile le indicazione delle élite, che dovrebbe vergognarsi anche se non ha potuto studiare per necessità (perché il fatto che il lavoro nobiliti l’uomo può capirlo solo chi sa cosa vuol dire lavorare), che tutto sommato anche se studia rimarrà al pianterreno della società, perché ai piani alti l’accesso è a invito e che, se per caso osa protestare, deve essere bollato come miope e in ogni caso fuorviato perché è tutta colpa del neoliberismo e della turbofinanza.

Spiace per le dissonanze cognitive di questi intellettuali, ma è anche contro di loro e contro quello che rappresentano che la maggioranza degli elettori vota. L’ignoranza non è certo la spiegazione determinante del fenomeno Trump e può essere al massimo l’insulto con il quale veicolare il proprio disappunto verso chi non la pensa come la classe illuminata.

Piuttosto che ingiuriare chi ha votato per Trump e fantasticare di immaginarie e logicamente incoerenti invidie culturali, sarebbe forse il caso di fare un po' di autocritica e chiedersi quanto grande è il fallimento dei candidati e del sistema che è riuscito a perdere contro il più impresentabile dei candidati.

Ora l'ignoranza viene magnificata. Luciano Canfora: è il rovescio del politically correct. Cesare Maffi su italiaoggi.it il 7 aprile 2021

Cresce l'ignoranza. Se si sapesse mediamente meno di prima, ci si potrebbe rassegnare e non farci caso. Il grave, invece, è che adesso si tesse l'elogio dell'ignoranza. Si studiano pretesti che per tali non sono fatti passare, ma se ne celebra il supposto valore.

Caso minore, ma eloquente: la soppressione dei numeri romani. Il Carnavalet di Parigi (tipico «museo della città») ha stabilito di sostituire i numeri romani dalle didascalie delle opere, ricorrendo a numeri arabi per non creare un «ostacolo alla comprensione». Partita dalla Francia come rivoluzionaria (e utile) novità, la proposta è stata discussa, rilanciata, motivata. A che servirebbe scrivere Giovanni XXIII quando identico fine si raggiungerebbe riferendosi a Giovanni 23?

Poche parole bastano per definire la bizzarria (vogliamo definirla così, benevolmente?). Per Massimo Gramellini «è la sintesi perfetta della catastrofe culturale in corso: prima non si insegnano le cose, e poi le si eliminano per non far sentire a disagio chi non le sa», Per Luciano Canfora è una «stupidità», riflesso di un dramma ben più vasto: il «politicamente corretto».

Ovvio: meno insegni, meno la gente apprende, meno chi non sa ha di che dolersi. In età vittoriana i lettori del Times comprendevano all'impronta le frasi greche negli articoli, così come fino a non troppi decenni addietro il clero era in grado di parlare e scrivere in latino. Finora si era in genere evitato di motivare l'encomio dell'ignoranza, tanto che appaiono bizzarrie della cosiddetta seconda sofistica la stesura di elogi della mosca, della zanzara, della polvere, del fumo. Adesso paludati atenei nei due continenti, dagli Stati Uniti al Regno Unito, in nome del condannato politicamente corretto vorrebbero sopprimere Omero e Mozart, e via via quasi l'intero mondo di celebrità culturali, politiche, storiche perché bollate di razzismo, schiavismo, occidentalismo, perfino pelle bianca. Si abbattono le statue di Cristoforo Colombo, mentre le celebrazioni dantesche danno luogo a sfoghi contrari alla maledizione del maomettismo da parte del Poeta.

Si apre così, sovente in nome di un'ideologia e di un'identità di genere, la lotta al passato. Poiché millenni di storia sono intrisi di guerre, persecuzioni, cacciate, lotte, lutti e morti, si muta la storia in giudice, anzi in giustiziera, pretendendo di rivolgersi ai trascorsi, anche recenti, con l'occhio del presente. Per meglio dire, si ricorre alla parte gradita dell'oggi per ergerla a moralista dispensatrice di condanne. Il maggiore esponente del gruppuscolo di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, se l'è presa perché la Marina ha ricordato l'assalto a Suda compiuto nella seconda guerra mondiale. Se ne ricava che l'incursione dei sei uomini della X Mas ad Alessandria, un'espressione di preparazione, volontà, eroismo impareggiabile, sarebbe da passare sotto silenzio perché gli affondatori delle corazzate inglesi militavano dalla cosiddetta parte sbagliata.

C'è pero anche chi ricorre alla storia a modo proprio per trarne motivo di orgoglio. Lo scià Reza Pahlavi celebrò Ciro il Grande per ricostruire millenni di storia persiana, un po' arbitrariamente unificata, mentre pochi giorni fa in Egitto si è pensato bene di decantare la storia patria con una sfilata di mummie faraoniche.

·        La Rimembranza.

Massimo Cacciari per “la Stampa” il 17 giugno 2022.

Perché elogiare la dimenticanza? Non è soltanto la memoria che per noi ha valore? Certo, ora la memoria è affidata ai nostri potenti strumenti (o a quella Tecnica che scioccamente presumiamo sia soltanto "strumentale"), ma è discorso antico, nato già con la scrittura. 

Anche allora molti saggi affermavano o temevano che quella straordinaria invenzione avrebbe finito con l'infiacchire sempre di più la nostra facoltà di ricordare. 

Comunque sia, l'arte della memoria ha costituito l'ossessione della nostra specie. Vorremmo tutto ricordare, così come tutto sapere, risalire alla Causa, spiegare così la ragione sufficiente di ogni cosa. Ammiriamo la potenza della memoria, magna ista vis, nimis magna, grande, troppo grande, dice Agostino. 

Ci inoltriamo con ogni mezzo nei suoi campi immensi, ne proviamo meraviglia come di fronte a un abisso, a un "orrendo": nescio quid horrendum, si sgomenta quasi Agostino di fronte alla sua profunda et infinita multiplicitas.

Perché molteplice la memoria? Di alcune immagini che essa custodisce vado affannosamente alla ricerca, altre immediatamente le trovo, altre ancora mi sorprendono più forti di ogni mia volontà o coscienza. Molteplice sì - ma infinita? Ai suoi spazi non posso assegnare una misura, certamente però non sono infiniti. Essi sono abbracciati dall'oblio, dalla oblivio. Ricordo soltanto ciò che l'oblio non ha sepolto. 

Immensa è la forza della memoria, ma infinita quella della dimenticanza. Per un nome, un volto, un fatto che della mia vita ricordo, innumeri sono quelli di cui non trovo più traccia. Eppure ricordo di averli dimenticati. Se non lo ricordassi neppure potrei dire che l'oblio li ha sepolti. 

La forza della memoria giunge al suo culmine allorché ricorda la oblivio, e rende omaggio alla potenza di quest' ultima.

Oltre ancora a ricordare ciò che ha dimenticato la memoria si protende a "ciò" che è in sé immemorabile. Ogni suo ricordo si staglia sullo sfondo dell'immemorabile. Non ne siamo soltanto coscienti, il fondo in-conscio della nostra coscienza ci costringe non solo a ricordare - in qualche modo come ogni altra specie -, non solo a ricordare la dimenticanza, ma anche a ricordare che vi è un oblio in sé assolutamente incolmabile, quello che riguarda l'Inizio, il Principio, perché si dà vita invece che niente. L'autentica memoria è "modesta" come l'autentica filosofia. 

L'elogio della dimenticanza è dovuto, tuttavia, anzitutto alla funzione essenziale che essa svolge nel ricordare inteso nel suo senso più proprio. Non si darebbe alcun ricordo se non dimenticassimo. 

Ricordare tutto è ricordare nulla. Se riportassi al mio cuore, ri-cor-dare, o alla mia mente, tutto, niente conterebbe come essenziale per me, nulla riguarderebbe il mio cuore, ovvero il centro della mia esistenza. 

La memoria seleziona, discerne, decide, non importa qui se coscientemente o meno. La memoria è forza attiva e immaginativa. Non lo sarebbe se non agisse insieme alla dimenticanza, se tenesse tutto nella sua luce senza essere sempre accompagnata dall'ombra della oblivio. 

Ricordiamo per umbras, come per umbras vediamo e conosciamo. Il vero ricordare è il vero elogio della dimenticanza.

Un barbarico horror vacui sta impadronendosi della nostra idea di memoria, pretendendo di seppellire in sé la oblivio. 

Dilaga un'idea di memoria come di un immenso contenitore in cui accatastare mucchi di indifferenti ricordi - dati e fatti che col ricordo nulla hanno di affine. Ma per quanto immenso sia l'armadio dei ricordi che riusciremo a costruire, sarà misera cosa rispetto all'infinito della dimenticanza. 

E alla forza di quest' ultima dovremo per forza ricorrere quando vorremo richiamare alla mente un ricordo o un ricordo ci sorprenderà - o quando, scoprendo una scintilla di bontà nella nostra natura, giungeremo davvero a saper perdonare chi ci ha offeso o è in debito con noi: anche allora diciamo, infatti, "ho dimenticato".

·        La Nostalgia.

Anni '50 - Come eravamo, ma quanto è bella la tv che guarda al passato...Maurizio Costanzo su Libero Quotidiano il 23 luglio 2022

Ho scoperto a metà pomeriggio del sabato su Retequattro una serie televisiva italiana di qualche anno fa: Anni '50 - Come eravamo. Dico subito che era fatta bene quella serie, ripeto, di alcuni anni fa. Bravi gli attori, da Antonello Fassari a Ezio Greggio e altri che poi negli anni sono diventati ancora più bravi. Mi chiedo perché nelle produzioni, ogni tanto, non si è andato a rivedere il passato raccontando le nostre ingenuità, i nostri comportamenti, le nostre speranze. Non dimentichiamo che il cinema di 20-30 anni fa usava questo artificio per una operazione di memoria del pubblico italiano. Più passa il tempo, più aumentano le occasioni di comunicazione e più ci accorgiamo quanto è importante il valore della memoria.

Chiunque abbia seguito sceneggiati televisivi o programmi di varietà si sarà ritrovato a considerare come, non sempre, la modernità abbia aiutato il prodotto. Una operazione memoria si potrebbe fare riproponendo film di successo come Sapore di mare diretto da Carlo Vanzina, con De Sica, Calà e molti altri bravi attori. Carlo Vanzina, figlio di un grande regista, Steno, collaborando con suo fratello Enrico, ha consegnato film che sono stati fotografia del momento. Ecco, mi sembra che non ci siano più proposte che raccontino l'oggi o, al massimo, «lo ieri», ma non troppo indietro nel tempo.

La stessa operazione può esser fatta sulla musica leggera e di recente la tv ha mostrato un programma che andava indietro nel tempo. È stato piacevole riascoltare Massimo Ranieri, Little Tony, Bobby Solo con Una lacrima sul viso. Non c'è bisogno di essere nostalgici guardando il passato e comunque guardare i "come eravamo" è un gioco di memoria ma anche una fotografia del presente.

Giulia Maira, Professore di Neurochirurgia Humanitas, Milano Presidente Fondazione Atena Onlus, Roma, per  “il Messaggero” il 16 marzo 2022.

Le emozioni sono quelle cose che colorano la nostra esistenza, che ci danno le sensazioni che proviamo quando ci arrabbiamo o abbiamo paura, oppure ci innamoriamo. Per Sartre sono una trasformazione magica del mondo. Certe volte, però, possono agire come un analgesico capace di rendere sopportabile il dolore.

GLI STIMOLI È quello che è emerso da uno studio condotto da ricercatori dell'Accademia Cinese delle Scienze, e appena pubblicato sul Journal of Neuroscience. In pratica, gli studiosi hanno mostrato a un gruppo di volontari due raccolte di fotografie: una che, mostrando scene felici della loro infanzia, induceva nostalgia; l'altra costituita da foto del passato, non collegate alla loro vita e quindi non in grado di produrre emozioni. Allo stesso tempo, le persone erano sottoposte a stimoli dolorosi, come il contatto con un oggetto caldo, di cui veniva misurato l'effetto. I risultati hanno mostrato che la nostalgia legata alla visione di scene felici del passato ha l'effetto di ridurre la percezione del dolore.

L'esperimento, semplice nella realizzazione, ci parla di tre meccanismi cerebrali fondamentali per la nostra vita: le emozioni, la memoria e il meccanismo della ricompensa, cioè l'esperienza legata al piacere e al desiderio di ripeterla, che è quello che ci capita quando ci innamoriamo o ogni volta che vediamo una cosa bella. La nostalgia, che è centrale nell'esperimento di cui parliamo, è un'emozione speciale nella quale possiamo cogliere un velo di tristezza e di rimpianto del passato. Ma è anche un'emozione positiva, legata al ricordo di momenti felici che abbiamo depositato nella nostra memoria per la forza che hanno avuto, un tempo, di emozionarci.

IL GIOCO E il piacere del ricordo, come una reazione a catena, induce la liberazione di dopamina, l'ormone del piacere, e l'attivazione dell'amigdala, il centro delle emozioni, la quale chiama subito in soccorso l'ippocampo, il luogo in cui si formano i ricordi. In questo modo, la vista di scene del nostro passato felice, risveglia ricordi e induce emozioni simili a quelle vissute allora. E in questo gioco, per noi sempre molto importante, tra emozioni e piacere, la nostalgia scatena percezioni positive verso la vita e induce liberazione di sostanze che abbassano la percezione del dolore, come la serotonina, la noradrenalina e le endorfine.

E tutto questo trova riscontro obiettivo negli studi di Risonanza Magnetica funzionale i quali, durante l'esperimento, hanno evidenziato un'aumentata attività del talamo, una sorta di centro di smistamento degli stimoli che giungono al cervello dal corpo, e una riduzione dell'attività dei centri del dolore. Alcuni ricercatori giapponesi, anni fa, avevano visto che la stimolazione di neuroni che inducono piacere fermava l'attività di quelli connessi con la paura, e viceversa.

Come sempre, la vita è un'altalena tra emozioni positive e negative; e adesso sappiamo che è importante far prevalere le prime per vivere meglio. Diceva Laurence Sterne: «Un sorriso può aggiungere un filo alla trama brevissima della nostra vita».

·        Gli Amici.

Bruna Magi per “Libero quotidiano” il 15 marzo 2022.

Consigli per il buon vivere che ci arrivano dall'Ottocento, ma sembrano freschi di giornata. Li trovate in Salvatemi dagli amici (Elliott editore, pag.64, euro 7) autore Wilkie Collins, giornalista e scrittore londinese scomparso nel 1889, considerato anche il padre del poliziesco moderno, autore di un best seller intitolato La pietra di luna, che ebbe svariate trasposizioni cinematografiche e ispirò serie televisive. Salvatemi dagli amici, un piccolo gioiello, è costituito da tre lunghi articoli che Collins scrisse per le riviste Household Words e All the Years Round dirette da Charles Dickens, suo celeberrimo grande amico. 

L'invocazione «salvatemi dagli amici» nasce quando incontra un mendicante che gli chiede l'elemosina, ma ha un aspetto sano, ben nutrito, nonostante affermi di non avere un penny con cui sfamare se stesso, la moglie e ben sette figli. Wilkie si chiede quali siano le ragioni per cui non manifesta sofferenza, quando viene colpito dalle esternazioni dello sconosciuto: «Signore, sapete perché io e la mia famiglia dobbiamo morire di fame nella terra dell'abbondanza? Perché non ho un lavoro e non amici».

Ma visto che l'uomo non sembrava per niente affamato, Collins ne dedusse che la chiave stava proprio in quella dichiarazione: «Non ho amici». E così scrive: «Nessun amico! Fortunato di un briccone. Ecco la vera ragione della sua superiorità... Io me ne vado a casa a finire un articolo, senza sapere se, per tutto il tempo che sono al lavoro, avrò mai cinque minuti per me, e dando per scontato che lungo il tragitto c'è sempre il rischio di incontrare qualcuno che, in memoria di una vecchia amicizia, chiede due spicci in prestito».

E poi ci sono le lettere degli amici ai quali rispondere (chissà cosa direbbe oggi con le valanghe dei nostri sms), e arriva puntuale un libro che aspetta la recensione. E poi c'è l'amico "tutto casa e famiglia" che si fa vivo puntualmente nei miracolosi dieci minuti di relax a raccontargli, da anni, le eterne malattie di moglie figli.

Se cerca di virare sull'argomento tempo, quello innesca un seguito straziante sugli effetti che il meteo produce sulla poveretta, se si sposta sulla cronaca politica o letteraria, il tipo risponde di non sapere nulla di quanto fanno ministri o scrittori, perché tutto il suo interesse è assorbito dalla disgraziata malattia in famiglia. Se invita entrambi i coniugi a cena, l'amico non farà altro che chiedere alla consorte come si sente.

E poi ci sono i conoscenti con deliziosa casa in campagna che la mettono a disposizione per scrivere in santa pace i suoi romanzi, ma non appena arrivato lo tormentano "perché non vorrai trascorrere tutto il tempo chiuso in camera" e la mattina se ne va veloce senza buttar giù un riga, e appena riesce a rinchiudersi in solitudine, ecco la figlia del padrone di casa che inizia a strimpellare al piano la famosa aria del Trovatore, mentre dal giardino sottostante arrivano i tipici romantici rumori bucolici, uccelli che tormentano con i cinguettii (ma come possono piacere tanto ai poeti?) e in certi casi gli amici hanno pure una stalla, avendo deciso di dedicarsi all'agricoltura, dalla quale una mucca muggisce disperata in continuazione come se avesse perso un congiunto, e inoltre il giardiniere inizia ad usare l'arrotatore della falce.

E allora all'autore non resta che implorare, disperato: «Lavorare, lavorare, bisogna darsi da fare! Ah, idee mie, i miei unici beni, abbiate pietà e tornate dame, altrimenti... ho perso la giornata». Ma c'è anche l'amico che si compiace di sé, e non sa parlare d'altro se non di se stesso e dei suoi successi.

E c'è quello sbadato che fa domande irrilevanti senza darsi neppure la briga di ascoltare le risposte, e c'è colui che afferma di volerlo invitare a cena, ma se ne guarda bene dal farlo davvero. E quello che vuole convincerti che hai una brutta cera, e arriva sempre con l'indirizzo di un nuovo medico oppure con una sua ricetta. Dulcis in fundo, dopo aver fornito anche consigli ai romanzieri, Collins racconta croci e delizie dei party.

Dove si lamenta degli eccessivi affollamenti, e vive le lotte per essere invitati alle feste più prestigiose, tipo il Ballo degli Scapoli, dove fanciulle e giovanotti si scatenano, e si compiace della moda di crinoline sempre più ampie, che trasformano il passo della moglie («camminava come una papera») in un sinuoso ondeggiare. È un uomo dell'Ottocento, ma tale e quale a un marito di oggi quando commenta l'abbigliamento della consorte mentre stanno uscendo di casa.

·        La Fiducia.

Diffidenza diffusa. Fidarsi degli altri è più complesso di quel che si crede. Sergio Sorgi e Francesca Bertè su L’Inkiesta il 3 Dicembre 2022.

In quest’epoca si spegne l’interruttore che attiva le relazioni affettive, professionali, personali. Il libro di Francesca Bertè e Sergio Sorgi (pubblicato per Egea) propone una raccolta di spunti teorici e pratici per provare a invertire una tendenza di lungo periodo

Quando al mattino premiamo il bottone della radiosveglia per interromperne il fastidioso cicaleccio, inizia il nostro viaggio quotidiano nella fiducia. Quel gesto semiautomatico, infatti, si basa sull’aspettativa positiva che la corrente elettrica che passa dalla sveglia non ci fulmini, sulla fiducia pigra che nutriamo nel produttore e negli ispettori della qualità.

Nell’alzarci dal letto, ci fidiamo del costruttore dell’edificio e della solidità del pavimento, quando apriamo il rubinetto per lavarci confidiamo che non ne fuoriesca una vipera, e addentiamo pane tostato e marmellata senza farli assaggiare a una cavia perché siamo ragionevolmente convinti che non contengano stricnina. Ogni volta che attraversiamo la strada con il semaforo verde, inconsciamente confidiamo nel fatto che qualcuno a noi del tutto ignoto non passi con il rosso. In sintesi, senza fiducia non usciremmo di casa con lo smartphone ma con la pistola, non saliremmo in ascensore, non mangeremmo cibo crudo, non affitteremmo la nostra stanza a un forestiero, non useremmo la carta di credito su una piattaforma di pagamenti elettronici che non sappiamo nemmeno da chi sia gestita. La fiducia è un pavimento di vetro che ci consente di camminare senza cadere.

Come ben pone in luce Niklas Luhmann, senza fiducia non potremmo nemmeno alzarci dal letto la mattina perché nessun individuo sarebbe in grado di sopportare un confronto diretto e continuo con la complessità del mondo. Il sistema «fiducia», così descritto, sostituisce l’insicurezza esterna con una relativa sicurezza interna, e ci aiuta a tollerare le incertezze ambientali e relazionali. Siamo però certi che le fiducie descritte siano consapevoli e non automatiche?

In fondo, non tutto può essere vagliato in modo meticoloso: abbiamo energie e tempo limitati e non ne verremmo a capo. Se dunque alcune cose decidiamo di darle per assodate, ce ne sono molte altre che invece meritano un’attivazione e una consapevolezza ben diversa. Fidarsi è una scelta generosa ma anche l’esito di una valutazione e in questo senso è qualcosa di molto diverso dall’affidarsi o dallo sperare. Inoltre, fidarsi delle cose è molto meno impegnativo in termini psicologici che fidarsi delle persone. Come ben espresso da Katherine Hawley, «quando inizi a pensare che il tuo computer cospiri contro di te, è tempo di prendere una boccata di aria fresca».

Eppure, a dispetto della teoria, viviamo da tempo in un contesto segnato da diffusa sfiducia nella quale gli altri, il futuro e noi stessi ci appaiono sempre più inconoscibili e in qualche maniera vulnerabili. Quanto c’è di oggettivo, in tutto ciò, e quanto di soggettivo? Perché alcuni di noi si fidano anche in contesti apparentemente minaccianti e altri sviluppano forti diffidenze in situazioni che sembrerebbero prive di rischi?

Fiducia, sostantivo plurale, Sergio Sorgi, Francesca Bertè, Egea, 18 euro, 160 pagine

Daniela Mastromattei per “Libero quotidiano” il 25 luglio 2022.

La desideriamo, spesso la promettiamo e a volte lamentiamo la sua scomparsa. Ha la forza di creare legami e generare accordi, e allo stesso tempo di renderci vulnerabili e dipendenti. È uno dei pilastri della convivenza sociale, nel privato e sul lavoro. Ma se viene meno saltano rapporti d'amore, d'amicizia o di collaborazione.

E cadono governi. Infatti quello di Mario Draghi è crollato proprio sulla fiducia. Alla quale l'ex banchiere della Bce teneva particolarmente come dimostrano i numeri: in 17 mesi di Esecutivo l'ha chiesta in 55 occasioni. Al premier uscente va anche la palma d'oro per la media mensile con 3,24 voti di fiducia al mese. Al secondo posto troviamo Monti (3) e al terzo il Conte Bis (2,25). Benedetta fiducia. Ne abbiamo bisogno, però allo stesso tempo vorremmo farne a meno. Non ci fidiamo della fiducia. Eppure a volte dobbiamo lasciarci andare, senza alcuna garanzia.

«La fiducia genera una vulnerabilità accettata che si realizza tra due e più persone fintantoché quelle persone possono basarsi sul presupposto che la loro vulnerabilità non sarà sfruttata o abusata», spiega Martin Hartmann, professore di filosofia pratica all'Università di Lucerna in Svizzera ne "Il paradosso della fiducia" sulla rivista di psicologia e neuroscienze Mind.

Non c'è nessun motivo per fidarsi automaticamente degli altri nonostante quel "non ti fidi di me?" quasi minaccioso che spesso rimbalza nelle conversazioni tra chi si conosce da sempre e chi da pochi minuti. Tuttavia, «il modo migliore per scoprire se ci si può fidare di qualcuno è dargli fiducia», direbbe Ernest Hemingway. Sebbene non ci sia ragione per affidare i propri segreti al primo che s' incontra, le neuroscienze hanno descritto come la fiducia si determini entro pochi millisecondi dal primo contatto visivo, pur non garantendo che sia giustificata.

La prima percezione è influenzata da pregiudizi inconsci, dall'esperienza e da qualcosa di inspiegabile che scatta sul momento. Capire a chi ci affidiamo e perché non ha sempre una risposta razionale. L'onestà gioca un ruolo fondamentale, è vero, ma chi ci dà la certezza di essere in grado di distinguere l'integrità delle persone? 

Ecco perché la fiducia "ingenua" di solito scatta verso chi ci somiglia con valori condivisi e gusti simili. Attenzione, però, lo stesso professor Hartmann avverte: «La nostra disponibilità a fidarci degli altri potrebbe essere in calo, non perché il mondo sia diventato un posto brutto, dove dominano solo bugie e inganni, bensì perché semplicemente non ci piace essere in balia degli altri, perché non vogliamo esporci e diventare vulnerabili».

Ma come si può non fidarsi delle persone con cui si vive o si lavora, degli amici, della maestra dell'asilo a cui si lasciano i figli, della banca a cui si affidano i propri guadagni... C'è poco da fare. «È sempre un azzardo e una rinuncia al controllo», ne è convinta Isabel Thielmann, psicologa all'Università di Coblenza-Landau. 

Da un lato corriamo un rischio e dall'altro speriamo che il beneficiario della nostra fiducia non ci deluda. Eppure secondo Thielmann chi non si fida degli altri ha più problemi, e difficoltà nel creare legami sociali. La conferma arriva da studi recenti, secondo i quali le persone che si fidano sono più sane, più felici e vivono più a lungo. E hanno relazioni più stabili e significative.

 Meno diffidenza aiuta persino ad aumentare le finanze. Alcuni ricercatori hanno valutato i dati di quasi 16.000 tedeschi di diversi ceti sociali e appurato che nel giro di nove anni i soggetti più fiduciosi avevano registrato in media un aumento del reddito di 240-250 euro al mese, mentre i più scettici nello stesso periodo avevano visto invariato il loro stipendio. «Puoi essere ingannato, se ti fidi troppo, ma vivrai nel tormento se non ti fidi abbastanza», affermava Frank Crane, regista statunitense del cinema muto.

Forse i diffidenti cercano di stare alla larga da rischi, nuove collaborazioni e occasioni varie. Ma è anche vero che chi si fida sempre in modo incondizionato rischia di lasciarsi ingannare da situazioni ambigue. Allora, quando vale la pena fidarsi? Alexa Weiss dell'Università di Bielefeld in Germania ritiene che la diffidenza è una sorta di sirena d'allarme che ci indica quando rischiamo di farci sfruttare o se la posta in gioco è troppo alta.

 Nella ricerca di segnali di affidabilità ci affidiamo a giudizi intuitivi: nel caso di persone che conosciamo già ci basiamo sulle esperienze precedenti avute con loro; di fronte a dei perfetti sconosciuti invece scrutiamo le caratteristiche esteriori, certi segnali, come un sorriso, uno scambio di sguardi. E se si ha l'impressione di avere di fronte una persona competente, spiega Weiss «ci fidiamo più facilmente». 

Ma di norma sottolinea «ci fidiamo di più delle persone che percepiamo come simili a noi», come abbiamo già detto. Così è facile. E si resta chiusi nel proprio orticello. Invece sono molto più interessanti i rapporti di fiducia quando non si ha paura di correre rischi e si è disposti a perdonare.

Secondo Thielmann essere troppo rancorosi non aiuta, perché le delusioni di tanto in tanto fanno parte della vita. E il saper perdonare mantiene alta la fiducia sul lungo periodo. Però è anche vero che se non ci arrabbiamo e non puniamo gli errori altrui, sarà più facile per chiunque abusare della nostra fiducia. Epicuro a questo punto direbbe: «Non è tanto dell'aiuto degli amici che noi abbiamo bisogno, quanto della fiducia che essi ci aiuterebbero nel caso ne avessimo bisogno». 

La pensa in qualche modo così anche la psicoterapeuta Emma Cosma, raggiunta al telefono: «La fiducia è alla base di qualsiasi relazione con noi stessi e con gli altri, e si basa sulla sensazione di essere al sicuro, sulla certezza di poter contare sugli altri, ma anche sulla forza delle nostre capacità. Più si è sicuri di sé più si è disposti a lasciarsi andare e a credere nelle relazioni. Non solo. Più ci si fida, anche nei rapporti amorosi, più le relazioni sono destinate a durare».

E ancora: «La fiducia si costruisce, si scopre, a volte si perde. Poi, si riconquista. È un sentimento complesso, mutevole, che ci accompagna per tutta la vita, in ogni nostro incontro. Ci segue passo passo nel relazionarci con gli altri, col nostro partner, con gli amici, con la famiglia, con le nostre capacità e competenze, con il nostro corpo. Con noi stessi», conclude la Cosma. E Jim Morrison intonerebbe: «Non sono turbato perché mi hai tradito, ma perché non potrò più fidarmi dite!» 

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 25 luglio 2022.

La fine del matrimonio tra Totti e Blasi è parsa a molti la conferma che da una crisi di coppia non si esce se non con una separazione. Questa tesi viene contestata, sulla base di pratica e teoria, da Leonardo Trione, consulente matrimoniale e fondatore insieme a sua moglie di una comunità, l'associazione "Arca dell'Alleanza", in cui ha assistito 300 coppie in crisi, "salvandone" ben 200. 

Storie e numeri che gli hanno consentito di scrivere "La guarigione della famiglia ferita. Un libro e un metodo per salvare i matrimoni in crisi" (Shalom, pp. 256, euro 7), manuale per affrontare i passaggi a vuoto della vita coniugale e scongiurare separazioni, permettendo di rinnamorarsi. 

Trione, quali sono le cause più frequenti che determinano la crisi di una coppia?

«Dobbiamo partire dal presupposto che il conflitto è inevitabile nella coppia: è normale che essa attraversi momenti di crisi. Il termine crisi è associato erroneamente all'idea di fallimento, invece un evento del genere determina sempre un'opportunità di crescita per ripartire e ritrovare un amore più consapevole.

Detto questo, di solito il tradimento è il manifesto della crisi, ma è anche l'esito di una crisi nata molto prima. La fatica più grande è affrontare subito i problemi, chiedere aiuto e correre ai ripari. Invece generalmente si preferisce l'evitamento, e il tradimento rientra in questa strategia: anziché affrontare la difficoltà, eludo il problema e cerco un altro o un'altra. 

Non a caso, più della metà delle coppie che arrivano da noi hanno già iniziato una relazione extraconiugale, consumando l'atto o coltivando il tradimento tramite chat. Ma, alla base, ci sono cause più profonde, che vanno dalla cattiva educazione all'amore alla frustrazione di coppia, sia affettivo-sentimentale che erotica». 

Il primo punto da cui partire per affrontare una crisi si può sintetizzare così: "il senso della relazione conta più del sentimento e del sesso"?

«Sì, viviamo in un tempo che esalta la sensualità come valore assoluto. Quindi ciò che mi dona piacere si afferma, ciò che mi provoca dolore è male. E spesso i coniugi fanno scelte in base a .m."e j 4. -. r 4 No al mito di "Due cuori, una capanna": non bisogna idealizzare il matrimonio come una bolla fuori dalla società.

Ridare spazio alla tenerezza: la tenerezza è il sentimento più forte che alimenta anche la dimensione erotica (non è vero che il desiderio sessuale è destinato fatalmente a esaurirsi) ciò che sentono o non sentono. "Non sento più nulla per te" diventa spesso la frase con cui ci si lascia. Ma il piacere e il sentimento per definizione sono momentanei. Anziché sul sesso o sul sentimento, io propongo allora di concentrarsi sul senso della relazione, in pratica chiedo ai coniugi di ritagliarsi dei momenti di ascolto per chiedersi perché si sono sposati, cosa li lega ancora oggi e se credono ancora nell'impegno assunto. È una sorta di "check up" periodico, di verifica coniugale, da fare una volta a settimana; un'opportunità per andare in profondità alla relazione, ritrovare ciò che c'è di bello e affrontare ciò che non funziona». 

Lei suggerisce di fare gesti concreti d'amore anche quando non li si sente. Non si rischia così di essere ipocriti?

«Non è ipocrisia, ma una piccola "forzatura" accompagnata da un atto di umiltà, perché significa non concentrarsi solo su ciò che ci ha ferito o deluso, sul risentimento o sul sentimento in calo. Si tratta di passare dal "sento di amarti" allo "scelgo di amarti". In questo modo impegno tutta la mia persona, non solo la parte emotiva. E, anche quando a livello sentimentale qualcosa viene meno, faccio responsabilmente un'azione che magari non corrisponde a quello che provo, ma che poi mi aiuterà a riscoprire i sentimenti. Perché non dobbiamo dimenticarci che l'amore è una scelta, non un sentimento. Il sentimento nutre l'amore, ma non è l'amore».

È giusto dire, a riguardo, che oltre che una persona si ama e si sceglie l'istituzione matrimonio e l'impegno che comporta?

«Sì, l'amore è una scelta che impegna la volontà e richiede responsabilità. Verso il coniuge ma anche e soprattutto verso l'istituzione e/o il sacramento grazie a cui ci si è uniti». 

Lei pone l'accento sulla tenerezza coniugale, sulla necessità di carezze e coccole. L'affidarsi solo a quello non sacrifica la parte più passionale del rapporto? Per dirla con De André: «Non resta che… qualche svogliata carezza e un po' di tenerezza».

«No, al contrario la tenerezza mantiene a galla l'amore. Educarsi alla tenerezza significa vivere l'intimità coniugale in una esperienza più significativa e profonda, che riconosce la persona nella sua interezza, non solo come un corpo. La tenerezza non è tenerume, non significa essere deboli o sdolcinati. Al contrario, è un sentimento forte, esprime protezione, coraggio e accompagna la parte erotica. E la bella notizia è che il calo del desiderio in una coppia non è una condanna irrevocabile: anzi, grazie alla tenerezza, si fa meglio l'amore dopo una crisi superata». 

Dal linguaggio del corpo a quello verbale. Quali strategie comunicative adottare per ricucire la frattura col partner?

«Siamo spesso abituati a una comunicazione di coppia che adotta una modalità imperativa del tipo "Devi andare a prendere nostro figlio", "Mi raccomando, vai a fare la spesa". Basterebbe passare a un metodo empatico che ricorra a espressioni come "Mi piacerebbe questa sera uscire insieme", "Che ne diresti di andare a prendere nostro figlio, te la senti?" Quando coinvolgiamo l'altro, questo non si sente più un burattino. E smette di fare le cose solo perché deve». 

Lei propone anche di usare il Noi nelle discussioni.

«Sì, i litigi sono momenti in cui di solito si usa il Tu per attaccare e l'Io per difendersi. Invece, un metodo intelligente è ricorrere al Noi quando si discute, condividendo le responsabilità. È la condivisione nello scontro, il mettersi in discussione durante una discussione». 

Perché è importante fare regali in una fase di crisi?

«È una forma di attenzione che contribuisce a superare la distanza. Nel donare un oggetto c'è il tendere la mano, che è più importante dell'oggetto stesso, anzi è il vero regalo».

Il passaggio più difficile è affrontare un tradimento. Come si fa?

«Suggerisco di demitizzare il tradimento: quella che appare come una parentesi straordinaria ed eccitante è tale solo perché calata fuori dalla quotidianità. Sono le stesse coppie a riconoscere che si tratta di un paradiso artificiale, una fuga che non ha garantito soluzione ai problemi. Ma è possibile superare un tradimento e perdonarlo solo se si riesce a dare un senso al tradimento stesso, cioè a capire perché si è arrivati fino a quel punto, senza banalizzarlo come una scappatella. Conta poi il sacrificio, inteso come apertura di credito da parte del coniuge tradito e come rinuncia a relazioni extraconiugali da parte del traditore. Quel doppio sacrificio è un investimento per imparare ad amare di più e meglio». 

Perché i miti di "due cuori e una capanna" e della "famiglia-azienda" sono la morte della coppia?

«Quanto al primo, il problema è che molte coppie prima di sposarsi idealizzano il matrimonio come un rapporto esclusivo fuori dalla società. Ma così ci si concentra solo sulle dinamiche della vita coniugale, senza possibilità di un confronto con l'esterno. E più ci si concentrerà su di esse, più ci sarà il rischio di restarvi imprigionati. 

Quanto alla famiglia-azienda, il pericolo è intendere la vita di coppia come un servizio in cui tutto deve funzionare alla perfezione. Ma questa visione si scontra con la realtà che è sempre, e per fortuna, imperfetta. Molte crisi nascono dalle aspettative troppo alte verso partner che poi, nella relazione, inevitabilmente deludono. Meglio allora fare bagni di quotidianità e mettere in conto i limiti altrui, traendo reciprocamente forza dalle proprie debolezze».

Credere in Dio aiuta davvero a far durare di più un matrimonio?

«Sì, la migliore relazione è a tre, perché coinvolge pure Lui. E la fede è la migliore promessa di eternità: ci convince che anche l'amore può durare in eterno». 

·        Il Sesso.

Da “la Repubblica” l'1 novembre 2022.

Uno dei paradossi dei nostri tempi è che di sesso si parla in continuazione ma si fa meno di quanto s'immagini. Non è un'illazione, ci sono dati e ricerche che fotografano la sessualità stanca dell'Occidente. Luigi Zoja è uno psicoanalista dallo sguardo largo che non si accontenta di sondare le patologie individuali ma indaga la società. Da junghiano cosmopolita, con un'esperienza all'Istituto Jung di Zurigo e negli Stati Uniti, ha scritto Il declino del desiderio (Einaudi Stile libero) per raccontare uno dei fenomeni più interessanti e incredibili del nuovo millennio. Un'epoca tanto libera quanto impaurita. 

Sono solo i giovani ad essere affetti da questa "sindrome del ritiro"?

"È la società in generale ma nei ragazzi è più evidente. Iniziano a fare sesso sempre più tardi e tra loro si registra un forte ritorno alla masturbazione. Anni fa sembrava che questa psicastenia, una stanchezza dell'anima che si riflette sul corpo, riguardasse prevalentemente l'Oriente, ma è chiaro ormai che il fenomeno degli hikikomori, i ragazzi giapponesi che si isolano dalla vita sociale, si è affermato su scala planetaria".

Dove ci siamo incagliati, che cosa è successo?

"Scontiamo il "disincanto del mondo", per usare la formula di Max Weber. Quando tutto si riduce a fenomeno meccanico finisce che si perde interesse. Cresce il numero dei ragazzi che odiano il proprio corpo e non riescono a vivere in modo rilassato una vita sessuale che cerchi di recuperare il concetto antico di eros e vada al di là della mera idraulica". 

Un tempo Eros si scriveva con la maiuscola, era un Dio.

"Il passaggio alla minuscola è stato inevitabile, fa parte del processo di laicizzazione della modernità. Indietro non si torna ma probabilmente potremmo provare a recuperare rispetto per la relazione e l'amore in sé. Cosa che Tinder non permette".

Sta suggerendo di risacralizzare il sesso?

"Gli smartphone o strumenti come le app di incontri creano esperienze più mentali che fisiche, più astratte che concrete, che lasciano insoddisfatti. Incontri che non si traducono in avventure erotiche ma rimangono virtuali e fanno solo perdere un sacco di tempo. Non si guarda davvero all'altro ma a quanto la sua immagine sia "postabile", a quanto ci faccia fare bella figura. Questo è un travisamento dell'eros, la cui attivazione è un fenomeno interiore personale e non qualcosa di esterno, da mostrare. Il problema è che i modelli si cercano ormai su Internet e che devono passare al vaglio dello sguardo della community della Rete".

Crede anche lei, come Bauman, che scontiamo un consumismo esasperato?

"Come scrivo nel libro siamo vittime della sindrome dell'iper-Buridano. Allo stesso modo dell'asino che non sapeva quale fieno scegliere, se il mucchio alla sua destra o quello alla sua sinistra, entrambi ugualmente appetibili, ci blocchiamo di fronte a troppa offerta. Oltre una certa soglia subentra la nausea. Robin Dunbar, neuroscienziato e paleoantropologo dell'università di Oxford, ha stabilito una soglia di contatti oltre la quale perdiamo la relazione personale. Per Dunbar sono intorno ai 150. Se è vero questo, le migliaia di "amici" che abbiamo su Facebook sono un fake. Viviamo dentro bolle prive di emozioni reali".

Quanto la sessualità è condizionata da Internet?

"Indebolito il ruolo dei modelli tradizionali, tra cui la famiglia e la scuola, sono i film pornografici o gli influencer i nuovi punti di riferimento, anche per quanto riguarda la sessualità. È evidente che si tratta di parametri non imitabili che generano solo frustrazione. I video porno, in cui il maschio ha l'erezione permanente e la donna è sottomessa e disponibile, sono parte del maschilismo di ritorno dei nostri anni".

Il fenomeno riguarda solo la sfera sessuale o anche quella sociale e politica?

"Il neopopulismo stile Trump, Bolsonaro, Putin si sovrappone a questo maschilismo piuttosto rozzo. Il crollo delle sinistre si può leggere anche da questa ottica. Sarebbe interessante capire quanto abbia indebolito il gradimento della sinistra agli occhi del popolo la difesa dei marginali, dei trans, degli omosessuali. È chiaro che si tratta di attacchi pretestuosi e che la società non è certo minacciata da minoranze che rimangono tutt'oggi percentualmente insignificanti, ma sta vincendo la personificazione del nemico. Il bisogno del "malvagio" da additare. C'è poi un altro elemento da valutare. La gente si chiede perché continuare a parlare di quell'1% e non di problemi più gravi come la disoccupazione". 

E lei personalmente come la vede?

"La libertà di qualsiasi minoranza è una grande conquista, ma l'indebolimento dell'identità di genere sta creando un certo disorientamento. Tra l'altro a un'incertezza psicologica diffusa si sta affiancando un'incertezza a livello ormonale, endocrinologico. Stando a una recente ricerca, il numero degli spermatozoi nel liquido seminale maschile nell'ultimo mezzo secolo si è dimezzato". 

La fluidità sessuale non è una ventata di libertà, una spallata ai vecchi schemi patriarcali e maschilisti?

"Il problema è che tutto sta avvenendo troppo rapidamente e i ragazzi ne ricavano una sensazione d'insicurezza. La femminista Alice Schwartz si è scagliata in modo netto in una trasmissione tv contro la nuova legge svizzera che affida la definizione del sesso a soggetti anche minorenni senza bisogno di certificazione medica e abbassando l'età minima per la scelta a 14 anni. Non è un caso che accanto alle transizioni da un sesso all'altro, siano aumentate le richieste di de-transizioni. Quando si sceglie troppo presto si rischia poi di pentirsi, ma tornare indietro è impossibile e cresce la confusione". 

Non c'è il rischio che i reazionari cavalchino questi argomenti?

"Alle origini del nazismo e della crisi della Repubblica di Weimar c'è anche il rifiuto di una libertà percepita come eccessiva e decadente. Le chiusure morali di Putin e degli altri autocrati si alimentano demagogicamente di questi stati d'animo".

Madri, padri, figli e l’altra metà della mela. Dai primi amoretti, dall’averne osservato gli sviluppi, ho tratto l’impressione di una strana educazione sentimentale. Lisa Ginzburg su La Gazzetta del mezzogiorno il 27 Agosto 2022.

Conosco diversi giovanissimi adolescenti, e questa estate di alcuni di loro ho seguito le vicende sentimentali. Acerbe vicende se si considera l’anagrafe, perché quattordici o quindici anni non è certo tempo maturo a sufficienza per imbastire «vere» relazioni amorose. Ma per cotte e innamoramenti sicuramente sì, certo che è l’età giusta. Di questi primi amori e amoretti estivi, dall’averne osservato gli sviluppi, ho tratto l’impressione di una strana educazione sentimentale, insieme scarsa e condizionata: senza parole e senza nozioni, ma già impregnata di preconcetti. Cosa sia l’amore e come si ama, non lo sappiamo mai: nessuno di noi, mai, nemmeno dopo avere vissuto molti amori, neppure da vecchi. Il sentimento amoroso, l’attrazione, la passione, il sentimento, sono, e restano, un mistero. Come coltivare le nostre relazioni, in che modo avvicinarci all’altro sesso e intrattenere con quello rapporti sani e limpidi, destinati se non a durare, a gettare buoni semi, invece è qualcosa che prende forma presto, e specie negli anni della pubertà.

I giovanissimi adolescenti maschi: alcuni gentili, altri impacciati e piuttosto aggressivi nell’avvicinare le ragazzine loro coetanee. Ovvia e anagraficamente normale la loro inesperienza: gradevole quando prende forma di stupore, incantamento, meraviglia, non di arroganza o di preconcetta sicumera. Quest’ultima, la baldanza aggressiva, da dove arriva? Spesso dalle madri di quei figli maschi.

Non ho figli maschi; se ne avessi avuti, probabilmente ancor più di quanto non faccia come madre di una femmina sarei stata una madre autocritica, esigente con me stessa. A una donna, e a una madre per prima (subito prima che a un padre) spetta l’insegnare a un figlio maschio a relazionarsi nel modo migliore con «l’altra metà della mela», con il femminile, con le ragazze (più tardi donne). Insegnare a considerarle, a trattarle bene, con rispetto e gentilezza. A non temere la potenza e la bellezza della natura di donna, a non aver paura di farsi soggiogare dal suo incanto; al contrario, imparare a supportarle, rendendo quell’incanto nutrimento e motivo di ispirazione. Molto più di quanto la maggioranza di loro non faccia, le madri dovrebbero insegnare ai figli maschi a non temere le donne come una minaccia da «tenere a bada», piuttosto a considerarle come pari, creature bellissime e degne di massima attenzione.

L’Italia versa in condizioni arretrate sul fronte della condizione femminile, ma sono le madri per prime a dover incominciare a educare i loro figli maschi a rapportarsi con fiduciose apertura e dolcezza nei confronti delle donne. Il discorso non è a senso unico, figuriamoci. Anche in certe ragazzine ho notato attitudini distorte, preconcetti risentimenti nei confronti dei maschi, un escludente aprioristico considerarli troppo insolenti, o arroganti, o immaturi per potere loro, le femmine, averci a che fare. Analogo atteggiamento prefabbricato, spesso introiettato dalle figlie osservando le madri, madri non trattate bene dagli uomini (gli stessi padri delle ragazze, o altri), donne che con gli uomini sono arrabbiate di una rabbia velenosa, antica, amara, senza riuscire a fare pace né con gli uomini, né con loro stesse (con la loro parte arrabbiata).

È tempo di combattere l’incultura sessista, insegnando ai nostri figli e alle nostre figlie a rispettarsi e a crescere insieme. Tempo per le madri di sentire la grande responsabilità di allevare nel rispetto e l’amore delle donne e del femminile i loro figli maschi. Tempo per i padri di fare lo stesso, così che i figli e le figlie respirino in casa un clima di reciproca attenzione e solidarietà, senza poi, fuori di casa, doversi «vendicare» esercitando sui loro coetanei dell’altro sesso il potere distruttivo del livore, di rabbia e delusione e rancore incondizionati. Tempo di crescere e crescere insieme, in un Paese che sulla questione di genere, e prima ancora su quella della parità tra i generi ha ancora un lungo, lunghissimo cammino da fare. I giovani adolescenti raccontano di questa immensa falla nella cultura dominante, una volta ancora, senza saperlo, così puntando il dito sulla mancanza di linguaggio per quella stessa cultura.

Tempo di educarsi, e a educare, a essere per prima cosa profondamente amici dell’altro sesso, dell’altra metà della mela. Un principio affettivo e morale (e pedagogico) da cui possono germogliare comportamenti di certo migliori dei molti che dilagano e appestano l’aria, alterando pregiudicando sin da troppo presto i rapporti tra i maschi e le femmine, futuri uomini e donne.

Da luce.lanazione.it il 28 agosto 2022.

L’età della prima volta tra i giovanissimi negli ultimi tempi è diventata sempre più precoce, o perlomeno è stato così fino a questo momento. 

La gioventù dei nostri giorni inverte invece questa storica tendenza, e altro che 14 anni: l’asticella è salita di tre anni per tutti senza distinzione, maschi e femmine. Il primo rapporto sessuale completo i giovanissimi italiani hanno dichiarato infatti di averlo in media intorno ai 17 anni. Solo una scarsa percentuale, pari al 19,8%, ha dichiarato di aver perso la verginità prima dei 16 anni. 

Dunque, quello della sessualità precoce, dati alla mano, sembra un mito a tutti gli effetti oramai superato. Ma c’è di più: che la situazione sia molto cambiata rispetto agli anni scorsi lo dimostra un altro dato, secondo il quale è risultato evidente un recupero del gender gap tra ragazzi e ragazze nell’approccio al primo momento passionale. 

In pratica, guardando alla fotografia scattata dalla ricerca riguardo a “Conoscenza e prevenzione del Papillomavirus e delle patologie sessualmente trasmesse tra i giovani in Italia”, oramai non esiste più, o quasi, differenza di genere nell’approccio all’intimità. Secondo quanto emerso dalla ricerca realizzata dal Censis l’età della ‘prima volta‘ è diventata infatti molto simile per tutti, attestandosi sui 17,5 anni per i maschi e i 17,3 anni per le femmine. 

I giovanissimi italiani hanno inoltre dimostrato di essere a conoscenza dei rischi e delle malattie sessualmente trasmissibili connessi ai rapporti intimi, qualora non si adottino adeguate precauzioni. 

Quasi la totalità degli intervistati, nella fascia d’età tra i 12 e i 24 anni, ben il 93,8%, ha dichiarato di essere a conoscenza che il pericolo numero uno è rappresentato da infezioni e patologie trasmesse col contatto intimo, di cui in genere ha sentito parlare. 

Al primo posto, la patologia che è stata maggiormente citata, dall’89,6% degli intervistati, è l’Aids, mentre le altre non sembrano essere così note a livello di sintomi, conseguenze e prevenzione: solo il 23,1% del campione ha infatti indicato la sifilide, il 18,2% la candida, il 15,6% il Papilloma Virus e percentuali ancora minori, che si attestano addirittura tra il 15% e il 13% dei giovani, è informato su che cos’è e cosa comportano la gonorrea, le epatiti e l’herpes genitale.

Ma dove ricevono le informazioni i giovani riguardo ai rischi connessi ai rapporti intimi e su come prevenirli? Per la maggior parte, nell’epoca dei social, sono i media a occupare un ruolo centrale nell’informazione, utilizzati per documentarsi dal 62,3% del campione. La scuola è invece stata citata come canale privilegiato di informazione e approfondimento solo dal 53,8% dei giovani.

Ovviamente in questo caso sono risultate differenze tra le diverse aree del Paese: i giovani del nord hanno maggiormente messo la crocetta su questa opzione rispetto a quelli del sud. Si predilige dunque far riferimento a canali più alla portata di mano rispetto a quelli scientifici, si bussa cioè ancora con troppa fatica alla porta di studi di professionisti. Ed è questo il dato più preoccupante emerso dell’indagine: solo il 9,8% dei giovanissimi ha detto di fare rifermento a medici e farmacisti. 

Le ragazze a un certo punto della loro vita entrano per forza di cose in contatto con la ginecologa, come spiega il presidente della Società Italiana di Endocrinologia, Andrea Lenzi: “Resta molta diffidenza da parte dei giovani nei confronti dell’andrologo. Molti non lo conoscono, la maggior parte ritiene di non averne bisogno. Culturalmente non sono abituati a considerare la possibilità che anche i maschi possano essere interessati da patologie che riguardano il sesso. Dobbiamo sviluppare maggior informazione ed educazione”.

Valeria Montebello: «Il dating ha stravolto il sesso dei trentenni». Micol Sarfatti su Il Corriere della Sera il 22 Agosto 2022.

L’autrice, classe 1989, ha indagato l’erotismo dei Millennials in un podcast. «Siamo rimasti sospesi tra i tempi dell’amore reale e quelli dell’amore virtuale. Oscilliamo tra il porno e la goffaggine» 

Valeria Montebello, giornalista classe 1989, ha realizzato il podcast Il sesso degli altri, prodotto da Chora Media e Spotify

La rubrica di 7 «Luce verde» è dedicata ai Millennials. Generazione accattivante per poche stagioni. I nati tra il 1980 e il 1995 sono cresciuti in fretta, stretti tra le tante possibilità dei fratelli maggiori della Generazione X, la velocità di quelli minori della Gen Z e una crisi economica che li ha travolti quando erano pronti a spiccare il volo. Hanno iniziato a compiere 40 anni, ma ancora faticano a trovare spazi e riconoscimenti. Hanno stipendi mediamente bassi, una nuova idea di famiglia, un uso disinvolto della Rete, nato però in epoca pre smartphone, e capacità di reinventarsi. Sono perduti o pronti al riscatto? Proviamo a raccontarli con una serie di interviste

Come è cambiato il sesso negli ultimi decenni, come lo hanno cambiato i Millennials, i nati tra il 1980 e il 1995, protagonisti della serie Luce Verde. Dopo aver indagato il lavoro, la disaffezione per la politica, la nostalgia e l’amore secondo questa generazione parliamo di erotismo. Lo facciamo con Valeria Montebello, classe 1989, nata in Abruzzo e trasferitasi a Roma, che ha raccontato l’intimità dei trentenni nel podcast Il sesso degli altri , prodotto da Chora Media e Spotify. Un affresco, a tratti sorprendente, nato da un’esperienza personale: Montebello ha analizzato usi e costumi sentimentali dei coetanei in un articolo diventato virale, che le ha portato centinaia di confessioni, trasformate poi in un osservatorio privilegiato.

La nostra generazione è stata la prima a confrontarsi con le app di dating, da Tinder in poi. Hanno stravolto il sesso e le relazioni?

«Totalmente. Noi, in ogni settore della vita, siamo la fascia di età ponte tra l’era analogica e quella digitale, non facciamo eccezione nemmeno in questo. Abbiamo vissuto un’adolescenza e una prima giovinezza di corteggiamenti e incontri fisici, poi dieci anni fa, ci siamo ritrovati sui telefoni questo nuovo strumento per conoscersi e tutto è cambiato. Io stessa vivo le app di dating in modo ambivalente, da un lato sono ipercritica perché ci hanno tolto dal reale e dal rischio. Dal vivo è più fastidioso essere rifiutati, online si può fare la cosiddetta “pesca a strascico” senza troppe ripercussioni emotive. Il consenso da match o da like dà una scarica di adrenalina a cui è difficile rinunciare. Dall’altro lato mi vengono in mente certi approcci molesti nei locali o alle feste che non rimpiango. Ho nostalgia però delle chiacchierate faccia a faccia, senza chat».

La nostra autostima, sentimentale e non solo, oggi passa dal consenso online.

«Questo crea una profonda scissione: in Rete siamo tutti disinibiti, ma nella realtà, spesso, siamo goffi. Noi, a differenza della Generazione Z, quella dei ventenni, non siamo nati in questo ecosistema. Conosciamo perfettamente il meccanismo dell’incontro online, ma ha sempre qualcosa di straniante. In fondo siamo un po’ Boomer, sembriamo i sessantenni che fanno un uso smodato di emoticon ( ride). Le app di dating sono sempre più settoriali: esistono quelle politicizzate, di destra o di sinistra, quelle per vegani, per animalisti... Questa specificità estrema elimina la casualità dell’incontro, lo rende un mercificio».

Valeria Montebello, giornalista classe 1989, ha realizzato il podcast Il sesso degli altri, prodotto da Chora Media e Spotify

Sembriamo avere grande consapevolezza tecnologica e pure del nostro corpo, che accettiamo e mostriamo sempre di più. Apparenza o verità? «Io non credo che il femminismo della quarta ondata, fatto di hashtag e battaglie su Instagram, abbia portato a una vera consapevolezza del corpo. Si rivendica il diritto di non depilarsi esattamente come nel Sessantotto. Poi, per fortuna, sono stati fatti grandi passi avanti per i diritti civili, c’è un uso della terminologia identitaria più consapevole, ma non tutte le battaglie in voga oggi sono così contemporanee. C’è ancora molto da fare. Nel mio podcast non sono a favore della positivizzazione del sesso e del corpo a tutti i costi. Non mi piace l’esibizione retorica del difetto fisico, è un meccanismo esclusivo e non inclusivo. Se una ha la fortuna di essere bellissima si sente quasi obbligata a trovare un’imperfezione. Questo nuovo racconto è comunque un’imposizione, un canone estetico a cui sottostare e un modo per imbrigliare il sesso e le relazioni».

«OGGI È IN VOGA LA POSITIVIZZAZIONE DEL CORPO. SONO CONTRARIA ALLA RETORICA DEL DIFETTO A TUTTI I COSTI, A SUA VOLTA NON È INCLUSIVA»

Una volta il porno era proibito, difficile da reperire, circondato da un alone di mistero. Oggi possiamo fruirlo liberamente e quando vogliamo dal nostro smartphone. Il nostro modo di immaginare e vivere il sesso è cambiato?

«L’industria pornografica è sempre esistita, ma prima era fatta di star che vivevano perlopiù in California nella San Bernardo Valley, ora è immersiva e non solo per i siti raggiungibili da chiunque. La piattaforma OnlyFans, ad esempio, è stata una rivoluzione: con un abbonamento dai 3 ai 50 euro hai a disposizione creator che inventano contenuti soft porno apposta per te. Molti però vogliono solo piccoli momenti di quotidianità, come uno scatto appena svegli al mattino, mentre si studia, si gioca al computer o si fa una torta. Così si ha l’illusione di avere una relazione. Questa intimità surrogata rende sempre più difficili i veri legami».

Quindi, nella realtà, si fa meno sesso?

«Sì, si fa sempre meno sesso reale. Lo hanno dimostrato anche molte ricerche, pubblicate soprattutto da testate americane. La pandemia poi non ha contribuito a migliorare la situazione».

Non è che la liberazione di cui ci siamo sentiti portabandiera negli ultimi 10-15 anni, dalla fluidità al poliamore, alla fine, ci ha ingabbiati?

«Abbiamo sicuramente creato delle crepe nel modo di vivere le relazioni, ma non tutte sono ancora codificate, è come se stessimo prendendo le misure. In teoria siamo progressisti, ma nella pratica stiamo diventando conservatori, a volte persino reazionari, perché continuiamo a imporci regole. Se non vivi il sesso in un determinato modo sei fuori dal tempo, se vuoi una dimensione erotica “semplice” ti senti un alieno. Poi c’è il grande tema dei filtri: in rete, non solo sulle app di incontri, mostriamo una versione di noi che spesso non corrisponde alla realtà, per questo abbiamo paura dell’incontro dal vivo. C’è un grande spaesamento».

Valeria Montebello fotografata in uno studio di registrazione radiofonico

Tra ipersessualizzazione, app, sdoganamento del porno, esiste ancora un’idea di sesso “normale”?

«Sì, soprattutto tra le coppie di lungo corso, che, magari, si sono conosciute prima della rivoluzione delle app. Sono una specie da preservare e tutelare come le volpi artiche. Se parlano con un amico single rischiano di andare in crisi, vengono assaliti da mille dubbi».

Ormai però siamo una generazione adulta. Saremo condannati in eterno a questa idea del sesso?

«La storia ci insegna che i periodi di grande attenzione verso la sfera sessuale sono ciclici. Non sarà certo facile liberarsi dall’idea di un approccio prima virtuale e poi fisico, ma, ad un certo punto, non sarà più gratificante essere apprezzati solo per delle foto ritoccate, viste da uno schermo. Abbiamo passato gli ultimi tre anni chiusi in casa, più in rete che nella realtà. Ci stuferemo. A me è già successo».

Nicola H. Cosentino per “la Lettura – Corriere della Sera” il 25 luglio 2022. 

La più bella scena di sesso della storia della letteratura? Pare sia questa, dall’Eneide: «La consueta fiamma gli s’apprese,/ E per l’ossa gli corse e le midolle,/ E per le vene al core». D’altronde descrive la reazione di Vulcano a un bacio di Venere: non poteva che restare insuperata.  

Nel 1959, in un articolo dal titolo Sex in the Modern Novel pubblicato sul numero di gennaio dell’«Atlantic», il critico letterario statunitense Douglas Bush la indicò come vetta della scrittura «sensuale», per dimostrare che non è necessario ricorrere a troppi particolari se si vuole descrivere (bene) un amplesso. 

«Stendhal, Balzac e Flaubert, Dostoevskij, Turgenev e Tolstoj. Che io ricordi, nessuno di loro è noto per avere mostrato e detto tutto» scrisse Bush. «Nonostante i portentosi esempi di Joyce e D. H. Lawrence, si può sostenere che [...] l’accumularsi di dettagli fisici costituisca, di norma, un fallimento». 

Il messaggio di Douglas Bush — rivolto ai romanzieri emergenti dell’epoca — era sia stilistico che sociologico, e rivelava la preoccupazione che, a un secolo dalla pubblicazione del suo articolo, leggendo i bestseller degli anni Cinquanta si potesse pensare ai cittadini americani come a gente «impegnata esclusivamente in relazioni amorose ed extraconiugali, con deviazioni occasionali nel mondo degli affari, della politica, della guerra, e così via»; ma anche che il sesso stesse diventando «l’unica area in cui l’individualità è capace di affermarsi», nonché una scappatoia per tentare di riassumere in maniera scioccante e provocatoria «l’intero spettro dell’esperienza umana».

Ecco, circa sessant’anni dopo Sex in the Modern Novel è naturale ribaltare la prospettiva di Bush per domandarsi cosa penserebbe un critico letterario degli anni Cinquanta di alcuni romanzi pubblicati oggi, dai quali emerge chiaramente che: a) le relazioni amorose non sono affatto, come si credeva, separate dal «mondo degli affari, della politica, della guerra, e così via»; b) quel «mostrare tutto», da presunto rifugio per scrittori pigri e privi di talento, si è rivelato un metodo tra i più intellettualmente stimolanti per raccontare, ed esplorare, lo spirito del tempo. 

Prendiamo Servirsi di Lillian Fishman, pubblicato in Italia da e/o nella traduzione di Silvia Montis. Qui, Eve conosce online Olivia e Nathan, e intraprende con loro una relazione sessuale i cui dettagli la sorprendono a ogni incontro. 

Primo, perché nella sua vita c’è già una partner stabile e praticamente perfetta, Romi, che non aveva mai sentito l’esigenza di tradire. Secondo, perché non era mai stata attratta da un uomo, mentre alla sola vista di Nathan prova «sollievo ed eccitazione, lo sconfinato, melodioso piacere» di trovarsi «sola con la vastità della sua attenzione».  

Terzo, perché il godimento che trae dal sottomettersi a lui — ricco, carismatico, un po’ cinico — si scontra con le idee, i desideri e i sentimenti della giovane donna queer e femminista in cui si è sempre orgogliosamente riconosciuta. «Finora non ho fatto altro che rinchiudermi in una trappola ideologica» penserà, a un certo punto, «proprio come quella che avrei affrontato cinquant’anni fa, solo al contrario».

Servirsi è l’esempio più recente di come, oggi, raccontare il sesso significhi soprattutto pensare attraverso il sesso e interpretare i comportamenti collettivi a partire da quelli privati. Nel descrivere un personaggio inconsciamente stanco della propria routine di donna libera ed emancipata, Fishman ci suggerisce che le provocazioni un tempo funzionali a sentirsi bene con sé. 

Prendiamo per esempio «Servirsi» di Lillian Fishman: è l’esempio più recente di come, oggi, raccontare il sesso significhi soprattutto pensare attraverso il sesso e interpretare i comportamenti collettivi a partire da quelli privati. Né sembra un caso se molti romanzi che problematizzano il desiderio — nel modo nuovo delle Fishman, delle Naoise Dolan, delle Sally Rooney — siano scritti da donne. Come non è un caso che la fantasia più diffusa sia la sottomissione. 

Così accade anche in «Fame blu» di Viola Di Grado stessi e a spezzare la monotonia dell’esistenza, oggi sono parte integrante di quella monotonia, ma anche l’unico piccone capace di scalfirla nuovamente (e all’infinito) dall’interno. «Sono cresciuta parlando di sesso come di qualcosa che le donne dovrebbero vivere come pare e piace a loro, di libertà sessuale come culmine dell’esperienza, al di là di ogni morale o mentalità provinciale» dice Eve a Olivia e Nathan, durante uno dei loro incontri. 

«Quindi dovrei credere che non posso danneggiare me stessa, che le cose non possono farmi male se le scelgo io, se le vedo per quello che sono. Ma questa non è forse la più profonda sottomissione al potere, al dominio maschile?». Nathan ribatte per primo, d’impulso — «Non ti piace quando stiamo insieme? Non scegli di tornare qui di continuo?» —, ma è la risposta di Olivia a fare la differenza: «Non ti sembra stupendo tutto questo? Non ti sembra profondamente buono?». 

Amare è una cosa buona, e dare piacere a un altro — non importa come — un gesto tra i più generosi. Se suona come una novità è perché i criteri con cui stabiliamo se qualcuno è «buono» o «non buono» corrispondono a valori e convenzioni borghesi, secondo i quali l’immateriale è sempre più importante del corpo, o di ciò che il corpo chiede ed è capace di offrire.  

Eppure, nonostante il suo piazzamento nella gerarchia conformista delle cose serie, commentare o descrivere il sesso genera ancora molto turbamento. Persino Nathan, che in Servirsi è il capofila della rivoluzione, si ritrae dai dibattiti sul tema, dimostrando di pensarla (in parte) come Douglas Bush: «Non sono cose di cui possiamo parlare apertamente» dice. «Non si può togliere il telo che copre il dipinto. Così si rischia di rovinare tutto». 

È una prospettiva interessante. La reticenza verbale, ma mai fisica, dell’unico uomo sulla scena fa pensare che a non voler parlare orizzontalmente di sesso, e a ritenere le indagini in proposito rischiose e spoetizzanti, sia chi, dal sesso, ha tratto sempre e solo beneficio. 

È un caso se molti libri che oggi problematizzano il desiderio — nel modo nuovo in cui lo fanno le Fishman, le Naoise Dolan, le Sally Rooney — siano, appunto, scritti da donne? Probabilmente no. Come non è un caso che, in questi romanzi, la fantasia sessuale più diffusa sia quella della sottomissione. L’inafferrabile Nathan (dominatore scherzoso e sorridente, a sottolineare la distanza dell’idea di Fishman dai cliché in stile Christian Grey) è una metafora della difficoltà di stringere un legame, ovvero del conflitto più eccitante, attuale e romanzesco dell’esperienza umana tutta.

Accade la stessa cosa in Fame blu di Viola Di Grado (La nave di Teseo). La protagonista — trasferitasi da Roma a Shanghai per elaborare la morte del fratello — s’innamora di una ragazza del luogo, Xu, che ricambia in modo ambiguo, scostante e manipolatorio. Anche qui, come in Fishman, tutto si apre con la scoperta di una nuova pulsione: «Non avevo mai fatto sesso con una donna e non ero sicura che potesse essere utile alla mia felicità, ma speravo tanto di sì», pensa la protagonista di Fame blu. Eve in Servirsi dice: «La maggior parte degli uomini quasi non esisteva per me [...]. Eppure, in presenza di un uomo che irradiava potere, avvertivo un’assenza di gravità». 

Ad accomunare questi romanzi — avvicinandoli ad altri, di poco precedenti, che sfiorano temi analoghi: si pensi a Il mio anno di riposo e oblio di Ottessa Moshfegh, a Chiaroscuro di Raven Leilani e al nostro Le ore piene di Valentina Della Seta — è anche il rapporto tra le donne protagoniste, i loro desideri e le città in cui vivono, tutte metropoli. Cosa c’è nell’aria di New York, Roma e Shanghai che spinge a dipendere emotivamente e sessualmente da persone diversissime da sé? 

La risposta, forse, è offerta dal libro di Viola Di Grado, in cui il rapporto tra spazio e sessualità viene affrontato apertamente, e con bravura: la metropoli, proprio come la sottomissione a un partner dominante, è un dispositivo di spersonalizzazione, di abbandono del sé alla volontà di qualcun altro — in questo caso, un qualcuno collettivo.  

Spiega Xu: «Le telecamere a Shanghai sono miliardi, quindi è facile cominciare a comportarti come una diva. Se sai di essere sempre guardata sei come ti vorrebbero gli altri». Ed è proprio quello che, in forma ridotta, privata, la protagonista pretende da lei: «Essere vista. Ascoltata»; cambiare identità — o sforzarsi di ritrovare la propria — grazie agli occhi di chi finge di ignorarci.

Nel suo ultimo libro, la raccolta di racconti Solo storie di sesso (Nottetempo), Francesco Pacifico esplora il tema dell’apertura all’alterità in un capitolo, «Esercizi per respirare», presentato come una «pratica per chi si trova in una relazione di coppia da molto tempo». Scrive Pacifico: «Conta i tuoi respiri, da uno a dieci e poi da capo, mentre immagini l? tu? partner sedut? in un bar a parlare con una persona che l? piace. [...] sta vivendo un momento di leggerezza, di spontaneità, di piacere, di invisibile lussuria. [...] Cosa ti sta sottraendo?».  

E ancora: «La ragione per cui non hai cercato di realizzare alcuni desideri è stata la paura di non riuscire a tornare all’ovile?». Entrambe le domande sono semplici ma spaventose, e replicano in forma schietta e pseudo-didattica quello che Nathan e Xu provano a suggerire alle loro partner, nei romanzi di Fishman e Di Grado: è vero, siamo rappresentati più da ciò che scegliamo di fare che da quello che desideriamo, quindi più dai limiti che ci poniamo che da quelli che infrangeremmo, ma siamo proprio sicuri di star difendendo e ritenendo importanti, capaci di generare valore, i limiti giusti?

Pacifico facilita il lavoro a chi ha il compito di estrarre i temi dalle storie, e dice: se vogliamo capire come va e come sta il mondo, almeno in Occidente, dobbiamo parlare di sesso e inibizioni, e fare in modo che le donne ne parlino più degli uomini. Nella finta postfazione a Solo storie di sesso, il personaggio della studiosa Gioia Di Donato descrive l’eccitazione (erotica e intellettuale) provata mentre il marito, a cena fuori, le spiega che secondo lui bisognerebbe «smetterla di ossessionarci con la reciprocità», e che la vera rivoluzione sarebbe se, invece di dire «la coppia-deve-superare-i limiti-borghesi-della-fedeltà... noi dicessimo che è solo la donna che deve superare il dovere della fedeltà».  

Nel senso che l’equilibrio non può creare rottura, mentre un nuovo squilibrio — l’infedeltà della sola donna — sì. Ripensando all’enunciazione di questa teoria, combinata a un’efficace sessione di petting sotto il tavolo del ristorante, Di Donato dice: «Anche se stavo per venire era un momento che aveva dignità politico-filosofica in sé».

Ecco, il fulmine scagliato sessant’anni fa atterrerà da queste parti: le storie di sesso hanno una dignità politico-filosofica enorme, tanto che è impossibile non accorgersi di come molte tra le migliori riflessioni di oggi, almeno nella fiction, partano dal ribaltamento degli schemi sessuali, compresi quelli relativi alla propria libertà ed emancipazione. Perché a letto non si appartiene a nessuna categoria; non si rappresenta davvero né un genere né una classe: solo se stessi. 

Il sesso è l’unica sfera della vita in cui contribuiamo a qualcosa di universale rivendicando come tutti un desiderio individualista. In Ema, il bel film di Pablo Larraín uscito nel 2019, la protagonista omonima riesce a costruire una famiglia allargata e felice seducendo separatamente entrambi i componenti della coppia che ha adottato, dopo varie vicissitudini, il figlio che lei aveva abbandonato. Una storia lunga e travagliata. Ma alla fine la pace interiore, che sembrava irraggiungibile, passa dal corpo; la ritrovata serenità, dalla passione; l’equilibrio, dallo squilibrio. 

Lillian Fishman, citando la scrittrice Eve Babitz, chiama le esperienze come queste di Ema, Gioia Di Donato e la sua Eve «capolavori che ottieni col sesso». Aggiungendo che «le nostre storie d’amore» sono «l’unica occasione che avremo di vedere il paradiso». Ha senso. Il paradiso non è forse un luogo in cui si è incolpevoli, disinteressati al possesso, finalmente pieni di risposte? Peraltro, ci si arriva da nudi.

Non si è mai parlato così tanto di sesso. Testi filosofici. Saggi sul piacere. Manifesti politici. Storie universali del desiderio. L’eros invade, a sorpresa, gli scaffali delle librerie e le piattaforme digitali. Matteo Cavezzali su L'Espresso il 28 marzo 2022.

Fica. Crea ancora scandalo nel 2022 su L’Espresso iniziare un articolo con questa parola? «Amo questa parola. Non smetterei mai di dirla. Non riesco a smettere di pronunciarla. All’aeroporto vi sentite un po’ irritati? Basta dire FICA e cambia tutto. Fa stare bene. Provateci. Avanti. Forza!». Era il 1996 quando Eve Ensler con “I monologhi della vagina”, sconvolse il pubblico dell’off-off-Brodway pronunciando la parola proibita “cunt”, in uno spettacolo destinato a diventare un cult ed essere messo in scena in tutto il mondo.

Gli affreschi erotici di Pompei, dove l’amore è eterno. Le opere al centro di una mostra. Nuove domus aperte al pubblico. Vini e cibi prodotti tra gli scavi. Si ravviva il fascino della città sepolta più famosa al mondo. Marisa Ranieri Panetta  su L'Espresso il 25 Luglio 2022. 

L’affascinante viaggio nell’antico continua. Le case di Pompei che stanno per aprirsi al pubblico, dopo lunghe chiusure e restauri, ampliano le nostre conoscenze su usi, arte e gusti della vita quotidiana: volti, paesaggi, minute descrizioni che si rincorrono sulle pareti di domus aristocratiche.

Entro l’estate, come anticipa L’Espresso, sarà accessibile la casa delle “Nozze d’argento”, scoperta nel 1893 e così denominata per l’anniversario in quell’anno dei reali d’Italia Umberto e Margherita di Savoia. Molte abitazioni infatti prendono il nome da ricorrenze, visite illustri, ritrovamenti particolari; a volte, in occasione della presenza di un sovrano o di un personaggio altolocato, come il pontefice Pio IX, si faceva finta di trovare reperti già venuti alla luce, che venivano poi offerti in regalo.

La domus di cui parliamo, risalente nella prima fase al II sec. a.C., è un esempio di come si presentavano le case delle nobili famiglie pompeiane prima che la città diventasse municipio romano. La maestosità dell’atrio, come una cattedrale, con le alte colonne in tufo disposte agli angoli della vasca centrale, suggerisce l’importanza sociale anche dell’ultimo proprietario Albucio Celso, candidato all’edilità tra il 76 e il 79 d. C. Una tenda, rivelata da un disco di bronzo con rostro, lo separava dal tablino, dove il padrone di casa riceveva clienti, scriveva lettere, conservava documenti.

Subito dietro, si apre un giardino porticato e, sulla destra, si trova la cucina con un gabinetto adiacente: una rarità, quest’ultimo servizio, manca pure in domus lussuose e ampie. Dopo la cucina, ecco un altro giardino, che esibiva tre statuine smaltate di animali a tema egizio, ora al Museo nazionale di Napoli insieme al mosaico dell’ingresso, dove è raffigurata una città turrita con il porto e il faro.

Nel corso della sua storia, la casa aveva subito vari rifacimenti, assicurando sempre un’esistenza più che confortevole: fontane ovunque, un bagno fornito di acqua calda, vasche all’aperto, ambienti piccoli e grandi dalle decorazioni accurate.

Un’altra particolarità contraddistingue l’edificio, finora non evidenziato: sulla sinistra dell’atrio, esisteva un orto. Non tutte le zone destinate al verde erano adibite ad accogliere piante fiorite, statue e fontane, per il godimento dei proprietari e come status symbol da ostentare agli ospiti; già sono stati identificati alberi da frutto, vigneti e piante di ulivo sparsi in città. Ma ci sono molte zone destinate a coltivazioni, non indagate o abbandonate.

Gabriel Zuchgrietel, direttore del Parco archeologico, vuole andare avanti in questa ricerca, con un progetto che riguarda anche Stabia e Oplontis, perché «da un censimento effettuato, le zone agricole a ridosso delle mura e negli abitati sono circa cento ettari: un patrimonio che deve essere riscoperto, reintegrato con le coltivazioni originarie». E riferisce in anteprima a L’Espresso: «Sta per partire un bando per coinvolgere partner privati nella produzione del vino e di altri alimenti, così come avveniva in antico. Si tratta di un nuovo approccio di conoscenza, all’interno di una visione articolata del Parco: storia, arte, alimentazione e paesaggio, in grado di restituirci nel suo complesso la vita reale degli ultimi abitanti. Nello stesso tempo, si potranno generare sviluppo e occupazione attraverso la valorizzazione dei prodotti».

Sono state già riaperte altre dimore, ma in autunno si conosceranno domus pregiate e un intero isolato (2300 mq), lungo la centrale via dell’Abbondanza, che comprende botteghe, giardini, e due case principali. Quella dei “Casti Amanti” a più livelli, dà il nome ai fabbricati e si riferisce a una pittura murale che raffigura un banchetto con una coppia che si scambia un bacio non volgare. Decora il triclinio del quartiere residenziale e inneggia a incontri conviviali innaffiati dal vino, ribaditi in altre scene con comportamenti diversi. Entrando, si incontra prima un grande panificio, che costituiva la notevole risorsa economica del proprietario. Si vedono il forno, le mole per macinare il grano e gli scheletri dei muli che le azionavano. Erano sette; evidentemente, utilizzati anche per il trasporto del pane.

L’altra abitazione, dei “Pittori al lavoro”, documenta invece un cantiere in piena attività, rivelando in un salone le suddivisioni dei compiti. Pompei continuava a subire terremoti e ovunque c’erano operai per riparare tubazioni, rinforzare murature, ripristinare affreschi. Qui, era stata portata a termine una bella decorazione di soffitti (crollati in migliaia di pezzi, li stanno ricomponendo), ma c’erano tante pareti da risistemare. Appena si è scatenata l’eruzione, i pittori hanno abbandonato la casa, lasciando disegni preparatori, figure in attesa del collante finale, coppette con i pigmenti da polverizzare. Nessuno si aspettava quel cataclisma; sul focolare della Casa dei Casti amanti stavano arrostendo un volatile e un piccolo cinghiale.

L’isolato si presenterà alle visite con una novità assoluta per Pompei: una copertura in pannelli di alluminio con lucernai in vetro stratificato e l’installazione di una passerella sospesa in acciaio che consentirà di conoscere dall’alto tutti gli ambienti.

Archeologi, tecnici e restauratori sono impegnati anche nella domus dei Vettii, una delle più note, aperta in passato per poco tempo e non interamente. Apparteneva ai fratelli Conviva e Restituto, ricchi liberti nell’ultimo periodo di vita della città, che avevano fatto fortuna con attività mercantili e agricole. Come simbolo beneaugurante di prosperità, nell’ingresso avevano raffigurato il dio Priapo, che poggia il suo enorme membro sul piatto di una bilancia, mentre sull’altro è posta una borsa piena di monete. Dall’augurio alla reale sostanza economica: nell’atrio, centro focale della casa, si notavano subito due “arche” sostenute da basamenti in muratura: bauli come casseforti, serrati da chiodi e ornamenti bronzei, per salvaguardare i beni preziosi della famiglia.

In asse con l’entrata, visibile dalla strada col portone aperto, si allungava il giardino circondato da portici che traboccava di tavoli, piante e zampilli d’acqua provenienti da tante statue di marmo e di bronzo.

La ricca borghesia pompeiana seguiva, nella decorazione delle proprie dimore, la moda che si diffondeva a Roma; appaiono così le pitture con motivi fantastici, protagoniste della Domus Aurea neroniana (“grottesche”), che occupano tutto il campo lasciato libero dai grandi quadri sulle pareti. Le pitture murali a Pompei, come altrove, erano la seconda pelle dell’abitazione e ne costituivano l’arredamento vero e proprio. I mobili erano pochi ed essenziali, le stanze da letto piccole, ma le pareti erano dipinte a vivaci colori; quando lo spazio era ridotto, affreschi illusori ampliavano i volumi con architetture e paesaggi.

A caratterizzare le sale che si affacciano sul giardino dei Vettii sono racconti di episodi mitologici dal contenuto moralistico, come il Supplizio di Dirce, cattiva matrigna; il re Issione, punito da Giove perché si era invaghito di Era; Pasifae, la moglie del re cretese Minosse, invaghita di un toro, col quale aveva generato il Minotauro. Più che storie a lieto fine, erano gli amori infelici, gli atti di empietà, a ispirare tragediografi, poeti, artisti: esemplari per indicare il limite tra umano e divino da rispettare. E Conviva, che ricopriva una carica sacerdotale, si adeguava all’intento didascalico.

Gli affreschi più celebrati della casa appartengono al triclinio posto al centro del portico settentrionale, e non si tratta di ampie partiture, bensì di un fregio a sfondo nero che corre nella parte inferiore delle pareti. In sequenza, sfilano scenette che, con grande abilità e grazia, rimandano ad attività quotidiane. Ad interpretare orafi, profumieri, lavandai, fabbri, sono deliziosi amorini in compagnia di psychae, il loro corrispondente femminile, e ogni singolo racconto lascia incantati.

I visitatori degli scavi hanno intanto un’altra occasione per comprendere il vissuto del sito: la mostra “Arte e sensualità nelle case di Pompei”, allestita nella Palestra Grande, di fronte all’anfiteatro (a cura di Gabriel Zuchtriegel e Maria Luisa Catoni, fino al 15 gennaio 2023).

L’arte e l’immaginazione si fondono nelle settanta opere esposte, provenienti dai depositi del Parco archeologico, e rimandano a comportamenti privi di inibizioni. I quadretti dipinti, le statue, gli oggetti quotidiani che raffigurano amplessi, o alludono ad incontri amorosi, non facevano parte soltanto della quotidianità di Pompei; ma furono gli scavi dell’area vesuviana a svelare una realtà lontana da come appariva il mondo classico, lasciando stupiti i primi scopritori. Nell’esposizione sono presenti anche ritrovamenti recenti, come i due medaglioni con raffigurazioni erotiche del carro cerimoniale di Civita Giuliana, e viene spiegato il contesto di riferimento per ogni opera, e il loro significato. Con l’app My Pompeii, è anche possibile rintracciare gli edifici che si riferiscono al tema della mostra. Un racconto intrigante, per una corretta comprensione storica.

·        Il Nome.

Nel nome del padre e del(la) presidente. La scelta di come chiamarsi e il destino: dalla canzone «Georgia on my mind» alle fanciulle di nome Crocifissa. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Novembre 2022.

La parola di oggi è «nome». Lo scelgono per te i genitori. Il cognome non lo puoi scegliere, lo erediti. Il cognome indica a quale famiglia appartiene una persona e, assieme al «nome proprio di persona», forma l’antroponimo. Se sarà obbligatorio dare al nuovo nato entrambi i cognomi dei genitori, nel giro di poche generazioni ci vorrà uno sterminato documento di identità che riporterà tutti i cognomi degli antenati. Una folla. Gli Spagnoli si accontentarono di inventare Hidalgo che letteralmente significa «Figlio di qualcuno» ovviamente un «qualcuno» importante. «Il» nuovo Presidente del Consiglio è una donna e ne siamo contenti al punto da esser rimasti stupiti del suo desiderio di usare l’articolo maschile e non quello femminile per essere citata, lodata, invocata, consultata, intervistata, ubbidita e, perché no? Amata. E, da me, rispettata in questa vicenda. Userò l’articolo «il».

Il Presidente del Consiglio ha un cognome molto comune e simpatico con quel plurale che sa di tradizione contadina e buona stagione e un bellissimo nome: Giorgia. Mi viene in mente un «fatto» risalente al tempo in cui vagivano i primi anni ‘60 e dico «fatto» perché avvenne a Bari dove questa parola si usa spesso per dire vita vissuta. Come i nomi, le parole, sono importanti. Dunque, il «fatto»: a quei tempi si ballava in casa, si ballava non nel senso minaccioso di una metafora, ma proprio nel senso di danzare. Il ballatoio non c’entrava. Vedete la a magia dei nomi? Giovinetti e giovinette non ancora pronti ai rave che mi fanno orrore (come, credo, al Presidente Meloni), si accontentavano della dimestichezza delicata del salotto buono. La musica era quella indimenticabile di quegli anni: i Platters, Neil Sedaka, Elvis Presley, Paul Anka. E Ray Charles! Questi aveva in repertorio un vecchio successo: Georgia on My Mind, canzone scritta nel 1930 da Gorrell (testo) e Carmichael (musica). Benché ambiguamente intitolata ammiccando alla figlia di Carmichael, Georgia, divenne la canzone ufficiale dello Stato della Georgia, negli Stati Uniti.

Il fatto è che era un dolce ballabile e io sbirciavo svenevolezze di giovani intraprendenti che sussurravano alla partner, indugiando sulla mattonella, il nome Georgia, ignorando il significato. Pensai che sarebbe stato come se, in America, un ragazzo sussurrasse «Piemonte» o «Basilicata» alla partner tersicorea. Nel 2000 Ray Charles ha invitato la cantante italiana Giorgia a duettare con lui, dopo aver scoperto che era stata chiamata così, in onore del brano. I nomi sono importanti e, segnatamente nel nostro Sud, segnalano atteggiamenti mentali e costumi, interpretando sentimenti collettivi nella personale evoluzione di storie di famiglia tramate di devozioni e tradizioni. Nomenomen, dicevano i Latini, non senza ironia, talora. Il facile gioco paronomastico indicava una quasi magica corrispondenza tra nome ed essere o tra quello e la sua vicenda umana. Memorabile l’invettiva implicita contenuta nel vocativo ciceroniano della orazione contro Verre. Verre significa, letteralmente, porco.

All’Università, la «mia» Università di Bari, dove infaticabili Maestri hanno tentato di insegnarmi queste cose, studiava con me una ragazza di provincia che si chiamava Crocifissa, anzi, per la precisione, si chiamava Maria Crocifissa. Per noi era Maria e basta: il secondo nome lo scoprii leggendo i risultati dell’esame di Latino scritto. Ovviamente l’aveva superato, e bene. Ignoro se il nomen abbia costituito intimidazione agli esaminatori. Non credo, conoscendoli. A pensarci, sono tanti i nomi che, dalle nostre parti, rinviavano a venerazioni particolari: Annunziate, Immacolate, Addolorate. Pietosi diminutivi attutivano l’imbarazzo della vita quotidiana. Come fai a tentare un approccio erotico, anche blando e ginnasiale, con una figliola che si chiama Immacolata? Anche se la titolare del nome, immacolata non intendeva restare a lungo. Come puoi invitare ad un veglione Addolorata? E, Crocifissa, appunto, che farà: ripudierà una secolare tradizione di venerazione o inclinerà all’agnosticismo? Meno male che c’era il tenue e casalingo e bellissimo Maria. L’uso di affidare alla tutela dei santi un bambino per mezzo del battesimale è stagionata e comune, ma ha provocato e provoca collisioni a volte stridenti, come dicevo citando la vita quotidiana.

Ma altre e più gravi manomissioni sono state azzardate ai danni dei simboli e dei nomi sacri. E non sono i nomi, in certi casi, simboli? Pensiamo all’uso della croce nella moda o nella politica, al suo sfruttamento cinico in pubblicità, alla sua elaborazione decorativa e pagana. Ho visto ombelichi e lobi d’orecchio trapassati dal «disonor del Golgota» e ritrovo la croce sventolare dovunque, perfino nei gonfaloni, appesa ad un rosario nelle mani di Salvini o esibita sulle magliette dei giocatori di pallone. I quali, poi, giocatori, non esitano a segnarsi e a baciare la terra del campo, prima di entrare in gioco. Non sarà troppo? Hanno arruolato Dio in varie guerre e crociate, ma Dio tifoso non s’era mai ancora visto. Non nominare il nome di Dio invano.

·        Le Icone.

Achille Bonito Oliva per “la Repubblica – Robinson” il 7 novembre 2022.

Ritengo che rimanga come codice, anche nel XXI secolo, la croce, quella croce che apparve in sogno a Costantino con la scritta: « In hoc signo vinces » , quella croce che viene ribadita dalla durata e dalla persistenza dell'unica grande monarchia che ha sfidato duemila anni di storia, che è la Chiesa cattolica con la sua sede in Vaticano e con il suo re assoluto che è il Papa. 

Con questo segno della croce «In hoc signo vinces», credo che la Chiesa abbia introdotto, proprio attraverso questo simbolo, l'uso pubblicitario, penetrante capace di parlare alle grandi folle: infatti con la croce Costantino non è che si armò di una protesi militare, ma di una fede che sconfisse i nemici.

Oltre alla croce, abbiamo come codice contrapposto nella prima metà del secolo scorso, la falce e il martello, che designa simbolicamente la speranza di una trasformazione del mondo a livello strutturale cioè economico, a livello sovrastrutturale, per quanto riguarda i concetti di uguaglianza e parità sociale. 

Questo codice ha dominato anche indirettamente il lavoro di ricerca dell'arte delle avanguardie storiche, in quanto ha dato ad alcuni l'illusione che si potesse fiancheggiare la rivoluzione politica attraverso la rivoluzione linguistica. 

Un altro è sicuramente rappresentato dalla Coca-Cola, che a mio avviso assume, proprio come era stato per la croce nel sogno di Costantino, il posto di un sogno universale che parte dal consumismo americano e si diffonde attraverso il potere militare ed economico dell'America nel resto del mondo. La Coca- Cola non è più una bevanda dissetante ma è lo status symbol di un popolo che, attraverso di essa, non solo si disseta, ma si nutre; dunque la Coca- Cola come icona di una strategia di diffusione mondiale. 

Nel momento in cui un prodotto acquista una sua diffusione mondiale e designa anche il potere che la sostiene alle spalle, automaticamente non è più pubblicità di un segno ma è rappresentazione di un universo. 

Ovviamente mi pare che in termini artistici, il movimento che meglio abbia saputo raccogliere la presenza di questi segni sia la Pop Art americana, che rende bidimensionale la profondità simbolica, che screma la metafora di ogni senso allusivo e ne riproduce semmai la sintassi, la grammatica visiva. In questo modo la Pop Art in fondo sposta e fa viaggiare il simbolo nella direzione della telematica, dell'immagine bidimensionale e televisiva, dove appunto la mancanza di spessore permette, ancor di più, al singolo modello, di viaggiare e di penetrare velocemente assottigliato nelle sue forme di origine bidimensionale.

A differenza della Pop Art che ha giocato su simboli esterni alla cultura, la Transavanguardia ha giocato a citare invece i segni interni della cultura, ha giocato sul nomadismo culturale e ha citato gli stilemi dell'arte del passato, degli artisti delle avanguardie storiche, e li ha riprodotti in un quadro dinamico di intreccio, di contaminazione, di assemblaggio e di riconversione, scremando ancora una volta attraverso la citazione questi segni di ogni allusione utopica e riportandoli invece nel consumo del nostro presente.

La Transavanguardia rappresenta proprio la strategia che contrappone alla citazione del codice commerciale americano, la citazione del segno culturale di marca prettamente europea, capace di indicare un tracciato storico dell'arte che abbiamo alle spalle, contrapposto invece, al piccolo cammino, per quanto riguarda la storia dell'arte, che la cultura americana ha potuto fare dalla sua indipendenza. 

Picasso rappresenta, con tutto il suo lavoro, un esempio indiscutibile del nomadismo culturale; è un artista di grande attualità, è il grande cannibale del XX secolo, è quell'artista che ha sintetizzato, utilizzando tutti gli stimoli, non solo lavorando col futuro, ma anche riprogettando il passato iconografico dell'arte, citando, assorbendo, modificando, ampliando gli stilemi che gli derivavano dall'arte del passato, riattualizzandoli in un quadro visivo estremamente dinamico e capace ancora di parlare a tutti noi; io direi che, se dovessi individuare un'icona per l'arte europea, individuerei, per quanto riguarda il discorso politico, in Guernica, il primo manifesto di propaganda politica.

Picasso, è un artista che ha saputo mediare con delicatezza la ricerca di marca cubista con il discorso di una sua comunicazione sociale allargata ad una collettività internazionale traumatizzata dalla tragedia del bombardamento di Guernica. Se dovessi pensare ad un'icona capace di rappresentare le avanguardie del XX secolo, penserei ad una grande piazza di de Chirico, laddove il grande artista metafisico ripropone la prospettiva rinascimentale come misura del vuoto e non più del pieno che la storia riusciva a dare di sé nel Rinascimento.

Se dovessi ancora indicare l'esprit de géometrie nell'arte europea penserei naturalmente a Mondrian, per l'esprit de finesse penserei a Matisse, e se dovessi pensare al primo artista capace di contrapporre una strategia a Picasso interna all'arte e anche piena di prospettive, individuerei Duchamp, in particolare, in quella famosa fotografia fattagli da Irving Penn con le mani conserte, in un angolo, con un sorriso come quello della Gioconda, a dichiarare lo scacco che può produrre l'arte attraverso i suoi scatti linguistici, ed anche lo scacco che lui stesso riceve per il fatto che dovrà anche subirla, la morte. 

Il rapporto tra artisti storici, quelli che hanno fatto del codice una bandiera ideale e formale e artisti che in qualche modo si ispirano a forme riconoscibili non dipende molto dalle radici culturali. Nel caso di Beuys la citazione della croce è imbevuta di cultura esoterica e di profondità romantica di spirito schilleriano; nel caso di Cucchi abbiamo un felice nomadismo che lo porta a citare la croce come necessità linguistica all'interno di un'economia iconografica dove la croce rappresenta sé stessa e un supporto, in fondo, spirituale dell'opera.

Riguardo all'individuazione degli itinerari delle ultime generazioni, a me pare che nella fase attuale dell'arte ci sia una citazione raffreddata, con una disinvoltura quasi pubblicitaria, cioè l'artista diventa come un copyrighter che utilizza ogni segno, anche del passato, pur di rafforzare la tenuta della propria immagine, ma credo che sia una pura astuzia. Mi pare che ci troviamo di fronte, in questo momento, a un itinerario parlato da un tempo che sembra promettere un permanente presente, più che un futuro.

 Il codice e la metafora sono dei siluri che viaggiano dal passato al presente per rivolgersi al futuro. Sono mappe, travestimenti dell'iconografia, per sfuggire alla comprensione del proprio tempo e aspettare un futuro migliore. La via d'uscita in questo panorama è rispettare il movimento eccellente dell'arte, che può, nel tempo, riproporre delle proprie cadenze interne, capaci di cogliere la profondità dell'immagine, seppure attraverso la citazione.

·        Il Linguaggio.

Occhi bendati. Il giustizialismo non è solo una piaga ideologica, ma anche linguistica. Maurizio Assalto su L’Inkiesta il 5 Dicembre 2022

Chi è a favore di una giustizia penale spiccia e sommaria viene definito giustizialista. Il termine è stato importato dal justicialismo argentino che però è tutt’altra cosa

L’immagine della giovane donna dagli occhi bendati è la rappresentazione tradizionale della giustizia che non guarda in faccia a nessuno ed è (dovrebbe essere) uguale per tutti. Per tutti, tranne che per la giustizia stessa. Non solo la vediamo troppo spesso tirata di qua e di là nel confronto politico e nelle battaglie in tribunale, a seconda delle convenienze: lo stesso avviene anche nel linguaggio.

C’è il caso del verbo giustiziare, che rimanda a una dimensione estrema della sanzione penale dove il ristabilimento della giustizia coincide con l’eliminazione fisica della persona ingiusta. Ma non sempre l’ingiusto è davvero tale: Sacco e Vanzetti, per citare un caso celebre, erano forse colpevoli? E quindi si può plausibilmente dire che furono giustiziati? O non piuttosto ingiustiziati? Certo, finirono i loro giorni sulla sedia elettrica in seguito a un legittimo procedimento penale che, sia pure attraverso forzature e omissioni, li aveva giudicati colpevoli, e quindi formalmente (e lessicalmente) l’esecuzione della condanna avvenne “secondo giustizia”. Ma quando, come è accaduto e può sempre accadere in qualche regime autoritario, la pena viene eseguita in assenza di un regolare processo, ossia bypassando il momento in cui la giustizia si reifica e viene sancita?

Di quanti desaparecidos argentini, nei vuelos de la muerte pianificati dal regime sanguinario del generale Videla, si usa dire impropriamente – paradossalmente, offensivamente – che sono stati giustiziati? Per tacere dell’uso estensivo del verbo – che anche il vocabolario Treccani qualifica come “erroneo” ma che è comune nel linguaggio giornalistico – come sinonimo di uccidere, assassinare: “commerciante reagisce a una rapina, giustiziato a colpi di pistola da uno dei banditi”. Al verbo giustiziare può essere accostato il sostantivo giustiziere, che è l’esecutore di una condanna capitale, in quanto tale sinonimo di boia, carnefice, ma anche “chi pretende di farsi giustizia da sé, di vendicare torti fatti a sé o ad altri” (vocabolario Zingarelli). Che ne è in questi casi della giustizia, della giovane donna bendata? Forse si tiene gli occhi coperti per non leggere, per non vedere la deriva linguistica che le viene inflitta.

Ma se per avventura le cascasse la benda, potrebbe pensare, a forza di venire tirata di qua e di là, di essere finita dall’altra parte del mondo: in Sud America. Nella sua famiglia lessicale allargata troverebbe infatti due sostantivi che stenterebbe a riconoscere, per ragioni semantiche come pure morfologiche: giustizialismo e giustizialista.

Complice il linguaggio giornalistico – che, se non le ha inventate, a partire almeno dagli anni dell’inchiesta Mani Pulite ne ha canonizzato l’accezione e propagato l’uso – queste due parole sono entrate prepotentemente nel nostro linguaggio. Nel dibattito pubblico l’accusa di giustizialismo è l’arma semanticamente impropria brandita da garantisti più o meno sinceri (generalmente ascrivibili allo schieramento di centro-destra) contro i presunti fautori (generalmente ascrivibili al centro-sinistra) di una giustizia penale spiccia e inflessibile, talora sommaria, poco ponderata, ignara di cautele e distinguo, magari neppure sorretta da prove inconfutabili.

Lasciamo impregiudicata la questione di diritto. Sta di fatto, però, che nella lingua e nel paese da cui la parola è stata importata, lo spagnolo e (di nuovo) l’Argentina, il justicialismo è tutt’altra cosa. Lo ricordava Alessandro Galante Garrone, giurista e storico di antica matrice azionista, in un fondo pubblicato sulla Stampa del 31 dicembre 1996: «Si dimentica un po’ da tutti che questo termine è storicamente nato con riferimento preciso al comportamento e alla figura umana del dittatore argentino Perón e al suo regime piuttosto nefasto e ridicolo, quasi sfiorante l’operetta».

Il generale Juan Domingo Perón, presidente dell’Argentina dal 1946 al ’55 e poi ancora, dopo l’esilio, dal ’73 fino alla morte nel ’74, aveva costruito il suo movimento politico come una terza via tra capitalismo e socialismo, ispirandosi alla “giustizia sociale” delle encicliche papali: giustizialismo è appunto una “parola macedonia”, nata dalla fusione di giustizia e socialismo. Soltanto la consapevolezza di questa origine sincratica rende ragione della desinenza -lismo, che nell’accezione più comune data alla parola in Italia resta morfologicamente inspiegata e inspiegabile; a meno di ricondurla all’infrequente aggettivo giudiziale, detto di “ciò che è relativo alla giustizia” (sistema giudiziale, ordinamento giudiziale), che è però un vocabolo neutro, alieno dalle connotazioni peggiorative-afflittive riversate nel nostro giustizialismo (semmai si potrebbe ipotizzare, per esprimere il concetto, un più esplicito “giustiziarismo” che si riallaccerebbe al verbo cruento di cui sopra).

La protesta filologica di Galante Garrone non ha mai prodotto risultati, nonostante questo “uso disinvolto” del termine in questione sia stato discusso anche in un convegno del 2002 a Milano e l’anno seguente in un saggio del filosofo del diritto Mario G. Losano (“Peronismo e giustizialismo: significati diversi in Italia e in Sudamerica”, in Teoria politica, XIX, 2003). E così questa parola, nella sua accezione impropria, ha proseguito indisturbata la sua marcia inarrestabile ed è oggi registrata in tutti i dizionari, accanto all’accezione propria – sebbene negli ultimi tempi venga pronunciata meno, in concomitanza forse con lo smarrimento di una sinistra così sfiduciata da aver perso pure la tentazione di ricorrere alla via giudiziaria per ribaltare il risultato elettorale.

È inevitabile, sono i parlanti che decretano il significato delle parole, anche contro ogni ragione linguistica. Una parola sbagliata è un po’ come la Coca-Cola, inventata quale medicina contro il mal di testa e diventata invece la bevanda di successo che ben conosciamo; giustizialismo è un termine efficace, ormai accettato e compreso da tutti nel suo significato secondario, più pregnante e anche più appropriato di forcaiolo o manettaro. Alla giovane donna con gli occhi bendati non resta che adeguarsi: tuttalpiù potrà dotarsi di una seconda benda e usarla per coprirsi le orecchie.

Alle medie in Puglia si insegna la lingua dei segni. A tutti. Anna Gioria su Il Corriere della Sera il 3 Dicembre 2022.

Progetto pilota della Regione. Santarelli: non è soltanto uno strumento per le persone sorde, Serve ai bambini udenti per sviluppare maggiori competenze comunicative

La Puglia sarà la prima regione dove nelle scuole medie verrà insegnata la lingua dei segni (LIS). Il progetto regionale finalizzato all’inclusione delle 5 mila persone sorde che vivono sul territorio, è un segnale alquanto positivo, e soprattutto puntuale, che arriva nella Giornata internazionale delle persone con disabilità, celebrata ogni anno, il 3 dicembre, per rivendicarne i diritti. L’iniziativa è nata da una proposta, approvata con la legge regionale 30 dicembre 2021, del consigliere regionale Giuseppe Tuppudi, capogruppo della lista «Con Emiliano».

Il progetto

Al fine di rispondere ai particolari bisogni e interessi dei cittadini con disabilità uditiva, in fase di realizzazione sono stati coinvolti l’assessorato al welfare, quello all’istruzione e l’Ente Nazionale Sordi. Lo scopo principale del decreto è la sensibilizzazione dell’intera comunità scolastica all’inclusione e alla pluralità dei linguaggi, attraverso dei corsi della LIS. Dal punto di vista prettamente pratico, l’insegnamento della lingua dei segni è un modo per favorire la piena partecipazione alla vita sociale e l’abbattimento delle barriere della comunicazione. La notizia è stata presa con entusiasmo da Benedetto Santarelli, primo educatore sordo in Italia nell’insegnamento della LIS che dichiara:«In seguito a anni di lavoro e studio della LIS, sia a livello nazionale, sia internazionale, posso affermare che le mani sono la nostra bocca e gli occhi le nostre orecchie. I bambini udenti, esposti alla LIS, sono in grado di sviluppare maggiori competenze comunicative. La lingua dei segni non è solo uno strumento comunicativo e inclusivo per le persone sorde, ma il suo apprendimento e la pratica favorisce gli aspetti cognitivi e comportamentali. In particolare, ne beneficiano i bimbi iperattivi perché migliora l’attenzione, punto debole degli stessi e di quelli con un disturbo dell’apprendimento. Proprio per questi benefici della LIS, mi auguro che l’iniziativa pugliese possa replicarsi in tutte le città e regioni d’Italia».

L’augurio non è solo di Santarelli, ma di molti. Considerandola un’iniziativa pilota unica nel panorama italiano, si auspica che diventi un esempio sulla scena nazionale e sui tavoli ministeriali.

Il "meraki" che manca all'Italia. All'Italia in questo momento difficile serve meraki. E che sarà mai, un amuleto linguistico, lo slogan della fortuna, una diavoleria della destra? Claudio Brachino il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

All'Italia in questo momento difficile serve meraki. E che sarà mai, un amuleto linguistico, lo slogan della fortuna, una diavoleria della destra? Invece no, nel dominio delle immagini e di internet, un segno puramente verbale si riprende per un attimo la scena. Basta la parola, diceva una celebre pubblicità. Basta la parola, ricordava il mio professore di Psicolinguistica. L'uomo delle caverne prima del logos, per fare in modo che gli altri uscissero, faceva gesti mimetici e un po' nevrotici. Poi, a un certo punto dell'evoluzione, ha detto, semplicemente, esci. Insomma la Meloni per pochi minuti è riuscita a far dimenticare il contante e ci ha ricordato quanto contino le parole, specie se non le capiamo subito. La semantica ci dice dal greco moderno che meraki vuol dire fare qualcosa con tutto se stessi, con tutta la passione, il coraggio, la creatività che si hanno dentro. Siccome però spesso il filo che conduce dal significante (il segno fonico-grafico) al significato (la rappresentazione concettuale) fa degli strani giri, quel termine è forse intraducibile, o tradurlo alla lettera vuol dire banalizzarlo, toglierli quell'eco di senso che lo rende unico. Borges per parlare di infinito non usava eternity ma everness, una sorta di infinitezza. Credo che la Meloni volesse dire che non basta solo lei a metterci l'anima in quello che fa. Anche i rosiconi non possono non dire che sia entrata con tutta se stessa in un ruolo istituzionale che sente come una missione. Non è il momento del distacco e della critica continua, ognuno, nel suo, deve fare le cose con grande autenticità interiore, in un puzzle collettivo che deve portare a una sorta di riscatto nazionale. Sarebbe bellissimo ma bisogna dire per onestà che tanto meraki non si vede in giro e anche il Censis ci colloca in uno stato melanconico, non proprio il migliore per un'azione di cambiamento. A meno che la premier non ce l'avesse con qualcuno della sua categoria professionale, allora la questione diventerebbe più maliziosa. Qui traduco a titolo personale. La maggioranza, quel mood, dovrebbe averlo per definizione, e l'opposizione dovrebbe averlo, sempre per definizione, ma per scopi opposti. Il Pd però è sicuramente in fase melanconica, Conte il meraki lo applica non al Paese ma solo a quel paese che ha già il reddito, e Calenda quella furia greca moderna la usa a giorni alterni per spiazzare opposizione e maggioranza. Meraki a tutti!

Linguaccia mia. Automatismo emulativo. Il misterioso successo nella lingua italiana di “combinato disposto”.  Maurizio Assalto su L’Inkiesta il 28 Novembre 2022.

La locuzione sostantivale tipica del legalese è esondata sulla bocca di politici e giornalisti rompendo gli argini del buon senso comunicativo

Ci sono delle espressioni che corrono di bocca in bocca, del cui significato più o meno tutti hanno almeno una vaga idea, anche se non capiscono bene perché sia quello il significato. Una di queste è “combinato disposto”, che molto lato sensu, e con crescente, impropria frequenza, viene pronunciata per intendere un complesso di cose che si integrano, in genere originando qualche conseguenza. Ma perché questa formula criptica? Cos’è questo combinato? Combinato da chi? E cos’è questo disposto? Disposto a che?

Dal punto di vista grammaticale, “combinato disposto” è una locuzione sostantivale, ossia una unità linguistica formata da due o più parole che hanno la funzione di un sostantivo, e si distingue dalle locuzioni aggettivali che sono invece composte da due o più parole che messe insieme hanno la funzione di un aggettivo. Ma qual è qui il sostantivo? Sia combinato sia disposto si presentano in primo luogo come aggettivi, più precisamente participi passati aggettivali (dai verbi combinare e disporre), ma, per quanto meno immediato, possono essere pure participi nominali, ossia sostantivi. Nel nostro caso, il sostantivo è disposto, nel senso di ciò che è “stabilito, ordinato, prescritto” o, per dirlo con una parola sola e più piana, “disposizione”. Il che ci riporta alle origini della locuzione, perché stabilire, ordinare, prescrivere e insomma emanare disposizioni compete a chi ne ha l’autorità, tipicamente alla legge: “combinato disposto” è infatti una formula del gergo giuridico che sta per “principio di diritto risultante dall’applicazione congiunta di due o più norme” (dizionario Zingarelli). E in questa accezione il sintagma ricorre normalmente in frasi come “ai sensi del combinato disposto della legge n…, articolo… comma…, e della legge n…, articolo… comma…”.

Senonché dal linguaggio togato – la prima attestazione scritta, secondo il Dizionario etimologico della lingua italiana di Zanichelli, risalirebbe alle Instruzioni ai Cancellieri dei Comuni e Università del dominio fiorentino del 1635 – negli ultimi anni il “combinato disposto” è esondato in tutte le direzioni, dalle bocche dei politici di ogni livello alle tastiere di giornalisti e blogger, ai post sui social. Invariabilmente fuori luogo, senza alcun riferimento a disposizioni di legge, rompendo gli argini del buon senso comunicativo. E, per inevitabile imitazione, riversandosi nel parlato informale di tutti i giorni. Dove però, almeno per ora, compare prevalentemente all’interno di un registro ironico-brillante che gioca con la finta seriosità: “Il combinato disposto della mia abitudine di messaggiare mentre cammino e dell’imbecille che ha buttato una buccia di banana sul marciapiede ha fatto sì che adesso mi trovi a casa con una gamba ingessata”. È come se la locuzione fosse pronunciata “tra virgolette”, con ricercato effetto. Ma quando delle virgolette non c’è neppure l’ombra – nel linguaggio più formale dei discorsi pubblici, delle dichiarazioni, dei testi scritti – dall’ironia si passa al nonsenso. Qualche esempio, ricavato dai giornali degli ultimi mesi.

Sul Corriere della Sera, lo scorso settembre, a proposito dei rincari delle bollette del gas veniva chiamato in causa “il combinato disposto dell’incidente che ha colpito le due linee del Nord Stream nel mar Baltico e il nuovo metodo di calcolo mensile scelto da Arera”. Intervenendo in agosto sulla Stampa, un illustre clinico e docente universitario citava “il combinato disposto di questi due elementi (mercificazione dell’atto medico, di fatto spesso disgiunto dalla sua reale indicazione/necessità, e medicina difensiva)”. Sul Sole 24 Ore, a ottobre, “il combinato disposto [che] ha obbligato l’industria a rinunciare alla sua filosofia basata sui massimi volumi” veniva individuato nello “shock [che] parte a marzo 2020 quando il Covid forza a una presenza digitale” e nelle “strozzature varie nelle catene logistiche e di produzione, con la carenza di microchip, di alluminio, di cablaggi”. E pochi giorni fa, sulla Repubblica, era la volta del “micidiale combinato disposto di un’inflazione giunta al record quarantennale […] e di una recessione che molti segnalano in arrivo”.

Combinato? Disposto? “Ma de che!”, direbbero a Roma. È un automatismo emulativo gratuito, disorientante, ai limiti del ridicolo. Neppure i giornali sportivi si tirano indietro. Commentando una vittoria della Juventus contro il Bologna, lo scorso gennaio, la Gazzetta dello Sport scriveva che “a destra c’è Weston McKennie, nel combinato disposto di energia, corsa e adrenalina sulla fascia insieme a Cuadrado”, mentre a settembre, su Tuttosport (attenzione, qui anche la grammatica è andata a pallino), i meriti del Napoli eversore del più quotato Liverpool venivano ascritti al “combinato disposto tra il mercato attuato da Cristiano Giuntoli con la gestione (tattica e di gruppo) messa in atto da Luciano Spalletti”.

Sarebbe bastato, sarebbe stato più semplice (troppo?),  in ognuno di questi casi, sostituire il terribile sintagma con “l’effetto combinato/congiunto/coordinato di”, “la combinazione/congiunzione”, “l’incrocio”, “l’intreccio”, “la coincidenza”, “la somma”, “l’insieme”. Se il traslato non viene dosato con cognizione di causa, di traslazione in traslazione il linguaggio si allontana da ciò che vuole significare e sfuma nell’evanescenza dell’antilingua, quella forma di (non) comunicazione denunciata negli anni Sessanta da Italo Calvino (in questa rubrica se ne è già fatta menzione) che invece di semplificare complica e invece di chiarire confonde. Ma che farci, li disegnano così… È il combinato disposto dell’assuefazione al “così dicon tutti” e dell’irresistibile vocazione a straparlare.

La neolingua che sta distruggendo la nostra democrazia. Paola Di Lazzaro e Giordana Pallone su L’Espresso il 21 novembre 2022. 

Da inciucio a casta, il cambio di linguaggio ha accompagnato la trasformazione profonda della partecipazione pubblica. E ora un saggio ne ripercorre la genesi

Anticipiamo qui un brano di “Come è successo”, di Paola Di Lazzaro e Giordana Pallone (Fandango Libri, 176 pagine, 17 euro) appena arrivato in libreria

Forse è iniziato con le elezioni del 2013. O forse prima. E poi è successo sempre più spesso. Con picchi di intensità a ogni tornata elettorale. Amici che si incontrano. Che parlano. Finché uno tira fuori la stessa domanda. «Ma come è successo?». Già. Come è successo. Com’è successo che «politico» sia diventato un insulto nel sentire comune e l’essere unicamente cittadini sia diventato l’elemento necessario e qualificante per avere responsabilità pubbliche? Com’è successo che i segretari di partito abbiano cominciato ad avere più rilevanza dei programmi politici e che dirsi «né di destra né di sinistra» sia diventato un valore in cui riconoscersi? Com’è successo che il susseguirsi dei governi sia stato considerato tradimento della volontà popolare e il taglio dei parlamentari la panacea di tutti mali? Come è successo che l’elezione diretta del capo del governo (sia presidenzialismo, sindaco d’Italia o altro) sia invocata da più parti come il modello da adottare?

Com’è successo che i diritti sociali siano diventati privilegi e la condizione di vulnerabilità una colpa? Com’è successo che uno sconosciuto all’opinione pubblica sia diventato presidente del Consiglio (e di due schieramenti opposti nell’arco della stessa legislatura) e la sorte di politiche e governi sia stata decisa con votazioni online sulla piattaforma di una società privata?

Com’è successo che si parlasse di «taxi del mare» riferendosi alle imbarcazioni di fortuna utilizzate dai migranti per attraversare il Mediterraneo e che il ministro dell’Interno sostenesse il diritto di difendere la propria incolumità e i propri beni con armi personali? Com’è successo che i tagli alla spesa pubblica e lo smantellamento dello stato sociale siano diventati un destino ineluttabile e fare da soli sia diventata l’unica strada? Com’è successo che la rappresentanza e il confronto siano stati ritenuti un ostacolo e la velocità delle scelte e la partecipazione con un clic l’orizzonte da perseguire? Com’è successo che di fronte a drammatiche crisi economiche e sociali si siano ricondotte a una sola persona la capacità e la competenza per rispondere ai bisogni del Paese? La lista dei «come è successo?» sarebbe ancora molto lunga e la risposta non può essere una sola. Ma come trovarle? Voltandosi indietro e cercando di rifare la strada al contrario, per capire questa trasformazione politica e culturale. E le tracce più evidenti sono da riconoscere nel linguaggio. E nei suoi mutamenti.

Senza pretese di esaustività, consapevoli degli inevitabili condizionamenti indotti da storia e convinzioni personali, abbiamo provato a raccontare il «come è successo», assumendo come punto di partenza gli inizi degli anni ’90, quelli comunemente noti come gli anni di Tangentopoli, della crisi irreversibile dei partiti che hanno governato l’Italia per cinquant’anni, della comparsa di Silvio Berlusconi sulla scena politica e dell’avvio della cosiddetta seconda Repubblica. Dal 1994 in poi il libro ricostruisce – parola per parola – la metamorfosi di un linguaggio che non si limita alla semplice inflazione di grossolana volgarità e artificioso turpiloquio cui ci siamo abituati ma che contribuisce in maniera determinante alla messa in discussione dei principi cardine del nostro sistema politico e dei meccanismi della rappresentanza.

È intorno al proliferare di parole come inciucio, ribaltone, poltrone, casta, fannulloni, ecc. che progressivamente si è strutturata una neolingua che alimenta una molteplicità di fenomeni, ancora in corso, caratterizzati dal perseguimento spasmodico e acritico di una semplificazione della vita pubblica e delle istituzioni democratiche.

Semplificazione dei partiti, sempre meno radicati territorialmente, sempre più personalistici. Semplificazione della competizione politica, ridotta a una continua ricerca della contesa tra due soli poli e della mitologica ricetta elettorale e istituzionale per la governabilità ad ogni costo. Semplificazione della rappresentanza, con un progressivo svilimento dei corpi intermedi e del loro ruolo, l’esaltazione dell’elezione diretta e di figure salvifiche o leader onniscienti a cui affidare le sorti di comuni, regioni, o di un governo intero.

Filtrata dalla cartina di tornasole di questa neolingua nel libro si ricostruisce la progressiva e inesorabile delegittimazione di ruoli e funzioni, in primo luogo sul piano istituzionale: è la stessa legittimità dei governi che viene messa in discussione ripetutamente con il refrain della volontà popolare tradita e dei governi non eletti dal popolo.

Mentre parti dello Stato, subiscono attacchi reiterati, dai giudici considerati «eversivi» o rei di condurre «indagini a orologeria», ai dipendenti pubblici dipinti come troppi e nullafacenti, alle amministrazioni stesse identificate come uno spreco di risorse.

La neolingua agisce anche sul piano democratico, minando la costituzionalità del confronto e del dissenso. I giornalisti diventano «pennivendoli», gli intellettuali «professoroni con l’attico a New York», i critici e gli oppositori «gufi». Il terzo piano a essere compromesso è quello civile. La complessità di temi come l’immigrazione soccombe ad un immaginario fatto di «invasioni», «gite in gommone con gli smartphone», «hotel a 5 stelle». Anche la povertà diventa una colpa. Chi non ce la fa, non è più un tema da affrontare con gli strumenti del welfare, ma un «fannullone sul divano». Ultimo, ma non meno importante è il colpo sul piano della partecipazione pubblica. Dalla messa in discussione della forma partito, che viene «rottamato», all’illusione della democrazia diretta (...).

Il risultato di questo processo è lo spostamento oltre il punto di non ritorno di quella linea invisibile che delimita ciò che è ritenuto ammissibile nel dibattito e nelle pratiche pubbliche e private. La semplificazione del linguaggio diventa, allora, una semplificazione dei processi democratici e della vita pubblica. La democrazia rappresentativa e i suoi strumenti collettivi non sono più funzionali alla necessità di avere governi forti in tempi certi (meglio se un minuto dopo le elezioni), e di legiferare senza intoppi (il Paese deve correre). Meglio un consenso plebiscitario attraverso forme di pseudodemocrazia diretta cui si accompagnano la centralità del leader e la primazia del governo sul Parlamento (...). Uno spostamento che non può non incidere su interessi pubblici e di comunità che vengono surclassati dal tornaconto personale, con l’orizzonte politico che si sposta dal piano collettivo al piano individuale e dalla responsabilità collettiva verso il bene comune, alla preminenza dell’interesse privato. Ecco come è successo.

Lingue regionali (a conoscerle tutte). Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 22 Novembre 2022.

Sarebbe interessante se il sottosegretario leghista per le Imprese e il made in Italy Massimo Bitonci e i 17 leghisti autori della proposta di legge che vuole «consentire e promuovere l’insegnamento delle lingue e culture regionali nell’ambito dei programmi ufficiali, dalla scuola materna fino all’università» spiegassero meglio i dettagli della loro ideona, valida peraltro per tutti dialetti e le lingue italiani

«Balotina, galineta, groleta, santa lussia, violeta dea madona, orbesola, avemaria, oliveta, roseta, ola, boarina, cocheta...» Domanda: in quale lingua dovrebbe essere insegnata la Lingua Veneta nelle scuole se nella sola provincia di Verona la coccinella è chiamata in un sacco di varianti? In quella di San Giovanni Lupatoto? «Violeta». In quella di Zevio, a otto chilometri? «Grola». E gli insegnanti madrelingua? Un’aspirante maestra nata a Bardolino dove la coccinella è chiamata «maestrina» può essere assunta per i bimbi di San Giovanni Ilarione (lì è una «grola») o potrebbe deviare gli scolaretti? Come uscirne se lo stesso autore del libro «Noi Veneti» (voluto, stampato e distribuito vent’anni fa nelle scuole dall’Assessorato Regionale all’Identità veneta) e cioè il professor Manlio Cortelazzo, linguista e accademico padovano, per anni decano degli etimologisti e dei dialettologi italiani segnalava la difficoltà di definire su un solo insetto e una sola provincia quale sia «La» lingua veneta? Quali dizionari userebbero questi insegnanti? E da chi sarebbero selezionati?

Da qualche assessore locale che parla nel diffusissimo «italian poenta e osei» tipo «vieni anche te»? Sarebbe interessante se il sottosegretario leghista per le Imprese e il made in Italy Massimo Bitonci e i 17 leghisti autori della proposta di legge che vuole «consentire e promuovere l’insegnamento delle lingue e culture regionali nell’ambito dei programmi ufficiali, dalla scuola materna fino all’università» spiegassero meglio i dettagli della loro ideona, valida peraltro per tutti dialetti e le lingue italiani. Dovessero chiedere una consulenza, però, dovrebbero evitare di chiedere ai leghisti milanesi incluso Salvini. Per le Comunali a Milano del 2011 lo slogan scelto per appoggiare Letizia Moratti fu: «Per ona Milàn semper pussee bèlla de viv». Traduzione presunta dei somari: «Per una Milano sempre più bella da vivere». Strafalcione indimenticabile: Milano, come dimostrò un diluvio di citazioni raccolte dal linguista della Bicocca Vermondo Brugnatelli (dal Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini del 1841 a Gianni Brera, dallo «scapigliato» Carlo Righetti al grande Carlo Porta) è in milanese assolutamente maschile. Lo dice perfino il canto rivolto alla Madunina: «Lassa pur ch’el mond el disa (ma Milan l’è on gran Milan)».

Dialetto veneto a scuola: ma davvero vogliamo «risciacquare i panni» del Manzoni in laguna? Marco Ricucci su Il Corriere della Sera il 22 Novembre 2022.

La proposta di legge della Lega vista attraverso la lente dei dati sconsolanti dell’Invalsi e della storia della letteratura italiana

Da poco si è concluso l’anniversario della morte di Dante e già qualcuno vorrebbe sostituire la lettura della Divina Commedia con Le baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni. E’ balzata agli onori della cronaca, nei giorni scorsi, una proposta di legge, presentata alla Camera da ben 18 deputati leghisti, che mira a includere anche il dialetto veneto tra le lingue delle minoranze tutelate dall’articolo 6 della Costituzione (come succede per le comunità albanesi, germaniche o francofone), recando modifiche a una legge (482/99) che tutela le minoranze linguistiche. Come si legge nel testo normativo, l’obiettivo è «prevedere l’insegnamento delle lingue regionali nelle scuole di ogni ordine e grado, con una particolare attenzione alla scuola dell’infanzia, affinché il bambino possa parlare la sua lingua materna». La rivendicazione leghista andrebbe, però, contestualizzata più ampiamente nella crisi attuale della lingua italiana, che è un tema più complesso, non riducibile, certamente, alla folkloristica possibilità di ascoltare, per esempio, il telegiornale in veneto dall’Adige al Piave, in base a un comma della stessa proposta di legge.

Come si legge in un saggio del grande storico Carlo M. Cipolla, Istruzione e sviluppo. Il declino dell’analfabetismo nel mondo occidentale, l’Italia raggiunse negli anni Novanta del Novecento un tasso di alfabetizzati simile a quello della Prussia di inizio Novecento. Il dato va confrontato con quanto emerso nella cronaca recente. Ho più volte rilevato il decadimento delle competenze di lingua degli studenti italiani, come certificato dalle prove Invalsi e da test internazionali come il Pisa dell’Ocse. Nonostante innumerevoli denunce e sporadici interventi, gli effetti collaterali di una scuola in forte affanno, su tanti fronti, ma nel nostro caso nell’apprendimento della lingua italiana, produce già i primi inquietanti effetti: un record di bocciati all’ultimo concorso di magistratura, perché gli aspiranti giudici non sapevano scrivere in maniera corretta un testo in lingua italiana . Mentre i rappresentanti del potere esecutivo e legislativo sono eletti dal Popolo cui appartiene la sovranità, la magistratura esercita il terzo potere, selezionato con i concorsi: insomma, è a rischio, paradossalmente, proprio la tenuta democratica della Repubblica, se persino i quindicenni di oggi, ma cittadini di domani, faticano a capire un semplice testo scritto.

In questo contesto evocato, l’introduzione del dialetto veneto, in base alla proposta di legge di area leghista, porrebbe problemi non solo didattici, ma anche accademici: che cosa è una lingua rispetto a un dialetto? Tralasciamo, però, questo frangente, per percorrere sentieri più conosciuti, nel ricordare almeno due esempi famosi della storia della letteratura italiana, uno dei reali collanti della nostra madrepatria. Forse a pochi sovviene che uno dei primi a riscrivere in italiano un capolavoro fu proprio Ludovico Ariosto: ci furono ben tre edizioni (o riscritture) dell’Orlando Furioso, la cui modificazione più evidente, per l’ultima versione del 1532, è rappresentata dalla «normalizzazione» linguistica fondata sulla lezione delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, autore - veneto - della prima «grammatica» della lingua italiana; di fatto, Ariosto volle allontanarsi, di proposito, dalla koinè quattrocentesca, fondata su lombardismi e latinismi. A ricordare, inoltre, le lezioni delle superiori, Alessandro Manzoni arrivò in Toscana, nell’estate del 1827, quando aveva già realizzato due diverse stesure dei Promessi sposi: la prima, il Fermo e Lucia, era, come ebbe a dire lui stesso, un «composto indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine»; la seconda, invece, con il titolo che tutti conosciamo, ostentava una lingua meno «mista», generalmente toscana, ottenuta compulsando libri e vocabolari. Ma il conte, perfezionista, decide di soggiornare a Firenze, per la famosa «risciacquatura» in Arno, cioè per realizzare l’adeguamento del romanzo alla lingua parlata dai fiorentini colti nei primi decenni dell’Ottocento, culminando con l’edizione definitiva dei Promessi sposi (1840-1842). Ma se la proposta leghista andasse in porto, dovremmo «risciacquare» i panni nella laguna veneta?

Paolo Martini per dramaholic.it il 20 Novembre 2022. 

E’ tutto chiuso, merda! Oppure: niente da vedere, merda! No, non dite così: nemmeno nel vuoto totale di appuntamenti in sala dell’estate, le esclamazioni coprolaliche a teatro possono essere negative. ‘Merda! Merda! Merda!’, tre volte, è come noto l’augurio di rito prima dell’inizio di uno spettacolo. Entrato in uso già nel XVII secolo e adottato anche dai francesi (‘Merde’, una volta sola) e dagli spagnoli (‘Mierda’, oppure addirittura ‘Mucha Mierda’), l’augurio si riferisce all’arrivo di molte carrozze del pubblico trainate da cavalli, e alla conseguente presenza di abbondante sterco equino sulle strade davanti all’ingresso.

Arcinota la risposta d’obbligo al classico “In bocca al lupo!”, che è decisamente poco animalista: “Crepi!”. D’altro canto, lo scambio relativo all’invocazione dei cetacei: “In culo alla balena!” prevede un rimando di rito decisamente ruvido, sempre in tema di deiezioni, ovvero: “Speriamo che non caghi!”

Con presumibile riferimento alla necessità d’inginocchiarsi tanto per ringraziare il pubblico entusiasta, “Break a leg”, rompiti una gamba, è invece l’augurio tradizionale dietro le quinte del teatro inglese. Si usa in parte anche in Germania, con l’aggiunta del collo (cioè, rompiti una gamba e il collo), ma più spesso i tedeschi ricorrono al semplice ‘Toi, Toi, Toi!’, usando la prima sillaba di Teufel, ovvero diavolo. I russi ripetono un’espressione che si pronuncia circa ’ni pùha, ni perà!’, e sta per un augurio di non venire ‘spennati’ dal pubblico.

Il viola è il colore proibito a teatro in Italia, retaggio medioevale dell’incubo del colore prevalente nelle liturgie cristiane quaresimali, durante le quali la Chiesa vietava agli attori di lavorare. In Inghilterra invece a far paura è il blu, perché le stoffe di questo colore costavano moltissimo e si dice che abbiano fatto fallire diverse compagnie. Anche solo l’occhio blu della piuma di pavone, peraltro, secondo le usanze teatrali tedesche, porta malissimo, e in Germania non si usa in genere mai il verde.

La pessima considerazione del verde a teatro viene comunque dalla Francia: non è ben chiaro se la superstizione derivi dall’ultimo costume indossato in scena da Molière nel “Malato immaginario”, poche ore prima di morire, o se invece più concretamente risalga all’effetto delle prime luci a gas, nel XIX secolo, che penalizzavano particolarmente il colore verde. In Spagna guai a farsi vedere a teatro col giallo, colore dell’interno nel mantello rosa del torero, ovvero la parte che vede lo sfortunato matador incornato e buttato a terra (per contrappunto, il rosa porta ovviamente fortuna). Giallo vietato anche in Russia.

Un chiodo storto in palcoscenico è di buon auspicio nei teatri italiani, forse perché indicava che il macchinista si era affrettato a piantarlo mentre stava già affluendo tanto pubblico in sala. In Inghilterra è vietato fischiare nei camerini o dietro le quinte, e non si nomina mai la parola “rope”, corda, che evocava cattivi ricordi d’impiccagioni ai molti macchinisti che venivano dal mondo marinaresco. 

Anche in Francia ‘corde’ è una parola tabù tra gli addetti ai lavori di scena, sia per il rimando alle esecuzioni capitali dei criminali sia per l’ampio uso di questo strumento di tortura ai tempi dell’Inquisizione. Interminabile l’elenco delle altre varie superstizioni dei teatranti russi: non si legge mai l’ultima frase del copione alle prove, non si entra mai sul palco col piede sinistro, i fiori freschi di possono portare in scena solo dopo la prima, non si può mangiare, soprattutto semi di girasole, non si fanno cadere i pettini, non si aprono mai gli ombrelli…

Se la gente vuole vedere solo le cose che può capire, allora non dovrebbe andare a teatro: dovrebbe andare in bagno Bertolt Brecht 

(La citazione e altre notizie sono tratte dal ‘Dizionario teatrale’ a cura di Margherita Palli, ed. Quodlibet Naba, 2021)

Essere al mondo? In Puglia è «stare». Un verbo che al Sud ha mille espressioni e significati: dall’economia alla lettura, al bar. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Novembre 2022

Dall’agorà al foro, dai rostri romani alla piazza medievale e rinascimentale, dagli esclusivi giardini settecenteschi alla rigogliosa villa comunale, la piazza risarciva del buio delle catapecchie i poveri nella storia d’Italia e d’Europa, si annovera nel vocio dei cittadini l’invito ad incontrarsi all’aperto, popolando questi luoghi dell’alta e spicciola umanità. Ma, anche, della voglia di misurarsi con la comunità e nella comunità. E nel generoso desiderio di frequentarsi tra simili si praticava una cultura non altezzosa, fatta si conversazioni, liti, e discorsi comizianti, alterchi pittoreschi e confidenze accorate. Vita di comunità che ribadiva l’armonia e anche la dialettica delle parti.

In Inghilterra quegli astanti prendono il nome di corner people. In quelle contrade, però, si tratta di gente che ha degli appuntamenti. Se li è dati o li da per scontati. C’è, insomma, una vicenda quotidiana che prevede il ritrovarsi con altri in un certo punto, un angolo di strada. Noi no, noi, al sud, andiamo a «stare». Con tutto quel febbrile affaccendarsi che comporta l’ozio faticoso della chiacchiera lenta, della conversazione vaga e ampia e la pratica dell’osservazione del passeggio. Nella colorata lingua quotidiana che pratichiamo in Puglia, ci sono quelli che «stanno» o, complicazione verbale che designa un’intenzionalità, «vanno a stare».

Si può, a Bari, «stare» nel senso dell’«essere al mondo» del filosofo Heidegger, ma si può, complicando le cose, anche rispettando la laboriosa filosofia, «stare nel», «con» e «contro» il mondo e il prossimo o, addirittura, «nonostante» quest’ultimo. Il verbo «stare», nel «volgare» di Puglia, svolge mansioni complesse e impegnative: si usa, quindi, per definire una condizione, uno stato, una modalità. In risposta alla domanda «Che facciamo stasera?», m’è capitato di registrare la locuzione «Andiamo a stare». Proprio così. «a stare» e basta.

In quel caso indicava una attività-non attività che consiste, lo sappiamo bene dalle nostre parti, nell’essere non bighelloni scansafatiche, ma meditabondi oziosi che occupano un luogo determinato e scelto. In genere l’angolo d’un caffè. Tutto questo e altro ancora è, a Bari, «stare».

Infatti: c’è un modo assai curioso d’esprimere la condizione di chi è provvisto o, più spesso, sprovvisto di qualcosa: si privilegia, rispetto al verbo avere, il verbo, ausiliare supplente, «stare», considerato variante del verbo essere. Si dice infatti, anche troppo spesso, «sto senza soldi», «sto senza mangiare da ieri”, “sto senza far niente», eccetera. Invece di «non ho soldi», «non ho mangiato da ieri», «non ho fatto niente», eccetera.

Ricordo, in tempi di ritrosie moralistiche delle agende delle donne, di aver sentito un tale lamentarsi di non poter andare ad una festa perché «stava senza femmina». Il cerbero era tassativo: senza dama non si entrava nel locale. Lui, il cerbero, «stava» lì apposta. C’è, poi, uno «stare» intorno ad un giornale. Uno pensa ai blog, wiki, newsletter, forum, magazine on line, giornali virtuali, e sbaglia. In me monta la nostalgia del giornale sulla gelatiera. Un tempo, ma credo e spero che si faccia ancora oggi, il proprietario del bar ostentava sulla gelatiera spaziosa una copia della Gazzetta fresca di giornata ed evidentemente a disposizione degli avventori.

Questi si dividevano, e credo e spero si dividano, in due categorie: quelli frettolosi che consumavano il caffè nelle infinite varianti della nostra arte della caffetteria e quelli che andavano al bar a «stare». I primi, comunque, non mancavano di buttare un occhio sul giornale spalancato sulla gelatiera, gli altri il giornale lo leggevano a spizzichi e bocconi, e, a furia di questa perlustrazione saltuaria, lo sbranavano contendendosi la pagina dello sport. Somigliavano, questi, al branco di leoni che, soddisfatta la prima fame, si degnano poi di brevi e distratte incursioni sporadiche sulla preda. Il giornale, alla sera, era ridotto uno straccio e l’ultimo residuo serviva solo a segnalare la programmazione cinematografica. Va da sé che lo «stare» di quei bighelloni era animato dalla spigolatura del giornale che forniva continui ed irrinunciabili argomenti di conversazione. Era la prima ed artigianale forma di fruizione collettiva, una lettura partecipata che animava una forma tribale di «blog» con rudimentali «post» di uno «sharing» di contenuti, cioè condivisione, del tutto spontaneo. Contare le copie di un giornale venduto a Bari, e, azzardo, in tutto il Sud, credo sia stata valutazione virtuale, ipotetica. Quelle copie andavano moltiplicate almeno per 10. Questo non faceva certo piacere agli editori, ma ha consolato i più preoccupati per le sorti dell’informazione in Italia. E intenerisce. Quella tribalità minuscola e cittadina aveva un suo fascino cui dovrò rinunciare. La movida è brutale assembramento, non poesia dell’incontro.

Oggi la gelatiera arrugginisce nella sua malinconica prestazione refrigerante e, purtroppo, penso che, da ultimo, si vada a «stare» molto meno. Forse, mi consolo, il giornale riescono a comprarlo ognun per sé, posto che non «stiano» senza soldi.

Melania Rizzoli per Libero Quotidiano il 13 novembre 2022.

La dizione è come un bacio. Tutto dipende da come si usa la lingua.

Molti difetti di pronuncia infatti, dipendono da come essa viene posizionata nella bocca, al punto che dalla sua posizione scorretta dipendono moltissimi suoni che risultano erronei rispetto alla classica dizione. E un bacio dato male condiziona subito il giudizio di chi lo riceve. 

Ognuno di noi conosce una persona che pronuncia in modo sbagliato alcune parole, articoli o consonanti, e questo fenomeno non è quasi mai un difetto ereditario tramandato geneticamente come si pensa, ma si tratta di quelli che la Medicina ha classificato come ‘sigmatismi’ o ‘dislalie’ di vario tipo, ed i più frequenti difetti del linguaggio sono determinati appunto da un uso erroneo del movimento della lingua durante la produzione di fonemi, ovvero mentre si parla. 

La maggior parte di tali difetti si manifesta già da bambini e di solito vengono corretti in tenera età , e dipendono da problemi di articolazione, dall’ uso prolungato del ciuccio o del biberon oltre i due anni, dall’ abitudine di succhiarsi Il pollice od anche dal mordere spesso matite od oggetti vari durante la giornata, tutte cose che impegnano la lingua ed impediscono al bambino di pronunciare correttamente alcuni suoni o sillabe, per cui se non si interviene subito, queste imperfezioni del linguaggio si protraggono fino all’ età adulta.

Una delle alterazioni più diffuse è quella delle persone che non riescono a pronunciare correttamente le parole che contengono la GL seguita dalla vocale I, che viene spesso sostituita con la J, per cui dicono ‘famija, fojo, conijo, gijo, al posto di famiglia, foglio, coniglio o giglio, e questo è il l’esempio classico di chi sbaglia ad usare la lingua durante un discorso, la quale dovrebbe invece morbidamente toccare il palato durante tale pronuncia, anziché restarne distante, favorendo un flusso aereo che ne impedisce la corretta dizione. Molti sono i personaggi pubblici che esibiscono, ignari o meno, questo difetto, come per esempio i politici Luigi Di Maio, Beatrice Lorenzin e Renata Polverini, o i giornalisti come Serena Bortone e Serena Dandini, ed in questo caso i logopedisti suggeriscono, per eliminare il difetto, di aggiungere una L prima di pronunciare la GL corretta, in modo che la lingua tocchi il palato ed esca il suono di ‘coniLjo, famiLja, fogLjo o gigLjio, ed impedisca l’uscita del suono libero con la sola J, di fatto poco elegante da ascoltare.

Poi esistono molti altri difetti di pronuncia, tipo quelli del nesso ‘NS’ tradotto in ‘NZ’, per cui molte persone anziché dire penso dicono ‘penzo’, oppure la borsa la chiamano ‘borza ‘ , come un’altra peculiarità, molto diffusa in Campania, è la pronuncia di vocali chiuse dovrebbero essere aperte, tipo ‘giòrno’ ‘pienamènte’ ‘prèso’ ecc, o il contrario come accade in Lombardia, come anche chi non sa pronunciare la CI e la anticipano con la S, per cui dicono ‘tredisci’ invece del corretto numero tredici, o ‘piascere’ anziché piacere. Questa inflessione però sconfina nella dizione condizionata dal dialettale, soprattutto romano, e in genere non viene classificata come un difetto di pronuncia vero e proprio. 

Ci sono però anche casi in cui correggere un difetto di linguaggio significa eliminare la propria unicità che contraddistingue il personaggio, come accade ad artisti quali Jovanotti o Fedez che fanno delle loro caratteristiche inflessioni, come la Z, sia sorda che sonora, che viene sostituita con la lettera S, la famosa ‘zeppola’, il loro punto di forza e di successo. Basterebbe far precedere la Z sonora, invece della S dalla lettera D, e per la Z sorda da una T. 

Di solito i difetti di pronuncia riguardano le consonanti, come per il ‘rotacismo’, ovvero la famosa R moscia, che raramente può essere di carattere ereditario , ma più spesso regionale, e comunque un insegnante di dizione può correggere perfettamente entrambi i difetti e permettere l’ emissione del suono nella maniera appropriata.

Le dislalie alveolo-dentali comunque possono anche suscitare simpatia, specie nei bambini durante la loro maturazione linguistica, ma sarebbe sempre bene correggerle, poiché una volta superata la soglia fisiologica concessa, non è sempre facile liberarsene, poiché è un lavoro di ginnastica articolatoria e fono-articolare della bocca impegnativo, che ha in primo piano e come maggior attore la lingua. Un organo vitale ed indispensabile per la sopravvivenza, molto sensibile e complesso, il quale spesso nell’adulto viene preferito articolare per baciare piuttosto che correggere un suono alterato o una dislalia.

"Sei parole fuori moda per frenare l'umanità nella sua velocità di fuga". Da attesa a "offlife", così lo studioso cerca di far convivere progresso e individuo. Eleonora Barbieri il 10 Novembre 2022 su Il Giornale.

Attesa, semplicità, ecologia, isolamento, anticipazione, offlife. Sono le «sei parole per il contemporaneo» proposte da Leonardo Caffo nel suo Velocità di fuga (Einaudi, pagg. 104, euro 12): un saggio che si muove nel mondo della filosofia, per «tentare di raccontare che cosa sta succedendo adesso» spiega l'autore, docente di Estetica della moda, dei media e del design alla Naba di Milano. E che, per il titolo, si rivolge all'astronomia nel definire la nostra epoca, laddove la velocità di fuga è «la velocità minima che un oggetto deve acquisire per riuscire a sottrarsi all'attrazione gravitazionale di un pianeta»; ma, passando da Newton alla nostra quotidianità, essa diventa la categoria che «da sola descrive l'antropocene e il capitalocene, i millennial e le generazioni successive, la morte dei vecchi sistemi di comunicazione e la nascita e ascesa continua di quelli attuali, il dramma ambientale o le varie pandemie oltre che i problemi morali del nostro tempo».

Leonardo Caffo, quindi il progresso non è poi tanto un progresso?

«Non è che sia un male: ci ha dato tanto, ci ha fatto arrivare dove siamo, ed evviva. Ma, superata una certa soglia di sviluppo, il progresso è anche la condizione di possibilità perché tutto si distrugga: ci darà il suo contrario, la fine del mondo, del nostro mondo».

Quindi?

«Quindi la mia proposta è cercare di ipotizzare una teoria della stabilità. L'idea è che una teoria della contemporaneità possa essere una teoria del fermarsi e cercare di avanzare con la morale, e non più con la tecnologia».

Perché parla di «età della velocità di fuga»?

«Perché, come nel concetto astronomico, la nostra contemporaneità è un fuggire, per non essere assorbiti da certe cose: la pandemia, la guerra, la crisi climatica, quella del cibo. È una metafora, perché una teoria della contemporaneità non fotografa la realtà, bensì dà un'idea di come dovrebbe essere. E questo vale per ogni tempo».

Ce lo ha insegnato Kant.

«È importante avere una narrazione: verso dove dovremmo andare, in che modo, con quale stile e come dovremmo comportarci? Le sei parole che propongo descrivono le cose quasi al contrario di come vanno».

Perché?

«Per esplorare una possibilità, quella di ridescrivere la realtà in modo diverso da come è stata descritta. Abbiamo chiaro che, quello che stiamo facendo, non funziona. Infatti ne parliamo sempre...»

Che cosa non funziona?

«Sappiamo che il sistema in generale, la politica, la tecnologia, lo stato di cose ci abituano a bisogni che non avevamo, ma è quasi impossibile decostruire dall'interno il nostro stile di vita: perciò va fatto qualcosa di più profondo, cioè provare a pensare all'essere umano in modo molto diverso, non in preda alla velocità, e all'idea che sei tanto più in gamba quante più cose fai, consumi e conosci».

In un mondo così di fretta, la prima parola è «attesa».

«È la condizione di possibilità delle grandi conquiste dell'umanità, da Colombo a Galileo a Einstein. Oggi devo sapere prima il risultato di ciò che sto facendo, come con le notifiche sul cellulare; ma, per duecentomila anni, l'umanità ha scoperto perché si è perduta. Altrimenti è solo una verifica, non una scoperta...».

L'attesa che cos'è?

«È la capacità dell'essere umano di agire nel mondo, senza sapere come, quando e perché il mondo gli darà una risposta: è il processo, che è parte integrante di ogni rivoluzione. Invece le tecnologie che abbiamo introdotto ci dicono esattamente quello che succederà. E così non abbiamo rivoluzionato l'umanità, l'abbiamo distrutta».

La semplicità invece?

«È la capacità di arrivare alla meta con il minor numero di passaggi, proprio come nella leggerezza e nell'eleganza delle formule matematiche: andrebbe fatto lo stesso nella nostra vita con le cose, i viaggi, le relazioni, l'amore, la tecnologia... Semplicità ci porta alla parola successiva, ecologia».

Di quale ecologia parla?

«Ecologia è un termine scientifico, diverso da quello degli ambientalisti, che descrive la nostra relazione col mondo in modo orizzontale e non verticale».

Perché dice che l'ecologia è arte?

«Lo è per definizione. Questi atti non hanno impatto poiché, se non superi la soglia del 50 per cento più uno, nel mondo non cambia nulla, è inutile non usare l'auto o la plastica... Ma la filosofia ha a che fare con la performance: perché Angela Davis si faceva arrestare in America? La legge, per gli afroamericani, faceva comunque schifo; ma lei mostrava una possibilità, uno squarcio di azione».

E la plastica?

«Oggi è così con l'ecologia, come rivoluzione complessiva, che non è mangiare l'insalata o non usare la plastica, bensì è una performance. Cristo questo ha fatto: mostrare che un uomo solo può salvare l'abisso. Ma inutile è buono e bello, e bontà e bellezza muovono l'ecologia».

Nota che internet, il regno degli appelli ecologisti, è il «sesto consumatore di energia a livello mondiale».

«I dati dicono che, tutta insieme, internet è la cosa più inquinante dopo gli allevamenti di carne e i grandi trasporti. L'idea di salvare il mondo attraverso lo strumento che lo massacra è paradossale. A essere coerenti, internet dovrebbe essere spenta».

Dobbiamo andare offline?

«Anzi, offlife, la parola finale. Una rieducazione a una vita umana in un mondo post digitale, a una serie di qualità che il digitale ci ha tolto. Il digitale è una grande rivoluzione, da cui non possiamo tornare indietro; il problema è che, quello che internet ci sta dando ora, non potrà più darcelo: lo dovremo centellinare, come il gas. Ma, ormai, siamo più capaci di sopravvivere al freddo, che senza Instagram».

E l'isolamento? Ormai lo conosciamo tutti?

«Avremmo dovuto conoscerlo prima. È la condizione attraverso cui comprendere qualcosa di sé, del mondo, dei bisogni reali, delle relazioni. Invece è stato vissuto come qualcosa di negativo, perché non abbiamo investito sull'individualità dell'essere umano. L'educazione deve ridiventare qualcosa che punti all'autonomia, ma le nostre società non vogliono... E non è complottismo, è che l'essere umano autonomo può mandarti a quel paese. La rivoluzione nasce quando c'è il silenzio».

Anche in filosofia, grazie all'anticipazione?

«Quando diventa accademia, titolo, qualsiasi genere di filosofia come rottura del canone si perde. La filosofia non è una disciplina argomentativa: è un modo attraverso cui l'umanità ha spezzato le catene morali, intellettive e normative. L'anticipazione è quello che la filosofia ha sempre fatto, soprattutto in campo morale, che è dove è cominciata, con la domanda: perché c'è qualcosa e non il nulla?»

Non è un po' primitivista?

«No. A essere primitivista è il pensiero progressista, perché è quello per colpa del quale si fermerà tutto. Il mio è tecnologico: fermiamoci ora, sette anni prima di finire nel pantano, e avremo per sempre tecnologia, cibo, educazione, medicina. Il primitivista è quello che se ne frega, come Elon Musk che, per andare su Marte, distruggerà la Terra. Io sono un progressista convinto».

«Puntinisti e virgolettai». Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 5 Novembre 2022.

Le virgolette, se non indicano il discorso diretto, sono una forma di ignavia, Anche i puntini di sospensione indicano reticenza 

Per qualcuno la punteggiatura è una forma di acne: se non c’è, meglio. Errore madornale. Certo, i social hanno cambiato molto. Se non chiudi il messaggio con un punto esclamativo, c’è chi pensa tu sia arrabbiato.

Abbiamo parlato di queste cose con Giuseppe Antonelli, professore ordinario di linguistica italiana e brillante collaboratore del Corriere, ospite di una lezione del corso «Farsi avanti. Sei lezioni di chiarezza per professionisti», che sto tenendo all’università di Pavia, presso il Collegio Ghislieri. Ognuno ha le sue simpatie, in materia di punteggiatura. Lui apprezza, e sa usare, le virgole. Io amo i due punti, di cui non devo abusare. Entrambi stimiamo il punto e virgola, il più breve trattato filosofico mai scritto. Cosa detesto? Virgolette e puntini di sospensione.

Le virgolette, se non indicano il discorso diretto, sono una forma di ignavia. Un modo di prendere le distanze dalle parole. Chi scrive «La richiesta di moltiplicare il tetto del contante appare “furbesca”. Non è che vogliamo “ufficializzare” l’evasione fiscale?» ha paura di quanto afferma. Vuol dire e non dire. Se ritiene che la richiesta sia furbesca (lo è), e serva a ufficializzare l’evasione (lo fa), lo scriva. Senza girarci intorno.

I casi più gravi di virgolettisti? Quello che, parlando, dicono «...tra virgolette» ogni venti parole; e, per far capire quanto sono infingardi, mimano con le dita il segno ortografico, alzando le mani sopra le spalle. Indice e medio si agitano freneticamente, come se facessero il solletico sotto le ascelle di Romelu Lukaku. Inguardabile.

Anche i puntini di sospensione indicano reticenza. Se scrivo «Non capisco perché il nuovo governo s’è fissato sul contante...», in realtà intendo dire: credo di sapere perché il governo s’è fissato sul contante, ma non ho il coraggio di scriverlo. Ci sono poi i puntinisti patologici: «Davvero non capisco... perché il nuovo governo s’è fissato... sul contante...». Importante: i punti di sospensione sono tre (non due, cinque o quindici). Se vogliamo unirli al punto esclamativo - mossa elegante - diventano due..!

Per puntinisti e virgolettai dovrebbero essere previste sanzioni. Ne suggerisco una: tenere un corso d’italiano ai nuovi parlamentari. Ma... non so... potrebbe essere troppo...«pesante», che dite?

C’è chi sfanga, chi la sfanga e chi svanga…! Quesiti linguistici«Sfangarla» o «svangarla»? Risponde la Crusca.  Accademia della Crusca su L'Inkiesta il 5 Novembre 2022.

Superare a fatica una situazione di difficoltà è un po’ come uscire dal fango. La vanga serve invece per scavare e quindi, figuratamente, significa riaprire questioni che si consideravano chiuse e che possono creare problemi nei rapporti interpersonali da cui non è poi facile uscire

Tratto dall’Accademia della Crusca

Ci sono pervenuti due quesiti che ci chiedono se sfangare e svangare siano varianti dello stesso verbo e dunque possano essere usati entrambi nel senso di ‘sottrarsi da una situazione problematica’.

Risposta

Le consonanti corrispondenti alle lettere f e v sono due foni distinti, che hanno in comune il modo e il luogo di articolazione: si tratta, tecnicamente, di due fricative labiodentali, prodotte entrambe facendo uscire l’aria dalla bocca con una specie di fruscio grazie al restringimento della cavità orale mediante l’avvicinamento del labbro inferiore ai denti incisivi superiori. La differenza tra i due foni sta nel fatto che [f] è sordo mentre [v] è sonoro, realizzato con la vibrazione delle corde vocali. Alla differenza fonetica corrisponde in italiano una differenza fonologica, perché la sostituzione dell’una consonante con l’altra in una parola la trasforma in una parola diversa. Abbiamo infatti coppie minime come fino e vino, fetta e vetta, foce e voce e, all’interno di parola, scafo e scavo, inferno e inverno, sfogliato (participio passato del verbo sfogliare ‘scorrere velocemente un libro’) e svogliato ‘indolente, pigro’ (qui, però, anche la s- iniziale è resa in un caso come sorda, nell’altro come sonora). È certamente possibile, soprattutto in certe pronunce regionali, che i due foni vengano confusi (infatti può essere reso quasi come invatti da parlanti meridionali; in certe zone professore viene reso come provessore; all’opposto convinto può suonare come confinto), ma ciò non compromette la loro distinzione sul piano della lingua standard, e tanto meno nella scrittura.

Questa premessa per dire che anche sfangare e svangare sono due verbi diversi, che costituiscono un’altra coppia minima da aggiungere alle precedenti. Il secondo verbo è d’uso rarissimo: manca nei dizionari dell’italiano contemporaneo, ma è registrato, con la marca ‘familiare’, nel GDLI, come intransitivo, nel senso, figurato, di ‘discutere per l’ennesima volta, rivangare’, con un esempio dal romanzo Per cause imprecisate (1965) di Carlo Bernari (“a che vale svangare chi ha avuto fiducia e chi no”). Nell’etimologia si propone la derivazione appunto da rivangare, con cambio di prefisso (dall’iterativo ri- all’intensivo s-), ma si potrebbe anche partire da vangare ‘lavorare la terra con la vanga’ (che è alla base di rivangare) o pensare che si tratti di un denominale da vanga formato per parasintesi, cioè con l’aggiunta del prefisso s- con valore “strumentale” (cfr. Claudio Iacobini, Prefissazione, in Grossmann-Rainer 2004, p. 159) e della desinenza verbale -are all’infinito, cosa che a me pare più probabile.

Quanto a sfangare, si tratta invece certamente di un parasintetico denominale da fango, ottenuto con il procedimento appena indicato, ma il prefisso s- in questo caso ha valore privativo. Il verbo è documentato fin dal sec. XIV, sia come transitivo, nel senso di ‘pulire dal fango’ o, nella tecnica mineraria, ‘sottoporre un minerale a sfangamento’ (cioè lavarlo per togliergli il terriccio), sia come intransitivo, nel senso di ‘uscire dal fango’, ‘ripulirsi dal fango’ o anche ‘muoversi a stento nel fango’ (cfr. Zingarelli 2022 e Devoto-Oli 2022; per il GDLI sfangare intransitivo, nel senso di ‘muoversi a stento nel fango’, costituisce un lemma distinto, in quanto s- ha qui valore intensivo). Ma tutte le accezioni citate sono proprie soprattutto dell’uso letterario e sono ormai diventate rare. Ben più diffuso è il verbo (nella forma attiva o riflessiva) in co-occorrenza con il clitico la (sfangarla o sfangarsela, forme che il GRADIT lemmatizza separatamente da sfangare, come verbi procomplementari), nel senso figurato di ‘cavarsela’, ‘tirarsi fuori da una situazione difficile’, o anche ‘riuscire discretamente in una disciplina o in una gara’. Tale significato è documentato dal GDLI a partire dall’Ottocento, in autori toscani (Francesco Domenico Guerrazzi, Fernando Martini, Giovanni Papini), ma poi anche in Una vita violenta, uno dei due romanzi romani di Pier Paolo Pasolini (1959) e in un articolo del giornalista lombardo Gianni Brera (1963). Possiamo aggiungere un esempio in romanesco, da un sonetto di Giuseppe Gioachino Belli (datato 25 novembre 1831), anteriore a quello di Guerrazzi (1848):

Metti, cumpare mio, metti ggiudizzio, / caso te puzzi er foco de l’inferno, /chè, mmettemo la sfanghi in ne l’inverno, / ar tornà de l’istate è un priscipizzio. (G.G. Belli, Sonetti, a cura di Pietro Gibellini, Lucio Felici, Edoardo Ripari, Torino, Einaudi, 2018, vol. I, p. 660)

Ora, è vero che in rete (e soprattutto nei social) troviamo molti esempi di L’ho svangata! accanto a L’ho sfangata! per dire ‘ce l’ho fatta!’, ‘mi sono tolto d’impaccio!’ e sim., probabilmente dovuti agli scambi tra [f] e [v] che avvengono nel parlato. Ma basterebbe riflettere sullo sviluppo degli usi figurati per comprendere che soltanto sfangare si dovrebbe adoperare con questo significato: superare (spesso a fatica) una situazione di difficoltà è un po’ come uscire dal fango, pulirsi dal fango. La vanga serve invece per scavare e quindi svangare, figuratamente, significa riaprire questioni che si consideravano chiuse, su cui (per usare un’altra metafora) si era messa “una pietra sopra”. Il senso di svangare è dunque quasi l’opposto di quello di sfangare: non di rado, infatti, la riapertura di vecchie discussioni crea situazioni di difficoltà nei rapporti interpersonali da cui non è poi facile uscire. Paolo D'Achille 28 ottobre 2022

Matteo Persivale per “il Corriere della Sera” il 2 novembre 2022.

«Potrebbe andar peggio - potrebbe piovere», diceva il fido Igor al dottor Frankenstein in Frankenstein Junior pochi istanti prima dell'inevitabile diluvio. Più che una battuta, un aforisma, e questo 2021-22 con il suo crescendo orribile - la pandemia, la recessione, l'inflazione, la guerra, il carovita, il riscaldamento globale, il pericolo di un bombardamento atomico - evoca inevitabilmente quell'aforisma di Mel Brooks, e il neologismo inglese scelto dal dizionario Collins come parola dell'anno lo dimostra: «Permacrisis», crisi permanente, vocabolo che descrive la sensazione di vivere un periodo di crisi senza tregua coniato negli agitati anni '70 ma entrato ora prepotentemente nell'uso comune.

«Riassume, in sostanza, quanto sia stato orribile il 2022 per così tante persone», ha spiegato alla Bbc Alex Beecroft, direttore di Collins Learning. «La lingua può essere uno specchio di ciò che sta accadendo nella società e nel resto del mondo, e quest' anno ha lanciato una sfida dopo l'altra. Siamo tutti in un continuo stato di incertezza e preoccupazione con gli sconvolgimenti causati da Brexit, pandemia, maltempo, guerra in Ucraina, instabilità politica, crisi dell'energia e del costo della vita».

Gli studiosi del dizionario Collins lavorano ogni anno alla compilazione dell'elenco delle dieci parole o frasi che «riflettono il nostro linguaggio in continua evoluzione e le preoccupazioni di coloro che lo usano». Le altre parole del 2022? Di tragica attualità è «Kyiv» (spelling ucraino, mentre il tradizionale, e di uso più comune in Occidente, «Kiev», è la traslitterazione del russo). Stesso discorso per «quiet quitting», espressione che indica secondo il Collins «l'atto di svolgere i propri doveri di base sul lavoro e non di più, per protesta o per migliorare l'equilibrio tra lavoro e vita privata».

Le fonti dei lessicografi del Collins? Un database sterminato compilato via computer, oltre a una serie di fonti multimediali, inclusi i sempre più influenti social media. Secondo Beecroft, «la nostra lista riflette lo stato del mondo in questo momento - non sono molte le buone notizie, anche se, vista la determinazione del popolo ucraino riflessa dall'inclusione di Kyiv, ci sono raggi di speranza».

Ecco l'elenco delle prime 10 parole e frasi in ordine alfabetico: «Carolean», carolingio, cioè relativo a Carlo III di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, o al suo regno. «Kyiv», la capitale dell'Ucraina. «Lawfare»: l'uso strategico di procedimenti legali per intimidire o ostacolare un avversario. «Partygate», cioè lo scandalo politico sulle feste tenute negli uffici del governo britannico nel 2020 e nel 2021 infrangendo le regole sulle restrizioni Covid.

«Permacrisis». «Quiet quitting». «Splooting»: cioè l'atto di sdraiarsi a pancia in giù con le gambe distese, come per esempio amano fare i cani per rinfrescarsi l'addome. «Sportswashing»: strategia di pubbliche relazioni volta a sponsorizzare o promuovere eventi sportivi nel tentativo di migliorare la propria reputazione, offuscata da qualche scandalo, o per distrarre l'attenzione del pubblico da un'attività controversa.

«VibeShift», più o meno traducibile con «cambiamento di atmosfera»: una variazione significativa nell'atmosfera o tendenza culturale prevalente. «Warm Bank», un edificio riscaldato dove possono andare le persone che non possono permettersi di riscaldare le proprie case.

Maschile, femminile e… schwa. È tutta questione di… riflessione. Alessandro Bertirotti il 31 ottobre 2022 su Il Giornale.

Certo, i problemi reali, importanti e determinanti la nostra qualità della vita sono legati alle desinenze maschile e femminile, assieme agli articoli determinativi.

Si tratta di una grande rivoluzione culturale, della quale, ovviamente tutti noi, sentiamo una necessità impellente.

Nel 1987, la Presidenza del Consiglio dei Ministri pubblica il libro intitolato “Il sessismo nella lingua italiana”, della linguista Alma Sabatini e delle sue collaboratrici Edda Billi, Marcella Mariani, Alda Santangelo.

Parte da allora la denuncia di una serie di usi linguistici considerati sessisti, unitamente alla proposta e le raccomandazioni per evitarne l’uso.

Prendiamo il famoso, almeno di questi tempi, “schwa”. Ebbene, non è un marcatore di genere, non è un grafema appartenente alla nostra lingua, non possiede un suono con valore distintivo, e sarebbe utile per eliminare ogni distinzione binaria tra il maschile e il femminile.

Eppure, lo schwa, secondo le comunità LGBTQ+, a loro dire, sarebbe più inclusivo. E tutto questo, perché le desinenze maschili e femminili restringono in modo cogente il campo di riferimento, mentre esistono persone che non si indentificano in queste categorie, ma in una serie di altre. E queste altre sono decisamente molte, proprio perché la mente umana, da quando è emerso l’Homo sapiens sapiens, desidera definire e ridefinire le parole, sulla base della consuetudine.

Quindi, coloro che desiderano eliminare il maschile e il femminile ritengono che l’introduzione del genere neutro possa migliorare la percezione identitaria di individui che possono definirsi come vogliono.

In fondo, ognuno di noi si definisce a modo suo, e lo fa secondo procedure diverse: con i gesti, la moda, le scelte comportamentali ed altro. In questa volontà, secondo la mia opinione, non ci sarebbe nulla di male.

Comincio a non essere affatto d’accordo quando si vuole imporre questa visione e questa tendenza ad una cultura come la nostra. Penso che ogni individuo possa scegliere, come peraltro ha decretato anche l’Accademia della Crusca, di utilizzare tanto il maschile quanto il femminile. Per esempio, io utilizzo il maschile e il femminile secondo le regole della grammatica che mi è stata insegnata, e considero ottima.

Ritengo quindi, che dovremmo riflettere sulla necessità di manifestare la propria identità serenamente, e farlo secondo il proprio gusto, consapevoli che l’esercizio di questa prerogativa umana attraverso il linguaggio non va a modificare l’opinione che le persone possiedono circa gli altri.

Insomma, bisognerebbe comprendere che le desinenze italiane, del maschile e del femminile, non indicano la propria identità di genere, ma solo il sesso biologico. Si tratta della nostra morfologia linguistica, italiana, che abbiamo in comune ad altre lingue.

Oltre a tutto ciò lo schwa cancella, oltre al genere sessuale, anche il numero, ossia il singolare e il plurale, e viene così a polverizzarsi la coesione testuale. Saremmo di fronte ad una amputazione radicale della lingua italiana.

Ecco perché io utilizzerò il maschile e il femminile, e lo farò anche di fronte ai miei studenti, i quali potranno valutare positivamente o negativamente questo mio parlare. Non mi interessa sapere la loro opinione in merito… e quindi che facciano quello che vogliono.

Certo, se vorranno farsi capire da me, in appello d’esame, dovranno parlare come parlo io, altrimenti io non potrò valutare la loro preparazione e il loro stile argomentativo.

Insegna agli angeli a scrivere. La tragica scomparsa della morte nel lessico del lutto contemporaneo. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 31 Ottobre 2022

“Si è spento”, “Non c’è più”, “è mancato”, “è venuto a mancare”, “ci ha lasciati”. Sono orrendi gli esempi di questa enclave linguistica composta di frasi fatte usate unicamente in tristi occasioni

“L’è el dì di mort, alegher!”. Ci siamo quasi: e allora proviamo a “rallegrarci” – sia pure non come il popolino catturato nei versi di Delio Tessa per le strade di Milano, mentre a Caporetto il fronte aveva appena ceduto. Ci proviamo con le parole del lutto, quelle a cui si ricorre per annunciare, partecipare, condividere in pubblico e in privato, che sono in genere formule rituali, stereotipate, qualche volte anche ridicole.

Prendiamo il caso in cui muore un personaggio di buona – non eccelsa (per i big va diversamente) – notorietà, per esempio un artista. Sul giornale si leggerà un articolo un po’ frettoloso che attacca così: “Con Pinco Pallo se ne va…” – e qui può variare: “l’ultimo rappresentante/uno degli ultimi rappresentanti”, oppure “l’artista che…”. All’istante nella vostra mente si disegneranno due figure in dissolvenza, Pinco Pallo che si avvia (magari “in punta di piedi”) con l’ultimo rappresentante, o uno degli ultimi, oppure con “l’artista che”. Certo è un gran passo quello che lo attende, meglio farsi accompagnare. Per qualche oscuro motivo questa formula funziona meno sul mezzo radiotelevisivo. Qui è un’altra l’immagine che vi assale, un’immagine corale monodicamente compatta: “Lutto nel mondo dell’arte”; alternativa più accorata: “Il mondo dell’arte piange…” – e così ve li vedete tutti lì a versare calde lacrime per Pinco Pallo, e vi sentite anche un po’ in colpa perché in questa mondiale commozione il vostro ciglio resta cinicamente asciutto, e magari siete a tavola davanti al televisore e state ingollando l’ultimo boccone.

Se invece l’esordio è “Si è spento…”, in genere segue “… all’età di…”, perché questa è la formula di rito quando il de cuius è molto avanti negli anni, oppure da tempo gravemente e notoriamente infermo (in questo caso l’indicazione dell’età è sostituita o integrata da quella del luogo: “nella sua casa di…”, nell’ospedale di…”), e quindi la sua pur triste dipartita non è presentata come un evento per cui dare la stura alle ghiandole lacrimali, ma come qualche cosa di ineluttabile, da accettare con serena consapevolezza e composta rassegnazione. Mentre “non ce l’ha fatta” – spesso preceduto da un prolungato “eee…” metà congiunzione e metà sospiro – è il rassegnato sbrigativo cliché che precede il nome (proprio se per qualche ragione già noto, altrimenti comune: il ragazzo, la donna, l’operaio…) della vittima di un incidente, o di una malore improvviso, di cui si era data notizia in precedenza.

Quando invece il personaggio che diparte è davvero un personaggione, non c’è una regola fissa, si va a istinto, caso per caso, a seconda di chi si tratta, dell’età, delle circostanze e delle modalità della dipartita. Meno svolazzi formulari, in genere, perché la statura del personaggio non ne richiede, meno ammantamenti retorici e prevalenza di “addio a…” oppure si va dritti al sodo, “è morto/a”, tuttalpiù con variante perifrastico-ontologica: quando il 4 giugno 2004 morì Nino Manfredi, il tg delle 13,30 si aprì con la voce mesta del conduttore che annunciava “Nino Manfredi non c’è più”.

“Non c’è più”, “è scomparso”, “è mancato”, “è venuto a mancare”, “ci ha lasciati”, “ha chiuso gli occhi”: dai contesti giornalistici a quelli privati, la morte va incontro nel linguaggio alla medesima rimozione che subisce nella società contemporanea, trincerandosi dietro a elaborati eufemismi. C’è modo e modo di dire la morte, una parola dal suono sinistro che in alcune lingue può essere anche più sinistro. In una pagina di Per chi suona la campana Hemingway fa ragionare così il suo alter ego Robert Jordan: “Prendi morto [nel testo inglese dead]: mort, muerto, e todt. Todt è il più morto di tutti”. 

Non è il caso qui di indagare se e come il tedesco anestetizzi il suo todt; restando all’italiano – e senza arrivare agli estremi di espressioni come “passare a miglior vita”, “rendere l’anima”, “tornare alla casa del Padre”, “esalare l’ultimo respiro”, utilizzati per lo più in contesti particolari e spesso con intento sdrammatizzante e ironico distacco – i nostri eufemismi sono sotterfugi umani-troppo-umani per tenere a bada con le parole la dolorosa realtà che queste comunicano. Ed è significativo che siano utilizzati quasi esclusivamente al presente e al passato prossimo, mentre negli altri tempi del passato, quando il fatto a cui si fa riferimento è sufficientemente lontano da non poter più aggiungere sofferenza alla sofferenza, ritorna senza problemi il verbo morire.

Il lessico del lutto ritaglia una sorta di enclave linguistica, un mondo a parte di frasi fatte, immagini, singole parole e modi di combinarle che si ritrova unicamente in quelle tristi occasioni, e quando si incontra lascia subito intendere la situazione. L’espressione “i tuoi cari”, per esempio, si può leggere soltanto sul nastro di una corona funeraria, così come “parenti tutti” (chi mai, nella lingua di tutti i giorni, invertirebbe in questo modo aggettivo e sostantivo?) che, per farla breve e non spendere troppo, puntualmente si ripresenta altresì nelle necrologie dei quotidiani. Seguita, nelle partecipazioni, da stereotipi involontariamente comici come “vivissime condoglianze” o “prendere viva parte al dolore” (l’“avvertimento del contrario”, spiegava Pirandello, è alla base del comico).

Ma è nei social che si attinge a piene zampe il ridicolo. A ogni dipartita di personaggio popolare non mancano schiere di immaginifici condolenti che colgono l’occasione per condividere i propri alati sentimenti dando del tu al personaggio in questione e fantasticando per lui improbabili occupazioni “lassù”. Per esempio muore Maradona e decine, centinaia, migliaia di post gli si rivolgono vaticinando che “adesso nessuno potrà più fermare i tuoi dribbling”, “tornerai a segnare sui campi del cielo”, “giocherai nella squadra più forte di tutti i tempi con Sivori, Cruijff ecc.” (come se nella sua vita El Pibe non avesse fatto altro che giocare al calcio; per la verità nella seconda parte di questa vita ha fatto tutt’altro). Oppure c’era stata, in una manciata di giorni ravvicinati del gennaio 2006, una funesta sequela di lutti nel mondo del pop-rock (David Bowie, Glenn Frey ex Eagles, Paul Kantner ex Jefferson Airplane, Colin Vearncombe alias Black, Signe Anderson anche lei – accidenti – ex Jefferson Airplane): e inevitabilmente si erano sprecate le variazioni sul tema “chissà che concerto stanno organizzando lassù”. 

Lo stesso modello viene buono anche per condividere lutti privati: nel caso si annunci la perdita di una persona cara che amava fare jogging, le si spiega che potrà continuare a correre per le strade del cielo (dove peraltro non circolano auto, quindi non si rischia di inalare le cancerogene polveri sottili); se la persona si dilettava in un coro, si prevede che adesso canterà con gli angeli (e chissà se gli angeli gradiranno). Vabbè ma qui siamo “oltre” (in tutti i sensi).

Ci sono anche quelli che raccontano sui social la perdita dei loro “amici a quattro zampe” o pennuti (una rispettabile tradizione: “Passer mortuus est meae puellae / passer deliciae meae puellae”, condivideva Catullo, limitandosi però a sollecitare il pianto di Veneri e Cupidi e delle persone di animo sensibile): qualche giorno fa su Facebook una ragazza appassionata di cavalli dava l’addio all’amato destriero augurandogli “buone galoppate fra le nuvole”. Poetico, se non altro.

E così, di eufemismo in banalità svolazzante, quando indulge al vaniloquio anche il lutto può diventare occasione di (cinico) divertimento. Un sintomo comunque di vitalità. Da Delio Tessa a Ungaretti: allegria di naufragi.

Metafore nel pallone.  Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico - su L’Indipendente il 29 ottobre 2022.

Nel pieno di una crisi di pessimismo, ti viene voglia di dare un calcio a tutto, ti senti come un carcerato ai lavori forzati con una palla ai piedi.

Il tempo passa inesorabile, ok anche felicemente, ma con qualcuno ti senti arrivato ai tempi supplementari, con un altro addirittura ai calci di rigore.

È vero che la vita è tutto un dribbling, con avversari anche fallosi, e che devi saper giocare sia in attacco sia in difesa, perciò vorresti essere un’ala tornante, uno di quelli che si muovono a tutto campo senza paura di andare in fuori gioco.

Certo, a nessuno piace finire in panchina, per bestemmiare poi negli spogliatoi, e menarsi con chi ti ha sostituito.

Ma il cartellino, da giallo è diventato rosso, e ora tu sei fuori. Colpa degli anni, del menisco o della vodka di ieri sera, la partita me la finisco in tribuna, ben lontano dal presidente perché gli sputerei in un occhio.

Lei mi ha scritto un sacco di volte, mi ha detto che dopo ieri sera mi concede comunque la prova del VAR, se voglio ancora dimostrarle che ho almeno vinto nel possesso palla.

Non so che cosa pensare, mi sento davvero nel pallone, devo cercarmi uno psicologo che mi faccia da allenatore nei tempi morti, che mi insegni a fluidificare, o che quanto meno mi faccia salvare in corner.

Mi sento prigioniero del risultato, il mister detesta i pareggi, di ultras non ne posso più, ne sono pieni gli stadi ma anche le strade e i social, ogni angolo di mondo pullula di tifosi ignoranti.

Non è però che avranno ragione loro? A me non passa nessuno il pallone, mai un assist, devo sempre correre come un pazzo.

Mi è venuta voglia di cambiare ruolo, di provare a fare il portiere. In fondo sono ambidestro, faccio molta palestra, sono alto, ma qualcuno mi ha detto che mi manca l’istinto per reagire in un attimo.

Sono forse soltanto prigioniero di metafore: cioè che bisogna fare squadra, che nella vita le partite non finiscono mai, che bisogna saper cambiare maglia, come fanno gli onorevoli, che non bisogna avere paura del fischio finale, che il pressing è stressante ed è meglio giocare d’anticipo.

Io spero sempre nei tempi di recupero, in quei maledetti minuti in cui puoi anche ribaltare il risultato. Minuti che se stai vincendo non finiscono mai.

Il campionato comunque è lungo e anche gli altri possono perdere, non c’è andata senza ritorno, io devo difendere la mia bandiera, rispettare il silenzio e stare fermo quando suonano l’inno, siamo venuti fin qui per dimostrare chi siamo, tu non deludermi.

Ma allora non romperetemi le palle, lasciatemi giocare in pace. Anche se in fondo ogni partita è invece una piccola guerra, una dimostrazione di forza.

E pensare che avevo cominciato in quel campetto sotto le case dove la gente mi applaudiva dai balconi.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

Play it again, Sam. “Giocare un ruolo” è il motto ufficiale dei ludopatici (e ignoranti) della lingua italiana. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 24 Ottobre 2022.

Tra i tanti francesismi della nostra lingua questo è il più fastidioso: si pensa che la scelta del verbo giocare possa dare a chi parla una maggiore autorevolezza, ma invece è solo banalmente conformistico

L’attrazione compulsiva per il gioco d’azzardo è una patologia mentale ufficialmente riconosciuta dall’Organizzazione mondiale della Sanità, per la quale è stato coniato verso la fine del secolo scorso il neologismo ludopatia (entrato però nell’uso corrente soltanto a partire da una decina di anni fa). Anche nel linguaggio sembrerebbe esistere una forma particolare di ludopatia, rivelata da una diffusa inclinazione a giocare d’azzardo: appunto, con il verbo “giocare”.

“Giocare” viene dal latino iocare. Iocus ero lo scherzo, la burla (un significato mantenuto nell’inglese joke), il gioco di parole spesso volgare o il componimento a tema erotico, in quanto distinto dal ludus che era invece il gioco di azione in cui non veniva impegnata la lingua ma tutto il corpo – e ludi erano infatti i giochi pubblici del Circo Massimo, i combattimenti gladiatori, gli spettacoli teatrali. Ma mentre la pregnanza di ludus e del verbo ludere si è via via smarrita, per lasciare la sua traccia nella lingua italiana soltanto nella formazione delle parole dotte, come appunto ludopatia, fin dalle ultime fasi dell’antichità iocus e iocare ne hanno ereditato l’ampiezza semantica, arricchendosi di sempre nuove accezioni. 

Qualcuna, per la verità, piuttosto sorprendente. Le percorriamo con l’aiuto del vocabolario Treccani: da giocare nel senso di scommettere (“giochiamoci un caffè”) a perdere per colpa propria (“s’è giocato la carriera”), servirsi abilmente di qualche cosa (“giocare di spada, di gomiti, d’astuzia”), muoversi agevolmente in uno spazio determinato (“la serratura non gioca bene”), avere peso (“qui gioca l’ambizione”), mettere abilmente a frutto (“l’avvocato ha saputo giocare tutte le sottigliezze giuridiche”).

Ma la valenza più azzardata di tutte è quella che al verbo “giocare” lega il complemento oggetto “ruolo”. Già questo sostantivo, un tempo, faceva arricciare il naso a qualche linguista: sentito come un inutile francesismo (da rôle, a sua volta derivato dal latino tardo rotulus, l’elenco – su un rotolo di papiro – in cui venivano annotati dati o istruzioni di vario genere), laddove l’italiano ha diversi termini meglio definiti, come “parte”, “ufficio”, “incarico”, “personaggio”, la parola “ruolo” è oggi pacificamente accettata da tutti e quasi imprescindibile. Ma è “giocare un ruolo” che proprio non si può sentire – eppure si sente così spesso, specialmente nel linguaggio con pretese di formalità, come se la scelta di un verbo che si presume ricercato, e invece è solo banalmente conformistico, conferisse a chi parla una maggiore autorevolezza. Questo sì è un francesismo (jouer un rôle) immotivato nella nostra lingua che possiede termini più consoni come “interpretare”, “svolgere”, “ricoprire”, “rivestire”, “recitare” un ruolo. 

Del resto il francese usa jouer (si “gioca jouer”, potremmo dire con il mitico Claudio Cecchetto) in un modo suo proprio e abbastanza disinvolto: oltre che nel senso di recitare, in quello di suonare – jouer du piano (o du violon, de la flûte e così via), ossia suonare il pianoforte (il violino, il flauto ecc.). Mica noi diciamo “giocare il pianoforte”; perché allora dovremmo “giocare un ruolo”? Il fatto è che per esprimere l’azione di suonare uno strumento non abbiamo bisogno di ricorrere alla traduzione da un’altra lingua, mentre nel caso di jouer un rôle ci troviamo di fronte a un’espressione idiomatica francese che traduciamo malamente per assonanza.

La stessa polisemica disinvoltura di jouer ha l’inglese to play, che può significare giocare (play è il gioco spontaneo e occasionale, game il gioco organizzato e regolato) come pure recitare o suonare. “Play it once, Sam. Play As time goes by”, è la celebre richiesta che il vecchio pianista nero si sente rivolgere nel film-cult Casablanca: “Suonala una volta, Sam. Suona As time goes by”. As time goes by, col passare del tempo, trent’anni dopo, nel 1972, quelle parole di Ingrid Bergman (non di Humphrey Bogart, come quasi tutti credono di ricordare: a volte la memoria gioca brutti scherzi) si è un po’ modificata e ha dato il titolo a un altro celebre film, protagonista e autore del soggetto Woody Allen: Play it again, Sam. Che in Italia, chissà perché, è diventato Provaci ancora, Sam. Ma in fondo provarci vuol dire rischiare, e il rischio è l’anima del gioco (d’azzardo).

Oh, issa! E vedrete che viene su anche il nome dell’azione di issare…Paolo D'Achille il 19 ottobre 2022 su la Crusca e su L'Inkiesta il 24 Ottobre 2022.

Un lettore ci chiede quale sia la forma corretta per indicare l’azione dell’issare tra issazione, che gli pare “aberrante”, issamento, che percepisce come “sbagliato”, e issata che ha incontrato, accanto ad ammainata, “con una certa frequenza nelle riviste che trattano di imbarcazioni a vela”.

Risposta

L’italiano dispone di vari suffissi per formare nomi d’azione a partire da verbi (cfr. al riguardo l’ampia trattazione di Livio Gaeta, Nomi d’azione, in Grossmann-Rainer 2004, pp. 314-351). Molte volte più suffissati convivono, talora con significati specifici dell’uno o dell’altro, ma spesso uno solo è proprio dello standard, mentre altri sono usati solo in linguaggi settoriali e specialistici, oppure risultano arcaici, o suonano come popolari o dialettali o addirittura “sbagliati”. Ci sono del resto anche verbi che hanno prodotto un solo derivato grazie a un unico suffisso. Si comprendono bene, dunque, i dubbi dei parlanti, che – specie in assenza di indicazioni lessicografiche – non sanno individuare quale sia la forma corretta tra le alternative possibili.

In questo caso abbiamo un verbo, issare, che è proprio del lessico della marina, dove si usa nel senso di ‘far salire qlco. mediante un cavo che scorre in carrucole o sim.’ (Zingarelli 2022), con particolare riferimento alle vele (ma anche all’ancora, che si solleva con le braccia; Devoto-Oli 2022). Da lì il verbo è passato nella lingua comune (anche nella forma riflessiva issarsi), nel senso più generico di ‘sollevare’, ‘alzare’, specie se con una certa fatica. Sul piano etimologico, l’origine di issare è incerta e i principali dizionari non concordano tra loro: potrebbe essere d’origine onomatopeica, o derivare dall’antico francese hiciser, usato come grido d’incitamento fatto ai cani durante la caccia passato poi ai marinai, oppure collegarsi al basso ted. hissen ‘alzare’. Nella più antica attestazione italiana, in una poesia per musica del sec. XIV, il verbo compare all’imperativo, proprio come espressione d’incitamento, e con riferimento alla vela (“- Sai, a la vela, sai; investi gomene, / issa, issa pur ben di mano in mano. - / - La vela è su. – Da’ volta, che si’ sano”; TLIO). Lo stesso imperativo issa viene usato come interiezione (per lo più preceduto da un’altra interiezione come oh), “come voce d'incitamento reciproco per fare contemporaneamente forza quando, in più persone, si deve sollevare o rimuovere a braccia qlcu. di molto pesante” (Zingarelli 2022; direi piuttosto qlco.).

Nessun dizionario disponibile, neppure il GDLI e il GRADIT, registra un nome che indichi l’azione dell’issare. Delle tre alternative considerate dal nostro lettore, da una ricerca in rete e nel corpus di Google libri (effettuata il 27 dicembre 2021) risulta che non ci sono esempi di issazione (e dunque ha ragione lui a considerarla una forma “aberrante”). Le cose vanno un po’ meglio per issamento, di cui è possibile segnalare due esempi ottocenteschi e un paio di attestazioni contemporanee, una delle quali in un blog svizzero, ma mai con riferimento alle barche a vela, bensì alle bandiere:

Si convenne intanto che l’atto di cessione avrebbe luogo l’indomani mattina alle nove; che si farebbe per atto pubblico rogato da due notai in presenza del cardinale Patriarca e di tutte le primarie autorità, e che il segno pubblico della presa di possesso sarebbe l’issamento della R. bandiera italiana sulle grandi aste che si levano di fronte alla basilica di s. Marco, la quale sarebbe in quel punto salutata collo sparo delle artiglierie, e col suono a festa di tutte le campane della città. (Documenti e scritti autentici lasciati da Daniele Manin…, vol. II, Venezia, Antonelli, 1877, p. 575; il passo risale al 26 agosto 1848) ISSAMENTO (1) . Si lega una catena ad una delle estremità posteriori del maiale che, collo sforzo, esercitato mediante una carrucola, viene issato (triced up). (G. Raineri, I grandi macelli di suini a Chicago, in “Giornale di agricoltura della domenica”, I, 52, 27 dicembre 1891, p. 4)

Le manifestazioni per l’annessione all’Austria, prima, ed al Sudtirol [sic] dopo, sono state piuttosto numerose, ma contenute nella forma di pochi manifestini, di alcune scritte sui muri e dell’issamento della bandiera austriaca una volta sul campanile della chiesa e un’altra sulla cima delle Tofane; aggiungasi ancora una petizione al Town Major di Cortina, firmata da 160 persone, nella quale si afferma, tra l’altro, che Cortina fa parte del territorio contestato. (Filiberto Agostini, Il governo locale nel Veneto all’indomani della liberazione. Strutture, uomini e programmi, Milano, Franco Angeli, 2012, p. 363)

La questione del corretto issamento non si pone finché si tratta di una bandiera svizzera. La bandiera svizzera non può essere appesa “a testa in giù”. Un montaggio corretto non è un problema, perché la bandiera della Svizzera è simmetrica (Markus Hotz, Comprate la bandiera cantonale e issatela subito nel modo giusto, Top-fahnen.ch; non mi è stato possibile datare il passo)

Molto più numerose sono risultate le presenze di issata, che si trovano, come rilevato dal lettore, proprio nell’ambito dello sport della vela. L’uso di issata è probabilmente favorito dall’omonimia con la forma femminile del participio passato, che rende la parola più “familiare”. Ecco alcuni dei tanti esempi raccolti:

L’issata delle Vele al Museo della Marineria di Cesenatico (YouTube, 18/4/2016)

Una manovra corretta avviene principalmente se prima di un’issata tutto è stato preparato a dovere. (Il gennaker: sapete issarlo e ammainarlo correttamente?, Giornaledellavela.com, 23/4/2018)

A scuola si insegna l’issata (video nel profilo Facebook di Basilicata Vela, 29/4/2019)

I due hanno scavato un solco sugli inseguitori. Poco dopo Betta vede piegarsi la parte alta del suo albero, evento che decreta la fine della sua regata. Dietro ai due lo Snipe approfitta dell’intensità del vento che sconsiglia l’issata degli spi per non perdere terreno nei confronti dei 470 e dei Jennakerati. Peccato per i nostri lanciatissimi 420isti Moretto Liberini V. che in una scuffia prepartenza hanno perso il tangone e nel tentativo di ripristinare il giro spi per un’issata libera hanno visto la drizza sparire all’interno dell’albero: i 5' e 1/2 di distacco dal 3° sarebbero stati probabilmente annullati (Long Distance: dura selezione, Circolo Vela Eridio, 2019)

Manovre in solitaria: virata, strambata, issata, ammainata (Globalsolochallenge.com)

Issata come sostantivo compare anche, ma molto più di rado, in alcuni testi a stampa sulla vela, come mostra l’esempio seguente:

Alzare lo spinnaker è una delle operazioni più delicate che si fanno in regata e diventa molto più complicata se la vela non è stata riposta bene nel suo contenitore, che può essere un sacco o un apposito gavone in coperta.

Per sistemarlo in modo che l’issata sia facilitata, il segreto sta nel lasciare i tre angoli di penna, di mura e di scotta, fuori dal sacco e ben distinti. (Laura Romanò, La barca veloce. Tecniche di navigazione competitiva e di regolazione delle vele, Milano, Hoepli, 2012, pp. 145-146; nel testo ci sono altre occorrenze)

C’è anche un’attestazione anteriore, in un volume che raccoglie alcune opere teatrali di Raffaele Viviani, nella nota introduttiva al dramma I pescatori:

La tradizione di questi canti è legata a momenti di lavoro, nei quali il ritmo assolve alla funzione di sincronizzare i movimenti collettivi , come il tiro delle reti, il remare o l’issata delle vele. (Raffaele Viviani, Teatro, vol. IV, Napoli, Guida, 1989, p. 819)

Potremmo quindi chiudere qui il discorso, dicendo che il suffissato in -ata è quello più usato e quindi da usare. Per completezza, però, dobbiamo ricordare che Google libri ci restituisce alcune rare attestazioni, dall’Ottocento in poi, di issatura, termine che è presente anche oggi in rete:

Alcune di queste grandi moli, che alla primordiale issatura del Pianeta veramente vanno assegnate, sono altissime, piramidali, acuminate, e fatte a guglie scalpellate, inaccessibili nel loro apice; ed altre si veggono come recise e compianate; (Giovanni Maironi da Ponte, Dizionario odeporico, o sia storico-politico-naturale, della provincia bergamasca, Bergamo, Mazzoleni, 1820, p. 25)

Sopra questa telaiatura si innalzano montanti principali, pure di legname, che unitamente ad altre travi orizzontali formano il castello, ossia issatura di tutto il fabbricato (“Il Politecnico”, 57, 1909, p. 561)

Egli insegnava ai mozzi come fare i nodi ed i misteri dell’impiombatura, dell’issatura, dell’intregnatura e fasciatura del cordame (Giulio Dubbini, Architettura come casa: un confronto Europa-America, Milano, Guerini e associati, 1989, p. 32)

Nel video: le immagini del bandierone durante le fasi di issatura, accompagnato dalla musica dell’Inno Viola. (Donato Mongatti, Torna il "Bandierone" sulla Torre di Maratona ed arriva la goleada, ilsitodiFirenze.it/, 22/9/2011)

Il cuscinetto a leva è ampiamente utilizzato nei macchinari di issatura, nei macchinari di ingegneria, nei macchinari di trasporto, nei macchinari medici e nelle attrezzature di ricerca scientifica perché può sopportare un grande carico assiale, un carico radiale e un momento di ribaltamento allo stesso tempo. (Cuscinetto a sfera ad alta precisione per apparecchiature per l'ambiente, Shuangzheng - szslewingdrive.com)

Sembra tuttavia evidente, dagli esempi raccolti, che issatura abbia una certa vitalità (maggiore di quella di issamento) al di fuori del mondo delle vele. C’è invece un altro derivato che è diffuso anche in quest’ambito, almeno nelle pubblicità di certi prodotti, e si tratta di issaggio, di cui Google ci restituisce 12.800 risultati. Eccone alcuni esempi:

Asta bandiera con issaggio mit guidafune esterno (VKF-Renzel.it)

L’issaggio della bandiera al Roode Kruisziekenhuis dell’Aia, 10 gennaio 1958, bandiere, Paesi Bassi, foto agenzia stampa del xx secolo, notizie da ricordare (Alamy.it)

Dispositivo d’issaggio: interno, in nylon molto resistente, integrato nel pennone (Mannus – Pennone per bandiere in alluminio PIRAT, KaiserKraft.it)

Del termine Google libri fornisce anche qualche attestazione scritta:

Questi, o scavavano la terra, o «pulizzavano» i fossi che avevano bisogno di opera di spurgo, o «cavavano» il lapillo, o spaccavano pietre dolci, o sopportavano la fatica estenuante dell’issaggio delle colonne (Maria Raffaella Caroselli, La reggia di Caserta. Lavori, costo, effetti della costruzione, Milano, Giuffrè, 1968, p. 94)

Su pendenze così limitate nella fase di issaggio la taglia non raggiunge il carrello (la pendenza minima perché ciò avvenga è di circa il 50%), tuttavia le teste dei tronchi restano comunque sollevate da terra evitando possibili impuntamenti del carico durante l’esbosco. (“L’Italia forestale e montana”, 48, 1993, p. 374)

Possiamo tirare le fila del nostro discorso. Come già era stato rilevato a proposito dell’azione del salvare, in una risposta relativa all’alternanza tra salvataggio e salvamento, e in un’altra sulle alternanze orientamento/orientazione e fondamento/fondazione, anche nel caso del verbo issare, di cui nessun dizionario registra il derivato nominale corrispondente, possiamo rilevare la “polimorfia derivativa” dell’italiano. Se issamento e issatura sono di uso marginale, issata e issaggio sembrano avere oggi una maggiore vitalità, ma mentre issaggio (come del resto issatura e issamento) risulta usato in contesti in cui il verbo ha il significato generico di ‘sollevare’ o si riferisce specificamente all’innalzamento delle bandiere, issata è l’unico termine diffuso in testi relativi alla navigazione a vela. Possiamo quindi senz’altro consigliare il nostro lettore, interessato a questo sport, di usare issata senza problemi: si tratta di una parola ben formata, che ha dalla sua già una certa diffusione, nonostante la (pur comprensibile) assenza di registrazioni lessicografiche. Paolo D'Achille il 19 ottobre 2022 su la Crusca.

(ANSA il 17 ottobre 2022) - Cringe, boomer, trigger e shippare sono termini del vocabolario della Generazione Z e per i ragazzi ormai un nuova lingua. Sei su 10 li utilizzano quotidianamente, 2 su 3 anche con gli adulti e per 2 su 3 è TikTok il social dei trend, anche per le parole. A raccontare come parlano i giovani è una ricerca di Skuola.net, che segnala quali sono le "nuove parole" più usate dai ragazzi e mostrando come vivono i più giovani il rapporto con la lingua.

In occasione della Giornata ProGrammatica, evento di promozione della lingua, ideato da Radio 3, in collaborazione con i Ministeri dell'Istruzione e l'Accademia della Crusca, la ricerca ha interpellato 2.500 giovani tra gli 11 e i 25 anni: tra questi circa il 60% dice di usare questi neologismi quotidianamente, oltre un terzo (36%) lo fa molto spesso, circa un quarto (23%) addirittura sempre, non solo tra coetanei, ma anche con professori e genitori: al 47% scappano ogni tanto ma quasi 1 su 5 le inserisce di continuo nel discorso.

Solo una minoranza li usa in modo mirato: il 13% per sentirsi parte del gruppo, il 7% per non farsi capire dai grandi, il 5% per farsi notare. La gran parte dei ragazzi vorrebbe sdoganare definitivamente le nuove parole, ben 7 su 10 le metterebbero nei dizionari ufficiali, oltre 1 su 10 le ritiene degne più o meno tutte, i restanti (56%) ne selezionerebbe solo alcune. Sarebbe bene quindi conoscerne almeno qualcuno, per superare il gap linguistico e non essere bollato col termine 'cringe', appioppato agli adulti che si comportano in maniera imbarazzante.

Allora Skuola.net, propone un mini-dizionario. Il termine forse più noto è "boomer", ossia riferito alla generazione del baby boom, altrimenti detto "da vecchio"; tra i più diffusi anche "snitchare", che i ragazzi usano quando accusano qualcuno di aver "spifferato" all'autorità (un professore, un genitore, ecc.) cose che dovevano restare segrete.

Un po' più complesso "shippare": un'abbreviazione e derivazione della parola inglese relationship, interpretata nel senso di "vedere bene assieme due persone"; "trigger", invece, segnala un qualcosa in grado di infastidire. Poi ci sono gli appellati, come "slay", che è più o meno "bravo, ben fatto", e "bro" ossia fratello, amico stretto.

«Andiamo a correggere». Il mare della lingua italiana è inquinato da plastismi impossibili da riciclare. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 17 Ottobre 2022

Nel parlato si tende spesso a usare una espressione inutile che serve solo a guadagnare tempo in attesa di trovare le parole giuste. È il caso di “quelli che sono” usato al posto del corretto “quali sono”. Altrettanto antipatico è dire “andiamo a cuocere”, uno scimmiottamento del francese e dello spagnolo, tanto caro al linguaggio dei programmi di cucina

“…e con i dati di questo rapporto andiamo ora a vedere quelle che sono le conseguenze…”. Un lacerto di frase, pochi secondi di parlato e due dei tic linguistici più dilaganti e molesti. Si chiamano “plastismi”, brutto neologismo per una brutta patologia verbale acutamente diagnosticata da Ornella Castellani Pollidori nel suo La lingua di plastica (Morano 1995): ossia quell’insieme di espressioni finte, superflue, preconfezionate che intasano il linguaggio come le isole di plastica gli oceani. 

Dall’implacabile “piuttosto che” in senso disgiuntivo all’indecifrabile “quant’altro”, da “assolutamente sì” a “nella misura in cui”, “portare avanti il discorso”, “tutto e il contrario di tutto”, “solo e soltanto”, “fare un passo indietro”, “alle prime luci dell’alba”, “brancolare nel buio”, “caccia all’uomo”, “a 360 gradi”, “massimo riserbo”, “antico splendore”, “fortemente voluto”, “la madre di tutte le”: il catalogo (incompleto) è questo, se in Italia non sono seicento e quaranta, poco ci manca. 

Di qualcuno di questi materiali inquinanti Linguaccia mia si è già occupata, di altri si occuperà. Oggi però si dedicherà alla raccolta differenziata, concentrando l’attenzione sui due evocati all’inizio, dotati di una preoccupante carica radioattiva: “quello/a che è” (e relativi plurali) e “andare a” + infinito.

Tipici fenomeni diasafici, in cui il registro comunicativo varia in relazione al contesto, con una rilevante componente diamesica, in cui incide altresì il mezzo attraverso il quale avviene la comunicazione, entrambi questi costrutti, per quanto stiano cominciando a contaminare anche il linguaggio scritto, si ritrovano soprattutto nel parlato, segnatamente nel parlato con qualche malriposta pretesa di formalità e innalzamento stilistico. Difficile riscontrarli in una situazione dialogica, riemergono prepotentemente, e con esasperante intensità iterativa, in presenza di un uditorio, davanti a un microfono o una telecamera, o anche al taccuino di un giornalista. Entrambi, va sottolineato, perfettamente inutili.

Andiamo a soffermarci, intanto, su “quello che è”: un sintagma che, salvo in alcune circoscritte occorrenze, nella costruzione della frase si può tranquillamente eliminare, o in determinati casi sostituire con un più acconcio “quale/i è/sono”. Un paio di esempi, ricavati, ahinoi, dai giornali. “Non abbiamo ancora raggiunto quelli che sono i livelli di sicurezza che…”: è lo stesso, soltanto più gonfio, che dire “non abbiamo ancora raggiunto i livelli di sicurezza” (ma almeno, in questa circostanza, veniva riportata una dichiarazione virgolettata). “Una volta accertate quelle che sono le notizie false e quelle che sono le notizie vere…”: bastava scrivere “quali sono le notizie false e quali sono le notizie vere” (questo invece era proprio il periodare del giornalista).

Perché si avverte la spinta incoercibile a siliconare in questo modo il linguaggio, con effetti non meno grotteschi di certi accanimenti della chirurgia plastica sui volti di indomite vamp sul viale del tramonto? Una ragione di strategia orale è quella spiegata da Paolo D’Achille in risposta alle domande dei lettori sulle pagine online dell’Accademia della Crusca: il ricorso a “quello che è”, nell’ambito di un discorso a braccio, consente di rallentare il “dinamismo comunicativo” guadagnando il tempo necessario a compensare il vuoto di progettazione e trovare la parola adatta. Ma, come evidenzia lo stesso linguista, il sintagma può anche prestarsi a due implicazioni di segno contraddittorio, decodificabili in base alle sfumature nel tono della voce: può cioè rendere più generico il significato di una parola, ampliandone l’orizzonte semantico e così attenuandone la perentorietà (tecnica di mitigazione), oppure può enfatizzarlo (tecnica di ridondanza), sottolineandone la concretezza grazie al valore esistenziale incluso nel verbo essere e alimentando nel contempo l’attesa dell’ascoltatore.

Bisogna tuttavia osservare come nella pervasività dell’uso sia soprattutto la componente imitativa-emulativa a prevalere, conducendo quasi automaticamente a uniformarsi a un registro avvertito come standard, con il risultato di logorare (oltre ai nervi del pubblico linguisticamente più sensibile) ogni eventuale intenzione espressiva. E così depotenziato, come ha osservato un’altra linguista, Roberta Cella in Storia dell’italiano (il Mulino 2015), “quello che è” diventa un mero equivalente, soltanto più esteso, dell’articolo determinativo (“quello che è il ricorso alle frasi fatte” anziché “il ricorso alle frasi fatte”).

L’altro plastismo che imperversa, “andare a” + verbo all’infinito, pare si sia diffuso a partire dalle tante e non meno imperversanti trasmissioni televisive dedicate alla cucina, quando si vede una persona intenta a preparare un piatto che farcisce le sue spiegazioni di “andiamo a” sbucciare, tagliare, cuocere e via (si può ben dire) di questo passo: tanto che si parla di “italiano gastronomico”. Dalle istruzioni culinarie del piccolo schermo il costrutto è tuttavia esondato a ogni genere di contesto didattico-tutoriale, dove non ci si limita più a osservare, verificare, illustrare, procedere ecc., ma si va a osservare, verificare, illustrare, procedere (andare a procedere!) ecc. “Ma ’ndo vai…”, verrebbe da dire con l’Alberto Sordi di Polvere di stelle. È tutto un gran movimento in cui il verbo andare perde il suo valore spaziale per acquistarne uno temporale-imminenziale che lo avvicina a analoghe espressioni fraseologiche straniere, dal francese aller + infinito (a cui è riconducibile il calco italiano più antico, di un paio di secoli precedente l’era televisiva, di cui rimane traccia in locuzioni come “lo spettacolo va a cominciare”, “il gioco va a terminare”), all’inglese to be going to e allo spagnolo ir a, entrambi seguiti dall’infinito.

E in tutto questo agitarsi, quello che è il nostro linguaggio quotidiano va a allungarsi e ingolfarsi inesorabilmente. Il che è tanto più singolare in un’epoca che in altri contesti comunicativi indulge invece all’abbreviazione dei vocaboli, dagli info e promo delle pubblicità commerciali ai tranqui, situa, ape, fra, bro del gergo giovanile. Ma, come è risaputo, della plastica accumulata non è facile liberarsi: per riassorbire quella che inquina il linguaggio, almeno, non dovrebbero occorrere mille anni.

Da quando sono piccolo. Il fanciullino pascoliano e l’errore di usare il presente quando serve l’imperfetto. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 26 Settembre 2022.

L’abitudine malsana di appiattire i tempi verbali è diffusa quanto inspiegabile, anche perché spesso ci si riferisce a condizioni (ad esempio, avere 10 anni) che non persistono più nel momento in cui si parla e proprio per questo richiedono l’uso del passato

«È da quando sono piccolo che vado al mare nello stesso posto». «Seguo il calcio da quando ho dieci anni».

Se non trovate nulla di stridente quando ascoltate affermazioni come queste (astenersi fanatici della montagna e appassionati di altri sport), allora la faccenda è seria. Non grave, ma abbastanza seria da meritare di essere presa in esame. Perché chi dice «da quando sono piccolo» o «da quando ho dieci anni» in genere non è più piccolo né ha più dieci anni. Come si spiega allora quel paradossale tempo presente?

“Essere piccolo” non è come “essere maggiorenne” o “essere adulto”, condizioni che hanno un momento d’inizio nel corso di una vita umana e una volta determinatesi sono permanenti e irreversibili, la loro fine coincidendo con la fine dell’esistenza individuale: per cui andrebbe benissimo dire «da quando sono maggiorenne/adulto faccio questo o quest’altro». “Essere piccolo” è invece una condizione che ha una fine ma non un inizio che la distingua da una condizione precedente (se non dallo stato fetale, al quale però non è dato fare riferimento con cognizione di causa): si è piccoli fin da quando si viene al mondo, ma a un certo punto si smette di esserlo e si diventa qualcos’altro. Quindi è quanto meno improbabile che un bambino, parlando di sé, dica «da quando sono piccolo»: lui è piccolo, lo è da quando è e non può avere memoria di un prima in cui non lo fosse. Nessuno in realtà potrebbe dire «da quando sono piccolo», tranne forse il Benjamin Button del racconto di Fitzgerald.

Allo stesso modo, “avere dieci anni” – come pure averne trenta o quaranta o più, ma in questi casi l’abbinamento dell’espressione “da quando” con il verbo al presente tende a essere più rara – non è una situazione che si prolunghi vita natural durante: una persona ha dieci anni per 365 giorni (366 in caso di anno bisestile) dal giorno in cui li compie a quello precedente l’undicesimo genetliaco. Come è possibile che abbia ancora dieci anni nel momento (supponiamo: vent’anni dopo) in cui dice che da quell’età imberbe si è messo a seguire il calcio (e magari, se non ha scelto bene, non ha ancora vinto uno scudetto)? Sindrome di Peter Pan?

Per restare nel campo delle patrie lettere potremmo pensare a Pascoli, alla poetica del fanciullino che sopravvive nel fondo dell’uomo adulto, «che non solo ha brividi, ma lagrime ancora e tripudi suoi» – idea peraltro dichiaratamente ricavata da un certo Cebete, il filosofo tebano che nel Fedone platonico, rimproverato da Socrate di cui piange l’imminente martirio, spiega che quelle lacrime non sono sue bensì del fanciullino che è in lui. Peccato che nel nostro caso il fanciullino pascoliano non c’entri niente, non è che ci sentiamo immutabilmente piccoli quando diciamo «da quando sono piccolo», o forse sì, ci sentiamo effettivamente tali – qualcuno, almeno – ma non è per questo che lo diciamo

Perché allora lo diciamo? L’espressione “da quando” introduce una proposizione temporale incoativa, ossia una proposizione subordinata che esprime il momento a partire dal quale ha inizio una certa azione o un modo d’essere; quando questa azione o modo d’essere prolungano i loro effetti fino al presente, il tempo della proposizione reggente è il presente; se la condizione prospettata nella subordinata è una condizione che permane, anche il relativo tempo verbale sarà al presente («da quando sono maggiorenne sono sempre andato a votare»), ma se si tratta di una condizione non più attuale (l’essere piccolo, avere dieci anni) la logica della consecutio vorrebbe l’imperfetto («da quando ero piccolo/avevo dieci anni vado al mare, seguo il calcio».

E invece molto spesso ci ritroviamo il presente. Alla radice di questo paradosso sintattico, come aveva spiegato Luca Serianni (La Crusca per voi, n. 37, ottobre 2008), è la propensione a semplificare il ventaglio dei tempi verbali nel periodo, uniformando il tempo della subordinata al presente della principale. Con la conseguenza che la determinazione temporale resta affidata agli elementi lessicali del periodo: «La presenza del connettivo da quando offre l’informazione sintattica essenziale (temporale incoativa) e l’uso del tempo verbale (avevo/ho) diventa secondario», concludeva il compianto linguista.

Bisogna aggiungere che questo appiattimento dei tempi verbali sul presente avviene essenzialmente quando nella proposizione subordinata compaiono i verbi essere o avere legati a fasi o età della vita (essere piccolo/maggiorenne/adulto, avere tot anni), e soprattutto se si tratta delle fasi iniziali (qui, forse, fa capolino il fanciullino di Pascoli). Nessun cinquantenne regolarmente occupato (a meno che non appartenga al personale scolastico) direbbe «abito qui da quando vado [verbo andare] alle elementari», e nessun lavoratore (a meno che non sia uno studente lavoratore) direbbe «da quando sono liceale [fase post-iniziale] leggo un libro a settimana», così come nessun pensionato potrebbe dire «da quando sono dipendente dell’azienda XY [fase ulteriormente avanzata] non riesco a dormire bene». Mentre si dice tranquillamente, seppure in modo incongruo, «abito qui/leggo molto/dormo male da quando sono piccolo».

Da registrare, per cura curiosità, una diversa interpretazione di questa incongruità espressiva, pescata nel mare magnum del web dove molti naviganti pongono la questione. Viene suggerita da un tale che modestamente si definisce “professional polymath” e asserisce di ragionare «per semantica e non per grammatica» (in realtà, parrebbe, più che altro per psicolinguistica). Il procedimento mentale, che magari inconsapevolmente riesuma il nostro fanciullino, si attuerebbe attraverso due fasi: «1. Creazione di marker storico: me da piccolo. In quanto “me da piccolo”, uso il presente perché è come avessi fatto un flash back. All’inizio del ragionamento in effetti mi sto mettendo nei panni di un bambino. 2. Verifica della costanza della condizione dal marker 1 a oggi. Continuo a ragionare in termini presenti perché è come se in tempo reale facessi un viaggio nel tempo in cui continuo ad analizzare in ogni età se la condizione persiste».

Originale, intrigante, ma – diciamolo – un tantino cervellotico. E a me le spiegazioni cervellotiche, da quando sono piccolo… Ops!

Avvocata, architetta, medica… Treccani sdogana i femminili professionali. Addio stereotipi: in arrivo il nuovo "Dizionario della lingua italiana" che promuove l'inclusività e la parità di genere. Il Dubbio il 14 settembre 2022.

Architetta, notaia, medica, soldata, chirurga. Ma anche avvocata, al posto di “avvocatessa”. Treccani presenta il primo “Dizionario della lingua italiana” che sdogana e lemmatizza anche le forme femminili di nomi e aggettivi tradizionalmente registrati solo al maschile. L’Istituto della Enciclopedia Italiana abbandona così il “vocabolariese”, per fare la “cronaca” di una lingua in continua evoluzione, si fa promotore di inclusività e parità di genere e al tempo stesso riconosce tra i neologismi distanziamento sociale, lockdown, smart-working, dad, infodemia, lavoro agile, reddito di cittadinanza, rider, termoscanner, terrapiattismo e transfobia.

L’edizione 2022 de Il Vocabolario Treccani, si spiega, è «un progetto ambizioso e rivoluzionario, nel quale tradizione e progresso si fondono per testimoniare i cambiamenti socio-culturali del nostro Paese e riconoscere – validandole – nuove sfumature, definizioni e accezioni in grado di rappresentare e raccontare al meglio la realtà e l’attualità, attraverso le parole che utilizziamo per viverla e descriverla». Nella storia plurisecolare della lessicografia italiana, quello di Treccani sarà il primo vocabolario a non presentare le voci privilegiando il genere maschile, ma scegliendo di lemmatizzare anche aggettivi e nomi femminili. Una rivoluzione che riflette e fissa su carta la necessità e l’urgenza di un cambiamento che promuova l’inclusività e la parità di genere, a partire dalla lingua.

Cercando il significato di un aggettivo come “bello” o “adatto” troveremo quindi lemmatizzata, ovvero registrata e quindi visualizzata in grassetto, anche la sua forma femminile, seguendo sempre l’ordine alfabetico; bella, bello; adatta, adatto. E per la prima volta vedremo registrati dei nomi identificativi di professioni che, per tradizione androcentrica, finora non avevano un’autonomia lessicale: notaia, chirurga, medica, soldata. Per eliminare anche gli stereotipi di genere – secondo i quali a cucinare o a stirare è immancabilmente la donna, mentre a dirigere un ufficio o a leggere un quotidiano è puntualmente l’uomo – Treccani propone nuovi esempi di utilizzo e contestualizzazione ed evidenzia il carattere offensivo di tutte le parole e di tutti i modi di dire che possono essere lesivi della dignità di ogni persona.

Il lavoro di aggiornamento della lingua italiana a cui l’Osservatorio di Treccani si dedica senza sosta da oltre un secolo si concretizza ora in una nuova opera in tre volumi (Dizionario dell’Italiano Treccani, Dizionario storico-etimologico e Storia dell’Italiano per immagini) che sarà presentata venerdì 16 settembre in anteprima in occasione della XXIII edizione di Pordenone legge, Festa del Libro con gli Autori. Diretto dai linguisti Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, Il Vocabolario Treccani è molto più che la versione aggiornata dell’opera pubblicata nel 2018: è «lo specchio del mondo che cambia e il frutto della necessità di validare e dare dignità a una nuova visione della società, che passa inevitabilmente attraverso un nuovo e diverso utilizzo delle parole».

Non più, dunque, nel Treccani 2022, il “vocabolariese”, quella sorta di linguaggio iniziatico che porta a definire una semplice vite come un «organo meccanico di collegamento, costituito da un gambo cilindrico o conico, sul quale è inciso un solco elicoidale il cui risalto (detto filetto o verme) va a impegnarsi tra i risalti di un solco analogo (preesistente o generato dalla sua stessa rotazione)». Sono state, inoltre, ridotte il più possibile sia le abbreviazioni (nessuno legge mai la lista che le spiega, e spesso vengono reinterpretate in modo fantasioso), sia le marche d’uso (che in molti casi sono frutto di una valutazione personale del lessicografo: capita spesso, per esempio, che una voce o un’accezione che un dizionario qualifica come lett., cioè letteraria, in un altro sia giudicata disus., cioè disusata). Sono stati eliminati i cortocircuiti lessicografici, evitando di obbligare lettori e lettrici a rimbalzare da una voce all’altra, in una catena di rinvii che creano spirali senza fine: nel “Dizionario dell’italiano Treccani” le spiegazioni di una parola sono sempre autosufficienti, e chi legge non è costretto, per comprenderle, a cercare il significato di un’altra parola presente nella spiegazione stessa.

La nuova edizione promuove la forma al femminile. Anche “architetta”, “sindaca” e “medica” nel dizionario Treccani: “Non si può tornare indietro”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 13 Settembre 2022 

Ci saranno “avvocata”, “sindaca”, “ministra”, e anche “medica” o “soldata”, “architetta” e “notaia”. Il nuovo dizionario italiano Treccani uscirà il prossimo ottobre e terrà conto dei sostanziali e stimolanti sommovimenti e tendenze che stanno agitando la lingua, il dibattito culturale, le scelte lessicali negli ultimi anni. Ovvero: il nuovo dizionario conterrà anche le forme femminili di nomi e aggettivi insieme con quelli maschili. E nella novità saranno quindi incluse anche le professioni.

L’ultima edizione del Treccani era uscita quattro anni fa. I due direttori del progetto Valeria Della Valle (prima linguista a dirigere un’edizione nel 2008) e Giuseppe Patota hanno annunciato la novità. Il dizionario darà uguale importanza a femminili e maschili indicandoli in un’unica voce o in due voci separate, sempre continuando a disporli in ordine alfabetico. I femminili infatti nella maggior parte dei dizionari pubblicati fino a oggi o non comparivano o comparivano in riferimento al lemma maschile. “Le altre case editrici dovranno tenere conto di quello che abbiamo fatto. Indietro non si può più tornare”, ha commentato Della Valle a Il Corriere della Sera.

E quindi nel dizionario compariranno numerose professioni declinate al femminile, così come le nuove consapevolezze di genere e linguistiche hanno portato a fare negli ultimi anni nella società reale. Dai giornali alle comunicazioni ufficiali a ogni altro tipo di testo scritto. Della Valle ha precisato: “Se suonano male o sembrano brutte è solo perché sono usate poco”.

La visione androcentrica, e quindi incentrata sul maschile, è stata rivista anche nella sostituzione della parola “uomini” nei casi in cui questa indicava gli esseri umani in generale. A “uomini” è stata preferita “essere umano” o “persona”. E infatti Della Valle ha raccontato: “Il fatto che i vocabolari registrassero aggettivi e nomi al maschile corrisponde a una visione androcentrica che si spiega in gran parte col fatto che i vocabolari sono sempre stati diretti unicamente da uomini”.

I dizionari Treccani, nota per essere l’enciclopedia più famosa in Italia, vengono pubblicati con l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e sono acquistabili solo contattando la casa editrice e tramite gli agenti sul territorio. Il dizionario costerà 200 euro, 590 con il Dizionario storico etimologico e la Storia dell’italiano per immagini. La nuova edizione includerà come sempre nuove espressioni diventate di uso corrente, in questo caso lemmi come dad (didattica a distanza), distanziamento sociale, infodemia, lavoro agile, smartworking, lockdown, spillover e termoscanner ma anche reddito di cittadinanza, revenge porn, rider e terrapiattismo.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Enrico Ruggeri contro la svolta gender della Treccani: “Avevamo la lingua più bella del mondo…” Adriana De Conto il 13 Settembre 2022 su Il Secolo d'Italia.

“Avevamo la lingua più bella e completa del mondo, figlia di padri greci e latini…”. E’ Enrico Ruggeri a polemizzaare con la Treccani. Lo fa su Twitter, rilanciando un articolo di Luigi Mascheroni sul Giornale, il quale a sua volta aveva commentato: “Ci occupiamo di nuovi fascismi di Bollette e gas. Poi crolla il mondo occidentale e va bene così…Purtroppo la battaglia è persa completamente“. Non va giù ad Enrico Ruggeri che il prestigioso vocabolario della Treccani si sia piegato ai diktat boldriniani. Accogliando voci quali architetta, notaia, medica, soldata, chirurga. Che un istituto di tal prestigio si pieghi a fare cronaca corrente ha lasciato sbigottiti linguisti, scrittori e gran parte degli italiani. La presentazione del  il primo “Dizionario della lingua italiana” che lemmatizza anche le forme femminili di nomi e aggettivi tradizionalmente registrati solo al maschile fa infatti cadere le braccia.

Enrico Ruggeri: “Avevamo la lingua più bella,figlia di padri greci e latini”

Si tratta di un colpo ben assestato alla bellezza della lingua italiana che però alla Treccani, spiegano, è “un progetto ambizioso e rivoluzionario”.  Enrico Ruggeri, sempre controcorrente e mai uso a lisciare il pelo del mainstremingaggia sui social un duello con chi, invece plaude all’inclusività delle nuove scelte.  Ma la  rivoluzione gender dell’edizione 2022 del Vocabolario Treccani non gli va giù. Come ha scritto stamattina sul Secolo Lorenzo Peluso, “la questione di genere merita certamente tutto l’interesse della società civile, con un cambio radicale del nostro agire. Ma la lingua in tutto questo non può e non deve entrarci.”. La pensa così anche il cantautore e conduttore.

Su twitter alcune donne lo provocano: “Enrì, lo sappiamo che sei rimasto fermo a “Siamo così, dolcemente complicate”,  gli scrivono citando un testo della Mannoia. Lui risponde in modo molto lineare: “Io sostengo che le battaglie civili e la parità dei sessi non passano attraverso stucchevoli forzature grammaticali, tutto qui”. Di fronte agli insulti che sta ricevendo una follower lo esorta:”Lascia perdere, il furore ideologico impedisce loro di ragionare, comprendere”. Lui insiste: “Hai ragione, dovrei lasciar pardere, ma non mi rassegno a vedere un mondo così imbruttito”.

Treccani? No, "Treccagne": roba da matti, ecco il dizionario... della Boldrini. Giovanni Sallusti su Libero Quotidiano il 14 settembre 2022

E un'altra battaglia fondamentale perla civiltà occidentale è stata vinta. No, non parliamo della controffensiva ucraina, quella è realtà, mentre il terreno di caccia preferito delle nostre avanguardie intellettuali, com' è noto, è l'ideologia. In particolare, quella sua ultima forma ipocrita e petalosa che si chiama Politicamente Corretto. Poteva il nuovo Dizionario Treccani della (neo)lingua italiana sottrarsi alla moda? La risposta è insita nella domanda, ed ecco a voi il primo vocabolario inclusivo, sessualmente paritario, nemico del dannato patriarcato tipico del dannatissimo maschio bianco. E in cosa consiste l'operazione riparatrice, sobriamente annunciata dagli autori come una "rivoluzione"? Anzitutto, come spiegava ieri Repubblica in trance arcobaleno (fate i bravi, abbiamo scritto trance, non trans), nell'addio alla retriva "prevalenza del maschile". Un "lavoro enorme" mirato a "scardinare l'androcentrismo dei dizionari": nomi e aggettivi non vengono infatti più lemmatizzati, ovvero registrati, in base alla forma maschile, come da ultrasecolare prassi dell'umanità primitiva, fascio-androcentrica. Per cui le nuove leve grammaticalmente corrette troveranno "amica" invece di "amico", "bella" invece di "bello", "gatta" invece di "gatto", insomma la salvifica desinenza rosa in luogo di quella fallocentrica che ci vergogniamo persino a nominare. 

SPECCHIO DEL MONDO Non essendo all'altezza del tema, prendiamo a prestito dal sito della Treccani: tale opera "è lo specchio del mondo che cambia e il frutto della necessità di validare e dare dignità a una nuova visione della società, che passa inevitabilmente attraverso un nuovo e diverso utilizzo delle parole".

Non nascondono nemmeno il furore ideologico dietro finti tecnicismi, questo va riconosciuto, sono espliciti: si tratta di costruire una "nuova società" attraverso un "nuovo utilizzo delle parole", di farla finita con l'archeo-lingua, direbbe Orwell. Pura teleologia marxista, con un'unica, decisiva differenza: il fine ultimo non è più l'uguaglianza del collettivismo, ma la diversità del femminismo. Non a caso l'altra, epocale riforma dell'imprescindibile dizionario è, citiamo sempre da Repubblica, l'introduzione di "forme femminili di lavori da sempre declinati al maschile". Per cui è tutto un florilegio di "notaia", "avvocata", "chirurga", "soldata", "architetta", "ingegnera", con gran sprezzo della cacofonia incombente e del rispetto per quelle migliaia di avvocati, chirurghi, notai, soldati di sesso femminile che stimano il proprio valore e la propria professionalità superiori a un cambio di vocale.

È il trionfo conclamato del boldrinese istituzionalizzato in italiano corretto, corrente e vidimato Treccani. Il cui zelo orwelliano non si ferma qui: la nuova edizione dichiara anche lotta dura agli "stereotipi di genere", ovvero gli esempi spesso utilizzati per spiegare la definizione dei termini.

Molti infatti erano legati a inaccettabili schemi machisti in bilico sull'istigazione al femminicidio, come "la mamma è in cucina, il papà è al lavoro". Per incentivare un più decoroso ribaltamento dei ruoli (immaginari, il pregiudizio come sempre sta nell'occhio di chi guarda), il neovocabolario mette in risalto voci come "casalingo" e "ricamatore": qui il maschile diventa improvvisamente importante, in quanto evidentemente lo si presume addomesticato e para-femminile ("la donna non è più un sesso, è un ideale" scriveva Éric Zemmour). 

CAPOLAVORO Ma il capolavoro definitivo degli autori Valeria della Valle (prima donna direttrice del Dizionario, a chi la chiamasse direttore ovviamente sarebbe ritirata la licenza elementare) e Giuseppe Patota è un altro. Trattasi dell'abolizione della parola "uomo" per indicare il platonico animale bipede implume, insomma chiunque appartenga al genere umano. Un chiaro residuo androcentrico, da sostituire con "persona" (che ha pure il pregio di essere un sostantivo femminile) o "essere umano". Poi ci sarà da mettere d'accordo il dizionario femminista col dizionario etimologico, secondo cui "uomo" deriva dal latino "homo" che significa anche e anzitutto creatura umana (almeno al momento in cui questo giornale va in stampa, ma non escludiamo che qualche zelante psicopoliziotto della Treccani abbia nel frattempo provveduto), ma non fossilizziamoci sui dettagli, anche la rivoluzione linguistica soggiace al dogma leninista di tutte le rivoluzioni: non si può fare una frittata senza rompere delle uova. L'importante è conservare il senso dell'umorismo, di cui è abbondantemente fornita la professoressa Della Valle, almeno stando alle sue parole riportate da FanPage: «Il nostro non è un dizionario con una presa di posizione ideologica intransigente e astratta». Assolutamente, è semplicemente la Treccani che diventa Treccagne. Sipario. 

“Esiste la singletudine?". La guida al nuovo lessico famigliare. Viola Giannoli su La Repubblica il 14 Settembre 2022. 

“Giusto, sbagliato, dipende”. Il manuale della Crusca che risponde a tutti i dubbi

"Come sta la Silvia?", chiedeva la mamma di Michele Apicella/Nanni Moretti in Ecce Bombo. "Silvia, non la Silvia! - rispondeva stizzito lui - Mamma, fortunatamente siamo a Roma, non a Milano: la Silvia, il Giorgio, il Pannella, il Giovanni...", e così via. Duello cittadino a parte, anche oggi l'Accademia della Crusca risponde più o meno così: che anteporre l'articolo al nome proprio è certo tipico di un lessico familiare di alcune regioni italiane ma se si vuol trovare una norma nell'italiano standard allora ha ragione il romano Moretti.

I dubbi della Crusca e di tutti noi. "Come si dice....?" Stefano Bartezzaghi su La Repubblica il 13 Settembre 2022. 

Con un nuovo volume l'Accademia risponde ai nostri interrogativi, ma nel farlo ne pone altri anche a noi

"Pasticcere" o "pasticciere"? "Direttora", "direttrice" o "direttore donna"? "Sognamo" o "sogniamo"? "Sé stesso" o "se stesso"? "Ucràina" o "Ucraìna"? "Io e te" o "tu ed io" ?

A sciogliere questi dubbietti e soddisfare le relative curiosità interviene l'Accademia della Crusca, che nella sua rivista e nel suo sito dedica spazio ai quesiti che le rivolgono parlanti spesso impegnati in controversie e magari scommesse.

Quesiti linguistici. Perché si dice «prendere gallo»? Risponde la Crusca. Accademia della Crusca su L'Inkiesta il 12 Settembre 2022.

Il pennuto noto per la sua baldanza nel pollaio è chiamato a simboleggiare quel momento in cui, dopo un primo momento di sfortuna, ci si riprende in maniera convinta

Tratto dall’Accademia della Crusca

Prendere gallo

Un lettore ci chiede chiarimenti sull’espressione prendere gallo usata in contesti come “dopo un primo momento di sfortuna, l’avversario prese gallo e si riprese...”, o anche “questo modo di comportarsi sta prendendo gallo tra i giovani”.

Risposta

Nei dizionari del secolo d’oro (che per la lessicografia è l’Ottocento) il concetto di prendere gallo è rappresentato dalle sue varianti pigliar gallo e metter su gallo.

Il Tommaseo-Bellini sotto la voce prendere dichiara l’equivalenza con pigliare (“si adopera in molte delle locuzioni e maniere dell'altro suo sinonimo Pigliare”) e sotto la voce gallo chiarisce molto bene valore e ambito d’uso delle nostre locuzioni in questione: “Fam. Metter su gallo. Aff. A Ringalluzzarsi e Fare il galletto; ma segnatam. del Montare in superbia. Anche Pigliare gallo, ma men com. V. la voc. GALLO seg. [che è l’antiquata: GALLO “galloria”]”.

Dunque, metter su gallo è del parlar familiare e più comune di pigliare gallo, e gallo va comunque inteso nell’accezione di gallòria (“Allegrezza eccessiva manifestata con gesti […] dagli atti del gallo, come Ringalluzzarsi, e Fare il gallo”).

La quinta edizione del Vocabolario della Crusca concorda con la preferenza per metter su gallo, dichiarato affine a Fare il gallo, Aver gallo “e simili, dicesi figuratam. per Prendere aria e tuono di superiorità, Diportarsi con alterigia e disprezzo verso chicchessia; Alzar la cresta”.

I manzoniani Rigutini-Fanfani (Vocabolario italiano della lingua parlata, Firenze, Cenniniana, 1875) e Petrocchi (Novo dizionario universale della lingua italiana, Milano, Treves, 1891) a loro volta decretano la supremazia di metter su gallo.

Non è esclusa, naturalmente, qualche presenza di prendere gallo, come ad esempio nel Vocabolario metodico italiano parte che si riferisce all’agricoltura e alla pastorizia arti ed industrie che ne dipendono, per cura di Stefano Palma, parte seconda (Milano, Libreria editrice di Educazione e d’Istruzione, 1870) dove a p. 254 si legge “Siccome il gallo si mostra baldanzoso, gallo si dice anche per baldanza, superbia, d’onde le frasi Prender gallo, avere un gran gallo etc.”.

Gli attuali dizionari storici e dell’uso concordano con quelli del passato non solo nell’ignorare prendere gallo, ma anche − con l’eccezione che vedremo − pigliare e metter su gallo.

Nel GDLI e nei suoi supplementi, nel GRADIT e nei suoi supplementi, in Devoto-Oli 2022, Garzanti, Sabatini-Coletti (Dizionari eLexico.com), nel Vocabolario Treccani, nello Zingarelli 2022, tra le molte locuzioni formate con prendere, pigliare e metter su non figurano le nostre.

GDLI, Zingarelli 2022 e Vocabolario Treccani registrano di gallo l’accezione antiquata di “gioia, allegria; superbia”; il Vocabolario Treccani riporta anche come locuzione poco comune avere il gallo, metter su gallo.

Diversa e più accogliente si presenta la situazione che ci restituiscono gli archivi giornalistici, in motori di ricerca ad ampio raggio come Factiva banca dati prodotta da Dow Jones, dove troviamo Prendere gallo nel senso di prender campo, quota, rafforzarsi sia nel linguaggio politico:

L’EX sindaco ritiene che per questo centrodestra la cultura della responsabilità è un tram da cui salire e scendere. “Grandi appelli alla responsabilità e alla condivisione quando e dove si governa - aggiunge - opposizione sempre e comunque quando si è sconfitti. Con il corollario comico che quando vince prevalgono i moderati, i mediatori e i «pratici» e quando perde prendono gallo i duri e puri, i settari, i più estremi o i nostalgici”

Eppure è un fronte che politicamente sta prendendo gallo, o almeno ci prova

“[…] Si deve bussare alla Cassa Depositi e prestiti o scendere in piazza anche noi? Certo. Non si può aspettare 4 anni per la riperimetrazione se no non ci resta manco un investitore. O no?”.

TARADASH prende gallo, stuzzicato sulla lontananza di Livorno (da Firenze) riprendendo l'intervento di Matteoli (che parlava da ex ministro)

sia in quello sportivo:

“SIAMO RIUSCITI a segnare nel momento in cui il Viareggio stava prendendo gallo. E’ andata bene ma qualche preoccupazione ce l’ho anche io perché non vedo più la squadra brillante e vivace come qualche tempo fa”

Nella ripresa, dopo il vantaggio, gli ospiti hanno preso gallo, ma è stato Rabellino a far registrare l'azione più pericolosa, quando in un suo repentino inserimento (30') è stato gridato al gol, invece la palla è stata ribattuta da un difensore.

La Montagna prende gallo e macina gioco e azioni fino al 35' quando, sugli sviluppi di un corner, Ricci di punta trova il gol: 1-0.

Si sarà notato che in almeno due casi l’espressione è all’interno di un discorso diretto, in accordo con la natura colloquiale che già i lessicografi del passato attribuivano a questo gruppetto di polirematiche. Il dato più significativo, infine, insieme a quello della sopravvivenza ai giorni nostri è certamente la restrizione territoriale toscana tra Firenze e Livorno: le citazioni provengono nell’ordine da: “La Nazione” 26/8/2015, “La Nazione” 22/8/2014, “La Nazione” 9/9/2013, “La Nazione” 1/2/2016, “Il Tirreno” 24/4/2018, “La Nazione” 12/7/2011.

Non stupirà, allora, di trovarla anche nell’accentuata espressività di un giallista livornese, Giampiero Demi: “Ronaldo aveva solo scatizzolato, messo in moto; ma era già lì da un pezzo, fermo, assogliolato sul fondo, immobile, per ora. Quanto ci avrebbe messo ad alzare la cresta, prendere gallo?” (Odiodiclasse, Roma, Europa Edizioni, capitolo 18).

E sarà quindi quasi prevedibile incontrare prendere gallo e le sue diverse forme negli usi fortemente regionalizzati generati dal Web, cui indirizza itTenTen16 corpus del Web italiano costituito nel 2016 dalla piattaforma Sketch Engine:

Le donne han preso gallo che è doventato un affar serio. E con tutti ’uesti amerïani a giro, che allupati ’ome si ritrovin fan la ’orte anco alla mi’ nonna, s’en montate la testa e si pavoneggin come fussin principesse. E se ’un istai attento ti spuntin le ’orna nsur capo, che ’n paese ce n’è già un ber boschetto...

Prende gallo, loc. Assumere importanza e sicurezza. L’hanno lasciato fà, e ora ’e ha preso gallo, ’un ci fanno più vita! (ilcrespinese.it [vocabolario vernacolare pisano])

Mo’ hanno preso gallo, ma sono pericolosi. Eppoi.......... ascoltare un precisissimo Travaglio, che sintetizzava i vari passaggi delle cause legate a Lodo Mondadori, sottolinenado le sentenze emesse, e nel contempo vedere inquadrati gli altri soggetti che, come pappagalli ammaestrati, scuotevano la testa per dire no, è vergognoso.

Cambia la partita...e non in meglio...la squadra non ha più filtro in mezzo e con lo spazio i centrocampisti dell’ancona iniziano a prendere gallo, a iniziare a fare gioco...l’empoli si allunga...e se si allunga vargas e kokozza iniziano ad andare in crisi. Gabriella Cartago

Un uso singolare. L’orrore dei finti pluralia tantum, per cui una storia di Instagram diventa una “stories”.

Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 12 Settembre 2022.

Tra i più famosi ci sono “jeans”, ma anche “media” e “murales”. Tutte parole che vengono usate, in modo improprio, anche se il soggetto è uno solo e rappresentano un campo minato della grammatica (e dell’estetica) 

Chi ha studiato il latino probabilmente ricorderà i nomina pluralia tantum: sono quei sostantivi che hanno la particolarità di possedere soltanto la forma plurale pur riferendosi a realtà singole, per esempio nuptiae, exequiae, kalendae, arma, optimates, moenia. Conoscono solo il plurale anche diversi nomi geografici, come Athenae, Syracusae, Thebae, Venetiae, Cannae, Cumae, Pompeii, Alpes, Cyclades, nonché quelli di figure della religione o del mito, come Manes, Penates, Furiae, Lares.

Anche l’italiano ha i suoi pluralia tantum: alcuni tratti di peso dalla lingua dell’Urbe (nozze, esequie), altri (non molti) suoi propri (viveri, traveggole). Altri ancora sono nati come pluralia tantum ma col tempo hanno altresì sviluppato la forma singolare, che in alcuni ambienti addirittura prevale: occhiali/occhiale, forbici/ forbice, pantaloni/pantalone. C’è però anche un crescente numero di parole di provenienza straniera entrate in Italia al plurale ma impropriamente trattate come se fossero sostantivi singolari: pluralia tantum apparenti, in realtà svarioni indifendibili. E infatti, al contrario dei veri pluralia tantum, che coerentemente vogliono predicato, copula e eventuali aggettivi e articoli al plurale (“Athenae sunt in Graecia”, “le nozze sono state celebrate…”), gli pseudo pluralia tantum incoerentemente (s)concordano al singolare.

Un esempio classico è la parola jeans – dal toponimo scritto sui carichi delle tele che nel XVI secolo cominciarono ad arrivare a Londra da Genova, Jeane – che in inglese è un sostantivo plurale e tale è transitato in italiano, prima di diventare singolare nel lessico standardizzato dei negozi di abbigliamento quando gli addetti alla vendita snocciolano le loro considerazioni sapienziali (“il jeans è un capo che veste…”). Non è ancora un classico ma potrebbe diventarlo il vocabolo (al plurale) stories, che nel linguaggio di Instagram e Facebook sono quei brevi testi o video o foto che si possono condividere in una sezione dedicata del proprio profilo e rimangono visibili per 24 ore: pur esistendo il conforme (quasi identico) termine italiano, tanto per il plurale quanto per il singolare, è piuttosto rare trovare qualcuno che dica (e scriva) “la mia storia”, o al limite “la mia story”, perché assurdamente si è imposto il sintagma “la mia stories”.

Un po’ come avviene con l’inglese fan – abbreviazione di fanatic, ammiratore fanatico, tifoso (di squadre di calcio, campioni sportivi, cantanti, ormai anche di leader politici, stili di vita e movimenti pro o contro qualcosa) – che non di rado in Italia diventa plurale (“mia moglie è diventata una fans del biologico”). Oppure con le clips, i piccoli fermagli di metallo o di plastica che usiamo per tenere uniti fogli di carta e banconote, che in inglese sono provvisti della regolamentare forma singolare ma in italiano pare conoscano soltanto il plurale, anche quando si riferiscono a un fermaglio singolo (“per favore, passami una clips”); salvo recuperare il singolare quando il riferimento non è più al fermaglio ma, come forma abbreviata di videoclip, alla “breve registrazione audiovisiva realizzata, spec. ai fini della programmazione televisiva, per accompagnare e pubblicizzare un brano di musica leggera” (Treccani), adattamento del secondo significato registrato nei vocabolari inglesi, in quanto “breve parte di un film che viene mostrato separatamente” (Oxford Dictionary). 

Un caso ambiguo è invece quello di un altro termine di gran moda, media, arrivato in Italia direttamente da oltremanica (e oltreoceano) dove può essere sia singolare sia plurale – sebbene stia ultimamente affacciandosi un apposito plurale medias – ma nel latino da cui è stato preso, e da cui la nostra lingua discende per li rami, è in realtà il neutro plurale di medium, mezzo: siccome però in italiano questa parola fa inevitabilmente pensare a tenebrose sedute intorno al tavolino a tre gambe, il suo impiego come singolare di (mass) media risulta un po’ ostico, e per lo più si continua a usare come singolare la forma che in latino è plurale e in inglese sia plurale sia singolare. (Specularmente inverso il caso di curriculum, vocabolo latino adottato dall’italiano come tendenziale singularium tantum, il cui plurale curricula stenta ad affermarsi al fuori degli ambiti colti e ufficiali).

Ma è soprattutto dallo spagnolo che vengono gli pseudo pluralia tantum penetrati nel nostro linguaggio. Murales, silos, vigilantes, peones sono tutti sostantivi che nel vocabolario d’origine si giovano di un loro ovvio singolare, in italiano, chissà perché, sistematicamente negletto: “La mela che ammalia gli elettori in un murales” (titolo di un trafiletto, su un quotidiano di qualche giorno fa), “si è di nuovo guastato l’autosilos”, “davanti alla banca stazionava un vigilantes”, “l’onorevole XY si è stancato di essere considerato un peones”. Nel caso dei forestierismi c’è una norma – non univocamente applicata – che li vorrebbe invariabili al plurale, ma nessuna norma prescrive l’invariabilità al singolare della loro forma plurale.

Siccome lo spagnolo sviluppa il plurale aggiungendo una s (preceduta da e quando la parola termina con una consonante), ricavare il singolare dalla forma con cui il prestito si è presentato nella nostra lingua non dovrebbe essere difficile. Il singolare di silos, nella lingua d’origine, è quindi silo (dal latino sirus, greco seirós o sirós che significa granaio) e non si vede ragione perché non debba essere così anche in Italia, dove la parola ha fatto la sua comparsa fin dalla prima metà dell’Ottocento, per generare nel corso del secolo successivo una numerosa (non troppo fortunata, per la verità) famiglia di voci derivate, quali insilare, insilamento, insilatore –trice. Conseguentemente, in quanto vocabolo ormai assunto nel lessico italiano, dovrebbe formare il plurale in i (i sili); o altrettanto correttamente, ove se ne volesse rimarcare la natura di prestito, potrebbe conservare il plurale spagnolo (i silos).

Lo stesso vale per i prodotti della forma d’arte consacrata nel Messico degli anni Trenta del secolo scorso da maestri come Diego Rivera e José Orozco e ormai diffusa in tutto il mondo: tanto che ovunque si parla oggi di murales, ma in Italia se ne parla anche in presenza di uno solo. Il singolare di murales nella lingua spagnola è mural, che ha un preciso e quasi omofonico corrispettivo nell’italiano murale: perché non utilizzarlo al posto di murales, eventualmente riservando questa forma per il plurale, se non ci si sente ancora pronti per dire murali?

L’alternanza singolare italiano/plurale spagnolo potrebbe anche risolvere il problema di vigilantes, vocabolo che privato della s è nella nostra lingua un normale participio presente e si presta ottimamente all’uopo, ma nel plurale vigilanti sembra perdere un po’ della sua specifica pregnanza e autorizza il ricorso alla lingua d’origine. Mentre un po’ più complessa è la situazione della parola peones, che significa pedoni ma nell’accezione giornalistica invalsa in Italia si riferisce a quei politici di mezza tacca che in parlamento si limitano a fare numero. Numero plurale, appunto. Il singolare, in spagnolo, sarebbe peón, e siccome tradurlo con pedone farebbe pensare a un’altra cosa (al limite, al pezzo più umile ma spesso insidioso nel gioco degli scacchi), l’unica alternativa alla traduzione in italiano o al prestito dalla lingua straniera è l’adattamento morfologico peone, che al plurale darebbe un malcerto (e di fatto poco praticato) peoni: in questo caso è più sicuro recuperare il plurale spagnolo. Soluzioni empiriche, da adattare di volta in volta: i falsi pluralia tantum sono un terreno minato.

Da La Spezia con articolo. La gran confusione grammaticale sulle preposizioni. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 5 Settembre 2022

Dovremo dire «vado a L’Aquila» o «vado all’Aquila»? Una vera regola non esiste, ma sarebbe meglio seguire il buon gusto. Quanti con sprezzo del ridicolo scrivono “de Il Cairo”, lasciamoli tranquillamente al loro destino

Una pubblicità radiofonica d’inizio estate magnificava le meraviglie naturalistiche “di La Maddalena e dell’Asinara”. Letteralmente così: le due isole sarde congiunte nella stessa frase, al genitivo, una con la preposizione articolata, l’altra no. Viva il pluralismo!

L’uso delle preposizioni davanti ai nomi propri di cui fa parte integrante l’articolo determinativo è un problema sul quale i grammatici non riescono a mettersi d’accordo: vanno articolate o lasciate nella loro forma originale? Nessun dubbio nel caso dei cognomi: Lo Russo, La Capria ecc. saranno sempre preceduti dalla preposizione semplice. Ma nel caso dei toponimi? Si dovrà dire di (a, da, in, su; con le altre preposizioni la difficoltà non sussiste) La Spezia, L’Aquila, L’Aia, La Mecca, La Paz, L’Avana, oppure della (alla, dalla, nella, sulla) Spezia ecc.? 

La questione si pone soprattutto nella forma scritta, perché nel parlato, salvo eccezioni (e salvo copywriter afflitti dalla sindrome di Buridano), prevale largamente la preposizione articolata. Una notevole eccezione è rappresentata da La Spezia (preposizione semplice), che quasi tutti pronunciano come se il nome effettivo fosse Laspezia, sebbene gli spezzini (non laspezzini) omettano risolutamente l’articolo (non a caso assente anche nel nome della locale squadra di calcio che da un paio di anni milita valorosamente in Serie A). Meno notevole, in quanto meno presente nella bocca degli italiani, il caso di La Paz – anche perché cosa si capirebbe se si dicesse “della Paz”? – mentre sembra improbabile che qualcuno arrivi a parlare di L’Aia o di La Mecca.

Che il problema sia tutt’altro che risolto è emblematicamente attestato da una curiosa contraddizione che va sotto il prestigioso nome dell’incolpevole Aldo Gabrielli. L’edizione Hoepli 2013 (postuma) del suo Si dice o non si dice? Guida all’italiano parlato e scritto, curata e aggiornata dal nipote Paolo Pivetti, è perentoria: «dovremo dire “vado a La Spezia”, “vengo da L’Aquila”». Peccato che nel Dizionario linguistico moderno pubblicato la prima volta (da Mondadori) nel 1956 l’insigne linguista avesse sostenuto l’esatto contrario: «si consiglia di dir sempre: “Vado alla Spezia”, “La provincia dell’Aquila”». Una guerra (linguistica) in famiglia?

Queste stesse incertezze dicono che una vera regola non esiste, anche se fin dove non crea problemi sembrerebbe ragionevole – più naturale – preferire la preposizione articolata. È comunque, più che altro, questione di (buon) gusto personale. Variabile a seconda dei casi. Per esempio le oscillazioni tendono a scomparire quando il nome della città e di conseguenza l’articolo sono maschili: di (da, a ecc.) Il Cairo o Il Pireo proprio non si possono sentire. In verità tra le due opzioni, almeno quando sono citate al genitivo, tertium datur: è il deprimente de + l’articolo, sempre in agguato nella prosa imbalsamata di quanti con sprezzo del ridicolo scrivono (e nei casi più patologici dicono) “de Il Cairo”, “de La Spezia”. Lasciamoli tranquillamente al loro destino.

L’eventualità di scindere la preposizione articolata nei suoi due elementi costitutivi si ripresenta però, in altra situazione, quando si ha a che fare con i titoli, di libri ma non solo. Nel caso di titoli universalmente noti e di consolidata tradizione si può senz’altro rinunciare all’articolo: nessuno direbbe (ma qualcuno scrive) “de I Promessi sposi” o “de Il conte di Montecristo”. Ma quando si tratta di un titolo recente, o poco noto, o non immediatamente percepibile in quanto tale, come Il cuoco dell’Alcyon (ultimo Montalbano di Camilleri) o I miei stupidi intenti (il romanzo-rivelazione di Bernardo Zannoni vincitore del recente Campiello)? 

In questi casi la raccomandazione è di conservare la forma originale nella sua integralità, quindi evitando di articolare la preposizione e eventualmente, ove si tratti della preposizione di, turandosi le orecchie e ripescando il pedantesco tertium di cui sopra (ma tante volte può andar bene anche il semplice di). Un modo per aggirare l’ostacolo comunque c’è. Lo suggerisce Gabrielli, nel già citato Dizionario: si può scrivere (e dire), per esempio, “il poema Il giorno del Parini”, “il romanzo I promessi sposi”. Costringe a allungare un po’ la frase, ma ne vale la pena.

Se invece si opta per la via più breve, quella con il de, è bene usare moderazione e stare attenti. Perché, per esempio, quel mesto, polveroso (ma ricorrente) “de La Stampa” (o “ne La Stampa”), che nessuno pronuncerebbe così, mentre nella forma scritta – “della Stampa” (o “nella Stampa”), con la maiuscola dove ci vuole – non si darebbe possibilità di equivoco? Ci sono addirittura quelli che si fanno prendere la mano e scrivono “de Il Corriere della Sera”: introducendo l’articolo in una testata che notoriamente ne è priva. Con il Poeta, “non ragionam di lor”.

LA RIFLESSIONE. Ma perché lo Stato non usa più la lingua italiana? Ma perché l’Italia ufficiale deve favorire e scegliere l’incomprensione e l’incomunicabilità? Vinicio Aquaro su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Agosto 2022.

Il ministero della Salute, o chi per esso, sta ora occupando la scena non certo per le soluzioni sanitarie univocamente offerte agli italiani, ma per gli anglismi e gli esterismi usati nelle circolari e che hanno scosso finanche la buona salute dell’Accademia della Crusca. E così abbiamo in Italia un ammalato in più, l’Accademia.

Ma perché l’Italia ufficiale deve favorire e scegliere l’incomprensione e l’incomunicabilità? Una democrazia che non è chiara e comprensibile nel linguaggio comunicativo è già deficitaria, perciò lontana dal dialogo e dalla condivisione. Si è ancora nell’eco settecentesca del dantesco anno e mezzo (2021-2022) senza che si sia capito, almeno nelle sfere decisionali, che Dante è padre della lingua italiana; lingua nella quale un popolo intero si esprime con pienezza di valori e con potenza di genialità.

Così difficile è abituare lo Stato italiano all’uso dell’italiano? Con gli anglismi possiamo mai avere l’unità italiana? Nemmeno quella europea può essere pienamente possibile proprio perché la stessa Inghilterra ha scelto di uscire dall’europeismo.

È questo il grande problema della storia dei popoli. È mai possibile infatti che tutti parlino, discutano e scrivano di storia e con sconcertante rarità accada di leggere, di ascoltare e di poter condividere il senso educativo della storia? Spesso siamo solo sportivi della storia. Sportivi alla maniera del lunedì quando sappiamo i risultati del giorno prima e li esterniamo con scontate diagnosi e previsioni. Questo è il passato letto al presente, ma come futuro. Siamo quindi un po' tutti rassegnatori e profeti. Profetizziamo il passato e in questa maniera facciamo il futurismo che non teme smentita perché già predisposto dal narratore che antepone, innaturalmente, il futuro al passato.

Che si debba migliorare e quindi spesso correggersi è assolutamente vero, ma i tempi biologici perché l’esistente favorisca la presa d’atto e legittimi la revisione è incontrovertibile. Il giorno dopo sconfessa il giorno prima usurpando il merito di un rapido revisionismo in tali micro-tempi soltanto assurdo e folle significa esplicitare la propria indisponibilità a capire e risolvere i problemi personali prima ancora che quelli socio-comunitari.

La storia così impostata, cioè la storia senza scientificità, è il legno di galleggiamento di quanti richiamano la storia senza conoscerne la navigabilità cioè la sostanziale valenza e confidando in altrettanta condivisione poco cosciente degli altri. Ascolto e leggo assurdità del genere, che sarebbero amenità finanche piacevoli se non trasmigrassero nella fattualità politica ingenerando rischio sociale e diffuso degrado.

Può esserci anche il peggio. Non conoscere e non rispettare la storia può azzerare le positività costringendo a ripetere le tragiche erranze del passato. Questa non è preoccupazione, è già disastro sociale effettivo. I nulla-sapienti di un europeismo di facciata che viene proclamato e preteso come obbligatorio e dogmatico in una Europa che non riconosce come ebraico-cristiane le sue stesse origini, o non sanno o non vogliono sapere che l’Europa, quella seria e giusta, è stata intuita, ragionata e impostata da tre grandi cattolici europei. Dall’italiano Ancide De Gasperi ora in processo di canonizzazione, dal francese Robert Schuman anch’egli ora in processo di canonizzazione e dal tedesco Conrad Adenauer. Tre personaggi enormi della cristianità e della democrazia europea.

L’europeismo piazzaiolo di oggi, quello forse in offerta speciale, ci vuol far credere che ancora siamo al punto zero. Purtroppo invece a zero molti sono con la storia.

La voce di Comunione e Liberazione a Rimini è stata grande ammonimento e forte speranza!

Dal “Venerdì di Repubblica” il 2 agosto 2022.  

Il lato nascosto delle parole è il titolo della lezione che il linguista Luca Serianni tenne nel 2018 a Roma ad alcuni bambini (5-13 anni) plusdotati, cioè con un'intelligenza decisamente superiore alla media. Organizzato dall'Associazione genitori di bambini e ragazzi plusdotati (Aget), l'incontro durò un'ora. Eccone un estratto.

Sapete dirmi cosa è una lingua? È una facoltà tipica ed esclusiva della nostra specie. Il linguaggio lo si acquisisce senza sforzo. Voi, per esempio, non commettete mai errori veri e propri. Mai vi verrebbe in mente di esprimervi con una frase come «dillo a io»: tutti i parlanti, anche gli analfabeti, sanno che in questa frase si usa "me" e non "io". 

Basta l'uso a non farci sbagliare. In realtà esiste una lingua artificiale, l'esperanto. Ma anche nelle poche famiglie che lo hanno adottato e poi insegnato ai figli, l'esperanto è cambiato e la sua funzione di lingua immutabile è venuta meno. Ogni generazione, infatti, impercettibilmente cambia la lingua. 

A Roma antica si parlava il latino; l'italiano altro non è che il latino così come si è modificato nel tempo, una generazione dopo l'altra. Singole parole, parole comuni, hanno mutato nel tempo il loro significato. ragazzo, per esempio È una parola di origine araba che voleva dire "fattorino".

Quindi indicava un garzone. In tempi più recenti, fino a pochi decenni fa, significava anche "bambino" e i toscani più anziani ancora dicono "ragazzo" riferendosi a un bambino piccolo. È la stessa ragione per cui abbiamo i "libri per ragazzi", benché non siano certo testi rivolti ai ventenni. 

 Giacomo Leopardi scrive nel primo '800 una canzone dedicata a un vincitore del pallone e lo chiama "garzon bennato", cioè ragazzo di nobili natali e nobili sentimenti. Dante Alighieri, nel rappresentare due dannati nell'Inferno puniti con un prurito che non riescono a dominare, dice che questi due si grattavano così come il garzone di stalla, quando teme di essere picchiato dal padrone, striglia il dorso del cavallo. 

Nei dialetti veneti, abbiamo toso per ragazzo e tosa per ragazza, termine che sopravvive in una serie di cognomi (Tosi e Tosello, per esempio). Viene dal latino tonsus, che significa "tosato": poiché i pidocchi erano comuni, si usava rapare a zero i maschietti e perciò il toso era il ragazzo. In Sicilia, ancora oggi, una forma per indicare il bambino/ragazzo è caruso (anche in questo caso spesso è un cognome): "caruso" vorrebbe dire qualcosa di corrispondente a "cariato", cioè "calvo": la parola ci dice che il bambino/ragazzo veniva rapato a zero.

A proposito della parola "donna", dovete sapere che ci rimanda a domina, che voleva dire "signora". Benché raro, esisteva anche un maschile, "donno", cioè signore, che sopravvive ancora oggi. Sapete sotto quale forma? "Don" (per esempio don Matteo). 

L'etimologia di "signore" e "signora" è il latino senior: di sicuro conoscete questa parola e probabilmente la contrapponete a junior. Voleva dire "più vecchio". Senior era quindi epiteto di persone autorevoli. Qui vicino c'è Palazzo Madama, sede del Senato. Il senatus esisteva anche nell'antica Roma. Si chiama così proprio perché indica l'insieme delle persone più anziane e autorevoli. In un certo senso potremmo definirlo "vecchiume", ma noi ci guarderemo bene dal farlo. 

Casa in latino era domus. La conoscete di certo, non lontano da qui c'è la Domus Aurea. Ha un continuatore diretto nel "duomo", l'edificio che, per dimensione e importanza, spiccava sulle povere case di un abitato. Casa in latino, invece, voleva dire "catapecchia", "stamberga"; oggi è passata a indicare un'abitazione, senza sfumature negative. 

"Donna", domus, e poi "dominio": attraverso la riflessione etimologica ritroviamo la stessa famiglia.

Se solo pensate a quanto sia diffusa la pubblicità degli alimenti per cani, si capisce quanto sia importante per noi questo animale. Ma per molto molto tempo "cane" ha indicato un animale particolarmente vile e disprezzato. 

Ancora oggi se diciamo a qualcuno «Sei un cane!», costui ha tutte le ragioni per offendersi. Se gli diciamo «sei un gatto!», no. Come mai? Perché il gatto è entrato nelle nostre case da meno tempo. Prova ne è il fatto che fino a due secoli fa i gatti non avevano un nome, proprio come le galline e le mucche. 

Altri nomi di animali hanno una sfumatura negativa. «Quel tale è un verme» non è certo un complimento: è qualcuno che si comporta male, è inaffidabile, non si prende le sue responsabilità. Peggio ancora se diciamo che qualcuno è un porco, o un porcello: nella migliore delle ipotesi è sporco... Lo stesso per vacca, per serpente... Come vedete, l'uomo si mette sempre al centro dell'attenzione.

Dal latino all'italiano molte parole si sono perse. È il caso di puer, cioè ragazzo e bambino. Puer non si dice più.

Però abbiamo ancora "puerile". Oppure ignis, cioè fuoco. La parola ignis si è perduta, ma resiste in "ignifugo": una sostanza ignifuga evita la propagazione del fuoco. Quanto a focus, invece, era il focolare dove ardeva il fuoco per cucinare e riscaldarsi: le case erano freddissime e ci si raccoglieva lì per avere un po' di calore. 

Ancora, il verbo che in latino indica l'azione di parlare è fari. Lo ritroviamo in fabula, e quindi in "favola", un racconto che è in primo luogo raccontato, perché le favole vere e proprie sono raccontate, non lette. Da fari abbiamo fama: in origine era qualcosa che gli altri dicevano scambiandosi notizie su qualcuno. E ora ditemi i vostri nomi Ecco, Sonia è un nome recente, di origine russa. 

Corrisponde a Sofia, che è di origine greca e celebra la saggezza, la sapienza.

Sonia era sconosciuta in Europa fino alla fine dell'800, quando si diffuse grazie alle traduzioni in francese dei grandi romanzi russi come Delitto e castigo e lo Zio Vanja. Ci sono poi nomi con una storia molto antica, come Luca, che era un evangelista. Ha avuto scarsa circolazione nel Medioevo e si è affermato solo nel secondo '900.

Quando lo hanno dato a me, era decisamente raro e c'erano persone che si meravigliavano perché, in quanto terminante in "a", poteva sembrare un nome da femmina. Michele ha avuto grande tradizione anche nel medioevo. 

Era il nome dell'arcangelo che simboleggia il trionfo sul male. Edoardo appartiene alla fitta serie di nomi di tradizione germanica. Il suo significato originario è "guardiano dei beni", quindi indica qualcuno di cui possiamo fidarci. Oggi contano fattori imponderabili legati al gusto dei genitori. 

Un tempo non era così. Soprattutto ai maschi si dava il nome dei nonni, un'usanza ancora radicata nell'Italia meridionale, dove si portano nomi altrove rari come Gennaro o Salvatore.

Vi è piaciuto questo viaggio nelle parole? Avete domande? Ricordate che lo scienziato e lo studioso lavorano per questo, per dare una risposta alle vostre domande.

Traduttori vocali simultanei: migliori modelli e ultime novità.  Giacomo Cadeddu su Il Corriere della Sera il 29 luglio 2022.

Online oppure offline, tramite auricolari o display. Sono molti i dispositivi elettronici che aiutano a comprendere lingue sconosciute grazie alla tecnologia. Eccone alcuni 

Adesso che è periodo di viaggi, i traduttori vocali simultanei possono essere una buona aggiunta alla valigia. Con diversi gradi di precisione permettono di tradurre in maniera istantanea lingue sconosciute attraverso il supporto di sistemi di intelligenza artificiale o appoggiandosi a motori di ricerca, come ad esempio Google. La traduzione appare solitamente sul display di cui ormai quasi tutti questi dispositivi sono dotati. In alcuni casi viene riprodotta direttamente negli auricolari in dotazione. Per forza di cose, nella maggior parte dei casi è necessario essere collegati a una rete Internet – WiFi o hotspot – per far funzionare i traduttori vocali simultanei. Non sempre però è così: diversi strumenti hanno una scheda SIM che permette il funzionamento anche offline.

Come scegliere i traduttori vocali simultanei

Il primo punto da cui partire per scegliere quale dispositivo acquistare è chiaramente legato alle lingue supportate. Se avete in programma un viaggio in un Paese di cui non conoscete la lingua e intendete aiutarvi con un traduttore, è bene controllare che quella specifica lingua sia nell’offerta proposta dallo strumento scelto. Non meno importante è capire il margine di autonomia della batteria, fortemente variabile da modello a modello. Così anche la modalità di traduzione: unidirezionale, bidirezionale, solo online o anche offline.

Traduttori vocali istantanei: il più venduto 

Il modello di traduttore simultaneo più venduto su Amazon è l’M3 di Vasco Translator. È capace di tradurre più di 70 lingue, dalle più diffuse – inglese, spagnolo, francese – alle più esotiche. Il dispositivo ha in una scheda SIM con Internet incluso che permette di fare a meno di collegarsi a reti WiFi. È disponibile in colori diversi: nero, blu, bianco, rosa, verdone e verde menta. L’azienda produttrice promette un tempo di reazione nella traduzione in 0,5 secondi. I microfoni riducono in automatico i rumori di fondo. 

Tra i traduttori simultanei più venduti su Amazon, subito dietro all’M3 di Vasco c’è il dispositivo di Shimshon. Piccolo e compatto – le sue dimensioni sono di 120x48x12,2 mm – promette di tradurre 109 lingue e dialetti di tutto il mondo, anche in modalità bidirezionale, chiamata anche “a due vie” o “a doppio senso”. È un metodo particolarmente utile durante una conversazione in diretta, perché permette di tradurre insieme le due lingue con cui viene portato avanti il discorso. Per funzionare ha bisogno di essere collegato a Internet. Altrimenti, in modalità offline, può comunque operare con 12 lingue tra le principali e più parlate. Si tratta di inglese, russo, tedesco, italiano, giapponese, coreano, francese, cinese semplificato, cinese tradizionale, portoghese, spagnolo e olandese. La fotocamera supporta invece la traduzione di foto online per 44 lingue. Il microfono è dotato di funzione di cancellazione del rumore. Questo traduttore ha batteria al litio, da 1500 mAh, che l’azienda giudica sufficienti per 8 ore di traduzione continua. Si consiglia di aggiornare spesso il software per una completa efficacia.

Il terzo tra i traduttori simultanei più acquistati dagli utenti Amazon è Timekettle M2. Funziona online e supporta la traduzione bidirezionale di 40 lingue diverse. Si va dall’arabo al cantonese, dal giapponese al bulgaro, dal catalano all’hindi e il norvegese. Funziona con auricolare: per attivare la traduzione è sufficiente toccare il sensore sul piccolo dispositivo. Il risultato viene poi riprodotto direttamente nell’orecchio di entrambe le persone coinvolte nella conversazione. Oppure si può lasciare il telefono sul tavolo, registrare le parole degli altri e ascoltare la traduzione nel proprio orecchio. Accoppiando gli auricolari Timekettle al proprio smartphone funzionano anche come normali cuffiette. Vanno quindi bene sia per ascoltare musica che per fare una chiamata. Tutte le sue funzionalità sono wireless. La batteria dura fino a sei ore. Non è consigliato l’utilizzo per ascoltare e tradurre film in lingua straniera. 

C’è anche il T10 di TAKKA7 tra i traduttori vocali istantanei più scelti dagli utenti di Amazon. Traduce 137 lingue, appoggiandosi a Google e Microsoft per riuscire a farlo. Per registrare meglio le conversazioni è dotato di effetto di cancellazione del rumore, ma non riesce a captare ed elaborare le parole se pronunciate a oltre due metri di distanza.

È acquistabile sul sito di Amazon

Il traduttore simultaneo di 108 lingue 

Tra i traduttori vocali simultanei più diffusi c’è poi l’AI Smart Translator del marchio Anfier. Sono quattro motori di ricerca combinati insieme – Google, Microsoft, Baidu e Nuance – che gli permettono di lavorare con 108 lingue diverse. Tra queste: inglese, spagnolo, giapponese, cinese, coreano, tailandese, tedesco, vietnamita, polacco, arabo e turco. AI Smart Translator supporta una traduzione istantantanea e bidirezionale. Funziona tramite rete Internet, hotspot o WiFi, ma garantisce la traduzione di otto lingue anche in modalità offline: cinese, inglese, giapponese, coreano, tedesco, spagnolo, francese e russo. La sua fotocamera è dotata di funzione OCR (riconoscimento dei caratteri), con cui – collegati a Internet – si possono tradurre 45 lingue. Ha touch screen a colori da 2,4 pollici e batteria al litio da 1200 mAh, abbastanza per sei ore di traduzione continua, a ricarica veloce (circa un’ora).

Il traduttore con conversione di valuta 

Sono 82 le lingue parlate che il traduttore Pocketalk di Sourcenext riesce a supportare, anche in modalità bidirezionale. Oltre alla modalità audio, funziona anche tramite fotocamera: è utile ad esempio per capire cosa c’è scritto sui menu di ristoranti in Paesi stranieri. È anche un convertitore di valute estere, oltre che di unità di misura di temperatura, lunghezza e larghezza. Ha scheda Sim integrata e un piano dati che assicura copertura in 130 regioni nel mondo. Come traduttore è molto piccolo e leggero – pesa solo 74 g e misura 9,15×5,34×1,14 cm – ed è disponibile in rosso, nero, bianco o in colore oro. La batteria in standby dura fino a cinque giorni, in traduzione continua arriva a 4-5 ore.

Il traduttore istantaneo in versioni mini 

Scheda SIM valida in 150 zone del mondo, Vasco MINI 2 traduce una cinquantina di lingue, tra cui giapponese, cinese, coreano, inglese, francese, spagnolo, tedesco, portoghese, hindi e russo. Il suo utilizzo, una volta acquistato, è gratuito. Si aggancia a centinaia di provider sparsi in diversi continenti per consentirne l’uso senza spese Internet e connessione WiFi. Il suo punto di forza è la tascabilità, con dimensioni di 42x113x12 mm e un peso di appena 70g.

Il traduttore a penna 

Se si è interessati soprattutto alla praticità e alla portabilità, Vormor ha messo in commercio un traduttore simultaneo a forma di pennetta tascabile. Vormor X5 Scansiona fino a 3mila caratteri al minuto e supporta 112 lingue vocalmente. I testi tradotti possono poi essere trasferiti via cavo USB su computer. In modalità offline supporta solamente le traduzioni tra cinese, inglese e giapponese. Con una ricarica la batteria può durare fino a 8 ore se usata continuativamente, oppure sette giorni se lasciata in standby.

Traduttori vocali simultanei, le novità

Tra le novità principali sul mercato dei traduttori vocali simultanei, Amazon segnala quello prodotto dall’azienda spagnola DuckDik. Senza appoggiarsi ad alcuna rete è capace di tradurre 12 lingue, che salgono a 109 quando è connesso. Sono invece 43 le lingue traducibili utilizzando la fotocamera. La batteria ha una durata di 168 ore in standby e di 8 in uso continuato. Il dispositivo può essere usato anche per ottenere informazioni su meteo, notizie e traffico: è anche assistente AI, simile a Google Home.

Di nuovo dal catalogo Vormor arriva un altro traduttore da poco lanciato sul mercato, il T11. Utilizza un software di riconoscimento vocale che combina Flytech, Nuance, Microsoft e Google, così da riuscire a tradurre – online – 223 lingue. Funziona anche offline, ma le lingue scendono a otto. La sua batteria, da 1200 mAh, può durare fino a 360 minuti con una ricarica. 

Le parole zombie sullo spettro ininterrotto della lingua non-morta. ALESSANDRO GIAMMEI su Il Domani il 27 luglio 2022

Invece di morire ed essere sostituite, le lingue generano altre lingue, in uno spettro continuo. Questa metafora genealogica dovrebbe aiutarci a essere meno luttuosi e nostalgici, ricordandoci che ogni parola o idea del passato non è mai perduta fintanto che una testimonianza ce la tramanda.

E tuttavia, per come intendiamo la genealogia da qualche secolo a questa parte, rimane in questa visione arborea dell’immortalità delle lingue un freudiano rischio necrofilo.

Uno degli effetti del patriarcato è infatti quello di impigliare i vivi nelle supposte intenzioni dei morti: di immobilizzare la progenie dando ai fantasmi padri (e ai padri dei padri, e così via fino alla radice ultima di un’ipotizzabile origine ordinatrice di tutto) un potere assoluto di re. E dunque se non lo diceva Shakespeare, se non lo diceva Dante, non si dice. Il testo fa parte del nuovo numero di Cose da maschi: per iscriverti alla newsletter clicca qui

Chissà se muoiono davvero, le lingue che chiamiamo “morte”. Il latino, in molte università americane, si insegna come una lingua parlabile, e infatti Mel Gibson ne mette in bocca una viva versione – in realtà medievaleggiante – ai centurioni nel suo film sulla passione di Cristo, in cui Cristo parla un aramaico ricostruito dai filologi che sembra la lingua dei dothraki di Game of Thrones, o il klingon di Star Trek.

Ma non serve andare tanto in là con la cronologia. L’inglese di Shakespeare non lo parla più nessuno (anche i miei studenti americani faticano a leggerlo), eppure è da lì che nascono espressioni di altrimenti inspiegabile uso comune – anche in italiano: non è tutto oro quel che luccica, rompere il ghiaccio, e così via.

Quando qualcuno resiste all’uso inclusivo del pronome neutro they, percepito come novità politically correct (una specie di schwa o di asterisco inglese insomma), gli si fa presente che Shakespeare lo usava. Certi morti, d’altronde, hanno più autorità dei vivi. È una questione genealogica dunque, di potere ancestrale che, di generazione in generazione, si diluisce, allontanandosi da una più pura e potente scaturigine? È per questo che la strega adolescente Sabrina su Netflix, i maghi di Harry Potter e i satanisti di mezza filmografia horror usano il latino, invece delle loro lingue correnti, per compiere prodigi?

Edoardo Sanguineti e Giovanni Giudici, cinquant’anni fa, imitavano in poesia il Dante di seicentocinquant’anni prima: lo sceglievano dichiaratamente come progenitore, si ponevano genealogicamente a valle di lui. Ottenevano però, da una simile operazione, due lingue poetiche quasi opposte, entrambe assai meno comprensibili per i miei studenti di letteratura italiana (sia gli anglofoni che, devo dire, quelli che parlano italiano dalla nascita) rispetto all’idioma ben più antico, ben più teoricamente morto, della Divina Commedia.

La metafora genealogica dovrebbe aiutarci a essere meno luttuosi e nostalgici contemplando la lingua: dovrebbe ricordarci che ogni parola o idea del passato non è mai perduta fintanto che un pezzo di carta, un frammento di memoria, un metro di nastro magnetico o una stringa di codice ce la tramandano. Che abitiamo, insomma, sempre un punto su uno spettro ininterrotto in cui nulla si crea e nulla si distrugge, come nelle continuità fantasmagoriche del multiverso dei supereroi che Loki, il dio asgardiano dei sotterfugi, cerca di incasinare nella serie tv che porta il suo nome.

E tuttavia, per come intendiamo la genealogia da qualche secolo a questa parte, rimane in questa visione arborea dell’immortalità delle lingue un freudiano rischio necrofilo – lo stesso che anima la mia tragedia preferita di Shakespeare, Amleto. Uno degli effetti del patriarcato è infatti quello di impigliare i vivi nelle supposte intenzioni dei morti: di immobilizzare la progenie dando ai fantasmi padri (e ai padri dei padri, e così via fino alla radice ultima di un’ipotizzabile origine ordinatrice di tutto) un potere assoluto di re. E dunque se non lo diceva Shakespeare, se non lo diceva Dante, non si dice.

BUSTƏ DANTESCHƏ

Dante dice due volte, nell’Inferno, la parola “busto”. Nella Monarchia dice una volta la parola “busta”. Si tratta in realtà quasi della stessa parola in tutti e tre i casi, perché la Divina commedia è scritta in italiano mentre la Monarchia è scritta in latino – e in latino “busta” è l’accusativo plurale di “bustum”, che significa “tomba”. Lo significa perché “ustum” (si pensi a ustione, ustionare) significava “bruciare”, e l’ambustum doveva dunque essere una pira funeraria.

Fu Francesco D’Ovidio, leggendario filologo del secolo scorso che a Napoli occupò la cattedra di «storia comparata delle lingue neolatine», a ipotizzare che, sbiadita l’origine fiammeggiante ma rimasta l’associazione con la sepoltura, la parola “busto” sia infine rimasta appiccicata alle sculture che si pongono sui monumenti funebri – solitamente dei mezzibusti, appunto, che ritraggono l’abitante del sepolcro. Da quei parziali corpi di pietra dei morti il termine si sarebbe esteso al torso dei vivi – nonché a un certo rigido indumento tipico delle vive di un tempo.

Scrivendo nella lingua morta, insomma, Dante dice “busta” per dire tomba: addirittura, nella Monarchia, sta citando un suo progenitore, Ovidio, che nelle Metamorfosi raccontava come gli sfortunati amanti Piramo e Tisbe si dessero appuntamento «ad busta Nini» (presso la tomba del re Nino), all’ombra di un albero. Scrivendo invece nella lingua viva, Dante dice “busto” per intendere quel che oggi chiamiamo ancora busto: usa la parola per descrivere, nel canto XVII, il mostro Gerione, che ha faccia d’uomo ma torso di serpente (e branchie, e rotelle, e altre mirabolanti peculiarità) e, nel canto XXVIII, per costruire una scena da Silent Hill: un torso decapitato che tristemente avanza con la propria testa, come una lanterna, in mano – è Bertrand de Born, un altro suo progenitore (ma provenzale, non latino), che lo apostrofa da necromante: «Tu che, spirando, vai veggendo i morti».

Il “busta” latino e il “busto” italiano di Dante radicano nella medesima genealogia linguistica, sebbene di primo acchito non sembri. L’antico significato di tomba si aggira, non-morto, in quello odierno di torso: al contrario del pellegrino all’inferno, è un estinto tra i vivi, uno zombie.

CASSE DA MORTO

Busta, tuttavia, è anche una parola italiana – sebbene Dante non la adoperi mai. Friedrich Christian Diez, filologo tedesco in disaccordo con D’Ovidio, riteneva 150 anni fa che “busto” fosse semplicemente una forma maschile della stessa parola in latino medievale che dà “busta”, a sua volta imparentata con le parole francesi e inglesi per “scatola”, “contenitore di legno”.

Diez ha chiuso insomma busto e busta in una cassa da morto, associando il maschile alla gabbia toracica che custodisce gli organi e il femminile all’ermetica chiusura della carta sulla lettera che contiene. L’ipotesi vale solo, se D’Ovidio e più recenti studi etimologici hanno ragione, per il femminile, che non è in realtà femminile di nulla: “busto” e “busta” non discendono dalla stessa scaturigine, hanno progenitori diversi, sono immodificabili per genere. E “busta”, curiosamente, sembra più giovane di “busto”.

Come Winona Ryder nel Dracula di Francis Ford Coppola (e come la protagonista dell'ultimo romanzo, sempre su Dracula, di Chiara Valerio, di cui è progenitrice) la “busta” che comincia ad apparire, secondo i dizionari, in Carducci, Verga, Svevo (cioè tardi, e che oggi si usa ben più spesso del già dantesco “busto”) è identica alla “busta” latina di Ovidio citata nella Monarchia di Dante e, ciononostante, è un’altra parola, un’altra più nuova fanciulla verbale che non ha camminato granché, da zombie o vampira, tra i vivi – come invece il suo apparente maschile.

Chissà che, smaterializzatesi ormai le lettere in email (la cui icona universale rimane una busta), questa parola, una volta morto il suo cartaceo corrispettivo materiale, non sopravviva come il suo simile maschile “busto”, prendendo a significare qualcos’altro – dalla cassa di legno alla custodia di carta a chissà quale più eterea realtà futura che, spirando, andrà veggendo i morti.

VITALITÀ ROMANESCHE

A dire il vero un qualche vivace guizzo post-mortem già si può considerare. Se più propriamente (e più spesso, nelle regioni nordiche) al supermercato si pesa la frutta e si porta via la spesa in un “sacchetto” (da una parola attica, forse di origine fenicia o semitica, per “panno”, da cui il concetto di borsa o sporta di tela), a Roma si dice senz’altro “busta” per quei contenitori di plastica o di stoffa.

A quell’evoluzione locale si deve il corrente concetto di “busta” in romanesco – che, più che un dialetto, è una parlata dell’italiano standard: quella, per capirci, che a quanto pare risulta incomprensibile ai detrattori di Zerocalcare. Si dice che è “una busta” una cosa deludente e spiacevole, una fregatura (es. ‘sta recensione de Zerocalcare è “na busta”) perché, ancora quando io ero ragazzino, si diceva “busta” per dire “donna poco attraente”.

Ritengo che l’origine di un tale scarto radichi nell’espressione “busta de fave”, legata a un’esperienza facile da immaginare: se riempite di fave un sacchetto della spesa, esso risulterà bitorzoluto e brutto. Ritengo anche che il più duro, più gratuito “busta de piscio” (che vale sia come epiteto misogino che come manifestazione di delusione per eventi e cose inanimate) sia un più recente, meno fantasioso excursus del lemma pellegrino nel regno dei morti semantici. E trovo squisito il puro caso che vuole, come efficace maschile di “busta” nel romanaccio del Ventunesimo secolo, la parola “torso” (es. ‘nun je piace Zerocalcare ed è pure “n torso”), che in italiano significa “busto”. 

ALESSANDRO GIAMMEI. Professore di letteratura italiana all’Università di Yale, negli Stati Uniti. Con Nell’officina del nonsense di Toti Scialoja (edizioni del verri, 2014) ha vinto l’Harvard Edition dell’Edinburgh Gadda Prize. Nel 2018 ha pubblicato con Marsilio il romanzo-saggio Una serie ininterrotta di gesti riusciti: Esercizi su Il grande Gatsby di F. Scott Fitzgerald. Ha curato l’edizione italiana delle lettere tra Lytton Strachey e Virginia Woolf (Ti basta l’Atlantico?, nottetempo 2021, con Chiara Valerio), e di un trattato di Arthur Conan Doyle sulla fotografia spiritica (Fotografare gli spiriti, Marsilio 2022).

Paolo Guiducci per “Avvenire” il 25 luglio 2022.

L'idioma di Shakespeare oggi è la lingua egemone. Un primato in realtà recente, considerato che secoli fa era appannaggio del latino mentre la diplomazia è stata per lungo tempo associata al francese. Ma la diffusione mondiale dell'inglese, molto più ampia di qualsiasi altra lingua, lo rende quanto di più vicino a una lingua globale. Eppure ci sono tante - parole che gli inglesi copiano dalla lingua di Dante. 

Se cringe, contact tracer, burger e tanti altri vocaboli english sono entrati nella lingua italiana corrente, esiste però anche il fenomeno inverso. Ovvero «parole italiane utilizzate correntemente nella lingua inglese, caso più antico, meno attuale e 'invasivo', ma comunque importante e del quale gli italiani spesso non sono consapevoli», fa notare Alessandro Ceccarini.

Studioso della lingua di Albione e insegnante al liceo delle Scienze umane delle Maestre Pie di Rimini, da anni Ceccarini si dedica allo studio di questi vocaboli che ora ha raccolto in un libro davvero unico. Not only pizza. 250 Italian words in English (edizioni il-Ponte, pagine 112, euro 10,00) è la simpatica raccolta, a mo' di dizionario, di 250 vocaboli italiani (e qualcuno latino) che nel tempo sono entrati nel vocabolario inglese, utilizzati correttamente e correntemente nella lingua delle isole britanniche. 

Alcune parole derivano dal mondo musicale come pianoforte o orchestra, altre dal campo alimentare, quali radicchio o scampi. Altre ancora provengono dal lessico artistico come basilica o terracotta, altre da quello prettamente religioso come novena o oratorio. Molte parole si rifanno alla medicina e all'anatomia, è il caso di influenza o tibia, altre da modi di dire italiani ( lingua franca).

Se ne contano numerose appartenenti alle categorie più disparate, da quelle sociopolitiche come manifesto e propaganda, agli aggettivi umani, animali e di cosa ( docile e fragile), altre ancora diverse, da lotto a ferrata. Alcune di queste parole esprimono gli stessi significati dall'italiano all'inglese. In altri casi hanno mantenuto solo uno di quelli italiani o latini, mentre per altri sensi hanno adottato vocaboli anglosassoni o di altra etimologia.

È il caso di adagio: in italiano ha molti significati ed è sinonimo di lentamente, con cura, a voce bassa, mentre in inglese ha solo il senso di brano musicale suonato in modo lento e dolce. In altri casi il significato si è discostato così tanto nel tempo, al punto che le due parole sono diventate veri e propri false friends l'una per l'altra. Bimbo, ad esempio. In inglese significa una donna attraente, ma un po' sciocchina e poco intelligente, «un vocabolo che fa pensare a qualche soubrettina della tv o dei social». 

Il primo vocabolo che ha acceso la lampadina, Ceccarini lo ha incontrato in una chiesa di Edimburgo. «C'era un crocifisso con sotto la scritta 'Via dolorosa'.

Quell'espressione mi colpì molto». È l'inizio di uno studio 'matto e disperatissimo' ma anche divertente. L'autore si è rivolto a 80 madrelingua inglesi, dei cinque continenti, per avere la controprova che le parole italiane, trovate su internet, sui libri o pronunciate da qualcuno, fossero davvero usate in inglese.

Gli inglesi/anglofoni hanno coscienza che stanno utilizzando parole italiane? «No, assolutamente. Non solo gli italiani non lo sanno, ma neppure gli inglesi ne sono consapevoli, anche perché la loro lingua è frutto di una base celtica, anglosassone, ma con molti forestierismi da varie lingue, latino e francese in testa (pensiamo a forume ballet), ma anche dal giapponese ( judo), spagnolo ( mosquito), indiano ( shampoo), e tanti altri. Essendo una lingua così varia e ibrida, gli anglofoni non fanno caso alla provenienza delle parole del loro vocabolario. In generale si pensa che in inglese si usino solo termini italiani come pizza, pasta e mafia. Nessuno crede che ce ne siano oltre duecentocinquanta».

Figure della disunione. Di che cosa parliamo quando parliamo di “ma di cosa stiamo parlando?” Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 25 Luglio 2022.

È una domanda retorica con la natura dell’arma contundente. Più che a coinvolgere l’uditorio, serve a dileggiare l’interlocutore. Né va meglio con l’abitudine di martellare l’interlocutore con una sfilza di “Punto!”, che sancisce sonoramente lo strenuo rifiuto di ogni possibilità di dialogo

“Ma di cosa stiamo parlando?”. Occhi spiritati, giugulari gonfie, mano “a tulipano” (“a pigna”, “a borsa” ecc.: cfr. “Linguaccia mia” di lunedì scorso) ondeggiante su e giù: nei dibattiti pubblici è il momento topico, il punto di non ritorno. Da lì in poi i duellanti se lo rinfacceranno a vicenda, in un crescendo di aggressività, e il confronto, se mai c’è stato, sarà definitivamente sommerso nel caotico accavallarsi di toni esasperati. Più contagioso di omicron 5, sgradevole, irritante, più una locuzione interiettiva che una domanda vera e propria formulata per sapere, “Ma di cosa stiamo parlando?” appartiene tecnicamente alla categoria delle domande retoriche, quelle che non sono enunciate per ottenere una risposta, perché la risposta è già nella testa di chi pone la domanda, in genere suggerita dall’intonazione della voce. Una “figura della comunione”, secondo la definizione di Chaïm Perelmane Lucie Olbrechts-Tyteca (Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi 2013), ossia una di quelle figure «con le quali l’oratore si sforza di far partecipare attivamente l’uditorio alla sua esposizione, prendendolo a parte di essa, sollecitando il suo concorso».

In questo caso, tuttavia, ciò che vuole significare chi pone la (finta) domanda è così chiaro che anche il punto interrogativo potrebbe scomparire, sostituito da un più assertivo, insolente, quando non addirittura brutale punto esclamativo. E il senso che si vuole (non suggerire, ma) sbattere in faccia all’interlocutore o agli interlocutori (e indirettamente al pubblico che fa il tifo) è un più volgare ma tutto sommato meno indisponente “Ma che cazzo stai/state dicendo?”.

Sotto l’apparenza della domanda retorica si cela la reale natura di un’arma contundente, agitata senza risparmio in quei dibattiti concitati di cui si pascono i talk-show e sconsideratamente anche qualche giornale, nel vano tentativo di inseguire il chiasso inconcludente dei social (con il risultato di allontanare chi non ama il chiasso, senza conquistare chi predilige quello più chiassoso dei social – ma tant’è). Il guaio è che per emulazione l’arma impropria viene ormai brandita anche nelle discussioni private, e non è raro vederla spuntare tra le pietanze al desco familiare.

Con il punto interrogativo dell’affettata incredulità, con quello esclamativo del manifesto disprezzo o con i tre puntini dell’ironico dileggio, “Ma di cosa stiamo parlando” è un modo di delegittimare gli argomenti dell’interlocutore, derubricati a vane farneticazioni o capziose argomentazioni, e di ribadire la propria come l’unica inoppugnabile ragione. Altro che «far partecipare attivamente, sollecitare il concorso» dell’uditorio e dell’interlocutore: da “figura della comunione” la domanda retorica si converte in “figura della disunione”, del rifiuto del confronto e della irrimediabile incomunicabilità che rinchiude chi ne fa uso nella sua tronfia autoreferenzialità.

A sigillare definitivamente questa rabbiosa deriva solipsistica, tra un “Ma di cosa stiamo parlando” e l’altro, è una martellante strategia verbale che letteralmente “punteggia” la discussione (quel che ne rimane), con la ripetizione a intervalli regolari della parola “Punto!” (che non è un punto esclamativo ma si pronuncia come se lo fosse). Il più piccolo dei paragrafemi è un ordigno insidioso da maneggiare con cautela: nel galateo dei social, in particolare di Whatsapp, concludere un messaggio con il punto è considerato un segno di maleducazione (“passive aggressive” lo definisce la studiosa canadese Gretchen McCulloch, autrice nel 2019 del saggio Internet: Understanding the New Rules of Language, Riverhead Books). Quando dalla rappresentazione su carta o sullo schermo di un dispositivo elettronico passa alla riproduzione vocale, il punto diventa un proiettile sparato al cuore della conversazione: in genere in capo a frasi secche, prevalentemente riassuntive di quanto già espresso e pronunciate con tono veemente.

Deprecabile abitudine non solo italica (“Full stop” non è infrequente nelle frasi-proclama in lingua inglese), questo “Punto!” è solo apparentemente l’evoluzione meno perentoria del “Punto e basta!” con cui un tempo (ora per la verità sempre meno) un genitore negava qualche cosa al figlio adolescente troncandone le insistenze. Ed è sicuramente più scoraggiante del “Punto e a capo” in via di estinzione, che almeno non tagliava i ponti ma in quell’a capo conteneva una possibilità di nuovo inizio, di prosecuzione dando per assodate, o semplicemente accantonate, alcune questioni. Il semplice repulsivo “Punto!”, che rimbalza da una bocca all’altra, sancisce sonoramente lo strenuo rifiuto di ogni possibilità di dialogo e indirizza il confronto su binari paralleli destinati a non incrociarsi mai, in un cacofonico “contrappunto” che di virtuosistico non ha nulla, ma unicamente rifrange la sterile albagia dei contendenti.

Al di là del passeggero divertimento per lo spettacolo indecoroso – che in piccole dosi a qualcuno potrà pure piacere, come possono piacere certi sadici show televisivi dove dei poveracci vengono messi alla berlina col pretesto di raccontare scombiccherati casi umani o di valorizzare un qualche loro supposto talento – di questi assordanti monologhi degni dell’attenzione di un redivivo Asperger agli eventuali spettatori che cosa potrà realmente interessare? Questi sì che potrebbero domandarlo: ma di cosa state parlando?

Un pensiero per Luca Serianni, il grande linguista tragicamente scomparso nei giorni scorsi, che è stato e rimarrà un imprescindibile punto di riferimento per questa rubrica.

Eni, i distributori parlano anche in dialetto in 1700 stazioni: "Metti dentro i schei e speta". L'azienda: vicinanza ai territori. Il distributore "multilingue" dell'Eni. 

Dopo un esperimento in 15 punti, la società permette di ascoltare quasi in tutta Italia i messaggi vocali nell'idioma del posto, cui si riconosce una piena dignità di lingua. La Repubblica il 20 Luglio 2022

I distributori di oltre 1.700 stazioni di servizio dell'Eni (le Eni Live Station) ora si esprimono anche nei dialetti locali di cento province. «Operazione in corso, attendere prego», «Rifornirsi all’erogatore 1», «Se hai una carta punti utilizzala ora» sono alcuni dei messaggi vocali che i clienti delle stazioni sentiranno nel dialetto della zona.

I distributori, dunque, sono multilingue. Accanto all'italiano, all'inglese, al francese, allo spagnolo e al tedesco, presentano anche un tasto per ascoltare i comandi vocali nel dialetto locale, cui si riconosce dignità di lingua.

L'iniziativa - spiega Eni - vuole rinsaldare il rapporto tra il fornitore di carburante e le comunità di zona, creando un senso di appartenenza. Il rifornimento alla stazione, molto doloroso di questi tempi visti i prezzi di benzine e diesel, è allietato da espressioni dialettali, di quelle che si usano in casa.

E in effetti se ne sentono di divertenti. Come quando - in Veneto - il distributore di dice: "Metti dentro i schei e speta”. C'è anche l'opportunità, inoltre, di vincere dei premi usando l’app Eni Live.

I messaggi vocali delle stazioni  sono realizzati in collaborazione con l'azienda Fortech. Mesi fa, il progetto era stato avviato in via sperimentale in circa 15 Eni Live Station e aveva ottenuto da subito riscontri positivi tra i clienti.

I monitor digitali delle stazioni associano - alle funzioni tradizionali di pagamento - la possibilità di interagire direttamente con il cliente offrendo diversi servizi, come il pagamento

- del rifornimento in self,

- delle ricariche elettriche,

- di Eni Parking (ove presenti),

- dei bollettini postali e Pago PA.

L'INIZIATIVA ENI. Bari, «Moh ada scriv u cod'c»: così i distributori di carburante parlano in dialetto. In totale sono 1700 in tutta Italia e tra i dialetti da selezionare c’è anche quello barese. Graziana Capurso su la Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Luglio 2022

Da oggi i distributori di benzina parlano anche in dialetto barese: l’iniziativa di Eni era già stata testata in diverse stazioni italiane (da Nord a Sud), ma adesso il progetto, sbarca anche nel capoluogo pugliese. Qui i distributori automatici parleranno nel dialetto della zona. In totale sono 1700 in tutta Italia le pompe di benzina con questa particolarità: ovunque ci si trovi si potrà selezionare la lingua con il dialetto locale. 

Basta cliccare quindi sul display dell’erogatore, tra le varie opzioni come italiano, inglese, tedesco, spagnolo o francese, la scelta del dialetto barese e il gioco è fatto. L’idea di Eni è infatti quella di inserire la tradizione come elemento incancellabile e necessario al processo stesso di evoluzione tecnologica. Il dialetto peraltro contribuisce a generare in chi ancora lo parla fluentemente e lo comprende un senso di appartenenza e immediatezza insostituibile al proprio territorio. Ecco il video con le tipiche parole: «Mitt la cart» «Allìv la cart». 

Per provare l'ebrezza di fare carburante in dialetto barese basta andare alla pompa di benzina vicino il sottopasso di Sant'Antonio e in altri punti del capoluogo pugliese. Stessa cosa vale in provincia: dalla Bat al Salento. Le risate sono assicurate.

Dammi il cinque! (anzi, no). La mano a borsa e altre espressioni misteriose che traducono la nostra gestualità. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 18 Luglio 2022.

Rendere il linguaggio non verbale non è sempre facile. Alcune soluzioni sono poco chiare (“a cuoppo”), altre fuorvianti (cosa significa “stringersi nelle spalle”?) e altre piuttosto ridicole (come la resa italiana di “Gimme five”) 

Anassagora di Clazomene, un pensatore presocratico vissuto nel V secolo avanti Cristo, sosteneva che sono le mani a fare dell’uomo il più sapiente di tutti gli esseri viventi. Anche il più comunicativo, potremmo aggiungere. Specialmente se italiano. Le mani, e oltre alle mani il viso e tutto il corpo, sono media potenti in grado di trasmettere una quantità di informazioni che a volte si prestano a accompagnare, altre volte possono efficacemente sostituire quelle veicolate dalle parole. Ma come tradurre la gestualità corporale in un testo scritto, quando non si ha la possibilità di mimare il gesto e il linguaggio non verbale va forzatamente ricondotto a quello verbale? Qui nascono i problemi.

Prendiamo per esempio questa espressione: “fare la mano a borsa”. O anche “a sacchetto”, “a pinza”, “a grappolo”, “a pigna”, “a puparuolo” (come a Napoli chiamano il peperone), “a cuoppo (ivi, il cono di carta assorbente che accoglie i cibi fritti da strada). Capito qualcosa? Difficile, se non ci si è mai imbattuti prima in questi costrutti – e se, essendocisi imbattuti, non si sono prese informazioni. Se diciamo “fare la mano a tulipano” (come Gadda nel Pasticciaccio) oppure “a carciofo”, forse ci avviciniamo un po’ di più – ma soltanto un po’, e bisogna metterci del proprio. Per risolvere i dubbi occorre l’aiutino. Ecco la spiegazione-descrizione dell’Enciclopedia Treccani: «La mano si muove su e giù a palmo in alto, con le dita che si toccano le punte, proprio come i petali di un tulipano» [o anche come le foglie del carciofo]. «Si tratta di un gesto-frase polisemico, cioè con due letture diverse ma correlate: una di domanda, parafrasabile come “che vuoi?”, “che dici?”, “e allora?”; l’altra di critica, o d’informazione o valutazione negativa, parafrasabile come “ma che dici?!”, “niente affatto”, “non sono d’accordo”».

Per maggior precisione, la Treccani scende nei dettagli dinamici: «Nel significato di domanda, la mano si muove su e giù in fretta, compiendo un arco di pochi centimetri, e si ferma di scatto dopo al massimo due o tre ripetizioni; inoltre il gesto è accompagnato da uno sguardo interrogativo, con le sopracciglia aggrottate e un’espressione di curiosità. Nel significato di critica, invece, la mano si muove su e giù lentamente, più volte, per un tragitto molto lungo, anche fino a completa flessione ed estensione dell’avambraccio; la bocca si atteggia a un sorriso scettico o ironico, il capo è leggermente inclinato da una parte, e in genere non c’è aggrottamento delle sopracciglia né espressione di curiosità».

Insomma, una descrizione lunga e articolata per far capire quel che in presenza è immediatamente chiaro: ossia uno dei gesti italiani più famosi nel mondo, forse in assoluto il più famoso e identificante, che – in seguito alla proposta dello startupper cavese Adriano Farano al competente consorzio californiano Unicode – nel 2020 è stato consacrato in un emoji. E certo i tanto esecrati (quanto utilizzati, dagli stessi esecratori) emoji aiutano a dire quel che a volte le parole non dicono. Fortunatamente (o sfortunatamente?) nei libri – almeno in quelli “seri”, non nei “libroidi” di gianarturoferrariana memoria – gli emoji ancora non ci sono, e questo ci riporta al problema di partenza.

Un’altra espressione che nella narrativa ritorna spesso, e spesso compulsivamente, è “stringersi nelle spalle”. I polpettoni di Dan Brown, per esempio (ma anche i romanzi di autori più letterariamente educati), ne sono zeppi, si direbbe un tic nervoso che inspiegabilmente affligge non uno solo ma tutti i personaggi, e che nei relativi dialoghi si alterna con l’altra non meno compulsiva reazione passepartout espressa dal verbo “annuire” (tutto un annuire e stringersi nelle spalle, qualcuno faccia qualcosa…). E qui è inevitabile parlare in prima persona, perché, confesso con un po’ di immotivato imbarazzo, fino a non molto tempo fa ho vissuto (ho letto) senza capire bene come dovessi rappresentarmi questo gesto.

Pensavo a due persone che si stringono, Humphrey Bogart e Ingrid Bergman in una scena di Casablanca, Il bacio di Hayez: le braccia di lui o di lei che avvolgono le spalle e il dorso dell’altro/a, i due corpi che si avvicinano, diventano quasi una cosa sola, come nel mito platonico degli androgini. È così che una persona stringe un’altra, che due persone si stringono a vicenda. Mancando uno dei due, un individuo che stringe sé stesso nelle spalle me lo vedevo come qualcuno che incrocia le braccia sul petto e porta la mano destra sulla spalla sinistra e la mano sinistra sulla spalla destra e poi stringe, con espressione tra il perplesso e il raggelato. Più o meno il senso del gesto era quello giusto, ma non era quello il gesto.

Inattesa, folgorante come una lampadina che di colpo si accende nel buio, un giorno compresi: molto semplicemente, questo stringimento altro non era che “fare spallucce”, alzare, sollevare, scrollare le spalle. Non bastava scrivere così? Queste espressioni sostanzialmente descrittive non lasciano dubbi. E infatti così il gesto viene spiegato dai vocabolari, per esempio lo Zingarelli: «Sollevare le spalle in segno di disinteresse, impotenza, indecisione e sim.». Qualcosa che evoca piuttosto l’immagine dell’infossarsi, dell’incassarsi del collo nel petto. In questa operazione un certo stringimento c’è, in effetti, perché le due spalle si avvicinano, ma allora sarebbe più aderente alla realtà dire “stringere le spalle”.

Perché allora nella mimica narrativa ci si stringe nelle spalle? Ho il sospetto che tutto nasca dalle traduzioni, in particolare dall’inglese (il francese ha un tranquillo, trasparente “hausser les épaules”). Per rendere questo gesto l’inglese utilizza un verbo semplice e secco: “to shrug”. Non esistendo in italiano un verbo altrettanto semplice e secco, forse qualche traduttore ha avuto la bella pensata di… “stringersi nelle spalle”. Poi l’esempio, come tutti i cattivi esempi, ha trovato un numero crescente di imitatori, e dai traduttori è passato agli autori, e inevitabilmente è stato registrato dai dizionari, è così il cliché si è consolidato: beninteso, nelle convenzioni della lingua scritta, non in quella parlata.

Ha invece una più perspicua trascrivibilità verbale un altro gesto tipicamente italiano e più in generale dell’Europa romanza, quello reso immortale da Alberto Sordi nel film I vitelloni, noto come “gesto dell’ombrello”: anche in questo caso l’immagine non è del tutto precisa – perché è a seconda di dove il braccio piegato ad angolo retto viene colpito dall’altra mano (nell’interno del gomito, più in alto, più in basso nell’avambraccio) che si può localizzare o no il punto in cui si porta(va) l’ombrello (ora quanti vanno ancora in giro con il manico appeso lì, anziché con un pratico pieghevole tenuto in una tasca o al polso con il suo cordino?) – e così ci potrà essere qualcuno che non capisce (l’espressione, non il gesto), però in linea di massima ci siamo.

Mentre nessun problema pone l’omologo meno plateale ma non meno offensivo di questo gesto, la cui espressione verbale essenzialmente rispecchia l’azione: alzare, mostrare il dito medio, che al contrario di quanto molti credono non ha un’origine angloamericana ma negli States pare sia arrivato alla fine dell’Ottocento sulle navi degli immigrati italiani: è quanto insegna Desmond Morris, che lo qualifica come uno dei più antichi gesti d’insulto. Palese allusione al fallo, con le altre quattro dita a indicare i testicoli, era familiare ai greci come katápygon (le commedie di Aristofane ne sono piene) e ai latini come digitus impudicus (ma Tacito riferisce che lo ostentassero anche i Germani di fronte all’avanzata delle legioni romane).

Se oltre al medio alziamo anche le altre quattro dita, poi leviamo in alto il braccio con il palmo della mano rivolto verso l’esterno e con questo andiamo a incocciare in un’altra mano ugualmente atteggiata, avremo il plastico gesto che oggi va tanto di moda, diffuso a partire dai campi di baseball americani negli anni Settanta in segno di incoraggiamento e congratulazione (ma secondo alcuni nato mezzo secolo prima nel mondo del jazz) e rilanciato in Italia verso la fine dei paninari anni Ottanta da un celebre inno generazionale di Jovanotti (quello degli esordi, non l’immaginifico versificatore che sarebbe diventato). “Gimme five”, versione contratta di “Give me five”, o anche “High five”, da noi resi con gli stomachevoli “Dammi il cinque!” o “Batti il cinque!”.

“Il cinque” per “la mano”, che idiozia. Allora potremmo dire “Devi imparare a lavarti il venti!” (la mamma al figlio piccolo ignaro dell’igiene dentale) o “Lavati ’sto trentadue!” (la stessa mamma al figlio ora adolescente che continua a non farsene una ragione), ma anche “Apri bene il due” per intendere le orecchie, “Soffiati l’uno” (il naso che ti cola, imbecille!). “Batti il cinque”: seee, sulla faccia te lo batterei. Anzi, già che ci sono ti batterò un bel dieci.

La carica dei 101 errori. La piaga esterofila dei pet store e altri forestierismi poco wow. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 4 Luglio 2022.

Nell’Italia delle aberrazioni linguistiche continuiamo a usare dosi di parole straniere decontestualizzate. Ma perché sostituiamo con il corrispettivo inglese (o francese) vocaboli radicati nel nostro lessico e dal significato ben definito, quasi banali, d’uso comune? 

“Pet store, pet stories” è lo slogan di una catena di negozi per animali domestici. No, non siamo in America o nel Regno Unito, siamo nell’Italia delle aberrazioni linguistiche. Concludere un messaggio pubblicitario con una – perlopiù incomprensibile, generalmente cretina – formuletta in una lingua straniera (francese nel caso di un profumo o di un cosmetico, occasionalmente tedesca nel caso di un marchio automobilistico, inglese negli altri casi) può avere un senso quando si tratta di un prodotto di lusso o di apprezzabile contenuto tecnologico e comunque destinato al mercato internazionale, perché appunto dà un’idea di internazionalità. Ma quando si tratta di cani e gatti…

Il problema però non è soltanto dei pet stores, e non è limitato ai messaggi pubblicitari. In ogni angolo della Penisola-e-isole-comprese, là dove c’erano negozi, negozi di catena, negozi all’ingrosso, magazzini, o al limite punti vendita, ora ci sono stores. Dove c’erano animali domestici ora ci sono pets, e dove c’era cibo per animali domestici ora c’è il pet food. La cosa preoccupante è che questo food (beninteso, il significante) non è solo riservato ai pets, ma anche e soprattutto agli esseri umani: c’è lo street food, il finger food, più in generale c’è un’intera economia (e a dirla tutta un delirio collettivo, come spesso si riscontra nelle epoche di decadenza: si pensi alla crapula del basso impero romano) che gravita intorno al food, anziché intorno al cibo, alla nutrizione, all’alimentazione, alla ristorazione. E sempre inesorabilmente al food (oltre che al wine), anziché alla cucina, alla culinaria o alla gastronomia (e all’enologia), sono consacrati libri, riviste, trasmissioni televisive, podcast, siti internet. Può darsi che in questa parola si avverta una potenzialità inclusiva atta a ricomprendere le diverse categorie della medesima area semantica; ma a ben vedere la stessa ampiezza di contenuti è insita nella corrispondente parola italiana: perché non usare “cibo” al posto di quel petulante monosillabo inglese a cui basterebbe cambiare la d in t per assestare metaforicamente il meritato contrappasso a chi si riempie la bocca di food?

Non è il caso, ovviamente, di rispolverare l’autarchia linguistica del Ventennio, che ha regalato perle come “sciampagna” per champagne (oggi sciampagna sopravvive unicamente nel nome di una linea di prodotti per l’igiene personale e della casa) o “mescita” per bar, “arzente” per cognac e (no, qui è da sbellicarsi) “bevanda arlecchina” per cocktail; per non dire dei toponimi italianizzati, uno per tutti Courmayeur (in)dimenticabilmente trasformato in Cormaiore. Le lingue da sempre si contaminano e si arricchiscono a vicenda, alcuni vocaboli transitano tali e quali dall’una all’altra, altri col tempo si adattano alla morfologia e alla pronuncia locali. 

In passato è stato soprattutto il francese a alimentare il nostro lessico: parole o espressioni come boutique, atelier, gilet, manicure e pedicure, chignon, collant, gaffe, vol-au-vent, moquette, carillon, prêt-à-porter, chic, biberon, aplomb, routine, roulotte, tournée, mèche, bricolage, peluche, gourmet sono ormai sentite come nostre, qualche volta alternandosi con vocaboli italiani dello stesso significato, più spesso integrando la mancanza di una traduzione adeguata. Oggi, in un mondo dominato dalla cultura anglosassone, è in gran parte la lingua inglese a riversarsi nella nostra. Nessuno saprebbe rinunciare a parole come weekend, teenager, privacy, marketing, merchandising, leader, boss, escalation, record, stress, sexy, test, scoop, design, comfort, in qualche caso non ne avvertiamo neppure l’origine straniera: coniate o entrate in circolo in diversi contesti linguistici, figlie di un’altra cultura, altre abitudini e stili di vita, posseggono una pregnanza non riproducibile nell’italiano.

Hanno invece un preciso corrispondente nel nostro vocabolario, dove però sono stati accolti con un’accezione particolare non esprimibile dalla semplice traduzione, altri termini inglesi come pride, che vuol dire orgoglio ma scritto con l’iniziale maiuscola indica l’annuale parata dell’orgoglio Lgbtqia+; fake che in quanto aggettivo significa falso ma in quanto sostantivo è internazionalmente riconosciuto, in particolare nel web, come notizia inventata o profilo contraffatto; audience con cui si intende il pubblico ma nell’uso corrente italiano è specificamente l’insieme degli spettatori o degli ascoltatori di una rete o di un programma radiotelevisivo; benefit che è genericamente traducibile come beneficio ma nel “bel paese dove il sì suona” indica più specificamente quelle indennità in natura che si aggiungono alla retribuzione ordinaria. E, citando alla rinfusa, fanno parte del nostro lessico quotidiano gangster, staff, shopping, selfie, intelligence, mainstream, outlet, part-time, partner, fitness, performance e performer, suspense, brainstorming, per cui non è necessaria né consigliabile una traduzione.

Così come non lo è quando si ha che fare con il lessico tecnico dell’informatica e dei social, a partire da computer (a meno di voler emulare lo sciovinismo linguistico dei francesi, che l’hanno fatto diventare ordinateur), per proseguire con mouse, online, login, logout, default, upgrade, wireless, provider, user ecc. Alcuni termini sono alla base di neologismi italiani un po’ raffazzonati: scanner ha originato diverse forme verbali, da “scannerare” a “scannerizzare” al più elegante “scansionare”, fino al granguignolesco “scannare”, da download e upload sono derivati i terribili verbi “downloadare” e “uploadare”, da link “linkare”, da reset “resettare”, da format “formattare”, da chat “chattare”, da like (orrore!) “likeare” e (doppio orrore!) “laicare”, mentre fare login ha trovato un sinonimo in “logare” (o “loggare”) e escludere un utente della rete da una chat o da un forum (to ban) ha dato luogo a “bannare”. Alcuni anglicismi sopravvivono nella terminologia del calcio, com’è naturale dato che questo gioco è arrivato a fine Ottocento da Oltremanica, convivendo con i corrispettivi italiani: football, match, goal (italianizzato in gol), corner, supporter, fan, offside, stopper (rimasto tale e quale), pressing (idem). Mentre sono scomparse parole in auge agli albori, come goalkeeper (portiere), center forward (centravanti), referee (arbitro), oltre al francese pelouse (letteralmente prato, ossia il campo da gioco).

Tutto questo excursus per dire che va bene immettere vivificanti dosi di forestierismi nella nostra lingua – come del resto in ogni lingua – quando corrispondono a elementi situazionali in origine estranei all’italico contesto. Ma perché sostituire con il corrispettivo inglese vocaboli radicati nel lessico italiano e dal significato ben definito – vocaboli normali, quasi banali, d’uso comune in tutto il mondo? Store, food, pet, ma anche green, cash, news, cult, wellness, outfit, workshop, location, device, global warming, underwear – e si potrebbe proseguire. Per non parlare dell’incontinenza politico-istituzionale che ha moltiplicato espressioni quali question time, cashback, stepchild adoption, revenge porn, caregiver, da cui lo stesso presidente del Consiglio Mario Draghi, notorio poliglotta, si è cautamente dissociato (cfr. Ugo Cardinale, Storie di parole nuove. Neologie e neologismi nell’Italia che cambia, il Mulino 2021, p. 38).

Ma dove l’omologazione ai modelli angloamericani si rivela disarmante è nell’adozione delle voci onomatopeiche orecchiate da film e serie televisive: chi mai avrebbe esclamato uàu prima di Happy days e produzioni consorelle? Come (forse non) tutti sanno, uàu è la pronuncia di wow, una onomatopea familiare ai lettori di fumetti. Allo stesso modo di molte altre, pappagallate con effetti tra l’imbarazzante e il grottesco: il mumble che compare spesso nella nuvoletta sopra la testa dello zio Paperone quando gira in tondo scavando un piccolo fossato indica il rimuginare e si pronuncia (non potendo ricorrere all’alfabeto fonetico ci accontenteremo di un’approssimazione) “mambl”; gulp è la forma grafica per rendere il suono emesso quando si deglutisce, in questo caso per la meraviglia, e si pronuncia “galp”; slurp (slöp) è il rumore prodotto quando si mangia qualcosa con gusto; grunt (“grant”), propriamente grugnito, esprime rabbia delusa; argh (“aa”, “a[r]g”) dà l’idea del disappunto e del dolore; gasp (“gasp”, “gæsp”) quella del boccheggiare per l’affanno o lo stupore; sigh (“saih”) è un sospiro lacrimoso; sob (“sab” o anche “sob”) un sospiro di dispiacere; smack (“smäk”) lo schiocco del bacio. 

Si tratta di interiezioni che suggeriscono acusticamente determinate azioni o reazioni emotive, e hanno un senso nel sistema fonologico angloamericano. Ma nel nostro? Nondimeno fioriscono – qualche volta con ironia, in genere con enfasi, comunque rigorosamente pronunciate come si scrivono, quindi perdendo il loro originario valore acustico-mimetico – sulle labbra garrule dei connazionali che amano autorappresentarsi come personaggi di una vita spericolata “stars and strips”. Per fortuna, tra le onomatopee nostrane, resistono (per ora) le insopprimibilmente spontanee ahi e ahia: verrà il giorno in cui battendo contro uno spigolo proromperemo in sonori auch e ouch?

Conformismo imitativo. L’insopportabile supportare e il dimenticato sostenere. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 27 Giugno 2022

I verbi aiutare, appoggiare, soccorrere, spalleggiare e coadiuvare sono stati cannibalizzati dal termine composto da sub e porto. Non si tratta di una scelta voluta dagli italiani, ma solo una pigra coazione a ripetere

“Non ti sopporto più, davvero” cantava un po’ di anni fa Zucchero Fornaciari. “Non ti supporto più” verrebbe da parafrasare oggi. Ormai tutti supportano qualcosa o qualcuno (e corrispondentemente tutti richiedono, auspicano o reclamano un supporto). Non è l’inattesa reviviscenza di eclissati sentimenti solidali, è l’effetto del conformismo imitativo che diventa coazione linguistica a ripetere. Ci sono le associazioni, le fondazioni, i soggetti pubblici e privati che supportano la ricerca scientifica, il restauro dei monumenti, gli interventi a tutela dell’ambiente e le più diverse iniziative sociali e culturali; gli insegnanti che supportano l’azione educativa dei genitori e i genitori che supportano quella didattica degli insegnanti; i calciatori e gli sportivi in genere che in vista di un impegno importante invocano il supporto del pubblico, e così via. Manca poco che in una situazione di improvvisa difficoltà – brutalmente scippati nella pubblica via da un lestofante che tenta la fuga, rimasti senza benzina in autostrada, caduti dal pedalò non sapendo nuotare – anziché “Aiuto, aiuto!”, o più aulicamente “Soccorso!”, ci si metta a strepitare “Supporto, supporto!”.

Supportare è un verbo cannibale: sta cannibalizzando un’area semantica in origine ricca di vocaboli e conseguentemente di sfumature (aiutare, sostenere, appoggiare, soccorrere, spalleggiare, coadiuvare, per non citare che i sinonimi più vicini al significato base). Ha un suono – e sembra dare un senso – più professionale e sistematico di “aiutare” (che sa tanto di buona volontà occasionale), più efficiente e organizzato di “sostenere”, più risoluto di “appoggiare”, meno emergenziale di “soccorrere”, meno ambiguo di “spalleggiare”, meno blando di “coadiuvare”. E per di più, sorprendentemente, sembra recuperare l’antica forma latina. Ma le cose non stanno precisamente così.

Composto da sub e porto, il latino supporto sta per “porto stando sotto”, “porto, reggo su di me”, in altri termini “sostengo” (subtineo, da su[b]s + teneo: “tengo sollevato qualcosa sostenendone il peso”, “sorreggo”). Nella lingua italiana questo verbo è però passato con una quasi impercettibile variazione, con la sostituzione della vocale o al posto della u, mantenendo in casi limitati il valore proprio della forma latina (“le colonne sopportano il peso degli elementi architettonici che le sovrastano”, “questo piano non può sopportare un carico superiore a tot tonnellate”), ma assumendo quale significato preponderante quello figurato, già del latino cristiano: ossia (citiamo dal vocabolario Treccani) “a) Patire, soffrire: sopportare un grande dolore; sopportare una sventura; per estensione, e più comunemente, soffrire con fortezza d’animo, subire con coraggio e rassegnazione: i primi cristiani dovettero sopportare la persecuzione. b) Adattarsi con facilità a situazioni, condizioni e fatti non favorevoli o fastidiosi; tollerare senza grande sacrificio o sforzo: sopportare o non sopportare il caldo, il freddo; sopportare bene o male il dolore fisico”. Ed è notevole come anche l’altro verbo latino con lo stesso significato di supporto, ossia suffero – da sub + fero – sia traghettato nell’italiano moderno essenzialmente con un senso figurato, quello di “soffrire”. 

Mentre però la sofferenza inclusa nel nostro verbo “soffrire” non accenna a attutirsi, dopo secoli durante i quali si è dovuto sopportare (sofferenze, persecuzioni, discriminazioni, calamità, torti e fastidi di ogni sorta) ora si torna a supportare. Ma, questo è il “bello”, ci si torna non rapportandosi direttamente alla primigenia forma latina, e non recuperandone il significato di base, bensì attraverso il verbo francese supporter e l’inglese to support, che uniscono al senso proprio quello figurato di “aiutare” e connesse varianti. Trascinando in questo modo il sostantivo supporto (dal francese support) che all’accezione primaria di “elemento di sostegno, struttura o dispositivo che ha la funzione di sostenere un oggetto, un apparato, un elemento o un complesso di elementi”, quale è definita dal vocabolario Treccani, affianca in posizione ormai non più secondaria l’accezione che il medesimo lessico dà come più generica e “non comune”, ossia quella di “aiuto, appoggio, sostegno”. Generica sì, ma in effetti fin troppo comune. 

“Ma come faccio a dirtelo”, si interrogava Zucchero nel seguito della sua esasperata lagnanza canora, “devo buttarmi dal quinto piano?”. Ecco, non è il caso di arrivare a tanto: dal quinto piano o dal quarto o anche dal pianterreno buttiamo piuttosto, qualche volta, l’insopportabile supportare.

SOFIA BELLOCCO per webboh.it il 30 luglio 2022.

Conosciamo tutti Elisa Esposito, la prof del corsivœö. Intorno a lei si sono create un sacco di polemiche per via della sua partecipazione ad un programma televisivo e sul modo considerato fastidioso di dare delle finte lezioni di corsivo su TikTok. Paradossalmente, però, è proprio la “professoressa” ad avere dimostrato di avere una grave lacuna culturale. Premessa: la ragazza, nata nel 2002, non è davvero un’insegnante, ma è curioso ciò che stiamo per raccontarvi.

Elisa è stata invitata recentemente ad una puntata di RDS Next, con Andrea Fratino ed Anna Ciati. Ad un certo punto Fratino ha chiesto alla finta prof di leggere alcuni versi in corsivo della Divina Commedia. Erano delle frasi che dovrebbero risuonare familiari a chiunque abbia sostenuto almeno l’esame di terza media: “Nel mezzo del cammin di nostra vita…”.

Elisa Esposito non sa chi è Dante? Esplode la polemica!

A questo punto Andrea le ha chiesto: “Sai chi è questo?”. Sembrava una domanda retorica. Lei, però, ha risposto: “No, prima che dico cavolate, boh, non ne ho idea”. Elisa Esposito non conosce Dante Alighieri, quindi? Magari ha avuto solo un momento in cui, per l’emozione, le è sfuggita la citazione… Può capitare! Nei commenti c’è chi ironizza: “Va be’ ci sta dai, in fondo Dante è il padre della lingua Italiana, non del corsivœö“.

Ma c’è anche chi, come il creator Riccardo Gori (conosciuto anche come Ghost Rich) non l’ha presa bene. Sarà perchè è di Pistoia, pieno di orgoglio toscano per il suo conterraneo Dante, ma si è espresso tramite Instagram Stories molto duramente. Se l’è presa, più che altro, con chi invita la Esposito nei vari programmi, definendola una prof che insegna senza sapere nemmeno chi sia Dante: “Il problema non è lei ma chi l’ha invitata. Il problema è chi ha invitato in televisione che ‘insegna’ e manco sa chi è Dante“. 

Elisa Esposito risponde alla polemica!

Il video è diventato virale e ha fatto il giro del web. Così Elisa ha deciso di intervenire per dire la sua sulla polemica del giorno: “Comunque state facendo un dramma sulla Divina Commedia quando il 90% degli italiani non sa manco fare due per due. Basta seguire la massa, che fate ridere. Non lo sapevate manco voi“.

Mattino Cinque, la prof del corsivo Elisa Esposito divide gli ospiti: "Ridiamoci ma l'italiano è una cosa seria".

Il Tempo l'01 luglio 2022

Un “corsivo” irrompe nella nostra quotidianità. Non quello ben scritto, della nostra bella lingua italiana, ma il corsivo inventato da Elisa Esposito, 19enne le cui lezioni sono diventate virali su TikTok. Di cosa si tratta? Una cantilena in cui vengono estremizzati gli accenti prendendo in giro il tipico modo di parlare delle giovani milanesi. La maestra di corsivo insegna ai suoi followers: lo scorso autunno ha guadagnato 300.000 nuovi seguaci in un mese e mezzo, poi è cresciuta ancora fino a sfiorare quota 800.000.  

"Allora per farci una risata va bene, a maggior ragione se si tratta di una sorta di un’imitazione scherzosa, ma occhio a dimenticare l’importanza dell’italiano conosciuto e utilizzato bene, come spesso non accade tra chi studia e persino tra chi lavora" spiega il giornalista del Tempo Mario Benedetto in collegamento con la trasmissione Mediaset. "È una lingua che ci ha consegnato capolavori che spesso non conosciamo". Il riferimento è a quanto accaduto proprio alla giovane Elisa in una diretta radio durante la quale è andata in onda la gaffe della 19enne: non ha riconosciuto i primi versi della Divina Commedia, ma è stata comunque simpatica nel dichiarare di essere stata tradita dall’emozione. "Ridiamoci - spiega il giornalista - Ma spingiamo oltre l’emozione l’importanza del conoscere, utilizzar bene, rispettare la nostra lingua e i capolavori che ha prodotto e, speriamo, potrà produrre".

Da ilsussidiario.net l'1 luglio 2022.  

Maurizio Costanzo, conduttore del programma “Facciamo finta che”, trasmissione di R101 che presenta ogni giorno in compagnia di Carlotta Quadri, mentre dialogava insieme al professor Raffaele Morelli, ha affrontato l’argomento legato al parlare in corsivo, moda social letteralmente esplosa nelle ultime settimane per effetto di una serie di video realizzati dalla giovane Elisa Esposito. Un nuovo modo di esprimersi che può essere inteso in modo scherzoso, ma che non ha mancato di suscitare polemiche e far fiorire addirittura insulti non troppo ripetibili nei confronti dell’autrice dei filmati.

Maurizio Costanzo si è totalmente schierato dalla parte di quest’ultima: “Questa ragazzina che parla in corsivo io l’ho vista in tv, mi ha molto divertito e preferisco vedere lei che parla in corsivo che un ragioniere che parla normale. Viva la faccia di quella ragazzina che parlando in corsivo mi ha regalato una diversità, una sgrammaticatura. C’è bisogno di sgrammaticature, sennò moriamo nella noia del normale”. 

Nel prosieguo del suo intervento mattutino su R101, le dichiarazioni di Maurizio Costanzo hanno incontrato il parere positivo del professor Raffaele Morelli: “Questo che dice Maurizio è un pensiero fondamentale. La normalità è amica dell’aridità, mentre il vero antidoto è la creatività. I giovani vengono al mondo per un solo motivo: cambiarlo”. 

Insomma, ben venga il corsivo di Elisa Esposito e l’uscita sporadica dai canoni del conformismo: un po’ di leggerezza fa bene allo spirito. Tanto che, in conclusione del suo ragionamento, Maurizio Costanzo ha lanciato una sorta di appello-provocazione al premier Mario Draghi: “Ma pensa che bello se Draghi facesse un discorso in corsivo come quella ragazzina. Presidente Draghi, se dia ‘na mossa, faccia così!”.

Paolo Di Paolo per “la Repubblica” il 26 giugno 2022.

Se nel 1992 avessi detto «usa il corsivo», l'interlocutore avrebbe colto un'indicazione calligrafica. Vale a dire: non in stampatello. Vi suona? Se nel 2002 avessi detto «usa il corsivo», l'interlocutore avrebbe attivato la corretta formattazione nel documento del programma di videoscrittura. Se nel 2012 avessi detto a un giornalista esordiente «Mi scrivi un corsivo?», mi avrebbe guardato un po' interdetto. Eppure, nei fatti, ciò che io stesso sto scrivendo in questo momento è un pezzo a metà fra cronaca e "corsivo". In un gergo professionale un po' appannato, si tratta del commento polemico-ironico. 

Nell'estate del 2022, usare il corsivo significa, intanto, parlare. E già questo è un primo punto. Parlare in corsivo! Aldo Manuzio, il tipografo quattrocentesco a cui si deve l'invenzione del carattere tipografico in questione, sarebbe più interdetto del giornalista esordiente appena evocato. Vogliamo dire che si tratta di un "fenomeno", di una tendenza esplosa in questi giorni tra i giovanissimi? Sarebbe sopravvalutarla. 

E tuttavia, è indubbio che in quella specie di centrifuga di tranche de vie che è TikTok, il social degli under 25 (frequentato da goffissimi over), il "parlare in corsivo" è diventato una moda, un gioco collettivo, una provocazione ridanciana. Senza un esempio sonoro, è difficile descrivere il corsivo parlato: si tratta di storpiare e allungare, nasalizzandole un po', le vocali. Con una inflessione settentrionale, più specificamente milanese, di un milanese calcato e lagnoso. L'influencer Elisa Esposito ha realizzato un tutorial per principianti, con tanto di indicazione ortofonica. 

La parola "alunna", per dire, andrebbe pronunciata "alünnæ", con un tono di cantilena.

Il "corsivoe", generando meme, lezioncine surreali e altrettanto surreali messe in pratica, si offre come transitorio carburante della macchina del lazzo social, dove la parodia della parodia fa guadagnare punti.

C'è da stupirsi? No. E nemmeno da indignarsi, con quel tono insopportabile degli attempati che - magari con un post Facebook (social per over 30) - danno lezioni di etichetta e nerbo ai ragazzini. Alle cui orecchie, se Dio vuole, non arrivano - impegnati come sono a estendere il "corsivoe" al ridere, al piangere, al ruttare (non sto inventando). Al pari di molti opinionisti accigliati, gli iscritti al gruppo Facebook legato alla trasmissione radiofonica sulla lingua italiana che conduco, La lingua batte , manifestano la loro indignazione.  

Ma la verità è che il moralismo porta fuori strada, oltre a essere noioso. Nessuno obbliga o obbligherà nessuno a parlare in corsivoe; la pronuncia demenziale - state rilassati, adulti - non sarà diffusa fuori dai confini del Regno dell'Inesauribile Cazzeggio cui spesso partecipate, partecipiamo; o, per meglio dire, il regno dell'Infinite Jest (in corsivo!) - lo scherzo infinito che dà il titolo a un epocale romanzo di David Foster Wallace (1996) sulla coazione a essere perennemente intrattenuti. 

Trovo patetici tanto i quarantenni che si mettono a giocare con la nuova moda, quanto i cinquantenni che la esecrano. Non avete niente di meglio da fare? L'unica minima verità che il corsivoe ci consegna è che una innocente, quanto insensata, trovata adolescenziale non resta confinata fra le pareti di un'aula scolastica (ma vi ricordate quanto si poteva essere stupidi, fra i banchi? Nessuna generazione esclusa). Filtra nella rete, e lì si amplifica, diventando contagiosa e destando curiosità adulte, comprese quelle giornalistiche che motivano la pagina che avete sotto gli occhi.  

È un po' come se papà e mamma si mettessero a origliare discorsi e buffonerie da comitiva giovane. Che dovrebbero fare? Alzare le spalle, e tenersi alla larga. Di pseudo-gerghi, di idioletti, di lingue ludiche, di alfabeti farfallini è fitta la storia linguistica di ogni adolescenza. Poi si cresce, e la vita - come le lettere del commercialista, come questo articolo - torna scritta in tondo.

Cosa significa "parlare in corsivo" e perché tutti ne parlano. Giuditta Mosca il 24 Giugno 2022 su Il Giornale.

Torna attuale il corsivo orale, un modo di parlare non nuovo ma rilanciato sui social dalla giovane Elisa Esposito.

Spopola soprattutto su TikTok ma se ne trovano ampie testimonianze su qualsiasi rete sociale. Il corsivo orale è un modo di parlare che enfatizza le vocali e restituisce una pronuncia non convenzionale delle parole.

Il “parlare in cörsivœ” non è cosa nuova ma è stato ripreso e rielaborato da Elisa Esposito che, su TikTok, ha superato la soglia dei 700mila fan.

La compostezza diventa comica

Elisa Esposito, nell’impartire lezioni di cörsivœ, emula uno snobismo che è una parodia. Un tono sussiegoso che fa parte del personaggio e non prerequisito necessario per chi vuole aderire al movimento linguistico di cui Esposito si dice “prœf”, ossia professoressa.

Il linguaggio verbale così storpiato fa coppia con il linguaggio non verbale sostenuto e altezzoso e il risultato è una caricatura.

Le interpretazioni di Esposito sono uscite dal web e sono diventate oggetto di interesse anche offline. Su La7 è stata ospite della trasmissione Propaganda Live e molti suoi coetanei, basta prestare orecchio quando si cammina per strada, si divertono diffondendo le sonorità atipiche del cörsivœ.

Ancora prima che Elisa Esposito proponesse la propria interpretazione, un’altra giovane offriva una rivisitazione di questo curioso modo di esprimersi. Chaimaa Cherbal, con una verve ironica, lo aveva usato in alcuni dei suoi video.

Questo particolare modo di parlare che prolunga le vocali e storpia le parole, richiama la fonetica delle Valley Girl, lo stereotipo delle figlie delle famiglie facoltose della California, con la loro pronuncia elitaria che è stata oggetto di attenzione già negli anni Ottanta per assumere tonalità cult nel decennio seguente, quindi ancora nel secolo scorso.

Niente di nuovo

Lo snobismo, anche quello che non suscita ilarità, è un cliché usato in letteratura, in tv e al cinema. Le interpretazioni sono tante e si perdono nel tempo, difficile quindi riuscire a stabilire di chi sia l’idea del cörsivœ e a chi si ispira.

Come spesso avviene sul web, laddove non ci siano leggi sulla proprietà intellettuale da rispettare, un’idea è di tutti e spesso è persino inutile identificarne le origini. Quello che conta probabilmente è chi riesce a usarle meglio.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2022.  

Se esiste un momento preciso in cui si diventa vecchi, per me quel momento è arrivato ieri, quando un amico - appena invecchiato anche lui - mi ha confessato che i suoi figli avevano cominciato a parlare in corsivo. «Vorrai dire a scrivere in corsivo», ho manifestato il mio stupore: la scrittura in corsivo era una pratica in voga tra le popolazioni mano-scriventi del passato, ma ormai sopravvive solo nelle ricette dei dottori. «No, questi parlano in corsivo. Anzi, in coorsivoo...». 

«Ti senti bene?». Per tutta risposta mi ha girato un video di TikTok con già 2 milioni di visualizzazioni in cui una ragazza di nome Elisa Esposito insegna a strascicare le vocali allungando le parole come se avessero un'anima di gomma. La lezione di corsivo era nata per fare il verso alla cantilena delle milanesi snob, ma come spesso capita alle trovate ironiche è stata presa sul serio e si è diffusa tra gli adolescenti alla velocità con cui noi vecchi tromboni vorremmo che studiassero Leopardi, anzi Leeoopaardiie. 

Più che la cadenza milanese, il corsivo parlato ricorda quella cinese, con possibili ripercussioni sulla politica estera (proprio adesso che Di Maio aveva imparato l’inglese e persino l’italiano). Senza contare che spazza via le stucchevoli diatribe sul linguaggio di genere: si dice «cari tutti» o «car* tutt*»? Nessuno dei due, ma «caariie tuuttiie». Qualche anziano mio pari non capirà, qualcuno si indignerà, qualcun altro si deprimerà. Molti spereranno si tratti di una moda. Nel dubbio, io alzo le mani e mi aarreendoo. 

«Parlare in corsivo», cos’è la nuova tendenza social che spopola su TikTok. Alessandro Vinci per corriere.it il 23 giugno 2022.  

Le lingue sono organismi vivi. Si evolvono con il tempo, mutano insieme alle società che le utilizzano. In epoca digitale non può dunque stupire che un nuovo modo di pronunciare le parole si stia rapidamente facendo strada sui social, di condivisione in condivisione, specie tra i giovanissimi utenti di TikTok. 

«Parlare in corsivo»: questo il nome della tendenza del momento sulla piattaforma, diventata virale specialmente grazie a una «video-lezione» condivisa venerdì 3 giugno da Elisa Esposito, influencer da circa 700 mila follower, che ha fin qui accumulato oltre 2 milioni di visualizzazioni.

Come si può vedere, nel filmato la creator invita i suoi seguaci a ripetere le parole «amo» (abbreviazione di «amore»), «verifica» e «alunna», per l’occasione rese graficamente con «amiœee», «vërificæ» e «alünnæ». Si apprende così che parlare in corsivo consiste essenzialmente nell’allungare, storpiare, strascinare, e mescolare le vocali in modo da creare un effetto cantilenante che contraddistinguerebbe la cadenza di molte ragazze della borghesia milanese. 

Al di là della palese generalizzazione, va effettivamente precisato che tale parlata non è affatto un'«invenzione» di Esposito. Come in molti hanno fatto notare, infatti, la si è per esempio ascoltata nel corso dell'ultima edizione del reality Il Collegio, i cui protagonisti sono tutti adolescenti.

Va da sé che a contribuire al boom del parlare in corsivo sono stati gli innumerevoli video con i quali nei giorni scorsi centinaia di utenti hanno ironicamente espresso la loro «indignazione» nei confronti di questo innaturale modo di scandire le sillabe. Altri, parallelamente, hanno sottolineato come le origini del fenomeno siano da ricondurre all'ambito musicale.

In questo senso, gli artisti avvezzi ad alterare la normale pronuncia delle vocali non mancano, tra quelli più amati dalla Generazione Z: da Blanco a Tha Supreme, da Rkomi a Madame, fino a Sangiovanni (che peraltro aveva trattato l'argomento in tempi non sospetti con Fedez e Luis Sal in Muschio Selvaggio). Ma il brano più «in corsivo» di tutti, secondo alcuni, sarebbe «Spigoli» dello youtuber Peter Ace – non a caso milanese d'adozione –, utilizzato su TikTok in oltre 37 mila clip.

Lungi dal trattarsi di un'effimera moda social il parlare in corsivo è dunque una realtà già consolidata, in particolare nel capoluogo meneghino, e la visibilità che sta ottenendo in questi giorni non può che contribuire a una sua ulteriore diffusione. Con buona pace dei puristi della dizione, oggi l'italiano si rinnova anche così.

"Parlare in corsivo": fenomeno Elisa Esposito su TikTok. "Ma gli adulti non capiscono e mi insultano”. Emanuele Capone su La Repubblica il 23 Giugno 2022.  

Abbiamo incontrato la 19enne che ha costruito il suo personaggio su un modo di parlare snob e un po’ fastidioso: online c’è chi le ha augurato di morire.

Non è stato un fulmine a ciel sereno, perché una che ha quasi 800mila follower su TikTok è certamente abituata alle reazioni spesso esagerate dei social network. E però, un po’ sorpresa lo è stata, la giovane Elisa Esposito, dall’attenzione e dall’indignazione sollevate da un suo video di inizio giugno in cui spiegava come parlare in corsivo. Sì: proprio parlare, non abbiamo sbagliato a scrivere.

Più sotto spieghiamo cos’è il corsivo (anzi, il cörsivœ), ma prima diciamo chi è, Elisa. Ha 19 anni, poche ore prima della nostra chiacchierata ha affrontato l’orale della Maturità (“in futuro magari aprirò un centro estetico”, ci ha detto), vive a Milano e a fine 2020 ha aperto un profilo su TikTok di notevole successo: come detto, quasi 800mila follower e oltre 27 milioni di like, completati da quasi 270mila follower su Instagram. Sul social più amato dai giovanissimi (ma non solo da loro) è nota come La Prof, perché ha un look un po’ da insegnante, con tanto di occhiali, voti e registro, e appunto perché insegna a parlare in corsivo: “Ho iniziato a farlo a ottobre 2021”, ci ha raccontato al telefono. Forse non è stata la prima, ma non importa: senza dubbio, è stata quella che l’ha fatto con più costanza e ottenendo i risultati migliori.

Il corsivo e i boomer senza ironia

Il video qui sopra dovrebbe aiutare a capire che cos’è il cörsivœ (spiegarlo per iscritto non è facile), ma se non fosse chiaro: è un modo di parlare che prevede di tenere le vocali strette ma un po’ trascinate, con un timbro di voce lievemente acuto che in qualche modo prende in giro i milanesi più snob e radical chic, quelli che una volta si chiamavano fighetti.

Sulla Prof di Cörsivœ, Elisa ha costruito il suo personaggio, raccolto consensi, accumulato follower e probabilmente guadagnato parecchi soldi, si appoggia a un’agenzia di talenti, lavora nel settore del cosiddetto influencer marketing ed è anche attiva su Only Fans (cos'è?).Tutto è andato bene sino all’inizio di giugno, quando ha deciso di pubblicare una breve clip pensata specificamente per i duetti: la si sente dire alcune parole in italiano e in cörsivœ e invitare le persone a condividere il video provando a imitarla. Imparando a parlare in cörsivœ, insomma.

Il video ha avuto un enorme successo (oltre due milioni di views, quasi 130mila like, 17mila condivisioni e 6mila commenti), ma anche ha causato molte polemiche, scatenato commenti di insulti, offese e minacce, tanto che un paio di settimane dopo, Elisa ha dovuto pubblicare un video di chiarimento per ribadire che “nella vita non parlo così, è solo una cosa che faccio sui social”.

L’ha dovuto ribadire perché evidentemente tanto ovvio non era, soprattutto agli adulti: “Ho ricevuto tantissimi commenti di critiche, più che altro dalle persone più grandi, qualcuno ha anche pubblicato video in cui mi augurava la morte, raccogliendo tanti consensi - ci ha raccontato - È stato francamente incredibile”. Ma perché adesso? Nel senso: perché a giugno, se questa cosa lei la fa da più o meno 8 mesi? Secondo Elisa, il motivo è la crescita della sua popolarità da fine 2021 in avanti: “Prima non ero così conosciuta, e questa cosa del cörsivœ non era così diffusa - ci ha spiegato al telefono - Lo scorso autunno ho guadagnato 300mila nuovi follower in un mese e mezzo, poi sono cresciuta ancora sino a sfiorare quota 800mila. E questo ha probabilmente portato sulla pagina tanto pubblico che non è il mio pubblico, tante persone che non mi conoscevano”. E che chiaramente non capivano l’ironia di questo modo di parlare.

Cosa che però a lei sembra importare poco: le abbiamo chiesto se questa esperienza l’abbia fatta sentire più triste e preoccupata o più arrabbiata, ma “non ho provato nessuna delle due sensazioni - ci ha risposto dopo qualche secondo di riflessione - Penso che se le persone non hanno capito, è un problema delle persone e non mio. Io vado avanti per la mia strada, e sin che funzionano, continuerò a creare questi contenuti”, senza preoccuparsi troppo degli hater. A creare questi contenuti e a parlare in cörsivœ, con buona pace dei boomer.

Paola Zanuttini per “il Venerdì di Repubblica” il 20 giugno 2022.

Così, per metterci l'animo in pace, puttana è la parolaccia più antica della lingua di Dante e infatti ricorre anche nella Commedia. Ma fa la sua comparsa oltre due secoli prima a Roma (capitale del turpiloquio) nella basilica di San Clemente, inscritta nell'affresco che illustra come il santo sfugge miracolosamente alla cattura dei pagani.

Fili de le pute, traite - «Figli di puttana, tirate» - intima il potente Sisinnio ai servi: sono convinti di aver preso Clemente che, invece, si è smaterializzato e fatto sostituire da una colonna. Pesante da tirare. A parlar di male parole si passa da Dante a Totò, da Leopardi - che ne scriveva molte, nella sua corrispondenza privata - al Belli, ma il tono del linguista Pietro Trifone nel suo Brutte, sporche e cattive. Le parolacce della lingua italiana (Carocci) è rigorosamente scientifico.

Così scientifico che può suscitare una più o meno scurrile esclamazione di sconcerto la sua meticolosa disamina dei 365 lemmi etichettati come "volg.", cioè volgare, dal Grande dizionario dell'uso (Gradit) di Tullio De Mauro, in cui Trifone individua pure una svista: accanto al non proprio elegante temine mignotta il marchio "volg." non appare.

A dimostrare che la libertà d'espressione è aumentata, ma il livello scaduto, sempre dal Gradit risulta che le parole volgari attestate per la prima volta nella lingua italiana tra il 1900 e il 2004 sono circa il 60 per cento del totale, contro il 40 di tutti i secoli precedenti. Sesso ed escrementi la fanno da padroni, mentre le offese di etnia e genere risultano più aggressive. 

In questo comparto, la paura del diverso, dell'estraneo, è all'origine dell'insulto: a Roma il frocio era lo straniero e la locuzione parlà frocio significava esprimersi male in italiano. Da notare un ribasso della bestemmia, che segnala una secolarizzazione soprattutto nelle classi più istruite: se non temi o non credi al tuo dio non hai bisogno di maledirlo.

Notevole anche l'evoluzione metalinguistica di vaffanculo: nel turpiloquio quotidiano, come in un celebre testo, riveduto due volte, di Arbasino, Fratelli d'Italia. Nel 1963 lo riportava con v*ff*nc*l*, nel 1976 in forma piena, e nel 1993 con vaffa. Se v*ff*nc*l* era la sigla della parolaccia, il vaffa ne è la metamorfosi: una post parolaccia privata del suo potere performativo. A proposito di potere performativo, due ineffabili metafore dell'organo sessuale femminile: seportura e mortaio. Neanche il Belli, nell'imprescindibile La madre delle Sante, era giunto tanto in là.

Voce del verbo “ciavere”. Il mistero tutto italiano della popolarità del “c’hai”. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 20 Giugno 2022.

Questa particella così invadente, fastidiosa e in apparenza pleonastica, in realtà ha un senso nella nostra lingua: è il rafforzativo di “qui”. È un effetto efficace nel parlato se accompagnato dall’intonazione e dalla mimica del caso, ma nella scrittura crea parecchi problemi.

La trascrizione del linguaggio orale (e viceversa la pronuncia di quello scritto) è un problema ben noto a chi studia le lingue straniere, e segnatamente l’inglese. Anche quelle che hanno la fortuna di possedere un alfabeto fonematico, ossia un alfabeto in cui c’è corrispondenza tra fonemi (suoni) e relativi grafemi (segni grafici), tuttavia, non sono immuni da eccezioni. In italiano, per esempio, alcuni fonemi sono trascritti con un digramma, ossia facendo ricorso a due grafemi: è il caso di gn (consonante palatale nasale), gl (laterale palatale sonora), sc (fricativa postalveolare sorda) che si pronunciano con un unico suono e non come due distinti in successione; ma anche la c e la g necessitano a volte di un secondo segno grafico, che è h quando il suono ha da essere duro (davanti alle vocali e e i) e i quando il suono è dolce (davanti alle vocali a, o e u). Un po’ complicata da imparare, soprattutto per chi non è italiano, ma è comunque una soluzione.

Un autentico rompicapo, in cui senza riuscire a mettersi d’accordo si sono esercitati linguisti e scrittori, è invece il problema di come trascrivere un suono di cui il parlato informale abusa in connessione con il verbo avere. Siccome, appunto, una soluzione soddisfacente non si è ancora trovata, per far capire di cosa parliamo lo scriviamo qui come si pronuncia: ciò (ciai, cià, ciabbiamo, ciavete, cianno), voce del verbo “ciavere”. Si può “ciavere” fame, sete, sonno, caldo, freddo, male, voglia di, ma anche si può “ciavere” un appuntamento, una casa, dei libri, tanti soldi eccetera. E qualcuno ha scelto di rendere graficamente l’espressione proprio così, di tagliare la testa al toro tagliando al verbo avere la h (conservata, dalla matrice latina habeo, nelle tre persone singolari e nella terza plurale del tempo presente) e scrivendo tutto attaccato, magari indicando l’accento non solo nelle forme tronche ma anche in quelle piane, a segnalarne la particolarità. Un escamotage “sguaiatamente dialettale”, come osserva Sergio Raffaelli sulla rivista La Crusca per voi, n. 36, aprile 2008, “oltre che equivoco, per lo meno nella forma ciò” identica (anche se non equivocabile) al pronome dimostrativo.

Ma che cos’è questa particella ci così invadente, spesso fastidiosa, apparentemente pleonastica? In realtà un suo senso (ce) l’ha: dal punto di vista grammaticale è un avverbio di luogo, dal latino ecce hic, latino tardo hice, e si può considerare un rafforzativo di “qui” (letteralmente “ecco qui”). Questo valore – riscontrabile anche nella forma più antica ce, che si è conservata davanti a lo, la, li, le e ne – è chiaramente avvertibile nelle forme flesse di esserci; molto meno, fin quasi a perdersi, in quelle di altri verbi in cui la particella si può intrufolare, come vederci (“non ci vedo chiaro”), sentirci (“non ci sento”), starci (“ci sono stato male”), trovarcisi (“mi ci trovo bene”). In questi casi, e esemplarmente in averci, l’avverbio ci è di fatto desemantizzato e il suo originario valore locativo trascolora in quella che i linguisti hanno convenuto di chiamare funzione “attualizzante”, in quanto (ancora Raffaelli, ivi) in grado di “estendere alla voce verbale un’intensificazione del senso e del suono” conferendo al costrutto ci + ho una “consonanza emotiva con la situazione comunicativa del momento”: per cui, ad esempio, ci + ho fame “equivale a ’quanto a me, in questa circostanza ho fame’ (avviene un moto in avanti e un ingrandimento che richiamano, per analogia, l’effetto cinematografico e televisivo dello zoom)”.

È un effetto che può essere efficace nel parlato, accompagnato dall’intonazione e dalla mimica del caso, ma che nella scrittura più sorvegliata sarebbe opportuno restringere alle occasionali necessità di riprodurre mimeticamente le espressioni orali. Resta il problema di come trascrivere quello che nella pronuncia non è neppure più una particella, ma un puro suono consonantico affricato (per la precisione: affricato postalveolare sordo).

Meno estreme di quella ricordata più sopra, ma a diverso titolo insostenibili, sono le altre soluzioni proposte. La più largamente utilizzata, c con apostrofo in funzione diacritica, è anche quella foneticamente più sbagliata perché il suono della lettera c seguita dalla h è velare, ossia duro, come pure quando è seguita dalle vocali a, o e u: così che la pronuncia corretta delle (scorrette) forme c’ho, c’hai, c’ha, c’abbiamo eccetera sarebbe co, cài, ca, cabbiàmo.

Lo stesso discorso vale pure per un’altra espressione, entrata nell’uso comune dalla metà degli anni Novanta sull’onda dell’epopea dipietrina: “che c’azzecca?”, variante dialettale centromeridionale (e, occorre riconoscere, anche maggiormente dotata di forza icastica) di “che c’entra”, che sui giornali viene resa appunto così ma a rigore andrebbe letta “che cazzecca”, o meglio ancora, in ossequio alle caratteristiche fonetiche delle regioni da cui l’espressione trae origine, “checcazzecca”, con geminazione consonantica e possibile riprovazione di chi, equivocando, sospettasse intenzioni politicamente scorrette.

Uno scoglio aggirabile se l’alfabeto italiano prevedesse la lettera k per il suono duro, liberando così la c per quello univocamente dolce, di modo che si potrebbe scrivere, per esempio, cokkolato per intendere quel prodotto dolciario tanto prelibato e che tende a dare dipendenza, soprattutto quando la percentuale di cacao si colloca tra il 70 e l’80-90 per cento; ma probabilmente non siamo ancora pronti a tanto, e rischieremmo di scambiare la squisita tavoletta per una stucchevole merendina made in chissà dove a base di cocco e troppo zucchero.

In ogni caso, nel nostro alfabeto la k non c’è, lo scoglio resta lì e tutti i tentativi di aggiramento finiscono inevitabilmente in un naufragio. Molti scrivono ci ho, ci hai eccetera, ma questa soluzione ha l’inconveniente di introdurre una lettera, la i, che nella pronuncia non compare, e presuppone quindi, in chi legge, la consapevolezza di non doverla pronunciare (un po’ come, per esempio, la i di cielo o di ciliegia che si vede ma non si sente; ma in questi casi, non trovandosi in una particella separata ma all’interno della parola, sarebbe piuttosto innaturale pronunciarla). 

Qualcuno allora ha suggerito di scrivere la i tra parentesi – così: c(i) ho, c(i) hai -, in questo modo riproducendo correttamente il parlato, ma con esiti di rallentamento e artificiosità antitetici agli effetti di scioltezza espressiva informale che si vorrebbero ottenere. Né meno artificiosa appare l’introduzione di un suono palatale dolce, rappresentato dalla j, in funzione diacritica dopo la c – cj ho, cj hai – con il rischio, oltretutto, di creare seri dubbi al lettore italiano da oltre un secolo non più avvezzo a quella lettera (che peraltro, quando veniva utilizzata, sia come semplice vocale sia come semiconsonante, era pronunciata come una normale i).

Altre soluzioni, al momento, non sono state reperite, né paiono reperibili, a meno di adottare l’alfabeto fonetico internazionale: il che però porrebbe problemi di lettura anche maggiori, e comunque un periodo di adattamento molto lungo. Siamo realisti (e limitiamo il “ciavere” allo stretto indispensabile): non ciabbiàmo – ci abbiamo, c(i) abbiamo, cj abbiamo – abbastanza tempo.

Quesiti linguistici. Che differenza c’è tra nazionalità e cittadinanza? Risponde la Crusca. Accademia della Crusca su L'Inkiesta il 18 Giugno 2022.

C’è una certa promiscuità di utilizzo sia nel linguaggio comune sia in quello burocratico e persino normativo, se non addirittura una vera e propria confusione. Meglio fare chiarezza

Tratto dall’Accademia della Crusca

Diversi lettori ci chiedono di fare chiarezza sui termini nazionalità e cittadinanza, anche in rapporto all’inglese nationality; uno di loro, in particolare, contesta l’uso di cittadinanza a tradurre nationality nell’articolo 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Un altro lettore ci chiede se cittadinanza possa indicare la somma dei cittadini. Infine una lettrice domanda se cittadinanza di genere può essere usato come “insieme di tutti i diritti civili e sociali caratterizzanti in particolare il genere femminile”.

Risposta

I termini nazionalità e cittadinanza si presentano giuridicamente caratterizzati da una chiara diversità, pur indicando condizioni che per un medesimo soggetto possono coincidere. Si registra una certa promiscuità di utilizzo sia nel linguaggio comune sia in quello burocratico e persino normativo, se non addirittura una vera e propria confusione.

Da un punto di vista linguistico, solo il secondo ha il crisma della tecnicità: è un termine proprio del diritto, che lo definisce e lo configura. Nonostante non sia annoverabile fra quelli presenti nel solo vocabolario del giurista – come ad esempio abigeato, comodato, rescissione, ecc. – il diritto lo riconsegna alla lingua comune col tratto definitorio acquisito nel territorio di origine. Può anche presentare significati ulteriori: si pensi qui al senso lato del termine in espressioni come “ha diritto di cittadinanza, quanto qui sostenuto” o “dare cittadinanza a una parola o costumi stranieri”.

Diversamente la parola nazionalità non è annoverabile neppure fra i cosiddetti vocaboli tecnicizzati, che cioè il diritto utilizza estraendoli dal linguaggio comune per assegnare loro un significato specifico – per esempio prescrizione, comunione, attore, ecc. – ma viene semplicemente importato nel linguaggio giuridico che, pur utilizzandolo, non lo fa proprio ma lo riceve in dote senza connotarlo. Prova ne sia il fatto che le nostre principali enciclopedie giuridiche – la storica Enciclopedia del diritto, la più recente Enciclopedia giuridica italiana ed il Digesto delle Discipline pubblicistiche – non ci restituiscono un lemma specifico dedicato al termine in questione. È tuttavia sempre presente una voce riguardante la sua radice “Nazione”.

Ebbene, sia questa che il suo traslato nazionalità – che qui interessa più direttamente – tradiscono una chiara matrice dottrinaria, di ordine storico, sociologico e filosofico, per poi essere evocati – dalla Rivoluzione francese in poi – nei testi normativi, specie di natura costituzionale. Tale processo di progressiva normativizzazione non toglie al termine nazionalità una certa qual ambiguità semantica, verosimilmente legata alla genesi e allo sviluppo storico del relativo concetto (meritandogli, non a caso, l’appellativo di “falsa idea chiara”), la quale spesso riemerge quando lo si rinviene nel dettato normativo.

Nel suo significato più diffuso la nazionalità esprime l’appartenenza di un soggetto a una comunità, o più esattamente a un gruppo, i cui elementi di aggregazione vengono usualmente identificati in una serie di “fattori” o “indici”, che possono esistere congiuntamente o disgiuntamente, come quello religioso, quello linguistico, il fattore etnico, quello politico e, più in generale, quello storico-culturale. Se ne deduce che il concetto di nazione (e quindi di nazionalità) non comporta, né richiede di per sé un nesso di implicazione con lo Stato e il suo ordinamento – cui è invece inestricabilmente imbricato quello di cittadinanza, come si dirà fra un momento – potendo quest’ultimo storicamente inverarsi preventivamente, successivamente o parallelamente alla formazione di un’identità nazionale. Può utilmente ricordarsi, a questo riguardo, la celeberrima frase ascritta a Massimo D’Azeglio e pronunziata all’esito del processo di unificazione politica e territoriale del nostro paese che aveva portato nel 1861 alla nascita del Regno d’Italia: “fatta l’Italia, dobbiamo ora fare gli italiani”. Quasi a testimoniare la divaricazione esistente tra lo Stato-ordinamento e lo Stato-nazione.

A tale proposito, appaiono particolarmente emblematiche le vicende politiche delle federazioni, in cui sotto un’unica veste (quella dello stato federale) possono ritrovarsi accomunate più nazioni (stati-nazione), come ad esempio nel caso del Belgio (caratterizzato da uno spiccato plurilinguismo e multiculturalismo) ovvero in cui risulta difficilmente identificabile un fattore comune, come nel caso della Svizzera, della quale è “lecito dubitare se (…) sia veramente una nazione in senso specifico”.

In sostanza, quindi, la nazionalità esprime un concetto di appartenenza a un determinato gruppo che è pre-giuridico – che quindi il diritto statale, pur potendolo in vario modo utilizzare, né fonda, né forgia – accomunando i singoli individui sulla base di quello che comprensivamente potremmo definire un certo ethnos.

La cittadinanza, invece, indica la condizione (lo status) del “soggetto di fronte all’ordinamento giuridico o, se si vuole, allo Stato persona”, sia nel senso che essa definisce l’appartenenza al popolo quale elemento costitutivo dello Stato come ordinamento (demos), sia perché costituisce il presupposto, la condizione per l’attribuzione di un insieme di diritti e di doveri, di natura essenzialmente pubblicistica, il cui riconoscimento può in una certa qual misura (si pensi soprattutto ai cosiddetti diritti politici) segnalare una differenza di trattamento rispetto alla posizione nell’ordinamento propria dello straniero (id est: non cittadino). Differenza, a onor del vero, oggi significativamente ridotta dal processo di progressiva attribuzione anche allo straniero di una molteplicità di diritti, pur formalmente imputati al cittadino nelle disposizioni della Carta costituzionale, in forza dell’essere questi espressione di un patrimonio irretrattabile della persona umana.

Orbene, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano si rinvengono numerose indicazioni che consentono di riscontrare la diversità dei concetti di cittadinanza e nazionalità.

A livello costituzionale, pur non mancando utilizzi sovrapposti e inclinazione a una qualche promiscuità, vi sono diverse disposizioni che fanno emergere la consapevolezza dei nostri Costituenti circa la non coincidenza tra il piano culturale (ethnos) e quello giuridico (demos).

Innanzitutto, si deve far riferimento all’art. 6 della Costituzione italiana, per cui “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. In questo modo, il testo costituzionale sembra alludere alla possibilità dell’esistenza di cittadini italiani di nazionalità non italiana, giacché, se è vero che concettualmente minoranza linguistica e minoranza nazionale possono divergere, nondimeno la coincidenza appare come eventualità più frequente.

Interessante, poi, è la previsione dell’art. 51, comma 2, Cost., secondo cui “la legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica”. Qui, infatti, è evidente che la Carta costituzionale presuppone certamente la non coincidenza tra cittadinanza e nazionalità, riferendosi a soggetti che pur non godendo della prima tuttavia possono rivendicare la seconda.

Peraltro, un’ulteriore conferma della possibilità di parlare di cittadinanza esclusivamente come di un rapporto giuridico derivante dall’ordinamento statale è costituita, infine, dall’art. 22 Cost., secondo cui “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”.

Proprio quanto appena richiamato ribadisce il discrimine fra cittadinanza e nazionalità.

Soltanto per la prima, in forza della natura di rapporto giuridico che la sostanzia, si può parlare di acquisto e di perdita e di regolazione da parte dell’ordinamento statale delle rispettive vicende, che invece non sono riferibili alla seconda, stante il suo carattere di qualità fondata su ragioni etno-culturali. Ne consegue, come già accennato in precedenza, che proprio in ragione di tali vicende, cittadinanza e nazionalità possono separarsi.

Non solo, e per converso, la immunità di quest’ultima dalle vicende suddette rivela una natura tipicamente escludente a fronte della maggiore apertura della prima, in conseguenza del suo carattere mutevole e più dinamico, tale da poter portare ad una imputazione plurale, come ad esempio nelle ipotesi di doppia cittadinanza.

Va, tuttavia, qui incidentalmente rammentato che in ordine alla distinzione qui delineata o, meglio, alla sua portata effettiva un certo impatto vada riconosciuto alla logica di fondo cui ciascun ordinamento statale si ispira per delineare le modalità di acquisto della cittadinanza.

Qui il diritto può giocare un ruolo significativo. Nel senso, cioè, che laddove a prevalere siano le ragioni dello ius sanguinis – si comunica al nascituro la cittadinanza del proprio genitore – le distanze tendono evidentemente a raccorciarsi; mentre ove prevalgano criteri diversi come lo ius soli – si diviene cittadini per via del fatto di essere nati in un certo territorio – o, per stare ad una formula che ha animato di recente il nostro dibattito pubblico, lo ius culturae – si perviene ad acquisire la cittadinanza in ragione del compimento di un certo itinerario formativo-scolastico – le distanze invece si ampliano.

A rendere infine la distinzione tra cittadinanza e nazionalità direi “in modo plastico” e ancor più evidente è il diritto dell’Unione europea e, in specie, l’istituto della cittadinanza europea introdotto con il trattato di Maastricht. Secondo il diritto dell’Unione, infatti, questa viene conferita a ciascun cittadino di uno stato dell’Unione per il semplice fatto di esserlo. Si tratta perciò di una cittadinanza aggiuntiva, di “secondo grado” come si usa dire, conferita automaticamente e de relato, rispetto alla quale la distinzione “possibile” fra cittadinanza e nazionalità, di cui s’è detto, diviene stabile e inevitabile. Sin tanto che, almeno, una assorbente nazionalità europea non venga ad affermarsi nell’orizzonte della storia. Ma qui ovviamente si apre un discorso assai più ampio orizzonte che esula sicuramente dai compiti di questa risposta.

In definitiva, se ne può concludere che le nozioni di cittadinanza e nazionalità esprimono concettualmente due diverse realtà.

Alla luce di ciò, si può dire che l’utilizzo promiscuo o sinonimico che talora si riscontra nel linguaggio burocratico e persino normativo riflette, non di rado, un uso non vigilato dei termini e dei concetti che invece – come visto – non vanno confusi. Un classico esempio è rappresentato dall’indicazione Nazionalità in luogo di Cittadinanza sul passaporto.

Quanto sin qui detto per nazionalità e cittadinanza vale anche per le omologhe espressioni nationality e citizenship, presenti nel linguaggio e nella cultura anglosassone.

The term “nationality” also exists in the INA (i.e. Immigration and Nationality Act), but its historical unimportance in U.S. law has left its relationship to citizenship somewhat ambiguous. “Nationality” and “citizenship” are clearly not interchangeable, however. The INA defines “nationality” as the quality of “owing permanent allegiance to a state”. Thus it has always been clear that not all nationals are citizens. What is not clear is whether all citizens must be nationals. (Mark C. Fleming, The functionality of citizenship, IV. The Nationality of Citizenship).

Ne consegue che quanto si legge nell’art. 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo costituisce un ennesimo esempio di erronea ibridazione del linguaggio normativo, con la sovrapposizione di nationality a citizenship che vi si registra, dovendosi decisamente propendere per un diritto e un divieto di arbitraria privazione da riferirsi alla cittadinanza piuttosto che alla nazionalità. Di modo che, in questo caso, la traduzione italiana, per cui “Ogni individuo ha diritto a una cittadinanza”, esprime più correttamente il contenuto della disposizione.

Sulla distinzione fra nazionalità e cittadinanza.

Diversi lettori ci chiedono di fare chiarezza sui termini nazionalità e cittadinanza, anche in rapporto all’inglese nationality; uno di loro, in particolare, contesta l’uso di cittadinanza a tradurre nationality nell’articolo 15 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Un altro lettore ci chiede se cittadinanza possa indicare la somma dei cittadini. Infine una lettrice domanda se cittadinanza di genere può essere usato come “insieme di tutti i diritti civili e sociali caratterizzanti in particolare il genere femminile”.

Risposta

I termini nazionalità e cittadinanza si presentano giuridicamente caratterizzati da una chiara diversità, pur indicando condizioni che per un medesimo soggetto possono coincidere. Si registra una certa promiscuità di utilizzo sia nel linguaggio comune sia in quello burocratico e persino normativo, se non addirittura una vera e propria confusione.

Da un punto di vista linguistico, solo il secondo ha il crisma della tecnicità: è un termine proprio del diritto, che lo definisce e lo configura. Nonostante non sia annoverabile fra quelli presenti nel solo vocabolario del giurista – come ad esempio abigeato, comodato, rescissione, ecc. – il diritto lo riconsegna alla lingua comune col tratto definitorio acquisito nel territorio di origine. Può anche presentare significati ulteriori: si pensi qui al senso lato del termine in espressioni come “ha diritto di cittadinanza, quanto qui sostenuto” o “dare cittadinanza a una parola o costumi stranieri”.

Diversamente la parola nazionalità non è annoverabile neppure fra i cosiddetti vocaboli tecnicizzati, che cioè il diritto utilizza estraendoli dal linguaggio comune per assegnare loro un significato specifico – per esempio prescrizione, comunione, attore, ecc. – ma viene semplicemente importato nel linguaggio giuridico che, pur utilizzandolo, non lo fa proprio ma lo riceve in dote senza connotarlo. Prova ne sia il fatto che le nostre principali enciclopedie giuridiche – la storica Enciclopedia del diritto, la più recente Enciclopedia giuridica italiana ed il Digesto delle Discipline pubblicistiche – non ci restituiscono un lemma specifico dedicato al termine in questione. È tuttavia sempre presente una voce riguardante la sua radice “Nazione”.

Ebbene, sia questa che il suo traslato nazionalità – che qui interessa più direttamente – tradiscono una chiara matrice dottrinaria, di ordine storico, sociologico e filosofico, per poi essere evocati – dalla Rivoluzione francese in poi – nei testi normativi, specie di natura costituzionale. Tale processo di progressiva normativizzazione non toglie al termine nazionalità una certa qual ambiguità semantica, verosimilmente legata alla genesi e allo sviluppo storico del relativo concetto (meritandogli, non a caso, l’appellativo di “falsa idea chiara”), la quale spesso riemerge quando lo si rinviene nel dettato normativo.

Nel suo significato più diffuso la nazionalità esprime l’appartenenza di un soggetto a una comunità, o più esattamente a un gruppo, i cui elementi di aggregazione vengono usualmente identificati in una serie di “fattori” o “indici”, che possono esistere congiuntamente o disgiuntamente, come quello religioso, quello linguistico, il fattore etnico, quello politico e, più in generale, quello storico-culturale. Se ne deduce che il concetto di nazione (e quindi di nazionalità) non comporta, né richiede di per sé un nesso di implicazione con lo Stato e il suo ordinamento – cui è invece inestricabilmente imbricato quello di cittadinanza, come si dirà fra un momento – potendo quest’ultimo storicamente inverarsi preventivamente, successivamente o parallelamente alla formazione di un’identità nazionale. Può utilmente ricordarsi, a questo riguardo, la celeberrima frase ascritta a Massimo D’Azeglio e pronunziata all’esito del processo di unificazione politica e territoriale del nostro paese che aveva portato nel 1861 alla nascita del Regno d’Italia: “fatta l’Italia, dobbiamo ora fare gli italiani”. Quasi a testimoniare la divaricazione esistente tra lo Stato-ordinamento e lo Stato-nazione. 

A tale proposito, appaiono particolarmente emblematiche le vicende politiche delle federazioni, in cui sotto un’unica veste (quella dello stato federale) possono ritrovarsi accomunate più nazioni (stati-nazione), come ad esempio nel caso del Belgio (caratterizzato da uno spiccato plurilinguismo e multiculturalismo) ovvero in cui risulta difficilmente identificabile un fattore comune, come nel caso della Svizzera, della quale è “lecito dubitare se (…) sia veramente una nazione in senso specifico”. 

In sostanza, quindi, la nazionalità esprime un concetto di appartenenza a un determinato gruppo che è pre-giuridico – che quindi il diritto statale, pur potendolo in vario modo utilizzare, né fonda, né forgia – accomunando i singoli individui sulla base di quello che comprensivamente potremmo definire un certo ethnos.

La cittadinanza, invece, indica la condizione (lo status) del “soggetto di fronte all’ordinamento giuridico o, se si vuole, allo Stato persona”, sia nel senso che essa definisce l’appartenenza al popolo quale elemento costitutivo dello Stato come ordinamento (demos), sia perché costituisce il presupposto, la condizione per l’attribuzione di un insieme di diritti e di doveri, di natura essenzialmente pubblicistica, il cui riconoscimento può in una certa qual misura (si pensi soprattutto ai cosiddetti diritti politici) segnalare una differenza di trattamento rispetto alla posizione nell’ordinamento propria dello straniero (id est: non cittadino). Differenza, a onor del vero, oggi significativamente ridotta dal processo di progressiva attribuzione anche allo straniero di una molteplicità di diritti, pur formalmente imputati al cittadino nelle disposizioni della Carta costituzionale, in forza dell’essere questi espressione di un patrimonio irretrattabile della persona umana.   

Orbene, all’interno dell’ordinamento giuridico italiano si rinvengono numerose indicazioni che consentono di riscontrare la diversità dei concetti di cittadinanza e nazionalità.

A livello costituzionale, pur non mancando utilizzi sovrapposti e inclinazione a una qualche promiscuità, vi sono diverse disposizioni che fanno emergere la consapevolezza dei nostri Costituenti circa la non coincidenza tra il piano culturale (ethnos) e quello giuridico (demos).

Innanzitutto, si deve far riferimento all’art. 6 della Costituzione italiana, per cui “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. In questo modo, il testo costituzionale sembra alludere alla possibilità dell’esistenza di cittadini italiani di nazionalità non italiana, giacché, se è vero che concettualmente minoranza linguistica e minoranza nazionale possono divergere, nondimeno la coincidenza appare come eventualità più frequente.

Interessante, poi, è la previsione dell’art. 51, comma 2, Cost., secondo cui “la legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica”. Qui, infatti, è evidente che la Carta costituzionale presuppone certamente la non coincidenza tra cittadinanza e nazionalità, riferendosi a soggetti che pur non godendo della prima tuttavia possono rivendicare la seconda.

Peraltro, un’ulteriore conferma della possibilità di parlare di cittadinanza esclusivamente come di un rapporto giuridico derivante dall’ordinamento statale è costituita, infine, dall’art. 22 Cost., secondo cui “nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”.

Proprio quanto appena richiamato ribadisce il discrimine fra cittadinanza e nazionalità.

Soltanto per la prima, in forza della natura di rapporto giuridico che la sostanzia, si può parlare di acquisto e di perdita e di regolazione da parte dell’ordinamento statale delle rispettive vicende, che invece non sono riferibili alla seconda, stante il suo carattere di qualità fondata su ragioni etno-culturali. Ne consegue, come già accennato in precedenza, che proprio in ragione di tali vicende, cittadinanza e nazionalità possono separarsi.

Non solo, e per converso, la immunità di quest’ultima dalle vicende suddette rivela una natura tipicamente escludente a fronte della maggiore apertura della prima, in conseguenza del suo carattere mutevole e più dinamico, tale da poter portare ad una imputazione plurale, come ad esempio nelle ipotesi di doppia cittadinanza.

Va, tuttavia, qui incidentalmente rammentato che in ordine alla distinzione qui delineata o, meglio, alla sua portata effettiva un certo impatto vada riconosciuto alla logica di fondo cui ciascun ordinamento statale si ispira per delineare le modalità di acquisto della cittadinanza.

Qui il diritto può giocare un ruolo significativo. Nel senso, cioè, che laddove a prevalere siano le ragioni dello ius sanguinis – si comunica al nascituro la cittadinanza del proprio genitore – le distanze tendono evidentemente a raccorciarsi; mentre ove prevalgano criteri diversi come lo ius soli – si diviene cittadini per via del fatto di essere nati in un certo territorio – o, per stare ad una formula che ha animato di recente il nostro dibattito pubblico, lo ius culturae – si perviene ad acquisire la cittadinanza in ragione del compimento di un certo itinerario formativo-scolastico – le distanze invece si ampliano.

A rendere infine la distinzione tra cittadinanza e nazionalità direi “in modo plastico” e ancor più evidente è il diritto dell’Unione europea e, in specie, l’istituto della cittadinanza europea introdotto con il trattato di Maastricht. Secondo il diritto dell’Unione, infatti, questa viene conferita a ciascun cittadino di uno stato dell’Unione per il semplice fatto di esserlo. Si tratta perciò di una cittadinanza aggiuntiva, di “secondo grado” come si usa dire, conferita automaticamente e de relato, rispetto alla quale la distinzione “possibile” fra cittadinanza e nazionalità, di cui s’è detto, diviene stabile e inevitabile. Sin tanto che, almeno, una assorbente nazionalità europea non venga ad affermarsi nell’orizzonte della storia. Ma qui ovviamente si apre un discorso assai più ampio orizzonte che esula sicuramente dai compiti di questa risposta.

In definitiva, se ne può concludere che le nozioni di cittadinanza e nazionalità esprimono concettualmente due diverse realtà.

Alla luce di ciò, si può dire che l’utilizzo promiscuo o sinonimico che talora si riscontra nel linguaggio burocratico e persino normativo riflette, non di rado, un uso non vigilato dei termini e dei concetti che invece – come visto – non vanno confusi. Un classico esempio è rappresentato dall’indicazione Nazionalità in luogo di Cittadinanza sul passaporto.

Quanto sin qui detto per nazionalità e cittadinanza vale anche per le omologhe espressioni nationality e citizenship, presenti nel linguaggio e nella cultura anglosassone.

The term “nationality” also exists in the INA (i.e. Immigration and Nationality Act), but its historical unimportance in U.S. law has left its relationship to citizenship somewhat ambiguous. “Nationality” and “citizenship” are clearly not interchangeable, however. The INA defines “nationality” as the quality of “owing permanent allegiance to a state”. Thus it has always been clear that not all nationals are citizens. What is not clear is whether all citizens must be nationals. (Mark C. Fleming, The functionality of citizenship, IV. The Nationality of Citizenship).

Ne consegue che quanto si legge nell’art. 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo costituisce un ennesimo esempio di erronea ibridazione del linguaggio normativo, con la sovrapposizione di nationality a citizenship che vi si registra, dovendosi decisamente propendere per un diritto e un divieto di arbitraria privazione da riferirsi alla cittadinanza piuttosto che alla nazionalità. Di modo che, in questo caso, la traduzione italiana, per cui “Ogni individuo ha diritto a una cittadinanza”, esprime più correttamente il contenuto della disposizione.

Utilizzi, infine, del termine cittadinanza in luogo di popolazione urbana evidentemente riflettono la derivazione latina del termine, il quale fa riferimento al complesso dei cives che viene a identificare l’insieme degli abitanti della città nel momento in cui la parola civitas viene a soppiantare urbs nella definizione di aggregato urbano.

Del tutto allusiva e di matrice ideale è l’espressione “cittadinanza di genere” che riassume ed eleva a obiettivo generale e non settoriale dell’azione politica (ad oggi riferita in modo peculiare al livello regionale) la promozione e il consolidamento di una cultura di genere paritaria, la valorizzazione delle differenze ed il contrasto alle diseguaglianze fondate sulla identità sessuale.

È evidente che in queste due ultime accezioni il termine di cittadinanza non ha a che fare con l’istituto giuridico di cui abbiamo sin qui parlato. 

Paolo Carnevale 13 giugno 2022

Paolo Di Stefano per il “Corriere della Sera” il 31 maggio 2022.

Non accenna a tramontare la parolaccia primordiale. Andate su Google e cercate «puttana». La troverete ovunque: è il primo insulto che viene rivolto dall'uomo alla donna. Ed è il primo termine attestato dai vocabolari con la qualifica di «volgare», l'unico risalente al XII secolo. 

Ce lo insegna il linguista Pietro Trifone in Brutte, sporche e cattive (Carocci editore), un agile studio sull'origine e l'attualità delle parolacce. Ancora prima di «puttana», per la verità, compare il sinonimo «puta» o «putta»: un «fili dele pute» è presente nell'antica iscrizione inserita all'interno di un affresco della basilica sotterranea di San Clemente a Roma, che si guadagna l'alloro di «capitale italiana del turpiloquio».

Per dire prostituta, il repertorio è fantasioso: «bagascia», «baldracca», «battona», «paracula», «troia», «zoccola», «mignotta», dal francese «mignot(t)e», la favorita. 

Sesso ed escrementi sono i due campi ai quali tradizionalmente viene associato l'insulto, ma le cose negli ultimi anni sono un po' cambiate: e se il più classico dei «vaffanculo» ha un valore poco più che espressivo-emotivo, dire «frocio» ha accresciuto la connotazione ideologica discriminatoria, mentre «negro» l'ha acquisita.

«Parla' froscio» designava il parlar male tipico del forestiero, probabilmente derivante da «parlare floscio», ovvero con la erre moscia francese. Un'altra interpretazione risale all'uso xenofobo di «froge» riferito alle (presunte) narici grosse dei tedeschi. 

Fatto sta che lo stesso meccanismo ha indotto i greci a chiamare gli stranieri «barbari», cioè balbuzienti, e gli italiani a chiamare «buggeroni», cioè sodomiti, i bulgari.

Il repertorio sessista è molto ampio e va da «culattone» a «recchione» a «finocchio», mentre «checca» viene sottilmente considerato più dispregiativo che volgare. 

Pur tuttavia, qualche settimana fa Costantino della Gherardesca sul Foglio ha rivendicato l'orgoglio «frocio» contro l'orgoglio gay dei «fighetti» che ambiscono a metter su famiglia. 

Del resto, avendo trionfalmente invaso il dibattito pubblico, l'insulto sta vivendo un'epoca d'oro. Non deve sorprendere se diventerà un motivo di vanto non solo per chi lo pronuncia ma per chi lo riceve: presto arriveranno i burini e i buzzurri fieri di esserlo. Un buon modo per uccidere la parolaccia.

«Viciniore» a chi? I giudici bacchettano il ministero dell’Istruzione ma sbagliano entrambi | Tutti gli strafalcioni dei documenti scolastici. Marco Ricucci, professore di Italiano e Latino presso il Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Milano e docente a contratto presso l’Università degli Studi di Milano, su Il Corriere della Sera il 9 Maggio 2022.

Il ministero dell’Istruzione scrive «vicinorietà» in un documento. I giudici di Palazzo Spada lo correggono: «Si dice vicinorità». Ma la Crusca dà torto a entrambi: la parola giusta è: «viciniorità». 

E fu così che il CdS e MI si fronteggiarono a singolar tenzone sulle GPS, per onorar la purezza della lingua italiana: nemmeno Dante Alighieri può riposare in pace, appena trascorsi i 700 anni. Dietro alla miriade di acronimi che ammorbano il sistema scolastico dello Stivale, si è consumata la lotta tra il Consiglio di Stato e il Ministero dell’Istruzione (un tempo «pubblica», ora separato in casa da quello dell’Università), su una disquisizione linguistica che avrebbe fatto impallidire perfino il Bembo, intellettuale del nostro Rinascimento, che scrisse Prose della volgar lingua. Il termine incriminato è «vicinorietà» contro «vicinorità», che si trova in un abbozzo dell’ordinanza di apertura per le GPS ovvero le Graduatorie Provinciali per le Supplenze, che sono state inventate nel 2020, per essere messe insieme, nella vetrinetta della burocrazia italiana, con le GAE (Graduatorie ad Esaurimento) e le GI (Graduatorie di Istituto). Il Consiglio di Stato, infatti, puntualizza che «la forma corretta del sostantivo è ‘vicinorità’ e non ‘vicinorietà’, benché quest’ultima continui ad essere diffusa nel linguaggio burocratico, specie di ambito scolastico». Segno rosso, dunque, per i tecnici del MI, estensori del documento! Anzi, il CdS fa proprio una lezione di lingua italiana, come quando io stesso, si licet parva magnis comparare, spiego la linea ondulata su un termine in una tema di un alunno di prima superiore. «In ogni caso – precisa il CdS – a parte le incertezze che il suo significato continua a proporre nei destinatari, e che ne suggerirebbero il superamento a favore di altre espressioni, gli aggettivi formano sostantivi astratti mediante il suffisso –ità, applicato alla base».

Sembrerebbe questa vicenda una surreale boutade tra tecnici ministeriali e i giudici di Palazzo Spada, facilmente risolvibile consultando il sito dell’Accademia della Crusca, nella voce redatta da Vittorio Coletti, il quale conclude: «La burocrazia ama gli astratti, meno comuni sono e meglio è. Ad ogni modo, la parola viciniorità è formalmente corretta e semanticamente plausibile». Dunque hanno torto sia i tecnici del ministero che i giudici amministrativi. In realtà, la disquisizione non si dovrebbe derubricare a una battibecco «pestifero», un po’ più dotto e a più alti livelli, rispetto a quello che potrebbe fare la maestra con Pierino. Anzitutto, il virus dell’ «antilingua» così come teorizzata nel 1965 da Italo Calvino, continua a contagiare, mutatis mutandis, nonostante il vaccino, per così dire, del dibattito sull’educazione linguistica, che mai ha radicalmente attecchito nell’apparato burocratico-statale: «La motivazione psicologica dell’antilingua - scrive Calvino - è la mancanza d’un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi». La lingua, dunque, vive di una relazione con la vita vera, proprio perché è comunicazione: in particolare, se si tratta di un documento che dovrebbe indicare a migliaia di supplenti come iscriversi in queste graduatorie.

Ma tralasciando persino la questione della “orrettezza morfologica di una parola che sfiora quasi il latinorum (dal latino classico vicinior -oris, comparativo di maggioranza di vicinus, ovvero «vicino»), si aggiunge un altro tassello a quello che io ho definito neo-questione della lingua italiana, che ha una chiave di lettura, almeno per il momento, principalmente didattico-pedagogica, con evidenti riverberazioni sulla vita quotidiana, che rischia diventare un’esplosione di emergenza democratica, come un colpo di cannone. L’esempio più lampante e preoccupante, in tempi recentissimi, è la «bocciatura» di migliaia di candidati all’ultimo concorso di magistratura, per i numerosi errori di morfosintassi della lingua italiana trovati dalla Commissione esaminatrice negli elaborati scritti dagli aspiranti giudici.

Inoltre, occorre riflettere su questo dettaglio di non poco conto nella vita di un Paese civile: vi è una differenza sostanziale di politica linguistica tra il nostro Paese e la nostra (viciniore!) cugina, la Francia, dove dal 1635 esiste l’Académie française, o Accademia francese, una delle più antiche istituzioni composta di quaranta membri eletti dai loro pari. Nell’articolo XXIV dello Statuto, si legge che «la principale funzione dell’Académie sarà quella di operare con tutta la cura e la diligenza possibili per dare delle regole certe alla nostra lingua e a renderla pura, eloquente e capace di trattare sia le arti che le scienze» (da Wikipedia). Lo Stato francese, dunque, con legge n. 94-665 del 4 agosto 1994 più conosciuta come Legge Toubon, ha reso obbligatorio l’uso della lingua francese «nelle pubblicazioni governative, nelle pubblicità, nei luoghi di lavoro, nei contratti e nelle contrattazioni commerciali, nelle scuole finanziate dallo stato e in altre situazioni. La legge non si applica invece alle comunicazioni private e non commerciali». In Italia, l’Accademia della Crusca (spesso anche solo la Crusca) è un’istituzione fondata circa 100 anni prima dell’Accademia francese, ora avente personalità giuridica pubblica, in cui sono iscritti studiosi ed esperti di linguistica e filologia della lingua italiana; ma non ha compiti prescrittivi né normativi, tanto che nei documenti della Repubblica italiana è ammesso l’uso, anzi l’overdose, di parole straniere e forestierismi, se non addirittura è salutata dalla Crusca stessa con favore in Italia la formazione di neologismi da parte di bambini della scuola primaria: «petaloso» di Matteo , divenuto un piccolo Dante grazie all’esposizione massmediatica di pochi anni fa. Chissà se Matteo ha qualcosa da dire anche sulla vicenda «vicinorità-vicinorietà».

La dittatura che toglie potere alla lingua. Stella Fanelli su La Gazzetta del Mezzogiorno il il 5 maggio 2022. 

Anche nell’Italia fascista la lingua è strumento dell’assolutismo: dal 1922 al 1943 si persegue una politica linguistica: il purismo di marca nazionalistica portò addirittura all’imposizione di una tassa per l’uso di parole straniere, anche i nomi e i cognomi dovevano italianizzarsi.

John Langshaw Austin uno dei più insigni teorici della Filosofia del Linguaggio afferma che per capire un fenomeno linguistico dobbiamo considerarlo in termini pragmatici. Un enunciato costituisce un “fatto” perché ogni atto locutorio ha una forza illocutoria ovvero ha il potere socio-antropologico di agire sul contesto e sugli altri. Parlare è una forma di comportamento quindi e ogni teoria del linguaggio è una teoria dell’azione! La lingua ci aiuta nella rappresentabilità del reale, racchiude e rivela la nostra weltanschauung ma soprattutto costruisce, conserva o distrugge mondi e pensiero. Il linguaggio ha un peso significativo nell’autodeterminarsi di una personalità o di una società.

Nel lucido e agghiacciante romanzo distopico di George Orwell “1984” l’autore in un’appendice dichiara che la lingua ha un potere di cui il Potere ha sempre saputo e sa servirsi per orientare, condizionare, imporre il cambiamento nella Storia e l’assoggettamento delle masse. Vittima di persecuzioni staliniste durante la guerra civile spagnola, Orwell scrive il suo romanzo quale atto di accusa verso ogni totalitarismo che manipola la coscienza dei popoli asservendoli per un’idea di onnipotenza dello Stato a cui ogni destino individuale deve piegarsi, ogni libertà venire sacrificata. Lo scrittore inglese individua proprio nella lingua lo strumento efficacissimo con cui un dittatore può e riesce a plagiare gli uomini che vuole dominare per il narcisistico bisogno di dominio.

La neolingua in Oceania (uno dei tre paesi che Orwell nel 1949 immagina incatenata in una dittatura e sul baratro della terza guerra mondiale) è una lingua artificiale creata per limitare le possibilità espressive delle persone. Oceania è una grande metafora con cui Orwell cerca di scuotere il lettore circa la drammaticamente reale e concreta possibilità che l’orrore di una Guerra mondiale, la stessa in cui ci avevano precipitati Hitler e Mussolini potesse ripetersi ancora e annunciarsi proprio con una strumentale rivoluzione linguistica, con la sottrazione della libertà del dire, raccontare, rivelare!

Anche nell’Italia fascista la lingua è strumento dell’assolutismo: dal 1922 al 1943 si persegue una politica linguistica: il purismo di marca nazionalistica portò addirittura all’imposizione di una tassa per l’uso di parole straniere, anche i nomi e i cognomi dovevano italianizzarsi; una campagna ancora più feroce si condusse contro i dialetti che tenevano e tramandavano le nostre radici regionali profonde. I programmi scolastici della riforma Gentile ostentarono l’ostilità verso i dialetti: il timore era quello del consolidarsi di spinte autonomistiche e di dissenso che avrebbero ostacolato l’ideologia autarchica della nazione.

Togliere alle “parole sgradite” la possibilità di essere pronunciate e scritte fu quanto realizzò il regime che inasprì la censura per plasmare l’opinione pubblica attraverso l’editoria e quindi i giornali, i libri, il cinema. Se gli Ermetici perdono la fede nella parola i Futuristi la rimpiazzano con le onomatopee! Mentre il Mondo è in guerra i totalitarismi europei continuano a fare la loro guerra alle parole perché minacciati dalla forza che una lingua ha di smascherare la fallacia e la vacuità di una dittatura.

Scrivere, parlare in una dittatura mette in pericolo una vita. Dovremmo aver imparato dalla Storia a riconoscere i segni con cui una Dittatura si impone: ogni volta che a un uomo nel suo paese viene impedito di parlare o scrivere a essergli negato in realtà è il suo diritto alla Libertà e al Pensiero. Il Potere che ci deruba di una lingua è illegittimo e dopo aver dichiarato guerra al nostro diritto di parola ed espressione trascinerà il Mondo in una Guerra fatale!

Massimo Arcangeli per “Libero quotidiano” il 23 aprile 2022.

I macellai saranno contenti di saperlo. Nel dialetto meneghino ottocentesco, si legge nel glorioso Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini (Milano, Imp. Regia Stamperia, vol. III, M-Q, 1841, p. 7), le «persone civili» preferivano macellar (e macell) al popolaresco becchée (e beccaria).

Quest' ultima parola, già documentata, nella sua schietta variante toscana, nel Purgatorio di Dante («Figliuol fu' io d'un beccaio di Parigi», XX, 52), aveva via via ceduto il passo a macellaio, e lo stesso era avvenuto per beccheria rispetto a macello: «Per Luogo dove si vende la carne macellata è oggidì voce usata in Toscana più comunem. che Beccherìa» (Dizionario universale critico-enciclopedico della lingua italiana dell'abbate D'Alberti di Villanuova, Lucca, Domenico Marescandoli, tomo quarto, K-O, 1803, s. v. macello).

I veneziani, dal canto loro, tenevano separato il luogo di macellazione delle carni (macello) dall'esercizio commerciale deputato alla loro vendita (beccheria): «In Venezia (...) si distingue il Macello dalla Beccheria. Il primo è il luogo dove propriamente si macellano gli animali, l'altra dicesi la Bottega dove si vende al minuto la carne macellata» (Dizionario del dialetto veneziano di Giuseppe Boerio, Venezia, Andrea Santini e Figlio, 1829, s. v. macèlo).

Macello discende dal latino macellum, designante in origine un mercato adibito alla vendita di carne e altri generi alimentari. Dalla voce latina, prestata all'antica lingua di Roma dal greco (mákellon, di probabile origine semitica), avrebbe quindi preso le mosse macellarium ("venditore di generi commestibili"), che si sarebbe poi sviluppato in macellaio (e varie altre forme, tra regionali e dialettali: da macellaro a mascellaio).

Sull'evoluzione semantica del termine, non bastasse la taccia di "persona bestiale o sanguinaria", o di "chirurgo maldestro o incapace", avrebbe pesato come un macigno anche Jacopone da Todi con la sua «lengua macellaia» ("bestemmiatrice, blasfema"). Ignorata, la categoria, anche da Numa Pompilio.

Il re, secondo la tradizione, aveva distribuito la popolazione plebea, artigiana e operaia in otto collegi, più un nono per le arti e i mestieri(minori)restanti: vasai(figuli) e calzolai (sutores); tintori (tinctores) e conciatori(coriarii); falegnami (fabrii tignarii) e orefici (aurifices); flautisti (tibicines) e lavoratori del rame (fabri aerarii). Assenti, coi tessitori e i lavandai, i panettieri e i lavoratori del ferro (fabri ferrarii), anche i poveri macellai.

Dal “Corriere della Sera” il 21 aprile 2022.

Caro Aldo, in questo periodo greve ho due banali domande. La prima: perché il conduttore del gioco l'Eredità della Rai parla in continuazione in romanesco? La seconda: sempre nello stesso gioco perché tutte le domande di storia sono sull'impero romano?

Ezio Basilico 

Risposta di Aldo Cazzullo:

Caro Ezio, premessa: sono un fan dell'Eredità, trovo bravissimi gli autori che preparano le domande (anche se negli ultimi tempi le associazioni di parole della ghigliottina sono talora un po' forzate), e Flavio Insinna mi è simpatico. 

È un artista che sa fare bene molte cose, ad esempio è stato un convincente don Pappagallo nella fiction «La buona battaglia» sulle Fosse Ardeatine, che alla prima proiezione fece piangere Gasparri. «Striscia», spietata trasmissione che giustamente non guarda in faccia a nessuno, svelò di Insinna un «dietro le quinte» poco edificante; però solo chi non conosce lo stress che c'è dietro la macchina della televisione può non perdonare il nervosismo del conduttore. 

Qualcuno l'ha attaccato per le critiche al riarmo: la penso diversamente da Insinna, ma ci mancherebbe altro che un uomo di spettacolo non possa esprimere la propria opinione.

Flavio Insinna è romano, e a volte parla romanesco. Un conduttore veneto o siciliano non lo farebbe mai. 

 Tuttavia il romanesco di Insinna, almeno a me (anche se non a lei gentile signor Basilico), non dà fastidio, anzi, fa parte del suo personaggio, del suo modo di esprimersi; se glielo toglie, gli toglie qualcosa.

Come i meme (le vignette nell'era digitale si chiamano così) di Osho: se fossero in italiano anziché in romanesco, non sarebbero altrettanto efficaci. Qui però siamo arrivati a far recitare con l'accento romano il Comandante Nord di Beppe Fenoglio, e pure Fabrizio De André, che era profondamente genovese (don Pappagallo era invece pugliese di Terlizzi, ma se non altro viveva a Roma da vent' anni). 

L'industria della tv e dello spettacolo pensa l'Italia come un'immensa Roma, e il romanesco - non solo l'accento, proprio la lingua - come l'esperanto. Ma non è così. Quando due persone conversano nel proprio dialetto, si crea un'atmosfera informale, complice. Ma quando uno parla nel proprio dialetto a un altro che non lo parla, si crea un'atmosfera sgradevole.

È così difficile capirlo? Il veneto, la lingua di Goldoni, o il piemontese, la lingua del Risorgimento, non è meno nobile del romanesco, la lingua del Belli. Ma se in un film o in una fiction c'è un veneto (o un piemontese), è sempre un razzista, o un mona 

Avv.(ocato) o avv.? La smania esterofila di mettere maiuscole e minuscole dove non vanno. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 4 Aprile 2022.

Per scimmiottare la lingua inglese assistiamo a baldanzose mutazioni come Il Barone Rampante, Lessico Famigliare, Alla Ricerca del Tempo Perduto, che fanno venire in mente le tragiche acconciature cotonate di moda negli anni Sessanta. Per non parlare dei titoli di studio o dei giornali. 

Ma perché c’è questa moda di scrivere Il Nome della Rosa, Uno, Nessuno e Centomila, Delitto e Castigo, Le Mille e Una Notte? Oppure, per non limitarci alla letteratura, Il Lago dei Cigni, Casa di Bambola, La Dolce Vita, Il Cavaliere Azzurro?

I titoli con tutte le iniziali maiuscole: sta diventando la regola. Un altro supino appiattimento sulla consuetudine anglosassone, che nella nostra lingua va contro tradizione e necessità. In italiano e in genere nelle lingue neolatine la convenzione vuole la maiuscola soltanto per la prima lettera del titolo – oltreché, naturalmente per i nomi propri di persona o di luogo che ne fanno parte (Il fu Mattia Pascal, Le tigri di Mompracem). In inglese le cose sono un po’ più complicate, perché vanno in maiuscolo tutti i nomi, propri e comuni, gli aggettivi, gli avverbi, i verbi e i pronomi, ma anche le preposizioni che constano di almeno cinque lettere, mentre quelle che ne hanno di meno, al pari delle congiunzioni che si trovano nella medesima situazione, vanno minuscole, come pure gli articoli determinativi e indeterminativi e il “to” dei verbi all’infinito. 

Un bel garbuglio, vero? Ma allora perché scimmiottarlo quando traduciamo o rititoliamo un titolo inglese, o peggio ancora quando innoviamo “maiuscolarmente” un più mite titolo italiano (o comunque non inglese) di tradizione consolidata? Dando così origine a baldanzose mutazioni quali Il Barone Rampante, Lessico Famigliare, Alla Ricerca del Tempo Perduto (ma tanto i raffinati opteranno sempre per La Recherche…), che più che la sicumera, in effetti, fanno venire in mente le tragiche acconciature cotonate di moda negli anni Sessanta. Qualcuno, per non sbagliarsi, mette in maiuscolo tutto, più anglista dell’anglais: I Predatori Dell’Arca Perduta, Il Signore Degli Anelli, Di Là Dal Fiume E Tra Gli Alberi. Ma qui siamo oltre.

Qualche motivata eccezione, per la verità, l’italiano la può ammettere. Il Conte di Carmagnola, per esempio, perché si riferisce proprio a quel Conte lì, l’antonomastico, non a un conte qualsiasi che dimorava a Carmagnola. Oppure, per restare a Manzoni, I Promessi Sposi, che fin dall’Ottocento si alternano alla forma meno pettoruta I promessi sposi (del resto, nel frontespizio della prima edizione del 1825-27, come in quello della seconda del 1840-42, il titolo aveva tutte le lettere maiuscole e quindi liberi tutti). O anche, risalendo più indietro, l’Orlando Furioso (a sua volta tutto in maiuscolo, com’era consuetudine, a partire dal frontespizio della prima edizione, datata 1516). Ma l’eccezione più rilevante è la Divina Commedia, che poi vera eccezione non è, in quanto il titolo originale apposto dall’autore era semplicemente Commedia (o meglio Comedia) e l’aggettivo Divina fu aggiunto da Boccaccio a metà del Trecento, nel Trattatello in laude di Dante, per diventare canonico due secoli dopo.

In generale è tutta la materia delle maiuscole a dare problemi. Si scrive San (Francesco, per esempio) o san? Dott.(or) oppure dott.? Prof.(essor) o prof.? On.(orevole) o on.? Sen.(atore) o sen.? Avv.(ocato) o avv.? Ing.(egner) o ing.? Cav.(alier) o cav.? Risposta: si scrive sempre minuscolo – purché naturalmente la parola non cada all’inizio del periodo – perché si tratta di aggettivi o titoli di studio o d’onore e non di nomi propri; a meno che, di nuovo, non sia il caso di antonomastici (il Santo, che a Padova è per tutti sant’Antonio e anche la sua chiesa; l’Avvocato, ossia Gianni Agnelli; il Professore, che può essere riferito a varie persone ma negli ultimi anni si è riferito soprattutto a Romano Prodi; il Cavaliere, quale è stato, prima di essere disarcionato per una storia di frode fiscale, Silvio Berlusconi).

A volte la smania maiuscolante porta dritto a comiche gaffe. Pensiamo al “Da Vinci”, scambiato per cognome di Leonardo, che diabolicamente ricompare a intervalli regolari sulla carta stampata, mentre nei servizi giornalistici radiotelevisivi è accaduto spesso, nel recente cinquecentenario della morte, di ascoltare nefandezze come “le opere di Da Vinci” o “la tecnica del Da Vinci” (un altro degli infiniti guasti prodotti da Dan Brown con il suo Da Vinci Code?). Al “genio rinascimentale” (come si usa dire con estenuata ritualità per non ripetere il nome del soggetto, perché così raccomandano le italiche norme del “bello scrivere” felicemente ignote agli altri popoli), insomma a Leonardo, in questo, fa mesta compagnia, ma è solo uno tra i tanti, Tommaso d’Aquino, di cui pure si avvicina pericolosamente un anniversario (il 750° della morte, tra due anni), che da lassù inorridirà sentendosi nominare talvolta come “il D’Aquino”, D’Aquino un po’ come D’Annunzio. E si potrebbe continuare, ma de hoc satis.

È sempre in agguato, però, la legge del contrappasso. Per equanimità occorre infatti rilevare che non sempre il minuscolo se ne sta rassegnato a subire le prepotenze del più grosso, ma sa anche prendersi le sue rivincite: quando non dovrebbe. E cioè quando, puta caso, in un testo scritto vengono citati il giornale Il manifesto (per esempio in una criptica frase del tipo “si legge sul manifesto che…”) o (per riesumarli dall’oblio) antichi fogli movimentisti come Lotta comunista o il Quotidiano dei lavoratori, oppure le case editrici E/O o Minimum fax, che per una scelta puramente grafica hanno la testata o il logo scritti interamente con lettere minuscole (e chissà perché è proprio la stampa più a sinistra ad avere manifestato tale preferenza).

Ebbene, ci sarà sempre in questi casi qualcuno che vuol rendere noto di saperla lunga e quindi riprodurrà la forma grafica della testata o del logo, con il risultato che spesso non sarà possibile capire di che cosa si parla, tanto più con la sciatta tendenza giornalistica a trascurare l’uso dei corsivi o quanto meno delle virgolette; e ci sarà magari qualche redattore (di un giornale, di una casa editrice) che correggerà mettendo le maiuscole dove vanno messe, non foss’altro per esigenze di chiarezza, ma poi spunterà di nuovo qualche manina impunita che provvederà e ri(s)correggere, perché anche il proprietario di quella manina la sa lunga, legge i giornali e frequenta pure le librerie, altroché!

E no, cari, perché il nome di un giornale o di un editore, comunque scelga di presentarsi al pubblico, resta pur sempre un nome proprio e come tale va trattato, e quindi se viene citato vuole inderogabilmente l’iniziale maiuscola. Uniformarsi pedissequamente alla grafica del paratesto non ha senso, e se questa fosse la regola dovremmo per coerenza scrivere LA STAMPA e CORRIERE DELLA SERA, tutto maiuscolo, e magari Le Monde e The Daily Telegraph in caratteri gotici. È questo che volete? Ma la coerenza e la ragionevolezza hanno poco spazio nello scrivere così come nel parlare. Tra maiuscole e minuscole è in atto una guerra, e in guerra, come purtroppo vediamo in questi giorni, tutto vale. Peccato non ci sia un Leopardi a raccontare in ottave satiriche la maiusminuscolomachia.

Dal «sì» di Dante difendiamo l’italiano. «Parla come ti ha fatto mamma» è il principio per non disperdere il nostro patrimonio culturale. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Marzo 2022.

«Parl com t’ha fatt mamt» da noi era e, ancora, resta in auge, la famigliare ingiunzione comminata dalla saggezza popolana a quelli che si «storcono» nel parlare. Storcersi sta per contorcersi nello sforzo di affettare un registro linguistico estraneo alle abitudini e alle inclinazioni spontanee. Costoro parlano, sempre secondo il malizioso Bertoldo che alligna nel popolo, il «giargianese». La parola meriterebbe la maiuscola perché è il nome di una lingua gergale: quella che esprime il vanitoso che vuole esibirsi in un registro che non conosce bene, affettando fonetica, pronunzia, grammatica e sintassi che non padroneggia. Con esiti comici

Ed ecco l’invito: «Parl com t’ha fatt mamt», parla come ti ha fatto tua madre. Ma, oggi la madre è l’Italia tutta. Oggi, proprio nel senso letterale del termine: scrivo in data 26 marzo. E, in Italia, si parla l’Italiano. E parlano in Italiano molti stranieri che noi, a diverso titolo, ospitiamo. E a diverso indice di gradimento: basti citare la moltitudine di ucraini che vivono già in Italia e altri che arrivano sospinti dalle vicende belliche. La verità è che percepiscono, costoro, che la lingua neolatina per eccellenza è madre di civiltà e che la lingua italiana è stato il vero legame del Paese, di chi lo abitava, delle sue e loro storie.

«Anche se l’unità venisse infranta, come alcuni vogliono, non verrebbe comunque meno l’italiano». Lo disse Umberto Eco al convegno del Quirinale su “La lingua fattore portante dell’identità nazionale” e spiegò come, per paradosso, «gli unici che ritengono l’italiano come base della nostra unità sono quelli a cui dà noia l' Italia post-risorgimentale e vorrebbero scrivere i cartelli stradali in dialetto».

Insomma, la lingua, all' origine, non fu fattore di unificazione della nazione: Cavour nel marzo del 1861 scrisse al D'Azeglio una lettera in francese, però, subito dopo cominciò un paziente, incessante lavorio insostituibile compiuto con tutti gli abitanti della penisola.

Nelle trincee della Grande Guerra si mescolarono con fraternità appassionata, le parlate di tutta la Patria, poi nel tramestio vociante del ventennio che, a modo della dittatura, modernizzò il Paese e, infine, grazie ai media e, soprattutto, alla televisione, l’Italiano si impose definitivamente come lingua nazionale.

Questo idioma unico, paradossalmente, nella dannata ipotesi della «disunione», diventerebbe indispensabile.

Ma qual è l’italiano parlato oggi, a centosessantun’anni dall' Unità?

«L'Italia non si è assestata sull' italiano basico di Mike Bongiorno», spiegava Eco. Con ragione chiosava: «Se parlate con un tassista di oggi, è come un laureato degli anni Trenta. Parla un italiano medio-alto ai figli che non sanno più parlare italiano». La pratica degli sms ha portato uno studente a leggere "Nino Bixio" come "Nino Bi per Io"». Questa è una generazione che non legge più i giornali e non guarda più neppure la tv, dove almeno potrebbe trovare qualcuno che parla un italiano ragionevole, quanto alla forma, almeno.

Ma la difesa di una lingua non consiste nella sua imbalsamazione, bensì nella tutela della sua vita fremente che muta incessantemente, ma a condizione che la si difenda nella sua forma e nei suoi registri. Ognuno è libero di variarli, ma tutti sono tenuti a rispettarne le fonti e a conoscerne le origini. La parola Italia è un esempio perfetto. Nasce prima della nazione che designa, prima della Patria che così si chiama, prima e compiutamente della nozione che tutto il mondo conosce.

Metternich sostenne, come ci ricordavano con risorgimentale indignazione i maestri delle elementari, che l’Italia era solo «un’espressione geografica». Aveva ragione. Era tale, però, come non le erano mai state le altre nazioni che conquistarono il nome solo dopo aver raccolto intorno ad un’idea unitaria lo spezzettamento ereditato dalle brume dell’antichità e dal dominio imperiale di Roma. Era tale, ma in attesa di diventare un’espressione politica. E l’Italia lo diventò, e come.

Shelley ci riscattò proclamando ammirato: «Tu paradiso degli esuli, Italia!». Fu parlando l’Italiano che il nostro cominciò a diventare quel Bel Paese salutato da Dante che per primo lo vantò per un suono, quello del «sì». Il «sì» che assevera la volontà unitaria e la sete di libertà che conclude “Il canto degli Italiani”, “Fratelli d’Italia”, per intenderci. Quel «Sì!» urlato nella lingua che usiamo quando parliamo «com ci ha fatt mamm». 

Mirella Serri per “la Stampa” il 17 giugno 2022.

Lo schwa, il controverso morfema che appartiene all'alfabeto fonetico internazionale, è sbarcato persino sul palco di San Remo: Sabrina Ferilli nel monologo al Festival ha parlato di questa discussa , che suggerisce graficamente sia l'idea di una «a» che di una «o». È stata, quella sanremese, solo una delle tante tappe del percorso dello schwa (dall'ebraico w che indica a sua volta un segno corrispondente a un suono neutro), il simbolo grafico adottato a salvaguardia della varietà delle identità di genere, dal momento che la lingua italiana è abituata da sempre a definire i termini collettivi e le pluralità miste contenenti uomini e donne, con il plurale maschile.

Sono numerose le istituzioni, gli editori, gli intellettuali che si sono proclamati a favore del morfema e che hanno tra gli obiettivi prioritari quello di sconfiggere il cosiddetto maschile «sovraesteso», di cancellare il «binarismo» linguistico della nostra cultura più tradizionale che ostacola la piena parità tra i sessi.

Il prossimo anno scolastico, dunque, lo inaugureremo con la didattica volta spiegare tutti gli impieghi del simbolo ? Il dibattito ferve nel mondo scientifico e sono numerosi i linguisti i quali sostengono che la toppa, cioè l'utilizzo dello schwa, è peggiore del buco e che finisce per non contrastare la cultura sessista: è la tesi del professor Andrea De Benedetti nel brillante saggio Così non schwa. Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo (Einaudi, pp. 104, e. 12).

Lo studioso parte dal presupposto che nelle lingue, ma in particolare in quella italiana, esista un forte orientamento maschilista alimentato da modelli semantici discriminatori. Basta pensare a quello più ovvio: la parola uomo, ahi noi!, include pure le donne. E i nostri schemi mentali ci spingono a considerare come «brutte» e cacofoniche le parole «sindaca» o «ministra», anche se «a rigor di morfologia», ci spiega il linguista, «sono perfettamente formate». Le ghettizzazioni verbali sono molteplici. Bisognerebbe cominciare a pensare, osserva il saggista, a varare un vasto programma di insegnamento dal punto di vista della pronuncia orale.

Infatti fino a oggi il morfema è stato impiegato soprattutto nei testi scritti.

L'utilizzo del simbolo rappresenta, comunque, veramente i diritti delle donne, delle persone transgender e la lotta al patriarcato? Facciamo un esempio. Se qualcuno si presentasse a una riunione di lavoro, «Sono Andrea, amministrator delegat» evidenzierebbe senza alcun dubbio «il tratto non binario» della propria identità, cioè sottolineerebbe la sua volontà di non riconoscersi né nel genere maschile né in quello femminile ostentando un elemento molto personale e privato non pertinente al contesto lavorativo.

«Non si è progressisti utilizzando soluzioni cervellotiche e poco maneggevoli», osserva De Benedetti. Le diseguaglianze, in realtà, risiedono nelle discriminazioni, nel gender gap, nei diritti negati e nel fatto che sono poche le donne in posizioni apicali nei luoghi di lavoro. Dobbiamo mobilitarci per eliminare tutto ciò che offende e limita la piena espressione dell'individuo. Ma lo schwa a questo scopo proprio non serve. 

1947-2022. L’Italia è una repubblica fondata sulla lingua: la lezione di Luca Serianni sulla Costituzione. LUCA SERIANNI su Il Domani il 22 luglio 2022

La padronanza della lingua da assicurare ai cittadini stranieri è una condizione fondamentale per quanto riguarda l’integrazione.

Tra i vari problemi di convivenza, che sono problemi tra gruppi etnici diversi, c’è il fatto che in alcune cucine si sentono odori che sono sgraditi alla nostra tradizione; non potremmo però dire: tu sei venuto in Italia e devi mangiare spaghetti e non i vari piatti.

Possiamo invece chiedere due cose, o aspettarci due cose: la prima è la padronanza della lingua che in genere gli stranieri sono ben disposti a imparare perché è il modo di comunicare con la realtà che li circonda.

Il primo agosto del 2018 il grande linguista Luca Serianni, scomparso il 21 luglio 2022 dopo un incidente stradale, aveva tenuto una lezione dal titolo La lingua italiana come cittadinanza, ai giardini sopra la stazione della metro Jonio a Roma, nell’ambito del progetto Grande come una città promosso da Christian Raimo. Ne pubblichiamo una sintesi. 

Non di rado la Costituzione viene vista da alcuni come un fastidioso vincolo di cui le persone potrebbero fare a meno e si troverebbero meglio. Questo è un errore notevole perché è proprio l’impalcatura giuridica – e la Costituzione è proprio il massimo strumento del diritto – che permette un vivere ordinato. E l’idea di considerare gli atti della legge in generale come fastidiosi adempimenti burocratici è un’idea deleteria. Quindi partire dalla costituzione può essere giusto. Ma partire da quali aspetti? Forse l’articolo fondamentale è l’articolo 3, l’articolo che prevede l’uguaglianza di tutti i cittadini.

Qualcuno potrebbe dire: bel concetto, ma come si fa a tradurlo in pratica? Un elemento significativo e un elemento di fascino della costituzione è che è carica di auspici segnati dalla Storia che ha portato alla costituzione.  È chiaramente un auspicio, uno sforzo, una tendenza. E del resto non è che un auspicio anche ciò che si legge nel primo articolo, «La Repubblica è fondata sul lavoro».

L’articolo 27, che parla della funzione della pena e fa una scelta di campo molto precisa, non a caso fu oggetto di discussione da parte dei costituenti. La pena svolge anche una funzione retributiva o in generale preventiva. Si interviene con una sanzione e anche con la privazione della libertà personale nei confronti di qualcuno che abbia commesso un delitto per ammonire gli altri a non imitarlo e per risarcire simbolicamente la società di questa violazione. Però accanto a questi elementi che sono elementi costitutivi della sanzione penale, che vengono dati come impliciti, c’è un elemento che viene sottolineato: la funzione rieducativa della pena.

Non si deve perdere la fiducia o la speranza che il reo possa essere riammesso a godere a pieno titolo del godimento dei diritti civili che lui stesso per il suo comportamento si è precluso. E naturalmente da questo dato deriva come necessaria conseguenza l’abolizione della pena di morte. In Italia quando si parla di abolizione della pena di morte viene in mente il nome di Cesare Beccaria. Beccaria sostiene due principi molto importanti: il primo è che la pena di morte è per definizione irriformabile, e quindi non garantisce la possibilità umana dell’errore giudiziario. La verità processuale vuol dire che c’è la possibilità di ritornare sopra la precedente sentenza; addirittura ci sono tre gradi di giudizio.

E Beccaria disse anche un’altra cosa molto importante, che non bisognava ricorrere alla tortura. Perché la tortura non è un mezzo di prova e perché il criminale incallito con particolare resistenza anche sotto tortura non ammetterà mai di aver fatto quello che gli viene imputato, mentre la persona più debole potrà non solo ammettere le sue colpe, ma addirittura cedere alle imputazioni che gli vengono rimproverate senza avere la possibilità di rifiutare queste imputazioni.

Sono due obiezioni di tipo giuridico, oltre che di tipo morale, che rendono particolarmente significativo questo lontano precedente, perché quando Beccaria scriveva queste cose, nel 1764, la pena di morte era normale in tutta Europa.

Ancora un’ultima riflessione vorrei fare sull’articolo della costituzione in cui si dice: l’Italia ripudia la guerra. È un altro articolo che esprime più un auspicio che una condizione strettamente vincolante; ci sono state polemiche sulla partecipazione di soldati italiani a vicende più o meni recenti, per esempio dei Balcani: guerra o non guerra? È un ripudio o non è un ripudio?

Inviterei a vedere questo principio nel senso di un auspicio, come una scelta di fondo: si considera la guerra come un tipico disvalore, per usare la parola tecnica che nel linguaggio del diritto indica qualcosa di negativo da cui la società deve difendersi.

LE LINGUE CAMBIANO

La seconda riflessione che vorrei fare riguarda l’ambito specifico dei miei studi, la lingua, e si riferisce alla necessità linguistica adeguata per l’insieme dei cittadini. La padronanza linguistica implica andare oltre le parole che costituiscono il patrimonio spontaneo di qualunque parlante, quelle che un grande linguista scomparso, Tullio De Mauro, aveva calcolato secondo un complesso sistema di elaborazione in parole del lessico fondamentale – per esempio “ma”, “andare”, “il” o anche “gatto”, “cane” -, parole di alto uso e parole di alta disponibilità.

Le parole di alto uso sono parole di alta frequenza, appena un po’ meno, e le parole di alta disponibilità sono le parole che ciascuno di noi per molti giorni potrebbe non pronunciare mai, non avere modo di evocare, ma che rappresentano però parole che appartengono al nostro orizzonte quotidiano: “aceto” o “alluce”…

C’è questo zoccolo duro di parole che costituiscono l’elemento portante della lingua di ciascuno di noi. Però ci sono parole che vanno oltre, e di cui la scuola in particolare deve farsi carico. Quali parole?

 Prima di tutto le parole che indicano la continuità con la nostra grande tradizione scritta. L’esempio che vorrei fare è attinto da Dante, che è un poeta centrale della nostra esperienza linguistica, non solo perché la sua immagine figura sulla moneta da due euro.

In Dante ci sono molte parole che usiamo ma con un significato diverso. Prendere coscienza di questa evoluzione è un buon modo per storicizzare la trasformazione delle lingue che è un dato assolutamente normale. Però è importante, nel caso della tradizione letteraria, mantenere questo senso di continuità.

Faccio due esempi presi dal ventiseiesimo canto del purgatorio; è il canto in cui Dante incontra tra gli spiriti purganti i lussuriosi. Tra i lussuriosi ci sono quelli contro natura e quelli secondo natura; invece i sodomiti erano stati peggio nell’inferno, distinti dai lussuriosi. Ma non mi interessava qui quest’aspetto, quanto la parola “stupido”. Oggi forse è al gradino più basso dei possibili insulti. Stupido è qualcosa da bambino, qualcosa che ci fa quasi tenerezza. Ma in Dante stupido non vuol dire poco intelligente.

Dante dice per descrivere lo stupore che questi purganti provano nel vedere un vivo come Dante, con tanto di ombra che si aggira nell’oltremondo: «Non altrimenti stupido si turba / lo montanaro, e rimirando ammira / quando rozzo il salvatico si inurba». Allo stesso modo il montanaro che arriva nella città, si trova in un ambiente assolutamente ignoto, e si guarda intorno stupefatto, esprimendo questa sua meraviglia.

L’altro esempio tratto dallo stesso canto è quello di “scemo”. Scemo è oggi sullo stesso piano di stupido. Invece in Dante vuol dire ancora “mancante”, “privo”. Esiste oggi un verbo, non comune ma ancora in uso, che è scemare, diminuire, ridurre. Dice infatti Guido Guinizzelli nel ventiseiesimo canto del Purgatorio: «Farotti ben di me volere scemo. Cioè: toglierò il tuo desiderio di sapere chi io sia dicendoti il mio nome. Farotti ben di me volere scemo: / son Guido Guinizzelli; e già mi purgo / per ben dolermi prima ch’a lo stremo». Scemo e stupido, parole comuni, che però in Dante hanno significato diverso. Questa è una buona occasione per riflettere anche sulla lingua, su come cambia nel corso del tempo.

LA NECESSITÀ LINGUISTICA 

Tenere conto della continuità con la lingua del passato ma tenere conto anche della consapevolezza di capire la lingua di oggi a livello appena colto. Quale è il livello appena colto a cui faccio riferimento? Quello dei giornali. Per darvi l’idea di quello che dico, ho ritagliato un articolo del Corriere della sera di oggi ed è un articolo che tutti, credo, anche un ragazzo delle medie, non dico delle elementari, potrebbe leggere. È un articolo sulla Tav: riporta le dichiarazioni del ministro Toninelli, con il titolo «“Valuteremo se fermare la Tav”. Timori senza fondamento». Ora mi soffermo su tre, quattro parole, parole molto comuni. Ma mi chiedo – avendo insegnato per tanto tempo, e avendo anche avuto anche rapporti molto frequenti con il mondo della scuola, con il mondo degli insegnanti – quanti ragazzini saprebbero capire le parole su cui mi soffermo.

«Basta con le grandi opere infrastrutturali, mastodontiche, dispendiose». Infrastruttura è una parola importante in economia. Ed è una parola che non si ricava da gran parte delle letture che si fanno a scuola, perché non capita che gli autori letti a scuola parlino di infrastruttura o infrastrutturale, che sono parole la cui attestazioni risale a non più di cinquanta o sessant’anni fa. Però la parola infrastruttura è importante per indicare tutta una serie di interventi che si fanno sul piano dei trasporti, dell’edilizia, delle fognature. Non conoscerla vuol dire partire male nella lettura di un articolo come questo abbastanza banale.

Andando oltre troviamo il verbo recedere: «Gli eventuali costi di tutte le alternative compresa quella di recedere dalla prosecuzione dell’opera». Recedere è un bel verbo, che ci permette, ove avessimo mai una minima, davvero minima competenza in latino, quella che si può avere anche solo nel bienno del linguistico di scienze sociali, o a maggior ragione nel liceo scientifico o nel liceo classico, di fare un’osservazione che ci permette di collegare recedere a una famiglia lessicale che è ben viva anche in italiano. L’unica informazione in più che darei è che recedere, verbo già latino formato da cedo, indicava un movimento.

 Il significato fondamentale è quello di andare. Poi, forse anche per un meccanismo eufemistico, già in latino cedere è passato dal significato di andare a quello di ritirarsi; le sconfitte, i ripiegamenti di un esercito in conflitto sono in generale sempre velati perché considerati una sconfitta che è difficile ammettere.

Altri due esempi: «tra gli annunci figura l’arrivo del nuovo codice degli appalti». Figura è un sinonimo più ricercato ma non particolarmente arduo, di quello che noi parlando abitualmente, parlando in maniche di camicia, diremmo c’è. Figura è una possibilità tipica della lingua scritta che ha un lessico più ricercato, più articolato. L’altro elemento non è lessicale ma morfologico, cioè bensì.

Leggo il brano: «Su Alitalia, per esempio, l’indicazione è che non vada semplicemente salvata, bensì rilanciata nell’ambito…». Tutti i parlanti italiani sanno o intuiscono che non si potrebbe dire qui però. Ed è interessante riflettere sulla differenza tra bensì e però. Perché bensì sostituisce, cancella la affermazione fatta in precedenza – «Non siamo nel quarto municipio, bensì nel terzo». Potrei dire anche ma naturalmente. Non potrei dire però, non avrebbe senso, ci sarebbe una violazione logica; perché però lascia sussistere, modificandolo, attenuandolo, ciò che viene detto prima.

Questa riflessione serve a prendere coscienza di un uso che già noi abbiamo. Permettetemi di fare un passo indietro, di ritornare solo per un momento alla cittadinanza e alla Costituzione. Ci sono degli articoli della Costituzione, che tutti quanti applichiamo perché abbiamo interiorizzato ma che non sapremmo riconoscere nella loro formulazione. Facciamo un esempio: l’articolo 3, quello da cui sono partito, Tutti sono uguali.

Non c’è alcun dubbio che è una realtà che tutti noi diamo per assolutamente scontata nella concretezza dei rapporti anche famigliari, insomma non c’è nessun padre che penserebbe di lasciare i suoi averi in una misura diversa ai figli perché uno è maschio e l’altro è femmina; è impensabile.

Però se voi uscite di qui e andate a chiedere a Viale Jonio o a via Scarpànto e chiedete alla prima persona che incontrate che cosa dice l’articolo 3, vedrete che i casi sono tre: c’è una minoranza che risponde, una maggioranza che vi guarda come mezzi pazzi e pensa che vogliate chiedergli soldi, e un altro gruppo che non lo sa.

L’articolo non si sa, ma il concetto è presente. E così anche il rapporto tra ma, però e bensì. Ed è una occasione di riflessione perché nella scuola c’è anche una giusta competenza da sviluppare, una competenza come si dice metalinguistica.

LA CITTADINANZA DELLA LINGUA

Terzo punto sul quale vorrei fare qualche considerazione è la padronanza della lingua da assicurare ai cittadini stranieri. Questa è una condizione fondamentale per quanto riguarda l’integrazione; ci sono altre condizioni che rappresenterebbero se fossero richieste una violenza. Non potremmo chiedere a nessuno di abdicare alla propria religione. Ma neanche di rinunciare alla sua cucina regionale, alla sua cucina etnica.

Tra i vari problemi di convivenza, che sono problemi tra gruppi etnici diversi, c’è il fatto che in alcune cucine si sentono odori che sono sgraditi alla nostra tradizione; non potremmo però dire: tu sei venuto in Italia e devi mangiare spaghetti e non i vari piatti.

Possiamo invece chiedere due cose, o aspettarci due cose: la prima è la padronanza della lingua che in genere gli stranieri sono ben disposti a imparare perché è il modo di comunicare con la realtà che li circonda.

Tuttavia, si dovrebbe fare molto di più da parte dello Stato, perché è nell’interesse dello Stato garantire questo livello di integrazione. E naturalmente, l’altro livello che noi possiamo aspettarci – e lo dico proprio richiamandomi al concetto da cui sono partito, la Costituzione – è il rispetto dei principi generali.

Non possiamo abdicare al principio che per noi è fondante dell’uguaglianza, non possiamo ammettere che ci possano essere differenze tra uomo e donna. Colui che viene nel nostro paese, nel nostro sistema, deve rispecchiarsi in questi valori.

Quindi non si tratta di chiedere conoscenze storiche come in altri paesi è avvenuto; mi risulta anche in Svizzera, per esempio; immaginate se facessimo domande di storia patria quanti sono i cittadini italianissimi che non saprebbero rispondere. Chiediamo invece la competenza linguistica, che procederà attraverso richieste diverse rispetto a quelle a cui alludevo prima. Sono importanti, come sanno coloro che insegnano l’italiano elementare, le formule che si usano nella lingua di tutti i giorni, e che rappresentano delle formule con una forte caratura idiomatica.

La lingua madre – lo ha osservato una scienziata milanese, l’immunologa Maria Luisa Villa – ha un potere straordinario: «La lingua materna ha una superiore capacità di dare corpo ai pensieri e di trasformarle in parole chiare, perché nel corso dell’acquisizione infantile essa plasma in modo le strutture della mia mente». Questa osservazione di Maria Luisa Villa è stata fatta in un suo brillante opuscolo sul principio che l’inglese non basta. Come sapete, nella scienza e non solo nella scienza l’inglese domina senza rivale.

Però, sottolineava la Villa, questo non può essere un buon motivo per abbandonare la lingua materna proprio per la sua capacità di modellare il pensiero, come avviene nell’acquisizione che in modo straordinario – se lo guardiamo dall’esterno – qualunque bambino in qualunque parte del mondo riesce a compiere impadronendosi di una lingua complessa.

E l’osservazione ingenua che qualunque adulto è tentato di fare è di meravigliarsi che bambini cinesi o svedesi possano padroneggiare delle lingue così difficili; naturalmente nessun adulto la fa un’osservazione di questo tipo. Vero è però che proprio in base alla distanza tipologica tra italiano e cinese, e appena un po’ meno tra italiano e svedese, la difficoltà di apprendere questa lingua da adulto è molto maggiore.

Ma questo solo per ricordare che il compito di diffondere l’italiano agli stranieri è compito nostro in generale come società, ed è veramente questo sì un modo per difendere o per proteggere l’italiano, quello di moltiplicarne il più possibile l’uso nei confronti di persone che per contingenze di vita si trovano anche particolarmente esposte a questa esigenza e sono tendenzialmente pronte ad accettarlo. 

LUCA SERIANNI, Linguista

Gian Antonio Stella per il "Corriere della Sera" l'8 febbraio 2022

«Silvi, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale, / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, / e tu, liet e pensos , il limitare / di gioventú salivi?». Direte: che roba? Giacomo Leopardi politically correct: amava Silvia, Silvio o un neutro «non binario»? E l'università, tra le proteste, si adegua. Sia chiaro: aggiustata a modo suo la stupenda poesia leopardiana, il linguista Massimo Arcangeli scommette che lo stesso recanatese capirebbe la provocazione e metterebbe la sua firma in calce all'appello contro l'abuso dello (della?) «schwa» che, pubblicato online sabato da change.org, ha già superato le seimila adesioni e sale rapidamente sempre più su, su, su Con l'arrivo via via di firme quali quelle di Luca Serianni ed Edith Bruck, Alessandro Barbero e Massimo Cacciari, Paolo Flores d'Arcais e tantissimi scrittori, storici, artisti e letterati con in testa Claudio Marazzini, il presidente dell'Accademia della Crusca.

L'istituzione che già mesi fa intervenne in modo molto duro contro l'introduzione dell'«e» capovolto, appunto lo schwa cocciutamente voluto dai promotori «per rendere la lingua italiana più inclusiva e meno legata al predominio maschilista». Esempi? Ecco tre estratti col copia-incolla di sei verbali «redatti da una Commissione per l'abilitazione scientifica nazionale» alle funzioni di professore universitario. «Sono presenti i Professor3...», dove il «3» (in gergo «schwa lungo») sta per professori maschi, femmine e non binari. Oppure: «Ciascun component della Commissione dichiara di non avere relazioni di parentela e/o di affinità, entro il 4° grado incluso, con gli altr3 Commissar3...»

E ancora: «La consultazione da parte dell3 Commissar3 delle pubblicazioni dell3 candidat3 soggette a copyright avverrà nel rispetto della normativa vigente» Al che ti chiedi, al di là dell'ennesimo contorsionismo buro- linguistico di queste regolette che decine di concorsi taroccati dimostrano essere forse formalmente ineccepibili ma troppo spesso manovrabili da inamidati baroni: e gli articoli? «Gli» altr3 Commissar3?«Dell3 candidat3 soggette»? Mascoli asessuati i primi, femmine asessuate le seconde? Ma che modo è di scrivere? C'è poi da stupirsi se troppe procedure concorsuali vengono impugnate per la loro non innocente ambiguità?

La Verità di Maurizio Belpietro tira direttamente in ballo la stessa ministra dell'Università e della Ricerca Maria Cristina Messa, accusandola di aver deciso di «piegarsi all'uso dello schwa in documenti ufficiali come le delibere con gli esiti delle selezioni del personale». Per carità, la colpa non sarà tutta sua ma non danno fastidio anche a lei certe ipocrisie che coprono con un velo storici bullismi baronali arrivati perfino dentro alcuni degli atenei più prestigiosi?

«Siamo di fronte a una pericolosa deriva, spacciata per anelito d'inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l'italiano a suon di schwa», dice la petizione di protesta lanciata da Arcangeli, «I promotori dell'ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l'uso della "e rovesciata" non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predicano regole inaccettabili, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche». 

Peggio: «I fautori dello schwa, proposta di una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un'intera comunità di parlanti e di scriventi, esortano a sostituire i pronomi personali "lui" e "lei" con "l i", e sostengono che le forme inclusive di "direttore" o "pittore, "autore" o "lettore" debbano essere "direttor " e "pittor ", autor " e "lettor ", sancendo di fatto la morte di "direttrice" e "pittrice", "autrice" e "lettrice". Ci sono voluti secoli per arrivare a molti di questi femminili».

Il tutto per un «perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell'inclusività». Con derive come il possibile orientamento verso un neutro omni-benedicente che sostituirebbe «cari tutti, care tutte, car tutt » con la «u» di «Caru tuttu» che richiamerebbe gli strepitosi sketch di Aldo Giovanni e Giacomo dove «Nico il sardo» aveva «nove fratelli e nove cognati che si chiamavano Parrego, Nagasella, Parasanna, Apinno, Gusunilla, Parassinna, Cassacarragnu».

Sinceramente: è su queste cose che si misura il rispetto delle regole, il rispetto dei candidati, il rispetto delle persone che non si riconoscono nell'uno o nell'altro sesso? Mah... Dice la scrittrice Michela Murgia di aver infilato nel suo ultimo libro ( Morgana. L'uomo ricco sono io scritto insieme con Chiara Tagliaferri) un sacco di schwa perché «all'interno di un sistema sessista come il nostro lo schwa è un inciampo necessario dell'occhio.

Sta al sessismo del linguaggio come il vaccino sta al Covid: non cancella la presenza del virus, non è la cura definitiva, ma una modalità per attivare anticorpi». Opinioni. Certo è che l'innovazione, finora, non è piaciuta a un po' tutti i linguisti a partire da Luca Serianni che ha inserito nel nuovo dizionario Devoto-Oli oltre 500 parole nuove (da covidico a climaticida) ma ha spiegato a Simonetta Fiori di voler restare alla larga da asterischi e schwa: «I segni grafici di cui parliamo non hanno un corrispettivo nel parlato. E qualunque lingua è in primo luogo una lingua parlata. Lo schwa che resa può avere? Nessuna».

Men che meno è piaciuta al presidente onorario della Crusca Francesco Sabatini: «So bene perché vogliono introdurlo, quel neutro, ma in italiano non c'è. C'è in abruzzese, se vogliono. Noi il fuoco lo chiamiamo, se proprio vogliamo azzardare qualcosa che foneticamente gli assomiglia "fogh&". È quel suono alla francese che non è né la "e" chiusa , né la "e" aperta, né la o, né la u, né la a... Ma qui si vuole imporre un'altra cosa. Un rovesciamento della lingua creato artificialmente, dall'alto, per motivazioni estranee. Dovremmo rivedere Dante, Petrarca, Leopardi e tutti gli altri? E la poesia, cosa sarebbe della poesia?».

La minoranza che vuole imporre lo schwa: "Distrugge l'italiano". Roberto Vivaldelli il 17 Febbraio 2022 su Il Giornale.

"Chi difende lo schwa sa benissimo che è impossibile applicarlo sistematicamente. Se lo si facesse, staremmo parlando di una lingua che non è più quella italiana". Parola di Massimo Arcangeli, linguista e promotore della petizione contro l'uso dello "schwa".

Da una parte linguisti, intellettuali, filosofi che vogliono difendere la lingua italiana, dall'altra una minoranza ideologizzata e "woke" che vorrebbe applicare in maniera indiscriminata e generalizzata lo "schwa" con l'alibi dell'inclusività, imponendo la propria visione del mondo a un'intera comunità. Si può riassumere così il dibattito che si sta consumando in questi giorni sull'uso dello schwa, - rappresentato da "ə", che gli attivisti identitari vorrebbero introdurre al posto delle desinenze maschili e femminili per definire le identità non binarie - oggetto di una petizione diffusa su change.org che ha già superato le 21 mila firme, intitolata "Lo schwa (ə)? No, grazie. Pro lingua nostra".

Sottoscritta da fior fiore di intellettuali e filosofi non certo di destra o conservatori come Massimo Cacciari, Alessandro Barbero, e Paolo Flores d'Arcais, da Claudio Marazzini, presidente dell'Accademia della Crusca, ma anche da attrici note come Barbara De Rossi e da registe come Cristina Comencini, è stata promossa dal professor Massimo Arcangeli, linguista e scrittore, ordinario di Linguistica italiana presso l'Università di Cagliari. Una reazione del mondo accademico e dell'intellighenzia contro quella che appare una vera e propria imposizione, anche se i fautori dello schwa, dalla scrittrice gauche caviar Michela Murgia alla linguista Vera Gheno, negano quest'accusa e spiegano che si tratta solo di una proposta, di un "esperimento". Per Murgia, infatti, come ha scritto in un tweet chiaramente allusivo, quella degli intellettuali anti-schwa è in poche parole "una petizione insensata, disperata, reazionaria e senza destinatario pretendendo che il mio gusto sia norma per tuttə".

Il simbolo "inclusivo" finisce sui documenti istituzionali: "Inaccettabile"

Abbiamo raggiunto il docente e sociologo della comunicazione Massimo Arcangeli per approfondire il tema e capire perché sarebbe un grave errore sottovalutare l'introduzione dello schwa nella nostra lingua, come se nulla fosse. "Il problema principale dello schwa, ed è l’unico davvero rilevante, è che stiamo parlando di simboli che incidono in modo profondo nella struttura morfo-sintattica dell’italiano" spiega Arcangeli al Giornale.it. La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso che ha convinto il professore a reagire e a promuovere la petizione è stata l'introduzione del simbolo "inclusivo" in alcuni documenti ufficiali. Nello specifico, lo "schwa" è stato impiegato di recente da una commissione di docenti in una procedura per il conseguimento dell'abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia. Un'offensiva intollerabile alla lingua italiana in un documento pubblico e ufficiale.

La cosa più grave, osserva, è che lo schwa è finito "in ben sei verbali prodotti da una commissione per l’abilitazione nazionale alla professione universitaria. E questo è inaccettabile". Come sottolinea il noto linguista, parliamo di documenti pubblici, non di circolari interne, a disposizione di tutti. "Usi di questo tipo - sottolinea - ledono il principio di trasparenza e della sana comunicazione. Chi difende lo schwa sa benissimo che è impossibile applicarlo sistematicamente. Se lo si facesse, staremmo parlando di una lingua che non è più quella italiana. Perché non parliamo solo di desinenze legate ai nomi; i nomi si portano dietro i participi passati, gli aggettivi, gli articoli, le preposizioni articolate. È un terremo vero e proprio". Secondo Arcangeli, "ognuno può sperimentare la lingua che crede. Ma nel momento in cui questi simboli finiscono in atti pubblici che rendono, se si applicano in modo profondo, illeggibile il testo, allora questo non è tollerabile".

"Prevale una visione ideologica"

Non era la prima volta, in realtà, che il simbolo dell'inclusione woke finiva in un documento ufficiale. Lo scorso aprile, ad esempio, il comune di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena, ha cominciato a impiegare in alcune comunicazioni il simbolo fonetico oggetto della polemica di queste settimane. Anche se la prima a "sdoganare" l'uso dello schwa nella lingua italiana è stata forse la già citata Michela Murgia. In un articolo pubblicato lo scorso anno sull'Espresso intitolato Perché non basta essere Giorgia Meloni, ha fatto largo uso della e rovesciata per rendere neutre le desinenze, scatenando le polemiche sul web e sui social network. Tornando alla commissione universitaria, la cosa più grave, spiega sempre Arcangeli, "è che i commissari di cui parliamo hanno imposto la 'regola' sia a se stessi, sia ai candidati. Bisognerebbe dunque presupporre che siano tutti di identità non binaria. Non può essere ovviamente così. Quindi la generalizzazione coatta, gratuita e immotivata, rende ancora più surreale la questione. Se fosse dinanzi a una persona che si dichiara non binaria, troverei le forme per rivolgermi a lui o a lei, con il massimo rispetto. In ogni contesto, soprattutto di civiltà, è ciò si deve fare".

Le argomentazioni del professor Arcangeli prendono in esame il lato "tecnico" e linguistico della questione. Non è un'opposizione a prescindere. Peccato che dall'altra parte della barricata gli argomenti siano davvero poveri e prevalga una visione politico/ideologica e si ignorino completamente le criticità. Esempio concreto? Avete mai provato a pronunciare ad alta voce un testo condito di schwa? Flavia Fratello su Radio radicale ci ha già provato e l'esperimento non è andato a buon fine, per usare un eufemismo. Questioni che ai promotori sembrano non interessare, motivati da una spinta fortemente ideologica e identitaria. "Per me non è una questione ideologica - afferma - io parlo da tecnico, da linguista. Purtroppo, invece, sull’altro fronte non ci si rende del problema tecnico, o meglio, non lo si vuole far emergere, e quindi la questione diventa puramente ideologica, politica. È questa la cosa più paradossale". Basterebbe un po' di buon senso. Come spiega il professore, dopotutto, se ci si mettesse attorno a un tavolo e si valutassero gli effetti dell'uso sistematico dello schwa sulla lingua italiana tutti riconoscerebbero immediatamente che è impossibile da applicare. "Questo purtroppo non lo si vuole fare, proprio perché per questa minoranza la questione non è linguista, non è tecnica, ma è per l’appunto ideologica, e questi sono gli effetti. E infatti la qualità del dibattito di questi ultimi giorni sul tema non lo conferma. Un conto è argomentare, un altro è prendere tutto come se fosse una burla, o peggio" osserva.

Anche in Francia è battaglia sul "linguaggio inclusivo"

Un altro serio problema dello schwa e del suo uso sistematico, largamente sottovalutato dai suoi promotori, è che rischia di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche. Altro che simbolo inclusivo, dunque. "Su questo in Francia sono stati fatti degli studi molto puntuali" conferma il docente e scrittore. Sempre in Francia, "l'Académie françaisesi si è pronunciata contro i simboli inclusivi, tant'è che lo scorso anno il ministero della pubblica istruzione in una circolare ha vietato, tassativamente, questi simboli nei documenti prodotti dalla pubblica amministrazione. Per loro si parla perlopiù del punto mediano, più che dello schwa. Lo stesso è accaduto in Spagna". A proposito della Francia, infatti, lo scorso 19 novembre, sulle colonne di questa testata vi abbiamo raccontato di come il pronome neutro "iel" - contrazione di "il" ( lui) e "elle" ( lei"), utilizzato dalle persone che si definiscono "non binarie" e che dunque non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile - abbia fatto il suo ingresso nel Petit Robert, equivalente del nostro dizionario Garzanti. Il pronome neutro è stato introdotto perché, secondo Le Petit Robert, viene sempre più usato dai francesi e sta diventando una parola comune, scatenando le proteste deputato di En Marche François Jolivet e del ministro dell'Istruzione nazionale, Jean-Michel Blanquer, secondo il quale "la scrittura inclusiva non è il futuro della lingua francese". A schierarsi contro l'introduzione del pronome neutro nel dizionario francese è stato anche lo scrittore e membro dell'académie française, Jean-Marie Rouart. Segno che il dibattito sulla scrittura inclusiva non coinvolge solo il nostro Paese ma tutto l'occidente, sempre più alle prese con le istanze identitarie.

"Una minoranza che pretende di imporre la sua visione"

I sostenitori dello schwa obiettano che la lingua è in continua evoluzione e l’inclusività passa necessariamente anche attraverso le regole della linguistica. Dunque da necessarie "forzature". Dicono inoltre che la loro non è un'imposizione, ma una proposta. Per il professor Maurizio Decastri, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera e condiviso, fra gli altri, da Luca Sofri e da Michela Murgia, "non saranno alcuni intellettuali a fermare la vitalità della lingua". Ma la domanda di fondo rimane la medesima: chi stabilisce che una lingua debba cambiare in un senso o in un altro? Una minoranza ideologica che pretende di avere ragione e di sovrastare una maggioranza che di schwa non ne vuole nemmeno sentir parlare? Come spiega Arcangeli, infatti, "un conto è accompagnare il processo di cambiamento anche con la crescita sociale, un altro è pretendere di applicare da un giorno all'altro simboli e segni che distruggono dall’interno la lingua". Le lingue, osserva, "non cambiano per volontà di una minoranza, cambiano quando i parlanti e gli scriventi accettano e assimilano il cambiamento. Qui, tuttavia, stiamo parlando di una minoranza che pretende di imporre la sua visione su intera comunità nazionale con l’alibi dell’inclusività. Io non recederò di un millimetro".

Altro aspetto paradossale di questa battaglia culturale è che i fautori dell'inclusività esortano a sostituire i pronomi personali "lui" e "lei" con "ləi", e sostengono che le forme inclusive di "direttore" o "pittore, "autore" o "lettore" debbano essere "direttorə" e "pittorə", autorə" e "lettorə", sancendo di fatto la morte di "direttrice" e "pittrice", "autrice" e "lettrice". "Sono favorevole a sindaca e assessora - spiega - e questo è un altro motivo che mi ha spinto a lanciare la petizione. Lo schwa distrugge almeno un centinaio di femminili consolidati. Io faccio una battaglia da almeno un ventennio sulla femminilizzazione. Si dice sindaca e ministra e questo rischia di andare in malora solo perché qualcuno pensa che si debba applicare in maniera indiscriminata una forma inclusiva che cancella anche i femminili". Follie del politicamente corretto.

Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali,  è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in varie lingue e pubblicati su siti internazionali

Mortificano le vere lotte femministe, Hoara Borselli all'attacco delle barricate della sinistra per il cognome materno. Hoara Borselli su Il Tempo il 20 febbraio 2022.

 Le frasi e le declinazioni al femminile, gli asterischi, la schwa: per la sinistra le parole sono fondamentali e inclusive, tanto che finisce per perdersi in sterili battaglie ideologiche sulle lettere. L'ultima «conquista» di genere arriva dalle parole pronunciate dal ministro delle Pari opportunità, Elena Bonetti, in un'intervista rilasciata al Corriere il 18 Febbraio, sul provvedimento, in corso di approvazione al Senato, che permetterebbe alle donne di attribuire al figlio il proprio cognome. La Bonetti ribadisce: «Ai figli il cognome della madre. Basta rinviare la libertà delle donne».

Difficile, se non impossibile, trovare un nesso logico tra l'attribuzione del cognome della madre ai figli e la conquista di libertà per le donne. Se il senso delle lotte femministe nostrane per l'emancipazione della donna passa dal nome di appartenenza, è il caso di ricordare loro quali battaglie hanno dovuto affrontare le nostre paladine per portare in dote al genere femminile conquiste come la legge 898 sul divorzio del 1° Dicembre 1970 e la 194 sull'aborto, del 22 Maggio 1978. E poi la riforma dello stato di famiglia, e l'abolizione del reato di adulterio (che era un reato esclusivamente femminile), per non parlare del diritto di entrare in magistratura (1964) e nel governo col rango di ministro (1976). Un tempo le femministe combattevano per ideali concreti per migliorare veramente la condizione della donna. Sessualità, stupro, violenza domestica, costruzione degli asili, erano ciò per cui venivano riempite le piazze con vere rivoluzioni culturali. Oggi quelle stesse femministe, di fronte alla proposta della Bonetti, lancerebbero il loro il fazzoletto rosa al vento, in segno di resa. «La battaglia dei cognomi» può calare un mesto sipario su quello che fu, e aprire scenari desolanti su ciò che sarà. Immersi nella sterile narrazione di un politicamente corretto esasperato, che non consente di parlare delle donne come persone che si possono difendere.

Il MeToo ha consegnato l'immagine del genere femminile come quella di un burattino fragile e senza coraggio. Un femminismo negazionista che per affermare il giusto principio di difesa, di quello che un tempo veniva definito «sesso debole», non ammette riflessioni e tratta le ragazze come esseri inconsapevoli, in balia degli eventi, destinate ad essere dominate dagli uomini. Attribuire ai figli il cognome della madre è veramente la conquista di emancipazione cui si sentiva il bisogno? L'enigma del cognome pone poi un ulteriore quesito sterile: se i genitori non dovessero trovare l'accordo per il nome cosa succede? A questa domanda il ministro Bonetti propone che venga attribuito il doppio cognome in ordine alfabetico, mozione che viene subito rimandata alla mittente nell'intervista in quanto viene fatto notare che in questo modo, tra qualche generazione, i bambini avranno decine di cognomi. La risposta del ministro di IV è degna del miglior Antani di «Amici Miei»: «Innanzitutto non è obbligatorio aggiungere entrambi i cognomi. Si può decidere per uno solo, quello della madre o del padre indifferentemente. Il legislatore cercherà sicuramente di semplificare, ma la semplicità non consiste di certo nell'attribuire in automatico, e sempre, il cognome del padre, come avviene adesso».

Ci troviamo di fronte all'ennesima sterile controversia ideologica di sinistra. Per i democratici, la battaglia contro la nomenclatura parentale diventa una priorità essenziale, riducendo e depotenziando gli argomenti concreti per le donne come le discriminazioni sul lavoro o le adozioni. Al contrario è più proficuo perdersi nel politicamente corretto della linguistica per dare un segnale fatuo di rivoluzione culturale. Pochi giorni fa è stata promossa una raccolta firme «a difesa della lingua nostra» su change.org, dopo che il ministero dell'Istruzione aveva usato la schwa in un documento ufficiale, scatenando una petizione contro il famigerato asterisco in quanto «frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell'inclusività». Da madre mi sono chiesta se poter attribuire ai miei figli il mio cognome avrebbe legittimato il mio ruolo più di quanto già non lo sia. «No», mi sono risposta, anzi, se sentissi la necessità di vedermi un passo avanti rispetto al padre per sentirmi migliore, vorrebbe dire che il MeToo è stato invasivo nella mia testa più di quanto non lo sia stato un figlio nel mio corpo. 

SCHWA E DINTORNI. Solo la lingua che ci esclude riesce a produrre saggezza. TIZIANO SCARPA su Il Domani il 15 febbraio 2022

L’idea che la lingua debba essere inclusiva è puerile. Voler essere rappresentati dalle parole è un’illusione che può trasformarsi in un errore politico.

Le parole non ci rappresentano. Nessuna parola, mai. Nella diffidenza verso le parole, lì sta la nostra possibilità, il nostro posto nel mondo: che non è dentro le parole, ma nell’ombra che le parole gettano di fianco a sé stesse.

La lingua non è all’altezza, la lingua è inadatta, ce lo dice lei stessa in continuazione. Una delle cose più belle al mondo, i riflessi di sole sull’acqua che proiettano reticoli di luce sugli scafi delle barche e sugli intonaci delle case, in italiano si chiama “gibigianna”, una delle parole più goffe che si potessero concepire per nominare una simile meraviglia.

TIZIANO SCARPA. Romanziere, poeta e drammaturgo. Il suo ultimolibroè La penultima magia (Einaudi 2020). Tra i titoli più recenti, Stabat Mater(Einaudi 2008, premio Strega 2009 e Premio SuperMondello 2009), L’inseguitore (Feltrinelli 2008), Discorso di una guida turistica di fronte altramonto (Amos 2008), Le cose fondamentali (Einaudi 2010 e 2012), La vita, non il mondo (Laterza 2010), Il brevetto del geco (Einaudi 2016 e 2017), Il cipiglio del gufo (2018 e 2020)

IL DIBATTITO SULLO SCHWA. Lo schwa: con la lingua ci riappropriamo della nostra differenza. JONATHAN BAZZI, Scrittore, su Il Domani l'08 novembre 2021

Instagram da qualche tempo offre la possibilità di indicare il genere in cui ci si riconosce: maschile, femminile o non binario. Adesso posso dirlo: quanta aria in più nella mia mente dopo aver selezionato quel they/them.

Non mi sento maschio, non mi sono mai sentito maschio, non sono un lui e non sono una lei. Prima di averlo capito, mi è stato fatto notare. A cinque, sette, dieci anni: quel che sono, dal punto di vista dell’identità di genere, sin dalla prima infanzia ha creato problemi.

Non si tratta affatto di una posizione ideologica, come qualcuno dice, o di un gioco, una posa, una moda. Nel mio caso quei pronomi testimoniano un modo di essere, personale ma anche collettivo.

JONATHAN BAZZI. Scrittore. Ha esordito nel 2019 con Febbre (Fandango), Libro dell’Anno di Fahrenheit, Premio Bagutta Opera Prima e finalista al Premio Strega.

CONTRO LA NARRAZIONE TOSSICA. Chi ha paura dell’evoluzione? La schwa non è l’apocalisse. MANUELA MANERA, linguista, su Il Domani il 28 ottobre 2021

L’aumento di attenzione verso l’uso della lettera schwa, dell’asterisco, della desinenza -u, ovvero intorno alle proposte per rendere la lingua italiana un luogo in cui possano trovare espressione e pari dignità tutte le soggettività, sta provocando una serie crescente di reazioni ostili.

Tali pratiche linguistiche in questi ultimi due anni sono arrivate a un pubblico più ampio anche grazie ai social network, acceleratori dei mutamenti linguistici che nel corso del Novecento avvenivano con più lentezza.

A ben guardare alla storia, la lingua si autotutela: sopravvivono alle mode del momento solo quelle innovazioni che funzionano per il sistema, ovvero che permettono di trasmettere in modo chiaro un concetto e che sanno, nel contempo, rispondere alle nuove esigenze comunicative che si fanno strada. 

MANUELA MANERA. Linguista, autrice de La lingua che cambia. Rappresentare le identità di genere, creare gli immaginari, aprire lo spazio linguistico, Eris, 2021)

Abruzzə. La marziana di Pescara, la petizione contro lo schwa, e la erre moscia di famiglia. Assia Neumann Dayan su L'Inkiesta il 12 Febbraio 2022.

Il tempo che da piccola passavo a cercare parole senza la “r” che non sapevo pronunciare è lo stesso che impiegherei ora a formulare frasi tese a evitare il genere. E penso a quando non ci parleremo più per non offenderci, pure tra familiari. Che sollievo.

«Oggi un marziano è sceso con la sua aeronave a Villa Borghese, nel prato del galoppatoio»: il marziano in realtà è una signora sui 65 anni, viene da Pescara, e al suo arrivo una folla di bambini e bambine e donne deluse e uomini incompresi le chiedeva di insegnare loro a pronunciare lo schwa che, come apprendo dalla petizione su change.org, «trasformerebbe l’intera penisola, se lo adottassimo, in una terra di mezzo compresa pressappoco fra l’Abruzzo, il Lazio meridionale e il calabrese dell’area di Cosenza». 

I marziani, d’altro canto, conoscono perfettamente la questione meridionale. La signora abruzzese non capisce cosa sia questo schwa, lo pronuncia ma non lo capisce, e sembra mio figlio che non sa dire la erre, e mi commuove sempre quando mi dice: «Non so scrivere la erre perché non la so dire», e che concetto, signore mie. Ma allora perché non togliamo la erre, che così tante difficoltà crea nella mia famiglia, dall’alfabeto?

Io avevo l’erre moscia, era per me un grande motivo di vergogna, passavo molto tempo a immaginare frasi che non contenessero la erre e quindi non parlavo mai. Essendo nata scema, non ho scelto la via più giusta, ossia non parlare mai con nessuno, e che sogno, e che concetto pure questo, decisione per la quale ancora oggi mi maledico, ma mi misi a batter la lingua sul palato per anno, e sono guarita. La erre mi ha sempre offeso, e guardate voi che nemesi ho in casa. Maria Montessori la correggeva la erre? Oppure bisogna lasciare il bambino libero di esprimere il proprio potenziale anche se lo fa in maniera del tutto incomprensibile? È pure mancino, la mano gliela taglio o siamo a posto così?

Il tempo che passavo a cercare parole senza la erre è lo stesso tempo che impiegherei ora a formulare frasi tese a evitare il genere. Cristiana De Santis ha scritto un articolo molto interessante sul portale Treccani riguardo alla famigerata petizione contro lo schwa. Metà di quello che c’è scritto non l’ho capito perché c’erano troppe erre e troppo metodo, ma c’è una riflessione che mi ha fatto dire «pericolosa deriva, ma mai quanto me»: «Non si tratta di mettere al bando sedicenti “esperimenti”, ma di valutarne le conseguenze quando le sperimentazioni escono dall’uso militante e della comunicazione scritta personale. Compromettendo i diritti delle minoranze meno rumorose, tra cui rientrano anche i minori che vorremmo formare a un dominio sicuro del codice scritto, oltre che a un immaginario ricco e non stereotipato».

Ma certo, qua si vuole fare in modo di crescere bambini che sanno scrivere ma che non sanno leggere, verrà inserito lo schwa in mezzo all’alfabeto, un segno che non sanno né pronunciare né leggere, come un sentimento, una bontà d’animo, una erre.

La nostra signora marziana di Pescara non si è mai posta il problema di avere un linguaggio inclusivo, la figlia che vive a Milano le scrive su whatsapp messaggi pieni di asterischi, e rovesciate, cancelletti, tutte cose che lei non riesce a leggere né a capire, e pensa spesso ai soldi che ha speso per farla studiare. La figlia marziana pensa che la madre sia una bigotta che non capisce i problemi delle minoranze, la mamma marziana pensa che la figlia abbia problemi col telefono nuovo.

È andata a finire che sono anni che non si parlano. Finirà così per tutti? Penso alle cose che non esisteranno più tra dieci anni, tra cui i ladri d’appartamento, che tra opere d’arte in NFT e bitcoin potranno comodamente rubare dal divano, penso all’esame di maturità che verrà sostituito da una dichiarazione di buone intenzioni, penso a quando non ci parleremo più per non offenderci, pure tra familiari, e sapete che sollievo. Saper scrivere senza imparare a leggere: pericolosa deriva o grande metafora?

Schwa, la petizione dei linguisti ostili è a difesa della tradizione, non dell’italiano. CHRISTIAN RAIMO su Il Domani il 09 febbraio 2022.

Con una petizione su change.org, il linguista Massimo Arcangeli e diversi accademici contestano l'uso dello schwa, ossia la ə, la e rovesciata, nei plurali al posto del maschile sovraesteso.

Si dice che questa battaglia fatta in nome dell'inclusività è in realtà elitaria e dà risultati inadeguati se non comici. Io la penso al contrario.

L'idea di usare lo schwa non è l'elaborazione di qualche capricciosa camarilla intellettualoide ma una delle proposte che emergono nei movimenti femministi, transfemministi, nelle assemblee dove da anni discutono insieme studentesse e operaiə, docenti e attivistə.

CHRISTIAN RAIMO. Scrittore e traduttore. Ha collaborato con diverse riviste letterarie (Liberatura, Elliot-narrazioni, Accattone, Il maleppeggio), quotidiani (il manifesto, Liberazione (quotidiano)) e con la casa editrice romana Minimum fax. Con la stessa casa editrice ha pubblicato, nel 2001, la sua raccolta di racconti di esordio, Latte. Il suo primo romanzo, Il peso della grazia, è uscito nel 2012 per Einaudi.

Gian Antonio Stella per il "Corriere della Sera" l'8 febbraio 2022.

«Silvi, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale, / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, / e tu, liet e pensos , il limitare / di gioventú salivi?». Direte: che roba? Giacomo Leopardi politically correct: amava Silvia, Silvio o un neutro «non binario»? E l'università, tra le proteste, si adegua. Sia chiaro: aggiustata a modo suo la stupenda poesia leopardiana, il linguista Massimo Arcangeli scommette che lo stesso recanatese capirebbe la provocazione e metterebbe la sua firma in calce all'appello contro l'abuso dello (della?) «schwa» che, pubblicato online sabato da change.org, ha già superato le seimila adesioni e sale rapidamente sempre più su, su, su Con l'arrivo via via di firme quali quelle di Luca Serianni ed Edith Bruck, Alessandro Barbero e Massimo Cacciari, Paolo Flores d'Arcais e tantissimi scrittori, storici, artisti e letterati con in testa Claudio Marazzini, il presidente dell'Accademia della Crusca.

L'istituzione che già mesi fa intervenne in modo molto duro contro l'introduzione dell'«e» capovolto, appunto lo schwa cocciutamente voluto dai promotori «per rendere la lingua italiana più inclusiva e meno legata al predominio maschilista». Esempi? Ecco tre estratti col copia-incolla di sei verbali «redatti da una Commissione per l'abilitazione scientifica nazionale» alle funzioni di professore universitario. «Sono presenti i Professor3...», dove il «3» (in gergo «schwa lungo») sta per professori maschi, femmine e non binari. Oppure: «Ciascun component della Commissione dichiara di non avere relazioni di parentela e/o di affinità, entro il 4° grado incluso, con gli altr3 Commissar3...»

E ancora: «La consultazione da parte dell3 Commissar3 delle pubblicazioni dell3 candidat3 soggette a copyright avverrà nel rispetto della normativa vigente» Al che ti chiedi, al di là dell'ennesimo contorsionismo buro- linguistico di queste regolette che decine di concorsi taroccati dimostrano essere forse formalmente ineccepibili ma troppo spesso manovrabili da inamidati baroni: e gli articoli? «Gli» altr3 Commissar3?«Dell3 candidat3 soggette»? Mascoli asessuati i primi, femmine asessuate le seconde? Ma che modo è di scrivere? C'è poi da stupirsi se troppe procedure concorsuali vengono impugnate per la loro non innocente ambiguità?

La Verità di Maurizio Belpietro tira direttamente in ballo la stessa ministra dell'Università e della Ricerca Maria Cristina Messa, accusandola di aver deciso di «piegarsi all'uso dello schwa in documenti ufficiali come le delibere con gli esiti delle selezioni del personale». Per carità, la colpa non sarà tutta sua ma non danno fastidio anche a lei certe ipocrisie che coprono con un velo storici bullismi baronali arrivati perfino dentro alcuni degli atenei più prestigiosi?

«Siamo di fronte a una pericolosa deriva, spacciata per anelito d'inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l'italiano a suon di schwa», dice la petizione di protesta lanciata da Arcangeli, «I promotori dell'ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l'uso della "e rovesciata" non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predicano regole inaccettabili, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche». 

Peggio: «I fautori dello schwa, proposta di una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un'intera comunità di parlanti e di scriventi, esortano a sostituire i pronomi personali "lui" e "lei" con "l i", e sostengono che le forme inclusive di "direttore" o "pittore, "autore" o "lettore" debbano essere "direttor " e "pittor ", autor " e "lettor ", sancendo di fatto la morte di "direttrice" e "pittrice", "autrice" e "lettrice". Ci sono voluti secoli per arrivare a molti di questi femminili».

Il tutto per un «perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell'inclusività». Con derive come il possibile orientamento verso un neutro omni-benedicente che sostituirebbe «cari tutti, care tutte, car tutt » con la «u» di «Caru tuttu» che richiamerebbe gli strepitosi sketch di Aldo Giovanni e Giacomo dove «Nico il sardo» aveva «nove fratelli e nove cognati che si chiamavano Parrego, Nagasella, Parasanna, Apinno, Gusunilla, Parassinna, Cassacarragnu».

Sinceramente: è su queste cose che si misura il rispetto delle regole, il rispetto dei candidati, il rispetto delle persone che non si riconoscono nell'uno o nell'altro sesso? Mah... Dice la scrittrice Michela Murgia di aver infilato nel suo ultimo libro ( Morgana. L'uomo ricco sono io scritto insieme con Chiara Tagliaferri) un sacco di schwa perché «all'interno di un sistema sessista come il nostro lo schwa è un inciampo necessario dell'occhio.

Sta al sessismo del linguaggio come il vaccino sta al Covid: non cancella la presenza del virus, non è la cura definitiva, ma una modalità per attivare anticorpi». Opinioni. Certo è che l'innovazione, finora, non è piaciuta a un po' tutti i linguisti a partire da Luca Serianni che ha inserito nel nuovo dizionario Devoto-Oli oltre 500 parole nuove (da covidico a climaticida) ma ha spiegato a Simonetta Fiori di voler restare alla larga da asterischi e schwa: «I segni grafici di cui parliamo non hanno un corrispettivo nel parlato. E qualunque lingua è in primo luogo una lingua parlata. Lo schwa che resa può avere? Nessuna».

Men che meno è piaciuta al presidente onorario della Crusca Francesco Sabatini: «So bene perché vogliono introdurlo, quel neutro, ma in italiano non c'è. C'è in abruzzese, se vogliono. Noi il fuoco lo chiamiamo, se proprio vogliamo azzardare qualcosa che foneticamente gli assomiglia "fogh&". È quel suono alla francese che non è né la "e" chiusa , né la "e" aperta, né la o, né la u, né la a... Ma qui si vuole imporre un'altra cosa. Un rovesciamento della lingua creato artificialmente, dall'alto, per motivazioni estranee. Dovremmo rivedere Dante, Petrarca, Leopardi e tutti gli altri? E la poesia, cosa sarebbe della poesia?».

Anche gli intellettuali di sinistra si accorgono che la schwa è una follia. E parte la raccolta di firme. Angelica Orlandi sabato 5 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Una raccolta firme «a difesa della lingua nostra». È comparsa su Change.org dopo che il ministero dell’Istruzione ha usato la schwa (ə) in un documento ufficiale: una procedura concorsuale universitaria per l’abilitazione a professore universitario di Organizzazione aziendale. La vocale indistinta che abolisce le differenze di genere si trovava nel settore delle discipline economico-giuridiche. Avevamo ripreso l‘ennesima deriva omologante in ossequio al pensiero unico di cui aveva dato notizia la Verità neri giorni scorsi. Ebbene, qualcosa si è mosso e deve avere risvegliato le coscienze di molti intellettuali che si sono resi conto della deriva.   La petizione, lanciata da Massimo Arcangeli (linguista e scrittore, ordinario di Linguistica italiana all’Università di Cagliari), prende in esame un estratto del verbale pubblicato dal Miur. 

La petizione degli intellettuali contro la schwa su change.org

Guerra dichiarata contro l’uso della schwa, in questo caso applicata alla parola professore. Nell’invito a firmare si parla di «una pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l’italiano”. “Promotori dell’ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto; pur consapevoli che l’uso della “e” rovesciata non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico». Il linguaggio inclusivo, la neolingua che fa strage delle identità non aveva mai oltrepassato la soglia di documenti scolastici ad indicare i vari percorsi “alias”. Un’emblema delle battaglie Lgbt che  la sinistra intellettuale ha sempre avallato in qualche modo. Ora che la lettera Schawa è entranta in un documento del Miur anche a sinistra si è determinato un cortocircuito, un rigurgito di bile.

Anche gli intellettuali di sinistra fanno  guarra alla schwa

A firmare l'”atto di guerra” contro la schwa ci sono vari uomini di cultura che non vogliono affogare nel ridicolo. Ci sono Alessandro Barbero, Flores d’Arcais, Massimo Cacciari, Massimo Arcangeli e Angelo D’Orsi, fra gli altri. Nel manifesto dei No schwa, si sottolinea anche la mancata inclusività:  l’uso della «e» rovesciata è sostanzialmente inapplicabile e porta con sé anche «il rischio di arrecare seri danni a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche». C’è un altro cortocircuito: se la schwa sostituirà termini frutto di battaglie femministe («direttora«, «pittora», autora» ) “avremo una bizzarra conferma di quello che alcune femministe più acculturate temono da tempo: ovvero che l’ideologia trans abbia come prime vittime proprio le donne”, è l’analisi della Verità. E poi ci sono i giornalisti Alberto Crespi, conduttore di Hollywood party su Rai Radio3, Michele Mirabella e l’ex vicedirettore del Fatto Quotidiano, Ettore Boffano. Secondo i firmatari la schwa è  un artificio «frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo; intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica». Hanno fatto fuori un emblema del politicamente corretto. Saranno presi per furiosi reazionari?

Il Miur si arrende al politicamente corretto e usa la schwa in un documento ufficiale: la deriva. Adriana De Conto mercoledì 2 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.  

Se anche il Miur si inchina allo schwa nei documenti ufficiali vuol dire che siamo alla frutta. L’inchino al politicamente corretto non è solo arrivato nelle università italiana con i vari percorsi alias, per chi non si riconosce nel proprio nome anagrafico; ma anche sui documenti ufficiali del Miur. Provare per credere: sul sito ufficiale del il ministero dell’istruzione e dell’università, alla voce Abilitazione scientifica nazionale (Abn);  alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia, il fatto compiuto salt agli occhi. “Nelle numerosissime pubblicazioni degli esiti relativi all’abilitazione scientifica nazionale 2021-2023, ce n’è una che salta all’occhio non appena il file pdf si apre. Si tratta del verbale degli esiti del settore concorsuale 13/B3: per la materia di studio di Organizzazione aziendale”. Un’indagine di cui dà conto la Verità diretta da Belpietro.

Il Miur ha usato la schwa in un documento ufficiale: siamo alla deriva

La famigerata schwa, vocale indistinta e asessuata diventata l’alibi dei diritti Lgbt entra da protagonista in un documento ministeriale ufficiale. Il quotidiano reca una foto che lo attesta. La sottomissione alla deriva del pensiero unico è compiuta. Nel documento consultato e consultabile tutte le desinenze sono state scritte con la schwa.  Di fatto abolisce la distinzione tra maschile e femminile, appecoronandosi alle teorie gender . E’ la famosa “cappa” di conformismo di cui parla nel nuovo libro Marcello Veneziani (intitolato, appunto, La cappa).

La Crusca aveva bocciato la schwa, il Miur usa la sillaba neutra

A nulla è servito il giudizio negativo dell’Accademia della Crusca, che aveva bocciato la schwa e asterischi vari, con un lungo articolo del linguista Paolo D’Achille: «Non esistendo lo schwa nel repertorio dell’italiano standard, non vediamo alcun motivo per introdurlo». Anche Roberta D’Alessandro, professoressa di Sintassi e variazione linguistica presso l’Università di Utrecht, aveva tuonato: «Il cambiamento linguistico non accade mai come risultato di un ragionamento a tavolino». Centrando il punto: si tratta di una forzatura linguistica, per cercare di modellare la realtà secondo un’immagine imposta da un pensiero unico. Un ideologismo che abolisce le differenze. Dispiace constatare l’acquiescenza dei nostri studenti se la paragoniamo alla ribellione  in molti atenei francesi un tempo tempio della cultura progressista contro un ideologismo astratto e neutro. Se anche il Miur si adegua è la fine…

Linguaccia mia. Latinorum. Deus ex machina e altre espressioni improprie degli aspiranti latinisti di oggi. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 31 Gennaio 2022.

Pronunce improbabili, flessioni sbagliate, concordanze invertite. Nel parlato quotidiano capita spesso di imbattersi in persone che prendo in prestito parole dalla lingua degli antichi romani con esiti tragici.

È “con chiare parole e con preciso latin” (aperto discorso) che il trisavolo Cacciaguida si rivolge a Dante nel XVII canto del Paradiso (vv. 34-35). Oscuro e sommamente impreciso è invece il latino in cui capita di imbattersi nel purgatorio del parlato quotidiano. Non che si debba essere tutti latinisti, ci mancherebbe. Ma se si usa il latino, almeno usarlo con cognizione di causa. E invece: pronunce improbabili (stèidium invece di stadium, giùnior al posto di junior e via anglicizzando), flessioni sbagliate (sponsors invece di sponsores), concordanze invertite (humus invariabilmente considerata maschile, ignorando che in latino esistono i femminili in -us, e trascurando che è femminile anche il corrispettivo italiano “terra”). Non solo il riso abundat in ore stultorum.

Un tipico esempio di uso improprio del latino è l’espressione deus ex machina, che (verrebbe da dire) in 101 casi su 100 si trova calata in contesti come “il deus ex machina di tutta l’operazione…”, o anche “il vero deus ex machina…” – perché gli dèi sono tanti, almeno presso i gentili, e notoriamente ci sono anche dèi falsi, addirittura può esserlo, in una blasfema imprecazione, il dio unico della religione cristiana. Ossia, in questa fuorviante accezione, deus ex machina è qualcuno che tira le fila senza apparire, che tiene in mano il pallino senza darlo a vedere, che manovra, o peggio ancora trama, nell’ombra. 

Insomma, una variante forse un po’ più insidiosa di una figura ben nota, resa in italiano con l’espressione eminenza grigia – dal francese éminence grise, con cui ci si riferiva in origine a un certo François-Joseph Le Clerc du Tremblay, che in quanto frate cappuccino vestiva il saio grigio e, privo di cariche ufficiali, esercitò grande influenza nel governo dell’Ėminence rouge Richelieu, cui spettava il saio rosso cardinalizio. Dunque, un deus ex machina alla corte di Luigi XIII?

Niente di più falso: un dio falso, questo sì. O quanto meno falsificato.

Perché il deus ex machina, in greco apò mēchanhs theós, è originariamente un personaggio della tragedia attica, in particolare di quella euripidea, che viene fatto scendere dall’alto, su una sorta di gru (ex machina) azionata con un sistema di argani e tiranti. Compare in genere verso la fine del dramma, con la funzione di risolvere -per lo più (ma non sempre) felicemente – una trama complicata non più gestibile secondo la logica dell’intreccio. 

Per esempio nell’Ifigenia in Aulide di Euripide – in un finale perduto (quello che ci è stato conservato è spurio e di probabile manipolazione bizantina) ma di cui conosciamo tre versi tramandati dal filosofo e scrittore romano (di lingua greca) Claudio Eliano, II-III secolo dopo Cristo – è Artemide a intervenire ex machina per sbloccare la situazione di stallo in cui si svigoriscono gli Achei diretti alla guerra di Troia: una sovrannaturale bonaccia tiene ferme le loro navi sulla costa della Beozia, affinché i venti tornino a spirare la dea pretende il sacrificio della figlia di Agamennone, ma la madre Clitennestra, com’è naturale, si oppone, fino a quando Artemide le promette che la ragazza sarà segretamente sostituita sull’ara da una cerva. Ancora in Euripide, nel finale dell’Elettra è l’epifania dei Dioscuri che scioglie i nodi di un intreccio ormai troppo intricato che si sta avvitando su sé stesso e rischia di non potersi concludere. Nell’Andromaca l’intervento risolutivo è affidato alla nereide Teti, mentre nelle Baccanti il compito spetta a Dioniso, nell’Oreste a Apollo, nelle Supplici a Atena, e così via.

Per venire alla cronaca di questi giorni, una provvidenziale personificazione del deux ex machina è il rieletto Presidente Mattarella, calato all’ottava chiama su un’aula non grigia ma palesemente sorda al senso del decoro istituzionale per sciogliere l’impasse in cui l’avevano precipitata sei giorni di inconcludenti “interlocuzioni” tra leader e leaderini che si agitavano dietro le quinte (e non erano pertanto autentici dei ex machina, sebbene fallacemente – anche dal punto di vista lessicale – si presumessero tali).

Ma torniamo al tempo di Euripide. Siamo, come è chiaro, in una fase declinante dello spirito tragico più genuino – quello portato in scena da Eschilo e Sofocle, dove il meccanismo drammatico era dominato da cima a fondo dai principi di causa e effetto e tutto (tragicamente) si svolgeva sotto il giogo della intrinseca necessità. Siamo nel regno dell’estrinseco, dell’a-razionale e delle soluzioni impapocchiate. Un po’ come ai giorni nostri, nel declino della precisione comunicativa – e della precisione tout-court: oggi chiunque, orecchiando a smozzichi qua e là, può improvvisarsi medico o scienziato (il meteorologo è un evergreen, attualmente va forte il virologo). O magari latinista. Con esiti tragici (nel senso fantozziano; e qualche volta anche in altri sensi). 

“Si piglia gioco di me? Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?”: è la reazione di Renzo Tramaglino, nei Promessi sposi, di fronte a don Abbondio che tenta di confonderlo snocciolandogli una sequela di “error, conditio, votum, cognatio, crimen” eccetera. I latinisti allo sbaraglio d’oggidì probabilmente non hanno l’intenzione di confonderci, ma certo hanno le idee un po’ confuse.

Linguaccia mia. Non nominare il nominativo invano. L’irresistibile (e inspiegabile) successo di problematico, differenziale e labiale. Maurizio Assalto su l'Inkiesta il 24 gennaio 2022.

Una forma particolare di astrazione svaporante tipica dei nostri tempi è la tendenza a prolungare i vocaboli sostituendo ai sostantivi gli aggettivi (ri-sostantivati) che ne derivano. Lo dimostra il caso di tre parole: problema, differenza e labbra ormai deformate in modo scorretto dal linguaggio plastico dei mass media.

Beati i tempi in cui eravamo assillati dai problemi: oggi siamo vessati dalle problematiche. Nello slittamento semantico verso forme vieppiù evanescenti di astrazione, l’irresistibile successo di questa parola – attestata per la prima volta, con valore di sostantivo, nel 1950 – è un caso esemplare. 

Il Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro la definisce come «l’insieme dei problemi relativi a una determinata questione: problematica sindacale, le problematiche della società contemporanea» o anche «la particolare impostazione dei problemi che è propria di una disciplina, di un movimento, di un pensatore, ecc.: la problematica filosofica, kantiana, strutturalista».

Accade tuttavia che a partire dal linguaggio tecnico-burocratico, e a cascata in quello di chi crede di darsi un tono elevato prendendo le distanze dal parlare ordinario, questo vocabolo prenda il posto del più ovvio – più appropriato, troppo comune – problema, transitato sostanzialmente indenne attraverso alcuni millenni di storia linguistica, dal greco antico al latino fino ai giorni nostri. E così abbiamo aziende che si impegnano a risolvere tempestivamente le eventuali problematiche riscontrate nei loro prodotti o servizi, residenti nelle strade della movida che scrivono ai giornali lamentando la problematica del rumore, amministratori di condominio che convocano assemblee per discutere le problematiche condominiali. E via problematicando.

Una forma particolare di astrazione svaporante è la tendenza a prolungare i vocaboli sostituendo ai sostantivi gli aggettivi (ri-sostantivati) che ne derivano. La parola sostantivo (a sua volta aggettivo sostantivato, da sostanza) designa ciò che nel discorso “può stare da sé”, a differenza dell’aggettivo che ha bisogno di appoggiarsi a un sostantivo (tra i due intercorre lo stesso rapporto che, nella filosofia aristotelico-scolastica, collega la substantia, in greco hypokéimenon, ciò che sta sotto, alla categoria della qualità, poiótes, ciò che inerisce a ciò che sta sotto). 

Senza il sostantivo, l’aggettivo non sta in piedi: casca. E nell’uso dell’aggettivo sostantivato, molto spesso, casca l’asino. 

Perché dire, per esempio, differenziale anziché differenza, come sentiamo (e leggiamo) ogni giorno quando nei notiziari economici ci viene spiegato che lo spread è il differenziale di rendimento tra il Btp italiano e il Bund tedesco», oppure quando il sindacalista di turno propugna la necessità di «ridurre i differenziali retributivi», non è solo un modo per complicare un po’ le cose: è un uso sbagliato.

Usato come sostantivo, il differenziale può essere (in meccanica) un «particolare rotismo epicicloidale a ruote coniche, nel quale la velocità angolare del membro conduttore, o leva, è uguale alla media della velocità delle due ruote condotte» (Treccani – un po’ difficile da assimilare, ma è un meccanismo presente in tutte le nostre automobili). O anche (in matematica) «la variazione infinitesimale della funzione rispetto a una variabile indipendente» (Wikipedia – anche qui, definizione per addetti ai lavori). Ma in un contesto economico il differenziale può essere soltanto la differenza, e a questa forma semplice e chiara, con la sola colpa di sembrare forse troppo dimessa, conviene attenersi.

Lo stesso discorso vale per un’altra paroletta di gran moda. Per indovinare che cosa si dicono due persone che confabulano di nascosto (sotto l’occhio implacabile e onnipresente di una delle tante trasmissioni televisive d’inchiesta) o quali orribili contumelie si sono scagliate i protagonisti di una rissa, dalle zuffe in parlamento alle sceneggiate nei campi di calcio, è tutto un invito a «guardare il labiale».

Non le labbra, povere labbra che ormai servono soltanto per scambiarsi i baci (e neppure più quelli, in tempo di Covid) o per fare le pubblicità dei rossetti – quando non per arricchire quei sadici chirurghi estetici che stampano sui visi delle loro vittime grotteschi ghigni pietrificati come quello di Jack Nicholson nei panni del Jocker.

E se pur va concesso che «guardare il labiale» può sottintendere “il movimento” (guardare il movimento delle labbra), resta indisponente la protervia di questo aggettivo usurpatore che ha espropriato il connesso sostantivo, e quando è accompagnato da beccheggianti tocchetti dell’indice – «guarda il mio labiale…» è degno delle peggiori pene corporali, al pari delle famigerate virgolette mimate con due dita per parte ai lati del viso.

Così come almeno un’ammenda, ma un’ammenda pesante, meriterebbe l’abuso del nominativo. Lontani ricordi personali: come aggettivo sostantivato (derivato da nome attraverso la mediazione del verbo nominare) il nominativo è il primo caso della declinazione latina, e il caso vuole che me ne imbattessi alla scuola media negli stessi mesi in cui cominciavo a frequentare lo stadio e prima di leggere la formazione delle squadre lo speaker annunciava «il nominativo dell’arbitro». Il nominativo, non il nome. E perché non l’accusativo, o il genitivo, che andava bene quando questo signore favoriva la squadra avversaria («è un figlio di…»), o anche il vocativo («arbitro, vaffan…»). Macché, il nominativo. Il burocratico, stucchevole nominativo che i risponditori automatici ci invitano a lasciare, onde essere richiamati (in genere, mai), e che i moduli (pardon: la modulistica) di aziende, enti e associazioni ci richiedono quando per le più svariate ragioni ci rivolgiamo a loro.

Ma le sanzioni non servono, non resta che rassegnarsi. Toccherà riscrivere il comandamento divino: «Non nominare il nominativo di Dio invano». E il passo shakespeariano: «Essere o non essere, questa è la problematica». Ma anche i versi cantautorali: «Ora il tuo labiale puoi spedirlo a un indirizzo nuovo«» (che nell’originale proseguiva: «e la mia faccia sovrapporla a quella di chissà chi altro»: così vediamo se riconosci il differenziale).

Storpiare il cognome può diventare reato: la sentenza che cambia tutto. Francesca Galici il 13 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Modificare il cognome di una persona per dileggiarla potrebbe costare caro agli autori: la nuova sentenza che ribalta tutto.

Se proprio non può farne a meno, Marco Travaglio dovrà trovare un altro modo per dileggiare i suoi avversari. Come riporta il quotidiano Libero, infatti, una sentenza della corte di Cassazione ha stabilito che modificare il cognome altrui allo scopo di dileggiare è un reato. Basta aprire e sfogliare il Fatto quotidiano per trovare, tra le sue pagine, vari esempi di questa pratica, molto spesso adottata dal direttore per sbeffeggiare chi la pensa diversamente da lui.

Tra le sue vittime preferite non si può non menzionare Silvio Berlusconi, ma si aggiungono all'elenco anche personaggi come Giuliano Ferrara, Matteo Renzi, l'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e Guido Bertolaso. L'elenco sarebbe in realtà molto più lungo se dovessimo menzionarli tutti, vista la frequenza con la quale Marco Travaglio si diletta in questo hobby che, ora, potrebbe costargli qualche grattacapo legale.

A fare scuola sarà una sentenza emessa dal tribunale di Cremona, su precedente pronuncia del giudice di pace di Crema, relativa a una vicenda accaduta molti anni fa in una cittadina della provincia lombarda. Tutto nasce da un cittadino che, per rivendicare le sue ragioni di diritto sull'ottenimento di una casa popolare, durante una manifestazione pubblica ha ben pensato di dileggiare l'allora sindaco del paese. Ha indossato un camice bianco (il primo cittadino era farmacista) e per rendere il tutto ancora più credibile e realistico, si era appuntato sul petto un'imitazione del tesserino di riconoscimento dell'ordine. Peccato che, al posto del vero nome del farmacista, avesse utilizzato una versione modificata mirata a offendere.

Essendo avvenuto in un luogo pubblico, per di più "direttamente dinanzi alla farmacia della vittima, nel mentre questa era intenta al lavoro", il dileggio è stato punito con ancora più severità. Essendo passati 10 anni dai fatti, la parte penale è andata in prescrizione ma non quella civile, tanto che l'uomo ritenuto colpevole è stato condannato al pagamento di 4mila euro al primo cittadino. A nulla è servita la difesa da parte degli avvocati, che si sono appellati al diritto di satira e di critica politica. Nella sentenza, i giudici si sono più volte espressi in tal senso, sottolineando che "deve essere ben chiaro il confine tra la legittima espressione satirica di ludibrio o ironico scherno e, di contro, il disprezzo personale gratuito".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

«La disturbavo perché...» Il paradosso di usare l’imperfetto per essere gentili al presente. Michelangelo Freyrie su L'Inkiesta il 7 Gennaio 2022.

Tra i recenti usi bizzarri dell’italiano c’è quello di impiegare una forma del passato per sembrare più cortesi: «La chiamavo» anziché «la chiamo». Per qualche ragione, sembra più cortese 

– Pronto…?

– Buongiorno, sono… dell’agenzia…, parlo con…?

– Sono io, mi dica.

– Buongiorno, la chiamavo per…

– Aspetti! Mi chiamava, ha detto: quando?

– Come quando?

– Quando mi chiamava?

– Cioè, adesso…

– Sì, adesso mi sta chiamando, ma prima?

– Non capisco…

– Allora le ripeto la domanda: quando mi ha chiamato, prima?

– Ma io non l’ho chiamata…

– Ma se mi sta parlando…

– Appunto, la chiamavo per… 

Questo, suppergiù, potrebbe essere l’incipit di una telefonata, se a chi la riceve pungesse vaghezza di ispirarsi a Achille Campanile. Quante volte gli sarà venuta la tentazione, sentendo trillare nell’orecchio la vocetta garrula. Qualche volta, magari, l’avrà pure fatto. Dall’altra parte, un attimo di sconcerto, poi via come niente fosse: «Dunque, la chiamavo…».

Al posto del verbo chiamare potete pure metterci disturbare: «La disturbavo per…». «Mi disturbava? E quando?». «Adesso. La disturbavo…». «No, lei non mi disturbava affatto. Lei mi sta disturbando».

Ma perché il tempo imperfetto al posto del presente per dire quello che si sta facendo in questo momento? Perché «la chiamavo», «la disturbavo», anziché «la chiamo», «la disturbo»?

Una spiegazione potrebbe essere che l’imperfetto è avvertito come una forma attenuata, più prudente, più rispettosa. “La chiamavo” è meno invasivo, meno perentorio di “la chiamo”. Un po’ come quando si usa il condizionale: “Le chiederei di…”; in realtà lo si sta già ipso facto chiedendo, con la differenza che in questo caso si potrebbe sottintendere una protasi col congiuntivo – per esempio, “se non le spiace…”, “se non temessi di…”. Nel contesto di un periodo ipotetico, sia pure implicito, nell’apodosi il condizionale è legittimo. Non così l’imperfetto al posto del presente, che resta un vero (e invero inaggirabile) assurdo linguistico.

A meno che non si possa spiegare come la gemmazione di un’altra consuetudine del parlato – «pensavo che mi piacerebbe…», «volevo dirti che…», dove l’impiego del tempo imperfetto è a rigore sbagliato, ma in un certo senso giustificato perché prende il posto di un altro tempo verbale, il passato prossimo («ho pensato che…»), se non addirittura di una proposizione più articolata («ho deciso di, mi sono risolto a…»), con una sfumatura continuativa che conferisce a quanto segue una coloritura di più lunga meditazione.

Basteranno queste considerazioni a spiegare lo strano caso dell’imperfetto? Chissà. In ogni caso, confessiamolo, chi è senza imperfetto scagli la prima pietra: provate a farne a meno… L’efficacia comunicativa spesso prescinde dalla grammatica (oltre che dalla logica), forzando il senso delle parole e dei modi di usarle. Il linguaggio ha ragioni che la ragione non conosce.

Alberto Fraja per "Libero quotidiano" il 13 gennaio 2022. 

In un libro tratto dalle Bustine di Minerva, la celeberrima rubrica culturale che Umberto Eco tenne sull'Espresso fino al 2016, il grande semiologo elencava alcune spassosissime e argute «Regole di Scrittura» cui attenersi rigorosamente quando si è al cospetto di una pagina bianca da imbrattare. 

Il ricettario era prevalentemente indirizzato a quegli studenti che un attimo prima di affrontare un compito di italiano o una traduzione di latino odi greco vengono còlti da patologie respiratorie, cardiache o gastrointestinali di origine palesemente ansiosa.  

Un momento drammatico cui nessuno di noi è sfuggito allorché, ai tempi della scuola, venivamo chiamati a scogliere un micidiale groviglio di itoti, analessi, chiasmi, metonimie, antifrasi, preterizioni e altri artifizi linguistici. Nomi che evocavano malattie mortali di altri tempi mai del tutto debellate.  

Figure retoriche di cui nessuno o quasi aveva e continua ad avere contezza pur adoperandole quotidianamente nel linguaggio corrente. Che è un po' come mangiare un buon piatto ignorandone gli ingredienti, oppure suonare senza conoscere le note, ovvero fotografare senza avere la minima idea di dove e come scattare. 

Certo, delle figure retoriche si può fare tranquillamente a meno, andando a istinto, a orecchio, per imitazione. Ma vuoi mettere il piacere e la soddisfazione di conoscere, di poter andare più in profondità, godersi le sfumature, i dettagli, riuscire a tirar fuori il meglio da ciò che facciamo e decodificare in maniera più efficace ciò che fanno gli altri? 

A questo proposito cade come icing on the cake (traduzione alla buona: cacio sui maccheroni) un delizioso libretto intitolato Si figuri! (Clichi Edizioni, 64 pagine, 19 euro) scritto da Elisa Puglielli. L'agile volume della Puglielli non è il primo della specie. Negli annidi libri dedicati a questi archibugi del discorso scritto e parlato ne sono usciti molti: saggi accademici, manualetti per studenti disorientati, corsi per manager d'assalto, albi illustrati per bambini. 

Ma Si figuri ha una marcia in più siccome alle parole unisce le immagini, così da rendere più chiari certi concetti astrusi quant' altri mai. E la cosa non meravigli considerando che il volume altri non è se non la tesi di laurea in Design, Comunicazione Visiva e Multimediale dell'autrice, apprezzata designer e illustratrice romana. Ma cos' ha fatto, in soldoni, madame Elisa? Utilizzando a sua volta una figura retorica (la metafora) per tradurre in immagini alcune espressioni di uso comune, ha compilato una vera e propria guida (appunto) illustrata che spiega, uno a uno, ben 44 modi di dire, in rappresentanza di altrettante figure retoriche.

Cogliamo fior da fiore. Sapete come va definita l'espressione: «Non ha un briciolo di cervello»? Iperbole, che vuol dire più o meno esagerazione. E «passare a miglior vita»? Quanti di voi sanno che trattasi di eufemismo, parola o locuzione adoperata in luogo di quella propria? «A me mi» (esempi: a me mi piace la pasta all'amatriciana, a me mi piace Belen) oltre che un qualcosa di grammaticalmente poco ortodosso, è un pleonasmo. 

E dicesi pleonasmo un'espressione che potremmo definire sovrabbondante. Ancora. «Uno per tutti» è un chiasmo, inquietante lemma che può essere rappresentato come un incrocio immaginario tra due coppie di parole, in versi o in prosa, con uno schema sintetico AB.BA.  

«La morte non è un male» è la descrizione di un fatto che contraddice l'opinione comune o l'esperienza quotidiana. E questo è tanto vero che, a margine dell'espressione, metterebbe conto di consigliare all'interlocutore l'espletazione di prudenti gesti apotropaici. Vulgo: se maschietto, abbandonarsi senz' altro allo sfregamento dei propri penduli bargigli. 

E «Mangia che ti fa bene» sapete cos' è? È un anacoluto (non è una parolaccia), ovverosia una sgrammaticatura che consiste nel cominciare un periodo in un modo e finirlo diversamente. «Guadagnarsi il pane» è una metalessi, tipo di metonimia in cui un termine indicante l'effetto è sostituito con uno indicante la causa.  

C'avete capito qualcosa? No? Allora mettiamola così: dicesi metalessi un escamotage grammaticale che consiste nel sostituire l'espressione diretta con un'espressione indiretta, cioè nel fare intendere una cosa per mezzo di un'altra che la precede. Il Bel Paese (copyright Dante Alighieri) è una perifrasi, ovverosia un giro di parole con cui si significa una qualsiasi realtà cui ci si potrebbe riferire direttamente con un unico termine. 

Se il palloncino ha fatto «Boom» siamo di fronte a una onomatopea, vale a dire la riproduzione attraverso suoni linguistici di una determinata lingua, il rumore o il suono associato a un oggetto o a un soggetto. Bene. Se finito di leggere questo articolo ne sapete meno di prima, tranquilli: nessuno vi impedirà di continuare a parlare come mangiate.

Curiosità. Da pigiama a caffè: 7 parole universali che non serve tradurre. Da Focus.it.

Ci sono parole a cui corrisponde lo stesso significato in tutte le lingue. Il motivo? In qualche caso (come "mamma", per esempio) è abbastanza noto. In qualche altro, è più sorprendente!

Ci sono una manciata di parole che suonano stranamente simili a tutte le latitudini. shutterstock

Ci sono parole che, passando da una lingua all'altra, assumono espressioni completamente diverse. Alcune addirittura risultano quasi intraducibili. Al contrario, ci sono parole che quasi non hanno bisogno di traduzione, che suonano stranamente simili a tutte le latitudini. Forse c'è qualcosa di intrinsecamente umano nel loro suono. O forse, più semplicemente, si tratta di oggetti e modi di dire che sono riusciti a conservare il loro nome passando da una cultura all'altra. Qualunque sia la ragione, ecco 7 parole che non hanno (quasi mai) bisogno di essere tradotte.

PIGIAMA. In lingua hindi e urdu, una parola simile sottendeva a un tipo di pantaloni larghi legati intorno alla vita. Dopo la colonizzazione, gli inglesi mutuarono dagli indiani il capo d'abbigliamento si portarono a casa anche il termine che lo identificava: pajama. Ma a ben vedere una parola simile si trova in quasi tutte le lingua del mondo: dall’arabo bijama all’ungherese pizsama. E pajama appare anche in lingue come il basco e l'irlandese. A differenza dell’inglese, che lo ha acquisito come sostantivo plurale, in Italia abbiamo optato per pigiama come singolare maschile, pluralizzabile in pigiami (o anche invariabile).

CAFFÈ. Kofi, kahve, kava: questi tre suoni ci permettono di chiedere un caffè in quasi tutto il mondo. Questo perché la maggior parte delle lingue ha preso a prestito la parola turca kahve, che a sua volta si basa sulla parola araba più antica qahua. E nessuno si è allontanato troppo da quel punto. Gran parte dell'Europa ha cambiato la "v" in "f" (come il nostro caffè), alcune lingue hanno anche cambiato la ”a” in "o", così in inglese, tedesco e afrikaans il suono è più vicino a kofi, ma sempre ben riconoscibile. La parola caffè si è diffusa con la popolarità della bevanda, un po’ come è successo con Coca Cola, altra parola identificabile ovunque (anche perché è un marchio ben pubblicizzato).

OK. Considerata una delle parole più usate al mondo, OK ha iniziato a diffondersi attorno al 1830, periodo durante il quale gli Stati Uniti impazzivano per le abbreviazioni. Qualunque sia la sua origine, la parola si è diffusa rapidamente per essere usata e compresa in quasi tutti paese per dire che tutto va bene. Ci sono diverse teorie dietro la fortuna di OK. Una è di tipo... estetico: la "O" curvata e la "K" squadrata l'una accanto all'altra si fanno notare per contrasto. Un'altra è che i suoni "oh", "k" e "ay" esistono nella maggior parte delle lingue, e questo la renderebbe facilmente riproducibile.

MAMMA. La parola italiana mamma ha parole simili in un numero sorprendentemente alto di lingue, come eomma in coreano o mami in ceco. Ed è curioso perché il termine si è diffuso indipendentemente in molte lingue diverse. Come è possibile? La ricerca, a cominciare dagli studi del linguista Roman Jakobson, suggerisce che la diffusione di una parola simile per indicare la madre in tutte le lingue avrebbe che fare con lo sviluppo del linguaggio. Il balbettare di un bambino non è una serie di rumori casuali ma segue uno schema. Nella sperimentazione vocale, i bambini spesso arrivano per primi al suono ah, il più facile da riprodurre. Anche chiudere le labbra per creare un mmm è abbastanza naturale. Questi suoni combinati creerebbero una prima parola comune: "mamma”, che non può che essere indirizzata alla persona che si prende cura del bambino. È così in tutto il mondo: stessi suoni, stessa interpretazione, stessa parola.

HUH? L'esclamazione huh? (o la sua variante eh?) - usata quando non capiamo ciò che qualcuno ha appena detto - sembra essere universale: secondo uno studio interlinguistico condotto dai ricercatori Mark Dingemanse, Francisco Torreira e Nick Enfield, del Max Planck Institute for Psycholinguistics di Nijmegen (Paesi Bassi) e pubblicato sulla rivista Plos One, questa esclamazione avrebbe una funzione simile nelle lingue di tutto il mondo. Queste somiglianze esistono dal momento che huh? ha una funzione unica: deve essere facilmente inserita in una conversazione senza interrompere troppo chi parla. E con l'evolversi di ciascuna lingua, tutti hanno scoperto indipendentemente che questo tipo di suono si adattava meglio.

CHITARRA. Sebbene sia più complicata da tracciare, rispetto a ok o huh? o mamma, la parola chitarra trova comunque molte ricorrenze in lingue diverse. La chitarra moderna deriva da uno strumento medievale noto come chitarra latina, ma la guitarra spagnola ha radici nella parola greca kithara e nella gitara araba. Ma sia la parola che lo strumento vanno molto più indietro: Tar deriverebbe dai più antichi persiano e sanscrito, apparendo in altri nomi di strumenti, come il tar e il sitar. Questa lunga evoluzione che attraversa i continenti ha creato una parola comune per strumenti simili in molte culture.

HAHA. Haha è la parola onomatopeica o fonosimbolo con cui descriviamo le risate e questo vale in gran parte del mondo. Ogni lingua, naturalmente, ha diversi modi di esprimere e scrivere il suono haha ma senza allontanarsene troppo. Ad esempio, in spagnolo sarà jaja. E in Tailandia, dove il numero 5 si pronuncia ha, spesso per esprimere risate sulla tastiera si usa digitare "55555!".

Curiosità. 6 modi di dire che (forse) non sai perché si dicono. Da Focus.it.

Grilli per la testa, pesci fuor d'acqua, cavalli donati... I modi di dire che tirano in ballo gli animali sono parecchi. Ecco i più famosi.

Perché si dice andare in oca? Forse le oche non sono animali così stupidi... Shutterstock

Oche, cavalli, pesci, granchi... Avete mai notato che in molti modi di dire sono protagonisti gli animali? Cerchiamo di capire (e magari raccontare agli amici) perché nascono i più famosi modi dire "animaleschi" che usiamo molto spesso e, a volte, senza saperne il motivo.

1- ESSERE UN PESCE FUOR D'ACQUA. Essere in un ambiente che non è il proprio e per questo sentirsi a disagio non riuscendo a trovare il modo per inserirsi o cambiare la situazione a proprio vantaggio. Attraverso il detto si spiega la difficoltà in cui ci si può imbattere usando l'analogia della sensazione che può avere un pesce, il cui ambiente naturale è l'acqua, una volta uscito all'aria aperta dove non può respirare. Il modo di dire ha anche ispirato delle fiabe nelle quali un intrepido pesciolino tenta di uscire dalla profondità degli abissi per seguire il desiderio di crescita, curiosità e intraprendenza tipico dei bambini che sognano mille avventure non avendo alcun senso del pericolo.

2 - AVERE GRILLI PER LA TESTA. Avere idee strane, curiose, improvvise, concepire pensieri bizzarri, desideri stravaganti, fantasticherie capricciose. Lingua e dialetti sono ricchi di espressioni che alludono al grillo. L'insetto stupisce per la velocità e la capacità nello spiccar salti enormi rispetto alle sue dimensioni. Di qui la metafora di qualcosa che improvvisamente e inaspettatamente si ficca nella testa di qualcuno. Anche tutto ciò che si tende e poi scatta è paragonabile al grillo: di qui l'origine del "grilletto" di pistole e fucili.

3 - LENTO COME UNA LUMACA. Benché siano velocissime, in realtà, quando si tratta di devastare un orto, le chiocciole (comunemente dette lumache), insieme alle tartarughe, sono da sempre e praticamente ovunque simbolo di lentezza. Tuttavia, il loro lento procedere, sempre incollato al terreno, ha anche qualche sfumatura simbolica positiva: una persona "lenta come una lumaca" spesso fa solo le cose con estrema cura e prudenza, riflettendo molto.

4 - ESSERE A CAVALLO. Essersi sistemati, aver risolto un problema o superato una difficoltà. Bisogna pensare al valore del cavallo nel Medioevo: possederlo e usarlo, nelle attività agricole, per viaggiare, in guerra, era un privilegio. Dunque salire a cavallo rappresentava un passaggio di status sociale, una facilitazione nella propria esistenza. L'importanza dell'animale è ricavabile anche dal motto cinquecentesco "a caval donato non si guarda in bocca". Il cavallo era il regalo per eccellenza e guardare in bocca si riferisce a un controllo della dentatura, uno degli elementi fondamentali, insieme alla forza dei piedi, per stabilirne lo stato di salute e dunque il reale valore del dono. 

5 - PRENDERE UN GRANCHIO. Sbagliarsi, commettere un errore grossolano, ingannarsi. Prendere un granchio – o anche "prendere un gambero" – è un'espressione diffusa in molti dialetti e con signifi cati vari. Uno dei più ricorrenti riguarda il fidanzamento e il matrimonio. Il granchio è il rifiuto della donna, dunque essere respinti è "prendere il granchio" (un po' come l'odierno "due di picche"). L'espressione si è ampliata ed è arrivata poi a indicare qualsiasi tipo di strafalcione, di aspettativa disillusa, di valutazione sbagliata. Altre immagini hanno concorso a formare questo modo di dire: il camminare all'indietro del granchio (come il gambero) e l'immagine del pescatore che tira su la rete sperando che sia piena di pesci trovandovi, invece, soltanto un granchio.

6 - ANDARE IN OCA. Un attestato pregiudizio sostiene che l'oca sia un animale stupido ma anche che tende a mettersi in mostra. Non a caso si dà dell'oca (e non della gallina) a una donna bella ma sciocca. L'allusione riguarda anche la loro tendenza a starnazzare e la loro andatura goffa. Così "andare in oca", significa anche andare in confusione, apparentemente senza motivo.

Quesiti linguistici. Come è nata la parola “eclatante”? Risponde la Crusca. Accademia della Crusca su l'Inkiesta il 15 Gennaio 2022.

Il termine è entrato nell’italiano negli anni Trenta-Quaranta dell’Ottocento come prestito adattato del francese éclatant, qualcosa che “che colpisce l’orecchio o l’occhio”

Tratto dall’Accademia della Crusca

Un lettore ci chiede “delucidazioni” sull’uso di eclatante, mentre un altro domanda se l’aggettivo abbia o meno connotazione negativa; altri lettori ci sottopongono dubbi sulla legittimità dell’avverbio eclatantemente.

Risposta

L’aggettivo eclatante ‘che colpisce e suscita clamore’ è entrato in italiano negli anni Trenta-Quaranta dell’Ottocento come prestito adattato del francese éclatant ‘che colpisce l’orecchio o l’occhio’, participio presente di éclater ‘scoppiare’ (a sua volta di origine germanica, parallelo all’esito italiano schiattare).

Come molti altri francesismi dell’epoca si attirò immediatamente il biasimo dei puristi, che per censurarlo lo attestano nella scrittura ancor prima degli scriventi comuni: Francesco Del Buono lo include nel Vocabolario di voci e maniere erronee del 1845 definendolo “sozzo gallicismo da poco in qua introdotto nel senso di Splendido, Luminoso, Magnifico”; poco più tardi, nel 1858, Leopoldo Rodinò, nel Repertorio per la lingua italiana di voci non buone o male adoperate, lo bolla seccamente con “non si dice” insieme all’avverbio derivato eclatantemente. A differenza del verbo eclatare, entrato in italiano nello stesso periodo ma ben presto uscito dall’uso, l’aggettivo eclatante e l’avverbio eclatantemente (del tutto legittimo perché rispondente in pieno alle regole di formazione interne alla lingua italiana) si sono comunque imposti, nonostante le riserve ancora manifestate da Bruno Migliorini.

Nell’italiano contemporaneo eclatante è attestato con il significato di per sé neutro di ‘tale da suscitare meraviglia e clamore’, il cui valore positivo o negativo è dato dal sostantivo a cui si accompagna (una bellezza eclatante ‘che colpisce perché fuori dall’ordinario’ o una sconfitta eclatante ‘che desta stupore perché inaspettata e schiacciante’)

A proposito di eclatante ed eclatantemente

Un lettore ci chiede “delucidazioni” sull’uso di eclatante, mentre un altro domanda se l’aggettivo abbia o meno connotazione negativa; altri lettori ci sottopongono dubbi sulla legittimità dell’avverbio eclatantemente.

Risposta

L’aggettivo eclatante ‘che colpisce e suscita clamore’ è entrato in italiano negli anni Trenta-Quaranta dell’Ottocento come prestito adattato del francese éclatant ‘che colpisce l’orecchio o l’occhio’, participio presente di éclater ‘scoppiare’ (a sua volta di origine germanica, parallelo all’esito italiano schiattare). Come molti altri francesismi dell’epoca si attirò immediatamente il biasimo dei puristi, che per censurarlo lo attestano nella scrittura ancor prima degli scriventi comuni: Francesco Del Buono lo include nel Vocabolario di voci e maniere erronee del 1845 definendolo “sozzo gallicismo da poco in qua introdotto nel senso di Splendido, Luminoso, Magnifico”; poco più tardi, nel 1858, Leopoldo Rodinò, nel Repertorio per la lingua italiana di voci non buone o male adoperate, lo bolla seccamente con “non si dice” insieme all’avverbio derivato eclatantemente. A differenza del verbo eclatare, entrato in italiano nello stesso periodo ma ben presto uscito dall’uso, l’aggettivo eclatante e l’avverbio eclatantemente (del tutto legittimo perché rispondente in pieno alle regole di formazione interne alla lingua italiana) si sono comunque imposti, nonostante le riserve ancora manifestate da Bruno Migliorini.

Nell’italiano contemporaneo eclatante è attestato con il significato di per sé neutro di ‘tale da suscitare meraviglia e clamore’, il cui valore positivo o negativo è dato dal sostantivo a cui si accompagna (una bellezza eclatante ‘che colpisce perché fuori dall’ordinario’ o una sconfitta eclatante ‘che desta stupore perché inaspettata e schiacciante’); più di recente sembra essersi affermato anche il significato traslato di ‘palese, evidente’, per esempio in “Sono ormai tre settimane che vengo rimpallato da vari numeri o mail regionali e nazionali per un diritto eclatante [= quello a ottenere il green pass o certificazione verde dopo la seconda dose vaccinale anti-Covid] e paradossalmente negato” (“la Repubblica”, 28/7/2021), significato testimoniato anche dall’avverbio, come in “la doppia menzogna di tacere la ragione vera per la quale si voleva la sua dimissione e di metterne avanti una eclatantemente falsa” (Leonardo Sciascia, Dalle parti degli infedeli). Roberta Cella 11 gennaio 2022

·        La Fobia.

La costruzione della paura per la paura. Il presentimento del pericolo rappresenta lo specchio della qualità dei nostri valori e delle nostre relazioni quotidiane: ecco come nasce. CLETO CORPOSANTO su Il Quotidiano del Sud il 23 Ottobre 2022 

Capita a tutti di fare i conti, prima o poi, con il sentimento della paura. Accade magari all’improvviso, alla presa di coscienza di un avvenimento avverso; così come può accadere anche con un processo lento, alla stregua di una goccia continua che pian piano incrina le nostre certezze e ci rende timorosi. La paura è certamente personale, eppure può essere anche un fatto collettivo. Da un punto di vista sociologico, interessante è quindi comprendere in quale modo il sentimento della paura possa espandersi e diventare un fatto sociale, che prescinde quindi da peculiari aspetti dei singoli che si intersecano anche con altre cause per diventare invece un sentimento collettivo.

Ciò dipende, principalmente, dal fatto che la paura è appunto prevalentemente un sentimento sociale, in quanto si articola attraverso il filtro delle categorie culturali con le quali ordiniamo il mondo e l’esperienza. Detto in altri termini, la paura rappresenta lo specchio della qualità dei nostri valori e delle nostre relazioni quotidiane. La domanda allora diventa un’altra: da cosa dipendono il nostro sistema di valori e la scelta della qualità e quantità delle nostre relazioni sociali?

Certamente, da questo punto di vista la sensazione di provare il sentimento della paura dipende dal livello di avversione al concetto di rischio che, nelle società occidentali, tende ad innalzarsi in maniera spropositata: si tratta in effetti, spesso, di una sorta di esaltazione del principio di precauzione, una sua lettura ‘forte’. Qualcuno ipotizza che questa strada, laddove intrapresa in modo ingombrante, possa inevitabilmente condurre ad una stagnazione tecno-scientifica ed economica: ma non è questo il punto centrale che ci interessa in questa sede.

Da cosa dipende questo ricorso esasperato alla cultura dell’eccesso di precauzione? Il parere di un esperto del calibro di Frank Furedi, sociologo inglese dell’Università del Kent, autore del volume “La politica della paura” è abbastanza esplicativo. In prima istanza, una sorta di ritorno a superstizioni premoderne, secondo le quali ogni incidente nasconderebbe una lezione da imparare. Nel Medio Evo la mano di Dio o del Diavolo era vista dietro ogni sciagura: oggi sarebbe l’intervento maligno di entità governative o commerciali a svolgere questo ruolo, ma la sostanza, nei fatti, non cambia. In seconda battuta, oggi pare che siamo diventati tutti vittime. Non siamo più in grado di superare le avversità, di tornare alla vita normale dopo una sciagura: anzi, siamo incoraggiati ad assumere il ruolo di vittime a vita. Una sorta di società che da cittadini si trasformano in “pazienti”.

Siamo di fatto orientati ad un approccio che ha come mantra il pensiero del “Non si sa mai”: la vita quotidiana spesso è presentata come sempre più pericolosa. L’innovazione, la scoperta di un nuovo medicinale, di una nuova sostanza chimica, di una nuova forma di energia, vengono presentate come qualcosa che potrebbe nascondere chissà quali conseguenze, misteriose, irreversibili e potenzialmente catastrofiche. Concentrandoci su teorici “worst case scenarios”, le peggiori ipotesi possibili, perdiamo di fatto la capacità culturale di gestire il rischio. Senza dimenticare che va sempre più riducendosi il concetto di autonomia individuale: siamo tutti deboli e vulnerabili, e come tali siamo quindi tutti a rischio di dipendenza. La lista da questo punto di vista è lunghissima: droghe, alcol, sesso, shopping e chi più ne ha più ne metta, con il risultato che sempre più gruppi sono rappresentati come deboli e vulnerabili.

Che si tratti di donne, bambini, anziani, minoranze etniche o artisti, poco cambia nella sostanza. Più si allunga la lista delle possibili dipendenze, più di abbassa la soglia per essere considerati dipendenti, da qualsivoglia cosa. Nonostante questo scenario, comunque, le società continuano ad essere in grado di produrre innovazione: quello che resta preoccupante è l’atteggiamento culturale nei confronti del rischio e della paura, che alla fine risulta condizionare (spesso a vantaggio di pochi) i comportamenti collettivi di vasti strati di popolazione.

Si tratta di quello che il sociologo americano Barry Glassner ha denominato “cultura della paura”, un concetto secondo cui si può incitare la paura nel pubblico, in generale per raggiungere obiettivi politici o lavorativi attraverso il pregiudizio emotivo. A sostegno gli esempi potrebbero essere molti. Da quello relativo alle considerazioni del leader nazista Hermann Göring, che a suo tempo ha spiegato come le persone possano essere spaventate con lo scopo di sostenere una guerra che altrimenti avverserebbero:  a suo avviso bastava affermare di essere sotto attacco e denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo e conseguente esposizione del Paese al pericolo. Funzionerebbe così allo stesso modo in tutti i paesi.

Paradossalmente simili le conclusioni dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Zbigniew Brzezinski, il quale ha sostenuto come l’uso del termine “Guerra al terrore” fosse inteso a generare deliberatamente una cultura della paura proprio perché la paura stessa “oscura la ragione, intensifica le emozioni e rende più facile per i politici demagogici mobilitare il pubblico per conto delle politiche vogliono perseguire”.

Cambiando totalmente contesto, la studiosa brasiliana Maria Helena Moreira Alves ha scoperto che una “cultura della paura” è stata implementata come parte della repressione politica nel suo paese fin dal 1964: le tre componenti psicologiche della cultura della paura includevano il silenzio attraverso la censura, il senso di isolamento e una convinzione generalizzata che tutti i canali di opposizione fossero chiusi. In quel caso ha prevalso, a suo avviso, un sentimento di completa disperazione, oltre al ritiro dall’attività dell’opposizione.

Altro accenno riguarda quello degli accademici britannici Gabe Mythen e Sandra Walklate, i quali affermano che a seguito degli attacchi terroristici a New York, Pentagono, Madrid e Londra, le agenzie governative hanno sviluppato un discorso sul “nuovo terrorismo” in un clima culturale di paura e incertezza. I ricercatori britannici sostengono che questi processi hanno ridotto le nozioni di sicurezza pubblica e creato una immagine semplicistica di un “Altro terroristico”, non bianco, una rappresentazione che ha ovviamente conseguenze negative per le minoranze etniche nel Regno Unito.

In realtà il discorso potrebbe essere ancora più ampio: la cultura della paura non è iniziata con l’attacco dell’11 settembre che ha portato al crollo del World Trade Center. Già da molto tempo prima di quella data, infatti, una sorta di panico generalizzato era molto diffusa e riguardava ambiti anche molto diversi fra loro: si spaziava dalle colture OGM ai telefoni cellulari, dal riscaldamento globale all’afta epizootica.

Alcuni aspetti, in verità, sono reali ma non è questo il punto: il punto riguarda la costruzione del modo di far percepire il rischio, le idee sulla sicurezza e le controversie sulla salute, l’ambiente e la tecnologia. Sempre più spesso si tratta di modalità che hanno poco a che fare con la scienza e l’evidenza empirica: appaiono piuttosto modellati da ipotesi culturali sulla vulnerabilità umana. Ipotesi che in qualche modo rischiano di far cortocircuitare la percezione collettiva del sé, oscillante fra un’idea di immortalità presunta (perseguita da un’immagine di medicina conservativa e cura maniacale del corpo) e, appunto, quella di una fragilità e vulnerabilità perpetue. Con le persone sempre alla stregua di pazienti, bisognosi comunque. In ogni caso, quello che sul tema le ricerche empiriche insegnano e per come le cose appaiono anche dalle riflessioni teoriche dei pensatori più acuti di questa epoca, il quadro appare abbastanza chiaro. Pur indotte spesso dall’alto, le nuove paure sono per lo più legate allo sbriciolamento delle forme classiche di integrazione degli individui nella società.

Nella società contemporanea iper-tecnologizzata fa da contraltare proprio l’indebolimento dei legami sociali e delle relative cornici simboliche, che evidenzia la maggiore solitudine degli individui di fronte alle sfide sempre più impegnative che sono loro poste. Non vi sono né sciamani né benefici riti salvifici di alcun genere. Anzi, i tentativi di trovare sicurezza nell’affidamento carismatico o in qualche recinto ideologico totalizzante portano ad avvitarsi sempre più profondamente nella percezione di crisi e di rischio. Ma questo è un altro capitolo.

Consensum loquentium. Servirebbe una giornata mondiale contro gli estri neologistici incontrollati. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 23 Maggio 2022.

Il suffissoide -fobia non dovrebbe essere usato per indicare la lotta contro le discriminazioni perché sia come confisso sia come sostantivo ha come significato proprio e incontrovertibile quello di paura. Per esprimere l’idea di odio il greco antico ci ha messo a disposizione un altro vocabolo, mîsos. Perché non usiamo quello?

Nei giorni scorsi si è celebrata la Giornata internazionale contro l’omobitransfobia, per disteso “contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia” (e prossimamente magari “contro la LGBTQIA+fobia, così non si farà torto a nessuno). Se le “Giornate di qualcosa” non fossero già troppe, più dei giorni dell’anno, verrebbe la tentazione di proporne una contro gli estri neologistici incontrollati. 

«I hate the word homophobia. It’s not a phobia. You are not scared. You are an asshole» (Io odio la parola omofobia. Non è una fobia. Tu non sei spaventato. Sei uno stronzo). Attribuito all’attore americano Morgan Freeman, questo tweet è diventato virale alcuni anni fa, propalandosi da un sito all’altro e di qui rimbalzando su murales, poster, spillette, puntualmente accompagnato dal faccione del presunto autore. Presunto perché pare proprio che Freeman – peraltro incorso in anni più recenti nell’accusa di molestie (etero)sessuali sul set – questo pensiero non l’abbia mai cinguettato. Il che, beninteso, nulla toglie al suo valore morale, espresso nella seconda parte del tweet. Qui si vuole invece attirare l’attenzione sul valore linguistico contenuto nella prima parte.

Perché fobia, per l’appunto, sia in qualità di confisso (per la precisione: suffissoide), sia quale sostantivo, ha come significato proprio e incontrovertibile quello di paura, al limite (nell’accezione psichiatrica) paura, turba ossessiva: è questo il senso univoco della parola greca phóbos, connessa al verbo phébomai, fuggo (spaventato), riconducibili (con l’apofonia e-o) a una radice indoeuropea *bhegw che contiene in sé tanto l’idea di temere quanto quella di fuggire (infatti ne deriva il latino fuga, rimasto invariato nell’italiano moderno, ed è in questa accezione che phóbos compare in Omero). 

La valenza di paura – e di fuga impaurita – si è mantenuta nella gran parte dei composti, come i più comuni claustrofobia e agorafobia, in molti casi arricchendosi di una ulteriore, e del tutto coerente, sfumatura di avversione (latino aversio, da avertĕre, allontanare), dato che inevitabilmente si tende a stare lontani da ciò che si teme: avio- (o aero-)fobia, cinofobia (paura dei cani), aracnofobia (paura dei ragni), eliofobia (paura della luce), scotofobia (paura del buio), pirofobia (paura del fuoco), belonefobia (paura degli aghi, delle iniezioni), nosofobia (paura morbosa delle malattie). 

L’avversione, così come la paura, è un sentimento naturale e incoercibile, che nelle forme più acute può sfociare nella repulsione (dal latino repellĕre, respingere) e quando diventa patologico può essere oggetto di trattamento psicoterapeutico, ma in genere non di riprovazione (a meno che non si tratti di avversione preconcetta verso un individuo particolare o un gruppo di individui).

Nel caso dell’omofobia – e della xenofobia e relative varianti: anglofobia, francofobia, germanofobia, islamofobia ecc. – c’è però qualche cosa di più: il suffissoide –fobia ha subìto una torsione semantica, transitando dall’avversione alla repulsione per sfociare nella discriminazione e infine nell’odio, che può anche assumere forme violente. Dal significato proprio di paura, un sentimento passivo, è così passato a uno improprio e tendenzialmente aggressivo, dal fuggire al mettere in fuga. Un (dis)valore semasiologico etimologicamente infondato che soltanto per l’assuefazione dell’uso non genera equivoci. E che però, bisogna riconoscere, non trova facilmente un’alternativa. 

Per esprimere l’idea di odio il greco antico ci ha messo a disposizione un altro vocabolo, mîsos, che ben si presta a fungere da primo elemento nei composti – in parole come misantropo, misogino, misoneista – ma non risulta attestato come secondo elemento e comunque mal si combinerebbe con omo, xeno e così via. E dunque (in italiano come nelle lingue moderne che attingono a quelle classiche) non si vedono alternative all’uso improprio, con buona pace nostra e dello pseudo-Freeman.

Senonché in omofobo e omofobia, come in una scatola cinese, gli equivoci si racchiudono uno dentro l’altro. Perché il prefissoide di questi vocaboli – dal greco homós (e anche hómoios), simile – indica un rapporto di uguaglianza o identità (come in omonimo, omologo, omogeneo, omozigote), con la conseguenza paradossale che un omofobo, cioè qualcuno che nell’accezione corrente odia i (sessualmente) diversi sarebbe invece una persona che ha paura (o che odia) i suoi simili.

Ma, si obietterà, in questi casi omo sta per (è l’abbreviazione di) omosessuale. Ok. A questo punto però il problema si sposta dal primo al secondo elemento del composto: sessuale è aggettivo derivante da sesso, in latino sexus: dicesi di ciò che riguarda il sesso, non la sessualità. Quindi, a rigore, omosessuale è un composto ibrido (greco + latino) che non designerebbe chi pratica l’omosessualità, ossia chi ha un comportamento sessuale orientato verso persone del suo medesimo sesso, ma vorrebbe dire semplicemente “dello stesso sesso”. E così bisessuale non sarebbe chi pratica la bisessualità ma chi ha i caratteri di entrambi i sessi (in sostanza l’ermafrodito), mentre il transessuale sarebbe un po’ più difficile da afferrare, potremmo azzardare uno che “supera”, “va oltre”, “attraversa il sesso”, qualunque cosa questo possa significare (e in effetti sembrerebbe significare qualche cosa abbastanza vicina alla realtà di chi è designato con quel termine).

Anche in questo caso, è soltanto il consensum loquentium che conferisce alla parola il suo significato corrente. Come ha osservato Pietro Janni (Il nostro greco quotidiano. I grecismi dei mass-media, Laterza 1994) “omosessuale è una formazione poco felice”, che l’italiano non deriva dalle lingue classiche ma da quelle straniere ottocentesche: compare infatti per la prima volta a stampa, nella forma Homosexual e in connessione con l’altro neologismo Homosexualität, in un pamphlet dello scrittore ungherese di lingua tedesca Karl-Maria Kertbeny pubblicato anonimo nel 1869 per protesta contro una legge dello Stato prussiano che puniva le pratiche omosessuali. Dopo quella prima occorrenza il termine si diffuse rapidamente nelle altre lingue, in inglese, in francese e infine in italiano, dove, informa ancora Janni, i primi esempi si troverebbero in Giovanni Papini e Filippo Tommaso Marinetti. Lo scopo di Kertbeny era quello di introdurre un termine neutro al posto di quelli equivalenti che avevano assunto una connotazione negativa, se non spesso offensiva. Una forzatura linguistica, e in questo senso a sua volta un’offesa: ma le lingue, si sa, hanno lo stomaco di ferro.

·        Il Tatuaggio.

Da ilmattino.it il 7 settembre 2022.

Becky Holt è una star di OnlyFans britannica, che afferma di essere «la donna con la vagina più tatuata al mondo». A 34 anni, ha speso più di 42mila dollari per tatuarsi dalla testa ai piedi, in ogni parte del corpo, comprese quelle più private, si legge sul "New York Post". 

Dopo aver coperto tutte le parti visibili, Becky (che sui social ha più di 70mila follower), ha deciso di passare alla zona pubica: «Avevo un dolore incredibile. È piuttosto imbarazzante avere un tatuatore tra le gambe, ma dovevo farlo perché voglio che il mio corpo sia completamente ricoperto», le sue parole ad Ark Media. 

Quasi un mese dopo la sua vagina è «ancora gonfia» e per questo non riesce ancora a fare con il suo compagno. «Non saremo in grado di essere intimi finché la guarigione non sarà completata, il che sarà difficile per entrambi poiché abbiamo una vita sessuale molto attiva. Per il momento ci limitiamo ai preliminari per lui», ha raccontato.

La donna afferma di essere una delle poche donne al mondo ad avere le pieghe vaginali tatuate e dice che gli ammiratori l'hanno elogiata per aver sopportato il doloroso processo. «Mi dicono che sono stata davvero coraggiosa a farlo», si vantava. «Non sono sicura di quante persone al mondo abbiano questo tatuaggio, ma immagino di essere uno dei pochissimi».

I pentiti del tatuaggio: Sylvester Stallone copre il ritratto della moglie con quello del cane. Dalla star di Rocky - che ha voluto ricordare il suo fedele animale a scapito di Jennifer Flavin (e già girano rumors su una crisi di coppia) - fino a Britney Spears, Justin Bieber, Angelina Jolie o Johnny Depp, sono sempre più numerose le celebrità che trasformano o cancellano i propri tattoo. Come tre su quattro italiani, i più tatuati al mondo. Silvia Luperini su La Repubblica su il 24 Agosto 2022.

Sylvester Stallone ha un nuovo tatuaggio: un tributo al suo cane Butkus a cui era molto affezionato e che l'ha accompagnato nella saga di Rocky. Però il nuovo ritratto sostituisce quello dedicato alla moglie Jennifer Flavin. La nuova opera, esibita senza dare spiegazioni, ha scatenato i rumors sui social. In molti si sono chiesti se la coppia fosse in crisi, gossip smentito subito dall'addetta stampa della star Michelle Bega che si è affrettata a scrivere che "Il signor Stallone ama la sua famiglia con la quale sta girando un reality show che presto debutterà in streaming".

Incisi nell'entusiasmo dell'inizio relazione, i tatuaggi si rivelano spesso imbarazzanti, soprattutto quando l'ex continua a farsi ricordare con il suo volto, il nome o la data di nascita incisi sul corpo. O quando un'amicizia sparisce o crolla un mito. Spesso i tattoo si trasformano in un diario, accessibile a tutti, della propria intimità rivelando amori, passioni, desideri e aspirazioni che poi non si vogliono più ricordare.  Ci si fa disegnare addosso quasi di tutto: il giocatore o il simbolo della propria squadra di calcio, simboli tribali, motti in indiomi esotici e persino i simboli di partiti politici,  E così uno su tre cambia idea e si presenta dal medico estetico per fare "scomparire il passato".

L'Italia resta il paese più tatuato del mondo, con il 48 per cento della popolazione "marchiato" seguita dalla Svezia (47 per cento) e dagli Stati Uniti (46 per cento) e sono in crescita costante i pentiti. Secondo gli esperti, già dopo il primo anno, a cambiare idea sarebbero quasi il 25 per cento dei tatuati. A cominciare dai più esposti, i vip. 

Ne sa qualcosa Johnny Depp. Il suo primo tatuaggio sulla spalla destra, "Winona Forever", era dedicato alla fidanzata dell'epoca, Winona Ryder. Con un'iniziativa non proprio brillante, alla fine della loro storia, il divo si era fatto togliere le ultime due lettere del nome con il risultato che le due parole rimaste sono diventate Wino Forever, vino per sempre. Evidentemente sbagliare non insegna. Al culmine dell'amore con Amber Heard aveva scelto il luogo più visibile, le dita delle mani, per scolpire all'inchiostro il soprannome dell'attrice e poi ex moglie Slim, che significa magra rimaneggiato in Scum che in Inglese, feccia. 

Anche Angelina Jolie, con cinque sedute di laserterapia, ha eliminato il drago inciso sulla spalla sinistra insieme al nome dell'ex marito Billy Bob Thornton ricoprendolo con le coordinate geografiche dei luoghi di nascita dei suoi sei figli. 

Poi è stata la volta dell'ideogramma giapponese del coraggio, fatto insieme all'ex marito Johnny Lee Miller, diventato la scritta in arabo "determinazione". Tra i tanti tatuaggi, sono stati eliminati anche il simbolo giapponese della morte sulla spalla destra che ora è una preghiera cambogiana mentre la piccola finestra incisa sul fondoschiena è stata nascosta dalla coda di una tigre del Bengala. 

Dopo il divorzio anche Britney Spears ha fatto sparire il tattoo che le ricordava l’ex coniuge Kevin Federline. Come Charlie Sheen che si è tolto dal polso il nome dell’ex moglie Denise Richards coperta dalla scritta "winning", affettuosità ricambiata dall'ex consorte, immortalata, fuori da un laboratorio di tatuaggi con una fatina al posto della scritta Sheen.

Invece di sottoporsi a lunghe e dolorose sedute al laser, Malin Åkerman ha risolto con astuzia la questione della Z, come l'inizio del cognome dell'ex marito Roberto Zincone, aggiungendo semplicemente la S del figlio Sebastian.

Più laborioso il prima e dopo di Kaley Cuoco, per rimuovere dalla memoria e dal corpo, il divorzio da Ryan Sweeting l'attrice della sitcom The Big Bang Theory ha coperto la data delle nozze che troneggiava dietro al collo con una grande falena. Idem per Eva Longoria, che ha detto addio all'unione con il campione francese di basket Nba Tony Parker cancellando dal polso la data del matrimonio.

E Justin Bieber? L'attore s'è tolto dalla testa, e dal polso, Selena Gomez poco prima del sì a Hailey Baldwin. 

Invece di rimuovere un amore del passato Megan Fox ha spodestato un suo idolo dando un colpo di spugna al volto di Marilyn Monroe che si era fatta imprimere sull’avambraccio destro:  “La sto eliminando",  ha confidato l'influencer, "perché Marilyn è un personaggio negativo, soffriva di disturbi della personalità, era bipolare. Non voglio attrarre questo tipo di energie negative nella mia vita”.

Infine la coppia che ogni tanto scoppia: Belen Rodriguez e Stefano De Martino. Allo scoccare della scintilla si erano fatti tatuare lui un angelo con il volto della showgirl e lei un marinaio e una pin-up che si baciavano appassionatamente, contornati da un cuore e dalla scritta “Io e te”. Poi entrambi, dopo il divorzio, l'hanno fatto sparire. Che succederà ora che sono tornati insieme?

Lo dicono le statistiche: nel 2014 sono state circa 12 mila le operazioni di rimozione di tatuaggi (fonte Associazione Italiana di Chirurgia Plastica Estetica) spesso con esiti incerti. Ma quali sono i tatuaggi che più spesso vengono modificati dagli italiani? Al primo posto si piazzano i nomi o le iniziali di ex fidanzati (58%) di cui si vuole cancellare ogni ricordo. Proprio come fanno spesso le star. Da Johnny Depp ad Angelina Jolie, da Federica Pellegrini a Eva longoria, tutte riunite in questa gallery. Quando si è innamorati  sembra un gesto romantico tatuarsi il nome del partner sulla pelle ma poi quando la storia finisce che si fa? Si cancella. O meglio ancora si trasforma il tatto in qualcos'altro. Johnny Depp ci è (ri)cascato con il tatuaggio dedicato alla ex moglie Amber Heard che aveva sulle dita della mano destra: il soprannome dell'attrice Slim, che significa magra, snella, è diventato infatti Scum che in Inglese vuol dire rifiuto, feccia. L'interprete dei Pirati dei Caraibi è recidivo visto che aveva già fatto trasformare il tatuaggio Winona Forever, dedicato all'ex Winona Ryder in Wino Forever, a celebrare un ben più duraturo legame con l'alcool. Johnny Depp non è però un caso isolato. Il trend del tattoo-changing ha da tempo preso piede tra le star di Hollywood. Ma torniamo alle persone comuni. Dal Quanta System Observatory, spiegano: "Le maggiori richieste di rimuovere un tatuaggio provengono  da coloro che lo hanno eseguito in età adolescenziale e poi, invecchiando, non lo considerano più consono al loro modo di essere. Oggi la tecnologia ci viene incontro e il metodo più sicuro ed efficace da proporre ai pazienti è il trattamento laser" sottolinea il Dottor Matteo Tretti Clementoni, specialista di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva presso l'Istituto Dermatologico Europeo di Milano (sistema Discovery Pico), "una  metodologia efficace, rapida e con meno possibili effetti collaterali. Oggi all'avanguardia". Il 54% delle donne tatuate e il 48% degli uomini ha dichiarato di volere rimuovere o cambiare un tatuaggio sulla propria pelle. La maggior parte dei “pentiti” ha tra i 30 e i 40 anni (68%). Al 2° posto nella classifica delle rimozioni, dopo gli ex, ci sono le citazioni celebri o tratte da film (45%), al 3° i grossi disegni tribali che ricoprono braccia e gambe (41%). Al 4° i tattoo fatti con le ex amiche del cuore (37%). 5° posto, i tatuaggi venuti male (35%); 6°: lo stemma della squadra del cuore (31%); 7°: i tatuaggi considerati troppo evidenti o impressi su una parte del corpo esposta (25%), 8° quelli ritenuti imbarazzanti come un lecca lecca o una pin-up (19%); 9°: quelli con riferimenti politici o ideologici (15%). Al 10°: i tattoo troppo infantili come i personaggi dei cartoni animati (12%).

Il tatuaggio, «segno» del criminale. Dario Basile su Il Corriere della Sera il 3 aprile 2022.

Lombroso decide di studiarli, fotografa i detenuti tatuati, analizza i segni dell’inchiostro sui corpi e riproduce quegli uomini in grandi disegni. 

In Italia ci sono 6,9 milioni di persone tatuate, ovvero il 12,8% della popolazione italiana, percentuale che sale al 13,2% se si considerano anche gli ex-tatuati, ce lo dice un’indagine svolta dall’Istituto superiore di sanità (Iss). Chi si tatua nel nostro Paese lo fa prevalentemente come decorazione, ornamento e abbellimento del corpo. Gli uomini preferiscono tatuarsi braccia, spalla e gambe, le donne invece soprattutto schiena, piedi e caviglie. Oggi il tatuaggio è, dunque, una pratica molto comune, ma tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si diffonde soprattutto in ambiente carcerario. La questione incuriosisce Cesare Lombroso, fondatore dell’antropologia criminale, che individua nel tatuaggio una prova della primitività del delinquente. Come evidenziato da Cristina Cilli e Silvano Montaldo, Lombroso descrive i criminali tatuati accomunandoli alle popolazioni dell’emisfero australe, come gli aborigeni e i maori. Facendo un confronto con le popolazioni cosiddette «selvagge», Lombroso crede di aver individuato un’analogia. Come le popolazioni «primitive» i criminali non rispettano la proprietà privata, le regole civili, la vita altrui e si tatuano. I criminali – riflette Lombroso – incuranti del dolore che può provocare questa pratica, imprimono indelebilmente sul proprio corpo disegni, simboli e scritte che evidenziano la loro diversità antropologica. Decide di studiarli, fotografa i detenuti tatuati, analizza i segni dell’inchiostro sui corpi e riproduce quegli uomini tatuati in disegni di grandi dimensioni. Lombroso usa quei cartelloni in occasione di incontri pubblici e per le sue lezioni.

Il fondo fotografico del Museo di Antropologia criminale dell’Università di Torino conta un centinaio di fotografie di detenuti tatuati, provenienti nella maggior parte dei casi dal carcere «Le Nuove» di Torino, oltre che da prigioni francesi, tedesche e spagnole. Lombroso inizia a interessarsi dei tatuaggi negli anni Sessanta dell’Ottocento quando, in qualità di ufficiale medico, visita centinaia di soldati e osserva che molti di loro, perlopiù provenienti dalle classi disagiate, avevano uno o più tatuaggi sul corpo. Il criminologo decide di approfondire questo tema e dopo avere osservato migliaia di individui si sente di affermare che il tatuaggio sia una marca che: «tende a decrescere fra gli uomini non delinquenti e prende proporzioni vastissime nella popolazione criminale, sia militare sia civile». In quegli anni il tema del tatuaggio si affaccia alla curiosità delle opinioni pubbliche europee. Le ricerche medico-criminali si sovrappongono alla cronaca nera, alla fascinazione dei bassifondi, alle indagini di polizia e a processi sensazionali. Lombroso, come medico delle carceri di Torino e come perito giudiziario, entra in contatto con numerosi detenuti. Grazie a questa sua attività inizia a raccogliere immagini a figura intera di persone tatuate. Nell’archivio del Museo di Antropologia criminale «Cesare Lombroso» di Torino, sono conservate diverse tipologie di documenti e di reperti. Oltre alle fotografie, si possono trovare dei disegni a matita o a inchiostro che mostrano singoli tatuaggi o gruppi di tatuaggi su porzioni di corpo. Ci sono poi dei designi realizzati su velina, prodotti tramite calco direttamente sulla pelle dei tatuati. Ma vengono conservati anche trentasei frammenti di pelli tatuate, asportate durante le autopsie. Tra questi reperti c’è anche uno dei rari casi di tatuaggio appartenuto ad una donna.

Come ricorda Alessio Petrizzo, sembra che gli studiosi dell’epoca prestassero particolarmente attenzione ai tatuaggi di soggetto pornografico, o realizzati sui genitali, così come ai simboli e ai messaggi di contenuto minaccioso o violento. Lombroso assegna infatti il massimo rilievo agli indizi di attitudini criminali. Con la rappresentazione del genere criminale, Lombroso sembra voler rendere iconica l’immagine del delinquente tatuato. Nelle immagini si vedono corpi denudati di disertori, delinquenti comuni, camorristi, scelti tra coloro che apparivano tatuati nei modi più sorprendenti e vistosi. Secondo Lombroso esistono anche persone «normali» che si tatuano ma, a differenza dei delinquenti, in nessuno di questi individui appaiono disegni o scritte nelle parti «pudende» o nella schiena. I criminali usano invece il loro corpo come fosse una lavagna dove scrivere la propria storia. Come Francesco Spiteri, «esempio di “delinquente nato, atavico”» che presenta sul proprio corpo un totale di 105 disegni tatuati. Tra le foto dei tatuati delle carceri di Torino c’è quella di M.S., detto “Materìa”, piemontese condannato ripetutamente per furto, rapina e associazione a delinquere. Un personaggio piuttosto conosciuto a Torino, tanto da essere citato in un libro di Emilio Salgari. Tra i tatuaggi presenti in tutto il suo corpo si può notare un lungo serpente che si avvolge su braccia, tronco e gambe e che, ha detta del recluso, simboleggiava la Questura «dai cui lacci non può sciogliersi».

Perché i tatuaggi a colori non scompariranno. Eleonora Mureddu il 19 dicembre 2021 su Today. L'allarme tra gli amanti dei tattoo circola da giorni, alimentato da alcune news imprecise. Ecco perché l'Ue ha imposto una stretta (per la salute), ma non l'obbligo del "bianco e nero". "Dal 2022 i tatuaggi in Europa saranno solo in bianco e nero". È questa, in sintesi, la notizia che sta circolando da giorni su media e social, alimentata da notizie forse un po' imprecise, titoli e post forzati (o scarsamente informati). Il tutto condito dalla classica accusa all'Unione europea e ai suoi vincoli, dato che il presunto addio ai colori sulla pelle è frutto di una normativa varata da Bruxelles nel dicembre del 2020. Ma come stanno realmente le cose?

Stando alle norme che entreranno in vigore a partire dal prossimo gennaio, in tutta l'Ue sarà vietato utilizzare per i tatuaggi 25 pigmenti (legati alla produzione di diverse tonalità di rosso, arancione e giallo) e verranno introdotti limiti massimi di concentrazione nei colori per alcune sostanze come coloranti azoici e ammine aromatiche cancerogene, idrocarburi policiclici aromatici (IPA), metalli e metanolo. In altre parole, molti inchiostri diventeranno non conformi e quindi legalmente inutilizzabili secondo i regolamenti Ue. Poi, a partire da gennaio 2023, saranno vietati anche altri pigmenti, relativi al blu e al verde. Questo avrà inevitabilmente un impatto su molti altri colori, ottenuti mescolando diverse tonalità. Fino a questo momento non esisteva nessuna normativa che regolamentasse questo settore, ma solo linee guida, stilate in due risoluzioni (una del 2003 e una del 2008) che indicano i criteri di valutazione per la sicurezza negli inchiostri per tatuaggi. Recenti studi scientifici hanno però dimostrato che in tanti inchiostri per tatuaggi in commercio sono presenti sostanze che "oltre ad allergie e problemi della pelle", spiega la Commissione, "possono causare altri effetti negativi sulla salute, come il cancro". Ma questo significa la fine dei tatuaggi colorati? In realtà, hanno spiegato diversi esperti, si tratta di una mezza bufala. Già oggi, esistono degli inchiostri alternativi che possono essere usati nel rispetto delle nuove norme Ue e che non contengono le sostanze messe al bando. I professionisti dovranno adattarsi e trovare nuove tonalità di colore con le sostanze disponibili sul mercato. Secondo quanto riportato alla Rtbf da Davy D'Hollander, amministratore delegato di TekTik, il principale fornitore belga di materiali e inchiostri per tatuaggi, questo divieto non rappresenta un vero problema in quanto esistono "altri pigmenti che daranno gli stessi colori e che non sono sulla lista delle sostanze vietate". Gli unici due colori per cui non esiste una valida alternativa sono il Pigment Blue 15:3 e il Pigment Green 7. Ma per questi colori, l'Ue ha concesso un anno in più per consentire ai produttori e ai tatuatori di trovare delle soluzioni. Il bando di queste sostanze, del resto, non è arrivato dall'oggi al domani. La storia è iniziata nel 2015 quando l'Ue ha chiesto all'Agenzia europea per le sostanze chimiche (Echa) di valutare i rischi per la salute delle sostanze contenute negli inchiostri. Dopo cinque anni di lavoro l'ente ha concluso le sue ricerche proponendo che le sostanze che già erano vietate nei cosmetici vengano vietate anche negli inchiostri, che vengano messe al bando tutte le sostanze considerate come tossiche o cancerogene e che per le sostanze irritanti o corrosive venga fissata una soglia dello 0,1 per cento.

Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 21 novembre 2021. Quante ne ha viste, nella sua carriera, il criminologo Vincenzo Mastronardi, «una volta - racconta - andai persino a fare un corso agli esorcisti». Una vita, la sua, passata a studiare il male, spesso barcamenandosi tra grandi demoni e poveri diavoli. L'ultimo degli oltre trenta libri che ha scritto s'intitola I segreti dei tatuaggi criminali ed è il risultato di una ricerca partita nel 2013 quando era direttore del Master in Scienze Criminologiche all'università La Sapienza. Una ricerca sui tatuaggi di 80 detenuti, uomini e donne, reclusi a Regina Coeli e nella sezione femminile di Rebibbia, compiuta insieme a Giovanni Passaro, un ispettore di polizia penitenziaria con oltre 20 anni di duro servizio nelle carceri.  «Era un mio vecchio pallino - dice Mastronardi - Già nel '74, infatti, da universitario mi avventurai in una ricerca sui tatuaggi dei tossicodipendenti e notai subito la differenza a seconda che si facessero di droghe pesanti o leggere. Chi assumeva eroina o cocaina si tatuava addosso perlopiù coltelli, fucili, pistole. Chi fumava la marijuana, invece, sceglieva simboli eterei: uccellini, madonne».  E oggi? «Oggi assistiamo alla sindrome dell'uomo illustrato - dice Mastronardi - In cella c'era uno tutto tatuato: un serpentello sul pene, una lettera alla madre sulla spalla sinistra, il volto della fidanzata su quella destra. In pratica, una psicobiografia incisa sulla pelle. Perché il tatuaggio è un mezzo di affermazione personologica e nel detenuto avvia un meccanismo di fuga intrapsichica, un'evasione all'interno di sé, per uscire dal rischio dell'autodisistima. È come se grazie al tatuaggio il detenuto dicesse: io non sono il numero della mia cella, io sono la tigre, il serpente che ho su di me. Non sono un corpo ma un uomo con la sua storia». Ma la «sindrome dell'uomo illustrato», chiediamo, si può ravvisare anche in chi non è recluso? «I tatuati alla Fedez, per capirci? - risponde il prof - Non conosco Fedez, di sicuro molti di loro hanno bisogno di fare di più per sentirsi normali». Quelle di 50 anni fa, inoltre, erano scarificazioni piuttosto incerte, ottenute «col vecchio pennino a campanile», ricorda il criminologo. «Oggi invece - interviene Giovanni Passaro - i detenuti smontano il lettore cd mp3 con cui in cella ascoltano le canzoni. Il motorino del lettore, alimentato con le batterie del telecomando tv, lo collegano poi col fil di ferro al tubicino trasparente di una penna Bic, riempito con l'inchiostro liquido dei pennarelli colorati che comprano allo spaccio. Infine, applicano al tubicino un ago preso dalle siringhe dell'infermeria e avviato il motorino comincia il lavoro. Poiché i tatuaggi in carcere sono vietati, di solito c'è un detenuto a fare da "palo" fuori (di giorno le celle restano aperte) e si alza al massimo il volume della tv per coprire il ronzìo». I tatuaggi in carcere sono vietati perché ci si può infettare, contrarre l'HIV o l'epatite. Ma come si vede, chi lo vuole lo ottiene, magari scambiandolo con due pacchetti di sigarette. La ricerca è stata svolta su un campione di 50 uomini e 30 donne, in prevalenza italiani e dell'est Europa. In copertina, campeggia un'enorme farfalla tatuata sul collo taurino di un detenuto: «Un segno di libertà - dice Passaro - Così come il serpente simboleggia l'odio o la vendetta. Le croci, le madonne, i volti di Cristo servono a confortare, ma c'è anche chi si sente Dio! Una lacrima vicino a un occhio vuol dire che si è commesso un omicidio, due lacrime due omicidi». I detenuti di maggior spessore criminale, invece, i tatuaggi li evitano: con le città piene di telecamere, l'icona di un coltello può farti arrestare. «Ma pure le donne - conclude Passaro - portano tatuaggi violenti: una quarantenne italiana, dentro per traffico di droga, sfoggiava all'altezza della coscia il disegno di un reggicalze con la pistola. È tipico poi tra le detenute immortalarsi sui polsi o sulle caviglie i nomi dei genitori, dei figli, del marito. Durante la pandemia, quando i colloqui erano sospesi, i tatuaggi mostrati durante le videochiamate volevano comunicare proprio questo: l'indistruttibilità del loro legame». 

Dagotraduzione dalla Cnn il 19 ottobre 2021. Ötzi, l'Uomo venuto dal ghiaccio, è rimasto nascosto al mondo per millenni fino a quando, 30 anni fa, due turisti tedeschi l'hanno scoperto in un ghiacciaio nelle Alpi italiane. Questa mummia che ha 5.300 anni non è solo la mummia più famosa d'Europa, ma anche uno dei reperti più significativi per coloro che studiano la storia globale dei tatuaggi. Ötzi è stato decorato con 61 tatuaggi incredibilmente preservati dal clima glaciale. Il significato di quei tatuaggi è stato dibattuto sin dalla sua scoperta da parte dei due escursionisti. molti dei tatuaggi di Ötzi sono risultati essere linee disegnate lungo aree come la parte bassa della schiena, le ginocchia, i polsi e le caviglie, zone in cui le persone più spesso avvertono dolore continuo mentre invecchiano. Alcuni ricercatori ritengono che questi tatuaggi siano un antico trattamento per il dolore. Varie erbe note per avere proprietà medicinali sono state trovate nelle immediate vicinanze del luogo di riposo di Ötzi, conferendo ulteriore credito a questa teoria. Ma non tutti i tatuaggi di Ötzi sono in luoghi solitamente colpiti dall'usura della vita quotidiana. Ötzi sfoggiava anche dei tatuaggi sul petto. Secondo gli esperti questi tatuaggi, scoperti nel 2015 utilizzando nuove tecniche di imaging, possono essere frutto di agopuntura, di un rituale di guarigione, oppure indicare l’appartenenza a un gruppo religioso. Naturalmente, l'idea che i tatuaggi di Ötzi possano aver avuto un profondo significato culturale o religioso per lui e per il suo popolo non è al di là della ragione. In tutto il mondo antico e fino ai tempi moderni, i tatuaggi sono stati storicamente usati in cerimonie di guarigione, riti religiosi e per mostrare l'appartenenza a gruppi culturali e religiosi. In Egitto, i resti mummificati di alcune donne mostrano tatuaggi risalenti al 2000 a.C. Inoltre, nei rilievi tombali sono state trovate piccole statuine raffiguranti donne con tatuaggi che risalgono al 4.000-3.500 a.C. In entrambi i casi, i tatuaggi erano una serie di punti, spesso applicati come una rete protettiva sull'addome di una donna. Sulla parte superiore della coscia di una donna è stato anche trovato un tatuaggio della dea egizia Bes, la protettrice delle partorienti. Questi antichi tatuaggi erano considerati una sorta di talismano di protezione per le donne che stavano per partorire. Il primo storico greco Erodoto ha discusso di come gli schiavi fuggiaschi a Canopo si fossero tatuati volontariamente per coprire il marchio eseguito su di loro dai loro padroni e per devozione religiosa. Questi uomini e queste donne mostravano così di non essere più a servizio da un padrone terreno, ma di essersi affiliati a un certo dio o una certa dea. Nella Bibbia, Paolo, il primo apostolo cristiano dice: «D'ora in poi nessuno mi disturbi, perché porto nel mio corpo i segni del Signore Gesù». La parola originale usata per "segni" era la parola "stigmate", che è stata spesso vista, riferendosi a Erodoto, come il termine usato per descrivere le pratiche di tatuaggio. Diversi studiosi ritengono che i tatuaggi di Paolo avessero lo scopo di mostrare la sua devozione a Cristo. I tatuaggi avrebbero anche aiutato altri cristiani, che hanno affrontato la persecuzione dell'impero romano, a identificarlo come credente. Il popolo Maori della Nuova Zelanda pratica da secoli l'arte del tatuaggio di Ta Moko. Questi tatuaggi, praticati ancora oggi, hanno un profondo significato culturale e storico. I tatuaggi non solo trasmettono lo stato sociale, l'identificazione familiare e le realizzazioni della vita di una persona, ma hanno anche un significato spirituale con disegni che contengono talismani protettivi e appelli agli spiriti per proteggere chi li indossa. Molte tribù di nativi americani e delle prime nazioni del Nord America hanno una lunga storia di tatuaggi sacri. Nel 1878, il primo antropologo James Swan scrisse numerosi saggi sul popolo Haida che incontrò intorno a Port Townsend, Washington. In un uno di questi saggi ha spiegato che i tatuaggi erano più che ornamentali, e che ogni disegno aveva uno scopo sacro. Ha anche raccontato che coloro che eseguivano i tatuaggi erano visti come leader spirituali o persone sante. L'antico dio azteco del sole, del vento, dell'apprendimento e dell'aria, Quetzalcoatl, è spesso raffigurato negli antichi rilievi con alcuni tatuaggi. Lo stesso popolo azteco praticava il tatuaggio religioso, e i loro sacerdoti erano spesso incaricati di varie forme di body art. Nazioni dell'Africa occidentale come il Togo e il Burkina Faso hanno utilizzato e continuano a utilizzare tatuaggi e modifiche rituali del corpo come sacri riti di passaggio. Nei tempi moderni, si possono ancora vedere persone in tutto il mondo che portano tatuaggi sacri con significato religioso. Cosa significassero per Ötzi i tatuaggi che adornano suo il corpo mummificato rimarrà almeno in parte un mistero. Ma Ötzi è un importante promemoria del fatto che i tatuaggi sono stati, e continuano ad essere, una parte sacra di molte culture in tutto il mondo.

Adriana Marmiroli per “la Stampa” il 12 aprile 2021. Opere d'arte su pelle, i tatuaggi. Segni che rimandano a culture e devozioni, e risalgono alla notte dei tempi. In Italia il primo tatuato è Ötzi: gli studiosi che l'hanno analizzato gliene hanno trovati non pochi. Simboli esoterici o disegni curativi, si sono chiesti. Forse entrambe le cose. Parte con il cacciatore di Similaun e le analisi delle sue spoglie il libro “Marchiati” di Cecilia De Laurentiis (Momo Edizioni) che, in pagine dense di rimandi bibliografici e riferimenti documentali, percorre per la prima volta la storia del tatuaggio in Italia. Anzi, del «marchio». «Il tatuaggio come lo intendiamo noi oggi, anche come nome, risale all'800, quando fummo colonizzati da questa "cultura" di origine anglosassone e circense», ci spiega lei. «Da noi storicamente era tutt' altro: segno di devozione o appartenenza, piuttosto elementare nella costruzione e - dati i tempi - fatto solo con la tecnica dell'ago o del pennino che graffia, intinto nel nerofumo diluito in qualche tipo di distillato alcolico. I disegni erano semplici, talvolta rudimentali, sempre di colore turchino». Ma non così rari come si potrebbe pensare. Nel Medioevo si «marchiavano» i Crociati e i pellegrini: era il segno della loro fede. Non a caso uno dei centri più importanti sarà sino ad anni recenti Loreto. Lo si chiami marcatura o tatuaggio, comunque, dall'antichità ai giorni nostri la tradizione di disegnarsi la pelle si è sempre mantenuta, seppure segreta e nascosta. Sant'uomini, quindi, ma anche carcerati, marinai, criminali. Amanti, al più. Era legato a luoghi segregati e sottintendeva l'appartenenza a un gruppo ristretto. Superati i millenni, è nel Novecento che arrivano i «tempi bui»: Lombroso elegge il tatuaggio a segno inequivocabile di devianza criminale e atavismo regressivo; pubblica studi oggi considerati ben poco scientifici ma che allora ebbero rilevanza internazionale, diventarono parametro di riferimento in tutto il mondo occidentale (e tali ancora sono) e di fatto condannarono questa pratica (Torino, che ospita il Museo e l'Archivio Lombroso, per i materiali che conserva continua a essere uno dei maggiori centri di studio del tatuaggio a livello mondiale). Il fascismo arriverà a proibirli, pur tatuandosi orgogliosamente le camicie nere coi i truci simboli del movimento e il faccione del Duce. Negato, condannato, proibito, vituperato, solo in tempi molto recenti il tatuaggio ha smesso di essere considerato segno di emarginazione e infamia, ma è ornamento da esibire e vantare. Una moda che ha portato con sé anche esagerazioni. «Fino a ieri "arte degenerata", il tatuaggio fa parte a pieno titolo della cultura contemporanea. È un gesto importante e non scontato. In quelli che ho, c'è la mia vita: non la sua narrazione, ma un preciso clima esistenziale. Sono un memento. Sbagliano quei genitori che lo permettono ai figli adolescenti. Il tatuaggio va pensato. Vivrà con te, sulla e con la tua pelle, invecchierà con te. Farlo su impulso significa banalizzarlo. E invece è magia: il sangue che esce, il dolore, la ritualità del gesto». Nipote di uno scultore, la famiglia attraversata da una non sotterranea vena artistica, malgrado appartenga alla generazione che ha fatto del tattoo una pratica di massa esibita sempre meno ribelle, Cecilia De Laurentiis a tatuarsi è arrivata relativamente tardi: più che ventenne, ormai iscritta alla facoltà di Storia dell'Arte. Un percorso che l'ha portata ad approcciarsi alla sua passione in modo accademico da una parte e con una prospettiva artistica dall'altra: ricercatrice universitaria e studiosa, tatuata e tatuatrice. «Frequentavo la scena underground romana: non potevo ignorare questo fenomeno e i suoi artisti». Ma all'inizio c'era un certo timore. «Il passaggio da punk a tatuato sembrava obbligato. Ma io rifiutavo l'idea di un disegno che avrebbe segnato la mia pelle per sempre. Poi ho compreso che era tutto legato a come vivevo il mio corpo». Superato il blocco, «mi sono fatta io stessa un cuoricino piccolissimo su una gamba. Sono stata la cavia di me stessa». È stato il primo dei tanti disegni che ha su tutto il corpo: sempre più complessi e colorati, ne ha perso il conto. Non li fa più da sola, ora. Le piace, ci confessa, «farli fare a quegli artisti di cui amo il tratto e lo stile». Il corpo trasformato in una personale galleria d'arte, in un piccolo museo a fior di pelle.

·        Il Limbo.

VOCABOLARIO CELESTE. Sospesi nel limbo, a metà strada fra inferno e misericordia. MATTEO AL KALAK su Il Domani il 17 marzo 2022.

Essere nel limbo significa trovarsi sospesi tra una condizione di partenza e un traguardo auspicato o forse solo immaginato; o, in altri casi, costretti a sostare in uno stato, o in uno spazio, che ha contorni di indeterminatezza.

Per secoli il limbo è stato qualcosa di molto diverso. A finirci, nell’immaginario e nel sentire comune fino a non molto tempo fa, erano i bambini morti senza il battesimo.

La chiesa cattolica nel tempo ha cambiato la sua visione, aprendosi a una diversa concezione del rapporto tra Dio e i fedeli. In questa, la misericordia di Dio prevale sul peccato.

MATTEO AL KALAK. Professore di Storia del cristianesimo e delle chiese presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, dove dirige il Centro interdipartimentale di ricerca sulle Digital Humanities. I suoi studi sono dedicati prevalentemente all’età moderna, con particolare attenzione al riformismo religioso, alle forme del dissenso, alle pratiche di conversione e all’attività inquisitoriale. Un altro suo campo di indagine è il pensiero di Muratori, di cui ha curato l’edizione di numerosi scritti. Tra le sue pubblicazioni: Lodovico Antonio Muratori. Religione e politica nel Settecento (a cura di, Firenze 2018).

·        Il Potere nel Telecomando.

Pierluigi Panza per Dagospia il 16 gennaio 2021.  

Se lo avessero saputo i Romani che il bastone di comando bifronte Rapa Nui/Isola di Pasqua dalla prima metà XIX secolo si chiama “’Ao” avrebbero saputo spiegare perché uno dice “’Ao, passame er telecomando”. Semplice il tele-comando è l’erede contemporaneo dei bastoni di comando tenuti in mano dai capi tribù e dai capi famiglia. Chi lo impugna è colui che comanda, il più importante del gruppo. 

Una mostra organizzata dalla Fondazione Ligabue a Palazzo Franchetti di Venezia, sede dell’Istituto Veneto, aperta sino al 13 marzo espone straordinari bastoni di comando provenienti dall’Oceania, perché lì sono stati usati sino a età “recenti”.  Il valore scultoreo dei bastoni del comando esposti in mostra è componente fondamentale della loro identità.

L’abilità scultorea degli intagliatori di questi manufatti è talvolta impressionante, ma non si trattava di semplici esperti: nelle lingue oceaniche i termini “esperto” o “specialista” includevano il nostro concetto di “sacerdote”, alludendo a una dimensione religiosa di queste figure e degli oggetti che realizzavano. A questi oggetti era riconosciuto il valore di “mana”, ovvero di un potere trascendente, quello che per Walter Benjamin è all’origine dell’Arte e del suo essere una sorta di “religione laica”.

Sorprende nella mostra “Power and Prestige” è la qualità di questi “bastoni” che spaziano da una trentina di centimetri (come un grande tele-comando) a oltre 3 metri, la fluidità delle forme, la meticolosità dell’intaglio, della lucidatura e degli ornamenti, la varietà delle tipologie.

Questi bastoni erano anche armi e molti furono fabbricati pensando a questa funzione, anche se non tutti furono usati in combattimento: come il tele-comando, usato solo per i combattimenti domestici. Inoltre, come il tele-comando, erano come accessori di arredo o di costumi e oggetti per esibizioni di vario genere, talvolta grandiose e impressionanti come quelle riportate dalle cronache di alcuni missionari della seconda metà dell’Ottocento: chi li possedeva li mostrava allo straniero come segno di forza e prestigio. Infine, i disegni superficiali possono essere enigmatici, come nelle celebri lance dai bordi dentellati delle isole Cook realizzate fino agli anni venti dell’Ottocento e del cui motivo distintivo non si conosce né l’origine né la fonte di ispirazione, un po’ come i simbolini dei telecomandi di ultima generazione. 

·        Gli incontri casuali di svolta.

Gianluca Veneziani per "Libero Quotidiano" il 15 febbraio 2022.

Chissà come sarebbe stata la storia della filosofia, della musica, della pittura e della letteratura se non ci fossero stati quegli incontri. Chissà di quanta bellezza, quanti pensieri originali e quanti capolavori non avremmo goduto. 

E chissà quanti scambi umani, relazioni amorose o di amicizia, sodalizi artistici, intellettuali o affettivi non avrebbero visto la luce, rendendo così il mondo più povero, meno degno di essere vissuto. 

Ecco perché è una fortuna che quegli incontri siano avvenuti, segnando uno spartiacque in biografie, opere e arti, a conferma che una persona da sola non può cambiare la storia, ma due insieme possono avere una forza rivoluzionaria. 

Sulle tracce di quelle unioni generate dal caso o dal destino ci mette lo scrittore e filosofo francese Charles Pépin nell'affascinante Filosofia dell'incontro. La riscoperta di un gesto dimenticato (Garzanti, pp. 238, euro 16), libro bestseller in Francia.

L'autore ci fa imbattere in Socrate e Platone il cui incontro ha segnato l'origine del pensiero occidentale e forgiato la nostra civiltà. Il loro fu un incontro reale, di maestro con discepolo, ma anche un incontro letterario, quello del pensatore che rivive, attraverso la finzione di un personaggio, nei libri del suo seguace. 

Tale rapporto fu decisivo per entrambi: Socrate poté continuare a esistere grazie all'opera di Platone, sennò di lui non sarebbero restate tracce, non avendo lasciato nulla di scritto; Platone poté diventare Platone grazie agli insegnamenti del maestro ma anche alla rielaborazione della sua figura nel personaggio dei Dialoghi.

Restando sul piano filosofico, avremmo perso alcune delle maggiori perle di scrittura del '700 se Voltaire non avesse intrecciato il suo destino con quello di Émilie du Châtelet, nobildonna che lo accolse nel suo castello per quattordici anni divenendone amante. 

L'incontro fisico ed erotico tra i due fu anche un continuo scambio di conoscenza e confronto di due punti di vista speculari: Émilie era una scienziata, aristocratica, femminista ante litteram e ottimista, Voltaire un filosofo, borghese, ironico e pessimista sulle sorti dell'umanità. 

Ma proprio questo fronteggiarsi con una visione opposta alla sua permise a Voltaire di dar vita al Candido, in cui lui si faceva beffe dell'ottimismo leibniziano - per cui noi viviamo «nel migliore dei mondi possibili» - di cui Émilie era testimone, e allo stesso tempo elevava questa corrente di pensiero alla dignità di contraltare rispetto alla sua filosofia.

Perché, come scrive Pépin, «si può scoprire il punto di vista dell'altro senza necessariamente farlo proprio». E che dire dell'incontro, sentimentale, passionale e intellettuale, tra lo scrittore Albert Camus e l'attrice Maria Casarès, figlia del capo della Repubblica spagnola, esiliata in Francia dopo l'avvento al potere di Franco? 

L'irruzione di lei nel cuore e nella mente di lui consentì a Camus di mutare lo sguardo, aprirsi alla vita e dirle di sì, con una conversione filosofica. «Sei entrata per caso in una vita di cui non andavo fiero, e da quel giorno qualcosa ha cominciato a cambiare. Respiravo meglio, odiavo di meno, ammiravo liberamente ciò che meritava di essere ammirato. Con te ho accettato più cose. Ho imparato a vivere», scriveva lui ricordando il loro primo incontro il 6 giugno 1944, giorno dello sbarco alleato, che divenne il loro D-Day.

Fu anche grazie a quel loro ritrovarsi che Camus partorì L'uomo in rivolta, opera pregna di spirito pugnace, proprio di chi, in nome di una ragione intima e alta, ha la forza di lottare contro ogni ingiustizia. 

Una rivolta portò nella vita di Pablo Picasso la conoscenza col poeta Paul Éluard, che segnò l'inizio del suo percorso "impegnato" da artista. Senza l'intesa amicale con quell'uomo idealista e pacifista, Picasso non avrebbe mai realizzato Guernica, la sua opera più celebre, capolavoro di denuncia politica nutrito di tragica bellezza.

Diversi ma altrettanto luminosi orizzonti di creatività schiuse a Mick Jagger e Keith Richards il loro incontro fortuito nel 1960, sulla banchina di una stazione scalcagnata nei sobborghi di Londra: poche battute scambiate sui dischi di Chuck Berry e la decisione di strimpellare qualcosa a suon di rhythm and blues significarono una svolta radicale nella storia del rock.

A suon di note avvenne anche l'incontro tra altri due giganti del suono, David Bowie e Lou Reed. Il primo, già affermato, sognava di conoscere dal vivo la sua fonte di ispirazione, quel Lou che lo aveva estasiato con la sonorità dei suoi Velvet Underground.

Ma Reed in quel periodo era piuttosto male in arnese, aveva quasi chiuso con la musica e si guadagnava da viver svuotando bidoni della spazzatura. Stava quasi per rinunciare all'incontro, si sentiva stanco, depresso, ma decise di andarci. 

E quel drink bevuto insieme al Duca Bianco in un club di New York avrebbe consentito a Lou Reed di incidere Transformer, album prodotto da Bowie, uno dei più belli mai ascoltati nel '900.

Esistono alcuni elementi comuni in queste confluenze e sovrapposizioni di storie, tali da configurare una sorta di filosofia dell'incontro. Per cominciare, ci dice Pépin, un incontro non è mai un mero incrocio: quest'ultimo è un imbattersi casuale che non lascia tracce, il primo significa invece turbamento, vertigine, è uno scompiglio e spesso anche uno scontro, comunque qualcosa che devia il nostro cammino e amplifica la nostra visione, permettendoci di guardare il mondo (anche) con gli occhi dell'altro. 

Ma ciò non vuol dire che incontro sia integrazione, assimilazione o fusione dell'uno nell'altro fino alla scomparsa: incontrarsi è piuttosto completarsi nella diversità, mantenendo la rispettiva identità, è il percorso di due rette che procedono a fianco, nella stessa direzione, con convergenze parallele che non prevedono mai l'annullamento reciproco.

E incontro vuol dire soprattutto, aspetto quanto mai vero dopo l'isolamento da pandemia, uscita dalla prigionia del sé, apertura alla dialettica hegeliana che prevede antitesi prima di giungere alla sintesi, disponibilità a quella che Pépin chiama «filosofia dell'azione»: perché sì, esiste il caso, ma si tratta di provocarlo, di stimolarlo, di far operare il libero arbitrio, il che implica le decisione di rompere le abitudini, mettersi in gioco, tirarsi fuori dal proprio egocentrismo e dalle proprie pareti domestiche.

Solo allora si sarà predisposti a incontrare l'altro, lasciandosi aperti alla possibilità che le cose accadano, come una grazia, un miracolo. A volte si tratta anche di incontri brevissimi ma decisivi, come quello raccontato nel film I ponti di Madison County, dove Francesca, casalinga interpretata da Meryl Streep, e Robert, fotografo nei cui panni c'è Clint Eastwood, si incontrano casualmente e vivono quattro giorni di passione intensissima tali da consentire a ciascuno di conoscere l'altro in pienezza ma anche di conoscere se stessi in modo del tutto nuovo.

«Non mi riconosco più, ho l'impressione di non essere più me stessa», dirà Francesca. «E, allo stesso tempo, non sono mai stata tanto me stessa come oggi». Questi sono gli incontri fatali, destinati a durare una vita, e forse anche oltre.

·        I Fantozzi.

"Fantozzi, ma com'è colto Lei!". Il lato intellettuale di un mito pop. Luigi Mascheroni il 21 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Altro che perdente. Il ragioniere più famoso della narrativa e del cinema italiano ha creato un vero immaginario.

Aggettivi per Fantozzi rag. Ugo, matricola 1001/bis dell'Ufficio Sinistri (numero destinato a cambiare più volte) di libro in film: «sottomesso», «impacciato», «pavido», «servile», «sfortunato», «nevrotico», «soggiogato», «perdente»...

Ma se fosse anche colto?

All'epoca in cui nacque la maschera comica dalla forza di archetipo di Fantozzi - anni post '68 e dintorni, epoca di impegno, spranghe e cineforum- non si poteva dire. Da un po' di tempo a questa parte, sì: le avventure sub-umane del ragionier Fantozzi sono l'equivalente italiano dei racconti di Gogol'. E il suo autore, Paolo Villaggio, prima che un comico e un attore straordinario, è stato un grande scrittore.

Del resto un personaggio letterario e poi cinematografico, eroe o antieroe che sia, può diventare un simbolo del carattere nazionale e una icona sociale e pop - come lo è Fantozzi, da cui il perfetto aggettivo italico «fantozziano» - solo a condizione che, dietro, esplicita o meno, ci sia una solida operazione culturale. «Com'è cólto Lei, ragioniere...».

Ecco, ciò che sta dietro la grottesca epopea di Ugo Fantozzi - le cui mostruose esagerazioni, le gag geniali, le battute diventate tormentone, il linguaggio dirompente e i congiuntivi surreali sono indelebili nella memoria di almeno tre generazioni di italiani - è raccontato, fra background letterario e citazionismi a posteriori, in un libro che rappresenta, a suo modo, il lato intellettuale della premiata megaditta Villaggio&Fantozzi. Eccolo: Fantozzi, ragionier Ugo, sottotitolo: «La (ir)resistibile ascesa di un perdente nato» (Bietti), scritto a quattro mani, due prospettive di studio diverse e una stessa passione convergente, da Guido A. Pautasso e Irene Stucchi. La seconda è una storica dell'arte che non ha conosciuto Paolo Villaggio, entrato nella sua vita solo attraverso la letteratura, il cinema e un enorme immaginario estetico. Il primo è invece uno studioso delle avanguardie artistiche e letterarie del '900, il cui padre - per nulla incidentalmente - era Sergio Pautasso, coltissimo e ascoltatissimo editor nella Rizzoli degli anni Settanta che trasformò una comica intuizione di Paolo Villaggio in un fenomeno prima editoriale e poi cinematografico che ha pochi uguali nell'ultimo mezzo secolo italiano.

Domanda: ma come fa un borghese piccolo e cinico, canottiera di lana bianco-sporco e coscienza nera della mediocre borghesia iper consumista, a diventare degno di Cechov e Gogol'?

Risposta: attraverso una lenta, inesorabile, inarrestabile, micidiale cavalcata mediatico-culturale, da fantoccio pusillanime, privo di qualsiasi talento, tragicamente servile con i superiori e comicamente tirannico con gli inferiori, che in pochi anni scavalca medium, mode, frontiere, dalla Slovenia all'America latina, dalla Finlandia alla Maison de Filippo, Entreves, Aosta, con l'imperdibile piatto gadget del Buon ricordo in onore della polentata più tragica della storia del cinema, fino alla ballata l'Impiegatango e i fumetti per adulti Il ragionier Pantazzi o Pancozzi (titolo del numero 1, anno 1975, lire 300, A passeggio con la signora Vulvani) e, oggi, fior di saggi sociologici.

Altro che perdente nato. Fantozzi - che è sempre piaciuto molto ai maschi, i quali nel fenotipo hanno sempre visto l'amico, il collega, il cognato, mai sé stessi, ma molto poco amato dalle femmine, che lo trovano insopportabile immaginando che potrebbero trovarselo come marito - qualsiasi cosa ha toccato, ha fatto 13 al Totocalcio. Più che culo, ci vuole testa. E Paolo Villaggio ne aveva. Tanta. Basta ricostruire - come fanno Pautasso&Stucchi, sulla base della più completa bibliografia fantozziana, documenti inediti, centinaia di ritagli giornalistici, testimonianze «di famiglia» e un ricco inserto fotografico con copertine, locandine di tutte le cinematografie del mondo e rare foto di scena - la storia culturale di un personaggio che è più di cellulosa che di celluloide. Un tragicomico uomo senza qualità, ma creato da uno scrittore ricco di ottime letture: solo un raffinato conoscitore di cinema può dare della «cagata pazzesca» alla Corazzata Potëmkin.

A proposito, fra i libri e gli pseudobiblia del mondo di Fantozzi si segnalano: Via col vento, romanzo di cui il patetico impiegato dopo diciotto anni non riesce a superare la pagina quattro; una fantomatica edizione di lusso dell'Enciclopedia Britannica rilegata in pelle umana che è stato costretto ad acquistare a rate; una (inesistente) Storia di Milano in due volumi monumentali di un metro per 50 centimetri con la copertina in bronzo inciso del peso di 26 chili che il Ragioniere «è capace di leggere solo a letto la sera» ma quando si addormenta, «la moglie Pina è costretta a chiamare il carro rimozione dell'ACI per tirarlo fuori da quella trappola mortale»; la Storia del pensiero filosofico Perrone-Ferretti-Cianco della SEI, adottato per anni come manuale da molti licei e livre de toilette che Franchino, «il fetido barbone terrorista che puzza come una cagna marcia», legge nella discarica a cielo aperto; e L'albicocco al curaro, giallo immaginario che Fantozzi sfoglia correndo in stazione come un disperato e urlando il nome dell'assassino, ovviamente sbagliato, alla contessina Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare affacciata al finestrino del treno in partenza... Scaffali letterari sfasciati ma solido background sociologico.

Iter mediatico. Fantozzi, ragioniere specializzato nel calcolare il malessere e le nevrosi di un intero Paese, nasce in televisione, nel 1968, nella trasmissione Quelli della domenica. Poi, tra cabaret e sketch del Varietà, arriva nei giornali, in una celebre rubrica su L'Europeo, quindi nei libri bestseller pubblicati da Rizzoli (che all'epoca era un po' la megaditta di Fantozzi&Co.), e solo dopo al cinema.

«Fisicamente rozzo e sgraziato, con la pelle color topo e i capelli giallo sabbia», pantaloni ascellari e basco calcato in testa, brutto, piccolo, disperato e sottomesso, in realtà Fantozzi è un gigante. Uno, nessuno, tutti noi: Pupazzi, Fantocci, Bambocci, Bambozzi, Beccacci, Cagnacci, Bacherozzi, Scacacci, Bombacci, Mamozzi, Mortacci...

Fantozzi - frutto di un eccezionale lavoro di editing di Sergio Pautasso sui raccontini di Villaggio apparsi sull'Europeo - esce nel 1971 da Rizzoli. Venderà un milione e mezzo di copie. Nel '74 arriva Il secondo tragico libro di Fantozzi: un altro mezzo milione di copie. Poi, nel '75, è la volta del primo film della serie cinematografica, firmato Luciano Salce, campione d'incassi del biennio 1974-75 e inserito nella lista dei 100 film italiani da salvare; successo bissato l'anno dopo dal secondo capitolo.

Alla fine i libri saranno otto. I film dieci. L'eredità linguistica imponente («Com'è umano, Lei!», «megagalattico», «spigato siberiano», «Batti Lei!», «organizzazione Filini», «abbigliamento Fantozzi: gonnellino pantalone bianco di una sua zia ricca, maglietta Lacoste pure bianca, scarpa da passeggio di cuoio grasso...») e il lascito culturale incalcolabile. Come aveva intuito benissimo lo stesso Villaggio, Fantozzi è un carattere senza tempo, «come Arlecchino o Paperino è una maschera perdente, ma felice di esserlo», che arriva, torna, subisce ancora, va in pensione, muore, va in paradiso, ritorna, viene clonato... È eterno, immortale, imbattibile. Si chiamano miti.

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 2021). 

·        Ho sempre ragione.

Nosce te ipsum. Il miracolo dell’autoconsapevolezza e la scienza che la studia. Stephen M. Fleming su L'Inkiesta il 14 Aprile 2022.

La capacità di riflettere sul nostro stesso pensiero è uno degli elementi che distingue l’essere umano dagli altri animali. E, come spiega Stephen M Fleming nel suo libro (Raffaello Cortina editore) è anche uno degli aspetti che, se ben sviluppati, aiuta a vivere meglio.

Immaginate di arrivare nello studio del vostro medico, su appuntamento, per riferire di alcuni recenti dolori al petto; vi sottoponete a una serie di esami del sangue e di scansioni, e una settimana dopo ritornate in ospedale, dove il medico riesamina insieme a voi gli esiti. Il disturbo sembra grave e lui vi consiglia sollecitamente un intervento di bypass cardiaco. Quando gli domandate perché è sicuro che la procedura sia necessaria, lui vi guiderà attraverso i suoi processi mentali, inclusa la possibilità di essersi sbagliato, e che cosa implicherebbe l’essere in errore, prima di ribadire il consiglio di sottoporvi all’intervento. Voi che cosa fareste?

Ora immaginate che, dopo esservi sottoposti a una serie di esami del sangue e di scansioni, i dati siano trasferiti a un assistente basato sull’intelligenza artificiale, il quale afferma con sicurezza che il disturbo sembra grave e che sarebbe auspicabile che vi sottoponiate a un intervento di bypass al cuore. Quando domandate al dottore se è realmente necessario, lui non è in grado di darvi una risposta: non sa perché vi e stato dato quel consiglio. Tutto quello che lui sa dire è che in passato l’IA, quando le era stata introdotta l’intera serie di dati di analisi, era stata estremamente accurata, e che sarebbe assennato confidare su di essa e procedere con l’intervento. Voi che cosa fareste?

Nel primo caso la risposta probabilmente sembra ovvia: se il dottore è sicuro e sa spiegare le ragioni della propria sicurezza, voi sentite di potervi fidare del suo consiglio. Nel secondo caso, però, non potrebbe essere altrettanto chiaro. Molti di noi intuitivamente sentono che, se una persona o una macchina stanno prendendo delle decisioni ad alto rischio a nostro vantaggio, noi dovremmo saper domandare loro che ci spieghino perché hanno elaborato proprio quella risposta.

Molti dei nostri quadri giuridici – quelli che attribuiscono la responsabilità e la colpa di errori – sono basati sul concetto di saper giustificare e difendere che cosa abbiamo fatto, e perché lo abbiamo fatto. Senza una spiegazione, non ci resta che fidarci ciecamente l’uno dell’altro, o delle nostre macchine. Per ironia, alcuni degli algoritmi di machine learning (apprendimento automatico) più efficienti sono spesso i meno spiegabili. Dal canto loro, gli esseri umani chiariscono a ogni piè sospinto che cosa stanno facendo e perché, una potenzialità che dipende dalla nostra capacità di riflettere sulle cose, di rielaborarle e di conoscere qualcosa di noi stessi: come ricordiamo, percepiamo, decidiamo, pensiamo e sentiamo. 

Gli psicologi hanno coniato un nome ad hoc per questa autoconsapevolezza: l’hanno chiamata metacognizione. È letteralmente la capacità di riflettere sul nostro stesso pensiero: dal greco antico metá, che significa “dopo” o “oltre”. La metacognizione è una caratteristica fragile, bella e, francamente, bizzarra della mente umana, che affascina da secoli gli scienziati e i filosofi. In Systema Naturae, il suo celebre trattato del 1735, Carlo Linneo aveva scrupolosamente annotato le caratteristiche fisiche di centinaia di specie; ma quando si trattò di Homo, il nostro genere, rimase così affascinato dalla capacità umana della metacognizione che si limitò ad annotare la voce relativa con la seguente definizione latina, lunga una sola riga: Nosce te ipsum – “Conosci te stesso”.

L’autoconsapevolezza è una caratteristica che definisce l’esperienza umana. Prendiamo il caso di Jane, una studentessa che sta studiando per un esame di ingegneria. Che cosa potrebbe passarle per la testa? Lei sta indubbiamente destreggiandosi con una schiera di fatti e di formule che deve padroneggiare e capire, ma forse, senza rendersene conto, sta anche pensando a come, a quando e a cosa studiare. Quale ambiente è migliore: una vivace caffetteria o una tranquilla biblioteca? Forse imparerà meglio rileggendo gli appunti o magari esercitandosi su insiemi di problemi? Sarebbe forse meglio chiudere il libro su un argomento e passare a un altro? E se smettesse proprio di studiare e uscisse con le amiche?

Prendere queste decisioni correttamente è certo cruciale per le possibilità di successo di Jane. Non vorrebbe cadere nel tranello di pensare di conoscere bene un argomento quando invece non è cosi, né riporre la propria fiducia in una strategia di studio inaffidabile. Nessuno, però, le sta dando la risposta a queste domande. Piuttosto, la ragazza si affida alla propria consapevolezza di come sta imparando.

Le nostre capacità di autoriflessione non perdono d’importanza quando usciamo dall’aula scolastica o da quella degli esami. Considerate l’esperienza dello scrittore e apneista James Nestor. Nel suo libro “Il respiro degli abissi”, Nestor racconta i suoi viaggi in località costiere della Grecia e alle Bahamas e le gare di apnea lì disputate. In ciascuna competizione l’obiettivo è uno solo: immergersi più in profondità degli altri concorrenti, e in un unico respiro. Per dimostrare di avere raggiunto una particolare profondità, i subacquei recuperano un cartellino con sopra inciso un numero: se perdono i sensi dopo essere riemersi, l’immersione è dichiarata nulla e invalidata. Per avere successo, gli apneisti professionisti devono essere consapevoli della propria capacità di raggiungere una certa profondità, evitando al contempo un incidente o addirittura la morte: una lieve sottostima potrebbe sfociare in una prestazione deludente, e una lieve sovrastima potrebbe invece essere fatale. È significativo che buona parte dell’allenamento degli apneisti avvenga sulla terraferma, esplorando psicologicamente le proprie capacità e i propri limiti subacquei.

E che dire del caso di Judith Keppel, una delle prime concorrenti del gioco televisivo “Chi vuol essere milionario?” Per ciascuna domanda viene chiesto ai concorrenti se sono sicuri di sapere la risposta corretta e se vogliono rischiare la vincita già accumulata in vista della possibilità di un premio più elevato o se preferiscono rinunciare e ritirarsi in buon ordine con la somma già intascata. La posta in gioco è alta: sbagliare significa perdere ogni somma vinta. Nel caso di Keppel, la donna si era trovata davanti a questa decisione con 500.000 sterline in ballo. La domanda da un milione di sterline era: “Quale re era sposato con Eleonora di Aquitania?”. Dopo una breve discussione con il presentatore Chris Tarrant, la donna optò per la risposta “Enrico II”. Poi Tarrant pose la domanda “killer”, il momento in cui in genere i concorrenti provano più angoscia: “È la tua risposta definitiva?”. Di nuovo, il successo dipende dall’autoconsapevolezza. Volete sapere se è probabile che abbiate ragione prima di accettare la scommessa. Judith Keppel ha perseverato, diventando così la prima persona a vincere il premio più alto nello show.

A unire le storie di Jane, di James e di Judith è il grado in cui il loro successo – oppure il loro fallimento – dipende da un’accurata autoconsapevolezza. Per valutare il potere della metacognizione, possiamo immaginare di nuovo le loro storie in un mondo dove l’autoconsapevolezza è inaccurata. Jane potrebbe avere erroneamente pensato che, poiché la meccanica dei fluidi le sembrava semplice, avrebbe potuto chiudere il libro sull’argomento e passare a un altro: poteva credere di avere fatto una buona scelta, anche se non era vero. Un errore metacognitivo di questo tipo potrebbe causare un fallimento catastrofico all’esame, malgrado le capacità innate di Jane e il suo studio diligente. Nel caso di Judith, si possono identificare due tipi di fallimento metacognitivo: forse la ragazza avrebbe potuto sapere la risposta ma pensava di non saperla, e quindi avrebbe perso l’opportunità di diventare milionaria; oppure avrebbe potuto essere troppo sicura, scegliendo di scommettere su una risposta sbagliata, perdendo così tutto. Nel caso di James, poi, tale eccesso di sicurezza potrebbe addirittura fare la differenza tra la vita e la morte: se avesse pensato di poter affrontare profondità superiori alle sue capacità, egli, novello Icaro subacqueo, avrebbe esagerato e si sarebbe accorto dell’errore quando era ormai troppo tardi.

Spesso ignoriamo il potere della metacognizione nel plasmare, nel bene e nel male, la nostra vita. L’importanza di una buona autoconsapevolezza può sembrare meno ovvia, magari, della capacità di risolvere equazioni, di realizzare imprese sportive oppure di ricordare fatti storici. Per la gran parte di noi la nostra metacognizione è come un direttore d’orchestra, che interviene ogni tanto per sollecitare e per guidare i musicisti nella direzione giusta (oppure sbagliata) in modi che, in quell’istante, passano spesso inosservati oppure sono sottovalutati. Se il direttore fosse assente, l’orchestra continuerebbe a suonare – proprio come Jane, James e Judith continuerebbero a investire nello studio, nell’immersione e nel rispondere al quiz televisivo, persino se la loro autoconsapevolezza fosse temporaneamente soppressa. Ma un buon direttore può fare la differenza tra una prova ordinaria e un’esecuzione di livello mondiale – proprio come la sottile influenza della metacognizione può fare la differenza tra il successo e il fallimento, o tra la vita e la morte.

Un’altra ragione per cui il ruolo dell’autoconsapevolezza è talvolta ignorato è che, storicamente, si è rivelata complicata da misurare, da definire e da studiare. Ora, però, le cose stanno cambiando: una nuova branca delle neuroscienze – la neuroscienza metacognitiva – sta sollevando il velo sulla mente che riflette su se stessa. Combinando innovativi test di laboratorio con le più recenti tecnologie di imaging cerebrale, stiamo componendo un quadro via via più dettagliato di come funziona l’autoconsapevolezza come processo cognitivo e biologico. Come vedremo, una scienza della metacognizione può condurci lontano, come mai prima, verso la conoscenza di noi stessi.

Creare una scienza dell’autoconsapevolezza

Sono affascinato dall’enigma dell’autoconsapevolezza sin da ragazzo, quando mi attiravano i libri sul cervello e sulla mente. Ricordo il momento in cui mi cadde l’occhio su uno di questi saggi mentre ero disteso a bordo piscina durante una vacanza estiva e fantasticavo sulla mia esperienza: per quale ragione la mera attività delle cellule del cervello nella mia testa provoca questa esperienza unica, che è la luce scintillante sulla superficie della piscina? E più precisamente: come, anzitutto, quello stesso cervello che sta vivendo questa esperienza mi permette di riflettere su tali misteri? Una cosa era essere cosciente, ma sapere di essere cosciente e riflettere sulla mia stessa consapevolezza… ecco, fu in quel momento che la mia mente cominciò ad arrovellarsi. Ormai ne ero catturato.

Ora dirigo un laboratorio di neuroscienze allo University College di Londra (UCL), un laboratorio che studia l’autoconsapevolezza. Il mio team e tra i numerosi a collaborare con il Wellcome Centre for Human Neuroimaging, situato in un’elegante casa indipendente a Queen Square, sempre nella capitale britannica. Il seminterrato del nostro edificio ospita ingombranti macchine per l’imaging cerebrale, e al Centre ciascun gruppo impiega questa tecnologia per studiare come funzionano aspetti differenti della mente e del cervello: come vediamo, ascoltiamo, ricordiamo, parliamo, prendiamo decisioni, e così via. Gli studenti e i borsisti nel mio laboratorio sono concentrati sulla capacità di autoconsapevolezza del cervello. Considero rimarchevole che qualcosa di unico della nostra biologia abbia permesso al cervello umano di volgere i propri pensieri su se stesso.

Eppure, fino a poco tempo fa tutto ciò appariva assurdo. Come diceva il filosofo francese dell’Ottocento Auguste Comte: «L’individuo pensante non può tagliare se stesso in due – una delle due parti che ragiona, e invece l’altra parte che sta a guardare. Poiché in questo caso l’organo osservato e l’organo che osserva sono identici, come potremmo mai fare alcuna osservazione?». In altre parole, come può un identico cervello volgere i propri pensieri su se stesso?

Il ragionamento di Comte era in sintonia con il pensiero scientifico dell’epoca. Dopo l’avvento dell’Illuminismo in Europa una concezione via via più popolare era che l’autoconsapevolezza fosse speciale e non qualcosa che si potesse studiare con gli armamentari della scienza. Dal canto loro i filosofi occidentali ricorrevano all’autoriflessione come strumento filosofico, un po’ come i matematici usano l’algebra per ricercare nuove verità matematiche. Cartesio si affidò cosi all’autoriflessione per giungere alla sua celebre conclusione «penso, quindi sono», osservando cammin facendo che «io so chiaramente che non c’è nulla che possa essere da me percepito più facilmente o più chiaramente della mia stessa mente». Cartesio ipotizzò che un’anima centrale fosse la sede del pensiero e della ragione, che ordina al nostro corpo di agire per nostro conto. L’anima non poteva essere divisa in due – semplicemente era. L’autoconsapevolezza era pertanto misteriosa e indefinibile, e fuori dalla portata della scienza.

Oggi sappiamo che la premessa del rovello di Comte è falsa. Il cervello umano non è un singolo organo indivisibile, ma è formato da miliardi di piccole componenti – i neuroni – ciascuna delle quali crepita di attività elettrica ed è inclusa in un diagramma di cablaggio la cui complessità è sconcertante. Dalle interazioni tra queste cellule compare e svanisce gradualmente la nostra intera vita mentale – i nostri pensieri e sentimenti, le nostre speranze e i nostri sogni.

Ma invece di essere un groviglio di connessioni privo di senso, senza una struttura discernibile, questo diagramma di cablaggio rivela un’architettura più ampia, che suddivide il cervello in regioni distinte, ciascuna delle quali è coinvolta in computazioni specializzate. Proprio come la piantina di una città non deve necessariamente includere le singole case per essere utile, cosi noi possiamo ricavare una panoramica approssimativa della collaborazione tra aree differenti del cervello umano al livello di regioni, e non di singole cellule cerebrali. Alcune aree della corteccia sono più vicine ai segnali in ingresso (gli occhi); altre risiedono più in alto nella catena di elaborazione. Per esempio, alcune regioni sono coinvolte principalmente nella visione (la corteccia visiva, nella parte posteriore del cervello); altre lo sono nell’elaborazione dei suoni (la corteccia uditiva); altre ancora nell’archiviazione e nel recupero dei ricordi (l’ippocampo, per esempio).

Nel 1865, replicando a Comte, il filosofo britannico John Stuart Mill anticipò l’idea che l’autoconsapevolezza potesse anche dipendere dall’interazione di processi operanti in un singolo cervello e che fosse, dunque, un legittimo oggetto di studio scientifico. Ora, grazie all’avvento di potenti tecnologie di imaging cerebrale, come la risonanza magnetica funzionale (fMRI), sappiamo che quando riflettiamo su noi stessi particolari reti cerebrali brulicano di vita, e che un danno o una patologia in queste reti possono causare deficit devastanti dell’autoconsapevolezza.

Conoscere meglio se stessi

Mi viene spesso da pensare che, se non avessimo questa profonda familiarità con la nostra capacità di autoconsapevolezza, ci stupiremmo che il cervello sappia sfoderare questo meraviglioso gioco di prestigio. Immaginate per un istante di essere uno scienziato in missione per studiare nuove forme di vita scoperte su un pianeta lontano. Di ritorno sulla Terra, i biologi vantano di sapere di che cosa sono fatti e che cosa rende speciali quegli esseri viventi. Ma nessuno suggerisce anche solo di chiederglielo! Eppure un marziano che atterra sul nostro pianeta potrebbe benissimo farlo, una volta che avesse imparato un briciolo di inglese, di spagnolo o di francese. I marziani potrebbero essere sbalorditi scoprendo che noi possiamo già dire qualcosa su che cosa si prova a ricordare, a sognare, a ridere, a piangere, a sentirsi euforici oppure rammaricati – e tutto ciò grazie alla nostra autoconsapevolezza.

Ma quest’ultima non si è evoluta solo affinché ci raccontassimo a vicenda (e a potenziali visitatori marziani) i nostri pensieri e i nostri sentimenti: essere autoconsapevoli è infatti centrale nel nostro sperimentare il mondo. Oltre a percepire l’ambiente circostante, noi riflettiamo sulla bellezza di un tramonto, ci chiediamo se la nostra visione sia offuscata, e se i nostri sensi siano ingannati da illusioni o da trucchi di magia; non solo prendiamo decisioni sull’accettare o meno un nuovo lavoro, o su chi sposare, ma possiamo anche riflettere se la nostra sia una scelta buona oppure cattiva; non solo rievochiamo ricordi d’infanzia, ma possiamo anche chiederci se questi ricordi potrebbero essere erronei.

L’autoconsapevolezza ci permette anche di capire che gli altri hanno una mente come la nostra. Essere autoconsapevole mi permette di chiedermi “come mi appare questa cosa?” e, cosa non meno importante, “come questa cosa sembrerà a qualcun altro?”. I romanzi perderebbero di senso se smarrissimo la capacità di riflettere sulla mente altrui e di confrontare le loro esperienze con la nostra. Senza autoconsapevolezza non vi sarebbero forme di istruzione organizzata: non sapremmo chi ha bisogno di imparare, né se abbiamo la capacità di insegnare loro. Lo scrittore Vladimir Nabokov colse con eleganza l’idea per cui l’autoconsapevolezza è un catalizzatore della prosperità umana:

L’essere consapevoli di essere consapevoli di essere. In altre parole, se oltre a sapere che io sono so anche di saperlo, allora appartengo alla specie umana. Da qui segue tutto il resto – la meraviglia del pensiero, la poesia, una visione dell’universo.

Sotto questo aspetto l’abisso che separa la scimmia dall’uomo è incommensurabilmente più vasto di quello tra l’ameba e la scimmia.

Alla luce di questa miriade di vantaggi, non sorprende che coltivare l’autoconsapevolezza sia considerato da tempo un obiettivo nobile e saggio. Nel Carmide, un dialogo di Platone, Socrate è appena ritornato da una battaglia della Guerra del Peloponneso. Sulla via del ritorno, egli domanda a un ragazzo del luogo, Carmide appunto, se abbia colto il senso della sophrosyne – una parola greca che indica la temperanza o la moderazione, l’essenza di una vita vissuta bene. Dopo una lunga discussione, Crizia, cugino del ragazzo, suggerisce che il segreto della sophrosyne è semplice: è l’autoconsapevolezza.

Socrate riassume il proprio ragionamento: «Colui che è temperante sarà l’unico in grado di conoscere se stesso, di stabilire che cosa conosce e che cosa no e, allo stesso modo, di indagare riguardo agli altri, che cosa ciascuno sa e crede di sapere, per appurare se veramente lo sa e che cosa crede di conoscere, ma in realtà ignora e tutto questo lui solo può farlo».

Altrettanto, gli antichi Greci erano spinti a “conoscere se stessi” da una celebre iscrizione scolpita nella pietra del tempio di Delfi. Per loro l’autoconsapevolezza era un lavoro in corso, una ricerca continua. Questa idea persistette nelle tradizioni religiose medioevali: il filosofo scolastico san Tommaso d’Aquino suggeriva che, se da un lato Dio conosce se stesso per definizione, noi dall’altro dobbiamo dedicare del tempo e dell’impegno per conoscere le nostre menti. L’Aquinate e i suoi monaci dedicavano molte ore alla contemplazione in silenzio: credevano che solo coinvolgendosi in un’autoriflessione concertata si potesse ascendere all’idea di Dio.

Una concezione simile di continua ricerca verso l’autoconsapevolezza si osserva nelle tradizioni orientali, tra cui il Buddhismo. L’obiettivo spirituale dell’illuminazione è dissolvere l’Io, consentendo a una conoscenza più diretta e trasparente delle nostre menti di agire qui e ora. Lao Tzu, il fondatore del Taoismo cinese, colse questa idea – ossia che conquistare l’autoconsapevolezza è tra le ricerche più grandi – quando scrisse: «La cosa migliore è sapere di non sapere; non sapere ma credere di sapere è una malattia».

Esistono oggi miriadi di siti, di blog e di libri di autoaiuto che ci inducono a “trovare noi stessi” e a diventare più autoconsapevoli. L’intenzione è ben riposta. Tuttavia se, per un verso, spesso siamo spinti a una migliore autoconsapevolezza, per l’altro una scarsa attenzione è rivolta agli effettivi meccanismi dell’autoconsapevolezza. Credo sia qualcosa di bizzarro. Sarebbe strano indurre le persone a riparare la propria automobile senza che esse sappiano come funziona il motore, o ad andare in palestra ignari di quali muscoli allenare. Questo libro intende colmare la lacuna. Non pretendo di dare consigli lapidari né citazioni da incorniciare in un manifesto; intendo piuttosto offrire una guida ai mattoni fondamentali dell’autoconsapevolezza, attingendo alle ricerche più recenti in psicologia, informatica e neuroscienze. Capendo come funziona l’autoconsapevolezza, provo a rispondere all’appello ateniese, ossia come farne il miglior uso.

Mi propongo inoltre di suggerire come usare meglio le nostre macchine – quelle che già sono tra noi e quelle che probabilmente arriveranno. Come per la visita immaginaria alla clinica del dottore basata sull’intelligenza artificiale e al suo inspiegabile consiglio di farci operare, già ora siamo costretti a interagire con sistemi complessi che prendono decisioni che sfuggono alla nostra comprensione. Siamo circondati da algoritmi intelligenti ma inconsapevoli – dai modelli di previsione del clima agli operatori finanziari automatici – e strumenti simili sono pronti a invadere ogni ambito della nostra vita. In molti casi questi algoritmi rendono la nostra esistenza più semplice e produttiva, e potrebbero essere necessari per aiutarci ad affrontare sfide senza precedenti, come il cambiamento climatico. Esiste, tuttavia, anche il pericolo che affidarci a scatole nere superintelligenti limiterà l’autonomia umana: eliminando la metacognizione dall’equazione, non sapremo né come né perché certe decisioni sono state prese, e saremo costretti a seguire ciecamente il consiglio degli algoritmi.

Come osserva il filosofo Daniel Dennett: «Il vero pericolo, penso, non è che macchine più intelligenti di noi usurpino il nostro ruolo di capitani del nostro destino, ma che noi sopravvalutiamo la comprensione dei nostri più recenti strumenti per pensare, cedendo loro prematuramente l’autorità su questioni molto al di là della loro competenza». Come vedremo, la scienza dell’autoconsapevolezza ci offre visioni alternative di questo futuro, il quale garantisce che la consapevolezza della competenza rimanga in cima alle priorità: per noi e per le nostre macchine.

da “Conoscere se stessi. La nuova scienza dell’autoconsapevolezza”, di Stephen M. Fleming, Raffaello Cortina editore, 2022, pagine 304, euro 24

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 10 marzo 2022.

All'ennesima caciara scoppiata in un talk show, un lettore suggerisce di chiamare i conduttori (maschile sovraesteso) «animatori del villaggio turistico dell'informazione». È una definizione che di questi tempi suona tragicomica, ma il problema che sottende è reale: spesso i partecipanti a un dibattito dimenticano che la tv ha le sue regole ferree (lo scriviamo fin dai tempi dei primi Costanzo show ).

E se non si rispettano queste regole l'affidabilità dell'informazione è pari a zero. Il primo a dettare le regole è il conduttore, con la scelta degli argomenti, con la sua cultura, con la sua ideologia e con il suo metronomo incorporato.

Dalla scelta degli ospiti, dagli habitué di cui si circonda, dall'insistenza con cui alcuni di loro vengono invitati (con tanto di logo alle spalle), il conduttore esprime il suo orientamento, magari in maniera dissimulata, e condiziona la discussione (il talk è un luogo di potere, non dimentichiamolo). In tv, discutere è praticamente impossibile: non ci sono le condizioni (l'astratto non funziona) e se ci sono sfiorano la noia. Motivo per cui si tende alla baruffa, che procura enormi vantaggi. Non sempre in termini di ascolto (anche se l'ossessione dell'audience è fattore di condizionamento), ma soprattutto nell'amplificazione mediatica, sia sui media tradizionali che in rete.

La caratteristica principale del rissaiolo da talk è la sua sfacciataggine: può intervenire su qualsiasi argomento, tanto è più importante il modo con cui dice le cose che le cose stesse. Per questo i più penalizzati sono i cosiddetti intellettuali, così sicuri di sé, così presuntuosi da ignorare le regole della tv. Si comportano esattamente come i concorrenti del GF che, dopo un po', dimenticano la presenza delle telecamere. Alla fine, il talk rischia di diventare una corrida tra ego sovraesposti, feroci narcisismi e turisti dell'informazione. Cialtroneria spacciata per dialettica.

LA SINDROME DI ARISTOTELE: IL VOLER AVERE SEMPRE RAGIONE. Dott. Roberto Cavaliere il 12 aprile 2019 su iltuopsicologo.it.

Con il termine Sindrome di Aristotele si designano quelle persone che pretendono sempre di avere ragione.

Tirare in ballo Aristotele è arbitrario perchè fa riferimento solo ad un aspetto della vita di quest’ultimo. Aristotele fu allievo di Platone, ma ad un certo punto incomincio a sviluppare una sua teoria filosofica e metafisica in opposizione con quella del maestro. Egli arrivo ad affermare che i discorsi del suo maestro non avevano fondamento e fu criticato da molti per queste sue considerazioni e tacciato di slealtà e superbia.

S’incomincio ad usare il termine di Sindrome di Aristotele per definire quelle persone che oltre a volere sempre avere ragione si sentono anche superiori, affetti narcisisticamente da una sindrome di superiorità.

A differenza del complesso di superiorità che può riguardare tutti gli aspetti della persona che ne è affetta, nella sindrome di Aristotele la superiorità riguarda, principalmente, solo l’aspetto intellettuale e della conoscenza.

Chi è affetto da Sindrome di Aristotele presenta i seguenti “sintomi”:

Ossessione di saper tutto;

Ossessione di dover primeggiare in qualsiasi discussione;

Mancanza di ascolto attento ed attivo nei confronti del suo interlocutore;

Comunicazione e confronto con modalità aggressive;

Discussione ad oltranza finchè non gli viene riconosciuta la sua ragione e quindi affermata la sua superiorità;

In caso di mancato riconoscimento delle sue ragioni tendenza ad innestare la polemica ed il litigio.

Come afferma il proverbio: “Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”. Quindi impelagarsi in un’interminabile discussione con chi vuole avere sempre ragione e sentirsi superiore è inutile oltre ad essere estenuante.

L’unica strategia efficace in questi casi è interrompere la discussione, adducendo più o meno un pretesto se si vuole essere diplomatici, e mettere in atto una “ritirata strategica” che lascia l’interlocutore spiazzato.

Dott. Roberto Cavaliere Psicologo, Psicoterapeuta

Il male è l’indifferenza che si cela dietro al sentimento cieco del volere avere ragione. ROBERTA DE MONTICELLI su Il Domani il 09 marzo 2022

Non nel fondo, ma nel centro dell’inferno il pellegrino dantesco, cioè ognuno, corre il suo vero rischio mortale. Quello di oltrepassare un limite oltre il quale è impossibile risalire alla luce.

Noi vogliamo aver ragione. Nell’uomo ogni conflitto, ogni discordia passa per l’affermazione di una ragione e di un diritto. E diventa disputa e guerra, conflitto di valori. L’asserzione di sé senza critica e dubbi, implicita nella teoria dello “scontro di civiltà”, è paradigma di nichilismo.

La vera oltranza del male è l’indifferenza che si cela dietro al sentimento cieco della ragione. Lo sguardo di Medusa nell’inferno dantesco uccide l’anima. Perché Medusa ha il volto dell’indifferenza. 

ROBERTA DE MONTICELLI. Ha insegnato filosofia della persona all’università di Ginevra e all’università San Raffaele di Milano. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni di carattere filosofico. Con Garzanti ha pubblicato: Le preghiere di Ariele, L’ordine del cuore, Le novità di ognuno. Persona e libertà, Il dono dei vincoli (2018 ). Con Raffaello Cortina: La questione morale, 2010; La questione civile, 2011; con il Gruppo editoriale L’Espresso: Roberta De Monticelli racconta Agostino, Tommaso e la filosofia medievale (Capire la filosofia), 2011. Con Einaudi, Al di qua del bene e del male. Per una teoria dei valori, in uscita in versione inglese da Palgrave 2021.

·        Il Narcisismo.

Autoritratto digitale. Perché siamo disposti a pagare per accumulare foto e ricordi senza senso. Benedetta Barone su L'Inkiesta il 10 Agosto 2022

I nostri smartphone sono diventati depositi e miniere di ricordi, alcuni talmente frivoli e piatti che ci dimentichiamo persino della loro esistenza. Però continuiamo a scattare, presi da una sorta di frenesia, per paura che la nostra vita, se non è documentata, scompaia

Il 3 agosto sul Financial Times esce un articolo dal titolo “Why do we take so many forgettable snaps?”, che tradotto sta a significare “Perché facciamo un sacco di foto irrilevanti?”, oppure, consentendoci un po’ di licenza, “Perché ci riempiamo di scatti che poi dimentichiamo?”.

L’autore scrive che è arrivato a una simile constatazione quando si è risolto ad aggiornare il piano iCloud, il quale da mesi gli ricordava con tempistiche più o meno regolari che “non aveva più spazio”.

Non solo si è accorto che le fotografie rappresentano il principale fattore dell’usura della memoria dei nostri telefoni, il carico maggiore, il fardello più pesante. Scorrendole, ha anche realizzato che la maggior parte di questi fantomatici scatti che conserviamo gelosamente e che risalgono a tempi remoti della nostra esistenza sono del tutto cestinabili. Irrilevanti, appunto. Immagini che non ricordiamo nemmeno di avere immortalato.

Si dice che nel 2020 l’umanità abbia scattato 1.436.300.000.000 foto, cioè oltre 1,4 migliaia di miliardi. Secondo lo studio che si è occupato di mettere i dati in prospettiva, una singola in persona in media ha prodotto 185 foto. Questo numero finale sembra basso se paragonato alle premesse, ma in realtà non ci dice granché: al suo interno sono contenuti neonati, bambini, anziani che ancora si servono del cellulare per funzioni essenziali, e le popolazioni dei Paesi meno sviluppati, che certamente non pagano 9 euro al mese per il proprio piano di archiviazione iCloud.

Già, perché quando terminano i giga della tariffa base, che consta di 5GB gratuiti e compresi per tutti nel momento stesso in cui si acquista il cellulare, si passa a estensioni più o meno consistenti: da quasi un euro (0,99) per 50GB, a quasi dieci (9,99) ogni trenta giorni.

Una volta “comprata”, la propria memoria digitale si dipana all’interno di uno spazio virtuale e lo copre, permettendoci di tenere i video e le foto dei gruppi su Whatsapp, i selfie (pure quelli venuti male) le foto di gruppo, che di solito sono dieci per occasione e sono tutte uguali, ma guai a cancellarne una. Ormai è rassicurante contemplare file di immagini rappresentative di un unico momento, quindi va bene anche conservare i tentativi di scatti, quelli che uno prova prima di mettere a fuoco l’obiettivo o di trovare la giusta angolazione.

L’autore dell’articolo del Financial Times se la prende soprattutto con le nature morte. Quelle foto di tramonto, magari cinque alla volta, identiche e pure bruttine. In effetti, non sono che una carrellata di monumenti, edifici, acque blu e “viste” da un punto a strapiombo della città o isola in cui ci trovavamo quell’estate o quella Pasqua o quel fine settimana, e che cercate su Google Images sono perfino più carine. Eppure restano al loro posto, simboliche come un cimelio, in una sorta di mausoleo senza corpo che fluttua nel cyberspazio.

Potremmo dire che iCloud sta a metà tra una discarica e l’inconscio. Insieme a ciò che già sapevamo di sapere, capita di trovarvi oggetti rimossi, insospettabilmente pronti a un nuovo uso – un throwback su Instagram, ad esempio – stralci di esperienze sepolte, immagini di noi stessi in cui non ci riconosciamo più, come se si dipanasse il filo della nostra esistenza e noi lo contemplassimo, esterrefatti e beati.

Non è un caso infatti che l’apparato tecnologico che fa capo al marchio Apple, abbia una “i” come lettera iniziale: “i” che in inglese significa io, pronome personale singolare.

Quell’io che precede il nome di ogni strumento – iPhone, iCloud – non cela tanto il narcisismo collettivo, già ampiamente analizzato, che perpetuiamo nell’uso sfacciato dell’immagine di noi stessi.

È più che altro un suffisso che ci autorizza a documentare, ad accumulare, a certificare prove del nostro passaggio. È un rituale ormai meccanizzato, automatico: se non lo fotografo, non è mai avvenuto. “Io” non sono mai avvenuto.

Dobbiamo tangibilità e concretezza alle esperienze che avvengono sotto i nostri occhi, la forza del ricordo mentale non è sufficiente, si scivola subito all’interno di una dimensione onirica. Le immagini, i volti, le abitudini, i dettagli, gli elementi a raccordo del nostro essere stati al mondo e proprio in quel luogo, proprio con quella persona, sfumano, impallidiscono.

Cosa succederebbe se un domani arrivassimo a poter fotografrare i nostri sogni? Ne approfitteremmo tutti di certo. Sarebbe un altro disperato tentativo di preparare un piccolo monumento, un deposito – e dunque un senso – alla nostra vita, colmo di inutili ma anche di sorprendenti componenti.

L’autore del pezzo si limita a citare le fotografie. Ma cosa ne dice delle chat su Whatsapp, che con il supporto di iCloud raggiungono limiti di tempo ugualmente arretrati, e ci restituiscono con vivida coerenza discussioni che avevamo con amici, amori e famigliari che abbiamo allo stesso modo dimenticato – o quantomeno, credevamo di averlo fatto?

E così, anche uno scambio banale con qualcuno che abbiamo perduto a proposito di una serata da organizzare, o di un prodotto da comprare al supermercato sotto casa, si carica di echi struggenti.

Le lettere, i biglietti, il diario segreto contenevano frammenti al pari di questo bagaglio esistenziale che sembra, non a caso provenire da un file criptato della nostra memoria, senza peso, alquanto precario – nonostante l’affidabilità via via perfezionata, basta un furto senza backup e tutto è perduto – il cui peso leggero è tuttavia kunderianamente insostenibile.

Il rischio allora diventa proprio quello di perdersi tra i fili dei ricordi e restare imbambolati di fronte allo schermo dell’iPhone, mentre ci scorrono davanti flash di rapporti interrotti, di quella notte di tanto tempo fa, di quel giorno che non eravamo andati a un appuntamento – perché? ah, ma sì, avevamo il mal di gola, vi sono testimonianze anche di quello – delle liti con amanti antichi, screenshot di conversazioni che avevamo voluto conservare chissà per quale motivo, messaggi che abbiamo scritto quando non eravamo in noi, osservazioni, considerazioni, epifanie, audio in cui la voce registrata nostra o altrui si imprime in tutta la sua fresca, disarmante prossimità, fotografie di un passante in un vicolo, video brevi di una traversata in traghetto su cui neppure ricordavamo di essere stati.

Vita non vissuta, o vissuta troppo poco? È azzardato rispondere alla domanda se sia un bene o un male, se si stava meglio prima o adesso, se, come suggerisce il giornalista del Financial Times, corrisponde a un atto sovversivo decidersi a non postare, a non fotografare, a non collezionare rovine.

Forse abbiamo bisogno di questo continuo ricorso al passato, anche se intimo, personale e soggettivo. Forse l’immediata impressione di autenticità dettata dai cumuli di noi stessi e della nostra storia è il solo rifugio di fronte ai presagi di catastrofe imminente che il mondo oggigiorno ci lancia.

Siamo tutti Rosa Parks. La sindrome della ricerca dell’attenzione e la #salutementale curata dai cancelletti. Guia Soncini su L'Inkiesta il 25 Maggio 2022.

Chi si sente un impostore, chi subisce hair shaming (sì, esiste anche questa suscettibilità), chi è insofferente per la folla in centro. Il concetto di limite caratteriale è stato dichiarato superato come le cabine telefoniche e il mondo dei social è diventato un circo della dolenza.

Ricky Gervais sente ancora le ferite di quand’era poco ricco. Lo dice nel passaggio migliore di Supernature, il nuovo monologo su Netflix da ieri; il passaggio in cui finalmente mette in pausa un prolisso editoriale sulle donne trans e le battute per cui la gente si offende, sui tweet in cui lo insultano e altre cose che non si prende il disturbo di renderci interessanti.

Lo dice quando ci ricorda che è anche lui una minoranza (quindi: oppressa) essendo un etero bianco ricco: saremo l’uno per cento, butta lì con mimesi di dolenza. «Sono praticamente Rosa Parks, ma ho lottato per non dover mai prendere un autobus».

Chiara Ferragni sente ancora le ferite di ogni volta che le sue follower le scrivono, facendola morire di noia con le loro dolenze, costringendola a dissimularla, quella noia, perché è così che si fattura oggigiorno: dicendoti che le tue ferite, cara la mia acquirente, sono proprio speciali, sono anche le mie. Pensiamo sempre di non valere abbastanza, pigolava ieri CF in una diretta sponsorizzata da una ditta di shampoo, mentre una psicologa con la dizione di chi non è mai uscita dalla Campania le diceva certo, è vero, non viviamo affatto in una società di mitomani, macché, abbiamo tutti la sindrome dell’impostore. Può la sindrome dell’impostore convivere col fatto che una che parla in pubblico non si preoccupi di studiare abbastanza da non pronunciare «uömini»? Secondo me no, ma io mica fatturo coi cuoricini, che ne so di questo mondo. 

C’è un grande pregiudizio verso la psicoterapia, giurava la psicologa senz’uso di dizione, e io pensavo ma le psicologhe dell’Instagram vendono quasi più libri dei giallisti, ma incassate più dei benzinai per dire a ogni mitomane che non si stima abbastanza, ma di pregiudizio non ce n’è abbastanza.

Gli shampi si preoccupano della nostra, cancelletto, #salutementale, e anche, giuro, dell’hair shaming, una sindrome persino più struggente di quella dell’impostore, un segnale di benessere come raramente se ne sono visti: siamo talmente privi di problemi reali che c’inventiamo il trauma di avere capelli brutti. Trauma peraltro a me caro, avendo io quattro capelli e pure sottili e pure ricci: ogni volta che vedo un’Aurora Ramazzotti, coi suoi capelli lucidi e grossi e invidiabili, fare i video sponsorizzati contro la piaga dell’hair shaming, ogni volta mi chiedo come la prenderà il paese reale, compresa la psicologa con dizione impresentabile e l’handicap d’essere riccia.

Esiste un pubblico di gente ordinariamente sfortunata con la genetica, di donne come me che hanno i capelli come fossero perpetuamente in chemioterapia e nessuno le chiama a fare da testimonial della loro impresentabilità, e che quando vede queste tizie poco ricche e vere lisce s’incazza esattamente come quando vede quelle che pesano un chilo da bagnate e s’inventano d’avere la cellulite?

Chi è il pubblico delle campagne sull’hair shaming, oltre a gente che quello shampoo lì lo compra per le ragioni per cui si compra uno shampoo (perché è in offerta al supermercato)? C’è qualcuno che crede a giovani milionarie traumatizzate dal non essere bionde naturali? Che le prende sul serio? Che annuisce di fronte alla sindrome dell’impostore della tinta? Esisterà mai l’equità sociale necessaria a scartare, come testimonial dei capelli invalidanti, donne che possono permettersi di lavarseli sotto la doccia e risultare presentabili?

In giro per i social ci sono i video di chi sente ancora le ferite dello scudetto, non per ragioni di tifo ma perché ha scoperto, in occasione dei festeggiamenti milanisti, che in centro a Milano la domenica pomeriggio c’è casino.

Una volta essere intolleranti del casino era un limite caratteriale (so di cosa parlo, è uno dei molti limiti che m’appartengono): non andavi in centro nel fine settimana perché sapevi di dover fare a gomitate con la folla, e la folla non ti piaceva. Così come non andavi in discoteca, o ai concerti, o persino in pizzeria il sabato sera.

Poi i limiti caratteriali sono stati dichiarati superati come le cabine telefoniche, e adesso abbiamo solo questioni di, cancelletto, #salutementale, e quindi se ti danno fastidio le folle rumorose tu che soffri divieni un video che sensibilizza, e che ha dignità di risposte solidali sui social («virale», si dice in frasifattese). Gli adulti penseranno che sei scema, mentre cliccano annoiati in ufficio facendoti sì salire le visualizzazioni ma con disprezzo; e tu hai vent’anni e non hai gli strumenti per spiegare che essere scema è un tuo diritto, che anche loro erano scemi alla tua età, ci mancherebbe solo uno non fosse scemo a vent’anni, e dovete smetterla, cari adulti di questo secolo, d’approfittare del vostro maggior vantaggio competitivo: aver avuto vent’anni (ma pure trenta) lontani dalle telecamere.

L’altro giorno Vulture ha mandato una trentaequalcosenne ad assistere a una conversazione in cui Tom Cruise, a Cannes, spiegava il proprio rapporto col cinema. L’articolo era straziante, tutto affettazione di disprezzo della carneade – equipaggiata del delirio d’onnipotenza tipico delle trentenni – verso Tom Cruise. Leggevo e pensavo: che fortuna che non ci siano in rete gli archivi delle stronzate che scrivevo alla sua età, che fortuna che ora non debba rileggermi pensando «ma ci pensi che a un certo punto son stata così scema da pensare di non aver niente da imparare da Tom Cruise?».

La fortuna d’essere diventati grandi in tempo da capire che, se chiedono a Cruise perché filmi senza controfigura le scene pericolose, e lui risponde «nessuno domandava a Fred Astaire perché ballasse», lì c’è qualcosa da imparare (le cronache differiscono: secondo alcuni Cruise avrebbe usato nella risposta il nome di Gene Kelly).

La trentaequalcosenne andava a scuola quando Tom saltò sul divano di Oprah. Decidemmo che era matto. Era una cosa che allora potevi stabilire degli sconosciuti e anche dei parenti. È matto, poverino. Non era il secolo in cui, come ricorda Gervais, ti chiudevano in manicomio se restavi incinta da nubile, o se divergevi in misura anche minima dalle norme sociali; ma era prima, per usare sempre la divisione temporale gervaisiana, che invertissimo il problema, e nessuno fosse più matto.

Adesso abbiamo delle sindromi. Dell’impostore, dei capelli brutti, dell’insofferenza per la folla, del saltare sul divano e produrre la madre di tutti i meme prima ancora che esistessero i social. Alcune sindromi ci rendono più fragili di altre. Non hanno quasi mai a che fare coi cancelletti, e quasi sempre con la possibilità di non prendere mai nella vita un autobus.

Massimiliano Panarari per “La Stampa” il 25 dicembre 2021. Ebbene sì, il problema è dentro di noi. Non è una diagnosi psicologica, ma la psicologia c'entra moltissimo. A portare l'attenzione sugli umori (distruttivi) che percorrono la democrazia rappresentativa ci pensa Il nemico dentro (Luiss University Press, pp. 230, euro 20; trad. di Chiara Veltri), l'ultimo libro di Tom Nichols, uno dei più interessanti intellettuali pubblici statunitensi di questi anni, professore di relazioni internazionali alla Harvard Extension School e allo Us Naval War College, columnist di The Atlantic e brillante polemista-twittatore col suo seguitissimo account RadioFreeTom. Per completare le presentazioni, va anche detto che Nichols non è un accademico liberal di una delle metropoli costiere, ma quello che Donald Trump etichetterebbe probabilmente alla stregua di un «americano autentico»: di orientamento conservatore, nato in una famiglia modesta di Chicopee (una piccola città deindustrializzatasi del Massachusetts), e in passato pure campione del quiz tv Jeopardy!. Ma un conservatore tenacemente antitrumpista e difensore dello «spirito americano» che, per lui, coincide con la società aperta, la liberaldemocrazia e le sue garanzie costituzionali, e che si è trasformato in un osservatore molto acuto dei guasti del postmodernismo. È stato lui, ne La conoscenza e i suoi nemici (Luiss University Press, 2018), a descrivere le caratteristiche letali dell'attuale «era dell'incompetenza», alla confluenza tra la politica-spettacolo, l'imperialismo incontrastato del modello dell'intrattenimento e l'egemonia (sottoculturale) del paradigma dell'«uno vale uno». Una stagione dominata dal paradosso per cui la straordinaria reperibilità delle informazioni non ha affatto prodotto una cittadinanza più consapevole e «vigile». Mentre, al contrario, sta facendo dilagare una forma di «egualitarismo narcisistico» che ha trovato il proprio habitat ideale nelle odierne democrazie emozionali e «Stati nervosi» (come li ha definiti il sociologo britannico William Davies), contraddistinti da un'«emozione pubblica» che ha scalzato l'opinione pubblica. Ed è proprio lì che si annida il «nostro peggior nemico» - come Nichols argomenta nel suo nuovo libro - quello «interno» che erode la fiducia nella democrazia, nega ogni credibilità alla politica, rigetta i progressi (indubitabili) compiuti nel corso del tempo e, giustappunto, ha messo la competenza alla sbarra e collocato gli esperti sul banco degli imputati, qualificandoli come esponenti delle «élites avversarie del popolo». Questo nemico, dice l'intellettuale statunitense, risponde al nome di «politica del narcisismo», la vera officina del disincanto e del risentimento: il suo germe si annida in seno a ciascun individuo di questa epoca - non a caso, sempre sollevato da qualsiasi responsabilità, e proclamato come innocente a prescindere dai populisti - e straripa in ogni circuito sociale. I «cittadini illiberali e insoddisfatti», al punto da dichiarare la loro incomprensibile preferenza per autocrazie e sistemi politici antidemocratici (come la Cina e la Russia), si ribellano a ingiustizie e pericoli presenti più nel loro immaginario che nella realtà. «Oggi - scrive Nichols - la minaccia alla democrazia, in America e altrove, proviene dalla classe operaia e dal ceto medio, le persone tra cui sono nato e cresciuto». E questa rabbia e questo rancore, che tutto travolgono, costituiscono un impasto micidiale dove sono la psicologia e il narcisismo individuali a risultare determinanti, generando la reazione collettiva di tante monadi. Alimentata, se si guarda bene, assai poco da dati di fatto e molto «da un'insicurezza culturale, da aspettative eccessive, alleanze tribali faziose, da ossessioni sull'etnia e l'identità, da ambizioni infrante e da una visione infantile dei limiti del governo», che fanno scattare l'effetto «ferro di cavallo», in cui le differenze tra le critiche provenienti dall'estremismo di destra e da quello di sinistra tendono ad assottigliarsi fino a convergere di fatto (e lo conferma quanto avviene nel movimento no-vax). Insomma, soffriamo perché abbiamo quello che volevamo, e la democrazia ha realizzato la gran parte delle sue finalità, compresa la felicità promessa dalla Costituzione a stelle e strisce. Ma non lo vogliamo vedere e ci rinserriamo dentro furiose «piccole patrie» e tribù di «uguali», potenziate dalla logica dei social network. E, così, il trionfo del familismo amorale, nota l'autore sulla scorta degli studi di Edward Banfield, per certi versi si attaglia meglio agli individui globali del Duemila che alle comunità lucane degli Anni 50. Sono gli esiti dello sprofondamento nella voragine di una società narcisistica e infantile, «affamata di apocalisse», imbevuta di «pessimismo populista» e fondata sulla «strana adolescenza perpetua di molti adulti». È questa «pandemia di narcisismo» che ha originato il declino della democrazia contemporanea e sparso a piene mani dovunque il senso di deprivazione relativa tipico di chi non sta affatto male, ma vuole di più, immerso in un'incessante ansia da prestazione e comparazione. E che, quindi, si ritrova intento a confrontare la propria esistenza con le altrui vite idealizzate proposte senza sosta dal sistema dei media. Insomma, scagli la prima pietra chi è senza peccato. Ma per quanto la situazione risulti critica, Nichols non si sottrae al compito di mettere in campo alcune proposte. Come il tentativo di un rafforzamento del ruolo dei partiti politici. Una reintroduzione del servizio militare obbligatorio per provare a radicare di nuovo nelle giovani generazioni una «cultura della disciplina spartana» (ma la stessa logica potrebbe applicarsi anche a un «equipollente» servizio civile). E una riforma costituzionale per aggiornare la struttura delle istituzioni, e renderle più performative e vicine ai cittadini inquieti e rabbiosi.

·        I Sosia.

Abbiamo tutti un sosia? Chi si somiglia probabilmente condivide anche un’impronta genetica simile. Ruggiero Corcella su Il Corriere della Sera il 23 Agosto 2022

Sul web è sempre più facile identificare «gemelli» o «doppi virtuali». Esiste forse una spiegazione scientifica al fatto, come illustra uno studio pubblicato su Cell Reports

«Chi si somiglia, si piglia», recita il proverbio. La saggezza popolare cerca di spiegare la legge dell’attrazione fra le persone in base alla fisionomia. Ma la scienza va oltre: grazie all’utilizzo di algoritmi di riconoscimento facciale, una forte somiglianza facciale potrebbe essere associata a varianti genetiche condivise. Questo, almeno, è quanto emerge da uno studio pubblicato su Cell Reports dal gruppo di ricercatori guidati da Manel Esteller del Josep Carreras Leukemia Research Institute a Barcellona. «Il nostro studio — spiega Esteller — fornisce una visione rara della somiglianza umana, dimostrando che le persone con volti estremamente somiglianti condividono genotipi comuni, mentre sono discordanti a livello di epigenoma e microbioma ».

Caratterizzare esseri umani a livello molecolare

Il numero di persone identificate online come gemelli o doppi virtuali che sono geneticamente non imparentati è aumentato a causa dell’espansione del World Wide Web e della possibilità di scambiare immagini di esseri umani in tutto il pianeta. Nel nuovo studio, Esteller e il suo team hanno deciso di caratterizzare, a livello molecolare, esseri umani scelti a caso che condividono oggettivamente i tratti del viso.

Per fare ciò, hanno reclutato sosia umani dal lavoro fotografico di François Brunelle, un artista canadese che ha ottenuto immagini di sosia in tutto il mondo dal 1999. Hanno ottenuto foto del volto di 32 coppie sosia. I ricercatori hanno determinato una misura oggettiva della somiglianza per le coppie utilizzando tre diversi algoritmi di riconoscimento facciale. Inoltre, i partecipanti hanno completato un questionario biometrico e sullo stile di vita completo e hanno fornito il Dna della saliva per l’analisi «multiomica». «Questo set unico di campioni ci ha permesso di studiare come la genomica, l’epigenomica e la microbiomica possono contribuire alla somiglianza umana», afferma Esteller.

Metà delle coppie esaminate, simili anche per abitudini e comportamento

Nel complesso, i risultati hanno rivelato che questi individui condividono genotipi simili, ma differiscono nella metilazione (la modificazione epigenetica) del Dna e nei paesaggi del microbioma. Metà delle coppie sosia sono state messe nelo stesso gruppo da tutti e tre gli algoritmi. L’analisi genetica ha rivelato che 9 di queste 16 coppie sono state raggruppate, sulla base di 19.277 polimorfismi comuni a singolo nucleotide.

Inoltre, i tratti fisici come il peso e l’altezza, così come i tratti comportamentali come il fumo e l’istruzione, erano correlati in coppie sosia. Presi insieme, i risultati suggeriscono che la variazione genetica condivisa non solo riguarda un aspetto fisico simile, ma può anche influenzare abitudini e comportamenti comuni. «Abbiamo fornito una visione unica delle caratteristiche molecolari che potenzialmente influenzano la costruzione del volto umano», afferma Esteller.

I limiti dello studio

Lo studio però ha alcuni limiti, come ammettono gli stessi autori: il campione esaminato è piccolo, sono state utilizzate immagini 2D in bianco e nero e i partecipanti sono in maggioranza europei. Ciononostante, i risultati potrebbero fornire una base molecolare per applicazioni future in vari campi come la biomedicina, l’evoluzione e la medicina legale.

«Questi risultati avranno implicazioni future nella medicina legale, ricostruendo il volto del criminale dal Dna, e nella diagnosi genetica: la foto del viso del paziente fornirà già indizi su quale genoma possiede», afferma Esteller. «Attraverso gli sforzi di collaborazione, la sfida finale sarebbe quella di prevedere la struttura del volto umano in base al panorama multiomico dell’individuo».

I tratti somatici sono largamente influenzati dall’ambiente

Ma davvero persone con facce simili probabilmente hanno un Dna simile? «In un certo senso sì — risponde Gian Gaetano Tartaglia ricercatore IIT e responsabile del laboratorio “RNA Systems Biology”—. I tratti somatici sono largamente influenzati dall’ambiente. Spesso persone con facce simili hanno un background genetico in comune. Questo perché il vivere in un determinato ambiente, ad esempio al polo Nord o all’Equatore, ci porta ad avere un determinato taglio degli occhi, colore della pelle, propensione alla calvizie e così via. Bisogna essenzialmente considerare che l’espressione dei geni (cioè il numero di copie di Rna che produce una cellula per un determinato gene) determina la crescita dei tessuti, ed è del tutto verosimile che chi ha le stesse mutazioni, o SNPs, possa avere un ovale del viso simile, oppure un naso comparabile…».

Ricerca pionieristica ma con «riserva»

Quanto può essere attendibile uno studio simile? «Sicuramente è uno studio “pionieristico” perché collega una proprietà esterna come l’apparenza con qualcosa di interno come il Dna. C’è però una questione che un pochino scoraggia: le immagini di coppie simili, originalmente raccolte da uomini, sono riconosciute dagli algoritmi solo nel 50% dei casi».

«Questo significa che la nostra capacita di essere fisionomisti non è assolutamente oggettiva, o almeno gli uomini classificano in maniera diversa dai computer. Forse dovremmo anche considerare che gli algoritmi non sono perfetti. Dunque quella capacità di trovare somiglianze, tutta umana, è difficile da misurare (e conseguentemente, anche la similarità del Dna non è facilmente accertabile)», dice l’esperto.

Il limite dell’appartenenza alla stessa etnia

Quali sono i punti deboli, oltre a quelli evidenziati dagli autori? «È facile trovare similarità nella stessa popolazione, e questo è il punto più debole: il doppione è un individuo che viene dallo stesso gruppo etnico. Il fatto che il mio doppione sia simile etnicamente aiuta a fare statistiche sugli stili di vita (fumare, bere, longevità, etc), ma non è ad oggi utile per trovare informazioni più dettagliate (cancro, neurodegenerazione, etc). In altre parole la classificazione non è nè accurata nè efficace per sviluppare altri aspetti, tipo medicina preventiva», continua.

«Vediamo la cosa da un punto di vista più dettagliato. I nostri figli ci assomigliano perché hanno le stesse mutazioni, o SNPs. Molte mutazioni o SNPs però non capitano solo nella famiglia, ma anche nella popolazione dove vive il gruppo etnico (una sorta di “super familia”). Per questo motivo gruppi etnici che sono stati isolati e cioè non hanno viaggiato in altri posti risultano ben definiti, anche morfologicamente. La similarità di chi vive nello stesso ambiente è cosa sicura».

«L’esempio classico è quello dell’anemia falciforme che è abbondante in Sardegna. Interessante è il fatto che l’epigenoma (cioè il Dna con modifiche chimiche) e la popolazione batterica non possono essere usati per classificare individui simili, la qual cosa indica che un livello di complessità notevole è dovuto all’ambiente. Sappiamo però che i batteri hanno una enorme influenza nello sviluppo di alcune malattie (pensiamo al batterio Helicobacter Pylori ed il cancro allo stomaco per esempio), per cui la classificazione è davvero ardua».

Medicina di precisione «al volo»

E quali potrebbero essere gli eventuali risvolti scientifici, i benefici per le persone ma anche i rischi che affidarsi agli algoritmi in un campo così delicato possono causare? «Poter misurare le proprietà genetiche basandoci sulle sembianze è un sogno da sempre. Il beneficio più grande sarebbe quello di fare una sorta di precise medicine “al volo”, raccogliendo caratteristiche comuni tra individui tramite algoritmi. Sapendo se un individuo sviluppa malattie cardiache, si potrebbe per esempio fare prevenzione sul suo doppione (cancro alla prostata, etc)…Vari tentativi sono stati fatti nel passato per connettere le caratteristiche comuni degli individui, basti ricordare Cesare Lombroso e la classificazione dei criminali in base alla forma del cranio, ma ora la quantificazione di fa ora più oggettiva. E diventerà più accurata quando i campioni di genoma raccolti diventeranno più abbondanti».

«Mi spaventa un pochino l’aspetto culturale della cosa. In una parte dell’articolo si mostra che persone simili hanno anche stesso background di educazione. È pericoloso pensare che le persone siano predeterminate nei loro studi in base alle caratteristiche fisiche. Gli aspetti sociali, e cioè le interazioni tra individui, principalmente le famiglie (ma non solo) influenzano le nostre scelte ogni giorno. Non possiamo parlare di predeterminazione».

Ognuno di noi ha un sosia anche nel Dna. Nel mondo, c’è chi mi somiglia di più poiché, pur non essendo parenti, condivide gli stessi geni responsabili della formazione delle caratteristiche facciali. Nicola Simonetti il 04 Settembre 2022 su La Gazzetta del Mezzogiorno.

«Chi si somiglia – si dice - si piglia». Ma, nel mondo, c’è chi mi somiglia di più poiché, pur non essendo parenti, condivide gli stessi geni responsabili della formazione delle caratteristiche facciali. Una situazione, questa, rilevata dal prof. Manel Esteller (insegna genetica all’Università di Barcellona) e collaboratori del Josep Carreras Leukemia Research Institute che hanno scoperto che persone, «sosia» anche nel Dna, si trovano da questa e da altre parti del mondo. E nessuno lo sa.

La ricerca – dice il prof. Esteller – aggiunge una possibilità in più per la diagnosi di diverse malattie genetiche basandosi sull'analisi di sembianza e forma del viso ma consente anche un impensato e risolutivo elemento per ricomporre, partendo da un campione di Dna qualunque e sconosciuto, il volto della persona titolare di quel sangue.

Dov’è il mio doppio? Le moderne tecnologie hanno documentato che una o più copie del mio viso possano esistere da qualche altra parte.

La ricerca pubblicata sulla rivista “Cell Reports” dimostra, per la prima volta,che «l'aspetto dei sosia» non è una favola né uno schiribizzo di questo o quell’artista ma la realtà dimostrata scientificamente. «Abbiamo raccolto - dicono gli autori - lo stesso materiale biologico (saliva) da persone simili tra loro come gocce d’acqua ed abbiamo trovato una spiegazione oggettiva che rafforza, anche geneticamente, la loro somiglianza fisica». La somiglianza è stata documentata non solo dal giudizio di chi guarda, che potrebbe essere soggettivo e/o falsato, ma da incontrovertibili ed obiettivi programmi di riconoscimento facciale estremamente precisi la cui sensibilità ha «certificato» la sovrapponibilità di due facce umane con caratteristiche fini quasi indistinguibili ad occhio nudo.

Di questi perfetti sosia «dimostrati», gli autori hanno ricercato, in laboratorio sofisticato, la sequenza di Dna (genoma), il loro profilo epigenetico caratterizzato anche dai cambiamenti dovuti all’ambiente (esterno, familiare, di educazione, eccetera) nel quale il soggetto è vissuto e relativo patrimonio ereditario. Inoltre è stato comparato il microbiota dei singoli sosia e, cioè quantità e identificazione di batteri, funghi, archeobatteri, protozoi che vivono e colonizzano i relativi organismi. In altre parole è stata fatta una foto della popolazione di microrganismi microscopici residenti nel e sul corpo (simbiosi) dei singoli. Tutto il corpo, tranne cervello e sistema circolatorio, ospita un totale di circa 38mila miliardi di batteri. Stupefacente: chi si somiglia anche nell’intimo, condivide caratterizzazioni e variazioni simili del proprio Dna, in particolare specie dei geni che sovrintendono alla formazione di fronte, occhi, naso, bocca, zigomi, mento.

«Si potrà verificare – fiducioso il prof. Estreller - la somiglianza di altre caratteristiche fisiche come peso e altezza, tratti comportamentali come fumo, istruzione, abitudini, ecc. sono stati correlati in coppie simili, suggerendo che la variazione genetica condivisa non si riferisce solo all'aspetto fisico condiviso, ma può anche influenzare abitudini e comportamenti comuni». «Questi risultati forniscono una base molecolare per applicazioni future in vari campi come la biomedicina, l'evoluzione e la medicina legale». Ddoje stelle so' cadute 'mmiez'ô mare… 

Ma difetti degli altri sono un po’ i nostri. Critichiamo (soprattutto sui social) ma spesso ci stiamo guardando allo specchio. Lisa Ginzburg il 03 Settembre 2022 su La Gazzetta del Mezzogiorno.

Un famoso detto inglese recita: it takes one to know one. Ovvero, critichi negli altri difetti e problematiche che riguardano te. Ovvero, dimmi cosa critichi e ti dirò chi sei. Non ci si pensa (rifletterci su è scomodo), ma tante volte ci infastidiscono atteggiamenti altrui che ci interpellano e riguardano, perché smuovono in noi qualcosa che è nostro. Ci sdegna e irrita profondamente non sempre, ma spesso, quanto di un altro ha a che fare con noi. I tratti caratteriali che ci sono estranei per davvero possono lasciarci basiti, increduli, inorriditi, ma non ci fanno infuriare: non visceralmente. Il fastidio rabbioso invece è diverso, un astio impulsivo, passionale, irrefrenabile, sanguigno, proprio quello è sintomo di coinvolgimento.

Se avessimo la pazienza di districare questo, ascoltarci e individuare tale strana regola della vita, per cui se qualcuno ci rimanda qualcosa di noi che non ci piace, è proprio su quel qualcosa che dovremmo portare l’attenzione, tutti i nostri rapporti umani ne gioverebbero. È come fare pulizia: senti chiari i limiti tra te e gli altri, ma anche i punti di tangenza e di convergenza «negativa».

Pensarci speciali, ognuno particolare, unico, a sé, è un principio sacrosanto di convivenza umana perché di lì scaturisce autostima, reciproco rispetto, delimitazione di confini personali. La nostra singolarità in modo benefico ci separa gli uni dagli altri lasciandoci respirare, ciascuno libero di essere a suo modo, come crede. Ma lo stesso principio vale in senso contrario: quel medesimo percepirsi come unici e irripetibili genera la presunzione di possedere una propria infallibile natura dalla cui prospettiva giudicare quella altrui. Un’ottica che invece è fallace e moltissime volte miope, perché tutti ci assomigliamo ben più di quanto siamo in grado di supporre e sopportare. “Nessuno è insostituibile”: ricordo un sussulto di sgomento nel sentire per la prima volta enunciare il concetto. Ero giovanissima, e un mondo dove tutti fossimo interscambiabili mi appariva orribile e desolato. Ho impiegato anni a capire che era vero: che sostituibili, anche, lo siamo eccome, e lo siamo perché ci assomigliamo. Perché il mondo è vasto, immenso, popolosissimo, e la nostra peculiare natura conta in senso assai relativo. Dovremmo impararlo presto nella vita, e invece nessuno, tranne l’esperienza, ce lo insegna: quanto ognuno sia unico e irripetibile ma anche uguale agli altri, quegli altri le cui caratteristiche ci fanno infuriare e ci risultano fastidiose in realtà perché a noi contigue, somiglianti.

L’individuazione di sé, la scoperta progressiva di come siamo fatti e come «funzioniamo», quel processo che occupa tanta parte della vita - molte volte il corso di un’esistenza intera - si barcamena tra queste due immagini lapalissiane ma cruciali: che siamo tutti diversissimi ma anche dannatamente simili. Empatia, neuroni a specchio, altre teorie articolate piuttosto di recente dicono di questa fratellanza (sorellanza) imprescindibile. Siamo tutti interconnessi, destinati ad accettare aspetti nostri e altrui che d’istinto ci procurano fastidio, nel mentre non facciamo che ripeterci quanto ognuno sia speciale e insostituibile. Ostinati a non vedere che i nostri rapporti umani è giocoforza crescano e maturino in un continuo calibrarsi tra senso di sé, della propria unicità, e comunanza con gli altri, secondo una condivisione ai limiti dell’indistinzione.

Uno degli aspetti positivi dell’uso dei social è proprio questo: costringono a sentirsi al tempo stesso speciali e interscambiabili. Ognuno costruisce il proprio profilo pubblico, una «bacheca» in cui riversare opinioni, immagini di cose amate, luoghi, volti, divi adorati, musiche, ritratti del passato, scorci di cieli, montagne, spiagge e altri paesaggi mozzafiato. Spunti da offrire a un pubblico vasto e invisibile, nella convinzione di scolpire intanto la nostra natura peculiare, specialissima. Non proprio: perché fluttuando nella stessa grande bolla virtuale di continuo dobbiamo constatare che identica specialissima singolarità è identica negli altri: in tutti gli altri.

Non si sfugge: ogni unicità è compartecipata e perciò potenzialmente ripetibile, riproducibile, sorella a milioni di altre. Anche coi modi altrui di autorappresentarsi sui social «litighiamo», in maniera uguale a come ci accade con le persone vere, nella realtà. E di nuovo, lì anche, se qualcuno ci infastidisce e ci fa arrabbiare la nostra stizza è una spia, un segnale di analogia e non soltanto di divergenza. Un’occasione da cogliere: riflettere sui difetti altrui che più ci disturbano è amor proprio, perché un passo verso l’accoglienza. Ci aiuta a integrare parti di noi che non amiamo, anziché fare a pugni con quegli stessi aspetti sprecando tempo ed energia. Tempo per crescere, energia per migliorarci.

Nulla di nuovo, certo: eppure non si insegna mai, che siamo tutti unici ma anche simili, e quanto il capirlo possa farci del bene. Quanto possa generare maturità e armonia saperci contigui a infinite altre unicità parallele, divergenti, sorelle. It takes one to know one: è quando smetti di litigare con difetti che ti assomigliano che il cuore comincia a sentirsi più leggero, e puoi sperare quei difetti di lasciarli andare.

·        L’Invidia.

Giuliano Aluffi per “il Venerdì di Repubblica” l'8 maggio 2022.

Se nella vita reale possiamo ancora gloriarci, con amici e colleghi, del magnifico weekend trascorso in montagna, non appena ci connettiamo a Instagram siamo inondati da foto di vacanze in luoghi più esotici, con panorami più spettacolari, e di soggetti che sembrano tutti più in forma, più agiati e più felici di noi. 

Ecco che scatta (ma non in tutti, per fortuna) quell'emozione dolorosissima che si chiama invidia. «I social media sono la macchina perfetta per generare questo sentimento, e il fenomeno si è acuito particolarmente nell'era pandemica, in cui abbiamo vissuto più online che offline. Per di più subendo limitazioni personali, come i lockdown, da cui gli altri, perlomeno nel mondo edulcorato delle loro pagine Facebook, apparivano esenti».

A parlare è Sara Protasi, che dopo una laurea alla Sapienza di Roma e un dottorato a Yale, oggi è docente di filosofia alla Puget Sound University di Tacoma (Usa), dove ha fatto dell'invidia un campo di indagine approfondita.

Ha pubblicato da poco uno studio sul Journal of hate studies sul ruolo dell'invidia nelle relazioni online al tempo del Coronavirus e quindi il libro The philosophy of envy (Cambridge University Press, pp. 260, euro 74), dove fornisce una nuova definizione dell'invidia trovandone anche il lato positivo. Le abbiamo chiesto subito perché i social ne sono il regno indiscusso.

«Per prima cosa lì tutti si sforzano di mettere in vetrina soltanto il loro meglio. Fallimenti e momenti no restano invisibili: esistono solo i successi. Paragonare la propria vita a quegli esempi inarrivabili può scatenare il senso di inferiorità, e quindi l'invidia» spiega Protasi. Conta anche il fatto che i nostri contatti sono per lo più persone con interessi, professioni, livello d'istruzione e valori grossomodo vicini o comparabili ai nostri.

«E l'invidia è spesso una reazione di avversione a un'inferiorità che percepiamo rispetto a chi gioca, per così dire, nel nostro stesso campionato». Anche perché con chi fa parte della nostra cerchia è più probabile che si competa per le stesse risorse. Il villaggio globale di Internet, inoltre, non lascia scampo: ha messo in evidenza criteri oggettivi e misurabili su cui confrontarsi, come il numero di amici o follower, o il numero di like e retweet collezionati con i nostri post.

Il che accentua gli effetti negativi del senso di sconfitta: «Siccome sentirsi invidiosi è doloroso perché comporta l'ammissione di un'inferiorità, il risultato è un aumento di ansia e depressione» spiega Protasi. «Scatta un circolo vizioso: chi è insicuro presta più attenzione ai post di amici che sembrano passarsela meglio, e ciò accresce il malessere».

Ma attenzione, di invidia non ce n'è una sola: secondo Protasi ce ne sono ben quattro, che si distinguono in base al loro bersaglio (invidiamo qualcuno per qualcosa che ha o per come è?) e alla possibilità di successo nel rimettersi in pari. 

La prima è la cosiddetta "invidia dispettosa": «Quando notiamo qualcuno per una sua capacità e sentiamo che il divario è incolmabile - ad esempio una ballerina di fila che detesta un'etoile per la sua superiore agilità - allora prevale il sentimento che porta a desiderare la rovina dell'invidiato. La ballerina può sperare che l'etoile si rompa una gamba» spiega Protasi.

La seconda è l'"invidia aggressiva": «Quando ci accorgiamo che qualcuno ha qualcosa in più di noi ma che in effetti potrebbe essere alla nostra portata, può nascere il desiderio di sottrarre all'altra persona il bene concupito. Ad esempio si potrebbe voler "rubare" l'attraente partner di un'amica». Ancora più subdola e disperata è la cosiddetta "invidia inerte": «La prova chi, sentendo che il divario con l'altro è incolmabile, ne trae una sofferenza passiva e il desiderio di rifuggire quel pensiero tormentoso. Un esempio? C'è chi non riesce a gioire davvero dei successi scolastici o in altri ambiti dei figli degli amici o amiche perché, pur volendoli fortemente, non ha avuto figli». 

Finalmente il quarto tipo, il meno esecrabile. «È l'"invidia emulativa". La proviamo quando sentiamo di poter raggiungere la condizione dell'invidiato - che non odiamo ma anzi prendiamo a modello - se solo ci sforzassimo di più. Anzi, potremmo trasformare gli altri tipi in questo, ben più edificante e produttivo, adottando una mentalità rivolta alla crescita, convincendoci che i nostri talenti non siano fissi e immutabili» spiega Protasi.

Più o meno dannoso che sia, ogni tipo di invidia è comunque inconfessabile: esplicitarlo significa inimicarsi gli altri. «C'è uno stigma antico e universale» dice Protasi «Da sempre infatti le culture umane ammoniscono dall'ostentare le proprie fortune per evitare, ad esempio, il "malocchio", ovvero lo sguardo malevolo dell'invidioso».

Ma se l'invidia - l'emozione più negativa di tutte, perché addolora sia chi la prova che chi ne è oggetto - è una forza così distruttrice per i rapporti umani, come mai non è stata cancellata dall'evoluzione? Secondo lo psicologo evoluzionista David Buss, dell'Università del Texas a Austin, ha avuto un ruolo importante, per tutta la storia dell'Homo sapiens, nel favorire l'acquisizione di risorse necessarie per la sopravvivenza e la riproduzione. 

La natura umana è stata molto competitiva: fino alla relativamente recente (10-12 mila anni fa) invenzione dell'agricoltura le risorse per cui competere erano scarse e il vantaggio di uno si traduceva nello svantaggio di qualcun altro: è quindi probabile che la nostra mente contenga ancora oggi quell'istinto di confrontarci che ha permesso ai nostri antenati di capire il loro status rispetto agli altri membri del loro gruppo.

Ogni informazione è preziosa: se un membro della tribù capisce di essere il più bravo a seguire le tracce degli animali, può specializzarsi in quello e lasciare che a scoccare le frecce sia un altro più dotato di mira. Se poi competiamo per risorse limitate, la strategia ottimale deve tenere conto sia delle nostre capacità che di quelle altrui. 

La regola "Fai meglio del tuo rivale più prossimo" permette di dosare le energie evitando gli sprechi: quando ci si accorge di aver superato il rivale, ad esempio nella capacità di cacciare, si possono riservare le restanti energie ad altre sfide, come trovare un partner per riprodursi. Se invece la regola è assoluta - "Fai sempre del tuo meglio" - non è chiaro a che punto si può interrompere uno sforzo per dedicarsi ad altri obiettivi.

«In quest' ottica evoluzionistica, il dolore provocato dall'invidia è un utile allarme che ci segnala un cambiamento a cui prestare attenzione: qualcuno ci ha superato in una dimensione importante per la sopravvivenza» sottolinea Protasi. «Questo dolore ci porta a evitare distrazioni, a focalizzarci sullo svantaggio che abbiamo percepito e sulla persona dell'invidiato, così da investigare su come questi sia riuscito ad avvantaggiarsi. E ci pungola a cercare di ridurre il divario». 

L'ipotesi di Buss spiega anche perché questa emozione sia così inconfessabile. Celarla ha un valore strategico: la nostra reale capacità personale di acquisire risorse è un'informazione che di norma non è facilmente acquisibile dagli altri, ed è proprio l'ambiguità su questo dato che permette a ognuno di manipolare le impressioni degli altri in una maniera vantaggiosa.

Ammettere l'invidia rovinerebbe questo gioco, perché segnalerebbe a tutti che siamo inferiori su qualcosa che ci sta a cuore, svelerebbe la nostra vulnerabilità e comprometterebbe l'esito delle azioni successive. Se chi viene superato da Tizio in un concorso fa spallucce e non rivela il suo malanimo, potrà poi far passare un messaggio - tipo: "Che coincidenza! Sapete che Tizio è il nipote del commissario d'esame?" - senza che gli altri lo squalifichino automaticamente come l'illazione di un invidioso.

L'invidia sociale che avvelena il clima. Andrea Indini il 19 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Crisanti nel tritacarne social per la notizia (se di notizia si può parlare) dell'acquisto di una villa. Oltre alla propaganda no vax ci troviamo infestati dall'odio sociale nei confronti della ricchezza.

Cosa spinge l'acquisto di una casa a diventar notizia? Cosa spinge quella notizia a diventare trend topic su Twitter con relativo fiume di insulti, teoremi strampalati, allusioni meschine e attacchi complottardi vari? L'investimento immobiliare di un qualsiasi cittadino non dovrebbe mai e poi mai riempire le pagine dei giornali, se non forse quelle gossippare che vanno a ficcare il naso nelle vite dei vip. Così i più assennati devono aver strabuzzato gli occhi quando ieri si sono visti sul Corriere del Veneto un articolo (con tanto di video) che raccontava l'acquisto da parte di Andrea Crisanti di una residenza del Cinquecento, Villa Priuli Custoza, ai piedi dei Colli Berici. Dentro c'erano tutte le info del caso, manco fossimo su un sito di immobili: costo (due milioni di euro circa), modalità di pagamento (mutuo), le amenties che offre ("circondata da 1,2 ettari di giardini"). Ma che notizia è mai questa?, si saranno chiesti. Perché tanto clamore da farla addirittura rilanciare tra le prime notizie del sito del Corsera? E, mentre cercavano di dare una risposta a queste ovvie domande, ecco la bacheca di Twitter infiammarsi.

"Crisanti che si compra una villa del '600 da due milioni chiude il cerchio sulla farsa che è stata la pandemia in Italia". "Ma Crisanti ha ringraziato tutti i coglioni ipocondriaci grazie ai quali si è comprato una villa da due milioni di euro?". E giù tutti a postare immagini, scorci della tenuta, vedute del "villone". C'è chi lo accusa di essersela comprata andando in tivù a terrorizzare gli italiani e chi invece millanta che si sarebbe arricchito con i soldi della Pfizer. "Questo verme ha speculato sulla morte di 150mila persone - urlano - si è comprato una bella villona palladiana con i soldi di Big Pharma". Ce n'è per tutti i gusti. Complottismo all'ennesima potenza che degenera in una farsa vomitevole. Nella corsa a chi posta il tweet più assurdo ha, infatti, un che di grottesco l'interesse degli sfegatati anti vaccinisti per il numero di bagni (e quindi di cessi) che Villa Priuli Custoza offre al suo interno. Ben sette. Nell'immaginario dell'odiatore seriale la possibilità di defecare ogni giorno della settimana su una tazza diversa deve essere il non plus ultra della libidine. Libidine da arricchiti. Ma è su questi insignificanti particolari che la narrazione passa in un battibaleno dall'insulto ("A quanto pare la villa del 600 acquistata da Crisanti ha sette cessi. Con lui saranno otto!") alle minacce di morte con tanto di fotomontaggi del professore già al campo santo.

A spingere tutto questo odio non è solo l'esasperazione dopo due anni di pandemia. Sarebbe troppo semplice bollare la polemica in una faida tra sì vax e no vax. Qui c'è molto di più, e di ben più radicato nel dna (malato) della nostra società. Se si scava a fondo, dietro i tweet più facinorosi, c'è un odio atavico contro la ricchezza. "Per mantenere una dimora del genere - sussurrano alcuni - ci vogliono una barca di soldi, altro che mutuo". È quella stessa invidia sociale a lungo cavalcata dalla sinistra a suon di slogan "Anche i ricchi piangeranno" per sponsorizzare la patrimoniale e poi fatta propria dal grillismo più becero che vede dietro ogni fortuna l'ombra di una magagna, di una ruberia, di una truffa ai danni dello Stato. Crisanti è vittima di tutto questo odio. Tanto che oggi è finito per rilasciare un'intervista (sempre al Corriere del Veneto) per giustificarsi di non essersi "arricchito con la pandemia" ma di essere "frutto dei risparmi di una vita". Ma davvero oggigiorno uno deve abbassare il capo e spiegare che quello era il sogno della sua vita, che con la moglie hanno aspettato a lungo per fare questo passo e via dicendo. Non poteva limitarsi a dire "Sono solo affari miei!", per non usare particolari anatomici maschili più dettagliati. Se lo avesse fatto gli odiatori seriali, che in questi giorni per la stessa ragione twittano con la bava alla bocca per attaccare chi compra usando i contanti, lo avrebbero impalato sulla pubblica piazza.

Nel delirio che da ieri mattina sta infognando le bacheche di Twitter c'è anche chi grida al contro-complotto. E cioè che è colpa della stampa che ha messo in piedi tutta 'sta storia per "screditarlo totalmente". "Magari - spiegano - serve a distrarre dai suoi colleghi che i milioni li tengono in Svizzera. D'altronde è uno dei pochi che si è lasciato andare a dichiarazioni contro il governo". Questo perché Crisanti andava bene quando aveva fatto il "miracolo" di Vo' Euganeo (ricordate?), ma poi aveva iniziato a stare sul gozzo a chi non aveva alcuna voglia di sentir parlare di chiusure, vaccinazioni e mascherine. Ma poi, ultimamente, è tornato ad andare bene quando ha messo per iscritto che sì, c'è un nesso tra tutti quei morti in Val Seriana e la mancata zona rossa, tra l'assenza di un piano pandemico aggiornato e il propagarsi del contagio durante la prima fase della pandemia. Questo perché gli eroi sprofondano negli abissi, nel giro di una notte. L'invidia sociale e il rancore nei confronti del vicino più ricco, invece, non tramontano mai: offuscano sempre il cuore degli stolti che poi finiscono per sfogarsi sui social (ma non solo).

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leadership nel Pd, e i saggi Isis segreto (2015) e Sangue occidentale (2016), entrambi scritti con Matteo Carnieletto. Nel 2020, poi, è stata la volta de Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni), un'inchiesta fatta con Giuseppe De Lorenzo sui segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia.Già autore di un saggio sulle teorie economiche di Keynes e Friedman, nel 2010 sono "sbarcato" sugli scaffali delle librerie con un romanzo inchiesta sulla movida milanese: Unhappy hour (Leone Editore). Nel 2011 ho doppiato l'impresa col romanzo La notte dell'anima (Leone Editore).Cattolico ed entusiasta della vita. Sono sposato e papà di due figlie stupende.

Vito Punzi per "Libero quotidiano" il 30 dicembre 2021. Rainer Zitelmann, tedesco di Francoforte sul Meno e classe 1957, è storico e sociologo neoliberista e libertario, membro del Fdp, il partito liberale guidato dal neo ministro delle finanze Christian Lindner, ma anche investitore immobiliare, in due parole: un ricco. Dopo aver pubblicato l'anno scorso La forza del capitalismo, l'Istituto Bruno Leoni presenta ora il suo ultimo libro, Ricchi! Borghesi! Ancora pochi mesi! Come e perché condanniamo chi ha i soldi (p. 324, 20,00), per la cui versione originale tedesca l'autore in realtà non ha scelto uno slogan, ma un più prosaico La società e i suoi ricchi. Pregiudizi sudi una minoranza invidiata. 

Un libro che Zitelmann, fiero del suo essere ricco, ha scritto partendo dai risultati di un sondaggio condotto in Francia, Gran Bretagna, Germania, Usa e Italia dagli autorevoli istituti Ipsos Mori e Allensbach, finalizzato alla comprensione dell'atteggiamento delle persone verso i ricchi, intendendo questi come coloro che, oltre a una casa, possiedono almeno un milione di euro, di sterline o di dollari: un'indagine comparativa internazionale che in questi termini non aveva precedenti.

Per capirne il valore è sufficiente leggere l'esito delle risposte alla prima domanda: quali di questi gruppi (musulmani, immigrati, ebrei, neri, omosessuali, disabili, persone che vivono di sussidi, donne, cristiani, disoccupati e ricchi) bisogna stare attenti a non criticare in pubblico? In tutti i Paesi indagati il gruppo che risulta dare meno problemi se criticato pubblicamente è quello dei ricchi (quasi scontato rimarcare che in cima alla lista dei non criticabili vi siano i musulmani e i neri). 

CHI VINCE E CHI PERDE Tra gli altri risultati del sondaggio c'è la conferma che nei Paesi indagati un ruolo chiave nel plasmare la posizione delle persone nei confronti dei ricchi è giocato (ancora) dal cosiddetto «pensiero a somma zero», secondo il quale i ricchi diventano tali a spese degli altri; la vita economica, cioè, non sarebbe altro che un gioco «come il tennis, in cui un giocatore deve perdere perché l'altro vinca».

ESEMPIO CINESE Anche in questo caso, come in altre sue pubblicazioni, Zitelmann per confutare questa visione "erronea" ricorda quanto avvenuto dal 1981 ad oggi in Cina, dove il costituirsi di un folto gruppo di miliardari (da uno, allora, a oltre 400, oggi) è stato accompagnato dal quasi azzeramento della popolazione in condizioni di estrema poverta. Dunque, dice Zitelmann, senza porsi troppe domande circa la libertà d'opinione, di culto ecc., «il forte calo della povertà e il contemporaneo aumento del numero di miliardari sono due facce della stessa medaglia». Chi ha particolarmente sorpreso (in positivo) Zitelmann sono stati i giovani italiani (all'Italia sola, non alle altre nazioni, dedica una capitolo specifico). Una soddisfazione, rispetto alle loro risposte, che il tedesco, dicendosene «molto contento», esprime già nella Prefazione: «I giovani italiani hanno molti meno pregiudizi verso i ricchi rispetto ai connazionali più anziani e sono meno prevenuti rispetto, per esempio, ai giovani americani. Nel complesso, l'invidia sociale è più bassa in Italia che in Francia e nel Paese in cui vivo, la Germania».

IL CAPRO ESPIATORIO Tra gli altri capitoli del libro, molto interessante quello dedicato alla psicologia del capro espiatorio: «Nel corso della storia», scrive Zitelmann, «alcuni gruppi sono stati identificati come colpevoli di eventi negativi che non potevano essere spiegati in altro modo». E nelle situazioni di crisi sociale è il ricco, o più genericamente la persona o il gruppo altolocati, ad essere individuati dalle masse come capri espiatori. Ed è nel suo Paese che lo studioso riscontra a questo proposito i dati più negativi: «Il pensiero da capro espiatorio e la credenza nel gioco d'azzardo a somma zero sono molto pronunciati in Germania, specie nei Länder orientali. Addirittura più della metà dei tedeschi concorda con l'affermazione: Molti ricchi hanno raggiunto la loro prosperità solo perché si sono arricchiti a spese degli altri». Ciò che invece sorprende positivamente Zitelmann è il giudizio dei tedeschi con un passato migratorio: la loro avversione per i top manager, gli investitori immobiliari e finanziari e per i banchieri è minore rispetto a quella dei tedeschi autoctoni. Per concludere: se nei primi capitoli, per rispondere alle «ambizioni scientifiche» dello studio, vengono trattati i diversi concetti e le definizioni e sono presentate le metodologie utilizzate, per il resto Zitelmann si è sforzato, riuscendoci, di scrivere un libro facile da capire e piacevole da leggere, pieno di spunti accessibili ad un ampio pubblico di lettori.

·        L’Odio.

"I silenzi di parte...". La Segre lo denuncia, chef Rubio rincara la dose. Massimo Balsamo l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Lo chef del piccolo schermo mette nel mirino anche la Murgia: "Mi aveva chiesto aiuto, ora mi ha bloccato"

Chef Rubio nuovamente nella bufera. Lo chef del piccolo schermo rientra nell’elenco delle 24 persone denunciate da Liliana Segre per insulti e minacce online. Già noto per le sue posizioni oltranziste, il trentanovenne di Frascati aveva puntato il dito contro il “vergognoso silenzio sistematico” su quella che bollava come “pulizia etnica” contro i palestinesi in Israele. Ricordiamo che il cuoco era stato già denunciato tre anni fa per istigazione all’odio razziale per aver definito “abominevole” lo stato di Israele.

Chef Rubio risponde alla denuncia

La notizia della denuncia di Liliana Segre ha fatto il giro del web nel giro di poche ore, Chef Rubio non ci ha messo molto a prendere posizione. “Chiedere a Liliana Segre di denunciare i crimini della colonia d’insediamento israeliana e dell’esercito nazista che da 74 anni porta avanti la pulizia etnica del popolo nativo palestinese (semita) sarebbe incitare all’odio?”, il suo j’accuse:“I silenzi di parte sono odio, non chi resiste”. Presente, a fine tweet, la bandiera palestinese. E ancora, Chef Rubio ha definito "ovvio" il sostegno della Segre alla causa sionista, palesato proprio attraverso la denuncia.

Con un filo di vittimismo, Chef Rubio ha poi denunciato di essere perseguitato dalla presunta “mafia sionista”, ribadendo di non aver ricevuto alcuna notifica della denuncia della senatrice a vita. Questa la teoria dell’ex rugbista: “Comunque volevo informare la mafia sionista che mi perseguita ormai da quasi dieci anni che qui a Frascati ancora non è arrivato nulla, quindi mi fa piacere sapere che tutti sionisti grazie alla loro rete capillare siano arrivati a saperlo prima ancora del sottoscritto”.

Nel mirino anche la Murgia

Ovviamente non è finita qui. Come un fiume in piena, Chef Rubio ha messo nel mirino anche Michela Murgia. Un’invettiva mirata, chirurgica, tra richieste di aiuto e pseudo-oscuramenti social. Il volto televisivo, infatti, ha rivelato di aver ricevuto in passato una richiesta di sostegno da parte della Murgia “quando l’avevano attaccata per Hamas”: “Mi raccontava che il suo non sostenermi era dovuto al suo non stare bene e che l’avrebbe fatto. Questo è il sostegno? Bloccarmi senza motivo? Sono disgustato”, con tanto di screen. Oltre ad aver smascherato la ricerca di alleati social della giornalista di sinistra, lo chef ha rincarato la dose contro la Segre, sottolineando di non voler fare passi indietro. Appuntamento alla prossima puntata

Dalla Murgia a Chef Rubio: odiatori di sinistra senza freni. La senatrice Segre denuncia il cuoco che la insulta su Israele. La scrittrice accosta Meloni alla camorra. Stefano Zurlo il 9 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Dai pulpiti e dalle cattedre. Sui social e con i post. Fomentano l'odio e vanno al bersaglio grosso: la senatrice a vita Liliana Segre che ha la colpa di appartenere ad una famiglia ebraica, e la premier Giorgia Meloni. Gli haters rossi, meglio se chic, colpiscono con affermazioni che sono pugni in faccia. Michela Murgia, scrittrice, va nel salotto di Floris su La 7 e la spara davvero grossa: «Due entità perseguitano Saviano: la camorra e la presidente del consiglio». Frase incommentabile che mette sullo stesso piano la criminalità e il capo dell'esecutivo; fra l'altro, qualche giorno fa Meloni aveva fatto sapere attraverso il suo avvocato di voler, forse, revocare la querela per gli insulti ricevuti proprio da Saviano. Murgia va dritta per la sua strada e lancia provocazioni costruite col fango.

Ma non è l'unica: a sinistra della sinistra c'è una rete di personaggi, meglio se altolocati, che mettono veleno nelle vie della comunicazione. Sorpresa, Segre denuncia 24 odiatori e si scopre che fra loro c'è chef Rubio, al secolo Michele Rubini, uno che all'estrema dell'emiciclo riceve approvazione.

E invece si è infilato in questo vortice di antisemitismo, impregnato di fede cieca nella causa palestinese e di rancore verso Israele. C'è un segmento della gauche più ideologica che ha messo nel mirino l'esecutivo più a destra nella storia repubblicana ed è andata avanti per mesi a strillare contro il ritorno del Fascismo.

Il Ventennio non è tornato e allora gli assalti si sono concentrati contro le figure chiare di questa nuova stagione. In testa Giorgia Meloni, già al centro di minacce per via del reddito di cittadinanza che dovrebbe essere ridimensionato se non eliminato nei prossimi mesi. Nei giorni scorsi è stato individuato un giovane di Siracusa che aveva scagliato minacce di morte alla Meloni.

È solo un episodio fra i tanti. L'uomo forse aveva agito per la paura di perdere il sussidio; altri, invece, parlano dall'alto della loro spocchia e arroganza. Ecco, è il caso di Michela Murgia, idolo dei salotti radical chic, che ospite di Floris si avventura in un paragone raggelante sulla Meloni. Colpevole di aver a suo tempo querelato lo scrittore che aveva elegantemente utilizzato per lei e Salvini l'epiteto «bastardi».

Ma potrebbe, oggi che è a Palazzo Chigi, abbandonare la carta bollata. Non importa, scatta la denigrazione sugli schermi di uno dei talk più autorevoli della tv. E Floris non accetta quel parallelo sgangherato e sconsiderato: «Eh no, sono cose diverse. Una è una lecitissima querela che può essere ritirata o no, gli altri sono dei criminali. Questo le verrà rinfacciato».

«Siamo al delirio totale, senza più alcun freno - nota Tommaso Foti, capogruppo di FdI alla Camera - Quale sarebbe la colpa di Meloni? Aver vinto le elezioni ed essere diventata la prima donna premier in Italia».

Ma i professionisti dell'invettiva, spezzoni fuori controllo del mondo cosiddetto progressista, azzannano anche personalità lontane, culturalmente e anagraficamente, dalla premier. Come Liliana Segre, vittima delle persecuzioni razziali. Non risparmiano neppure lei e lei reagisce. Nel gruppo segnalato dalla Segre c' è anche chef Rubio. Che invece di cospargersi il capo di cenere, rilancia e punta ancora il dito contro «il silenzio sistematico» della donna «nei confronti della pulizia etnica che il popolo palestinese sta subendo». «Basta minacce, Segre ha fatto bene a denunciare», twitta Matteo Renzi.

Dalla Meloni alla Segre, l'odio seriale di Rubio sui social. L'elenco delle persone insultate dal cuoco del piccolo schermo è piuttosto folto: dai politici agli attori, passando per Volodymyr Zelensky. Massimo Balsamo l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Chef Rubio, nome d’arte di Gabriele Rubini, è finito nell’elenco delle persone denunciate da Liliana Segre per minacce sul web. Il volto televisivo è noto da tempo per le sue posizioni critiche verso Israele – basti pensare alla denuncia risalente al 2019 per aver definito lo Stato ebraico “abominevole” – ma la senatrice a vita non è l’unica ad essere finita nel suo mirino. Il 39enne di Frascati è noto per l’insulto facile e nel corso degli ultimi anni non sono mancate offese, ingiurie e invettive di ogni tipo.

L'odio seriale sui social

L'ex volto Discovery, Chef Rubio è stato spesso al centro di dibattiti mediatici per le sue prese di posizioni “muscolari”. Quasi sempre per le sue teorie su Israele, il volto del piccolo schermo ha riservato parole dure a politici e artisti senza fare distinzioni. Una delle sue vittime preferite è sicuramente Matteo Salvini. Nel 2021 l’ex unto e bisunto ha scelto toni forti contro il leader leghista, reo di aver espresso solidarietà a Israele: "Il mio pensiero e la mia solidarietà al tuo culo, ancora una volta bersaglio delle verghe sioniste. Attieniti alle foto coi caffè e ai sorridi ebeti, che ogni volta che scoreggi fuori dal seminato insulti il genere umano". Più di recente, a fine agosto, sempre per lo stesso motivo: “Leghista padano, razzista italiano, quindi colone israeliano”.

Sempre restando alla politica, non sono mancati gli attacchi all’attuale primo ministro Meloni – “sciacalla” il termine più utilizzato – mentre recentemente è stato il ministro Valditara a finire nel mirino. Chef Rubio non ha accolto di buon grado alcune dichiarazioni del titolare dell’Istruzione (“io sono amico di Israele”, ndr): "Caro Giuseppe Valditara di chi sei figlio non ce ne frega un ca**o. Conta ciò che fai e quello che lasci agli altri. Se stai coi terroristi antisemiti (i palestinesi sono semiti) della colonia d’insediamento israeliana, sei un sionista e i partigiani i sionisti li facevano fuori".

Da Zelensky a Totti, Rubio contro tutti

Chef Rubio ha fatto parlare di sé anche a proposito della guerra tra Russia e Ucraina, con epiteti discutibili nei confronti del presidente ucraino Zelensky, reo di aver chiesto armi per difendersi. "Si cazzo, lanciafiamme, bombe, missili, droni, fucili, tutto cazzo. Dai produciamo ancora più armi e vendiamone ovunque nel nome della libertà (quale?) in Europa, nel nome dei suoi valori (il colonialismo? Il suprematismo bianco?). Bravo nazista #Zelenksy, continua così! #Ukraine", il Rubini-pensiero. Sempre su Twitter, nel settembre 2021, ha definito la vicepresidente americana Kamala Harris“sionista schifosa infame”. “Infame nazista” è invece l’accusa rivolta a Bernard-Henri Levy.

La politica è spesso presente sulle pagine social, ma non sono mancati gli attacchi a volti del mondo dello spettacolo. Nel 2021 è stato il turno di Francesco Totti, colpevole di essere andato a Tel Aviv per un’iniziativa legata alla Champions League e al suo sponsor Heineken. Il Pupone un“camerata” e “servo dei sionisti”, a loro volta dei “sadici fascisti, razzisti colonialisti”, rei di aver instaurato un regime “teocratico, illegale” e fondato sull’”apartheid”. E ancora, Vittorio Brumotti all’epoca di un’aggressione subita al Quarticciolo durante un servizio sullo spaccio di droga: “Brumotti sei un infame, troppe poche te ne hanno date”. Di certo non si può dire che Chef Rubio non ci metta la faccia, ma questo è appena un assaggio dell'elenco di persone che hanno fatto i conti con le sue "filippiche".

"È come la Camorra": il deliro della Murgia contro Giorgia Meloni. L'intellettuale della sinistra paragona Giorgia Meloni alla camorra, e poi pretende che il presidnete del consiglio non debba querelarla. Annarita Digiorgio l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Parole sconcertanti, le ennesime, contro il Presidente Meloni, che per Michela Murgia è come la camorra. Lo ha detto durante una intervista a Giovanni Floris andata in onda martedì sera alla 7: “Due entità perseguitano in questo momento Saviano: una è la camorra, l’altra e Giorgia Meloni".

Persino il conduttore si rende immediatamente conto della gravità delle parole pronunciate dalla Murgia, e prova a intervenire: “Questo parallelo le verrà rinfacciato, da una parte c’è una lecitissima querela, mentre dall’altro ci sono criminali”.

Ma Murgia non ritratta, anzi, rincara. Secondo lei anche Salvini e Meloni sono criminali, come la mafia: “Salvini sta rispondendo in tribunale di quelle decisioni, e lo farà anche all’Aia. Se Saviano anziché “bastardi” li avete chiamati criminali sarebbe cambiato qualcosa?”.

Le rispondiamo noi: no, non sarebbe cambiato nulla. Perché essere chiamato in tribunale non significa essere criminale. E il fatto che Murgia Saviano diano del criminale a una persona non rappresenta un avviso di garanzia.

In più la Corte de L'Aia non si è espressa in alcun modo: c'è solo una denuncia (da parte di una ONG contro Salvini e due ex ministri del Pd, non Meloni). Ma per Murgia le denunce equivalgono a condanne se sono contro suoi nemici; sono mere intimidazioni se sono contro suoi amici. Altrimenti allo stesso modo si potrebbe dire che Saviano è come Salvini: entrambi imputati. E il tribunale, non la Murgia, deciderà se sono criminali o meno.

Ma Murgia e Saviano vogliono essere liberi di insultare, diffamare, e aizzare odio contro i politici di destra, senza doverne rispondere in tribunale. Perchè loro sono intellettuali. Ma vogliono togliere ai politici la libertà di esprimersi, e persino di difendersi.

Il vicepresidente della commissione Affari costituzionali della Camera, Riccardo De Corato, chiede ai conduttori televisivi di non invitare più Michela Murgia e persone che alimentano clima di odio: “Con oggi abbiamo raggiunto un livello di delirio totale. Non bastavano le foto bruciate, le continue minacce anche di morte al presidente del Consiglio, ora si è passati ai paragoni della stessa con i clan mafiosi! Tutto questo è inconcepibile e assurdo. Rivolgo un appello- dice il parlamentare FdI - a tutti i conduttori televisivi, di non invitare più persone come la scrittrice Murgia, perchè si rendono protagoniste di un clima di odio che istiga, come avvenuto nei giorni scorsi a Siracusa, alla violenza ed a gesti estremi che non fanno bene al nostro Paese”.

“Dopo l'ennesimo insulto contro il presidente del Consiglio non si leggono levate di scudi- nota il capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, Tommaso Foti “tra poco la sinistra e il suo mainstream mediatico invocheranno anche la galera? Quale sarebbe la colpa di Giorgia Meloni? Aver vinto le elezioni ed essere diventata la prima donna premier in Italia”.

Dalla Sardegna le risponde il deputato di Forza Italia Pietro Pittalis: “Un paragone inaccettabile, rozzo e gratuito che non sta né in cielo né in terra e che condanniamo con fermezza. La Sardegna ha grande tradizione di scrittori di cui l'intero Paese può farsi vanto. Nel caso della Murgia certamente no. Certe espressioni possono essere utili per un titolo ad effetto o per i 5 minuti di notorietà, non certo per essere annoverati tra i grandi scrittori di cui la Sardegna può vantarsi”.

Il capogruppo di Fdl al Senato Lucio Milan ricorda anche le parole di Conte, e le minacce ricevute dal Presidente Meloni: “La militante di sinistra e scrittrice Michela Murgia, probabilmente non si accontenta delle minacce di morte arrivate a Giorgia Meloni e alla figlia, e paragona il presidente del consiglio alla camorra. Perché? Perché Giorgia Meloni ha osato querelare Roberto Saviano per averle dato della 'bastarda. Murgia addirittura ha rincarato la dose dicendo che sarebbe stato legittimo anche darle del criminale. Quando una donna, che dovrebbe essere una importante intellettuale, dà della bastarda e del criminale al presidente del Consiglio e lo paragona alla camorra è normale che un pregiudicato, mantenuto a spese di chi lavora con il reddito di cittadinanza di cui teme di essere privato, si lasci andare a parole che costituiscono reato. Se, come ha detto Giuseppe Conte, si potrebbe arrivare alla guerra civile, contro un governo, che secondo Murgia è guidato da un criminale, qualcuno si sente in diritto di fare la sua parte minacciando di morte una bambina e sua madre. Tanto, per certi presunti intellettuali che pensano di avere in tasca la verità assoluta, il fatto di essere stati democraticamente eletti non conta nulla".

Le minacce di morte alla Meloni e le responsabilità di Conte. Il leader M5s l'indomani dei post choc contro la Meloni: "Ferma condanna senza se e senza ma". Ma per mesi ha inforcato la bandiera del reddito e gettato benzina sul fuoco del disagio sociale. Andrea Indini il 7 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La presa di distanza c'è stata. Telegrafica, ma c'è stata. Qualche ora dopo che il Giornale.it aveva rivelato gli orribili messaggi postati contro Giorgia Meloni e la figlia Ginevra, Giuseppe Conte è uscito dal silenzio e ha rilasciato una breve dichiarazione di sostegno e vicinanza alla premier. "Una ferma condanna, senza se e senza ma", ha detto. "Questi gesti sono esecrabili, bisogna stare vicino alle istituzioni". Giustissimo, inappuntabile. Eppure, proprio mentre le pronuncia, scorrono davanti agli occhi dei più le piazze piene del Sud Italia incendiate dalle sue parole. Da mesi inforca la bandiera del reddito di cittadinanza per fare la guerra al centrodestra. Aveva iniziato ad agitarla in campagna elettorale minacciando "rivolte sociali". E ancora oggi, nel criticare la legge di Bilancio, continua a gettar benzina sul fuoco del disagio sociale. Una strategia che attecchisce soprattutto tra chi quel disagio lo prova sulla propria pelle e che rischia di tramutarsi da odio social a violenza vera e propria.

I Cinque Stelle non sono disposti a fare autocritica. La capogruppo al Senato, Barbara Floridia, lo ha detto subito, ancor prima che parlasse Conte. "Nessuno strumentalizzi la nostra azione politica". Lo stesso hanno fatto i vertici del movimento. Col messaggio implicito: noi, sul reddito di cittadinanza, andiamo avanti a dare battaglia. Città dopo città, piazza dopo piazza. Non si fermeranno. Dopo tutto è lì che puntano a raccogliere voti, andando in giro a raccontare che il governo affama gli ultimi, li lascia senza soldi, toglie loro persino la dignità.

Già lo scorso settembre, agli inizi della remuntada elettorale, Conte aveva accusato la Meloni di voler "la guerra civile". "Lei guadagna da oltre vent'anni 500 euro al giorno con i soldi dei cittadini - aveva detto a Rainews24 - e vuole togliere 500 euro al mese alle persone in difficoltà facendo la guerra ai poveri". Populismo puro. Che, però, ha pagato nelle urne e che, per quanto possano valere i sondaggi di questi tempi, sembra pagare ancora. E così: avanti tutta a spingere sull'acceleratore, soprattutto ora che che il reddito di cittadinanza ha una data di scadenza. Persino uno mite come Roberto Fico, nei giorni scorsi, se ne è uscito dicendo che la riforma dell'assegno grillino è "una scelta pericolosa per la tenuta sociale del Paese".

Nemmeno le minacce a Guido Crosetto hanno instillato nelle menti dei grillini il dubbio. Nemmeno leggere messaggi di questo tenore: "Attenta che ti arriva un coltello in pancia a te e tua figlia, tu togli il reddito e io uccido tua figlia sicuro", li ha convinti a fermarsi, a dirsi "abbiamo passato il segno", a fare un passo indietro. Ancora oggi a Torino, tappa del tour per raccontare le storie dei percettori del sussidio statale, Conte ha accusato il governo di "distruggere il lavoro" e di pensare ai privilegiati anziché guardare "al vero disagio sociale delle persone". Avanti di questo passo non dobbiamo temere solo un autunno caldo, ma un'intera legislatura infuocata. Sperando che dalle minacce sui social non si passi alle violenze fisiche.

Disoccupato, precedenti per spaccio: chi c'è dietro le minacce choc alla Meloni. Ha usato parole vili contro Giorgia Meloni e la figlia, ora Sasha Lupo, il disoccupato e percettore di rdc, si dispera per le conseguenze. Francesca Galici l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Oggi, Sasha Lupo piange. È il 27enne che ha minacciato di morte Giorgia Meloni e la sua bambina di 6 anni solo perché il governo è impegnato in una manovra per riformare il reddito di cittadinanza. Lupo vive in Sicilia, in un piccolo paese della provincia, ha precedenti per droga e qualche giorno fa si è esibito in una serie di tweet feroci e preoccupanti contro il presidente del Consiglio. La polizia postale ci ha messo poco a rintracciarlo nell'abitazione in cui vive insieme alla madre, effettuando una perquisizione e procedendo all'indagine. L'accusa per lui è di violenza privata aggravata.

"Se togli il reddito ammazzo te e tua figlia...". Minacce choc contro la Meloni

Sasha Lupo ha un procedimento pendente a Catania per essere stato trovato con 86 grammi di marijuana nel 2014, ben oltre i 5 grammi lordi consentiti dalla legge e considerati come uso personale. Un elemento non trascurabile in una vicenda come questa, che potrebbero configurare il reato di spaccio per l'uomo. Un passato di droga quando non era nemmeno 20enne, un presente come percettore di reddito di cittadinanza a nemmeno trent'anni e minacce al presidente del Consiglio in carica: in questa vicenda si mescolano elementi diversi, solo apparentemente distanti, che scattano una fotografia degradante dell'Italia.

Lupo non risulta abbia mai avuto contratti di lavoro ma qualche anno fa è stato impegnato come porta-pizze. "Il ragazzo ha un leggero handicap fisico e vive con la mamma", spiega l'avvocato. Ha percepito il reddito di cittadinanza, circa 500 euro, per 18 mesi e lo scorso ottobre gli era stato rinnovato, dopo una sospensione vissuta male. Una frustrazione, avrebbe spiegato, che non si sarebbe mai tramutata in gesti concreti: "Non volevo fare del male a nessuno". Una reazione scomposta esagerata, probabilmente figlia di un clima politico esasperato in cui individui come Lupo si sentono in diritto di riversare la loro rabbia contro estranei.

"Sono pentito di quello che ho fatto, i giornalisti m'inseguono, non mi aspettavo tutto questo clamore. Ma ero proprio terrorizzato dall'idea che la Meloni mi togliesse il reddito di cittadinanza, questo pensiero mi ha fatto perdere il lume della ragione", ha detto ieri sera Lupo al suo avvocato Giovanni Giuca, come riferisce . Lupo che diventa agnellino, che perde tutta la veemenza trovata per scrivere volgari atrocità contro il presidente del Consiglio e contro una bambina di appena 6 anni.

Le minacce di morte alla Meloni e le responsabilità di Conte

I suoi genitori sono separati, la madre lavora come cassiera e il padre ha chiuso un negozio di abbigliamento. "La sua è una famiglia perbene, speriamo gli serva da lezione", dicono ora gli investigatori. Ma il fatto resta, così come le accuse e la violenza usata contro Giorgia Meloni e la sua famiglia, ingiustificabili. "Mi dispiace moltissimo che certe parole vili ed ingiuriose siano state scritte da un cittadino di Rosolini. Il gesto va condannato senza se e senza ma. Sicuramente uno che minaccia di morte Giorgia Meloni e la figlia, è senz'altro un personaggio che non ci sta con la testa, e che diventa il classico leone da tastiera, nascondendosi dietro l'anonimato", ha dichiarato nella serata di ieri il sindaco di Rosolini, Giovanni Spadola, che ha espresso "piena e incondizionata solidarietà nei confronti del presidente del Consiglio".

Giorgia Meloni, l'hater che la minaccia di morte piange in caserma. Libero Quotidiano l’08 dicembre 2022

"Sono pentito di quello che ho fatto, i giornalisti m’inseguono, non mi aspettavo tutto questo clamore": il leone da tastiera che ha minacciato di morte Giorgia Meloni e sua figlia sui social lo avrebbe detto in lacrime al suo legale, come riportato dal Corriere della Sera. L'uomo, siciliano di 27 anni, gli avrebbe anche chiesto: "Adesso, avvocato, andrò a dormire in galera?". All'origine di tutta questa rabbia nei confronti del premier c'è la stretta sul reddito di cittadinanza decisa dal governo.

"Ero proprio terrorizzato dall’idea che la Meloni mi togliesse il reddito di cittadinanza, questo pensiero mi ha fatto perdere il lume della ragione", avrebbe proseguito il leone da tastiera. Nel ritratto proposto dal Corsera si legge: "Un diploma preso all’istituto professionale, tatuaggi tribali sulle braccia, un procedimento pendente a Catania per spaccio di droga (86 grammi di marijuana nel 2014), ha lavorato poco in vita sua". "Un tempo consegnava le pizze — avrebbe raccontato l’avvocato Giuca —. Il ragazzo ha un leggero handicap fisico e vive con la mamma". 

Pare che il 27enne abbia percepito il sussidio di 500 euro al mese per 18 mesi. Poi lo scorso ottobre avrebbe ottenuto il rinnovo. La Digos di Siracusa, insieme alla Polizia postale, è stata aiutata nella ricerca dal fatto che il giovane aveva messo sul profilo una sua foto originale. Al 27enne sono stati sequestrati sia il computer che lo smartphone. Gli investigatori avrebbero detto: "La sua è una famiglia perbene, speriamo gli serva da lezione".

"Punire chi diffama è questione di civiltà". Renzi contro le minacce social. Gli ultimi attacchi contro Giorgia Meloni e Liliana Segre hanno evidenziato la necessità di definire punizioni esemplari, anche sui social. Francesca Galici l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

I politici di ogni schieramento sembrano essere concordi sulla necessità di porre finalmente un freno alla escalation di violenza social. La critica è d'obbligo, essendo l'Italia una democrazia, ma troppo spesso sconfina nelle minacce e nella violenza verbale. La maggior parte dei personaggi pubblici tende a ignorare il fenomeno, evitando di dare adito a commenti e di "pubblicizzare" certi individui, ma ci sono dei limiti che non dovrebbero mai essere superati e che, sempre più frequentemente, vengono oltrepassati. Ne sanno qualcosa, per esempio, Giorgia Meloni e Liliana Segre, troppo spesso al centro delle invettive oltraggiose, oltre che per la carica che ricoprono, per le persone e donne che sono. Un concetto ribadito anche da Matteo Renzi, che ha espresso solidarietà e chiesto maggiore attenzione verso i social.

Disoccupato, precedenti per spaccio: chi c'è dietro le minacce choc alla Meloni

Il presidente del Consiglio è stato oggetto negli ultimi giorni di attacchi vili e di una violenza inaudita, che non solo hanno colpito lei ma anche la sua famiglia, in particolare sua figlia di appena 6 anni. Sono state minacciate di morte da un 27enne siciliano disoccupato, che si è scagliato contro Giorgia Meloni a fronte della manovra di Bilancio che punta a eliminare il reddito di cittadinanza (percepito dal violento) per gli occupabili. In poche ore, la polizia ha individuato l'uomo nella sua abitazione in provincia di Siracusa e ha proceduto alla perquisizione e al sequestro dei device elettronici, con conseguente accusa di violenza privata aggravata.

Non meno gravi gli attacchi che subisce ogni giorno la senatrice a vita Liliana Segre, che nelle ultime ore ha depositato oltre 10 denunce per attacchi e insulti provenienti dal web, nel suo caso soprattutto di natura antisemita. Attacchi che si fanno sempre più violenti, con la paura che qualcuno possa passare dalle parole ai fatti, dai social alla realtà, con azioni irreversibili. "Liliana Segre ha denunciato chi l'ha insultata sui social. E ha fatto benissimo. Come ha fatto benissimo Giorgia Meloni a denunciare chi minacciava sua figlia. Sui social è giusto criticare, ma basta con insulti, minacce, offese. Punire chi diffama è una questione di civiltà", ha scritto il senatore Renzi su Instagram.

Roberto Saviano? Ora reclama il diritto di insultare la Meloni. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 16 novembre 2022.

Il cinema in tribunale. La sceneggiata a Palazzo di Giustizia. Un attore, più che uno scrittore, quel Roberto Saviano là. Solo che ha sbagliato palcoscenico, location, sito. Perché ci vuole rispetto anche per il luogo dove la legge si applica. Non chiedono autografi i giudici. Dopo aver fatto sapere al mondo che ieri mattina avrebbe offerto il collo alla ghigliottina della Meloni che lo aveva querelato, da piazzale Clodio Saviano se ne è andato dopo pochi minuti - tanti quanto la durata della prima udienza così come era arrivato. Ha provocato solo un po' di fastidio a chi lavora.

In tribunale ci stava perché giustamente alla Meloni non piace essere definita "bastarda" a mezzo tv - e neanche a Salvini, offeso assieme a lei in una trasmissione di Corrado Formigli del dicembre 2020 e che ha depositato la propria costituzione di parte civile - e decise di procedere. Non era presidente del Consiglio, ma esponente dell'opposizione e contestava le politiche della sinistra di Conte e Lamorgese in materia di immigrazione clandestina.

L'eroico Saviano spera in una specie di grazia, visto che l'avvocato del premier ha detto che rifletterà con la sua assistita se ritirare la querela. Anche se quella lingua impunita di uno scrittore che pensa di poter offendere chiunque meriterebbe una bella punizione. Ma la Meloni non vuole farlo passare per martire, probabilmente. Il che per Saviano può anche essere peggio. Se ne riparlerà il 12 dicembre, alla seconda udienza e chissà se l'imputato sarà scortato in misura notevole come ieri. Già, perché oltre a chi si deve occupare di lui, c'erano anche altre note lingue urlanti, del calibro di Michela Murgia e di Massimo Giannini, direttore di quella Stampa che un tempo era la testata elegante dell'avvocato Agnelli.

Non pare vero a Saviano, evidentemente, di poter esibire la solidarietà di quelli come lui.

L'odio contro la destra è cemento per costoro, al punto che le panzane si sprecano: sono «il giornalista più processato da questo governo», afferma Saviano e a uno verrebbe da chiedersi tutto questo in un mese appena trascorso dall'insediamento dell'esecutivo Meloni... Ma il noto imputato dimentica che si può essere processati per 9 anni pure per vilipendio del Capo dello Stato, risultare innocente e nessuno che ti chieda scusa. A proposito di rapporto col potere. Tutta pubblicità, quella che gli deriva da un processo appena iniziato e quasi potrebbe dispiacerci se davvero dalla Meloni arrivasse un gesto di magnanimità verso chi non lo merita. Una sfilza di testimoni della "difesa": lo stesso Salvini, il neoministro dell'Interno Piantedosi - che del leghista aveva la colpa di essere capo di gabinetto- poi Gasparri e persino il Pd Minniti. Curiosità: tra i testi di Saviano non potrà mancare proprio Formigli, magari dovrà raccontare come era scosso il suo ospite quando sibilava la parola "bastardi". 

Sì, un martire, quando sputacchia le sue sentenze: «Ritengo singolare che uno scrittore sia processato per le parole che spende, per quanto dure esse siano, mentre individui inermi continuano a subire atroci violenze e continue menzogne». Se uno scrittore offende, è invece sacrosanto che possa essere processato. Non può esistere l'impunità. Invece lui si lamenta, persino quando ha appreso della presenza di Salvini al processo come richiesta di poter essere parte civile. Non può difendersi, l'ex ministro? Di più, Salvini ce l'ha proprio con me, pare lamentarsi Saviano: «Salvini lo avrò contro sia in questo processo sia nel processo l'anno prossimo per la frase «il ministro della malavita». Perché, è normale definire ministro della malavita chi i clan li deve combattere ogni giorno, anche correndo qualche rischio? È davvero sconcertante, l'imputato Saviano. Perché teme di trovarsi di fronte quelli che appellò come "bastardi" in televisione, senza alcun contraddittorio, una possibilità di rispondergli come meritava. Del resto, non a caso si era scelto la trasmissione a senso unico, quella chiamata Piazza Pulita. Sì, quella che pretende di fare piazza pulita degli avversari politici. Il tribunale delle chiacchiere.

Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 16 novembre 2022.

Il sommo maestro Roberto Saviano ieri ha rivendicato con forza una libertà e stabilito un principio: uno scrittore può insultare perché il suo linguaggio, anche se offensivo e ingiurioso, rientra in quella che una volta si chiamava “licenza poetica”, la possibilità cioè di sbagliare volutamente per dare più forza al pensiero. Saviano ci ha comunicato tutto ciò all’uscita dell’udienza dove è imputato di ingiuria e diffamazione per aver dato della “bastarda” a Giorgia Meloni in diretta tv ospite di Formigli a Piazza Pulita.

Per nulla pentito e ben lungi dallo scusarsi per l’offesa recata a una donna, il Sommo ha spiegato che lui non sottostà alle regole, fossero solo quelle della buona educazione, dei comuni mortali perché «io sono uno scrittore, difendo a ogni costo la libertà di parola, questa (della Meloni, ndr) è una democratura». 

Detto - sempre per i comuni mortali - che per democratura si intende un regime politico improntato alle regole formali della democrazia, ma ispirato nei comportamenti a un autoritarismo sostanziale, per una volta faccio mio il Verbo del Sommo, e lo faccio avendo le carte in regola perché anche io sono uno scrittore.

Sì, ho scritto libri che negli ultimi due anni hanno venduto più di quelli del Maestro Saviano, quindi sono un super scrittore, che se poi ci aggiungiamo che sono pure giornalista, e se non bastasse gioco il jolly di essere direttore bè, capite che io altro che libertà di parola, io come Saviano ma forse più di Saviano mi avvicino a Dio. 

E quindi, seguendo il suo consiglio di non mettere limiti al mio pensiero perché noi scrittori (ma quali scrittori, intellettuali si addice meglio) godiamo dell’immunità penale e civile dico con chiarezza ciò che penso: Roberto Saviano, sei un bastardo. Di più: Roberto Saviano sei un pezzo di m. a insultare una donna, non ne hai remora perché tu sei un figlio di buona donna, che poi questi non sono altro che sinonimi della parola “bastardo”.

E adesso che fai, sommo bastardo Saviano? Smentisci la tua tesi in base alla quale io scrittore posso insultarti pubblicamente e tu devi tacere? Ti arruoli nella “democratura” e corri in tribuna- le a querelarmi? Ti ricordo che sono un super scrittore, quindi attento a quello che fai, razza di un bastardo che fai il bullo con una signora che proprio perché premier non può permettersi di rispondere e difendersi come dovrebbe e forse vorrebbe. Abbassa la cresta, chiedi scusa e finiscila lì che fai pena, sempre con licenza parlando.

Saviano, le sue giustificazioni? Teorie e auguri da bastardi. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 18 novembre 2022

Forse non bisognerebbe querelare nessuno. Nemmeno Roberto Saviano e forse nemmeno se ti dà di bastardo. Esistono altri strumenti per difendersi, anche di tipo giudiziario, e le multe e la galera sarebbe meglio che fossero accantonate. Ma è doppiamente inammissibile la giustificazione che Saviano ha opposto a chi ha chiesto che fosse sanzionata la diffamazione di cui si è reso responsabile: ha detto, come tutti sanno e come Libero ha raccontato ieri, che il processo a suo carico sarebbe ingiusto perché lui è uno scrittore, il che suppone che di analoga guarentigia non potrebbe godere un ciabattino o un manovale che si lasciasse andare a quell'insulto. 

Immunità da romanziere, diciamo. Inoltre, ed è questo il tratto più grave e detestabile della sua giustificazione, è che in realtà ne nasconde un'altra: e cioè che dare del bastardo si può se l'insulto è "meritato" da chi lo prende. Nella specie, uno che dice cose che a Saviano non piacciono. Ma è consapevole, Roberto Saviano, delle conseguenze che porterebbe quel principio?

Qualcuno, per esempio, potrebbe dargli del bastardo perché qualche tempo fa prefigurava un destino carcerario per Matteo Salvini. Aveva detto proprio così: che per vedere Salvini in carcere «basterà che si spengano le luci». Come a dire: fai che poco poco le glorie elettorali del capo leghista sentano l'assedio del riflusso democratico, ed ecco servito il tempo della giustizia finalmente libera di trionfare sul ministro della malavita. C'era parecchia violenza plebea in quella previsione, e a giudizio di qualcuno assomigliava parecchio all'augurio che poteva formulare un bastardo. Sarebbe dunque stato legittimo chiamare in quel modo Roberto Saviano? 

Peter Gomez: “Furio Colombo su figlia Meloni? Non è più un giornalista”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Novembre 2022 

"E' un attivista politico che interpreta la realtà attraverso le sue legittime posizioni ideologiche"

“Io penso da tempo che Furio Colombo non sia più un giornalista ma principalmente un attivista politico che interpreta la realtà attraverso le sue legittime posizioni ideologiche, ma non chiamiamolo più giornalista. Io e Colombo facciamo due mestieri diversi”. Così il direttore dell’edizione online de ‘il Fatto Quotidiano’, conversando con l’Adnkronos, ha commentato le parole di Furio Colombo sulla figlia del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, pronunciate nel corso della trasmissione di La7, ‘L’aria che tira‘, a cui aveva partecipato lo stesso Gomez.

Colombo era stato il direttore del quotidiano L’ Unità prima che fallisse, ed al suo fianco avevano lavorato Antonio Padellaro e Marco Travaglio , ma recentemente alcuni mesi fa aveva interrotto i suoi rapporti : “A due cari amici come Padellaro e Travaglio comunico che non continuerò la mia collaborazione al Fatto Quotidiano fino a quando ci sarà questa posizione sulla guerra in Ucraina, sul divieto, si presume costituzionale, di mandare armi all’Ucraina e sulla celebrazione di un personaggio di cui non ho stima, che è il professor Orsini“.

 Colombo nel corso della trasmissione di La7, ‘L’aria che tira‘ in sostanza aveva fatto un parallelismo tra i “bambini in top class“, riferendosi alla figlia della Meloni, e quelli che annegano in mare nel Mediterraneo, facendo perdere le staffe alla conduttrice Myrta Merlino. Il presidente del Consiglio ha partecipato al G20 a Bali, in Indonesia, e ha portato con sé la figlia Ginevra. 

Ad aprire le danze contro la Meloni in realtà era stato un articolo comparso il 15 novembre, sulle pagine del quotidiano La Stampa. “Le operaie non si portano i figli in fabbrica, chissà come mai. In Italia le donne che lavorano sono paradossalmente quelle che se lo possono permettere, o quelle che hanno i nonni disponibili: sarebbe ora che le cose cambiassero anche senza i figli che in ufficio si mettono a tritare documenti”, si leggeva polemicamente nel pezzo, nel quale – tra il serio e il faceto – venivano immaginati i motivi per i quali il premier avrebbe portato con sé la bimba. “Che Ginevra abbia detto basta alle assenze di mamma e con un colpo di mano abbia preso in mano la situazione per imparare il mestiere?“, scriveva l’autrice Assia Neumann Dayan.

E poteva mancare il quotidiano La Repubblica per fare la “lezioncina” di pseudo morale al presidente del Consiglio, lanciandosi in un’interpretazione del suo gesto materno. “Perché quindi, in quei quasi quattro giorni che richiedono ogni energia mentale, fisica ed emotiva di un capo di Stato, Giorgia Meloni ha scelto di prendere su di sé il carico – gratificante, inevitabile, pesantissimo – di una figlia al seguito? Non per passare con lei del tempo di qualità che difficilmente è contemplato dal protocollo. Non per mancanza di alternative familiari o professionali deputate al temporaneo accudimento. E allora perché? Probabilmente lei, che ricordiamo ‘donna, madre e cristiana’, ritiene che la vicinanza alla figlia sia prioritaria, perché la presenza materna è un valore non negoziabile, anche quando lo Stato richiede alla propria leader 48 ore di coinvolgimento e attenzione assoluti“, aveva scritto Claudia De Lillo.

Giorgia Meloni ha risposto con un tweet che ha zittito tutti, Questione di stile. 

Il quotidiano Libero ha sbeffeggiato l’attitudine comunista di cotanto disprezzo: (“La madre dei comunisti è sempre incinta”) in riferimento soprattutto alle femministe che su Repubblica  e Stampa hanno voluto fare la morale al presidente del Consiglio su come vada interpretata la maternità.  Colombo la pensi come vuole: “Nessuna colpa ha la figlia di Meloni. Pensi che la politica del governo sia orribile ed è lecito farlo. Ma non metterei dentro la polemica i bambini”, ha affermato visibilmente contrariata la giornalista Myrta Merlino conduttrice del programma tv “L’ Aria che tira”. Redazione CdG 1947

Saviano e la carovana dei radical chic anti Meloni. Scrittori, giornalisti e attrici: la sinistra dei salotti in campo per dare man forte a Saviano. Rivendicano il diritto di insultare la Meloni e insultano la nostra democrazia paragonandola a un regime. Andrea Indini il 16 Novembre 2022 su Il Giornale.

Roberto Saviano. Ancora e ancora. Con i suoi insulti, con i suoi comizi, con le sue balle. L'ultima (in ordine di tempo): "Un governo liberticida che porta a processo chi critica. Un primo ministro contro uno scrittore, come se avessero uguale peso. Intimidire me per intimidire chiunque critichi l'operato di questo governo". Falso. E non solo perché Giorgia Meloni l'ha trascinato in tribunale parecchio tempo prima di diventare premier. È falso soprattutto perché, proprio ora che è arrivata a Palazzo Chigi, la leader di Fdi sta valutando di ritirare la querela. E poi c'è pure quell'altra balla. Quella sulla "democratura", ovvero sull'Italia dipinta come una democrazia illiberale. Vivesse davvero in un regime, la bocca gli sarebbe stata cucita da tempo. E invece no. Saviano parla. E spesso straparla. Nessuno gli ha mai negato questo diritto: il "diritto di parola". E non perché lui è uno "scrittore", ma perché in Italia il "diritto di parola" è garantito a tutti i cittadini. Quello che, invece, viene (giustamente) contestato all'autore di Gomorra è ben altro. E cioè che non può insultare e passarla liscia. Gli insulti (e "bastarda" è un insulto, eccome!) non rientrano nel perimetro della libertà di espressione.

In un Paese normale un processo per diffamazione, in cui uno ha dato del bastardo a un altro in televisione, non solleverebbe tanto interesse. In Italia, invece, intorno a Saviano stanno montando un circo mediatico che sembra far godere soltanto la sinistra dei salotti. Ieri mattina, davanti al tribunale di Roma, si sono dati appuntamento i soliti volti che dopo cena troviamo nei talk show a pontificare contro il governo. C'erano diversi scrittori. Sandro Veronesi, Michela Murgia, Nicola Lagioia, tanto per citarne alcuni. E poi c'era il direttore della Stampa, Massimo Giannini. E pure l'attrice Kasia Smutniak. Tutti lì a dare supporto. O, più semplicemente, a mettere in piedi un inutile teatrino contro il centrodestra al governo. Chi non va manda saluti da casa. Come Erri De Luca che ci tiene a far sapere: "Condivido la sua indignazione di allora". Scrive: indignazione; leggete: insulti.

La Murgia è in primissima linea nel reiterare la narrazione (falsa) tanto cara a Saviano: "Un uomo scortato dallo Stato a causa delle sue parole oggi sarà portato davanti a un giudice dal capo di governo a causa delle sue parole: ditemi voi in quale altra democrazia lo avete visto succedere". È una battaglia che porta avanti da settimane. Aspettava l'inizio del processo con la stessa trepidazione con cui a dicembre i bimbi aspettano il Natale. Ai primi di ottobre, prima che gli altri ultrà scendessero in curva, lei già scriveva sull'Espresso che dare della "bastarda" alla Meloni è una forma di cultura. Oggi, invece, si sono sbizzarriti tutti quanti. Su Repubblica, pontificando sullo stato di salute della nostra democrazia, Chiara Valerio parla di "bullismo di Stato" contro Saviano. Sulla Stampa Elena Stancanelli lancia un appello per il prossimo 12 dicembre ("Venite tutti in tribunale"), mentre nel suo podcast Circo Massimo il direttore Giannini parla di "logica di potere" e ritira fuori il più classico "colpirne uno per educarne cento".

Nessuno di loro ha il coraggio di scrivere le cose come stanno. E cioè che "bastarda" non è, come scrive la Stancanelli, "un termine ritenuto ingiurioso" dalla Meloni. È un insulto. Punto e basta. Chiunque si sentirebbe diffamato nel sentirselo dire. E una diffamazione rimarrebbe anche se nelle prossime ore la leader di Fratelli d'Italia dovesse ritirare la querela. Lasciando così Saviano senza più un palcoscenico su cui fare il suo inutile show.

Amnesty si dimentica l'odio di grillini e Pd: una classifica assurda. Daniele Dell'Orco su Libero Quotidiano il 04 dicembre 2022 

Quando un parametro ribalta la realtà. Nel mondo digitale il fenomeno della diffusione dell'odio specie online è considerato un dramma epocale. In effetti, la facilità con cui tramite i social si riesce a seminare odio sia gratuito che strumentale è straordinaria. E quindi pericolosa. In politica la responsabilità della diffusione dell'odio è doppia, perché trasmette un senso di inaffidabilità e di manipolazione degli istinti più bassi degli elettori. In sostanza, peggiora il clima. Per questo, anche dal punto di vista della narrazione, poter ritrarre un leader politico come portatore sano d'odio paga. Secondo la lista che Amnesty International stila ogni anno, un "barometro d'odio", in cima ai "cattivi esempi" della politica italiana c'è il centrodestra, poi il Terzo polo, il Pd e ultimi i 5 Stelle. Nel 2022, dice il report, l'immigrazione è l'argomento capace di generare più odio, poi le minoranze e i loro conflitti e al terzo posto una singola minoranza etnica: i Rom.

Un post su cinque riguarda i diritti umani. Questo il risultato di cinque settimane di studio tra agosto e settembre 2022, in piena campagna elettorale, di 50 attivisti e ricreatori. Hanno vagliato quasi 30mila contenuti di 85 politici italiani e sono giunti alla conclusione che Matteo Salvini è il più "hater" di Italia. È difatti lui a scrivere di più contro quattro categorie: minoranze religiose, immigrazione, diritti sociali e mondo della solidarietà (quindi le ONG). Il secondo leader di partito più "misantropo" è il premier Giorgia Meloni, chiude il podio Carlo Calenda.

Il problema è, appunto, il parametro di riferimento. Perché ad esempio non c'è tra gli argomenti di proliferazione dell'odio l'attacco personale o sul privato contro gli altri leader? Nello stesso lasso di tempo, il futuro premier Meloni è stato attaccato in tutti i modi per le sue origini umili, per la sua vita sentimentale (non è sposata) e per il presunto nostalgismo fascista.

O in base a cosa non vengono considerati strumenti d'odio i regolamenti di conti all'interno del Movimento 5 Stelle? O anche il modo in cui i grillini, ultimi in questa classifica, e quindi "buoni", hanno per anni comunicato verso l'esterno? Sono il partito del "vaffa" di cui persino l'ex capo politico Luigi Di Maio 6 mesi fa prima della scissione disse: «Temo che il M5s diventi la forza politica dell'odio». Fu generoso, visto che lo è sempre stata. Solo che se n'è accorto quando a farne le spese fu lui. Dopo l'ennesima giornata di sciabolate con Giuseppe Conte, l'allora ministro degli Esteri disse: «Mi sono permesso di porre dei temi per aprire un dibattito su questioni come la Nato, la guerra in Ucraina, la transizione ecologica e ho ricevuto insulti personali». Illoro stile, praticamente. Come dimenticare tra i tanti esempi le liste di proscrizione che quotidianamente pubblicavano sul blog di Grillo? Una era "il giornalista del giorno". 

Un ritratto infamante con tanto di nome e cognome del reporter di turno da andare ad insultare sui social. A fine anno, poi, c'era la maxi lista finale per nominare il giornalista (peggiore) dell'anno in base ai loro precetti. E poi la sete di giustizialismo che li ha spinti a gettare nelle galere virtuali del web politici indagati o rinviati a giudizio. Poco importa se poi, a distanza di anni, si sono rivelati innocenti dalle vite rovinate. E che dire del Pd, che proprio nel periodo preso in esame da Amnesty è stato protagonista di una campagna elettorale proiettata da Enrico Letta così tanto sull'avversario da infangarlo e infastidire persino la base elettorale dem. I simpatizzanti Pd hanno abbandonato la causa nelle urne, ma già prima nelle reprimende contro un segretario ossessionato solo da Giorgia Meloni, Matteo Salvini, la peggiore destra di sempre, il pericolo di distruzione del Paese a causa dell'inadeguatezza degli altri. Non avversari politici ma nemici da abbattere. Con cattiveria e livore che, nel barometro dell'odio di Amnesty, non sono considerati parametri.

Il Bestiario, l'Odiotino. L’Odiotino è un leggendario animale con il corpo di uno di sinistra e la testa di uno che ha perso le elezioni. Giovanni Zola il 5 Ottobre 2022 su Il Giornale.

L’Odiotino è un leggendario animale con il corpo di uno di sinistra e la testa di uno che ha perso le elezioni.

Storicamente, l’Odiotino esiste dai primordi della storia. Caino stesso si può considerare come il primo Odiotino che uccise il fratello per invidia, dato che il Padreterno preferì i doni di Abele a quelli di Caino, ma soprattutto perché – come sostengono gli esperti – Caino tendeva ad allargare mentre Abele aveva un metabolismo che gli permetteva un girovita perfetto.

L’Odiotino parte dal presupposto di essere sempre e comunque dalla parte della ragione. A partire da questo assioma per l’Odiotino il fine giustifica i mezzi e l’avversario non è un soggetto con cui confrontarsi, ma è un nemico da abbattere. Quindi per l’Odiotino chi non la pensa come lui è brutto, cattivo e soprattutto non fa la doccia in coppia per risparmiare sul gas.

Dato questo quadro generale si evince che per l’Odiotino l’avversario sia il male assoluto. Quindi se il nemico viene preferito e premiato dai più, l’Odiotino perde il controllo dando segni di squilibrio quali violenti attacchi di antifascismo accompagnati da bava alla bocca e irrigidimento del pugno chiuso, e incapacità di pronunciare le vocali rendendo l’eloquio incomprensibile: “Trsbpjk qrpstzg”.

In tal senso assistiamo ad atteggiamenti paradossali. C’è l’Odiotino che aveva promesso solennemente che, in caso di sconfitta, sarebbe emigrato come un’oca selvatica, ma che ora scopriamo ancora con le valigie impolverate in soffitta. E se viene invitato a mantenere le promesse di allontanarsi dal Paese da parte di chi pretende un minimo di coerenza, reagisce gridando all’attacco fascista e accampando la scusa che il cane gli ha mangiato i biglietti dell’aereo.

C’è poi l’Odiotino che organizza scioperi nelle scuole con l’intento dichiarato di protestare contro la vittoria democratica del nemico. In realtà si tratta di una scusa per saltare le lezioni, ammazzarsi di erbe illegali e praticare sesso di gruppo in presidenza a spregio delle istituzioni.

L’Odiotino infine, non avendo argomentazioni valide, attacca personalmente andando a ripescare parenti vicini e lontani del nemico arrivando fino a Gengis Khan macchiatosi del reato di aver lasciato un conto salato da pagare in lavanderia.

Insomma come diceva sicuramente qualcuno: “Non c’è peggior fascista di un antifascista che la mattina è sceso dal letto e ha colpito con il mignolo lo spigolo del comodino”.

Il labile confine tra rancore sociale e odio politico. Giuseppe De Rita su Il Corriere della Sera il 26 giugno 2022.  

Semantica dell’aggressività: espressione e strumento della lotta fra poteri contrapposti, diventa un fenomeno e apre una prospettiva pericolosa per il nostro livello di civiltà collettiva.

Sorprende la recente entrata del termine «odio» nella dialettica politica, sia internazionale (l’ex presidente russo che dichiara «l’Occidente lo odio, e non avrò pace fino a che non sarà distrutto») che nazionale (la scissione grillina motivata dall’odio avvertito dagli scissionisti per l’attuale dirigenza).

I toni sono naturalmente diversissimi, ma il processo psicologico è lo stesso: i protagonisti partono come rivali dalle idee diverse; poi non si spiegano e non si piegano, e finiscono per rompere la loro piattaforma di relazione. A quel punto non resta che insultarsi con toni sempre più rancorosi, fino ad ammettere, magari anche allo specchio, che «quello lo odio».

Finché questa esasperazione dal rancore all’emersione dell’odio resta sul terreno privato (fra coniugi, fra colleghi, fra soci) la cosa potrebbe non preoccupare, anche se ci offende la crescita della violenza in famiglia e nelle piccole comunità. Ma la novità di questi ultimi tempi è che l’odio non è più la perversa fiammata emotiva di un singolo, ma diventa l’espressione, il manifesto, lo strumento della lotta fra poteri contrapposti; diventa cioè un fenomeno politico e apre una prospettiva pericolosa per il nostro livello di civiltà collettiva. Tanto più che nessuna autorità morale e religiosa di tipo globale sembra avere parole adeguate di riprovazione o di superamento dell’odio.

In parte avremmo dovuto aspettarcelo, questo fenomeno. Sapevamo da anni che un po’ in tutti i paesi esisteva uno strisciante rancore collettivo via via evidenziato da isolate espressioni di conflittualità sociale e politica. E non erano mancate specifiche analisi che mettevano in luce che «il rancore è il lutto di quel che non è stato», che si ritrova nelle situazioni di più drammatica delusione per speranze mancate (si pensi al rancore al color bianco fra due coniugi che si separano). E non avrebbe dovuto sorprenderci che poi esso sia esploso come fenomeno sociale in una rabbia collettiva contro le élites, la politica, le classi dirigenti, quasi a denuncia del tradimento di speranze non avverate.

Il rancore però, una volta innestato, non si ferma, e il passo successivo è «la rottura della relazione» con gli altri. Si capisce in questa luce il successo mediatico del molto italico «Vaffa», vera bandiera della rottura di ogni relazione con gli altri, con milioni di altri. Ma, forse perché l’invito era molto popolare e con origini dialettiche, il rancore italiano è rimasto per anni fenomeno solo sociale, e in quanto tale riassorbibile nella quotidiana dialettica collettiva. Ma l’odio è sempre dietro l’angolo, quando il rancore tracima, e nel tranello sembra esserci caduta la forza politica che più ha sfruttato il rancore, ma poi ne è rimasta prigioniera, incapace di elaborare i necessari anticorpi interni.

Comunque qui in Italia abbiamo consumato la nottata del rancore sociale diffuso e non dovremmo avere una significativa crescita dell’odio collettivo. Ma a meno ottimismo ci inducono altre realtà politiche, europee come mediorientali, dove cresce l’odio collettivo. Qualche analogia con la realtà italiana riecheggia nell’indulgere dei governanti russi alla luttuosa nostalgia per la potenza zarista e sovietica che non c’è più e nella loro voluta aggressività di rottura dei rapporti internazionali. In molti casi siamo al dramma, cioè all’emergere di un diffuso odio collettivo. Non solo a livello di leadership, ma anche in una molecolare diffusione dell’odio fra chi combatte sul campo. Si diceva spesso che «ucraini e russi erano fratelli di lingua e di cultura, ma adesso si odiano»; è la rottura di relazione che sembra destinata a durare per decenni e forse a modificare le radici culturali di quei popoli. Ce ne dovremmo preoccupare unitamente agli eventi bellici; ma non si vedono in azione (neppure nelle chiese) grandi predicatori di pace e di coesione sociale. Non bastano e non basteranno le Ong, quali che siano la loro dimensione e il loro prestigio.

Salvatore Dama per “Libero quotidiano” il 16 marzo 2022.

Il tribunale di Cuneo ha assolto Carlo De Benedetti dall'accusa di diffamazione nei confronti di Matteo Salvini. I fatti oggetto del processo risalgono al maggio 2018. L'editore partecipò a un dibattito tenutosi a Dogliani, nel Cuneese, al Festival della Tv e dei Nuovi Media. 

Commentando la situazione politica del momento, De Benedetti parlò anche del leader leghista definendolo così: «Il peggio. Antisemita e xenofobo», nonché «antieuropeo e finanziato da Putin». Salvini si sentì diffamato da questi giudizi e presentò denuncia. Dopo quasi quattro anni è arrivata la sentenza di assoluzione per De Benedetti.

Il sostituto procuratore Attilio Offman nella sua requisitoria aveva definito le affermazioni dell'editore «un giudizio di valore senza dubbio infamante», e aveva chiesto la condanna dell'imputato a 800 euro di multa. 

Il legale di Salvini Claudia Eccher aveva parlato invece di affermazioni «fuorvianti, e danneggianti, soprattutto perché provenienti da uno dei principali editori italiani» e aveva chiesto un risarcimento del danno di 100mila euro. Di tutt' altro avviso la difesa dell'imputato, rappresentata dagli avvocati Marco Ivaldi e Elisabetta Rubini. Secondo i legali l'oggetto del processo «non era una critica a Salvini come persona, ma come politico» e quindi De Benedetti doveva essere «libero di esercitare quella critica politica a un esponente politico».

Una ricostruzione condivisa dal giudice Emanuela Dufour che ha assolto l'ingegnere perché il fatto non costituisce reato. «Dare dell'antisemita a Salvini è una infamia inaccettabile, come peraltro condiviso anche dal pm, visto che la locuzione ha un significato preciso e non è equivocabile», dichiara il legale di Salvini. 

«La sentenza meriterà, e lo diciamo fin da ora, appello. È una sentenza politica», prosegue l'avvocato Claudia Eccher, «ed è potenzialmente pericolosa: può indurre chiunque ad adottare i medesimi comportamenti emulatori e diffamatori nei confronti di un qualsivoglia esponente politico tenuto conto che un tribunale italiano non ha ritenuto l'episodio grave e diffamatorio».

 Sempre ieri si è venuto a sapere che lo stesso Salvini andrà a processo il prossimo 9 giugno, accusato di diffamazione aggravata nei confronti di Carola Rackete, l'ex comandante della Sea Watch 3, perché, tra giugno e luglio del 2019, avrebbe offeso «la reputazione» della giovane, attraverso dirette Facebook e post su Twitter, con frasi come «quella sbruffoncella di questa comandante che fa politica sulla pelle di qualche decina di migranti», «criminale tedesca», «ricca tedesca fuorilegge», «ricca e viziata comunista».

La Procura di Milano, dopo aver disposto la citazione diretta a giudizio per l'ex ministro dell'Interno, difeso sempre dall'avvocato Eccher, ha da poco notificato la data di inizio del processo, davanti alla quarta sezione penale, nel quale Rackete è parte civile, a seguito della denuncia, rappresentata dall'avvocato Alessandro Gamberini.

Nei mesi scorsi, il gip di Milano Sara Cipolla, accogliendo la richiesta del pm Giancarla Serafini, aveva disposto, invece, l'archiviazione dell'accusa di istigazione a delinquere contestata sempre a Salvini dopo la denuncia della giovane. Non è finita. Perché il capitano è finito anche in un articolo fake, girato sui social, dove inviterebbe a investire su presunti fondi in bitcoin. Una vera e propria truffa rilanciata da profili hackerati. Sulla vicenda lo staff del leader della Lega ha fatto sapere di aver messo al lavoro i propri legali per tutelare l'immagine salviniana.

L'Annuncio termina tra 15s. Se non è reato dire "Salvini antisemita". Vittorio Macioce il 16 Marzo 2022 su Il Giornale.

La dignità di una persona non vale neppure 800 euro. Se ti chiamano antisemita, e non lo sei, non sei stato soltanto diffamato, ma ti disegnano sulla coscienza una meschinità, un marchio infame, che non ti appartiene.  

La dignità di una persona non vale neppure 800 euro. Se ti chiamano antisemita, e non lo sei, non sei stato soltanto diffamato, ma ti disegnano sulla coscienza una meschinità, un marchio infame, che non ti appartiene. Ti deformano. Ti cancellano. Non sei più tu. Non importa chi sei o cosa fai, ma prima di sputare una sentenza del genere dovresti avere una prova inconfutabile, una certezza pressoché assoluta. È qualcosa che va oltre l'insulto. È una condanna pubblica che si basa sul nulla. Se ti danno dell'antisemita e non lo sei chi lo fa ne paga le conseguenze. Questo non vale se chi subisce l'infamia si chiama Matteo Salvini.

La storia è questa. È il maggio 2018. Carlo De Benedetti è ospita del Festival della Tv di Dogliani, nella Langhe, in provincia di Cuneo. Lo intervista Lilli Gruber. Il discorso cade su Salvini e l'imprenditore piemontese non si limita a un giudizio politico, ma è un fiume in piena di livore e disprezzo. Non si ferma e passa il limite. «Salvini? È il peggio. Antisemita, xenofobo e antieuropeo». Non ha dubbi. Non spreca un forse. Non c'è un ragionamento. È l'invettiva di chi sa che in fondo colpire Salvini non è reato. La platea applaude.

Si va in tribunale. L'accusa è diffamazione. Gli avvocati di Salvini chiedono un risarcimento di 100mila euro. Le ingiurie arrivano da uno dei più noti editori italiani. Non è questo comunque il punto. Non sono i soldi. È che si possono dire tante cose di Salvini, ma che sia antisemita davvero no. È uno che è andato al confine con il Libano per manifestare contro Hezbollah e ha più volte denunciato il ritorno dell'odio verso gli ebrei che si respira anche in Europa. La sua politica estera è stata sempre filo israeliana. Non è possibile trovare una sola parola contro gli ebrei. Quella di De Benedetti è un'esplosione di odio, ma non è un buon alibi per non riconoscere la diffamazione. La pena oltretutto è simbolica. Il pubblico ministero chiede un risarcimento di 800 euro.

Il tribunale di Cuneo invece ieri lo ha assolto. Non c'è diffamazione. Non si conoscono ancora le motivazioni della sentenza, ma è stata presa per buona la tesi della difesa. De Benedetti non ha insultato Salvini in quanto uomo, ma come politico. Non c'è nulla di personale. È simbolico. È una critica alla sua politica. È come dire di Draghi che è un anti atlantista, solo che l'infamia è comunque più grave. Non è vero, ma è politica. Solo che la sentenza di Cuneo ha dal punto di vista logico delle conseguenze non da poco. Se definire Salvini antisemita non è diffamante, allora significa che il capo di un partito di maggioranza è antisemita. La Lega è antisemita. Il governo è antisemita. Abbiamo un problema. Ce lo dice un giudice di Cuneo.

Odiare Putin non è reato. Le deliranti linee guida di Zuckerberg e il diritto di offendere solo i cattivi del momento. Guia Soncini su L'Inkiesta il 12 marzo 2022.

Facebook e Instagram, svela la Reuters, permettono una deroga temporanea al divieto di offendere se le offese sono rivolte a Putin, Lukashenko o ai soldati che stanno invadendo l’Ucraina.

L’unica ragione per cui abbiamo smesso di andare in chiesa, si scopre in questi anni impazziti, è che il Vaticano non ha pensato a inventare il like, l’unico miracolo cui teniamo, più tangibile dei pani e dei pesci teorici, l’unica liturgia che ci permetta non di cibarci del corpo d’un personaggio di fantasia di duemila anni fa ma di dimostrare che abbiamo un corpo, e un’anima, e soprattutto delle opinioni.

Se il cattolicesimo fosse stato meno arretrato (scambiatevi un segno di pace, ma per favore: noi vogliamo apporci dei cuoricini), saremmo ancora tutti lì, giacché avere dogmi e guide morali ci piace tantissimo, lo confermiamo ogni giorno.

Giovedì, per esempio, la Reuters ha raccontato che Facebook, che ogni giorno ci mette in castigo se diciamo cose come «ricchione» a un vecchio amico con cui condividiamo codici comunicativi ignoti agli impiegati di Zuckerberg, adesso ha deciso che dopo aver fatto le regole fa anche le eccezioni.

Quindi il safe place, il posto in cui nessuno si deve sentire messo a disagio figuriamoci in pericolo, in cui è fatto divieto di mettere in discussione le identità percepite figuriamoci quelle reali, è un po’ meno safe se sei russo. Se sei russo posso minacciarti. Sembra una puntata di Black Mirror, e invece.

«Secondo alcune email interne di cui ha preso visione la Reuters, e in deroga temporanea alle proprie politiche sui discorsi d’odio». Non è la frase più bella del mondo? Se domani un gruppo di donne francesi fa un attentato posso scrivere che le francesi sono tutte troie senza che Facebook mi metta in castigo, impedendomi quel diritto umano che è il like? Col razzismo come siamo messi, Bin Laden lo giustifica, in deroga? Commenti etnici su Saddam Hussein ma più in generale su chiunque venga dall’Iraq sono consentiti, in deroga?

«L’azienda di social network sta anche temporaneamente consentendo alcuni post che invocano la morte di Putin o di Lukashenko, secondo alcune email interne dirette ai moderatori di contenuti». Quel «temporaneamente» m’incanta, sento che lì dentro c’è il grande romanzo postmoderno. La scadenza è nota? Se domani firmano una tregua e i poveri utenti non se ne accorgono per tempo, si ritrovano tutti in esilio dalle piattaforme, banditi dalla possibilità di cuoricinare il cognato perché hanno dato del pompinaro sdentato che deve morire a quel Vladimir che un minuto prima era un criminale ma adesso è una creatura fragile che ha diritto di scorrere il proprio profilo Facebook senza turbarsi?

Le specifiche sono altrettanto incantevoli. Se infatti volete minacciare Putin di morte senza che vi venga impedito di postare i vostri penzierini per giorni, dovete attenervi alle linee guida della deroga. Che, ricopia la Reuters dalle mail interne, dicono che la minaccia non dev’essere una minaccia dettagliata. Non deve, cioè, contenere due o più specifiche. Se dite voglio tagliare la testa a Putin con una roncola sulla piazza Rossa, vi mettono in castigo: c’è la specifica di metodo e quella di luogo (non me lo sto inventando, non ci credo neanch’io ma parla proprio di due specifiche). Ma se dite solo «voglio ammazzarlo domani alle otto» va bene: c’è solo la specifica temporale.

L’ambasciata russa a Washington ha – cosa mi tocca dire – dato una risposta molto più razionale e lucida e liberale di quanto lo siano i dirigenti di Meta (adesso Facebook e Instagram si chiamano Meta, come sapete), ma soprattutto di quanto lo siamo noi, che ci facciamo dare regole su quali parole usare e non usare come fossimo cinquenni con genitori severi, col terrore che ci mandino in camera nostra senza più la possibilità di farci mettere i cuoricini da amici e sconosciuti sulle foto della pizza.

Dice la risposta dell’ambasciata: «Gli utilizzatori di Facebook e Instagram non hanno dato ai proprietari di queste piattaforme il diritto di determinare i criteri di verità». Avete ragione, cari diplomatici russi. Anche perché, come dire, l’algoritmo saprà pure tutto di noi, ma è pur sempre quello che ci consiglia di leggere l’articolo che stiamo per twittare perché non gli risulta che l’abbiamo letto – ignaro che l’abbiamo scritto. O che con squisita ottusità censura Helmut Newton o Michelangelo ritenendo siano immagini uguali al porno amatoriale di vostra cognata.

Come possono piattaforme così strutturalmente fesse mettere in piedi linee guida che pretendono d’essere sofisticate? Certo che si possono minacciare i soldati russi, spiega un’email copiata dalla Reuters, ma solo perché in realtà lo si fa intendendo minacciare genericamente l’invasore, quando si è popolazioni stressate dalla guerra (c’è, giuro, una lista di nazionalità autorizzate a minacciare i russi in deroga; incredibilmente, la lista non include i milanesi che giurano di non dormire per la preoccupazione bellica). E comunque, specifica sempre la delirante email, non si possono minacciare quei soldati russi che siano prigionieri di guerra. Voglio proprio vedere i controllori che vagliano un post alla volta per approfondire se Tizior Tiziokov, di cui un utente si augura il decesso stasera alle sette meno un quarto, sia prigioniero di guerra o no.

Il problema siamo noi, che non vediamo l’ora di trovare religioni prescrittive da rispettare, che siamo contenti se ci trattano come cinquenni. Una non vorrebbe citare «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari» e quel che segue, perché è tra le citazioni più banali che si possano fare. Però ti ci costringono quando, come un mio conoscente ieri su Facebook, esultano perché Facebook ti tratta come un bambino scemo e ti dice su che articoli cliccare e su quali no: «Questo link è di un editore che Facebook ritiene possa essere totalmente o parzialmente sotto il controllo editoriale del governo russo». Prima decidono chi sono i cattivi, e ne siamo contenti perché siamo sicurissimi che noi siamo e saremo sempre i buoni. È ovvio che sia e sarà sempre così, no? Quindi diamo l’unica copia delle chiavi della morale a dei miliardari in dollari, e – purché non ci vietino l’accesso ai cuoricini – lasciamo che decidano chi sì e chi no. Cosa potrà mai andar storto.

Claudia Osmetti per “Libero Quotidiano” il 10 marzo 2022.

Non è una questione politica e le bandiere di partito, qui, c'entrano fino a un certo punto. Nel senso che sì, è vero, a farne le spese, e far uscire il dibattito, è stata Nadia Conticelli, che è una consigliera (anzi, proprio la capogruppo del Pd) al Comune di Torino. 

Però gli odiatori seriali, quei leoni da tastiera che dietro a un computer ruggiscono le peggio cose che uno manco s'immagina e poi, magari, se li incontri per strada, sono più timidi di un agnellino al pascolo, non hanno un colore.

Colpiscono a destra, a sinistra, pure al centro. L'importante (per loro) è macinare commenti al limite della querela. Ecco, appunto: al limite. Perché Conticelli, quando s'è trovata a dover fronteggiare i poco amichevoli insultatori della rete, ha deciso di portarli in tribunale. 

Ché, ammettiamolo, non se ne può più. Ma non c'è riuscita perché, quattro anni dopo i fatti, la procura piemontese ha chiesto l'archiviazione della sua inchiesta. Una-brutta-storia-però-son-cafoni-mica-delinquenti. Andiamo per gradi.

È il 2018: i grandi complottisti del www se la prendono già con BigPharma (e non sanno cosa li aspetta), mentre lei, Conticelli, che all'epoca è eletta in Regione e non al Municipio, pubblica un commento sull'immigrazione che oggi non possiamo leggere epperò non fatichiamo a intuire sia poco tenero nei confronti di quel Matteo Salvini che, sempre all'epoca, oltre a essere il segretario della Lega, fa anche il ministro degli Interni con lo slogan "porti chiusi".

Fin qui, normale dialettica politica: di quella moderna, fatta a colpi di social. Il problema nasce quando il post comincia a far prudere il ditino agli irriducibili "haters". Lo ribadiamo, ce ne stanno da tutte le parti. Questa volta si accaniscono contro Conticelli e la sommergono di risposte il cui tenore suona più o meno (anzi no, esattamente) così: «Lurida troia»; «spero che i clandestini stuprino te e le tue figlie». «Dategli un vibratore».

Diciamocelo subito, altrimenti i soliti benpensanti saltano sulla sedia: non si fa. Non è solo sbagliato, è anche stupido: in un mondo in cui, con due click, si può risalire praticamente a chiunque e basta smanettare un attimo su un pc per mettere da parte un faldone di prove da portare a un giudice, sarebbe meglio pensarci due volte. 

Ma loro (sempre gli odiatori seriali di cui sopra) proprio non resistono. Conticelli segnala tutto, fa foto di tutto, registra tutto. Bussa alla porta dell'autorità giudiziaria e poi aspetta. Passano quattro anni (che la giustizia, in questo Paese, non viaggi su un percorso di Formula1 lo sappiamo bene), arriviamo ai giorni nostri e le recapitano una comunicazione dal tribunale.

Sopra c'è scritto che il caso è da considerarsi archiviato, cioè non si andrà nemmeno a processo, perché gli insulti che ha ricevuto non sono una violazione del Codice penale bensì «frasi inurbane e molto maleducate». 

Su questo non ci piove, ma la dem replica a sua volta: adesso «scopriamo con rabbia incredula che gli insulti a sfondo sessuale rivolti alle donne sono una questione di educazione e non un reato».

Non ci sta Conticelli e scrive una lunga lettera aperta nella quale si sfoga e si toglie più di un sassolino dalle scarpe. Purtroppo casi come il suo sono sempre più frequenti perché viviamo in una realtà che è sempre più digitale e di cretini in giro ce n'erano già abbastanza prima, quando si riunivano al bar e potevi anche non sentirli confabulare, figuriamoci oggi, che internet amplifica come un megafono qualsiasi discussione.

Semmai la decisione dei pm torinesi è rilevante da un punto di vista, diciamo così, del diritto: perché fissa un principio, quello che nei meandri del web non ci sia spazio per reati "appositi".

La diffamazione (articolo 595) si concretizza quando si offende l'altrui reputazione e quando a sentire la frase ingiuriante ci sono più di due persone: coi social è pacifico che sia così. 

Però, sembra di capire, dipende da cosa si dice, da come lo si dice e in che modo lo si dice. Come succede a computer spenti. Insomma, il confine tra insulto e maleducazione non scatta automaticamente quando uno si collega alla banda larga.

Il contraltare, invece, è che l'altra faccia della medaglia finisca per portare un messaggio da liberi-tutti: sarà villanìa, sarà scostumatezza o sarà pure che qualcuno ci prova giusto per vedere (più o meno di nascosto) l'effetto che fa, ma non dobbiamo cedere e pensare che su Twitter o Instagram o quel che è, sia concesso dire la qualunque. Non funziona così.

L’epidemia dell’odio: nell’ultimo anno 1.379 aggressioni razziste, omotransfobiche, antisemite e abiliste. Pugni, calci, insulti. Gli episodi sono in forte aumento rispetto al 2020 e a farla da padrone sono le violenze fisiche. «C’è rassegnazione, quasi sfiducia verso le istituzioni: serpeggia la convinzione che qualsiasi denuncia sarà inefficace» segnala l’Unar. Simone Alliva su L'Espresso il 16 febbraio 2022.

Il mese è quello di maggio 2021, primi segni di “ritorno alla normalità”. Fine dei lockdown e locali che riaprono. Zaihra, ragazza trans di 21 anni, aspetta una sua amica in piazza Currò, centro di ritrovo per i giovani catanesi. Un ragazzo la fissa mentre lei parla al telefono. Poi le si avvicina e le sferra un pugno in faccia. Sviene e nessuno interviene. Occhio gonfio e mascella rotta.

Nel mese di ottobre a Roma il quartiere di San Lorenzo ritorna a pulsare tra bar e discoteche, Jamilton, romano di 26 anni con origini brasiliane esce da un locale verso le 2 di notte, saluta gli amici e si avvia verso la macchina. Prima gli insulti: «Guarda se sto negro de merda m'ha rubato er cellulare, mo lo pisto». Poi un branco di quattro uomini lo circondano, gli spaccano una bottiglia in testa e lo massacrano intonando in coro: «Brutto negro».

Omotransfobia, razzismo, abilismo, antisemitismo le voci che si uniscono per denunciare il clima di violenza montante vengono raccolte dall’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali della Presidenza del Consiglio). Da 913 episodi di discriminazione del 2020, si è passati a 1.379. Con un dettaglio non da poco conto: i dati visionati e pubblicati in anteprima da L’Espresso registrano un balzo di aggressioni fisiche rispetto all’anno precedente.

Con le “riaperture” si preferiscono calci e pugni all’offesa: l’odio virtuale scende dal 34% al 17%, Mentre salgono le aggressioni fisiche: nel 2020 erano il 65 per cento (soprattutto tra le mura domestiche), nel fanno un balzo e toccano l’82 per cento.

La discriminazione abbandona il virtuale e torna a sommergere la vita reale delle persone, nelle loro relazioni familiari e di vicinato, nei luoghi che frequentano o dai quali vengono allontanati o preclusi. Figli buttati fuori casa per via del proprio orientamento sessuale o identità di genere, cittadini insultati e picchiati per strada per il colore della pelle. E ancora manifesti, striscioni, cartelli, scritte sui muri che illuminano la guerra invisibile alle minoranze.

La piramide dell’odio tracciata dall’UNAR mette al primo posto le persone aggredite per motivi etnico-razziali: il 2021 ha registrato 709 casi rispetto ai 545 del 2020. Di queste 499 vittime sono straniere. Seguono poi le persone aggredite per il “colore della pelle” (137), a cui vengono rivolti insulti che ricalcano un copione rigido e caro al vocabolario razzista: «negro di merda», «marocchino di merda», «clandestino», «vattene», «ritorna da dove sei venuto». Parole manifesto del sentimento di odio e pregiudizio di inferiorità basato sulla “razza”.

Sono invece 241 i casi denunciati di discriminazioni per “Religione o convinzioni personali”, rispetto ai 183 del 2020. In Italia è l’antisemitismo a crescere a dismisura. Si contano 170 casi rispetto agli 89 del 2020. Una recrudescenza del pregiudizio antisemita, oggi come in passato, che si esprime in forme cospiratorie, additando nelle persone di religione ebraica qualsiasi colpa. Già il rapporto della Wzo, l'Organizzazione sionista mondiale, e dell'Agenzia ebraica per Israele, aveva sottolineato come il 2021 fosse stato l'anno più antisemita dell'ultimo decennio.

Per l’Italia la conferma della tendenza arriva dall’UNAR. L’anno iniziato con insulti e minacce alla senatrice a vita Liliana Segre è proseguito con la diffusione di teorie complottiste sulla pandemia e vaccini dalle pagine social. Si è arrivati alle manifestazioni no-vax, con cartelli antisemiti. Ci sono poi le testimonianze delle aggressioni fisiche che sembrano far fare marcia indietro nel tempo: in una importante città dell’Italia centrale, nel tardo pomeriggio, un ragazzo con indosso la kippah viene colpito da dietro con un pugno e poi uno sputo. Mentre in una scuola primaria due studenti, venuti a conoscenza delle origini ebraiche di un compagno, lo sottopongono ad una serie di molestie: facendogli il saluto fascista, tentando di disegnargli svastiche sul corpo ed aggredendolo fisicamente con calci e pugni.

Non vengono risparmiate dall’odio le persone Lgbt che, come fanno notare dall’Ufficio Antidiscriminazione della Presidenza del Consiglio: scontano un’ondata di visibilità prodotta dal dibattito pubblico consumatosi nel 2021 sul ddl Zan, dentro e fuori dal Parlamento. Fake-news, stereotipi di genere e pregiudizi che si sono tradotti, nel tessuto sociale, in una vera e propria conflittualità, fatta di discriminazioni e violenze. Si registra un caso di omotransfobia ogni due giorni. Dai 93 episodi denunciati nel 2020, si è passati ai 238. Persone trans inseguite e aggredite per strada, ragazzi e ragazze costrette a terapie riparative, macchine distrutte e aggressioni fisiche a coppie colpevoli di tenersi per mano o scambiarsi un bacio pubblicamente.

È stato anche l’anno dell’abilismo, parola che rinchiude dentro tutte quelle violenze fisiche, alla proprietà e verbali perpetrate ai danni delle persone con disabilità. Il 2020 aveva registrato una flessione delle aggressioni pari a 49 casi, con il “ritorno alla normalità” i casi di abilismo toccano la punta di 141 aggressioni. Sono dati parziali, sottolineano dall’Unar, poiché fanno riferimento solo a casi denunciati oppure segnalati dalla stampa. Lo scenario, dunque, potrebbe essere peggiore.

«I dati ci dicono che l’anno trascorso sconta la rabbia accumulata e la paura dell’anno precedente. Con le maggiori aperture c’è stata una ripresa della circolazione delle persone e un aumento delle aggressioni fisiche» spiega Triantafillos Loukarelis, direttore Ufficio nazionale anti-discriminazione razziale. «Come Unar abbiamo due difficoltà: siamo poco conosciuti e poi c’è una rassegnazione, quasi una sfiducia verso le istituzioni: serpeggia la convinzione che qualsiasi denuncia sarà inefficace oppure addirittura controproducente».

Il metodo dell’UNAR sui casi di discriminazione è preciso: una volta ricevuta la segnalazione del caso, si attiva un lavoro di verifica ed eventualmente di supporto della vittima. Non tutte le segnalazioni, dunque, vengono registrate. «Molte persone nell’ultimo ci hanno contattato perché si sentivano discriminati in quanto non vaccinati. Semplicemente temevano gli effetti dei vaccini - spiega Loukarelis - Spesso sono persone che hanno paura perché non hanno le giuste informazioni. C’è questa idea che i no-vax siano solo radicali ma non è così. Così li abbiamo indirizzati verso i servizi regionali che potevano dare tutte le informazioni necessarie per comprendere».

Fornire informazioni, supporto e orientamento è il compito dell’ufficio che nell’ultimo anno si è fatto carico di qualsiasi tipo di denuncia: «I nostri operatori specializzati si prendono carico delle segnalazioni. Spesso si può agire anche sulla base di moral suasion parlando con le istituzioni locali, ad esempio. Quando ci sono questioni che possono aver, per così dire, un riflesso giudiziario, abbiamo pronto una squadra legale pronta a trasmettere un parere».

L’Unar ci prova, in sinergia con le associazioni che lottano contro l’odio. Intanto dal Parlamento arrivano nuove rassicurazioni per una ripresa del testo di legge contro l’omotransfobia, la misoginia e l’abilismo. Potrebbero ripresentare un testo ad aprile sia Alessandro Zan del Partito Democratico alla Camera, sia Alessandra Maiorino del M5s al Senato. Fuori dai palazzi però ritorna la paura, alcuni temono più di prima e tacciono, altri dicono basta e trovano la forza di denunciare cercando sostegno. In attesa di uno scatto della politica, i cittadini fanno da sé mentre la lacerazione sociale cresce.

·        Il Ghosting: interruzione dei rapporti.

Paolo Travisi per “Il Messaggero” il 27 Febbraio 2022.

«Aspetto che mi chiami. Ci sei? Sei sparito, il mio numero lo conosci, chiamami». Potrebbero essere gli ultimi messaggi che segnano la fine di una relazione sentimentale o di un’amicizia. 

Che il legame sia di breve o lunga durata non ha importanza, è la modalità che si sta diffondendo sempre più, da quando le nostre vite sono appese ai social, ad attirare l'interesse degli psicologi.

Si chiama ghosting, questo fenomeno in preoccupante ascesa, derivato dal termine inglese, ghost, fantasma, che descrive l'interruzione di ogni forma di rapporto digitale, via chat, mail, sui social, ma anche fisica, decisa unilateralmente e senza offrire spiegazione alcuna. 

Chi è vittima del ghosting, non capisce le ragioni della sparizione, resta in un limbo di domande e supposizioni che non hanno risposta, perché l'interlocutore diventa un fantasma, scompare nel silenzio, toglie l'amicizia sui social, blocca il contatto su Whatsapp, o semplicemente ignora ogni tentativo di richiesta di chiarimento.

In realtà questo atteggiamento esiste da quando si è sviluppata la comunicazione tra esseri umani, ma è la digitalizzazione delle relazioni, delle conversazioni, dei rapporti ad aver reso il ghosting, un problema diffuso di cui ognuno può essere vittima e carnefice, ma che secondo gli studi più recenti riguarda maggiormente le donne. 

Ma come classificare il ghoster tipo, per farne un identikit? «Chi sparisce del tutto può avere un disturbo narcisistico della personalità, per cui quando una relazione non è più ritenuta interessante, anziché affrontare la situazione anche se negativa, preferisce farlo via social o chat» spiega Sabrina Molinaro, ricercatrice Cnr e responsabile studio Espad, ricerca sulle dipendenze, da alcool, tabacco e sostanze psicotrope tra i giovani.

Studi sul fenomeno descrivono il ghoster come un insicuro, un individuo che per sfuggire ai propri sensi di colpa ed alle responsabilità, preferisce sparire. Dai dati Espad, circa il 48% dei ragazzi tra i 15 e i 19 anni ha utilizzato device per connettersi a Internet per almeno il 20% della giornata; nove ragazzi su dieci, usano la rete per chattare e stare sui social, da qui si può intuire quanto il fenomeno del ghosting abbia maggiore facilità di diffondersi tra i giovani.

Infatti nella smaterializzazione digitale, si può immaginare l'altro come si vuole prima di incontrarlo, e quando prevale la fantasia le possibilità di restarne deluso sono alte. Ma quando i due mondi si sovrappongono, spesso è quello più nuovo, il virtuale a prendere il sopravvento. 

«In particolare la giovane generazione, la Z, non è abituata ad avere interconnessioni con la realtà, le loro esperienze sono molto più rapide di chi è cresciuto nell'analogico. E le esperienze fisiche possono traumatizzarle, perché magari hanno provato il virtual sex, anche molto spinto, ma non hanno mai dato un bacio. Questo significa che si dà un peso diverso alle relazioni, poiché non si è esperita la frustrazione dell'attesa dell'altro» aggiunge Marinaro.

Ma non sono solo i giovani ad essere vittime e protagoniste del ghosting, per l'adulto il discorso è lo stesso. Anche se in questo caso, forse a mancare è la consapevolezza, l'autostima o più banalmente il coraggio di rifiutare il rapporto con un amico, con la moglie o con il fidanzato. D'altronde è facile, basta non rispondere più e la pazienza con il tempo si esaurisce.

LE RIPERCUSSIONI

Ma attenzione alle ripercussioni psicologiche, perché di fatto, chi subisce le azioni del ghosting, subisce un trauma. «L'essere ghostati può comportare l'emergere di sentimenti quali tristezza, solitudine e stress soprattutto tra le ragazze perché ci si sente abbandonati, tra l'altro in modo volontario, deciso dall'altra persona.

È come sentirsi dire che non si è così importante nella vita dell'altro; ovviamente l'impatto traumatico dipende dalla solidità emotiva di una persona. Nei casi più gravi si può arrivare alla depressione, all'ansia, mentre quando in gioco ci sono i ragazzi, questo può avere un effetto pesante, che si base anche sulla solidità del sostegno ricevuto dalla famiglia» spiega ancora Marinaro.

Attenzione, dietro l'angolo c'è un altro fenomeno digitale, si chiama zombieing, in pratica chi sparisce, poi ritorna. Accade sempre sui social, ma questa è un'altra storia.

·        Gli Insulti.

Scienza, subire insulti è come prendere uno schiaffo in faccia. Federica Angeli su La Repubblica il 19 Luglio 2022.  

Secondo un articolo pubblicato su Frontiers in Communication le parole hanno un ruolo importante nelle relazioni, di qualsiasi natura esse siano

Subire insulti è come ricevere uno schiaffo in faccia, indipendentemente dal contesto preciso in cui l'insulto è fatto. Questa è la conclusione di un nuovo articolo pubblicato su Frontiers in Communication. I ricercatori hanno utilizzato l'elettroencefalografia (EEG) e le registrazioni della conduttanza cutanea, che misura la resistenza elettrica della pelle, per confrontare l'impatto a breve termine di ripetuti insulti verbali con quello di ripetute valutazioni positive o neutre.

Gli insulti fanno male, i complimenti scivolano via: come reagisce il cervello alle diverse situazioni. Danilo di Diodoro su Il Corriere della Sera il 25 Settembre 2022.  

Lo studio su 80 donne: ascoltare parole offensive ha conseguenze negative per lunghi periodi di tempo mentre gli elogi vengono presto dimenticati 

Fa molto più male, e più a lungo, ricevere un insulto, di quanto faccia piacere ricevere un complimento. È la conclusione a cui è arrivato un gruppo di ricercatori olandesi che ha rilevato l’effetto di insulti e complimenti sull’attività cerebrale e sulla conduttanza elettrica della pelle, un parametro, quest’ultimo, governato dal Sistema nervoso autonomo e che quindi rappresenta un indice dello stato emozionale. Purtroppo i complimenti vengono abbastanza presto dimenticati, se paragonati alla permanenza degli insulti e alla loro capacità di dare una vera e propria “scossa” al cervello.

Gli insulti

La ricerca è stata realizzata piazzando degli elettrodi sullo scalpo di 80 donne che si sono offerte per ricevere insulti o complimenti da una persona virtuale, mentre veniva registrata anche la loro conduttanza elettrica della pelle. Si è così potuto scoprire che la risposta cerebrale agli insulti è primariamente attivata nelle aree frontali nel volgere di una brevissima frazione di secondo, anche quando l’insulto è diretto ad altre persone. È come se a fronte dell’ascolto degli insulti il cervello entrasse in una condizione di disturbo che resta elevata per lunghi periodi di tempo.

I complimenti

Al contrario, i complimenti tendono a scivolare via, come se la mente potesse facilmente saturarsi di questo genere di espressioni. «Il nostro studio non ha chiarito se a catturare così fortemente l’attenzione del cervello sia lo specifico significato emotivo delle parole oppure la riattivazione di memorie di esperienze passate» dice Marijn Struiksma, ricercatrice linguista dell’Università di Utrecht che ha coordinato lo studio, pubblicato sulla rivista Frontiers in Communication . «Ma qualunque sia l’aspetto degli insulti che cattura l’attenzione, certamente lo fa in maniera decisamente robusta». Lo studio è stato realizzato coinvolgendo solo donne, e ricerche future potranno esplorare la risposta da parte degli uomini a insulti e complimenti, anche se, secondo gli autori, non ci sono motivi per credere che il cervello maschile debba rispondere in maniera diversa.

·        La Speranza.

Il Festival della disperazione. La speranza è un male che ci aiuta ad affrontare tutti gli altri. Ilaria Gaspari su Il Riformista il 19 Luglio 2022. 

Di modi di dire, frasi fatte, espressioni idiomatiche sulla speranza, ce n’è un sacco e una sporta. La speranza è l’ultima a morire, è la ricchezza dei poveri. Finché c’è vita c’è speranza. C’è persino un colore che la rappresenta, e per inciso è pure il mio colore preferito: il verde. Il colore dell’erba che cresce, delle foglie nuove a primavera, della natura che germoglia, dei polloni che ributtano, della vita che vince e sbandiera il suo trionfo dopo l’immobile morte apparente di inverni che paiono sterili ma sterili, invece, non sono. E il verde della speranza allora diventa un segnale, una prova che non finisce mica il mondo nel grigio delle morte stagioni; che, come alla notte segue il giorno, come alla crisi segue la soluzione, ai sei mesi in cui Persefone è agli inferi ne seguiranno poi altri sei, e saranno mesi di fioritura. In questa estate, poi, di caldo torrido e di siccità, di prati stopposi, di raccolti a rischio, il verde ci appare più che mai un miraggio, una rassicurazione. Ma siamo proprio sicuri che sia così semplice?

Guardiamolo da vicino, questo verde. È un colore su cui si addensano significati simbolici che trascendono la tenera tinta dei fili d’erba. È il colore associato alla gelosia, per esempio: mostro dagli occhi verdi che dileggia/il cibo di cui si nutre, nelle parole del perfido Iago dall’Otello di Shakespeare. Il verde è il colore dell’ambivalenza, e per una ragione piuttosto pragmatica, ovvero l’instabilità chimica della tinta. Che, virando in sfumature impreviste, per secoli ha tormentato i pittori: fino al Settecento, per creare il verde si impiegavano coloranti naturali, fin troppo volubili, anziché la ben più stabile miscela di pigmenti blu e gialli, che ha dato vita ai verdi moderni. Dunque, anche se il verde da qualche secolo non è più un grattacapo per artisti, la sapienza popolare mantiene l’antica associazione fra il colore serpentesco e i sentimenti più ambigui che essere umano conosca: l’invidia, la gelosia, ma anche, appunto, la speranza. E se vi pare che sia fuori posto, la speranza, in questo elenco, provate un po’ a pensare a quanto in effetti condivida, con il verde tormentosamente distillato in remoti ateliers, un carattere effimero, potenzialmente illusorio: come quel verde instabile, la speranza è un azzardo, è una mutevole tonalità del capriccio.

Non concede nessuna garanzia, anzi: proprio la sua bizzosa imprevedibilità offre gli appigli a cui ci intestardiamo ad attaccarci, e più ci deluderà, più modereremo le nostre pretese, pur di mantenere il fioco chiarore dell’illusione; e saremo dunque pronti ad accontentarci degli scampoli, dei ritagli, degli scarti delle speranze grandiose che ci avevano sedotti in prima battuta. Speranze di seconda mano, d’accatto, ce le faremo bastare; e ancora non sarà sufficiente, perché coltivare la speranza è come innamorarsi di un briccone inaffidabile: più ci bistratta, più ci lasciamo bistrattare, ogni volta convincendoci che cambierà, che lo cambieremo. E da ogni nuova illusione la caduta fa più male, finché non riusciamo a liberarci, a vedere le cose per come stanno davvero, a riprendere in mano la nostra vita e a mandare a quel paese il mascalzone, così finalmente saremo al sicuro, almeno finché non ne incontreremo un altro.

Che la speranza sia una passione triste, del resto, e somigli dunque più alla paura che alla gioia, non me lo sono certo inventato io: lo sostenne il grande nemico di ogni superstizione e scaramanzia, l’inarrivabile demistificatore Baruch Spinoza, che per restituire all’uomo un’idea di libertà di una chiarezza e di una razionalità quasi insostenibili, si dedicò alacremente all’impresa di dissipare il fumo delle illusioni e delle credenze più radicate e perciò più ingannevoli. Per lui, che riallaccia il suo razionalismo a una lunga tradizione stoica di allenamento a ritenersi interamente padroni, e responsabili, del proprio destino – e dunque, a non appuntare la propria attenzione, né tantomeno le proprie aspettative, a quel che non si ha in potere di realizzare – la speranza confina con il timore: per questo, come tutte le passioni tristi, ci mette nella condizione di passare da una maggiore a una minore perfezione – parola ereditata dalla scolastica, che indica il grado, l’intensità del nostro essere radicati nella realtà del mondo. Insomma, la speranza, che pure – ci illudiamo? – aiuta a vivere, immaginando un futuro più clemente, orizzontando la prospettiva delle nostre azioni, in realtà ci rende meno presenti all’impresa stessa del nostro vivere: più passivi, più ricattabili, più fiacchi.

A ben pensarci, è difficile trovare una buona obiezione da opporre alla lapidaria sentenza spinoziana. Certo, in questo periodo, in cui il futuro sembra non promettere niente di buono, dopo che per due anni e rotti ci siamo allenati a non immaginare il domani perché giorno dopo giorno, come navi disperse fra i marosi, ci sembrava di poter solo navigare a vista, ci sarebbe di grande conforto poter sperare in una svolta che riscatti le difficoltà, le fatiche; che ci ristori. Ma la difficoltà sta proprio nel dissidio fra il pessimismo della ragione, che Spinoza in qualche modo ci impone, e l’ottimismo del cuore che desidera poter credere, se non a un risarcimento, almeno alla traccia di un senso. Del resto, ben prima che Spinoza desse forma geometrica alla sua sentenza sulla speranza, la ragione mitopoietica dei Greci aveva dato vita alla storia di Pandora, nostra incauta progenitrice, che per incoercibile curiosità apre il vaso che Zeus le ha affidato senza chiederle altro che di mantenerlo sigillato, riuscendo in un mirabile esperimento di psicologia inversa e spingendola dunque a svitare il tappo proibito.

Dal vaso escono i mali che assediano l’umanità, fino ad allora immersa in uno stato di beatitudine che, chiaramente, non poteva durare: c’è sempre, nei miti cosmogonici, un’irrequietezza che viene a turbare l’ordine perfetto della vita primordiale, e forse anche in questa costante c’è una grande lezione: abbiamo bisogno di muoverci sul filo del rischio, dell’azzardo, della disperazione? Io credo di sì. Pandora, quantomeno, in questo campo si rivela decisiva: dal vaso esce ogni genere di calamità, vecchiaia e gelosia, follia, dolore, e vizio. Pur con congruo ritardo, lei si rende conto del patatrac e si affretta a richiudere l’otre: dentro, imprigionata, rimane solo la speranza.

Insomma, nel mito raccontato da Esiodo c’è un sottinteso sottile: la speranza non è di per sé una cosa buona. È un male – altrimenti, che ci farebbe, in fondo al vaso? Ma è un male che ci aiuta ad affrontare tutti gli altri, se ci adoperiamo per farne un uso il più possibile saggio: e fare un uso saggio della speranza, io credo, significa non permetterle di trasformarsi in superstizione, mantenersi responsabili di quello che, nella nostra vita, dipende da noi e solo da noi; e, insieme, rendersi conto che proprio perché siamo esseri umani, imperfetti, instabili, assediati dai mali cui ci ha condannati la curiosa e imprudente Pandora – decisamente una di noi – possiamo approfittare della grazia della speranza per sorridere un poco anche della nostra disperazione. Ilaria Gaspari

·        Il Dialogo.

Che cos’è il dialogo. Mariella Palazzolo, Lobbista, su Il Riformista il 16 Febbraio 2022  

Che bello avere a che fare con le parole dei filosofi! Un vero privilegio. Edgar Morin, uno dei pensatori più brillanti dell’era contemporanea, ci ha fatto riflettere sul valore della negoziazione. Una pratica importantissima nella storia e nella contemporaneità. Abbiamo intervistato Morin per il mensile di Telos A&S e abbiamo trovato le sue parole estremamente attuali, immediatamente applicabili alla realtà odierna. 

In un’intervista di Repubblica sulla crisi in Ucraina, l’ex direttore della Cia James Woolsey parla esattamente di negoziazione: “Putin si è cacciato in un vicolo cieco, però noi dobbiamo aiutarlo a venirne fuori. Per riuscirci servono due cose: primo, l’alleanza occidentale deve restare molto unita nel minacciare le conseguenze più dure possibili in caso di invasione; secondo, possiamo offrire una soluzione che gli consenta di salvare la faccia, senza chiudere ufficialmente la porta all’ingresso dell’Ucraina nella Nato, ma rinviandolo a tempo indeterminato” (15 febbraio 2022). Dalle parole di Woolsey emerge un concetto fondamentale alla base della negoziazione: il rispetto per la controparte, alla quale deve essere sempre lasciata la possibilità di uscire dalla trattativa con onore.

Ritrovo questo principio nelle parole di Morin, che introduce il concetto del barbaro. È semplice: fino a quando consideriamo l’altro inferiore, è impossibile una negoziazione che porti a un risultato utile: “Il vero dialogo è quando si riconosce la stessa dignità nell’altro”. È una verità a volte dura da mandare giù. Ci sono personaggi che difficilmente riusciamo a non considerare barbari ma, se vogliamo negoziare, dobbiamo farlo alla pari. Questo non vuol dire farsi risucchiare dagli avvitamenti del nichilismo o del relativismo, ma cercare di ottenere un risultato pratico, che può nascere solo dal dialogo. E chi dice che la filosofia non serve a niente perché è lontana dalla vita di tutti i giorni sbaglia di grosso.

·        Il Silenzio.

Metafore miserevoli. Il silenzio irreale e assordante di chi ha un vocabolario mentale povero. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 21 Marzo 2022.

È vero che il rumore oggi è così onnipervasivo nella nostra società che una sua totale assenza può apparirci indescrivibile, ma non è un buon motivo per usare espressioni a sproposito. Il linguaggio dell’informazione fa scorpacciate di automatismi, iperboli, frasi fatte (e a effetto) 

“Sono seduto in cima a un paracarro / e sto pensando agli affari miei / tra una moto e l’altra c’è un gran silenzio / che descriverti non saprei”. Paolo Conte, quando intonava Bartali, confessava onestamente la propria impotenza. In televisione come alla radio e sui giornali, e per contagio ormai anche nel parlato comune, invece, il dubbio non si pone. Il silenzio si può descrivere benissimo. A scelta, con uno di questi due aggettivi: o irreale o assordante.

Che cosa sia un “silenzio irreale” qualcuno ce lo dovrebbe spiegare. O non ci sono suoni, e allora c’è il silenzio, un silenzio effettivo, reale; oppure qualche suono c’è, magari anche fragoroso, e allora non c’è il silenzio. Un silenzio irreale è un silenzio che non c’è, e quindi non è silenzio ma rumore. È vero, esiste anche un suono del silenzio, come cantavano tanti anni fa Simon & Garfunkel, ma quello è un’altra cosa, qualcosa che si sente con la mente e non con le orecchie. 

Ed è vero altresì che il rumore è oggi così onnipervasivo che una sua totale assenza può apparirci irreale; sebbene per qualche estatico istante se ne possa ancora godere, in alta montagna, in un deserto non battuto dal vento, in una notte fuori dei centri urbani (ma si è dato anche in città, nelle fasi iniziali e più rigide del primo lockdown): sono i momenti a cui ha fatto una volta allusione Khalil Gibran, quelli in cui il silenzio inizia a raccontare (ma, di nuovo, a farlo silenziosamente). E certo esiste anche l’uso enfatico, per cui un silenzio irreale è un silenzio inatteso, sorprendente, impressionante, teso, sospeso, magari anche vibrante di inesprimibili emozioni, come quello di una folla improvvisamente azzittita (ma allora perché non utilizzare uno di questi o anche altri aggettivi acconci? Domanda retorica, bisognerebbe essere in possesso di un vocabolario mentale appena un po’ più abbiente).

Altro discorso merita il “silenzio assordante”: pregnante ossimoro partorito un giorno da qualche mente ispirata – per significare l’insensibilità e l’indifferenza di fronte a una situazione che dovrebbe invece smuovere le coscienze, indurre a fare qualcosa, almeno a gridare la propria fremente indignazione – ma da quel dì stucchevolmente ripetuto in ogni occasione, senza neppure la sottolineatura tonale che si conferisce alle immagini ricercatamente inconsuete. E un ossimoro ripetuto si logora, cessando di essere pregnante per diventare ridicolo.

Ma lo sprezzo del ridicolo non sembra allignare, in questi tempi (anche) linguisticamente calamitosi. E si verifica un fatto curioso: che l’abitudine a associarvi uno dei due aggettivi anzidetti ha reso quasi impossibile pronunciare la parola silenzio senza farla seguire o precedere da un aggettivo quale che sia, ove si tenti di sfuggire all’automatismo binario di irreale/assordante. Tanto che – giuro – a me è capito di sentire “un tacito silenzio”, e anche “un silenzio ammutolito”, ridondanze tautologiche che hanno se non altro il pregio di contraddire il silenzio assordante.

Di automatismi, frasi fatte, frasi a effetto, iperboli, metafore miserevoli il linguaggio dell’informazione fa scorpacciate: un edificio o un artefatto uscito dalle cure dei restauratori “torna all’antico splendore”, i resti di una persona scomparsa rinvenuti in capo a lunghe ricerche sono “poveri resti”, la fuga in auto di criminali inseguiti dalla polizia è una “folle corsa”, dopo un incidente stradale le vittime vengono estratte dalle “lamiere contorte”, un’aggressione è sempre “brutale”, un delitto “efferato”, la violenza “inaudita”, i processi alla criminalità organizzata sono “megaprocessi” con “supertestimoni” e le sentenze che per eccesso o per difetto disattendono le attese sono invariabilmente “sentenze shock”. Ah, e durante le pause di una manifestazione sportiva, in televisione, vanno in onda i “superspot”.

Ma il luogo comune – se possibile – più cretino di tutti è la “perdita dell’innocenza”. L’America ha perso la sua innocenza con la guerra in Vietnam, ma poi l’ha ripersa con l’11 Settembre – e chissà che non l’avesse già persa nel ’41 a Pearl Harbor (personalmente tendo a credere che abbia cominciato a perderla fin dalla Guerra di Secessione, se non prima ancora con l’espansione occidentale dei coloni ai danni dei nativi). L’Italia ha perso sua innocenza negli Anni di piombo, e chissà quante altre volte prima e dopo di allora – ammesso che sia mai stata innocente. Ma quale innocenza, poi? Dalla Bibbia sappiamo che l’umanità ha perso l’innocenza nel momento in cui Eva ha assaporato il frutto proibito, ma questa è un’altra storia. Eppure, periodicamente, la perdita dell’innocenza ritorna sui giornali e nelle gravi riflessioni di infestanti commentatori da talk show.

Non c’è scampo. Come un pavesiano vizio assurdo, la tentazione delle frasi logore, che non dicono (più) niente, ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, assordante. Sono anche questi i guasti di un cattivo modo di fare informazione: non quello – ovviamente il più nefasto – che diffonde notizie false, incomplete, non verificate, e a volte non si fa scrupolo di alimentare campagne denigratorie; ma quello che procede col pilota automatico, non si interroga sul significato delle parole, e nondimeno pretende di sfoggiare strumenti retorici che non padroneggia. Si chiama sindrome dello scrittore mancato, in cui si riverbera la frustrazione di quanti, anziché raccontare, semplicemente e chiaramente, i fatti, e segnatamente i fattacci, li sfruttano come occasioni per dare la stura alle proprie velleità letterarie incomprese. Ma se è vero che tanti grandi scrittori sono stati (spesso grandi) giornalisti, bisogna pure riconoscere che non tutti i (magari grandi) giornalisti diventano anche grandi scrittori. A ognuno il suo mestiere.

Mettiamoci il cuore in pace: scenderemo nel gorgo assordati.

·        I Bugiardi.

Daniela Mastromattei per “Libero quotidiano” il 5 dicembre 2022.

«Ci sono persone così dipendenti dall'esagerazione che non possono dire la verità senza mentire», sosteneva l'umorista americano Josh Billings, particolarmente sensibile all'arte dell'inganno tanto da suggerire: se non sai fingere, imbrogliare e rubare, rivolgi la tua attenzione alla politica e impara. 

Poiché «un buon politico è chi sa mentire, un grande politico chi finisce col credere alle proprie menzogne», direbbe Roberto Gervaso. In fondo che sarà mai una piccola inesattezza, anzi, talvolta ci risparmia tonnellate di spiegazioni, parafrasando lo scrittore inglese Hector Hugh Munro. La verità è che «la società può esistere solo su una base di cortesi bugie e a patto che nessuno dica esattamente quello che pensa», per usare le parole di Lin Yutang, autore dell'Importanza di vivere.

Siamo in un mondo in cui non sempre sono ben viste le idee che si discostano da quelle della maggioranza. Ecco perché la (sopravvalutata) sincerità oggi rischia di finire nel frullatore di una società pronta a criticare e deridere chi la pensa diversamente, chi non si allinea al pensiero comune. 

Una società che spinge a essere tutti un po' pinocchi, sudditi ideali e contenti di vivacchiare, portati a credere che proprio nella passività, che spesso coincide con la finzione, possano dare il meglio di sé. E allora perché rischiare l'isolamento, e non solo, per urlare: «Il re è nudo». 

In fondo si è predisposti alla menzogna. Si comincia a mentire intorno ai quattro anni, dicono gli esperti, anche se i più svegli iniziano a "imbrogliare" ancor prima, perché sviluppano in anticipo «la capacità di attribuire agli altri e a se stessi stati mentali oltre che intenzioni, conoscenze e desideri».

Nell'apprendere l'arte dell'inganno i bambini migliorano i processi mentali di ordine superiore, che sovrintendono ai comportamenti pianificati, orientati all'obiettivo ed efficaci. Insomma, si comincia a raccontare bugie appena si percepisce lo stato mentale della persona a cui sono dirette. 

All'inizio i piccoli nascondono il loro comportamento, nel tentativo di evitare conseguenze negative. Tuttavia, la capacità complessiva di ingannare gli altri «rappresenta un passo fondamentale nello sviluppo cognitivo e morale». I bimbi non mentirebbero solo nel proprio interesse, ma anche per altruismo. 

Crescendo, spiega la psicologa Mareike Heinrich che collabora con il Centro di ricerca sullo sviluppo cognitivo e culturale dell'Università di Amburgo, «i bambini tengono maggiormente in considerazione i sentimenti e i bisogni dei loro simili. Si prendono le colpe oppure mentono per non ferire i sentimenti degli altri, o per essere gentili. In questo modo sfruttano la bugia come strategia per agire sui rapporti sociali».

Quando il nipotino riceve dal nonno un regalo costoso che non è esattamente il gioco della Playstation tanto desiderato, sarebbe scortese non mostrare un minimo di felicità. «Le bugie prosociali si possono considerare un meccanismo adattivo grazie al quale i bambini apprendono importanti regole sociali della comunicazione interpersonale», aggiunge la Heinrich.

E crescendo le tecniche si affinano nella società dove «mente chi pensa una cosa e afferma con le parole o con qualunque mezzo di espressione qualcosa di diverso», come asseriva Sant' Agostino spiegando che la falsità dipende dall'intenzione, dal pensare una cosa e dirne un'altra. E dunque raccontare una "balla" essendo convinti che la ricostruzione storica sia quella giusta è sì una bugia ma non è da bugiardi.

A giustificare e sollecitare falsità ci ha pensato invece lo spregiudicato Niccolò Machiavelli con la sua sintesi lapidaria: «Il fine giustifica i mezzi». Un monito che vantano spesso e volentieri uomini (e donne) al comando. 

«Si mente per molte ragioni» dice la psicoterapeuta Emma Cosma «per difesa, per paura, per insicurezza. Di sicuro il bugiardo con esperienza ha in genere molto self control, in particolare non si tradisce dal comportamento del corpo e dunque guarda fisso negli occhi l'interlocutore, appare rilassato, tiene sotto controllo le mani, usa lo stesso tono di voce per tutta la conversazione e non sorride troppo». Ma si raccontano frottole anche quando la menzogna è più bella, più affascinante, più comoda o più conveniente della realtà. E allora sì che bisogna essere convincenti. Il pinocchio di turno ostenta una vita perfetta, si presenta come un vincente (ma fa fatica ad apparire empatico).

Mostra sicurezza, e si sente ricco di immaginazione e intelligenza, e spesso un filo (anche più di uno) sopra agli altri. Facile quando si è abituati a "recitare" e si è costruita una vita sulle fandonie. Un'abilità quella del contaballe che si apprende in fretta (se proprio ci tenete) con qualche tecnica. All'inizio, spiegano i bugiardi di professione, restate quanto più possibile aderenti alla realtà, mentendo solo su aspetti marginali che si confondono con la verità che ci costruite intorno.

E se vivete nel terrore di essere scoperti, allora non vi resta che affidarvi alla tecnica del suggerimento mentale, ossia autoconvincetevi che la bugia che raccontate non è una bugia, ma la verità (somiglia molto allo stile adottato in tempo di pandemia per rifilarci "balle"... quante ne abbiamo sentite...). Poi, concludono gli esperti, «ripetete nella vostra testa più volte la storia inventata, immaginando ogni scena, e infine ditevi che è accaduta veramente».

Sarete in grado di affondare la verità in un mare di falsità fino al punto che il vostro cervello si confonderà e non farà più distinzione fra realtà e finzione (buon divertimento). Così vengono istruiti anche certi venditori... Lo scrittore Albert Camus nel suo libro La Caduta (uscito nel 1956) divideva gli esseri umani in tre categorie: quelli che preferiscono non avere niente da nascondere piuttosto che essere obbligati a mentire, quelli che preferiscono mentire che non aver niente da nascondere e gli ultimi quelli che amano sia mentire sia nascondere. E voi a quale appartenete?

Laura Goertzel per nationalgeographic.it il 25 febbraio 2022.

Jamie Goldfarb aveva appena finito di leggere l'ultimo libro della buonanotte al figlio di tre anni, Kai, quando il piccolo le ha confessato di avere fame. 

La mamma, di Takoma Park, nel Maryland, era solita assecondare questo tipo di richieste, dal momento che Kai era un bambino difficile per l’alimentazione. Ma questa volta, mentre scendeva al piano di sotto per prendere una banana, lo aveva sentito sussurrare sottovoce: «È così che otterrai un quarto libro».

Goldfarb era rimasta sbalordita dal fatto che il suo dolce bimbo le avesse detto una bugia bella e buona, ma in questo caso gli esperti ci spiegano che Kai era semplicemente impegnato in un sofisticato ragionamento cognitivo al fine di ottenere la sua lettura extra. E, secondo gli studiosi, l’attività di mentire comincia non appena un bambino inizia a sviluppare empatia, ragionamento e autocontrollo. 

Verso l’età di due anni, infatti, i bambini iniziano a maturare un senso del sé, riconoscendo di essere indipendenti dagli altri. E questo significa che possono anche iniziare a comprendere le emozioni umane - e di conseguenza a manipolarle. Gli esperti definiscono questa dinamica "teoria della mente", ovvero la capacità di agire prevedendo le idee, i desideri e le azioni altrui.

«I bambini iniziano a comprendere di essere, almeno mentalmente, indipendenti dai loro genitori. Ad esempio - alla mamma piacciono i broccoli, a me la cioccolata», afferma Kang Lee, psicologo presso l'Università di Toronto che ha studiato il connubio bambini e bugie per oltre 30 anni. «Comprendere che persone diverse nutrono desideri diversi è molto importante. Da lì, un bambino può iniziare a pensare: “La mamma sa qualcosa che io non so, ma io so qualcosa che la mamma non sa”».

Sebbene possa spaventare i genitori, la capacità di mentire in realtà rappresenta un ottimo allenamento per lo sviluppo cerebrale. E man mano che il cervello di un bambino si sviluppa, lo stesso accade anche al tipo di bugie che i piccoli riescono a elaborare. Qui vi spieghiamo dove potrebbe trovarsi vostro figlio lungo la “classifica di Pinocchio” - e vi sveliamo alcuni consigli degli esperti su come affrontare i vostri piccoli bugiardi. 

La scienza delle bugie

Sebbene gli esperti concordino sul fatto che non ci sia un'area cerebrale specifica dedicata all’elaborazione delle bugie, esistono alcune regioni del cervello che sono impegnate durante la costruzione di una menzogna. «La corteccia prefrontale è coinvolta nell’esercizio dell’autocontrollo», spiega Lee. «Mentre l'area parietale è interessata nei ragionamenti sugli stati mentali delle persone».

Il cervello deve anche destreggiarsi tra emozioni, ricordi e conoscenza di un altro individuo, oltre a riflettere sui percorsi alternativi che quella bugia potrebbe prendere. Dunque, «si tratta di un'intera rete di interazioni complesse», afferma Mary Helen Immordino-Yang, professoressa di educazione, psicologia e neuroscienze presso la University of Southern California. 

Ed è per questo che la capacità di mentire si sviluppa nel tempo, di pari passo con lo sviluppo del giovane cervello. 

All’età di circa due anni, un bambino probabilmente racconterà la sua prima bugia per evitare di finire nei guai - e molto probabilmente non sarà granché bravo. (Ad esempio, con il viso ricoperto di cioccolata, insisterà nel dire di non averne mangiata). Sebbene i bambini a questa età possano percepirsi come individui autonomi, in realtà ancora non padroneggiano del tutto il controllo delle loro azioni. E, dunque, i bambini molto piccoli possono spifferare la verità o iniziare a ridacchiare di fronte a genitori che mettono in discussione la loro versione dei fatti. 

«Di fatto, bisogna inibire la verità per raccontare una bugia», afferma Lee. «Immaginate di chiedere a vostro figlio di mantenere un segreto. Semplicemente non sa farlo - il suo cervello non si è ancora sviluppato a sufficienza, e non può esercitare il pieno controllo». Ai bambini piccoli può accadere di iniziare a raccontare una bugia, per poi cambiare la storia a metà frase perché non hanno la padronanza - e la resistenza mentale - per sostenere quella finzione.

Questo è forse il motivo per cui Lee ha scoperto che, se incalzati, quasi tutti i bambini molto piccoli alla fine confessano la verità. Invece, meno della metà dei bambini di tre anni ammette la bugia, molto probabilmente perché a quell’età il cervello sta iniziando a sviluppare le capacità mentali necessarie per raccontare una storia credibile - e anche per capire quando non le ha. 

I bambini più grandi, in età prescolare, tendono a mentire al fine di sembrare migliori, una dinamica che gli esperti chiamano "Bugie per la gestione delle impressioni". 

«I bambini, a volte, si ritrovano a raccontare una bugia perché vogliono l'approvazione dei loro genitori», spiega Victoria Talwar, professoressa di psicologia educativa e comportamentale presso la McGill University e autrice del libro di prossima uscita The Truth About Lying. «Magari affermano di aver fatto qualcosa che in realtà non hanno fatto semplicemente perché vogliono la nostra approvazione, oppure esagerano perché desiderano che il genitore pensi, oh wow, sei davvero incredibile!».

Talwar sottolinea, inoltre, che i bambini molto piccoli non intraprendono facilmente questo tipo di bugie perché già ritengono di essere meravigliosi. 

Quando poi i bambini iniziano la scuola elementare, i loro cervelli più sviluppati sono in grado di dare vita a bugie più complesse. Ma a quell’età i bimbi cominciano anche a sviluppare un senso di empatia e altruismo, e questo è proprio il momento in cui di solito iniziano a comparire quelle piccole bugie bianche. 

«Questo tipo di bugie si raccontano quando si tengono da conto i sentimenti dell’altra persona, specialmente in un contesto culturale in cui essere schiettamente onesti può essere visto come scortese», spiega Talwar.

Come gestire le bugie di vostro figlio

I genitori potrebbero sentirsi come se la loro fiducia fosse stata violata, nello scoprire che i figli non sono stati sinceri, ma gli esperti consigliano di evitare di rimproverarli o sminuirli definendoli bugiardi. «Questa reazione non promuoverà, necessariamente, il comportamento che voi desiderate», afferma Talwar. 

Piuttosto, Talwar suggerisce ai genitori di concentrarsi sul comportamento che vorrebbero che il loro bambino mostri, e di utilizzare un linguaggio che incoraggi la verità. Ad esempio, se vostro figlio sostiene di essersi lavato i denti, ma il suo alito racconta un'altra storia, invece di dire: «Non mentire», i genitori possono piuttosto provare con: «Leggeremo una storia dopo che ti sarai lavato i denti». 

Quando, invece, si tratta di una menzogna più complessa, gli esperti consigliano di intavolare una conversazione diretta sulla questione, dopo che gli animi si saranno placati. «Dovete aiutare quel bambino a sciogliere le sue motivazioni, le sue emozioni e le implicazioni della bugia», afferma Immordino-Yang.

Per fare un esempio, il figlio di Immordino-Yang aveva deciso di farsi un taglio di capelli piuttosto brutto, sostenendo poi per quasi due settimane di non essersi mai tagliato i capelli. La studiosa racconta di averlo aiutato a gestire la sua bugia affrontandolo prima con le prove (un ciuffo di capelli e un piccolo paio di forbici nascosti nella sua camera da letto) e poi spiegando le implicazioni: anche se i capelli sarebbero ricresciuti, non era stato sincero con le persone che si fidavano di lui. Così, per aiutarlo ad assumersi le sue responsabilità, lo ha poi incoraggiato a scusarsi con tutti quelli a cui aveva mentito. Immordino-Yang afferma che il suo calvario è stato emotivo, e che suo figlio era veramente pentito. 

Per bugie più serie come imbrogliare e rubare, invece, gli esperti suggeriscono ai genitori di fare prima un respiro profondo, e poi di avviare un dialogo aperto per capire la causa di quella bugia. Successivamente, bisogna assicurarsi di prendere provvedimenti per evitare che la dinamica si ripeta. 

Il bambino ha imbrogliato perché è preoccupato di prendere un brutto voto? Concentrate la discussione su abitudini ed etica dello studio. Il bambino ha rubato per via di una sfida o perché voleva qualcosa che non poteva permettersi? Intavolate una discussione sulla pressione da parte dei coetanei o su come risparmiare denaro. Gli esperti consigliano quindi di fare mente locale su ciò che il bambino potrebbe fare in modo diverso all’occasione successiva. 

In ogni caso, per i genitori, il modo più significativo per minimizzare le bugie nei bambini è quello di essere modelli di veridicità. Ad esempio, rifiutare la richiesta di un biscotto adducendo come scusa che sono finiti potrebbe, lì per lì, evitare un capriccio. Ma una volta che il bambino si sarà reso conto che non siete stati onesti, spiega Immordino-Yang, inizierà a credere che mentire sia il modo migliore per indurre le persone a fare ciò che vogliamo.

Talwar aggiunge di rendere l’onestà parte integrante di una conversazione sempre in corso. «I genitori devono affrontare la tematica del “dire la verità” anche in altre situazioni, non solo quando si ha a che fare con la bugia di qualcuno», afferma la studiosa. Questo potrebbe includere elogiare un bambino per essere stato sincero in una situazione difficile o richiamare l'attenzione sull'onestà di qualcun altro. («Hai visto che quell'uomo ha restituito il denaro al cassiere quando gli ha dato troppo resto?»). Questo farà passare il messaggio che l'onestà è un valore intrinseco della vostra famiglia.

La capacità di mentire - e mentire bene - è una componente fondamentale dello sviluppo sociale ed emotivo di un bambino. Ma Lee sostiene che i genitori dovrebbero sempre restare in guardia in riferimento a quei segnali in grado di indicare che un bambino ha bisogno di aiuto. 

«Se un bambino mente molto, e male, dovreste essere particolarmente preoccupati», spiega. La mancanza di rimorso dopo essere stati scoperti a mentire è un altro segnale d’allarme. Per i bambini più grandi, il mentire può essere l’indizio del fatto che sta accadendo qualcosa di più serio. (Ad esempio, un bambino che mente sul fare i compiti potrebbe effettivamente significare che ha una difficoltà con un determinato argomento).

Le bugie possono mettere sia genitori che bambini in situazioni spiacevoli, ma Lee afferma che nel corso dei suoi studi ha notato una cosa che forse potrà rincuorare un po’ tutti gli adulti: «Ho visto quasi 10.000 bambini e fatto ricerca in tutto il mondo», afferma Lee. «E non ho mai incontrato un bambino che mentirebbe di proposito per mettere qualcun altro nei guai». 

Cesare Peccarisi per il “Corriere della Sera - Salute” il 26 dicembre 2021. Le vicende della fortunata serie televisiva «Lie to me», che possiamo parafrasare con «Se menti me ne accorgo», concordano con i risultati di uno studio appena pubblicato su Brain & Behaviour dai ricercatori della Icahn Mount Sinai School of Medicine di Manhattan che fornisce la prima conferma strumentale delle pratiche clinico-psicologiche formulate da Paul Ekman della California University di San Francisco, il quale, col supporto del Dalai Lama, ha pubblicato nel 2016 l'Atlante delle Emozioni, tuttora reperibile online in varie lingue (atlasofemotions.com) indicando come non ci siano differenze culturali nelle espressioni dei sei sentimenti base universali (paura, rabbia, tristezza, gioia, disgusto e sorpresa) che lo studioso ha ritrovato tal quali anche in una tribù isolata della Papuasia.  Su queste basi il regista Adam Davidson ha costruito la serie TV.

Gelosia e disgusto

Secondo Ekman la verità è scritta nel nostro volto e lo psicologo della polizia criminale Cal Lightman, protagonista di Lie to me riesce a leggere le cosiddette microespressioni involontarie della faccia, cioè i piccoli movimenti di 40-60 millisecondi che a nostra insaputa ci sfuggono svelando il nostro reale stato d'animo. 

Se siamo arrabbiati, anche se non vogliamo farlo vedere, a smascherarci sono le nostre labbra lievemente serrate, così come sono inconfondibili gli angoli della bocca e le sopracciglia abbassate quando siamo tristi. Gli occhi si chiudono per un attimo anche quando siamo davvero sorpresi, mentre la bocca aperta per la meraviglia è un segno che può essere anche mimato. Fra tutti i sentimenti solo su due non possiamo mai mentire: la gelosia e il disgusto.

La «seconda lingua»

Oltre all'espressione faciale parla anche il linguaggio del corpo, la seconda lingua muta pilotata dal tiro alla fune mentale fra cognitività ed emotività, di cui risentono anche il tono di voce, lo stile e il contenuto verbale, tutti particolari che parlano più di quanto non diciamo. 

 Ma per chi è abituato a leggerli come fa Lightman anche grattarsi il mento, ruotare il polso, corrugare il naso o deglutire possono indicare se un sospettato sta mentendo. Spesso aiutato dalla sua valida assistente ha infatti sviluppato una capacità di riconoscimento analitico infallibile che nella finzione filmica viene sottolineato con la tecnica della slow motion, focalizzata sul particolare del volto che sta osservando per capire se chi ha di fronte mente. 

Vediamo così che, ad esempio, per pochi secondi gli occhi del sospettato ruotano a destra in basso per ricordare l'evento su cui si basa il suo alibi o, viceversa, che restano fissi perché il suo inconscio sa bene che non c'è nulla da ricordare, nonostante lui affermi il contrario. 

 Le macchine della verità

Finora nella realtà queste valutazioni erano affidate al poligrafo, la famosa macchina della verità dell'Fbi, che però arriva a stento a una certezza dell'86% perché influenzata da variabili fisiologiche come pressione sanguigna, respirazione, stress, ecc.

Altrettanto inaccurato è il sistema di tipo comunicazionale messo a punto dallo stesso Paul Ekman chiamato Facs, acronimo di Facial Action Coding System che affina la nostra innata capacità di capire in meno di 100 millisecondi se possiamo fidarci di chi incontriamo per la prima volta. Nella realtà psicologi come Lightman sono ben difficili da trovare, ma i ricercatori della Mount Sinai School di New York hanno pensato a un sistema elettronico ben più preciso sia del poligrafo che del Facs.

Particolari placchette autoadesive sono state posizionate sul volto di 48 persone (35 erano donne) con età fra 18 e 30 anni in aree importanti per i micromovimenti delle bugie: i muscoli grande zigomatico e il corrugatore del sopracciglio. L'apparecchiatura si chiama sEmg , acronimo di facial surface electromyography , cioè elettromiografia della superficie faciale. Le placchette inviavano a un computer segnali a ogni minima attivazione del muscolo interessato smascherando menzogne di cui era difficile accorgersi a vista, a meno di non essere sul set di Lie to me.

I soggetti sono stati divisi in due gruppi: il primo riceveva in una cuffia un nome di tre lettere facili da ricordare (KAV o ETZ) e poi doveva decidere se ripeterlo correttamente al partner del secondo gruppo che non l'aveva sentito oppure se dirgliene uno sbagliato, mentendo. I componenti del secondo gruppo dovevano capire se il partner del primo gruppo aveva detto la verità o se aveva mentito.

I soggetti del primo gruppo erano esortati a mentire cercando di essere convincenti e quelli del secondo a capire se erano stati ingannati. Per migliorare le prove in una seconda fase della sperimentazione chi indovinava riceveva anche un piccolo premio in denaro. I partecipanti hanno mentito in oltre la metà (50,96%) delle 28 prove effettuate e il premio monetario non ha incentivato significativamente la capacità di riconoscere l'inganno.

Differenze

Se da un lato questo studio conferma appieno la linea di ricerca di Ekman e la serie TV ispirata ai suoi studi, dall'altra la migliora, evidenziando che i micromovimenti di alcuni gruppi muscolari del volto sono indubbiamente correlati alla menzogna, ma non tutti li fanno allo stesso modo e lo stesso soggetto può farli diversamente a seconda delle situazioni. Anche all'infallibile Cal Lightman potrebbe quindi sfuggire qualche bugia che non scappa invece alla sEmg.

·        Gli stolti.

Eroe primitivo. Storia e mito di Bertoldo, il primo re degli stolti. Pietro Camporesi su L'Inkiesta il 15 Luglio 2022.

Il Saggiatore continua la ripubblicazione del corpus delle opere di Piero Camporese con il libro sul geniale villano e il racconto della sua maschera. Una trattazione della figura dal significato variopinto e della sua saga precrocesca, simboli del folclore e della letteratura italiana

Ma ciò che l’esperto delle segrete e occulte cose dei re non sapeva (o nascondeva), era che in India, lontano serbatoio di miti e di favole che attraverso i mille occulti canali dell’informazione orale penetravano nei più remoti angoli dell’Occidente, ogni anno, al tempo della luna piena di marzo, le comunità dei villaggi rurali, nella grande festa primaverile dell’amore e della fecondità, eleggevano il re della festa (il Re dello Holī) che cavalcava all’indietro, non sopra un maestoso cavallo da parata, ma su di un umile asino di campagna.

In quei giorni, l’uomo più ricco e potente del villaggio diveniva zimbello dei diseredati e dei paria, in un totale rovesciamento dell’ordine sociale che annullava in una frenetica, orgiastica sarabanda ogni distinzione fra le caste. Per purificarsi il mondo doveva contaminarsi; l’inversione dei ruoli, la confusione e la contaminazione degli strati sociali diveniva il simbolo della distruzione del vecchio, dell’espulsione del male e del rinnovamento purificatore e propiziatorio che ne derivava. Nel carnevale indiano, sotto la tutela di Krishna, ognuno recita e momentaneamente può fare esperienza del ruolo del proprio opposto; la moglie in condizione servile fa la parte del marito dominante, e viceversa; il predone fa la parte del predato; il servo fa il padrone; il nemico fa l’amico; i giovani sottoposti a restrizione fanno i reggitori dello stato.

Le libertà e le audacie di Bertoldo, buffone sovvertitore e contaminatore e, alla fine, purificatore e «oracolo» sapiente, appartengono al mondo della sovversione e della provocazione carnevalesche. Del vecchio demone agrario della fertilità (del quale permane appena qualche traccia nel «mostruoso aspetto» del villano sapiente), Croce, come ovviamente tutti i suoi contemporanei, ha perso ogni memoria, come ha perso ogni contatto col rito primitivo, con l’origine remota del suo eroe.

Tuttavia oscuri, ancestrali ricordi fermentano nella sua memoria capricciosa e tenace d’uomo che giunge dal contado e, come nel rituale dimenticato delle feste agrarie, Bertoldo può vivere l’esperienza del ruolo del suo opposto. Il «villano brutto e mostruoso» viene però sentito come un enigma vivente, possessore d’un cifrario occulto in cui la natura ha inscritto i suoi «segreti», quei segreti (i Perché) che contendevano agli oroscopi, ai pronostici, ai calendari, ai lunari l’attenzione ansiosa di principi e di popolo sempre alla ricerca del loro oscuro destino. Dello stesso seme è Bertoldo, perché «la natura suole spesse volte infondere in simili corpi mostruosi certe doti particolari che a tutti non è così larga donatrice» (p. 86): egli, dunque, è un essere fuori del comune, la cui «audacia» non viene punita (o sfugge ad ogni punizione) perché l’indovino del volgo usufruisce di poteri eccezionali (le «doti particolari»).

La sconvolgente presenza di Bertoldo a corte viene deviata ver‐ so un’inaspettata ascesa sociale culminante in una privilegiata posizione di «regio consigliere»; nonostante questa impropria soluzione, opportunistica e contraria alla liturgia dell’inversione temporanea, Bertoldo, prima del passaggio di status, recita il ruolo dell’opposto del re, dell’infimo che può sovvertire l’ordine («costui è un villano tristo e scelerato che ha il diavolo nell’ampolla e un giorno sarebbe buono per rovinare il mio stato», p. 145), del «mostro» gozzuto che fustiga con la sferza delle parole, con le randellate vertiginose dei proverbi (la libertà di parola, e della parola «bassa», turpe, oscena, attinente alla sfera fisiologica, rappresentava uno dei cardini dell’inversione carnevalesca) il «capo del villaggio», il potente della casta superiore, il signore del clan dominante

. Il buffone, re del «mondo alla rovescia», esercita il suo potere, teso, attraverso l’abbassamento e la desublimazione dell’alto e del sacro, ad affermare l’altra verità, quella non ufficiale, non feudale, non aristocratica.

“La maschera di Bertoldo“, di Pietro Camporesi, (Saggiatore), numero 4176, 32 euro

Silvia Stucchi per "Libero quotidiano" il 24 gennaio 2022.  

La stoltezza spiega spesso guerre e sciagure molto meglio delle leggi dell'economia. L'insensatezza è carente di leggi e norme: per questo gli avvenimenti sono imprevedibili al punto che politologie giornalisti sbagliano, nelle loro previsioni, molto più dei meteorologi. Insomma, mai attribuire alla cattiveria quello che, molto più semplicemente, può essere imputato alla stupidità: tale è la tesi del Breve trattato sulla stupidità umana, di Ricardo Moreno Castillo (Graphe.it, 74 pp., 9 euro).  

L'autore, professore alla facoltà di matematica all'Universidad Complutense di Madrid, qui, con stile garbato e misurato, sviscera il tema dell'umana insipienza. Ovvero: che cos' è la stupidità? Come si manifesta? Come possiamo evitare quella altrui e, cosa ancora più importante, limitare gli effetti nefasti di quella che, inevitabilmente, e in percentuali variabili, alberga in noi?  

Il trattato di Castillo parte dal presupposto che, oltre all'idiozia, anche la cattiveria ha causato catastrofi: in linea generale, se la storia è stata funestata da pericolose intelligenze perverse, la consolazione è che il malvagio, a differenza dello stupido, agisce per proprio tornaconto ben sapendo quel che fa, e i suoi piani sono comprensibili.  

Ma, come insegnava anche lo storico Carlo Maria Cipolla, se la malvagità è per lo più associata all'intelligenza, la stupidità è molto più dannosa della cattiveria: quest' ultima segue una certa logica, ed è quindi più facile combatterla, o, almeno, prevederla; lottare contro l'insipienza, invece, è molto più difficile. Inoltre, aggiungeva cinicamente Cipolla, se il tornaconto del malvagio coincide, per qualche strana alchimia, con il nostro, può anche risultare proficuo avvicinarlo. 

Senza contare che il cattivo, a volte, si riposa, e, quando è in buona, la sua intelligenza lo rende una compagnia persino piacevole: il che è impossibile se si vive con uno stupido. Una convinzione molto radicata, che l'autore contesta, è che gli stupidi siano più felici degli intelligenti, o, comunque, abbiano meno preoccupazioni: persino Voltaire scrisse a Madame du Deffand che «non saremo mai così felici come gli stolti, ma impegniamoci a esserlo a nostro modo» (lettera del 2 luglio 1754).  

Questo è tuttavia falso, nota Castillo, perché, per ogni essere, le fondamenta della felicità sono diverse, radicate in lui stesso. Per dirla con Stevenson in Lady Morals: «Che cosa può possedere un uomo odi che cosa può godere, se non di se stesso? Se ingrandisce la sua natura, ingrandirà i propri domini. Se la sua natura è felice e coraggiosa, godrà dell'universo come se fosse il suo parco e il suo frutteto». 

 In altre parole, se la felicità si costruisce con quello che ognuno può tirare fuori da sé, per gli sciocchi ciò è molto più complicato, perché la loro vacuità interiore offre molto poco materiale da cui attingere. Per cui se gli intelligenti si preoccupano di cose per le quali vale la pena crucciarsi (diciamo pure che hanno preoccupazioni intelligenti), gli stolti hanno preoccupazioni stolte, crucci che, di solito, nascono dal complicare senza motivo situazioni semplici: altra diffusa convinzione contestata dall'autore, infatti, è che semplicità sia sinonimo di stupidità.

 In realtà, esse non hanno nulla in comune. Come scrisse Oscar Wilde: «La vita non è complessa. Siamo complessi noi. La vita è semplice e la cosa semplice è la cosa giusta». Siamo noi a complicarci la vita per colpa della nostra parte stupida: quanto più grande è questa parte, tanto più ci complichiamo la vita inutilmente. 

Il saggio di Castillo spiega, con dovizia di esempi, i meccanismi mentali ricorrenti negli stupidi, primo dei quali è l'invidia, il classico sentimento con cui ci si complica la vita. Desiderare quello che non possediamo e altri hanno, premette Castillo, non è invidia: a tutti piacerebbe avere il sorriso di George Clooney, l'intelligenza di Aristotele e il patrimonio di Rockfeller, e sarebbe stupido non ammetterlo. 

Lo stupido, però, va oltre, e viene guastato dalla sua invidia, tacciando negativamente chi gli è sgradito: bolla la competenza come «elitarismo», la cultura come «pedanteria» e il carisma come protagonismo. Si dice che nella disgrazia si conoscono gli amici; ma, ammonisce l'autore, meglio ancora li si conosce nel successo: chiunque può partecipare alle sofferenze di un amico, ma bisogna possedere una natura assai bella per partecipare del suo successo, specialmente se si tratta di un successo non economico, ma di quelli personali, non condivisibili.

Il saggio di Castillo ci mette in condizione di riconoscere e di avere gli strumenti per evitare, entro certi limiti, il flagello della stupidità; ma attenzione: essa si annida dovunque. Come spiegava acutamente Umberto Eco, nel Pendolo di Foucault, al mondo ci sono gli intelligenti, gli stupidi e i matti: e se i matti e gli intelligenti si riconoscono subito ed Eco spiegava anche come farlo - lo stupido è insidiosissimo, e può arrivare persino a vincere il premio Nobel.

·        I Tirchi.

Dagotraduzione da studyfinds.com il 10 Giugno 2022.

È normale che le persone prendano una decisione di cui in seguito si pentiranno. Errori su errori. Errori di giudizio che accadono a tutti e nessuno ha il vantaggio del senno di poi. 

Ora, l’esperta Mina Mahmoudi, docente presso il Dipartimento di Economia del Rensselaer Polytechnic Institute, suggerisce una nuova spiegazione del motivo per cui gli esseri umani tendono così spesso a fare una scelta adeguata anziché quella ottimale. 

La teoria della dottoressa Mahmoudi si concentra sul pensiero relativo. 

Lei ipotizza che le persone spesso utilizzino il confronto mentre prendono una decisione quando dovrebbero davvero ragionare in termini assoluti.

Viceversa, può anche essere vero il contrario. Molte persone tendono a pensare in termini di "tutto o niente" quando sarebbe consigliabile un approccio più equilibrato. 

"Risolvere efficacemente alcuni problemi economici richiede di pensare in termini assoluti, mentre altri richiedono di pensare in termini di confronto", afferma la dottoressa Mahmoudi. 

“Poiché entrambi i tipi di pensiero sono necessari, è ragionevole ritenere che le persone sviluppino e applichino entrambi i modi di pensare. Tuttavia, è anche ragionevole aspettarsi che le persone applichino erroneamente i due tipi di pensiero, soprattutto quando hanno meno esperienza con il contesto".

Un acquisto è un acquisto, non importa quanto risparmi?

Ad esempio, se viene data la possibilità di risparmiare 5 dollari su un prodotto da 25 o risparmiare 5 dollari su un prodotto da 500, ricerche precedenti mostrano che la maggior parte delle persone sceglierà di risparmiare sull'articolo dal costo inferiore ( 25 dollari). Come mai? Bene, la maggior parte direbbe che 5 dollari di sconto su 25 sono un buon affare perché il rapporto tra costo e risparmio è più alto. 

Il Dr. Mahmoudi sostiene, tuttavia, che alla fine della giornata 5 dollari sono 5 dollari, indipendentemente dal costo di un articolo. Secondo la sua teoria, la scelta perfetta, o ottimale, sarebbe che il consumatore guardasse al risparmio assoluto e cercasse di risparmiare 5 dollari su ogni prodotto. Idealmente, un acquirente dovrebbe risolvere questo problema pensando al risparmio in assoluto. 

“Capire come le caratteristiche cognitive e motivazionali degli esseri umani  influenzino il funzionamento dei sistemi economici è di fondamentale importanza”, conclude il Dr. Mahmoudi. “ Si verificano molti comportamenti economici come l'emulazione e molte abitudini economiche come quella di fare scorte, perché le persone non possono massimizzare o perché i mercati non sono in equilibrio”.

I ricercatori affermano di poter applicare questo nuovo modello decisionale a qualsiasi numero di esperimenti economici comportamentali nel settore del gioco d'azzardo, nei mercati finanziari e in molti altri.

·        Altruismo.

Altruismo. E’ solo istinto? Cosa spinge una persona a tuffarsi per un’altra? Luca Mastrantonio su Il Corriere della Sera il 14 Agosto 2022. 

Per la scienza è un pensiero intuitivo, puro istinto di soccorso. L’abbiamo chiesto a chi ha fatto questa esperienza: a Veronesi che ne ha scritto in «Caos calmo», a Bacà che faceva il bagnino. E a Salvatore Morgera, 27 anni, che in luglio ha salvato un bimbo 

L’allenatrice americana Andrea Fuentes nuota verso la sincronetta Anita Alvarez, che ha avuto un malore durante i mondiali di nuoto di Budapest 2022

Nuotavo a pelo d’acqua, con maschera e boccaglio, dietro ai guizzi ipnotici di qualche pesce. Poi, di colpo l’azzurro mi è parso più buio, il mare più profondo, freddo. Brividi. Buttai la testa fuori, la riva non era lontana. Calma. Sapevo già nuotare e poi nello snorkeling basta lasciarsi galleggiare. Ma ebbi la pessima idea di voler capire se toccavo. Abbassai la testa, vidi il mio piede, un piccolo piede da bambino di 6 anni, fluttuare a un metro dal fondo. Panico, iniziai ad agitarmi, entrò acqua nel boccaglio, presi a bere, annaspavo... Finché sentii una mano tirarmi per i capelli, poi un braccio sotto le ascelle che mi cingeva a sé. Era zio Mino, che aveva accompagnato me e mia madre alla spiaggia di Campomarino (Taranto). Anni dopo, chiedendogli di quell’episodio, diceva di non ricordare.

Come ci si sente

Dubiterei persino io, se non fosse così vivida la memoria di un fatto di tanti anni fa, alla metà degli Ottanta. Forse è per questo che ancora oggi leggo con tanta avidità le cronache italiane dei salvataggi estivi. Non tanto di quelli dei bagnini in servizio (per tacere del lavoro umanitario di chi salva in mare i migranti), ma quelli di vacanzieri comuni, che salvano qualcuno magari per la prima volta. Cosa li spinge a rischiare la vita per salvarne un’altra? Magari di una persona sconosciuta? Coraggio, altruismo, empatia? Com’è che vince la paura e l’istinto di sopravvivenza? Cosa cambia nella vita di una persona che ne salva un’altra? Perché alcune persone salvate, o i loro genitori, a volte non ringraziano neanche i loro salvatori e spariscono? E perché questi eroi minimizzano tutto l’accaduto? Quest’anno, visivamente, la stagione dei salvataggi è iniziata il 23 giugno a Budapest ai Mondiali di nuoto.

L’apnea più lunga

Andrea Fuentes, allenatrice spagnola della squadra statunitense di nuoto sincronizzato, ha soccorso la sincronetta Anita Alvarez che aveva perso i sensi. Un salvataggio immortalato in una sequenza di scatti che sembrano un ciclo subacqueo del pittore David Hockney: tuffo in diagonale con i vestiti addosso; apnea orizzontale allungando la mano verso la nuotatrice svenuta che galleggia in posizione prona; verticale ascensione verso l’aria, la luce, forse la salvezza. «Che spavento. È avvenuto tutto in un attimo» ha raccontato Fuentes, «ho visto Anita che invece di risalire scendeva verso il fondo, ho urlato ai bagnini che però erano paralizzati, allora mi sono immediatamente gettata in acqua. Ho fatto l’apnea più lunga e veloce della mia vita, più di quando mi allenavo per le Olimpiadi». I bagnini erano fermi anche perché, per regolamento (che ci auguriamo cambi) devono attendere il segnale degli arbitri per tuffarsi. L’allenatrice ha agito di puro istinto. Istinto che ha salvato Anita.

Salvatore per caso

I salvataggi d’impeto sono una forma di «altruismo estremo», secondo la definizione dei ricercatori di Yale che nel 2o14 hanno pubblicato Risking Your Life without a Second Thought: Intuitive Decision-Making and Extreme Altruism. Indagando sui protagonisti di vari salvataggi, hanno scoperto che ci sono individui riflessivi, che gettano il cuore oltre l’ostacolo, cioè la paura, il rischio; ma la maggior parte di chi compie gesti eroici prende decisioni intuitive, non calcola proprio l’ostacolo. Prima l’azione, poi il pensiero. Esattamente quello che ha fatto Salvatore Morgera, 27enne sardo che a luglio, a Poetto, nel cagliaritano, ha sfidato il mare grosso per salvare un bambino. Stava passeggiando con la sorella sulla riva e d’improvviso la vede correre verso il mare, dove scorge un bambino in difficoltà; la sorella si tuffa in acqua, lui la segue e in poche bracciate lo raggiunge: «L’ho consegnato a una signora, la zia, che mi ha ringraziato, io ho detto “di nulla, si figuri”, e me ne sono andato». La madre l’ha contatatto poi al telefono, per ringraziarlo. Presto, pare, si vedranno. Gli chiedo cos’ha provato nel momento in cui ha deciso di tuffarsi. «Non so, sono stato educato ad aiutare, comunque ho agito secondo coscienza». In ogni frase che dice, mette la parola «comunque», come se davvero fosse un gesto comune.

Il giovane Holden, l’acchiappatore nel grano

Insisto. Parlandone poi con amici e parenti, ha capito qualcosa in più? «Io ho una nipote, piccola, forse mi sono tuffato per salvare il bambino come se fosse lei, ma l’avrei fatto per chiunque». Gli chiedo se gli sono arrivate proposte di lavoro, visto il clamore del caso e il fatto che lui è disoccupato. «No, per ora no». Potrebbe fare il bagnino. «Me l’hanno suggerito, però c’era un bagnino, in uno stabilimento vicino a dove il bimbo stava annegando. E non si è accorto di niente, sono pure andato a dirglielo, di stare più attento. Per questo non farei mai, credo, il bagnino: hai la responsabilità della vita degli altri». Salvatore mi saluta con una domanda: «Posso chiederle io una cosa? Perché mi ha contattato?». Rispondo che ho cercato sui social qualcuno che raccontasse cosa vuol dire tuffarsi in mare per salvare una persona in difficoltà e lui è stato il più veloce, anche a rispondere; aggiungo che queste storie mi appassionano da sempre, e mai come oggi ne abbiamo bisogno, per credere che esistono degli angeli custodi, degli eroi per caso, dei buoni samaritani in veste di bagnini senza licenza; perché veniamo da due anni di Covid, che ora manco va in vacanza, e poi la guerra in Ucraina, e il grano che brucia e affamerà milioni di persone, e il clima bollente, e comunque a ognuno di noi basta poco per sentirsi che gli manca l’aria, che soffoca, ed è bello sapere che c’è qualcuno che può soccorrerci, no? Qualcuno anche da imitare, che sia di ispirazione, perché solo salvando si è salvati, no? Uno sconosciuto, uno di famiglia, uno zio, una allenatrice o un passante che si tuffa e ci carica sul dorso portandoci a riva. E comunque no, non deve per forza avvenire in mare; in fondo è la storia de Il giovane Holden, il romanzo di Salinger dove il protagonista si immagina a salvare i bambini dal burrone mentre giocano nei campi di grano: il titolo originale è The Catcher in the Rye.

“Caos calmo”: nessuno si muoveva

Con un salvataggio doppio si apre Caos calmo (Bompiani), romanzo con cui Sandro Veronesi ha vinto il Premio Strega 2006. A ispirare la scena in cui il protagonista e il fratello soccorrono due donne in mare è stato un episodio autobiografico. Nel 1992 lo scrittore era in spiaggia con il fratello regista: «Io e Giovanni avevamo fatto surf, il mare non era particolarmente mosso, e c’erano queste due donne che stavano andando giù e nessuno si muoveva per aiutarle. Noi eravamo sbigottiti: ma sono tutti matti? E così ci siamo buttati». Nessuna paura di mettersi in pericolo? «No» risponde Veronesi «quello è il mare della mia vita, non ci posso morire, pensavo prima di buttarmi: “me la bevo tutta quest’acqua”, dicevo». I fratelli Veronesi, separatamente, raggiungono le due donne. E si trovano nella stessa condizione, sorprendente. «La donna che stavo cercando di aiutare» racconta lo scrittore «mi tirava giù; io dicevo “signora stia tranquilla” ma quella aveva due occhi persi, e come mi avvicinavo per provare a prenderla con le braccia, lei mi colpiva, graffiava, impedendomi di nuotare, andava giù e mi tirava con sé. Anche mio fratello, lo stesso: quando siamo arrivati a riva era pieno di graffi. Per questo, come ho scritto nel romanzo, avevo davvero avuto, la tentazione di darle una gomitata, in faccia, sennò mi affogava con lei».

Farsi vivo, con chi ti ha salvato

In spiaggia, i fratelli diventano due fantasmi. «Le due erano mezze morte, tutti si sono buttati su di loro e nessuno ci ha filato. Manco un grazie, eh! Mentre riprendevamo fiato, ci siamo resi conto che nessuno si era accorto che eravamo stati noi. La sera abbiamo raccontato quanto successo ad alcuni amici, la voce si è sparsa e ormai tutti sapevano. Però nessuno si è fatto vivo. Neanche dopo». Silenzio, per anni. Poi, nel 2005, in una trasmissione tv su Caos calmo , si palesò la donna salvata da Giovanni Veronesi: la stilista Chiara Boni, chiedeva scusa per non aver mai detto grazie. E l’altra donna? «Non si è mai fatta viva». Oggi, confessa Veronesi, non rifarebbe quello che ha fatto. Non per l’ingratitudine, no. Ma per la consapevolezza. «Ecco, se c’è una cima, un galleggiante lo rifarei, ma così, a mani nude, no. Non puoi rischiare di venire affogato da chi cerchi di salvare. Forse quelli che erano fermi sulla riva lo sapevano, che è meglio non tuffarsi. Lo sapevano tutti, tranne me e Giovanni».

Bacò, scrittore ed ex bagnino

L’esperienza di un salvataggio può cogliere di sorpresa anche chi viene addestrato appositamente. Lo racconta Fabio Bacà, finalista allo Strega 2022 con Nova (Adelphi), romanzo che indaga il nostro metabolismo lento di fronte a episodi di violenza o di pericolo. «Ho vissuto tutta la vita in una cittadina della costa adriatica e dai 16 anni in poi era naturale che i genitori, per evitare che i figli bighellonassero per tutta l’estate, li ponessero di fronte a due alternative: lavorare come cameriere o come bagnino. Ho scelto la seconda opzione, nel 1994 ho conseguito il brevetto». I primi anni passano lisci, poi arriva l’estate del ‘97. Mare agitato, vento forte. «A fine giugno compii il mio primo intervento di salvataggio. Ero fisicamente pronto? Per fortuna di tutti sì. Lo ero sotto il profilo psicologico? Assolutamente no. Quando ho visto un uomo e sua figlia che si dibattevano a una ventina di metri dal limite delle acque sicure, oltre il quale le correnti avevano scavato un’ampia voragine, il mio primo istinto è stato di scappare dalla parte opposta, tornare di corsa a casa, chiudermi in camera e infilarmi sotto il letto in speranzosa attesa che il problema si risolvesse da sé. Poi ho sentito la voce e i passi concitati del mio collega della spiaggia accanto e ci siamo tuffati. Sono passati 25 anni, ma ricordo ancora ogni singolo fotogramma, compreso il foltissimo capannello che si creò a riva, centinaia di persone inerti e silenziose, alcuni con le mani alla bocca, tutti incapaci di proferire persino un flebile incitamento. E compresi padre e figlia che una volta a riva si dileguarono senza una parola, senza ringraziare, scossi e imbarazzati».

Un mix di coraggio e incoscienza

A spingere certi gesti, per Bacà è un mix di coraggio e incoscienza: «Il coraggioso tiene in conto i propri limiti, considera le prerogative ambientali ed esegue una rapida analisi dei costi/benefici per ridurre al minimo i rischi mentre si adopera alla salvaguardia o salvezza altrui. L’incosciente non tiene conto di nulla di tutto ciò. Se un sessantacinquenne sedentario, magari fumatore, iperteso, diabetico, che vive in una città pedemontana e sa a malapena nuotare, vede un ragazzino che si dibatte in acque agitate e si butta per salvarlo, ignora che l’immane stress emotivo e l’enorme fatica fisica possono avvicinarlo alla sua soglia teorica massima di frequenza cardiaca, e per un numero di secondi che non è in grado di determinare. Dopo i quali al suo cuore e alle sue arterie può succedere letteralmente di tutto». Al riguardo, c’è una « pericolosa sopravvalutazione delle proprie capacità, che spesso deriva dalle nostre esperienze di fruitori di immagini da schermi di tv e cellulare. Quanto sembra facile ciò che vediamo sul web o in tv? ». Cita il filosofo Alan Watts, per cui «uno dei piaceri più elevati dell’uomo è l’essere più o meno inconsapevoli della propria esistenza, l’essere assorti in spettacoli, suoni, gente, luoghi che ci interessano».

Un’azione immediata e meditativa

Interpolando un po’ il tutto, Bacà ipotizza: «Potrei dire che una volta gettatisi in acqua, una volta faticosamente conciliate razionalità da neocorteccia dell’emisfero sinistro e reazioni emotive da sistema limbico, sede dei meccanismi di motivazione e ricompensa e del senso di gratificazione, quei primi istanti di terrore forse si sublimano nel totale assorbimento in ciò che fai. A me è successo altre volte che soccorressi qualcuno, e in ogni occasione mi è sembrato che il tempo rallentasse in proporzione inversa al rapidissimo acuirsi dei sensi, al dissolvimento di ogni timore superfluo, alla fiducia granitica nelle mie capacità, alla focalizzazione assoluta sull’obiettivo di salvare una vita. Probabilmente sono reazioni predeterminate dal cervello per evitare che lo choc azzeri le energie psicofisiche, ma l’esperienza somiglia vagamente a qualcosa di meditativo. Il completo smarrimento del sé in una consapevolezza più vasta».

·        I Neologismi.

Cos’è un «crossover»? E un «reboot»? Il test dell’estate per maniaci delle serie tv. Redazione Scuola su Il Corriere della Sera il 26 luglio 2022.

Ecco il vocabolario essenziale redatto dall’ente di certificazione della lingua inglese Cambridge Assessment per non sembrare dei «boomer» quando parlate di serie televisive con i vostri figli

Come non fare la figura del boomer parlando di serie tv

Siete anche voi, come i vostri figli, «addicted» delle serie televisive, ma vi mancano i riferimenti fondamentali per non fare comunque la figura dei «boomer» (l’equivalente di Matusalemme per i ragazzi della «generazione Z») quando vi avventurate a parlare con loro della quarta stagione di Stranger Things o dell’ultima puntata di Mare fuori? Allora non dovete perdervi questa piccola guida messa a punto da Cambridge University & Assessment, l’ente certificatore della lingua inglese e la relativa casa editrice. Da «binge watching» a «spoiler», passando per «cliffhanger» e «revival», ecco le 10 parole inglesi indispensabili per parlare di serie televisive senza sembrare irrimediabilmente vecchi.

Binge watching

L’espressione «binge watching» nasce dall’unione di «binge» (traducibile con abbuffata) e «watching» (visione, in italiano) e viene utilizzata per indicare una maratona televisiva, ossia il guardare numerosi episodi consecutivamente e senza sosta. Anche se è diventato di uso frequente con la diffusione dello streaming, il neologismo fece la sua comparsa già negli anni Novanta, con la diffusione dei servizi di noleggio VHS e, poi, DVD.

Cliffhanger

Il «cliffhanger» che si può tradurre in maniera letterale con «rimanere appesi sull’orlo di un precipizio», è una tecnica narrativa usata non solo nel mondo delle serie tv, ma anche in letteratura e nel cinema, e che consiste nell’interrompere la narrazione in corrispondenza di un colpo di scena o in un momento cruciale per la trama. L’espediente viene utilizzato in particolare alla fine di un episodio o di una stagione.

Crossover episode

Si parla di «crossover»— termine usato anche in ambito musicale per indicare un miscuglio di generi — quando due ambientazioni o due gruppi di personaggi appartenenti a due differenti serie televisive si incontrano e uniscono in un unico episodio; per questo si parla anche di «crossover episode» (episodio crossover). Questo intreccio avviene solitamente tra due serie tv che appartengono allo stesso network con l’obiettivo di mescolare i due pubblici. Uno dei primi esempi risale al 1986, quando Jessica Fletcher, protagonista de «La signora in giallo», apparve in un episodio di «Magnum P.I.», entrambe serie di proprietà di CBS.

Out of character

«Out of character» è un’espressione che significa «atipico», «insolito» e che viene usata quando un personaggio, in particolare di una serie televisiva, non si comporta secondo la propria personalità o come ci si aspetterebbe. Spesso viene utilizzata con connotazione negativa per rivolgere una critica agli sceneggiatori o per mostrare disappunto nei confronti dell’evoluzione di un personaggio.

Reboot

Un «reboot» (parola che indica anche il «riavvio» di computer e dispositivi elettronici) è una riedizione o una nuova versione di una serie televisiva che, pur avendo nuovi interpreti e personaggi, utilizza ambientazioni e dinamiche simili a quelle presenti nella serie originale. Tra i reboot più famosi c’è quello della britannica «The Office», scritta, diretta e interpretata da Ricky Gervais e riproposta quattro anni dopo con lo stesso titolo, ma nuovi personaggi, nella versione statunitense con Steve Carell.

Reunion

Le «reunion» sono tra gli appuntamenti più attesi dai fan quando si parla di serie televisive che si sono concluse da tempo. Come si può intuire dal termine, la parola indica una riunione, un ritrovo durante il quale gli attori e, a volte, i registi, si incontrano a distanza di anni per ricordare i momenti più belli vissuti sul set, gli episodi indimenticabili e i dietro le quinte. Una delle reunion più famose e attese? Quella di «Friends», che è andata in onda nel 2021, a 17 anni dall’ultimo episodio.

Revival

Nel mondo delle serie televisive, i «revival» (rinascita o ripresa, in italiano) sono nuove stagioni o nuovi episodi che vengono girati e messi in onda a distanza di alcuni anni dalla conclusione della storia. Spesso si tratta di operazioni di «fanservice», ossia progetti nati per soddisfare le richieste del pubblico e degli appassionati. Tra le serie tv che vantano un revival ci sono «Will & Grace», «Gilmore Girls» e «Dexter».

Season finale

Con «season» o «series finale» si intende rispettivamente l’ultimo episodio di una stagione o di un’intera serie televisiva. Nonostante l’ortografia identica a quella italiana, il termine finale ha una pronuncia diversa da quella che ha nella nostra lingua: quella corretta è infatti «finali»

Spin-off

Quando si parla di «spin-off» (traducibile in italiano come derivazione) si fa riferimento a una serie televisiva dedicata a un personaggio che in un’altra compariva solo come figura secondaria. Si tratta di uno stratagemma utilizzato per ampliare l’universo narrativo, ma anche per dedicare più spazio a un personaggio particolarmente amato dai fan. Tra gli spin-off più riusciti degli ultimi anni c’è «Better Call Saul», dove il protagonista è Saul Goodman, avvocato comparso precedentemente nella pluripremiata «Breaking Bad».

Spoiler e (netiquette)

Il tanto temuto «spoiler »(dal verbo «to spoil», ossia guastare, rovinare) è un’anticipazione non richiesta di una trama o di un racconto che rischia di rovinare la visione di una serie televisiva. Soprattutto con la diffusione dei social network e dei servizi di streaming, il «non fare spoiler» è entrato tra le voci della «netiquette», ossia l’insieme delle regole di comportamento volte a favorire il reciproco rispetto tra gli utenti nel mondo digitale.

Neologismi. Tangentopoli e tutte le altre città del gergo giornalistico. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 14 Marzo 2022.

Da Mani Pulite a oggi il suffissoide è stato abusato dalla stampa italiana per descrivere ogni sorta di corruttela o episodi di malcostume. Mentre negli Stati Uniti si aggiunge alla fine “gate”, come il Watergate, per rimandare alla più ampia area semantica di uno scandalo nel quale ai vizi privati si affiancano quelli pubblici.

A trent’anni da Mani pulite, l’inchiesta che scoperchiò il sistema fraudolento delle collusioni tra politica e imprenditoria in Italia, non si può dire che quella epocale azione giudiziaria abbia sortito i risultati promessi – perché la corruzione, come la mitica Idra, ha nel frattempo moltiplicato le sue teste. Quel che invece appare incontestabile è la gemmazione potenzialmente infinita di neologismi che ha riprodotto, invadendo il gergo giornalistico.

Tutto cominciò, naturalmente, con Tangentopoli, felice invenzione di un cronista di Repubblica, che per la verità risale a qualche mese prima di quel fatale 17 febbraio 1992, quando l’arresto del “mariuolo” Mario Chiesa fu il primo piccolo segnale dell’imminente terremoto. Era il 9 ottobre ’91 e il giornalista in questione, Piero Colaprico, anni dopo l’avrebbe spiegata così: «Era uno scandalo da poco, una furbizia da quattro soldi, con personaggi sfortunati che mi sembravano assomigliare un po’ a Paperino. Da lì, da Paperino, e quindi da Paperopoli, mi venne in mente il termine fortunato di Tangentopoli”.  E così Milano, l’epicentro della scossa iniziale, da “città da bere” si trasformò nella “città (in greco pólis) delle tangenti».

Qui non ci interessa però la storia di quei mesi feroci e avvincenti, bensì la vicenda fantasmagorica della parola neonata, o per essere più precisi del suffissoide che la completa: perché tale era la forza attrattiva della prima parte del composto, ossia il concetto di tangenti, che questo finì ben presto con l’eclissare l’idea di città e fagocitarla in sé, come Zeus che inghiotte Metis, svuotandola del suo significato originario per trasferirvi il proprio (peggiorativo) potere connotante. Così che –poli, perfezionata in –opoli con l’aggiunta della vocale combinata “o” tra la parola base (privata della finale) e il suffisso, è divenuta l’elemento formativo che identifica il sistema tangentizio, e in senso più lato ogni sorta di corruttela che ha afflitto in questi trent’anni il nostro sventurato paese.

Come in ogni pandemia che si rispetti, si sono dunque moltiplicate le varianti: da Calciopoli e Moggiopoli (alla luce degli sviluppi, da alcuni ribattezzata Farsopoli) a (per restare nel calcio, questa volta rimasto immune da sanzioni) Passaportopoli, da Affittopoli a Concorsopoli, da Rimborosopoli a Mazzettopoli, Appaltopoli, Parentopoli, Cattedropoli, Farmacopoli, Sanitopoli, Fannullopoli, Fangopoli, Clientelopoli, Bancopoli, Terremotopoli, Trivellopoli, Indultopoli, Maturopoli, Insultopoli, Vallettopoli, Sessuopoli, e ognuno può liberamente e magari scherzosamente aggiungerne quanti vuole, in relazione a grandi o piccoli, non necessariamente politici, episodi di malcostume.

Insomma la “città” greca è incorsa nella stessa sorte del “cancello” (o “porta) inglese. È infatti dai lontani tempi dell’inchiesta giornalistica di Bob Woodward e Carl Bernstein  – che giusto mezzo secolo fa portò alla luce gli episodi di spionaggio perpetrati dai sostenitori del presidente repubblicano Richard Nixon nella sede del Comitato elettorale democratico a Washington, in un edificio sito di fronte al fiume Potomac e per questo chiamato Watergate, “Porta dell’acqua” – che il confisso –gate è divenuto l’elemento morfologico obbligato per battezzare i più svariati scandali di là e di qua dall’Atlantico.

Da allora – citiamo alla rinfusa – abbiamo dovuto registrare il Sexgate, o anche Monicagate o Zippergate, che coinvolse un altro presidente americano, in questo caso il democratico Clinton, per i suoi rapporti con la stagista Monica Lewinsky al cui cospetto volentieri apriva (verbo to zipper) la cintura lampo dei propri pantaloni; l’Irangate (traffico illegale di armi con Teheran messo in piedi dall’amministrazione Reagan per finanziare i ribelli antigovernativi del Nicaragua); il Nigergate (falso dossier che accusava Saddam Hussein di aver acquistato in Niger 500 tonnellate di uranio grezzo per fabbricare ordigni nucleari); il Climategate (diffusione di fake news sul riscaldamento globale); il Cablegate (cablogrammi diplomatici statunitensi svelati a partire dal 2010 da WikiLeaks). Ma anche, in Italia, il Rubygate berlusconiano, l’Irpiniagate sortito dal terremoto del 1981, il Laziogate innescato dall’allora governatore del Lazio, Francesco Storace, per interferire nella campagna elettorale della concorrente di destra Alessandra Mussolini, e (rieccolo) il Moggigate.

L’oscillazione combinatoria in cui si trova coinvolto il nome dell’ex direttore sportivo della Juventus non cancella una (lieve, ma non trascurabile) differenza tra il suffissoide –poli (–opoli), che definisce un quadro eminentemente corruttivo, in modo specifico nei rapporti tra politica e affari, e il confisso –gate, che rimanda alla più ampia area semantica di uno scandalo nel quale ai vizi privati si affiancano, spesso intrecciandovisi, quelli pubblici. Li accomuna il destino metasemico, quello stesso a cui è andato incontro un altro suffisso molto (im)popolare di questi tempi: -demia, dal greco dêmos, che ha dato origine a epidemia e pandemia. 

Nel greco antico, però, così come in quello moderno, dêmos significa popolo e nulla ha a che vedere con le emergenze sanitarie (Omero e tre secoli dopo di lui Tucidide, per indicare il morbo che nell’Iliade fa strage nel campo acheo e quello che falcidia gli ateniesi nel secondo anno della guerra del Peloponneso, usano i termini nósos e loimós): ai tempi di Platone la parola pandemia designava la totalità (pân) del popolo (dêmos), mentre l’aggettivo epidémios indicava semplicemente qualche cosa che sta, opera “su” (epí) un determinato territorio (coincidente con il dêmos). È soltanto nel XIX secolo, per la suggestione forse delle Epidemíai ippocratiche (che non erano malattie epidemiche nel senso di contagiose, ma patologie caratteristiche di un determinato luogo), che il termine epidemia entra nel lessico della medicina con il significato che gli attribuiamo oggi.

La metasemia non è un fenomeno linguistico isolato. Uno dei casi più noti è la parola “martire”, che in greco significava testimone, ma in quanto riferito ai primi eroici testimoni del cristianesimo divenuti pet food per gli “amici a quattro zampe” (non troppo domestici, per la verità) degli antichi Romani è poi passato a designare chi è disposto a sacrificare la vita per la propria causa. Un altro esempio rimarchevole è rappresentato dalla famiglia lessicale “tradire-traditore-tradimento”: in latino “traditore” si dice proditor (affine al greco prodótes; nell’italiano corrente ne conserva la traccia l’aggettivo “proditorio”), mentre tradere significa “consegnare” (valore conservato nella parola “tradizione”, ossia consegna nel senso di trasmissione di qualche contenuto identitario-culturale); ma da quando Giuda consegnò Gesù a coloro che lo avrebbero messo a morte, questo suo atto di tradere si è caricato di una connotazione spregiativa diventando il nostro “tradire”.

Ed è singolare come la metasemia si ripresenti nella storia del cristianesimo. Nietzsche parlava di “trasvalutazione di tutti i valori” (Umwertung aller Werte), riferendosi al capovolgimento operato dalla morale giudaico-cristiana. Forse bisognerebbe aggiungere la trasmutazione delle parole.

·        Gli Snob.

"Siamo tutti snob, basta capire di che tipo: “Vorrei ma non posso”, aristocratici o anticonformisti". Luigi Mascheroni il 17 Luglio 2022 su Il Giornale.

Lo scrittore potentino ha scritto un "trattatello" sull’individuo raffinato ma alla moda diventato un modello per i nostri giorni. Ecco chi è, come veste, come vive.

Maledetti snob!

Gli snob, si sa, sono insopportabili. Cipiglio, narcisismo, raffinatezza ridicola, e quell'atteggiamento di superiorità sul mondo, poi... E però sono ovunque. Per quanto apparentemente il termine snob sia un mezzo insulto - ed ecco il primo paradosso - a nessuno dispiace essere apostrofato come tale, anzi un po' ci inorgoglisce. E poi, ancora più strano - ecco il secondo paradosso - snob è una parola che in origine significava «cittadino di basso ceto», dall'inglese dialettale «ciabattino», e indicava una persona estranea all'ambiente colto e aristocratico, e poi finisce con ribaltare il proprio senso indicando proprio gli snobbatori colti e aristocratici... Quindi? Quindi meglio chiedere chiarimenti a un vero anti-snob, ma così «anti» da diventare «arci». Ed eccoci a disturbare Gaetano Cappelli di ritorno da una playa marateota - sono uno arci-snob può vivere a Potenza, lavorare a Roma (casa ai Parioli...) e riposarsi a Maratea - autore del «trattatello» Lo snob nella società dello snobismo di massa (Oligo, pagg. 92, euro 12).

A proposito, Cappelli: gli snob concedono interviste? 

«Certo, anche se poi, al primo incontro in società, si fingeranno assai annoiati e pentiti per essersi prestati». 

Lei sostiene che esistono tre tipi di snob. Cioè? 

«Tre tipi e vari sottotipi, in realtà. Per cominciare, diciamo che lo snob più comune è il wannabe, il vorrei ma non posso, che ostenta modi altezzosi e sprezzanti cercando di identificarsi in una classe sociale di cui non fa parte. Ma snob possono essere, e molto facilmente lo sono, anche i veri esponenti delle élite. Gli aristocratici per sangue o per meriti. Nel mio pamphlet identifico infine lo snob del terzo tipo che è quell'individuo il quale, proprio per la sua vocazione a distinguersi dalla massa si terrà ben lontano da ogni conformismo, e mettici quelli assai pericolosi del sovranismo populista o della sinistra massimalista, ma anche del politically correct o della cancel culture, la sharia d'Occidente». 

Nella società di massa, a fare lo snob non è la classe di appartenenza ma la postura. Quale è la postura classica dello snob? 

«Dunque, il vero snob non gesticola, parla a voce bassa e mai di guadagni o somme spese, e in genere ignora perfino l'ammontare del suo conto in banca o, più frequentemente, del suo debito. Come trova volgarissimo far cenno ai propri problemi esistenziali senza il filtro dell'iperbole o della sottovalutazione ironica che sono la cifra stessa del suo modo d'essere». 

Qual è l'habitat migliore per lo snob? La sinistra ricca e intelligente? L'editoria? La moda? I salotti letterari? Il mondo del cinema? Quello della finanza? 

«Direi che ogni ambiente ha i suoi snob e che una buona parte delle persone colte ed eleganti tendono allo snobismo. Ma non solo loro! Oggi, tutti vogliono essere snob». 

Milano e Roma: dove allignano gli snob? 

«Sono due piazze assai diverse. A Milano i salotti ruotano intorno all'entourage delle gallerie, l'architettura boschivo-verticale, la moda, il design, l'editoria e hanno una sfumatura più severa e radical chic definizione che lo snob mai pronuncerebbe. A Roma l'atmosfera è più rilassata. Ci sono scrittori, cineasti, artisti, antiquari con base in London o Paris e diplomatici in licenza ordinaria da Hong Kong o Vienna o Budapest. Ma, soprattutto, tra marchese e principi moribondi, il fior fiore appassito della nobiltà più antica». 

Il Bosco Verticale a Milano è snob? 

«Lo è stato. Oggi si insinua sempre più il dubbio che sborsare una paccata di soldi per starsene in cima a una torre buia come forse solo un basso napoletano, è una roba da poveri nouveaux riches». 

Che idee politiche professa lo snob? 

«Il vero snob nessuna. E anzi stronca qualsiasi fede perché già il semplice credere in qualcosa comporta di per sé un coinvolgimento emotivo, un'imperdonabile calore». 

Come si veste lo snob? 

«La parola d'ordine dello snob è sobrietà. Così non seguirà mai le mode. Né tantomeno vestirà in maniera appariscente come il dandy, con il quale spesso viene confuso. Si può, in effetti, dire che il dandy è solo uno snob più colorato ed eccentrico. Quindi abiti classici anche se dall'aria assolutamente vissuta. Per dire, lo snob non parteciperà mai a una serata con uno smoking nuovo, come un qualsiasi parvenu alla sua prima uscita in società». 

Cos'è l'eleganza per lo snob? 

«Lo dirò con un esempio. Lo snob ovviamente snobba le griffe e marchi in vista, a meno che non campeggino su care vecchie cose che testimonino di un nobile passato: una cravatta blu crepuscolo anseatico di Gucci, una vetusta Lacoste sfoggiata in gioventù sui campi da tennis». 

Cosa pensa lo snob del gay pride, il movimento LGBTQ, lo schwa e gli asterischi? 

«Li osserva sorridendo. A chi gli parla dello schwa, obietta se non sarebbe meglio dire la schwa, visto che dovrebbe servire a rendere la lingua italiana meno dominata dal maschile. Trova inoltre la pretesa di imporre un alfabeto che non si può pronunciare, assurda come la pretesa che la terra sia piatta o l'idea di autodeterminazione del genere». 

Chi è lo snob pop? 

«È lo snob che ispirandosi a Andy Wharol, invece di snobbarla si appassiona alla cultura di massa». 

Lo snob è mediatico? Usa i social? 

«Può esserlo e nel caso lo si trova su Twitter, dove la non reciprocità tra follower e following serve a mantenere le debite distanze. Anzi, è proprio sui social che lo snobismo è oggi divenuto, paradossalmente, un fenomeno di massa». 

Cosa pensa lo snob dei romanzi «di tendenza», i bestseller e i premi letterari? 

«Lo snob legge solo romanzi infeltriti, rari, che recupera nella biblioteca di famiglia o dai bouquinistes sul lungosenna, col loro corredo di acari. I premi letterari li snobba, a meno che non lo includano tra gli invitati».

Andare alla finale dello Strega con un ventaglio rosa e la pochette arcobaleno è da snob o da provinciali? 

«Ah ah ah. Marietto è un mio caro amico. Direi che il suo è un gesto snob pop». 

Lo Strega è un premio snob? 

«Lo è stato. Prima della riforma Petrocchi era un meccanismo di eliminazione infernale, paragonabile a quello dei salotti proustiani. Riuscivo a capire chi sarebbe stato il prescelto prima ancora della presentazione in concorso dei libri». 

Chi è stato l'ultimo grande snob della letteratura italiana? 

«Avrei detto Raffaele La Capria, ma poi quel faux pas sul sentirsi dimenticato dai lettori e dai librai come un esordiente qualsiasi!». 

Mi faccia qualche esempio di intellettuali snob, oggi. 

«Nel mio libro ce n'è un buon elenco. Da Nanni Moretti a Massimo Cacciari, da Rampini a Eco, da Merlo a Freccero, al trio Boldrini Murgia Cirinnà e che risate! Come con la generalmente ammirevole Natalia Aspesi che, in uno sbocco snobbish, scrive: A essere sinceri nessuno era meno erotico di lui, e sta parlando di Sean Connery». 

Lei si considera snob? 

«Io sono il loro burlador, ma ho ben a mente che Nella condizione attuale della nostra società, è impossibile non essere a volte uno snob. Lo scrisse l'impareggiabile William Makepeace Thackeray. Era il 1848 e mi pare oggi più che attuale».

·        I Radical Chic.

"Psicopatologia del radical chic", di Roberto Giacomelli: finalmente un approccio clinico. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 03 gennaio 2022.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore.

Che cosa conduce una persona a voler distruggere scientemente la propria Nazione, annientare la propria storia, decostruire la propria famiglia compromettendo il futuro della propria gente? Quale arcana forma paranoide porta a vedere fascisti sotto al letto, omofobi nel comodino, razzisti occhieggianti dalle scatole dei cereali al cacao, cercando conforto in un asterisco alla fine delle parole? Interrogativi che ci affascinano da anni e ai quali arriva una risposta finalmente anche di tipo clinico.

Attendevamo con ansia l’uscita di “Psicopatologia del radical chic”, (ed. Passaggio al bosco) opera dello psicanalista Roberto Giacomelli: un saggio luminoso e scorrevolissimo che spiega le radici della presunta superiorità morale della Sinistra, che permette ai suoi rappresentanti un atteggiamento sprezzante, fino alla violenza, nei confronti degli avversari.

L’intolleranza che si esprime con un’aggressività malata, fatta di insulti, atteggiamenti persecutori e svalutanti è considerata accettabile perché viene da un élite al di sopra di ogni giudizio morale.

Per questo è completamente inutile cercare un’equa reciprocità, quando, ad esempio, viene oltraggiata una donna di destra, ucciso un italiano e nessuno si scandalizza. “Ah, ma allora sono due pesi e due misure!”. Certo, ovvio: l’egemonia culturale degli eredi del marxismo, con i loro ideali traditi per il liberismo selvaggio, è divenuta una caratteristica soffocante del confronto dialettico.

La fortunata espressione “radical chic”, come noto, fu coniata dallo scrittore americano Tom Wolfe (1930-2018) al ritorno da un rinfresco in casa del direttore d’orchestra Leonard Bernstein organizzato per sostenere i rivoluzionari del movimento delle “Pantere Nere”: anarchici, proletari afroamericani, marxisti-leninisti e fautori del potere nero si mischiavano ai privilegiati dell’alta borghesia bianca, tra camerieri in livrea e poco rivoluzionari flûte di champagne. Una situazione comica e grottesca, dove i padroni di casa ospitavano e sostenevano coloro che li consideravano dei “nemici di classe”.

Da diversi anni, ormai, il radicalchicchismo è trasmigrato, come un virus artificiale, dai sontuosi salotti newyorkesi fino all’Europa, democratizzato ad usum elettorale per le classi sociali più modeste e piccolo-borghesi, adattato in versione junior per gli adolescenti gretini che, fin da piccoli, si rimpinzano di valoretti facili-facili sull’ecologia pur continuando a essere famelici super-consumatori.

La principale radice di questo disagio, secondo Giacomelli, è in un senso di colpa, nel trauma non elaborato di aver abiurato agli antichi valori rivoluzionari che sfocia, poi, nel disturbo di personalità narcisistico, istrionico ed antisociale degli intellettuali e sedicenti tali progressisti.

Il monopolio dell’odio, il linguaggio come strumento di manipolazione, la tecnica per fare diventare realtà le bugie, sono l’armamentario dei nostri amici speciali. La tecnica del capro espiatorio è usata per criminalizzare l’avversario politico e costituisce la loro difesa psicologica contro qualsiasi ragionamento logico.

Il senso di colpa per aver dismesso la tuta da metalmeccanico in cambio del golfino di cachemire, o il fazzoletto rosso da partigiano sostituito con la sciarpa arcobaleno, ha devastato la loro psiche, tanto che un vetero-comunistone come Marco Rizzo, comparendo, li orripila come lo spettro di Banqo.

Senza più l’MP40 rubata al soldato tedesco, le loro battaglie oggi sono in tutù e piume di struzzo, si conducono in tv e non in piazza, ma sono molto più cattive e sleali, essendo piene di quell’odio sopito per se stessi che i loro nonni non avevano. Tratto caratteristico, l’ostentazione di sé, il narcisismo di chi vuole farsi notare, il vuoto pneumatico di contenuti effettivi, la mancanza di ancoraggio alla realtà, il cieco, paradossale e interessato asservimento al potere. Malgrado l’abbondanza di questa tangibile mediocrità, abilmente camuffata da una martellante propaganda mediatica, le formazioni progressiste – che spesso escono sonoramente sconfitte dalle tornate elettorali – riescono comunque a governare gli Stati, imponendo, non si sa come, ogni volta, i loro governi tecnici.

Persecuzioni giudiziarie, diffamazione sistematica degli avversari, uso spregiudicato della paura come mezzo coercitivo: sono queste le armi di una sinistra priva di argomenti e fanaticamente attaccata ad una narrazione parallela dell’esistente

Non bisogna sottostare alla loro prevaricazione, scrive Giacomelli, ma ribellarsi a qualsiasi tipo di etichettatura: “fascista”, “omofobo”, “razzista”. Reagire con la massima determinazione, senza paura delle proprie idee, facendo gruppo e utilizzando i social, il web, ormai unica plaga rimasta di libertà.

Ancora per poco, forse.

·        Il Pensiero Unico.

Ci sono temi intoccabili. Un esempio: "l'aborto". Alessandro Gnocchi il 23 Settembre 2022 su Il Giornale. In passato si potevano esprimere dubbi anche radicali. Ora vincono sempre la riprovazione e il conformismo.  

Spesso si ha l'impressione che il dibattito pubblico in Italia abbia fatto due o tre passi indietro rispetto agli anni nei quali, paradossalmente, le divisioni ideologiche erano molto più nette rispetto a ora. Prendiamo un tema difficile: l'aborto. Dati di fatto: esiste una legge, la 194, che nessuna delle principali forze politiche ha in programma di toccare; tale legge consente di abortire e inoltre dichiara che l'interruzione della gravidanza non è un mezzo per il controllo delle nascite; a partire da questi presupposti, dovrebbe essere possibile un franco dibattito sul tema. Invece non è così. Qualunque posizione, ragionata o propagandistica, intelligente o cretina, in buona o cattiva fede, finisce prima tritata nella pattumiera del pensiero, cioè i social network, poi etichettata sbrigativamente come fascista o patriarcale o comunista o femminista, quindi, in molti casi, esclusa dal dibattito pubblico.

Non è vero? Facciamo una prova. Prendiamo alcune opinioni disallineate al politicamente corretto, eppure legittime, come tutte le opinioni, e pensiamo a chi, oggi, le pubblicherebbe. Pensiamo anche a cosa accadrebbe se venissero pubblicate.

Sul Corriere della sera dell'8 maggio 1981, Norberto Bobbio, non credente e padre nobile della sinistra, risponde alle domande di Giulio Nascimbeni in vista del referendum sull'aborto. Leggiamo: «È un problema molto difficile, è il classico problema nel quale ci si trova di fronte a un conflitto di diritti e di doveri». Nascimbeni chiede quali diritti e quali doveri siano in conflitto: «Innanzitutto il diritto fondamentale del concepito, quel diritto di nascita sul quale, secondo me, non si può transigere. È lo stesso diritto in nome del quale sono contrario alla pena di morte. Si può parlare di depenalizzazione dell'aborto, ma non si può essere moralmente indifferenti di fronte all'aborto». Ci sono altri diritti: «C'è anche il diritto della donna a non essere sacrificata nella cura dei figli che non vuole. E c'è un terzo diritto: quello della società. Il diritto della società in generale e anche delle società particolari a non essere superpopolate, e quindi a esercitare il controllo delle nascite». Il diritto del concepito è «fondamentale»; gli altri, dice Bobbio, sono «derivati». Siamo arrivati al cuore della riflessione: «Inoltre, e questo per me è il punto centrale, il diritto della donna e quello della società, che vengono di solito addotti per giustificare l'aborto, possono essere soddisfatti senza ricorrere all'aborto, cioè evitando il concepimento. Una volta avvenuto il concepimento, il diritto del concepito può essere soddisfatto soltanto lasciandolo nascere». Nascimbeni muove l'obiezione più logica e forte: abrogando la legge 194, si tornerebbe ai «cucchiai d'oro», alle «mammane», ai drammi e alle ingiustizie dell'aborto clandestino. Bobbio non fa marcia indietro: «Il fatto che l'aborto sia diffuso, è un argomento debolissimo dal punto di vista giuridico e morale. E mi stupisce che venga addotto con tanta frequenza. Gli uomini sono come sono: ma la morale e il diritto esistono per questo. Il furto d'auto, ad esempio, è diffuso, quasi impunito: ma questo legittima il furto? Si può al massimo sostenere che siccome l'aborto è diffuso e incontrollabile, lo Stato lo tollera e cerca di regolarlo per limitarne la dannosità. Da questo punto di vista, se la legge 194 fosse bene applicata, potrebbe essere accolta come una legge che risolve un problema umanamente e socialmente rilevante». Nascimbeni chiede a Bobbio se riesce a immaginare la reazione del mondo laico alle sue parole. Bobbio: «Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il non uccidere. E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l'onore di affermare che non si deve uccidere». Ne venne fuori un putiferio ma intanto Bobbio aveva potuto esprimere la sua idea controcorrente da una tribuna importante.

Molto prima di Bobbio, il 19 gennaio 1975, il Corriere della sera aveva pubblicato un articolo corsaro di Pier Paolo Pasolini, non credente e marxista eretico, sullo stesso tema. Pasolini: «Sono contrario alla legalizzazione dell'aborto, perché la considero, come molti, una legalizzazione dell'omicidio. Nei sogni, e nel comportamento quotidiano cosa comune a tutti gli uomini io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente. Mi limito a dir questo, perché, a proposito dell'aborto, ho cose più urgenti da dire. Che la vita sia sacra è ovvio: è un principio più forte ancora che ogni principio della democrazia, ed è inutile ripeterlo». Poi accusava i Radicali, ai quali si sentiva comunque vicino, di cinismo e di essersi arresi ai fatti. Ne uscì un altro putiferio, anche perché le motivazioni di Pasolini sconfinavano in un ambito, quello del coito eterosessuale e omosessuale, che non sembrava del tutto calzante.

Nel 1980, Giovanni Testori, cattolico imperfetto per inquietudine, scrisse il monologo Factum est. Nell'opera parla solo il feto, il «grumo di cellule», che nella realtà non ha voce né volontà. È lui il nuovo Cristo crocefisso, rifiutato prima che esca dal ventre della madre. Fu uno scandalo. Ma intanto andò in scena e successivamente fu proposto perfino nelle università al pubblico degli studenti.

Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci, non credente e socialista con sfumature liberali, fu pubblicato nel 1975, doveva essere un'inchiesta per l'Europeo, diventò un romanzo bestseller (due milioni di copie in Italia, due milioni e mezzo nel resto del mondo). Fu scritto però circa dieci anni prima, di getto, proprio in seguito a un aborto spontaneo (il secondo: la Fallaci aveva già vissuto un'esperienza drammatica nel 1958). Il tragico monologo di una donna che si rivolge al figlio che porta in grembo, interrogandosi sulla responsabilità di dare la vita, e affrontando senza timori la questione dell'aborto, suscitò infinite polemiche. Ne scrive la Fallaci, che non aveva aspettato il femminismo per essere femminista, in una lettera del 1975 all'amico Pasolini: «Le donne si indignano da un parte, gli uomini si arrabbiano dall'altra, gli abortisti mi maledicono perché concludono che io sono contro l'aborto, gli antiabortisti mi insultano perché concludono che io sono per l'aborto. E nessuno o quasi si accorge di cosa vuol dire il libro veramente. Nella rissa non hanno ragione né gli uni né gli altri, o hanno ragione tutti e due. Il libro è la saga del dubbio. Vuol essere la saga del dubbio» (da La paura è un peccato. Lettere da una vita straordinaria, Rizzoli). Libro controverso ma pubblicato da un colosso come Rizzoli.

Ecco, ora, archiviato anche il caso particolare del Foglio di Giuliano Ferrara, provate a pensare se queste opinioni troverebbero accoglienza nel deprimente mondo dell'editoria italiana dove si fanno dibattiti ma solo a patto di essere tutti d'accordo e tutti politicamente corretti.

Glossari gender e educazione sessuale: polemica sui diari di scuola. Sulla Smemoranda c'è un glossario sull'identità di genere. Il diario finisce in mano a un bimbo di 9 anni e scoppia il caso. Ma chi controlla cosa mettono nello zaino i nostri figli? Elena Barlozzari il 18 Settembre 2022 su Il Giornale.  

Immaginate di scoprire, a qualche giorno dall’inizio dell’anno scolastico, che nel diario di vostro figlio, di appena nove anni, ci sono un paio di rubriche di cui non sapevate nulla. Il diario glielo avete comprato voi, prima di metterglielo in mano lo avete sfogliato e risfogliato, eppure di quelle rubriche non vi eravate proprio accorti. Lo avete scelto per il colore, perché è uno dei diari più in voga da sempre e perché vostro figlio ve lo chiede già dallo scorso anno.

Il diario in questione è la Smemoranda. L’evergreen delle agende scolastiche, c’era persino ai vostri tempi. La copertina è innocua, monocolore. L’avete scelta azzurra, di un bell’azzurro intenso. Due giorni fa, vi chiama l’insegnate e vi dice: "Guarda, ti vorrei segnalare delle cose nel diario di tuo figlio, delle cose che non mi sembrano appropriate alla sua età". Quell’insegnate si chiama Giusy D’Amico. È la maestra d’inglese e si dà il caso sia anche la presidente dell’associazione "Non si tocca la famiglia". È lei a raccontarci l’accaduto e la fine che hanno fatto le due rubriche in questione: "Con il consenso del genitore l’ho strappate, senza che l’alunno se ne accorgesse, per non stimolare in lui una curiosità sbagliata". La maestra D’Amico ci descrive in maniera stringata il contenuto di quelle rubriche: "C’è un glossario sull’identità di genere e una sezione dedicata all’educazione sessuale". Ce le mostra, ma noi vogliamo verificare di persona, anche e soprattutto perché ci risulta davvero difficile credere che, al momento dell’acquisto, l’incauto genitore non si sia accorto di nulla.

Decidiamo così di entrare in una delle tante librerie del centro di Roma, ne individuiamo una grande e ben rifornita, nella speranza di andare a colpo sicuro. Le agende scolastiche, con le lezioni ormai cominciate da qualche giorno, iniziano a scarseggiare. Veniamo indirizzati verso uno scaffale, impilate ne troviamo di tutte le fogge e varietà cromatiche. C’è anche quella che andiamo cercando. La copertina è sgargiante, azzurra, proprio come ce l’hanno descritta, ma c’è anche in versione rosa shocking e bianca. Iniziamo a sfogliarla, una, due, tre volte. Solo al terzo tentativo individuiamo le ormai famose rubriche. "Cisgender (o cisgenere) è una persona che non si identifica con il sesso che le è stato assegnato alla nascita", leggiamo. Il glossario prosegue: "Non-binary (o non binario) è un termine ombrello usato per descrivere una persona che non si identifica completamente né nel genere maschile né in quello femminile". E a seguire le definizioni di "genderqueer o genere non conforme", di "transgender", di "gender fluid", "gender neutral" e di "espressione di genere".

Scorrendo la seconda, invece, ecco comparire alcuni suggerimenti sui primi approcci alla sessualità. Tanto per citarne uno: "Il sesso non è solo sinonimo di rapporto completo: tutto ciò che vi fa eccitare è un’esperienza sessuale". Mentre cerchiamo di mettere ordine alle tante informazioni assorbite, un dubbio ci tormenta. No, non vogliamo moraleggiare, quel diritto lì lo lasciamo più che volentieri ai genitori. È più una domanda di carattere pratico: chi vende queste agende, è al corrente degli argomenti che trattano? La commessa ci chiarisce le idee: "Noi le ordinazioni le facciamo in base alla richiesta, non abbiamo idea dei contenuti, anche perché al momento dell’ordinazione non possiamo vedere neppure la copertina". È a tutti gli effetti un’ordinazione a scatola chiusa. Ma quando arrivano in negozio non le sfogliate? "Assolutamente no. Certo, a richiesta specifica, per un bimbo di nove anni la Smemoranda non la consiglierei". Il negozio è molto grande, vende una vasta gamma di articoli e abbraccia una clientela piuttosto ampia. La commessa ci lascia chiaramente intendere che, con tutte le cose che ci sono da fare, non possono mettersi a passare al setaccio una per una le pagine dei diari.

Proviamo allora a rivolgerci ad un negozio più piccolo, una cartolibreria a conduzione familiare. Qui, per ovvie ragioni, la cose funzionano diversamente. "È vero che finché non arrivano in negozio non sappiamo che aspetto abbiano i diari, però quando arrivano li controlliamo", ci spiega il proprietario. Le Smemoranda le vendete? "No, già dall’anno scorso abbiamo interrotto le ordinazioni, perché non condividiamo l’approccio". L’approccio? "L’educazione dei minori alla sessualità dovrebbe essere lasciata ai genitori, ma l’80 per cento di quelli che vengono a fare acquisti nemmeno li sfoglia i diari, guarda solo l’estetica". E dall’estetica, come abbiamo già detto, è veramente complicato intuire qualcosa. È capitato che qualcuno la riportasse indietro? "Non a me, ma conosco colleghi a cui è successo, e le posso assicurare che è sempre una situazione imbarazzante".

E in casi del genere? L’acquirente che diritti ha? Lo chiediamo al Codacons. "Non trattandosi di vizi o difetti, o di contenuti illeciti o vietati, il venditore non ha alcun obbligo di sostituzione del prodotto né di restituzione dell’importo". Certo, se l’agenda è nuova, si può sempre fare un tentativo, e in quel caso è tutto lasciato alla discrezionalità e alla disponibilità del negoziante. "È sempre responsabilità di chi compra verificare cosa compra". E se a fare l’acquisto è direttamente il minore? "A maggior ragione il genitore dovrebbe verificare con attenzione l’acquisto, sono regole di buonsenso della potestà genitoriale". Insomma, per l’adulto distratto, la strada più sicura è quella di munirsi di un bel paio di forbici e seguire l’esempio della maestra D’Amico.

Ma non ditelo a Maria Rachele Ruiu, mamma di due bimbi e storica attivista pro-vita e pro-famiglia. Per lei, nelle agende scolastiche, certi argomenti non dovrebbero proprio esserci. "È grave che uno strumento fatto per i giovanissimi sponsorizzi e diffonda teorie a-scientifiche, che in tutto il mondo si stanno dimostrando pericolose. Il dibattito sul ddl Zan ha infuocato il panorama politico e degli adulti, e loro cosa fanno? Propongono ai nostri figli ciò che non è passato in Parlamento?". Del "caso Smemoranda" la Ruiu è già al corrente. Ci spiega che, a livello di associazionismo, il tam-tam è cominciato da giugno. E si congeda con un avvertimento: "È l’ennesima conferma che noi genitori dobbiamo essere ancora più vigili, stanno cercando di indottrinare i nostri figli in tutti i modi".

Avvocata, architetta, medica… Treccani sdogana i femminili professionali. Addio stereotipi: in arrivo il nuovo "Dizionario della lingua italiana" che promuove l'inclusività e la parità di genere. Il Dubbio il 14 settembre 2022.

Architetta, notaia, medica, soldata, chirurga. Ma anche avvocata, al posto di “avvocatessa”. Treccani presenta il primo “Dizionario della lingua italiana” che sdogana e lemmatizza anche le forme femminili di nomi e aggettivi tradizionalmente registrati solo al maschile. L’Istituto della Enciclopedia Italiana abbandona così il “vocabolariese”, per fare la “cronaca” di una lingua in continua evoluzione, si fa promotore di inclusività e parità di genere e al tempo stesso riconosce tra i neologismi distanziamento sociale, lockdown, smart-working, dad, infodemia, lavoro agile, reddito di cittadinanza, rider, termoscanner, terrapiattismo e transfobia.

L’edizione 2022 de Il Vocabolario Treccani, si spiega, è «un progetto ambizioso e rivoluzionario, nel quale tradizione e progresso si fondono per testimoniare i cambiamenti socio-culturali del nostro Paese e riconoscere – validandole – nuove sfumature, definizioni e accezioni in grado di rappresentare e raccontare al meglio la realtà e l’attualità, attraverso le parole che utilizziamo per viverla e descriverla». Nella storia plurisecolare della lessicografia italiana, quello di Treccani sarà il primo vocabolario a non presentare le voci privilegiando il genere maschile, ma scegliendo di lemmatizzare anche aggettivi e nomi femminili. Una rivoluzione che riflette e fissa su carta la necessità e l’urgenza di un cambiamento che promuova l’inclusività e la parità di genere, a partire dalla lingua.

Cercando il significato di un aggettivo come “bello” o “adatto” troveremo quindi lemmatizzata, ovvero registrata e quindi visualizzata in grassetto, anche la sua forma femminile, seguendo sempre l’ordine alfabetico; bella, bello; adatta, adatto. E per la prima volta vedremo registrati dei nomi identificativi di professioni che, per tradizione androcentrica, finora non avevano un’autonomia lessicale: notaia, chirurga, medica, soldata. Per eliminare anche gli stereotipi di genere – secondo i quali a cucinare o a stirare è immancabilmente la donna, mentre a dirigere un ufficio o a leggere un quotidiano è puntualmente l’uomo – Treccani propone nuovi esempi di utilizzo e contestualizzazione ed evidenzia il carattere offensivo di tutte le parole e di tutti i modi di dire che possono essere lesivi della dignità di ogni persona.

Il lavoro di aggiornamento della lingua italiana a cui l’Osservatorio di Treccani si dedica senza sosta da oltre un secolo si concretizza ora in una nuova opera in tre volumi (Dizionario dell’Italiano Treccani, Dizionario storico-etimologico e Storia dell’Italiano per immagini) che sarà presentata venerdì 16 settembre in anteprima in occasione della XXIII edizione di Pordenone legge, Festa del Libro con gli Autori. Diretto dai linguisti Valeria Della Valle e Giuseppe Patota, Il Vocabolario Treccani è molto più che la versione aggiornata dell’opera pubblicata nel 2018: è «lo specchio del mondo che cambia e il frutto della necessità di validare e dare dignità a una nuova visione della società, che passa inevitabilmente attraverso un nuovo e diverso utilizzo delle parole».

Non più, dunque, nel Treccani 2022, il “vocabolariese”, quella sorta di linguaggio iniziatico che porta a definire una semplice vite come un «organo meccanico di collegamento, costituito da un gambo cilindrico o conico, sul quale è inciso un solco elicoidale il cui risalto (detto filetto o verme) va a impegnarsi tra i risalti di un solco analogo (preesistente o generato dalla sua stessa rotazione)». Sono state, inoltre, ridotte il più possibile sia le abbreviazioni (nessuno legge mai la lista che le spiega, e spesso vengono reinterpretate in modo fantasioso), sia le marche d’uso (che in molti casi sono frutto di una valutazione personale del lessicografo: capita spesso, per esempio, che una voce o un’accezione che un dizionario qualifica come lett., cioè letteraria, in un altro sia giudicata disus., cioè disusata). Sono stati eliminati i cortocircuiti lessicografici, evitando di obbligare lettori e lettrici a rimbalzare da una voce all’altra, in una catena di rinvii che creano spirali senza fine: nel “Dizionario dell’italiano Treccani” le spiegazioni di una parola sono sempre autosufficienti, e chi legge non è costretto, per comprenderle, a cercare il significato di un’altra parola presente nella spiegazione stessa.

La nuova edizione promuove la forma al femminile. Anche “architetta”, “sindaca” e “medica” nel dizionario Treccani: “Non si può tornare indietro”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 13 Settembre 2022 

Ci saranno “avvocata”, “sindaca”, “ministra”, e anche “medica” o “soldata”, “architetta” e “notaia”. Il nuovo dizionario italiano Treccani uscirà il prossimo ottobre e terrà conto dei sostanziali e stimolanti sommovimenti e tendenze che stanno agitando la lingua, il dibattito culturale, le scelte lessicali negli ultimi anni. Ovvero: il nuovo dizionario conterrà anche le forme femminili di nomi e aggettivi insieme con quelli maschili. E nella novità saranno quindi incluse anche le professioni.

L’ultima edizione del Treccani era uscita quattro anni fa. I due direttori del progetto Valeria Della Valle (prima linguista a dirigere un’edizione nel 2008) e Giuseppe Patota hanno annunciato la novità. Il dizionario darà uguale importanza a femminili e maschili indicandoli in un’unica voce o in due voci separate, sempre continuando a disporli in ordine alfabetico. I femminili infatti nella maggior parte dei dizionari pubblicati fino a oggi o non comparivano o comparivano in riferimento al lemma maschile. “Le altre case editrici dovranno tenere conto di quello che abbiamo fatto. Indietro non si può più tornare”, ha commentato Della Valle a Il Corriere della Sera.

E quindi nel dizionario compariranno numerose professioni declinate al femminile, così come le nuove consapevolezze di genere e linguistiche hanno portato a fare negli ultimi anni nella società reale. Dai giornali alle comunicazioni ufficiali a ogni altro tipo di testo scritto. Della Valle ha precisato: “Se suonano male o sembrano brutte è solo perché sono usate poco”.

La visione androcentrica, e quindi incentrata sul maschile, è stata rivista anche nella sostituzione della parola “uomini” nei casi in cui questa indicava gli esseri umani in generale. A “uomini” è stata preferita “essere umano” o “persona”. E infatti Della Valle ha raccontato: “Il fatto che i vocabolari registrassero aggettivi e nomi al maschile corrisponde a una visione androcentrica che si spiega in gran parte col fatto che i vocabolari sono sempre stati diretti unicamente da uomini”.

I dizionari Treccani, nota per essere l’enciclopedia più famosa in Italia, vengono pubblicati con l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e sono acquistabili solo contattando la casa editrice e tramite gli agenti sul territorio. Il dizionario costerà 200 euro, 590 con il Dizionario storico etimologico e la Storia dell’italiano per immagini. La nuova edizione includerà come sempre nuove espressioni diventate di uso corrente, in questo caso lemmi come dad (didattica a distanza), distanziamento sociale, infodemia, lavoro agile, smartworking, lockdown, spillover e termoscanner ma anche reddito di cittadinanza, revenge porn, rider e terrapiattismo.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Enrico Ruggeri contro la svolta gender della Treccani: “Avevamo la lingua più bella del mondo…” Adriana De Conto il 13 Settembre 2022 su Il Secolo d'Italia.

“Avevamo la lingua più bella e completa del mondo, figlia di padri greci e latini…”. E’ Enrico Ruggeri a polemizzaare con la Treccani. Lo fa su Twitter, rilanciando un articolo di Luigi Mascheroni sul Giornale, il quale a sua volta aveva commentato: “Ci occupiamo di nuovi fascismi di Bollette e gas. Poi crolla il mondo occidentale e va bene così…Purtroppo la battaglia è persa completamente“. Non va giù ad Enrico Ruggeri che il prestigioso vocabolario della Treccani si sia piegato ai diktat boldriniani. Accogliando voci quali architetta, notaia, medica, soldata, chirurga. Che un istituto di tal prestigio si pieghi a fare cronaca corrente ha lasciato sbigottiti linguisti, scrittori e gran parte degli italiani. La presentazione del  il primo “Dizionario della lingua italiana” che lemmatizza anche le forme femminili di nomi e aggettivi tradizionalmente registrati solo al maschile fa infatti cadere le braccia.

Enrico Ruggeri: “Avevamo la lingua più bella,figlia di padri greci e latini”

Si tratta di un colpo ben assestato alla bellezza della lingua italiana che però alla Treccani, spiegano, è “un progetto ambizioso e rivoluzionario”.  Enrico Ruggeri, sempre controcorrente e mai uso a lisciare il pelo del mainstremingaggia sui social un duello con chi, invece plaude all’inclusività delle nuove scelte.  Ma la  rivoluzione gender dell’edizione 2022 del Vocabolario Treccani non gli va giù. Come ha scritto stamattina sul Secolo Lorenzo Peluso, “la questione di genere merita certamente tutto l’interesse della società civile, con un cambio radicale del nostro agire. Ma la lingua in tutto questo non può e non deve entrarci.”. La pensa così anche il cantautore e conduttore.

Su twitter alcune donne lo provocano: “Enrì, lo sappiamo che sei rimasto fermo a “Siamo così, dolcemente complicate”,  gli scrivono citando un testo della Mannoia. Lui risponde in modo molto lineare: “Io sostengo che le battaglie civili e la parità dei sessi non passano attraverso stucchevoli forzature grammaticali, tutto qui”. Di fronte agli insulti che sta ricevendo una follower lo esorta:”Lascia perdere, il furore ideologico impedisce loro di ragionare, comprendere”. Lui insiste: “Hai ragione, dovrei lasciar pardere, ma non mi rassegno a vedere un mondo così imbruttito”.

Treccani? No, "Treccagne": roba da matti, ecco il dizionario... della Boldrini. Giovanni Sallusti su Libero Quotidiano il 14 settembre 2022

E un'altra battaglia fondamentale perla civiltà occidentale è stata vinta. No, non parliamo della controffensiva ucraina, quella è realtà, mentre il terreno di caccia preferito delle nostre avanguardie intellettuali, com' è noto, è l'ideologia. In particolare, quella sua ultima forma ipocrita e petalosa che si chiama Politicamente Corretto. Poteva il nuovo Dizionario Treccani della (neo)lingua italiana sottrarsi alla moda? La risposta è insita nella domanda, ed ecco a voi il primo vocabolario inclusivo, sessualmente paritario, nemico del dannato patriarcato tipico del dannatissimo maschio bianco. E in cosa consiste l'operazione riparatrice, sobriamente annunciata dagli autori come una "rivoluzione"? Anzitutto, come spiegava ieri Repubblica in trance arcobaleno (fate i bravi, abbiamo scritto trance, non trans), nell'addio alla retriva "prevalenza del maschile". Un "lavoro enorme" mirato a "scardinare l'androcentrismo dei dizionari": nomi e aggettivi non vengono infatti più lemmatizzati, ovvero registrati, in base alla forma maschile, come da ultrasecolare prassi dell'umanità primitiva, fascio-androcentrica. Per cui le nuove leve grammaticalmente corrette troveranno "amica" invece di "amico", "bella" invece di "bello", "gatta" invece di "gatto", insomma la salvifica desinenza rosa in luogo di quella fallocentrica che ci vergogniamo persino a nominare. 

SPECCHIO DEL MONDO Non essendo all'altezza del tema, prendiamo a prestito dal sito della Treccani: tale opera "è lo specchio del mondo che cambia e il frutto della necessità di validare e dare dignità a una nuova visione della società, che passa inevitabilmente attraverso un nuovo e diverso utilizzo delle parole".

Non nascondono nemmeno il furore ideologico dietro finti tecnicismi, questo va riconosciuto, sono espliciti: si tratta di costruire una "nuova società" attraverso un "nuovo utilizzo delle parole", di farla finita con l'archeo-lingua, direbbe Orwell. Pura teleologia marxista, con un'unica, decisiva differenza: il fine ultimo non è più l'uguaglianza del collettivismo, ma la diversità del femminismo. Non a caso l'altra, epocale riforma dell'imprescindibile dizionario è, citiamo sempre da Repubblica, l'introduzione di "forme femminili di lavori da sempre declinati al maschile". Per cui è tutto un florilegio di "notaia", "avvocata", "chirurga", "soldata", "architetta", "ingegnera", con gran sprezzo della cacofonia incombente e del rispetto per quelle migliaia di avvocati, chirurghi, notai, soldati di sesso femminile che stimano il proprio valore e la propria professionalità superiori a un cambio di vocale.

È il trionfo conclamato del boldrinese istituzionalizzato in italiano corretto, corrente e vidimato Treccani. Il cui zelo orwelliano non si ferma qui: la nuova edizione dichiara anche lotta dura agli "stereotipi di genere", ovvero gli esempi spesso utilizzati per spiegare la definizione dei termini.

Molti infatti erano legati a inaccettabili schemi machisti in bilico sull'istigazione al femminicidio, come "la mamma è in cucina, il papà è al lavoro". Per incentivare un più decoroso ribaltamento dei ruoli (immaginari, il pregiudizio come sempre sta nell'occhio di chi guarda), il neovocabolario mette in risalto voci come "casalingo" e "ricamatore": qui il maschile diventa improvvisamente importante, in quanto evidentemente lo si presume addomesticato e para-femminile ("la donna non è più un sesso, è un ideale" scriveva Éric Zemmour). 

CAPOLAVORO Ma il capolavoro definitivo degli autori Valeria della Valle (prima donna direttrice del Dizionario, a chi la chiamasse direttore ovviamente sarebbe ritirata la licenza elementare) e Giuseppe Patota è un altro. Trattasi dell'abolizione della parola "uomo" per indicare il platonico animale bipede implume, insomma chiunque appartenga al genere umano. Un chiaro residuo androcentrico, da sostituire con "persona" (che ha pure il pregio di essere un sostantivo femminile) o "essere umano". Poi ci sarà da mettere d'accordo il dizionario femminista col dizionario etimologico, secondo cui "uomo" deriva dal latino "homo" che significa anche e anzitutto creatura umana (almeno al momento in cui questo giornale va in stampa, ma non escludiamo che qualche zelante psicopoliziotto della Treccani abbia nel frattempo provveduto), ma non fossilizziamoci sui dettagli, anche la rivoluzione linguistica soggiace al dogma leninista di tutte le rivoluzioni: non si può fare una frittata senza rompere delle uova. L'importante è conservare il senso dell'umorismo, di cui è abbondantemente fornita la professoressa Della Valle, almeno stando alle sue parole riportate da FanPage: «Il nostro non è un dizionario con una presa di posizione ideologica intransigente e astratta». Assolutamente, è semplicemente la Treccani che diventa Treccagne. Sipario. 

Quell'eterno dibattito alimentato di ipocrisia che la sinistra (vuota) non riesce ad archiviare neanche dopo cent'anni. Alessandro Gnocchi il 3 Settembre 2022 su Il Giornale.

Già negli anni Settanta, Sciascia e Pasolini avevano chiarito i limiti del tema (o, peggio, la sua malafede). Eppure la campagna elettorale si gioca ancora su categorie ormai consunte

«I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Questa geniale battuta di Mino Maccari, resa però famosa da Ennio Flaiano, era da intendersi alla lettera. Sia Maccari sia Flaiano avevano visto i propri amici intellettuali transitare senza alcuna contrizione dalla camicia nera a quella rossa. Un processo descritto magnificamente dal liberale Antonio Delfini nei suoi Diari appena ristampati da Einaudi e nella Introduzione ai Racconti appena ristampati da Garzanti. Sono pagine impietose sul mondo dei letterati e degli imboscati, degli ex amici Mario Pannunzio ed Eugenio Scalfari, ma anche dei mitici intellettuali delle Giubbe Rosse, tutta gente che aspettava la caduta del regime, rigorosamente in silenzio, per impadronirsi poi del potere culturale. Nei Diari, troviamo appunti come quello del 15 marzo 1937: «C'è troppa affinità letteraria tra intellettuali fascisti e intellettuali avversari, perché si possa credere nella nascita di qualcosa di grande da quelli». Gli scrittori di regime sono cortigiani ma non sono molto differenti da «quelli che sono, o stanno, fuori del fascismo, indifferenti ma... illuminatissimi; oscuri ermetici, ma chiari probanti coscienziosi nel loro... mestiere di letterato». Ecco poche righe in cui c'è la storia d'Italia: «Dopo il 25 luglio venni a sapere, con mia meraviglia, che tutti quegli Antifascisti (ma fascisti o fascistizzati) avevano lavorato loro, soltanto loro, per far cadere il fascismo. Io temo di intuire che essi si erano organizzati per l'eventuale caduta del fascismo; e non per far cadere il fascismo. Siamo giusti. Il fascismo l'hanno fatto cadere gli Inglesi (filo-fascisti fino al 1935), gli Americani, i Russi e i Fascisti meno stupidi e meno delinquenti». Conclusione sarcastica: «Quanto alla massa degli Antifascisti - via, siamo franchi: apriamo il nostro cuore! - la loro innocenza per la caduta del fascismo è quasi completa».

Sono considerazioni da tenere a mente in questa campagna elettorale nella quale non si dibatte di nulla che non sia un ricordo del XX secolo. Dunque, il centrosinistra ha impostato tutta la propaganda sull'allarme fascismo, ponendo l'accento sulla continuità (tutta da dimostrare) tra M e M, Meloni e Mussolini. C'è chi lo fa rozzamente e chi lo fa con maggiore intelligenza, archiviando il fascismo storico ma tirando fuori un «nuovo autoritarismo» che si intuisce essere parente stretto, forse il gemello, del fascismo. Ci sono poi gli «impressionisti» del fascismo, quelli che il fascismo è uno stato d'animo, un'emozione, un accento nero tra le parole «t'odio».

Intorno alla metà degli anni Settanta, alcuni intellettuali rigorosamente di sinistra, avevano già archiviato la questione. Erano spiriti liberi, stupefatti davanti all'ondata di conformismo e alla trasformazione dell'autore impegnato in autore impiegato, burocrate del Partito comunista che a tutto e tutti provvede. Nella sua evoluzione, Pier Paolo Pasolini incominciò a interrogarsi su quali fossero i frutti dell'ortodossia di sinistra. In una intervista del 1974, rilasciata a Massimo Fini, il poeta non usava mezzi termini: «Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per prendersi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più». Pasolini affondava il coltello nella ferita: «Ecco perché buona parte dell'antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. È insomma un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo... Io credo profondamente che il vero fascismo sia quello che i sociologi hanno troppo bonariamente chiamato la società dei consumi».

Il totalitarismo della società dei consumi è peggio del fascismo storico. Il fascismo poteva chiedere e imporre obbedienza ma non poteva impadronirsi delle coscienze. Il consumismo, al contrario, colonizza i nostri desideri e le nostre fantasie. Ci rende tutti uguali attraverso una finta tolleranza. Vuole abbattere ogni confine e travolgere ogni tradizione perché ha come unico scopo l'efficienza del mercato globale, che richiede consumatori uno identico all'altro. La sinistra progressista, incluso il movimento sessantottino, ha assecondato in pieno la nascita del nuovo totalitarismo, contestando e scardinando le «vecchie» istituzioni e le tradizioni millenarie.

Pasolini ci sta parlando di globalizzazione, mercato falsamente libero, pensiero unico, pigrizia culturale, difesa della differenze. Tutti temi interessanti, senz'altro più complessi da elaborare rispetto a usurati paragoni tra la destra di oggi e quella di un tempo ormai superato (da qualcosa di peggio, nella visione di Pasolini).

Anche Leonardo Sciascia, altro uomo di sinistra, e come Pasolini vicino al Partito radicale, aveva le idee chiare. Nel suo diario, Nero su nero, edito da Einaudi nel 1979, scrive pensieri come questo: «Il più bello esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere (e ne raccomandiamo agli esperti la più accurata descrizione e catalogazione) è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dar del fascista a chi fascista non è». Il più bello esemplare di fascista era un caso particolare di una legge storica, l'ascesa del cretino di sinistra: «Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi, sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero soltanto a destra, e perciò l'evento non ha trovato registrazione». In quanto al «movimento» studentesco, ecco un micro-racconto che si direbbe una pietra tombale: «Era un fascista dice di Dubcek una ragazza molto rivoluzionaria che ha sposato un uomo molto ricco ed è entrata ora a far parte da assistente a un professore molto fascista». Sciascia aveva visto anche il sorgere della doppia morale: «A me, uomo di sinistra, è permesso, è lecito, è da approvare quel che non è permesso, è illecito, è riprovevole a un uomo di destra. Pericolosissimo principio, se si considera la facilità, e a volte la comodità, con cui si può essere uomo di sinistra, oggi».

Sciascia credeva che il fascismo, in una forma o nell'altra, fosse sempre possibile in Italia. Ma non era all'ordine del giorno. Lo scrittore siciliano insisteva su altri temi: la separazione dei poteri, l'eguaglianza davanti alla legge, il corretto funzionamento della giustizia. E proprio la giustizia, con i suoi tempi e la sua a volte dubbia indipendenza, è uno degli eterni problemi italiani. Nonostante ciò, non è fino a qui entrata nella campagna elettorale di alcun partito, se non in modo marginale.

Il dibattito sul fascismo ha fatto, negli ultimi decenni, marcia indietro. Era più interessante in passato, quando uscivano libri fondamentali sulla questione, a sinistra e anche a destra. Il dibattito che invece non è mai cominciato è quello su antifascismo e anticomunismo. Per appartenere alla famiglia democratico-liberale non è sufficiente l'antifascismo. È necessario anche l'anticomunismo. Si finge di non saperlo, ci si nasconde dietro all'illusione che il Partito comunista italiano fosse diverso. È ipocrita vedere sempre il fascio littorio nell'occhio altrui e non vedere la falce e martello nel proprio.

Non basta gridare: «Allarme fascismo». Bisognerebbe anche provare che la democrazia è in pericolo ma in questa disamina nessuno si avventura perché il risultato potrebbe rivelarsi un clamoroso buco nell'acqua. Delegittimare l'avversario, soprattutto quando si parte condannati alla sconfitta, è una tentazione alla quale la sinistra non è capace di rinunciare. Così parte la manganellata progressista, verbale ma non innocua: la destra e i suoi elettori sono fascisti e dunque indegni di prendere parte alla vita pubblica.

Nessuno, a sinistra, capisce la mediocrità (e il fascio-comunismo) di questo atteggiamento?

"Coraggio", il manuale di Bousquet per una spietata guerriglia al pensiero unico. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 13 settembre 2022

Andrea Cionci,. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

La guerra si combatte per la Patria, la guerriglia per riconquistare la Patria. Ed è proprio alla “Reconquista” dell’identità nazionale, contro il pensiero unico occupante, che l’intellettuale francese François Bousquet ha pubblicato nel 2020 “Coraggio”, appena tradotto in italiano e pubblicato per i tipi di Passaggio al Bosco. Saggista ed editore vicinissimo alla Nouvelle Droit di Alain de Benoist, Bousquet è esponente di una pregevole classe intellettuale di destra, determinata e agguerrita, di cui si sente la mancanza in Italia dove ancora indugiamo fra guenoniane conversioni all’Islam, urla primordiali, o timidezze all’acqua di Fiuggi. 

“Coraggio” è un manuale tattico-operativo, scritto in modo elegante, appassionato e soprattutto ordinato. Per prima cosa, recuperare la virtù del coraggio: senza questo, nessun futuro. Fra poco, con la prossemica della Finestra di Overton potrebbero sdoganare perfino il cannibalismo, e l’autore ne traccia una gustosa e plausibile serie di tappe.

Il coraggio è l’affermazione regale della nobiltà dell’uomo: “Crepiamo di prudenza, soffochiamo di saggezza avvelenata, di carità malriposta” spiega l’autore, ma chi sono i carnefici contro cui ribellarsi?

“Animatori di talk show, addetti alla prevenzione nei trasporti pubblici, giornalisti in vista, ayatollah della risata, spacciatori d’emozioni, attori di spicco, studenti di sociologia, calciatori tatuati, giudici istruttori, null’altro che delle pappemolli e degli omuncoli, dei lillipuziani”.  

Sono i “Torquemada transgender, le Robespierre femministe, i Vyshinsky panafricani” che manipolano il linguaggio, in una sorta di conato psicomagico dove le parole hanno, di nuovo, il potere di operare il bene e il male.

Da un lato le virtù “morbide” si sono corrotte: la sensibilità è divenuta stucchevole emotivismo, la debolezza è stata innalzata a virtù, in un maremoto di buoni sentimenti sciropposi. Dall’altro lato, l’ethos maschile è stato smantellato dalla fine del servizio militare, dalla crisi della virilità operaia e contadina e dalla moltiplicazione delle famiglie monoparentali, ma il colpo di grazia è arrivato dagli attacchi congiunti del gender, del femminismo e delle minoranze sessuali.

Così, le fantasticherie massoniche e le utopie universaliste del ‘700 che hanno lavorato nel profondo delle società, sono alla fine uscite alla luce: l’avversario ha colonizzato tutto, respiriamo la sua atmosfera, utilizziamo il suo linguaggio, subiamo le sue milizie. Le idee di destra sono state espulse dallo spazio pubblico, non funzionano se non come concetti da respingere. Il Sistema utilizza quattro mezzi per nullificarle: 1) l’invisibilizzazione 2) l’inferiorizzazione, 3) la demonizzazione e, 4) la patologizzazione a colpi di metafore psichiatriche.

E così, “alla spirale del mutismo occorre contrapporre quella di prendere la parola in pubblico senza chiedere l’autorizzazione”. In tal modo, il coraggio si autoalimenta, diventa sempre più forte, si moltiplica, con effetti auto-trascinanti: la vittoria chiama la vittoria. 

“L’ora è quella della mobilitazione generale, quella in cui suona la chiamata a raccolta delle truppe, in cui si misura, nella massa, il numero dei coraggiosi e degli audaci. Chi è disposto ad arruolarsi? Perché chi non s’arruola di fatto diserta e quindi collabora”.

Paradossalmente Bousquet si rifà tanto al bellicismo intellettuale di Gramsci, quanto all’audacia dei gay che fanno coming out, ma specifica: “È il nostro turno di uscire allo scoperto e siamo ben più legittimati a farlo degli omosessuali, che hanno immesso la sfera privata in quella pubblica, mentre per noi è il momento di smettere di rinchiudere nel privato impegni che assumono tutto il loro senso solo negli spazi pubblici”.

Nonostante si tratti della difesa di una maggioranza silenziosa, chi vince sono le minoranze intransigenti, in questo caso contro un pensiero unico istituzionalizzato. E quindi la guerra non può che essere asimmetrica: molotov contro i carri armati, MAS contro le corazzate, commando mobili e micidiali all’attacco delle intruppate e bolse divisioni del nemico.

“Il coraggio non si pratica più sui campi di battaglia, ma nell’arena mediatica, in quella intellettuale e in quella politica. Non è più tanto nell’azione quanto nella parola. Il dire è l’azione, il fare è la parola”, anche attraverso i nuovi canali: fumetti, i videoclip, la moda, lo sport. Ma bastano anche i piccoli gesti quotidiani, come aprire orgogliosamente un giornale “maledetto” in un elegante e frequentatissimo caffè.

Il rifiuto biologico per la menzogna, il disprezzo verso gli indifferenti e l’abbandono di vetusti nostalgismi: questi i presupposti per avere mobilità, potere di logoramento, furtività, arte di arrangiarsi, il ricorso all’ironia, e soprattutto l’inventiva, l’ingegnosità, la reattività. “Noi siamo il fattore X, il cigno nero, l’imprevisto nella storia. Nessuno ci aspetta, non ci aspettano mai”.

Unico dispiacere dalla lettura di questo libro, che non l’abbia scritto un italiano.

Interviste. “Gli artisti di sinistra sono diventati i guardiani dell’immensa fureria del conformismo e dell’obbedienza”. Fabio Dragoni su Culturaidentita.it il 13 Settembre 2022

Ogni volta che spunta la questione intellettuale mi viene in mente la scena di un deputato siciliano che al tempo del primo governo Berlusconi incrocia La Russa in Parlamento e dice a voce alta “Gnazio, un posto ‘nta cultura per mmia non c’è“. Twitter è un posto meraviglioso soprattutto quando ospita il pensiero lucido e scanzonato di Pietrangelo Buttafuoco. Lo chiamo perché nessuno meglio di lui può raccontarci come e perché gli intellettuali e gli artisti stanno sempre a sinistra. Nella parte giusta o comunque più corretta, almeno politicamente. Lo facciamo in questo mese che raccontiamo i 90 anni della Mostra del Cinema di Venezia. Tutti molto ben portati. Manifestazione nata, ironia della sorte, durante il ventennio fascista.

Gli artisti e gli intellettuali sono tutti o quasi conformisti. Come te lo spieghi? E soprattutto, storicamente, come nasce questa egemonia culturale della sinistra in campo culturale?

Storicamente nasce da un antico vizio che è quello di affidarsi al Principe. È lui che commissiona un lavoro in fatto di arte. Tutta un’infinità di opere, gli allestimenti e le dediche che vengono fatte al Principe. E questo nel tempo si è materializzato in un meccanismo mentale secondo il quale tutto ciò che è arte e la relativa produzione è quasi considerata come una regalia. Tant’è che il pubblico spesso non si pone mai il problema di dover andare al botteghino e pagare il biglietto. È sempre una fatica immane far passare questo meccanismo. Furbescamente e con la bravura che è propria di una strategia che viene da lontano è durante la finestra togliattiana che tutto un comparto di artisti, letterati e creatori in genere sono stati inquadrati e incanalati in quella che doveva essere l’utilità per il partito. E ci sono ben riusciti. Stavano bene insieme figure come Palmiro Togliatti, Luchino Visconti e Curzio Malaparte. Tutte cose che si sono sedimentate nell’opinione pubblica. Per caso mi sono accorto di un dettaglio rivelatore. L’atteggiamento dei contatti social ed il successo che ha Massimo Recalcati. È impressionante, perché effettivamente sono riusciti a creare un pubblico che corrisponde perfettamente ai loro meccanismi mentali.

C’è stata anche una sottovalutazione a destra dell’importanza della cultura?

Non direi. Nel Dopoguerra i giganti nella scena del dibattito, quanto a profondità della riflessione politica e culturale, certamente non erano di sinistra. Il più grande protagonista della commedia e più vicino all’Italia moderna è stato Pietro Germi. Nessuno ricorda che è stato un premio Oscar. Venne ostacolato in vita. Un grandissimo scrittore è stato Giuseppe Berto. Con tutto il rispetto per Alberto Moravia, che pure aveva maggior visibilità e vendeva più copie. Un grande e raffinatissimo esegeta della letteratura inglese quale fu Mario Praz non era certo di sinistra. Pensa cos’era la pagina culturale del Giornale, il quotidiano fondato da Indro Montanelli. Tra le sue firme vi era il meglio della cultura internazionale. Niente da invidiare al corriere della Corriere della Sera. Piuttosto viene da domandarsi se esista un pubblico non di sinistra. Il lettore e lo spettatore di destra forse non esistono. Sposo in proposito una felice intuizione di Michele Serra: “lo scrittore di destra ha una doppia sfortuna. I lettori di sinistra non lo leggono perché è di destra mentre quelli di destra non ci sono”.

Ti faccio il caso di Lucio Battisti. Per il solo fatto di non occuparsi di politica e di cantare d’amore, veniva considerato quasi come fascista. Esiste un meccanismo tale per cui, anche se non parli di politica, il solo evitare di farlo vuol dire che non sai dei loro?

Lo hanno fatto. Ma non sono riusciti a cancellare un fatto inequivocabile. Battisti rimane nella storia del costume e della cultura italiana. Lo stesso equivoco c’è stato con Franco Battiato, non sapevano come collocarlo. Dario Fo lo apostrofò dicendo “non capisco un cazzo delle tue canzoni” e lui rispose “e io me ne frego”.

Un modo elegante di metterlo all’indice. Ma la sinistra è talmente ingorda che finisce per annettere al suo pantheon figure che poi tutto sommato di sinistra non lo sono. Penso a Giorgio Gaber. Tutto fuorché un’icona della sinistra. Non trovi?

L’equivoco nasce dal fatto che è stato un protagonista della stagione della contestazione studentesca. Ma Giorgio era proprio uno di testa libera. L’altro giorno ho assistito ad uno spettacolo straordinario di Angelo Duro. In un’ora e mezza ha ipnotizzato il pubblico del meraviglioso anfiteatro di Zafferana Etnea. Pieno all’inverosimile. Lui fa sold out ovunque. Un vero e proprio trattato politico. Un linguaggio urticante, cinico, spietato, senza nessun autocompiacimento. E mi ha colpito lo sai cosa?

Cosa?

Quel tipo di linguaggio non potrà mai essere mandato in onda in televisione. Non potrà mai essere ospite di Fabio Fazio. Però è riuscito a crearsi un pubblico che gli somiglia. Di testa libera. Senza preconcetti. Senza schemi.

I social possono aiutare a superare queste barriere?

Fino ad un certo punto. Ti dico una cosa. Su cento “mi piace” o “like” come si usa dire in gergo social forse ne ricavi due al botteghino. Forse. Ma forse. Il mondo è pieno di persone che commentano entusiaste uno spettacolo con espressione enfatiche che poi in sala non si vedranno mai. Si sentono sollevati. Mettere un like è come partecipare. Ma è tutto fuggevole. Il vero risultato lo fa il pubblico dal vivo.

Ultima riflessione un po’ fuori sacco, visto che siamo in campagna elettorale. La sinistra ha smesso di occuparsi dei lavoratori per diventare un partito radicale di massa che si occupa di diritti civili. Quindi anche più figo per gli artisti

Più figo no. Semmai avalla il conformismo. È la prima volta che gli artisti invece di farsi carico del loro ruolo naturale, che è quello di essere sovversivi e sopra le righe o comunque avanguardie che ti accompagnano nel passaggio dentro un terreno sconosciuto, sono invece i guardiani dell’immensa fureria del conformismo e dell’obbedienza. E questo è un caso italiano che fa scuola. E’ impressionante. E la sinistra è diventata tale perché comunque ricordati che ha un padre fondante che da sempre ha saputo interpretare l’aspirazione della borghesia. Karl Marx affida e destina l’editto della rivoluzione ad un’unica classe. La borghesia appunto. E borghesi sono a sinistra.

Quegli artisti di sinistra guardiani del conformismo. Guido Igliori il 2 Settembre 2022 

Nel numero di settembre di CulturaIdentità in edicola da oggi e dedicato ai 90 anni della Mostra del Cinema di Venezia l’imperdibile intervista di Fabio Dragoni a Pietrangelo Buttafuoco e l’intervento di Maria Giovanna Maglie sul conformismo degli artisti italiani di sinistra. Non è vero che la Destra non produce cultura, vedi giganti come Pietro Germi, Giuseppe Berto, Mario Praz, Montanelli con Il Giornale e le sue pagine culturali, per non parlare di artisti incollocabili come Giorgio Gaber: “Giorgio era proprio uno di testa libera […]. Piuttosto viene da domandarsi se esista un pubblico non di sinistra. Il lettore e lo spettatore di destra forse non esistono”.

Oggi invece gli artisti sono “i guardiani dell’immensa fureria del conformismo e dell’obbedienza” (Buttafuoco) nel salotto di Fazio: come scrive la Maglie nel suo intervento per CulturaIdentità, oggi “il Partito dello Spettacolo è schierato con un unico manuale Cencelli su come comportarsi, che film girare e occupa tutti gli spazi della cultura”, con gli artisti che fanno gli agit prop della sinistra, vedi Loredana Bertè, vedi Elodie, vedi i Maneskin, tutti allineati, tranne poche e faticose eccezioni, al pensiero unico dominante.

L'arte contemporanea da rivolta a conformismo. Con le avanguardie, la provocazione divenne una norma. Seguita da molti fino all'assurdo. Vittorio Sgarbi il 31 Luglio 2022 su Il Giornale.

Non esiste l'arte contemporanea. Esiste una idea dell'arte contemporanea che si interpreta come un'arma da usare contro chi non si riconosce in un perimetro delimitato dalle mode e dal mercato. La condizione umana di precarietà, di crisi, di rivolta, determina un malessere di cui si fanno interpreti alcuni artisti particolarmente sensibili. Quella condizione degrada in chi assume un atteggiamento che progressivamente trasforma il dramma in una finzione. All'inizio è la viva coscienza di una esperienza di sofferenza, come in Kafka o Rainer Maria Rilke, il quale scrisse in una lettera: «Le opere d'arte sono sempre il frutto dell'essere stati in pericolo, dell'essersi spinti, in un'esperienza, fino al limite estremo oltre il quale nessuno può andare».

Parallelamente Alberto Giacometti, scultore di una crisi che si riflette nella forma, risponde, con viva intelligenza: «L'oggetto dell'arte non è riprodurre la realtà, ma creare una realtà della stessa intensità». Niente di più vero. È in fondo una variazione della intuizione di Oscar Wilde: «Nessun grande artista vede mai le cose come sono veramente. Se lo facesse, smetterebbe di essere un artista». Ma era stato Benedetto Croce a ricondurre la questione a un apparente relativismo che si risolveva in una intuizione istintiva della idea stessa di arte come percezione di un bene condiviso attraverso una emozione rivelatrice: «Alla domanda: Che cos'è l'arte? si potrebbe rispondere celiando (ma non sarebbe una celia sciocca): che l'arte è ciò che tutti sanno che cosa sia».

Per questo l'intuizione precede l'atto critico, che è impuro, condizionato, interessato, e spesso non adeguato a comprendere il mistero di un'opera d'arte, frutto di un tormento che è solo condivisibile emozionalmente, per identificazione: «Le opere d'arte sono di una solitudine infinita, e nulla può raggiungerle meno della critica», afferma Rilke. È una dichiarazione di guerra. E vale per le anime naturalmente belle. Per gli altri basta il richiamo di Leo Longanesi, cinico e vero: «L'arte è un appello al quale troppi rispondono senza essere stati chiamati».

Ma la definizione di arte vacilla quando arrivano le prime avanguardie, intenzionate a sconvolgere un ordine che aveva presupposti certi, ma fragili. Aprono le danze, malignamente, i Futuristi, in un Manifesto incendiario che inizialmente sembra un gioco, ma si rivelerà un terremoto: «Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità. Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia».

Lentamente la provocazione si farà norma, e l'arte sembrerà esistere solo nella condizione febbrile dell'avanguardia. Tragicamente sereno e imperturbabile si mostrerà così il più radicale di tutti, Marcel Duchamp, imponendo un oggetto d'uso, l'orinatoio, nello spazio destinato all'opera d'arte. È lucido, estremo, definitivo: «Io mi definisco anartista invece di artista, o meglio ancora, respiratore. La mia attività consiste, semplicemente, nel vivere».

Davanti a queste lucide provocazioni, non sarà difficile a un uomo d'ordine, intelligente e originale, ma indisponibile a farsi portare in giro, rispondere con un epitaffio, in difesa della intelligenza: «L'arte moderna si chiama così perché non ha nessuna probabilità di diventare antica». La formidabile battuta è dello statista Nikita Chrucëv, innovatore e presidente della Unione Sovietica. Su questa scia uno dei più intelligenti scrittori italiani potrà definire i prodotti effimeri degli artisti d'avanguardia con una battuta folgorante: «I capolavori oggi hanno i minuti contati». È una intuizione perfetta e micidiale di Ennio Flaiano.

Lo segue, superando il paradosso, in una implacabile fotografia, Brian Sewell: «Più frequentiamo le mostre d'arte moderna, più tutto sembra assomigliare a un'opera d'arte, compresi la sedia dell'addetto alla sorveglianza e l'estintore». Lo si può smentire? Non è la stessa sensazione che trasmette la visione del travolgente episodio del film Dove vai in vacanza? con Alberto Sordi, «Le vacanze intelligenti»? È il 1978, l'anno della 38ª Biennale di Venezia: «Dalla Natura all'Arte, dall'Arte alla Natura». Quell'edizione traeva spunto da una massima di Kandinskij: «Grande astrazione, grande realismo». La direzione del Padiglione Centrale era stata affidata ad Achille Bonito Oliva.

Esilarante la scena in cui i due protagonisti, Remo e Augusta, non riescono a comprendere il linguaggio e le forme dell'arte contemporanea e, quando lei si ferma a riposare su una sedia, viene scambiata per una installazione d'arte vivente - «sedia con corpo adagiato» - che un visitatore è disposto a pagare una cifra ragguardevole. Nella loro esperienza si misura che la valutazione di Sewell è perfettamente compiuta. E la concezione dell'arte ha perduto i confini. Tutto è arte, niente è arte.

Perché c'è bisogno di giudizi (purché leali e autoironici). Luca Doninelli il 23 Luglio 2022 su Il Giornale.

Lo smarrimento di un grande scrittore davanti alla perdita di autorevolezza della critica in letteratura, arte, teatro

In un tempo abbastanza infelice come il nostro, che ne è della critica? Critica letteraria, critica d'arte, critica teatrale, critica in generale. Non è che i critici siano scomparsi, però è un fatto che, nel gran mondo della produzione, dell'industria culturale il loro ruolo, dove più dove meno, si è ristretto. Fino a quindici, vent'anni fa una recensione poteva decidere la fortuna o il flop di uno spettacolo o perfino di un romanzo, oggi è molto più difficile.

Certo, le posizioni cambiano con il tempo, ed è giusto farsene una ragione. Una decina d'anni fa il compianto Angelo Guglielmi mi invitò a partecipare a un convegno sul rapporto tra cinema e letteratura nel contesto della globalizzazione. Al telefono non riuscii a esimermi da una domanda: come mai lui, che in passato aveva sempre detto male di me, ritenendomi non solo un pessimo scrittore ma un non-scrittore, adesso dimostrava per me sufficiente stima da invitarmi a un incontro come quello? La sua risposta fu semplice: quelli erano altri tempi. Le cose erano cambiate, il contesto era diverso. Nel nuovo contesto, io ero diventato più interessante, le vecchie parole non contavano più, erano lettera morta. Riconobbi in lui il marxista ortodosso, interessato a leggere le metamorfosi della cultura in rapporto con altri contesti (economico-produttivo, sociale, politico). Come cambiava dunque la produzione letteraria nell'epoca di internet, di blockbuster (i social e Netflix non esistevano ancora)?

Come dicevo, non è che i critici siano scomparsi. Le pagine di recensioni dei vari organi di stampa, cartacei e online, portano la firma di diversi valenti critici, il cui statuto però non è più esclusivo. Gli articoli più prestigiosi sono spesso affidati a scrittori, alcuni dei quali (penso a Alessandro Piperno o Antonio Scurati, Walter Siti e altri) ci offrono spesso bellissime lezioni di letteratura. La ragione di tutto questo è che uno scrittore, con ogni evidenza, si pone con un'autorevolezza di cui la critica sembra oggi incapace.

Di qui la mia domanda: perché la critica ha perduto l'autorevolezza di venti, trent'anni fa? Perché il critico sembra non uscire più dallo specialismo nel quale tanti eventi sembrano averlo relegato?

Le osservazioni sul tema possono essere tante: dalla sempre maggiore velocizzazione del consumo culturale alla crisi di prestigio dell'università, fino alla perdita di centralità della letteratura rispetto ad altri media - come le serie tv - che appaiono non solo più adeguati ai tempi ma anche più ricchi di possibilità creative nell'elaborazione della vicenda, nella gestione dei personaggi, e così via.

Ma forse è il caso di chiedersi anche: che cosa fa un critico? Qual è l'azione importante, insostituibile che ci aspettiamo da lui? Ce ne aspettiamo ancora una? Per rispondere bisognerebbe capire anzitutto che cosa non è un critico.

Un critico non è uno scrittore. Un critico non è un sociologo della letteratura. Un critico non è un linguista. Un critico non è un filologo. Un critico non è un filosofo, nemmeno un filosofo estetico. Questo non significa che un critico non debba essere anche una di queste cose, ci mancherebbe. E non vuol dire nemmeno che un critico debba rinunciare al proprio gusto, che è forse la cosa più importante e rara che ci sia, perché la costruzione di un gusto vuole tempo, pazienza, errori e correzioni: cose oggi difficili da potersi permettere.

Ma la critica compie un'azione precisa, ed è di quell'azione che molti di noi sentono la mancanza.

Ho ascoltato le dichiarazioni di molti critici sullo stato della nostra letteratura, e la mia impressione è che un certo vecchio vizio non sia scomparso: quello di definire la critica anzitutto come un discorso sul destino della letteratura. Non faccio nomi, poiché fin dal De Sanctis questo è stato il grande indirizzo della critica italiana. Il rinnovamento delle Patrie Lettere, il pirandellismo, i nipotini di Gadda, e via e via, fino all'attuale dichiarazione di morte del romanzo di fiction (una morte generalmente datata con Pastorale Americana di Philip Roth, anno 1997) e alla beatificazione della non-fiction e dell'autofiction, sorelle minori di quell'extrème contemporain che in Francia ha prodotto i capolavori di Pierre Michon, Annie Ernaux e altri.

Ora, non è necessario dubitare che per molti le cose oggi stiano così, che uno scrittore, liberatosi dalle pastoie del simbolismo, possa trovare nuove strade/strategie per liberare le sue qualità, la sua voglia o bisogno di raccontare. Con un po' d'ironia, però, anche perché in arte come nella vita nessuna sentenza è definitiva. Proprio per questo abbiamo ancora bisogno di critici che, senza rinunciare alle proprie convinzioni e soprattutto al proprio gusto, sappiano compiere quel necessario passo in più per riconoscere, semplicemente, il valore là dove si trova. Un critico è chi dice: non mi piace la tua idea di letteratura, però tu sei uno scrittore. O viceversa. Solo da questa lealtà (che richiede molta autoironia) si può sviluppare una dialettica feconda, senza complicità, fra critico e artista.

Un'ultima osservazione. C'è una questione ontologica che merita di essere presa in esame, e che cerco di esprimere in forma interrogativa. Un'opera coincide con la somma delle scelte (di genere, di stile, di contenuto ecc.) compiute dal suo autore o c'è qualcosa che eccede, un residuo, un fattore «x» che non permette all'opera di ridursi alle sue coordinate e lascia un margine di irrequietezza in chi legge o guarda o ascolta? In questa irrequietezza ontologica (sempre che esista) risiede, credo, la possibilità di crescita di un temperamento critico. Del quale, a mio parere, c'è ancora bisogno.

Manifesto per il libero pensiero. La forza del politicamente corretto è di essere impermeabile al ridicolo. Paola Mastrocola su L'Inkiesta il 6 Aprile 2022.

Le battaglie linguistiche, il virtue signalling, il conformismo suscettibile dei social sono tutti segni di un’epoca dove la possibilità di esprimersi viene messa a dura prova, spiegano Paola Mastrocola e Luca Ricolfi nel loro ultimo libro (La Nave di Teseo), dove individuano anche una via d’uscita.

In questo clima la libertà di espressione declina non tanto perché le suscettibilità offese possono ricorrere alla magistratura, naturalmente sensibile allo spirito del tempo, per punire ogni manifestazione giudicata lesiva della propria sensibilità, autostima, reputazione, onorabilità; ma perché sono le stesse istituzioni pubbliche e private a provvedere autonomamente a sanzionare i reprobi, senza aspettare la condanna della magistratura, sulla sola base della violazione di codici aziendali o etici più o meno espliciti.

Al posto della censura classica e pubblica (ma ancora fatta da persone in carne e ossa), che ritira i libri e vieta ai minorenni i film scabrosi, si installa un nuovo tipo di censura, tecnologica e privata, non di rado fondata su algoritmi e programmi di intelligenza artificiale, incaricati di scovare ogni contenuto o parola potenzialmente lesiva di qualche principio etico assoluto, o di qualche sensibilità – individuale o di gruppo – giudicata degna di protezione. Con un esito paradossale: i codici etici, indispensabili a qualsiasi soggetto che svolga attività di interesse pubblico, rischiano di trasformarsi in strumenti di censura, o di imposizione delle visioni del mondo dominanti.

E non si pensi che si tratti soltanto di prescrizioni di bon ton, o della preoccupazione di proteggere persone e istituzioni da calunnie, diffamazioni, ingiurie, aggressioni verbali. No, lo zelo con cui grandi industrie, associazioni e istituzioni varie sorvegliano i nostri comportamenti verbali non conosce limiti e confini.

L’Associazione americana dei produttori di materiali audio (PAMA) ha pensato che, al giorno d’oggi, non si poteva continuare a parlare di jack “maschio” e jack “femmina”. E nemmeno a chiamare “prese master-slave” certe ciabatte con derivazioni multiple.

Ed ecco il rimedio: d’ora in poi, in uno “spirito di inclusività e coerenza”, il jack maschio sarà chiamato plug (spina), quello femmina socket (presa). Quanto alla dicotomia master-slave, usata anche dagli informatici per distinguere un computer principale da uno subordinato, la si dovrà sostituire con una serie di dicotomie alternative, più democratiche e inclusive: primary/secondary, main/subordinate, director/performer, leader/follower, eccetera eccetera.

Il politicamente corretto pretende di proteggerci non soltanto dall’uso di termini offensivi, sessisti o razzisti rivolti a soggetti viventi, ma anche dall’uso di termini sessisti-razzisti-discriminatori che riguardano oggetti inanimati. La sorveglianza sulla correttezza del linguaggio deve essere totale, la punizione e rieducazione dei reprobi devono essere puntuali. Lo sottolinea con forza Karrie Keyes, direttrice esecutiva di SoundGirls (le “ragazze del suono”), che non riesce a nascondere la sua soddisfazione per le nuove regole promosse dall’associazione dei produttori audio (PAMA), ma deve ammettere che la strada è ancora lunga:

Un plauso per PAMA che cerca di introdurre un linguaggio neutro nell’industria audio. È un’impresa enorme, ma bisogna continuare a lavorare per portare cambiamenti significativi in questo settore.

Recentemente il delirio antisessista è approdato anche in Germania, dove la compagnia aerea Lufthansa non saluterà più i passeggeri con il sehr geehrte Damen und Herren (gentili signore e signori), ma con formule “più inclusive”, variabili e decise volta per volta (“buongiorno”, ad esempio). 

La compagnia aerea ha compreso di aver finora sbagliato, e ammette volentieri le proprie colpe:

Per noi è importante tenere in considerazione tutti al momento del saluto – fa sapere un portavoce della compagnia aerea – la diversità non è una frase vuota, da ora vogliamo esprimere la nostra attenzione al linguaggio.

L’importante non è migliorare il servizio, magari fornendo sedili più comodi e cibo di qualità, ma segnalare la virtù della compagnia aerea, proteggendola così da ogni accusa di discriminazione, anche la più ridicola e infondata.

A differenza di altri fenomeni politici e di costume, il politicamente corretto è del tutto impermeabile al senso del ridicolo, e quindi non incontra limiti. Al di là e oltre il politicamente corretto, c’è la prateria del “follemente corretto” (copyright Caterina Soffici), che si manifesta ogniqualvolta la volontà di mostrarsi dalla parte dei buoni si accoppia a un grave deficit di autoironia.

Conoscete quella canzoncina scherzosa di Cochi e Renato (fra gli autori: Jannacci) che si intitola La gallina? Ebbene, sono passati cinquant’anni dalla sua pubblicazione (era il 1972) e nessuno aveva mai trovato niente da ridire.

Oggi invece sì, oggi su internet si è scatenata la bagarre sulla seguente strofa:

La gallina

non è un animale intelligente

lo si capisce

lo si capisce

da come guarda la gente

L’AIDAA (Associazione italiana difesa animali e ambiente) ha messo sotto accusa il testo perché quel non, applicato all’intelligenza della gallina, sarebbe “un insulto verso i polli e le galline”. Meglio sopprimerlo, così capovolgendo il senso della strofa: “La gallina / è un animale intelligente.” È vero, concedono i censori, “si tratta di una canzone d’altri tempi, quando il rispetto degli animali non esisteva”. Però ormai i tempi sono cambiati, e dovremmo non solo riscrivere La gallina, ma anche tutte quelle canzoni che “allora facevano sorridere”, ma “oggi rischiano di far piangere la stragrande maggioranza degli italiani”.

da “Manifesto del libero pensiero”, di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, La Nave di Teseo, 2022, pagine 128, euro 10

CULTURA. La censura è stata la culla della modernità. RAFFAELE ALBERTO VENTURA, scrittore, su Il Domani il 17 marzo 2022

Un libro dello storico Giorgio Caravale ripercorre la storia delle politiche di limitazione della libertà d’espressione, smontando i luoghi comuni. Le libertà moderne sono il prodotto di filtraggio e sintesi all’interno di una dialettica aspra

Nel Cinquecento, proprio come oggi, la censura promette di proteggere la società dalla divisione e dalla disinformazione.

All’epoca l’esigenza nasceva dall’irruzione di una nuova tecnologia, la stampa, in un contesto di forti divisioni religiose e sociali.

Senza la censura, che per secoli ha filtrato e orientato la produzione culturale, la nostra cultura sarebbe molto diversa.

RAFFAELE ALBERTO VENTURA, scrittore. Vive a Parigi dove collabora con il Groupe d'études géopolitiques e la rivista Esprit. Ha esordito con il libro Teoria della classe disagiata (minimum fax 2017).

Massimo Cacciari: «Comanda il Ministero della Verità».  Parla il filosofo: dal Covid alla guerra tutto si riduce a un assolutismo da dentro o fuori. Leonardo Petrocelli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Marzo 2022.

Professor Massimo Cacciari, filosofo e saggista, in questi giorni in libreria con «Paradiso e naufragio» (Einaudi, 2022), il dibattito sul Covid e quello sulla guerra in Ucraina hanno elementi in comune?

«Premetto che i due fatti non sono commensurabili da nessun punto di vista: umano, politico, tecnico. Non c’è alcun parallelo. E tuttavia sono due grandi crisi davanti alle quali l’opinione pubblica, e i media che la rappresentano, sono portati a radicali e irrazionali semplificazioni».

Abbiamo abolito la complessità?

«Tutto è ridotto a slogan, non c’è riflessione critica. Da una parte e dall’altra. Vale per i no vax e per i vaccinisti, per gli occidentali e per i russi. Il punto è che tutto questo va benissimo in un regime autoritario ma è in contraddizione con lo spirito della democrazia».

L’origine di questo scadimento dov’è?

«È nella paura. La salute è a rischio, le disuguaglianze aumentano e la guerra si avvicina. Non si tratta più del Vietnam, lontanissimo dalle nostre latitudini, o dell’epidemia cinese. È tutto in casa. E quando montano le crisi, la gente va sempre alla ricerca di verità a buon mercato soprattutto se non c’è nessuno a guidare e governare i processi, a cercare di discernere. Al contrario, la politica fa proprio quello che non dovrebbe, inseguendo emergenze e paure».

E siamo tornati al punto di partenza: che tipo di racconto viene fuori?

«Si stabiliscono dei “ministeri della verità”. Questa è la verità sul Covid, questa la verità sul conflitto. Chi non si schiera è fuori».

E allora varrebbe la pena chiedersi se siamo ancora in una democrazia....

«La forma della democrazia come procedura regge ma fino a quando se permane questa situazione geopolitica e si moltiplicano le disuguaglianze al nostro interno?».

L’Occidente continua a rappresentarsi regalando a se stesso una sorta di primato, almeno morale.

«Prendiamo la guerra in Ucraina. Premetto che si tratta di una sciagurata aggressione e che è necessario fare di tutto perché il disastro cessi, la Russia si ritiri e riconosca la sovranità dell’Ucraina...»

...è in arrivo un «ma»...

«...ma c’è un fatterello che i nostri media non ci raccontano e cioè fra i Paesi che non hanno condannato l’aggressione e non hanno imposto sanzioni, oltre a Cina e India, praticamente mezzo mondo, ci sono decine di Paesi africani e anche la Turchia che fa parte della Nato. Quindi è inutile che l’Occidente continui a rappresentarsi come il tutto».

D’accordo, ma i «nostri valori»? Quelli pesano ancora?

«Una identità ha un senso se si pone in maniera dialogica, se cresce nel confronto. Ma il dialogo diventa impossibile se uno ritiene di affermare una verità universale ieri, oggi e domani. Fa la fine delle femministe sceme o dei maschilisti scemi, nonché dei medici scientisti».

Uno dei frutti avvelenati delle pretese di verità occidentali è la «cancel culture», quella che abbatte statue e vuole censurare Dostoevskij. Una «moda» che dai campus americani è arrivata fin qui in Italia...

«È un fenomeno aberrante, la certificazione che la tragedia è diventata una farsa. La logica è appunto quella del ministero della verità: poiché Cristoforo Colombo non era anti-schiavista o non era femminista ne abbatto le statue. E lo stesso vale per Giulio Cesare, Socrate, Aristotele, Dostoevskij o chiunque altro. Niente contestualizzazioni, niente distinzioni. C’è la verità assoluta a prescindere da tempo e luogo».

Ma al netto delle follie, ha senso dire che il fronteggiarsi di Russia e Occidente ha il sapore, se non di una guerra di civiltà, almeno di uno scontro tra valori diversi?

«Mi pare che la Cina sia un regime autoritario anche peggio della Russia. Qui non si tratta di affrontare l’Impero russo, di disinnescare un’anomalia, qui si tratta di metà del globo in cui non esiste alcuna forma di democrazia come noi la intendiamo. È chiaro che questo è uno scontro di valori. Ma, anche qui, qualche cosa andrebbe detta».

Ad esempio?

«Ad esempio che i difensori dei nostri valori, qualche anno fa, hanno fatto una guerra in Iraq, invadendo uno stato sovrano e membro dell’Onu, in base a una pura menzogna. Puoi sbandierare i tuoi valori ma poi devi fare autocritica ogni volta che li tradisci. O ad esempio affermando che quelli dall’Ucraina sono veri profughi, magari perché hanno il mio stesso colore e la mia stessa cultura, mentre quelli che venivano con i barconi non lo erano. Siamo sempre lì. Manchiamo di umanità e di solidarietà. E questo dovrebbe farci rabbrividire».

Marcello Veneziani: “Togliamo quella cappa ideologica e sanitaria”. Francesco Subiaco il 23 Marzo 2022 su Cultura e Identità.

Nel suo ultimo saggio La cappa. Per una critica del presente (ed. MARSILIO), Marcello Veneziani compie la più feroce disamina della società della fine della storia, rovesciandone gli idoli e svelando gli appetiti che mascherano, i rapporti di forza che si nasconde dietro le follie del presente. Un viaggio al termine della notte dell’umanità, tra i sogni della ragione e gli incubi della tecnica, i desideri di immortalità dell’uomo proteico, senza confini, senza identità, sradicato ed errante, e la volontà di autodissoluzione dell’Occidente ossessionato dal peccato originale dell’aver fatto parte di una Civiltà. Un saggio che svela il vangelo della nuova umanità bioliberista, che alla fede nel Bene ha preferito il fanatismo dei Buoni, al senso della comunità l’isolamento solitario di un mondo interconnesso ma dissociato, che ha trasformato la morte nell’ultimo vero tabù di una società di ultimi uomini, sfruttando non l’autorità bensì l’isteria come forma di governo. Un testo straordinario in cui alla nausea dell’immersione nella contemporaneità si alterna la promessa di un futuro che per ognuno di noi si chiama destino e tradizione. Abbiamo intervistato Marcello Veneziani, per poter approfondire i temi della sua ultima fatica letteraria “La Cappa”, un testo ribelle e scomodo.

Che cos’è la Cappa e come condiziona le nostre vite?

La Cappa è quella coltre invisibile che ci opprime, ci uniforma, soffoca le differenze e ci impedisce di vedere il cielo. È come se tante nuvole sparse, ciascuna con una sua storia e una sua provenienza – sanitaria, securitaria, culturale, storica, ideologica, economica, giudiziaria, militare – si condensassero in una cappa compatta.

Come il politicamente corretto sta stravolgendo la nostra società diventando la morale dell’odierno?

Il politically correct sostituisce la realtà col canone. E’ un moralismo in assenza di morale, un bigottismo in assenza di religione, un antifascismo in assenza di fascismo. Si abbatte su molti ambiti: il sesso è uno di questi. È in atto una guerra civile dei sessi, fondata sulla negazione delle differenze. Curiosamente la società della liberazione sessuale è diventata la società della castrazione puritana in chiave femminista o lgbtq+.

Fa più scandalo un prodotto OGM o l’uomo geneticamente modificato?

Sostengo da tempo che per la follia della nostra società guidata dalle ideologie fluide dominanti, una carota geneticamente modificata è considerata un male, mentre un uomo geneticamente modificato va esaltato per la sua libertà e la sua volontà di mutare.

Molti filosofi hanno cercato, da Spengler in poi, di rappresentare il tramonto dell’Occidente, tramite la diagnosi del nichilismo e ritratti della decadenza. Secondo lei ci sono dei rimedi degli antidoti o almeno dei palliativi per l’umanità al culmine della disperazione?

Non esistono soluzioni né rivoluzioni, ma predisposizioni e spiragli. E’ importante che si affili la spada dell’intelligenza per dare l’assalto al cielo; ma questa volta non per buttar giù gli dei, come nel passato, ma per sgombrare il cielo dalla cappa.

Che cosa intende per Bioliberismo?

E’ il liberismo applicato alla sfera biologica. Vivi come vuoi e muori quando vuoi, sopprimi una vita se complica la tua, usa pure droghe leggere e non solo. Quel che contano sono i desideri e il suo libero mercato. Il paradosso della nostra epoca è che al bioliberismo nella sfera privata e biologica fa riscontro un regime di controllo e sorveglianza come mai era accaduto. Liberi di farsi e disfarsi, ma all’interno della Cappa.

Progetti per il futuro?

Tra i miei progetti, è pronto da tempo un libro di aforismi in cui confluiranno anche i cento pensieri di Centaura

Quella Cappa che ci opprime. Marcello Veneziani febbraio 2022.

Cosa resterà di questa libertà dimezzata e sorvegliata che stiamo subendo ormai da tempo in regime di pandemia? Resterà la Cappa, che ci avvolge e che ci opprime, in cui si condensano le nubi sparse dei nostri giorni fino a formare una coltre compatta: le restrizioni sanitarie, la vita sanificata e ospedalizzata, il controllo digitale totale, la tracciabilità dei nostri spostamenti, fisici e finanziari, la vita dimezzata nelle sue possibilità, viaggi, relazioni; e poi la guerra civile dei sessi, la guerra mondiale contro la natura, la cancel culture applicata alla storia, il politically correct applicato ai rapporti umani e alla società, le censure al linguaggio, il pensiero unico e prigioniero del modello uniforme…

Facendosi cronici e intrecciandosi tra loro, i diversi fattori convergono e commutano le limitazioni sanitarie in forme di sorveglianza permanente, fino a formare una cappa globale che sembra destinata a non dissiparsi. Con la Cappa stiamo passando dalla società aperta alla società coperta, dove si maschera la parola come il volto e tutto è sotto una rete protettiva. Lo argomento nel mio nuovo libro dedicato a La Cappa, in uscita da Marsilio (pp.204, 18 euro), per una critica del presente.

In che mondo viviamo? Sotto la Cappa tutto perde contorno, confine, libertà, consistenza reale, memoria e visione. I sessi sconfinano e mutano, le differenze scolorano e si uniformano, la natura è abolita, la realtà è revocata, i territori perdono le frontiere; la nuova inquisizione censura e corregge, il regime di sorveglianza globale controlla la vita tramite l’emergenza e la priorità assoluta della salute. Ma anche il passato sparisce, col gran reset della storia e i processi intentati al passato col metro del presente; tramonta ogni civiltà, a partire dalla civiltà cristiana per fari posto a un sistema globalitario; spariscono i luoghi, compresi i luoghi di lavoro, in una società delocalizzata, senza territorio. La schiavitù prosegue a domicilio, con l’home working. Perdendo il mondo, ciascuno ripiega su te stesso, in un selfie permanente; la Cappa favorisce infatti il narcisismo solitario e patologico di massa. Vivi attraverso il tuo cordone ombelicale chiamato smartphone e simili, ti fai icona di te stesso. E intanto deperiscono le proiezioni oltre la propria vita: la storia, la comunità, l’arte, il pensiero e la fede, ogni fede. La Cappa occulta la bellezza, la grandezza, il simbolo, il mito, il sacro, la realtà. Negandoci altre visuali ci nega altri mondi, altri tempi, altre luci. L’uomo, sostengo nel libro, abita cinque mondi: il presente, il passato, il futuro, il favoloso, l’eterno. Se ne perde qualcuno vive male; se vive in uno solo impazzisce. E noi viviamo totalmente succubi del presente, nel nostro orizzonte infinito presente globale.

Immersi nel presente, abbiamo perduto la facoltà di distaccarcene per vederlo nell’insieme e per capirne la direzione e il destino. Così abbiamo perso il senso del presente e non riusciamo più ad avere una visione generale della realtà. Da qui la sensazione di vivere sotto una cappa; visibilità ridotta, voci spente, suoni ovattati. Ne avverti il peso anche se non ha fattezze e non ha confini, non si può misurare, è ineffabile e avvolgente, come la cappa che avvolge gli Ipocriti nell’inferno dantesco; cappa dorata all’esterno ma plumbea e pesante sui dannati. Nel XXIII canto dell’inferno così li descrive: “Elli avean cappe con cappucci bassi dinanzi a li occhi […] Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia; ma dentro tutte piombo, e gravi tanto”.

Ho provato a compiere un excursus ragionato benché venato dalla percezione di una profonda Mutazione, tra le follie odierne e i tabù vigenti, tentando una serrata critica per vivere il presente e non subirlo. Viviamo nel peggiore dei mondi possibili, abbiamo raggiunto il punto più basso nella storia dell’umanità? No, non il più basso, semmai il punto di non ritorno. I fattori demografici, ambientali, tecnologici rischiano di essere irreversibili, come le trasmutazioni antropologiche che stiamo inavvertitamente subendo in un corso accelerato verso il postumano e l’intelligenza artificiale.

Occorrerà ridare l’assalto al cielo, come dicevano i rivoluzionari ma stavolta non con la pretesa di scalarlo, come in una nuova torre di Babele, bensì per sgombrarlo dalla Cappa globale. L’assalto sarebbe dunque di segno opposto, per liberare il cielo e non per occuparlo. Liberare il cielo, l’atmosfera, l’aria può avere anche un’implicazione ecologica, ma non è solo una questione ambientale.

Le rivolte, le rivoluzioni sono velleitarie e impotenti e aprirebbero conflitti perdenti con i poteri. L’unico mezzo a nostra disposizione è la spada del pensiero critico, dell’intelligenza libera e ribelle, che non si accontenta del presente e della sua dominazione assoluta. Non disponiamo di altra arma, di altro potere, che la nostra facoltà di capire: l’intelligenza è la spada affilata che salva o almeno perfora la Cappa asfissiante. La maiuscola Cappa, la minuscola spada…MV, Panorama (n.5)

Vittorio Feltri replica a Marcello Veneziani: l'uomo non è peggiorato, è stupido da sempre. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il14 febbraio 2022.

Marcello Veneziani, personaggio colto, brillante e arguto, tanto per cambiare ha scritto un saggio intitolato: "La Cappa", intesa come un coperchio che schiaccia la libertà di pensiero e anche di azione. Le osservazioni dell'autore sono a tratti illuminanti, ci fanno capire tante cose, soprattutto quelle che spesso ci rendono la vita antipatica, indigeribile. Egli per esempio è infastidito dal fatto che non si parli più di natura, bensì di ambiente. Ha ragione. Dovrebbe però sapere che "ambiente" deriva dal latino ambire, che non vuol dire sperare di ottenere una cosa, ma significa circondare, mentre natura ha un significato più ampio, mondiale, se misi passa il termine. Comprendo benissimo lo stato d'animo che ispira i ragionamenti di Veneziani, so anche io quanto lui che i nostri tempi sono inquinati dal pensiero unico, dal conformismo, dal desiderio dei contemporanei di appiattire le idee e di renderne alcune - troppe - obbligatorie. Tuttavia devo rammentargli che "mala tempora currunt" da millenni, il che dimostra che l'umanità è sempre stata afflitta, più o meno, dagli stessi problemi, inclusa la stupidità eretta a modello esistenziale.

Non voglio criticare la fatica letteraria di Veneziani, che ne sa più di me e anche di voi che mi leggete (spero), gli faccio semplicemente notare che se l'epoca in cui siamo sprofondati fa abbastanza schifo, altri (tutti) periodi storici non furono migliori. Sul punto non ho dubbi. Lo stesso cristianesimo relativamente antico ha diffuso una mentalità che esaminata oggi, alla luce del post-illuminismo, fa ribrezzo e non può essere indicata quale esempio di saggezza. In sintesi, la situazione odierna della nostra società merita i giudizi negativi espressi da Veneziani, ma rimpiangere i secoli che abbiamo lasciato alle spalle è un esercizio nostalgico gratuito e non un esame serio della realtà.

Infatti l'umanità sostanzialmente non è mai cambiata, era pessima quando campava nelle caverne e tale è rimasta oggi benché l'evoluzione della tecnica abbia prodotto nuovi costumi. Sono mutate le abitudini delle persone per effetto del progresso in ogni campo, tuttavia il cervello dei nostri simili continua ad essere un pozzo nero. La libertà, per andare giù piatti non è mai esistita come valore assoluto. È sempre stata fortemente condizionata dai poteri forti e anche da quelli deboli. La gente era ed è sottomessa- salvo rare eccezioni- dal clima opprimente delle mode che sono più efferate delle pandemie. Sono convinto che le asserzioni di Marcello siano state espresse in buona fede, esattamente quanto le mie. Non illudiamoci: il mondo né va avanti né va indietro, è un porcaio immutabile perché chi lo abita siamo noi.

·        La Cancel Culture.

Giampiero Mughini per Dagospia il 21 novembre 2022.

Caro Dago, sono uno di quelli che nell’andare a leggere un articolo o un libro del professor Luca Ricolfi non ne vengono mai delusi. Vale per quest’ultimo suo “La mutazione” (Rizzoli, 2022), un libro che ha per attirante sottotitolo “Come le idee di sinistra sono migrate a destra”. 

Ne è sugosissimo il capitolo centrale, quello in cui Ricolfi documenta come la difesa anti censoria delle libertà di pensiero e d’arte che in Italia e altrove era stata una prerogativa particolarissima della sinistra viene adesso smentita e arrovesciata dagli stilemi su cui è fondata la cancel culture, e seppure in Italia non siamo agli orrori di cui questo atteggiamento si è macchiato negli Usa (e non solo). 

Lì dove – in Texas – è appena nata un’università che difende la libertà di pensiero (di tutti i pensieri) all’insegna di parole così: “Quattro quinti degli studenti di dottorato statunitensi sono disposti a ostracizzare gli scienziati di opinioni conservatrici. Non abbiamo tempo di aspettare che gli accreditati atenei si correggano da soli. Per questo ne fondiamo uno noi”.

Il fatto è, scrive puntualmente Ricolfi, che nei campus universitari americani sono all’ordine del giorno le richieste di no platforming (non fornire il palco), disinvitation (cancellare un precedente invito) se non addirittura di licenziare professori le cui convinzioni non siano politicamente corrette. Da brividi. 

A partire dal 2015 i casi di disinvitation tentati negli atenei americani sono stati ben 200 di cui 101 riusciti. E comunque anche quando gli eventi sgraditi non vengono cancellati, gli studenti che chiameremo di sinistra bloccano fisicamente l’accesso alle aule universitarie o intonano canti o percuotono tamburi in modo da impedire l’ascolto di opinioni a loro invise.

Talvolta è addirittura furibondo il fuoco di sbarramento, sui social o su giornali universitari, contro autori classici che rispondono al nome di Omero, Dante, Shakespeare, Cartesio o contro il ben di dio di scrittori moderni quali Melville, Conrad, Fitzgerald, Hemingway. E’ stato bersagliato un pittore immane quale Paul Gauguin che ebbe il torto di avere una relazione sessuale con una quattordicenne polinesiana, un torto simile a quello rinfacciato al nostro Indro Montanelli partito volontario a combattere nell’Etiopia degli anni trenta. 

Il culmine dell’abiezione che mira a cancellare il reale com’è stato e sostituirlo con un reale a misura delle odierne minchionerie ideologiche è la volta in cui la “Carmen” di Georges Bizet è stata riscritta col farla finire che è la donna a uccidere l’uomo ed evitare così di mettere in scena un “femminicidio”. 

Non so dire se non sia ancora peggio quello che è accaduto tanto nelle carceri americane che in quelle del Canada. Che degli individui nati uomini e che volevano diventare donne ma che ancora  mantenevano gli organi maschili fossero stati reclusi nelle stesse celle in cui erano le donne: numerosi i casi di stupro lì in carcere.

No, in Italia non siamo ancora a questo. E pur tuttavia, scrive Ricolfi, ci sono indirizzi allarmanti di cui è impossibile non tener conto. Confesso che non avevo mai letto il testo del decreto Zan contro l’omotransfobia, decreto bocciato in Senato dopo essere stato approvato alla Camera. 

Ricolfi punta l’ingranditore sull’articolo 4 di quel decreto, là dove si prospettava la possibilità di punire penalmente “opinioni” che nella valutazione del magistrato fossero “idonee” al compimento di atti discriminatori e violenti.

Una dizione che spalanca il campo all’azione penale contro le opinioni difformi tanto da suscitare il dissenso di un parlamentare del Pd notoriamente omosessuale, l’ex giornalista dell’ “Espresso” e senatore Tommaso Cerno, oltre che di magistrati quali Giovanni Fiandaca e Carlo Nordio fra gli altri. A giudizio di Ricolfi troppo pochi, data la rilevanza giuridica di quell’articolo.

"Troppa violenza e stupri". E la sinistra prepara la censura ai classici. Roberto Vivaldelli su Il Giornale l’11 novembre 2022.

La guerra puritana dei liberal a Ovidio. Nel 2015, quattro studenti della Columbia University pubblicarono una lettera nella quale chiesero al corpo docente di introdurre un "trigger warning" - un avviso - su Le Metamorfosi, il poema mitologico nel quale Ovidio canta in più di duecento favole, a cominciare dal Caos, tutto il mondo mitico delle trasformazioni fino all'assunzione di Cesare fra gli astri e all'apoteosi di Augusto. "Le vivide rappresentazioni di stupri e aggressioni sessuali" vennero definiti dagli stessi studenti "angoscianti". Molti altri protestarono perché l'osservazione degli studenti progressisti non teneva conto di un "piccolo" particolare, ossia che il celebre poema era stato scritto più di 2000 anni fa: giudicare un'opera del passato con gli occhi della contemporaneità, senza un'accurata contestualizzazione, come impone l'ideologia della "cancel culture", è infatti segno di radicalismo ideologico. Da allora, complice anche l'isteria del movimento "#MeToo", le opere di Publio Ovidio Nasone sono finite nel mirino delle università "woke" del mondo anglosassone.

Come riporta Il Foglio, il New Yorker discute ora di una nuova traduzione di Ovidio pubblicata dalla Penguin a firma della studiosa di Ovidio Stephanie McCarter, che sul Washington Post ha firmato un articolo nel quale scrive: "Gli studenti della Columbia non stavano cercando di censurare il materiale che riguardava lo stupro, ma semplicemente chiedevano che tale violenza fosse inquadrata e analizzata come violenza. E'stata l'estetizzazione inconsapevole che li ha turbati". La stessa McCarter osserva, rispetto alle opere di Ovidio, che leggerlo "con uno sguardo verso la sua piena complessità - la sua bellezza e la sua brutalità - ci permette di scrutare il nostro spinoso rapporto con il passato e con l'eredità ambivalente che ne abbiamo ricevuto". Combattere con gli aspetti sgradevoli della letteratura antica, afferma, "significa fare il duro lavoro dell'autoesame". Ancora una volta emerge quel senso di colpa e quell'odio verso le radici culturali dell'occidente che molti studiosi progressisti hanno sposato.

Il New Yorker si chiede dunque se l'opera di Ovidio debba avere un "trigger warning" per via dei contenuti, mentre nel lungo articolo scritto da Daniel Mendesohn si descrive il poeta come un "autore controverso". Negli ultimi anni, afferma, si è discusso molto sui classici greci e romani e sulle "loro pretese di universalità; sulla lunga associazione della disciplina con le élite” e sul "conforto che alcuni aspetti della cultura greco-romana hanno dato ai razzisti", nonché sul "modo problematico" in cui questi "grandi libri rimangono centrali per la nostra autocomprensione culturale anche quando gli studiosi hanno da tempo chiarito che le civiltà che li hanno prodotti erano fondate su valori e istituzioni che oggi troviamo repellenti: patriarcato, misoginia, economie basate sul lavoro degli schiavi". Ancora una volta, gli studiosi "woke" giudicano queste opere - e le civiltà - del passato con i paraocchi dell'ideologia e del moralismo basato sul dogma della correttezza politica.

La guerra culturale contro i classici

Da anni, dopotutto, la "cancel culture "se la prende con gli studi classici. È possibile salvare i classici greci e latini dalla "whiteness" (bianchezza), ossia dal dominio dei bianchi sui neri? È la domanda che si poneva qualche tempo fa il New York Times parlando di Dan-el Padilla Peralta, professore associato di classici a Princeton che ricerca e insegna la Repubblica Romana e il primo Impero, e di altri docenti statunitensi che vogliono ridiscutere il ruolo dei greci e dei latini nelle scuole e nelle università nel nome del politicamente corretto. Padilla, nato nella Repubblica Dominicana ed emigrato negli Stati Uniti, sostiene, insieme ad altri accademici progressisti, che i classici dovrebbero un giorno essere rimossi dai programmi universitari in quanto sono così "invischiati nella supremazia bianca da essere inseparabili da essa". Padilla va oltre e afferma che gli studi classici sono ostili alle minoranze. "Se si volesse pensare a una disciplina i cui organi istituzionali fossero esplicitamente volti a disconoscere lo status legittimo degli studiosi del colore", ha detto al New York Times, "non si potrebbe fare di meglio di ciò che hanno fatto i classici". Follia politicamente corretta.

Nota esplicativa. Il baubau della cancel culture e il mio immotivato complesso di superiorità. Guia Soncini su L'Inkiesta il 2 Novembre 2022

Scrivo quel che mi pare con irritante frequenza, e non succede niente perché non voglio essere la ragazza più popolare al ballo della scuola

E se tutto quello di cui ho parlato negli ultimi anni fosse falso? Anzi: se tutto quello di cui ho parlato negli ultimi anni fossi stata io a farlo esistere, con le mie parole che, abile narratrice di fiabe che sono, hanno costruito mondi?

È la tesi di Eve Fairbanks, sudafricana, che sul nuovo numero dell’Atlantic pubblica un articolo dal titolo Why wasn’t I canceled?, la cui tesi è riassumibile in: poiché ho scritto un libro in cui ci sono voci nere e io sono bianca, e nessuno in casa editrice mi ha detto come osi?, e solo due giornalisti tra i molti che m’hanno intervistato me ne hanno chiesto conto, allora la cancel culture ve la siete inventata, e inventandovela finisce che la fate esistere, o che comunque vi comportate come se esistesse, quando non so se vi ho già detto che è tutta nella vostra immaginazione.

So che i lettori qui sono al corrente della differenza tra aneddotica e statistica, e che perciò non ci sarebbe comunque bisogno ch’io rimarcassi che, per una Fairbanks cui va tutto liscio, c’è una Chimamanda che ci spiega da anni che certo che va tutto bene e che anche oggi nessuno ci ha linciato: siamo così terrorizzati da essere i primi a censurarci.

Tra l’altro questa è anche la tesi di Fairbanks, la quale – dopo aver parlato con un paio di studentesse con esperienze di non censura e non cancellazione – decide che siamo noi che ci censuriamo, ma è perché crediamo ai mondi che inventiamo: se scrivessimo tutto ciò che vogliamo, mica succederebbe niente.

Potrei agevolmente sostenere la stessa tesi: scrivo quel che mi pare con irritante frequenza, e non succede niente. Meglio ancora: ogni tanto mi trovo davanti interlocutori che, per argomentare che la cancel culture sia un’invenzione della destra, m’impugnano come esempio. Se esistesse la cancel culture, a quest’ora Soncini sarebbe a zappare. (Saggiamente, usano altre iperboli: zappare richiede abilità ch’io non possiedo).

Ma, come spiegavo di recente, non succede niente se hai le spalle larghe. Se il tuo prodotto è richiesto dal mercato, se sopra di te c’è un’emittente o un editore che decide di fottersene di chi bercia sui social, se non vuoi essere la ragazza più popolare al ballo della scuola. Non fatemi fare i nomi di chi asseconda ciò che il pubblico vuol sentirsi dire, e di quanto fattura più di me.

Non succede niente se, come accade a me, soffri d’un immotivato complesso di superiorità. Nell’autunno 2017 tenevo una rubrica su una rivista italiana che non esiste più (chissà come mai), pubblicata da un gruppo editoriale americano. Scrissi un editoriale sul MeToo per il New York Times e, generosamente, quando mi chiesero due righe biografiche da mettere in fondo all’articolo dissi di indicare quella rivista.

Nei giorni successivi, alcuni non lucidissimi account Twitter, nervosi per alcune battutacce sul MeToo da me fatte su Twitter, chiesero al New York Times il ritiro del mio articolo (sono passati cinque anni e ancora non ho capito come si ritiri un articolo; neanche loro, temo, che probabilmente non avevano mai letto un giornale e non hanno posto rimedio dopo). Quando il New York Times non se li filò, passarono a chiedere la mia testa alla rivista italiana,

Non so i tapini della rivista cosa risposero, spero «siamo mica i custodi di quel che scrive Soncini su Twitter», ma ne vedevo l’agitazione e mi si stringeva il cuore. Sai, la casa madre è molto schierata col MeToo. Sai, Asia Argento è molto arrabbiata (c’è stato un momento in cui si teneva conto degli umori di Asia Argento: a raccontarlo oggi, non sembra neanche vero).

Insomma, anch’io potrei dire che non successe niente (mica persi dei lavori o una qualche reputazione), ma sarebbe disonesto. E l’articolo di Fairbanks è moderatamente disonesto. Per esempio sulla questione delle maiuscole. Da un paio d’anni, molti giornali americani hanno preso a scrivere maiuscolo Black, quando è aggettivo razziale. Si sono interrogati: a quel punto anche White? La maggior parte hanno risposto di no (non tutti, il Washington Post per esempio maiuscola anche i bianchi).

Dice Fairbanks che le avevano detto che Simon and Schuster non avrebbe mai accettato che lei scrivesse minuscolo black, ma nessuno della casa editrice le ha detto niente di norme redazionali in tal senso. Sì, Eve, però il tuo libro (The Inheritors, Gli eredi; sottotitolo: Ritratto intimo di come il Sudafrica ha fatto i conti con la questione razziale) comincia con una pagina in cui spieghi le ragioni per cui tieni il colore nero di pelle minuscolo. Biko usava la minuscola, scrivi. Sono stati i governanti bianchi che hanno iniziato a usare le maiuscole per dire che erano come i persiani, culture distanti che non si sarebbero mai integrate, scrivi. «Mettere le maiuscole a Bianco e Nero era il modo in cui il governo dell’apartheid si appropriava del potere semantico».

Non sarò io a condannarti, Eve, perché invece di seguire l’insegnamento di Elizabeth Windsor, e di evitare di spiegare e di giustificarti, hai optato per una paginetta messa prima del prologo, acciocché nessuno potesse perdersela, una paginetta che serve solo a dire: non è una minuscola dispregiativa, anzi, è minuscola proprio perché sono antirazzista, guardatemi, sono una dei buoni, non considerate il mio libro l’opera d’un’impresentabile, per favore.

Tuttavia mi chiedo come ti sia venuto in mente, con una premessa così tremebonda, di dire poi all’Atlantic: vorrei proprio scrivere un articolo sul baubau della cancel culture, questo spauracchio immaginario che gli scrittori qui in America si sognano censurandosi, quando invece si può scrivere proprio tutto ciò che si vuole, magari mettendo all’inizio una nota esplicativa che dica che mago Merlino fuma, e questo è un comportamento esecrabile dovuto al fatto che questo cartone animato viene dai tempi bui in cui, orrore da cui prendiamo le distanze, la gente fumava. (E, siccome non ci eravamo ancora inventati la cancel culture, non ce ne scusavamo).

Contro la cultura della gogna. Il “premio dei geni” a una militante dei diritti civili che denuncia la cancel culture. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 17 Ottobre 2022

La docente di Studi sulle donne e di genere allo Smith College Loretta J. Ross è una dei 25 MacArthur Fellows 2022. Un riconoscimento per la sua capacità di intercettare le sfide sociali del nostro tempo e di affrontarle con un approccio meno aggressivo e illiberale della maggioranza dei colleghi

La cancel culture esaspera le divisioni sociali, cancella tutte le sfumature razionali del pensiero appiattendole in un codice binario – “giusto” o “sbagliato”. In una società già abbondantemente polarizzata su qualunque cosa, a uso e consumo di populismi di ogni natura, la cultura del linciaggio crea ancora più barriere e nemici da combattere.

Ma la cancel culture non è totalizzante. Tra l’intolleranza xenofoba della destra e la sinistra illiberale c’è ancora chi ragiona in termini di giustizia sociale partendo da inclusività, rispetto e dialogo, da un approccio più morbido. Lo fa ad esempio Loretta J. Ross, 69 anni, docente di Studi sulle donne e di genere allo Smith College. Una delle frasi più significative che Ross cita spesso nei suoi discorsi si può sintetizzare così: dovremmo chiederci se la cancel culture unisca o crei divisioni, perché sembra che non stia portando alcun progresso, né con chi la pensa come noi né con chi la pensa diversamente.

Loretta Ross ha scelto un approccio compassionevole e veramente inclusivo per le sue battaglie, uno stile opposto all’aggressività dei movimenti che vogliono abbattere statue, distruggere opere, zittire opposizioni.

Per il suo impegno anti-cancel-culture, Ross è stata premiata dalla MacArthur Foundation, che l’ha inserita tra i MacArthur Fellows del 2022: un riconoscimento con cui ogni anno la fondazione premia tra le 20 e le 30 persone – cittadini statunitensi oppure residenti degli Stati Uniti – che hanno dimostrato «una straordinaria originalità e dedizione ai loro lavori creativi e una evidente capacità di perseguirli seguendo la giusta rotta».

Non a caso il premio è noto anche come “Genius Grant”. Non è una ricompensa per quanto fatto in passato ma un investimento sull’originalità e il potenziale della persona. Funziona come una ricca borsa di studio da 800mila dollari in 5 anni: nella classe del 2022 ci sono scienziati, matematici, artisti, scrittori, registi di cui la fondazione riconosce le qualità creative e umane, e di fatto le incentiva garantendo loro un sostegno economico affinché possano esprimere il loro talento.

Loretta Ross è stata premiata in quanto attivista per temi particolarmente delicati e attuali – a partire dalla giustizia riproduttiva, reproductive justice in inglese, cioè il diritto di avere figli, non avere figli o comunque ad avere libertà di scelta – per aver «dato forma a un paradigma visionario che collega giustizia sociale, diritti umani e giustizia riproduttiva». La capacità di intercettare le sfide sociali del nostro tempo, e di affrontarle con un approccio meno aggressivo e illiberale della maggioranza, è una qualità rara in quest’epoca e per questo viene riconosciuta e premiata.

«I diritti umani – ha detto la professoressa Ross ricevendo il premio della MacArthur Foundation – svolgono un ruolo centrale nel panorama geopolitico e nel futuro delle democrazie. Dobbiamo ripensare i modi in cui i diritti umani sono compresi e praticati per assicurarci di essere in grado di affrontare i problemi più urgenti di oggi».

Ross è stata un attore chiave nelle battaglie per la reproductive justice. Ha iniziato ha lasciare il segno nella prima metà degli anni ‘90, quando ha fondato SisterSong Women of Color Reproductive Justice Collective, la prima organizzazione che mira a costruire un movimento per la giustizia riproduttiva. In un’epoca in cui l’attivismo per i diritti riproduttivi era incentrato esclusivamente sull’aborto e sul binomio pro-scelta/pro-vita.

Oltre al suo lavoro per la giustizia riproduttiva, da diversi decenni Loretta Ross è un’attivista che si batte per i diritti della comunità afroamericana, delle donne, di tutte le minoranze, contro il suprematismo bianco imperante negli Stati Uniti.

Ma non si è mai schierata dalla parte della cancel culture o della cosiddetta call-out culture – la cultura del richiamo, chi pretende scusa pubbliche da una persona per fatti o espressioni ritenute offensive – che in tempi recenti sono state declinate in senso puramente distruttivo.

Nel 2020, intervistata dal New York Times, Loretta Ross aveva detto: «Sto sfidando la call-out culture. Penso che si possa capire quanto questi richiami siano tossici: finiscono per alienare davvero le persone e le fa temere di parlare».

Sullo stesso quotidiano aveva scritto ad agosto 2019 – diversi mesi prima delle manifestazioni di piazza, del movimento di abbattimento delle strade e dell’esplosione della cancel culture di metà 2020 – aveva scritto in prima persona un articolo intitolato: “Sono una femminista nera. Penso che la cultura del richiamo sia tossica”. Scriveva: «La call-out culture di oggi è così seducente che spesso devo resistere alla tentazione opprimente di rispondere alle persone sui social media che mi danno sui nervi».

L’idea, quindi, è che ci siano sempre modi migliori – più sani, più corretti, più umani – per portare avanti le battaglie di giustizia sociale. «I richiami sono sempre più forti e più feroci su Internet – si legge ancora nell’articolo del 2019 – amplificati dalla cultura del “clicktivista” che fornisce l’anonimato per comportamenti orribili».

Proprio per questo ha pensato di battersi per invertire la tendenza, a partire dalla scelta lessicale: il call-out si trasforma in call-in (far entrare, chiamare, accogliere). Dal sito personale di Loretta Ross ci si può iscrivere al suo corso online intitolato “Calling In: Creating Change Without Cancel Culture”, che ha l’obiettivo di sviluppare un nuovo linguaggio per creare un cambiamento sociale positivo. In un Ted Talk di agosto 2021 invocava: «Don’t call people out – call them in». E nel 2020 era tra le firmatarie della lettera di Harper’s Magazine contro le follie della cancel culture.

Più semplicemente, in ogni discorso, in ogni lezione, in ogni apparizione pubblica Loretta J. Ross ci ricorda che nessuno dovrebbe finire alla gogna per aver preso in giro qualcuno in passato, per aver pubblicato un tweet di cui ora si pente o si vergogna, o perché qualche anno fa ha pagato per vedere dal vivo uno spettacolo di Louis Ck.

La fede woke a caccia di proseliti. Si può pensare che la cancel culture sia soltanto una moda. Eleonora Barbieri il 20 Settembre 2022 su Il Giornale.

Si può pensare che la cancel culture sia soltanto una moda: c'è chi ama i jeans strappati, chi le treccine, chi buttar giù statue di chi ci ha salvato dai nazisti. Oppure si può pensare che sia una tendenza politica, legata a certi interessi. O che sia, per dire, frutto di una poco autoironica propensione agli ossimori. Che sia qualcosa di così poco intelligente che, snobisticamnte, non vada neanche considerata, un po' come chi sostiene che un computer possa scrivere l'Amleto. C'è però anche chi, come Jean-François Braunstein, professore emerito di filosofia alla Sorbona, vede nella cancel culture qualcosa di diverso: una nuova religione. Nel suo saggio, La religion woke (edito in Francia da Grasset), Braunstein sostiene che la cancel culture sia un credo, nato nelle università americane, con i suoi dogmi, i suoi predicatori e una tendenza (allarmante) all'indottrinamento.

I dogmi della cancel culture sono noti: tutti i bianchi sono razzisti, tutti maschi sono colpevoli, tutte le minoranze sono vittime, eccetera. Uno dei punti cruciali di queste credenze è, secondo Braunstein, il fatto che l'uomo sia soltanto «la coscienza» e che quindi il corpo si possa cambiare a piacimento. Ma il punto davvero importante riguarda l'approccio. Questi dogmi infatti vengono predicati con la scarsa tolleranza tipica dei neoadepti: la nuova religione, appena fondata, è già caratterizzata dal fanatismo. La religion woke, dice Braunstein, è una religione intollerante, che non ammette il contraddittorio: non si limita a denunciare le discriminazioni (vere) o a combattere il razzismo (reale), bensì demonizza chiunque osi esprimere anche solo una perplessità sulla effettiva realtà e pertinenza della battaglia in corso. Si può ricordare, a proposito di fondamentalismo religioso, come anche i talebani fossero studenti del Corano, all'inizio: l'habitat accademico non è affatto garanzia di apertura mentale...La parte più preoccupante del ragionamento di Braunstein è però quella che riguarda l'indottrinamento: secondo il professore francese, i profeti della religion woke cercano di fare proselitismo già nelle scuole elementari, attraverso un «movimento militante» che vuole insegnare ai bambini che il genere sessuale non esiste, che ciascuno possa scegliere che genere essere. Non sorprende: la storia insegna quanto l'ideologia, per impossessarsi dell'individuo, cerchi di manipolarlo fin da piccolo. Per essere sicura che la culture (senza cancel davanti) non possa mai sfiorarlo, nemmeno per sbaglio.

Cancel culture: il politicamente corretto ucciderà la letteratura? Costanza Rizzacasa D’Orsogna su Il Corriere della Sera il 12 Settembre 2022

Trame modificate, personaggi osteggiati, libri «riscritti» in nome di un’etica e di una correttezza influenzate dal moderno sentire. Ma è davvero rispetto per le minoranze? O l’eccesso di anti-razzismo, anti omofobia e anti misoginia porterà a limitare la produzione e la pubblicazione di saggi e romanzi? Due scrittori (e un saggio) riflettono

Da qualche tempo si è diffusa l’idea, alquanto preoccupante per noi scrittori, che la letteratura debba promuovere il bene, il giusto, il politicamente corretto. C’è questo e molto altro alla base di quello che chiamiamo, semplificando movimenti estremamente complessi, cancel culture , tema cui ho da poco dedicato un saggio, Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana (Laterza). È giusto giudicare il passato alla luce delle sensibilità odierne? Si può essere razzisti, omofobi, misogini, e contemporaneamente grandi autori? E d’altronde, possiamo chiedere ai diritti di aspettare in nome di una presunta sacralità della letteratura? Ne ho parlato con Walter Siti, autore sugli stessi temi del pamphlet Contro l’impegno (Rizzoli, 2021), e Jonathan Bazzi.

Insomma, come conciliare il rispetto delle diversità con la lettura dei capolavori antichi e moderni?

Walter Siti: «Mi sono sempre considerato un diverso. Prima in quanto omosessuale, poi, per certe mie posizioni, tra gli omosessuali. Questo mi ha portato a considerare la diversità come qualcosa di molto prezioso. Oggi invece si tende a negarla, a dire “siamo tutti diversi”. Un modo di evitare le durezze della vita che mi sembra porti solo a un mondo pavido di finta uguaglianza. Negare le diversità significa privare le persone della forza di patire la violenza».

Jonathan Bazzi: «Negli ultimi vent’anni i social media hanno moltiplicato i punti di osservazione e di dibattito. Allo stesso tempo vediamo sempre più spesso un’incapacità di tollerare sguardi e opinioni diversi dai propri. Io ho usato molto i social. Col tempo, però, mi sono reso conto che se volevo scrivere avevo bisogno di spazi diversi e ulteriori da quelli dell’attivismo».

SITI: «UNA CERTA TENDENZA A VOLER ELIMINARE LA SOFFERENZA È CERTAMENTE UN TEMA. SONO D’ACCORDO CHE QUESTA VISIONE SIA LIMITATA». BAZZI: «PER IL MIO SECONDO ROMANZO, L’EDITORE AUSTRALIANO MI HA CHIESTO DELLE MODIFICHE, PER NON RISCHIARE DI URTARE LE SENSIBILITÀ DI ALCUNE PERSONE... HO RISPOSTO CHE PRIMA DI DECIDERE VORREI CAPIRE DI CHE MODIFICHE SI TRATTA»

Tanto più che prendersela con autori di duecento anni fa non serve affatto a costruire un presente e un futuro migliori. Il passato non lo puoi cambiare. Non ha nulla da perdere: noi sì.

Siti: «È la perdita del senso storico, avvenuta negli ultimi vent’anni. Se iniziamo a giudicare il passato, a dire che c’è troppo di questo e troppo poco di quell’altro, rischiamo di alterare il giudizio di valore sulle opere d’arte. Invece bisogna poter continuare a dire che la Divina Commedia è un po’ meglio di un libro di Fabio Volo. Ritenere che un testo letterario si qualifichi unicamente per le posizioni che prende ha il fiato corto. Tornando alla diversità, non pensate che il dolore possa fornire contenuti alla letteratura?».

Bazzi: «Una certa tendenza a voler eliminare la sofferenza, anche ad esempio attraverso quelle avvertenze all’inizio di un testo chiamate trigger warning , come spiega Costanza nel suo libro a proposito delle università americane, è certamente un tema, e sono d’accordo che questa visione sia limitata. Detto questo, in generale credo sia importante essere accolti, almeno ogni tanto».

Ciascuno di noi può essere a volte cattivo. Che ne è della letteratura se creiamo fotocopie di personaggi improbabili e perfetti in cui chi legge non potrà mai immedesimarsi? Intanto sul mercato anglosassone si è affermata la figura del sensitivity reader , che rilegge un testo alla luce di ciò che potrebbe urtare le sensibilità di varie categorie.

Bazzi: «Per il mio secondo romanzo, Corpi minori (Mondadori), l’editore australiano mi ha chiesto delle modifiche. Ritengono che un certo personaggio possa urtare le sensibilità di alcune persone. Io ho risposto che prima di decidere vorrei capire di che modifiche si tratta».

Siti: «Una quindicina di anni fa, il mio editore francese mi chiese di sostituire la parola “juifs”, ebrei, utilizzata in un contesto non proprio positivo. Se l’avessi lasciata, disse, si sarebbe parlato solo di quella parola e non del libro. Acconsentii, ma se mi chiedessero di modificare un personaggio direi sicuramente di no. La preoccupazione di uno scrittore, mentre scrive, non può essere quella di non offendere nessuno, altrimenti meglio non scrivere più niente. Ho molto ammirato Marsilio, l’anno scorso, per aver pubblicato Le ripetizioni di Giulio Mozzi così com’era».

Quando ho pubblicato il mio primo romanzo, un paio d’anni fa ( Non superare le dosi consigliate , Guanda), sono rimasta sorpresa da quanti avessero puntato il dito contro l’essere antipatica e politicamente scorretta della mia protagonista.

Bazzi: «Purtroppo si è affermata l’idea di concepire persone e personaggi come estensioni di un programma politico. È inevitabile che la politica e l’attivismo facciano il loro senza grandi slanci introspettivi. Bisogna però mantenere spazi come la letteratura e l’arte dove coltivare uno sguardo più ampio. Le donne non sono solo vittime, possono essere anche manipolatrici e violente. E spesso chi arriva dai margini è tutt’altro che innocuo».

Siti: «Platone diceva: “Il malvagio fa quello che il buono sogna”. Ascolti la tua coscienza di scrittore o ti autocensuri e scrivi solo quello che può andar bene al Premio Strega? Sapete cosa trovo rischioso, però, nel distinguere tra attivismo e letteratura? Che si rischia di fare della letteratura una specie di paradiso terrestre. Un recinto dove si possono portare in superficie il male e l’odio purché lì rimangano confinati. Ma la letteratura ha sempre fornito punti di vista per la realtà».

LO SCHWA AIUTA UN LINGUAGGIO PIÙ INCLUSIVO? SITI: «CREA PIÙ PROBLEMI DI QUANTI NE RISOLVA...» BAZZI: «NON CAPISCO CHI, PROGRESSISTA, RIDICOLIZZA QUESTI TEMI»

Il linguaggio che ci aiuta a definirci ci chiude anche in gabbie dove non ci riconosciamo più.

Siti: «L’ortopedia linguistica che giustamente interviene per raddrizzare certi malcostumi finisce a volte per dare una connotazione medicale che non convince neanche i presunti offesi. Io ho un amico sordo che è molto seccato dall’essere chiamato non udente. “Io non mi sento privato di qualcosa se mi chiamano sordo”, dice. “Se mi mettono un ‘non’ davanti invece sì”».

Che ne pensate allora dello schwa?

Siti: «Che quando un’innovazione linguistica crea più problemi di quelli che risolve tende a morire, perché la lingua è economica e preferisce soluzioni efficaci. Poi chissà, magari tra cent’anni ve lo ritroverete su tutte le tastiere».

Bazzi: «Ritengo che lo schwa e altre innovazioni linguistiche che mirano a rendere il linguaggio più inclusivo siano delle possibilità. E mi lascia perplesso come anche gente di cultura, sulla carta progressista, si accosti a questi temi con sufficienza o proprio ridicolizzandoli. Forse in futuro la questione si porrà più seriamente anche da noi. Anche perché un giorno la certezza del binarismo biologico potrebbe venir meno».

Siti: «So di essere un dinosauro. Giorni fa alla Fondazione Prada ho visto una scritta su un muro: “Siamə tuttə buonə “, diceva, e io l’ho letta in napoletano, perché a me lo schwa richiama i dialetti del Sud. Non prendo assolutamente in giro chi fa esperimenti. Mi sembra legittimo, però, come Lenin, ricordare il rapporto fra avanguardia e massa. Se un’avanguardia rischia di andare troppo lontano dalle masse tanto che esse finiscono per non vederla più, la differenza fra essere efficaci ed essere ridicoli è un rischio che si può correre. Però è vero che esiste il problema, come esistono lingue più inclusive di quella italiana. Allargare l’orizzonte è sempre utile. Poi i primi tentativi sono destinati a fallire, anche Lenin lo sapeva».

Cosa vuol dire «politicamente corretto»? Il passato non va demolito, ma coltivato. DACIA MARAINI su Il Corriere della Sera il 20 Agosto 2022. 

Sono state abbattute le statue di Cristoforo Colombo e Jefferson. Sono finiti sotto accusa Omero, Dante e Shakespeare. Ma la battaglia per i diritti non può portare a demolire la storia

La statua di Cristoforo Colombo a New York (Spencer Platt/ Getty Images/ Afp)

Cosa vuol dire essere politicamente corretti? In questi giorni si sente spesso questa parola per indicare un nuovo sguardo critico che vorrebbe essere etico, nei riguardi del passato. Si accusa il grande navigatore Colombo di avere favorito il colonialismo e si buttano giù le sue statue. Si accusa Jefferson di avere combattuto gli indiani d’America e si lorda la sua immagine con getti di vernice rossa, e così via. Da noi forse le proposte della cancel culture sembrano meno sentite che in una America ancora fortemente legata al suo passato puritano.

Dalle statue poi si passa al linguaggio e anche quello viene preso di mira. Si propone di eliminare le differenze fra il femminile e il maschile mettendo un asterisco al posto della vocale. Senza tenere conto che le parole non sono isolate come stelle in cielo ma sono legate fra di loro e esprimono un pensiero, una scelta, una abitudine secolare che non possono essere cambiate con una semplice operazione meccanica.

L’idea di riflettere sulla misoginia e sul razzismo insito nel linguaggio è un esercizio validissimo. Tutta la grammatica è fortemente discriminante: se si scrive «l’uomo» si comprende anche la donna, e sta per essere umano; se si scrive «la donna» si intende un genere solo. Il primo comporta una idea di universalità, mentre la seconda è parziale e primitiva. Ragionare pubblicamente su queste disparità ci aiuta a capire i cambiamenti del presente, le nuove sensibilità nei riguardi dell’identità sessuale. Molti infatti ritengono che l’identità sessuale sia un destino biologico, eterno e immutabile. E non tengono conto delle mutazioni culturali che ogni condizione umana si porta dietro. Non esistono identità fisse e indelebili. La natura certamente sta alla base del nostro essere vivi, ma in millenni di passione evoluzionista abbiamo creato un essere umano consapevole e sedicente superiore, tanto da considerare tutti gli altri esseri viventi come suoi sottoposti. Ebbene, a prescindere dalla volgare presunzione, questo significa che abbiamo dominato, controllato, trasformato la natura creando dominii culturali che hanno reso più duttile, più suscettibile di cambiamenti i sapiens. Ma nello stesso tempo lo abbiamo caricato di enormi responsabilità. E soprattutto lo abbiamo sempre più allontanato dalla natura, per farne una creatura capace di adattarsi e di mutare.

Prendersela con personaggi e idee del passato perché non corrispondono alle sensibilità odierne vuol dire negare la grande capacità metamorfica della storia. Vuol dire sconfessare le conquiste fatte, vuol dire rifiutare l’evoluzione, smantellare i passaggi preziosi del tempo, le sensibilità storiche che variano, le alterazioni dovute alle scoperte scientifiche, alle innovazioni mediche, al prolungamento della vita, ai cambiamenti sociali ed economici. Vuol dire entrare in quel pericoloso luogo della mente in cui, come asseriva Goya: «Il sonno della ragione genera mostri».

La storia non è una freccia che si lancia verso il futuro, ma ha movimenti sinusoidali, va avanti e indietro , anche se alcune conquiste come il passaggio dalla Vendetta alla Giustizia sono diventate basi etiche riconosciute. Basta pensare al Novecento, che pure era un secolo nato nel segno delle nuove scoperte e delle grandi rivoluzioni progressiste, poi finito nel razzismo e nell’odio che ha portato due guerre micidiali.

La volontà di cambiare le cose non vuol dire automaticamente negare le contraddizioni del passato. Basta un poco di consapevolezza storica per capire che in un ambiente di totalitarismo religioso, per esempio, ogni pensiero scientifico come quello di Galilei, il quale sosteneva che era la Terra a girare intorno al Sole e non viceversa, non poteva che risultare eretico. Basta osservare quanto le società cambino, le sensibilità popolari siano permeate dalle ideologie e dai credo del momento, per uscire da questo atteggiamento moralistico e integralista. Una giusta voglia di adeguare il linguaggio e le azioni umane alle nostre certezze attuali ci porta a gettare in mare grandi filosofi e grandi artisti con un gesto di rabbia infantile. C’è chi ha perfino messo sotto accusa Shakespeare e Dante e Omero. Ma la domanda dovrebbe essere: sono ancora capaci di comunicarci delle emozioni anche se sappiamo che hanno risentito delle idiosincrasie, dei vizi, dei difetti e delle contradizioni del loro tempo? Cosa da cui, ricordiamolo, non siamo esenti nemmeno noi. Fra qualche decennio i nostri nipoti ci guarderanno con aria di sufficienza e troveranno che molte delle nostre convinzioni erano arcaiche e fuori luogo. Questa è la meravigliosa vitalità del nostro viaggiare dentro le contradizioni della storia.

(ANSA il 17 agosto 2022) - Il consiglio cittadino di Hobart, capitale dello stato-isola australiano della Tasmania, ha votato a favore della rimozione dalla piazza centrale della città della statua del premier statale degli anni '70 dell'800 William Crowther. Chirurgo di professione, prima di essere eletto premier Crowther nel 1869 rubò il cranio di William 'King Billy' Lanne, ritenuto allora l'ultimo degli aborigeni della Tasmania, ufficialmente per 'fini scientifici', sostituendolo col teschio di un altro cadavere. Il cranio di Lanne finì poi in un museo.

Il consiglio cittadino ha votato con 7 voti a 4 a favore della rimozione della statua, per custodirla nel magazzino del museo statale. Sarà commissionata una nuova opera per sostituire la statua, con un'iscrizione informativa. La misura fa parte del processo di 'raccontare la verità', una delle priorità espresse dalle Prime Nazioni australiane, sulla storia della Tasmania, una colonia dove la popolazione aborigena fu decimata da malattie e brutalità dopo l'insediamento britannico, ha detto la sindaca Anna Reynolds.

La decisione intende non dare prominenza "a questa persona, che è un simbolo di razzismo e di una scienza ispirata dal razzismo e di una retorica intesa a cancellare la storia", ha aggiunto Reynolds. Il museo della Tasmania fino al 1947 esponeva al pubblico i resti della moglie di Lanne, Truganini, ritenuta l'ultima delle donne aborigene della Tasmania, contro i suoi ultimi desideri.

Pronomi neutri, generi “non binari” e queer: cosa si insegna nelle scuole Usa. Roberto Vivaldelli il 4 Settembre 2022 su Inside Over.

La Radical Gender Theory fa breccia nelle scuole statunitensi. Secondo questa “teoria” promossa da docenti liberal e organizzazioni ultra-progressiste e pro-Lgbtq, gli uomini bianchi europei hanno creato un sistema oppressivo basato sul capitalismo, la supremazia bianca e l'”eteronormatività”, cioè la promozione dell’eterosessualità, il concetto di maschio-femmina e le norme familiari “borghesi”. Le minoranze razziali e sessuali devono dunque unirsi sotto la bandiera dell'”intersezionalità” e smantellare i “sistemi di oppressione” promossi dal patriarcato. L’ultimo esempio di scuola statunitense contaminata dalla Radical gender Theory riguarda la Springfield Public Schools, il più grande distretto scolastico pubblico del Missouri, che ha adottato un programma di formazione radicale sulla teoria del genere che incoraggia gli insegnanti a credere che “il genere è un universo” e ad affermare che delle identità di genere “non binarie”. A renderlo è il City-Journal.

Il programma pro-gender in Missouri

Nel programma presentato a insegnanti e dipendenti del distretto scolastico del Missouri, viene spiegato che questi ultimi devono comprendere i loro “privilegi” e che che alcuni gruppi – cioè gli uomini eterosessuali, bianchi, cisgender – hanno “potere” e “privilegio” sugli altri in base alle categorie di “razza”, “genere”, “identità” e “orientamento sessuale”. Agli insegnanti viene quindi chiesto di classificarsi e rendere conto della loro razza, sesso, genere, orientamento sessuale e stato socioeconomico. Follie della politica dell’identità. I promotori del programma raccontano agli stessi insegnanti che alle persone viene assegnato un “sesso biologico assegnato alla nascita”, che spesso è in conflitto con “l’identità di genere” e “l’espressione di genere”. Pertanto, ai docenti viene chiesto di riconoscere le identità “non binarie”, di “genere non conforme”, e arricchire il loro vocabolario con le espressioni “drag queen”, “pansessuale” e “poliamoroso”.

Secondo questo programma di formazione, gli insegnanti dovrebbero anche utilizzare i “pronomi di genere preferiti” dei loro studenti. Nella presentazione, è incluso anche video con bambini “gender-queer” e “non binari”, intitolato “Perché i pronomi di genere contano”, in cui si afferma che “il genere è un universo”, che alcuni bambini “non hanno un genere” e che “indicare un genere sbagliato verso una persona trans è un atto di violenza”.”La mia identità, anche se non puoi vederla, deve comunque essere confermata”, dice uno dei bambini “non binari” nel video. Il programma è stato condiviso anche con altre scuole. Alla Parkview High School, la Springfield Public Schools ha inviato uno dei suoi “Equity Champions”, l’insegnante Ashley Blankinship, per spiegare ai suoi colleghi che devono “riconoscere i [loro] privilegi” e “prende atto del loro disagio” come parte del “Programma di formazione LGBTQ+ 101”. Blankinship ha fatto intendere agli insegnanti che devono studiare e riconoscere le identità sessuali come “queer”, “pansessuale” e “genere non conforme” e utilizzare i pronomi “loro/loro” per gli studenti “non binari”.

Chi promuove la Radical gender Theory

La principale organizzazione nazionale dietro questa campagna, la rete Gsa, è un’organizzazione no-profit che ha a disposizione un buddget annuale milionario, secondo quanto riportato da Fox News. Gsa Network, infatti, funge da organizzazione ombrello per oltre 4.000 associazioni pro-gender e pro-Lgbtq in 40 stati. “Gsa Network è un’organizzazione Lgbtq di nuova generazione per la giustizia razziale e di genere che autorizza e forma i leader giovani queer, trans a sostenere, organizzare e mobilitare un movimento intersezionale per scuole più sicure e comunità più sane” si legge sul sito web dell’organizzazione.

E ancora: “Gsa Network sta lavorando per rafforzare la capacità di costruzione del movimento dei giovani Lgbtq+ e la giustizia razziale e di genere nelle scuole e sviluppare la prossima generazione di leader Lgbtq+”, in particolare “i giovani a basso reddito e i giovani di colore in California e a livello nazionale”. Nel 2016, “abbiamo formalmente cambiato il nostro nome in Genders & Sexualities Alliance Network (ex Gay-Straight Alliance Network) dopo aver ascoltato innumerevoli leader giovanili che capiscono che i loro generi e sessualità sono unicamente loro e vanno oltre le etichette di gay e etero, e i limiti di un sistema binario di genere”. Dietro questo movimento pro-transgender ci sono, naturalmente, alcuni “filantropi” multimilionari e ricchi finanziatori. Nel 2013, secondo il Washington Times, il magnate liberal George Soros, fondatore dell’Open Society Foundations, ha donato all’organizzazione 100 mila dollari.

Da ansa.it il 20 agosto 2022.

La censura dei libri colpisce ancora negli Stati Uniti e dopo il Florida è la volta del Texas. Una scuola nello Stato conservatore ha deciso, infatti, di ritirare 41 libri tra i quali la Bibbia e una versione illustrata del 'Diario di Anna Frank'. Lo riporta la Cnn. 

Il Keller Independent School District, vicino Fort Worth, ha introdotto da qualche anno la politica di mettere libri e materiale scolastico 'in prova' per 30 giorni prima di decidere se includerli nei suoi programmi. In passato sono stati messi in discussione soprattutto libri dedicati ai temi Lgbtq+ come 'All Boys Aren't Blue' di George M. Johnson, che alla fine la scuola ha deciso di mantenere ma solo alle superiori, e 'Gender Queer' di Maia Kobabe, che è stato fatto fuori. Anche il romanzo della scrittrice premio Nobel Toni Morrison 'The Bluest Eye' è stato contestato ma alla fine ha superato la selezione.

Quest'anno è toccato alla Bibbia e a una versione illustrata del 'Diario di Anna Frank', che saranno sottoposti all'esame di una Commissione speciale dopo le proteste formali di alcuni genitori, insegnanti e impiegati. La censura dei libri sta diventando un problema negli Stati Uniti. 

Secondo PEN America, la principale organizzazione Usa per la promozione della letteratura e la difesa della libertà di espressione, sono stati ben 1.586 i libri vietati in 86 distretti scolastici in 26 stati dal 31 luglio 2021 al 31 marzo 2022. Il Texas è in testa con il maggior numero libri censurati, 713, seguita da Pennsylvania e Florida.

In questo Stato lo scorso aprile il governatore ultraconservatore Ron DeSantis, uno degli aspiranti alle primarie repubblicane per le presidenziali del 2024, ha messo al bando oltre 50 libri di matematica per i loro contenuti "politici". 54 su 132 testi respinti dal dipartimento dell'istruzione, il 41% del totale accusati di "indottrinare" gli alunni con "contenuti socio-emotivi" e "politici", secondo il governatore.

Libri proibiti e guerra per la scuola: cosa succede davvero negli Usa. Alberto Bellotto su Il Giornale il 2 settembre 2022.  

In alcune scuole degli Stati Uniti basta poco per perdere il lavoro. È quello che è successo a Summer Boismier, insegnante in un liceo di Norman, sobborgo di Oklahoma City. Boismier è stata costretta a dimettersi dopo aver esposto nella sua classe una lista di volumi dal titolo “Libri che lo Stato non vuole che tu legga”. Una risposta, ha raccontato la professoressa, a una legge del Sooner State che impone limiti agli educatori sugli insegnamenti riguardanti questioni di razza o genere.

Boismier è solo l’ultima insegnante vittima della guerra dei libri che sta infiammando le comunità americane. Da diversi anni nei consigli scolastici delle varie contee che compongono gli Stati Uniti si stanno combattendo aspre battaglie per vietare libri o fumetti nelle scuole. Si tratta di una delle guerre culturali più accese tra quelle che dividono sempre di più la società americana.

Una delle ultime battaglie ha riguardato la città di Keller, in Texas, dove una quarantina di libri sono stati messi al bando nelle scuole, tra i quali un adattamento a fumetti del Diario di Anna Frank. In passato altri libri, come il volume Maus, sono finiti negli indici di qualche distretto. Anche in Florida gli scontri non sono mancati. Tra luglio 2021 e marzo 2022, in otto distretti scolastici del Sunshine State sono finiti all’indice 200 volumi.

Non mancano neanche le fake news. Nelle ultime settimane, sui social ha avuto molto risalto una lista di 25 titoli che la Florida avrebbe bandito da tutte le scuole dello Stato, tra questi anche il libro Il buio oltre la siepe. Peccato che non solo la lista fosse falsa, ma soprattutto che non esistano bandi a livello statale in Florida. In questo scontro, il paradosso più grande è che gli americani, tutti senza distinzione tra democratici e repubblicani, sono contrari a un divieto in senso stretto.

I numeri del fenomeno

Ma quanto è ampio il fenomeno? E perché spiegarlo è più complesso di quanto sembri? Partiamo dalla prima domanda, dai numeri. Diverse associazioni per i diritti civili e la libertà di espressione hanno provato a monitorare messe al bando e tentativi di revisione delle biblioteche scolastiche. Secondo le stime di una di queste, la PEN America, tra il primo luglio 2021 e il 31 marzo di quest’anno i libri proibiti dai distretti scolastici di mezza America sono stati 1.145.

I più attivi su questo fronte sono stati i texani con 713 libri finiti all’indice, seguiti quasi a sorpresa non da uno Stato conservatore del Sud, ma da uno Swing State come la Pennsylvania, che ne ha banditi 456. Gli altri membri dell’Unione si sono mossi in ordine sparso, ma molti Stati conservatori dell’America profonda, come il Mississippi, l’Alabama, la Louisiana o il West Virginia, non hanno preso di mira i libri; mentre in luoghi più democratici, come nello Stato di New York, in Illinois o in Virginia, qualche volume è finito all’indice.

Per Deborah Caldwell-Stone, esponente della American Library Association (l’associazione delle biblioteche americane), nel giro di poco tempo si è passati da 1-2 libri finiti all’indice ogni anno a 5-6 libri posti sotto indagine al giorno. Per Caldwell-Stone il 2015 è l’anno in cui la grande battaglia sui libri è iniziata. Prima di quella data gli scontri tra genitori non mancavano, ma riguardavano per lo più questioni legate all’educazione sessuale o alla religione. A partire da quel momento il dibattito si è spostato sui temi del gender e della razza.

Chi finisce sotto tiro

Nel periodo considerato dal PAM America, tra gli oltre mille volumi banditi, il 41% aveva personaggi principali afroamericani, il 22% si concentrava su temi legati alla razza o al razzismo e il 33% si occupava di temi e personaggi della galassia Lgbtq.

Scorrendo i lunghi elenchi delle associazioni che monitorano i ban, si trovano moltissimi volumi a tema razziale o sull’identità di genere. Anche se in mezzo, ci sono libri di altre categorie, come il Diario di Anna Frank, Maus, V per Vendetta di Alan Moore, Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, Peter Pan di J. M. Barrie, Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini, Lolita di Vladimir Nabokov e pure Uomini e topi di John Steinbeck.

Questa guerra dei libri si è inasprita lì dove un tempo c’era poco interesse: i consigli scolastici. Negli Stati Uniti, diversamente che da noi, quasi ogni carica che si trova a maneggiare soldi pubblici è elettiva. È il caso ad esempio dei pubblici ministeri che vengono eletti e che scelgono quali crimini perseguire e quali no. I consigli scolastici non fanno eccezione. Le cariche sono elettive e chiunque nella comunità si può candidare e partecipare alla gestione delle scuole del distretto.

Oggi gruppi di genitori e grandi associazioni genitoriali, come ad esempio Moms for Liberty, hanno lanciato vaste campagne “elettorali” e portato una parte dello scontro in questi consigli. E le vittime sono stati proprio i libri. Gli esponenti di queste associazioni hanno difeso la richiesta di porre un freno ai testi spiegando di voler evitare che bambini e ragazzi entrino in contatto con “contenuti sessuali espliciti”, “linguaggi offensivi”, ma anche la teoria critica della razza, un quadro teorico accademico che afferma come il razzismo negli Stati Uniti sia sistemico e connaturato nelle stesse istituzioni americane.

Cosa dicono i sondaggi

Questa “guerra” ai libri può essere letta in modo molto diverso se la si osserva dai sondaggi. Ne bastano pochi per capire come i veri obbiettivi degli scontri nei consigli scolastici non siano i libri. E che anzi i vari volumi messi all’indice sono delle vittime collaterali in un certo senso.

A febbraio un sondaggio di YouGov condotto per Cbs News ha rilevato che l’87% degli americani è contrario alla messa al bando di libri su temi come razza o schiavitù. Un’altra indagine fatta a marzo dall’Hart Reserarch Associates per conto dell’American Library Association ha scopetto che il 71% degli elettori è contrario agli sforzi per rimuovere i libri dalle biblioteche pubbliche. Una terza e ultima rilevazione ha messo in luce che solo il 12% degli americani sostiene la rimozione dalla scuole di libri su “argomenti divisivi”.

Persino se si prova a scorporare i dati in base alle convinzioni politiche i numeri non cambiano di molto. Il 75% dei democratici è contrario agli indici, così come il 70% dei repubblicani. Come si conciliano quindi questi sondaggi con quello che avviene in decine di consigli scolastici? Osservando il tutto dalla prospettiva di come e cosa insegnare ai figli. Su questo gli elettori sono davvero spaccati a metà.

Lo scontro sull’istruzione

Prendiamo la teoria critica sulla razza. Sebbene non esistano programmi specifici di insegnamento nelle scuole medie e superiori (altro discorso ben più complesso riguarda l’istruzione universitaria), il tema divide moltissimo le due Americhe. L’81% dei democratici vedrebbe positivamente l’insegnamento della teoria critica, mentre l’86% dei repubblicani lo vede con un’accezione negativa.

Questo è il sintomo di una divisione più ampia. Interrogati su cosa li preoccupi davvero intorno ai temi della scuola, la maggior parte dei cittadini ha parlato di bullismo, libri proibiti e studenti che mancano gli obbiettivi di apprendimento. Ma se le stesse domande vengono divise per il partito di appartenenza, la forbice si fa enorme.

Il gap principale si nota proprio sul ban del libri: per il 57% dei dem è un rischio che gli studenti corrono, mentre è pericoloso solo per il 28% dei repubblicani. Il 62% degli elettori del Gop teme, invece, che gli studenti vengano indottrinati a idee troppo liberal, contro il 16% dei democratici. E il 36% dei conservatori ha paura che i ragazzi entrino in contatto con testi inappropriati.

Il termometro di questa divisione lo si ha anche sul tema del coinvolgimento dei genitori nelle scelte delle scuole. Il 37% dei repubblicani teme di restare tagliato fuori. Mentre il 16% dei democratici ha detto di aver paura di un eccessivo coinvolgimento nei processi decisionali.

Ecco quindi che i libri finiti all’indice non sono altro che l’ennesimo capitolo di una guerra tra due mondi culturali che faticano sempre di più a parlarsi e a capirsi. Una spaccatura che ha coinvolto la scuola e che anzi l’ha trasformata in un ennesimo campo di battaglia. È probabile che nei prossimi mesi, o anni, la guerra si intensifichi.

L’uso massiccio della didattica a distanza durante le fasi acute della pandemia ha portato sempre più genitori in contatto con la quotidianità della scuola e degli insegnamenti. E molti repubblicani non sembrano essere contenti di cosa (e come) viene insegnato nelle scuole. Non è un caso che proprio Donald Trump abbia promesso l’abolizione del dipartimento dell’Istruzione nell’eventualità di un suo ritorno alla Casa Bianca.

Cancel culture: se l’Occidente terrorizzato si autocensura. Dopo l'inchiesta del "Times" su tutti i libri proibiti o sconsigliati negli atenei britannici, una riflessione sugli eccessi del politicamente corretto. E su come la fine del discorso pubblico lasci spazio solo alle sue caricature. Corrado Augias La Repubblica l'11 Agosto 2022.

Ha fatto bene Antonello Guerrera a segnalare prontamente (su Repubblica di ieri) da Londra il fenomeno delle letture proibite o sconsigliate nelle università inglesi. Vi figurano autori moderni e contemporanei ma anche il padre di ogni letteratura, Shakespeare nientemeno, nel cui Sogno di una notte di mezza estate si scorgerebbero segni di classismo. Non vado a controllare, è possibile che ci siano, così come è certo che nei libretti della lirica italiana compaiano pesanti riferimenti agli abietti zingari e al sangue dei negri.

Estratto dell’articolo di Antonello Guerrera per “la Repubblica” l'11 agosto 2022.

(…) gli atenei britannici stanno rimuovendo decine di titoli, persino premi Pulitzer come La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead del 2017, dai loro corsi e per un altro migliaio c'è l'imbarazzo dell'avvertimento agli studenti: se non volete leggerli, potete evitarli, in quanto controversi o potenzialmente pericolosi. Forse il caso di Whitehead, uno degli scrittori più celebri in America, è il più paradossale. Perché per i giudici del Pulitzer, la sua descrizione delle tensioni razziali combinano «la violenza della schiavitù e il dramma della fuga in un mito che parla agli Stati Uniti di oggi».

Tanto che lo stesso romanzo non solo ha vinto il National Book Award in America, ma è stato pubblicamente lodato da presidenti e star come Barack Obama e Oprah Winfrey.

Ma proprio quelle descrizioni crude della schiavitù, encomiate oltreoceano, sono degne di censura per la Essex University, dove il libro è stato rimosso permanentemente per «passaggi espliciti di violenza e schiavitù». 

Ma come? Spostiamoci poco lontano, all'Università inglese del Sussex. Qui a perire sotto l'implacabile scure censoria è stata la tragedia teatrale La signorina Julie (1888) del grande intellettuale svedese August Strindberg, tra i destinatari dei "biglietti della follia" di Nietzsche a fine XIX secolo. La motivazione: «contiene dialoghi sul suicidio» e alcuni studenti hanno contestato i «potenziali effetti psicologici dell'opera ».

(…) Il Pasto nudo di William Burroughs è stato bollato dalla Cardiff metropolitan University per il «linguaggio scioccante e controverso» e quindi può essere rimpiazzato da altre opere in alcuni corsi di letteratura. Stesso destino per Charlie Hebdo , che gli studenti di francese alla Nottingham Trent possono evitare perché «razzista, sessista, islamofobo e bigotto». 

Mentre ad Aberdeen, sempre dopo le lamentele di alcuni iscritti, «avvertimenti per l'uso» sono stati destinati addirittura a opere come Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare («attenti al classismo»), Geoffrey Chaucer («può essere arduo a livello emozionale » ), Oliver Twist di Charles Dickens («abusi su minori»), ma anche Jane Austen, Charlotte Brontë e Agatha Christie.

Gli atenei si difendono parlando di scelte dettate dagli studenti o comunque non obbligatorie nella stragrande maggioranza dei casi per i laureandi. Scrittrici come Rachel Charlton-Dailey parlano di sensazionalismo e che «avvertimenti simili sono sempre esistiti». «Certo che le università devono proteggere la salute mentale dei propri studenti», ribatte il sottosegretario dell'Istruzione britannico James Cleverly, «ma allo stesso tempo non si può non affrontare il passato. Se alcuni testi sono complessi, vanno capiti, non censurati. E poi sinceramente, mi turba l'idea che in un'università gli studenti non abbiano lo spirito critico e la maturità per leggere classici del genere».(…)

Ora il Texas mette al bando anche il Diario di Anna Frank. Usa, secondo il comitato del distretto scolastico di Keller sarebbe un’opera «pornografica». Daniele Zaccaria il 20 Agosto 2022 su Il Giornale.

«Dobbiamo proteggere i nostri bambini dai contenuti sessualmente espliciti», così ha detto Charles Randklev, presidente del consiglio di amministrazione del distretto scolastico di Keller, (una area metropolitana nel Texas del nord che ospita oltre 35mila studenti) per giustificare il ritiro, assieme a un’altra quarantina di libri, del Diario di Anna Frank dalle biblioteche scolastiche, o meglio di una graphic novel ispirata al celebre Diario realizzata dal regista israeliano Ari Folman e dall’illustratore David Polonsky.

Un’opera che il New York Times Book Review ha definito come «coinvolgente, di alto valore morale e specialmente adatta per i più giovani». Ora sarà sottoposta a «revisione» da parte del Comitato di genitori, dirigenti scolastici e «membri della comunità» per verificare la sua idoneità al giovane pubblico: «Gli scorsi anni abbiamo trovato libri decisamente inadeguati, anche opere pornografiche!», tuona Randklev. Chissà se si riferiva a The Bluest Eye, il romanzo della scrittrice afroamericana Toni Morrison che racconta gli amori di una ragazzina nera negli anni 40 sullo sfondo dei conflitti razziali, fatto sparire anch’esso dagli scaffali dei college assieme a tanti libri che affrontano tematiche razziali e di genere. Tra questi il famigerato Gender Queer di Maia Kobabe che per i cristianissimi esponenti del comitato di censura è un libro maledetto un po’ come i Versetti satanici per un fondamentalista islamico.

Ma in cosa il Diario di Anna Frank sarebbe osceno? Per quali oscuri motivi il dramma della bambina ebrea olandese che ha illuminato intere generazioni sugli orrori del nazismo sarebbe oggi un’opera diseducativa? Per il momento non è dato saperlo ma la commissione promette che lavorerà in modo «trasparente» ce che presto deciderà nel merito. «I libri che soddisfano le nuove linee guida verranno restituiti alle biblioteche non appena verrà confermato che rispettano la nuova politica» si legge in una mail dei una dirigente del distretto pubblicata dal Texas Tribune. Lo zelo dei censori spesso flirta con il ridicolo, ma in Texas sull’argomento c’è ben poco da scherzare e il distretto scolastico di Keller è diventato in tal senso un vero e proprio laboratorio della cancel culture di destra (quella “progressista” invece tiene banco nei campus universitari per ricchi e nell’industria cinematografica).

All’inizio del 2021 il governatore repubblicano ultraconservatore Greg Abbot aveva lanciato la crociata scrivendo una lettera al Segretario all’educazione in cui lo invitava a dichiarare guerra alla «pornografia» nelle scuole pubbliche e a spulciare tutte le biblioteche degli istituti. E poi ha mobilitato il Patriot Mobile Action, un comitato lobbista di integralisti religiosi che è riuscito a piazzare 11 rappresentanti nei consigli scolastici del nord del Texas. I più fanatici sono stati eletti proprio nel consiglio distrettuale di Keller e sono entrati in servizio lo scorso maggio. Gli effetti non hanno tardato a manifestarsi.

Un rapporto di aprile di PEN America, un’organizzazione di difesa della libertà di parola, fotografa una realtà inquietante in cui l’offensiva per mettere al bando i volumi procede a ritmi esponenziali di anno in anno. Facendo delle biblioteche scolastiche un campo di battaglia dello scontro culturale. Il PEN ha rilevato che 1.586 libri sono stati vietati in 86 distretti scolastici da luglio 2021 a marzo 2022, colpendo oltre 2 milioni di studenti. Il Texas, si è classificato naturalmente al primo posto su altri 25 stati , con 713 libri censurati o vietati.

Una scuola in Texas vieta 41 libri, anche la Bibbia. ANSA il 17 agosto 2022.

La censura dei libri colpisce ancora negli Stati Uniti e dopo il Florida è la volta del Texas. Una scuola nello Stato conservatore ha deciso, infatti, di ritirare 41 libri tra i quali la Bibbia e una versione illustrata del 'Diario di Anna Frank'. Lo riporta la Cnn.

Il Keller Independent School District, vicino Fort Worth, ha introdotto da qualche anno la politica di mettere libri e materiale scolastico 'in prova' per 30 giorni prima di decidere se includerli nei suoi programmi. In passato sono stati messi in discussione soprattutto libri dedicati ai temi Lgbtq+ come 'All Boys Aren't Blue' di George M. Johnson, che alla fine la scuola ha deciso di mantenere ma solo alle superiori, e 'Gender Queer' di Maia Kobabe, che è stato fatto fuori. Anche il romanzo della scrittrice premio Nobel Toni Morrison 'The Bluest Eye' è stato contestato ma alla fine ha superato la selezione.

Quest'anno è toccato alla Bibbia e a una versione illustrata del 'Diario di Anna Frank', che saranno sottoposti all'esame di una Commissione speciale dopo le proteste formali di alcuni genitori, insegnanti e impiegati. La censura dei libri sta diventando un problema negli Stati Uniti. Secondo PEN America, la principale organizzazione Usa per la promozione della letteratura e la difesa della libertà di espressione, sono stati ben 1.586 i libri vietati in 86 distretti scolastici in 26 stati dal 31 luglio 2021 al 31 marzo 2022. Il Texas è in testa con il maggior numero libri censurati, 713, seguita da Pennsylvania e Florida. In questo Stato lo scorso aprile il governatore ultraconservatore Ron DeSantis, uno degli aspiranti alle primarie repubblicane per le presidenziali del 2024, ha messo al bando oltre 50 libri di matematica per i loro contenuti "politici". 54 su 132 testi respinti dal dipartimento dell'istruzione, il 41% del totale accusati di "indottrinare" gli alunni con "contenuti socio-emotivi" e "politici", secondo il governatore. (ANSA).

Dall’egemonia culturale al politically correct. Marcello Veneziani 

Ma cos’è questa famigerata egemonia culturale, in che consiste? Per cominciare, il modello ideologico dell’egemonia culturale viene tracciato in Italia da Antonio Gramsci con la sua idea del Partito come Intellettuale Collettivo che conquista la società e il consenso popolare tramite la conquista della cultura. Quel modello culturale diventa la punta avanzata di riferimento per tutta la sinistra occidentale; si applica nei paesi in cui c’è, bene o male, una pluralità di culture che vanno gradualmente svuotate, delegittimate e sovrastate. Il modello pratico si nutre però di due esperienze non democratiche: quella totalitaria, comunista, sovietica, da Lenin a Trotzskj, da Zdanov a Luckàcs, vale a dire il ministro della cultura di Stalin e il filosofo ministro nell’Ungheria comunista. Ma c’è anche un’esperienza nascosta come riferimento: quella autoritaria fascista italiana, con l’organizzazione della cultura e degli intellettuali, della scuola e dell’Enciclopedia italiana di Giovanni Gentile e di Giuseppe Bottai, che è l’unico vero precedente occidentale di egemonia culturale (ma l’esperienza fascista fu tutt’altro che monocorde, ma ricca di eresie, varietà e dissonanze). Sullo sfondo, però, va considerato anche un proposito di sostituzione: per le masse si tratta di sostituire la formazione cattolica, la rete delle parrocchie, l’impronta religiosa con un nuovo catechismo laico e progressista, d’impronta comunista. È l’illuminismo portato alle masse, secondo il progetto di Gramsci.

La storia dell’egemonia culturale marxista e laicista in Italia va divisa in due fasi. La prima risale a Togliatti che nell’immediato dopoguerra nel nome del gramscismo va alla conquista della cultura, avvalendosi degli intellettuali organici militanti e di case editrici vicine al Partito. E’ un’egemonia non ancora pervasiva, punta alla cultura medio-alta e regge sulla riconversione di molti “redenti” dal fascismo; riguarda l’editoria, alcune frange della cultura accademica, la cultura pubblica e storica. Contro questa egemonia si abbatterà la definizione, altrettanto nefasta, di “culturame” da parte del ministro democristiano Scelba.

L’egemonia, sia gramsciana che quella radical, ha due caratteristiche da sottolineare. Non tocca, se non di riflesso, gli apici della cultura italiana, ma si salda con gli anni nei ceti medi della cultura, nel personale docente, fino a conquistare buona parte dell’Università e della scuola, dei premi letterari, della stampa e dell’editoria, oltre che del cinema e del teatro, dell’arte e della musica. Nulla di paragonabile, per intenderci, con l’egemonia fascista nel segno di Gentile e D’Annunzio, Pirandello e Marinetti, Marconi e Piacentini, per restare solo agli italiani.

In secondo luogo tocca di striscio la cultura di massa, che è più plasmata dai nuovi mezzi di ricreazione popolare e di intrattenimento nazionalpopolare, lo sport, la musica leggera, la tv commerciale in cui pure s’insinuerà possente, col tempo, l’influenza ideologica. Dunque, il gramscismo resto un’egemonia dell’organizzazione culturale, dei poteri culturali, dei quadri intermedi, senza vertici d’eccellenza e senza vera adesione popolare. Ma i riflessi della sua influenza s’infiltrarono a macchia d’olio su temi civili e di costume fino a creare un nuovo canone di totem e tabù.

L’egemonia culturale fagocita le culture affini, asservisce quella opportunista e terzista, demonizza o delegittima le culture avverse, di tipo cattolico, conservatore, tradizionale o nazionale. Innalza cordoni sanitari per isolare i non allineati, squalifica le culture di destra, bollate ieri come aristocratiche e antidemocratiche, oggi come populiste e razziste-sessiste; da alcuni anni preferisce fingere che non esistano, decretando la morte civile dei suoi autori.

La seconda egemonia culturale nasce invece sull’onda della protesta giovanile del 1968; in Italia il Pci diventa il principale referente ma anche in parte il bersaglio dell’estremismo rosso. Il distacco dall’Unione Sovietica viene motivato, pure all’interno del Pci, col tentativo d’intercettare quell’area radicale, giovanile e marxista che non contestava l’Urss nel nome della libertà ma nel nome della Cina di Mao e della sua Rivoluzione culturale, di Che Guevara e della Rivoluzione cubana, di HoChiMin e dell’antiamericanismo, e di altri miti esotici e rivoluzionari. La stessa cosa vale per la sinistra europea e per new left, la sinistra americana.

Dopo il ‘68 vanno in cattedra i giovani fino a ieri contestatori, poi assistenti e presto neobaroni universitari. La saldatura tra le due sinistre avviene attraverso alcuni organi di stampa, alcune case editrici, e la trasformazione non solo in Italia ma in tutta Europa della sinistra dal comunismo al radical-progressismo. Questa volta l’egemonia si estende ben oltre la cultura alta, tocca la scuola e l’università, ma anche il cinema, la televisione, il teatro, l’arte, il linguaggio. Il progetto politico è mutare, modernizzare, secolarizzare il vecchi Pc nel progetto di un partito radicale di massa. Ma conservando la sua egemonia, il suo ruolo di guida e paradigma.

Sul piano culturale Gramsci, fuso con autori della tradizione socialista e liberalsocialista, come da noi la linea che parte da Piero Gobetti e arriva a Norberto Bobbio fino a Umberto Eco, che applica la nuova egemonia culturale al mondo dei mass media e alla società contemporanea. Ma Gramsci viene comunque considerato come il nuovo papa laico dell’egemonia, seppure postumo; la definizione di Papa laico l’aveva usata lo stesso Gramsci per indicare il ruolo del filosofo liberale Benedetto Croce nella transizione dal fascismo all’antifascismo. Negli anni di piombo, cioè negli anni settanta, convivono l’egemonia gramsciana di marca comunista con l’egemonia radical che ne prende il posto, a cui contribuiscono i reduci del ‘68 e molti gruppi della sinistra estrema o radicale, dal Manifesto a Potere Operaio e Lotta Continua. Se prima era il Partito a guidare le danze, ora è l’Intellettuale Collettivo a dare la linea alla sinistra e a guidarla sul piano della primazia culturale.

Questa seconda fase ha uno sbocco più recente, che deriva dalle esperienze nordamericane e nordeuropee (la Svezia, ad esempio): la trasformazione dell’egemonia comunista in egemonia del politically correct. Ora che il comunismo non c’è più, almeno in Occidente, al suo posto c’è un altro PC, che non è più la sigla del Partito Comunista ma del Politically Correct. E’ il canone ideologico che impone un nuovo bigottismo in favore di gay, aborto, femministe, migranti, neri, clandestini, che misura e censura il lessico, che indica modelli di riferimento consoni con l’ideologia correttiva.

Ho dedicato molte pagine del mio ultimo libro La Cappa, dedicato alla critica del presente, per approfondire il tema della cancel culture e del suo antefatto, il politically correct. Il male principale di entrambi è la riduzione della storia al presente, del diverso al conforme, della realtà allo schema ideologico prefabbricato. La cancel culture, che va tradotto come cancellazione della cultura e non come fanno taluni con cultura della cancellazione, perché è fenomeno barbarico e distruttivo, è l’incapacità di affrontare mondi diversi, di confrontarsi con parametri diversi dai propri, di capire che ogni epoca ha i suoi metri, nessuno può elevarsi a giudice finale di ogni altra epoca e cultura. E le grandezze e le infamie non si misurano solo col metro piccino del nostro manicheismo vigente. Ma se la condanna del passato nel nome del PC è già di per sé aberrante, diventa miserabile la sua cancellazione o rimozione, senza nemmeno discuterne.

La cancel culture è l’estensione retroattiva del politically correct, che invece si accanisce sui comportamenti, i linguaggi e i costumi presenti. Ho definito il politically correct come la Cappa ideologica del nostro tempo: è il moralismo in assenza di morale, il razzismo etico in assenza di etica, il bigottismo in assenza di religione e l’antifascismo in assenza di fascismo. Lo scopo dichiarato in origine era tutelare le minoranze più deboli, offese e oppresse, ma si è via via capovolto, fino a creare una corazza d’immunità cioè di non criticabilità per alcune categorie, già indicate, un suprematismo rovesciato, per accanirsi infine verso tutto ciò che non rientra in quelle diversità protette: a partire dalla famiglia, dai popoli, dalle tradizioni, dalla natura, dalla realtà, dall’uomo comune. Ma funziona anche da terribile “livellatrice” perché punisce e deprime ogni eccellenza, ogni grandezza, ogni bellezza. Il politically correct uccide la realtà e demotiva ogni ricerca di qualità, di verità, di eccellenza. Ne La Cappa ho tradotto questi nuovi canoni d’ipocrisia in una vera e propria manipolazione culturale, in una fabbrica delle opinioni preconfezionate e soprattutto ho ravvisato la censura che ne deriva nei confronti di chi non si allinea.

Viviamo non solo in Italia un ritorno della censura militante, del controllo ideologico e talvolta perfino giudiziario, della sorveglianza totale che si accanisce sulle opinioni libere, sui giudizi storici divergenti dai pregiudizi, sulle difformità di canoni e pensieri, sulle opinioni espresse nei social. E se questa ondata repressiva viene poi coniugata ai dispositivi d’emergenza approvati ora per la pandemia ora per la propaganda di guerra in Ucraina, i risultati sono un regime di sorveglianza e l’anticamera di un sistema totalitario, seppure in forma soft, edulcorata, con l’apparenza retorica della democrazia liberale. Siamo scivolati dalla società aperta di cui parlava Karl Popper alla società coperta, sotto controllo, vigilata dai custodi del politically correct. L’Unione Europea ha abbracciato in larga parte questo nuovo canone e lo impone attraverso le sue direttive, le sentenze della corte europea e altre forme di indirizzo.

La censura è sempre inaccettabile; per combattere le falsificazioni, le calunnie e le diffamazioni bastano i codici civili e penali.

L’egemonia culturale fa male alla cultura, è inutile dirlo, ne danneggia non solo la libertà ma anche la qualità, la dignità e la varietà. Ma alla cultura nuoce pure la noncuranza, il disprezzo, la sottovalutazione. Alla fine chi non è allineato all’egemonia si trova tra il fuoco degli intolleranti e il gelo degli indifferenti.  La pressione psicologica è forte, ed è frequente la tentazione di evitare gli scontri, accettare per quieto vivere, i nuovi codici ideologici.

Negli ultimi tempi sono avvenute due cose: l’egemonia si è incupita, si è acuita la sua intolleranza punitiva. E la sua valenza culturale si è fatta sub-culturale, mass-mediale, non teorica ma etica, non pensante ma correttiva, ideologica ma senza elaborazione di idee. Il suo campo si è allargato a tutti gli altri media, fino a fornire una Sola Narrazione del Presente e del Passato.

In che consiste oggi l’egemonia culturale? In una mentalità dominante che eredita dal comunismo la pretesa di Verità Ineluttabile (quello è il Progresso, non potete sottrarvi al suo esito) e il suo monopolio da parte di chi rappresenta questa parte. Sono sempre dalla parte giusta della storia, anche quando clamorosamente sbagliano; e possono assumere posizioni fino a ieri condannate senza dover giustificare il cambiamento. Perché sono dalla parte “giusta” della storia. Quella mentalità s’è fatta codice ideologico e galateo sociale, noto come politically correct, intolleranza permissiva e bigottismo progressista.

Chi ne è fuori deve sentirsi in torto, deve giustificarsi, viene considerato fuori posto e fuori tempo, ridotto a residuo del passato o anomalia patologica. Ma lasciamo da parte le denunce e le condanne e poniamoci la domanda di fondo: ma questa egemonia culturale cosa ha prodotto in termini di opere e di intelligenze, che impronta ha lasciato sulla cultura, la società e i singoli? Ho difficoltà a ricordare opere davvero memorabili e significative di quel segno che hanno inciso nella cultura e nella società. E il giudizio diventa ancor più stridente se confrontiamo gli autori e le opere a torto o ragione identificate con l’egemonia culturale e gli autori e le opere che hanno caratterizzato il secolo. Tutte le eccellenze in ogni campo, dalla filosofia alle arti, dalla scienza alla letteratura, non rientrano nell’egemonia culturale e spesso vi si oppongono. Potrei fare un lungo e dettagliato elenco di autori e opere al di fuori dell’ideologia radical, un tempo marxista-progressista, se non contro.

L’egemonia culturale ha funzionato come dominazione e ostracismo ma non ha prodotto e promosso grandi idee, grandi opere, grandi autori. Anzi sorge il fondato sospetto che ci sia un nesso tra il degrado culturale della nostra società e l’egemonia culturale radical. I circoli culturali, le lobbies e le sette intellettuali dominanti hanno lasciato la società in balia dell’egemonia sottoculturale e del volgare. E l’intellettuale organico e collettivo ha prodotto come reazione ed effetto l’intellettuale individualista e autistico che non incide nella realtà ma si rifugia nel suo narcisismo depresso. Ma perché è avvenuto questo, forse perché ha prevalso un clero intellettuale di mediocri funzionari, anche se accademici? Ci è estraneo il razzismo culturale, peraltro assai praticato a sinistra, non crediamo perciò che sia una questione “etnica” che riguarda la razza padrona della cultura. Il problema è di contenuti: l’egemonia culturale non ha veicolato idee, valori e modelli positivi ma è riuscita a dissolvere idee, valori e modelli positivi su cui si fonda la nostra civiltà. Non ha funzionato sul piano costruttivo, sono naufragate le sue utopie, a partire dal comunismo; ma ha funzionato sul piano distruttivo. Ha corroso tradizioni e culture, civiltà e principi di vita, senso comune e radicamento popolare. E si è abbattuta contro principi basilari nella vita personale e comunitaria, legati al senso religioso, al legame sociale e ai legami famigliari. Dio, Patria e famiglia, per riassumere.

Se l’emancipazione è stata il suo valore fondante e la liberazione il suo criterio principe, il risultato è stato una formidabile, quotidiana demolizione di culture e modelli legati alla famiglia, alla natura, alla consuetudine, alla vita e alla nascita, al senso religioso e alla percezione mitica e simbolica della realtà, al legame comunitario, alle identità e alle radici, ai meriti e alle capacità personali. E’ riuscita a dissolvere un mondo, a deprimere ed emarginare culture antagoniste ma non è riuscita a generare mondi nuovi. Il risultato di questa desertificazione è che non ci sono opere, idee, autori che siano modelli di riferimento, punti di partenza e fonti di nascita e rinascita. L’egemonia culturale ha funzionato come dissoluzione, non come soluzione. Anche a livello sociale, ha prodotto più alienazione, isolamento, disgregazione.

Oggi il comunismo non c’è più, la sinistra appare sparita ma sussiste quella cappa asfissiante anche se è un guscio vuoto di idee, valori, opere e autori. Il risultato finale è che l’egemonia culturale è un potere forte con un pensiero debole (e non nel senso indicato da Vattimo e Rovatti); mentre l’albero della nostra civiltà, con le sue radici, il suo tronco millenario e le sue ramificazioni nella vita reale, è un pensiero forte ma con poteri deboli in sua difesa.

La prima è una chiesa con un episcopato in carica e un vasto clero ma senza più una dottrina, una religione e una prospettiva di salvezza; viceversa la seconda è un pensiero forte, con una tradizione millenaria, ma senza diocesi e senza parrocchie… Così viviamo una guerra asimmetrica tra un potere forte ma dissolutivo e una civiltà non ancora decaduta sul piano spirituale ma inerme e soccombente sul piano pratico e mediatico. La prevalenza odierna della barbarie di ritorno deriva in buona parte da questo squilibrio tra una cultura egemone ma nichilista e una civiltà perdente o forse già perduta. La rinascita ha due avversari: la cultura  nichilista egemone e il nichilismo senza cultura della volgarità di massa.

Più difficile si fa infine la domanda sui possibili rimedi, sulle possibili risposte a questa dominazione “globalitaria”. Perché è in gioco l’egemonia ideologica imposta ormai da decenni, in senso radical-progressista che sovrasta la società come una cupola, anche in senso mafioso e si estende al di là dei confini nazionali; e sono in gioco i nessi, le relazioni fortissime tra quella egemonia e i poteri legati al regno dell’informazione, della comunicazione, della cultura ma anche alla magistratura, all’establishment economico-finanziario e burocratico-dirigenziale transnazionale.

Quella saldatura, quel blocco, impedisce di opporre una cultura civile e una sensibilità diversa, legata per esempio al rispetto della Natura, delle Tradizioni, della Qualità, delle Identità culturali, popolari, civili e religiose. Anche se, va pure detto, non esistono forze organizzate, tantomeno partiti, che abbiamo perlomeno tentato di costruire reti, strutture e racconti alternativi per una risposta organica. Manca la sensibilità, la lungimiranza, la strategia per una controffensiva adeguata rispetto a quel predominio. Una cultura di tipo conservatrice, per esempio, in grado di difendere la civiltà, la natura, la realtà, la qualità e la bellezza. Non resta allora che l’uso dell’intelligenza a livello personale, i centri culturali e i gruppi, la circolazione delle idee.

Per perforare la Cappa occorre la spada dell’intelligenza, del pensiero critico e di chi non si accontenta di quel che somministra il convento. La Cappa e la spada, per usare un linguaggio mitico. E con quella spada dare l’assalto al cielo, stavolta non per far venire giù gli dei e abbattere ogni principio superiore, come fu per Marx ai tempi della Comune di Parigi e più recentemente ai tempi della Contestazione nel ‘68; ma per sgombrarlo dalla coltre di ipocrisia, uniformità e sorveglianza che ci opprime e che impedisce di vedere liberamente e interamente il cielo. (Kommentar, rivista ungherese)

Fukuyama: “La cancel culture? Segno dell’intolleranza”. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 26 giugno 2022.

La cancel culture “è segno della crescente intolleranza. Un ruolo decisivo lo gioca la tecnologia: i social media danno infatti la possibilità di isolare le opinioni, abolire il contesto e abdicare a una conversazione civile. Basta un tweet per trasformare un commento in un’onda anomala”. Parola di Francis Fukuyama, politologo e celebre studioso della democrazia liberale, intervistato dal Corriere della Sera. Secondo Fukuyama, la crisi contemporanea del liberalismo, soprattutto negli Stati Uniti, nasce per due motivi, due “differenti distorsioni”. La prima, spiega, è venuta dal neoliberalismo degli anni’80 e dai “Chicago Boys”, mentre l’altra è venuta da sinistra e dalla “politica dell’identità” dei liberal.

Fukuyama contro cancel culture e politica dell’identità

L’insistenza sull’inclusione dei diversi gruppi, spiega il teorico della “fine della storia”, ha portato al paradosso “per cui non si può parlare di lavoratori perché bisogna parlare dei neri o delle donne. Il focus cioè è diventato la specifica identità delle diverse categorie”. Il liberalismo tradizionale è un “progetto naturalmente inclusivo” ma se “l’identità del gruppo diventa più importante dell’identità individuale – e si viene giudicati per appartenenza a una certa razza, religione o genere – ecco che si ricade nell’illiberalità”. Un duro monito, quello dello studioso, contro le derive del politically correct e dell’isteria “woke” della sinistra americana, ossessionata dalla rappresentazione e dai diritti delle minoranze. Istanze portate all’esasperazione e al grottesco.

Il risultato di quest’isteria non è una solidarietà su larga scala ma è quello di atomizzare la società in tanti piccoli gruppi in competizione fra loro. Dopotutto, non è la prima volta che il celebre politologo si scaglia contro la politica identitaria. Nel saggio Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi (Utet) pubblicato nel 2019, il docente della Stanford University osserva come il problema con la sinistra odierna stia nelle “particolari forme di identità” che questa ha deciso sempre di più di esaltare. “Anziché costruire solidarietà attorno a vaste collettività come la classe operaia o gli economicamente sfruttati – afferma Fukuayma si è concentrata su gruppi sempre più ristretti che si trovano emarginati secondo specifiche modalità”. Questo fa parte di una più ampia vicenda riguardante la “sorte del liberalismo moderno”, in cui il principio di riconoscimento universale e paritario si è mutato nello specifico “riconoscimento di gruppi particolari”.

“Il vero pericolo? È la Cina”

Il politologo statunitense non ha dubbi su quale sia il vero pericolo per le democrazie occidentali, fra il modello russo e quello cinese: la minaccia arriva da Pechino. Motivo? La Russia non è un problema, afferma, “il problema è Putin, uno che ha commesso errori enormi, mandando truppe in tutto il mondo, dal Venezuela alla Siria, fino a questa assurda invasione di un paese sovrano come l’Ucraina”. I cinesi, sottolinea, sono “molto più consapevoli nell’uso del loro potere e soprattutto hanno un’economia più sofisticata, più tecnologia, più differenziazione, non solo gas e petrolio”, e nel lungo termine possono porre “più problemi alle democrazie occidentali di quanto non possa fare la Russia”.

E per quanto riguarda l’Ucraina e la possibilità che Kiev possa entrare nell’Unione europea, Francis Fukuyama sottolinea quali sono le vere priorità per Zelensky e il suo esercito: “Non penso che la cosa più importante per l’Ucraina in questo momento sia l’ingresso nell’Ue. Ha più bisogno di assistenza militare“. Quanto alla divisione fra autocrazie e democrazie, particolarmente sostenuta dall’amministrazione Biden, lo studioso sottolinea che oggi vediamo la Russia “che ai miei occhi è un paese fascista, sostenere il Venezuela, che ha la pretesa di essere un paese di sinistra”. Cos’ hanno in comune? Per Fukuyama, è “l’opposizione alle democrazie occidentali. Per cui sì, è giusto che le democrazie si alleino tra di loro. Non penso ad esempio che gli interessi di Russia e Cina siano molto convergenti, ma potrebbero allinearsi proprio nell’ideologia anti-occidentale”. La domanda per lo studioso, a questo punto, potrebbe essere questa: non è stato dunque un errore strategico quello di spingere la Russia tra le braccia di Pechino? Quesito che interrogherà molti studiosi occidentali – e non – nei prossimi anni.

Anna Bandettini per "Repubblica" il 25 giugno 2022.

È stata una sfida alla cancel culture e una vittoria contro l'ossessione della correttezza politica di questo nostro tempo. È stato soprattutto un trionfo con standing ovation Un ballo in maschera che Riccardo Muti ha diretto con la Chicago Symphony Orchestra (Cso) giovedì, in forma di concerto. Un evento, anche perché eseguito con la frase originale del primo atto del libretto, dura verso i neri.  

E cantare "s'appella Ulrica - dell'immondo sangue de' negri" a Chicago, dove i conflitti razziali sono un nervo scoperto, è stato un gesto forte. Alla Scala, meno di un mese fa, la frase incriminata era stata modificata con parole più "corrette", come si fa al Met, al Covent Garden, alla stessa Opera di Chicago.

«Ho voluto lasciarla perché cambiare il testo non cambia la Storia, mentre conoscerla nella sua crudeltà è importante per le nuove generazioni», spiega Muti, 80 anni che non si vedono, guarito dal Covid in tempo per preparare in pochi giorni questa esecuzione di grande livello con Orchestra e Chorus e il cast con le due star italiane Francesco Meli e Luca Salsi, il soprano Damiana Mizzi, Joyce El-Khoury, Yulia Matochkina, Alfred Walker, Kevin Short, Ricardo José Rivera, Lunga Eric Hallam, Martin Luther Clark.  

Un evento (due repliche, e tutti sperano sempre senza polemiche), anche perché il Ballo , quinta opera verdiana di Muti con la prestigiosa compagine sinfonica americana, è l'ultima da direttore musicale. Il suo incarico alla Cso, prolungato di un anno per la pandemia, terminerà nel giugno 2023 con la Messa solenne di Beethoven, anche se già si parla di impegni (domani il "Concerto per Chicago" al Millenium Park) e tournée future, anche in Italia.

Maestro, un bel coraggio lasciare la frase incriminata del libretto di Antonio Somma.

«L'ho fatto perché Verdi non è un razzista e quella frase disumana, in bocca al personaggio del giudice, è per denigrare lui, non la maga "nera" a cui è rivolta, che viene difesa dagli altri nella stessa scena. Verdi era una persona di grande moralità, oltre che un grande musicista, voleva attaccare la legalità cieca, non i neri. Quando l'ho spiegato, ho chiesto al tenore Lunga Eric Hallam se si sentisse disturbato a cantare la frase. Lui, sudafricano, nero, mi ha detto: "Maestro, no problem"».

Una sfida al politically correct?

«Al Covent Garden stanno cambiando interi testi di opere. Sono contrarissimo. La correttezza oggi è censura. Bisogna riportarla alla ragione». 

Dodici anni alla testa della Cso: come è stato?

«L'orchestra aveva un repertorio sinfonico e operistico soprattutto tedesco. Appena arrivato, dopo il successo e i due Grammy col Requiem , siamo andati avanti con Verdi, a cui ho dedicato la vita. E farlo con un'orchestra sinfonica vergine dai vizi imperanti della peggiore tradizione, è stato bello.

Credo che oggi la Cso abbia una luce italiana e sento di aver fatto un servizio al mio paese, mostrando la nostra musica eseguita con dignità. Mentre da noi il povero Verdi». 

Che vuol dire? 

«Penso alla sua casa di Sant' Agata, tutto è come lui l'aveva lasciata, ed è messa all'asta. Una vergogna che il governo non intervenga. Dovrebbe essere un museo. È dell'autore più eseguito al mondo». 

Quando terminerà l'incarico con la Cso, c'è ancora qualcosa che vorrebbe fare? 

«Avrò tempo solo per la musica. Mi piacerebbe una tournée in Alaska ma soprattutto dedicarmi ancora di più ai giovani. Riscoprire con loro la musica italiana sinfonica, quella sì cancellata, e il repertorio della grande scuola napoletana del 700. L'Italia non è solo Vincerò ». 

A proposito di giovani, con la sua orchestra Cherubini dall'11 luglio farete il nuovo concerto delle "Vie dell'Amicizia". 

«Col Ravenna Festival dal 1997 visitiamo con la musica luoghi simbolo del pianeta: andremo nei santuari mariani di Lourdes e Loreto, l'anno prossimo alle Fosse Ardeatine con la sinfonia di William Schuman dedicata a quell'eccidio. Quest' anno sono con noi alcuni coristi ucraini che avevo diretto a Kiev nel 2018 e ora, con la guerra, ospiti a Ravenna. È andata a prenderli in pullman, al confine con la Romania, mia moglie Cristina che ha solo due anni meno di me, ogni tanto mi fa incavolare ma è una forza della natura». 

Avete da poco festeggiato 52 anni di matrimonio... 

«Una bella cosa, sì, a partire dai figli che hanno visto il padre sempre dietro un pianoforte a studiare. Ma questo mi ha permesso di essere libero. Io non sono mai stato coi comunisti, coi democristiani, coi massoni come mi hanno accusato. Mai avuto appartenenze. La mia carriera l'hanno fatta le orchestre».

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 21 giugno 2022.

Ecco una frase molto scorretta e che ci piace molto. Tanto da proporla come slogan della nostra personalissima battaglia contro la cancel culture: «Every joke has a victim».

Chi l'ha detta? L'attore Rowan Atkinson, uno dei comici più popolari e amati della sua generazione, per tutti Mr. Bean, assieme a Benny Hill il personaggio muto più divertente della storia recente della comicità. 

E si sa: chi non parla mai quando poi apre bocca, ogni parola è una sentenza.

La sentenza di Rowan Atkinson - affidata a un'intervista al quotidiano The Irish Times in occasione del suo nuovo show per Netflix Man vs. Bee - è lapidaria, la pietra tombale sulla cancel culture: «I comici dovrebbero essere in grado di fare battute su qualsiasi cosa. Credo che il compito della comicità sia quello di offendere, o di avere il potenziale per offendere. Ogni scherzo ha una vittima».

E manda un avvertimento a tutti quanti: i poliziotti del linguaggio, le erinni del politicamente corretto, gli «inclusivisti» a tutti i costi, le femministe a senso unico: «Bisogna stare molto, molto attenti a dire su cosa è permesso fare battute. In una vera società libera, dovresti essere autorizzato a fare battute su chiunque e su qualsiasi cosa». Perché - si chiede Rowan Atkinson, e noi con lui - a un certo punto «la sinistra progressista ha tentato di dire alla gente su chi può e non può fare battute?».

Rowan Atkinson, del resto, è da tempo su posizioni del genere. In passato ha appoggiato la campagna contro il «Religious Hatred Act» - che considera reato l'incitamento all'odio contro una persona sulla base della sua religione - proprio per permettere agli artisti di potere ironizzare su qualsiasi fede: islamica, cristiana, ebraica... E in un'intervista al quotidiano tedesco Die Welt del 2018, dichiarò: «Credo davvero all'importanza fondamentale della libertà di parola e di espressione delle proprie opinioni.

E senza il diritto all'offesa il concetto di libertà di parola è un concetto vuoto».

«Purtroppo - aggiunse Rowan Atkinson in quella circostanza - mi sembra che stiamo perdendo sempre più, e sempre più rapidamente, la battaglia per il diritto di far arrabbiare qualcuno. Ed è molto triste. Da che cosa dipende? Il fatto curioso è che il meccanismo che minaccia la libertà di parola in ultima analisi ha la sua origine in quei social media che si basano proprio sul principio della libertà di parola. In teoria su Internet tutti possono dire tutto, ma non appena lo fanno ci sono milioni di altri individui che rivendicano idee diverse... Vengono cioè impiccati e squartati da persone che fanno nello stesso tempo i giudici e i boia». A dimostrazione che i comici, a volte, sanno dire cose molto serie. 

Scorrettissimi. La cancel culture e la guerra culturale americana. Costanza Rizzacasa d’Orsogna su L'Inkiesta il 22 Giugno 2022.

Costanza Rizzacasa d‘Orsogna, in “Guerre culturali e guerre civili“ (Editori Laterza), racconta che negli Stati Uniti ci sono tutte le premesse per una guerra civile esacerbata dalle ideologie di destra e sinistra.

Ma che c’entra tutto questo, la possibilità di una nuova guerra civile, con la cancel culture? C’entra eccome, perché proprio le guerre culturali possono portare a una rottura del sistema democratico. Trent’anni fa, nel volume Culture Wars: The Struggle to Define America (Harper 1991), James Davison Hunter, sociologo dell’Università della Virginia, dove oggi dirige l’Institute for Advanced Studies in Culture, popolarizzò il concetto di «guerra culturale».

A quel tempo l’America era segnata dalla lotta tra una società liberal secolare, che spingeva per i cambiamenti, e una conservatrice, che fondava la propria visione del mondo sulle Sacre Scritture. Temi come l’aborto, i diritti gay, l’insegnamento della religione nella scuola pubblica: erano queste le «culture wars», espressione che fece breccia nel dibattito politico. Trent’anni dopo, dice Hunter, le guerre culturali si sono moltiplicate fino ad abbracciare tutta l’esistenza, si sono impadronite della politica, hanno creato una sensazione di conflitto perenne e una visione alla «The winner takes it all» del futuro del Paese.

In una recente intervista a Zack Stanton di «Politico», Hunter, che aveva approfondito l’argomento nel successivo Before the Shooting Begins: Searching for Democracy in America’s Culture War (Free Press 1994), sosteneva che le odierne guerre culturali mettono a rischio il futuro degli Stati Uniti. «Le guerre culturali», spiega, «precedono sempre quelle armate. Non portano necessariamente alle guerre armate, ma non esiste guerra armata che non sia preceduta da una guerra culturale, perché la cultura fornisce le giustificazioni per la violenza. È proprio dove ci troviamo adesso. La democrazia è sostanzialmente un accordo che non ci uccideremo per ciò che ci divide, ma ne discuteremo. E però oggi si iniziano a vedere, da entrambe le parti, segni di giustificazione della violenza, per esempio nel tentato colpo di Stato del gennaio 2021 per ribaltare la sconfitta di Trump, ma non solo».

Se nel 1991 la politica sembrava ancora uno strumento attraverso il quale risolvere le divisioni culturali, oggi essa è alimentata da quelle divisioni. Le guerre culturali hanno colonizzato la politica, con leader che cercano consenso aizzando la popolazione contro l’uso delle mascherine anti-Covid, o l’uso, da parte degli studenti transgender, del bagno del genere in cui si riconoscono anziché di quello di nascita (…) «Ma mentre sulla politica si possono fare compromessi, la cultura», dice Hunter, «è egemonica, riguarda ciò che è sacro: è una questione di verità morali supreme. È, insomma, di natura esistenziale».

E se la posta in gioco è esistenziale, se perdere vuol dire estinguersi, qualsiasi compromesso è impossibile. A destra come a sinistra. Ecco perché la sensazione, sempre più, è quella di essere in guerra.

(…) Centrale negli anni Settanta, Ottanta e Novanta, il dibattito sull’aborto è tornato ferocemente alla ribalta negli ultimi mesi, in vista (nel momento in cui scriviamo) della temuta decisione della Corte suprema sulla storica sentenza Roe vs Wade. A maggio 2022, dopo che una bozza dell’attesissima decisione, a firma del giudice conservatore Samuel Alito, diffusa da «Politico», sembrava confermare le paure che la Corte abbia deciso di ribaltare la sentenza che dal 1973 garantisce l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza a livello federale, l’espressione «guerra civile» ha registrato un balzo su Twitter e nelle ricerche su Google.

(…) È la «forever culture war», come la definisce sull’«Atlantic» Shadi Hamid, senior fellow della Brookings Institution e ricercatore di studi islamici presso il Fuller Seminary. «Mentre i repubblicani si riposizionano come protettori della classe operaia», scrive, «ogni polemica, ogni disputa, diventa una questione di identità, e la politica ne fa le spese. Tutto diventa una guerra culturale, anche ciò che ha ben poco a che fare con la cultura, come per esempio i tamponi per il Covid: tutto è diventato ormai parte di una battaglia apocalittica tra le forze del bene e del male. Tutto il mondo è una guerra tra attivisti di sinistra e di destra».

Una situazione acuitasi con Trump. Nel 2012, il 45% della popolazione americana riteneva che il primo problema del Paese fosse l’economia, nel 2017 quella percentuale era scesa al 10%. Mentre i democratici vivono un’emorragia di consensi nella classe operaia (non solo tra i bianchi, ma anche tra le comunità di colore e altre minoranze che li avevano storicamente appoggiati), la nuova destra vi vede un’opportunità. «L’istruzione, di cui oggi si parla moltissimo, era già un tema ai tempi di George W. Bush», ricorda sul «New York Times» l’editorialista conservatore David Brooks, «ma mentre allora se ne parlava in termini di budget e classi pollaio, oggi la questione è tutta incentrata sui valori e sulla cultura, e sotto la presunzione di neutralità si promuovono ideologie».

E porta l’esempio di quanto accaduto nella corsa a governatore della Virginia, dove il dibattito sull’istruzione era stato «abbastanza soporifero» finché si parlava di aumento della spesa, ma si era infiammato quando, nelle ultime settimane della campagna, il repubblicano Glenn Youngkin aveva preso di mira i valori e la cultura, lo studio (e il presunto insegnamento nella scuola dell’obbligo) del razzismo sistemico, cantori dell’esperienza afroamericana come Toni Morrison. «Il dibattito, insomma, in America, non è più su cosa funzioni ma su chi siamo. Tema su cui si fanno molti meno compromessi». 

Da Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana di Costanza Rizzacasa d’Orsogna (Editori Laterza), 224 pagine, 18 euro

La "cancel culture"? Figlia (naturale) del postmoderno. Fabrizio Ottaviani il 17 Giugno 2022 su Il Giornale.

Ecco come i filosofi francesi degli anni '60 e '70 hanno influenzato l'attivismo "woke".

Qualche anno fa, durante un viaggio in Marocco, mia moglie ebbe bisogno di un parrucchiere. Mal gliene incolse: si ritrovò sul capo un'acconciatura a forma di favo capovolto, nello stile degli anni Sessanta. È il fenomeno dello «sgocciolamento»: le mode sorte nelle capitali dell'impero New York, Parigi, Londra si diffondono dopo un mese nei capoluoghi di provincia, dopo un anno raggiungono cittadine di piccole dimensioni, dopo dieci i più remoti paesini di montagna per poi lanciarsi alla conquista del mondo, Marocco compreso.

Purtroppo certi «sgocciolamenti» sono meno fatui: secondo gli studiosi anglo-americani Helen Pluckrose e James Lindsay gli studi postcoloniali, la teoria queer, l'ossessione per la social justice, l'ideologia woke che impone di ribellarsi alla discriminazione e insomma l'intreccio di ricerche impegnate nell'emancipazione di alcune categorie di persone socialmente svantaggiate, intreccio il cui risvolto più chiassoso è l'ormai infestante cancel culture, sarebbero la conseguenza dell'importazione delle teorie dei filosofi francesi postmoderni, attivi in particolare negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso: Lyotard, Derrida, Baudrillard e naturalmente Foucault. Formulate nel saggio ora tradotto dall'inglese La nuova intolleranza (Linkiesta Book, pagg. 384, euro 20; con una prefazione di Guido Vitiello), le tesi di Pluckrose e Linsday hanno sollevato numerose discussioni oltreoceano; per dare un'idea dell'eco suscitata, basta dire che su Amazon le loro opere hanno più recensioni dell'iPhone.

Secondo gli autori, il postmodernismo è riassumibile in due principi e quattro temi. Il primo principio stabilisce che la verità oggettiva non esiste e che la conoscenza è una costruzione sociale; il secondo, che tale costruzione è gestita da chi detiene il potere. Negli studi postcoloniali inaugurati da Franz Fanon e resi universalmente noti dal celebre Orientalismo di Edward Said, per esempio, l'identità dei popoli colonizzati non è un dato di fatto, ma un'invenzione degli europei che ha lo scopo di mantenere inalterato il rapporto di dominio. La stessa argomentazione può essere impiegata per decostruire la cultura afroamericana, l'identità femminile o quella omosessuale. I quattro temi riguardano l'offuscamento dei confini (nella teoria queer ad essere «offuscato» è il confine fra uomo e donna), il potere del linguaggio, il relativismo culturale e la perdita dell'individuale e dell'universale. Sgocciolando dalla Francia sulle università americane, ribattezzato con il nome distopico di «Theory», il postmodernismo avrebbe contaminato la società statunitense facendola uscire dal solco del liberalismo. Il volume, infatti, si basa sulla convinzione che il liberalismo persegua gli stessi obiettivi di giustizia sociale della cancel culture, ma in modo più proficuo e senza fanatismi. Nel capitolo finale si stila addirittura una sorta di prontuario casuistico grazie al quale il seguace di Stuart Mill e Tocqueville può rispondere a tono alle sollecitazioni della «Theory», ribadendo l'autonomia e l'efficacia dell'approccio liberale.

Si tratta di pagine stimolanti, ma che sollevano alcune perplessità. I «sei pilastri del postmoderno» rappresentano in realtà le più rilevanti acquisizioni filosofiche degli ultimi due secoli: si rintracciano facilmente nella «scuola del sospetto» e dunque in Nietzsche, nell'antropologia culturale e filosofica, nella tradizione ermeneutica prima e dopo Heidegger.

La seconda questione è più spinosa. E se il dissidio fra liberalismo e postmodernismo fosse una lite domestica interna al liberalismo? John Locke (1632-1704) nel Secondo trattato sul governo pone le basi della società liberale, ma nel terzo libro dell'Essay delinea una teoria della conoscenza che oggi ci appare postmoderna; lo scetticismo, che gli autori attribuiscono al postmoderno, è stato un lievito del moderno; e si potrebbe continuare. A questo punto, se si volesse premere il pedale dell'orgoglio europeo, si potrebbe osservare che da noi il liberalismo non è mai degenerato in cancel culture perché presidiato da una quantità di atteggiamenti, convinzioni e stili di vita (religione, arte, puro e semplice dolce far niente...) che ne attenuano il pragmatismo e l'individualismo. Infine: per scagionare il puritanesimo americano, di cui la «nuova intolleranza» è una manifestazione, gli autori agiscono in modo puritano, costruendo un oggetto persecutorio, la «Theory», che sarebbe nata lontano, sulle rive della Senna; dove però non ha mai torto un capello a nessuno, mentre loro si ritrovano in casa un'ideologia-manganello che costringe il cittadino americano a camminare sulle uova se non vuole perdere il lavoro, la famiglia e persino la libertà.

Emilio Isgrò per “la Lettura - Corriere della Sera” il 6 aprile 2022.

Da qualche tempo la Cancel culture circola come un fantasma per l'Occidente. Ed è naturale che molti mi chiedano un'opinione, un giudizio, memori che la mia prima cancellatura di libri risale all'ormai remoto 1964. 

Non vorrei spendere troppe parole sull'argomento, se non altro perché, cancellando enciclopedie e romanzi, io volevo togliere di mezzo non la storia nella sua complessa, contraddittoria totalità - come pretendono gli iconoclasti più conseguenti - quanto il politically correct che sta alla base della Cancel . Mentre, a mio parere, l'arte vive soprattutto di infrazioni e di scorrettezze.

Quando intrapresi le mie prime prove cancellatorie, l'immagine più corretta dell'arte era la pittura grondante colore e materia che dall'Espressionismo Astratto era passata direttamente alla Pop, benché quest' ultima rifiutasse l'eccesso materico per compensarlo con una ripresa di figurazione carica dei colori gelidi e suggestivi della società mediatica in ascesa.

Senza contare che artisti che facevano da ponte tra Espressionismo Astratto e Pop Art, come Jim Dine e Robert Rauschenberg, mescolavano disinvoltamente la comunicazione mass-mediale con le estreme suggestioni dell'Informale passato di moda. Lo stesso Andy Warhol, teorico dell'impersonalità assoluta duchampiana, sostituiva il pennello con la macchina fotografica ed era poi costretto a richiamarlo in causa per imbellettare pesantemente i suoi travestiti, dopo avere agghindato per bene Liz Taylor o Marilyn Monroe.

Il risultato fu un «pieno» assoluto contro cui nulla potevano le algide esperienze minimaliste dettate dalle ascetiche tecniche zen. Certo è che dagli anni Sessanta l'ideologia dell'arte dominante nel mondo è l'ideologia Pop anglo-americana, e in tale ottica rientrano sicuramente artisti come Jeff Koons (il duchampismo spiegato al popolo) o l'inglese Damien Hirst, un artista che io preferisco al primo, per quanto neppure lui abbia potuto sfuggire alla logica del Novecento duchampiano quando propose i suoi strabilianti squali in formalina, che alla fin fine erano semplici ready-made biologici. 

In sostanza, quel che un tempo si chiamava avanguardia o sperimentazione, oggi meriterebbe il nome meno lusinghiero di arte pompier : anche se sarebbe ingiusto negare che persino Koons e Hirst, personaggi dotati di buona intelligenza, si sono piuttosto evoluti rispetto alla loro produzione degli anni Novanta, che pure rimane la più impressa nella memoria. 

Dico questo non per appannare la «bellezza» delle opere più efficaci di questi artisti, che oltre tutto a volte seducono anche me, così come mi seducono le storie godibilissime di Piero Chiara, che certamente non è Joyce ma ha un talento di narratore del quale non si può non tenere conto. 

Solo che il talento è ben poca cosa quando non può essere discusso. Cosa pressoché impossibile in una società mediatica che non ammette discussioni - un po' come la guerra di Putin -, a meno che non siano i dibattiti costruiti a tavolino dei talk-show.

È innegabile che anche la Pop, da Popular Art aperta e progressista, è diventata Populist Art nell'interminabile percorso che da Kennedy porta a Trump, là dove il patto democratico viene sostituito con un consenso plebiscitario che l'arte non può tollerare: perché essa è la sola attività umana chiamata a dividere nel senso migliore e più produttivo del termine. Dividere per unire: è questa la sua funzione civile.

Se è vero infatti, come vuole il Talmud, che là dove c'è conflitto c'è Dio, è anche vero che il Dio dei tempi atomici dovrà necessariamente escludere le guerre più crudeli e devastanti, per tramutarle in conflitti di idee e di opinioni che funzionano come valvole di sicurezza capaci di evitare miseria, spargimenti di sangue e tragedie.

Finché si discute nel mondo della cultura - di cui l'arte è in questo momento la punta di diamante per gli interessi soprattutto economici ad essa legati - è chiaro che gli impulsi aggressivi dell'uomo vengono in qualche modo deviati e sublimati in una sfera più alta che allontana la guerra combattuta con le armi. Il che consente alla politica e alla diplomazia di avere a portata di mano quelle leve emotive e conoscitive in grado di tradursi in accordi di coesistenza pacifica anche con il più antipatico dei nostri vicini di casa.

Non voglio dire che l'arte possa eliminare da sola le guerre, ci mancherebbe, ma osservare che almeno da settant' anni, cioè da quando l'America ha vinto la pace con le arti dopo avere vinto la guerra con le armi, anche nel democratico Occidente è diventato un reato di lesa maestà riflettere educatamente sui limiti inevitabili di Andy Warhol e dei suoi eredi, oltre che sulla loro energia. 

E gli stessi artisti, un po' dappertutto nel mondo, evitano accuratamente di mordersi tra loro, rifuggendo da quelle polemiche salutari che un tempo permisero a Tristan Tzara di accantonare il prodigioso Picasso, e a Breton di offuscare lo stesso Tzara. Certo, i cannoni sparavano anche allora, tanto che il Dada nacque come protesta contro i massacri della Prima guerra mondiale. 

Ma la presenza degli artisti andava al di là del pettegolezzo dettato dalla frustrazione e dall'invidia contro il ricchissimo Koons - il quale fa quel che può, cioè il suo mestiere - o contro l'inafferrabile Banksy, più sconosciuto del milite ignoto. 

Alla fine rimane l'insondabile paradosso: come sia possibile che l'arte, regina di ogni dissenso, e dunque delle stesse libertà democratiche, si sia trasformata in settant' anni nel presidio più efficace di tutti i conformismi, con il risultato che passiamo dai musei di Tokyo a quelli di New York, o dalle gallerie di Shanghai a quelle di Milano, come se non ci spostassimo di un millimetro, sempre fermi allo stesso palo.

Si parla della necessità di un'arte «impegnata», come si diceva una volta, e su questo punto non posso che concordare: purché non si consideri l'impegno un puro derivato della «sinistra» storica, dimenticando che gli artisti di Hitler erano a loro modo non meno impegnati del Picasso di Guernica. 

Non credo, cioè, che artisti come Hirst o Koons siano così disimpegnati come si dice. Sono solo impegnati da un'altra parte. È per questo che nei prossimi anni mi batterò per un'arte politicamente scorretta soprattutto nei confronti del glamour e di altre inclinazioni del genere. Perché solo se un artista ritrova sé stesso, al di là delle attese più epidermiche del pubblico, può aiutare a ritrovarsi anche il mondo in cui vive.

Appropriazione culturale, «cancel culture»: nell’App lo stato del dibattito. Redazione Cultura su Il Corriere della Sera il 25 Marzo 2022.

Nell’inserto #539, in edicola e nell’App, l’intervista a una «sensivity reader»: nuova figura professionale chiamata a verificare che i testi non offendano le minoranze. E in digitale il focus extra sulla discussione nel mondo anglosassone (con alcuni esempi) 

Jeanine Cummins, scrittrice la cui opera è stata al centro nel dibattito.

Il primo caso scoppiò dieci anni fa, quando un docente riscrisse «Huck Finn» sostituendo il vocabolo «nigger», per le 219 volte in cui compare, con schiavo. Il secondo caso, due anni fa, con «Il sale della terra»: una scrittrice bianca, Jeanine Cummins, narrò una storia messicana. Da allora il tema dell’appropriazione culturale è diventato talmente sensibile che gli editori statunitensi hanno oggi riempito gli uffici di «sensitivity reader», editor chiamati a verificare che i testi non offendano le minoranze etniche. Su «La Lettura» #539, in edicola e nell’App, l’intervista a una di loro ed extra nell’App, giovedì 31 marzo, il Tema del Giorno che fa il punto su questioni come appropriazione culturale e «cancel culture» nel mondo anglosassone (contenuti entrambi di Marco Bruna).

L’App (scaricabile App Store e Google Play) offre il nuovo numero dell’inserto in anteprima al sabato; un contenuto extra quotidiano (appunto il Tema del Giorno) e tutto l’archivio delle uscite dal 2011 a oggi. Il prezzo dell’abbonamento è di 3,99 euro al mese o 39,99 l’anno, con una settimana gratuita (sottoscrivibile anche da qui). Per chi si abbona tutti i contenuti dell’App sono raggiungibili anche da desktop, a partire dalla propria pagina Profilo. Inoltre, l’abbonamento si può regalare da questa pagina o acquistando una Gift Card nelle Librerie.coop.

Tra i Temi del Giorno dell’App - raggiungibili nella sezione Temi - è possibile leggere anche una mappa letteraria di Vanni Santoni dedicata a Berlino. Crocevia del Novecento, la città conserva tuttora un’anima ribelle e cosmopolita: e così l’itinerario non può non passare da Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin, opera della fine degli anni Venti; altre tappe attraverso il Novecento sono il romanzo di Christopher Isherwood Addio a Berlino, il capolavoro La spia che venne dal freddo di John le Carré, la città ritratta da Christiane F. nel suo Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino e molti altri ancora. A tracciare questa mappa è lo scrittore Vanni Santoni. Nel numero 539 de «la Lettura» - in edicola e nella stessa App -, il critico letterario Ermanno Paccagnini recensisce inoltre il nuovo romanzo di Vincenzo Latronico, Le perfezioni (Bompiani), ambientato a Berlino.

Tra i Temi disponibili nell’App, anche un approfondimento extra, curato da Cecilia Bressanelli e Stefano Bucci, sulle opere più premiate di Steve McQueen, come artista e come regista. Mentre il cineasta e artista britannico parla a tutto campo (video, cinema, politica...) nel supplemento #539 in edicola e nell’App: lo ha incontrato da Vincenzo Trione in vista della mostra a Milano, dal 31 marzo, all’Hangar Bicocca, Sunshine State.

Sempre in ambito artistico, un’Accademia per le donne fu fondata a Parigi a inizio ’900 da Maria Caira, nota come Madame Vitti: su «la Lettura» #539 in edicola e App ne scrive Edoardo Sassi; mentre nella sezione Temi dell’App è disponibile l’incipit del libro Madame Vitti (Sellerio), a lei dedicato da Marco Consentino e Domenico Dodaro. E sempre in digitale, nella sezione Temi, si parla anche delle opere adatte a un pubblico di bambini e ragazzi in vetta alla speciale classifica dei libri più tradotti al mondo; ne scrive Severino Colombo: il capolavoro del francese Antoine de Saint-Exupéry Il Piccolo Principe è al primo posto assoluto, tradotto in oltre 380 lingue. Nel numero 539 de «la Lettura», in edicola e nell’App, una visual data di Sofia Chiarini è dedicata proprio ai libri più tradotti del mondo ed è accompagnata da un articolo di Fausto Malcovati sull’autore ucraino più tradotto, il poeta ucraino Taras Shevchenko con l’opera Testamento.

Spazio anche al teatro tra i Temi dell’App. Di una terza età molto attiva sul palcoscenico, ovvero grandi interpreti over settanta, attori e attrici importanti impegnati in teatro in ruoli da protagonisti, si occupa Emilia Costantini. Che, inoltre, nel numero 539 de «la Lettura» - in edicola e nella stessa App -, intervista Renato Carpentieri, 79 anni il prossimo 2 aprile, in occasione de Il complice: commedia di Friedrich Dürrenmatt, di cui è interprete e regista e che è in scena dal 31 marzo al 10 aprile al Teatro San Ferdinando di Napoli.

Quanto a «la Lettura» #539, in edicola e nell’App, il supplemento si interroga su che fine ha fatto l’amore in tempi di conflitti e paura, e dopo anni di pandemia. E per rispondere interpella in proposito il teologo Severino Dianich, il critico e scrittore Antonio Prete e la latinista Donatella Puliga, che si confrontano in un dialogo. E ricordano, tra l’altro, le parole confortanti di Isaia («spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri»), e di Dante («l’amor che move il sole e l’altre stelle»). Riflettere su valori comuni: due candidati al Premio dell’Unione Europea per la Letteratura, l’ucraina Eugenia Kuznetsova e l’italiano Daniele Mencarelli, nella conversazione a cura di Alessia Rastelli, parlano della necessità di ritrovare una «lingua dell’umanità». Anche Jeff Kinney, il papà della Schiappa, incontrato da Cristina Taglietti, si interroga sulla funzione degli autori in questi tempi. E di nuove visioni del futuro, a partire dal saggio di Roberto Paura (Occupare il futuro, Codice edizioni), scrive Danilo Zagaria.

E pensare che l’umano è un mistero così complesso: al legame tra emozioni e cervello ha dedicato i suoi studi lo scienziato Karl Deisseroth (Proiezioni. Una storia delle emozioni umane, Bollati Boringhieri); ne scrive Giorgio Vallortigara. Al mistero della memoria è legato anche il racconto che chiude «la Lettura», di Tom Malmquist, autore de L’aria intorno a noi (NN Editore).

Di altre svolte del mondo d’oggi si parla nelle varie sezioni del supplemento. Come nelle Maschere, con il progetto Parola ai giovani del cantautore Giovanni Caccamo (il suo nuovo album s’intitola Parola), con 15 incontri negli atenei italiani: ne scrive Cecilia Bressanelli.

Cancel culture a Lissone: vietato Mazzini a scuola. Guido Igliori su Culturaidentita su Il Giornale il 30 Marzo 2022.

All’ISS Europa Unita di Lissone Mazzini sembra non essere un ospite gradito. La notizia è stata riportata sulle pagine del quotidiano nazionale La Verità, denunciata da Francesco Borgonovo, vice-direttore del medesimo giornale.

Il giornalista avrebbe infatti dovuto tenere presso l’istituto tre appuntamenti rivolti alle classi quarte e quinte per fornire informazioni biografiche e di pensiero sul patriota genovese, leggendo assieme agli studenti alcuni estratti dei suoi scritti. L’incontro era stato fortemente voluto da un gruppo di allievi, convinti che l’analisi di una simile figura del nostro Risorgimento avrebbe potuto “risvegliare le coscienze dei giovani in senso patriottico”.

A questo punto, dopo le proteste di alcuni docenti, sarebbe intervenuto il Preside, chiedendosi se fosse veramente centrale la figura di Mazzini, e soprattutto adeguata a risvegliare gli animi in senso patriottico, differentemente da un tema come quello della Resistenza del 1943-‘45.

CulturaIdentità, presente sul territorio brianzolo da oramai più di 2 anni, non poteva certamente rimanere in silenzio davanti a un tale scempio educativo. L’associazione culturale fondata da Edoardo Sylos Labini, presente in tutta Italia, ha dedicato infatti il suo ultimo numero mensile proprio a Mazzini, nell’anniversario dei 150 anni della sua morte. Proprio nella conferenza di presentazione del mensile, “Disco Risorgimento: una storia romantica”, presso la Sala del Gonfalone di Regione Lombardia, tenutasi lo scorso 18 Marzo, sono state spiegate le ragioni dell’attualità della figura di Mazzini e della sua grandezza. Alla conferenza aveva partecipato in collegamento telefonico proprio Francesco Borgonovo.

“Cultura è volontà di sapere e conoscere. È impensabile che una occasione di arricchimento per gli studenti brianzoli come questa sia stata bocciata senza valide motivazioni. Ci sforziamo ogni giorno di portare cultura sul nostro territorio: abbiamo dedicato approfondimenti a Pio XI, il Papa di Desio sotto i difficili anni della II Guerra Mondiale, a Sesto inaugureremo i giardini identitari ‘Eleonora Duse’, abbiamo parlato dell’apporto dei comuni di Brianza al Risorgimento, senza paura di toccare personaggi scomodi. Non possiamo cancellare figure storiche o eventi solo perché sgraditi a certi partiti, perché l’identità culturale non ha colori” – commenta Francesca Giarmoleo, responsabile regionale dell’associazione.

“Non possiamo accettare un simile comportamento, specie nelle scuole, centro educativo per eccellenza. Questa cancel culture fa rabbrividire ed è sintomatico di un Paese che ancora oggi, vittima di un’ininterrotta egemonia culturale del PCI, fatica a digerire tutto ciò che non sia allineato a sinistra nel suo passato.“ – ha concluso Alessandro Taddei, collaboratore dell’associazione in Brianza.

Cancel Culture a Lissone: parla lo studente censurato. Alessandro Taddei su Culturaidentità il 7 Aprile 2022.

Il caso del bocciato ciclo di lezioni dedicate a Mazzini presso l’ISS Europa Unita di Lissone continua a tenere banco. La scorsa settimana, dopo la denuncia di Francesco Borgonovo sulle pagine de La Verità, anche CultutraIdentità era intervenuta sulla vicenda, definendo paradossale l’accaduto. L’on. Paola Frassinetti (FdI), ha annunciato proprio in questi giorni che presenterà un’interrogazione a cui dovrà rispondere il Ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi.

In effetti, pensare che presso una scuola denominata “Europa Unita”, in sede di Consiglio d’Istituto, si sia dubitato dell’attualità di chi, ancora prima di Altiero Spinelli, aveva teorizzato un’Europa delle patrie unita, non può non destare un certo disagio.

È certo che la figura di Mazzini sia stata al centro di rielaborazioni postume, ispiratore della corrente più repubblicana del Fascismo e delle politiche corporativiste del Ventennio, ma anche precursore di antifascismi e figura di riferimento del campo progressista. Tuttavia, il ciclo di conferenze pensato per parlare della sua figura storica, delle sue idee e delle sue vicende biografiche nulla aveva a che vedere con le sopracitate appropriazioni culturali post-mortem.

Abbiamo quindi deciso di intervistare Federico Farris, rappresentate degli studenti dell’Europa Unita, artefice della proposta oggetto di discussione. 

Federico, prima di cominciare, perché hai scelto di proporti come Rappresentante degli Studenti nel tuo istituto?

È stata una scelta naturale: partivo già con un retroterra di militanza e attivismo politico e ho voluto trasferirlo anche nell’esperienza scolastica. Il motivo, in realtà, è molto semplice: attualmente la scuola è principalmente nozionismo e lo studente non viene considerato parte attiva e integrante del processo scolastico. Vorrei riuscire a invertire questa rotta e a riportare lo studente ad essere centro e motore della scuola.

Il tuo orientamento identitario è mai stato causa di opposizione accesa, battute o episodi spiacevoli da parte di compagni di scuola o professori?

Direi di sì. Ci sono stati diversi episodi in cui l’essere “non conformi” alla massa ha creato qualche problema, ma non è una cosa che mi spaventa, l’avevo messa in conto.

Venendo alla accesa seduta di Consiglio di Istituto, cosa non è stato ben visto della tua proposta? Il tema delle conferenze o il relatore, Borgonovo, che pure è vicedirettore di un’importante testata nazionale?

Sicuramente entrambe le cose. Patria, patriottismo sono concetti che spaventano in un mondo che vorrebbe creare automi e burattini: sono parole forti che legano una persona alla propria storia, alla propria nazione, che la spingono ad agire e ad impegnarsi per essa. Oggi l’attivismo fa paura e figure come Mazzini, che potrebbero risvegliare questi sentimenti, vengono guardate con sospetto e, se possibile, relegate nel dimenticatoio. L’aver poi come relatore un giornalista come Borgonovo, considerato “di destra”, ha fatto il resto: evidentemente il pluralismo vale solo quando fa comodo.

Hai trovato opposizione solo da parte del Preside, o anche da parte di altre figure nel Consiglio?

Anche altri consiglieri si sono dimostrati ostili nei confronti della proposta.

Su una testata locale il Preside ha dichiarato che “non esiste alcun caso”, dal momento che semplicemente il Consiglio di Istituto non è competente a decidere su queste proposte e per correttezza la richiesta è passata ai Consigli di Classe, che hanno bocciato in autonomia il ciclo di incontri. Le cose sono andate proprio così?

Dal punto di vista procedurale è andata così, come è evidenziato anche da verbale. Quello che però, sempre da verbale emerge, è che le obiezioni e, chiamiamole così, perplessità sono iniziate e sono partite proprio in seno al Consiglio di Istituto e il Preside è stato sicuramente tra i soggetti più critici in merito.

In risposta alla tua affermazione sulla possibilità di risveglio delle coscienze in senso patriottico tramite la figura di Mazzini, il Preside ha espresso perplessità sulla sua attualità e centralità, citando invece come esempio positivo la Resistenza partigiana. Cosa hai pensato davanti a questo?

È stata la riprova che mi trovavo davanti a un’opposizione di tipo ideologico, nulla di più. La questione dell’attualità dell’argomento è stata solo una scusante, a mio parere, per bocciare una proposta arrivata da una lista non allineata e questa uscita ne è stata la dimostrazione.

Nei verbali si legge la tua accusa verso parte del Consiglio, autore di un “ostruzionismo bigotto”, e per questo sei stato redarguito. Hai cambiato idea?

Assolutamente no.

Sembra, inoltre, che il clima consiliare fosse acceso già prima di parlare di Mazzini. Pur essendo stata approvata una conferenza legata al tema delle Foibe, è stata bocciata una cerimonia commemorativa con alzabandiera e minuto di silenzio. Puoi dirci, brevemente, qualcosa di più?

Certamente. Per le ovvie problematiche legate al distanziamento, alle conferenze organizzate sul tema ha potuto partecipare solo una parte degli studenti. L’idea era, quindi, quella di organizzare, in collaborazione con l’ANVGD di Monza e Brianza, una commemorazione che potesse coinvolgere tutti gli studenti. La proposta è stata bocciata perché, come si legge da verbale, “potrebbe costituire un precedente”. Di cosa, non è dato sapere. A mio parere, c’è sempre un timore ideologico sul tema che sarebbe anche ora di superare.

L’episodio ha scalfito la tua voglia di batterti per simili iniziative?

No, non è la prima né sarà l’ultima volta: sono abituato a trovarmi davanti ostacoli di questo tipo e sono anche abituato a superarli. Siamo una futuristica sfida alle stelle, non ci fermiamo mai.

Quel deputato che rifiutò lo scranno… Federico Mollicone su Culturaidentita.it su Il Giornale il 29 Marzo 2022.

Il 29 marzo 1849, 228 anni fa oggi, a Roma l’Assemblea Costituente dopo la proclamazione della Repubblica Romana affidò il triumvirato a Giuseppe Mazzini, Carlo Armellini e Aurelio Saffi. Ma Mazzini fu lo stesso che, eletto 13 anni dopo alla Camera dei deputati da un collegio della città di Messina, scatenò un grande dibattito sulla sua eleggibilità o meno, perché sul suo capo pendevano due condanne a morte per i moti genovesi del 1857 e per complicità in un attentato contro Napoleone III. Fu così che rifiutò lo scranno e, nonostante una successiva e definitiva convalida della sua elezione, non partecipò mai ai lavori d’aula. Vi proponiamo il brillante articolo, pubblicato sul mensile CulturaIdentità di marzo tuttora in edicola, che Federico Mollicone ha scritto per noi su quel grande politico, letterato e patriota “che fece il gran rifiuto” (Redazione)

Giuseppe Mazzini fu il deputato “mai” eletto. Il 25 febbraio del 1866, il patriota genovese fu eletto alla Camera dei deputati da un collegio della città di Messina con 446 voti, ma ci fu un grande dibattito sull’ineleggibilità di Mazzini, sul quale pendevano ben due condanne a morte, di cui una comminata dal tribunale di Genova per i moti del 1857 – il 19 novembre 1857 in primo grado, il 20 marzo 1858 in appello – ed una seconda del tribunale di Parigi per complicità in un attentato contro Napoleone III. La giunta del Regno quindi, si trovò nell’incertezza se convalidare o respingere l’elezione. Il 2 marzo Mazzini, allora, inviò a numerose testate italiane una lettera, nella quale ringraziava Messina per la coraggiosa elezione ma rifiutava cordialmente la poltrona per non dover giurare fedeltà alla monarchia italiana.

Riportiamo integralmente la lettera di Giuseppe Mazzini, così come apparse sul numero de L’Unità Cattolica del 2/3/1866:

“Cittadini! Mi avete con fermezza siciliana di volontà, alzato, eleggendomi a deputato vostro, una generosa protesta contro una sentenza, oggi non solamente iniqua, ma assurda, che mi danna nel corpo per avere, prima d’altri, assurda, perché si prolunga quando il regno sardo, che la emanò, ha cessato d’esistere. La protesta vostra ha messo, tra voi e me, un vincolo speciale d’amore, che durerà finch’io viva. Io non nacqui tra voi, né mai – e mi è dolore il pensarlo – visitai l’Isola vostra.”

Nonostante la formale rinuncia di Mazzini alla carica, il governo italiano dovette comunque esprimere parere ufficiale sull’elezione messinese e, dopo numerose riunioni intercorse a Palazzo della Signoria, su un totale di 298 dell’elettorato peloritano. Due mesi dopo, la popolazione di Messina fu richiamata alle urne per esprimere nuovamente il proprio pensiero e in barba a 60 giorni di polemiche rielesse Giuseppe Mazzini, ma in un incredibile e quanto mai inutile braccio di ferro, dopo una nuova discussione il 18 giugno 1866 la Camera annullò nuovamente l’elezione di Messina con 146 voti contro 145. Il 18 novembre Messina elesse per la terza volta Giuseppe Mazzini, con la quasi totalità dei consensi, piegando finalmente il governo italiano alle proprie decisioni ed il 21 novembre, dal Salone dei Cinquecento di Firenze, arrivò la convalida all’elezione decretata dai messinesi. Ma Mazzini non partecipò mai ai lavori d’aula, per non riconoscere la monarchia e non piegarsi, ma visse l’incredibile esperienza del governo della Repubblica Romana.

Dal suo primo discorso di arrivo a Roma nel marzo 1849: “Roma fu sempre una specie di talismano per me: giovanotto, io studiava la storia d’Italia, e trovai che mentre in tutte le altre storie tutte le nazioni nascevano, crescevano, recitavano una parte nel mondo, cadevano per non ricomparire più nella prima potenza, una sola città era privilegiata da Dio del potere di morire, e di risorgere più grande di prima ad adempiere una missione nel mondo, più grande della prima adempiuta. Io vedeva sorgere prima la Roma degl’imperatori, e colla conquista stendersi dai confini dell’Africa ai confini dell’Asia: io vedeva Roma perir cancellata dai barbari, da quelli che anche oggi il mondo chiama barbari; io la vedeva risorgere, dopo aver cacciato gli stessi barbari; ravvivando dal suo sepolcro il germe dell’incivilimento; e la vedea risorgere più grande a muovere colla conquista non delle armi, ma della parola; risorgere nel nome dei Papi, a ripetere le sue grandi missioni. Io diceva in mio cuore: è impossibile che una città, la quale ha avuto sola nel mondo due grandi vite, una più grande dell’altra, non ne abbia una terza. Dopo la Roma che operò colla conquista delle armi, dopo la Roma che operò colla conquista della parola, verrà, io diceva a me stesso, verrà la Roma che opererà colla virtù dell’esempio: dopo la Roma degl’imperatori, dopo la Roma dei papi, verrà la Roma del popolo. La Roma del popolo è sorta: io parlo a voi qui della Roma del popolo: non mi salutate di applausi: felicitiamoci assieme. Io non posso promettervi nulla da me, se non il concorso mio in tutto che voi farete pel bene della Italia, di Roma, e pel bene dell’umanità, dell’Italia.”

La condanna a morte non fu mai cancellata e quando pochi anni dopo il patriota ligure tentò di arrivare in Sicilia per abbracciare la cittadinanza che con ferreo orgoglio l’aveva eletto deputato, fu arrestato a Palermo dalla polizia.

Dopo alcuni anni d’esilio, morì sotto falsa identità a Pisa nel 1872. Mazzini è uno dei Padri della Patria di cui va superata l’icona impolverata come vate della Massoneria, un’operazione culturale che portammo avanti quando abbiamo governato la Capitale con “DiscoRisorgimento” di Edoardo Sylos Labini, tenutosi al Palazzo della Cancelleria, sede della Repubblica Romana. Lo vogliamo ricordare con una delle citazioni che meglio descrive la sua perseveranza: “A parole chiare, risposta chiara. Non cederemo. Noi siamo forti e ostinati. Abbiamo per noi l’istinto della gioventù, del popolo d’Italia”.

Battista: il nuovo oscurantismo della cancel culture è come il fanatismo maoista. Redazione sabato 20 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia.

Pierluigi Battista, già vicedirettore del Corriere della Sera dopo esserlo stato di Panorama, oggi firma la rubrica «Uscita di sicurezza» su Huffington Post. Parla del politicamente corretto in una lunga intervista a la Verità. Un tema che gli sta molto a cuore e al quale ha dedicato un titolo, Libri al rogo, per denunciare la nuova cultura dell’intolleranza.

La sfida al conformisticamente corretto con il libro “Mio padre era fascista”

Con un altro libro Battista aveva sfidato il conformismo mainstream. Aveva raccontato in Mio padre era fascista l’amore per l’Italia e la dirittura morale di suo padre Vittorio, un “fascistone” che poi divenne convinto missino. Questo per dire che Battista non è uno che ha timore di dire come la pensa. E neanche di essere accostato alla destra quando dichiara che “dal 2011, quando Mario Monti ha sostituito Silvio Berlusconi, son 10 anni che i governi non corrispondono alla volontà degli elettori. I nostri giornali sono succubi di questa situazione”.

La sinistra divide il mondo in due: i buoni, loro, e i cattivi di destra

La politica lo annoia, o meglio non lo interessa più, pur dopo avere sperimentato gli anni Settanta del “tutto è politica”. «Ho smesso di fumare e di votare», dice nell’intervista. Eppure non tace sul manicheismo della sinistra: «A sinistra si pensa che la politica determini l’antropologia. Esistono due categorie di italiani: quelli di sinistra, buoni, generosi, che non parcheggiano in seconda fila, pagano le tasse e leggono i libri, e quelli di destra, populisti, prepotenti, ignoranti, evasori e che non rispettano le regole».

Impietoso giudizio su Conte e Casalino

Battista dunque la politica continua a osservarla, e su Conte e il suo apparato propagandistico dà un giudizio impietoso. Quella di Conte – afferma – «non era ipercomunicazione, ma ufficio propaganda che con la pandemia è diventato Istituto Luce Casalino. Detto questo penso che, con la comunità provata dalla paura, serva una comunicazione istituzionale che dia certezze».

La distinzione tra politicamente corretto e “cancel culture”

Quindi introduce una importante distinzione tra il politicamente corretto e la cancel culture. «Con la cancel culture – afferma Battista -c’è stato un salto di qualità. Il piagnisteo, molto molesto, non era arrivato ad abbattere le statue, a cancellare Shakespeare nelle università e Egon Schiele nei musei. Nel cinema western i buoni erano i cowboy, poi arrivò Soldato blu a mostrarci che i pellerossa erano un popolo. Quello era il politicamente corretto. La cancel culture vuole che i western siano eliminati dalle cineteche. Come pure Peter Pan e Dumbo, ci rendiamo conto? È fanatismo maoista che abbatte ciò che non si conforma. È un nuovo oscurantismo che, sbagliando, abbiamo preso per una bizzarria». Invece «favorisce un nuovo conformismo perché intimidisce. Nessuno vuol passare per sessista o razzista. Nel libro di Guia Soncini L’era della suscettibilità c’è un capitolo intitolato “Pensa oggi”. Pensa cosa accadrebbe se Lucio Dalla scrivesse oggi 4 marzo 1943, se qualcuno facesse un apprezzamento sulla minigonna di Alba Parietti, se Vasco Rossi scrivesse Colpa d’Alfredo: “È andata a casa con il negro, la troia”. Non si tratta di elogiare la parola offensiva, è un diritto non essere insultati, ma deve valere per tutti».

L’intolleranza colpisce anche il linguaggio

Invece? «L’indignazione si ferma quando viene colpito l’avversario. Si dà del nano a Renato Brunetta o dello psiconano a Berlusconi. Non registro crociate contro le frequenti offese a Giorgia Meloni».Ingabbia anche il linguaggio?«Parlare di normalità è proibito perché stabilisce il primato della norma sull’anomalo e offende chi non rientra nei canoni. Siamo nel regno della stupidità universale. A confronto, Robespierre aveva una sua grandezza. Come diceva Carlo Marx, la storia da tragedia si trasforma in farsa». E anche il linguaggio subisce la noelingua dell’intolleranza. L’ultimo episodio: i Maneskin costretti a cambiare il testo della loro canzone Zitti e buoni per l’Eurovision.

L’Occidente sotto scacco: il libro di Rampini contro il politicamente corretto. DANILO TAINO su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2022.  

Esce il 29 marzo per Mondadori il nuovo saggio dell’editorialista del «Corriere» che analizza e denuncia l’indebolimento delle democrazie nel confronto con le dittature

Vladimir Putin quando guardano l’Occidente? Un mondo che non sarà difficile battere e forse abbattere. Da attaccare, come si vede in Ucraina. Debole, confuso, in declino irreversibile. È così? È questa la nostra realtà? L’ultimo libro di Federico Rampini — Suicidio occidentale, in libreria da oggi per Mondadori — non è solo un esempio di tempismo che spiega cosa si è fissato nella mente dei leader autoritari quando sfidano le democrazie liberali. È soprattutto la ricognizione di come queste ultime si stiano impegnando seriamente nella cancellazione dei propri valori: chiarisce, per dire, che dietro l’invasione di queste settimane ordinata dal Cremlino non c’è solo una generica mossa geopolitica; alla radice c’è il nostro vacillare sociale, culturale, economico, istituzionale e ovviamente politico.

Le potenze autoritarie – scrive Rampini – disprezzano il modello occidentale. Ma, prima ancora, «quest’ultimo è stato ripudiato in casa propria»: da un establishment economico che, dietro la globalizzazione, detesta l’identità nazionale, «cioè quello che fu il collante storico delle democrazie»; e da un establishment culturale germogliato negli Anni Sessanta e oggi in piena fioritura secondo il quale «il Male supremo siamo noi». Il libro è una denuncia ampia e precisa del «politicamente corretto». Ma non una denuncia superficiale dei modi fastidiosi nei quali il conformismo di sinistra si palesa: ne analizza le conseguenze profonde sulle società.

Uno dei luoghi nei quali «l’indottrinamento propagandistico» produce i danni peggiori è il sistema dell’istruzione, soprattutto negli Stati Uniti, «dove la cultura seria è messa al bando». Le scuole e le università sono state in buona parte conquistate da un’ideologia secondo la quale non solo ogni fenomeno negativo è responsabilità dell’uomo bianco, ma anche secondo la quale questo uomo bianco va rieducato e da subito penalizzato. Un razzismo della pelle che si cela dietro le campagne contro il razzismo condotte ad esempio dal movimento Black Lives Matter. E non solo: in molte università è impossibile, per chi non si accoda anche alle posizioni più estreme su sesso e genere, avere diritto di parola. Spesso, docenti che osano esprimere opinioni diverse da quelle di gruppi di militanti organizzati devono poi umiliarsi in autocritiche pubbliche e rischiano comunque di essere allontanati dall’insegnamento da autorità accademiche impaurite.

In questa analisi di quel che succede negli Stati Uniti, Rampini è particolarmente critico con i media cosiddetti progressisti. Soprattutto con il «New York Times», il quale ha compiuto negli anni recenti una svolta intollerante verso il dibattito delle idee. Oltre a essersi chiuso al confronto a causa dell’attivismo di molti suoi giovani giornalisti, il grande quotidiano newyorkese ha avuto un ruolo centrale nella costruzione della critical race theory, la teoria secondo la quale il razzismo è la pietra costitutiva delle istituzioni americane: teoria diventata il collante di movimenti spesso violenti e anche la copertura di gang organizzate.

La responsabilità del «New York Times» è individuata da Rampini nel «1619 Project» che il giornale porta avanti da anni: una serie di analisi storiche spesso infondate per sostenere che la vera fondazione degli Stati Uniti va datata all’anno in cui vi arrivò la prima nave di schiavi dall’Africa.

Nella critica intensa che porta alle ideologie della «sinistra illiberale» che rischiano di sgretolare la forza formidabile dell’Occidente, Rampini non si risparmia. Quando parla dei movimenti ambientalisti che si mobilitano sul clima, parla di «Nuovo Paganesimo», del ruolo sacerdotale di questa religione portata avanti da accademici, politici, capi azienda, star del cinema e della musica. E, parlando di Greta Thunberg, dice che l’averla considerata la portatrice di una nuova filosofia politica «è un segnale di imbarbarimento culturale, l’appiattimento del mondo adulto verso un linguaggio infantile». E chiosa: il comunista e confuciano Xi Jinping «osserva il “fenomeno Greta” come una delle perversioni occidentali», quelle che nella sua lettura testimoniano del declino dell’Occidente.

Il libro non è solo un’analisi dei danni seri che il politicamente corretto arreca. E non riguarda solo gli Stati Uniti. Parla della capacità calante degli Stati democratici di realizzare cose, a cominciare dalle infrastrutture. Parla dei grandi gruppi economici che tendono a imbrigliare la nascita di nuove imprese. Dei politici, soprattutto californiani, che a causa di un’ideologia che disprezza legge e diritto hanno reso invivibili intere parti delle città che governano. Ma non è un libro rassegnato: il sottotitolo è un’apertura, Perché è sbagliato processare la nostra storia e cancellare i nostri valori.

Il capitalismo, in particolare quello americano, è in fase di involuzione ma non è certo morto. Elon Musk può nascere solo in America, comunque in Occidente, non certo in Cina e in Russia. Il venture capital continua a finanziare idee e imprese. Il sistema finanziario fondato su dollaro ed euro è dominante. E, sul versante geopolitico, alla ritirata incresciosa di Joe Biden dall’Afghanistan si contrappone il «Blob», l’establishment potente – diplomazia più parte della politica più apparato industrial-militare – che continua ad avere una visione imperiale degli Stati Uniti.

Xi Jinping e Vladimir Putin vedono la convulsione dell’Occidente. Sanno che gli imperi, da quello romano a quello americano, prima o poi finiscono e di solito crollano prima dall’interno. Faranno di tutto per aiutare e accelerare questo processo. Ma non è detto che i tempi li dettino loro. La guerra in Ucraina, per esempio, potrebbe ridare alle democrazie liberali un certo senso di sé stesse. Vedremo. Rampini, intanto, chiude il libro con un una speranza: «Vorrei che sentissimo un centesimo di quel che provano i popoli a cui i nostri valori sono proibiti».

Cancel culture Mangia e taci, ma non dirlo. Anna Prandoni su L'Inkiesta il 19 Marzo 2022.

Due nuove aperture, il primo Burger King vegetariano a Londra e un locale dall’impronta maschile a Milano, ci hanno fatto riflettere su quanto parlare di cibo stia diventando sempre più un problema semantico e filosofico. Espressioni e modi di dire di un tempo non si possono quasi più pronunciare. 

Questa settimana due notizie si intrecciano e fanno riflettere su quanto il mondo del cibo stia cambiando. La prima riguarda Burger King: il colosso degli hamburger apre il suo primo ristorante vegetariano a Londra.

A Leicester Square bandite le proteine ​​di origine animale, con il panino iconico della catena, il Whopper, che diventa interamente vegano. L’esperimento è a termine, fino al 10 aprile, con l’obiettivo di valutare l’interesse dei clienti per i prodotti senza carne per decidere poi se renderli permanenti o meno.

Venticinque diverse proposte vegane, con le polpette di The Vegetarian Butcher, o la finta pancetta del foodtech francese La Vie. Alle ricette tradizionali rivisitate, si aggiungono nuove proposte, come la gamma di hamburger katsu, ispirata alla cultura giapponese, e i nuovi hamburger XL a base di formaggio dell’azienda greca Violife. Entro il 2030 Burger King vuole arrivare ad avere metà del suo menu con prodotti a base vegetale, ha affermato Katie Evans, responsabile marketing del gruppo nel Regno Unito.

Un cambiamento epocale, che si incrocia con l’apertura a Milano di un ristorante di sola carne dry aged, distillati e vini impegnativi, dove si potranno fumare sigari pregiati e che sarà un club per signori, o almeno così recita la scritta all’ingresso. Sì, possono entrare anche le signore, ma insomma la proposta ha un taglio decisamente maschile. L’apoteosi del politicamente scorretto o la difesa di una nicchia di mercato che a breve non saprà più dove andare a godersi una bistecca?

Se ci pensiamo, parlare di cibo sta diventando sempre più un problema semantico e filosofico, e la cancel culture sta colpendo anche questo settore: a tavola meglio evitare polpi, sono esseri senzienti, il foie gras è il male assoluto ed è bandito da tempo, addirittura alcune città l’hanno reso fuori legge. Ma non sono solo gli ingredienti a scomparire, ci sono anche espressioni che storicamente sono state utilizzate e che oggi non possiamo più usare a cuor leggero.

«Se non ti va, lascialo» Ma come? E lo spreco? Non vorrai pesare sul mondo più di quanto già non succeda! Non solo devi finirlo, ma devi cucinare anche lo scarto che prima buttavi.

«Mangia la minestra o salta dalla finestra»: sei pazzo? Sono celiaco, vegano, intollerante al nichel, al lattosio, all’albumina. Sono lattovegetariano, reducetariano, fruttariano, crudista.

«Mangia e taci» ma lo sai che la scienza sta sempre più dimostrando che il dialogo aiuta la percezione del cibo e le sue funzioni sociali sono importantissime? Posso mangiare senza esprimermi liberamente?

Interrogarci su cosa mangiamo, e soprattutto su cosa non vogliamo, possiamo, dobbiamo mangiare sta diventando un affare sempre più problematico.  In fondo, è un buon segno: significa che almeno per la nostra fortunata parte del mondo avere cibo a sufficienza e poterlo scegliere non è più un problema.

Good Morning, New York Times. Il tempio della suscettibilità scopre ufficialmente che non si può più dire niente. Guia Soncini su L'Inkiesta il 19 Marzo 2022.

Gli intellettuali che confondono cancel culture e #metoo e il miglior giornale del mondo che finalmente si rende conto di che razza di inferno è diventato il dibattito pubblico.

Ben alzato, New York Times. C’è, ci svelavi ieri, un problema di libertà di parola, negli Stati Uniti. Ma guarda un po’. Ma chi l’avrebbe mai detto. Ma sorpresa sorpresissima. Chissà da dov’è cominciata questa imprevista deriva, chissà da dove spunta questo problema di cui nessuno s’era finora accorto, ohibò.

Avrete anche voi un amico al quale raccontate una cosa che non sapeva, e dopo due ore quello la racconta ad altri come fosse una cosa che ha studiato a lungo, e lo fa davanti a voi, da tanto è convinto che quell’idea sia sua (si chiama «pseudologia fantastica», ovvero: perdere la consapevolezza che le stronzate che racconti sono appunto stronzate).

Ecco, il New York Times è uguale: lietamente ignaro che un problema esistesse prima che il problema stesso venisse ammesso dal New York Times. Non disposto ad ammettere che forse è in quella redazione che sono arrivati tardi a riconoscere il brodo di coltura d’una questione culturale. Macché: come i millennial, il New York Times è convinto che le cose accadano solo quando accadono a lui.

Diranno i miei piccoli lettori: ma quindi l’articolo pubblicato ieri è stato scritto nella primavera del 2020, quando il NYT pubblicò un editoriale d’un senatore repubblicano, Tom Cotton, il quale sosteneva che contro i teppisti che devastavano le città con la scusa di Black Lives Matter si dovesse mandare l’esercito. È stato scritto quando le proteste contro quest’articolo costarono il posto al responsabile della pagina degli editoriali, giacché la sinistra culturale americana era già un posto così illiberale da non tollerare che idee che non erano le proprie avessero dignità di pubblicazione.

No, perché evidentemente il ben alzato New York Times non ritiene che quello fosse un problema di libertà d’espressione (sarà stato un problema di celiachia, di abigeato, di quadrati costruiti sui cateti). Il problema di libertà d’espressione gliel’ha, santiddio, spiegato un sondaggio (scusaci, Gianni Pilo: ti avevamo sottovalutato).

Il sondaggio è stato commissionato dal New York Times assieme a – non me lo sto inventando: sapessi inventarmi roba simile, sarei David Mamet – un college di liberal arts fuori New York, gestito dai frati. Si chiama Siena college: prende il nome da Bernardino da Siena (la realtà la deve smettere di scippare il lavoro agli sceneggiatori).

Per quel che vale il sondaggio (niente, come tutti i sondaggi), gli americani sono preoccupati del fatto che, per dirla con la frase fatta che tanto amano irridere quelli secondo i quali la cancel culture non esiste, non si possa più dire niente. L’84 per cento dice che non si esprime liberamente per timore di ritorsioni.

Non esattamente una sorpresa, se siete vivi in questo decennio. Dipende da molti fattori, come sa chiunque non sia appena tornato da Marte (cioè chiunque non faccia parte della redazione degli editoriali del New York Times). Principalmente, dal fatto che non esiste più una selezione reciproca tra le parole dette e chi le ascolta, e se qualunque discorso (o articolo, o film, o canzone, o libro, o programma televisivo) dev’essere ricevibile da chiunque dovrà per forza trattarsi di discorsi (o altre forme d’espressione) abbastanza annacquati da non offendere nessuno, non ferire nessuno, non dare fastidio a nessuno.

Di recente un’azienda ha proposto a una influencer orfana di promuovere un prodotto assieme alla madre in occasione della festa della mamma. Quando lei ha precisato d’essere orfana, il marketing dell’azienda ha insistito: ma puoi promuoverlo pensando a tua madre. Il tizio del marketing non è un fulmine di guerra, ma non è neanche pensabile che tutti conosciamo tutti i punti deboli e le fragilità e i tabù di tutti. Mentre mi raccontavano questa storia, sul mio telefono è arrivata una notifica: un negozio mi offriva uno sconto per la festa del papà. Ho pensato per un attimo di offendermi in quanto orfana, poi ho chiesto a un amico imprenditore cosa ne pensasse. Mi ha spiegato quel che già sapevo: che la più parte del lavoro di chi comunica per un’azienda è fare attenzione a non offendere nessuno.

E questo in Italia, dove vige quella che quand’ero piccola si chiamava «la legge di Cavazza»: chi s’incazza si scazza. Chi si offende se la fa passare.

Ma proviamo a pensare a com’è la situazione in un paese in cui se dici la cosa sbagliata ti licenziano, e se ti licenziano un’appendicite può mandarti in bancarotta perché l’assicurazione sanitaria è legata all’avere un lavoro.

Che la libertà d’espressione sia un problema che la sinistra di questi anni ha dei problemi ad affrontare è evidente ovunque. Quando c’è stato l’affaire Paolo Nori/Dostoevskij, per esempio, il Twitter italiano era pieno di mestieranti dell’intelletto secondo i quali la cancel culture non c’entrava niente. Ho messo a fuoco in quei giorni un dettaglio che non avevo fino ad allora compreso: la sinistra italiana pensa che la cancel culture sia il MeToo. Che cancel culture sia dire che non bisogna andare a vedere Louis CK perché s’è calato le mutande davanti a qualcuna, mica che non bisogna insegnare autori russi perché gli allievi sono sensibili alla guerra.

Però gli intellettuali italiani sono quel che sono: gente che vuole mettere la «schwa» per rendere postmodernamente neutre le parole in una lingua coi generi, ma non è mai riuscita a imparare quando vada usato «le» e quando «gli».

Dal New York Times – il più grande giornale del mondo, sia detto senz’alcuna ironia – mi aspetterei qualcosa di più e di meglio. Dal più importante giornale d’una nazione che ha la libertà di parola in Costituzione, mi aspetterei che non si svegliassero nel 2022, dopo anni di questo andazzo, dopo due anni dalla lettera di Harpers in cui i meno ottusi tra gli intellettuali anglofoni segnalavano la deriva, che non si svegliassero per ultimi ma col tono di chi ci svela cose che non sapevamo, dicendoci che non è solo importante dire ciò che vogliamo ma anche difendere il diritto a farlo di chi dice cose che non ci piacciono. Ma pensa un po’.

Che non arrivassero per ultimi ma con la perentorietà di chi è pioniere nell’affrontare i temi scomodi a scoprire che ci sono molte definizioni di «libertà d’espressione», ma nessuna di esse include il chiedere venga punito chi dice cose che troviamo sgradevoli. Ma pensa un po’.

Che non fossero gli ultimi a rendersi conto che la conversazione collettiva è diventata come i barbieri di una volta, quelli col cartello «qui non si parla di politica»: se vuoi sopravvivere ai social, il cartello invisibile dice che non devi parlare di generi sessuali, di questioni razziali, e d’una lista d’altri argomenti sensibili rispetto ai quali la gente si turba a venire contraddetta. Ma pensa un po’.

E che non ci svelassero col tono dei saggi che già hanno capito cose alle quali noi arriveremo più avanti che sì, in America non c’è Putin che ti arresta se dici cose sgradite, ma se su Twitter appena dici una cosa impopolare accorrono le greggi a chiedere il tuo licenziamento, beh, magari anche quello è un problemuccio. Ho già detto «Ma pensa un po’»?

Siamo al delirio, dire “studenti” è sessista: la Statale di Milano si piega al gender più grottesco. Adriana De Conto venerdì 18 Marzo 2022 su Il Secolo D'Italia.

Siamo veramente sull’orlo dell’abisso se pronunciare il termine “studenti” da parte di un professore universitario significa essere sessista. Accade all’Università Statale di Milano. Mentre la guerra infuria e le famiglie piangono, l’ateneo distribuisce linee guida addirittura ai professori; suggerendo loro come meglio rivolgersi ai loro studenti, per non offenderli. Mentre nei luoghi bombardati in Ucraina distribuiscono il vademecum di sopravvivenza per evitare la morte; a Milano la Statale, d’intesa con il sindaco Sala, pensa a introdurre il vademecum sul linguaggio di genere. Con l’obiettivo di «garantire l’equa rappresentazione della donna». Alzi la mano chi durante la propria carriera universitaria si sia sentita sminuita o umiliata di fronte a insegne quali “Segreteria studenti”, “Appello per studenti fuori sede” o quant’altro attiene alla vita universaitaria. Siamo alla follia e non da oggi.

Delirio gender alla Statale di Milano: il libretto grottesco

Il decalogo universitario che pretende di insegnare ai docenti come parlare è lungo 15 pagine – informa Libero che ha rilanciato la notizia- e intende «rimuovere gli ostacoli di genere, fra i quali si ritiene sia da ricomprendere un uso della lingua non sufficientemente inclusivo». Così introduce l’aureo libretto Marilisa D’Amico, prorettrice a legalità, trasparenza e parità dei diritti. Facile immaginare lo scherno che sta suscitando: ” Perplessità e ilarità fra i docenti. Di fatto propone regole di comportamento nell’approccio orale e scritto di insegnanti e amministrativi. È un dizionario di buone maniere, è un «bon ton» senza l’autoironia di Lina Sotis, con consigli paradossali”.

“Studenti” è sessista. Meglio “comunità studentesca”

Qualche esempio: o si scrive (e si dice) «studentesse e studenti» oppure si deve optare per  «comunità studentesca». Perché il semplice «studenti» puzza di sessismo. Nella comunicazione orale i professori dovranno usare «locuzioni che rendano visibili i generi». Il rettorato chiede che il Garante degli studenti diventi «Garante della comunità studentesca», che i Servizi agli studenti diventino «Servizi allo studio». Non c’è ancora la schwa ma ci siamo quasi sull’orlo dell’abisso.

La prorettrice vuole insegnare ai professori la “neolingua”

Altri esempi: vanno bandite le naturali formule “Gentili colleghi, Buongiorno a tutti, Si invitano i relatori”. Il politicamente corretto vuole regole tassative: «Gentili colleghe e gentili colleghi; Buongiorno a tutti e a tutte; Si invitano i relatori e le relatrici».  “Segue – leggiamo - un surreale dizionario dalla A alla Z con le parole al femminile per «superare dissimmetrie grammaticali e semantiche»”. Praticamente vogliono insegnare a parlare ai proferrori, ritenendoli pregiudizialmente “analfabeti, spiegando loro che il femminile di alunno è alunna, di avvocato è avvocata, di curatore è curatrice”, e via discorrendo. Dietro queta follia non possiamo non vedere la mano di Michela Murgia e la sua ossessione da salotto radical chic. Come sbagliarsi ?

Delirio gender: vogliono insegnare i professori a parlare

La vestale del femminismo tutto facciata, niente sostanza, figura infatti nella biografia del già tanto delirante libretto diffuso dalla Statale. Il suo “Stai zitta e altre nove frasi che non vogliamo sentire” è ormai praticamente una “religione” per certi circoli. Il delirio gender prosegue a grandi passi. L’intesa dell’Ateneo con il Comune di Milano è un altro capitolo del ridicolo: Sala piange miseria con Roma per i 200 milioni di buco di bilancio; ma non ha ritegno di investire risorse «in materia di formazione e sostegno sui temi del linguaggio di genere».

Minacce e insulti contro chi critica la schwa, Arcangeli: “Mi arriva di tutto, siamo al delirio”. Federica Argento sabato 12 Febbraio 2022 su Il Secolo D'Italia.

E’ lui che ha promosso la crociata degli  intellettuali  contro le follie  ideologiche della schwa, la vocale indistinta e falsamente inclusiva. Ed è lui che si prende le minacce del popolo democratico, così falsamente inclusivo, da arrivare all’ostracismo di chi vorrebbe fare muro contro i dogmi del politicamente corretto. Si tratta di  Massimo Arcangeli, raffinato linguista dell’università di Cagliari; direttore  artistico del Festival della lingua italiana e autore del testo della petizione su Change.org.  Una petizione con la quale lo studioso è riuscito nella difficile impresa di mettere d’accordo pensatori di diversa estrazione culturale: tra gli altri, Massimo Cacciari, Edith Bruck, Paolo Flores d’Arcais e Ascanio Celestini. Oltre a linguisti come Francesco Sabatini, Luca Serianni, il presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini. La petizione procede molto bene, dice Arcangeli in un colloquio con la Verità oggi in edicola. Ma la reazione no.

Chi critica la schwa viene minacciato: parla il linguista Arcangeli

«Un paio d’ore fa eravamo a 18.500 firme, le adesioni continuano a crescere». Ma ad andare storto è la reazione delirante e aggressiva alla sottoscrizione che ha l’intento di evitare il ridicolo fonetico-grafico dell’uso della Schwa e salvare l’italiano da ideologismi inutili e pericolosi. Ha ricevuto minacce: «Mi è arrivato di tutto. Ho esperienza di dibattiti culturali anche aspri e sapevo di espormi. Ma non immaginavo che si arrivasse al punto che ho constatato, e di cui sto discutendo con i miei avvocati». E’ il racconto di Arcangeli. Come abbiamo già scritto, dopo la “resa” alla schwa in un documento ufficiale del Miur molti intellettuali hanno perso la pazienza e hanno accolto la “crociata” del linguista, persino superando differenze ideologiche.  Spiega Arcangeli a Maurizio Caverzan:

«Ci pensavo da quando, nel giugno scorso, ho letto sull’Espresso un articolo di Michela Murgia contro Giorgia Meloni scritto interamente con lo schwa. La desinenza neutra, finora rimasta nell’ambito dei social, approdava all’informazione tradizionale. Di recente ero tornato sull’argomento con un post su Facebook quando lo storico Angelo D’Orsi, mi ha proposto di lanciare una petizione». La finalità: impedire l’adozione di formule linguistiche arbitrarie in documenti ufficiali. “Bloccare la possibilità di una qualsiasi commissione pubblica di adottare questo tipo di segni grafici”.

Manifesto anti schwa: “Vogliamo bloccarne l’uso negli atti pubblici”

«Aspettiamo di raggiungere 20.000 firme prima di presentarla- spiega l’intellettuale (nella foto ansa in un convegno su Dante) -. Se sarà accolta quegli atti saranno dichiarati nulli. La legislazione in materia è molto complessa. Speriamo si arrivi a stabilire che non si può scrivere un verbale di un atto pubblico in questo modo». L’uso della “e rovesciata”, anziché scrivere “i candidati e le candidate, oppure gli autori e le autrici” è per lui indice di un chiaro intento: «La commissione che, guidata dal presidente, ha optato collegialmente per l’adozione di queste espressioni lo ha fatto con un intento politico che nulla a che fare con la lingua: allo scopo di modificarla sostituendo l’esigenza di pochi alla necessità di molti di poter leggere un atto pubblico in italiano. Questo è bene ricordarlo: non si tratta di una circolare interna, ma di un atto pubblico».

Come minare un intero sistema linguistico in nome di una minoranza.

Alterare in nome di una minoranza non è una mera questione lessicale, spiega. Si tratta di “formule che investono le strutture profonde dell’italiano: un delirio che mina l’intero sistema linguistico”. Senza dimenticare il falso intento inclusivo dell’uso della schwa che rischia invece di escludere, per esempio, i dislessici: “Più si aumentano i segni, più si rende difficoltosa la lettura e la scrittura per queste categorie”. L’adesione, ci tiene a precisare Arcangeli  è trasversale: «Angelo D’Orsi che ha sempre militato nella sinistra estrema, è stato l’ispiratore della petizione. Forse anche i vecchi comunisti sono diventati improvvisamente reazionari. A dispetto dei fautori dello schwa che vorrebbero politicizzare il dibattito, stiamo parlando di italiano e di norme linguistiche, non dell’adesione a una presunta ideologia». 

Murgia vuole imporre la neolingua: anche dire “brava” e “bella” diventa offensivo. Adele Sirocchi giovedì 11 Marzo 2021 su Il Secolo D'Italia.

Michela Murgia ha fatto un altro dono (non richiesto) alle donne. Il libro “Stai zitta“ (Einaudi) nel quale si prefigge di sfatare i luoghi comuni del maschilismo imperante. Combatte il linguaggio sessista, cioè tutte quelle sedimentazioni lessicali che risultano urticanti per la neolingua politicamente corretta. In pratica le riesce a metà: oppone ai luoghi comuni di maschi poco educati altrettanti luoghi comuni. Attingendo a quella cultura del vittimismo che in primis sono proprio le donne a rifiutare.

Murgia difende anche le quote che molte femministe rinnegano

Sulla questione quote la Murgia è categorica. Servono eccome. Inutile il fatto che una femminista illustre come Luciana Castellina abbia ribadito che questa lotta è da superare. Perché non si può far passare la valorizzazione delle donne come un mero fatto numerico. Invece per la Murgia sì. E’ un mero fatto numerico. E lo rivendica.

Dire “brava” o “bella” o “signora” è linguaggio da patriarcato

Ma lo sciocchezzaio della Murgia non si ferma qui. Basta leggere la recensione-stroncatura del suo libro che appare oggi sul Giornale: “Si passa poi ad affrontare lo spinosissimo tema del «Come hai detto che ti chiami?», cioè come chiamare una donna, e qui ci si incastra subito: non bisogna usare nomi o soprannomi (espressioni di paternalismo), solo cognomi, ma senza articoli, sennò si potrebbe finire nella sgradevole situazione dell’autrice, il cui cognome, se preceduto da articolo determinativo femminile, risulta assimilabile ad un altopiano della Puglia. Mi raccomando anche niente «signora» o «signorina», le donne devono prima di tutto avere un «perché» e non essere definite «per chi». Attenzione anche ai «brava» e ai «bella», pericolosissimi complimenti usati dal patriarcato per stabilire la propria superiorità sessuale nella gerarchia del pensiero”.

Murgia ci fa tornare al peggio degli anni Settanta

L’ossessione del patriarcato percorre ogni pagina, così come l’accusa alle donne che non la pensano come la Murgia di essere complici dei maschi oppressori. Non c’è alcun barlume di novità, dunque, né di evoluzione rispetto al femminismo più banale e scontato che si rifugia nello schema donna-vittima e maschio-potente-privilegiato. Un ritorno al peggio degli anni Settanta.

L'Anpi processa pure "Ondina". Il gesto fascista che fa infuriare i rossi. Alessio Mannino il 17 Marzo 2022 su Il Giornale.

Ci vuole una ben fantasiosa immaginazione per trasformare la prima medaglia olimpica femminile della storia italiana, andata all’atleta Trebisonda Valla nel 1936, in un possibile pericolo di trasmissione del virus fascista.

Antifascismo da giardinetti. È la reazione pavloviana che può mettere in cortocircuito ideologico un centrosinistra che lungo lo Stivale va a forsennata caccia di targhe e inaugurazioni per stendere una patina di “culturalmente corretto” al paesaggio urbano. A Padova si erano da poco spenti gli echi della querelle sulla statua di donna da piazzare in Prato della Valle fra le 78 maschili considerate retaggio di un passato misogino (in realtà è finita con una mozione annacquata: non si sa se verrà installata lì, nella cosiddetta Isola Memmia, o in altro loco – per la serie tanto rumore per nulla, o quasi), ed ecco che all’amministrazione del sindaco Sergio Giordani potrebbe scoppiare in mano un’altra bombetta all’acido lisergico. Perché ci vuole una ben fantasiosa immaginazione per trasformare la prima medaglia olimpica femminile della storia italiana, andata all’atleta Trebisonda Valla nel 1936, in un possibile pericolo di trasmissione del virus fascista. È della velocista e ostacolista detta “Ondina”, difatti, il nome dato al nuovo giardino pubblico di Brusegana, frazione del Comune di Padova che così ha inaugurato il terzo parco dedicato a figure femminili, dopo Lina Merlin e Margherita Hack.

L’inciampo starebbe nel fatto che l’allora ventenne Valla, conquistato l’oro olimpico, salutò com’era d’obbligo fare durante il Ventennio per gli sportivi d’Italia, cioè con il saluto romano. La campionessa, anche qui comprensibilmente se ci si situa nella temperie storica dell’epoca fascista, venne issata agli onori come esempio di “razza italiana”. L’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, sempre occhiuta nel rilevare ogni minimo sentore “nero”, non ha gradito: c’erano “sicuramente molte altre figure femminili meritevoli di ottenere riconoscimento”, ha osservato piccata al Mattino di Padova la presidente padovana dell’Anpi, Floriana Rizzetto. Come ha precisato l’assessore all’ambiente Chiara Gallani, ad avere l’idea, dopo aver spulciato varie opzioni, sono stati gli innocenti studenti dalla scuola media Arrigo Boito. Sarebbe stata meglio una “maggiore attenzione da parte degli insegnanti”, ha sottolineato la Rizzetto. Aggiungendo, bontà sua, che non è “una colpa” aver avuto, come Ondina, vent’anni sotto il regime di Benito Mussolini, magari pure vincendo, nella Berlino nazista di quel 5 agosto 1936, la semifinale degli 80 metri ad ostacoli con un tempo di 11 secondi e 6 decimi. L’imperativo di oggi è chiudere di corsa l’eventuale casus belli tutto interno alla sinistra, naturalmente per salvare dall’imbarazzo la Gallani e la giunta, felicitandosi per l’ostinazione con cui si converte pezzo a pezzo il capoluogo patavino alla montante sensibilità di ‘genere’. Resta il fatto che, a furia di voler ideologizzare, si può incappare in potenziali autogoal involontariamente comici come questo. Fra statue da incasellare a mo’ di pedine e intestazioni usate come passerelle di parte, il parere definitivo sul tema l’aveva già dato Carlo Fumian, professore di storia contemporanea al Bo, quando aveva fatto sommessamente osservare che “fare la storia con la toponomastica e lo spostar monumenti come fossero Lego, è un gioco pericoloso e poco intelligente”.

La Cancel culture "abbatte" Balbo. Luigi Mascheroni il 15 Marzo 2022 su Il Giornale.

Due-tre colpi di pennello, e via la scritta "Italo Balbo" dalla carlinga di uno degli Airbus della flotta di Stato, quelli usati da premier e ministri per i loro voli e per le missioni di pubblica utilità.

Due-tre colpi di pennello, e via la scritta «Italo Balbo» dalla carlinga di uno degli Airbus della flotta di Stato, quelli usati da premier e ministri per i loro voli e per le missioni di pubblica utilità. Se fosse davvero così facile - tirare una riga nera sopra un nome - per cancellare un Ventennio... La cultura della cancellazione - cancel culture si dice al di là dell'oceano Atlantico che Balbo transvolò eroicamente, negli anni Trenta, partendo da Orbetello - non smette di perpetrare censure e damnatio memoriae anche da noi. Via statue, via targhe, via i nomi dei grandi italiani non così puri come i Puri vorrebbero: azzerare il passato per ripulirsi la coscienza, bonificare la Storia per sentirsi migliori. E così il ministero della Difesa, dopo un'interrogazione parlamentare del segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni, ha deciso di eliminare dai velivoli del 31° Stormo ogni riferimento all'uomo che ha reso famosa e invidiata l'Aeronautica italiana nel mondo, ma anche fascista, quadrunviro, gerarca e ministro di Mussolini. Intanto, a Orbetello, la lista civica di opposizione «Alternativa» chiede che si annulli l'intitolazione a Italo Balbo dell'idroscalo da cui tutto partì... Basta davvero poco per dare soddisfazione alla Sinistra illiberale. L'Anpi applaude, la «Tomaso Montanari connection» ringrazia, la cancel culture cresce rigogliosa. E intanto siamo sempre qui: non siamo capaci, e non vogliamo, chiudere i conti con fascismo, lo rafforziamo condannandolo, lo vivifichiamo chiedendone la morte, lo facciamo risplendere cercando di cancellarlo. Quando un ambasciatore italiano negli Stati Uniti chiese al sindaco di Chicago - punto di arrivo della storica transvolata - di cambiare il nome a una strada della città, «Balbo Drive», il politico americano rispose: «Perché? Non è vero che Balbo ha compiuto quell'impresa!?». Che è un modo per dire che si può, o forse oggi si deve, distinguere l'ideologia dall'eroe, il fanatismo dallo scrittore, l'immoralità dall'artista... Italo Balbo - certo - fu fascista, fu squadrista, fu il ras di violente spedizioni punitive. Come fu straordinario pilota e un eroe che portò alto il nome dell'Italia Oltreoceano. Il suo nome sulla carlinga di un areo, così come la titolazione dell'idroscalo di Orbetello, ricordano il pioniere dell'Aeronautica, non celebrano il fascista. Nella storia di ogni uomo, così come nella Storia degli uomini, ci sono aspetti non apprezzabili e altri luminosi. Ricordare i secondi non significa per forza esaltare nostalgicamente i primi.

Incensava Italo Balbo e ora esulta per la "cancel culture", Mattia Feltri seppellisce l'ipocrisia della sinistra. Il Tempo il 15 marzo 2022.

La sinistra ha vinto la sua ultima battaglia all'insegna della "cancel culture", la spinta alla rimozione di ogni riferimento del passato in base alle sensibilità contemporanee, che fanno sempre rima col politically correct declinato all'estremo. È il caso del nome di Italo Balbo cancellato  da uno degli aerei della flotta di Stato usato da premier e ministri per i loro voli, ma anche per il trasporto di malati gravi e per missioni di pubblica utilità. La decisione è stata presa dal ministero della Difesa, dopo le polemiche che avevano portato anche ad un'interrogazione parlamentare al Governo da parte del segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni. Ma plaude anche il Pd, r con il senatore e presidente della Commissione Affari Costituzionali, Dario Parrini, che dichiara: "Il Ministero della Difesa eliminerà ogni riferimento al gerarca fascista Italo Balbo dai velivoli del 31esimo Stormo. Ben fatto! A maggior ragione chiediamo che il comune di Orbetello annulli subito l’indecente intitolazione del locale Idroscalo al ras dello squadrismo romagnolo" afferma il dem che rilancia e chiede analoghe misure a livello locale. 

"Balbo è stato un fascista delle origini, violento come tutti i fascisti delle origini, e uno dei quadrumviri della marcia su Roma. Io, nel mio piccolo, ricordo che su Balbo si discute da decenni - se fosse più buono o cattivo: uso un vocabolario adeguato ai pensieri di Fratoianni -, da decenni si indagano i difficili rapporti col Duce, soprattutto dopo che Balbo si oppose, sebbene non pubblicamente, all'alleanza coi nazisti e alle leggi razziali" spiega Mattia Feltri sul suo Buongiorno commentando la notizia dello "sbianchettamento" dall'aero di Stato. Ma la sinistra, come spesso accade, ha memoria lunga per cose di un secolo fa e cortissima per quanto riguarda il recente passato, soprattutto in casa propria.

"Mi accontento di accennare alle celebrazioni del centenario della nascita di Balbo, nel 1996. Lo Stato gli dedicò un busto in bronzo, e il sottosegretario alla Difesa del governo Prodi, Massimo Brutti, del Partito democratico della sinistra, e sottolineo sinistra, ricordò il «coraggio di aviatore», la «lucidità pionieristica», non trascurò l'appartenenza al fascismo, le «enormi responsabilità», ma Balbo fu «migliore di altri» e, concluse, «noi oggi riconosciamo e rammentiamo i suoi meriti»". Insomma, il Pds diventato Pd Balbo lo ha elogiato pubblicamente, neanche troppo tempo fa. 

Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera" il 14 gennaio 2022.  

Gli americani amano gli acronimi e BIPOC a Hollywood ora è il più gettonato. Sta per «black, indigenous and people of color», cioè neri, indigeni, gente di altri colori. La CBS ha deciso che dall'anno prossimo la metà dei suoi sceneggiatori e autori dovranno appartenere a queste minoranze etniche. Anche la ABC e gli altri studi cinematografici hanno codificato rigidi standard d'inclusione che, di fatto, emarginano molti sceneggiatori bianchi. 

Da più di un anno, poi, l'Academy of Motion Pictures, l'ente che governa gli Oscar, ha definito una serie di criteri - la piattaforma con acronimo RAISE che definisce standard di rappresentatività e inclusione - ai quali un film deve uniformarsi se vuole essere candidato al premio per la migliore produzione. 

Per anni la cancel culture - la campagna per l'eliminazione delle statue di personaggi invisi alle minoranze, come i generali confederati, esploratori come Cristoforo Colombo e gli stessi Padri della Patria, da Washington a Lincoln - è stata vissuta come un parto delle accademie liberal americane nelle quali docenti e studenti cancellavano colleghi e compagni «fuori linea». 

Ma è Hollywood che ha sempre avuto la capacità di anticipare (o produrre) i mutamenti socialmente più rilevanti. È appena scomparso Sidney Poitier che nel 1967 sul set di Indovina chi viene a cena aprì la strada ai matrimoni interrazziali. Anche stavolta sarà il mondo del cinema a definire i nuovi canoni sociali? Magari con una politica di inclusione delle minoranze etniche, delle donne e delle comunità gay talmente marcata da schiacciare i maschi bianchi?  

Molti di loro non protestano nel timore di essere cancellati definitivamente. Sono pochi ad avere la forza di denunciare. Come Quentin Tarantino: «Ideologia che uccide la creatività e l'arte». I neri che animano la cultura woke non negano gli eccessi ma li considerano una reazione legittima ai tanti anni di forzata subalternità. 

Ci sono agenzie che hanno creato database di donne, gay e neri registrati come sceneggiatori, cameramen, aiuto registi, direttori artistici, tecnici del suono: ai produttori conviene scegliere lì la squadra per un film se vogliono avere successo. I giurati dei Golden Globe hanno fatto grossi errori, ma la repentina scomparsa dalla tv e da Internet, per l'accusa di mancanza di diversity, di un evento che era il terzo show più visto al mondo fa riflettere.

Che cosa è la Woke Revolution e perché non va sottovalutata. Stefano Magni su Inside Over il 2 gennaio 2022. La “cancel culture”, la “woke revolution” e poi sempre il “politically correct” sono termini inglesi che stanno entrando anche nel lessico comune italiano, in quello giornalistico soprattutto. Si tratta di fenomeni ancora poco radicati nella coscienza comune, evanescenti, inafferrabili. Non esiste nulla di tutto ciò, secondo la maggior parte degli opinionisti di sinistra: sono solo paranoie dei conservatori, buone per far propaganda e demonizzare l’avversario. Sono invece tre aspetti di una rivoluzione culturale in corso, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, non solo secondo gli opinionisti di destra, ma anche per tutte quelle personalità di sinistra (giornalisti e docenti, soprattutto) che ne sono rimasti vittima. L’associazione Fire (“Foundation for Individual Rights in Education”, fondazione per la difesa dei diritti individuali nell’educazione) permette di comprendere correttamente la portata del fenomeno: è minoritario, ma importante e rischia di dilagare in futuro.

La “woke revolution” prende il nome dallo slang afro-americano e non a caso si è diffusa ultimamente a seguito del movimento Black Lives Matter, soprattutto dal 2015 in poi. Woke vuol dire letteralmente “in allerta”, anche se ultimamente è diventata la definizione del più generico “consapevole” (del problema, dell’ingiustizia, ecc…). Stare “in allerta” era d’obbligo per quei neri che uscivano dal loro quartiere e che rischiavano di fare una brutta fine per mano dei bianchi, ai tempi della segregazione. Dopo mezzo secolo dalla fine definitiva della segregazione, per molti neri il ghetto dà ancora un senso di protezione nei confronti del mondo esterno ed ogni episodio di brutalità della polizia contro un nero disarmato è indicato come prova di un razzismo persistente. Nelle università più costose d’America sono invece gli studenti (molto spesso bianchi) e gli intellettuali che sentono il dovere di restare “in allerta” per scovare ogni traccia di razzismo nel discorso pubblico. Un gesto, una parola, un tono di voce, possono sembrare innocui, ma, secondo gli woke, sono minacce velate o segni di un razzismo residuo.

Il politically correct è il codice che definisce ciò che per un woke è corretto o scorretto. E il razzismo contro cui lottano non è solo quello contro i neri, ma anche contro tutti coloro che sono visti come gli oppressi di ieri e di oggi: omosessuali, donne, immigrati, membri di minoranze etniche e religiose, transgender, animali (difesi da umani, in questo caso). Ma le categorie si estendono di continuo e in modi e tempi difficilmente prevedibili. La cancel culture è il modo in cui gli woke esercitano la giustizia. Ed è un eufemismo per definire la nuova forma di linciaggio online: il colpevole viene bandito, dopo una campagna di odio in rete, nelle università e in pubblica piazza, dopo il boicottaggio, il ritiro di ogni invito e infine anche il licenziamento. Se l’ingiustizia è un simbolo, come una statua, si chiede la sua rimozione. Se è un film, si chiede la sua cancellazione. Se è un testo, non deve essere più venduto. E così di seguito, fino al reset del passato.

Secondo i dati della Fire, dal 2015 al 2021, 426 docenti sono stati segnalati per aver espresso opinioni controcorrente, tre quarti di essi (314) hanno subito sanzioni. Il trend è in forte crescita: si contavano 24 casi di segnalazione nel 2016, sono arrivati a 113 nel 2020. La maggior parte dei docenti è stata contestata per discorsi che riguardano la questione razziale. Nei due terzi dei casi, solo perché hanno espresso un loro parere personale. Quasi sempre, le segnalazioni arrivano da gruppi organizzati di studenti di estrema sinistra o anche da colleghi dei docenti. Secondo Greg Lukianoff, il direttore di Fire, gli studenti sono già “tendenzialmente liberal” e all’università incontrano docenti “molto liberal” e un personale non docente “estremamente liberal”.

La sua fondazione fornisce una mappa aggiornata di scuole e università in cui la libertà di espressione è minacciata da regolamenti interni. E stila la classifica delle istituzioni in cui la libertà di parola è maggiormente repressa, ogni anno. La gran maggioranza delle istituzioni è in zona gialla, dunque a rischio. Solo una minoranza è nella zona verde (maggior tutela della libertà di espressione) e sono già di più le istituzioni in zona rossa, dove la repressione è esplicita. I docenti che si definiscono conservatori sono una minoranza sparuta (2,5%), dunque la politicizzazione nelle università e i fenomeni di cancel culture sono quasi esclusivamente appannaggio della sinistra. Il fenomeno è minoritario, ma importante appunto: episodi di censura sono avvenuti nel 65% delle università più influenti degli Stati Uniti e in ciascuna delle dieci scuole più prestigiose si sono registrati almeno 10 casi. Si tratta dunque di un fenomeno che colpisce l’élite del futuro.

Il quadro che fornisce Fire è parziale, perché riguarda solo l’educazione, a tutti i livelli. Mentre la “woke revolution” riguarda anche altri settori importanti della società. I media, prima di tutto, il cinema e l’arte e sempre più anche il mondo delle grandi aziende. Le multinazionali dell’informatica, le Big Tech sono a trazione woke, già da anni. Basti l’esempio di Netflix, attentissima a non dire nulla di scorretto, eppure una battuta di troppo sui transgender è scappata al comico afroamericano Dave Chapelle. Il risultato immediato è stato uno sciopero del personale e una campagna mediatica che ha indotto Chapelle ad incontrare i rappresentanti della comunità transgender.

Bari Weiss è la scrittrice e giornalista ebrea (membro di una minoranza, dunque, ma “privilegiata” secondo i canoni del nuovo antirazzismo) che ha rassegnato le dimissioni dal New York Times perché subiva mobbing dai suoi colleghi woke e non era difesa dai superiori. La sua è diventata la battaglia di tutte le vittime della cancel culture, vittime di sinistra soprattutto, epurate da chi è più puro. Sulla rivista conservatrice Commentary, la Weiss ha scritto un articolo-manifesto che descrive non solo le caratteristiche della woke revolution, ma porta anche numerosi esempi che permettono di comprendere quanto il fenomeno sia infido e pervasivo. Per Bari Weiss, infatti, “si viene condannati per quello che si è” e non per quel che si fa. Il maschio, bianco, eterosessuale, ma anche la donna ebrea bianca, sono “privilegiati”.

In una terza elementare si insegna ai bambini bianchi di liberarsi e pentirsi del loro privilegio, innato. In un’altra scuola, prestigiosa, per altro, si ritiene che un insegnante bianco non possa tenere lezioni a bambini neri. Non si distingue neppure l’intenzionalità, anche un fraintendimento può portare a una condanna: un operaio che scrocchia le dita in modo “sospetto” (che ricorda un gesto identificativo dei suprematisti bianchi) viene licenziato in tronco. Un professore di linguistica che insegna l’uso del “like” (come) e ha studenti cinesi, viene tacciato di razzismo perché “like” in cinese ha un suono simile a quello dell’ormai impronunciabile parola latina con cui si identificavano i neri. Sono storie surreali, angosciose che ricordano i regimi totalitari di Stalin e di Mao più che la terra della libertà. Secondo Bari Weiss, il mostro woke è cresciuto per mancanza di coraggio di chi avrebbe dovuto opporsi: è un atteggiamento infantile a cui gli adulti, i responsabili, gli insegnanti, non hanno mai risposto con un “no”. Ma nessuno, neppure Bari Weiss o Greg Lukianoff, riesce a individuare la radice di questa rivoluzione culturale.

Se tutto ciò vi ricorda il marxismo leninismo applicato in Urss e in Cina, ma anche nei movimenti più violenti del nostro Sessantotto, forse avete ragione. La nuova sinistra non è molto distante dalla vecchia logica della lotta di classe. E se il fenomeno è cresciuto è perché negli Usa, che non sono mai stati comunisti, il marxismo è sempre più di moda nelle università, spesso filtrato attraverso lo studio di Gramsci, il filosofo italiano più influente nella cultura americana da vent’anni a questa parte.

Alberto Simoni per “la Stampa” il 10 aprile 2022.

Greg Locke è un pastore di un villaggio vicino a Nashville, Tennessee, e ha organizzato un falò. Di libri. L'ha annunciato una domenica durante il sermone: ha convocato giornalisti e fotografi; quindi, ha avviato una diretta su You Tube e ha appiccato il fuoco in un grande bidone.

Uno dopo l'altro i fedeli si sono uniti a lui, gettando fra le fiamme copie di Harry Potter, l'intera saga di Twilight e diverse altre opere che secondo Locke deviano i piccoli americani dalla retta via. Non è un capitolo mancante di Fahrenheit 451, il libro distopico di Ray Bradbury che immaginava roghi di libri in una cittadina statunitense nel 2049. Quel che ha fatto il pastore Locke è effettivamente successo nell'America profonda - Dio, patria e fucile - una domenica di febbraio del 2022, 27 anni prima della proiezione di Bradbury.

Qualche giorno dopo, il consiglio scolastico di un distretto sempre del Tennessee si radunava per scegliere quali libri potevano finire sugli scaffali delle biblioteche scolastiche per i ragazzi delle medie. Al bando è finito Maus, il capolavoro in graphic novel di Art Spiegelman, premio Pulitzer, sull'Olocausto. La colpa di Spiegelman è quella di aver dipinto alcune donne senza veli e di aver messo la scritta «God damn» («Accidenti a Dio») fra i disegni. 

Se il piromane culturale Locke è un unicum che media e tv americane hanno trattato al limite del folklore, il caso di Spiegelman invece è la fotografia di quanto l'America del terzo millennio sia immersa in un clima di «guerra culturale», dove se la minoranza - gay e comunità Lgbtq e neri fondamentalmente - cerca spazi di espressione negategli per decenni ed è aiutata in questo dal mondo liberal, dall'altra vi è un rumorosa parte che a colpi di petizioni, denunce, mozioni prova a togliere da scuole e biblioteche tutto ciò che non rientra nei canoni dell'americano patriota, bianco, cristiano e finendo così per alimentare una «cancel culture» al contrario.

L'Associazione delle biblioteche americane (Ala), ogni anno, stila un report sulle proposte di «censure» che arrivano nelle scuole. La fotografia scattata per il 2021 è incredibile: i tentativi di eliminare dai cataloghi alcuni testi hanno raggiunto il livello record da 20 anni. Ci sono state ben 729 richieste di rimozione: 1597 libri sono finiti sulla graticola, alcuni sono stati tolti dagli scaffali. E tutti per gli stessi contenuti: questioni Lgtbt, identità di genere e razzismo.

Nel 2020 all'indice erano finiti meno di 1000 libri, nel 2019 appena 566. Come ha spiegato Deborah Caldwell-Stone, direttrice dell'Ala, è solo l'inizio. La sua previsione è che il 2022 - cominciato con il rogo di Nashville e la censura di Maus - supererà anche il primato del 2021. Il fatto è che la scuola è diventata «la Ground zero» della guerra culturale fra due Americhe sempre più distanti e, ancora più evidente, prive di punti di contatto.

Il motivo è che i conservatori più radicali hanno deciso di trasformare i «board» scolastici in un'arena politica. Si sono candidati in massa per farsi eleggere nei distretti scolastici e poter così influenzare didattica, cultura e vita nelle scuole. In un distretto rurale dello Stato di Washington, per esempio, Ashley Sova, no mask, teorica dell'«home schooling», pistola in vita e aderente al movimento radicale di destra «Three Percent», è entrata all'Eatonville School Board e stravolto le dinamiche di un'intesa comunità, dove, fino all'avvento di Donald Trump e all'assalto a Capitol Hill, liberal e conservatori dividevano gli stessi spazi e condividevano le medesime esperienze. Ha deciso di candidarsi perché ritiene che «i genitori devono avere l'ultima parola su quel che viene insegnato ai loro figli».

Le lezioni e i testi sull'inclusione, la diversità, l'educazione sessuale e il gender sono diventati il suo bersaglio. Eppure sette americani su 10, sono i dati di un sondaggio di marzo, sono contrari alla rimozione dei libri e il 74% si fida della capacità di discernimento di bibliotecarie e scuole.

Nell'elenco dei 10 libri nel mirino, quelli con tematiche di genere, sono i più colpiti. Almeno stando alle motivazioni registrate dalle biblioteche sparse negli States. 

Gender Queer di Maia Kobane (primo in assoluto quanto a lamentele e rimosso ovunque) ha immagini esplicite e promuove contenuti LgbtQia+, All Boys Aren't Blue di George M.

Johnson è stato bandito perché «profano»; The Hate U Givedi Angie Thomas invece è un'istigazione a promuovere messaggi contro la polizia ed è un compendio di indottrinamenti sull'agenda sociale.

E pazienza se il cuore del bestseller è la sparatoria fra la polizia e un giovane afroamericano, cronaca più che fiction nell'America di questi Anni Venti dove la violenza razziale è in continua ascesa. All'indice pure il libro d'esordio di Toni Morrison, The Bluest Eye: è sessualmente esplicito e descrive abusi sui bambini. John L. Jackson, dean della Scuola di Comunicazione della Pennsylvania, ha sintetizzato quanto avviene, dicendo che «la battaglia sui libri altro non è che un microcosmo delle divisioni politiche del Paese».

 E infatti spesso dietro le decisioni di censura ci sono appoggi, spinte e sostegni dei governatori o dei politici. Lo scorso autunno Glenn Youngkin, repubblicano che con toni moderati incarna un'agenda trumpiana, ha vinto le elezioni per diventare governatore della Virginia, sostenendo la crociata contro la graphic novel di Maia Kobane. Il governatore della Florida Ron DeSantis, odore di candidatura alla Casa Bianca nel 2024, ha siglato una legge che dà ai genitori la possibilità di verificare ogni testo a disposizione dei figli e di porre «il veto» alla loro distribuzione.

La storia più incredibile però viene dal Texas, dove Matt Krause, deputato locale, ha stilato una personale lista di 850 libri da espellere dal circuito scolastico e ha girato ogni distretto per verificare quali e quanti di questi libri fossero a portata di ragazzo. Poi si è candidato al posto di procuratore del Texas. Ha perso. 

Che cosa è la Woke Revolution e perché non va sottovalutata. Stefano Magni su Inside Over il 2 gennaio 2022. La “cancel culture”, la “woke revolution” e poi sempre il “politically correct” sono termini inglesi che stanno entrando anche nel lessico comune italiano, in quello giornalistico soprattutto. Si tratta di fenomeni ancora poco radicati nella coscienza comune, evanescenti, inafferrabili. Non esiste nulla di tutto ciò, secondo la maggior parte degli opinionisti di sinistra: sono solo paranoie dei conservatori, buone per far propaganda e demonizzare l’avversario. Sono invece tre aspetti di una rivoluzione culturale in corso, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, non solo secondo gli opinionisti di destra, ma anche per tutte quelle personalità di sinistra (giornalisti e docenti, soprattutto) che ne sono rimasti vittima. L’associazione Fire (“Foundation for Individual Rights in Education”, fondazione per la difesa dei diritti individuali nell’educazione) permette di comprendere correttamente la portata del fenomeno: è minoritario, ma importante e rischia di dilagare in futuro.

La “woke revolution” prende il nome dallo slang afro-americano e non a caso si è diffusa ultimamente a seguito del movimento Black Lives Matter, soprattutto dal 2015 in poi. Woke vuol dire letteralmente “in allerta”, anche se ultimamente è diventata la definizione del più generico “consapevole” (del problema, dell’ingiustizia, ecc…). Stare “in allerta” era d’obbligo per quei neri che uscivano dal loro quartiere e che rischiavano di fare una brutta fine per mano dei bianchi, ai tempi della segregazione. Dopo mezzo secolo dalla fine definitiva della segregazione, per molti neri il ghetto dà ancora un senso di protezione nei confronti del mondo esterno ed ogni episodio di brutalità della polizia contro un nero disarmato è indicato come prova di un razzismo persistente. Nelle università più costose d’America sono invece gli studenti (molto spesso bianchi) e gli intellettuali che sentono il dovere di restare “in allerta” per scovare ogni traccia di razzismo nel discorso pubblico. Un gesto, una parola, un tono di voce, possono sembrare innocui, ma, secondo gli woke, sono minacce velate o segni di un razzismo residuo.

Il politically correct è il codice che definisce ciò che per un woke è corretto o scorretto. E il razzismo contro cui lottano non è solo quello contro i neri, ma anche contro tutti coloro che sono visti come gli oppressi di ieri e di oggi: omosessuali, donne, immigrati, membri di minoranze etniche e religiose, transgender, animali (difesi da umani, in questo caso). Ma le categorie si estendono di continuo e in modi e tempi difficilmente prevedibili. La cancel culture è il modo in cui gli woke esercitano la giustizia. Ed è un eufemismo per definire la nuova forma di linciaggio online: il colpevole viene bandito, dopo una campagna di odio in rete, nelle università e in pubblica piazza, dopo il boicottaggio, il ritiro di ogni invito e infine anche il licenziamento. Se l’ingiustizia è un simbolo, come una statua, si chiede la sua rimozione. Se è un film, si chiede la sua cancellazione. Se è un testo, non deve essere più venduto. E così di seguito, fino al reset del passato.

Secondo i dati della Fire, dal 2015 al 2021, 426 docenti sono stati segnalati per aver espresso opinioni controcorrente, tre quarti di essi (314) hanno subito sanzioni. Il trend è in forte crescita: si contavano 24 casi di segnalazione nel 2016, sono arrivati a 113 nel 2020. La maggior parte dei docenti è stata contestata per discorsi che riguardano la questione razziale. Nei due terzi dei casi, solo perché hanno espresso un loro parere personale. Quasi sempre, le segnalazioni arrivano da gruppi organizzati di studenti di estrema sinistra o anche da colleghi dei docenti. Secondo Greg Lukianoff, il direttore di Fire, gli studenti sono già “tendenzialmente liberal” e all’università incontrano docenti “molto liberal” e un personale non docente “estremamente liberal”.

La sua fondazione fornisce una mappa aggiornata di scuole e università in cui la libertà di espressione è minacciata da regolamenti interni. E stila la classifica delle istituzioni in cui la libertà di parola è maggiormente repressa, ogni anno. La gran maggioranza delle istituzioni è in zona gialla, dunque a rischio. Solo una minoranza è nella zona verde (maggior tutela della libertà di espressione) e sono già di più le istituzioni in zona rossa, dove la repressione è esplicita. I docenti che si definiscono conservatori sono una minoranza sparuta (2,5%), dunque la politicizzazione nelle università e i fenomeni di cancel culture sono quasi esclusivamente appannaggio della sinistra. Il fenomeno è minoritario, ma importante appunto: episodi di censura sono avvenuti nel 65% delle università più influenti degli Stati Uniti e in ciascuna delle dieci scuole più prestigiose si sono registrati almeno 10 casi. Si tratta dunque di un fenomeno che colpisce l’élite del futuro.

Il quadro che fornisce Fire è parziale, perché riguarda solo l’educazione, a tutti i livelli. Mentre la “woke revolution” riguarda anche altri settori importanti della società. I media, prima di tutto, il cinema e l’arte e sempre più anche il mondo delle grandi aziende. Le multinazionali dell’informatica, le Big Tech sono a trazione woke, già da anni. Basti l’esempio di Netflix, attentissima a non dire nulla di scorretto, eppure una battuta di troppo sui transgender è scappata al comico afroamericano Dave Chapelle. Il risultato immediato è stato uno sciopero del personale e una campagna mediatica che ha indotto Chapelle ad incontrare i rappresentanti della comunità transgender.

Bari Weiss è la scrittrice e giornalista ebrea (membro di una minoranza, dunque, ma “privilegiata” secondo i canoni del nuovo antirazzismo) che ha rassegnato le dimissioni dal New York Times perché subiva mobbing dai suoi colleghi woke e non era difesa dai superiori. La sua è diventata la battaglia di tutte le vittime della cancel culture, vittime di sinistra soprattutto, epurate da chi è più puro. Sulla rivista conservatrice Commentary, la Weiss ha scritto un articolo-manifesto che descrive non solo le caratteristiche della woke revolution, ma porta anche numerosi esempi che permettono di comprendere quanto il fenomeno sia infido e pervasivo. Per Bari Weiss, infatti, “si viene condannati per quello che si è” e non per quel che si fa. Il maschio, bianco, eterosessuale, ma anche la donna ebrea bianca, sono “privilegiati”.

In una terza elementare si insegna ai bambini bianchi di liberarsi e pentirsi del loro privilegio, innato. In un’altra scuola, prestigiosa, per altro, si ritiene che un insegnante bianco non possa tenere lezioni a bambini neri. Non si distingue neppure l’intenzionalità, anche un fraintendimento può portare a una condanna: un operaio che scrocchia le dita in modo “sospetto” (che ricorda un gesto identificativo dei suprematisti bianchi) viene licenziato in tronco. Un professore di linguistica che insegna l’uso del “like” (come) e ha studenti cinesi, viene tacciato di razzismo perché “like” in cinese ha un suono simile a quello dell’ormai impronunciabile parola latina con cui si identificavano i neri. Sono storie surreali, angosciose che ricordano i regimi totalitari di Stalin e di Mao più che la terra della libertà. Secondo Bari Weiss, il mostro woke è cresciuto per mancanza di coraggio di chi avrebbe dovuto opporsi: è un atteggiamento infantile a cui gli adulti, i responsabili, gli insegnanti, non hanno mai risposto con un “no”. Ma nessuno, neppure Bari Weiss o Greg Lukianoff, riesce a individuare la radice di questa rivoluzione culturale.

Se tutto ciò vi ricorda il marxismo leninismo applicato in Urss e in Cina, ma anche nei movimento più violenti del nostro Sessantotto, forse avete ragione. La nuova sinistra non è molto distante dalla vecchia logica della lotta di classe. E se il fenomeno è cresciuto è perché negli Usa, che non sono mai stati comunisti, il marxismo è sempre più di moda nelle università, spesso filtrato attraverso lo studio di Gramsci, il filosofo italiano più influente nella cultura americana da vent’anni a questa parte.

Carlo Nicolato per "Libero Quotidiano" il 4 Gennaio 2022. Vi siete mai chiesti per caso che tipo di persona potrebbe mai essere quella che vi segnala su Facebook o Twitter, magari per aver espresso un punto di vista poco politically correct o non in linea con quello comunemente condiviso sui social? O che addirittura vi abbia fatto cancellare una fotografia di nudo su Instagram, che fosse anche la riproduzione della celebre Origine del mondo di Courbet sfuggita miracolosamente all'ottuso algoritmo?

Ebbene sappiate che i vostri sospetti su quel conoscente integerrimo rompipalle di sinistra non sono mal riposti: secondo infatti un sondaggio di Yougov le probabilità che sia stato proprio lui, progressista, bacchettone e decisamente poco democratico, inginocchiato per i diritti dei neri ma non per quelli degli avversari politici, sono molto alte, almeno il triplo della possibilità che sia stato uno di destra.

«Questo comportamento è fortemente legato all'ideologia politica», dice il think tank americano Cato Institute che ha commissionato il sondaggio che rivela appunto come il 65% degli "strong liberals", cioè di quelli sinistra più convinti, contro il 24% degli "strong conservators", abbiano almeno una volta fatto delle segnalazioni sui social. Tra i meno strong e i più moderati le differenze sono meno evidenti ma comunque rimangono, con un 32% dei liberals contro il 21% dei conservatori.

È la cancel culture da divano, quella che non abbatte le statue in piazza ma i post degli altri su Facebook. È la sinistra col ditino alzato di una volta, la razza moralmente superiore diventata più ottusa dell'algoritmo e che si rivolge all'autorità giudicante, nel caso specifico un nerd rintanato in un ufficio polveroso, arbitro in terra del bene e del male come il giudice nano di De Andrè.

Ne consegue che perla stessa categoria di persone, cioè chi si dichiara fieramente di sinistra, anche la stessa "amicizia" è appesa a un filo, o meglio a quel click che da un secondo con l'altro ti cancella dalla lista dei contatti. Otto "liberal strong" su dieci lo hanno fatto almeno una volta nella vita, per motivi politici ma anche per motivi legati alla scienza riguardanti per lo più il clima e il covid.

Ma lo hanno fatto anche i liberal moderati, quasi 7 su 10, contro i neanche i 5 su 10 dei conservatori che siano moderati o estremisti. Non deve sorprendere dunque che gli utenti di sinistra si trovino più a loro agio sui social di quelli di destra, le loro idee sono protette e condivise, raramente rimosse. 

È successo solo al 20% dei liberali estremisti contro il 35% dei conservatori, mentre solo al 12% di loro è stato bloccato o sospeso l'account contro il 19% di quelli di destra. A questo proposito il popolo conservatore pensa che il blocco definitivo degli account di Trump su Facebook e Twitter sia stato un sopruso e l'81% di loro ritiene che con tale condotta i social abbiano violato il primo emendamento secondo cui la libertà di espressione è inviolabile.

E se il 58% degli americani afferma che i social sono dannosi perla società, il 52% dei liberal crede invece che al contrario rappresentino qualcosa di positivo, e oltre il 70% di loro sono anche convinti che rappresentino un miglioramento anche per le loro vite.

Anche i conservatori credono che i social siano "personalmente utili", ma tale percentuale si abbassa nel loro caso a poco più del 50%. Secondo il sondaggio Yougov in generale gli americani non si fidano molto delle società di social media, il 75% di loro considera che non sono attrezzati per prendere decisioni eque sui post, ma anche in questo caso quelli di sinistra si fidano un po' di più di quelli di destra.

I liberal scettici sui social vanno dal 59 al 72% a seconda delle loro convinzioni più o meno estremiste, contro un range di conservatori scettici che va dall'88 al 90 per cento. Insomma se siete di destra, e siete convinti che la libertà di espressione sia un valore, guardatevi dai vostri amici di Facebook: tra loro c'è sicuramente una spia rossa, un maccartista del politically correct, vi sta tenendo d'occhio e non vede l'ora di segnalarvi. 

"Difendiamo la libertà religiosa da radicalismo e cancel culture". Alessandra Benignetti l'11 Marzo 2022 su Il Giornale.

A Ginevra va in scena il vertice dell’Alleanza internazionale per la libertà religiosa voluta da Donald Trump. Ma l'Italia è assente. L'eurodeputato Fidanza: "Difendere il patrimonio storico religioso contro vecchi e nuovi radicalismi".

Guerre, come quella in corso in Ucraina, fondamentalismo, regimi autoritari. Sono le principali minacce alla libertà religiosa che nel 2022 resta uno dei diritti umani più calpestati. La comunità più colpita resta quella cristiana, con 360 milioni di fedeli perseguitati nel mondo, secondo l’ultimo rapporto della Ong Open Doors. Ma a subire violenze, soprusi e intimidazioni sono anche ebrei, musulmani moderati e le minoranze religiose in generale. Un fenomeno sempre più vasto e preoccupante, che è stato analizzato dall’Alleanza internazionale per la libertà religiosa (IRFBA) a margine della 49esima edizione del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu a Ginevra.

L’organizzazione è stata fondata dal dipartimento di Stato americano durante l’amministrazione Trump per combattere discriminazioni e violenze che vengono perpetrate in nome della fede. Ne fanno parte 32 Paesi, tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Austria, Grecia, Danimarca, Olanda, Israele, Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. A presiedere la riunione è stata la deputata conservatrice britannica Fiona Bruce, inviato speciale del primo ministro Boris Johnson per la libertà religiosa, che ha discusso assieme ad importanti esperti e rappresentati delle istituzioni, tra cui l’ambasciatore Jos Douma, inviato speciale per la libertà religiosa del governo olandese e Rashad Hussain, nominato dal Presidente Biden, ambasciatore per la libertà religiosa, delle azioni da mettere in campo per promuovere il rispetto della libertà religiosa e di culto e per proteggere i diritti delle minoranze religiose in tutto il mondo.

L’Italia però manca all’appello. La Farnesina, infatti, non ha ancora risposto alla richiesta dell’Alleanza di nominare un inviato speciale per la libertà religiosa. L’unico italiano a partecipare al dibattito, in qualità di copresidente dell’Intergruppo per la libertà religiosa del Parlamento europeo e membro del consiglio degli esperti dell’Alleanza, è stato l’eurodeputato di Fratelli d’Italia-ECR Carlo Fidanza. "Nell’epoca della cancel culture, difendere il patrimonio storico religioso e i suoi simboli contro vecchi e nuovi radicalismi deve essere una priorità", ha sottolineato, stigmatizzando la lentezza della Commissione Ue sulla nomina del nuovo inviato speciale europeo per la libertà religiosa.

"Nel Parlamento di Strasburgo, a causa dell’opposizione ideologica di alcuni gruppi politici, - denuncia ancora Fidanza - è sempre difficile mettere all’ordine del giorno documenti di condanna di pratiche inaccettabili come i matrimoni forzati". "Tuttavia – ha proseguito nel suo intervento - i segnali di speranza non mancano: alcuni mesi fa abbiamo approvato una risoluzione contro la legge sulla blasfemia in Pakistan, che ha portato alla detenzione e spesso alla condanna a morte di decine di persone negli ultimi anni".

Un’ulteriore passo in avanti contro le violazioni della libertà religiosa, ha ricordato l’eurodeputato, è stata anche la risoluzione di condanna della distruzione di chiese armene nella regione del Nagorno-Karabakh nell’ultima plenaria del parlamento Ue. È prevista per il prossimo 22 marzo, invece, la presentazione da parte dell’Intergruppo per la libertà religiosa del Parlamento Ue a Bruxelles del rapporto periodico sulla libertà religiosa, redatto con la collaborazione di diverse Ong impegnate sul tema.

Se la cancel culture arriva anche in Italia. Di Emanuele Beluffi l'11 Marzo 2022 su Culturaidentità su Il Giornale.

A Orbetello (Grosseto) la giunta vuole intitolare il parco nell’ex idroscalo all’aviatore Italo Balbo e la sinistra col PD si indigna: “No, è un fascista”. Intanto a Cavriago (Reggio Emilia) sempre la sinistra col PD s’indigna alle richieste del paese di togliere il monumento a Lenin nella piazza a lui dedicata: “No, è un simbolo di pace”.

Sì, ma anche Italo Balbo è stato un simbolo di pace: che brutta cosa non conoscere la storia, come quelli che fanno la ola a quella cancel culture, oramai d’importazione qui da noi, che due anni fa ha iniziato a prender piede negli ambienti massimalisti chic dei college e atenei USA con la fregola della rimozione delle statue (ne avevamo parlato qui).

Pillole di storia agli indignati speciali che cianciano di “revisionismo nostalgico” se a Orbetello il sindaco vuole intitolare l’ex idroscalo all’aviatore Italo Balbo, legato con le sue imprese aeree alla cittadina toscana: l’Aeronautica italiana nasce proprio con Italo Balbo, autore di celeberrime trasvolate atlantiche, accolto negli USA con gran fervore all’Expo mondiale di Chicago nel 1933 al punto che a Broadway lo accolsero con una parata stile divo di Hollywood e a Chicago gli dedicarono una via, la Balbo Avenue e ora Balbo Drive.

Certo, Balbo fu anche protagonista della Marcia su Roma, ma fu anche e soprattutto un vero e proprio “Cavaliere del cielo” le cui trasvolate furono un messaggio di pace tra i popoli: quindi che facciamo?, eliminiamo pure la Balbo Avenue? Italo Balbo è simbolo identitario della città di Orbetello (e dell’aeronautica italiana, lo ripetiamo), quindi si onori il parco di Orbetello con la targa “Italo Balbo. Aviatore”, altro che “revisionismo”.

La realtà è che a sinistra e dalle parti del PD toponomastica e monumenti non vanno a corrente alternata, le vie Marx e Gramsci si sprecano e talvolta svetta anche qualche statua come quella di Lenin a Cavriago e che qualcuno vorrebbe eliminare soprattutto alla luce del dramma ucraino: ma la cultura non si cancella né si processa. Chi lo vuol fare è un ignorante, oltre che un fazioso.

Quindi, sì al parco dedicato a Italo Balbo a Orbetello e nessuno tocchi la statua di Lenin a Cavriago!

Il contraltare morale. La tortuosa avanzata della cancel culture in Italia. Benedetta Barone su L'Inkiesta l'11 Marzo 2022.

Nel mondo anglosassone i casi di censura sono sempre più frequenti, ma sta arrivando anche da noi, pur con applicazioni maldestre e incerte. A definirne la pericolosità è la natura ideologica, quasi religiosa. 

Il governatore del Texas Matt Krause ha inserito più di 800 testi in una lista nera – tra cui “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee, “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood e “L’occhio più azzurro” di Toni Morrison. Un senatore dello Stato dell’Oklahoma, Rob Standridge, ha presentato un disegno di legge per proibire i libri che trattano tematiche considerate vicine alla perversione sessuale, mentre in Tennessee è stata bandita dal programma di studi in una terza media la graphic novel “Maus” di Art Spiegelmann dedicata all’Olocausto, in quanto esporrebbe immagini di violenza, di nudo e una rappresentazione del suicidio considerate inaccettabili per un pubblico giovane.

Come spiega un lungo approfondimento dell’Atlantic, questi episodi si inseriscono in una dialettica già nota negli Stati Uniti, comune a destra e a sinistra, nel partito repubblicano come in quello democratico. La frangia più conservatrice del Paese si scaglia contro i contenuti ritenuti scabrosi, la frangia progressista impone l’accetta su tutto ciò che potrebbe essere percepito poco attento alla sensibilità delle comunità femminili, black e LGBT: “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee era già stato oggetto di dibattito a causa di presunte accuse di razzismo e per un certo periodo è diventato introvabile nello Stato di Washington. Un caso analogo riguarda “Le avventure di Huckleberry Finn” di Mark Twain, per il linguaggio storicamente crudo e l’uso di termini razzisti, volti a restituire lo spirito dell’epoca schiavista.

Sembrerebbe che tracce di censura stiano tornando in auge in tutto l’Occidente, attraversato da una spinta revisionista della propria storia e delle proprie origini. La traduzione della poesia “The Hill We Climb” della 22enne afroamericana Amanda Gorman, recitata durante la cerimonia di insediamento alla Casa Bianca di Joe Biden, ha suscitato controversie anche all’estero, soprattutto in Spagna e nei Paesi Bassi perché in una prima fase era stata affidata a due persone bianche, considerate inadeguate a capire e a restituire l’appartenenza alla comunità nera.

Enrico Mentana, in un post su Instagram del maggio 2021, aveva paragonato la cosiddetta cancel culture ai roghi nazisti del Novecento, dopo che anche Philip Roth aveva rischiato il linciaggio editoriale: le sue due biografie apparse negli Stati Uniti a poca distanza l’una dall’altra, il 6 aprile e il 3 maggio 2021, descrivevano le abitudini moralmente discutibili del romanziere e i dettagli più scabrosi della sua vita privata, al punto che sul Sunday Times era uscita la recensione della giornalista Claire Lowdon dal titolo “Lo scrittore come maniaco sessuale arrabbiato”. Per giunta uno degli autori, Blake Bailey, era stato accusato di molestie poco dopo l’uscita del volume – cosa che aveva indotto l’editore a ritirarlo precipitosamente dal commercio.

“Peter Pan” è stato precluso ai bambini dalla Public Library di Toronto, la Blossoms Books olandese ha abolito la figura di Maometto dall’Inferno di Dante, “Via col vento” è stato rimesso da poco in circolazione con il supporto di didascalie esplicative che giustifichino il clima e il linguaggio percepiti ancora una volta pericolosamente xenofobi.

L’Italia, invece, ne è apparentemente immune. Infatti la biografia di Roth è uscita in Italia senza alcuna polemica. Allo stesso modo è stato pubblicata l’autobiografia di Woody Allen, nonostante le accuse di abusi nei confronti della figlia adottiva sollevate dalla ex Mia Farrow, che avevano indotto la casa editrice americana a bloccarne le vendite. Nemmeno la traduzione delle poesie di Amanda Gorman non ha provocato scandali.

Da noi compaiono censure più sottili e subdole, come se l’intenzione non coincidesse mai con l’azione e nel mezzo si creassero confuse zone d’ombra. Lo sottolinea Roberto Carnero nel suo articolo del 26 febbraio su Avvenire. «Ma che senso ha censurare Pasolini (se di censura si tratta)?» si chiede l’autore, denunciando la scomparsa dall’epistolario di Pierpaolo Pasolini, riproposto dalla Garzanti lo scorso novembre in occasione dei cent’anni dalla nascita dello scrittore, di una lettera indirizzata all’amica Laura Betti. La missiva conterrebbe rimandi al rapporto di Pasolini con Ninetto Davoli, all’epoca minorenne, e secondo Carnero sarebbe stata omessa allo scopo di celare le inclinazioni sessuali dell’intellettuale, peraltro già ampiamente conosciute e discusse.

Nel 1956, il romanzo “Ragazzi di vita” valse a Pasolini un vero e proprio processo, da cui poi fu assolto, per reati di oscenità e pornografia.

Oggi, invece, si ricorre a scappatoie, a tentativi lasciati a metà, in cui non si capisce neanche bene contro cosa si combatte e perché. La cancel culture, se in Italia esiste, è appannaggio di un opinionismo perennemente oscillante e maldestro.

La settimana scorsa Paolo Nori è stato al centro di un acceso dibattito nazionale perché il corso su Dostoevskij che avrebbe dovuto tenere all’Università Bicocca è stato cancellato senza preavviso. In quanto caposaldo della letteratura russa, infatti, poteva suscitare tensioni e controversie: 48 ore dopo, l’ateneo ha fatto marcia indietro e il corso è stato ripristinato. Evidentemente la rettrice non si aspettava che una simile decisione si sarebbe trasformata in un cappio al collo capace di condannare per sempre la reputazione dell’istituto. Anzi, con ogni probabilità, era convinta di collocarsi all’interno di una wave condivisa trasversalmente da tutto il mondo democratico. Ad ogni modo, però, per Paolo Nori la questione era ormai chiusa e ha rifiutato la opposi di allargare l’insegnamento ad autori ucraini.

Non è neppure la prima volta che lo scrittore si trova ad affrontare dispute di questo genere. Nel 2010 era stato  bacchettato dalle istituzioni culturali, in special modo dal critico Andrea Cortellessa, a causa della sua decisione di collaborare con il quotidiano di destra Libero. Paolo Nori aveva tenuto un incontro pubblico alla libreria Giufà di Roma assieme allo stesso Cortellessa, durante il quale si era giustificato e difeso dalle accuse.

In quegli anni si accavallavano anche i continui dibattiti su Silvio Berlusconi, ancora presidente del Consiglio e maggiore azionista del gruppo Mondadori. Gli autori che non si dissociavano dal marchio venivano tacciati di servilismo, come nel caso di Roberto Saviano, e lo stesso Berlusconi era accusato di cestinare i testi che potevano mettere in discussione la sua immagine. Una parte accusava l’altra di censura, quando la prima non esitava a bandire dai suoi confini chiunque rifiutava di depositare l’esercizio della propria emancipazione.

Si giocava allo stesso gioco, spinto non da presupposti razionali, ma aizzato dall’onda emotiva del momento.

Secondo Marco Imarisio, scrittore e giornalista del Corriere della Sera, la censura in senso classico «presuppone un apparato che le sta alle spalle. E in Italia non c’è niente del genere».

Si tratta di qualcos’altro. «L’Italia è caratterizzata da una ricerca ossessiva di zelo: l’ossessione per il politicamente corretto», che secondo Imarisio funziona a scatti, in contesti emergenziali e provoca due conseguenze: i nodi non vengono mai al pettine, nessuna questione viene mai risolta veramente, perché il polverone connesso a un episodio si assopisce insieme all’emotività che produce; e in secondo luogo viene sdoganata nei singoli cittadini la condizione per affermare tutto e il contrario di tutto, senza assunzioni di responsabilità.

Secondo Eugenio Capozzi, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università degli studi di Napoli e autore di “Politicamente corretto. Storia di un’ideologia” (Marsilio, 2018), questo fenomeno è trasversale alla storia dell’intero Occidente. Le schermaglie interne agli Stati Uniti, i tentativi di ritaglio di intere porzioni di storia e di letteratura, la corsa al processo sommario per chiunque venga sospettato di comportamenti o linguaggi poco consoni, è espressione di un vero e proprio nuovo regime che sconfina certamente anche nel bavaglio censorio.

Dunque è la censura a essere figlia del politicamente corretto e non l’inverso.

L’Italia è semplicemente poco più indietro rispetto agli altri Paesi e sconta per di più le contraddizioni politiche e religiose della sua storia.

L’idea di Capozzi è che tutte le nazioni occidentali si sono aggrappate a una certa retorica per sopperire alla scomparsa delle ideologie otto-novecentesche. Il loro tentativo sarebbe dunque raccogliere i rimasugli di un apparato di pensiero dottrinale e integrarlo per sopravvivere, anche se esso si traduce nella condanna di sé e delle proprie fondamenta.

L’assunto alla base del politicamente corretto innalzato a ideologia è che qualcosa di profondamente malvagio è insito alla cultura occidentale. Questa malvagità congenita va curata e asportata attraverso un cambiamento radicale della mentalità e del modo di parlare.

Le parole diventano lo strumento principale della battaglia – basta soffermarsi sui tentativi di sdoganamento dello schwa, che tronca l’ultima vocale di alcuni termini scritti per educare a un linguaggio più inclusivo. L’obiettivo è estirpare il peccato originale dell’Occidente, rivedere, risanare, rimediare alla sua natura imperialista, razzista, misogina, omofoba, antiecologica. In altri termini, bisognerebbe ribaltare la concezione che l’uomo bianco ha di sé e della relazione con l’ambiente che lo circonda, sia esso familiare, politico, sessuale, e così via.

Si appella ai sentimenti e non alla razionalità perché la retorica del politicamente corretto divide la realtà, la storia, gli individui tra bene e male, tra luce e oscurità, e queste opposizioni pretendono adesioni unanimi, non concepiscono alcun relativismo, anzi, presentano evidenze che non possono essere negate.

Siamo tutti schiavi inconsapevoli di una nuova dottrina religiosa? Capozzi afferma che il rischio è proprio questo. L’Italia in particolare, dopo secoli a convivere e poi a combattere con la presenza invasiva della Chiesa sul suo territorio, ora potrebbe sostituire un padrone con un altro: di fatto, il politicamente corretto presuppone un contraltare morale rispetto alle azioni virtuose del singolo, esattamente come la disciplina cattolica delle origini. Ammaestra, punisce, premia le anime indisciplinate e peccatrici in un ritorno senza fine dello spettro bigotto tanto noto agli italiani.

Secondo Capozzi, i processi di secolarizzazione hanno indotto a una nostalgia del sacro che si tenta così di integrare, di recuperare.

Ma la verità è che di fronte a continue incursioni autoritarie rispetto alle pulsioni dell’umano, anticamente e storicamente imperfette, prima o poi potrebbe scatenarsi una controreazione, come è accaduto nel Sessantotto del secolo scorso, quando la società si è ribellata definitivamente al plagio della propria identità da parte di una morale cattolica già compromessa e ha sovvertito l’ordine fino ad allora costituito.

Esiste già un opinionismo che si pone al di là della narrazione mainstream e procede secondo lo slogan “non si può più dire niente”.

L’interventismo nella vita pubblica potrebbe però sopirsi definitivamente. La dissidenza andrebbe così a relegarsi nel privato, nell’intimità domestica, di nascosto e sottovoce, dove un tempo avvenivano le trasgressioni al senso di colpa cattolico, di cui la famiglia e la scuola erano spesso estensioni.

Diventeremmo dei buoni cittadini di facciata, apparentemente attenti all’inclusione, a come si parla, a cosa si dice e a come ci si comporta. Aspetteremmo il momento in cui l’autorità volta le spalle per tirare un sospiro di sollievo e lasciarci andare, e liberarci degli istinti più gretti, delle volgarità, degli insulti, dei pregiudizi.

Il solo modo per tutelare davvero i diritti delle singole minoranze è evitare di frammentare la società in categorie rancorosamente in lotta, suggerisce Capozzi. Bisogna tornare a concordare sul significato di “umano” e dargli un nuovo respiro unitario, universale. Altrimenti la deriva all’orizzonte è quella di un’élite scollata definitivamente da un popolo che la percepisce come dispotica e prevaricatrice, fumosa perché non più politica né intellettuale ma globale, figlia della tecnica e della competenza, del know-how manageriale.

I rancori e le vendette sarebbero allora dietro l’angolo.

Quelli che... la "cancel culture" non esiste. Luigi Mascheroni l'11 Marzo 2022 su Il Giornale.

Appunti a margine di un libro a più mani appena uscito: Non si può più dire niente?, sottotitolo «14 punti di vista su politicamente corretto e cancel culture» (Utet). Primo: il titolo è un po' ruffiano. In realtà sta insinuando che si può dire tutto, che il politicamente corretto è un equivoco e che la cancel culture non esiste, se non nella testa di certa destra. Poi lo leggi e a dispetto della prefazione bipartisan l'impressione è confermata da quasi tutti i saggi (lodevole eccezione, quello di Daniele Relli: «Il re woke. Il politically correct come tribalismo morale»).

Per il resto Non si può più dire niente?, con diverse sfumature, regge la tesi che da noi chi parla di politicamente corretto e cancel culture usa espressioni importate dagli Stati Uniti senza averle comprese e contestualizzate. E poi, sintetizzando all'estremo: un po' di autocensura è il giusto prezzo da pagare in cambio di un linguaggio più sensibile, rispettoso e inclusivo. Che è esattamente il contrario di quanto - da giornalista - mi aspetto dalla parola e dalla scrittura: e cioè la libertà assoluta di dire qualsiasi cosa fino a un millimetro prima del reato di diffamazione. Se sarò maleducato o offensivo verso qualcuno, sarà il mio lettore a girare pagina, non certo un giudice o il tribunale della Buona Coscienza Democratica a spiegarmi cosa posso dire e scrivere. Per il resto, nessuno pensa che il politicamente corretto sia una «dittatura». Semmai ultimamente è una farsa. Che è peggio. E la cancel culture per ora, in Italia, è solo un timore, non un terrore. Anche se giustificato.

Ultimi esempi: il sindaco di Milano, Sala, che chiede a un artista una professione di fede altrimenti non sale sul palco e quello di Firenze, Nardella, che prima normalizza il finale della Carmen per essere più femminista e poi copre la copia del David con un drappo per essere più pacifista. E non diremo dell'uso di asterischi e schwa, il peggior crimine di cui può macchiarsi chi crede nella scrittura. La lingua non si modifica - tanto meno si stupra - per decreto o a colpi di editoriali sulla stampa democratica. Per il resto, non è vero che «non si può più dire niente». Ma è vero che siamo costretti a dire sempre qualcosa in meno. E ciò basta e avanza per essere preoccupati.

Il politicamente corretto diventa grottesca “russofobia”. L'ultima trovata riguarda la vodka, finita all'indice di Bernabei, storico marchio romano del beverage, che ha deciso di bloccare la vendita del distillato russo. Rocco Vazzana Il Dubbio il 5 marzo 2022.

Quando il politicamente corretto sfocia nel grottesco, la censura bellica si trasforma in esplicita russofobia. Non c’è persona, prodotto o animale che non finisca nel mirino di quanti pensano di dare un contributo alla causa antiputiniana colpendo a casaccio. L’ultima trovata riguarda la vodka, finita all’indice di Bernabei, storico marchio romano del beverage, che ha deciso di bloccare la vendita del distillato russo attraverso i propri canali commerciali. Online «è completamente oscurata, non si può ne vedere né comprare, e la vogliamo eliminare totalmente dal nostro catalogo», rivendica il patron dell’azienda.

Ma la vodka, dicevamo, è solo una delle iniziative nate un po’ a casaccio in tutto il mondo. Solo due giorni fa, la guerra allo “zar” si è combattuta sul versante felino. Sì, perché pure i gatti russi vengono esclusi dalle competizioni internazionali per dare un segnale “forte” di fronte ai gatti del resto del mondo. Un trattamento che nemmeno i “colleghi” persiani hanno mai dovuto subire pur provenendo da un Paese in cima alla lista degli “Stati canaglia” stilata dal governo Usa. E dopo aver escluso Mosca dai mondiali di calcio e i club russi dalle competizioni Uefa, è toccato agli atleti paralimpici russi e bielorussi – che ieri avrebbero dovuto inaugurare i Giochi invernali di Pechino (in programma dal 4 al 13 marzo) – scoprire di essere stati estromessi da ogni gara. Un segnale forte che però ottiene un risultato insperato: fornire argomenti alla propaganda putiniana. «Questa situazione è decisamente mostruosa», ha avuto gioco facile nel commentare il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. Grazie a una certa disparità di trattamento, il tennista numero uno al mondo Daniil Medvedev è riuscito invece a scamparla: dopo una scia lunghissima di polemiche e isterismi potrà continuare a gareggiare World Tour (Grand Slam compresi) purché senza bandiera russa. I censori più creativi, però, restano gli italiani. A cominciare dal sindaco di Milano, nonché presidente della Fondazione teatro alla Scala, Beppe Sala, che ha tolto la bacchetta dalle mani del maestro Valery Gergiev.

Il motivo? La mancata abiura al putinismo. E senza prendere nemmeno in considerare eventuali ripercussioni in patria per Gergiev e la sua famiglia, il sindaco di Milano ha stabilito che oggi il maestro non dirigerà La dama di picche di Cajkovskij. Ed è sempre a Milano che va in scena la commedia più ridicola di questa saga. L’università Bicocca chiede allo scrittore Paolo Nori di rinviare un seminario di quattro lezioni gratuite e aperte a tutti su Dostoevskij per «evitare ogni forma di polemica soprattutto interna in quanto è un momento di forte tensione». Un’offesa alla cultura mondiale e anche alla resistenza ucraina, certamente non interessata a bruciare i libri. Sempre che qualcuno non rimproveri ai combattenti pure di difendersi con dei russissimi kalashnikov e delle moscovite molotov.

Cancella gli idioti. I recenti fan di Dostoevskij hanno scoperto oggi la cancel culture nascosta nel sottosuolo. Guia Soncini su L'Inkiesta il 3 Marzo 2022.

La decisione dell’Università Bicocca di fermare (e poi ripristinare) un corso di Paolo Nori sullo scrittore russo è nello spirito di questi tempi scemi, quelli della viltà intellettuale.

Io non capisco cos’aspettino gli autori satirici a fare causa alla realtà per demansionamento. Non so proprio quale altro abisso di mancanza di senso del ridicolo tocchi osservare per decidere che è troppo, che non si usurpa così il mestiere a chi si guadagna la mesata ideando paradossi, non si scippa l’ideazione del delirio a chi è iscritto all’ordine professionale degli immaginatori di scemenze, non quando si è rettori universitari o altre cariche istituzionali. È inaccettabile, cribbio.

Riepiloghiamo queste trentasei ore di romanzetto minore.

Martedì sera Paolo Nori, su Instagram, riferisce d’aver ricevuto una lettera dall’università di Milano-Bicocca, presso la quale dalla settimana prossima dovrebbe tenere un corso, quattro lezioni sui romanzi di Dostoevskij.

Paolo Nori è un romanziere, uno studioso di letteratura russa, un intellettuale che in queste settimane si presta a fare divulgazione sulla lacuna di turno: il tema di cui in queste settimane sentiamo tutti l’urgenza di parlare pur non sapendone un cazzo. Alcuni turni sono più scoperti di altri, questo ha la fortuna d’esser coperto da Nori.

Dostoevskij, invece, è quel romanziere russo che non è Tolstoj: non quello della guerra e della pace, quello del delitto e del castigo (lo preciso per non farvi consumare Google). È, anche, il protagonista dell’ultimo romanzo di Nori, ma guarda un po’: Sanguina ancora, pubblicato da Mondadori. Avrebbe compiuto duecento anni qualche mese fa, Fëdor: ve lo preciso perché, senza consumare Google, possiate annuire e fingere di sapere benissimo che certo, mica è un contemporaneo, mica ha opinioni sull’attualità.

Nori legge a chi lo segue su Instagram le poche righe della Bicocca: «Caro professore, questa mattina il prorettore alla didattica mi ha comunicato la decisione presa con la rettrice di rimandare il percorso su Dostoevskij. Lo scopo è quello di evitare ogni forma di polemica soprattutto interna in quanto momento di forte tensione».

Se siete tra coloro che negli ultimi anni hanno assistito alla presa di potere della viltà intellettuale, non vi meraviglierete più di tanto: evitare polemiche sembra ormai lo scopo ultimo delle università di tutto il mondo. Anche coprendosi di ridicolo: leggere Memorie dal sottosuolo è controverso, perdindirindina, non potremmo sostituire il Dostoevskij col Gogol, che almeno era nato in Ucraina? (Questo non credo stesse nella comunicazione della Bicocca, o almeno Nori non l’ha letto a voce alta: sono io che sto sceneggiando ipotesi, tanto in ’sto delirio è concesso tutto).

C’è solo un modo d’averla vinta, nell’asilo nido che è divenuto il dibattito accademico. Far nascere una polemica reale che sia ancora più fastidiosa di quella potenziale «avete fatto un corso su un autore russo».

Ieri mattina il video di Nori era stato abbastanza diffuso da far dire alla Bicocca che era stato «un misunderstanding» (milanesi, prima o poi toccherà spiegarvi che dirlo in inglese non vi fa sembrare meno fessi – anzi). Il corso era stato ripristinato e la Bicocca aveva diramato un comunicato dall’imbarazzantissima chiusa «La rettrice dell’Ateneo incontrerà Paolo Nori la prossima settimana per un momento di riflessione».

Un momento di riflessione. Pregano insieme? Lui le regala dei bignami di Turgenev? Lei ha un figlio fancazzista e vuole sapere da lui se sia colpa di Oblomov? Lui le consiglia dei consulenti per la comunicazione che le evitino di passare per una deficiente che ritiene controverso un corso su uno scrittore di duecento anni fa? Fanno uno zoom col rettore di Yale che spiega loro quanto siamo in ritardo sulle forte tensioni e gli autori da cui è meglio tenersi lontani – a Yale già nel 2016 consideravano inopportuno Shakespeare, noi italiani sempre derivativi – e istituiscono una commissione di valutazione per stabilire se la peggior figura la si faccia a proibire o a lasciar fare? Lei chiede a lui conto di quella frase di Sanguina ancora che dice «Tutte le Russie sono tre: la piccola Russia, cioè l’Ucraina, la Russia bianca, cioè la Bielorussia, e la Russia Russia, cioè la Russia» e gli intima di rinnegarla? Ogni ipotesi fantasiosa è possibile.

Il fatto è che, mentre noialtri cui premeva far capire quanto fossimo in confidenza con la letteratura russa dell’Ottocento twittavamo spiritosaggini sbeffeggiando la cauta rettrice, là fuori c’era gente cui negli anni è stato detto che mica è necessariamente sbagliato rinnegare le opere se gli autori hanno la fedina penale sbagliata, la nazionalità sbagliata, il genere sessuale sbagliato, le convinzioni morali sbagliate. E quella gente era giustamente confusa. E sì, ci faceva ridere quando qualche carneade twittava che questo Fëdor deve prendere le distanze da Putin (giacché non riusciamo a seguire le istruzioni per montare la libreria Ikea ma ci pare inaccettabile che uno non sappia in che secolo è vissuto un romanziere che noi invece conosciamo); ma – una volta lasciata passare la linea per cui i consumi culturali non si valutano per la qualità delle opere ma per la fedina morale degli autori – perché Brocco75 non dovrebbe pretendere che Cechov faccia dire a Trofimov qualcosa contro Putin?

Il prorettore, ieri, dichiarava che l’equivoco (in milanese: misunderstanding) era dovuto all’idea di ampliare: volevano che Nori aggiungesse autori ucraini (quattro lezioni su Dostoevskij che diventano un bigino su tutta la letteratura di zona). Meccanismo già visto: mica vogliamo abolire Shakespeare, abbiamo sentito dire molte volte nelle università americane, ma ci sarà pure qualche trans d’origine thailandese che valga la pena studiare nella letteratura anglofona del Seicento, basta con ‘sto monopolio dei maschi bianchi.

Ieri il sindaco di Firenze ha twittato il suo fermo rifiuto di rimuovere la statua di Dostoevskij, inaugurata appunto per il duecentesimo compleanno. «Mi hanno chiesto di buttare giù la statua», ha scritto, spiegandoci poi che non bisogna «cancellare secoli di cultura russa». Ho telefonato all’ufficio stampa per sapere chi avesse chiesto a Nardella di abbattere la statua. La rettrice della Bicocca? Gli autori di libri con copertine gialle o azzurre che finalmente hanno accesso alle vetrine Feltrinelli in versione ucraina e non par loro vero che i gesti solidali siano l’anima del commercio? Il fan club di Tolstoj?

Mi ha risposto «dei passanti», e mi è sembrata una risposta pregna di spirito del tempo. Chiunque passa dice una stronzata, e noi gli diamo un turno sul palcoscenico della polemica del giorno. Sia quel chiunque turista che molesta il sindaco, o rettrice che molesta uno scrittore. Comunque vada, polemizzare ci pare più alla nostra portata che studiare la letteratura. Oltretutto, letteratura scritta da gente che neanche sta sui social a spiegarci cosa pensa dell’attualità spicciola.

La "cancel culture" a targhe alterne. Francesco Maria Del Vigo su Il Giornale il 4 Marzo 2022.

L' ondata di russofobia che ha invaso l'Italia e gran parte dell'Occidente, nelle sue forme più parossistiche è stata velocemente rispedita al mittente da gran parte dell'opinione pubblica. Ed è un ottimo segnale. La «cancel culture» è innanzitutto un orrore lessicale, un ossimoro. La cultura dovrebbe, per definizione, aggiungere, certamente non sottrarre e cancellare. La mania dello sbianchettamento ha la ferocia distruttiva dell'Alzheimer, con l'aggravante della selettività: si dimentica a comando solo quello che è scomodo per una certa parte politica. Il politicamente corretto ha smussato buona parte delle intelligenze più acuminate, portando a un rincoglionimento di massa. Basterebbe questo esempio per far calare il sipario: nei giorni scorsi si leggevano sui social battute sull'ipotesi di cambiar nome all'insalata russa e alle montagne russe. Ma la cancel culture supera la fantasia e si autodistrugge, si cancella da sola: negli Usa alcuni pazzi vorrebbero ribattezzare i cocktail altamente putiniani «white russian, «Moskow mule» e la caipiroska. Una roba da ubriachi, appunto. Tuttavia il caso della censura (poi ritirata) nei confronti del corso su Dostoevskij è stato talmente clamoroso e imbecille da aver inorridito tutti. Però è interessante notare come tra quelli che ora s'indignano - giustamente, e lo facciano più spesso! - ci sono alcune categorie che sprofondano in evidenti contraddizioni. 1) I ritardatari. Cioè coloro i quali, dopo aver per anni impugnato la gomma per cancellare tutto quello che non andava loro a genio, adesso, di fronte al dileggio di un mostro sacro, fanno le verginelle e denunciano la barbarie della rimozione culturale. Meglio tardi che mai, ma vedremo la prossima volta, quando la vittima avrà la colpa di essere un po' meno universale, da che parte staranno. 2) I propalatori di balle. La cancel culture è una stretta parente delle fake news. La prima riscrive il passato, la seconda inquina il presente. E fa sorridere che chi giustifica l'invasione in Ucraina, minimizza le violenze russe e cerca ossessivamente capri espiatori a Washington per giustificare Mosca (vecchio vizio rosso), poi si stracci le vesti per il caso Dostoevskij. Che è solo l'ultima declinazione di quei metodi dittatoriali verso i quali si sono sempre genuflessi: rimozione e bugie.

Alla ricerca di indizi sul carattere dell’uomo che tiene un dito sul pulsante nucleare, sono andato a rileggermi l’ultimo capitolo di «Limonov», capolavoro di Carrère. Vi si racconta di quando, nell’estate 1999, con Eltsin ancora al potere, il miliardario moscovita e burattinaio in capo Boris Berezovskij si recò a Biarritz, dove il capo dei servizi segreti Vladimir Putin trascorreva le vacanze con la famiglia, per convincerlo a entrare in politica. L’impresa si rivelò complicatissima, perché Putin oppose una discreta resistenza. Sostenne di non sentirsi all’altezza e di non avere ambizioni di quel genere. «In realtà sai chi vorrei essere, Boris Abramovic?», disse a Berezovskij. «Dimmi, Vladimir Vladimirovic, chi vorresti essere?». «Te». Berezovskij tornò a casa tutto felice e riunì la cupola degli oligarchi, annunciando loro che aveva trovato l’uomo giusto. Un mediocre senza personalità. «Vedrete, ci verrà a mangiare in mano». Solo il vecchio Eltsin, in un barlume di lucidità, bofonchiò: «Io quel piccoletto al Cremlino non ce lo voglio». Poi gli fecero cambiare idea. Un anno e mezzo dopo, Eltsin era in pensione e Berezovskij in esilio. La capacità di fingersi debole per non spaventare i più forti è stato l’indubbio talento di questo principe machiavellico. Ma gli anni passano anche sui caratteri e la speranza è che adesso Putin, per spaventare quelli che ritiene deboli, si stia fingendo più forte di quanto non sia. La Storia ha una certa predilezione per i ribaltamenti di ruolo.

"No al pensiero unico". E nelle scuole Usa scatta la guerra ai liberal. Stefano Magni il 14 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Nelle scuole americane è in corso una lotta per l'educazione tra i gruppi di genitori conservatori che vogliono avere il diritto di decidere in libertà per i propri figli e la compagine liberal che vuole imporre un modello unico.

Dopo anni che si discute della nuova censura negli Stati Uniti, la stampa italiana pare essersene accorta. Ma con i soliti pregiudizi. I casi più clamorosi di cui si parla sui nostri quotidiani sono quello della scuola del Tennessee (Stato sudista e conservatore) che ha eliminato fra i libri consigliati ai ragazzi, su richiesta dei genitori, anche Maus di Art Spiegelman e quello della scuola del Texas (altro Stato sudista) che si sforza di dare “due punti di vista opposti” su tutto, anche sulla Shoah.

Partiamo dal Tennessee: Maus è il celebre libro a fumetti sulla storia della Shoah in cui gli ebrei sono rappresentati come topi e i nazisti come gatti. Non sono mamme gattare che ne hanno chiesto il divieto, ma madri conservatrici, non si direbbero neppure simpatizzanti per il nazismo, ma che considerano il libro e le immagini di Spiegelman non adatte ad un pubblico di bambini. Perché, spesso, si dimentica di dire anche qual è l’età dei destinatari: 12 e 13 anni, perché è di una scuola media che stiamo parlando. Questo dettaglio cambia molto, perché se è vero che è giusto introdurre il tema della Shoah anche fra i bambini, occorre anche vedere come. Ed è legittimo un dialogo fra genitori e insegnanti sull’opportunità di far leggere un fumetto destinato ad un pubblico adulto, per scene di violenza e nudità che contiene. Insomma si fa presto a liquidare l’episodio come un esempio di ignoranza dei sudisti conservatori (e magari anche di un po’ di revival nazista), perché anche un genitore italiano si porrebbe esattamente lo stesso problema.

Arriviamo al Texas, dove la preside di una scuola superiore di Southlake ha dichiarato che, per evitare l’ideologizzazione dell’insegnamento, ogni argomento controverso deve essere letto attraverso testi che esprimano più di un punto di vista. Punti di vista diversi anche sull’Olocausto, chiede l’incredulo insegnante? Anche l’Olocausto risponde l’ignara preside. Ignara della bufera che è esplosa, prima solo nazionale e poi anche internazionale. Ora il Texas è diventato, nel suo insieme, uno Stato di negazionisti, secondo l’opinione pubblica internazionale. Mentre la preside stava sottolineando un problema reale: l’ideologizzazione delle lezioni.

Ideologizzazione e sessualizzazione dell’insegnamento ai minori, fin dalle elementari, sono due problemi su cui i genitori americani si sono risvegliati negli ultimi due anni, soprattutto. Non perché Trump sta galvanizzando un’opinione pubblica di destra o vuole i voti delle mamme, come spesso si legge nei commenti dei quotidiani liberal, ma perché, come spiega Jonathan Butcher, della Heritage Foundation, la didattica a distanza americana ha permesso anche ai genitori di assistere alle lezioni dei figli. E si sono accorti, nella maggior parte dei casi, di pagare la retta per indottrinare i figli ad un’ideologia di estrema sinistra. Progetti come 1619, cioè la riscrittura della storia americana in chiave anti-razzista (il 1619 è l’anno in cui sbarcò il primo carico di schiavi in Nord America e gli anti-razzisti lo considerano il vero anno di nascita degli Usa, nazione “fondata sugli schiavi”) sono diventati anche programmi scolastici in migliaia di scuole, pubbliche e private. La sessualizzazione è l’altra faccia del problema, come constata la Heritage Foundation: "I bambini sono bombardati di contenuti sessuali, non solo sui social media, ma anche a scuola".

In uno scoop dello scorso agosto, la testa di giornalismo d’inchiesta Project Veritas (bannata dai migliori social network), aveva mostrato, in un’intervista con telecamera nascosta, cosa dicesse un professore marxista di una scuola pubblica di Sacramento. Simpatizzante “antifa”, coperto di tatuaggi, vestito come un militante di un centro sociale, spiegava con candore: “Ho 180 giorni per trasformare i miei studenti in rivoluzionari”. Con metodi spicci, come mandarli nelle manifestazioni e premiando gli studenti che si dimostrano più attivisti. “Loro (gli studenti, ndr) fanno un quiz ideologico e io appendo i risultati in classe. Ogni anno, loro diventano sempre più di sinistra. Io penso: queste ideologie sono considerate estremiste, no? Tempi estremi partoriscono ideologie estreme. Giusto? Questa è la ragione per la quale i ragazzi della generazione Z, questi ragazzi, stanno diventando sempre più di sinistra”.

La reazione a questa deriva ideologica (ed è solo la reazione che fa notizia in Italia, non il fenomeno che l’ha innescata) si sta palesando solo negli ultimi mesi, a livello locale e di società civile. A livello locale è la Florida in prima linea, con il governatore Ron De Santis che ha promosso la legge sui Diritti dei Genitori nell’Educazione. Si tratta di una legge che impone maggiore trasparenza sui programmi scolastici e maggior responsabilità nei confronti dei genitori. La legge è stata subito etichettata come discriminatoria nei confronti dei gay (Biden l’ha ribattezzata “Don’t Say Gay”), perché è stata introdotta anche a seguito della protesta contro l’eccessiva sessualizzazione nei programmi scolastici. Le madri conservatrici si sono organizzate in associazioni come le Moms for Liberty, per chiedere maggior trasparenza sui programmi scolastici e più voce in capitolo nei consigli. E soprattutto: più libertà di istruzione, perché l’istruzione pubblica negli Usa non è un monolite come in Italia, ma una rete spontanea di scuole locali, private, nate da attività caritative e pubbliche. E negli anni scolastici del Covid, anche lo homeschooling, l’educazione domestica dei figli, è raddoppiato, passando dal 5,4% all’11,1% delle famiglie con figli in età scolare.

Qui si scontrano due visioni opposte sul futuro della generazione Z. La tendenza dei progressisti, adottata da Biden, è quella di diffondere e potenziare il più possibile la scuola pubblica e rendere i figli indipendenti dai genitori, il prima possibile. Per il progressista (liberal) medio, i problemi sessuali e comportamentali insorgono in famiglia, se ai figli non si impartisce subito una completa educazione sessuale. Viceversa, per i conservatori, l’educazione spetta ai genitori e la scuola è un ausilio. Se l’ausilio esclude i genitori, lì nasce il problema. E semmai i bambini sviluppano problemi sessuali e comportamentali se vengono esposti troppo presto ad un bombardamento di nozioni iper-sessualizzate. Questa è la vera posta in gioco.

Stefano Magni, nato a Milano nel 1976, è un giornalista e saggista. Redattore de La Nuova Bussola Quotidiana, già redattore esteri de L’Opinione. Ha pubblicato, con l’editore Libertates Contro gli Statosauri, per il federalismo (Milano, 2010); Quanto vale un Laogai, gli occidentali e il mistero della Cina (Milano, 2012); i romanzi Piazza Caporetto, controstoria della Grande Guerra (Milano, 2015) e RYAN 1983 (Milano, 2018); per l’editore Rubbettino ha tradotto e curato l’edizione italiana del classico di scienza politica Stati Assassini (Soveria Mannelli, 2005) di Rudolph J. Rummel; con la Fondazione Magna Carta ha pubblicato il libro inchiesta It’s Tea Party Time (Roma, 2011); con le edizioni Istituto Bruno Leoni ha curato e tradotto This Lady is not for Turning, i grandi discorsi di Margaret Thatcher (Milano, 2013) e ha tradotto Storia e cambiamento sociale (Milano, 2017) di Robert Nisbet, vincitore del Premio Amerigo 2018. Dal 2016 è Research Assistant presso la Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell’Università degli Studi di Milano

Alabama, stop "cancel culture". Legge a tutela dei monumenti. Marco Valle l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La proposta: "Fino a 20 anni di cella per chi danneggia durante una rivolta. E 5mila euro di multa al giorno".

Da qualche anno negli Stati Uniti le statue «politicamente scorrette» in particolare quelle dei generali della Confederazione defunta nel lontano 1865 e del povero Cristoforo Colombo vengono giù come le olive durante la bacchiatura, perdono letteralmente la testa, imbrattate, buttate tra le onde o gettate nelle discariche.

Tutto ha avuto inizio a Baltimora nel 2017, quando il sindaco Catherine Pugh rimosse di notte e in tutta fretta la statua del generale Lee tirandola giù dal piedistallo dal quale per oltre 130 anni aveva scrutato la metropoli. La follia è proseguita poi in altre città grandi e piccole. All'inizio del 2020, dopo la morte dell'afro-americano George Floyd e l'incattivirsi della mobilitazione anti Trump, l'ondata si è trasformata in uno tsunami che nulla risparmia. A Dallas è stato necessario proteggere con un robusto cordone di sicurezza il Cimitero della Guerra Civile, il sacrario dei caduti locali della Confederazione, assalito dai militanti «antirazzisti» decisi a prendersela anche con lapidi e monumenti funebri.

È la cancel culture, un'ondata d'iconoclastia amplificata dal movimento Black lives matter. Nel mirino dei cancellatori appoggiati fragorosamente dal partito democratico e da quasi tutti i media sono finite statue, bandiere, quadri, strade, feste, tradizioni. Basta con i monumenti, interdette le bandiere, le festività (compreso l'incolpevole Colombus day). Persino Via col vento nonostante l'Oscar a Hattie McDaniel, prima donna di colore a vincere il premio è finito dietro la lavagna. Poi la caccia è continuata nelle università: proibiti Shakespeare, Euripide, Eschilo, Kipling, Dante e ogni altro autore «scorretto». L'obiettivo è ripulire l'immondo passato per trasformare il mondo in una pagina bianca e ripartire da un imprecisato anno zero della purezza. Lo stesso stile e il medesimo obiettivo delle dittature comuniste e delle teocrazie più cupe.

Per fortuna, qualcuno ragiona e reagisce. È il caso dello stato dell'Alabama, il cuore profondo di Dixie. Già nel 2017 il Senato locale aveva varato, per merito del repubblicano Gerard Allen, il Memorial Preservation Act, una legge che vietava esplicitamente «il trasferimento, la rimozione, l'alterazione o qualsiasi altra forma di danneggiamento contro i monumento esistenti da 40 anni o più». Per le amministrazioni comunali che non rispettavano le norme era prevista una multa una tantum di 25.000 dollari. Un segnale forte che però non ha scoraggiato gli iconoclasti e i loro sponsor politici. Nonostante la legge, hanno perseverato nella crociata, abbattendo in questi anni altri dodici monumenti.

Ma il senatore Allen è un tipo tosto ed è tornato alla carica con un nuovo disegno di legge che prevede multe salatissime per chiunque (amministratori o manifestanti) rimuova «il patrimonio monumentale»: 5000 dollari di multa per ogni giorno che passa prima che l'installazione sia ripristinata «in ottimo stato». In più, se la statua viene danneggiata durante una rivolta o un «raduno illegale», il reato diventa un crimine di classe B con una pena prevista di 20 anni di carcere. Martedì scorso, con un solo voto contrario, il progetto è stato approvato dalla commissione per gli affari governativi dello Stato. Il prossimo passo sarà nell'aula del Senato, dove i democratici hanno promesso battaglia. Ma Gerard Allen non demorde e si dichiara ottimista al punto da proporre agli avversari l'erezione a Selma di una statua per il defunto leader afroamericano John Lewis. Un ramoscello d'ulivo in una mano guantata. Marco Valle

Il pericoloso ritorno dei libri proibiti. Negli Usa sempre più genitori vorrebbero bandire alcuni libri nelle scuole. Ci sono continue richieste secondo il New York Times che racconta un fenomeno che passa dai tribunali. CHIARA PIZZIMENTI su Vanityfair l'8 febbraio 2022.  

In Wyoming un procuratore provinciale ha ipotizzato accuse contro impiegati di librerie che avevano sui loro scaffali volumi come Questo libro è gay. In Oklahoma è stata presentata una legge per proibire alle biblioteche delle scuole pubbliche di avere libri sul sesso, sull'identità sessuale o di genere. In Tennessee l'ultimo caso che riguarda una graphic novel famosa in tutto il mondo, MAUS, di Art Spiegelman. Il consiglio sull'educazione della contea di McMinn ha votato per rimuovere questo libro premiato con il Pulitzer da un programma scolastico sull'olocausto per nudità e parole volgari.

Sono solo alcuni degli esempi che il New York Times riporta in un articolo in cui racconta una pericolosa tendenza che sta riprendendo piede negli Stati Uniti: elenchi di libri proibiti con numeri che non si vedevano da decenni. L'American Library Association ha fatto sapere di avere 330 report di contestazioni ognuno con all'interno più di un libro, lo scorso autunno.

«Qui negli Usa è un fenomeno molto evidente quello del ritorno all'indice dei libro proibiti con il tentativo di mettere sotto processo librai e bibliotecari che li propongono» spiega Suzanne Nossel, che guida l'organizzazione per la libertà di espressione PEN America. Finora questi tentati di messa sotto accusa non sono riusciti, ma il clima non è positivo secondo l'organizzazione che si scaglia contro i gruppi conservatori che stanno uscendo dai consigli scolastici per arrivare alla politica locale sostenendo questi temi.

I libri più spesso messi all'indice ci sono quelle che riguardano tematiche razziali, di genere e sessualità. Fra questo anche testi notissimi come L'occhio più azzurro, il primo romanzo della scrittrice afroamericana Toni Morrison. «Non sapevo nemmeno che si potesse fare causa in questo modo per un libro» spiega George Johnson, autore di All Boys Aren’t Blue di cui è stata chiesta la rimozione in 14 stati.

Chi insiste per togliere questi libri dagli scaffali li ritiene radicali e ideologizzati. Vale per esempio per The Handmaid’s Tale di Margaret Atwood. Queste persone vogliono far prevalere il diritto dei genitori a crescere i figli secondo le proprie idee, non pensando che eliminare questi libri toglie ad altri il diritto di crescere in libertà i figli.

Alcune biblioteche hanno già meccanismi per cui alcuni libri non sono accessibili ai ragazzi in base alle scelte dei genitori. Laurie Halse Anderson, autrice di libri young adult, ricorda che attaccare questi libri significa rimuovere anche una possibilità di confronto aperto sulle tematiche che trattano.

Tiffany Justice fondatrice di Moms for Liberty, Mamme per la libertà, dice che un genitore non dovrebbe essere attaccato perché si chiede se un libro è appropriato. In particolare per libri in cui c'è sesso in diverse forme è il genitore a dover scegliere perché i figli non abbiano conseguenze sullo sviluppo della loro sessualità.

Christopher M. Finan, direttore esecutivo della National Coalition Against Censorship, dice che non si vedeva un livello tale di richieste di censura dagli anni Ottanta. E ora il movimento è amplificato dai social media. Non sono solo libri recenti a finire sotto accusa. Ci sono anche classici come Uomini e Topi e Il buio oltre la siepe (per l'utilizzo di termini razzisti) fra i 10 più messi in discussione del 2020.

"Gettate quei libri nel fuoco". La guerra che mette all'indice il sapere. Alberto Bellotto il 6 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Gli Stati Uniti sono nel bel mezzo di una guerra culturale. Il mondo progressista e quello conservatore sono impegnati in una battaglia che ha il suo terreno di scontro nelle scuole. L’oggetto al centro di queste schermaglie sono i libri. Definiti osceni da qualcuno, volgari da altri e per molti razzisti.

L’ultimo a finire all’indice dei libri proibiti è stato "Maus", la celebre graphic novel di Art Spiegelman sull’Olocausto. Il consiglio scolastico della contea di McMinn, in Tennessee, il 10 gennaio scorso ha deciso di bandirlo dal curriculum di studio di una terza media perché all’interno ci sarebbero immagini inappropriate come dei nudi femminili. La vicenda di McMinn non è un caso isolato. Come tanti piccoli fuochi in molti consigli scolastici si è aperta la battaglia sui libri da vietare.

All’inizio dell’anno nella contea di Spotsylvania, in Virginia, è andato in scena uno scambio emblematico di questa “guerra”. La madre di un bambino si è avvicinata a un microfono e ha spiegato come tutti i ragazzi della scuola siano esposti alla “pornografia”. Nel mirino della donna è finito “Chiamami con il tuo nome” di André Aciman, poi diventato un film diretto da Luca Guadagnino, e “33 Snowfish”. “Cercando nel catalogo online della biblioteca locale”, ha detto la mamma, “ho trovato 172 risultati per libri che includono la parola “gay”, 84 risultati per libri con la parola “lesbica” e soltanto 19 risultati per libri con la parola “Gesù” – ma la metà di questi è sui musulmani”.

Alla donna ha fatto eco un altro membro del consiglio dicendo “penso dovremmo gettare quei libri nel fuoco”. Un’esagerazione che richiama anni bui della storia occidentale, ma che purtroppo ha anche avuto un seguito grottesco. Nel vicino Tennessee un pastore ha letteralmente bruciato i libri di Harry Potter e Twilight con l’accusa di stregoneria. Eccessi che forse offuscano quello che realmente c’è dietro a questa battaglia. L'esito delle riunioni del consiglio ha portato a una massiccia revisione dei libri in mano al distretto: le cinque biblioteche che lo compongono hanno 65mila titoli e per settimane una squadra di 30 persone è stata posta alla revisione dei contenuti ritenuti inappropriati.

La battaglia negli Stati repubblicani

C’è un primo livello, quello politico cavalcato da entrambi i partiti, e poi uno quotidiano, formato da genitori preoccupati per l’educazione dei figli. Partiamo dalla dimensione politica. L’impulso a cancellare i libri non è oggi una cosa solo di destra, o solo di sinistra. Ma il percorso di cancellazione arriva da strade diverse.

Negli ultimi due anni l’universo conservatore ha puntato il dito soprattutto contro i testi della Critical race theory e del mondo lgbt, considerati indottrinanti quando palesemente anti-americani. In molti Stati “rossi” sono spuntate norme e battaglie scolastiche per porre un freno a questi testi, per toglierli dalle biblioteche scolastiche. Si tratta di Texas, Ohio, Wyoming, Utah, Oklaoma, ma anche Florida e la Virginia. Nel Lone Star State c’è il gruppo di repubblicani più agguerrito. Il governatore Greg Abbott ha lanciato un’inchiesta per verificare addirittura “attività criminali” che coinvolgano la “pornografia” nella vuole. Un deputato statale del Gop, Matt Krause ha stilato un elenco di 850 libri sui quali servono “verifiche”. Nel distretto scolastico di Goddard, in Kansas, ben 29 libri sono stati tolti dopo queste verifiche.

Questi controlli riguardano quelli che vengono considerati contenuti espliciti dei libri, che nel caso repubblicano riguardano storie con al centro tematiche gay e abusi sessuali. E così a finire nel mirino ci sono libri come "Il racconto dell'ancella" di Margaret Atwood o "Tra me e il mondo" di Ta-Nehisi Coates. Chiaramente la politica conservatrice punta sulla moralizzazione delle scuole perché sa bene che in un anno elettorale come il 2022 ogni battaglia culturale sarà utile per superare i democratici alle elezioni di metà mandato e metter così in difficoltà una presidenza già traballante come quella di Joe Biden.

I precedenti

Eppure questa battaglia moralizzatrice non è nuova. La lotta a contenuti scabrosi parte da lontano, ma è sufficiente fermarsi agli anni ’80 per capire come i contenuti espliciti, che fanno scandalo, non siano una novità. All’epoca una violenta critica contro il linguaggio esplicito di alcune canzoni di Prince convinse la moglie di un deputato del Tennessee, Al Gore (futuro vicepresidente di Bill Clinton) a ingaggiare una battaglia contro contenuti volgari che portò alla nascita delle famose etichette Parental Advisory sui dischi con contenuti inappropriati.

Un po’ come allora oggi il ruolo dei genitori resta centrale al di là dei movimenti dei partiti. E appunto si gioca nell’azione quotidiana nei consigli scolastici. L’elezione a governatore della Virginia di Glenn Youngkin è un caso emblematico. Nel corso della campagna elettorale Youngkin si è fatto portavoce di quelle famiglie preoccupate per l’educazione dei figli. La pandemia, e soprattutto la didattica a distanza, hanno portato molte madri e padri a stretto contatto con gli studi dei figli e questo ha iniziato ad incrinare il rapporto con l’istruzione e i libri che vengono consigliati a scuola.

Il Washington Post ha raccolto le opinioni di molti di questi “genitori attivi”. Uno di loro Latham, ha spiegato candidamente come “dovrebbe essere una scelta dei genitori esporre i propri figli a contenuti sessuali. Se un libro è in biblioteca, non ho più questa scelta”. Ad onor del vero in molti distretti è possibile per i genitori imporre blocchi chirurgici ai propri figli e le biblioteche sono attrezzate a vietare questo o quel libro al singolo studente. Ma questo per molti non è sufficiente.

Anche la sinistra vieta

A sinistra la situazione non è migliore. Qui la tendenza a voler cancellare o eliminare i libri arriva dalle Università, dai grandi circoli liberal. A finire nel mirino sono stati soprattutto i classici. Due fra tutti sono stati casi emblematici: “Le avventure di Huckleberry Finn” di Mark Twin e “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee. Giudicati troppo bianchi e soprattutto troppo razzisti per avere dignità di lettura e dignità di restare in una biblioteca. Il libro della Lee per molto tempo è stato introvabile in un distretto dello Stato di Washington.

La differenza tra la destra e la sinistra sta forse nei principi che guidano questa battaglia ai libri. Principi che si inseriscono nella grande spaccatura della società americana. I liberal sono concentrati soprattutto in un’intesa opera di riscrittura della storia, nella volontà di cancellare simboli di un passato complesso e a tratti controverso. Pensiamo solo alla battaglia per togliere e rimuovere le statue, ultime in ordine di tempo quella del padre fondatore Thomas Jefferson o del presidente Teddy Roosevelt.

A destra invece ci si concentra di più sulla preservazione del passato. Non è un caso se qualche mese fa il vicegovernatore del Texas sia intervenuto in prima persona per bloccare una presentazione del libro “Forget the Alamo”. Un testo storico che revisiona il ruolo dei patrioti americani uccisi da truppe messicane nel 1854.

© Fornito da Il Giornale Una scena del film "Il buio oltre la siepe" tratto dal romanzo di Harper Lee

Lo spettro dell’anti-intellettualismo

Come abbiamo visto la spinta a voler eliminare i libri parte da molto lontano, ancora prima che la società americana si spaccate così tanto. E si insinua in quella tensione tra élite colte e classi popolari con livelli di istruzione più bassi. Per quasi tutto il Novecento il pensiero americano è stato affascinato dall’antiintellettualismo. Nel 1964, Richard Hofstadter vinse il premio Pulitzer per un libro dal titolo eloquente: “L’anti-intellettualismo nella vita americana”. Un trattato in cui si delinea come in tutta la storia del paese sia percorsa dalla diffidenza nei confronti delle élite e della tecnocrazia. Diffidenza riesplosa con gli anni della crisi e sublimata nell’elezione di un presidente di rottura come Donald Trump.

Oggi il nuovo-vecchio obbiettivo sono i libri. Da cancellare se il passato e ingombrante, o da eliminare se questo rappresenta una critica alle contraddizioni del sogno americano. Quello che è certo è che sta emergendo una nuova classe di famiglie americane che colpite nel vivo vogliono continuare a coltivare l’unicità del mito americano proteggendo i figli dai dolori e dalle violenze del mondo. Un tentativo forse lodevole ma difficile.

Baron Braswell è un consulente finanziario e pastore afroamericano. Ha 60 anni e vive in Virginia. Intervenendo nel consiglio scolastico della sua contea ha chiesto di riammettere tutti i libri, quelli con contenuti sessuali espliciti e quelli più “razzisti”. “Quando ero al liceo negli anni '70”, ha raccontato, “mi sono imbattuto nella lettura di “Huckleberry Finn”e per la presenza della N-Word l’ho ritenuto offensivo, ma i miei genitori non si sono mai lamentati in casa del libro e allo stesso tempo io non ho mai manifestato particolare disagio”. “Sono contento”, ha aggiunto, “che mia madre mi abbia permesso di leggerlo”.

Forse il pensiero di Braswell potrebbe aiutare molti, a sinistra come a destra, a decidere cosa fare con questo o quel libro “difficile”: “So chi sono, e non lascerò che ‘Huckleberry Finn’ mi definisca come persona, non è mai stato così. Ma era una storia interessante”.

"Razzista": e la cancel culture elimina il Premio Pulitzer. Roberto Vivaldelli su il Giornale il 28 Gennaio 2022.  

Per chi non lo conoscesse, Edward O. Wilson, morto lo scorso 26 dicembre, è stato un biologo statunitense di fama mondiale. Fondatore della sociobiologia, docente ad Harvard nel 1956, nella sua carriera Wilson ha fatto una serie di importanti scoperte scientifiche, inclusa quella secondo cui le le formiche comunicano principalmente attraverso la trasmissione di sostanze chimiche, i feromoni. Nel 1971 ha pubblicato The Insect Societies, il suo lavoro definitivo sulle formiche e altri insetti. Il libro ha fornito un quadro completo dell'ecologia, della dinamica della popolazione e del comportamento sociale di migliaia di specie. Nel celebre In Human Nature (1978), per il quale ha ricevuto un Premio Pulitzer nel 1979, Wilson ha discusso l'applicazione della sociobiologia all'aggressività umana, alla sessualità e all'etica. Un intellettuale fondamentale, ora preso di mira dai fondamentalisti del politicamente corretto che vorrebbero ridiscutere e rivedere la sua autorevolissima figura.

Wilson accusato di razzismo

A poche settimane dalla sua morte, come riporta Il Foglio, la rivista Scientific American ha pubblicato un articolo piuttosto controverso contestato da numerosi scienziati, nel quale il celebre biologo viene accusato e tacciato di razzismo. Nel suo editoriale, Monica R. McLemore, professoressa associata presso il Dipartimento di infermieristica per la salute della famiglia e studiosa presso l'Advancing New Standards in Reproductive Health all'Università della California, San Francisco, spiega come New Synthesis di Wilson abbia "contribuito alla falsa dicotomia tra natura ed educazione" e lanciato l'idea che le differenze tra gli esseri umani potrebbero essere spiegate dalla genetica, dall'ereditarietà e da altri meccanismi biologici. "Scoprire che Wilson la pensasse in questo modo è stata una grande delusione" osserva McLemore. Il biologo americano, afferma, "era sicuro delle convinzioni problematiche. I suoi predecessori - il matematico Karl Pearson, l'antropologo Francis Galton, Charles Darwin, Gregor Mendel e altri - non erano da meno e pubblicarono anche loro opere e teorie piene di idee razziste sulla distribuzione della salute e delle malattie nelle popolazioni, senza alcuna attenzione al contesto".

Ma la cosa più grave è che questo processo ideologico e mediatico avviene senza che l'interpellato, deceduto lo scorso dicembre, possa quantomeno difendersi dalla nuova inquisizione della correttezza politica. Un fatto grave, a maggior ragione perché le accuse arrivano da una rivista che si considera generalmente scientifica e autorevole. Le idee e le teorie di Wilson possono essere riviste, messe in discussione e rivisitate, ma etichettarlo come "razzista" e gettarlo nella pattumiera nella storia è un abominio tipico della cancel culture.

"Non è razzista credere nelle differenze genetiche"

A smascherare i deliri buonisti della rivista americana ci ha pensato il deputato conservatore Daniel Finkelstein sul The Times, il quale ha sottolineato il fatto che credere nelle differenze genetiche non sia affatto sinonimo di "razzismo" come i progressisti identitari vorrebbero far credere. Nel novembre del 1978, ricorda Finkelstein, una donna si avvicinò al massimo esperto mondiale di formiche e cominciò a versargli una brocca d'acqua sulla testa. L'episodio accadde durante un incontro dell'American Association for the Advancement of Science, e lo scienziato contestato era proprio Edward O Wilson, che stava per tenere una conferenza sulla sociobiologia, un campo in cui era un pioniere. "Fu un attacco alla verità, alla libertà di pensiero e allo sforzo scientifico. E l'attacco non è ancora finito. Rimane del lavoro da fare per resistergli" spiega Finkelstein. L'editoriale scomposto di Scientific American ne è la dimostrazione.

«Non resterà più nessuno». Isabel Allende difende la memoria di Pablo Neruda dalla cancel culture latinoamericana. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 28 Gennaio 2022.

Durante la presentazione del suo nuovo romanzo “Violeta”, la scrittrice cilena ha chiesto ai gruppi femministi di non eliminare ogni traccia del grande poeta, ma di sostenere la revisione della storia «in modo che sia raccontata come dovrebbe essere raccontata»

«Se ci mettiamo a tagliare teste, non resterà più nessuno». Forse Isabel Allende ha voluto saldare un antico debito, quando ha approfittato della presentazione del suo ultimo libro per scendere in campo contro la Cancel Culture e difendere Pablo Neruda dall’offensiva che le femministe gli hanno lanciato contro come stupratore confesso.

Lei stessa ha raccontato che da giovane era stata contattata dal poeta Premio Nobel. La convocò, le disse che seguiva con attenzione i suoi articoli, e sparò: «Lei deve essere la peggior giornalista di questo Paese, figliola. È incapace di essere obiettiva, si mette al centro di tutto, sospetto che mente abbastanza, e quando non ha la notizia, la inventa. Perché non si dedica piuttosto a scrivere romanzi? Nella letteratura questi difetti sono virtù».

In teoria terrificante, ma i due la presero a ridere, divennero amici, lei seguì il consiglio, ed in effetti divenne un grande fenomeno editoriale. Un esempio di fusione tra tecniche di letteratura di genere e la lezione dei grandi del boom latino-americano che può far arricciare il naso a chi i libri di García Márquez, Vargas Llosa o Cortázar li ha letti, e che però offre effettivamente qualcosa di molto più articolato del solito a un pubblico di lettori, e soprattutto lettrici, spesso al livello di Collana Harmony.

Anche il suo ultimo romanzo “Violeta”, in vendita anche in Italia dal 3 febbraio, si presenta con una chiave simile. La storia sentimentale di una donna, in sé, sarebbe letteratura rosa, e Isabel Allende lo ha detto spesso che le piacerebbe scrivere storie puramente rosa.

Però Violeta campa cent’anni, evocando così quelle matriarche di “Cent’anni di solitudine” recentemente citate anche dal disneyano “Encanto”. Il libro ha riferimenti alla lotta femminile per l’emancipazione che fanno impegnato, alludono a quel che sta succedendo nel Cile di oggi. E comunque una vicenda che parte dalla Spagnola del 1920 per arrivare al Covid del 2020 dà un tocco di attualità ulteriore.

Più di un tocco, anzi, se si pensa che grazie anche all’onda lunga dello smartworking avviata dalla pandemia la stessa presentazione del nuovo romanzo è stata fatta da Isabel Allende in modalità virtuale, a un pubblico di giornalisti sparso per il pianeta. Inevitabile parlare dunque anche di Me Too e Cancel Culture. E in Cile questo riguarda anche la mobilitazione femminista che si è risollevata l’anno scorso, contro la proposta di intitolare a Pablo Neruda l’aeroporto internazionale di Santiago del Cile.

Pablo Neruda è stato un leader del Partito Comunista cileno. Senatore nel 1945, fu costretto ad andare in esilio dopo la messa fuori legge del Pccch, e finì anche in Italia. È la storia raccontata nel romanzo del 1986 di Antonio Skármeta “Il postino di Neruda”, da cui il film del 1994 con Massimo Troisi.

Nel 1969 fu anche candidato comunista alle primarie di Unidad Popular, assieme a altri tre tra cui la spuntò il socialista Salvador Allende. E fu Nobel per la Letteratura nel 1971, dopo essere stato Premio Lenin per la Pace nel 1953.

La polemica pinochettista ha ovviamente accusato Allende di portare il Cile verso il comunismo, ma la realtà è che il Partito Comunista del Cile esprimeva una linea di moderatismo togliattiano che fu spiazzata dall’estremismo del governo allendista.

Neruda si era infatti candidato anche nel tentativo di dare a Unidad Popular una linea responsabile, e come attestano vari conoscenti lui in privato era piuttosto critico per la piega che stavano prendendo le cose. Pinochet non ebbe il coraggio di toccarlo apertamente, ma la sua morte in ospedale proprio 12 giorni dopo il golpe apparve sospetta: anche se stava comunque male per un cancro alle prostata, e il dolore per la tragedia politica non doveva essere passato senza conseguenze. Varie testimonianze riportano però di un aggravamento dopo una iniezione. Su questa base, nel 2013 e 2015 sono stati fatti esami sulla salma. Non sono state trovate tracce di veleni, ma la seconda volta si riscontrarono proteine dubbie.

Da qui una dichiarazione del governo cileno dell’epoca, secondo cui è probabile che Neruda non sia morto «a causa del cancro alla prostata di cui soffriva», e che «risulta chiaramente possibile e altamente probabile l’intervento di terzi», concludendo che al paziente «fu applicata un’iniezione o gli fu somministrato qualcosa per via orale che ha fatto precipitare la sua prognosi in appena sei ore». Ma c’è il dubbio se anche questa non sia stata una presa di posizione prettamente politica.

A ogni modo, prima di darsi alla politica e di emergere come poeta, Pablo Neruda era stato diplomatico, e con Allende lo sarebbe ridiventato per un paio di anni, dirigendo tra il 1970 e il 1972 l’ambasciata a Parigi. Tra gli anni ’20 e ‘30 era stato console tra Giava, Birmania e Ceylon. A suo dire, soprattutto per mettere la firma a cospicue spedizioni di tè, di cui i cileni sono tradizionalmente grandi consumatori. Tè e pane era in Cile la tradizionale cena di chi era troppo povero per permettersi due pasti al giorno.

Nella sua autobiografia “Confesso che ho vissuto” racconta appunto di quando era console del Cile a Colombo, e stava in un bungalow il cui gabinetto scaricava in «un semplice cubo di metallo sotto il buco rotondo». «Il cubo ogni giorno, di buon mattino, riappariva pulito – scrive – senza che riuscissi a capire come sparisse il suo contenuto. Una mattina mi ero alzato più presto del solito. Rimasi sbalordito vedendo cosa stava succedendo. Dal retro della casa, come una statua scura che camminava, entrò la donna più bella che avessi fino a quel momento visto a Ceylon, di razza tamil, della casta dei paria. Era vestita di un sari rosso e dorato, della tela più ruvida e grossolana. Sui piedi scalzi, portava pesanti cavigliere. Ai lati del naso le brillavano due puntini rossi. Saranno stati fondi di bicchiere, ma su di lei parevano rubini. Si diresse con passo solenne verso il gabinetto, senza neppure guardarmi, senza curarsi della mia esistenza, e scomparve con il sordido recipiente sulla testa, allontanandosi con il suo passo da dea».

Colpo di fulmine! «Era così bella – prosegue – che malgrado il suo umile lavoro mi lasciò turbato. Come se si trattasse di un animale scontroso, venuto dalla giungla, apparteneva a un’altra vita, a un mondo separato. La chiamai senza risultato. Poi qualche volta, sulla sua strada, le lasciai qualche regalo, seta o frutta. La donna passava senza sentire né guardare. Quel tragitto miserabile era stato trasformato dalla sua oscura bellezza nella cerimonia obbligatoria di una regina indifferente. Un mattino, deciso a tutto, l’afferrai per un polso e la guardai faccia a faccia. Non c’era nessuna lingua in cui potessi parlarle. Si lasciò guidare da me senza un sorriso e a un tratto fu nuda sul mio letto. La sottilissima vita, i fianchi pieni, la traboccante coppa del seno, la rendevano identica alle millenarie sculture del Sud dell’India. Fu l’incontro di un uomo e di una statua. Rimase tutto il tempo con gli occhi aperti, impassibile. Faceva bene a disprezzarmi. L’esperienza non venne più ripetuta».

Molto letterario, in realtà, e a quanto ne possiamo sapere potrebbe benissimo essere stata inventata. Ma, insomma, è la confessione di uno stupro. Uscita postuma nel 1974, quindi ormai senza più possibili conseguenze penali. Ma era stata di fatto come dimenticata, e nel 2016 dopo l’esumazione era stato fatto un nuovo funerale che era stata una celebrazione del poeta, probabile martire.

Proprio su quell’ondata emotiva nel novembre del 2018 era venuta dalla Camera la richiesta di intitolargli l’aeroporto della capitale. Ma nell’ottobre del 2017, dal caso Weinstein, era intanto montato il movimento , e il poeta da allora ne è stato investito in pieno.

Una brutta gatta da pelare per il prossimo presidente Boric: da una parte è salutato come l’erede di Allende, una nipote del presidente sarà suo ministro della Difesa, e Neruda è uno dei simboli di quel periodo; dall’altra è stato però eletto nell’ambito di una mobilitazione che è stata anche femminista, e avrà 14 ministri donna su 24.

«Forse la cosa più saggia sarebbe che la storia venisse insegnata come dovrebbe essere insegnata, non solo come raccontata dal vincitore, che di solito è l’uomo bianco, ma come raccontata dagli sconfitti, le voci silenziate, che sono quelle che devono essere portate nei testi di storia», ha detto dunque Isabel Allende. «Ma non puoi sempre eliminare quei simboli che ci ricordano quel passato, puoi piuttosto rivedere quel passato».

Nel dettaglio: «Neruda confessa di aver violentato una donna e le femministe cilene vogliono eliminare Neruda, ma una cosa è l’uomo che sbaglia, e tutti sbagliamo, e un’altra cosa è il lavoro. Se nel caso di un artista come Neruda vogliamo mantenere quello che ha fatto, rivediamo la sua vita privata, ma non eliminiamo tutto, perché altrimenti nessun burattino rimarrà con la testa». Ecco il consiglio dunque ai paladini della Cancel Culture: «Non eliminiamo la storia, andiamo a rivederla in modo che sia raccontata come dovrebbe essere raccontata».

Piuttosto che al passato, Isabel Allende ha consigliato di guardare al presente. Scrittrice che anche per il cognome è spesso associata a una certa mitologia della sinistra latinoamericana, la nipote di Allende ha mostrato di condividere le preoccupazioni di chi vede in questa sinistra ormai troppe involuzioni autoritarie.

Dopo aver firmato un appello contro la repressione a Cuba, nella conferenza di presentazione del libro ha ricordato la persecuzione che ha costretto all’esilio dal Nicaragua lo scrittore Sergio Ramírez, che del dittatore Daniel Ortega era stato addirittura vicepresidente. Ha denunciato anche la situazione in Venezuela, dove era andata in esilio dopo il golpe in Cile.

Se il suo primo romanzo “La casa degli spiriti” è in pratica il tentativo di scrivere una nuova “Cent’anni di solitudine” passando dall’ambientazione colombiana a un’ambientazione cilena e con una eroina donna che narra in prima persona (con qualche elemento ripreso dal “Gattopardo”), dopo l’altra storia cilena “D’amore e ombra” il suo terzo best-seller “Eva Luna” ripete il meccanismo con un’eroina venezuelana e sullo sfondo appunto della storia venezuelana. «Io ho conosciuto un Venezuela molto diverso da quello che c’è ora, e anche se non era un mondo ideale, quello che sta succedendo in Venezuela oggi è molto triste».

Cancel culture, l'ignoranza va in cattedra.  Marco Gervasoni il 23 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Quando cominciò la cancel culture, se vogliamo chiamarla cultura, si trattava di folle di ragazzotti che assalivano i monumenti, davanti alla polizia silente. Ora la barbarie si è istituzionalizzata: sono gli stessi rettori di università e direttori di musei a far sparire dalle collezioni opere che potrebbero «urtare la sensibilità» (questa è la formula magica) o proprio ad espellere statue dai loro atenei o dai loro musei. É toccato a uno dei più grandi presidenti americani, Theodore detto Teddy, Roosevelt che, nonostante sia passato più di un secolo e la memoria corta degli americani, è ancora ben presente nel loro immaginario.

La sua statua equestre al Museo di Storia Naturale di New York, celebre anche perché immortalata in diversi film, è stata restituita alla famiglia. La sua colpa: mostrare il presidente a cavallo, e un pellerossa e un afro americano in piedi: non in ginocchio adoranti, ma in piedi, e dalla postura dignitosa. Ma che importa? Le varie associazioni contro il razzismo hanno protestato e la direttrice del Museo e l'allora sindaco di New York, il tragico Bill De Blasio, hanno accettato entusiasti.

Ora povero Roosevelt: lui che era uscito dal Partito repubblicano per formare un Partito chiamato progressista, si trova buttato nella polvere dai progressisti di oggi, suoi indegni eredi. Era un suprematista bianco Roosevelt? Veramente per i lavoratori, anche neri, da presidente fece molto e comunque era molto meno razzista del suo successore, il democratico Woodrow Wilson, sotto la cui presidenza ebbe vita florida e sviluppo il Ku Klux Klan e che nei suoi scritti e discorsi teorizzava la supremazia biologica della razza bianca.

Tutta questione di ignoranza, a cui rimediare invitando a studiare la storia? Non è cosi semplice e semmai ciò valeva quando a buttare giù le statue erano le mob di studenti teppisti usciti dalle scuole americane, di solito pessime.

Quando a farlo invece sono rettori e direttori di musei l'ignoranza non è più una motivazione. L'ideologismo certo, il progressismo democratico, senza dubbio. Ma anche i democratici del New Deal e di Kennedy erano progressisti, ma non per questo distruggevano le statue. No, la cancel culture va interpretata come una sorta di movimento religioso secolarizzato, non a caso attecchito in paesi a vocazione protestante: che intende distruggere il passato per affermare il mondo nuovo, rigenerato, quello in cui tutti saremo uguali. Un sogno che in genere, come la storia ci ha dimostrato, si trasforma prestissimo in un incubo. Marco Gervasoni

Maurizio Zottarelli per “Libero quotidiano” l'11 gennaio 2022.

Le parole del Papa di solito rischiano di fare la fine dei numeri dei sondaggi, dei quali ognuno sceglie quello più utile alla sua interpretazione. Quando Francesco parla di povertà, integrazione, oppure immigrazione scala la classifica dei titoli di giornali e tiggì; quando, come ultimamente gli capita, parla di famiglia tradizionale o denatalità, tanto per fare un esempio, finisce nel sottoscala delle notizie curiose, accanto, che so, alle verità sugli amori del tronista e il compleanno di qualche principessa.

Ciò di cui parliamo in questo articolo è proprio una di quelle dichiarazioni del Santo Padre che si candidano al silenzio. Ieri Francesco, incontrando in udienza i membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede per i consueti auguri di inizio anno, ha parlato di molte cose, di accoglienza e migranti, di vaccini e della necessità di fornire le cure a tutti, della lotta alle armi nucleari, argomenti di gran peso di cui troverete riscontro sui principali organi di comunicazione.

Poi, però, ha affondato il bisturi anche sull'altro versante del bubbone, quello che trasuda secrezioni buoniste, ma non per questo meno infette, dalla piaga della «cancel culture», il movimento che pretenderebbe di riscrivere la storia a colpi di piccone, cancellando tutto quanto - statue, libri o tradizioni contrasti con la visione angelicata, fluida e ben pettinata delle vicende umane fornita dalla loro preziosa lente arcobaleno. «Il deficit di efficacia di molte organizzazioni internazionali è anche dovuto alla diversa visione, tra i vari membri, degli scopi che esse si dovrebbero prefiggere», ha affondato il colpo il Santo Padre.

«Non di rado il baricentro d'interesse si è spostato su tematiche per loro natura divisive e non strettamente attinenti allo scopo dell'organizzazione, con l'esito di agende sempre più dettate da un pensiero che rinnega i fondamenti naturali dell'umanità e le radici culturali che costituiscono l'identità di molti popoli». 

Ecco le odiose parole, «identità», «radici culturali». Ecco il retaggio papista che riemerge dalle sentine dei Sacri palazzi. «Come ho avuto modo di affermare in altre occasioni, ritengo che si tratti di una forma di colonizzazione ideologica, che non lascia spazio alla libertà di espressione e che oggi assume sempre più la forma di quella cancel culture, che invade tanti ambiti e istituzioni pubbliche».

Poi lo strappo che lascia il re nudo con le sue vergognose ipocrisie in bella vista: «In nome della protezione delle diversità, si finisce per cancellare il senso di ogni identità, con il rischio di far tacere le posizioni che difendono un'idea rispettosa ed equilibrata delle varie sensibilità». Ecco fatto. I buoni che si fanno kapò del lager del pensiero dominante, il bel mondo dei diritti civili e delle diversità che zittisce chi osa cantare fuori dal coro delle cristalline voci ufficiali. 

Il mondo del sapere e della scienza che rinnega le proprie stesse lezioni per imporre il suo elegante bavaglio di seta firmato e alla moda. «Si va elaborando un pensiero unico costretto a rinnegare la storia, o peggio ancora a riscriverla in base a categorie contemporanee, mentre ogni situazione storica va interpretata secondo l'ermeneutica dell'epoca», ha proseguito, infatti, il Pontefice fornendo un sintetico ripasso dei principi della storiografia.

 «La diplomazia multilaterale è chiamata perciò ad essere veramente inclusiva, non cancellando ma valorizzando le diversità e le sensibilità storiche che contraddistinguono i vari popoli. In tal modo essa riacquisterà credibilità ed efficacia per affrontare le prossime sfide, che richiedono all'umanità di ritrovarsi insieme come una grande famiglia, la quale, pur partendo da punti di vista differenti, dev' essere in grado di trovare soluzioni comuni per il bene di tutti». Sembra quasi di ascoltare gli antichi programmi alla base di quell'Europa, «Unione dei popoli», un secolo fa, finita sepolta sotto la strada di buni propositi che ci ha condotto a Bruxelles. E sulla quale, tra un brunch e una cabina di regia, oggi molti ricorderanno pensosi tutte le altre parole del Papa di cui sentirete parlare da tutti i giornali e tiggì.