Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

ANNO 2022

L’ACCOGLIENZA

NONA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI EUROPEI

I Muri.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i finlandesi.

Quei razzisti come i belgi.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli inglesi.

Quei razzisti come i cechi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i maltesi.

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i serbi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AFRO-ASIATICI

 

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come i libici.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come gli ugandesi.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come i sudafricani.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come gli arabi sauditi. 

Quei razzisti come i qatarioti.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli iracheni.

Quei razzisti come gli afghani.

Quei razzisti come gli indiani.

 Quei razzisti come i singalesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come i kazaki.

Quei razzisti come i russi.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i filippini.

Quei razzisti come i giapponesi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AMERICANI

 

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i peruviani.

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i colombiani.

Quei razzisti come i brasiliani.

Quei razzisti come gli argentini.

Quei razzisti come gli australiani.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.

I LADRI DI NAZIONI.

CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.

I SIMBOLI.

LE PROFEZIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. PRIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SECONDO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. TERZO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUARTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUINTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SESTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SETTIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. OTTAVO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. NONO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. DECIMO MESE.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE MOTIVAZIONI.

NAZISTA…A CHI?

IL DONBASS DELI ALTRI.

L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.

TUTTE LE COLPE DI…

LE TRATTATIVE.

ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.

LA RUSSIFICAZIONE.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.

IL FREDDO ED IL PANTANO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE VITTIME.

I PATRIOTI.

LE DONNE.

LE FEMMINISTE.

GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.

LE SPIE.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.

LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.

LA GUERRA ENERGETICA.

LA GUERRA DEL LUSSO.

LA GUERRA FINANZIARIA.

LA GUERRA CIBERNETICA.

LE ARMI.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA DETERRENZA NUCLEARE.

DICHIARAZIONI DI STATO.

LE REAZIONI.

MINACCE ALL’ITALIA.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

IL COSTO.

L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.

PSICOSI E SPECULAZIONI.

I CORRIDOI UMANITARI.

I PROFUGHI.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

I PACIFISTI.

I GUERRAFONDAI.

RESA O CARNEFICINA? 

LO SPORT.

LA MODA.

L’ARTE.

 

INDICE DODICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

PATRIA MOLDAVIA.

PATRIA BIELORUSSIA.

PATRIA GEORGIA.

PATRIA UCRAINA.

VOLODYMYR ZELENSKY.

 

INDICE TREDICESIMA PARTE

 

La Guerra Calda.

L’ODIO.

I FIGLI DI PUTIN.

 

INDICE QUATTORDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’INFORMAZIONE.

TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA. 

 

INDICE QUINDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA PROPAGANDA.

LA CENSURA.

LE FAKE NEWS.

 

INDICE SEDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.

LA RUSSOFOBIA.

LA PATRIA RUSSIA.

IL NAZIONALISMO.

GLI OLIGARCHI.

LE GUERRE RUSSE.

 

INDICE DICIASSETTESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CHI E’ PUTIN.

 

INDICE DICIOTTESIMA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…le Foibe.

Lo sterminio comunista degli Ucraini.

L’Olocausto.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Il Caso dei Marò.

Che succede in Africa?

Che succede in Libia?

Che succede in Tunisia?

Cosa succede in Siria?

 

L’ACCOGLIENZA

NONA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Guerra Calda.

LA DETERRENZA NUCLEARE.

Guerra in Ucraina. Generali russi e armi nucleari. Le intercettazioni sul campo allarmano gli 007 americani. L'incubo ricorrente di una guerra nucleare torna a spaventare il mondo. Leader militari della Russia sono stati intercettati dall'intelligence Usa mentre discutono scenari in cui potrebbero usare armi nucleari. Manila Alfano il 3 Novembre 2022 su Il Giornale.

L'incubo ricorrente di una guerra nucleare torna a spaventare il mondo. Leader militari della Russia sono stati intercettati dall'intelligence Usa mentre discutono scenari in cui potrebbero usare armi nucleari. Lo scrive il New York Times, sottolineando che queste «conversazioni hanno allarmato l'amministrazione Biden perché dimostrano il livello di frustrazione di Mosca di fronte alle sconfitte sul campo in Ucraina».

Il presidente russo, Vladimir Putin, non è stato intercettato durante queste conversazioni, ha sottolineato il Nyt, evidenziando come i fatti siano avvenuti sullo sfondo dell'intensificarsi della retorica nucleare di Mosca. I funzionari Usa, tuttavia, hanno precisato di non avere alcuna prova che i russi stiano posizionando armi nucleari o adottando misure preparatorie in vista del lancio di un attacco di questo tipo.

I contenuti delle intercettazioni sono stati fatti circolare all'interno dell'Amministrazione a metà ottobre. «Continuiamo a monitorare al meglio, e non vediamo indicazioni che la Russia sta facendo preparativi per l'uso di armi nucleari», ha detto John Kirby, portavoce del Consiglio di Sicurezza nazionale della Casa Bianca. Il portavoce ha poi sottolineato che gli Stati Uniti sono «sempre più preoccupati» dal possibile uso di armi nucleari.

Da Mosca intanto arrivano le prime reazioni: «Priorità assoluta» è evitare uno scontro tra le potenze nucleari che potrebbe avere «conseguenze catastrofiche», ha riferito il ministero degli Esteri di Mosca in una nota in cui sottolinea che «siamo fermamente convinti che nell'attuale situazione difficile e turbolenta - conseguenza di azioni irresponsabili e spudorate volte a minare la nostra sicurezza nazionale - la priorità assoluta sia prevenire qualsiasi scontro militare tra potenze nucleari».

Mosca ha quindi esortato le altre potenze nucleari ad «abbandonare i pericolosi tentativi di violare i reciproci interessi vitali». La Russia «ipoteticamente consente una reazione utilizzando armi nucleari esclusivamente in risposta all'aggressione con l'utilizzo di armi di distruzione di massa. «Confermiamo pienamente il nostro impegno per la dichiarazione congiunta dei leader dei cinque Stati che dispongono di armi nucleari sulla prevenzione di una guerra nucleare e sulla prevenzione di una corsa agli armamenti del 3 gennaio 2022», ha affermato il ministero.

«Chiediamo agli altri Stati dotati di armi nucleari di dimostrare in pratica la loro volontà di lavorare per risolvere questo compito prioritario, e di abbandonare i pericolosi tentativi di violare gli interessi vitali reciproci mentre restano in equilibrio sull'orlo di un conflitto armato e incoraggiano provocazioni con armi di distruzione di massa che possono portare a conseguenze catastrofiche», afferma il documento. Il ministro Lavrov ha evocato una «situazione simile al periodo della crisi missilistica cubana», affermando che «oggi come nel 1962 stiamo parlando di minacce dirette alla sicurezza della Russia proprio ai nostri confini».

In particolare, a causa di una «campagna per spingere l'Ucraina con ogni tipo di armi», è l'accusa rivolta agli alleati americani ed europei di Kiev. Che tra l'altro starebbero «giocando in maniera irresponsabile» sul tema delle armi nucleari, con la Polonia «candidata» ad ospitare ordigni atomici Usa. Intanto gli Stati Uniti lanciano un secondo allarme per voce di John Kirby: la Corea del Nord invia segretamente un numero significativo di proiettili di artiglieria alla Russia.

La dottrina strategica USA non esclude più l’uso preventivo dell’atomica. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 31 ottobre 2022.

Gli Stati Uniti, attraverso il documento sulla nuova Strategia di Difesa Nazionale 2022 (NDS) rilasciata dal Pentagono su indicazione del presidente Joe Biden, hanno deciso di stravolgere la loro dottrina sulle armi nucleari e, in generale, l’intera architettura di sicurezza militare, integrando le modalità d’impiego delle armi convenzionali con quelle delle armi nucleari. Hanno infatti accorpato i tre documenti, prima separati, che stabiliscono le rispettive strategie in ciascun ambito: quello sulla sicurezza nazionale, sulla postura atomica e sullo scudo antimissile. I tre documenti formano un tutt’uno, in quanto, pur restando autonomi vengono direttamente legati uno all’altro per realizzare quella che viene definita “deterrenza integrata”. Cade così l’ultima barriera che separava gli scenari della cosiddetta guerra “tradizionale” da quelli di un disastro nucleare. Gli USA, inoltre, non escludono più, come successo fino ad ora, la possibilità di utilizzare ordigni nucleari per primi, secondo la regola del “No first use”.

L’amministrazione americana ha giustificato la revisione della dottrina strategica con l’alto livello di tensione raggiunto con Russia e Cina: Biden, infatti, ha affermato che il mondo sta attraversando un «decennio decisivo», caratterizzato da cambiamenti drammatici in ambito geopolitico, tecnologico, economico e ambientale. Di conseguenza, l’NDS ha stabilito quattro priorità di difesa da perseguire attraverso la «deterrenza integrata, la campagna e la costruzione di un vantaggio duraturo»: queste priorità comprendono la difesa della patria, la dissuasione di attacchi strategici contro Stati Uniti, alleati e partner; il disincentivo all’aggressività soprattutto nella sfida con la Cina nell’Indo-Pacifico e la costruzione di una forza congiunta e di un ecosistema di difesa. «Stiamo integrando perfettamente i nostri sforzi di deterrenza per rendere una verità di base cristallina a qualsiasi potenziale nemico», ha affermato il Segretario alla Difesa Lloyd J. Austin. «Questa verità è che il costo dell’aggressione contro gli Stati Uniti o i nostri alleati e partner supera di gran lunga qualsiasi guadagno immaginabile». A tale scopo, il dipartimento ha incrementato le sue attività e i suoi investimenti in tutti gli spettri possibili di conflitto, inclusi lo spazio e il cyberspazio, identificando nella Cina uno dei principali avversari.

Per quanto attiene la deterrenza nucleare, Austin ha affermato che il Dipartimento prevede di aumentare gli sforzi nella modernizzazione della triade nucleare, ossia delle componenti terrestre, navale e aerea. Ha reso noto quindi che la richiesta di bilancio fiscale 2023 include circa 34 miliardi di dollari per sostenere e modernizzare le forze nucleari. La richiesta di budget include anche più di 56 miliardi di dollari per piattaforme e sistemi di propulsione aerea, più di 40 miliardi di dollari per mantenere il dominio degli Stati Uniti in mare e quasi 13 miliardi di dollari per supportare e modernizzare le forze di terra.

La novità più dirompente della nuova strategia di difesa, tuttavia, riguarda l’utilizzo delle armi nucleari che, più volte nel documento, vengono equiparate agli armamenti convenzionali. Non conta più, dunque, la tipologia dell’ordigno, ma quali effetti può provocare, sdoganando di conseguenza la possibilità di impiegare armi atomiche e superando il principio – fatto proprio da tutte le nazioni dotate di arsenali nucleari – secondo cui “una guerra nucleare non può essere vinta e non deve quindi mai essere combattuta”. Secondo il nuovo piano strategico, infatti, le minacce poste dagli avversari degli USA – in primis Russia e Cina – giustificano il superamento delle regole del “No first use” e del “Sole Purpose policies”: «Abbiamo condotto una profonda revisione di un largo spettro di opzioni sulla politica di dichiarazioni nucleari – incluso il No First Use e il Sole Purpose policies – e abbiamo concluso che questi approcci potrebbero comportare un livello di rischio inaccettabile alla luce della gamma di capacità non nucleari che vengono schierate e progettate dai nostri avversari, tali da infliggere danni strategici agli Usa e ai nostri alleati», si legge nel report del Pentagono. Ciò significa che anche in caso di attacchi con armi “convenzionali”, gli USA – qualora lo ritengano necessario per la sicurezza nazionale o degli alleati – potrebbero rispondere con ordigni atomici. Cosa non prevista fino alla pubblicazione del rapporto in questione e ancora ora esclusa da tutte le altre potenze dotate di testate atomiche.

Il nuovo piano strategico è stato giudicato deludente da diversi analisti americani esperti in materia che ne hanno sottolineato soprattutto la gestazione iniziata prima del conflitto in Ucraina e poi il suo rapido adeguamento alla situazione bellica in corso. La rivoluzione senza precedenti della dottrina nucleare e di sicurezza americana si spiega con il rapido mutamento di assetti geopolitici in corso che minaccia il ruolo degli Stati Uniti come potenza egemone globale. Per questo, agli occhi di Washington, tale situazione giustifica anche l’uso “preventivo” delle armi atomiche, in quanto si tratta di difendere quello che i vertici americani ed europei definiscono l’“ordine basato sulle regole”. Tuttavia, tale “ordine” unilaterale sta incontrando la disapprovazione di sempre più Paesi e potenze emergenti che ne esigono uno più giusto e “democratico”. Tale livello di tensione – che ha condotto alla revisione dell’architettura di sicurezza militare americana – può contribuire ad avvicinare sempre di più l’Occidente ad un potenziale e catastrofico conflitto nucleare con Russia e Cina da cui difficilmente potrebbe emergere una potenza vincitrice, quanto piuttosto una catastrofe senza precedenti nella storia umana. Più logico sarebbe, invece, rivedere gli assetti di potere internazionali all’insegna dell’equilibrio e di una governance condivisa, prendendo atto che l’era del mondo dominato da un’unica potenza egemone è ormai giunta alle sue battute finali. [di Giorgia Audiello]

Gli USA aggiornano le bombe nucleari depositate in Europa. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 28 ottobre 2022. 

Un cablogramma (ovvero un messaggio telegrafico trasmesso tramite cavo sottomarino) diplomatico statunitense avrebbe rivelato la messa in campo in Europa di una versione più precisa della principale bomba nucleare statunitense. L’arrivo della bomba a gravità B61-12 aggiornata dagli USA, inizialmente ipotizzato per la primavera 2023, è previsto per il prossimo dicembre, secondo quanto riferito dai funzionari statunitensi a Bruxelles nel corso di una riunione a porte chiuse. A rivelarlo è stata un’inchiesta di Politico, che riporta come il portavoce del Pentagono abbia dichiarato che l’aggiornamento dell’arsenale nucleare «non è in alcun modo legato agli attuali eventi in Ucraina e non è stato accelerato in alcun modo». Si tratta, tuttavia, di un’iniziativa mai messa in atto della quale si discute da anni nei documenti di bilancio e il cui tempismo ora, considerato il contesto di crescente tensione nel conflitto russo-ucraino, non lascia intravedere alcuna de-escalation nei rapporti tra l’Occidente e Mosca.

I nuovi ordigni sono stati pensati per essere trasportati da più tipologie di cacciabombardieri (tra i quali i B2, i B21 e gli F15, F16, F35 e i Tornado) e dispongono di una potenza esplosiva che può essere modificata in base all’obiettivo. Contrariamente a quanto dichiarato dal presidente americano Biden durante la campagna elettorale del 2020, nel corso della quale aveva ipotizzato un cambio di politica che affermasse che l’unico scopo delle armi atomiche è quello di fungere da deterrente per eventuali attacchi, il segretario alla Difesa Lloyd Austin avrebbe dichiarato a Bruxelles che la politica di Washington in materia rimarrà quella di “calcolata ambiguità” (affermazioni poi ritrattate dall’amministrazione americana).

Tra le basi nelle quali vi sono maggiori probabilità che vengano ospitati i nuovi ordini figura Aviano la quale, insieme a quella di Ghedi, custodisce parte dell’arsenale nucleare statunitense custodito in Europa. [di Valeria Casolaro] 

Alberto Simoni per “la Stampa” il 28 ottobre 2022. 

Washington alza il livello della deterrenza e tara il suo arsenale nucleare per rispondere anche ad attacchi convenzionali. Il segretario del Pentagono Lloyd Austin ha mandato in soffitta, presentando la National Defense Strategy, la proposta che Biden aveva avanzato in campagna elettorale quando aveva sostenuto il ricorso alla deterrenza atomica solo in caso di offensive nucleari. 

Ieri mattina il segretario della Difesa ha convocato una conferenza stampa e ha illustrato le linee guida della politica americana in materia di sicurezza, nucleare e missilistica. Il cambio di rotta è evidente e arriva mentre i venti del ricorso al nucleare tattico o a bombe sporche incendiano ulteriormente il clima fra Ucraina e Russia; non c'è una correlazione diretta, spiegano fonti del Pentagono che hanno partecipato alla "review", ma è chiaro che il timing non è casuale.

Come forse non è casuale che la sostituzione del dispositivo atomico - cento bombe piazzate in Italia, Olanda, Germania e Turchia - avverrà con almeno tre mesi di anticipo; entro fine anno anziché in primavera. Si tratta di installare le nuove B61-12 al posto degli ordigni più datati. Saranno più versatili, teleguidati e potranno anche essere montate e sganciate da Tornado oltre che dai tradizionali bombardieri e caccia F-15 e F-16 statunitensi.

Il portavoce del Pentagono ha spiegato che questo "avvicendamento" affonda negli anni passati quando si era deciso di fare un ammodernamento. Ma fonti di Politico hanno riferito che durante l'ultima ministeriale Nato, Lloyd Austin ha spiegato la mossa agli alleati europei per rassicurarli del sostegno americano nei confronti delle azioni russe.

«Non possiamo cedere al ricatto nucleare di Putin», aveva detto - secondo quanto contenuto nei cablo diplomatici visti dal giornale Usa - un ministro europeo. 

L'Alleanza atlantica su questo è compatta, così come sul continuare a sostenere Kiev. Ieri il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha avuto un colloquio telefonico con Jens Stoltenberg, al quale ha ribadito il pieno sostegno dell'Italia all'Ucraina contro l'invasione russa e la necessità di rafforzare l'impegno della Nato nel contrasto alle minacce di diversa natura, comprese le sfide del Sud.

Nella revisione strategica americana la Russia viene definita "minaccia acuta". Significa - e il senso lo ha spiegato lo stesso Austin - che pone un rischio alto nell'immediato, ma che è percepita in declino per il futuro. Ed è questo che la differenzia dalla Cina che resta la minaccia numero uno per gli Stati Uniti, visto il suo potere economico, tecnologico e una postura militare da potenza emergente dotata di un arsenale atomico in espansione. 

Sul nucleare in particolare Mosca viene descritta nel documento di 80 pagine come una potenza da 2000 armi nucleari tattiche e non vincolata ad alcun trattato ne ne limiti il numero. È una cosa che accresce la possibilità «che usi queste forze per vincere una guerra nella sua periferia o evitare una sconfitta se è in pericolo di perdere una guerra convenzionale».

Ed è esattamente questo che minaccia Putin nonostante le rassicurazioni che Mosca - a ogni livello - sta facendo. La Casa Bianca ha detto di non aver segnali che la Russia sull'uso di bombe sporche. Ma c'è il timore che questi allarmi - l'accusa all'Ucraina di volere utilizzare - sia la classica "false flag", un bersaglio per distogliere l'attenzione e scaricare su altri la responsabilità delle proprie azioni. 

La linea americana non cambia. John Kirky, portavoce del Consiglio per la Sicurezza nazionale, ieri in un briefing con alcuni giornalisti ha ribadito alcuni pilastri fermi. Il primo riguarda il conflitto che può «finire solo se Putin ritira le sue truppe». Il Cremlino l'ha iniziato, e tocca ai russi fermarlo. Washington, è la linea ufficiale, non vuole imporre una linea a Zelensky, «tocca a lui decidere quando e se sedere al tavolo».

Nel frattempo, l'America continua a finanziare con armi e aiuti l'Ucraina. I timori americani sono legati all'Iran e al sostegno che Teheran sta fornendo a Mosca sul campo di battaglia. La Russia starebbe cercando di acquistare dalla Repubblica islamica altri armamenti più sofisticati oltre ai droni lanciati dalla Crimea grazie all'aiuto degli esperti iraniani. 

L'Amministrazione Usa non chiude le porte comunque al dialogo, canali di comunicazione con Mosca ci sono e sono affollati negli ultimi giorni. Ci sono contatti a livello di ambasciate; il capo degli Stati maggiori Milley ha parlato con l'omologo Gerasimov e in meno di 72 ore Austin ha sentito Shoigu. L'obiettivo sembra più alto del limitare i rischi di incidenti. Biden non ha intenzione di vedere Putin al G20, ma Kirby ha anche spiegato che non c'è agenda chiara perché troppo prematura.

La crisi dei missili e lo scontro tra Usa e Urss. Crisi dei missili di Cuba, quando rischiammo davvero l’Armageddon nucleare. David Romoli su Il Riformista il 9 Novembre 2022.

Sembra una cosa nuova, un mostro spuntato fuori dal nulla: la minaccia nucleare trasformata in possibilità concreta, materia di discussione nei palazzi del potere del mondo, oggetto comune dei titoloni in prima pagina. Non è una novità, invece. In quell’incubo, a braccetto con l’apocalisse nucleare, il mondo ha vissuto per tutti i decenni e qualche volta è andato davvero vicino all’ultima esplosione. Il rischio maggiore lo si è corso sessant’anni fa tondi, alla fine di ottobre, con la crisi dei missili a Cuba. Che il mondo non sia mai stato sull’orlo dell’apocalisse come in quella settimana autunnale lo si è sempre saputo. Quanto il rischio sia stato sfiorato ed evitato per miracolo, invece, lo si è capito solo una quarantina d’anni dopo, con l’accesso ai documenti dell’ex Unione sovietica.

I fatti sono noti. Il 14 ottobre due aerei spia americani fotografarono rampe di lancio per missili nucleari in costruzione a Cuba. I missili, in grado di raggiungere tutto il territorio degli Usa a sud di Seattle, non erano ancora pronti per essere lanciati ma lo sarebbero stati molto presto. I militari proposero di intervenire subito bombardando l’isola e preparando l’invasione nel giro di una settimana. Tutti erano consapevoli che i sovietici avrebbero probabilmente reagito colpendo Berlino Ovest e sarebbe stata la guerra nucleare globale. L’amministrazione Kennedy decise di procedere invece con un blocco navale, che fu però definito “quarantena” e autorizzato all’unanimità dall’Organizzazione degli Stati americani, per evitare che fosse anche formalmente un atto di guerra. Le navi dirette verso l’isola di Fidel sarebbero state fermate al largo della costa, perquisite e, ove contenessero armi o componenti di armi, costrette a tornare indietro. In quel momento una flotta russa viaggiava verso Cuba.

La sera del 22 ottobre Kennedy parlò alla nazione e annunciò il blocco. La sera del 24 ottobre il segretario del Pcus rispose con un telegramma in cui definiva il blocco “un atto di aggressione” e annunciava che alle navi russe era stato ordinato di proseguire la navigazione. In realtà molte navi russe fecero dietro front, alcune furono fermate e lasciate passare perché non trasportavano alcun materiale bellico. Una sfuggì al blocco. Intanto però la costruzione dei lanciamissili nell’isola proseguiva a ritmo accelerato e prestissimo gli ordigni sarebbero stati in funzione. Il problema non era più il blocco ma lo smantellamento delle basi, rifiutato dai sovietici. Il 26 ottobre Kennedy era ormai convinto che solo il bombardamento e l’invasione avrebbero eliminato la minaccia, al prezzo probabilmente di una guerra nucleare. Lo spiraglio si aprì quando il giornalista John A. Scali, della ABC News, si presentò nel pomeriggio alla Casa Bianca dicendo di essere stato avvicinato da una sua fonte russa: si faceva chianare Aleksandr Formin, il vero cognome era in realtà Feklisov ed era il capo del Kgb negli Usa. Proponeva a nome di Krusciov un accordo: l’Urss avrebbe smantellato i missili in cambio dell’impegno americano a non invadere mai Cuba. La proposta fu accettata. Alle 6 del pomeriggio arrivò alla Casa Bianca una lettera di Krusciov, che Bob Kennedy, ministro della Giustizia, fratello del presidente e suo più stretto collaboratore, definì “molto lunga ed emotiva” che confermava l’accordo.

I cubani non si fidavano. Castro ordinò di abbattere qualsiasi aereo americano sorvolasse l’isola anche se isolato e non più solo quando si trattasse di 2 o più aerei. La mattina del 27 ottobre Krusciov parlò alla radio smentendo l’accordo raggiunto la notte precedente. Chiedeva che, oltre all’impegno di non provare mai più a invadere Cuba, fossero smantellate le basi dei missili Jupiter in Turchia e in Italia. La Turchia era contraria. Il presidente del consiglio italiano Fanfani fece sapere a Kennedy, attraverso il presidente della Rai Ettore Bernabei che si trovava in quel momento a New York, che l’Italia era pronta ad approvare l’eliminazione delle basi missilistiche di Apulia. Gli storici sono divisi in merito al problema degli Jupiter italiani. Krusciov nelle sue memorie scrive che erano parte dell’accordo ed è un fatto che, a crisi superata, furono eliminati come quelli in Turchia.

Nella stessa mattinata un aereo spia americano fu abbattuto, e il pilota perse la vita, dalla contraerea cubana. Non era stata una decisione russa ma una scelta di Raùl Castro, che contravveniva agli ordini sovietici di non tirare sugli aerei americani. L’ordine di ingaggio americano prevedeva una immediata risposta. Kennedy scelse di evitare la rappresaglia. La Casa Bianca scelse anche di ignorare la seconda lettera di Krusciov, fingendo che non fosse mai stata inviata, e di considerare valida solo la prima proposta di accordo. In segreto, però, John Kennedy spedì il fratello dall’ambasciatore russo Dobrynin con una proposta. Gli americani avrebbero eliminato i Jupiter, del resto obsoleti, dalla Turchia ma solo dopo sei mesi, in modo da camuffare lo scambio senza farlo apparire un cedimento di Washington. L’ipotesi che il Cremlino accettasse una risposta ufficiale americana che ignorava la seconda lettera di Krusciov era considerata remota. Castro scrisse a Krusciov chiedendogli di non cedere per quanto tremendo e altissimo ne fosse il prezzo: non a caso quella lettera è definita oggi “dell’Armageddon” e lo stesso Fidel, decenni più tardi, avrebbe ammesso che la sua posizione era sbagliata. L’attesa unanime era che la guerra sarebbe cominciata martedì 30 ottobre ma forse anche prima, il 29.

Si rischiò invece che il conflitto esplodesse quello stesso giorno, sabato 27 ottobre. Le navi americane lanciarono bombe di profondità su un sottomarino russo arrivato al confine del blocco, senza sapere che disponeva di armi nucleari. Il sottomarino navigava a profondità tale da impedire le comunicazioni radio: il capitano pensò quindi che la guerra fosse cominciata e decise, in base all’ordine di ingaggio, di rispondere con le armi nucleari. Il commissario politico a bordo era d’accordo e i loro due pareri erano necessari e sufficienti per procedere. Sul sottomarino si trovava però anche il comandante della flottiglia sottomarina Vasily Arkhipov, considerato un eroe dopo per essere stato al comando degli uomini che nel luglio 1961 avevano evitato un disastro nucleare nell’ “incidente del K-19”, riparando un danno nonostante le radiazioni. Arkhipov bloccò il lancio dei missili nucleari e non è esagerato affermare che fu lui a evitare una guerra che sarebbe costata centinaia di milioni di morti. Il 28 ottobre Krusciov accettò l’accordo segreto proposto da Bob Kennedy, finse di accontentarsi dell’impegno a non invadere Cuba e ordinò lo smantellamento delle basi a Cuba. Nei mesi seguenti gli Usa fecero lo stesso con gli Jupiter in Italia e Turchia.

La guerra, nell’ottobre 1962, sarebbe potuta scoppiare per una scelta folle ma consapevole delle leadership degli Usa e dell’Urss o se Kennedy si fosse fatto prendere la mano dai militari. Ma sarebbe potuta scoppiare anche per la provocazione di un attore minore e in quella circostanza gregario come Cuba, che disobbedì ai sovietici abbattendo l’aereo americano, o per un banale incidente come nel caso del sottomarino. E in realtà nella guerra fredda l’olocausto nucleare è stato sfiorato soprattutto per equivoci, errori, banali incidenti. Il 5 novembre 1956, mentre era in corso la guerra di Suez, gli americani sospettarono un imminente attacco sovietico in base a una serie di manovre considerate sospette nei cieli di vari Paesi. Considerarono la possibilità di anticipare l’attacco con le armi nucleari. Le manovre sospette si rivelarono tutte frutto di errori o esagerazioni. Il 5 ottobre 1960 i radar americani confusero l’alba lunare sulla Norvegia con un attacco nucleare sovietico. A frenare la reazione ci fu il fatto che Krusciov si trovava in quel momento a New York e l’ipotesi dell’attacco sembrava poco credibile. Il 24 novembre 1961 l’alto comando perse i contatti con il Norad, Alto comando di difesa aerobalistica, e con molti siti balistici. Essendo i sistemi di comunicazione indipendenti la coincidenza sembrava irrealistica, dunque, temendo l’attacco, l’intera flotta di bombarderi Usa si preparò a partire. Fortunatamente si scoprì in tempo che all’origine del guasto era un singolo relay in Colorado.

La minaccia della “guerra per sbaglio” continuò a incombere anche dopo la crisi di Cuba. Il 9 novembre 1965 una tempesta magnetica solare interferì con tutti i radar nell’emisfero nord del pianeta e gli Usa si convinsero che l’attacco era cominciato: si arrivò a un millimetro dal lanciare il contrattacco. Il 15 aprile 1969, dopo l’abbattimento di un aereo da ricognizione americano, l’ordine di sganciare le bombe nucleari sulla Corea del nord. Il presidente Nixon, secondo le ricostruzioni del fattaccio era ubriaco e per fortuna ci pensò Kissinger a fermare i bombardieri. Dieci anni dopo, 9 novembre 1979, il Norad avvertì la Casa Bianca che i missili sovietici erano partiti e c’erano tra i 3 e i 7 minuti per lanciare il contrattacco. Il Norad corresse l’errore al sesto minuto. I rischi maggiori si corsero forse nell’ultima fase del confronto, la “seconda guerra fredda”, gli anni ‘80. Il 26 settembre 1983 un satellite russo avvertì che era stato lanciato un missile nucleare dagli Usa. Il colonnello Stanislav Petrov avrebbe dovuto avviare immediatamente il lancio di risposta.

Trovò strano un attacco lanciato con un solo missile, disobbedì e attese la conferma dai radar di terra, che smentirono la minaccia. Fu ringraziato per aver evitato la guerra e punito per aver disobbedito agli ordini. Meno di due mesi dopo, il 7 novembre, un’esercitazione Nato in grande stile. I sovietici si convinsero che l’esercitazione serviva da copertura per il vero attacco. Solo anni dopo fu rivelato che l’attacco nucleare preventivo di Mosca era stato evitato per un soffio. Forse il guaio peggiore, quando la minaccia nucleare diventa una eventualità concreta e temuta è proprio questo. I leader possono anche essere sufficientemente savi da evitare la distruzione totale, in fondo persino Hitler evitò di usare i micidiali gas di cui disponevano tutte le nazioni in guerra. Ma esiste anche il caso e annullare il rischio di incidenti fatali, in un contesto di massima tensione, non è possibile. David Romoli

La crisi dei missili di Cuba del 1962: così il conflitto nucleare fu evitato sessanta anni fa. L'Urss stava installando sull'isola caraibica armi atomiche in grado di fare strage negli Stati Uniti, un aereo spia americano era stato abbattuto e la Casa Bianca voleva rispondere attaccando. Ma - come avrebbe poi detto il capo del Pentagono McNamara - "fortunatamente cambiammo idea". Ecco perché. Paolo Mastrolilli su La Repubblica il 27 Ottobre 2022.

Sabato 27 ottobre 1962 «non fu solo il momento più pericoloso della Guerra Fredda. Fu il momento più pericoloso nella storia dell’umanità». Così aveva scritto lo storico Arthur Schlesinger, allora stretto consigliere del presidente Kennedy, ricordando le ore in cui l’apocalisse nucleare era stata evitata quasi più per fortuna che per volontà. 

Quel giorno di sessant’anni fa, infatti, un aereo spia americano U-2A era stato abbattuto sopra i cieli di Cuba, dove l’Urss stava installando missili atomici in grado di fare strage negli Usa, uccidendo il pilota Rudolf Anderson. La Casa Bianca aveva già stabilito da tempo di rispondere attaccando l’isola, se una simile provocazione fosse avvenuta. Ma come poi avrebbe rivelato il capo del Pentagono, McNamara, «fortunatamente cambiammo idea e pensammo che poteva essere stato un incidente». 

Nelle stesse ore del "sabato nero" un sottomarino sovietico B-59 stava navigando vicino ai confini del blocco navale, ordinato da Kennedy per impedire la consegna di altri missili atomici a Fidel Castro, e il gruppo della portaerei americana Randolph lo intercettò, lanciando cariche di profondità per metterlo in guardia. Erano bombe da esercitazione, non in grado di distruggere il B-59, ma il capitano Valentin Grigoryevich Savitsky suppose che la guerra fosse cominciata, e decise di rispondere lanciando un missile nucleare. Per fortuna la sua volontà non bastava, perché il protocollo richiedeva il consenso di altri due ufficiali a bordo. Il vice comandante Vasily Arkhipov si oppose, impedendo un’apocalisse atomica che secondo il suo collega era già iniziata. Eppure proprio in quei momenti raggelanti, mentre i militari quasi combattevano, il leader sovietico Krusciov aveva ricevuto l’invito di Castro a bombardare, e mandato due messaggi contraddittori a Kennedy. Il primo, anticipato da un colloquio avvenuto in un bar tra il corrispondente della televisione Abc John Scali e l’agente del Kgb Alexander Fomin, suggeriva che Mosca avrebbe richiamato le sue navi e smantellato i missili a Cuba, in cambio della promessa di Washington di non invadere mai L’Avana.

Il secondo era stato trasmesso da Radio Mosca ma aveva cambiato le carte in tavola, chiedendo agli Usa di smantellare anche i loro missili Jupiter in Turchia, e magari quelli destinati all’Italia. Robert Kennedy allora aveva suggerito al fratello di ignorare il secondo messaggio, e rispondere invece in maniera positiva al primo. Le speranze che il trucco funzionasse erano così basse, che nel frattempo erano stati gli ordini per scatenare la guerra. Invece la mattina di domenica 28 ottobre Radio Mosca trasmise la riposta di Krusciov, che «allo scopo di eliminare ogni minaccia alla causa della pace», aveva «ordinato la rimozione dei missili da Cuba e il loro trasferimento nell’Unione Sovietica». Poi in realtà, diversi anni dopo, si seppe che gli Usa avevano accettato di rimuovere i Jupiter dalla Turchia, nel corso di un negoziato segreto. Il Pentagono li considerava obsoleti, aveva deciso comunque di eliminarli, e quindi sacrificarli sull’altare della pace mondiale era parso un baratto ragionevole. Il silenzio però aveva consentito che andasse in porto, come spesso accade in queste occasioni, perché da una parte aveva consentito a Nikita di ottenere una concessione concreta e significativa, e dall’altra a John di non dare l’impressione di aver capitolato davanti alle pretese del nemico.

Il 6 ottobre scorso, parlando a braccio davanti ai suoi sostenitori nel corso di una serata per la raccolta di finanziamenti elettorali a New York, il presidente Joe Biden ha detto che «non abbiamo fronteggiato la prospettiva di Armageddon in maniera così seria dall’epoca di Kennedy e la crisi dei missili a Cuba». Non sappiamo al momento se qualche militare russo o americano sia andato così vicino a premere il bottone nucleare in Ucraina, come Valentin Grigoryevich Savitsky sul sottomarino B-59 nelle acque caraibiche. 

Ma soprattutto non sappiamo se Putin avrà lo stesso buon senso di Krusciov nell’accettare l’off ramp, la via d’uscita a cui il capo della Casa Bianca ha detto di pensare. Nikita aveva deciso di mandare i missili a Cuba per riequilibrare i rapporti di forza strategici con gli Usa, dotati allora di oltre 26.000 testate atomiche contro le 3.300 sovietiche, e presenti con forza in Europa. Forse pensava di poter barattare la rinuncia alla presenza sull’isola con il controllo di Berlino Ovest. Ma il 14 ottobre del 1962 il maggiore Richard Heyser, sorvolando col suo U-2 San Cristobal, nella provincia cubana di Pinar del Rio, aveva scattato 928 foto che provavano senza ombra di dubbio la costruzione di un sito per il lancio dei missili SS-4. Kennedy era stato informato il 16 e aveva considerato sei ipotesi di risposta, da niente, all’invasione dell’isola.

Alla fine però aveva scelto la "quarantena", invece del blocco navale che suonava come una dichiarazione di guerra, e aveva smascherato le bugie sovietiche quando l’ambasciatore all’Onu Stevenson aveva mostrato le immagini al mondo. 

Nessuno lo sapeva allora, ma Mosca aveva già consegnato 158 testate a L’Avana, e quindi la storia sarebbe potuta finire assai peggio. Putin ha deciso di aggredire l’Ucraina per uno scopo anche più ambizioso di Krusciov: demolire l’ordine internazionale nato dopo la Guerra Fredda. E soprattutto sa di avere poco margine, mentre vede le sue truppe indietreggiare a Kherson, perché appena due anni dopo la crisi dei missili Nikita aveva perso il potere.

Quando Kennedy e Krusciov si sono sfidati nella partita a scacchi con l’Apocalisse, il mondo aveva la consapevolezza che un conflitto nucleare non poteva essere vinto. Entrambi i protagonisti avevano vissuto l’orrore della guerra: l’uno su una motosilurante affondata nel Pacifico, mentre il fratello veniva disintegrato in Inghilterra a bordo di un aereo sperimentale; l’altro guidando la resistenza sovietica nel carnaio di Stalingrado. In quei terribili tredici giorni di sessant’anni fa hanno sempre deciso le loro mosse cercando di salvare la pace, a costo di sacrificare pedine come il pilota dell’U2 Rudolf Anderson. 

Oggi invece c’è una sensazione drammatica di smarrimento, come se i potenti della Terra avessero perso il controllo delle leve per frenare la spirale che conduce all’Armageddon. Per mesi nello scorso inverno le foto satellitari dello schieramento russo hanno documentato come si stesse preparando l’invasione dell’Ucraina, senza che nessuno tentasse un’iniziativa per fermare i carri armati. Adesso siamo davanti a un vortice di dichiarazioni minacciose, che giorno dopo giorno crescono nella forma e nella sostanza. La possibilità di un attacco nucleare non viene più esclusa e non ci sono ipotesi su quale catena di reazioni verrebbe innescata dal lancio di una sola bomba tattica. 

Fino a che punto si spingerà Putin? Il leader a cui l’Occidente riconosceva doti di attento calcolatore, pronto a misurare i rischi di ogni sua iniziativa, si è dimostrato un maldestro giocatore d’azzardo. Da febbraio in poi ha bruciato tutte le sue carte, mandando brigate al massacro, consolidando il sostegno intorno a Kiev, isolandosi dalla comunità internazionale, irritando persino l’alleato cinese. Più passa il tempo, più si ritrova chiuso nell’angolo e vede incrinarsi la sua credibilità. Anche in patria, con una maggioranza silenziosa e impaurita che continua a sostenerlo per assenza di alternative e un pugno di falchi che lo criticano sempre più apertamente. 

L’unica speranza è che Putin stia solo attingendo alle ultime risorse della dottrina sovietica e spinga verso l’escalation per conquistare una via d’uscita dignitosa. Qualcosa che gli permetta di salvare la faccia prima di perdere tutto. Ma all’orizzonte non si vedono soluzioni diplomatiche e lo Zar imprigionato nel suo ruolo potrebbe finire per recitare fino in fondo la parte dell’uomo forte, mettendo mano all’unico strumento rimasto: l’arma nucleare.

Scoppia la crisi dei missili a Cuba. Kennedy «avverte» Mosca. Il mondo trema. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Ottobre 2022.

«Washington annuncia: la pace è in pericolo»: sessant’anni fa una nuova guerra mondiale sembrava essere drammaticamente imminente. «Abbiamo prove inconfutabili che i sovietici stanno costruendo nei Caraibi basi per missili che possono raggiungere il cuore degli Usa» si legge su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 23 ottobre 1962.

Dalla fine del secondo conflitto mondiale, a causa della dura contrapposizione tra Stati Uniti e Unione sovietica, il mondo è nettamente diviso in due blocchi. Negli anni Cinquanta è iniziata, inoltre, una corsa agli armamenti nucleari da parte delle grandi potenze. L’Unione sovietica di Kruscev decide di installare in gran segreto sull’isola di Cuba, retta da un regime socialista dal 1959, missili a testata nucleare, che costituiscono una grave minaccia per la sicurezza del territorio americano. Attraverso voli di ricognizione compiuti da U-2 americani, gli Stati Uniti scoprono le navi russe in direzione Caraibi con i missili a bordo.

Il 16 ottobre 1962, quindi, si è costituisce un Comitato esecutivo del Consiglio di sicurezza nazionale che opera in segreto fino alla sera del 22 ottobre. Scoppia, così, la crisi missilistica: è John Fitzgerald Kennedy ad affrontarla e a informare il mondo intero con un discorso alla nazione diffuso da tutte le reti radiotelevisive.

Leggiamo sulla «Gazzetta»: «Il presidente Kennedy ha annunciato questa sera che gli Stati Uniti iniziano l’applicazione di una rigida quarantena su tutto l’equipaggiamento militare offensivo in via di spedizione a Cuba al fine di bloccare un apprestamento offensivo comunista». Kennedy, quindi, intima a Mosca di ritirare i missili, allerta le forze nucleari americane e ordina il blocco navale intorno all’isola caraibica per impedire lo sbarco di altre armi. Kennedy parla di una «esplicita minaccia alla pace e alla sicurezza di tutti gli americani» lanciata dall’Unione Sovietica e nel suo appello prospetta la possibilità, concreta, di un vero e proprio conflitto nucleare: «Non rischieremo prematuramente e senza necessità una guerra nucleare mondiale dopo di cui anche i frutti della vittoria sarebbero cenere sparsa sui nostri cadaveri; ma nemmeno indietreggeremo di fronte a un tale rischio».

Dopo il discorso del Presidente Usa, grazie all’intervento della diplomazia internazionale, le navi sovietiche in viaggio per Cuba invertono la rotta e Mosca accetta di smantellare le basi missilistiche in cambio dell’impegno americano a non invadere l’isola e del ritiro dei missili installati nelle basi Nato in Turchia e in Italia. Il mondo, nel frattempo, è rimasto col fiato sospeso per diversi giorni.

La crisi dei missili di Cuba, spiegata. Mauro Indelicato il 19 Ottobre 2022 su Inside Over.

La crisi dei missili di Cuba costituisce uno degli eventi più controversi della Guerra fredda. Avviene tra l’agosto e il novembre del 1962 nel contesto di uno scontro molto aspro, sotto il profilo politico, tra Stati Uniti e Unione sovietica. Un confronto che porta nei primi anni ’60 a una veloce corsa agli armamenti. La crisi scoppia quando Washington teme il posizionamento di missili nucleari sovietici nell’isola di Cuba, da alcuni anni guidata dal governo comunista di Fidel Castro. Una mossa, quella di Mosca, in risposta al posizionamento di armi nucleari Usa in Europa. Durante il periodo della crisi, il mondo sembra molto vicino a una Terza guerra mondiale. Le tensioni si dipanano dopo il ritiro degli armamenti sovietici da Cuba.

Il contesto della crisi dei missili di Cuba

Nel 1962 il mondo è guidato dal nuovo equilibrio internazionale sorto dopo la seconda guerra mondiale. Un equilibrio costituito principalmente dal confronto tra le due superpotenze: Stati Uniti da un lato, Unione sovietica dall’altro. La prima è a capo di un’alleanza sorta nel 1949, denominata Nato. La seconda invece è capofila del cosiddetto “Patto di Varsavia”, il quale racchiude i Paesi comunisti dell’Europa dell’est.

Dalla crisi di Berlino del 1949, passando per la guerra di Corea tra il 1950 e il 1953, arrivando fino ai primi contrasti in Vietnam registrati nel 1962 (i quali sfoceranno poi nella lunga guerra del Vietnam), a livello internazionale più volte già si è assistito a confronti diretti o per procura tra forze occidentali e forze comuniste.

La tensione cresce sul finire degli anni ’50, quando sia Mosca che Washington danno il via a una vera e propria corsa agli armamenti. Sono quelli nucleari soprattutto a destare il maggiore interesse. Entrambe le potenze vogliono dotarsi di equipaggiamenti atomici tali da creare un’imponente forza di deterrenza. Gli Usa in quel momento sembrano più avanti dei rivali sovietici, ma il leader del Cremlino, Nikita Kruscev, dichiara a inizio anni ’60 che nell’Urss i missili “vengono prodotti come salsicce”. Segno della volontà di colmare il distacco con gli statunitensi.

Il posizionamento delle testate atomiche Usa in Europa

Nel novembre del 1960 gli Usa vivono un’intensa campagna elettorale, una delle più importanti del dopoguerra, in cui a contrapporsi sono il democratico John F. Kennedy e il repubblicano Richard Nixon. Durante i dibattiti ampio spazio viene dato al timore che i sovietici possano realmente assottigliare il divario missilistico nucleare, in quel momento a vantaggio degli Stati Uniti. Nella corsa alla Casa Bianca a spuntarla è John F. Kennedy, il quale promette di agire contro la possibile rimonta sovietica nella corsa alle armi atomiche.

In quest’ottica, il nuovo presidente Usa dispone il posizionamento di diverse testate nucleari in Europa. E, in particolar modo, in Italia e in Turchia. Una circostanza che preoccupa e non poco Mosca. I missili statunitensi posizionati nel cuore del Mediterraneo rendono potenzialmente molto vulnerabile il fianco occidentale dell’Unione Sovietica.

La collaborazione tra Mosca e Cuba dopo l'ascesa di Fidel Castro

Nikita Kruscev pensa quindi a una risposta. L’occasione è data dalla presenza, a 300 km dalle coste della Florida, di una grande isola caraibica dal 1959 in mano a un governo comunista. In quell’anno infatti Fidel Castro, a capo di una rivoluzione contro il generale Battista (vicino agli Usa), prende il potere. Una circostanza vista con sospetto da Washington, tanto che nel 1961 Kennedy dà il via libera a un’operazione militare sull’isola.

L’intervento Usa però fallisce e gli statunitensi vengono respinti nella cosiddetta “battaglia della Baia dei Porci” dell’aprile del 1961. Fidel Castro non solo mantiene il potere, ma appare anche maggiormente rinfrancato dalla vittoria militare. Kruscev da Mosca pensa quindi, nei primi mesi del 1962, alla possibilità di piazzare a Cuba i propri ordigni nucleari.

Aleksandr Ivanovic Alekseev, ambasciatore sovietico a L’Avana, dichiara al leader del Cremlino il proprio scetticismo sulla possibilità che Castro accetti una proposta del genere. Il motivo è dato dai timori del presidente cubano di essere considerato un vassallo di Mosca. Tuttavia Kruscev invia propri emissari nella capitale cubana. A far pendere l’ago della bilancio a favore della sua proposta è il timore di Castro di essere nuovamente invaso dagli Stati Uniti. Per cui lo schieramento sull’isola delle armi sovietiche ha in tal senso la funzione di deterrenza.

Kruscev in tal modo può mandare i missili verso Cuba, ottenendo così un importante potenziale successo nella corsa agli armamenti. L’Unione Sovietica, essendo molto indietro rispetto agli Usa sullo sviluppo dei missili intercontinentali, può replicare all’invio di armi americane in Europa portando a pochi chilometri dalla Florida i missili balistici a media gittata. Vuol dire quindi che, in caso di guerra atomica, Mosca si trova nelle condizioni di rispondere alla pari.

L’operazione per portare a Cuba gli armamenti assume il nome in codice di Anadyr e permette l’arrivo dei primi arsenali sull’isola l’8 settembre e il 16 settembre. I carichi arrivano via mare, ma già in estate a Cuba sono presenti funzionari e tecnici sovietici per l’installazione delle rampe e per l’organizzazione logistica dell’arrivo dei missili. Movimenti che non passano inosservati all’intelligence di Washington.

Agosto 1962: si inizia a parlare di crisi

Gli Usa a Cuba, nonostante la sconfitta dell’anno precedente, nel 1962 hanno diverse spie. Queste ultime segnalano strani movimenti a Washington. Decollano perciò gli aerei spia Lockheed U-2, il cui compito è quello di perlustrare i siti dove si sospetta la collocazione di testate nucleari. Ad agosto gli U-2 fotografano la presenza di aerei MiG-21 e di bombardieri leggeri Ilyushin Il-28. Si tratta di mezzi sovietici di cui nei mesi precedenti non si ha notizia del loro arrivo a Cuba. Secondo il direttore della Cia, John A. McCone, la loro presenza non è affatto casuale. E così il mese di agosto scrive una nota al presidente Kennedy in cui, tra le altre cose, si fa notare che “tali apparati hanno senso solo se Mosca intendesse usarli per proteggere una base per missili balistici rivolti agli Stati Uniti”.

Il mese di agosto del 1962 può quindi considerarsi come il momento in cui inizia la crisi dei missili. Indiscrezioni appaiono sulla stampa e tra i deputati statunitensi e primi timori di una escalation non sono esclusi tra gli analisti. Tuttavia il 4 settembre John F. Kennedy spiega al Congresso di non avere alcuna prova della presenza a Cuba di “missili offensivi”.

I servizi segreti tuttavia continuano a raccogliere informazioni. I sospetti aumentano, al pari delle pressioni interne alla Casa Bianca per pianificare azioni di risposta. Mosca intanto nega ogni coinvolgimento. Il 7 settembre, l’ambasciatore sovietico alle Nazioni Unite, Anatolij Federovic Dobrynin, rassicura sul fatto che a Cuba non si sta fornendo alcuna arma offensiva, bensì solo difensiva. A ottobre è lo stesso Kruscev, tramite l’ambasciatore a Washington, a negare consegne di armi atomiche a L’Avana. Il mondo però inizia a trattenere il fiato: la possibile presenza di missili a Cuba monopolizza la scena mediatica e fa aumentare timori in seno all’opinione pubblica, soprattutto in occidente, di un possibile scontro nucleare.

Il discorso di John F. Kennedy del 22 ottobre 1962

Una svolta arriva il 14 ottobre. Un volo di un aereo spia U-2 individua una postazione, in fase di costruzione, idonea a ospitare missili balistici. Le fotografie approdano alla Casa Bianca e a quel punto iniziano, tra i collaboratori stretti del presidente Kennedy, le discussioni su come procedere. Nei giorni successivi le prove sui sospetti Usa aumentano. Il 19 ottobre un altro aereo spia individua almeno quattro postazioni missilistiche operative.

La prima reazione della Casa Bianca è improntata alla riservatezza. Il primo governo a essere informato delle novità è quello britannico e le comunicazioni a Londra vengono inviate solo il 21 ottobre. Nella settimana che intercorre tra il 14 ottobre e il 21 ottobre i maggiori responsabili della sicurezza prendono in esame, come trapelato successivamente da diverse inchieste giornalistiche, almeno quattro opzioni. La prima riguarda un bombardamento a tappeto di Cuba volto a distruggere le installazioni missilistiche. La seconda invece ha a che fare con un’invasione su larga scala dell’isola. Tuttavia l’uso della forza, dopo l’insuccesso del 1961 alla Baia dei Porci, viene scartato in primis dallo stesso Kennedy. C’è poi l’idea di rivolgersi alle Nazioni Unite e infine quella del blocco navale. A passare è quest’ultima ipotesi. Il sospetto è infatti che gran parte del materiale militare inviato dall’Unione Sovietica arrivi via mare. Con il blocco è quindi possibile fermare i rifornimenti verso L’Avana.

La mattina del 22 ottobre sui media viene annunciato, per la serata, un discorso televisivo di Kennedy. Negli Usa, così come in Europa, si guarda con attenzione all’evolversi della situazione. Si intuisce che oramai la crisi sta arrivando in un punto molto critico. Nel suo discorso alla nazione, Kennedy conferma la presenza di missili nucleari sovietici a Cuba e annuncia la decisione relativa al blocco navale, chiamato però “quarantena”. Un termine non casuale: l’espressione blocco navale equivarrebbe a una vera e propria dichiarazione di guerra a Cuba, con il rischio di una risposta da parte di Mosca. La quarantena viene istituita attorno l’isola con le acque “chiuse” in un raggio di 800 miglia dalle coste.

Inoltre, il presidente Usa condanna l’azione sovietica e quello che chiama “inganno” da parte delle autorità del Cremlino. Al termine del discorso, Kennedy dichiara di aver messo in allerta le forze armate, oramai “pronte a ogni evenienza”. A quel punto in tutto il mondo il rischio di una guerra appare molto forte. Lo testimonia anche il livello di allerta Defcon 2 (il secondo più alto in una scala da 5 a 1) delle forze armate Usa. L’allerta viene innalzata anche in Unione Sovietica.

Negli Stati Uniti così come in Europa scattano in molte città le prove di evacuazione e di fuga nei rifugi in caso di attacco atomico. Nel Vecchio Continente vengono riaperti alcuni vecchi rifugi costruiti durante la seconda guerra mondiale. Il panico quindi prende decisamente il sopravvento. Nella sede delle Nazioni Unite il 25 ottobre si svolge una sessione straordinaria e di emergenza del consiglio di sicurezza. Qui, durante una drammatica seduta, l’ambasciatore Usa, Adlai Stevenson, mostra le prove fotografiche della presenza a Cuba di piattaforme missilistiche.

Il blocco navale Usa su Cuba

Attorno l’isola si forma un enorme cordone di navi militari Usa che di fatto impediscono alle navi sovietiche di entrare. Mosca invia sottomarini nell’area e la presenza di mezzi navali statunitensi e sovietici in uno stretto specchio d’acqua attorno Cuba alimenta i timori di uno scontro ravvicinato. L’apice della tensione si raggiunge il 27 ottobre. Quel giorno un aereo spia Usa viene abbattuto sui cieli di Cuba, un altro invece viene intercettato nello spazio aereo sovietico. In quelle ore sembra iniziato il conto alla rovescia prima di uno scontro diretto armato atomico tra le due superpotenze.

La mediazione tra Washington e Mosca

Lo spettro di una guerra nucleare però permette alla diplomazia di avanzare. Da molte cancellerie internazionali si invoca una soluzione pacifica al fine di evitare uno scontro che avrebbe probabilmente cancellato l’umanità per come fino ad allora conosciuta. Il panico, in poche parole, in questo caso spinge le varie parti in causa al buon senso.

Risulta particolarmente attiva in queste ore la diplomazia vaticana. Papa Giovanni XXIII scrive una lettera, inviata all’ambasciata sovietica a Roma e diretta a Kruscev, in cui si esprime preoccupazione per quanto sta avvenendo. “Noi chiediamo a tutti i governi – scrive il Pontefice – di non rimanere sordi a questo grido di umanità e di fare tutto quello che è nel loro potere per salvare la pace”. Un messaggio reso noto nel 1971 e pubblicato in diverse testate giornalistiche. La Santa Sede avvia contatti anche con Washington. Del resto Kenendy è il primo presidente cattolico degli Stati Uniti e la speranza covata in ambienti vaticani è che questo dettaglio faciliti la mediazione.

Ancora oggi sono pochi i dettagli conosciuti riguardo i contatti tra le parti. Alcuni storici danno molto credito all’opera diplomatica del Vaticano, supportata dal governo italiano guidato in quel momento da Amintore Fanfani. Come prova si fa riferimento alla presenza a Washington, nella mattinata del 27 ottobre, di Ettore Bernabei, uomo di fiducia di Fanfani, incaricato di riferire della disponibilità italiana ad accettare l’allontanamento dalle basi della penisola degli ordigni Usa.

Quest’ultima è la condizione posta dai sovietici in una delle due proposte fatte pervenire da Mosca a Washington tra il 26 e il 27 ottobre. La prima riguarda il via libera dei sovietici al ritiro dei missili da Cuba, in cambio della promessa statunitense di non invadere l’isola e non attaccare il governo di Fidel Castro. La seconda, per l’appunto, riguarda il ritiro degli ordigni nucleari Usa da Italia e Turchia.

Nel giorno dell’abbattimento dell’aereo spia sui cieli di Cuba e quindi all’apice della tensione causata dalla crisi dei missili, il presidente Kennedy accetta pubblicamente la prima proposta sovietica. La Casa Bianca quindi si impegna a non attaccare L’Avana, in cambio del ritiro dei missili di Mosca. Il giorno dopo però lo stesso Kennedy invia il fratello, Robert Kennedy, all’ambasciata sovietica di Washington per annunciare l’intenzione dell’amministrazione Usa di accettare anche la seconda proposta, seppur in forma non pubblica ma privata. Vale a dire che gli Stati Uniti ufficialmente si impegnano da subito a prendere atto del ritiro dei missili da Cuba e, nel giro di un anno, ufficiosamente si impegnano a ritirare i propri ordigni presenti tra Italia e Turchia.

La fine del blocco navale e della crisi dei missili

Alla luce dei nuovi fatti, il 28 ottobre Nikita Kruscev annuncia ufficialmente il via libera dato al ritiro dei missili sovietici da Cuba. La tensione si distende e il mondo inizia a capire di aver evitato una terza guerra mondiale. Il blocco navale Usa viene ufficialmente ritirato invece il 20 novembre, quando la Casa Bianca giudica veritiero lo smantellamento degli arsenali sovietici presenti sull’isola.

Terminata la crisi dei missili, gli strascichi di quei tribolati giorni di ottobre vanno avanti però anche negli anni successivi. Secondo diversi analisti, alla fine i fatti di Cuba indeboliscono entrambi i principali protagonisti: Kennedy viene preso di mira dai “falchi” della sua amministrazione per non aver usato il pugno duro e per aver, dopo diversi mesi, smantellato l’arsenale Usa da Italia e Turchia; dall’altro lato, i falchi del Cremlino giudicano umiliante il dietrofront di Kruscev con il ritiro dei missili da Cuba.

Ad ogni modo, dopo la crisi viene attivata una “linea rossa” diretta tra Washington e Mosca con il fine di prevenire ulteriori futuri simili incidenti. Inoltre si avvia una fase di distensione della guerra fredda, destinata a durare fino alla fine degli anni ’70.

(ANSA il 5 settembre 2022) –  L'ultimo reattore in funzione nella centrale nucleare di Zaporizhzhia è stato disconnesso dalla rete elettrica ucraina. Lo afferma su Telegram l'operatore per l'energia nucleare di Kiev, Energoatom 

"Negli ultimi tre giorni, le forze di occupazione russe hanno continuato a bombardare intensivamente l'area intorno alla centrale nucleare di Zaporizhzhia", afferma Energoatom, riferendo che in conseguenza di ciò diverse linee di trasmissione sono state danneggiate.

"Si segnala inoltre che in data odierna, a seguito di un incendio avvenuto a causa di bombardamenti, è stata disconnessa la linea di trasmissione di potenza a 330 kV ZaTES - Ferrosplavna, ovvero l'ultima linea che collegava il nodo ZaNPP/ZaTES con il sistema energetico dell'Ucraina. Di conseguenza, l'unità di alimentazione n. 6 è stata scaricata e scollegata dalla rete, che attualmente fornisce solo il fabbisogno della centrale nucleare di Zaporizhzhia", aggiunge l'operatore ucraino. 

(ANSA il 4 settembre 2022) - Una delle unità di potenza della centrale nucleare di Zaporizhzhia è stata colpita da un proiettile d'artiglieria durante un recente bombardamento sulla struttura da parte dell'esercito ucraino, secondo le autorità di Energodar citate dall'agenzia russa Tass. Il capo dell'amministrazione militare-civile locale Alexander Volga afferma che "uno dei colpi sparati ha perforato un propulsore, che al momento non è operativo". La fonte non ha specificato la data dell'incidente.

(ANSA il 5 settembre 2022) - Un filmato girato di notte mostrerebbe il lancio multipolo di razzi in rapida sequenza dalle vicinanze della centrale nucleare ucraina di Zaporizhzhia, occupata dai russi. 

Lo scrivono alcuni media ucraini, che mostrano un video diffuso dal sito Usa The Insider, che però, per ammissione dello stesso Kyiv Independent, non può essere verificato e confermato in modo indipendente. 

La fila di razzi sparati in cielo vista da lontano indicherebbe la presenza nella zona della centrale di un lanciatore multiplo di razzi d'artiglieria Mlrs. A sinistra del punto di lancio si vedono chiaramente due ciminiere come quelle di cui è dotato l'impianto di Energodar.

Greta Privitera per il “Corriere della Sera” il 5 settembre 2022.

L'uomo che ci mette in contatto lo ha segnato in rubrica sotto il nome «Tecnico 2». Ci gira il suo numero di telefono su WhatsApp dopo giorni di messaggi e chiamate in cui cercava di assicurarsi che non fossimo delle spie, dei nemici. Ci avverte: «Deve essere una conversazione anonima, questa persona rischia la vita parlando con voi». Tecnico 2 lavora nella centrale di Zaporizhzhia. Non sappiamo quale sia la sua mansione specifica, ma sappiamo che è lì da 15 anni. Chatta con noi la sera tardi, quando si sente più sicuro, lontano da sguardi indiscreti.

La missione A Enerhodar, la cittadina in cui si trova la centrale, in questi giorni ci sono anche gli ingegneri e i tecnici dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica, in missione per capire le condizioni dello stabilimento nucleare più grande Europa sotto continuo attacco dei russi, per gli ucraini, degli ucraini, secondo i russi. 

Tecnico 2 non sembra riporre grandi speranze in questa missione: «Non mi aspetto molto dalla visita. È un passaggio importante per fermare o almeno arginare per un po' il terrore che si vive in questo luogo, ma il miracolo non avverrà. La composizione stessa della missione non mi rassicura: ci sono anche i russi. Saranno obiettivi?». Gli spieghiamo che da qui ci sembra il primo passo positivo dopo sei mesi di paura che Zaporizhzhia si trasformi in una nuova Chernobyl. 

Tecnico 2 ci risponde che il personale è troppo sotto pressione per dire tutta la verità riguardo quello che succede. «I militari russi sono sempre in giro e ascoltano ogni nostra sillaba. Se parliamo, quando i tecnici della Aiea se ne andranno, saremo noi a pagare il prezzo della verità», scrive.

L'unica sua speranza è che il rapporto finale dell'Agenzia - che dovrebbe arrivare all'inizio di questa settimana - contenga la richiesta di ritiro delle truppe russe dalla centrale. È d'accordo con lui anche il sindaco di Enerhodar, Dmytro Orlov, via dalla città da quando i russi l'hanno occupata: «Ci aspettiamo che il verdetto della commissione contribuisca a raggiungere l'obiettivo principale: il ritiro dell'esercito di Putin da Zaporizhzhia».

Tecnico 2 lavora su turni. Anche se non può dire di che cosa si occupa, ci racconta che quello che fa richiede la massima attenzione e lucidità. «Quando lavori coi fucili puntati non è semplice mantenere la calma. Da tre settimane, ogni volta che arrivo alla mia postazione, non so cosa mi aspetterà, non so se uscirò vivo da quelle stanze. 

Ora che la Aiea è ancora presente le esplosioni sono un po' diminuite, ma ci sono».

Secondo lui, non c'è alcun dubbio da che parte provengano gli attacchi: «È l'esercito russo a bombardare. Non siamo sordi, sentiamo il rumore delle granate e tre-sei secondi dopo c'è un'esplosione. Questo ci dice che il colpo è stato sparato da una distanza brevissima. Il più delle volte provengono dal villaggio di Dniprovka, di Ivanovka, da Volna e Enerhodar. Territori che da sei mesi sono sotto il controllo militare russo». Poi, racconta di come i cittadini si tengano informati via social sui movimenti dell'esercito. 

Molto spesso, subito dopo una notifica arriva l'esplosione. Però, la conferma che si trattino di attacchi russi, Tecnico 2 dice di averla sul lavoro. «Durante i miei turni, ho visto più volte i militari e il personale di Mosca lasciare in fretta e furia la centrale subito prima di un bombardamento. 

Vengono avvertiti dei missili che stanno per cadere, poi, con calma, tornano». Loro scappano mentre i lavoratori ucraini rimangono nel luogo più pericoloso di tutta Europa: «Fa paura», continua Tecnico 2. «Ho paura per me, ma sono felice che mia moglie e i miei figli siano andati via.

Non so cosa troverò quando tornerò a casa. Non so che fine farò. Mi porteranno in uno scantinato e mi tortureranno? I militari russi sospettano sempre di noi. Cercano spie, sabotatori, girano video inventati e fanno confessare cose che non abbiamo fatto. 

Molti miei colleghi sono già stati interrogati, picchiati e torturati con scosse elettriche. Non vediamo un ragazzo della nostra unità da oltre due mesi. Non sappiamo nulla di lui, è ancora vivo?», si chiede. 

Il futuro Non ha informazioni precise sul numero di lavoratori rimasti alla centrale, ma circa il 30% del personale della sua divisione se n'è andato. La maggior parte sono donne. Vive una strana ambivalenza: sente quanto sia importante che lui e i suoi colleghi continuino a svolgere il loro lavoro, ma vorrebbe anche scappare, stare con la sua famiglia. «Parlare di catastrofe nucleare non è esagerato.

Bombardano in modo da non danneggiare il reattore, ma i militari non sono abbastanza preparati da capire come funziona qui. Anche un completo arresto potrebbe portare al disastro». Prima di spegnere il telefono, Tecnico 2 ci ricorda che nella centrale ci sono anche dei container che chiama depositi a secco per il combustibile nucleare esaurito. «Se dopo un attacco missilistico alcune parti della centrale possono rimanere intatte, non sono sicuro che questi contenitori resisterebbero».

(ANSA il 2 settembre 2022) La Russia ha chiesto una riunione del Consiglio di Sicurezza Onu per il 6 settembre sul presunto bombardamento da parte dell'Ucraina della centrale nucleare di Zaporizhzhia. Lo ha detto il vice ambasciatore russo al Palazzo di Vetro, Dmitry Polyanskiy, affermando che la richiesta arriva "alla luce dei continui bombardamenti della centrale da parte dell'Ucraina e dello sconsiderato tentativo del regime di Kiev di far deragliare la visita della missione Aiea". Mosca ha chiesto che all'incontro intervengano anche il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres e il capo dell'Aiea, Rafael Mariano Grossi. (ANSA).

Nello Scavo per “Avvenire” il 2 settembre 2022.

Quello che ha visto non l'ha rassicurato. Lasciando l'impianto nucleare che da settimane tiene il mondo con il fiato sospeso, il direttore generale dell'Aiea ha solo detto di aver «trovato quello che cercavo». Nessuna accusa, in apparenza. Salvo aggiungere poche ore dopo che «la missione andrà avanti fino a quando la situazione non si sarà stabilizzata».

Bisognerà attendere alcuni giorni per una prima valutazione degli ispettori, ma le parole di Rafael Grossi sono una prima conferma: nessuno può dire di avere il pieno controllo dei sistemi nucleari, né che la condizione della centrale possa dirsi «stabile ». «L'integrità fisica dell'impianto è stata violata più volte - ha voluto sottolineare il direttore -. È qualcosa che non può accadere, ed è per questo che stiamo cercando di mettere in atto alcuni meccanismi, e di essere presenti'».

Dopo le prime due ore di ispezione il direttore generale dell'Agenzia per il nucleare dell'Onu ha rilasciato una dichiarazione sibillina: «Ho visto la cosa più importante», ha detto Grossi senza fornire ulteriori dettagli. Abbastanza, però, per riuscire a mettere all'angolo Mosca che ha dovuto accettare di lasciare nell'impianto fino a domani una parte degli ispettori. Kiev dice non essere in grado di garantire la sicurezza della missione Aiea. La Russia continua a sconsigliare di restare più di qualche ora.

«Se non c'è niente da nascondere non c'è ragione di andare via», si sono sentiti replicare gli stessi funzionari russi che il giorno prima avevano dato all'agenzia Onu meno di 24 ore per entrare e uscire dal complesso energetico. Alcuni membri del team di ispezione sono stati visti lasciare l'impianto. Quattro dei nove veicoli della delegazione si sono allontanati dalla centrale, dove sono rimasti cinque ispettori che hanno scaricato le attrezzature per il rilevamento e l'analisi dei dati.

L'ingresso era stato preceduto dal consueto scambio di accuse e da continue sparatorie. Kiev ha dichiarato che uno dei due reattori ancora accesi (altri quattro erano stati disattivati nelle scorse settimane) è stato spento ieri a causa dei bombardamenti russi. 

Un reporter della Reuters che si trova a Enerhodar al seguito degli ispettori nella zona controlla- ta dai russi ha riferito che un edificio residenziale è stato colpito. Non è stato possibile stabilire chi avesse sparato. «I soldati russi correvano intorno e gli elicotteri volavano sopra di loro», ha spiegato il giornalista.

Le condizioni dell'impianto nucleare, il più grande d'Europa, si stanno deteriorando da settimane. Prima dell'ingresso nella stazione energetica, il capo dell'Aiea aveva dichiarato ai giornalisti presenti nella città di Zaporizhzhia, a circa 55 chilometri dall'impianto, di essere a conoscenza di «un'accresciuta attività militare nell'area », ma che avrebbe portato avanti l'ispezione. «Dopo aver fatto tanta strada, non ci fermeremo», ha detto. Poco dopo, l'operatore ucraino Energoatom ha annunciato lo spegnimento di uno dei reattori «a seguito di un altro bombardamento di mortaio da parte delle forze russe».

Nel frattempo, la Russia ha accusato le forze ucraine di aver tentato di sequestrare l'impianto (che in realtà è in ostaggio dei militari russi da metà marzo) e di aver bombardato il punto d'incontro della delegazione dell'Aiea. Il ministero della Difesa russo ha dichiarato in un comunicato che fino a 60 incursori di Kiev hanno attraversato il fiume Dnipro, che divide il territorio delle due parti. L'agenzia di stampa statale russa Tass ha riferito che le aree residenziali della città di Enerhodar, dove ha sede l'impianto di Zaporizhzhia, sono state sottoposte a «massicci» bombardamenti da parte delle truppe ucraine. Ma proprio l'agenzia Reuters ha precisato di «non essere in grado di verificare in modo indipendente i report russi o quello ucraino sulla presenza di truppe russe».

«È ora di smettere di giocare con il fuoco e prendere invece misure concrete per proteggere la centrale e altri analoghi impianti da qualsiasi azione militare - ha ribadito Robert Mardini, direttore generale della Croce rossa internazionale -. Il minimo errore di calcolo può provocare una distruzione di cui ci pentiremo per decenni».

Diverse fonti ucraine all'interno della centrale e le stesse autorità russe avevano affermato nei giorni scorsi che i tecnici ucraini erano stati «affiancati » da specialisti di Rosatom, l'agenzia l'ente per il nucleare di Mosca. Ieri però si sono viste diverse auto uscire dall'impianto in direzione dei territori occupati. Secondo l'intelligence del ministero della Difesa ucraino era stata avviata l'evacuazione dei dipendenti di Rosatom verso Melitopol, nell'area sotto il controllo dei filorussi. Negli ultimi giorni era arrivata dall'interno della centrale un'altra conferma: gli occupanti hanno impedito l'ingresso di molti lavoratori ucraini, in particolare il personale preposto alla sicurezza antincendio, forse sostituito proprio da addetti di Rosatom.

SARA GANDOLFI su Il Corriere della Sera il 19 Agosto 2022. Bentrovati, i venti di guerra e il timore di una escalation militare continuano a dominare le cronache globali, tra piccoli e grandi conflitti più o meno visibili sulla stampa internazionale. Le superpotenze - Russia, Cina e Usa - fanno a gara nel mostrare i muscoli e minacciare catastrofi possibili, se non imminenti. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, avverte che un conflitto nucleare sarebbe «la fine del nostro pianeta». Alla scienza non resta che provare a prevedere il peggiore degli scenari possibili. Che fare, se a qualcuno venisse davvero la pessima idea di schiacciare quel bottone? Trasferiamoci in Australia o in Argentina, le due uniche destinazioni che garantiscono la sopravvivenza almeno per un decennio dopo l’attacco atomico, suggerisce uno studio internazionale pubblicato su Nature Food. In tutti gli altri Paesi, anche lontani dall’obbiettivo militare, si rischia la morte per fame.

«Per la prima volta, siamo stati in grado di utilizzare i moderni modelli climatici e colturali per quantificare gli effetti in ogni Paese di un simile attacco», spiegano gli analisti della Rutgers University in New Jersey, che hanno delineato sei scenari di guerra con un crollo delle temperature terrestri, dovuto all’immissione di fuliggine in atmosfera, tra -1°C e -16C°. Anche un conflitto nucleare minore potrebbe generare una carestia mondiale e, a catena, la crisi generalizzata dei raccolti agricoli e il pericolo di morte per 5 miliardi di persone. Il commercio internazionale si bloccherebbe, perché i governi destinerebbero tutta la produzione agricola alle necessità nazionali. In caso di un conflitto limitato - ad esempio fra India e Pakistan per il controllo del Kashmir - il rilascio di 5 milioni di tonnellate di fuliggine in atmosfera provocherebbe un calo del 7% nella produzione calorica in tutto il pianeta nei primi cinque anni dopo la guerra. In uno scenario intermedio, con 47 milioni di tonnellate di fuliggine rilasciate, le calorie medie globali diminuiscono fino al 50%. Nel peggiore dei casi - una guerra tra Stati Uniti e Russia, con 150 milioni di tonnellate di fuliggine in atmosfera - la produzione calorica crollerebbe del 90% entro 3-4 anni. Sulla mappa pubblicata da Nature, quasi tutto il mondo è colorato in rosso, per fame. L’Australia e l’Argentina brillano di un verde incontaminato anche nel peggiore scenario perché potrebbero fare affidamento su coltivazioni estensive di grano e sull’esiguità della popolazione. 

Attualmente, nove Paesi detengono testate nucleari. Russia (6.225 testate); Stati Uniti (5.550); Cina (350); Francia (290); Regno Unito (215); Pakistan (165); India (156); Israele (90); Corea del Nord (40). Gli ultimi quattro non aderiscono al Trattato di non proliferazione nucleare, l’accordo entrato in vigore nel 1970 per fermare l’escalation. Discussa la posizione dell’Iran, che da anni lavora all’arricchimento dell’uranio, ufficialmente per produrre energia nucleare. Tutti i Paesi “atomici” sono nell’emisfero settentrionale. Da non dimenticare che l’Italia “ospita” 70-90 ordigni nucleari della Nato.

In questo numero, Alessandra Muglia commenta il risultato del voto in Kenya, Paolo Foschi racconta la storia di Salma, in carcere per uso di twitter in Arabia Saudita, Guido Olimpio ci porta in Messico, Mali, Sri Lanka e Arabia Saudita, e poi aggiornamenti da Brasile, Ecuador, Cuba e Colombia. Buona lettura.

Domenico Quirico per “La Stampa” il 10 agosto 2022.

Siamo dunque giunti in Ucraina al fosco capitolo del ricatto atomico o del terrorismo nucleare? Come sempre accade in quel gran ciarpame di confusione in cui già si preparano i peggiori avvenimenti domina un misterioso rispetto per la bugia e la disinformazione. Zaporizhzhia: non dimenticate questo nome. Corrisponde a lugubri e per fortuna possenti (garantisce la Agenzia internazionale per l'energia atomica) cubi di cemento armato che ospitano una delle quattro centrali atomiche ucraine. Da alcuni giorni sono il bersaglio di frequenti tiri di artiglieria per ora senza conseguenze.

Gli ucraini accusano i russi. Il presidente Zelensky, sempre alla ricerca di una buona battuta per il copione delle prediche serali alla nazione e non solo, ha denunciato esplicitamente «il terrorismo atomico russo»: la Russia «Stato terrorista», talmente criminale da esser l'unico che osa manovrare cinicamente la possibilità di una catastrofe nucleare per ricattare il mondo. «Perché se a Chernobyl - ha rammentato - il reattore esploso era uno a Zaporizhzhia potrebbero essere sei». 

A seguire la logica verrebbe da dubitare dell'accusa visto che la centrale è stata da tempo occupata dai soldati russi. E appare quanto meno singolare che siano così malaccorti o diabolici da bombardarsi da soli. Va bene il disinvolto machiavellismo criminale stile Kgb. Ma causerebbero un disastro di cui sarebbero le prime vittime.

I russi contrattaccano sostenendo che colpevoli sono gli ucraini che sparano dalle loro linee oltre il fiume Dniepr e mostrano come prove «inoppugnabili» alcuni filmati: come sempre di impossibile decifrazione e accertamento. Alla fine quello che resta sono solo parole. Di concreto ci sono le cannonate e la possibilità di essere annientati da una esplosione atomica. 

Di Zaporizhzhia si parlava, ma sottovoce, da tempo. L'improvvisa raffica di attenzione propagandistica mentre corrono voci di un agosto di grandi e risolutivi avvenimenti militari, fa sorgere qualche dubbio. Il pericolo nucleare è da sempre il pretesto perfetto di quando si decidono «escalation» militari su cui non si è certo di avere il consenso.

Quello che è certo è che i russi hanno dedicato alle centrali atomiche ucraine dal primo giorno di guerra un capitolo della loro strategia. Due centrali le hanno occupate: Zaporizhzhia e Chernobyl, evocatrice di spettri a prescindere. Anche lì si sono registrati incidenti dovuti ad attività bellica come la interruzione dei sistemi di controllo a distanza della radioattività. Una terza, Kostiantinivka, è invece sfuggita ai loro attacchi. 

Occuparle dà la possibilità di privare l'Ucraina di energia elettrica visto che il nucleare ne fornisce la metà, creando gravi impicci ai progetti di riscossa sul campo. Secondo gli ucraini che aggiungono anche prove filmate i militari russi usano i siti atomici soprattutto per farne delle piazzeforti e depositi al riparo dei colpi della artiglieria nemica. A Zaporizhzhia infatti sarebbero nascosti ingenti quantitativi di munizioni e postazioni di artiglieria al riparo di una sorta di intangibile santuario atomico.

Piano che gli ucraini, peraltro, non avrebbero esitato disinvoltamente a scombinare. Circolano infatti immagini di un drone di Kiev che polverizza soldati russi accampati all'interno della centrale. Verità da brividi o semplice propaganda a cui la comunicazione militare ucraina si dedica con successo tra gli ingenui collezionisti social di brividi bellici di tutto il mondo. Ma che poco svelano della verità della situazione militare.

Accanto a una possibile apocalisse di chilotoni tattici e strategici c'è chi rammenta altri rischi forse più concreti: ovvero che a causa della situazione possa sopravvenire un calo di alimentazione che blocchi il raffreddamento dei reattori. Oppure in un sito in cui i tecnici sono costretti a lavorare tra bombardamenti e minacce possa verificarsi un irreparabile errore umano. Senza dimenticare che un guasto sarebbe difficile da riparare in un luogo costeggiato da fronti di guerra impegnati a scambiarsi cannonate. 

La nostra unica assicurazione quindi è nei metri di cemento armato. Proiettili di artiglieria, si assicura, difficilmente possono sfondare i ciclopici spessori della centrale. Ma siamo come sempre alle simulazioni. La realtà chissà…

All'inizio della guerra si è discusso, poco, sui rispettivi arsenali atomici russo e americano e le possibili prospettive di fine del mondo. In quel caso la sorprendente assenza di panico universale si poteva far risalire alla certezza che funzionasse sempre la vecchia, saggia regola non scritta della Guerra fredda prima maniera. Mille bombe di qua mille di là: ma servivano solo come ipotesi, come deterrenza contro i colpi di testa. Conoscendo entrambi le conseguenze. 

Ora dopo sei mesi siamo già scivolati su un piano ben più inclinato. Le centrali atomiche sono diventate arma di guerra, che sia ricatto o propaganda in fondo è dettaglio poco importante.

Cito Zelensky: un incidente a Zaporizhzhia sarebbe la fine dell'Europa, la fine di tutto. Se il presidente ucraino pensava di sollevare fervide indignazioni contro l'ennesima, apocalittica conseguenza dell'aggressione russa deve esser rimasto deluso. Ci stiamo, non c'è dubbio, avviando a una stagione di grande indifferenza nei confronti della tragedia ucraina. Di più: di sincera avversione. 

Dalle spiagge di tutta Europa salgono sospiri di noia verso questa guerra ormai di trincee, di avanzate millimetriche, di offensive mostruose e risolutive ma che non arrivano mai. La guerra, soprattutto quella degli altri stanca. Persino gli europei dell'est finora zelantissimi nei confronti degli sventurati profughi ucraini danno segni di volere che i fratelli ucraini tornino a casa.

Perfino una nuova Chernobyl causata da cannonate non ha la densità dell'incubo e lo splendore dello spavento. C'è solo l'aria appiccicosa legata al vecchio dibattito di politica interna sul nucleare civile da far risorgere in epoca di penuria energetica. Niente che valga iperboli violente e parole terribili. Tutti si sono autoconvinti che la guerra atomica sia qualcosa di anacronistico. Già: ma Zaporizhzhia?

Il messaggio di Einstein «Basta guerre, l’atomica ci distruggerebbe tutti». Einstein è morto il 18 aprile 1955, solo pochi giorni dopo aver firmato l’appello di cui è, insieme a Russell, autore. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Luglio 2022.

«Una guerra atomica segnerebbe la fine dell’umanità» è il titolo di un articolo scritto da Londra dal grande giornalista Arrigo Levi, che compare in prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 10 luglio 1955. Siamo nel pieno della guerra fredda e il mondo intero vive sotto la costante minaccia dell’utilizzo di armi nucleari. La notizia è clamorosa: il filosofo inglese Bertrand Russell ha tenuto l’annunciata conferenza stampa nel corso della quale è stato svelato il messaggio postumo di Albert Einstein all’umanità.

Tale messaggio è contenuto in una risoluzione firmata da otto altri scienziati di fama internazionale, tra cui 5 premi Nobel. Ecco il testo: «In considerazione del fatto che in ogni futura guerra mondiale verrebbero certamente impiegate armi nucleari e che tali armi mettono in pericolo la continuazione dell’esistenza dell’umanità, noi rivolgiamo un pressante appello ai Governi di tutto il mondo affinché si rendano conto, e riconoscano pubblicamente, che i loro obiettivi non possono essere perseguiti mediante una guerra mondiale e li invitiamo, di conseguenza, a cercare mezzi pacifici per la soluzione di tutte le questioni controverse tra loro». All’appello fa seguito una dichiarazione di accompagnamento: «Riteniamo che gli scienziati debbano riunirsi in conferenza per accertare i pericoli dello sviluppo delle armi di distruzione e per discutere una risoluzione [...]. Parliamo in questa occasione non come membri di questa o quella nazione, continente o fede, ma come esseri umani, membri della razza umana, la cui esistenza ora è in dubbio».

Einstein è morto il 18 aprile 1955, solo pochi giorni dopo aver firmato l’appello di cui è, insieme a Russell, autore. Arrigo Levi sottolinea l’energia con cui Bertrand Russell mette in luce la straordinaria potenza delle nuove bombe ad idrogeno, più letali di quelle di Hiroshima. Per il filosofo inglese non c’è niente di più urgente: «Cercheremo di non dire nemmeno una parola che possa fare appello a un gruppo piuttosto che a un altro. Tutti egualmente sono in pericolo. Noi vi chiediamo, se potete, di considerarvi solo come membri di una specie biologica che ha avuto una storia importante della quale nessuno di noi può desiderare la scomparsa».

E in chiusura , dopo aver ricordato il rifiuto della firma da parte di alcuni grandi uomini di scienza – il sovietico Skobeltsyn, il cinese Kuang, il tedesco Hahn – Levi lascia di nuovo la parola a Russell: «L’appello chiede non semplicemente l’interdizione delle armi nucleari: è la guerra che deve esser bandita».

L'allarme degli 007 Usa: torna lo spettro delle armi nucleari russe. Federico Giuliani il 30 Giugno 2022 su Il Giornale.

Vladimir Putin ha spiegato che la Russia risponderà allo stesso modo se la Nato dispiegherà truppe e infrastrutture in Finlandia e Svezia. Allarme dell'intelligence americana: possibile che con il prolungarsi della guerra Mosca possa usare le armi nucleari

Vladimir Putin ha accusato la Nato di essere uno strumento nelle mani degli Stati Uniti, avere "ambizioni imperiali" e affermare la propria "supremazia" attraverso il conflitto in Ucraina. Nel frattempo gli 007 Usa hanno lanciato l'allarme sul possibile utilizzo russo dell'arma nucleare. A completare l'escalation, il riconoscimento della Siria dell'indipendenza e della sovranità delle repubbliche di Donetsk e di Luhansk, nel Donbass, che ha portato Volodymyr Zelensky a rompere le relazioni diplomatiche con Damasco.

Le minacce di Putin

In occasione della sua visita in Turkmenistan, Putin ha usato parole emblematiche. Innanzitutto, ha spiegato il capo del Cremlino, la Russia risponderà allo stesso modo se la Nato dispiegherà truppe e infrastrutture in Finlandia e Svezia dopo che si saranno unite all'alleanza militare guidata dagli Stati Uniti. "Svezia e Finlandia vogliono unirsi alla Nato? Che lo facciano", ha dichiarato Putin.

Il presidente russo ha sottolineato però che Stoccolma ed Helsinki "devono capire che prima non c'era alcuna minaccia, mentre ora se i contingenti militari e le infrastrutture saranno dispiegati lì dovremo rispondere in modo simile e creare eguali minacce per i territori da cui vengono minacce nei nostri confronti". Da Ashgabat, Putin ha quindi dichiarato che sarà inevitabile che le relazioni di Mosca con Helsinki e Stoccolma si inaspriranno a causa della loro adesione alla Nato. "Tra noi è andato tutto bene, ma ora potrebbero esserci delle tensioni. Di certo ci saranno: è inevitabile se c'è una minaccia per noi", ha affermato il presidente russo.

"In Ucraina procede tutto secondo i piani"

Sulla guerra in Ucraina, Putin ha confermato che "tutto sta andando secondo i piani" e che gli obiettivi della Russia non sono cambiati. "L'obiettivo finale è la liberazione del Donbass e la creazione di condizioni che garantiscano la sicurezza della Russia stessa", ha spiegato Putin, senza fornire ulteriori dettagli, aggiungendo che le tattiche per raggiungere quest'obiettivo "possono essere diverse".

Per quanto riguarda il raid russo sul centro commerciale di Kremenchuk, Putin ha detto che "non c'è stato alcun attacco terroristico". "L'esercito russo non colpisce alcun obiettivo civile. Non ce n'è bisogno, abbiamo armi moderne a lungo raggio ad alta precisione e raggiungiamo i nostri obiettivi", ha dichiarato. Non è mancata, poi, una replica del leader russo al premier britannico Boris Johnson, che aveva detto che se Putin fosse stato una donna non avrebbe mai iniziato una guerra. Il capo del Cremlino ha ricordato la premier britannica Margaret Thatcher e la guerra delle Falkland e ha aggiunto che "invitare Kiev a continuare a combattere conferma che l'Ucraina è semplicemente un mezzo per l'Occidente per raggiungere i suoi obiettivi".

L'allarme Usa sulle armi nucleari russe

Dagli Stati Uniti, il capo dell'intelligence Usa, Avril Haines, ha dichiarato che col prolungarsi della guerra in Ucraina è possibile che la Russia usi le armi nucleari. Per l'intelligence americana dopo quattro mesi di conflitto, Mosca ci metterà anni a ricostruire le sue forze. E "in questo lasso di tempo è possibile che le forze di Vladimir Putin facciano affidamento su altri mezzi come i cyberattacchi, i ricatti energetici o le armi nucleari per cercare di gestire e proiettare potere e influenza a livello globale", ha spiegato la numero uno dell'intelligence.

Haines ha quindi affermato che a questo punto del conflitto le agenzie di intelligence Usa vedono tre possibili scenari: il più probabile è quello in cui il conflitto si protrae e le forze russe continuino a compiere piccoli progressi senza sfondare. Il secondo che le forze di Mosca riescano a prevalere, il terzo che l'Ucraina stabilizzi le linee del fronte ottenendo piccoli guadagni. La priorità di Putin adesso, ha spiegato ancora la numero uno dell'intelligence americana, è "progredire nel Donbass e sconfiggere le forze ucraine, un'operazione che secondo Mosca porterà al crollo della resistenza interna".

Lontano dai campi di battaglia il governo siriano di Bashar al Assad, sostenuto da Mosca, ha riconosciuto ufficialmente "l'indipendenza e la sovranità" delle repubbliche di Donetsk e di Lugansk nel Donbass. Secca la risposta di Zelensky. "Non ci saranno più relazioni tra Ucraina e Siria", ha detto il presidente ucraino in un video pubblicato su Telegram, affermando che "la pressione delle sanzioni" contro Damasco, alleato della Russia, "sarà ancora più forte".

La Russia pubblica coordinate e immagini dei centri decisionali Nato. Federico Giuliani su Inside Over il 30 giugno 2022.

Mentre i leader dei Paesi membri della Nato, ignari di tutto, erano in procinto di riunirsi a Madrid per partecipare all’importante summit che avrebbe partorito lo Strategic Concept 2022, l’agenzia spaziale russa Roscosmos stava diffondendo sul proprio canale telegram immagini e coordinate dei centri decisionali “che sostengono i nazionalisti ucraini”.

La “lista nera” comprende la Casa Bianca e il Pentagono, a Washington, il Centro Congressi IFEMA di Madrid dove si è tenuto il vertice dell’Alleanza atlantica, il ministero della Difesa britannico, il Reichstag e la Cancelleria federale a Berlino, nonché gli Champs Elysees a Parigi.

Per alcuni si è trattata di una provocazione, una delle tante che va a sommarsi ai vari affondi perpetuati da personaggi del calibro di Dmitry Medvedev e Sergej Lavrov. Altri hanno preso il messaggio della Russia molto più sul serio, temendo possibili attacchi o minacce di vario tipo. Anche perché, nei giorni scorsi, Vladimir Putin ha più volte affermato che se fossero state superate non meglio specificate “linee rosse”, la Russia sarebbe stata pronta a colpire i centri decisionali dei Paesi occidentali sostenitori della causa ucraina.

Il duro affondo di Medvedev contro l’Occidente

Tutti gli uomini della propaganda di Putin

Come e perché la propaganda russa agita lo spettro nucleare

Minaccia o provocazione?

Putin non ha mai indicato che tipo di eventi potrebbero provocare l’eventuale contromossa russa, ma ha sottolineato che Kiev è ben consapevole della posta in gioco. A sua volta, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha specificato che la Russia ha più volte cercato di allertare i Paesi membri della Nato, avvertendo dell’inammissibilità di espandere l’alleanza ad est. Una mossa, questa, che il Cremlino percepisce chiaramente come una minaccia rivolta alla propria sicurezza. Resta da capire se tra le linee rosse paventate da Mosca rientri anche l’ingresso – ormai praticamente certo – di Svezia e Finlandia nel Patto atlantico.

L’agenzia di stampa russa Ria Novosti ha scritto che l’azione di Roscoscmos è una risposta al supporto che che gli operatori satellitari occidentali hanno fornito all’Ucraina. Nel corso degli ultimi mesi, infatti, citiamo il contributo offerto alla causa di Kiev da parte della società statunitense Maxar, che ha diffuso immagini satellitari poi utilizzate dal blocco occidentale come prove per accusare la Russia di aver perpetuato stragi su civili e altre azioni depcrabili. Mosca ha sempre respinto tutte le accuse e adesso, rispondendo con le stesse armi, è partita alla carica affidandosi a Roscoscmos.

Il post di Roscoscmos

Arriviamo così al discusso post di Roscoscmos. L’agenzia spaziale russa ha diffuso le immagini prelevandole dallo spazio dal satellite Resurs-P. Oggi si apre il vertice Nato a Madrid. I Paesi occidentali dichiareranno la Russia il loro peggiore nemico. L’intero conglomerato di gruppi orbitali privati lavora per il nostro nemico. Roscoscmos ha quindi deciso di pubblicare le immagini satellitari della sede del vertice e dei centri decisionali che sostengono i nazionalisti ucraini. Stiamo anche fornendo le coordinate degli obiettivi perché non si sa mai£, ha scritto, sempre su Telegram, Dmitry Rogozin, capo dell’agenzia spaziale russa. In seguito alla pubblicazione delle stesse immagini, il sito dell’agenzia è stata vittima di un attacco informatico che ne ha bloccato i servizi. Fonti interne di Roscoscmos sostengono che l’attacco non sia partito dall’esterno della Russia ma da Ekaterinburg.

Liana Milella per “la Repubblica” il 26 maggio 2022.

Una dozzina di pagine. Che di prima mattina arrivano sui tavoli dei giudici di Roma. Tra i quali si diffonde subito la preoccupazione. Perché un documento del genere, che Repubblica vede in esclusiva, in anni e anni di lavoro non gli era mai capitato. 

Allarme nel leggere come ci si deve comportare trovandosi a vivere una minaccia «biologica, chimica, radiologica, nucleare». Un pericolo concreto, evidente conseguenza di uno scenario di guerra. E il pensiero di tutti va alle possibili conseguenze anche in Italia dell'invasione russa dell'Ucraina. 

Quelle pagine provengono dal ministero della Giustizia, datate 10 maggio, e sono dirette ai vertici della magistratura italiana, a cominciare dai capi della Cassazione. Via Arenula si fa tramite, per conto del Viminale, di rendere noto, e quindi operativo, il "Piano nazionale per eventi con armi o agenti di tipo chimico, biologico, radiologico o nucleare". Un piano, com' è scritto nella nota di accompagnamento, che «definisce le minacce, individua i possibili scenari, stabilisce le misure da adottare».

Intendiamoci, le dodici pagine non dicono che esiste già un pericolo concreto. Alle orecchie della nostra intelligence non è giunta una segnalazione di un rischio attentati per i nostri palazzi di giustizia. Su questo insistono le fonti del ministero della Giustizia, paragonando questo Piano a quelli messi a punto e diffusi durante il Covid. Ma qui la materia è così "esplosiva" che chi legge inevitabilmente si sente prendere dall'angoscia.

Per capire, leggiamo il passaggio che riguarda il rischio di possibili radiazioni: «Si consigliano quattro regole. Cercare riparo al centro di una stanza priva di finestre. Il luogo ideale è quello in cui non è possibile la ricezione di trasmissioni radio in modulazione di frequenza». 

E ancora: «Se possibile, riscaldare la stanza in quanto l'aria calda determina pressioni positive e ostacola la penetrazione dei contaminati ». E poi: «Usare le risorse disponibili per proteggere i polmoni e difendere il corpo dalle radiazioni muovendosi dietro un muro». Infine: «Chiudere gli accessi d'aria, ivi comprese le fessure degli infissi, anche con metodi speditivi (carta, nastro adesivo)». Se le toghe romane non nascondono la paura, così non avviene altrove, per esempio a Milano. 

Dove il "Piano" resta nelle mani dei capi.

Del resto si tratta di fogli sottoposti a un protocollo di sicurezza, come rivela il numero progressivo, perché spetterà al prefetto elaborare con i capi degli uffici giudiziari una strategia difensiva. Ma adesso le pagine girano di mano in mano, e la reazione è una sola: «Faccio il magistrato da molti anni, ma una cosa simile non l'avevo mai letta. Certo, lo sappiamo tutti che c'è la guerra. Ma pensare che la minaccia nucleare arrivi nella mia stanza non può certo farmi stare sereno».

 Paure inevitabili. Di fronte a un testo che insiste sulla «diffusione nell'ambiente di agenti biologici quali virus, batteri, funghi, tossine, in grado di causare malattie mortali per gli esseri viventi». e che parla della «minaccia chimica, con la diffusione nell'ambiente di sostanze atte a provocare, per inalazione, assorbimento cutaneo o ingestione, la perdita di vite umane». Ed eccoci alla «minaccia radiologica», con «la diffusione di materiali in grado di arrecare danni biologici all'uomo».

Cos' ha fatto chi, a piazzale Clodio, è arrivato alla fine del documento? Le testimonianze ci parlano di un'angoscia profonda: «Nemmeno ai tempi del terrorismo o degli attentati della mafia mi era capitato di leggere una cosa del genere ».

Viaggio nel bunker anti-nucleare nascosto nel bosco di Martina Franca. La base, scavata per 50 metri nel fianco della collina, è a prova di attacco nucleare. Maristella Massari - Ottavio Cristofaro su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Maggio 2022.

Nel cuore del verdeggiante bosco di Pianelle, alle porte di Martina Franca c’è un’area «off-limits», delimitata da un grande cancello verde al di là del quale, dalla metà degli anni ’50 fino al 1998 ha operato il Terzo Roc (Regional operative command) dell’Aeronautica Militare, a cui era deputato il monitoraggio dei cieli 24 ore su 24.

La base, scavata nel fianco della collina nella Murgia tarantina in piena Guerra Fredda, a 50 metri di profondità, è a prova di attacco nucleare. Una necessità dettata dai tempi – allora – con lo scontro dei due blocchi, quello atlantico e quello sovietico, che era costante fonte di tensione. Oggi il sito, «disattivato» per i compiti che svolgeva alla fine del secolo scorso, resta uno dei pochi bunker blindati in provincia di Taranto. L’esigenza della sua protezione a prova di bomba era legata al delicato compito: in caso di attacco, sarebbe stato necessario garantire in totale sicurezza le comunicazioni e le operazioni di controllo dei cieli.

Nel 2015 gli stretti cunicoli che portavano al cuore della montagna e alla grande sala operativa che ospitava le «consolle» su cui arrivavano le tracce dei radar disseminati lungo le coste italiane, sono stati ufficialmente chiusi, dopo il trasferimento delle funzioni di controllo aereo al centro di Poggio Renatico in Emilia Romagna. La «Gazzetta» è andata a vedere cosa è rimasto oggi di questo importante tassello della difesa aerea che, per mezzo secolo, ha prodotto sicurezza per il nostro Paese. A farci da guida è un «Virgilio» davvero d’eccezione: il colonnello Donato Barnaba, attuale comandante della base che ospita il 16esimo Stormo Fucilieri dell’aria. È la sua terza volta a Martina Franca. Il suo primo incarico, da giovane sottotenente, era legato all’attività di soccorso aereo coordinata dal Terzo Roc. Originario di Putignano, Barnaba conosce la base come le sue tasche.

«Una delle articolazioni principali di questo sito era la difesa aerea per quel che riguarda la Terza Regione, ovvero la parte meridionale dell’Italia. Ci occupavamo della sorveglianza dello spazio aereo, pronti ad intervenire laddove ci fossero state delle “tracce” sospette sui radar, ovvero non riconosciute o non autorizzate». La caverna di Martina Franca ha tre livelli operativi: il primo sulla strada con l’ingresso blindato e il corpo di guardia, il secondo a meno 25 metri con le sale di lavoro per l’elaborazione dei dati e quella più «segreta» e operativa a meno 50 metri scavata nel cuore della collina di Pianelle. Un dedalo di corridoi ad aerazione forzata che, dalla collina, portavano dritti al cuore del controllo dei cieli del Mediterraneo. La Libia con i suoi missili puntati aveva indotto lo Stato ad arretrare quella “prima linea” europea di fronte alle coste africane per supportare la Marina di Taranto sino al Veneto. Qui tornano alla mente quei giorni di ottobre del 1991, quando i telefoni della sala operativa di Martina trillavano per cercare di decifrare il giallo senza fine dell’Itavia. Oggi quella galleria inaugurata negli anni ‘50 per controllare lo spazio aereo insieme agli americani, che a Trasconi avevano la base Nato e i radar, è stata definitivamente murata. La storia in breve di questa «sede operativa protetta» inizia nel 1953. A 50 metri di profondità centinaia di persone operavano 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 per sottrarre rocce e terra alla montagna e realizzare la base. I lavori di scavo, da dicembre 1959 permisero di ospitare la base di Difesa aerea territoriale, divenendo nel 1962 Comando operativo di Regione, inglobando le competenze dal 1963 nella catena di difesa aerea della Nato che ne assunse il nome nel 1964. Nel 1998, il reparto di Martina divenne Centro operativo alternato e mobile fino al 2000 con funzioni di comando e controllo delle operazioni aeree nazionali. A seguito della ristrutturazione dei vertici della Forza Armata, la base martinese fu destinata a compiti nel settore delle telecomunicazioni, quale centro nodale dell’Aeronautica Militare per l’Italia meridionale mentre dal 2004, diventa 16esimo Stormo, con la denominazione «Protezione delle Forze».

Oggi di quello scenario da Wargames, il celebre film di John Badham con Matthew Broderick, rimane grazie alla lungimiranza dell’Aeronautica e alla passione del personale militare, una sala espositiva, dove si possono ancora ammirare apparecchiature elettroniche, radar, pannelli operativi e registratori a nastro del vecchio Terzo Roc.

Sulle «consolle» ricostruite con cura e dedizione, resta la testimonianza di un’epoca che sembra lontanissima non solo per il livello della tecnologia espressa. Ci sono nomi e sistemi operativi in uso tra la fine degli anni ‘60 e quella degli anni ‘90. Un tempo cristallizzato che racconta in maniera rigorosamente analogica la storia della sorveglianza aerea d’Italia. Con tanto di nomi in codice ancora ben visibili sugli schermi illuminati dai neon. Quello di Martina era «sasso». Erano gli operatori di «sasso», scelti e con un livello di segretezza altissimo, quelli deputati a elaborare le tracce radar e a decidere se far scattare lo scramble, ovvero il decollo rapido degli intercettori di guardia in caso di pericolo per il nostro Paese. 

L’embargo Usa alla Russia “dimentica” l’uranio. Andrea Muratore su Inside Over il 3 maggio 2022.

Strana Terza guerra mondiale, quella paventata come non improbabile da leader e analisti di tutto il mondo, se i due potenziali contendenti principali continuano a commerciare tra di loro la materia prima più strategica per la guerra nucleare, l’uranio. Strane sanzioni, quelle statunitensi, se colpiscono imponendo l’embargo alla Russia laddove Washington ha raggiunto indipendenza e autosufficienza e dimenticano, lasciandoli ancora più scoperti, quelli ove in cui è più esposta. Ma anche strana reazione quella autarchica di Mosca, se non può fare a meno del minimo dollaro o euro di esportazione di materie prime.

La continuità delle forniture di uranio dalla Russia agli Stati Uniti è una delle questioni meno note dell’attuale rivalità geostrategica tra Mosca e l’Occidente degenerata in vera e propria guerra per procura a Vladimir Putin con il massiccio riarmo dell’Ucraina invasa. Washington ha sanzionato gas, petrolio, carbone e altre materie prime di provenienza russa, ma non l’uranio decisivo per la sua industria nucleare, civile e militare.

Nel 2020, secondo gli ultimi dati a disposizione, i produttori americani di energia nucleare hanno acquistato 22.180 tonnellate di uranio. Come riporta StartMag, “secondo la US Energy Information Administration, l’Agenzia statistica e analitica del Dipartimento dell’energia statunitense, il Paese importa uranio per il 22% sia dal Canada che dal Kazakistan e per il 16% dalla Russia, seguita poi da Australia (11%), Uzbekistan (8%) e Namibia (5%). Il restante 14% proviene, invece, dagli stessi Usa e da altri cinque Paesi”. La Russia ha dunque una quota nelle forniture di uranio a stelle e strisce un peso maggiore della produzione interna e “non è meno rilevante la presenza tra i Paesi importatori di Kazakistan e Uzbekistan, che sono stretti alleati del Cremlino, e messi insieme forniscono agli Stati Uniti il 46% dell’uranio di cui ha bisogno” per far funzionare le sue centrali. Decisive sia per la fornitura di un quinto dell’energia elettrica al sistema-Paese che per il programma militare nucleare.

Secondo il senatore repubblicano John Barrasso, gli Usa avrebbero speso quasi 1 miliardo di dollari nel 2021 per comprare uranio russo. Una cifra che potrebbe raggiungere, sempre secondo Barrasso, 1 miliardo e 200 milioni quest’anno e che appare dunque irrisoria, sulla carta rispetto, al conto versato quotidianamente dai Paesi europei per comprare gas e petrolio russo, che equivale all’ammontare annuo della spesa Usa, ma non per questo meno strategica. Barasso a marzo ha lanciato una proposta di legge per mettere al bando le importazioni dalla Russia proponendo, al contrario, di rilanciare la produzione nel suo Stato d’elezione, il Wyoming. Prospettiva, questa, che ha messo in allarme gli esponenti delle comunità indigene locali, già in passato minacciate dall’estrattivismo, e che si allarga al resto del sistema di Paesi alleati con Washington.

Sul gas russo l’Ue punta all’eliminazione graduale

La Germania si unisce contro l’embargo totale

La Slovacchia, per fare un esempio, come riporta Euractiv genera quasi metà della sua elettricità attraverso le sue due centrali nucleari da sei reattori complessivi gestiti, ricorda Formiche, “dalla società TVEL, una controllata dell’azienda statale russa Rosatom”. Anche l’Ungheria ha accordi con Rosatom per costruzioni di centrali nucleari e dal Medio Oriente all’Africa sono diversi gli Stati, dall’Arabia Saudita all’Egitto, che si affidano alla tecnologia atomica russa.

Il peso specifico di quel miliardo di importazioni americane è paragonabile a quello del conto quotidiano dell’Europa. Dato che mostra la rilevanza strategica e la lungimiranza di Mosca nel dominare questo mercato è il fatto che la Russia pesi non solo per la sua presenza nel business dell’estrazione, quanto piuttosto per il valore aggiunto che sa determinare nell’arricchimento a basso costo del materiale grezzo.

Detentrice del 6% delle riserve globali, Mosca è però la nazione dotata della più grande capacità di arricchimento, con circa il 43% della capacità operativa globale in suo possesso secondo la World Nuclear Association: un valore maggiore di quello di Francia, Germania, Paesi Bassi e Regno Unito messi insieme. Una volta di più la globalizzazione e la ricerca del costo minimo nei processi industriali hanno colpito gli Usa su un materiale strategico, e ora se le sanzioni dovessero amplificarsi l’arma dello stop alle esportazioni di uranio sarebbe una contromossa lasciata facilmente in mano alla Russia. E colpirebbe sia la capacità di generazione elettrica che il sistema nucleare militare a stelle e strisce, date le conseguenze sulla produzione di plutonio che ne deriverebbero. Ma proprio il fatto che le sanzioni sull’uranio da esportare non siano ancora state imposte dalla Russia segnala che un passo importante verso il caos nelle relazioni bilaterali non è stato ancora compiuto. E questa è una buona notizia: un raro caso di interdipendenza industriale e commerciale capace di frenare un caos geopolitico. Ma fino a quando durerà questo, in una fase di escalation continua, non è dato sapersi.

Da “Libero Quotidiano” il 28 aprile 2022.

Il 16 febbraio 1955, il logico e filosofo inglese Bertrand Russell, 83 anni, premio Nobel per la letteratura, scrive una lettera ad Albert Einstein: «Penso che eminenti uomini di scienza dovrebbero fare qualcosa di spettacolare per aprire gli occhi ai governi sui disastri che possono verificarsi». 

Russell allude al problema nucleare, che in quegli anni - in quei mesi - sta registrando una forte accelerazione. Albert Einstein, 76 anni, premio Nobel per la fisica, risponde dopo cinque giorni proponendo una «dichiarazione pubblica» che loro due e altri eminenti uomini di scienza avrebbero potuto firmare.

Entrambi sono preoccupati per la proliferazione degli arsenali, per l'uso dei sommergibili atomici e l'irruzione sulla scena dei missili in grado di portare testate atomiche in ogni parte del mondo. A spaventare lo scienziato e il letterato anche le bombe H, molto più potenti di quelle sperimentate a Hiroshima a Nagasaki. La guerra nucleare è diventata una tragica possibilità. 

La loro dichiarazione pubblica contribuirà a rendere come scriverà poi lo scrittore Lawrence S. Wittner - la guerra nucleare un tabù. Il Manifesto Einstein-Russell viene reso noto il 9 luglio 1955 (tre mesi dopo la morte dello scienziato) e diventerà il "documento" che scongiurerà la guerra nucleare. Michail Gorbaciov, in un'intervista a Wittner, sosterrà di essere stato profondamente influenzato dalle idee pacifiste di Einstein e Russell quando, nel 1987, propose al presidente Usa Ronald Reagan di abolire i loro rispettivi arsenali nucleari.

Grazie al Manifesto nacquero le Pugwash Conferences on Science and World Affairs, il cui scopo è la costruzione della pace e, in particolare, il disarmo nucleare. Proponiamo ai nostri lettori il testo integrale del Manifesto oggi drammaticamente attuale. 

Nella tragica situazione che affronta l'umanità, noi riteniamo che gli scienziati dovrebbero riunirsi in un congresso per valutare i pericoli che sono sorti come conseguenza dello sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una risoluzione nello spirito della seguente bozza di documento. 

Non stiamo parlando, in questa occasione, come membri di questa o quella nazione o continente o fede religiosa, ma come esseri umani, membri della specie umana, la cui sopravvivenza è ora messa a rischio. Il mondo è pieno di conflitti, tra cui, tralasciando i minori, spicca la titanica lotta tra Comunismo e Anticomunismo.

Quasi chiunque abbia una coscienza politica nutre forti convinzioni a proposito di una di queste posizioni; noi vogliamo che voi, se è possibile, mettiate da parte queste convinzioni e consideriate voi stessi solo come membri di una specie biologica che ha avuto una ragguardevole storia e di cui nessuno di noi desidera la scomparsa. 

Cercheremo di non dire una sola parola che possa piacere più ad un gruppo piuttosto che all'altro. Tutti, in eguale misura, sono in pericolo e se il pericolo è compreso, c'è speranza che lo si possa collettivamente evitare. Dobbiamo cominciare a pensare in una nuova maniera. 

Dobbiamo imparare a chiederci non che mosse intraprendere per offrire la vittoria militare al proprio gruppo preferito, perché non ci saranno poi ulteriori mosse di questo tipo; la domanda che dobbiamo farci è: che passi fare per prevenire uno scontro militare il cui risultato sarà inevitabilmente disastroso per entrambe le parti?

Un vasto pubblico e perfino molti personaggi autorevoli non hanno ancora capito che potrebbero restare coinvolti in una guerra di bombe nucleari. La gente ancora pensa in termini di cancellazione di città. Si è capito che le nuove bombe sono più potenti delle vecchie e che, mentre una bomba -A potrebbe cancellare Hiroshima, una bomba H potrebbe distruggere le più grandi città, come Londra, New York o Mosca. 

Non c'è dubbio che, in una guerra, con bombe H, grandi città potrebbero finire rase al suolo. Ma questo è uno dei disastri minori che saremmo chiamati a fronteggiare. Se tutti, a Londra, New York e Mosca venissero sterminati, il mondo potrebbe, nel corso di pochi secoli, riprendersi dal colpo. Ma ora noi sappiamo, specialmente dopo i test alle isole Bikini, che le bombe nucleari possono gradualmente spargere distruzione sudi una area ben più vasta di quanto si pensasse.

Si è proclamato con una certa autorevolezza che ora si può costruire una bomba 2.500 volte più potente di quella che ha distrutto Hiroshima.

Una tale bomba, se esplodesse vicino al suolo terrestre o sott' acqua, emetterebbe particelle radioattive nell'atmosfera. Queste ricadono giù gradualmente e raggiungono la superficie terrestre sotto forma di polvere o pioggia mortifera. È stata questa polvere che ha contaminato i pescatori giapponesi e i loro pesci. Nessuno sa quanto queste particelle radioattive possano diffondersi nello spazio, ma autorevoli esperti sono unanimi nel dire che una guerra con bombe H otrebbe eventualmente porre fine alla razza umana. Si teme che, se molte bombe H fossero lanciate, potrebbe verificarsi uno sterminio universale, rapido solo per una minoranza, ma per la maggioranza una lenta tortura di malattie e disgregazione.

Molti avvertimenti sono stati lanciati da eminenti scienziati e da autorità in strategie militari. Nessuno di loro dirà che sono sicuri dei peggiori risultati. Quello che diranno sarà che questi risultati sono possibili, e nessuno può essere certo che non si realizzeranno. Non abbiamo ancora capito se i punti di vista degli esperti su questa questione dipendano in qualche grado dalle loro opinioni politiche o pregiudizi. Dipendono solo, per quanto ci hanno rivelato le nostre ricerche, da quanto è vasta la conoscenza particolare dell'esperto. Abbiamo scoperto che gli uomini che conoscono di più sono i più tristi. Questa è allora la domanda che vi facciamo, rigida, terrificante, inevitabile: metteremo fine alla razza umana, o l'umanità rinuncerà alla guerra?

La gente non affronterà l'alternativa perché è così difficile abolire la guerra. L'abolizione della guerra richiederà disastrose limitazioni alla sovranità nazionale. Ma probabilmente la cosa che impedirà maggiormente di comprendere la situazione sarà il fatto che il termine "umanità" suona vago e astratto.

La gente a malapena si rende conto che il pericolo è per loro stessi, i loro figli e i loro nipoti, e non per una vagamente spaventata umanità. Possono a malapena afferrare l'idea che loro, individualmente, e coloro che essi amano sono in pericolo imminente di perire con una lenta agonia. E così sperano che forse la guerra con la corsa a procurarsi armi sempre più moderne venga proibita. Questa speranza è illusoria. Qualsiasi accordo sia stato raggiunto in tempo di pace per non usare le bombe H, non sarà più considerato vincolante in tempo di guerra, ed entrambi i contendenti cercheranno di fabbricare bombe H non appena scoppia la guerra, perché se una fazione fabbrica le bombe e l'altra no, la fazione che l'avrà fabbricate sarà inevitabilmente quella vittoriosa.

Sebbene un accordo a rinunciare alle armi atomiche come parte di una generale riduzione degli armamenti non costituirebbe una soluzione definitiva, potrebbe servire a degli scopi importanti. Primo, ogni accordo tra Est e Ovest va bene finché serve ad allentare la tensione. Secondo, l'abolizione delle armi termo-nucleari, se ogni parte credesse all'onestà dell'altra, potrebbe far scendere la paura di un attacco proditorio stile Pearl Harbour che ora costringe tutte e due le parti in uno stato di continua apprensione.

Noi dovremmo, quindi, accogliere con piacere un tale accordo sebbene solo come un primo passo.

Molti di noi non sono neutrali, ma, come esseri umani, ci dobbiamo ricordare che, se la questione tra Est ed Ovest deve essere decisa in qualche maniera che possa soddisfare qualcuno, comunista o anti-comunista Asiatico o Europeo o Americano, bianco o nero, questa questione non deve essere decisa dalla guerra. Noi desidereremmo che ciò fosse compreso sia all'Est che all'Ovest.

Ci attende, se sapremo scegliere, un continuo progresso di felicità, conoscenza e saggezza. Dovremmo invece scegliere la morte, perché non riusciamo a rinunciare alle nostre liti? Facciamo un appello come esseri umani ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticatevi del resto. Se riuscirete a farlo si aprirà la strada verso un nuovo Paradiso; se non ci riuscirete, si spalancherà dinanzi a voi il rischio di un'estinzione totale.

Risoluzione: Noi invitiamo il Congresso, e con esso gli scienziati di tutto il mondo e la gente comune, a sottoscrivere la seguente risoluzione: «In considerazione del fatto che in una qualsiasi guerra futura saranno certamente usate armi nucleari e che queste armi minacciano la continuazione dell'esistenza umana, noi invitiamo i governi del mondo a rendersi conto, e a dichiararlo pubblicamente, che il loro scopo non può essere ottenuto con una guerra mondiale, e li invitiamo di conseguenza a trovare i mezzi pacifici per la soluzione di tutti i loro motivi di contesa». 

Firmato da: Max Born, W. Bridgman, Albert Einstein, Leopold Infeld, Frederic Joliot-Curie, Herman J. Muller, Linus Pauling, Cecil F. Powell, Joseph Rotblat, Bertrand Russell, Hideki Yukawa.

Armi nucleari: gli Usa ne hanno meno della Russia, ma spendono 4 volte in più. Milena Gabanelli e Massimo Sideri su Il Corriere della Sera il 26 Aprile 2022.

Il Trattato di Non-proliferazione nucleare dell’Onu, entrato in vigore nel 1970, prevede il disarmo per i Paesi nucleari e la rinuncia a sviluppare armi atomiche per gli altri. Lo firmano subito Usa, Urss e Gran Bretagna. Nel 1985 la Corea del Nord (che nel 2003 si ritira) e, nel 1992, Francia e Cina. Gli unici Paesi al mondo che non hanno mai aderito sono Israele, India e Pakistan. L’8 aprile del 2010 il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, e quello della Federazione Russa, Dmitrij Medvedev, firmano il New Start, ancora in vigore, che prevede da ambedue le parti un massimo di 1.550 tra bombe e testate nucleari. Ma qual è oggi la situazione reale degli arsenali atomici? 

La spesa per il nucleare

La Russia, con 6.370 armi nucleari (fra missili e bombe), detiene il pericoloso primato mondiale. Mosca nel 2019 ha speso 8,5 miliardi di dollari, mezzo miliardo in più rispetto al 2018. Le stime sono dell’Ican, l’istituto con sede a Ginevra che gestisce la campagna internazionale contro le armi atomiche e che nel 2017 ha ricevuto il Nobel per la Pace. Gli Usa ne possiedono meno: 5.800 secondo il censimento dell’Ican, e 3.750 secondo la Nnsa, National Nuclear Security Administration. 

Di queste circa un centinaio sono dislocate in cinque Paesi europei della Nato: principalmente in Germania, ma anche in Italia nelle due basi aeree di Aviano e di Ghedi (la stima è di 40 B61). Anche nel caso degli Stati Uniti la cifra prevista per curare gli armamenti atomici è cresciuta nel 2019 rispetto al 2018 di ben 5,8 miliardi di dollari, per una spesa totale di 35,4 miliardi. Hanno incrementato la spesa anche l’India per 200 milioni di dollari (totale 2,3 miliardi), la Francia per 400 (arrivando così a 4,8 miliardi) e la Cina per 400 milioni (totale 10,4 miliardi). Ma è probabile che Pechino stia pensando di aumentare in modo significativo il proprio impegno nel nucleare militare: una serie di foto satellitari in questi giorni ha mostrato il completamento di 119 silos nella zona di Yumen (a nord di Pechino), che hanno tutte le caratteristiche per essere usati come siti per il lancio di missili nucleari. Nel 2019 non hanno invece aumentato la spesa Gran Bretagna (ferma a 8,9 miliardi), Israele (1 miliardo), Corea del Nord (0,6), mentre il Pakistan è sceso da 1,2 miliardi a 1 miliardo. 

Sette miliardi in più all’anno

Nel corso del 2019, dunque ben prima dell’invasione da parte della Russia in Ucraina, il club degli Stati con armamenti atomici ha stanziato 7,1 miliardi in più rispetto al 2018, portando la spesa totale a 72,9 miliardi.

Come aveva già anticipato nel 1946 lo scienziato Robert Oppenheimer «gli esplosivi atomici hanno enormemente accresciuto il potere distruttivo per dollaro speso»

E di dollari per mantenere un equilibrio basato sulla deterrenza durante la Guerra Fredda ne sono stati spesi tanti: la stima complessiva è di un costo di 5.800 miliardi dalla fine della Seconda Guerra mondiale al disfacimento dell’Unione sovietica. Circa 145 miliardi l’anno, cioè il doppio di quanto si spende oggi. La Guerra Fredda però è finita 30 anni fa, e il Trattato Onu ha effettivamente portato a smantellare la maggior parte degli armamenti atomici (solo gli Usa nel 1967 possedevano 31.255 tra bombe e missili). Allora perché la spesa è ancora così alta? E soprattutto come mai, a una quasi parità di numero di armi, corrisponde questa enorme differenza di spesa tra Russia e Stati Uniti? 

Perché gli Usa spendono di più

Va prima di tutto sottolineato come il budget e la spesa ufficiale degli Usa sia maggiormente riscontrabile nei documenti ufficiali, laddove la Russia considera l’argomento top secret. Ma la vera differenza è che la gran parte degli investimenti americani serve per bonificare i siti radioattivi e smantellare gli arsenali, e non solo in casa propria. 

In un documento presentato al Congresso nel mese di marzo 2022 si legge, per esempio, che «la richiesta per l’esercizio 2023 include 7,6 miliardi di dollari per ripulire milioni di tonnellate di combustibile nucleare esaurito e materiali nucleari, smaltimento di rifiuti transuranici e misti/di bassa attività, enormi quantità di rifiuti contaminati tra suolo e acqua, e la disattivazione di migliaia di strutture in eccesso. Questo programma di bonifica ambientale coinvolge alcuni dei materiali più pericolosi conosciuti dall’umanità. Ad oggi, il Dipartimento dell’Energia tramite la Nnsa ha completato le attività in 92 siti in 30 Stati e nel Commonwealth di Porto Rico, ed è responsabile della pulizia dei restanti 15 siti in 11 Stati». In particolare, si aggiunge, 612 milioni verranno usati «per le attività di bonifica presso il sito di Oak Ridge». Un nome che conta: è il luogo dove durante il conflitto mondiale il Premio Nobel Enrico Fermi costruì la prima centrifuga atomica. 

I depositi russi costruiti dagli Usa

Dunque se costruire armi atomiche è costato migliaia di miliardi, ripulire il mondo dai loro rifiuti non è gratis. Dopo il disfacimento dell’Urss nel 1991, gli Usa si sono fatti carico dello smantellamento dei depositi ubicati nei Paesi satelliti dell’ex Unione. E non per generosità. Si temeva che materiali fissili, testate e bombe potessero finire in un «bazar atomico» (definizione dell’esperto William Langewiesche). Per evitare la vendita sul mercato nero la stessa Nnsa ha speso miliardi all’anno. L’Ucraina era la terza potenza mondiale per numero di armi atomiche. Ci rinunciò totalmente a partire dalla metà degli anni Novanta in cambio di una piena sovranità territoriale. Se non fosse avvenuto oggi saremmo di fronte a una guerra tra due superpotenze nucleari. L’America ha aiutato direttamente anche la Russia a mantenere in condizioni di sicurezza la propria Santa Barbara atomica. Secondo Langewiesche in alcuni anni ha speso 1,7 miliardi. Nella sola città di Ozërsk, una delle tante città segrete sovietiche dove si costruivano e mantenevano armamentari nucleari, gli Stati Uniti hanno investito 350 milioni per costruire il Plutonium Palace, un deposito sicuro per conservare il 40 per cento del plutonio russo. Si ipotizza che sia rimasto vuoto. Putin ha preferito lasciarlo nelle testate atomiche piuttosto che in un magazzino isolato. 

Il riarmo è partito nel 2011

Gli aiuti si interrompono nel 2014 con l’annessione della Crimea da parte della Russia. Ma la corsa al riarmo nucleare in realtà era già partita. La stessa amministrazione Obama nel 2012 aveva chiesto 10 miliardi di dollari l’anno per 10 anni per accrescere il «sistema difensivo atomico». Sempre l’amministrazione Obama aveva aggiunto altri 14 missili per intercettare testate nucleari a Fort Greely. I nemici allora si chiamavano Iran e Corea del Nord, ma è chiaro, come ha riconosciuto in questi giorni anche l’ex presidente Bill Clinton, che gli Usa avevano iniziato a diffidare anche della Russia. A sua volta l’amministrazione Trump ha avviato il processo di aggiunta di altri 20 missili con tecnologia aggiornata e il primo dovrebbe essere schierato entro il 2028. 

La Russia da parte sua, già nel programma 2011-2020, aveva avviato una «considerevole modernizzazione del proprio armamentario nucleare» come scriveva in un report il Sipri (Stockholm International Peace Report Institute). Inoltre nel 2018 è stato avviato un nuovo programma di armamenti che sarà completato per il 2027. Dunque, i segnali di un nuovo consolidamento dei due poli nucleari non sono nuovi, ma ce ne stiamo accorgendo adesso. Forse il lockdown mondiale, con due anni concentrati solo sulla pandemia, ha steso quella cortina di silenzio utile a creare le condizioni per una escalation. Sembrava impossibile. Ma i numeri purtroppo parlano chiaro.

Obiettivo "acqua pesante": a Telemark il sabotaggio dell'atomica nazista. Davide Bartoccini il 14 Aprile 2022 su Il Giornale.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, un pugno di commandos sabotò l'impianto norvegese nella valle di Telemark, dove i nazisti producevano l'acqua pesante. Senza quell'attacco, la Germania avrebbe avuto l'atomica.

D2O: una sigla semplice, quella dell'acqua pesante. Deuterio e ossigeno, indispensabile moderatore chimico di neutroni da immettere in un reattore atomico insieme al Plutonio 239: l'isotopo più importante per raggiungere la fissione nucleare. E questo è il motivo per il quale parliamo di un pugno di giovani norvegesi che cambiarono le sorti del Secondo conflitto mondiale nella valle di Telemark.

Sono gli inizi del 1939 quando i tedeschi Otto Hahn e Fritz Strassmann pubblicano i loro studi sulla fissione nucleare. Adolf Hitler è già cancelliere del Reich e il sogno della Grande Germania è una tangibile realtà. Mentre alla Columbia University, Robert Oppenheimer, Enrico Fermi e Albert Einstein iniziano a lavorare al Progetto Uranio - poi Progetto Manhattan - per raggiungere la fissione nucleare e produrre un'arma atomica, anche la Germania desidera raggiungere prima di tutti un'arma con un potenziale distruttivo capace di annientare un'intera città attraverso un unico strike. Da impiegare o come dissuasione o come deterrente, un'arma per far inginocchiare l'Europa intera alle sue pretese.

Per ottenere grandi quantitativi di acqua pesante, la Germania nazista, che aveva occupato la Norvegia durante l'Operazione Weserübung, sceglie la fabbrica Hydro di Vemork, nella parte meridionale del Paese scandinavo. Nel mezzo di una gola immersa nella neve, paradiso degli sciatori e patria della sciata Telemark, la compagnia norvegese nota per produrre fertilizzanti è l'unica in Europa capace di fornire il moderatore necessario. La Gestapo lo sa, e l'alto comando invia una guarnigione per impossessarsi della fabbrica e obbligare i dipendenti a incrementare la produzione a livelli folli: dai 10 chilogrammi al mese normalmente prodotti si passa ad una produzione di cinque chili di acqua pesante al giorno. La fabbrica diventa una minaccia per il mondo intero: se il Terzo Reich fosse capace di ottenere la quantità richiesta di acqua pesante per portare a termine i suoi test e concepire una bomba a fissione nucleare nessuno oserebbe più opporglisi. Il direttore della fabbrica se ne rende conto e lo comunica a membri della resistenza che operano nella zona. Sono Knut Haukelid e Joachim Rønneberg. Gli Alleati vengono informati e il risultato è una decisione inequivocabile: la fabbrica deve essere distrutta a ogni costo.

L'ipotesi più plausibile per neutralizzare la minaccia è affidare il compito ai bombardieri della Royal Air Force britannica, ma l'opzione potrebbe rivelarsi inefficace senza contare i danni collaterali. La fabbrica norvegese infatti è in una gola profonda 900 metri all'ombra delle montagne - la posizione è stata scelta apposta per facilitare la discesa di una vicina cascata che confluisce nei generatori di corrente idroelettrica - e tutto intorno vi è la cittadina di Vemork con i suoi abitanti. Il bombardamento viene declassato a extrema ratio e si procede organizzando una missione di sabotaggio per mano dei commandos del SOE (Special Operation Executive, ossia il braccio armato dei servizi segreti britannici) pianificata dopo l'esame delle informazione portate dall'Operazione Grouse ad opera della resistenza norvegese. I sabotatori verranno addestrati in Inghilterra e raggiungeranno la Norvegia su alianti Airspeed Horsa Mk.I. Lì si incontreranno con la resistenza, che nel frattempo avrà preparato una pista d'atterraggio nella zone ovest della valle per poi condurre il commando all'obiettivo e minare la fabbrica.

Il giorno prescelto per quella che sarà l'Operazione Freshman è la notte del 19 novembre 1942. Vi prenderà parte un commando di 50 sabotatori inglesi appartenenti al corpo dei Royal Enginieer della 1st Airborne Division; ma qualcosa va storto. Durante l'avvicinamento all'obiettivo, i quadrimotori Handley Page Halifax che trainano gli alianti vengono bersagliati dalla contraerea in prossimità dell'altipiano di Hardangervidda, vengono abbattuti dalla Flak e portano dietro a se gli Horsa che non riescono a sganciarsi in tempo. La missione fallisce in un disastro che causa la morte di tutto il commando. Bisogna ritentare.

Gli inglesi sanno che i componenti della resistenza, il Team Grouse, sono ancora operativi, e decidono di organizzare un altro tentativo si sabotaggio. La squadra, denominata "rondine", viene raggiunta la notte del 16 febbraio 1943 da sei commandos di nazionalità norvegese addestrati in Inghilterra e paracadutati da un Halifax del 138 Sqd. RAF insieme a contenitori CLE carichi di materiale per la missione. Dopo pochi giorni giunge l'ora "X" dell'Operazione Gunnerside per vendicare i commandos sacrificati nel precedente tentativo e per eliminare la minaccia dell'acqua pesante. Nella notte tra il 27 e il 28 febbraio il piccolo commando in uniforme britannica scende il burrone con delle corde d'arrampicata, eludendo la rigida sorveglianza, e si infila nello stabilimento Hydro. Vengono piazzate del cariche esplosive nelle camere di produzione e immagazzinamento. Collegata la miccia, tutti i serbatoi saltano in aria insieme ai 500 chili di acqua pesante prodotta e gelosamente custodita. Durante la fuga vengono lasciate tracce di attrezzatura inglese, come un fucile mitragliatore Thompson e altri oggetti, per ricondurre il sabotaggio a forze non norvegesi ed evitare rappresaglie nella popolazione.

Il raid è un successo, ma non c'è tempo di gioirne: i tedeschi prevenendo un sabotaggio avevano già da tempo prodotto dei ricambi in Germania, e la produzione di acqua pesante ricomincia a regime ancora più elevato già la settimana seguente. Agli Alleati non rimane che una scelta: il piano di contingenza che prevede il bombardamento a tappeto di tutta la valle deve essere portato a termine per scongiurare una volta per tutte la minaccia. L'assenso viene dato anche da Re Haakon di Norvegia, in esilio a Londra.

Il 16 novembre del 1943 una formazione di oltre 150 Fortezze volanti B-17 dell'USAF bombardano l'obiettivo ma senza sortire gli effetti sperati. La produzione di acqua pesante, se pur rallentata e ostacolata, prosegue e verrà inviata in Germania per evitare ulteriori rischi. La resistenza norvegese, informata del piano di trasferimento tedesco, allerta il comando alleato a Londra e viene concesso di procedere in quella che si rivelerà una strage per salvare le sorti del mondo. L'intera riserva di acqua pesante sarebbe infatti stata caricata sulla nave Ammonia di proprietà della Hydro, che sarebbe salpato dal lago Tinnsjøn. Knut Haukelid, consapevole di andare in contro all'omicidio di civili innocenti, si introduce nella sentina dell'imbarcazione piazzando delle cariche a tempo e il 20 febbraio del 1944 l'Ammonia salta in aria, inabissandosi con 14 civili norvegesi, l'equipaggio, un plotone di soldati tedeschi e tutti i serbatoi di acqua pesante prodotti nella fabbrica.

Il re di Norvegia dichiarerà la sua responsabilità nell'aver dato l'assenso a sacrificare vittime innocenti per impedire alla Germania nazista di conseguire il raggiungimento di un'arma letale che avrebbe potuto sovvertire l'esito dell'intero conflitto. Knut Haukelid e Joachim Rønneberg, sopravvissuti entrambi alla guerra come i loro compagni, verranno ricordati come degli eroi e dei patrioti. Artefici di una delle operazioni di sabotaggio più riuscite dell'intero conflitto.

Dal corriere.it il 9 aprile 2022.

La Cina ha accelerato l'espansione del suo arsenale nucleare dopo aver rivisto la sua valutazione sulla minaccia posta dagli Stati Uniti. A scriverlo, in una esclusiva, è il Wall Street Journal, che cita «fonti a conoscenza della strategia di Pechino». 

La decisione di aumentare gli sforzi sul programma nucleare - secondo le fonti del quotidiano statunitense - è precedente all'inizio della guerra in Ucraina, ma la cautela dimostrata dagli Usa nell'evitare un coinvolgimento diretto nel conflitto ucraino avrebbe convinto Pechino a dare maggiore enfasi allo sviluppo di armi atomiche come deterrente.

Nel caso di un conflitto a Taiwan - questo sarebbe il pensiero di Pechino - gli Stati Uniti eviterebbero un coinvolgimento diretto se si trovassero di fronte a una potenza in grado di rivaleggiare con loro in termini di arsenale nucleare. 

Nei giorni scorsi, il Financial Times aveva parlato di un rinnovato sforzo da parte degli Stati Uniti (insieme con Gran Bretagna e Australia) nello sviluppo di missili ipersonici, dopo che Pechino aveva sorpreso Washington con i suoi test - estremamente avanzati - su questo tipo di vettori (che possono portare testate atomiche).

Secondo le fonti statunitensi citate dal Wall Street Journal, la Cina ha accelerato la costruzione di un centinaio di silos missilistici nelle regioni occidentali del Paese, da cui proiettili nucleari potrebbero raggiungere gli Stati Uniti. 

La dottrina nucleare cinese non è chiara: gli Stati Uniti temono che Pechino possa attaccare a sorpresa, mentre fonti vicine alla leadership cinese - sempre citate dal Journal - escludono questa possibilità. L'attuale, rinnovato impegno da parte della Cina deriverebbe dal fatto che l'arsenale atomico cinese è considerato ormai datato e inadatto a rappresentare un deterrente efficace nei confronti di Washington.

A indicare un aumento della tensione tra le due potenze c'è anche la prossima visita di un alto funzionario statunitense nelle Isole Salomone, nell'Oceano Pacifico, dopo la pubblicazione di una bozza di accordo tra il governo di queste isole e la Cina che consentirebbe a Pechino di dislocare le proprie truppe in una zona più vicina ad Australia, Nuova Zelanda e Hawaii che a Pechino. 

Vladimir Putin, "per Aviano e Ghedi". Arsenale nucleare russo "tremila volte più potente". Mirko Molteni su Libero Quotidiano l'11 aprile 2022.

Un quadro delle forze nucleari della Russia è stato tracciato dall'istituto IRIAD, ovvero Istituto Ricerche Internazionali Archivio Disarmo di Roma, che sull'ultimo numero del suo bollettino Iriad Review. Studi sulla pace e sui conflitti, ha pubblicato una ricerca di Alessandro Ricci che evidenzia come i russi abbiano modernizzato le testate e i vettori che le portano, in molti casi a livelli più aggiornati dei corrispettivi statunitensi.

Ciò era già noto agli esperti di strategia e tecnologie militari, ma con IRIAD ora se ne parla anche fra accademici sensibili al disarmo. Il rapporto conferma che, negli ultimi anni, la Russia ha modernizzato in media il 70 % dei propri armamenti, fra nucleari e convenzionali, ma nel solo settore atomico, il tasso di equipaggiamenti moderni che hanno sostituito quelli d'origine sovietica sale all'83%. Ciò grazie alla riforma militare di Vladimir Putin, che ha diminuito il personale militare usando i risparmi per investire in tecnologie.

LIMITI DI SPESA - Poiché le armi nucleari sono, in proporzione, più economiche di quelle convenzionali, non deve stupire che la Russia sia al primo posto, con 6.000 testate nucleari, rispetto agli Stati Uniti, con 4.000, nonostante la spesa militare degli USA sia di 700 miliardi di dollari l'anno, mentre la Russia sfiori 70 miliardi, dieci volte meno. Lo studio sostiene: «Gli attuali sistemi nucleari hanno una capacità distruttiva molto maggiore rispetto alle proprie controparti più datate, arrivando ad essere fino a 3.000 volte più potenti».

In verità, ciò non significa che la Russia abbia oggi un arsenale 3.000 volte più potente di quello sovietico. La proporzione ha senso solo raffrontando le atomiche moderne con i primissimi ordigni lanciati nel 1945 dagli americani su Hiroshima e Nagasaki.

L'unico singolo ordigno russo la cui potenza potrebbe riflettere una simile proporzione di crescita sarebbe il misterioso siluro-drone Status 6 Poseidon, che porterebbe una testata da ben 100 megatoni (l'ordigno nucleare più potente di sempre), capace di causare maremoti se esplodesse vicino alle coste USA. Nell'arsenale russo le testate "utilizzabili" sarebbero 4.477, di cui quelle "schierate e operative" sarebbero 1.588. Ci sono poi 2.889 testate in deposito e ulteriori 1.500 testate ritirate o in fase di ritiro che però potrebbero essere ripristinate.

Le testate strategiche, quelle più potenti, fra 300 chilotoni e 2 megatoni, portate da vettori a lungo raggio, sono disciplinate dal trattato New START del 2011, rinnovato nel 2021, ma solo fino al 2026. Esso stabilisce per ognuna delle due, fra Russia e America, un limite di 800 vettori, cioè bombardieri e missili, tra schierati e non schierati, 1.550 testate e 700 vettori schierati contemporaneamente. I russi hanno però realizzato negli ultimi anni molti nuovi missili, come l'RS-24 Yars, che possono portare testate multiple (cioè più testate per ogni missile) e inoltre sono lanciabili da rampe mobili su autocarro.

GLI ACCORDI - Gli americani, nei missili con base a terra, sono fermi al Minuteman III da rampa fissa, a cui peraltro hanno tolto le testate multiple per montarne una singola. Nei sottomarini, pure, i russi sono in espansione, con 11 unità operative in grado ciascuna di lanciare fino a 16 missili, ma altri 6 sottomarini atomici sono in programma. Ci sono infine le armi nucleari tattiche, a bassa potenza, quasi 2.000, fra quelle su missili campali o sganciabili da aerei da caccia. I russi ne hanno più delle altre potenze, tanto che il rapporto IRIAD, conclude: «La loro proliferazione è stata resa possibile dal fatto che questa tipologia di armi non è regolata dal New START né da altri trattati. Invece, sarebbe utile che entrambe le parti trovassero un accordo per proseguire nella non proliferazione, che passerebbe anche dalla probabile denuclearizzazione dell'Europa dalle armi tattiche statunitensi». In sostanza, il problema è legato anche alla presenza di atomiche tattiche USA in Europa, come le bombe B61 nelle basi italiane di Aviano e Ghedi, che spinge a sua volta la Russia a rincarare la dose.

Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 10 aprile 2022.

Come se nulla fosse. Le truppe russe sono arrivate a Chernobyl il primo giorno di guerra, hanno circondato la centrale nucleare con carri armati e veicoli blindati, l'hanno occupata e si sono comportati come se quel posto fosse un villaggio qualunque. 

Noncuranti della polvere e della terra che sollevavano con i loro mezzi, senza indossare nessuna protezione e non preoccupati di scavare trincee (e rimanerci dentro) nella Foresta Rossa, l'angolo della Terra più radioattivo al mondo dopo il peggior disastro nucleare mai avvenuto, nell'ormai lontano 1986.

Adesso che se ne sono andati, ad alcuni giornalisti occidentali (Bbc, Cnn, New York Times) è stato consentito l'accesso all'interno dell'impianto nucleare, oggi non più attivo. E le testimonianze raccolte sono scioccanti. 

Yaroslav Emelianenko, membro del Consiglio pubblico dell'Agenzia ucraina che gestisce la zona di esclusione, cioè l'area dove ancora oggi è vietato entrare (un raggio di 30 chilometri attorno al reattore esploso nell'86) è convinto che le azioni dei militari russi abbiano una sola spiegazione: quei ragazzi in divisa non sapevano che cosa stessero rischiando a Chernobyl.

«Sembrava non capissero dove fossero arrivati, che cosa fosse questo posto, che si stessero suicidando», commenta. «Nella zona di Chernobyl è possibile spostarsi soltanto su strade asfaltate. Loro hanno usato veicoli blindati sul terreno, mescolato suolo radioattivo con radionuclidi già stabilizzati, contaminato l'attrezzatura....». 

Il New York Times riporta il racconto di un soldato russo che avrebbe trattato a mani nude una fonte radioattiva in un deposito di rifiuti nucleari: «Si è esposto a un livello di radiazioni tali che il contatore Geiger è impazzito» ha raccontato il responsabile della sicurezza della Centrale.

Ma l'azione più scellerata in assoluto è stata, appunto, scavare trincee in un terreno che è vietato anche solo calpestare senza protezione: i soldati sono stati esposti a «dosi significative» di radiazioni, affermano all'Agenzia statale per l'energia nucleare ucraina e, secondo il ministro dell'Energia German Galushchenko, «hanno non più di un anno di vita». 

Uno dei funzionari dell'impianto, Oleksandr Loboda, racconta invece che la sua preoccupazione più grande è stata quand'è mancata la corrente elettrica, tre giorni. Serviva carburante per il generatore e qualcuno dei funzionari di Chernobyl è arrivato a rubarne un po' ai russi, «perché - dice Loboda - senza elettricità la situazione poteva diventare catastrofica. Poteva essere rilasciato materiale radioattivo e sarebbe stata una tragedia per l'umanità».

Viviana Mazza per il "Corriere della Sera" il 10 aprile 2022.

«È gente come noi, con famiglia, amici, e deve continuare a fare un lavoro delicatissimo sotto pressione. Ho sentito questa tensione, sono veramente esauriti», dice al Corriere Rafael Mariano Grossi, il direttore generale dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea), che ha incontrato nei giorni scorsi il personale della centrale nucleare di Konstantinovka, vicino a Mykolaiv, sul fronte sud della guerra in Ucraina, e attende da Kiev luce verde per recarsi a Chernobyl dove emergono altre storie di resilienza. 

Il morale è basso a Zaporizhzhia. «Il personale dei 6 reattori vive quasi tutto nel vicino villaggio di Enerhodar, può andare e venire ma non è facile. Sabato scorso c'è stato un episodio di violenza: una dimostrazione e qualcuno ha sparato. Non è sostenibile nel tempo».

Grossi ha partecipato ai colloqui di pace del 10 marzo in Turchia, è stato in Ucraina e nell'enclave russa di Kaliningrad. È impegnato in uno sforzo diplomatico parallelo: ottenere garanzie per la sicurezza dei 15 reattori ucraini. Una crisi «senza precedenti: una guerra in un Paese con tanta attività nucleare». 

L'Aiea non ha confermato le notizie di soldati russi malati a causa delle radiazioni. Non ha potuto valutarne il livello a Chernobyl?

«Non è chiaro. In generale non abbiamo riscontrato livelli di radiazioni troppo importanti. Abbiamo avuto un piccolo aumento di livello all'inizio dell'invasione, a causa del passaggio di veicoli militari pesanti che hanno smosso la terra, gli alberi e tutto ciò che ha ancora un po' di radiazioni dopo l'incidente dell'86; lo stesso è avvenuto con il ritiro russo. Ma per essere sicuri dobbiamo andare sul posto». 

C'è una data per la visita?

«Non ancora, i colleghi ucraini ci hanno detto che lo sminamento nella zona di esclusione non è finito. Aspettiamo l'autorizzazione». 

I problemi con i sensori a Chernobyl hanno ostacolato la trasmissione dei dati?

«Abbiamo problemi anche se non sempre, ci sono momenti in cui i dati arrivano ma dobbiamo fare con molta difficoltà riparazioni ad antenne e sistemi di monitoraggio». 

I rischi a Chernobyl e nelle altre centrali sono reali o Kiev li usa per spingere il mondo a intervenire?

«La prima cosa importante, prima ancora dell'aiuto concreto, è la determinazione di un'informazione confermata. C'è questa tendenza, a volte, a mostrare una realtà che non è precisa, abbiamo moltissima comprensione per la violenza che accade in Ucraina, dunque questo è un valore aggiunto dell'Agenzia: un'informazione obiettiva, neutrale, imparziale. 

Nell'eventualità di un incidente nucleare, ci sono due livelli: un attacco diretto, che per ora non abbiamo visto (a Zaporizhzhia ci sono state violenze all'interno dell'impianto, ma non un attacco diretto al reattore) o indiretto, come l'interruzione dell'elettricità (i sistemi di raffreddamento dei reattori vengono interrotti e questo può essere all'origine di un meltdown). Abbiamo bisogno di un dialogo con i russi. D'altra parte la garanzia che non ci sarà un attacco non basta: può trattarsi di un ordine superiore, ma in situazioni di conflitto non si sa mai. È un equilibrio molto fragile. Perciò è necessario che l'Agenzia sia lì, per aiutare anche nel lavoro di dissuasione di aggressioni in tutte le installazioni». 

Invierà personale in loco?

«Non posso inviare colleghi in situazioni di alto rischio. Ora a Chernobyl sarebbe possibile avere 3-4 ispettori o esperti, a Zaporizhzhia è un po' più problematico ma tutto può essere analizzato. Dobbiamo accordarci con gli ucraini e, nel caso di Zaporizhzhia, anche coi russi, ma è difficile per Kiev accettare il principio del dialogo con i russi sulle loro installazioni». 

A Chernobyl pare fossero arrivati ispettori russi della Rosatom. E a Zaporizhzhia?

«I colleghi ucraini hanno detto che c'era un arrivo massiccio di personale con l'intenzione forse di un'occupazione più importante. A me il presidente della Rosatom a Kaliningrad ha confermato l'invio di soli 9-10 esperti, ma anche questa è una complicazione. Nella catena di comando dei reattori ci sono tensioni sul piano psicologico. È veramente pericoloso». 

Chernobyl, è allarme nucleare: "I russi hanno rubato 133 sostanze radioattive letali". Previsioni disastrose. Il Tempo il 10 aprile 2022.

L'Ucraina ha accusato le forze russe che hanno occupato l'ex centrale nucleare di Chernobyl di aver rubato sostanze radioattive dai laboratori di ricerca. L'Agenzia statale ucraina per la gestione della zona di esclusione ha scritto su Facebook che le truppe russe sono entrate in un'area di stoccaggio della base di ricerca dell'Ecocentre e hanno rubato 133 sostanze altamente radioattive. "Anche una piccola parte di questa attività è mortale se gestita in modo non professionale", ha affermato l'agenzia, citata da Bbc, aggiungendo che "l'ubicazione delle sostanze rubate è attualmente sconosciuta".

Nuovo allarme Chernobyl. "Rubate sostanze letali. Pericolo bombe sporche". Nino Materi l'11 Aprile 2022 su Il Giornale.

Dalla centrale nucleare di Chernobyl risultano sparite 133 sostanze radioattive utili per realizzare "bombe sporche".

Dalla centrale nucleare di Chernobyl risultano sparite 133 sostanze radioattive utili per realizzare «bombe sporche»: «Armi chimiche micidiali che - a detta degli esperti - sono in grado di avvelenare l'aria per chilometri causando centinaia di vittime».

A portar via dai laboratori ucraini gli «ingredienti» micidiali sarebbe stata una speciale task force di tecnici russi inviata in Ucraina dopo che i vertici militari hanno deciso di abbandonare l'impianto al termine di un'occupazione durata oltre tre settimane.

Ma, prima di lasciare Chernobyl, l'esercito di Putin avrebbe sottratto l'intero «kit» per mettere a punto una o più «bombe sporche» le cui enormi potenzialità tossiche rappresentano ora l'ennesima incognita distruttiva di una guerra già terribilmente «sporca».

Ma cos'è esattamente una «bomba sporca»? Iniziamo col dire che non ha nulla a che vedere con l'esplosione di un'arma nucleare (bomba atomica), poiché non si innesca alcuna reazione nucleare a catena e non si manifestano gli stessi effetti, quali ad esempio il lampo di calore, l'onda d'urto o la radiazione ionizzante al momento dell'esplosione; neppure l'impatto è paragonabile a quello di un ordigno nucleare.

La «bomba sporca» è invece un'arma radiologica progettate per spargere materiale radioattivo con l'intento di uccidere e causare danni a un territorio o a una popolazione. Insomma, roba di cui avere comunque paura. Anzi, terrore.

«Il posto in cui sono state portate le sostanze rubate è sconosciuto - sottolinea l'Agenzia statale ucraina per la gestione della zona contaminata di Chernobyl -. Anche una piccola parte di questo materiale è mortale se gestito in modo non professionale».

Ma il timore più grande è che tutto sia stato organizzato proprio per definire uno «strumento biologico di attacco non convenzionale, mirato a centrare l'obiettivo finora sfuggito all'offensiva di tank e lanciamissili. Una «missione segreta» trasformatasi in «missione suicida» visto che l'operazione-Chernobyl costerà la vita ai militari russi: «Soldati che sono entrati in contatto con scorie altamente radioattive, scavando a mani nude trincee sul terreno della Foresta Rossa, l'area più contaminata del pianeta. Entro un anno saranno tutti morti», ha dichiarato ieri il ministro dell'Energia ucraino, German Galushchenko.

All'indomani della «riconquista» della centrale da parte degli ucraini l'allarme era scattato subito: «I russi hanno saccheggiato un laboratorio di monitoraggio delle radiazioni vicino al sito nucleare».

Disastrose le possibili conseguenze: «Il pericolo è che il materiale sottratto possa essere utilizzato per fabbricare una bomba sporca, cioè un'arma in grado di spargere materiale radioattivo». Un rischio che - come ormai accade quotidianamente - è al centro di accuse incrociate fra ucraini e russi; con le due fazioni che attribuiscono l'una all'altra la «responsabilità di voler creare bombe sporche».

Gli scienziati ucraini dell'Istituto per i problemi di sicurezza delle centrali nucleari (Ispnpp) non hanno dubbi: «Non è un caso se proprio la centrale di Chernobyl (teatro nell'aprile del 1986 del più grave disastro nucleare al mondo ndr) sia entrata fin dall'inizio del conflitto nel mirino di Putin con chiaro intento di rafforzare la sua minaccia nucleare al mondo». Ma Mosca replica indignata: «Kiev ha occultato le sostanze radioattive per poi dare la colpa a noi».

Ma c'è anche una terza ipotesi: che dietro il presunto furto dai laboratori di ricerca di Chernobyl possa nascondersi un gruppo terroristico «terzo» interessato a «disarticolare le forze in campo». Scenario degno di un romanzo di Tom Clancy che rilancerebbe la domanda su un possibile mandante outsider tra Europa e Stati Uniti. Musica per l'«imbattibile» esercito dei complottisti.

Massimo Sideri per il corriere.it il 9 aprile 2022.

Diversi media occidentali - dalla Bbc alla Cnn, al New York Times - hanno raggiunto nelle scorse ore la centrale di Chernobyl, in Ucraina. La centrale, teatro nel 1986 del più grave disastro nucleare civile della storia, è stata occupata dalle truppe russe nelle primissime ore dopo l’inizio dell’invasione dell’Ucraina. L’esercito di Mosca si è ritirato solo alcuni giorni fa. 

Quanto è emerso finora è un resoconto - per molti versi sconcertante - della assoluta carenza di regole di sicurezza messa in atto dai militari russi.

Nei giorni scorsi è emerso come alcuni soldati avessero scavato trincee nella Foresta Rossa, una delle aree più contaminate intorno alla centrale, dove è vietato non solo scavare - visto che il terreno è altamente contaminato - ma anche passare senza protezioni. 

Secondo il ministro dell’Energia ucraino, German Galushchenko, le cui parole sono state riferite su Twitter dal ministero della Difesa di Kiev, i soldati russi che hanno scavato quelle trincee «hanno non più di un anno di vita».

In un gesto sconsiderato, riferito dal New York Times, un soldato russo ha trattato a mani nude una fonte radioattiva - una fonte di cobalto-60 - presente in uno dei depositi di rifiuti nucleari, «esponendosi a un livello di radiazioni tali, in pochi secondi, che il contatore Geiger è impazzito», secondo quanto riferito dall’ingegnere responsabile della sicurezza della centrale. 

Durante l’occupazione russa i dipendenti della centrale nucleare di Chernobyl si sono trovati anche a rubare il carburante agli occupanti per evitare che si spegnesse l’elettricità: «Senza energia elettrica, la situazione sarebbe diventata catastrofica», spiega alla Bbc Oleksandr Lobada, supervisore della sicurezza, «perché avrebbe potuto essere rilasciato del materiale radioattivo».

L’assenza di elettricità ha riguardato infatti anche una delle vasche di raffreddamento del carburante nucleare, che contengono più materiale radioattivo di quello che venne disperso nella catastrofe del 1986. 

I 170 dipendenti della centrale, che sono stati sequestrati dalle forze russe che dal 24 febbraio hanno circondato l’impianto, durante quei giorni hanno continuato a fare il loro lavoro, e raccontano di essere stati anche costantemente interrogati dai russi.

Maledizione Chernobyl: "I soldati tra le scorie hanno un anno di vita". Nino Materi il 10 Aprile 2022 su Il Giornale.

Report Cnn: "Radiazioni oltre i limiti". I medici: "Russi mandati a scavare trincee a mani nude".

I «kamikaze» di Chernobyl. Chiusi per tre settimane in un bunker tossico. Inalando particelle nocive, toccando a mani nude materiale contaminato. Scavando trincee in un terreno ad altissima concentrazione radioattiva. Un lento ma implacabile avvelenamento di cui però erano ignari. Per totale ignoranza e per criminale responsabilità dei vertici militari che, invece, sapevano ma si sono ben guardati dal riferire ai propri soldati (per lo più giovani di leva mandati allo sbaraglio) i rischi che correvano nel vivere 24 ore su 24 fra le scorie della centrale nucleare di Chernobyl. Un «mostro» trasformatasi dopo l'inizio della guerra da simbolo del disastro nucleare del 26 aprile 1986 a «obiettivo strategico» in vista della presa di Kiev; poi sappiamo com'è andata e il flop della conquista della capitale ha comportato il ritiro dell'esercito di Putin da Chernobyl, divenuta tatticamente inutile. E adesso, con il «mostro» tornato a essere una scatola vuota ma pur sempre micidiale, si scopre che i soldati russi che l'hanno a lungo «abitata» lo hanno fatto in maniera suicida senza adottare la minima cautela, candidandosi, inconsapevolmente, «a morte sicura nel giro di un anno», almeno secondo la previsione dei medici che hanno analizzato le loro condizioni di salute.

È di ieri il reportage esclusivo della Cnn, entrata nella centrale dopo il ritiro dei soldati russi: «La prima cosa che si sente è il beep impazzito del contatore Geiger». Tra ambienti interni e natura esterna non c'è una grande differenza: il segnale elettronico di morte presenta i medesimi valori «fuori norma». Per settimana i soldati russi si sono scambiati a vicenda le particelle tossiche sprigionate dalle polveri radioattive durante le manovre militari all'interno della Foresta Rossa (l'area più contaminata al mondo), a ridosso del famigerato «sarcofago» del reattore n.4 di infausta memoria. Una sorta di «contagio nucleare» che non lascerà scampo ai militari russi, privi perfino delle minime attrezzature previste per chi opera in zone contaminate. La Cnn riporta la testimonianza del personale ucraino che, dopo essere stato ostaggio dei soldati russi, è ora tornato in possesso dell'impianto: «Sono andati ovunque, portando polvere radioattiva sui loro corpi e attraverso le scarpe». In un'area della foresta dove i russi hanno scavato trincee e attrezzato postazioni per tank e lanciamissili, la Cnn ha trovato un contenitore per il rancio militare «con livelli di radiazione 50 volte superiori agli standard». Nelle immagini dell'emittente americana «le aree della centrale appaiono saccheggiate: a terra abiti, beni personali, scatole e sacchetti». «I soldati russi hanno frugato negli abiti e nelle cose personali degli ucraini come dei cani, in cerca probabilmente di denaro, cose di valore, portatili», ha accusato il ministro dell'Interno ucraino, Denys Monastyrskyy.

Ma ora la domanda-chiave è: in che condizioni si trova la struttura dopo il ritiro delle truppe russe? «I livelli di radiazione sono ulteriormente saliti, ma non rappresentano un serio pericolo», la risposta del ministro dell'Energia ucraino, German Galushchenko. Che invece si mostra molto più pessimista sulle sorti delle centinaia di soldati russi che «durante la criminale occupazione dell'impianto si sono esposti a letali livelli di radiazioni e non hanno più di un anno di vita». Al momento sono in funzione 8 dei 15 reattori ucraini concentrati in quattro zone del paese. Per ognuno di essi i presidi militari sono stati rafforzati. Il ministro della Difesa ucraino, Oleksij Reznikov, assicura: «Quanto accaduto alla centrale di Chernobyl non deve ripetersi».

Ma purtroppo stanno accadendo cose peggiori.

Marco Ventura per “il Messaggero” l'1 aprile 2022.

Un centinaio di veicoli militari in due colonne, con quasi 400 soldati russi alcuni dei quali contaminati dalle radiazioni di Chernobyl. Il viaggio del terrore delle forze di occupazione russe, in fuga dal sito della centrale che la notte del 25 aprile 1986 esplose provocando la più grande catastrofe nucleare mai vista, è cominciato e si è concluso ieri in Bielorussia e il sito sarebbe tornato sotto il controllo delle autorità ucraine a cui l'avrebbero consegnato i responsabili della Guardia nazionale russa che svolge compiti di polizia militare. 

Ufficialmente, la manovra rientra nelle operazioni di disimpegno e riposizionamento dei russi a nord di Kiev, per consentire l'alleggerimento e la sostituzione con truppe fresche.

I SINTOMI I militari su cui sarebbero stati riscontrati effetti e sintomi di un eccessivo livello di radiazioni sarebbero sotto osservazione in un centro specializzato nella cittadina bielorussa di Gomel, sede di parte dei negoziati tra russi e ucraini delle ultime settimane. 

A seguire nella notte, con il favore del buio, avrebbe passato il confine con la Bielorussia una teoria di pullman-fantasma con salme di soldati russi uccisi in combattimento. Le voci di contaminazione nucleare, come tutte quelle che riguardano Chernobyl conquistata nei primi giorni dell'invasione russa dell'Ucraina, sono sufficienti a scatenare la paura tra gli abitanti di città e villaggi vicini (e non solo).

LE TRINCEE La verità anticipata dal Pentagono e confermata da Energoatom, l'Agenzia di Stato ucraina che gestisce Chernobyl, sarebbe che i soldati russi si erano messi a scavare trincee nella spettrale, monumentale Foresta Rossa, chiamata così perché si colorò di rosso sangue, in un'esplosione di autunno nucleare, quando nell'86 fu investita dai fumi radioattivi e rientra oggi nella zona di alienazione o esclusione attorno alla centrale. 

Ci vivono solo gruppi dispersi di contadini che si sono sempre rifiutati di lasciare le loro case, e una popolazione ancora poco conosciuta di fauna selvaggia che negli anni si è riversata in tutta quest'area dimenticata dall'uomo.

La guerra ha provocato incendi visibili da droni e satelliti, che però sono ricorrenti in un'area in cui gli organismi che decompongono i residui organici non sopravvivono agli effetti delle radiazioni e lasciano il campo a rami e radiche. 

«I militari che occupavano il sito» ha annunciato Energoatom «hanno comunicato in mattinata al personale ucraino della stazione l'intenzione di lasciare l'impianto nucleare di Chernobyl. I soldati russi hanno scavato trincee nella Foresta Rossa, nella zona più contaminata. Nessuna sorpresa che gli occupanti abbiano ricevuto una significativa dose di radiazioni e siano andati nel panico ai primi segni di malessere. Tutto è successo con grande rapidità».

LA SICUREZZA Alzando la terra, i soldati hanno disperso nell'atmosfera componenti radioattivi che si erano accumulati nel suolo, spiega Antonio Ereditato, fisico delle particelle elementari e docente alla Yale University. 

«Che la centrale sia invece il luogo più sicuro dove stare lo dimostra il fatto che non si registrerebbero casi di contaminazione radioattiva tra gli operai». Sono oltre 200 gli ucraini che garantiscono la sicurezza della centrale. 

RISCHIO NULLO Il rischio reale, a detta di Ereditato, sarebbe nullo. I reattori sarebbero ben protetti, mentre un discorso a parte va fatto per il combustibile stoccato, «che di solito non gode di tutte le sicurezze del reattore attivo, ma viene messo in una piscina in attesa, anche per anni, di esser sistemato nei centri di raccolta».

Che senso ha bombardare una centrale nucleare, se la nube radioattiva colpirebbe anche i russi e la Russia? Ma se il rischio non è alto, l'impatto psicologico di ogni piccolo incidente è enorme. E l'incognita più grave riguarda l'interruzione di elettricità: le piscine vanno continuamente raffreddate. La sera dell'attacco russo, infatti, entrarono in funzione i gruppi elettrogeni.

Trentasei anni dopo. La memoria di Chornobyl’ e la nuova minaccia nucleare. Yaryna Grusha Possamai su L'Inkiesta il 26 Aprile 2022.

Mosca gestì l’esplosione del quarto reattore della centrale ucraina nel peggior modo possibile. Gli ucraini ricordano bene cosa è successo quella notte e per questo non avrebbero mai scavato nella Foresta Rossa, come invece hanno fatto i soldati russi durante l’invasione.  

Quello che per il mondo in questi giorni è una minaccia nucleare, nei territori ucraini e bielorussi si è sperimentato in prima persona nel 1986. Oggi sono passati 36 anni dalla notte in cui il quarto reattore nucleare della Centrale di Chornobyl’ (la variante ucraina di Chernobyl’) è esploso, provocando la più grande catastrofe nucleare nella storia del pianeta. Forse oggi nessuno se lo ricorderà perché in questi giorni stiamo vivendo una minaccia nucleare nuova.  

L’Europa cerca di evitare il conflitto nucleare, la Russia usa la minaccia come l’arma più potente nelle sue mani per raggiungere i suoi fini, l’Ucraina e la Bielorussia sanno per esperienza quali sono le conseguenze di un’esplosione nucleare. 

Lo storico Serhii Plokhy nel suo libro dedicato a Chornobyl’, da poco uscito anche nella traduzione italiana, evidenzia i fattori che hanno portato alla tragedia, menzionando l’approccio superficiale sovietico nell’organizzare il lavoro, il fattore personale nella catena di commando chiamato not deliver bad news ai propri superiori e la totale assenza di trasparenza tra l’apparato e il popolo nel gestire l’emergenza.

La storia, dopo decenni di ricerche sulla catastrofe, ha saputo dare alcune risposte su cosa è successo quella notte e le settimane seguenti della primavera 1986. Ma ciò che rimane nelle memorie degli ucraini e dei bielorussi sono le immagini ancora vive degli abitanti di quelle zone morti per le radiazioni, senza sapere in quel momento per come e perché, magari tenuti anche per mano fino all’ultimo sospiro, le file lunghe degli autobus diversi giorni dopo l’esplosione con gli sfollati che non hanno mai più rivisto la loro casa, le malattie che presto hanno consumato i passeggeri di quegli autobus, gli abitanti rimasti nelle zone adiacenti e i liquidatori e i costruttori del sarcofago sopra il reattore numero quattro. 

Le memorie rimangono vive nonostante i paesi inghiottiti dalla natura vivace e rimasti presenti sulle mappe solo con le insegne, alcuni forni nelle case che sbucano fuori dal verde, alcuni monumenti ai caduti nella seconda guerra mondiale nei posti che una volta erano il centro del paese. Queste memorie si sono spostate e allargate assieme alla gente sfollata nell’immediato, ma anche con chi lasciava le zone attorno a Chornobyl’, divise in quattro territori rispetto al livello di contagio.

Quella gente ha ricominciato la vita daccapo in città come Sumy, Perejaslav, Kiev, Poltava. Alcuni di loro con l’invasione russa sono stati costretti a rivivere l’esperienza dello sfollamento.  

Per via di queste memorie gli ucraini e i bielorussi non sarebbero mai andati a scavare nella Foresta Rossa né si sarebbero accampati nei paesi abbandonati come Polis’ke, dove hanno trovato in uno scantinato cinque corpi torturati di giovani maschi locali. Sono le memorie che dividono il popolo ucraino, bielorusso e russo e se anche nell’Ucraina indipendente la gestione delle zone di reclusione non possiamo definirla ideale, la memoria dei sopravvissuti, tramandata da generazioni, rimane comunque il documento ideale per capire meglio di qualunque altro, che cos’è la minaccia nucleare sia a livello locale sia su scala mondiale. 

Sono le ennesime lezioni dal passato che non abbiamo imparato fino alla fine, le lezioni che riemergono in questi giorni bui con la sensazione che questa storia l’abbiamo già vissuta, ma il fatto di riviverla conferma che non si è imparato niente o non si è voluto imparare. E dopo la tragedia senza fine di Chornobyl’, la Russia spudoratamente minaccia il mondo, confermando che nella tragedia di Chornobyl’ la sua memoria è diversa da quella degli ucraini. La memoria russa è quella di chi centralmente a Mosca ha gestito la tragedia del reattore nucleare nel peggior modo possibile. Ma è anche quella di chi in tanti altri casi, compreso in quello di questi giorni, non ha mai voluto ammettere le sue responsabilità. 

Fabrizio Tonello avverte i governi: "In Ucraina rischio apocalisse atomica con milioni di morti". Libero Quotidiano il 27 marzo 2022.

Nessuno vorrebbe crederci, eppure siamo a un passo da quella che Fabrizio Tonello definisce "l'apocalisse". Portando ad esempio il picco del prezzo delle pillole di iodio su Amazon, il professore dell'università di Padova ricorda che l'"apocalisse atomica da tempo bussa alle nostre porte ma noi non vogliamo sentire". Sulle colonne del Giorno, nelle settimane che vedono gli ucraini alle prese con la guerra iniziata da Vladimir Putin, Tonello si dice convinto che l'umanità sia stata molto fortunata dal 1945 ad oggi, in particolare durante la crisi di Cuba nel 1962. Ora però il mondo intero è in una fase cruciale: "Ciò che sta avvenendo in Ucraina ci ricorda che questo pianeta, con i suoi fiori, i suoi alberi, i suoi bambini che sorridono potrebbe finire in cenere".

A detta del professore la possibilità è più concreta che mai e per questo mette in guardia i governi che starebbero "dimenticando che nessuno può vincere una guerra nucleare con decine di milioni di morti nei primi minuti del suo svolgimento". Solo Papa Francesco per l'esperto si è speso contro le armi inviate in Ucraina dell'Occidente. Le stesse che Volodymyr Zelensky sta chiedendo a gran voce. "Mai come oggi - prosegue - gli interessi dei governanti e quelli dei popoli sono stati lontani, opposti, con i primi, sonnambuli, impegnati in una 'marcia della follia' verso l'abisso". E la solidarietà non deve andare solo al popolo ucraino, ma anche al popolo russo, "trascinato in un conflitto fratricida da un dittatore irresponsabile".

Da qui l'unica soluzione possibile: fermare al più presto la guerra. E chi meglio degli strateghi da poltrona e dei mediatori? "Dobbiamo opporre la dignità delle parole di pace alla barbarie della guerra", conclude ricordando che la storia ci insegna che il tempo dei dittatori è limitato, che prima o poi i popoli si ribellano. Accadrà anche a Mosca il famoso golpe confermato da tanti e smentito da altrettanti? Chissà. Certo è che coloro che hanno lasciato il Cremlino come forma di protesta nei confronti del loro presidente non sono pochi.

Annamaria Schiano per corrieredelveneto.corriere.it il 26 marzo 2022.

L’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, arrivato a minacciare l’uso delle armi nucleari in caso di intervento della Nato, ha catapultato gli italiani nel terrore che il conflitto possa degenerare nella terza guerra mondiale. O come anche, più «semplicemente», che i bombardamenti in corso possano danneggiare le centrali atomiche ucraine, tra le più importanti d’Europa, rilasciando contaminazioni radioattive.

Al punto che è scattata la psicosi di richieste costruttive di bunker antiatomici nelle case private di chi può permetterselo. Ma in caso la situazione geopolitica precipitasse, dove potrebbe rifugiarsi la popolazione? Ad oggi, praticamente da nessuna parte, se non in Veneto, dove esiste West Star, l’unico bunker antinucleare in Italia in grado di resistere a 100 chilotoni, cinque volte tanto la bomba sganciata su Hiroshima.

Costruito negli anni ‘70

West Star fu costruita ad inizio anni Sessanta nelle viscere del monte Moscal ad Affi: dal 1966 al 2007 fu il più grande bunker antiatomico d’Italia, ospitando per tutta la Guerra Fredda la sede protetta del comando Nato, da cui diramare gli ordini militari all’Occidente. Copre una superficie di 13 mila metri quadrati ed è collocata a 150 metri sottoterra. Affi è un piccolo comune di appena duemila abitanti dell’entroterra del lago di Garda, in provincia di Verona.

I suoi cittadini sono gli unici italiani ad essere diventati proprietari del bunker antiatomico, ceduto giusto quattro anni fa, nel marzo del 2018, al Comune di Affi dai ministeri della Difesa e della Finanza. Il sito, ad oggi, potrebbe essere l’unico in Italia ad essere riattivato «facilmente», essendo stato «spento» solo nel 2010. Come potrebbe essere riattivato?

L’ex comandante De Meo

Lo abbiamo chiesto al generale Gerardino De Meo, ex comandante Nato ed ex comandante di West Star. «Il bunker era stato costruito per ospitare fino a mille persone – precisa – Purtroppo, però, vanno rimessi in funzione almeno gli impianti indispensabili, quali la chiusura ermetica delle porte antiatomiche e tutto l’impianto di areazione che permetterebbe la respirazione alle persone per molti giorni». 

Un intervento che, però, non trova la condivisione del sindaco di Affi, Marco Giacomo Sega, proprietario oggi di West Star. «Ci vogliono un sacco di soldi per rimettere in funzione il “buco”, come lo chiamavamo noi – dice - ma soprattutto non si può fare dall’oggi al domani, ci vuole almeno un anno. Crediamo, però, che in caso di bisogno lo si possa usare per qualche giorno come rifugio contro i bombardamenti tradizionali, ma riattivarlo in poco tempo a scudo nucleare è impensabile». 

«Peggio persino della crisi di Cuba»

Generale De Meo, ma lei avrebbe mai pensato si potesse tornare a parlare di conflitto nucleare? «Mai mi sarei aspettato di dover rivivere il clima da guerra fredda. Ed oggi è anche peggio persino della crisi di Cuba, quando il pericolo atomico è stato vicino». De Meo, di strategia militare si è nutrito per tutta la vita ed è pessimista sull’attuale situazione internazionale. 

«La vedo molto male — dice — Non vedo progressi nelle trattative, Putin nel mare di menzogne che dice punta solo a conquistare l’Ucraina. Per cui prevedo un coinvolgimento della Nato che ha schierato 150mila uomini sul confine con la Russia, dove sta svolgendo esercitazioni come non si sono mai viste. Inoltre il 24 marzo si terrà il plenum straordinario a Bruxelles dei Paesi della Nato, con anche Biden. Lì usciranno sicuramente delle minacce a Putin, del tipo: se usi delle armi chimiche noi interveniamo, e possono farlo anche oltre i confini dei Paesi Nato in caso di pericolo. E la Polonia confina con l’Ucraina».

De Meo non esclude il rischio che si arrivi all’uso delle armi atomiche. «In teoria sì, ci si può arrivare. E’ la mia paura. Se Putin viene messo con le spalle al muro diventa incontrollabile. Il rischio io lo vedo, a differenza della guerra fredda dove le minacce erano più che altro spauracchi». Qualcuno lo considera uno scenario catastrofista. «Io mi sto preparando al peggio — è la riflessione del generale — poi mi auguro risulti inutile, ma i segnali che arrivano dalle dichiarazioni di Draghi e dalla direttiva emessa dallo Stato Maggiore non lasciano certo tranquilli».

Le bombe moderne molto potenti

La domanda che tutti si fanno oggi è cosa accadrebbe in caso di guerra atomica. «Non saprei rispondere. Il bunker di Affi resiste a 100 chilotoni, ma le bombe di adesso possono raggiungere 10 megatoni, vale a dire cento volte di più dei 100 chilotoni. E se si pensa che quella sganciata su Hiroshima era di 15 chilotoni, fate voi il conto. Ma anche venissero usate bombe meno potenti, dai 40 ai 70 chilotoni, basta una di queste per spazzare via una città come Milano».

Deterrenza nucleare. Francesco De Remigis il 26 Marzo 2022 su Il Giornale.

Si alza ulteriormente l'allerta militare dell'Occidente e le potenze atomiche si attrezzano. La Francia, unica della Ue, ha già inviato tre sottomarini armati nelle acque dell'Atlantico.

«Steppin' up», bisogna rinforzarsi, dice Joe Biden da Varsavia dopo che il ministro della Difesa russo ha fatto sapere che Mosca sta studiando una risposta da dare alla Nato sul fronte occidentale. Tanto è bastato per alzare ulteriormente il livello d'allerta militare d'Europa. E le cancellerie Ue si interrogano sulla peggiore delle minacce del Cremlino: quella nucleare. Dall'uso tattico, che prevede mini-bombe capaci di distruggere intere zone cittadine, all'ipotesi che trasformerebbe la guerra in Ucraina in corso da 31 giorni in una nuova Apocalisse: l'atomica vera e propria. Chi ci difende dunque dal fantasma del nucleare?

Più che il neonato «Tiger team» americano, o le sparate di Boris Johnson che un anno fa decise l'aumento del 40% dell'arsenale atomico britannico, fermo a circa 200 testate con violenza 8 volte maggiore della bomba su Hiroshima, a scongiurare l'Armageddon è la Francia, l'unica potenza nucleare Ue.

Il «rischio potenziale» ha spinto Parigi a schierare la contro-minaccia deterrente. Dissuasione via mare. Nel massimo riserbo, ai primi avvisi russi all'Occidente, Macron ha portato a 3 i sottomarini con missili balistici nucleari sotto le onde. Tripla «assicurazione» sulla vita, dicono in gergo. Non accadeva dalla fine della Guerra Fredda. Lo standard, è averne uno sempre in acqua, nascosto nell'Atlantico. Ma un secondo sarebbe «salpato» a febbraio e il terzo avrebbe lasciato da poco la baia di Brest, in gran segreto, per rafforzare la capacità di intervento in caso di scontro con Mosca. Lo ha svelato il quotidiano Le Télegramme, mai smentito.

Gli «spostamenti» non vengono infatti annunciati. Né dall'Eliseo né dalla Difesa: l'allerta si «nota» dai porti che ospitano le roccaforti deterrenti. E quella francese si trova nell'Atlantico, a sud di Brest, 500 km in linea d'aria da Parigi. Ma come funziona la nuova «force de frappe»? Raggruppata all'Île-Longue, in Bretagna, la Forza oceanica strategica francese (FOST) è oggi di 4 sottomarini nucleari di seconda generazione con missili balistici (SNLE), ciascuno in grado di avere a bordo 16 M-51 a 6 testate capaci di colpire fino a 96 obiettivi. La prima generazione di «super-battelli» SSBN della classe Le Redoutable (sei unità) è stata infatti sostituita dalla classe Le Triomphant. Primo nuovo nato, del 1997; seguito dal Téméraire (1999), dal Vigilant (2004) e dal Terrible, ultimo dei 4 deterrenti. Varato nel 2008 ed entrato in servizio nel 2010, è il gioiello della flotta atomica transalpina; lungo 138 metri, è costato 4,5 miliardi armamenti compresi. Tutti e 4 sono in grado di mimetizzarsi nei fondali oceanici, pronti a gittate fino a 10 mila km. Numerose le opzioni: ogni missile M-51 può disperdere bombe su raggi diversi. E ogni testata può sganciare l'equivalente da 10 a 20 volte la bomba su Hiroshima.

Con François Mitterrand, nel 1981, in piena crisi degli euromissili, la presenza subacquea nucleare francese fu al massimo di tre sommergibili: al crollo dell'Urss, era scesa a uno. L'escalation in Ucraina ha invece persuaso l'Eliseo a sbloccare pure il sottomarino d'allerta. Che in meno di 72 ore si è unito all'operazione.

Basterà la flotta atomica a controbilanciare le dichiarazioni russe? L'ultimo indizio che ha convinto anche altri Paesi a esser pronti all'azione è stato il «verbo sospeso» del portavoce del Cremlino Dimitri Peskov. Alla Cnn ha agitato di nuovo lo spettro, se la Russia si sentirà minacciata della sua esistenza. Ci si muove cauti, tra dubbi e propaganda. Ma con la consapevolezza che le sanzioni sono già considerate da Putin una dichiarazione di guerra. Mosca sciorina ultimatum, cerca forse l'incidente, in una mappa del conflitto sempre più larga in cui si parla di 500 testate atomiche già piazzate nei sottomarini russi. I marinai francesi sono in massima allerta. E lo stesso Biden ha rispolverato la teoria del «first strike», aprendo al ricorso ad armi atomiche in «circostanze estreme», riconsiderando l'opzione di attacco preventivo, data la situazione: Pearl Harbor ci fu dopo un embargo. E uno Stato finanziariamente disperato riapre la Storia a ogni ipotesi.

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 24 marzo 2022.

L'Occidente cerca di non smarrirsi nella terra di nessuno che separa la pace, o almeno una tregua, dalla più catastrofica delle guerre. È una landa popolata da minacce, come quella del portavoce del Cremlino, Dmytri Peskov che anche ieri «non ha escluso» l'uso delle «armi nucleari tattiche», ordigni devastanti con un raggio d'azione di circa 2 chilometri. È uno spazio per le previsioni che diventano sinistri presagi se alla domanda «la Russia potrebbe fare ricorso alle armi chimiche?» il presidente degli Stati Uniti risponde: «Penso sia una minaccia reale».

O forse l'impiego sul campo delle armi di distruzione di massa è già iniziato, a leggere ciò che scrive su Telegram Oleksandr Markushun, sindaco di Irpin, cittadina alle porte di Kiev: «Nella sera del 22 marzo, gli invasori russi hanno bombardato la periferia a nord ovest della capitale con munizioni al fosforo. È un crimine contro l'umanità, queste armi sono state bandite dalla Convenzione di Ginevra del 1949».

E di «crimini di guerra» ha parlato esplicitamente il Segretario di Stato Antony Blinken: «Sulla base delle informazioni al momento disponibili, gli Stati Uniti ritengono che le forze russe hanno commesso crimini di guerra in Ucraina». Punto di non ritorno Putin sta spingendo il conflitto in Ucraina verso il punto di non ritorno. Sono ancora solo provocazioni? Come i suoi carri armati, anche il leader russo sta già affondando nel fango. 

C'è qualcosa che si può fare per fermarlo? Sono le domande sul tavolo del vertice straordinario della Nato, che si riunisce oggi a Bruxelles. Il protagonista più atteso, Biden, parteciperà poi anche al summit del G7 e alla riunione del Consiglio europeo. All'inizio i trenta capi di Stato e di governo ascolteranno, in video collegamento, Volodymyr Zelensky. Il leader ucraino, intervenendo nel Parlamento francese, ieri ha sollecitato la Renault a lasciare il mercato russo dell'auto, di cui detiene una quota del 30%: «State finanziando la guerra di Putin».

La sera Renault ha sospeso le attività nello stabilimento moscovita. Oggi alla Nato Zelensky - che come riportato dal Wall Street Journa l chiese agli Usa di non imporre sanzioni su Roman Abramovich perché l'oligarca potrebbe facilitare i negoziati di pace con la Russia - chiederà sostegno militare più deciso e sanzioni economiche più radicali. Un gruppo di Paesi, guidato da Regno Unito e Polonia, ne seguirà la scia. La loro tesi: negli ultimi 10-15 giorni lo scenario è cambiato profondamente; la strategia di attesa, di contenimento, non è più sufficiente.

Nessuno chiede un intervento militare in Ucraina: sarebbe la Terza guerra mondiale. Ma almeno andrebbe segnalato che la posizione della Nato potrebbe cambiare se Putin dovesse davvero fare ricorso alle armi chimiche o atomiche. La prima risposta è arrivata dal Segretario dell'Alleanza Jens Stoltenberg. Trenta minuti di equilibrismo compresso tra due dichiarazioni difficili da conciliare. La prima: «È chiaro che l'utilizzo di armi chimiche, biologiche o nucleari cambierebbe la natura del conflitto». 

La seconda: «La Nato non invierà soldati, ma deve fare il possibile per prevenire questa escalation». Come? Non si è ancora capito. Quali conseguenze? A tratti Stoltenberg è sembrato un portavoce aggiunto della Casa Bianca. Ha ripetuto esattamente le parole che da settimane rimbalzano nei discorsi di Biden: «Ci saranno severe conseguenze». Naturalmente nessuno pensa che di queste «conseguenze» facciano parte le nuove sanzioni annunciate dagli Stati Uniti a carico degli oligarchi o dei deputati russi.

Bisognerà, invece, stabilire se, per esempio, i trenta Paesi della Nato accetteranno di consegnare alla resistenza ucraina anche mezzi militari offensivi. Sembra di capire che non sarà così. Stoltenberg ha menzionato l'invio di «strumenti per proteggere gli ucraini da eventuali attacchi chimici o nucleari». Ha insistito sulla necessità di rafforzare il fianco Est «sul lungo periodo». Ha fatto appello alla Cina «perché condanni l'invasione russa». Poco altro.

Andrea Marinelli e Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 24 marzo 2022.

Il governo americano è stato il primo a formulare la più terrificante delle ipotesi: Vladimir Putin potrebbe far ricorso ad armi chimiche, biologiche e nucleari. 

È lo scenario estremo, traumatico: la prima esplosione atomica nel cuore dell'Europa, 76 anni dopo Hiroshima e Nagasaki. Il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov ha detto alla Cnn che «nel caso di minaccia alla sicurezza nazionale», la Russia potrebbe usare «le forze di deterrenza nucleare». Peskov ha deliberatamente mandato un messaggio ambiguo.

Che cosa sono le armi chimiche e biologiche?

Sono munizioni devastanti per la loro componente di esplosivo associata ai gas o tossine in grado di diffondere il contagio. Negli ultimi anni sono state impiegate da Assad in Siria, con l'avallo del Cremlino. I servizi segreti americani e britannici temono che Putin possa farvi ricorso per piegare la resistenza ucraina.

Perché si parla di minaccia nucleare?

Putin aveva comunicato al mondo di aver messo in stato di allerta l'arsenale il 27 febbraio 2022, tre giorni dopo aver ordinato l'attacco all'Ucraina. Molti analisti politici occidentali avevano scrollato le spalle: sta bluffando. I generali, invece, avevano iniziato a preoccuparsi. 

Fin dove può arrivare Putin?

Keith Kellogg, già consigliere a interim per la Sicurezza nazionale di Donald Trump e poi, dal 2018 al 2021, advisor del vice presidente Mike Pence, dice al Corriere: «Non dobbiamo pensare alle armi nucleari con in mente la fine del mondo. I russi in particolare hanno sviluppato bombe tattiche con un raggio d'azione relativamente limitato, diciamo più o meno di un chilometro e mezzo. Il punto è che nessuno sa fino a che punto si possa spingere Putin. In questi giorni abbiamo avuto la conferma della sua assoluta mancanza di scrupoli».

Osservazioni come quelle del generale Kellogg fanno breccia soprattutto tra i Paesi del fianco Est della Nato, a cominciare dalla Polonia e dai Baltici. «Anche per questo - ci dice l'ambasciatore polacco presso la Nato Tomasz Szatkowski - l'Alleanza atlantica dovrebbe rivedere la sua strategia. Purtroppo con Putin non possiamo escludere nulla». 

Cosa sono le armi nucleari tattiche?

I russi ne hanno circa 2.000 nei depositi, non pronte all'uso; gli europei un centinaio, stoccate in diverse basi, comprese quelle italiane di Ghedi e di Aviano. Si tratta di ordigni più piccoli rispetto a quelli classici, da usare in battaglia se l'Armata non dovesse riuscire a vincere con le armi convenzionali.

Questa opzione, molto meno distruttiva rispetto a Hiroshima, potrebbe essere un modo per convincere l'avversario a desistere, per provocare una «de-escalation» attraverso una «escalation», un'opzione tipica della dottrina militare russa. 

Quale gittata e quale potenza hanno?

A differenza dalle armi nucleari «strategiche» della Guerra fredda, con cui Stati Uniti e Russia potevano colpirsi a vicenda sparando direttamente dal proprio territorio e che erano usate come deterrente, quelle tattiche hanno una gittata minore e colpiscono su distanze più brevi.

L'esercito russo può usare due sistemi per lanciarle: i missili Kalibr, lunghi 6,2 metri e sparati da terra o dal mare, che hanno una gittata di 1.500/2.500 chilometri; il sistema Iskander-M che parte da terra e ha una gittata di 400-500 chilometri. 

Esistono numerosi esemplari di armi tattiche nucleari, variano molto per grandezza e potenza: la carica della più piccola può arrivare a un chilotone, ovvero l'equivalente di mille tonnellate di Tnt, la più grande anche a 100 chilotoni. Gli effetti cambiano a seconda della taglia e del luogo della detonazione: quella che uccise 146 mila persone a Hiroshima aveva una carica di 15 chilotoni.

Come potrebbero essere usate?

Non lo sappiamo, «le possibilità che vengano effettivamente impiegate sono poche, ma comunque aumentano», ha detto al New York Times Ulrich Kühn, esperto di nucleare dell'Università di Amburgo. Anche a Washington, gli esperti si aspettano nuove mosse su questo fronte. 

Putin potrebbe lanciarne in un'area disabitata, ad esempio, invece che contro l'esercito ucraino. La loro natura meno distruttiva, però, potrebbe essere un'illusione. Il loro utilizzo potrebbe portare a un conflitto nucleare aperto.

Una simulazione degli esperti di Princeton mostra quale potrebbe essere la dinamica: Mosca lancia un'arma nucleare tattica di avvertimento, la Nato risponde, e nel giro di poche ore si conterebbero 90 milioni di morti.

Cosa farà la Nato?

La «prospettiva atomica» passa ora dai rapporti dei servizi segreti al tavolo del confronto politico tra 30 capi di Stato e di governo della Nato.

È possibile che ci sarà una traccia della discussione nel comunicato finale del vertice di Bruxelles, come chiedono, oltre alla stessa Polonia, un folto gruppo di Stati: Regno Unito, Lettonia, Lituania, Estonia, Danimarca, Repubblica Ceca, Slovenia, Norvegia e forse altri ancora. 

Prima che scoppiasse il conflitto, Biden aveva proposto a Putin di inserire le «armi tattiche nucleari» in un negoziato complessivo. Finora il dispiegamento di queste bombe non è disciplinato da alcun trattato. 

Hibakusha tesori viventi. Report Rai PUNTATA DEL 25/04/2022 di Pio D’Emilia

Collaborazione di Umberto Caiafa 

Report ha raccolto la testimonianza degli ultimi sopravvissuti di Hiroshima sugli effetti della bomba atomica.

“Quando ho sentito che c’è di nuovo qualcuno, in questo nostro mondo, che pensa seriamente di ricorrere di nuovo alle armi nucleari sono rabbrividito. E ho deciso di agire”. Tadatoshi Akiba, storico sindaco di Hiroshima, dopo le minacce di Putin di ricorrere a un bombardamento nucleare, si è dato da fare e nonostante i suoi 80 anni ha lanciato una campagna di firme e un appello a tutti i leader delle potenze nucleari di riunirsi a Hiroshima per un vertice “pacifista”. “Per esperienza so che chiunque abbia visitato il nostro museo della bomba è rimasto inorridito. Voglio che i nostri leader lo visitino, e vediamo se poi qualcuno ha il coraggio di premere di nuovo quel maledetto bottone”. Le immagini conservate nel museo sono ancora scolpite nella memoria degli HIBAKUSHA, i sopravvissuti della bomba. Ce ne sono ancora circa 130 mila, di prima, seconda e addirittura terza generazione. Report ha raccolto la testimonianza degli ultimi sopravvissuti di Hiroshima sugli effetti della bomba atomica. Dopo di loro, non ci sarà memoria di cosa quella bomba ha significato.

HIBAKUSHA TESORI VIVENTI di Pio D’Emilia Collaborazione di Umberto Caiafa Immagini di Pio d’Emilia, Madoka Kohno Montaggio di Andrea Masella

TADATOSHI AKIBA - SINDACO DI HIROSHIMA 1999- 2011 Tutti gli hibakusha e la maggior parte dei cittadini giapponesi hanno provato profonda indignazione di fronte alle dichiarazioni di Putin circa la possibilità di utilizzare le armi nucleari. Siamo rabbrividiti. E come ex sindaco di Hiroshima ho voluto fare un appello a Putin e al resto del mondo di abbandonare questa folle idea.

PIO D’EMILIA FUORI CAMPO Tadatoshi Akiba, storico sindaco di Hiroshima, è su tutte le furie. Nonostante sia in pensione oramai da alcuni anni, di fronte alle minacce di Putin e a quella che definisce una nuova, insolente minaccia nucleare ha deciso di tornare in prima linea. Nel giro di pochi giorni ha lanciato una petizione online, raccolto quasi 100mila firme, chiesto al premier giapponese, Fumio Kishida, di farsi portavoce del suo appello, appello al quale il premier non ha nemmeno risposto, e poi ha proposto un vertice straordinario delle potenze nucleari a Hiroshima.

TADATOSHI AKIBA - SINDACO DI HIROSHIMA 1999 - 2011 Oggi, chi parla di armi nucleari e del suo eventuale utilizzo, probabilmente non ha la minima idea delle conseguenze di una tale scelta. Le armi nucleari possono distruggere l’umanità. Doveva essere il contrario: doveva essere l’umanità a distruggere gli arsenali nucleari. E siccome oggi c’è qualcuno che ne ha minacciato l’uso, abbiamo tutti il dovere di reagire. Ecco perché invito tutti i leader delle potenze nucleari a venire qui, visitare il nostro museo, parlare con i sopravvissuti. Voglio proprio vedere se qualcuno, dopo aver visto questo orrore, avrà ancora la voglia di schiacciare il bottone.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Hikbàscia, si chiamano così i sopravvissuti alle due bombe nucleari che il 6 e il 9 agosto del 1945, 77 anni fa, gli Stati Uniti sganciarono sulle città di Hiroshima e Nagasaki. Nonostante siano esplose a 500 metri di altezza dal suolo, il calore, la violenza, le radiazioni furono tali che lo speaker dell’agenzia delle notizie giapponese titolò che ogni essere umano e animale era rimasto carbonizzato; i corpi irriconoscibili, troppi i morti per poterli seppellire. Alla fine, furono contati circa 200mila morti civili, ma fu impossibile stabilire una cifra esatta. E nonostante molti governi parlassero già allora di violazione delle leggi internazionali, della Convenzione dell’Aia che tutelano gli attacchi alle città, nonostante tutto questo, oggi qualcuno vuole evocare il mostro, l’orrore nucleare e vuole ricorrere nuovamente a quegli ordigni. Per non cadere nell’ oblio, cosa significa utilizzare un ordigno nucleare, abbiamo pensato di raccogliere, sentire la testimonianza di quei sopravvissuti, perché conservano un tesoro: la memoria. Per Report, Pio d’Emilia. PIO D’EMILIA FUORI CAMPO Non è la prima volta che entriamo nel museo degli orrori, a Hiroshima, il museo degli orrori nucleari. Ma ogni volta che lo si fa, ci si trova difronte ad un nuovo particolare, un nuovo dettaglio, una foto che ti era sfuggita, un reperto nuovo. Ovviamente c’è un percorso, che il pubblico in genere segue in rispettoso silenzio, bambini compresi, ma l’interno è stato disegnato in modo che la gente possa anche fermarsi, senza intralciare il flusso, per raccogliersi davanti a un particolare oggetto, una foto, un video. E di orrori da vedere ce ne sono, anche troppi. All’uscita del museo c’è un lungo corridoio, dove la gente spesso si ferma per riprendere fiato. Una sorta di camera di compensazione dopo l’apnea emotiva che provoca la visita.

PIO D’EMILIA Sai che c’è qualcuno nel mondo oggi che pensa di riutilizzare le armi nucleari?

GIOVANE UOMO Penso sia una follia pura. Spero siano solo voci, sono ancora sconvolto da quello che ho visto.

PIO D’EMILIA FUORI CAMPO Anche Yutaka, operaio edile di 23 anni, mostra le stesse perplessità di fronte all’ipotesi che le armi nucleari possano essere di nuovo usate.

YUTAKA Hai visto anche tu quello che succede con le radiazioni. La pelle ti si brucia addosso, poi ti si stacca: all’epoca non lo sapevano, ma oggi che lo sappiamo il solo ipotizzarlo è un fatto criminale.

PIO D’EMILIA FUORI CAMPO Ma c’è anche chi la pensa diversamente, come questo funzionario del comune, Kazuo Igarashi. Lui ritiene che il Giappone debba riarmarsi e che anche la questione delle armi nucleari debba essere in qualche modo riaperta.

KAZUO IGARASHI - IMPIEGATO COMUNALE HIROSHIMA Quello che sta facendo Putin è inaccettabile. Quanto al Giappone, penso che questa vicenda ci stia dando un’ottima occasione per riconsiderare la nostra posizione sul possesso o meno di armi nucleari. La deterrenza ha dimostrato di funzionare: io non voglio che il Giappone possa fare la fine dell’Ucraina, un giorno.

CHIERO KIRIAKE – HIBAKUSHA, ANNI 96 Cosa penso del fatto che dopo Settant’anni c’è ancora qualcuno che parla di nuovo di armi nucleari? Sono inorridita e penso che alla fine sia anche un po’ colpa nostra. Evidentemente, non abbiamo fatto abbastanza per far sentire la nostra voce. Per raccontare al mondo l’orrore nucleare. PIO D’EMILIA FUORI CAMPO In giapponese si chiamano hibakusha, letteralmente, “persone colpite dalla bomba”. Fino al 6 agosto del ‘45 era un termine generico con il quale si indicavano tutte le vittime dei bombardamenti, ma da allora il termine si riferisce solo ai sopravvissuti delle due bombe nucleari e dei loro discendenti. Secondo i dati ufficiali del governo giapponese, che li aggiorna continuamente, oggi ci sono ancora 130 mila hibakusha, di prima, seconda e addirittura terza generazione. Qualcuno ha definito gli hibakusha “tesori viventi”. Ed è così: poterli incontrare, ascoltare i loro racconti, rappresenta oltre che una preziosa testimonianza un vero proprio arricchimento dell’anima, un vero privilegio.

CHIEKO KIRIANE – HIBAKUSHA, ANNI 96 All’epoca avevo 15 anni e come tutte le ragazze della mia età, invece che andare a scuola, lavoravamo in fabbrica. Producevamo sigarette per i soldati. All’inizio non capivo bene perché eravamo considerati una fabbrica strategica, ma poi ci spiegarono che le sigarette erano l’unico conforto che avevano i militari. Il giorno dell’esplosione faceva caldissimo già di prima mattina, e prima di entrare in fabbrica mi ero allontanata per lavarmi il sudore a una fontana. Lo scoppio mi sbatté a terra, per qualche secondo o minuto, chissà, persi la vista e l’udito. Quando rinvenni, i miei vestiti si erano appiccicati alla pelle che era bollente, infuocata. Riuscii ad alzarmi in piedi, ma sanguinavo dalla testa: mi accorsi poi che era piena di schegge di vetro. La fabbrica era stata rasa al suolo, sotto le macerie c’erano le mie compagne. Ne ho tirate fuori due, e insieme ci siamo incamminate verso l’ospedale. Ho subito 16 operazioni nella mia vita, ma ho trovato marito e ho anche fatto due figli che per fortuna stanno bene, anche se, ogni volta che hanno un semplice raffreddore, pensiamo sempre al peggio.

PIO D’EMILIA FUORI CAMPO La maggior parte degli hibakusha hanno condotto e continuano a condurre vite miserabili, piene di stenti e di ostacoli di ogni tipo: in Giappone la diversità, di qualsiasi natura essa sia, è considerata e percepita come una colpa. E se ci sono degli hibakusha famosi, come lo stilista Issei Miyake, che non hanno problemi a rivendicare il loro stigma, altri hanno voluto o dovuto nasconderlo, per evitare pesanti e dolorose discriminazioni. All’epoca del bombardamento vivevano a Hiroshima e Nagasaki molti cittadini coreani, ridotti in condizioni di schiavitù, a lavorare nelle miniere e nelle fabbriche della zona, e perfino alcuni americani, figli di coppie miste. Per tutti loro il riconoscimento dello status di hibakusha, che comporta cure gratis e un piccolo sussidio statale, è arrivato dopo molti anni di dure battaglie legali, emarginazione e discriminazioni. Questo monumento, dedicato alle circa 20mila vittime coreane, ha impiegato oltre 50 anni per essere finalmente spostato all’interno del Parco della Pace, ed è tutt’ora isolato rispetto al Cenotafio, il monumento simbolo della tragedia dove sono iscritti, e di anno in anno aggiornati, i nomi delle vittime giapponesi del bombardamento.

KEIKO OGURA - HIBAKUSHA, ANNI 92 Avevo 8 anni, quella mattina giocavo con mio fratello nel giardino fuori casa. Se fossimo rimasti nella vecchia casa, oggi non sarei qui. L’esplosione è arrivata all’improvviso, nessuna sirena. Mio fratello guardava in cielo e mi urla: “Guarda, guarda, un enorme aereo ha sganciato una bomba”. È l’ultima cosa che ha visto, poverino. Quando ci siamo rialzati da terra non vedeva più, e dopo qualche mese è morto, aveva 13 anni. Il mio nipotino è costretto a fare controlli ogni mese, temiamo abbia una forma di leucemia. È un incubo, credetemi, un incubo senza fine. E quando ho sentito ai telegiornali che questo incubo potrebbe ripetersi, mi è venuto da piangere, ho avuto una crisi, mi sono venuti in mente quei giorni terribili, la gente che si gettava nei canali per placare il dolore delle ustioni, uomini e donne che si aggiravano come zombie tra le rovine. Gente che ti moriva davanti. Ricordo che mio padre organizzò un forno crematorio in giardino. Cremò centinaia di persone. Chi semplicemente immagina di usare ancora quegli ordigni, dovrebbe vergognarsi. Per carità, fate in modo che questo non succeda, ascoltate la voce di una sopravvissuta di Hiroshima.

PIO D’EMILIA FUORI CAMPO Mariko Higashino è una hibakusha di seconda generazione. L’avevamo incontrata anni fa, ai tempi della visita di Obama a Hiroshima, nel 2016, una visita storica, durante la quale anche lui non rivolse quelle parole di scusa che il popolo giapponese, ed il mondo intero, attendono da oltre 70 anni. Mariko accompagnava sua madre, la signora Takaoka, una stupenda signora che all’epoca aveva 94 anni, la vedete in queste immagini, e che ancora girava il mondo per portare la sua testimonianza di sopravvissuta della bomba. Due anni fa è deceduta.

MARIKO OGASHINO - HIBAKUSHA SECONDA GENERAZIONE Pensi che fini all’ultimo ha continuato nel suo ruolo di testimone: pochi giorni prima di morire, in ospedale, ha chiesto e ottenuto di riunire tutto il personale e i pazienti per raccontare per l’ultima volta la sua storia. Come sto io? Io per fortuna bene, non ho grandi problemi di salute ma entrambi i miei figli invece li hanno. E vi assicuro che è un incubo, per noi genitori, vivere con il terrore che prima o poi ci sia una brutta diagnosi, causata dalle radiazioni. Succede ancora, purtroppo.

TADATOSHI AKIBA - SINDACO DI HIROSHIMA 1999 - 2011 Anni fa rimasi inorridito dalle dichiarazioni dell’ex premier britannico Theresa May, che durante un dibattito parlamentare dichiarò che non avrebbe avuto alcun problema, in caso di necessità, a ordinare un bombardamento nucleare che poteva uccidere all’istante centinaia di migliaia di persone, compresi donne e bambini. Ora è Putin che non lo esclude. Oramai, non mi faccio illusioni, so che l’obiettivo di abolire le armi nucleari non è realizzabile nel breve periodo. Ma spero, nel poco tempo che mi resta da vivere, di riuscire ad ottenere da tutte le potenze nucleari almeno il solenne impegno a non usarle per primi. Il famoso “first strike”. Sinora, solo Cina e India l’hanno fatto.

PIO D’EMILIA FUORI CAMPO Meno male che a regalarci un po’ di ottimismo c’è ancora Yasuo Harada. Medico, ex primario dell’ospedale oncologico di Hiroshima, anche lui è un sopravvissuto: aveva dieci anni al momento dello scoppio, ed è salvo perché quel giorno aveva deciso di marinare la scuola. Non così sua madre, infermiera, ed altre 69 persone della sua famiglia, decedute all’istante. Yasuo ha saputo reagire: con l’aiuto di uno zio si è laureato, è diventato medico, specializzandosi in Italia, dove ha anche sviluppato la passione per la musica lirica. Ed è la cosa di cui va più orgoglioso e oggi vuole condividere con noi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A che serve la memoria, soprattutto quella del male, se non a migliorare l'umanità? Invece, la guerra in Ucraina è riuscita a far cambiare idea anche a quel paese che ha provato sulla propria pelle l’orrore del nucleare. Proprio ora l’ex premier Shinzo Abe, che è leader di un gruppo di politici e intellettuali nazionalisti, ha riaperto il dibattito su una eventuale necessità di dotarsi della bomba atomica. E la prossima settimana, potrebbe addirittura segnare un cambio di passo della politica giapponese. È un altro duro colpo alla pacificazione, quando invece il mondo avrebbe bisogno di una leadership basata sull'umanità e sulla capacità di prevenirle le guerre, non di scatenarle o eventualmente vincerle.

Sì a guerra e atomica per l'86% dei russi. Ecco il Paese di Putin. Roberto Fabbri il 24 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il rapporto choc di "Active Group". La maggioranza è favorevole anche a colpire Polonia e Repubbliche Baltiche.

Sei russi su sette (l'86,6% del campione intervistato) sostengono in principio un'eventuale aggressione militare di Mosca a Paesi dell'Unione Europea. Non solo: i tre quarti degli intervistati non sono contrari nemmeno all'impiego da parte della Russia di armi nucleari. Lo rivela un sondaggio pubblicato da Active Group, un gruppo di ricerca ucraino. Il campione è stato consultato tenendo conto delle leggi restrittive russe che obbligano a usare la dicitura «operazione speciale» al posto di «guerra» e a definire «nazisti» le forze militari difensive ucraine.

«L'impressione generale che abbiamo ricavato dall'indagine spiega Andriy Eremenko, che ha fondato Active Group nel 2011 è che i russi che hanno accettato di rispondere alle nostre domande dimostrino aggressività non solo verso l'Ucraina, ma anche nei confronti dell'Ue». I tre quarti del campione approverebbero l'eventuale estensione dell'attuale «operazione speciale in Ucraina» a ulteriori Paesi, e indicano nella Polonia il bersaglio preferito. L'idea di recuperare con la forza l'impero sovietico perduto nel 1991 con la fine dell'Urss sembra sorridere alla maggioranza dei russi: oltre alla Polonia (indicata dal 75,5% degli intervistati), essi vorrebbero vedere i loro soldati nella veste di invasori e occupanti nelle tre Repubbliche baltiche (41%), in Bulgaria, Romania, Ungheria e nella ex Cecoslovacchia (39,6%). Ma anche la Georgia (32,4%) e la Moldavia (28,8%) dovrebbero «tornare alla madrepatria», mentre meno del 5% si azzarda ad approvare un attacco anche a Paesi dell'Europa occidentale. La gran parte dei russi, dunque, pensa che i Paesi dell'Europa orientale che hanno scelto ormai 30 anni fa di sfuggire al dominio russo e di far parte della comunità occidentale si trovino in una specie di libertà vigilata, e che sarebbe pieno diritto della Russia rimetterli a forza sotto il proprio tallone. Solo il 17,6% del campione ha preferito non rispondere alle domande sull'estensione della «influenza militare russa» all'estero, e un insignificante 1,4% ha risposto che la Russia non dovrebbe espandersi: assai meno comunque di quanti sostengono l'opportunità di aggredire gli stessi Stati Uniti (4,6%), mentre c'è perfino un nocciolo duro di guerrafondai assoluti che asseconderebbe un tentativo di Putin di mettere sotto controllo il mondo intero (12,5%). Un secolo di ossessiva propaganda anti occidentale fatto salvo l'intervallo degli anni Novanta ha lasciato segni indelebili nell'opinione pubblica russa, anche se bisogna ricordare che Putin soffoca la libera informazione e inculca un'ideologia nazional-imperiale che ha ormai perfino riabilitato la sanguinaria figura di Stalin, presentato anche nelle scuole come artefice della grandezza nazionale. Senza poi dimenticare l'esistenza, soprattutto tra i giovani e i residenti nelle grandi città, di una coraggiosa minoranza chiaramente ostile al regime ma messa in condizione di non «disturbare il Manovratore» (vedi il destino di Aleksei Navalny). Ma l'aspetto più impressionante riguarda l'accettazione dell'arma nucleare per aggredire i Paesi vicini «se Putin avesse informazioni sul loro possibile uso contro la Russia»: dal 40,3% arriva un sì incondizionato, dal 34,3% una disponibilità parziale e solo dal 25,4% un no secco. Siamo ridotti a sperare che i vertici del regime siano più responsabili dei loro sudditi.

La bomba atomica nel talk show della tv russa: «In 30 secondi, addio Varsavia». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 23 Marzo 2022.  

Lo show più popolare, quello di Vladimir Solovyov, tra grandeur sovietica e minacce nucleari: «L’Ucraina è solo un passaggio, morte ai nemici». Sulla rete Russia Today il settantenne Kiselyov rimpiange i confini di prima della Rivoluzione

«Buonasera a tutti, finalmente l’aria è più pulita... non trovate che si respira meglio da quando Chubais se n’è andato?» Fare una cronaca in parziale differita, due ore di fuso orario, della striscia serale di Vladimir Solovyov, è come applicare il principio di azione e reazione alle questioni che interessano il Cremlino. A giudicare dal discorso introduttivo fatto dal presentatore più famoso di Russia, uomo di fiducia di Vladimir Putin e oligarca a sua volta, con villa di proprietà sul lago di Como sotto sequestro, la fuga del rappresentante speciale del presidente presso gli organismi internazionali non è stata accolta molto bene.

Il programma anticipato di due ore

«Se vuoi sapere cosa pensa davvero la Russia, segui Solovyov». Cinque anni fa, era stato questo il lancio del suo programma quotidiano in onda su Rossya 1, che forse non a caso dallo scorso 20 marzo è stato anticipato di due ore, non più alle 22.30, ma subito dopo la fine del telegiornale. Speriamo che non sia davvero uno slogan da prendere alla lettera. Perché Solovyov non vorrebbe mai fare prigionieri, in senso letterale. Domenica scorsa, durante la puntata speciale in onda ogni fine settimana, nel suo studio è cominciato un dibattito dai contenuti poco rassicuranti.

La minaccia di una guerra nucleare

Sotto lo sguardo compiaciuto del padrone di casa, il politologo Serghey Mikheyev ha immaginato quale potrebbe essere la reazione russa a una missione Nato di peacekeeping in Ucraina. «L’Europa deve sapere che la nostra unica reazione sarebbe la guerra nucleare». Giusto, ha commentato Solovyov, anche la Francia lo ha capito. Mikheyev non aveva certo bisogno di incoraggiamento, e infatti ha proseguito esaminando quali sarebbero le possibili conseguenze di questa azione. «I polacchi devono sapere che in trenta secondi appena non resterebbe più niente di Varsavia», e così gli estoni, e i popoli del Baltico.

Le ambizioni espansionistiche

«Se una colomba volasse nello studio di Rossya 1» era scritto poche domeniche fa sul cartello di un manifestante a Mosca, «cadrebbe stecchita». Nel caso specifico, c’è del vero. Solovyov e il concetto di pace non sono mai andati d’accordo. Quando ancora i carri armati russi dovevano entrare nel Donbass, lui già guardava oltre. «Se qualcuno pensa che ci fermeremo con l’Ucraina, sbaglia» aveva detto durante la puntata dello scorso 22 febbraio. «Questo sarà solo un passaggio intermedio della messa in sicurezza del mondo russo».

Il ritorno ai confini del 1917

Non si tratta di corretta informazione o di notizie a senso unico, quella è un’altra storia. I volti noti della televisione russa esercitano una funzione diversa. Loro soffiano sul fuoco del nazionalismo. Come fa ogni pomeriggio il sessantasettenne Dmitrij Kiselyov, direttore dell’Agenzia Rossiya Segodnya (Russia Oggi) proprietaria del sito Sputnik e delle rete Russia Today, entrambe sanzionate dalla Commissione europea, che all’inizio del nuovo secolo lavorò anche in Ucraina nella rete di proprietà dell’oligarca Victor Pinchuk e divenne sponsor mediatico della candidatura del filorusso Viktor Yanukovich alla presidenza durante la Rivoluzione arancione. Il suo programma d’approndimento viene declinato con toni calmi, ma l’argomento è sempre il solito. Come sarebbe bello se la Russia tornasse ai confini di prima della maledetta rivoluzione del 1917.

Il richiamo alla grandezza perduta

Esiste una strategia, dietro questo continuo richiamo alla grandezza perduta della Russia che Putin starebbe cercando di ritrovare, dietro al «morte ai nostri nemici» gridato in diretta da Solovyov e da altri personaggi popolari. Olga Skabeyeva, la «bambola di ferro» che deve il soprannome alla durezza delle sue prese di posizione contro i contestatori di Putin, ha dedicato una intera puntata del suo programma alla possibile conquista dell’Europa da parte della Russia, con tanto di esperto militare che muoveva i carri armati sulla cartina geografica.

La Russia profonda

Anton Shirikov, studioso dei media del suo Paese d’origine, ha scritto sul Washington Post che in realtà questa propaganda è fatta molto bene perché si rivolge agli utenti della Russia profonda, rinforzando al tempo stesso le loro antiche convinzioni e il loro sentimento di nostalgia. Quanto ai giovani, ieri prima del telegiornale è andato in onda un breve cartone animato. Nel corridoio di una scuola, due amici vestiti uno con i colori della Russia e l’altro con quelli dell’Ucraina, vengono separati e allontanati in malo modo da alcuni bulli più grandi di loro, che indossano maglioni a strisce rosse e bianche, come quelle della bandiera americana.

Dottrina Putin. Quanto è (im)probabile che la Russia usi piccole testate nucleari in Ucraina. Michelangelo Freyrie su L'Inkiesta il 24 Marzo 2022.

Mosca ha un esteso arsenale di armi operativo-tattiche di potenza relativamente bassa e potenzialmente integrabile nelle regolari operazioni di guerra. Ma difficilmente Mosca correrà il rischio a meno di un allargamento del conflitto, come l’imposizione di una no-fly-zone o l’intervento di forze speciali occidentali.

Il governo russo ha molti difetti, per usare un eufemismo. La mancanza di chiarezza non è uno di questi. Soprattutto nel contesto della guerra attuale, molte ricercatrici e analisti hanno espresso dubbi su come interpretare alcune decisioni prese dall’Alto Comando russo, come ad esempio il lancio di missili ipersonici Kinshal nella campagna di bombardamenti in atto contro l’Ucraina.

Possibile che l’impiego di queste armi vada puramente interpretato come un altolà alla Nato?

L’interrogativo rimane, ma è innegabile che il Cremlino sia capace di segnalare in modo esplicito le proprie linee rosse e di minacciare l’avversario euro-atlantico quando lo ritiene veramente necessario.

Martedì sera è andata in onda l’intervista del portavoce presidenziale Dimitri Peskov con Christiane Amanpour di Cnn, la quale ha provato a incalzare l’intervistato sul potenziale utilizzo di armi nucleari da parte delle forze armate russe. Peskov ha dato una risposta poco ambigua: «Abbiamo una dottrina di sicurezza interna, che è di dominio pubblico, che espone tutti i motivi  per cui le armi nucleari possono essere utilizzate. Se qualcosa rappresenta una minaccia esistenziale per il nostro paese, allora può essere utilizzato secondo la nostra dottrina». Dato il rischio che Mosca vede emanare da un’Ucraina indipendente e il timore che Unione europea e Nato la possano armare con sistemi sempre più sofisticati, queste sono parole poco rassicuranti.

È già da qualche settimana che le discussioni sulla dottrina russa riguardo l’utilizzo di armi nucleari sono tornate al centro dell’interesse. Poche settimane fa Vladimir Putin aveva dato ordine di porre in allerta rafforzata il deterrente strategico della Federazione Russa, ricordando Nato e Unione Europea delle potenziali rappresaglie che incorrerebbero in caso di conflitto diretto.

In quell’ambito è stato anche ricordato che l’atomica gioca un ruolo ambivalente nella strategia di difesa russa. Il suo ruolo primario è ovviamente quello di deterrente contro minacce esistenziali contro lo Stato e di garantire una risposta devastante contro la tentazione avversaria di utilizzare le armi nucleari in un conflitto convenzionale.

Questo uso detto strategico è complementare ad altri strumenti non-nucleari che, almeno su carta, Mosca considera paragonabili per potenza e devastazione inflitta (ad esempio armi cyber contro infrastrutture critiche o bombardamenti mirati con missili convenzionali). Un unicum russo è però anche l’obiettivo che le forze nucleari potrebbero perseguire in un conflitto convenzionale come quello ucraino.

A differenza degli Stati Uniti, le forze armate russe hanno un esteso arsenale di armi «operativo-tattiche» di potenza relativamente bassa e potenzialmente integrabili nelle regolari operazioni di guerra. Nell’ultimo decennio Mosca ha condotto diverse esercitazioni per testare il passaggio da una guerra generale a un conflitto nucleare, concentrandosi ad esempio sull’utilizzo di missili a media gittata Iskander-M (la cui versione convenzionale è già utilizzata in Ucraina) armati con testate da 5 a 50 chilotoni.

Questi ordigni hanno una potenza paragonabile a quella della bomba di Hiroshima (15 chilotoni) e il loro utilizzo è considerato quindi più credibile rispetto all’immensa potenza distruttrice di armi strategiche da centinaia di megatoni.

Ovviamente, ciò non significa né che si tratta di armi innocue, né che il comando russo le utilizzerebbe a cuor leggero. Un ordigno da 5 chilotoni ha il potenziale di distruggere un quartiere di Kiev (o, in alternativa, metà del centro storico di Roma) e a seconda dell’altitudine di detonazione genererebbe un fallout che si estenderebbe per un centinaio di chilometri in direzione del vento. Data la scarsa preparazione delle forze russe è lecito dubitare che le truppe di terra siano equipaggiate per combattere in condizioni di pericolo radiologico.

Nella dottrina russa, l’impiego di armi nucleari non è impensabile quanto nel resto d’Europa proprio perché esistono parametri che ne permetterebbero l’utilizzo anche nel quadro di una guerra convenzionale. Negli anni ’90 e nei primi anni 2000, la strategia russa poneva una grande enfasi sull’opzione nucleare per far fronte alla debolezza militare causata dal crollo dell’Urss.

Nel corso dei decenni, con il rafforzamento delle capacità difensive russe, Mosca ne ha ridimensionato il ruolo, preferendo presentare le armi nucleari come uno strumento fra tanti nella cassetta degli attrezzi della Difesa russa. Il Cremlino è particolarmente preoccupato dalla prospettiva di un’escalation incontrollata di conflitti regionali, motivo per cui ha deciso di definire uno spettro di misure con le quali può alzare gradualmente la pressione contro i propri avversari e segnalare la propria determinazione anche con strumenti non-nucleari.

L’utilizzo di armi nucleari tattiche, in questo quadro, sarebbe il gradino finale con cui infliggere un costo incommensurabile al nemico e imporre la fine di un conflitto in termini favorevoli alla Russia. È evidente che Mosca non abbia ancora mobilitato molti degli strumenti non-nucleari per forzare una resa ucraina, come bombardamenti strategici ancora più massicci o intense campagne cyber.

Non sappiamo se ciò non sia avvenuto per mancanza di risorse, o perché si teme un fraintendimento occidentale (l’attacco alle infrastrutture digitali ucraine potrebbero colpire involontariamente anche servizi europei).

Questa la teoria. A livello pratico sono due le domande più urgenti: possibile che la catena di comando nucleare russa approverebbe un attacco nucleare per spingere Kiev alla resa? In fondo non sappiamo né se l’ordine di Putin basti per sferrare un tale colpo (le fonti sono discordanti), né se le forze armate eseguirebbero un tale mandato. In secondo luogo, contro chi sarebbe rivolto il segnale generato da un tale attacco, Kiev o la Nato? Questa è una domanda importante perché determina anche quali obiettivi dentro all’Ucraina verrebbero colpiti.

Un colpo dimostrativo in zone scarsamente popolate o nel Mar Nero limiterebbe le vittime, pur dimostrando la risolutezza russa. Rimane però altamente improbabile che la rottura del tabù nucleare non provocherebbe fortissime reazioni dalla comunità internazionale. Difficilmente la Russia correrà il rischio di un maggiore coinvolgimento globale, a meno che non vengano intrapresi passi che Mosca potrebbe interpretare come un allargamento del conflitto, come l’imposizione di una no-fly-zone o l’arrivo di forze speciali occidentali in Ucraina.

In questo scenario, un attacco nucleare con testate di bassa potenza contro l’Ucraina scommetterebbe su un’ondata di panico fra gli stati Nato e nuove pressioni affinché Kiev raggiunga una pace negoziata con Mosca. Se l’utilizzo di armi nucleari non è inconcepibile, poco sembra per ora suggerirne una prossima mobilitazione. Sicuramente esso non avverrà solo a causa del fallimento iniziale della campagna russa, e non ci sono motivi per pensare che le decine di migliaia di morti e la catastrofe umanitaria già in corso non siano sufficienti per forzare un negoziato.

Meno potenti ma più letali: ecco le “nuove” armi nucleari. Federico Giuliani su Inside Over il 23 marzo 2022.

Dimenticatevi il “fungo” atomico che ha polverizzato Hiroshima e Nagasaki nel 1945, Seconda Guerra Mondiale. Dimenticatevi anche quella potenza distruttiva perché, già ai tempi della Guerra Fredda, Stati Uniti e Unione Sovietica erano riuscite a creare qualcosa di molto più temibile. Nel 1952, Washington fece esplodere la prima bomba all’idrogeno del mondo, la cui forza superava di 700 volte l’atomica di Hiroshima. Con il passare degli anni, questa asticella è stata continuamente superata con esplosioni quando 1.000 volte più grandi (ancora Stati Uniti) quando, nel 1961 ad opera di Mosca, addirittura 3.000.

Il New York Times ha fatto presente che attualmente Usa e Russia sono teoricamente in possesso di armi nucleari molto meno distruttive, che la loro potenza è solo una frazione della forza delle bombe lanciate sul Giappone, e che un loro possibile utilizzo sarebbe meno spaventoso. Il problema principale è che il conflitto ucraino ha esacerbato gli animi e spinto il governo russo a tratteggiare uno scenario atomico. Le armi odierne saranno pure più “piccole” ma non certo meno pericolose.

Il rischio atomico

Il timore più grande di esperti, analisti e governi di mezzo mondo è uno: se messo alle strette, o se l’operazione militare di Mosca in Ucraina dovesse deragliare, Vladimir Putin potrebbe scegliere di far esplodere una delle sue armi nucleari “minori” , infrangendo così un tabù lungo 76 anni. “Le possibilità sono ancora basse, ma in aumento. La guerra non sta andando bene per i russi e la pressione dell’Occidente è in aumento”, ha spiegato al NYT Ulrich Kuhn, esperto nucleare presso l’Università di Amburgo.

Lo stesso Kuhn, nel 2018, ha realizzato uno studio (consultabile qui) nel quale si delineava uno scenario di crisi che avrebbe costretto la Russia a far esplodere una bomba su una parte remota del Mare del Nord come messaggio per segnalare ulteriori attacchi in arrivo. Adesso quella che sembrava soltanto fantascienza sta diventando una possibilità. In ogni caso, c’è anche chi sostiene che Putin stia usando la deterrenza nucleare semplicemente per farsi strada in Ucraina, così da impedire al blocco occidentale di intervenire come vorrebbe.

Le “nuove” armi nucleari

Abbiamo parlato di Hiroshima e Nagasaki. Ebbene, oggi le armi nucleari più gettonate sono più piccole ma più precise, e quindi anche più letali. Le stime parlano chiaro: queste armi sono meno distruttive se paragonate agli standard della Guerra Fredda (in certi casi, l’equivalente di mezza bomba di Hiroshima), ma comunque in grado di uccidere o ferire mezzo milione di persone se fatte esplodere, ad esempio, nel centro di Manhattan.

Ecco un’altro pericolo da non sottovalutare: la loro natura meno distruttiva è soltanto apparenza, e questo può alimentare l’illusione del controllo atomico. In realtà, l’utilizzo di simili armi, indipendentemente da dimensioni e potenza, può effettivamente portare verso una guerra nucleare. Si rimanda alla simulazione ideata dall’Università di Princeton: tutto potrebbe iniziare con un colpo nucleare di avvertimento sparato da Mosca, magari in un’area disabitata. La Nato risponderebbe con un altro piccolo attacco. La guerra che segue provocherebbe oltre 90 milioni di vittime solo nelle prime ore di conflitto.

Quel che è peggio, è che nessun trattato sul controllo degli armamenti regola le testate minori (note a volte come armi nucleari tattiche o non strategiche). Risultato: le potenze nucleari ne creano e schierano quante ne vogliono. Pare che la Russia ne abbia circa 2.000.

Articolo di "Le Monde" - dalla rassegna stampa estera di "Epr Comunicazione" il 14 marzo 2022.

L'invasione russa dell'Ucraina e gli attacchi alla centrale di Zaporizhzhia hanno fatto rivivere la paura dell'atomo, perché mai prima d'ora un conflitto ad alta intensità era scoppiato in un paese nucleare, osserva Jean-Michel Bezat, giornalista di "Le Monde". 

Così Vladimir Putin ha deciso di giocare con il fuoco nucleare - e le ansie che lo circondano. Il presidente russo ha messo in allerta la sua forza deterrente tre giorni dopo l'inizio dell'invasione dell'Ucraina, ma i suoi carri armati hanno anche sparato su edifici della centrale di Zaporizhzhia nella notte tra il 3 e il 4 marzo, senza colpire il nucleo atomico dell'impianto più potente d'Europa: un atto calcolato o un abbaglio?

A ciò si sono aggiunti un'interruzione del monitoraggio a distanza dei materiali nucleari nella centrale di Chernobyl occupata dai russi, che, come Zaporizhzhia, ha impedito all'Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica (AIEA) di accedere ai dati, e il bombardamento dell'Istituto di Fisica di Charkiv, che ospita un reattore di ricerca. 

Questi gravi incidenti hanno risvegliato la paura ancora assopita di rilasci radioattivi nell'atmosfera e stanno alimentando una guerra di nervi che rafforzerà, non senza motivo, gli oppositori dell'energia nucleare.

Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha drammatizzato la situazione dicendo che un'esplosione alla centrale "significherebbe la fine di tutto. La fine dell'Europa". "Quello che i russi stanno facendo è terrorismo nucleare", ha detto Petro Kotin, presidente del gestore della centrale elettrica statale Energoatom, in un'intervista a Le Monde. 

Dopo l'attacco a Zaporizhzhia, il direttore generale dell'AIEA, Rafael Grossi, ha considerato la situazione "senza precedenti" ed "estremamente preoccupante".

Vladimir Putin ha assicurato al presidente Emmanuel Macron di non avere "nessuna intenzione" di attaccare i siti nucleari, senza rassicurarlo veramente: la sua iniziativa militare ha rivelato il pericolo dell'energia nucleare in tempo di guerra. 

Da quando le prime centrali nucleari sono entrate in funzione negli anni '50, non c'è mai stato un conflitto ad alta intensità in un paese nucleare. L'Ucraina gestisce 15 reattori in quattro siti, che producono la metà della sua elettricità, così come centri di ricerca atomica e depositi di rifiuti radioattivi. Mosca vuole controllare tutte queste strutture, che sono altamente dipendenti dalla tecnologia e dal carburante russo.

Ricatto

Il bombardamento intenzionale di un reattore rimane lo scenario peggiore - ma anche il meno probabile. Gli esperti sono più preoccupati per una perdita di potenza che impedisce il raffreddamento del nucleo, per i dipendenti che fanno funzionare gli impianti in modo degradato sotto pressione, o per la difficoltà di trasportare i pezzi in caso di guasto. La sicurezza dell'ambiente dell'impianto è una condizione essenziale per il suo funzionamento sicuro.

Questo ricatto più o meno presunto del nucleare civile avrà delle ripercussioni per la Russia, la cui industria nucleare è finora sfuggita alle sanzioni europee, come il petrolio e il gas.

Il paese perderà parte del credito riconquistato dopo il disastro di Chernobyl (1986), simbolo del crollo dell'URSS e delle scelte tecnologiche sbagliate sulla sicurezza. Putin aveva riabilitato la sua immagine con due obiettivi: aumentare la quota di elettricità nucleare ed esportare le sue centrali oltre la cerchia degli ex "paesi fratelli" - un mezzo per estendere la sua influenza geo-economica.

La Russia deve questa rinascita a un uomo: Sergei Kirienko. Ora il numero due dell'amministrazione presidenziale, sarà in grado di ragionare con il presidente russo? Fino al 2016, ha diretto Rosatom, che è stato fondato nel 2007 sulle rovine del Ministero dell'Energia Atomica. 

Con i suoi 250.000 dipendenti e 300 aziende, presenti in tutti i settori dell'industria atomica, comprese le attività militari, il conglomerato si è affermato come il primo esportatore mondiale, davanti ai suoi concorrenti americani, giapponesi, francesi, coreani e cinesi.

"Rosatom sta conquistando una quota significativa del mercato partecipando attivamente a diciassette cantieri e venticinque progetti in tutto il mondo", sottolinea la società francese di energia nucleare. 

Le sanzioni potrebbero frenare le sue ambizioni internazionali, anche se il gruppo esporta reattori, combustibile e servizi a paesi strettamente legati a Mosca: Cina, India, Iran, Turchia, Egitto, Ungheria, Armenia, Bielorussia, Uzbekistan, Bangladesh, ecc. Un altro vantaggio è che fornisce il 36% dell'arricchimento di uranio e il 18% del combustibile per le centrali.

Dilapidare il prezioso capitale

Vladimir Putin rischia di sprecare un capitale prezioso per la sua economia e la sua influenza politica. Insieme all'industria della difesa, il nucleare civile è uno dei pochi settori in cui la Russia riesce a brillare nelle esportazioni. 

Mentre l'ungherese Viktor Orban ha confermato i contratti con Rosatom, la Finlandia ha annunciato una "valutazione del rischio" del suo ordine per un impianto russo il giorno prima dell'invasione dell'Ucraina.

La Polonia, gli Stati baltici e la Repubblica Ceca hanno a lungo rifiutato di fare affidamento sul loro potente vicino, mentre gli altri paesi dell'Europa orientale sono legati all'eredità industriale dell'era sovietica.

La domanda ora si pone: come si possono rendere sicuri questi siti ad alto rischio? Di fronte a questa situazione senza precedenti, le garanzie giuridiche sono fragili. La Convenzione di Ginevra sulla protezione dei civili in tempo di guerra prevede la salvaguardia dei siti per accordo dei belligeranti; tuttavia, essi devono essere disposti a farlo.

Nel 2017, il Consiglio di sicurezza dell'ONU ha adottato, per la prima volta, una risoluzione sulla protezione delle "infrastrutture critiche", comprese le centrali nucleari, ma in caso di attacco terroristico.

L'accusa di "terrorismo" da parte di Kiev non è eccessiva. Terrorizzare non ha mai spaventato il padrone del Cremlino, il cui esercito sta bombardando ospedali e scuole. Può altrettanto facilmente sfruttare la minaccia di contaminazione radioattiva per mandare la popolazione sulla strada dell'esodo. 

Il prossimo test sarà il suo atteggiamento nei confronti della centrale elettrica di Konstantinovka nel sud, che potrebbe essere a portata dei cannoni russi in pochi giorni. Il mondo è entrato in un'epoca in cui il nucleare civile è diventato un obiettivo e un'arma.

Francesco Malfetano per “il Messaggero” il 12 marzo 2022.

«Riparo al chiuso» con porte e finestre serrate e sistemi di ventilazione o condizionamento spenti. Ma anche «iodioprofilassi» e controllo della filiera produttiva di verdura e carni. Sono queste, in estrema sintesi, le regole cardine su cui si basa il nuovo Piano nazionale per la gestione delle emergenze radiologiche e nucleari.

Vale a dire il documento, appena aggiornato dal governo (domani verrà vagliato dalla Conferenza Unificata delle Regioni) e dalla Protezione civile, che «individua e disciplina le misure necessarie a fronteggiare le conseguenze di incidenti in impianti nucleari di potenza ubicati oltre frontiera, ossia impianti prossimi al confine nazionale, in Europa e in paesi extraeuropei». In tutta evidenza la guerra in Ucraina e le ultime notizie degli attacchi russi agli impianti del Paese, da Chernobyl a Zaporizhzhia, preoccupano Palazzo Chigi. Senza eccessivi allarmismi però.

Il piano infatti è previsto da un decreto legislativo del 2020, e stando alle normative Ue è obbligatorio per ogni Paese da diversi anni oltre, appunto, a dover essere aggiornato regolarmente. Peraltro, le centrali ucraine si trovano tutte ben oltre la prima soglia di sicurezza di 200 km di distanza. Stando alla bozza indirizzata alle Regioni il piano si sviluppa in 3 fasi, diversificate in base all'evoluzione dello scenario incidentale considerato, e appunto è tarato su vari tipi di incidente con differenze tra un impianto posto entro 200 km dai confini nazionali e uno oltre quella distanza (oppure per un incidente in territorio extraeuropeo).

In tutti questi casi, con diverse intensità, la risposta è la medesima e si compone di tre atti. La prima fase inizia con il verificarsi dell'evento, e si conclude quando il rilascio di sostanze radioattive può considerarsi terminato. Si caratterizza dal passaggio sul territorio di una nube radioattiva: in questo caso sono necessarie azioni tempestive di contrasto. 

La seconda, successiva al passaggio della nube, è invece caratterizzata dalla deposizione al suolo delle sostanze radioattive e dal loro passaggio alle matrici ambientali e alimentari. Infine, la terza fase è detta di transizione e prevede - dopo l'aver individuato e fermato l'origine della contaminazione - che siano avviate le azioni di rimedio e di bonifica dei territori contaminati, e la gestione dei materiali contaminati durante l'emergenza.

In queste tre fasi verranno applicate delle misure di tutela della salute pubblica che il piano distingue protettive dirette - come il «riparo al chiuso», il divieto di utilizzare impianti di ventilazione e la iodioprofilassi - attuate nelle prime ore dal verificarsi dell'evento, e misure protettive indirette, attuate durante la seconda fase. 

Queste ultime sono a più ampio raggio e comprendono limitazioni alla produzione, commercializzazione e consumo di alimenti di origine vegetale e animale («blocco cautelativo del consumo di alimenti prodotti localmente»), misure a protezione del patrimonio agricolo e zootecnico, blocco della circolazione stradale e monitoraggio della radioattivita nell'ambientale e delle derrate alimentari. 

Infine, il piano fornisce indicazioni per la iodioprofilassi, cioè «una efficace misura di intervento per la protezione della tiroide, inibendo o riducendo l'assorbimento di iodio radioattivo, nei gruppi sensibili della popolazione». 

Secondo il Piano, «il periodo ottimale di somministrazione di iodio stabile è meno di 24 ore prima e fino a due ore dopo l'inizio previsto dell'esposizione. Risulta ancora ragionevole somministrare lo iodio stabile fino a otto ore dopo l'inizio stimato dell'esposizione. Da evidenziare che somministrare lo iodio stabile dopo le 24 ore successive all'esposizione può causare più danni che benefici (prolungando l'emivita biologica dello iodio radioattivo che si è già accumulato nella tiroide).

Mirko Molteni per “Libero quotidiano” il 10 marzo 2022.  

A causa delle tensioni fra Russia e Nato, le paure di guerra atomica tornano a turbare i sonni degli occidentali e negli ultimi giorni si assiste a un aumento di ordinazioni di rifugi antiatomici privati ad aziende specializzate, come l'italiana Minus Energie di Mantova, le americane Rising S del Texas e US Buildings Group e la britannica Subterranean Spaces.

Tutte concordi nell'affermare che, nella maggioranza dei casi, chi ordina un bunker per proteggere la propria famiglia è proprietario di una casa indipendente e lo fa installare o sotto le cantine oppure in giardino. Un bunker privato per una famiglia media, da tre a sei persone, dovrebbe avere una superficie interna compresa almeno fra 25 e 30 metri quadrati e verrebbe collocato a una profondità da 1 metro e mezzo a 3 metri, contando ovviamente dalla superficie al margine superiore del blocco abitativo.

Considerato che il costo si aggira sui 2500-3000 euro al metro quadro, il prezzo potrebbe oscillare fra un minimo di 62.500 e un massimo di 90.000 euro, ma chiaramente varia anche in funzione degli allestimenti interni e della grandezza poiché se la superficie aumentasse a 100 mq si andrebbe su cifre di 300.000 euro.

Prezzi grossomodo in linea con quelli statunitensi, valutati fra 70.000 e 240.000 dollari. Requisiti fondamentali, che le aziende soddisfano prendendo a modello la normativa svizzera che fin dal 1963 obbliga le case residenziali ad avere un proprio bunker, sono pareti in cemento armato dello spessore fra 30 e 80 cm, una porta blindata e tagliafuoco spessa 20-30 cm e un'altra porta studiata per assicurare il ricambio d'aria con un sistema di filtraggio NBC, cioè in grado di captare aria dall'esterno depurandola e filtrandola da ogni possibile contaminante di tipo nucleare, vale a dire polveri radioattive, biologico e chimico.

Il tutto dev' essere corredato di un arredamento spartano e funzionale come brandine o letti a castello per dormire, un tavolo con sedie e una cucina elettrica per cucinare. La corrente elettrica va attinta sia da un collegamento con la rete, finchè disponibile, sia da un sistema autonomo basato su un gruppo elettrogeno, generalmente funzionante a benzina o gasolio. Chiaramente va tenuto in conto che il bunker deve prevedere anche lo spazio per una scorta di carburante e per una cisterna d'acqua da qualche migliaio di litri, il che, per esempio, si traduce in un ingombro di 3-4 metri cubi se ci si vogliono riservare almeno 3000-4000 litri d'acqua.

Parte dello spazio va poi assegnata a scorte consistenti di cibo in scatola, le uniche abbastanza durevoli da poter essere tenute sempre pronte all'occorrenza. Il tempo di permanenza necessario a sopravvivere in rifugio a un attacco nucleare dipende da molti fattori, soprattutto la distanza dall'epicentro dell'esplosione e la direzione del vento nel giorno dell'attacco. In un'area sopravento rispetto all'esplosione atomica la ricaduta di polveri radioattive, il cosiddetto fallout, potrebbe essere scarsa, mentre nelle zone sottovento è massima. 

Molti elementi radioattivi decadono in 48 ore, altri dopo mesi, ma in genere, se non si è troppo vicini alla zona bombardata, potrebbe essere sufficiente restare nel rifugio per alcuni mesi. I tempi di costruzione per un bunker privato sono di circa due mesi, al netto della burocrazia italiana per i vari permessi. Le caratteristiche dei rifugi "popolari" sono portate all'estremo nei grandi bunker governativi e militari.

 Il più noto rifugio antiatomico al mondo è forse l'enorme complesso statunitense del quartier generale sotterraneo del NORAD, il centro operativo per la Difesa Aerospaziale del Nordamerica, incavernato all'interno di un monte, la Cheyenne Mountain del Colorado. È costituito da ben 15 complessi in cemento armato di tre piani, vere palazzine collegate fra loro da 12 tunnel principali, che coprono una superficie complessiva di 2 ettari e sono stati costruiti in enormi spazi scavati nel granito a una profondità di oltre 600 metri.

Le "palazzine" sotterranee del NORAD poggiano su martinetti antisismici per ammortizzare le possenti onde d'urto di un'esplosione termonucleare della potenza di 30 megatoni (3000 volte Hiroshima). Gli accessi al megabunker avvengono tramite due ampie porte corazzate principali, chiuse da portelli pesanti 25 ton. ciascuno, in grado di resistere alla vampata di calore e alla forza meccanica di un ordigno diretto. 

Tutte le apparecchiature elettroniche sono schermate da impulsi elettromagnetici esterni e le scorte di combustibile per i gruppi elettrogeni, cibo e acqua (20 milioni di litri) sarebbero sufficienti a sostenere 400 persone per un mese in totale autonomia. In Italia, fin dall'epoca del fascismo era stato realizzato un grande rifugio antiaereo nelle viscere del Monte Soratte, a 44 km da Roma, costruito fra il 1939 e il 1943 su una superficie totale di 25.000 mq. 

Mussolini non vi si rifugiò mai e venne occupato solo per alcuni mesi dai tedeschi fra '43 e '44. Riutilizzato nel dopoguerra come polveriera, fu trasformato in bunker antiatomico con lavori durati dal 1967 al 1972, per fornire rifugio alle più alte cariche dello Stato italiano. È un'opera sviluppata lungo un tunnel lungo 1300 metri strutturato internamente su tre piani, e dalla profondità variabile fra 250 e 315 metri al di sotto del manto roccioso della montagna. 

Fu utilizzato dalle forze armate fino al 2008, dopodichè è di fatto diventato una sorta di museo. Poco si sa invece dei bunker antiatomici della Russia, soprattutto di quello costruito sotto il monte Yamantau, negli Urali, i cui lavori risultavano già iniziati nel 1996 e figurarono in corso almeno fino al 2003, quando Putin era al potere ormai da tre anni. Voci non confermate di fonte Usa parlano di una capienza enorme, fino a 60.000 persone.

Ucraina, dove si trovano le centrali nucleari e quali sono i rischi con la guerra. Riccardo Amato il 04/03/2022 su Notizie.it.

In Ucraina sono attualmente presenti 4 centrali nucleari, per un totale di 15 reattori che forniscono energia per circa metà del Paese. 

In Ucraina sono attualmente presenti 4 centrali nucleari, per un totale di 15 reattori che forniscono energia per circa metà del Paese.

Quali sono le centrali nucleari ucraine e dove si trovano

Nonostante sia stata lo scenario del disastro di Chernobyl, l’Ucraina tutt’oggi punta ancora molto sul nucleare.

A livello nazionale, sono presenti ben 4 centrali, per un complessivo di 15 reattori, che forniscono energia per soddisfare il fabbisogno di cerca metà Paese.

Delle quattro centrali attive, due si trovano nel sud del Paese: Zaporizhzhia, con 6 reattori – che è anche la più grande in Europa -, e la centrale nucleare Ucraina del sud, con 3 reattori. Le altre due, invece, sono situazte nella zona a Nord-Ovest: Rivne, con 4 reattori, e Khmelnitsky, con due reattori.

I rischi che potrebbero essere causati dalla guerra con la Russia

Da ormai più di una settimana imperversa un crudele attacco da parte della Russia di Putin nei confronti dell’Ucraina. Proprio nella notte tra giovedì e venerdì 4 marzo, un attacco di Mosca è stato diretto contro la centrale di Zaporizhzhia, come testimoniato da diversi filmati che la ritraggono in fiamme.

Fortunatamente la zona è stata messa in sicurezza e i presenti sono stati evacuati. Si tratta di un assalto scellerato, anche se ad oggi i valori delle radiazioni sembrano stabili, ma ulteriori attacchi potrebbero portare a catastrofi che ricorderebbero quella di Chernobyl.

Da open.online il 4 marzo 2022.

Nella notte tra giovedì e venerdì la Russia ha bombardato la zona di Enerhodar dove sorge la centrale nucleare di Zaporizhzhia. Nello stabilimento è scoppiato un incendio. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, dopo un colloquio con Zelensky, ha lanciato l’allarme. Il premier britannico Johnson ha detto che Putin minaccia tutta l’Europa. L’Aiea ha fatto sapere che le radiazioni della zona sono sotto controllo. Intanto dalla città ucraina meridionale di Kherson, sul Mar Nero, che i bollettini russi davano per conquistata due giorni fa, arrivano ancora notizie di combattimenti, con le truppe di Mosca che sono riuscite solo ora a occupare la sede del municipio. L’incendio a Zaporizhzhia è stato spento ma la centrale è ora sotto il controllo della Russia. 

L’intervento di Zelensky dopo le voci sulla fuga

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky è intervenuto nel tardo pomeriggio italiano per elogiare i combattenti ucraini impegnati nella resistenza armata contro la Russia. L’intervento arriva anche per smentire le voci su una sua fuga. «Faccio appello agli Stati europei – ha detto -. Scendete in strada e sostenete la nostra battaglia».

Blinken e von der Leyen: «Insieme contro Putin»

«Siamo risoluti, determinati, uniti». La presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen ha parlato in una conferenza stampa congiunta con il segretario di Stato Usa Antony Blinken. In mattinata c’è stato l’incontro a Bruxelles. «Noi sappiamo che il conflitto è tutt’altro che finito e restiamo pronti a adottare ulteriori sanzioni se Putin non si fermerà e tornerà indietro dall’invasione. Putin è via via più isolato nella comunità internazionale, ma nonostante le proteste del mondo l’esercito russo va avanti». 

Zelensky ringrazia Erdogan

Il presidente Zelensky ha comunicato via Twitter di aver avuto un colloquio telefonico con il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdogan. Lo ha ringraziato per il «consistente supporto». Zelensky ha anche ringraziato il principe di Abu Dhabi Mohammed Bin Zayed, con il quale ha discusso sulla cooperazione contro la Russia. 

Putin a Scholz: «Kiev sia ragionevole nei prossimi colloqui»

Nella telefonata con il cancelliere tedesco Olaf Scholz avvenuta oggi, il presidente russo Vladimir Putin ha detto di sperare che «Kiev abbia una posizione ragionevole durante il prossimo round di colloqui», che si terranno nel weekend. A darne notizia è lo stesso Cremlino, citato dalla Tass. Scholz, secondo quanto diffuso in un comunicato tedesco, avrebbe invece chiesto a Putin di sospendere le ostilità in Ucraina e consentire gli aiuti. Scholz ha anche detto di «essere molto preoccupato», perché da giorni ci sono «immagini e notizie terribili dall’Ucraina».

Centrale nucleare di Zaporizhzhia, le truppe di Mosca ora controllano l’energia di metà Paese. Andrea Nicastro su Il Corriere della Sera il 5 Marzo 2022.

I russi conquistano la centrale nucleare di Zaporizhzhia. Per fortuna nessun reattore è stato colpito. Il direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica: «Sono profondamente preoccupato». 

Nel centro dell’Ucraina, Zaporizhzhia , non è sotto bombardamento, i tank russi sono ad almeno 30 chilometri, perché allora la sirena dell’allarme riprende forte alle 3 del mattino? L’altoparlante dell’hotel dice qualcosa in russo, apro la finestra, setaccio nel buio in cerca di rumori di jet o lampi di esplosioni, mi rivolgo alla tv, ai social. La centrale nucleare è stata colpita. Possibile? La smania di vittoria di un uomo può arrivare ad avvelenare tutto il mondo?

Bacino idrico

Da Zaporizhzhia, anche fosse giorno, non si vedrebbero i sei reattori della centrale. Sono al di là di un grande bacino idrico formato con l’acqua del fiume Dnepr. Trattenere il flusso alimenta turbine idroelettriche e la stessa acqua poi raffredda i reattori atomici. In linea d’aria trenta chilometri. In caso di contaminazione nucleare, non sono nulla. L’hotel è pieno di profughi. Gente già in fuga dalle proprie case sul Mar Nero dove i marines di Putin sono arrivati, oppure da Kharkiv ad est, spezzata dalle bombe. Sento andare e venire da una stanza all’altra. Yodu, yodu, ripetono, tabletka yodu, pastiglia di iodio.

È utile in caso di emissione radioattiva. Lo iodio assorbe le radiazioni al posto delle tue cellule, almeno dovrebbe. La sirena continua a strillare, le famiglie raccolgono le poche cose, le loro facce smarrite, questa volta in fuga dall’incubo della Bomba. Esseri minuscoli davanti a un male incommensurabile.

Arrivano le prime immagini . Sono registrazioni dalle telecamere fisse di sicurezza dell’impianto atomico. Si vedono traccianti nel buio contro una palazzina e poi quelle sfere di fuoco che cadono lente, una due, tre volte e, dietro, la sagoma dei reattori. «Si è sviluppato un incendio in una palazzina amministrativa», dice la pagina Facebook della Centrale, anzi no, «un edificio usato per l’addestramento dei tecnici». «I pompieri ucraini l’hanno domato e il complesso nucleare è ora in mano russa».

L’agenzia atomica

Mosca conferma. Il direttore dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, Rafael Mariano Grossi, si dice «profondamente preoccupato», di certo non più di chi ha la centrale accanto, ma assicura che «le attrezzature essenziali al funzionamento dell’impianto non sono state coinvolte nello scontro». Lo stesso dice anche l’agenzia atomica ucraina che aggiunge di non aver registrato aumenti della radioattività. Washington mette il sigillo a distanza: niente fuga tossica. Per ora.

In sostanza i soldati di Putin hanno sparato razzi incendiari e illuminanti, al fosforo, contro una palazzina non collegata agli impianti di raffreddamento o peggio al nocciolo di uranio.

L’hanno fatto per prenderne il controllo, per punire chi non voleva cedere le chiavi di casa, per umiliare quel muro umano che il giorno precedente si era frapposto tra i carri armati e l’impianto atomico, qualunque ragione avessero i russi è inaccettabile. Non si fuma mentre si fa benzina, non si cuociono le salamelle in un fienile e non si spara in una centrale nucleare.

Le regole minime

Sarà basico, ma anche queste regole minime sono saltate. «Crimine di guerra», dirà l’ambasciata americana ritirata a Leopoli.

L’armata con la fascia bianca al braccio, l’armata di Putin, non accetta altro che la vittoria. Non ci sono «danni collaterali» eccessivi. Neppure il tabù dell’olocausto nucleare, così vivo nella carne di queste terre dopo Chernobyl, ha fermato i razzi a fianco dei sei reattori. La centrale di Zaporizhzhia è la più grande d’Europa, è in grado di produrre elettricità per dieci milioni di abitanti, un quarto di quel che serve al Paese. Se Putin ha accettato il piano dei suoi generali di affamare i civili nelle città, di togliergli acqua, riscaldamento e telefoni, perché non può anche decidere di spegnere la corrente elettrica a un quarto di Ucraina? Adesso con i russi nella sala controllo dall’impianto di Zaporizhzhia basta schiacciare un bottone ed è il blackout. Quando avrà tutte le centrali, poi, anche la griglia europea, per quanto interconnessa all’Ucraina, potrebbe in qualche modo risentirne.

Il presidente ucraino Zelensky appare in tv già alle 8. «Sveglia Europa. Hai capito chi hai di fronte?». A seguire il dibattito interno pare che la «no fly zone» sul suo Paese sia ad un passo. Jet Nato contro jet russi. Per chi è pronto a combattere con le molotov contro i carri armati sarebbe un sollievo, ma Putin è stato chiaro sulla reazione che ha in mente se qualcuno interferirà.

La gente in fuga

Zaporizhzhia già sentiva arrivare il nemico. I maschi mobilitati a scavare, riempire sacchetti, tagliare alberi, sfigurare la propria città per farne una trincea. Le donne a scavare, riempire sacchetti e mantenere viva l’umanità. Nel giorno nove della guerra, l’incubo della fine del mondo ha dato il via alla fuga dei non combattenti. Chilometri di coda in uscita dalla città verso nord, verso Dnipro, su un’autostrada dove ogni cavalcavia è trasformato in un Fort Apache pur di rallentare i russi. Tra le linee ucraine c’è tantissima volontà, tantissimo popolo che fatica, pronto a mettere un bastoncino nei cingoli degli occupanti.

C’era una volta il mito dei due popoli fratelli. Ora uno dei due ha visto nell’altro la faccia di Caino. Se Putin voleva riguadagnare l’Ucraina, con la sua follia violenta, l’ha persa per sempre.

Nello scontro "usate solo armi di piccolo calibro". Attacco alla centrale nucleare, Usa ‘difendono’ Putin: “Non ci sono prove, usate armi leggere a Zaporizhzhia”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 4 Marzo 2022. 

Gli Stati Uniti non hanno visto prove che sia stata la Russia ad attaccare la centrale nucleare di Zaporizhzhia in Ucraina nella notte tra giovedì e venerdì. Lo precisa la sottosegretaria all’Energia con delega all’energia nucleare Jill Hruby intervistata dall’emittente televisiva MSNBC. Nello scontro tra forze russe e ucraine attorno alla centrale sembra – riporta l’agenzia Reuters – pare siano state usate solo armi di piccolo calibro. Hruby ha affermato che l’amministrazione Biden è ben preparata ad affrontare “qualsiasi scenario che implichi radiazioni rilasciate” dalla centrale ucraina.

La precisazione arriva dopo la difesa di Mosca attraverso le parole dell’ambasciatore russo all’Onu Vazily Nebenzya. Secondo quest’ultimo, intervenuto alla riunione d’emergenza delle Nazioni Unite, l’attacco all’impianto nucleare di Zaporizhzhia sarebbe stato opera di “gruppi di sabotaggio ucraini con la partecipazione di mercenari stranieri“. Il diplomatico del Cremlino ha denunciato “un’altra serie di bugie“, e puntato il dito sul ruolo del “terrorismo interno” e del “nazionalismo ucraino” che starebbe usando i civili come scudi umani per far ricadere la colpa sui soldati russi.

Il Pentagono ha spiegato che non c’è stata “nessuna fuoriuscita di materiale radioattivo” dalla centrale nucleare di Zaporizhzhia, attaccata nella notte dalle forze russe. Il portavoce del Dipartimento di Difesa Usa, John Kirby, ha chiarito che al momento non si può dire in “quale stato operativo” si trova ora la centrale elettrica o se i russi hanno il controllo della stessa, definendo poi l’attacco “estremamente pericoloso. Avrebbe potuto causare molti più danni e distruzioni al popolo ucraino e forse anche ai paesi vicini, se fosse andata diversamente”.

L’attacco alla centrale di Zaporizhzhia ha provocato un incendio e ha scatenato l’allarme per una possibile catastrofe mondiale. Il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy ha affermato che si è rischiata la “fine dell’Europa” ma la Russia ha respinto le accuse di aver deliberatamente attaccato la centrale e ha sostenuto invece che si è trattato di una risposta a una provocazione messa in atto da sabotatori ucraini nella zona circostante la centrale.

Il bilancio, provvisorio, è di di tre soldati ucraini  uccisi e due feriti. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia atomica non c’è stata una fuoriuscita di radiazioni e nessun reattore della centrale nucleare è “stato colpito” o è rimasto compromesso.

Zelensky aveva parlato di “ore di bombardamenti” e “terrore nucleare” nell’assalto degli invasori alla più grande d’Europa, sulle rive del fiume Dnipro, che – secondo Kiev – sarebbe finita in mano russa con gli operai che lavorano ora “sotto la minaccia delle armi”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Elisa Calessi per “Libero quotidiano” il 5 marzo 2022.

Sul frontespizio l'intestazione recita: «Piano nazionale delle misure protettive contro le emergenze radiologiche». Si tratta di un documento di 172 pagine, comprese 19 tabelle e 9 allegati, redatto da un gruppo di lavoro istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e sotto il coordinamento della Protezione civile. L'obiettivo, si legge, è di stabilire «le misure necessarie per fronteggiare le conseguenze degli incidenti che avvengano in impianti nucleari di potenza ubicati al di fuori del territorio nazionale». 

In pratica spiega cosa bisogna fare in casi come quello che si è sfiorato l'altra notte, quando la centrale nucleare ucraina di Zaporizhzhya è andata in fiamme, rischiando la fuoriuscita di radiazioni nucleari. Anche perché, come si è visto con il Covid, quando accade una emergenza bisogna essere già pronti, sapere precisamente cosa occorre fare, chi deve farlo e avere tutti gli strumenti e dispositivi di protezione per affrontarla. L'idea di prevedere un piano di emergenza nacque nel 1986, subito dopo l'incidente di Chernobyl. 

Ci vollero quasi dieci anni per scriverlo, anche perché il referendum che abolì il nucleare in Italia impose una riscrittura. Nel 1996 ci fu la prima stesura. Si prevedono vari scenari, i protocolli da seguire, come devono muoversi le varie istituzioni (Stato, Regioni, Comuni, Protezione civile, Ispra, Iaea, Prefetture), il coordinamento che deve attivarsi, lo scambio di informazioni tra autorità e con la popolazione. Nel 2010 ci fu un'ulteriore revisione. L'ultima. Da allora non risulta sia stato più toccato. 

Vediamo cosa dice. Dopo aver analizzato le «sorgenti di rischio», indicato la «pianificazione e la strategia operativa», è al capitolo 3 che si entra nel dettaglio, con un paragrafo sulle «misure di tutela della salute pubblica». Prima di tutto si distingue tra due tipi di esposizione alle radiazioni: «in modo diretto in seguito a fall-out radioattivo» oppure «indiretto, tramite inalazione o ingestione di alimenti e bevande contaminati». 

Si indicano, poi, due tipi di interventi da adottare. Il primo, da realizzare «nelle prime ore», prevede due misure: dare «indicazione di riparo al chiuso» e mettere in atto «interventi di profilassi». In sostanza, si prevede che, in caso di incidente, si dovrà per prima cosa chiedere alle persone di chiudersi in casa, «con porte e finestre chiuse» e «con sistemi di ventilazione spenti». In un secondo momento si prevede «la distribuzione di iodio stabile nelle aree interessate». Lo iodio, infatti, serve per mitigare i possibili effetti delle radiazioni.  

Nelle pagine successive si indicano anche le quantità da somministrare in base alle età delle persone. La distribuzione di «ioduro di potassio», si legge, «viene assicurata dal Servizio Sanitario Regionale, secondo una pianificazione concordata tra la Regione interessata, il Dipartimento della Protezione Civile e il Ministero della Salute». Memori della mancanze di mascherine, guanti e ventilatori, nei giorni in cui scoppiò l'emergenza Covid, viene naturale chiedersi se il ministero della Salute ha previsto scorte di iodio sufficienti per tutti gli italiani e previsto un piano di distribuzione. 

Passata la prima emergenza, in una seconda fase si raccomanda di «evitare l'assunzione di acqua e alimenti contaminati» e «degli animali destinati alla produzione di alimenti». Per questo si stabilisce l'«inibizione del pascolo e/o confinamento degli animali in ambienti chiusi», «l'alimentazione degli animali con cibo ed acqua non contaminati», il «rinvio della macellazione degli animali contaminati», «il congelamento del latte e di organi contaminati» e «restrizioni alla produzione, commercializzazione e consumo di alimenti di origine animale e/o vegetale».  

Le persone che rischiano di essere interessate all'emergenza devono, poi, essere «informate e regolarmente aggiornate sulle misure di protezione sanitaria» da adottare. Chi, poi, è direttamente interessato dalle radiazioni deve essere informato «sui fatti relativi all'emergenza, sul comportamento da adottare e sui provvedimenti di protezione sanitaria». Per evitare che si diffondano notizie false, si suggerisce la designazione di «un responsabile unico nazionale per la diffusione dell'informazione». 

Infine si distinguono due fasi: quella di «preallarme» e quella di «allarme». Nella prima si deve informare la popolazione sul «tipo e l'origine dell'evento, le principali caratteristiche delle sostanze radioattive emesse, i tempi e le modalità con le quali sono diffusi». Nella seconda, quando siamo già in allarme, le persone vanno informate sul «tipo di situazione di emergenza radiologica in atto», sulla «prevedibile evoluzione dell'evento», sulle «principali caratteristiche delle sostanze radioattive emesse», sulla «zona interessata» e sulle «Autorità a cui rivolgersi» per informarsi.  

Non si esclude, poi, che debbano essere adottate misure per contenere i movimenti. Se ne elencano alcune: oltre a limiti nella «circolazione delle persone all'aperto», si parla di «occupazione razionale delle abitazioni (per esempio chiusura di porte e finestre, spegnimento degli impianti di aria condizionata e dei sistemi di presa d'aria esterna, spostamento in ambienti seminterrati o interrati)». 

E poi «eventuali restrizioni relative al consumo degli alimenti e dell'acqua, norme di igiene personale, distribuzione delle compresse di iodio stabile». Naturalmente ci si augura che il piano non debba mai essere attuato. Ma nel caso, invece, tornasse attuale, si spera che funzioni, che tutti i soggetti coinvolti sappiano esattamente cosa fare e abbiano i mezzi e gli strumenti per farlo.

Dal “Corriere della Sera” l'8 marzo 2022.

La Federazione degli ordini dei farmacisti italiani (Fofi) precisa che non vi è alcun allarme che giustifichi la richiesta in farmacia di compresse di iodio, da assumere per prevenire o per arginare eventuali danni provocati da emissioni radioattive.

«Da parte delle autorità competenti - dice Andrea Mandelli, presidente Fofi - non vi è alcuna indicazione all'approvvigionamento di iodio per un'eventuale minaccia nucleare, la richiesta di medicinali con questa sostanza è ingiustificata».

Non solo. «L'uso scorretto di questi prodotti è da sconsigliare - spiega ancora - sia a scopo preventivo, per il quale non vi sono evidenze di efficacia, sia per finalità terapeutiche. L'assunzione di farmaci a base di iodio deve avvenire solo su indicazione e sotto la supervisione del personale sanitario». 

«Bisogna evitare questo "fai da te" inutile, è opportuno che il ministero della Salute intervenga per evitare questa psicosi», ha detto l'assessore alla Sanità della Regione Lazio Alessio D'Amato. 

In Belgio la paura per gli attacchi in Ucraina ha scatenato la corsa alle farmacie. Iodio contro radiazioni, cosa sono le pillole prese d’assalto in farmacia: servono in caso di attacco nucleare? Elena Del Mastro su Il Riformista il 4 Marzo 2022.

La pandemia ci ha abituati alla corsa alle farmacie: prima era il gel disinfettante per le mani, poi le mascherine, zitromax e infine i tamponi. Ma a partire dal Belgio arriva una nuova corsa alle farmacie: quella alle pillole allo iodio. Perché? La situazione Ucraina e il timore per l’utilizzo di armi nucleari e il recente attacco russo alla centrale nucleare di Zaporizhzhia hanno portato le persone a cercare le pillole allo iodio “anti-radiazioni”. Una corsa al farmaco che potrebbe diffondersi anche in altri paesi europei. Ma queste pillole sono davvero utili per questo scopo?

“L’attuale situazione in Ucraina non richiede l’uso compresse di iodio”, ha twittato l’Agenzia federale belga per il controllo nucleare, ricordando che le compresse di iodio non vanno assunte preventivamente o di propria iniziativa, ma solo su indicazione delle autorità.

Quando ci fu l’incidente di Chernobyl ci fu una grossa emissione di iodio-131, che è radioattivo. Le pillole sono composte da iodio non radioattivo che può servire da deterrente. Secondo quanto spiegato da Repubblica, se l’isotopo radioattivo viene inalato, può accumularsi nella tiroide e favorire lo sviluppo di cancro. Perciò, l’assunzione delle compresse di ioduro di potassio può impedire l’accumulo di iodio radioattivo nella tiroide saturandola con iodio non radioattivo. Tecnicamente, la pillola serve se lo iodio radioattivo viene rilasciato nell’aria, a saturare la ghiandola tiroidea, prevenendo così l’assorbimento di iodio radioattivo e il conseguente rischio di cancro alla tiroide.

“Non esiste un’indicazione ad assumere integratori o pillole che contengano iodio se non in circostanze particolari, per esempio in previsione di alcuni interventi chirurgici sulla tiroide oppure in gravidanza o in chi segue una dieta particolarmente restrittiva”, chiarisce Marcello Bagnasco, presidente dell’Associazione Italiana della Tiroide (Ait) e specialista in endocrinologia, medicina nucleare e immunologia clinica, intervistato da Repubblica. “A parte queste situazioni specifiche, non c’è nessuna indicazione ed è più che sufficiente per mantenere un buon livello di iodio l’uso del sale iodato in cucina. Ancora più inutile la supplementazione di iodio nelle in persone a cui è stata tolta la tiroide”.

Dunque in Belgio è già iniziata la corsa allo iodio e i rivenditori online hanno già lanciato offerte sugli integratori allo iodio. “Nel nostro Paese – ha detto Bagnasco – questi preparati vengono venduti in forma di integratori e non sono soggetti a prescrizione medica, quindi ognuno può comprarlo in farmacia a spese proprie, ma è fondamentale evitare acquisti incontrollati anche perché è assurdo pensare di attuare una profilassi preventiva su scala mondiale”.

E il medico avverte sull’importanza di non assumere farmaci e integratori in autonomia perché presi dalla paura. “Se si assumono in autonomia e senza il consiglio del medico compresse di iodio si potrebbe verificare un eccesso di questo elemento che può provocare effetti collaterali come, per esempio, un aumento di incidenza delle patologie autoimmuni. In particolare, nei soggetti con ipotiroidismo potrebbero esserci conseguenze indesiderate più sensibili. Va evitato l’uso incontrollato sulla base del principio che ‘non si sa mai’. Sono forme di psicosi che possono fare danni”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 18 marzo 2022.

Nelle farmacie italiane, dopo l'attacco alla centrale nucleare di Zaporizhzhia e l'escalation dell'offensiva russa in Ucraina, è aumentata a dismisura la richiesta di pastiglie a base di iodio, la cui somministrazione fa parte della strategia sanitaria internazionale per ridurre gli effetti negativi sulla salute per le persone esposte a radiazioni. 

 La comunità scientifica però invita alla prudenza, primo perché la profilassi contro eventuali danni da radiazione in questo momento in Italia non è assolutamente necessaria, e poi perché l'uso indiscriminato di questa sostanza, senza una indicazione medica e patologica precisa, può avere conseguenze anche gravi sulla salute. 

Lo Iodio, o ioduro di potassio (KI), è un micronutriente essenziale, cioè indispensabile, che viene introdotto nel nostro organismo regolarmente con la dieta e che si concentra esclusivamente nella tiroide per permettere il normale funzionamento di reazioni chimiche vitali, come la sintesi proteica, enzimatica e metabolica, oltre al coordinamento ormonale generale e al normale sviluppo dello scheletro e del sistema nervoso centrale nel feto e nella prima infanzia.

 La carenza di iodio ha infatti effetti nocivi su crescita e sviluppo, è la principale causa di ritardo mentale nel mondo (cretinismo), e i disturbi che derivano da una insufficiente produzione di ormoni tiroidei possono causare danni irreversibili, come la comparsa del gozzo nonché ridotte capacità mentali e fisiche. L'eccesso di iodio invece può portare all'ipertiroidismo, con inibizione della sintesi ormonale e tutto il corteo di sintomi anche gravi che ne derivano.

Nei pazienti sani, con una eccessiva assunzione di iodio, si mettono in moto meccanismi di eliminazione degli eccessi, ma le assunzioni prolungate aumentano il rischio di reazioni avverse, poiché interferiscono con altre funzioni e farmaci. In assenza di radioattività quindi è assolutamente inopportuno e sconsigliato assumere compresse di iodio a scopo preventivo perché si può andare incontro a rischi seri per la salute, incluso il blocco funzionale della tiroide, soprattutto sottovalutando fattori importanti come l'età, le malattie concomitanti, la gravidanza, l'allattamento e le sindromi immunitarie tiroidee, e non vi sono evidenze di efficacia come profilassi.

La corsa all'acquisto di iodio è emotivamente motivata dal ricordo di Chernobyl nel 1986, quando questo sale di iodio stabile, cioè non radioattivo, fu utilizzato nella popolazione Ucraina poiché in grado di bloccare l'assorbimento di iodio radioattivo, potenzialmente cancerogeno, da parte della tiroide, ma pochi sanno che in questi casi tale terapia deve essere attuata tempestivamente, entro le prime 6-8 ore dall'esposizione e fino a 2 ore dopo dall'inizio previsto dalla contaminazione radioattiva, perché somministrare od assumere lo iodio stabile dopo le 24 ore successive all'esposizione, può causare più danni che benefici, prolungando l'emivita biologica dello iodio radioattivo che si è già accumulato nella tiroide, favorendone il rischio oncologico.

Purtroppo da settimane migliaia di persone corrono ad acquistarlo senza nemmeno sapere come usarlo, perché preferiscono averlo in casa a portata di mano in caso di rischio nucleare, senza valutare che lo iodio in compresse protegge solo dallo iodio radioattivo, in particolare dallo iodio 131, ma non da altri radionuclidi emessi dagli impianti nucleari, come il cesio e lo stronzio. 

 In Italia è diffuso l'uso domestico del sale iodato, ovvero sale arricchito di iodio, una semplice prassi che ha contribuito notevolmente a ridurre i casi di ipotiroidismo da insufficiente apporto di questo elemento essenziale, che è raccomandato anche per la preparazione e la conservazione di alimenti, mentre il ricorso fai-da-te di tale sostanza può determinare conseguenze negative sull'organismo, incluso il blocco funzionale e totale della tiroide, una ghiandola vitale il cui mancato funzionamento o l'assenza della sua azione può condurre facilmente a morte.

La fonte principale di iodio è rappresentata dall'alimentazione ed i cibi più ricchi di questo prezioso elemento sono le alghe, i prodotti ittici (pesci e crostacei), le uova, il latte e latticini, in parte la carne e le verdure, e l'apporto necessario è integrato con il sale iodato usato dalla maggior parte della popolazione del mondo (quello etichettato come "marino" non contiene iodio se non in quantità trascurabili), che andrebbe usato a crudo sugli alimenti, per non disperdere lo iodio con il calore della cottura.

Particolare cautela si deve avere nell'utilizzo di integratori alimentari contenenti quantità elevate di iodio, come quelli a base di alghe per esempio (la fonte principale di iodio), così come molte creme per il corpo che contengono questo vegetale, come quelle per la cellulite, sempre perché l'esposizione eccessiva ad elevate quantità può essere molto mal tollerata, e provocare disturbi, i quali, ad un primo esame clinico, risultano spesso di difficile attribuzione diagnostica. 

Lo iodio, presente negli alimenti in forma ionica (ioduro), viene facilmente assorbito nello stomaco e subito captato dalla tiroide che ne assume la quantità necessaria, favorendo l'eliminazione dell'eccesso attraverso le urine. Ma quando la dose di ioduro supera i livelli di tolleranza, oltre alla comparsa di ipertiroidismo, si manifestano effetti collaterali anche gravi come tachicardia, aritmie, esoftalmo, ipofertilità, perdita della massa muscolare ecc. 

L'acqua di mare è ricca di iodio ma, a differenza di quanto si crede, lo iodio presente nell'aria salmastra è scarsamente assorbibile anche se inalato e non influisce sul fabbisogno quotidiano, perché lo iodio per essere assorbito deve essere introdotto con l'alimentazione, in quanto lo iodio non si respira ma si mangia.

Dopo il boom di richieste, segnalato dalle farmacie, delle pillole di iodio stabile, una corsa all'acquisto provocata dalla paura di eventuali diffusioni nell'aria di iodio radioattivo in caso di attacco nucleare, le Regioni stanno monitorando la disponibilità del farmaco nel caso, ad oggi solo teorico, di una sua urgente necessità. L'uso indiscriminato e inconsapevole di questo prezioso prodotto è quindi da sconsigliare sia a scopo preventivo, sia per finalità terapeutiche, senza una chiara e precisa indicazione e sotto la supervisione medica, per evitare conseguenza a volte più gravi di quelle delle radiazioni nucleari.

Da ansa.it il 4 marzo 2022.

Notte di terrore in tutta Europa e nel mondo per l'Ucraina, dove nella notte tiri russi contro una centrale, colpita e incendiata, per qualche ora hanno evocato lo spettro di una nuova Chernobyl. 

Chiusasi con un nulla di fatto il nuovo round di colloqui diretti Ucraina-Russia nei boschi di Brest, se non per l'unico accordo sull'apertura di corridoi umanitari per evacuare i civili, la guerra è ripresa con vigore durante la notte, soprattutto sul fronte sud.

Qui le truppe russe hanno ingaggiato un lungo combattimento con quelle ucraine poste a difesa della centrale nucleare a sei reattori di Enerhodar, nell'oblast di Zaporizhzhia, la più grande d'Europa, che rifornisce quasi metà dell'energia nucleare ucraina, bersagliandola con tiri d'artiglieria e di mitragliatrici pesanti "da tutte le parti", provocando l'incendio di una delle sei unità. 

Notizie dal posto indicavano che i pompieri non riuscivano ad accedere alla centrale perché "sotto tiro" da parte delle forze russe.

Da quel momento sono partiti, nel cuore della notte, gli appelli a cessare immediatamente i combattimenti attorno alla centrale, dal governo ucraino all'agenzia atomica dell'Onu (Aiea), dal presidente Usa Joe Biden, che ha parlato al telefono con il leader ucraino, Volodymyr Zelensky, come ha fatto anche il premier britannico, Boris Johnson, che ha detto di voler convocare d'urgenza il Consiglio di Sicurezza dell'Onu.

Due ore circa è durato il terrore, poi il portavoce della centrale ha fatto sapere che alla fine i pompieri hanno potuto raggiungere l'impianto e spento l'incendio. 

La sicurezza della centrale atomica "è stata ripristinata", ha quindi dichiarato un comandante militare locale ucraino. Poi la certificazione della stessa Aiea, che "le attrezzature essenziali" della centrale colpita non "sono state compromesse dall'incendio" e che non ci sono state fughe radioattive, come per alcuni minuti fonti locali avevano fatto temere. 

Ma Zelensky ne ha approfittato per puntare il dito contro Mosca, accusata di usare come arma il "terrore nucleare", colpendo, come nessuno aveva mai osato fare nella storia dell'umanità, una centrale atomica.

Se fosse esplosa - ha rincarato la dose il ministro degli Esteri, Dmytro Kuleba - sarebbe stato "dieci volte peggio di Chernobyl". 

La catastrofe evitata per un soffio ha comunque fatto piombare al ribasso le borse asiatiche, con le peggiori performance di Tokyo e Hong Kong, rispettivamente a -2,5% e 2,6%. Zaporizhzhia fa parte del fronte sud, sul quale i russi stanno faticosamente avanzando, pezzo per pezzo, incontrando una forte resistenza. 

Sotto stretto assedio è la città di Mariupol, nella parte del Donbass ancora controllata dall'Ucraina, seppure nella notte non si ha notizia di combattimenti, mentre notizie contraddittorie arrivano da Kherson, che i russi danno per conquistata da due giorni, dove nelle ultime ore le forze russe avrebbero preso la torre della tv e sarebbero entrati nel municipio.

Odessa, nella parte sud-occidentale, è sempre sotto la minaccia di uno sbarco imminente di forze russe. 

In Russia, dove nelle scorse ore c'è stata una stretta sui media indipendenti, durante la notte si sono registrate difficoltà di accesso a Facebook e a alcuni media indipendenti che trasmettono dall'estero, come Meduza, Deutsche Welle, e Radio Free Europe/Radio Liberty (Rte/Rl). 

Le fiamme alla centrale nucleare Zaporizhzhia: «Se esplode, sarà 10 volte peggio di Chernobyl». Paolo Foschi su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.

La centrale di Zaporizhzhia è stata «colpita dalle truppe russe»: l’incendo è stato poi messo in sicurezza, ma l’impianto - che fornisce il 25 per cento dell’energia elettrica al Paese - è ora nelle mani di Mosca. 

Le truppe russe, nella notte, hanno attaccato la centrale Zaporizhzhia , nei pressi della città ucraina di Enerhodar. Secondo quanto confermato nella mattinata di venerdì 4 marzo dalle autorità ucraine, l’impianto è ora occupato dalle forze di Mosca, che ne hanno preso il controllo. 

Lo stabilimento, il più grande di questo tipo in Europa, è stato bombardato dall’esercito russo nel corso di violenti combattimenti nella zona che vanno avanti da giorni. 

Durante il combattimento è scoppiato un incendio. 

In particolare è stata colpita l’area dell'unità 1 dell'impianto: il reattore di quell’unità — secondo quanto dichiarato dal portavoce della centrale Andreiy Tuz alla tv ucraina —non è al momento in funzione, ma contiene materiale radioattivo. 

In un primo momento i pompieri non sono riusciti ad accedere alla zona delle fiamme, ostacolati dagli spari dei russi. Dopo un paio di ore è emerso che l'incendio ha riguardato solo il perimetro esterno della centrale, che le bombe hanno colpito un edificio amministrativo dello stabilimento e un laboratorio di ricerca, e che dunque la situazione, al momento, è sicura. 

Sono state ore concitate e di grandissima paura, come si capisce anche dall'accorato appello di Andriy Tuz, portavoce dello stabilimento di Enerhodar: «Chiediamo alle truppe russe che fermino il fuoco delle armi pesanti. C’è una reale minaccia di pericolo nucleare nella più grande centrale nucleare d’Europa». 

«Se dovesse esplodere, sarebbe 10 volte peggio di Chernobyl . La Russia deve immediatamente cessare il fuoco, consentire ai pompieri di intervenire e «creare una zona di sicurezza» ha scritto su Twitter il ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba. 

Secondo le prime informazioni, il livello di radiazioni sarebbe al momento invariato.

Lo stabilimento è all’avanguardia, si tratta del cosiddetto nucleare di quarta generazione e ospita sei dei 15 reattori in funzione nel territorio ucraino. 

Il governo russo, secondo quanto riferito da Rafael Grossi, direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), mercoledì sera aveva comunicato di aver preso il controllo della zona intorno centrale, spiegando che l’attività sarebbe continuata. 

La centrale è strategica per l’approvvigionamento elettrico del Paese. 

Esiste sul serio il rischio di una «seconda Chernobyl» anche nelle altre aree dove gli impianti sono attivi? 

Come scrive Massimo Sideri qui, Nicola Armaroli, dirigente di ricerca del Cnr, membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze e direttore della rivista «Sapere» spiega che «è la prima volta che un territorio che ospita centrali nucleari si trova in uno scenario di guerra». E se «mi rifiuto di pensare che qualcuno possa coscientemente e volontariamente lanciare dei missili contro uno di questi siti, resta l’errore umano»: un missile potrebbe colpire uno dei reattori dopo che ne è stato perso il controllo. «È possibile, è un rischio: queste centrali non sono state pensate per resistere a un attacco militare, anche convenzionale. Un altro problema è legato al funzionamento delle centrali nucleari che hanno bisogno in continuazione di elettricità e di essere raffreddate ad acqua. Non dobbiamo dimenticare che anche a Fukushima, in Giappone, è accaduto questo, seppure in seguito a un disastro naturale. Il terremoto ha causato lo tsunami che a sua volta, superando il muro che era stato costruito troppo basso, ha disattivato i motori diesel che dovevano raffreddare la centrale. Insomma, in una situazione di guerra il rischio, anche senza pensare a un missile, è che non siano garantiti elettricità ed acqua». Il terzo rischio riguarda l’uomo: «Come può un personale che già in condizioni normali lavora sotto stress operare in questa situazione? Ricordiamo che anche a Chernobyl l’errore umano fu determinante».

DAGONOTA il 5 luglio 2022.

I russi sono sempre meno “diplomatici”. L’ambasciatrice di Mosca in Bulgaria, Eleonora Mitrofanova, ha oltrepassato tutti i limiti: in un incontro con le istituzioni di Sofia, ha iniziato a insultare apertamente il popolo bulgaro, definendolo composto da “scagnozzi americani” e “meticci turchi”. Risultato? È stata subito espulsa dal Paese.

Da repubblica.it il 5 luglio 2022.  

I settanta diplomatici, funzionari e componenti del personale tecnico dell'ambasciata russa a Sofia, espulsi come "persona non grata" nei giorni scorsi, hanno lasciato ieri pomeriggio il Paese nel termine predisposto dalle autorità bulgare.

Secondo alcune fonti, sarebbe stata espulsa anche l'ambasciatrice russa in Bulgaria: Eleonora Mitrofanova. Gli espulsi sono saliti a bordo di due aerei russi, arrivati all'aeroporto di Sofia per trasportare verso Mosca oltre 180 persone, ovvero i diplomatici, i funzionari, i tecnici e le loro famiglie. 

Mosca aveva chiesto di poter effettuare i due voli dopo che il traffico aereo da e per la Bulgaria è stato sospeso come parte delle sanzioni imposte alla Russia per la guerra in Ucraina.Uno dei diplomatici russi espulsi è stato fotografato all'aeroporto di Sofia con indosso una maglietta con l'immagine di Putin e la scritta: "La Russia è un Paese che non ha paura di niente".

Tra i diplomatici espulsi vi era Filip Voskresenski, ministro plenipotenziario della Federazione russa in Bulgaria. "Nessuno dei diplomatici o dei funzionari russi, espulsi illegalmente e con arroganza, ha lavorato contro gli interessi della Bulgaria", ha detto in lingua bulgara Voskresenski ai giornalisti prima di imbarcarsi. 

"Parto con senso di gratitudine alla Bulgaria, ai bulgari con cui ho lavorato per molti anni. L'espulsione non significa crisi nei rapporti tra le persone, tra russi e bulgari. Nessuno, assolutamente nessuno, può rovinare i nostri rapporti, né Kiril Petkov né chiunque altro", ha aggiunto. 

Nei giorni scorsi il premier dimissionario della Bulgaria Kiril Petkov aveva espulso i settanta, un numero record, dell'ambasciata russa a Sofia, con il motivo che avrebbero "lavorato contro gli interessi della Bulgaria". 

L'ambasciatrice della Federazione russa in Bulgaria Eleonora Mitrofanova aveva subito chiesto la revoca dell'espulsione, richiesta respinta prontamente da Petkov. E nella crisi diplomatica tra i due Paesi Mitrofanova aveva detto che avrebbe chiesto a Mosca la chiusura dell'ambasciata russa a Sofia. 

Diversi deputati e analisti bulgari avanzano timori che un'eventuale rottura diplomatica tra Russia e Bulgaria potrebbe avere gravi conseguenze economiche. Mosca potrebbe chiudere il rubinetto del petrolio russo la cui importazione potrà continuare fino al 2024 su decisione di Bruxelles. Mosca potrebbe anche sospendere le forniture di carburante per l'unica centrale nucleare bulgara, che produce circa il 40% dell'elettricità in Bulgaria.

La portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha annunciato che Mosca potrebbe prendere misure contro l'Unione europea per il suo sostegno alla decisione delle autorità bulgare. 

"La decisione politicizzata di Sofia sul taglio ingiustificato del nostro staff diplomatico in Bulgaria, naturalmente, non resterà senza risposta sotto il profilo bilaterale". Secondo Zakharova, "il Servizio europeo per l'azione esterna dovrebbe capire che il sostegno sconsiderato alle azioni anti-russe di singoli stati membri rende l'intera Unione europea responsabile delle conseguenze, incluse le contromisure da parte nostra". "Ora, dopo questo nonsense, l'ambasciata non è più in grado di funzionare normalmente", ha affermato il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov. 

Francesca Sforza per “la Stampa” il 4 luglio 2022.

Tempo scaduto per l'ambasciatore russo in Italia Sergej Razov. E non è una questione di avvicendamenti naturali - per la diplomazia russa il limite di quattro o cinque anni è sempre stato subordinato ad altre considerazioni, tant' è che Razov è a Roma già dal 2013 - ma di politica. 

Lo stato dei rapporti bilaterali Italia-Russia è arrivato al grado zero della cooperazione e del dialogo, e anche a Mosca cominciano a pensare che parte della responsabilità sia proprio dell'ambasciatore Razov.

Per come ha gestito la comunicazione in questi anni, per il disastro dell'operazione di invio degli aiuti durante la pandemia, per la decisione di sporgere querela nei confronti della Stampa in seguito alla pubblicazione di un articolo di Domenico Quirico (procedimento penale archiviato il 9 giugno scorso dal giudice per le indagini preliminari di Torino Giorgia De Palma), e in generale perché è ormai chiaro che questo funzionario cresciuto nella scuola del Pcus non ha più nulla da dare - né da fare - nel nostro Paese.

La soluzione che circola in queste ore al Cremlino potrebbe tuttavia essere il segno che l'intenzione non è affatto quella di riavviare un dialogo - cosa comunque complicata, visto l'elefante nella stanza rappresentato dalla guerra in Ucraina - ma di continuare sulla linea dello scontro frontale, della provocazione e dell'escalation. 

In cima alla lista dei possibili sostituti di Razov si trova infatti il nome di Alexey Paramonov, classe 1962, direttore per l'Europa al Ministero degli esteri russo ed ex console a Milano, forte di un ottimo italiano e di rapporti coltivati negli anni con l'imprenditoria del Nord e del Nord Est.

E' a lui che si deve una delle interviste più critiche nei confronti dell'Italia - tanto che la portavoce del Mid russo Maria Zakharova è dovuta intervenire per denunciare quanto fosse stata fraintesa. In quell'occasione Paramonov, parlando con l'agenzia russa Ria Novosti, aveva inserito il nostro paese nella classifica dei paesi «più ostili», aveva parlato di «conseguenze irreversibili» sul fronte energetico, lasciando intendere che la Russia si riservava iniziative a sorpresa come l'interruzione delle forniture, e aveva anche attaccato il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, accusandolo prima di aver chiesto aiuto alla Russia durante la pandemia e poi di essere stato fra i primi a pronunciarsi a favore delle sanzioni. 

Le reazioni furono piuttosto irritate - anche da parte di Palazzo Chigi - tanto che si cominciò a lavorare alla revoca delle onorificenze che Paramonov aveva ottenuto negli anni, prima come Cavaliere dell'Ordine al Merito della repubblica italiana (2018) e poi come Commendatore dell'Ordine della Stella d'Italia (2020). 

Le possibilità che Paramonov riesca a ottenere il gradimento da parte delle autorità italiane (è il Ministero degli Esteri a trasmettere il parere al presidente della Repubblica, che ha l'ultima parola in base all'articolo 87 della Costituzione) sono obiettivamente esigue, e deve esserci questa considerazione alla base dell'ultima intervista rilasciata dall'ex console russo a Ria Novosti a metà giugno, in cui cercava forse di aggiustare il tiro, intervenendo sull'importanza di avviare dei negoziati e sul ruolo che avrebbe potuto giocare il Vaticano nell'avvicinare le parti (tanto che le sue dichiarazioni avevano fatto circolare voci di un possibile sbarco in Italia come rappresentante diplomatico alla Santa Sede).

Tra gli altri possibili candidati a sostituire Sergey Razov - certamente meno esposti di quanto non sia Paramonov - ci sono Alexander Nurizade, anche lui ex console a Milano e attualmente direttore generale al Ministero degli Esteri russo, e soprattutto Andrey Maslov, oggi ambasciatore russo ad Atene, e dal 2004 al 2010 ministro consigliere all'ambasciata di Roma. 

Figure certamente meno compromesse di Paramonov, ma che riuscirebbero comunque a creare qualche imbarazzo alle autorità italiane, chiamate a esprimere un "gradimento" al rappresentante di un Paese con cui i rapporti - sia a livello bilaterale, sia sul piano multilaterale - sono danneggiati in un modo che prescinde dal singolo funzionario.

Al di là dei nomi, infatti, si impone una riflessione su quali siano le reali intenzioni russe nella decisione di sostituire Sergey Razov, diventato ormai l'immagine dell'incomunicabilità tra i due Paesi: siamo di fronte alla volontà di scegliere un volto nuovo per riprendere il dialogo, o invece a una mossa per chiamare il nostro Paese a esprimere "un gradimento" nei confronti di (chi rappresenta) Mosca?

Il caso della mail di Mosca ai parlamentari italiani. Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 2 Marzo 2022.

La dichiarazione del ministro degli Esteri della Russia, Sergey Lavrov, contro il ruolo dell’Ue nel conflitto ucraino: «Le azioni della Ue non resteranno senza risposta». 

«Cordialmente». Conclude così, l’ambasciatore russo Sergey Razov, la lettera inviata ieri al presidente della Commissione Difesa, Gianluca Rizzo, con la preghiera di portare «a conoscenza dei deputati italiani» un documento allegato, dai toni molto più minacciosi che cordiali: la dichiarazione del ministro degli Esteri della Russia, Sergey Lavrov, contro il ruolo dell’Ue nel conflitto ucraino. Un documento ufficiale già noto, nel quale Lavrov annunciava: «Le azioni della Ue non resteranno senza risposta». Ma che la modalità di invio ai singoli parlamentari, all’indomani della votazione in Parlamento delle misure pro Ucraina ha reso più simile a un avvertimento, nei passaggi come: «I cittadini e le strutture della Ue coinvolti nella fornitura di armi letali e di carburante e lubrificanti alle forze armate ucraine saranno ritenuti responsabili di qualsiasi conseguenza di tali azioni nel contesto dell’operazione militare speciale in corso. Non possono non capire il grado di pericolo delle conseguenze».

«La modalità con cui è stata trasmessa al Parlamento italiano e alle istituzioni degli altri Paesi dà il senso dell’arroganza del regime russo», attacca il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. E contesta la versione dell’ambasciatore («normale prassi diplomatica», dice, le righe di accompagnamento non contengono «alcun messaggio minatorio all’Italia»). Non la pensa così Gregorio Fontana (FI) che respinge «con sdegno» il «messaggio minatorio rivolto ai deputati»

V.Pic. per il “Corriere della Sera” il 3 marzo 2022.

«Cordialmente». Conclude così, l'ambasciatore russo Sergey Razov, la lettera inviata via mail ieri al presidente della Commissione Difesa, Gianluca Rizzo, con la preghiera di portare «a conoscenza dei deputati italiani» un documento allegato, dai toni molto più minacciosi che cordiali: la dichiarazione del ministro degli Esteri della Russia, Sergey Lavrov, contro il ruolo dell'Ue nel conflitto ucraino. 

Un documento ufficiale già noto, nel quale Lavrov annunciava: «Le azioni della Ue non resteranno senza risposta».

Ma che la modalità di invio ai singoli parlamentari, all'indomani della votazione in Parlamento delle misure pro Ucraina ha reso più simile a un avvertimento, nei passaggi come: «I cittadini e le strutture della Ue coinvolti nella fornitura di armi letali e di carburante e lubrificanti alle forze armate ucraine saranno ritenuti responsabili di qualsiasi conseguenza di tali azioni nel contesto dell'operazione militare speciale in corso. Non possono non capire il grado di pericolo delle conseguenze». 

«La modalità con cui è stata trasmessa al Parlamento italiano e alle istituzioni degli altri Paesi dà il senso dell'arroganza del regime russo», attacca il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. 

E contesta la versione dell'ambasciatore («normale prassi diplomatica», dice, le righe di accompagnamento non contengono «alcun messaggio minatorio all'Italia»). Non la pensa così Gregorio Fontana (FI) che respinge «con sdegno» il «messaggio minatorio rivolto ai deputati».

Da ilfoglio.it il 3 marzo 2022.  

La maschera "pacifista" dell'Europa è caduta, ora che Bruxelles ha armato Kyiv contro Mosca: a rischio c'è l'integrità territoriale della Russia.

È il mondo al contrario, la versione rovesciata della guerra in Ucraina raccontata dalla macchina della propaganda russa. 

E che martedì anche i parlamentari della commissione Difesa della Camera si sono ritrovati davanti, perché il ministro degli esteri Sergey Lavrov ha fatto recapitare loro una lettera tramite l'ambasciatore russo in Italia che riscrive la storia.

"Le azioni dell'Unione europea non resteranno senza risposta. La Russia continuerà a perseguire i suoi interessi nazionali a prescindere dalle sanzioni e dalla loro minaccia", si legge. 

Ma i toni intimidatori non finiscono qui: "I cittadini e le strutture della Ue coinvolti nella fornitura di armi letali e di carburante e lubrificanti alle Forze Armate Ucraine saranno ritenuti responsabili di qualsiasi conseguenza di tali azioni nel contesto dell'operazione speciale militare in corso".

"Oggi, sulla posta elettronica di tutti i componenti della Commissione Difesa, per il tramite del Presidente della Commissione Difesa, è giunta una lettera dell'Ambasciatore Russo Razov, datata 1 marzo giorno della votazione in Parlamento sulle misure in favore dell'Ucraina, con allegata una dichiarazione intimidatoria del Ministro degli Affari Esteri della Federazione Russa", ha spiegato in una nota il deputato di Forza Italia Gregorio Fontana. 

"Respingiamo con sdegno questa missiva che non è altro che un messaggio minatorio rivolto ai deputati del Parlamento italiano. Anche questo episodio evidenzia il livello di scontro scatenato da Putin e deve indurci a proseguire senza esitazioni nell'azione avviata dal Governo Draghi d'intesa con gli altri Paesi dell'Ue e della Nato in difesa dell'Ucraina e dei principi di libertà e del diritto internazionale".

Chi è Sergej Lavrov, il ministro degli Esteri di Putin: equilibrista, zelante, capace di mentire. Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.  

Erede della grande scuola sovietica, in «carriera» da quando aveva 22 anni. Fumatore, calciatore, poeta. Ha guidato da 30 anni tutte le crisi. Non quest’ultima. Quando qualche anno fa al Med, il Forum sul Mediterraneo organizzato dall’Ispi, gli chiesi se la Russia si sentisse poco rispettata nel mondo, Sergej Lavrov rispose con un proverbio russo: «Se mi temi, mi rispetti». Dell’universo misterioso e secluso di Vladimir Putin, Lavrov ha finora incarnato la finestra sul mondo, l’uomo incaricato di tradurre e lucidare nella grammatica della diplomazia le ambizioni geopolitiche e le ossessioni revansciste dello Zar. Lo ha fatto sempre con riconosciuta professionalità, alternando durezza e blandizie, minacce e aperture, a volte riuscendo a tenere a freno alcuni eccessi del capo e arrivando perfino a passare per una «colomba», cosa che lui non è mai stato. Non c’è dubbio però che la crisi ucraina gli abbia tagliato le gambe, spezzando la corda sulla quale come un bravo equilibrista si era sempre mosso nei lunghi anni alla guida della politica estera russa. Lo sanno tutti, a Mosca e nelle cancellerie occidentali, che Lavrov era contrario all’azione militare. E che i suoi dubbi siano stati ignorati da Putin e dal ministro della Difesa, Sergej Shoigu. Nei primi giorni dell’invasione, lui sempre onnipresente, Lavrov è come sparito dalla scena. Ma quando ieri è riapparso, per dire che una «soluzione si troverà», ha avallato tutto, sposando anche la menzogna che vorrebbe rovesciare sulle mani dell’Occidente il sangue versato dai bombardamenti russi contro le città dell’Ucraina.

La vecchia scuola

Sergeij Viktorovich Lavrov è un puro prodotto della vecchia scuola diplomatica moscovita, che è stata zarista, sovietica e russa. Ha 72 anni ed è entrato in carriera nel 1972, dopo essersi laureato al prestigioso MGIMO, l’Istituto di Relazioni Internazionali dell’Università di Mosca, vera fucina della diplomazia del Cremlino. Parla perfettamente l’inglese, il francese e il singalese, che studiò e imparò per il suo primo incarico all’estero, in Sri Lanka. Quando arrivò allo Smolensky, la sede del ministero degli Esteri russo, il ministro era Andreij Gromyko, che era stato vice di Viaceslav Molotov sotto Stalin e sarebbe passato alla storia della Guerra Fredda come Mr. Nyet, signor no. Un soprannome che nella sua lunga esperienza internazionale anche Lavrov si è guadagnato sul campo. Ma più che Gromyko, il suo modello di riferimento è stato Alexander Gorchakov, ministro degli Esteri e cancelliere dell’impero zarista nella seconda metà dell’Ottocento, che Lavrov una volta ha descritto come «impegnato a restaurare l’influenza della Russia in Europa dopo una guerra perduta, non con le armi ma con la diplomazia». Una situazione secondo Lavrov molto simile a quella dopo la fine della Guerra Fredda, nonostante le azioni del Cremlino negli ultimi anni, dalla Crimea alla Siria e soprattutto a quella attuale in Ucraina, parlino soprattutto il linguaggio della forza. Di questo linguaggio, Sergej Viktorovich è stato traduttore diplomatico fedele e secondo i suoi critici fin troppo zelante. «Non puoi fare un tango con Lavrov, non è autorizzato a ballare», disse di lui nel 2017 l’allora segretario di Stato americano Rex Tillerson.

La passione per lo sport

Prima di essere nominato da Putin ministro degli Esteri nel 2004, Lavrov è stato per dieci anni ambasciatore alle Nazioni Unite. Grande conoscitore dei migliori whisky, accanito fumatore, molti ricordano la battaglia ingaggiata con il segretario generale Kofi Annan, che aveva deciso di proibire il fumo nel Palazzo di Vetro. Ma le troppe sigarette non gli impediscono di fare molto sport: la partita settimanale di calcio con gli amici appartiene alle sue abitudini domenicali quando non è in giro per il mondo. Del beautiful game Lavrov è anche appassionato tifoso. Racconta che riesce a resistere a lunghe notti di negoziati pensando alla sua squadra, lo Spartak di Mosca.

Le poesie

Quando gli hanno chiesto se fosse più difficile per Mosca l’era di Ronald Reagan, quando l’Urss era «l’impero del male», ovvero quella attuale, Lavrov ha indicato senza esitare quest’ultima: «C’erano due imperi, che aizzavano conflitti l’uno contro l’altro in Paesi terzi, ma mai direttamente. Nessuno dei due ha mai varcato i confini di ciò che era permesso. Oggi non ci sono più regole». Sembra una buona fotografia, solo che all’evidenza le regole vengono sistematicamente violate dalla sua parte. D’altronde, spesso la verità e Lavrov sono agli opposti: suscitò molta ilarità nel 2015, alla Conferenza di Monaco sulla Sicurezza, quando affermò che in Crimea la Russia non aveva fatto nulla di illegale. Sarcastico e capace di battute fulminati, Lavrov non è ingessato come molti suoi predecessori. In più occasioni ha perso poco diplomaticamente la pazienza, come nel 2008, quando al telefono con il collega britannico David Miliband gli disse: «Stai cercando di darmi una fottuta lezione?». O quando, mentre ascoltava il collega saudita durante una conferenza stampa congiunta, si lasciò scappare un «idioti», non si capisce riferito a chi. Ma forse l’aspetto più sorprendente di Lavrov è il suo amore per la poesia. Il ministro degli Esteri russo compone versi, alcuni dei quali sono stati anche pubblicati sulla rivista letteraria Russkij Pioner. In una di queste poesie, parla di un Paese che è stato spazzato via dalla storia: «Non c’è più questo Paese, ma un po’ d’orgoglio rimane. Ora è tempo di tornare a casa». Se solo avesse il coraggio di dirlo all’esercito russo.

Escalation dominance. Cinque domande per capire se la minaccia nucleare di Putin è seria. Michelangelo Freyrie su L'Inkiesta il 3 Marzo 2022.

Domenica il dittatore russo ha chiesto al suo esercito alzare il livello d’allerta per sprigionare tutto il potenziale del suo arsenale. Prima di arrivare alla soluzione più letale, però, il Cremlino ha ancora diverse armi convenzionali da mettere in campo: missili cruise, missili ipersonici, sistemi antisatellite.

Mentre l’esercito russo prepara attacchi massicci contro le città ucraine, Mosca ha deciso di lanciare un segnale tutt’altro che distensivo a Kiev e il campo occidentale. Domenica scorsa Vladimir Putin ha dato pubblicamente ordine al ministero della Difesa Sergey Shoigu e al capo di Stato maggiore delle forze armate Valery Gerasimov l’ordine di alzare il livello d’allerta delle “Forze di Deterrenza Strategica”, un eufemismo per indicare, in parte, l’arsenale nucleare.

L’annuncio è stato accolto con ansia in molte capitali occidentali e manda un messaggio chiaro: il Cremlino è pronto a utilizzare qualsiasi tipo di arma nel caso la situazione dovesse degenerare.

La domanda non è «se», ma «in quale contesto»

In questa fase è necessario prima di tutto porsi la domanda giusta, che alla luce della politica militare russa non riguarda tanto un ipotetico bluff di Putin, quanto gli scenari in cui la leadership del Cremlino sarebbe disposta a utilizzare il proprio arsenale.

Le armi a disposizione di Mosca non sono assolutamente omogenee per logica di utilizzo e potenza. La Russia ha ereditato dall’Unione sovietica l’arsenale più grande del pianeta, che secondo Federation of American Scientists include 5977 testate divise in tre “sistemi di consegna”: missili balistici schierati sul terreno; missili lanciati da sottomarini; bombe (o altri vettori) portate sull’obiettivo da aerei.

Ogni lato di questa triade nucleare ha al suo interno numerose modalità operative, e le forze terrestri e aree in particolare possono contare su diversi metodi di lancio. Questa diversità è un fattore. Non solo perché garantisce la sopravvivenza dell’arsenale russo alle crisi più disparate, ma anche e soprattutto perché dà al Cremlino una certa flessibilità nel decidere la velocità con cui vuole alzare l’asticella della tensione.

In gergo, ciò vuol dire che la leadership russa ha a disposizione numerosi gradini intermedi per controllare l’escalation (escalation dominance), dove il gradino più alto sarebbe uno scambio di colpi nucleari fra Mosca e Washington.

Quest’ultima possibilità rimane comunque remota, anche alla luce dell’annuncio di Putin e dell’implementazione portata avanti dal ministro della Difesa Shoigu. Il ministro ha tradotto l’ordine del de iure comandante supremo delle forze armate con un aumento del personale nei comandi rilevanti per l’impiego del deterrente: le forze missilistiche strategiche, l’aviazione a lungo raggio e le flotte del Nord e del Pacifico.

La funzione della deterrenza

Le “Forze di Deterrenza Strategica” non includono solo le armi nucleari. Nella dottrina russa si fa una distinzione fra sistemi d’arma pensati per l’uso sul campo di battaglia e tutti quei vettori che, invece, hanno come ruolo quello di scoraggiare (agendo da deterrente, appunto) mosse da parte del nemico.

Nella prima categoria rientrano le armi nucleari definite “tattiche” (o sub-strategiche), meno potenti e montate su sistemi di lancio a media e breve gittata.

La seconda tipologia di armi – quella messa in allerta con l’ordine di domenica – include armi convenzionali con il potenziale di fare ingenti danni all’infrastruttura nemica e convincere la leadership avversaria a desistere.

Al di sotto della soglia nucleare esistono numerosi ordigni pensati a tal scopo: missili balistici o cruise (che sono più difficili da intercettare perché volano come un aeroplano, senza una traiettoria preimpostata), missili ipersonici (che viaggiando più rapidamente del suono speso sfuggono a contromisure difensive) ma anche sistemi antisatellite e jammer elettronici (disturbatori di frequenze, come il Murmansk BN, che possono interferire con dispositivi elettronici nel raggio di centinaia di chilometri quadrati).

Insomma, per far male all’Occidente esistono numerose opzioni al di sotto del livello nucleare, e i pensatori militari russi sanno bene che un utilizzo locale di armi nucleari rischia di sfociare in un conflitto su più larga scala.

In quale contesto vengono usate le armi nucleari?

Ciò non vuol dire tuttavia che non esistano scenari nei quali le forze russe non prevedano l’impiego di armi nucleari sub-strategiche.

Nonostante la distinzione fra deterrente strategico e ordigni per l’uso sul campo di battaglia, la presenza di numerosi “scalini” – o livelli – permette di integrare la minaccia nucleare nei piani militari russi. È stato fatto in numerose esercitazioni. E la dottrina nucleare firmata da Putin nel 2020 include un articolo che prevede il possibile uso di armi nucleari per porre fine a conflitti regionali combattuti con armi convenzionali.

Nella dottrina nucleare firmata da Putin si parla soprattutto di nemici con «capacità di combattimento significative» o dotate di armi di distruzione di massa. Un dettaglio non da poco in questo conflitto: Putin ha accusato l’Ucraina di volersene dotare.

Al di là della politica ufficiale, l’interpretazione data da funzionari del ministero della Difesa russi su Krasnaja Zvezda valuta l’impiego di armi nucleari come una decisione presa in ultima analisi in relazione alle «condizioni politico-militari», con massima flessibilità per la leadership politica anche in contesti dove non esiste un’immediata minaccia nucleare contro la Russia.

Chi può dare l’ordine di attacco?

Ma chi prenderebbe la decisione finale in tal caso? Quel che sappiamo è che il “pulsante nucleare” si trova nel comando centrale delle forze missilistiche, con il quale presidente può comunicare tramite una rete denominata Kavkaz. Il Capo di Stato ha accesso alla rete tramite una valigetta-terminal, il Cheget, che lo accompagna ovunque vada e tramite la quale può visionare informazioni sulla situazione nucleare e dare l’ordine di lancio.

L’esecuzione materiale, per così dire, è quindi affidata ad altri. Sappiamo anche che esistono altre due valigette, in dotazione al capo di stato maggiore Gerasimov e al ministro della Difesa Shoigu (i due a cui Putin ha comunicato l’ordine di allerta).

Quanto siamo vicini allo scenario nucleare?

In conclusione, per capire se la Russia impiegherà armi nucleari dobbiamo rispondere ad alcune domande: Mosca è convinta di poter controllare l’escalation entro livelli tollerabili? Il Cremlino crede che un’Ucraina indipendente, con o senza supporto occidentale, rappresenti un pericolo esistenziale alla sopravvivenza del regime? Esistono ancora misure strategiche convenzionali a cui le forze armate russe possono ricorrere per assoggettare l’Ucraina senza provocare la Nato?

La risposta alle prime due domande è si. Questo indicherebbe che siamo pericolosamente vicini all’evento impensabile. Ma anche la risposta alla terza domanda è positiva, e questo ci allontana almeno un po’ dallo scenario da incubo: ci sono prima altri “scalini”, si può ancora salire.

Se ciò fosse vero, non potremmo comunque tirare un sospiro di sollievo: vuol dire, semplicemente, che la Russia non sentirà la necessità di utilizzare ordigni nucleari finché potrà riversare tutte le proprie forze convenzionali sui cittadini della giovane democrazia, sfogando la furia di un sistema autoritario con metodi “tradizionali”.

Alberto Simoni per “la Stampa” l'1 marzo 2022. 

«Il rischio di un conflitto nucleare è basso, molto basso. Ma se dicessi che è zero, mentirei». Sono fonti vicino al Pentagono a far trapelare che l'attivazione del dispositivo atomico russo - domenica - ha elevato il livello di pericolo che va ben oltre il circoscritto territorio di confronto ucraino. A Washington la notizia della decisione di Putin è arrivata via tv e questo preoccupa quasi più dell'accensione del motore atomico. I satelliti monitorano i movimenti nei silos, hangar e sottomarini. Il ministero della Difesa russo ha detto che i sommergibili della flotta Nord e del Pacifico sono stati messi in "modalità combat".

La Casa Bianca ieri ha confermato la prima reazione: non c'è motivo di alzare l'allerta nucleare. E alla Reuters un alto funzionario ha detto che la Russia dovrebbe capire che «una guerra nucleare non può essere vinta e non deve nemmeno essere combattuta». Sia al Pentagono sia al Dipartimento di Stato si ripetono le stesse parole: «Provocazione e misura non necessaria» che alza inutilmente il «pericolo». Il presidente Biden che si è consultato per oltre un'ora e venti con Draghi e gli altri leader occidentali sulla guerra in Ucraina, ha provato a tranquillizzare il Paese: «Gli americani non devono essere preoccupati da una guerra nucleare».

Nelle prossime settimane l'Amministrazione aggiornerà il documento di Strategia Nucleare e terrà conto - l'auspicio di alcuni analisti come Joe Cirincione - di quanto sta accadendo in Ucraina. Quel che però preoccupa è che il "telefono rosso" tace. Washington chiama, Mosca non risponde, pare la dinamica. Il capo degli Stati Maggiori Riuniti Mike Milley non parla con l'omologo Gerasimov da ben prima dell'inizio delle ostilità e anche a livello tecnico sono oltre 24 ore che non intercorrono scambi di informazioni fra Usa e Mosca. 

Oggi quantomai preziose per evitare incidenti e confronti - sul terreno, nei cieli, e non solo ovviamente riguardo al dispositivo nucleare e all'ipotesi di incomprensioni o cattive letture delle intenzioni altrui. Washington ha dato ordine ai suoi uomini e mezzi di lasciare l'Ucraina non appena è iniziata l'invasione. Anche i droni e gli aerei spia sono stati ridispiegati e l'unico punto di osservazione è garantito dagli U2 che volano molto alti fuori dal tiro dei missili anti-aereo.

Non ci sono stati - dicono dal Pentagono - nemmeno problemi via terra, riferendosi alla consegna delle armi che tramite il confine polacco, ma non solo, arrivano alla resistenza ucraina. Tuttavia, lo spazio aereo è ancora «contestato», ha detto il portavoce del Pentagono John Kirby poiché il previsto dominio dei cieli da parte russa non si sta verificando e a Washington ritengono che un «canale operativo con Mosca eviterebbe errori di calcolo». 

Per questo rilanciano la linea rossa. Una delle ipotesi che avanzano alla Difesa è replicare il modello siriano. Usa e Russia fissarono nel 2015 una linea di demarcazione per prevenire scontri ed errori sul campo. Quando il 3 febbraio le forze speciali Usa hanno fatto il raid contro il capo dell'Isis, Al-Qurayshi, i russi erano stati avvertiti che ci sarebbe stata un'operazione. Si fa insomma di tutto per evitare di creare un "casus belli" fra Nato e Russia, anche se gli Stati Uniti temono le provocazioni russe - anche sul fronte cyberattacchi, tanto da sventagliare, lo fa il senatore Warner, il ricorso all'Articolo 5 della Nato - e la costruzione di pretesti per allargare il conflitto.

Ecco perché l'idea che non ci siano comunicazioni chiare sui movimenti militari fra le due capitali è motivo di apprensione. Il telefono rosso venne istituito nel 1963 dopo la crisi dei missili a Cuba. All'inizio era una telescrivente, ora è un sistema di e-mail criptate collocato nel National Military Command Center, l'hub nel cuore del Pentagono operativo 24 ore su 24. 

Al quotidiano Politico, un comandante della Difesa Usa ha detto che ci sono molti modi con cui russi e americani possono interfacciarsi, il migliore sarebbe un colloquio fra Milley e Gerasimov, ma su questo fronte c'è solo il silenzio. Restano aperti i canali diplomatici. Ieri l'ambasciatore Usa a Mosca John Sullivan ha incontrato Sergei Rabkov. Il viceministro degli Esteri russo si è lamentato delle proteste "ostili" dinanzi alle sedi diplomatiche russe negli Stati Uniti. I due avrebbero anche parlato di altre questioni.

Tuttavia, i canali di dialogo si stanno diradando; l'ambasciata Usa a Minsk, in Bielorussia, ha abbassato la bandiera, il personale è andato via. Nella stessa Mosca restano solo i funzionari e l'ambasciatore per le questioni di emergenza. A New York invece dodici diplomatici russi all'Onu saranno espulsi, per Washington «sono una minaccia per la sicurezza nazionale». 

Mosca sta preparando la contromossa. Il silenzio di Mosca va a braccetto con la mancata de-escalation sul terreno dove Kirby osserva una spinta ulteriore dei russi. «Putin ha un potere di attacco ancora importante, ha schierato non tutte ma la maggioranza delle forze in Ucraina», almeno il 75% di quelle disponibili. E soprattutto - è la riflessione - «nonostante la resistenza e battute d'arresto, i russi non hanno cambiato piani né approccio, cercheranno di superare il momento difficile».

Magari con le bombe a grappolo lanciate su Kharkiv ieri e una colonna di blindati, carri armati e artiglieri lunga quasi 20 miglia che sta muovendosi verso Kiev. Ambienti della Difesa spiegano che «si va verso un lungo assedio» della capitale. Il rischio è quello della battaglia strada per strada. E nella capitale sarebbero già presenti i miliziani della compagnia Wagner, già attivi in Siria, Libia e Centrafrica. Alcuni soldati russi si sono anche mimetizzati con divise ucraine. I sabotatori di cui ha parlato poche ore dopo l'invasione il presidente ucraino Zelensky sono pienamente al lavoro. Nel totale silenzio.

Francesco Grignetti per “la Stampa” l'1 marzo 2022.

I generali osservano, riflettono, ne parlano tra loro perché l'arte della guerra la conoscono bene. E Giorgio Battisti, generale degli alpini, nella riserva da qualche mese dopo una lunghissima carriera tra Italia, Afghanistan e comandi Nato, presidente della commissione militare del Comitato Atlantico Italiano, un think-tank che accompagna le nostre decisioni tecnico-militari, non fa eccezione. Dell'opzione nucleare, agitata da Vladimir Putin, non vorrebbe nemmeno parlare. «Lui come tutti sa che il ricorso al conflitto nucleare significa l'Armageddon per il pianeta». 

Ma quello che l'ha colpito, da soldato di fanteria, è la reazione degli ucraini: «Stanno utilizzando al meglio i missili di fabbricazione occidentale, sia contro gli aerei, sia contro i carri armati. E dimostrano che un fante può essere micidiale».

Generale Battisti, partiamo dalle armi atomiche.

«Tema molto studiato nelle accademie militari, ovviamente. Dalla fine della Seconda guerra mondiale è alla base dell'equilibrio tra potenze». 

Putin ne parla con una disinvoltura agghiacciante.

 «Vi fece cenno già diversi giorni prima dell'invasione, quando era una guerra di parole con Joe Biden. Quella volta, Putin disse che i russi certamente non erano all'altezza dell'armamento convenzionale dell'Occidente, ma quanto a testate atomiche loro erano in vantaggio».

Cioè quasi non fa distinzione tra i due tipi di armamenti?

«Di nuovo, ieri, la propaganda russa ha lanciato la notizia che avrebbero 500 testate atomiche imbarcate su sottomarini, in grado di distruggere gli Stati Uniti e i Paesi della Nato».

 Ne può avere anche cinquemila. Superata quella soglia, nessuno torna indietro.

«Infatti. L'arma nucleare è l'arma finale». 

Non ci sarebbe scampo per nessuno.

«Possono essere solo delle sparate, però il fatto stesso che se ne parli, qualche preoccupazione la suscita. Io spero proprio che nessuno pensi a un uso dell'arma nucleare. Mi sembra incredibile che quella minaccia con cui abbiamo convissuto nei quaranta anni di guerra fredda, torni alla ribalta ora, così tanti anni dopo».

Anche gli americani ne hanno in quantità.

«La dottrina Usa al riguardo è cambiata nel tempo. Nell'immediato dopoguerra, c'era stata una prima dottrina della "risposta massiccia": a qualsiasi attacco sovietico, il Pentagono avrebbe risposto con un massiccio bombardamento nucleare sulle città sovietiche e sui centri governativi. Dopo il 1967, è subentrata la dottrina della "risposta flessibile", che è stata in vigore fino alla fine della guerra fredda: ad attacco convenzionale, risposta convenzionale; ad attacco nucleare limitato, risposta con il nucleare tattico, che sarebbe stato affidato alle artiglierie, in cui ciascun proiettile comunque avrebbe distrutto un quartiere o una piccola città; ad attacco nucleare massiccio, risposta nucleare massiccia. Oh, sia chiaro: sarebbe stato l'Armageddon, la distruzione totale della vita sul pianeta».

Putin sembra metterlo in conto.

«Sembra tanto una sparata, di chi sa quanto noi occidentali temiamo questo scenario». 

Intanto, però, i russi in Ucraina non sfondano.

«Ciò dimostra che l'esercito ucraino si è ben preparato in questi ultimi anni. Sapevano che non avrebbero potuto mai vincere in una battaglia campale. Quindi li hanno fatti entrare, hanno rallentato in mille maniere l'avanzata dei carri armati, e a questo punto li colpiscono ai fianchi. I russi hanno ereditato la dottrina sovietica: mirano a colpire da subito, dall'aria, i centri di comando e le caserme; poi si precipitano ad occupare gli snodi strategici.

È per questo che mirano a Kharkiv, basta guardare una mappa autostradale dell'Ucraina: gli interessa perché da lì passano tutte le autostrade su cui far correre i loro carri, che non possono certo camminare per i campi. Ma gli ucraini, che nel 2014 erano in uno stato miserevole, grazie agli istruttori militari americani e inglesi hanno capito come usare al meglio i razzi anticarro "Javelin", che possono essere lanciati a 2 o 3 chilometri di distanza, e vanno a colpo sicuro sul carro armato perché seguono la fonte di calore.

Con i "Javelin" stanno devastando le colonne corazzate russe e quelli non riescono nemmeno a vedere chi li colpisce. Sono l'evoluzione degli "Stinger" che già rovesciarono le sorti della guerra in Afghanistan, perché con lo stesso sistema abbattono aerei ed elicotteri. Ora, mettetevi nei panni dei soldati russi, che sono per lo più di leva, mandati ad invadere una nazione che doveva accoglierli come fratelli e invece gli sparano da tutte le parti, e poi avanzateci voi con il carro armato sapendo che a ogni chilometro può arrivare un missile dall'alto a cui non c'è rimedio».

E quindi?

«La fanteria ucraina si sta mostrando micidiale. E nelle città i russi non sono ancora entrati perché la loro dottrina prevede prima i bombardamenti a tappeto, dal cielo e di artiglieria. Ma ciò significherebbe un bagno di sangue della popolazione civile. Lo fecero a Grozny, non possono permetterselo a Kiev».

Si dice poi che gli manchi il coordinamento con l'aria.

«In effetti era andata così nella guerra di Cecenia. Pensavamo avessero risolto, ma forse no». 

Terza guerra mondiale e nucleare, la propaganda di Putin per non essere annientato. Redazione su Il Riformista il 27 Febbraio 2022.  

Le armi nucleari non si utilizzano dalla seconda guerra mondiale. Nelle ultime ore, tuttavia, il presidente russo Vladimir Putin e il fido alleato bielorusso Alexander Lukashenko sono ritornati a parlare di nucleare per rispondere alle parole della Nato e, soprattutto, del presidente americano Joe Biden sull’eventualità di una terza guerra mondiale nel caso in cui la Russia non accetti le sanzioni comminate dopo l’invasione in Ucraina.

“Iniziare una terza guerra mondiale, entrare in guerra con la Russia, fisicamente. Oppure assicurarsi che un Paese che agisce in modo così contrario al diritto internazionale paghi un prezzo per averlo fatto” aveva detto ieri Biden, aprendo per primo il discorso di una nuova guerra mondiale.

Non si è lasciata attendere la risposta, si spera provocatoria (per coprire la fallimentare, la momento, invasione ucraina), del presidente russo che nelle scorse ore ha ordinato l’allerta del sistema difensivo russo che include una componente nucleare. “Ordino al ministro della Difesa e al capo di stato maggiore – ha detto il presidente russo in una conferenza stampa– di mettere in allerta speciale le forze di deterrenza dell’esercito russo, in risposta alle dichiarazioni aggressive dell’Occidente”.

Allerta che scatta perché “come vedete i paesi occidentali hanno intrapreso azioni ostili nei confronti del nostro paese”, spiega Putin, e “i funzionari più elevati dei paesi più importanti della Nato si sono espressi in modo molto aggressivo, ostile, nei confronti del nostro paese”. Azioni ostili “a livello economico” chiarisce “mi riferisco a sanzioni illegittime comminate al nostro paese”. Oltre alle sanzioni, Putin potrebbe non aver ‘gradito’ l’arrivo di armi e munizioni da parte dei Paesi Occidentali nei confronti dell’Ucraina.

In precedenza l’alleato Lukashenko aveva usato parole durissime, a 18 ore di distanza dalle due opzioni indicate da Biden. Le sanzioni contro la Russia sono “peggio di una guerra. La Russia viene spinta verso una terza guerra mondiale. In una situazione come questa dovremmo essere consapevoli che ci sono tali sanzioni. Si parla tanto di settore bancario, gas, petrolio, Swift. E’ peggio della guerra. La Russia viene spinta verso una terza guerra mondiale. Dovremmo essere molto riservati e stare alla larga da essa. Perché la guerra nucleare è la fine di tutto”.

Poi per rincarare la dose ha aggiunto: “Se fosse necessario schierare armi nucleari, potremmo farlo con l’attuale Costituzione – ha detto Lukashenko – Non ci sono ostacoli per noi in questo senso. Se gli Stati Uniti o la Francia, che è anche una potenza nucleare, inviassero armi nucleari in Polonia o in Lituania vicino ai nostri confini, non sarei in grado di fare lo stesso da solo. Non ho armi del genere. Ma dirò al presidente russo Vladimir Putin che mi piacerebbe riavere le armi nucleari che ho accettato di cedere senza alcuna precondizione”.

Immediata la controreplica degli Usa. La portavoce della Casa Bianca Jen Psaki ha commentato l’ordine di Putin come “minacce costruite” dal Cremlino. “Putin sta fabbricando minacce che non esistono per giustificare un’ulteriore aggressione”, ha detto Psaki ad Abc.

“Un eventuale dispiegamento delle armi nucleari da parte della Russia sarebbe una catastrofe per il mondo” ha sottolineato il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba. “Se Putin dà ordine di allertare le armi nucleari, allora il mio messaggio è questo: sarà una catastrofe per il mondo”, ha detto Kuleba rispondendo ai giornalisti.

Nei giorni scorsi, di fronte alle minacce di Putin, anche sulle armi nucleari, il ministro degli Esteri francese, Jean Yves Le Drian ha ricordato che anche la Nato è in grado di dare prova di deterrenza su questo punto. “Cerca di spaventare, esibisce i muscoli, ma sa benissimo che l’Alleanza Atlantica è anche un’alleanza nucleare“, ha affermato su France Inter. “Sono parole dette per spaventare ma conosce molto bene gli equilibri di potere. Quando il presidente Putin dice di avere armi importanti, gli viene risposto ‘anche noi’, molto semplicemente”, assicura il ministro.

Secondo Maurizio Martellini, fisico nucleare e segretario generale della Fondazione che si occupa di disarmo nucleare ‘Alessandro Volta’, Putin risponde con la minaccia nucleare all’accerchiamento economico. Raggiunto da La Presse, l’esperto spiega che anche dall’altra parte, e cioè l’Europa, si dovrà aumentare il livello di allerta nucleare. “Quello che sta dicendo Putin è che l’isolamento economico” messo in campo contro la Russia “viene considerato al pari di un allarme nucleare o a una situazione di attacco nucleare”.

“Sta contrapponendo l’isolamento alla minaccia nucleare. Una specie di legge del taglione: sta paragonando lo strangolamento economico-finanziario a una minaccia di attacco nucleare, ma è un ragionamento che è completamente asimettrico e che risponde a logiche e strategie diverse”.

Secondo Martellini,  “il punto è che se Putin ritorna in patria senza aver annientato l’Ucraina non avrà scampo”, sarebbe un fallimento. “Quindi Putin non ritornerà indietro perché se no sarebbe un fallimento; ha due possibilità: aumentare la pressione oppure trovare un compromesso per salvare la faccia”.

Dura anche la condanna della Nato. Il presidente russo, Vladimir Putin, sta utilizzando una retorica “pericolosa e irresponsabile” con l’ordine di assetto speciale di combattimento alle forze di deterrenza russe, fa sapere il generale dell’Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg, in una intervista all’emittente televisiva statunitense “Cnn”. “Questa guerra è responsabilità di Vladimir Putin”, ribadendo che se “un alleato della Nato viene attaccato noi lo difendiamo”.

Putin attiva il sistema di allerta nucleare. Kiev: "Pronti a incontro coi russi". Mauro Indelicato il 27 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Contesa la città di Kharkiv, i russi avanzano ma gli ucraini rispondono. Possibile dialogo tra Ucraina e Russia nella città di Gomel.

Nella tarda mattinata di oggi il presidente bielorusso Alexandar Lukashenko è stato il primo a evocare lo spettro nucleare. "Le sanzioni - aveva detto - spingeranno la Russia verso la terza guerra mondiale. Quindi dobbiamo mostrare moderazione per non finire nei guai. Perché una guerra nucleare sarebbe un disastro". Poche ore dopo da Mosca la notizia della nuova mossa di Putin: è stato infatti allertato il sistema difensivo nucleare.

Sistema difensivo nucleare in allerta

Poche parole, riferite dall'agenzia russa Sputnik, che hanno parlato di un nuovo scenario nella guerra in Ucraina. "Putin - si legge - ha ordinato di porre le forze di deterrenza dell'esercito russo in regime speciale di servizio da combattimento".

La decisione sarebbe stata presa dopo un incontro con il ministro della Difesa, Serghei Shoigu, e il capo di stato maggiore Valeri Gerasimov. "I Paesi occidentali - sono state la parole di Putin riportate dalle agenzie russe - non stanno solo intraprendendo azioni ostili contro il nostro Paese nella sfera economica, intendo quelle sanzioni di cui tutti sono ben consapevoli, ma anche gli alti funzionari dei principali Paesi della Nato fanno dichiarazioni aggressive contro il nostro Paese". Da qui la decisione dell'allerta. Le forze di deterrenza messe in servizio da combattimento comprendono anche le armi nucleari.

In Ucraina si combatte

Durante la notte dal centro di Kharkiv si scorgevano ampi bagliori verso l'orizzonte. Molti obiettivi militari posti in periferia sono stati colpiti. Anche un gasdotto è stato preso di mira e ha riportato seri danni. Poi con le prime luci dell'alba è iniziata una nuova operazione di terra. I russi, già presenti a pochi passi dal centro da giovedì scorso, hanno provato a sfondare definitivamente.

L'operazione, grazie anche all'impiego di forze speciali, sarebbe riuscita. Tanto che su Twitter sono apparsi video girati dagli abitanti chiusi in casa che mostravano mezzi e soldati di Mosca pattugliare alcune strada. In altre immagini però era possibile vedere anche militari ucraini in azione. L'esercito di Kiev sta provando a resistere.

A metà mattinata Kharkiv è stata data per presa dai russi. In realtà non ci sono stati comunicati ufficiali da Mosca, ma diverse fonti sul campo hanno parlato di militari russi presenti in tutto il territorio cittadino. Fonti ucraine hanno smentito. Si starebbe ancora combattendo. Oleh Sinegubov, governatore dell'oblast di Kharkiv, ha dichiarato sui social che il capoluogo sarebbe interamente in mano ucraina. Dichiarazione forse eccessivamente ottimista. Si sta ancora combattendo, con i russi comunque pronti a sferrare l'ultimo attacco decisivo. Forse solo più tardi si potranno conoscere le sorti della città.

Si apre uno spiraglio diplomatico

Poche parole, una semplice frase, che ha avuto subito l'aria di una svolta diplomatica. Sul canale Telegram del presidente ucraino Zelensky è apparsa alle 12:43 una scritta in cui si è annunciata una conversazione telefonica con il presidente bielorusso Alexandar Lukashenko.

È stata la conferma a un'indiscrezione trapelata poche ore prima. I due si sarebbero parlati dopo giorni di silenzio tra Kiev e Minsk. La Bielorussia del resto sta appoggiando la Russia nella guerra e molti carri armati presenti nella periferia della capitale ucraina sono entrati dal confine bielorusso.

La telefonata è apparsa quasi inaspettata. Anche perché Zelensky, nel suo primo videomessaggio su Telegram dopo 12 ore di silenzio, aveva puntato il dito contro Minsk dichiarando inoltre l'indisponibilità a sedersi al tavolo con la Russia in territorio bielorusso. Lukashenko, sempre in questa domenica mattina, non si è certo risparmiato in quanto a dichiarazioni. Ha affermato infatti che le sanzioni rischiano di spingere Mosca verso la guerra atomica.

Ma quella conversazione ha realmente aperto uno spiraglio diplomatico. Fonti ucraine hanno infatti parlato di una delegazione di Kiev in viaggio verso Gomel, città bielorussa dove starebbero arrivando anche inviati da Mosca. Potrebbe essere preludio a una trattativa. Zelensky nelle scorse ore ha confermato. Abbiamo convenuto che la delegazione ucraina si sarebbe incontrata con la delegazione russa senza precondizioni al confine ucraino-bielorusso, vicino al fiume Pripyat - si legge in una dichiarazione apparsa su Telegram - Alexander Lukashenko si è assunto la responsabilità di garantire che tutti gli aerei, elicotteri e missili di stanza sul territorio bielorusso rimangano a terra durante il viaggio, i colloqui e il ritorno della delegazione ucraina.

Zelensky: "Non credo molto nei negoziati, ma proviamoci"

Sui colloqui che stanno per partire in Bielorussia è intervenuto lo stesso presidente ucraino. "Lukashenko e io non abbiamo parlato per due anni, ma questa volta la conversazione è stata molto dettagliata - ha dichiarato in un nuovo videomessaggio su Telegram - mi ha assicurato che le truppe bielorusse non andranno in Ucraina".

Sull'esito dei colloqui a Gomel, Zelensky non si è mostrato molto ottimista. "Non credo molto nel risultato dei negoziati - ha proseguito infatti il presidente ucraino - ma lasciate che ci provino. In modo che in seguito nessuno abbia dubbi sul fatto che io non abbia cercato di fermare la guerra quando c'era la possibilità di farlo".

La situazione a Kiev

Nella capitale ucraina con il buio sono tornati a risuonare anche gli allarmi aerei. Testimoni sui social hanno riportato che dal tardo pomeriggio in poi le sirene sono state avvertite almeno una decina di volte. Gli abitanti vivono confinati in casa, l'appello è quello di rimanere lontani dalle finestre ed evitare pericoli. Dalle 17:00 vige il coprifuoco e c'è il divieto di uscire. In molti hanno deciso di continuare a stare nei rifugi.

Sul terreno si è registrata nelle scorse ore l'avanzata dei russi attorno la periferia. Il sindaco di Kiev, Vitalij Klycko, ha ammesso che i soldati di Mosca sorvegliano oramai tutti principali ingressi della città. "Appare impossibile adesso - si legge nelle sue ultime dichiarazioni - evacuare i civili". In poche parole, Kiev è oramai circondata. Lo stesso primo cittadino però ha smentito di aver rilasciato queste affermazioni e ha parlato di false notizie, dichiarando invece che la capitale è interamente in mano ucraina.

Sirene allarme aereo a Odessa

Nel pomeriggio di domenica intanto rischia di aprirsi un altro fronte, quello di Odessa. Nella città affacciata sul mar Nero, sono state ben udite le sirene di allarme aereo. Bombardamenti sono stati segnalti e confermati dalla stessa Difesa ucraina. Odessa è stata bersagliata nelle prime ore di guerra, ma rispetto ad altre città della zona è sembrata meno esposta ai raid. Possibile che l'esercito russo voglia provare a mettere a dura prova le difese della regione del mar Nero.

Russi avanzano a sud

In serata si è avuta notizia della presa della città di Berdyansk, sul mar d'Azov. A confermarlo è stato il sindaco della cittadina, Oleksandr Svidlo. "Le forze russe sono entrate e hanno preso il controllo della città - ha dichiarato il primo cittadino - i soldati dell'esercito russo ci hanno informato che tutti gli edifici amministrativi sono sotto il loro controllo". La conquista per Mosca è importante. Berdyansk si trova a 70 km da Mariupol, un obiettivo strategico per i russi in quanto permetterebbe di collegare l'autoproclamata Repubblica di Donetsk con la Crimea.

Armi in arrivo a favore degli ucraini

La Svezia ha annunciato nelle scorse ore di aver fatto pervenire in territorio ucraino diversi quantitativi di armi a favore dell'esercito. Si tratta soprattutto di mine anticarro, essenziali per fermare le avanzate avversarie. Anche l'Ue, per bocca dell'alto rappresentante della politica estera Josep Borrell, ha deciso di stornare a favore di Kiev aiuti di natura militare.

Di Maio: "Guerra ha un nome e un cognome, è Vladimir Putin"

In serata sono giunta anche dichiarazioni del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. "Questa guerra ha un nome e cognome, Vladimir Putin - ha sostenuto il titolare della Farnesina - il presidente russo è bravissimo a fare la vittima, ma nessuno lo ha aggredito, è lui l'aggressore".

Secondo Di Maio l'azione in Ucraina da parte di Putin va fermata, altrimenti "il prossimo Paese a essere invaso potrebbe essere un altro Stato dell'Europa e noi questo non lo accettiamo - ha aggiunto il ministro - per questo portiamo avanti le sanzioni".

"Non è immaginabile pensare a ripristinare le relazioni con il leader del Cremlino Vladimir Putin come prima dell'invasione dell'Ucraina - ha poi sottolineato il ministro - Tutti i principali leader occidentali hanno provato a negoziare. Quello che è avvenuto è che, quando Putin ha deciso di invadere l'Ucraina, non lo ha fatto perché hanno fallito i negoziati, ma semplicemente perché era finita la tregua olimpica e quindi il giorno dopo ha invaso. Altrimenti lo avrebbe fatto anche prima. Un leader che prende in giro tutti gli altri perde ogni credibilità internazionale"

Una novità importante è stata data a proposito della presenza di italiani a Kiev. Secondo Di Maio per adesso è impossibile procedere con le evacuazioni per via delle precarie condizioni di sicurezza.

Anche la Svizzera valuta sanzioni alla Russia

Da Berna il governo svizzero ha espresso la possibilità di accodarsi alla Ue per sanzionare Mosca a seguito dell'attacco militare sull'Ucraina. Ignazio Cassis, presidente della federazione elvetica, ha dichiarato in televisione di essere pronto a valutare questa opportunità. L'esecutivo sta valutando il pacchetto di sanzioni da introdurre ed entro domani verrà presa una decisione.

Il Kosovo preme per entrare nella Nato

Il ministro della Difesa del Kosovo, Armend Mehai, ha chiesto con "urgenza" nella Nato e la creazione di una base Usa permanente. Il motivo è dettato dai timori successivi all'invasione russa dell'Ucraina. "L'ingresso accelerato del Kosovo nella Nato e l'istituzione di una base permanente di forze americane è un'esigenza urgente per garantire pace, sicurezza e stabilità nei Balcani occidentali e oltre - ha scritto Mehai su Facebook - sulla base della realtà creatasi dopo l'aggressione militare russa contro l'Ucraina e la sua impatto sull'ambiente di sicurezza generale dei Balcani occidentali, dell'Europa e del mondo, chiediamo agli Stati Uniti e a tutti gli alleati e paesi partner di accelerare la valutazione del processo di adesione del Kosovo alla Nato". 

Claudio Del Frate per il corriere.it il 28 febbraio 2022.

Anche la Svizzera si appresta a colpire la Russia con una serie di sanzioni, adeguandosi a quelle decise dalla Ue. Lo ha annunciato il presidente della Confederazione Ignazio Cassis, parlando ai microfoni del canale francese della tv pubblica e definendo «molto probabile» che lunedì la Svizzera congelerà una serie di beni detenuti da cittadini russi. 

Si tratta di una svolta importante e per certi versi storica: Berna da un lato rompe la sua tradizionale neutralità di fronte alle guerre e dall'altro copre una «falla» che avrebbe potuto aprirsi nella morsa finanziaria che l'Occidente ha deciso di stringere attorno a Mosca. 

Fino a sabato infatti la Svizzera aveva assunto una posizione piuttosto prudente nei confronti delle mosse di Putin. Il governo si era limitato a formulare una «black list comprendente circa 300 cittadini russi e 4 banche» a cui aveva imposto il divieto di intrattenere rapporti d'affari. In teoria, dunque i numerosi oligarchi e milionari russi che hanno conti nelle banche elvetiche avrebbero potuto continuare ad operare.

Certo, il Paese avrebbe potuto andare incontro a un rischio giuridico e «reputazionale»: le banche che avessero mantenuto un rapporto disinvolto con interlocutori russi sarebbero potute andare incontro a citazioni in giudizio ma soprattutto essere considerate fiancheggiatrici indirette del regime di Putin. Rischiava insomma di riprodursi una situazione simile a quella della Seconda Guerra Mondiale quando la Svizzera continuò a intrattenere rapporti economici con la Germania di Hitler. 

Il fronte compatto creatosi in Europa e non solo contro gli aggressori dell'Ucraina ha convinto ora anche Berna ad allinearsi, evitando il rischio di rimanere isolata. «Neutralità non significa indifferenza» aveva dichiarato il presidente Cassis in un messaggio alla nazione letto poche ore dopo l'attacco russo all'Ucraina.

«La Russia ha violato in maniera flagrante il diritto internazionale e la sovranità di un altro Stato». Le posizioni dei partiti svizzera sembravano divergere sull'atteggiamento da mantenere verso Mosca: i Verdi spingevano per un maggiore rigore, L'Udc (partito della destra nazionalista) all'opposto chiedeva di preservare la neutralità del Paese.

Minaccia nucleare. Non solo Putin, chi sono i due generali che possono lanciare l'attacco. Il Tempo il 27 febbraio 2022.

Si chiamano Sergei Shoigu (a destra nella foto) e Valery Gerasimov (a sinistra). Sono rispettivamente il ministro della Difesa russo e capo di stato maggiore generale delle Forze armate russe. Sono loro due ad avere, insieme a Vladimir Putin, le chiavi per autorizzare il lancio delle testate nucleari. 

"I leader dei Paesi principali della Nato stanno facendo dichiarazioni aggressive contro il nostro Paese, quindi ordino al ministro della Difesa e al capo di stato maggiore di mettere le forze di deterrenza in stato di regime speciale di allerta", ha dichiarato Putin, nella riunione che ha tenuto oggi 27 febbraio al Cremlino con Shoigu e Gerasimov. Lo scorso 19 febbraio, prima dell’inizio della guerra contro l’Ucraina, Putin aveva presieduto, dal Centro di controllo del Cremlino, a una esercitazione delle Forze di deterrenza strategica a cui hanno partecipato anche le Flotte del Mar Nero e del Nord. 

Per ordinare un attacco nucleare, quindi, non basta la chiave in mano a Putin. A sbloccare i codici di lancio devono essere anche il ministro della Difesa e il capo di Stato maggiore. E' la stessa procedura a tre adottata anche ai tempi dell'Unione Sovietica.

Da Kozak al generale Gerasimov: ecco chi si muove dietro alla guerra. Matteo Sacchi l'1 Marzo 2022 su Il Giornale.

Ci sono tanti falchi e poche colombe nelle stanze da cui si guida il conflitto. Ma chi ha scommesso sulla vittoria facile ora rischia.

C'è un vecchio modo di dire Russo: «Il Cremlino ha molte torri». Sta a significare che è sempre difficile capire come si muove il governo di Mosca, perché al suo interno si scontrano sotto traccia diverse componenti. Nel caso della crisi Ucraina la nota impenetrabilità, di matrice sovietica, viene accresciuta dal così detto «fumo della guerra». Però ci sono alcuni elementi chiave della vicenda, che si muovono attorno a Putin, di cui è bene avere a disposizione un piccolo Who is Who. Uno dei personaggi chiave dell'invasione russa è Dmitry Kozak, Putin lo porta con sé da quando era consigliere del sindaco di San Pietroburgo per gli Affari Internazionali. Un legame di lunghissima data, quindi, che in parte esula dagli incarichi che Kozak ricopre, di volta in volta, ora è vicedirettore dello Staff del Cremlino. L'ex Spetnatz sarebbe secondo alcune fonti al vertice di quelle operazioni speciali che avrebbero dovuto essere la svolta del conflitto. E al momento non hanno funzionato così bene. La storia non si ripete mai però, giusto per fare un esempio: Galeazzo Ciano aveva garantito al Duce di aver corrotto gran parte dei generali greci prima dell'inizio della guerra d'Albania. Sappiamo come è finita. Ieri con l'arrivo di Vladimir Medinsky come capo delle trattative, Kozak è stato dirottato, ufficialmente almeno, su: «aspetti sociali, umanitari e altri aspetti dello sviluppo delle repubbliche del Donbass»

Al lato opposto della scacchiera interna, sempre parlando di operazioni coperte si troverebbe, Sergei Naryshkin: altro fedelissimo della prima ora di Putin e a capo dei servizi segreti esterni della Federazione. Naryshkin è stato sempre considerato uno dei falchi, al pari del suo collega al vertice dei servizi interni Alexander Bortnikov (sono già finiti nel mirino delle sanzioni statunitensi). Eppure sembra che, in questo caso, sia esitante e che non si possa considerare completamente in linea con Putin, tanto da beccarsi anche qualche umiliazione pubblica. Anche perché le operazioni di sorveglianza e sabotaggio sull'Ucraina restano sotto la competenza dell'Fsb (il servizio di sicurezza interno, e questo spiega cosa i russi pensino dell'indipendenza Ucraina) e, quindi, il contrasto rispetto alle aspettative sulla campagna potrebbe nascere anche da informazioni diverse e contrastanti. Ora la prudenza di Naryshkin potrebbe essere rivalutata?

Di certo al centro della crisi si muovono due altri attori fondamentali. Sono Sergei Lavrov e il ministro della difesa Sergei Shoigu. I due Sergei sono un po' i «Mister Wolf» di Putin i suoi «risolvi problemi». Vecchie volpi della politica, esenti da scandali, carriere iniziate ai tempi dell'Urss. Shoigu ha contribuito molto allo snellimento dei quadri delle forze armate russe che avrebbe dovuto proiettarle verso una maggiore modernità e flessibilità. Sicuramente c'è riuscito sulle unità di punta. Ma forse ha creato un Orso da combattimento tutto denti ma con poco corpo dietro. Lavrov è un duro della politica internazionale e sin qui ha gestito la partita a scacchi diplomatica che gli è stato chiesto di gestire senza una sbavatura rispetto a Putin. Se ha provato la sensazione di essere finito fuori dalla scacchiera per essere proiettato in un orribile poker, con il bluff più azzardato degli ultimi vent'anni, è riuscito a non darlo troppo a vedere. Di certo è un uomo potente e anche Putin non può abusare della sua fedeltà.

Non si può chiudere questa carrellata senza citare il generale Valery Gerasimov, capo di Stato maggiore delle Forze armate. Gerasimov, uno dei maggiori strateghi militari di Mosca è famoso per le sue teorizzazioni sull'Hybrid warfare. Proprio quello che viene usato in Ucraina. Ma in questa operazione pare essere messo in secondo piano ora come ora, almeno all'apparenza. In pubblico, quando si annuncia deterrenza nucleare, compare con il broncio. Ne ha ben donde, pare i militari avrebbero preferito opzioni meno estreme. E in Russia non sono i soli. Ma al momento il Cremlino avrà pure molte torri ma un solo Putin.

Angelo Allegri per “il Giornale” l'1 marzo 2022.

È l'uomo dell'arsenale atomico e delle nuove, modernizzate Forze Armate russe. Ma è anche una delle persone più vicine a Putin in queste settimane di guerra. 

Quando il presidente russo si fa fotografare a torso nudo nella foresta, o mentre pesca in qualche torrente selvaggio, molto spesso accanto a lui c'è Sergey Shoigu: oltre che ministro della Difesa è anche presidente della Società Geografica russa e i due condividono la passione per la vita all'aria aperta, oltre che per l'hockey.

A Putin ha regalato due operazioni militari che hanno raggiunto con precisione chirurgica gli obiettivi: la Crimea nel 2014 e la Siria negli anni successivi. Oggi gli analisti, impegnati ad interpretare la verticale del potere al Cremlino, lo considerano tra i pochi ancora in grado di farsi ascoltare da un leader sempre più isolato e diffidente. 

Ma se le operazioni in Ucraina dovessero trascinarsi ancora a lungo anche la sua posizione si farebbe delicata. Shoigu, che ieri ha annunciato che le forze missilistiche e le flotte del Nord e del Pacifico sono entrate in allerta di combattimento rafforzata, è un esemplare unico nell'entourage putiniano: è al governo senza interruzioni dal 1991, più di 30 anni di navigazione impermeabili a ogni tempesta.

Eppure non è di San Pietroburgo e non era nemmeno nel Kgb. Una mosca bianca. Lui e Putin hanno iniziato a collaborare ai tempi della seconda guerra cecena nel 1999. L'attuale presidente, allora appena nominato primo ministro, faceva il poliziotto cattivo e giurava che avrebbe catturato e ucciso i terroristi ceceni «perfino nel cesso».

Shoigu era il «buono», o così, almeno così gli spin doctor del Cremlino lo raffiguravano: da ministro delle Emergenze nazionali (quella che noi chiameremmo Protezione civile, ma che in Russia è militarizzata), cercò di creare un corridoio umanitario per la popolazione civile, prima che la capitale Grozny fosse rasa al suolo dall'aviazione. 

Entrambi appartenevano al partito al potere, che poi diventerà l'attuale «Russia Unita» di Putin. Fino al 2012 Shoigu rimase ministro delle Emergenze per approdare poi alla Difesa. Una carriera atipica, la sua, fin dalla provenienza. È nato nella regione di Tuva, nel Sud della Siberia al confine con la Mongolia, da un padre di etnia tuvana e da una madre russa, che però viveva a Lugansk, nell'Ucraina contesa.

A far decollare le sue ambizioni fu Eltsin, che nei primi anni 90 creò il ministero delle Emergenze praticamente per lui. Nelle settimane della crisi ucraina ha assunto toni da duro, definendo «non umani» i «nazionalisti» al governo a Kiev e poi, non più tardi della metà di febbraio, smentendo con faccia da pokerista di fronte al suo collega britannico di aver in corso alcuna preparazione per un attacco.

A lui viene attribuita l'ammodernamento delle strutture dell'esercito con la riduzione del ruolo dei coscritti, la formazione di unità più mobili e con maggiore potenza d'attacco, nonché la conclusione secondo tempi previsti del programma di adeguamento delle circa 5mila testate nucleari che la Russia può schierare. 

È stato lui a potenziare il Gru, il servizio segreto militare che ha iniziato a occuparsi di operazioni un tempo di pertinenza esclusiva del Fsb (l'ex Kgb) Qualche anno fa, quando ancora non si pensava a una modifica della Costituzione per consegnare a Putin il potere a vita, si fece il suo nome per la successione. Ora il suo futuro (e ormai anche quello del suo principale) sembra appeso all'andamento della campagna in Ucraina.

Shoigu, l'eterno falco che guida l'armata russa (e ha il pulsante atomico). Angelo Allegri l'1 Marzo 2022 su Il Giornale.

Cinico e di successo, al governo dal '91. Dalle Emergenze alla Difesa, al fianco dello Zar.

È l'uomo dell'arsenale atomico e delle nuove, modernizzate Forze Armate russe. Ma è anche una delle persone più vicine a Putin in queste settimane di guerra. Quando il presidente russo si fa fotografare a torso nudo nella foresta, o mentre pesca in qualche torrente selvaggio, molto spesso accanto a lui c'è Sergey Shoigu: oltre che ministro della Difesa è anche presidente della Società Geografica russa e i due condividono la passione per la vita all'aria aperta, oltre che per l'hockey.

A Putin ha regalato due operazioni militari che hanno raggiunto con precisione chirurgica gli obiettivi: la Crimea nel 2014 e la Siria negli anni successivi. Oggi gli analisti, impegnati ad interpretare la verticale del potere al Cremlino, lo considerano tra i pochi ancora in grado di farsi ascoltare da un leader sempre più isolato e diffidente. Ma se le operazioni in Ucraina dovessero trascinarsi ancora a lungo anche la sua posizione si farebbe delicata.

Shoigu, che ieri ha annunciato che le forze missilistiche e le flotte del Nord e del Pacifico sono entrate in allerta di combattimento rafforzata, è un esemplare unico nell'entourage putiniano: è al governo senza interruzioni dal 1991, più di 30 anni di navigazione impermeabili a ogni tempesta. Eppure non è di San Pietroburgo e non era nemmeno nel Kgb. Una mosca bianca.

Lui e Putin hanno iniziato a collaborare ai tempi della seconda guerra cecena nel 1999. L'attuale presidente, allora appena nominato primo ministro, faceva il poliziotto cattivo e giurava che avrebbe catturato e ucciso i terroristi ceceni «perfino nel cesso». Shoigu era il «buono», o così, almeno così gli spin doctor del Cremlino lo raffiguravano: da ministro delle Emergenze nazionali (quella che noi chiameremmo Protezione civile, ma che in Russia è militarizzata), cercò di creare un corridoio umanitario per la popolazione civile, prima che la capitale Grozny fosse rasa al suolo dall'aviazione. Entrambi appartenevano al partito al potere, che poi diventerà l'attuale «Russia Unita» di Putin. Fino al 2012 Shoigu rimase ministro delle Emergenze per approdare poi alla Difesa.

Una carriera atipica, la sua, fin dalla provenienza. È nato nella regione di Tuva, nel Sud della Siberia al confine con la Mongolia, da un padre di etnia tuvana e da una madre russa, che però viveva a Lugansk, nell'Ucraina contesa. A far decollare le sue ambizioni fu Eltsin, che nei primi anni 90 creò il ministero delle Emergenze praticamente per lui. Nelle settimane della crisi ucraina ha assunto toni da duro, definendo «non umani» i «nazionalisti» al governo a Kiev e poi, non più tardi della metà di febbraio, smentendo con faccia da pokerista di fronte al suo collega britannico di aver in corso alcuna preparazione per un attacco. A lui viene attribuita l'ammodernamento delle strutture dell'esercito con la riduzione del ruolo dei coscritti, la formazione di unità più mobili e con maggiore potenza d'attacco, nonché la conclusione secondo tempi previsti del programma di adeguamento delle circa 5mila testate nucleari che la Russia può schierare. È stato lui a potenziare il Gru, il servizio segreto militare che ha iniziato a occuparsi di operazioni un tempo di pertinenza esclusiva del Fsb (l'ex Kgb)

Qualche anno fa, quando ancora non si pensava a una modifica della Costituzione per consegnare a Putin il potere a vita, si fece il suo nome per la successione. Ora il suo futuro (e ormai anche quello del suo principale) sembra appeso all'andamento della campagna in Ucraina.

Sergei Shoigu, fedelissimo di Putin: chi è il ministro della Difesa con uno dei tre codici per l’atomica. Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 2 marzo 2022.

Il generale e ministro della Difesa che ha preparato l’offensiva ha la madre ucraina: applica senza discutere ogni direttiva. Con Putin ha in comune l’abitudine di andare a pesca e cavalcare a torso nudo. 

Dopo l’invasione della Crimea ottenuta senza sparare un colpo nel 2014, il ministro della Difesa Sergej Shoigu si era sentito forse come Alessandro III, il padre dell’ultimo zar Nicola II. «La sovranità della Russia è garantita dal suo esercito e dalla sua flotta», sentenziò ripetendo la frase dello zar il quale aveva spiegato ai suoi collaboratori che le due armi erano gli unici alleati veri sui quali il suo Paese poteva contare nel mondo. Per differenziarsi, Shoigu decise di andare oltre: «Saranno sempre il bastione contro il quale nel corso dei 1.152 anni di esistenza del nostro Stato ha sbattuto la faccia più di un imperatore». 

Il marziale ministro-generale non sarà fortissimo in storia, visto che ha dimenticato i mongoli che spadroneggiarono in Russia per più di due secoli e i giapponesi che le suonarono alla flotta imperiale nel 1905. Ma certamente è il più fedele dei fedeli collaboratori di Vladimir Putin , quello sul quale il Capo può fare affidamento in ogni momento. 

Il sessantaseienne Sergej non viene da San Pietroburgo come buona parte degli amici di Vladimir Vladimirovich, non è mai stato tra le file dei democratici e riformisti, non rappresenta un clan di potere. Potrebbe essere sostituito in qualunque momento e può contare solo sulla benevolenza del numero uno. Del quale applica senza discutere qualunque direttiva. Anzi, da esperto servitore dello Stato, ha sviluppato la capacità di intuire, subodorare i suoi desideri e quindi anticiparli. Così, ad esempio, pur avendo una madre nata in Ucraina non ci ha pensato due volte a organizzare a puntino le «esercitazioni pacifiche, non aggressive e sul territorio russo» che servivano a mettere le truppe nella condizione di invadere l’Ucraina al minimo cenno. 

Talmente fedele da essere falco, più falco dello zar, quando Putin la pensa così (cioè adesso); ma anche pronto a diventare fervente colomba se il patron cambiasse idea. 

Nella riunione del Consiglio di Sicurezza di una settimana fa, tutti gli altri si sono limitati a dire che, certo, erano d’accordo con Putin nell’approvare il riconoscimento dell’indipendenza delle due repubbliche del Donbass. Così ora i capi dei servizi segreti, il responsabile degli Esteri e tutti gli altri non si possono tirare indietro. Lui, l’inflessibile ministro della Difesa, è andato oltre, dando il là all’accusa più inverosimile contro Kiev: che stesse preparandosi a diventare «nucleare». Evitando di pronunciarsi sul riconoscimento delle repubbliche (chissà, magari domani il signore del Cremlino cambiasse idea), Shoigu ha sparato le sue cartucce: «In Ucraina ci sono più tecnologie, specialisti e capacità produttive che in Iran e nella Corea del Nord». 

(Tra l’altro: è proprio Shoigu ad avere il secondo dei codici nucleari necessari per lanciare i razzi atomici russi. Una delle chiavi è nelle mani del presidente, una nelle sue, la terza in quella del capo di Stato maggiore interforze; se anche una di esse viene annullata, la procedura si blocca).

Nato e cresciuto nell’Urss, Shoigu è abituato da sempre ad assecondare il volere di chi è alla guida. Viene dalla repubblica autonoma di Tuva da famiglia mista, padre della autoctona tribù turcofona e madre ucraina. Dopo una carriera nel Partito comunista, con il presidente Eltsin divenne ministro della Protezione Civile. 

Con Putin legò subito grazie alla comune passione per la pesca, le cavalcate a torso nudo in Siberia, il bagno nei grandi fiumi. Venne promosso alla Difesa nel 2012 quando Putin tornò alla presidenza dopo la parentesi Medvedev. E da allora non si è più spostato.

Matteo Sacchi per “il Giornale” l'1 marzo 2022.

C'è un vecchio modo di dire Russo: «Il Cremlino ha molte torri». Sta a significare che è sempre difficile capire come si muove il governo di Mosca, perché al suo interno si scontrano sotto traccia diverse componenti. 

Nel caso della crisi Ucraina la nota impenetrabilità, di matrice sovietica, viene accresciuta dal così detto «fumo della guerra». Però ci sono alcuni elementi chiave della vicenda, che si muovono attorno a Putin, di cui è bene avere a disposizione un piccolo Who is Who. Uno dei personaggi chiave dell'invasione russa è Dmitry Kozak, Putin lo porta con sé da quando era consigliere del sindaco di San Pietroburgo per gli Affari Internazionali.

Un legame di lunghissima data, quindi, che in parte esula dagli incarichi che Kozak ricopre, di volta in volta, ora è vicedirettore dello Staff del Cremlino. L'ex Spetnatz sarebbe secondo alcune fonti al vertice di quelle operazioni speciali che avrebbero dovuto essere la svolta del conflitto. 

E al momento non hanno funzionato così bene. La storia non si ripete mai però, giusto per fare un esempio: Galeazzo Ciano aveva garantito al Duce di aver corrotto gran parte dei generali greci prima dell'inizio della guerra d'Albania. Sappiamo come è finita. Ieri con l'arrivo di Vladimir Medinsky come capo delle trattative, Kozak è stato dirottato, ufficialmente almeno, su: «aspetti sociali, umanitari e altri aspetti dello sviluppo delle repubbliche del Donbass».

Al lato opposto della scacchiera interna, sempre parlando di operazioni coperte si troverebbe, Sergei Naryshkin: altro fedelissimo della prima ora di Putin e a capo dei servizi segreti esterni della Federazione. Naryshkin è stato sempre considerato uno dei falchi, al pari del suo collega al vertice dei servizi interni Alexander Bortnikov (sono già finiti nel mirino delle sanzioni statunitensi).

Eppure sembra che, in questo caso, sia esitante e che non si possa considerare completamente in linea con Putin, tanto da beccarsi anche qualche umiliazione pubblica. Anche perché le operazioni di sorveglianza e sabotaggio sull'Ucraina restano sotto la competenza dell'Fsb (il servizio di sicurezza interno, e questo spiega cosa i russi pensino dell'indipendenza Ucraina) e, quindi, il contrasto rispetto alle aspettative sulla campagna potrebbe nascere anche da informazioni diverse e contrastanti.

Ora la prudenza di Naryshkin potrebbe essere rivalutata? Di certo al centro della crisi si muovono due altri attori fondamentali. Sono Sergei Lavrov e il ministro della difesa Sergei Shoigu. 

I due Sergei sono un po' i «Mister Wolf» di Putin i suoi «risolvi problemi». Vecchie volpi della politica, esenti da scandali, carriere iniziate ai tempi dell'Urss. Shoigu ha contribuito molto allo snellimento dei quadri delle forze armate russe che avrebbe dovuto proiettarle verso una maggiore modernità e flessibilità.

Sicuramente c'è riuscito sulle unità di punta. Ma forse ha creato un "Orso da combattimento" tutto denti ma con poco corpo dietro. Lavrov è un duro della politica internazionale e sin qui ha gestito la partita a scacchi diplomatica che gli è stato chiesto di gestire senza una sbavatura rispetto a Putin. 

Se ha provato la sensazione di essere finito fuori dalla scacchiera per essere proiettato in un orribile poker, con il bluff più azzardato degli ultimi vent'anni, è riuscito a non darlo troppo a vedere. Di certo è un uomo potente e anche Putin non può abusare della sua fedeltà.

Non si può chiudere questa carrellata senza citare il generale Valery Gerasimov, capo di Stato maggiore delle Forze armate. Gerasimov, uno dei maggiori strateghi militari di Mosca è famoso per le sue teorizzazioni sull'Hybrid warfare. 

Proprio quello che viene usato in Ucraina. Ma in questa operazione pare essere messo in secondo piano ora come ora, almeno all'apparenza. In pubblico, quando si annuncia deterrenza nucleare, compare con il broncio. Ne ha ben donde, pare i militari avrebbero preferito opzioni meno estreme. E in Russia non sono i soli. Ma al momento il Cremlino avrà pure molte torri ma un solo Putin.

Letizia Tortello per “la Stampa” l'1 marzo 2022.

La musica di accompagnamento della delegazione russa a Gomel suonava come se Putin volesse fare fallire i negoziati. A guidarli, per il Cremlino, non c'era un diplomatico o un militare, ma l'ex ministro della Cultura Vladimir Medinsky, nazionalista estremo, fedelissimo al presidente, che ha contribuito a costruire la propaganda in questi anni. Autore di libri di grande diffusione, sostiene che fin dalle origini della Russia, l'Occidente ha fatto di tutto per impedirne l'ascesa.

Le sue tesi sull'esistenza di popoli non russi nell'impero zarista e in Unione Sovietica sembrano un modello perfetto per negare all'Ucraina il diritto di esistere, come vorrebbe Putin. Medinsky è anche produttore di film di guerra, pieni di falsi storici: «Non abbiamo bisogno di storia, ma di leggende sacre», è una delle frasi topiche. Come dire che se mandi a negoziare uno degli ideologi del disegno zarista, non sei proprio disposto ai compromessi. Ad accompagnarlo, seconde file e falchi.

Il primo è uno dei vice del ministro degli Esteri Lavrov, Andrei Rudenko, che cura i rapporti con le repubbliche ex sovietiche, soprattutto Ucraina, Bielorussia e Moldavia. Poi un vice della Difesa, Aleksandr Fomin, il presidente della Commissione Esteri della Duma, Leonid Slutskiy, e il rappresentante russo nel gruppo di contatto trilaterale, Boris Gryzlov. Gli ultimi due sono stati sanzionati da Ue e Usa nel 2014 per il ruolo attivo nell'annessione della Crimea.

Comunque, non appartengono alla ristretta cerchia che influenza davvero la politica russa. Gryzlov è stato presidente del parlamento russo nel primo decennio del governo Putin, è ricordato per aver affermato che la Duma non è luogo di discussione. Slutskiy è uno di quegli oratori d'élite, non estraneo a scandali: nel 2018, diverse importanti giornaliste l'hanno accusato di molestie, lui ha negato, le accuse sono finite nel nulla.

Sul lato ucraino, la composizione dei negoziatori mostra due cose: quanto la leadership di Kiev abbia preso con serietà i colloqui, e quanto sia lontana dalla realtà l'affermazione ripetuta dai russi, secondo cui il Paese «nazista» sopprime sanguinosamente tutto ciò che non è purosangue ucraino. Capofila, il ministro della Difesa, Oleksiy Resnikov. Con lui, Davyd Arachamia, passaporto ucraino solo dal 2015. 

Quando aveva 13 anni, la sua famiglia è stata tra i 250 mila georgiani costretti a lasciare l'Abkhazia durante i combattimenti del 1992, la regione della Georgia riconosciuta dopo il 2008 «Stato indipendente». Oggi è imprenditore di successo, raccoglie denaro per le forze armate ucraine. Con loro anche Mikhail Podoliak, consigliere presidenziale: ha vissuto in Bielorussia, ha lavorato come giornalista per media in lingua russa, fino a quando è stato deportato in Ucraina nel 2004 per articoli critici con Lukashenko.

Infine, c'era Rustem Umerov, tataro di Crimea eletto nel 2019 per un partito avversario di Zelensky, tiene i rapporti con le repubbliche filorusse. Nel mezzo avrebbe dovuto esserci l'undicesimo uomo, Roman Abramovich, oligarca del business post-sovietico in Russia, patron del Chelsea e mister 14 miliardi di dollari. L'avevano voluto gli ucraini come mediatore, ma è giallo: nelle foto ufficiali non compare.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 28 febbraio 2022.

I consiglieri più stretti di Vladimir Putin sono apparsi sconvolti quando ieri ha lanciato la sua bomba sulla preparazione delle armi nucleari. Le espressioni del generale dell'esercito Valery Gerasimov e del ministro della Difesa Sergey Shoygu sono state riprese mentre il presidente russo metteva in stand-by il suo arsenale atomico. 

Un alto funzionario della difesa degli Stati Uniti ha detto la scorsa notte che il passo di Putin è «potenzialmente mettere in campo forze che se c'è un errore di calcolo potrebbero rendere le cose molto, molto più pericolose». E un alto funzionario della Casa Bianca lo ha descritto come «l'ennesimo passo dell’escalation e totalmente inutile». 

Hanno affermato in una dichiarazione: «In ogni fase di questo conflitto, Putin ha fabbricato minacce per giustificare azioni più aggressive. Non è mai stato minacciato dall'Ucraina o dalla Nato, che è un'alleanza difensiva che non combatterà in Ucraina». «L'unico motivo per cui le sue forze devono affrontare una minaccia oggi è perché hanno invaso un paese sovrano e privo di armi nucleari».

Max Bergmann, un ex funzionario del Dipartimento di Stato, ha definito il discorso di Putin prevedibile ma pericoloso. «Le cose potrebbero andare fuori controllo», ha avvertito. 

Ieri sera non era chiaro se Putin si riferisse a missili nucleari a corto raggio o intercontinentali. Uno studio statunitense pubblicato questo mese ha suggerito che, nonostante centinaia di miliardi di sterline di investimenti da parte dei paesi della NATO negli ultimi decenni, i suoi stati membri rimangono significativamente vulnerabili ai missili balistici intercontinentali. 

Si dice che la migliore possibilità della Nato di bloccare un'arma nucleare sia il sistema di difesa missilistica balistica Aegis, che tenterebbe di farla esplodere dal cielo. È montato su navi da guerra statunitensi che, ai fini della difesa europea, hanno sede in Spagna. L'equivalente terrestre del sistema, l'Aegis Ashore, è distribuito in Romania.

La comparsa dei generali alla conferenza stampa del Cremlino di ieri è avvenuta poco più di quindici giorni dopo che avevano detto ad alti funzionari britannici che non avrebbero invaso l'Ucraina. 

La promessa è stata fatta a Ben Wallace - che ha compiuto la prima visita a Mosca da parte di un segretario alla difesa del Regno Unito in 20 anni - e all'ammiraglio Sir Tony Radakin, capo di stato maggiore della difesa. 

Circa il 90 per cento di tutte le testate nucleari sono di proprietà di Russia e Stati Uniti, che hanno ciascuna circa 4.000 testate nelle loro scorte militari. Nessun altro stato dotato di armi nucleari vede la necessità di più di qualche centinaio di testate per la sicurezza nazionale. 

A livello globale, l'inventario complessivo delle armi nucleari è in calo, ma il ritmo delle riduzioni è rallentato rispetto agli ultimi 30 anni. Le riduzioni stanno avvenendo solo perché gli Stati Uniti e la Russia stanno ancora smantellando le testate precedentemente ritirate.

La Russia ha affermato che il suo missile nucleare più potente, l'ipersonico "Satan-2" da 16.000 miglia all'ora, può ospitare 12 testate nucleari e potrebbe distruggere il Regno Unito. 

Il Cremlino ha aumentato significativamente il numero di lanci di prova di armi atomiche quest'anno, forse in previsione del conflitto con l'Ucraina. Ma ieri sera un ex ufficiale dell'intelligence militare del Regno Unito ha detto «non dovremmo preoccuparci immediatamente». 

Philip Ingram ha dichiarato: «La capacità nucleare della Russia è stata per molti anni una priorità molto alta per l'intelligence occidentale. Quindi è probabile che qualsiasi cambiamento reale nel loro stato venga osservato da vicino. Questo è un tentativo di deterrenza da parte di Putin, non una dichiarazione che ha alcuna intenzione immediata di usare armi nucleari. Tuttavia, devi ricordare che se minacci qualcosa, è credibile solo se sei pronto a usarli».

Paolo Valentino per il "Corriere della Sera" il 28 febbraio 2022.

Vladimir Putin ha messo in stato di allerta la forza di dissuasione russa, che comprende anche le forze nucleari. È una misura che per sé significa poco in termini pratici, ma che lancia un segnale allarmante sul livello di tensione globale raggiunto, in conseguenza della crisi ucraina. 

Il presidente russo ha motivato la sua decisione con «le dichiarazioni e l'atteggiamento aggressivo» di diversi leader di Paesi membri della Nato. Putin ha fatto il suo annuncio circondato dagli alti gradi militari russi, compresi il ministro della Difesa Sergej Shoigu e il capo di Stato maggiore Valerij Gerasimov.

Il leader del Cremlino ha fatto anche riferimento alle «sanzioni illegittime» e alle forniture d'armi all'Ucraina, decise da numerose capitali europee, non ultima la Germania che fin qui si era rifiutata di consegnare armi a Kiev. 

Giovedì scorso, quando aveva dato il via all'azione militare contro l'Ucraina, Putin aveva minacciato con «conseguenze mai viste» chiunque avesse osato contrastare l'operazione delle truppe russe. Poco prima, nella stessa frase, aveva definito la Russia «la più forte potenza nucleare del mondo». 

Secondo il Sipri, l'Istituto per la Ricerca sulla pace che ha sede a Stoccolma, la leadership russa non ha però alcuna intenzione di usare l'arma nucleare in collegamento alla crisi ucraina: «Non credo che un conflitto atomico sia una probabile conseguenza di questa crisi», ha detto il direttore Dan Smith alla Dpa.

Perché allora Putin ricorre a una mossa, fosse pure difensiva, che ricorda i periodi più bui della Guerra Fredda, quando numerose volte le forze di dissuasione nucleare sovietica e americana vennero messe in stato di massima allerta, dalla crisi dei missili a Cuba nel 1962 a quella seguita all'abbattimento del Boeing coreano da parte dei sovietici nel 1983? 

Si tratta sicuramente dell'ennesimo cambio di passo di Putin nella guerra di pressione psicologica e di propaganda contro gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali. Ma è tuttavia indicativo dell'atteggiamento mentale del leader del Cremlino, deciso ad accreditare il suo profilo guerresco e antagonista verso l'Occidente.

L'ambasciatrice americana all'Onu, Linda Thomas-Greenfield, ha definito la mossa «una gravissima escalation»: «Putin si muove in maniera sempre più inaccettabile», ha aggiunto. «La sola idea di un conflitto nucleare è semplicemente inconcepibile» ha detto invece il portavoce dell'Onu Stephane Dujarric. 

Reazione dura anche dalla Casa Bianca: «Putin sta fabbricando minacce che non esistono per giustificare un'ulteriore aggressione», ha affermato la portavoce Jen Psaki. «Lo abbiamo visto farlo più e più volte», ha detto ancora Psaki, «in nessun momento la Russia è stata sotto minaccia della Nato, né la Russia è stata sotto minaccia dell'Ucraina». In ogni modo, gli Stati Uniti hanno «fiducia nel fatto che possono difendersi e difendere gli alleati», si limita ad affermare un funzionario del Pentagono citato dai media americani.

Mentre il numero uno della Nato, Jens Stoltenberg, ha condannato come «irresponsabile» e «pericoloso» il comportamento del presidente russo, Vladimir Putin, che ha posto in stato di allerta le forze di deterrenza, comprese quelle nucleari. 

Interessante vedere come si comporta nei fatti il processo di attivazione delle difese atomiche. La catena di comando del sistema nucleare russo è modellata su quella sovietica e si basa su una concatenazione a tre chiavi (che sono in realtà codici di lancio). 

Una è nelle mani del presidente, una in quelle del ministro della Difesa e la terza in quella del capo di Stato maggiore interforze. Se anche uno solo di quei codici viene annullato, la procedura si blocca.

Ecco l'altro braccio nucleare di Putin: il missile da crociera 9M729. Paolo Mauri il 3 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il missile da crociera 9M729, o SSC-8 in codice Nato, ha causato l'uscita degli Usa dal Trattato INF a causa della sua gittata di 2500 chilometri.  

La Russia, oltre alla triade nucleare strategica, può contare anche su un certo numero di vettori missilistici da crociera basati a terra: si tratta dei nuovi missili Novator 9M729. Il missile, designato SSC-8 in codice Nato, è un GLCM (Ground Launched Cruise Missile) con una portata di 2500 chilometri. Il suo sviluppo da parte della Russia ha portato al ritiro degli Stati Uniti, nel 2019, dal Trattato INF sulle forze nucleari intermedie siglato nel 1987.

L'SSC-8 è lungo circa 6-8 metri per 0,514 metri di diametro. Il missile impiega un sistema di guida sviluppato dal produttore russo della difesa GosNIPP e monta una singola testata da 450 chilogrammi. Gli analisti statunitensi ritengono che sia anche in grado di essere dotato di armamento nucleare. Il vettore da crociera viene lanciato da un veicolo ruotato simile a quello del sistema Iskander-M: si tratta della K (o N secondo altre fonti), dove K sta per krylataya (alato) – che è dotata generalmente di due (o quattro) missili da crociera R-500 (SSC-7) tipo 9M728, testati per la prima volta nel 2007 che risultano essere un’evoluzione del missile Rk-55 Granat. La quota di tangenza massima del missile SSC-8 si aggira intorno ai 6mila metri ma quella di crociera è di cento. Alcune fonti lo farebbero rientrare nella famiglia dei missili Kalibr. La velocità finale sul bersaglio di questa versione del missile si aggira intorno a Mach 3, ma la sua velocità di crociera è di 900 km/h ed è garantita da un motore tipo a turboventola che si accende dopo la spinta iniziale generata da un razzo booster a combustibile solido.

Non bisogna confondere le due versioni di Iskander: la M lancia un missile balistico a corto raggio (portata di 500 chilometri), la K, come già detto, due tipi di vettori da crociera (l'SSC-7 e 8).

A ottobre del 2020 il presidente russo Vladimir Putin aveva affermato che Mosca era disposta a non schierare i missili da crociera 9M729 nella parte europea del Paese, quindi “al di qua degli Urali”. In particolare il leader russo aveva detto che “rimanendo impegnata in una posizione coerente sulla piena conformità del missile 9M729 ai requisiti del Trattato Inf precedentemente esistente, la Federazione Russa tuttavia è pronta, in buona fede, a continuare a non schierare missili 9M729 nella parte europea del Paese, ma solo a condizione di reciproci passi da parte dei paesi della Nato che escludano il dispiegamento in Europa di armi precedentemente proibite dal Trattato Inf”. Putin aveva sottolineato di voler considerare “opzioni concrete per misure di verifica reciproca per eliminare le preoccupazioni esistenti; in particolare potremmo parlare di misure di verifica nel rapporto dei complessi Aegis Ashore con i lanciatori Mk 41 presenti nelle basi Usa e Nato in Europa, nonché dei missili 9M729 presso le strutture delle Forze Armate russe nella regione di Kaliningrad”. Tali misure di verifica permetterebbero di confermare l’assenza di sistemi nucleari a raggio medio e intermedio a terra, oltre che permettere la verifica di armi, sulle caratteristiche e sulla classificazione delle quali le parti non potevano concordare, come il missile 9M729, presso le strutture oggetto degli accordi.

Il problema della Russia è infatti rappresentato dalla possibilità che i lanciatori del sistema antimissili balistici Aegis Ashore presente in Romania, e presto attivi anche in Polonia, possano venire usati per lanciare missili da crociera tipo Tomahawk (con testata atomica) essendo la stessa versione – modificata – dei lanciatori usati sugli incrociatori statunitensi classe Ticonderoga e sui cacciatorpediniere classe Arleigh Burke. Questa diatriba, che si protrae sin dall'inizio della volontà statunitense di schierare in Europa tali sistemi antimissile (all'incirca con la prima amministrazione Obama), ha causato la fine del tratto sulle forze nucleari intermedie (INF).

Nel febbraio 2017, funzionari statunitensi hanno riferito che la Russia aveva schierato due battaglioni missilistici di SSC-8: uno presso il poligono di prova missilistico russo Kapustin Yar, situato nel sud-ovest della Russia, il secondo è stato spostato nel dicembre 2016 da Kapustin Yar a una base operativa sconosciuta. Ogni battaglione include quattro lanciatori e ogni lanciatore viene fornito con circa sei missili. A dicembre 2018, la Russia si stimava avesse prodotto meno di 100 missili SSC-8.

Attualmente non sappiamo se gli Iskander-K (o N) siano presenti nell'oblast di Kaliningrad, o se i due battaglioni di 9M729 siano stati spostati nella Russia europea: non risultano movimenti in tal senso e le recenti esercitazioni missilistiche su larga scala effettuate dalla Russia hanno mostrato almeno un battaglione di Iskander-K “oltre gli Urali”.

 Fu disobbedendo che Arkhipov scongiurò la terza guerra mondiale. Davide Bartoccini il 3 Marzo 2022 su Il Giornale.

Un ufficiale sovietico di un sottomarino nucleare evità la catastrofe. Il suo comandante voleva lanciare armi nucleari sugli americani mentre era al largo di Cuba nel 1962: lui, al vertice della tensione, non rispettò l'ordine.  

Non è detto che sia il caso di ricordare al mondo quanto codici nucleari, chiavi, missili e bottoni affidati all'uomo che siede all'apice della catena di comando possano decidere le sorti del mondo. Eppure, ora che tutti pensano alle parole di Vladimir Putin e all'escalation che ci condurebbe a un passo dalla Terza Guerra Mondiale, l'esempio di Vasili Alexandrovich Arkhipov ci è utile a confidare nei pensieri migliori.

27 Ottobre 1962, Mar dei Caraibi, poco al largo dell'isola di Cuba. In piena crisi di missili, un sottomarino sovietico classe Foxtrot, il B-59, viene intercettato durante l’embargo imposto all’isola comunista. Embargo completo di ogni nave, in entrato o in uscita, a causa dell’individuazione da parte di alcuni aerei spia inviati dagli Stati Uniti di missili a medio raggio installati a Cuba dai sovietici.

A bordo del sottomarino, che all’insaputa dei cacciatorpediniere americani custodisce siluri armabili con testate nucleari, non hanno contatti con Mosca da diverso tempo. Ma gli ufficiali hanno anche l’autorizzazione ad usarle, quelle armi nucleari, in caso di pericolo.

Cariche di profondità depotenziate - suggerite dall'allora segretario alla Difesa americano, Robert McNamara - per colpire il sottomarino avversario “senza danneggiarlo” ma in segno di avvertimento, vengono lanciate per farlo risalire immediatamente in superficie. Un sottomarino in immersione potrebbe risultare pronto a condurre atti di guerra.

A bordo del sottomarino, il risultato non è essenzialmente quello sperato. Un ufficiale del Kgb presente a bordo, Vadim Orlov, confermerà in seguito che le cariche di profondità depotenziate non apparivano più amichevoli di altre cariche di profondità. Motivo per cui il comandante del sottomarino Valentin Savitsky crede di essere stato attaccato, convincendosi che la guerra ha avuto inizio. L'ordine è di preparare le testate e di fare fuoco, appena pronti, su una delle mazza dozzina di unità nemiche che sono a portata di tiro. C’è solo una procedura di sicurezza da convalidare: per lanciare armi nucleari dal sottomarino B-59, che resta per quattro ore nelle profondità nel Mar dei Caraibi braccato dagli americani, deve avere l'accordo unanime dell’ufficiale politico Ivan Maslennikov, e del suo secondo in comando, Arkhipov. Il primo concorda con l’ordine, il secondo, allora 34enne, non concorda.

È contrario all'ordine impartito dal superiore, lo contrasta, motiva il suo agire con una logica inoppugnabile fino a convincerlo: “Queste non sono cariche letali. Stanno solo dicendo di riemergere in superficie. Sanno che siamo qui, vogliono parlarci, non dia l'ordine”. Se avessero voluto davvero affondarli, ci sarebbero riusciti, finiscono col credere a bordo del sottomarino. Il comandante ascolta il sottoposto e decide di riemergere. È tutto vero. Gli americani intimano al sottomarino di cambiare rotta e tornare indietro in rispetto dell'embargo vigente. Non effettuano nessuna ispezione a bordo. Tutti, da una parte e dall’altra dei binocoli tirano un sospiro di sollievo.

La crisi dei missili cubani che ha visto il presidente americano John F. Kennedy e il segretario generale comunista Nikita Chruščëv seduti al tavolo del "braccio di ferro" nucleare per due lunghissime settimane, terminerà il giorno seguente, alle condizioni che conosciamo. Ma trascorreranno 50 anni prima che il mondo intero conosca la verità su questa storia incredibile: uno dei punti più vicini all'inizio della terza guerra mondiale che il mondo abbia mai sfiorato.

Non è difficile supporre infatti quale sarebbe stato il degenerare degli eventi se il B-59 avesse ignorato il violento invito a risalire in superficie; se prima di venire affondato avesse lanciato armi nucleari contro una o più unità della Marina Militare statunitense che erano schierate al largo di Cuba. La “reazione a catena” innescata da quel primo colpo avrebbe condotto in poche ore alla guerra totale: fino al lancio, probabile e non auspicabile, di missili balistici intercontinentali armati con testate nucleari.

Arkhipov è morto all'età di 72 anni, nel 1998. Nel 2017 l'Institute of Engineering and Technology at the Savoy Place di Londra ha deciso di rendere omaggio a quell'eroe nascosto alla storia rintracciando la figlia, Yelena Andriukova, e il nipote, Sergei Andriukova per consegnare loro un premio d'encomio a nome di tutto il mondo. Nessuno nella famiglia di Arkhipov aveva mai sentito i risvolti drammatici e straordinari di quella storia. Il comandante in seconda del sottomarino B-59 l’aveva tenuta segreta fino al giorno della sua morte. Secondo l’intervista condotta dal giornalista americano che seguì i fatti per il The Atlantic, quando i familiari del vecchio Vasili lo trovavano immerso nella scrittura di ricordi e piccoli appunti sui suoi diari, alla domanda di cosa stesse scrivendo, pare che lui fosse solito rispondere: "Non posso dirlo adesso, ma un giorno lo saprete". In seguito alle conferme tutti i documenti desecretati esistenti sull’accaduto, Valisi Arkhipov è stato soprannominato dalla storia "l'uomo che ha salvato il mondo”.

Oggi e nei momenti futuri che precedono ogni escalation che può condurre il mondo verso l’oblio, confidiamo nell’esistenza di centinaia di uomini come Arkhipov. Gli eroi che non smetteremo mai di celebrare. Siate certi che da una parte e dall’altra di questo assetto bipolare che stanno di nuovo imponendoci, ve ne sono.

 

Il limite mai superato. Paolo Guzzanti il 28 Febbraio 2022 Su Il Giornale.  

È tornata la bomba atomica. Non più come la più mostruosa e dunque inutilizzabile arma creata dall'uomo, ma al contrario come una delle tante armi possibili e dunque usabili. La novità è stata introdotta dal presidente della Federazione russa Vladimir Putin il quale, poche ore prima di lanciare l'attacco contro l'Ucraina ha presenziato ed ha diretto come un grande show le esercitazioni in Bielorussia, dedicate esclusivamente ai nuovi mille modelli di bombe atomiche in tutti i formati, confezioni, sistemi missilistici per spedirle e distribuirle a velocità finora sconosciute anche nello spazio, per farle arrivare con certezza sui bersagli. Ieri il presidente russo ha compiuto un passo ulteriore verso la normalizzazione di questi mostri bellici. Ha annunciato cioè di aver dato l'ordine al suo ministro della Difesa, come risposta alle sanzioni decise da Europa e Stati Uniti, di mettere in «stato di allerta» le testate nucleari, il che equivale ad estrarre la pistola dal fodero nei duelli del Far West, o inquadrare l'obiettivo sul radar prima di tirare il grilletto.

Il mondo è rimasto sbalordito, perché anche ai tempi più feroci della Guerra fredda, valeva il principio dell'«equilibrio del terrore» grazie al quale siamo ancora vivi. L'idea, cioè, secondo cui nessuno può vincere una guerra usando armi nucleari, perché anche se tu mi distruggi, prima che io muoia potrò sempre ordinare a un mio sottomarino nascosto sotto la crosta del Polo di lanciare missili armati sulle tue città e distruggerti. Vladimir Putin sostiene da tempo basta seguire il suo canale YouTube sottotitolato in inglese che si tratti di una sciocchezza che è servita soltanto a rendere codardi i suoi predecessori e a far smembrare l'Unione Sovietica che rivendica gli antichi confini, compresi i cosiddetti «Paesi satelliti» come la Polonia, la Romania, l'Ungheria e le Repubbliche Baltiche che da tempo hanno aderito alla Nato.

Quando qualcuno del suo ristretto pubblico gli ha chiesto se non avesse paura di ricevere altrettante bombe atomiche dall'eventuale nemico, si è stretto nelle spalle e, senza enfasi e con l'accenno di un sorriso fatalista, ha risposto che, pazienza, vorrà dire che andremo in Paradiso. Naturalmente tutti speriamo che un evento del genere non accada mai, ma il semplice fatto che se ne parli come di una possibilità, cambia la prospettiva esistenziale di ciascun essere umano. Modifica cioè in modo catastrofico la percezione della propria sicurezza e del futuro, provocando un effetto che va oltre la psicologia ed entra nella strategia: di fronte all'uso di «arma fine di mondo» (come la chiamava nel film il Dottor Stranamore il personaggio di Peter Sellers) meglio arrendersi subito e ringraziare Iddio di essere ancora vivi. Questa, dunque, l'inaspettata novità introdotta da Putin, il quale si esprime sempre in modo chiaro, dice quel che pensa e fa quel che dice, compresa l'attuale «breve operazione in Ucraina» che sta scioccando il mondo intero.

A un passo dall’atomica: quando Usa e Russia arrivarono vicini al disastro. Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.  

Catastrofi sfiorate: dalla crisi dei missili a Cuba nel 1962 all’abbaglio preso da Boris Eltsin, che scambiò un esperimento scientifico norvegese per un attacco nucleare.

Quando nel 2017 il dittatore nord-coreano Kim Jong-un condusse una serie di test missilistici, ricordando che «il bottone nucleare è sempre sulla mia scrivania», Donald Trump replicò subito su Twitter: «Qualcuno in quel Paese povero e affamato dovrebbe per favore informarlo che anch’io ho un Bottone Nucleare, ma che il mio è molto più grande e potente del suo e funziona!».

L’ultima mossa

Fa pensare a quello sfogo ormonale di celodurismo l’annuncio di Vladimir Putin (non a caso definito «un genio» dall’ex presidente americano) di aver messo in stato di allerta le forze di dissuasione nucleare della Russia. Una mossa tanto più clamorosa se si considera che meno di un anno fa, al vertice di Ginevra, lo stesso presidente russo aveva firmato insieme con Joseph Biden una dichiarazione che sembrava relegare il conflitto atomico nella soffitta della Guerra Fredda: «Una guerra nucleare non può essere vinta e non dovrà mai essere combattuta».

Niente scherzi

Sin dall’inizio dell’azione militare in Ucraina, Putin ha evocato l’eventuale uso di armi nucleari contro chiunque interferisca. Ora, mettendo in allerta l’arsenale atomico, il capo del Cremlino cerca di aumentare la pressione su Kiev e soprattutto sulla comunità internazionale che la sostiene, in primo luogo gli Usa. È un momento drammatico, ma non senza precedenti. L’approccio di Putin è ben conosciuto: agitare lo spettro dell’Apocalisse per dissuadere ogni intervento convenzionale esterno o prevenire una sconfitta sul terreno. Il presidente russo annuncia al mondo che con lui non si scherza. Il problema di questa «brinkmanship», manovra al limite dell’abisso, è che aumenta vertiginosamente il rischio di una conflagrazione nucleare, inavvertita o deliberata. E la storia della Guerra Fredda è costellata di momenti fatali, nel quali per sbaglio o per scelta, il mondo si è trovato ad un passo dall’Armageddon.

L’ora di Kennedy

Forse mai come nei 13 giorni che vanno dal 15 al 28 ottobre 1962, il mondo si è trovato così vicino alla guerra termonucleare. La crisi venne innescata dalla scoperta degli americani, grazie a un aereo spia U-2, che l’Urss stava installando missili balistici a medio raggio sull’isola caraibica, in grado di colpire in pochi minuti il territorio degli Stati Uniti. Il presidente John Kennedy rispose con un blocco navale intorno a Cuba, chiedendo la rimozione dei missili e la distruzione dei siti. Sia Mosca che Washington misero i rispettivi arsenali strategici in stato di massima allerta, DEFCON 3 nel codice americano. Alla fine, Krusciov cedette accettando lo smantellamento degli ordigni, in cambio dell’impegno di Kennedy a non invadere l’isola castrista. In realtà, in una clausola rimasta segreta per 25 anni, il capo della Casa Bianca offrì in cambio anche il ritiro dei suoi missili nucleari dalla Turchia.

L’orso nemico

Quello che pochi sanno è che in quelle due settimane, ben quattro incidenti rischiarono di innescare uno scontro nucleare. Uno di questi avvenne il 25 ottobre, quando qualcuno cercò di saltare la rete di recinzione della base di Duluth, nel Minnesota. Credendo si trattasse di un sabotatore sovietico, le guardie lanciarono un allarme che presto divenne nucleare. Ma quando gli F-106 con le bombe atomiche erano già pronti al decollo, si scoprì che l’intruso era un povero orso, nomen omen nel caso dei russi.

Il sommergibile

Altri due episodi si verificarono il 27, forse il giorno più pericoloso della storia umana: nel primo il capitano di un sommergibile sovietico B-59 che voleva forzare il blocco navale intorno a Cuba, scambiò le bombe di avviso di un incrociatore americano per un attacco e armò i siluri nucleari per affondarlo. Ma il parere contrario degli altri due ufficiali di bordo, obbligatorio per regolamento, lo fecero desistere. Poche ore dopo, un U-2 americano sconfinò nello spazio aereo sovietico sopra il Mar di Bering e i comandi sovietici fecero decollare i Mig per intercettarlo. Gli Usa risposero mandando in aria una squadriglia di F-102 armati di missili atomici Falcon. Fortunatamente questi non incontrarono mai i Mig e scortarono l’U-2 verso l’Alaska. «C’è sempre un figlio puttana che non è avvertito», fu il commento di Kennedy.

Nell’estate 1974, le ultime settimane in carica prima di dimettersi, il presidente americano Richard Nixon entrò in un’acuta crisi depressiva, mostrando forti segni di instabilità emotiva. Beveva molti Martini, aveva attacchi di rabbia, si comportava in modo strano, un agente del servizio segreto raccontò che mangiava i biscotti del cane. Il segretario alla Difesa, James Schlesinger, si allarmò così tanto da chiedere al capo dello staff di girargli immediatamente ogni «ordine di emergenza che viene dal presidente, come un lancio di missili nucleari».

Difesa aerea

Nel settembre 1983, la difesa aerea sovietica distrusse il Korean Air Lines 007, entrato per sbaglio nello spazio aereo dell’Urss, con 269 persone a bordo. La tensione fra le due Superpotenze era allo zenit, il presidente Ronald Reagan ordinò il DEFCON 3. Il 26, intorno alla mezzanotte, i satelliti sovietici segnalarono alla base di Serpukhov-15 un missile intercontinentale americano Minuteman in arrivo. Poco dopo ne vennero segnalati altri 4. Ma Stanislav Petrov, l’ufficiale in comando, invece di avvisare subito i superiori come voleva la procedura, attese. L’avesse rispettata, avrebbe sicuramente scatenato la rappresaglia nucleare sovietica. Passarono 23 interminabili minuti. Petrov pensò che se gli Usa avessero voluto attaccare l’Urss, non avrebbero usato solo 5 ma centinaia di missili atomici. Aveva ragione, era un falso allarme causato da un riflesso del sole. Probabilmente quell’uomo salvò il mondo dalla catastrofe.

Il passo falso di Eltsin

Il 25 agosto 1995, il presidente russo Boris Eltsin diventò il primo leader della storia mondiale ad aver attivato la valigetta con i codici di lancio nucleari. Successe dopo che i radar russi avevano intercettato un missile partito dalle coste della Norvegia. Mentre Eltsin si consultava con Pavel Graciov, il suo ministro della Difesa, chiedendosi se lanciare un contrattacco, si scoprì che il missile puntava verso il mare: era un esperimento scientifico norvegese, per studiare la luce del Nord, il cui lancio era stato annunciato più di un mese prima.

Quante armi nucleari hanno Usa e Russia? La minaccia della base di Kaliningrad, nel cuore dell’Europa. Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.  

La mappa degli arsenali nucleari nel mondo. I missili del Cremlino possono colpire a 2.500 km di distanza. L’Italia non possiede armi atomiche, ma le condivide secondo il programma Nato nelle basi di Ghedi e Aviano.  

Il presidente russo Vladimir Putin ha parlato della Russia come una delle «nazioni nucleari più potenti al mondo» e ha fatto capire di essere disposto a usare questa deterrenza nei confronti dell’Occidente proprio adesso che gli Stati Uniti e il G7 tutto si stanno muovendo con forza per contrastare le azioni di guerra del Cremlino contro l’Ucraina. In questo drammatico braccio di ferro (qui tutte le notizie in diretta sulla guerra in Ucraina), Putin ha ordinato la messa in stato di allerta del sistema di deterrenza nucleare , minacciando «conseguenze come non se ne sono mai viste nella storia».

La mappa delle bombe atomiche nel mondo

La Russia detiene il secondo arsenale nucleare al mondo: ben 4.500 testate. Gli Usa hanno invece 5.500 bombe. La terza potenza atomica mondiale è rappresentata dalla Cina (350 testate); a ruota seguono la Francia (300); Regno Unito (215); Pakistan (150); India (140) e Corea del Nord (10).

L’Italia non produce né possiede armi nucleari ma partecipa al programma di «condivisione nucleare» della Nato. Sul nostro territorio, in base agli accordi dell’Alleanza atlantica, ci sarebbero una cinquantina di testate suddivise tra le due basi aeree militari di Ghedi (Brescia) e Aviano (Pordenone).

I numeri della minaccia russa

L’arsenale atomico del Cremlino è così dislocato: 1.558 testate sono montate su diversi vettori (terra e aerei); 812 invece i missili balistici intercontinentali (Icbm); mentre 576 testate sono montate su sottomarini lanciamissili e 200 a bordo di caccia bombardieri.

A minacciare l’Europa è soprattutto il nuovo missile «9m729», che gli Stati Uniti hanno denunciato come violazione del Trattato Inf. Si tratta di un ordigno a media gittata, in grado di colpire fino a 2.500 km di distanza. L’esercito russo è dotato di tre basi in grado di lanciare armi atomiche: Rostov (a Sud-Est) dell’Ucraina; San Pietroburgo (a Nord) e Kalinigrad. Quest’ultima base è quasi nel cuore dell’Europa e rappresenta la minaccia più insidiosa per i Paesi Nato. Kalinigrad (quasi mezzo milione di abitanti) è infatti una enclave russa collocata tra Polonia e Lituania: dà qui ha anche un accesso al mar Baltico, di cui è uno dei porti più grandi. Da Kalinigrad, mappa alla mano, potenzialmente un missile «9m729» potrebbe colpire un obiettivo fino in Spagna ed oltre l’Irlanda. 

La catena di comando del sistema nucleare russo (come spiegato nell’analisi di Paolo Valentino) è modellata su quella sovietica e si basa su una concatenazione a tre chiavi (che sono in realtà codici di lancio). Una è nelle mani del presidente, una in quelle del ministro della Difesa e la terza in quella del capo di Stato maggiore interforze. Se anche uno solo di quei codici viene annullato, la procedura si blocca.

Ecco come funzionano i tre codici nucleari della Russia. Paolo Mauri il 27 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il presidente Putin ha emanato l'ordine di "allerta speciale" per le forze nucleari russe, vi spieghiamo cosa significa e come funziona.

Nel quarto giorno di guerra in Ucraina, con le forze terrestri russe che incontrano più resistenza di quanto previsto, e con lo Stato Maggiore russo che cerca di uscire da questa impasse, causata anche dalla cautela con cui sono penetrati nel Paese per cercare di far cadere il governo Zelensky evitando di invischiarsi in combattimenti urbani, vero incubo per chi attacca, il presidente Vladimir Putin ha ordinato alle forze strategiche della Federazione Russa (ovvero alla “triade” nucleare) di “entrare in stato di allerta speciale”.

Durante una riunione, ripresa dai media, a cui erano presenti il generale Valery Gerasimov, capo di Stato maggiore delle forze armate russe, e Sergei Shoigu, ministro della Difesa, il leader del Cremlino ha affermato che “i Paesi occidentali stanno intraprendendo azioni ostili nei confronti del nostro Paese non solo nella sfera economica. Intendo sanzioni illegittime, come tutti sanno benissimo. Ma gli alti funzionari dei principali Paesi della Nato fanno anche dichiarazioni aggressive contro la nostra nazione. Pertanto, ordino al ministro della Difesa e al capo di Stato maggiore di mettere le forze di deterrenza dell'esercito russo in regime di allerta speciale”.

Cerchiamo brevemente di capire cosa sia questa “allerta speciale”. La triade nucleare russa si sviluppa su missili balistici intercontinentali mobili e fissi (in silos), sui bombardieri strategici, e sui sottomarini lanciamissili (Ssbn). L'allerta speciale emanata da Putin non significa una condizione di allarme, e nemmeno di preallarme in senso militare, bensì una condizione di approntamento generale diversa dalla normale situazione di esercizio.

Per quanto riguarda i silos di lancio dei missili balistici intercontinentali (Icbm), cambia poco, in quanto questi sistemi vengono costantemente tenuti “in allerta”, 24 ore su 24, sette giorni su sette, 365 giorni l'anno, per poter essere rapidamente attivati e lanciati in caso di attacco atomico nemico. Nemmeno per gli Ssbn cambia molto: alcuni boomer (così vengono chiamati in gergo questi particolari sottomarini) vengono sempre tenuti in mare di pattuglia per poter essere chiamati all'azione senza preavviso. Il personale che gestisce gli Icbm mobili (ad esempio i missili tipo Yars o Topol-M), invece, in una condizione del genere viene allertato per poter rapidamente abbandonare le loro basi e procedere verso le località di lancio prefissate, disperse nell'immensità del territorio russo. Per quanto riguarda i bombardieri strategici, viene fatto qualcosa di simile, approntandone l'armamento, e richiamando tutto il personale per poterli far decollare con breve preavviso.

Non si tratta di una minaccia nucleare in sé: è il modo che ha il presidente russo di spingere l'Occidente (e l'Ucraina con esso) al tavolo negoziale. In ballo non c'è solo la fine del conflitto ucraino, ma tutta la serie di provvedimenti presi dai Paesi europei e dagli Stati Uniti come rappresaglia davanti all'invasione russa. Possiamo ipotizzare, con un certo grado di sicurezza, che la decisione di Putin di elevare il livello di prontezza delle forze nucleari strategiche, sia stato suggerito dalla Cina, che in questo conflitto rappresenta il terzo vertice di un triangolo avente come baricentro l'Ucraina: gli Stati Uniti, infatti, già lo scorso anno, avevano imposto un vero e proprio embargo sull'accesso cinese a microprocessori e semiconduttori prodotti a Taiwan, generando panico nelle industrie tech locali, e tutta la serie di ritardi nella filiera produttiva che ben conosciamo. Pechino ha quindi colto l'occasione per entrare di prepotenza nel tavolo delle trattative, almeno così crediamo, suggerendo di elevare la “minaccia nucleare”.

Ma come avverrebbe il lancio dei missili nucleari russi? Se si trattasse di un “primo colpo” (first strike) da parte di Mosca, il sistema di allarme precoce - early warning – russo che avvisa dei lanci di missili statunitensi non sarebbe chiamato in causa per ovvie ragioni. Pertanto verrebbero attivate e usate le tre valigette, simili a quella Usa che viaggia sempre col presindente americano, denominate Cheget: una per il presidente, una per il ministro della Difesa e una per il capo di Stato maggiore. Perché avvenga un lancio da parte russa ci deve essere, infatti, la conferma dell'ordine da parte di tutte e tre le massime autorità politico/militari russe: se una delle tre non viene attivata, o annulla l'ordine, il lancio viene abortito.

A questo punto l'ordine di lancio viene inviato direttamente ai singoli comandanti di silos, Icbm mobili e Ssbn, che dovrebbero eseguire tutte le procedure del caso. Si calcola che, dall'emissione dell'ordine, un Ssbn, possa eseguire il lancio entro un lasso di tempo che va dai 9 ai 15 minuti. Oppure, lo Stato maggiore russo potrebbe dirigere i lanci di missili direttamente dai centri di comando nelle vicinanze di Mosca, o da strutture alternative a Cechov, Penza e altrove. Si tratta di un lancio a distanza di missili balistici terrestri che aggirerebbe la catena di comando subordinata.

I russi hanno anche un sistema automatico di lancio del loro arsenale nucleare, chiamato Perimetr, che si attiva in caso di distruzione dei centri di comando e controllo tramite la rilevazione degli impatti, ma, come già detto, in caso di primo attacco non ha bisogno di essere considerato.

DICHIARAZIONI DI STATO.

Dialogo con lo zar. Il viaggio di Nehammer in Russia e la storica neutralità dell’Austria. Lucio Palmisano su L'Inkiesta il 12 aprile 2022.

Il cancelliere ha incontrato Putin a Mosca, il primo europeo dall’inizio dell’invasione. Vienna è molto accondiscendente verso il Cremlino: dipende in gran parte dagli idrocarburi dell’Est e si è opposta a qualunque tipo di embargo energetico.

Per il cancelliere austriaco Karl Nehammer il proposito del viaggio era chiaro fin dal principio. «È mio dovere umano fare tutto il possibile per porre fine a questa guerra o almeno per creare corridoi umanitari. Oltre al telefono, ci deve essere anche la diplomazia personale», ha dichiarato il capo di governo austriaco prima della sua partenza per Mosca, dove ha avuto un colloquio con Vladimir Putin a porte chiuse.

Un viaggio a suo modo discusso, visto che il Cancelliere austriaco è il primo europeo a incontrare Putin dall’invasione dell’Ucraina. La tanto decantata neutralità di Vienna, principio inscritto nella Costituzione nel lontano 1955, sembra aver trovato applicazione anche oggi, in chiave leggermente diversa rispetto al passato.

Pochi giorni fa a Kiev, dopo l’incontro con Volodymyr Zelensky, il Cancelliere aveva dichiarato che «Vienna è militarmente neutrale, ma non siamo neutrali quando si tratta di evidenziare i crimini e quando si tratta della necessità di guardare e di non voltarsi dall’altra parte».

Dopo l’incontro con Putin, Nehammer ha sottolineato che «questa non è stata una visita amichevole: ho detto in modo chiaro al presidente Putin che questa guerra deve finalmente finire, perché in una guerra ci sono solo perdenti da entrambe le parti». Dichiarazione riportata dall’Austria Presse Agentur.

La svolta di Nehammer

Il Cancelliere sapeva bene che a Mosca non ci sarebbe stato un tappeto rosso ad aspettarlo, nonostante sia stato il primo a rompere l’isolamento diplomatico.

La Russia, a sua volta, è consapevole che il governo di Nehammer ha finora assunto un atteggiamento ambiguo in politica estera. Da un lato si è accodato alle scelte degli altri Paesi europei, decidendo di espellere quattro diplomatici russi dal Paese e mostrando anche un volto aggressivo nei confronti del regime di stanza al Cremlino, come testimoniano le parole del predecessore di Nehammer, l’attuale ministro degli esteri Alexander Schallenberg, che prima dell’incontro aveva dichiarato: «la speranza che il Cancelliere dica a Vladimir Putin faccia a faccia che ormai ha moralmente perso la guerra». Dall’altro, Vienna resta uno dei Paesi più accondiscendenti nei confronti di Mosca: si è opposta a qualunque tipo di embargo energetico nei confronti della Russia, ben consapevole di esserne totalmente dipendente (l’80% del suo fabbisogno di gas arriva infatti da lì).

Inoltre, come riporta il Financial Times, il suo settore bancario è fortemente dipendente sia da quello russo che da quello ucraino. Questa è una delle ragioni che spiega la volontà austriaca di dialogare ad ogni costo con entrambe le parti eppure, come riporta la Bild, questo viaggio non è stato ben visto né dalle autorità ucraine né da Polonia e Paesi baltici, nonostante Bruxelles, Berlino e anche Kiev fossero state comunque informate.

«Ad oggi è un viaggio inappropriato. I crimini di guerra che la Russia sta attualmente commettendo sul suolo ucraino sono ancora in atto. Quello che abbiamo visto a Bucha è stato forse ripetuto in misura maggiore a Mariupol, anche se l’esercito russo sta cercando di coprire i crimini. Non capisco come sia possibile avere una conversazione con Putin in questo momento, come sia possibile fare affari con lui», ha dichiarato il vicesindaco di Mariupol Sergej Orlow. Una critica su cui concorda anche il governo ucraino.

Le differenze con Kurz

Nonostante alcune ambiguità, la differenza rispetto al passato è evidente: il riferimento è all’ex cancelliere Sebastian Kurz, il Wunderkind della politica austriaca indagato per favoreggiamento della corruzione e appropriazione di fondi pubblici, costretto a lasciare la politica.

L’esempio migliore è il suo primo governo in coalizione con l’estrema destra di FPÖ, partito molto legato al Cremlino che, guidando ministeri sensibili come gli Interni e la Difesa, ha subito portato molte agenzie di intelligence occidentali a sospendere la condivisione di informazioni con Vienna.

Un legame dai tratti quasi paradossali se si pensa all’evoluzione dell’Ibizagate, scandalo nel quale cadde lo stesso Heinz-Christian Strache, leader dell’FPÖ, grazie a una (finta) ereditiera russa.

Molto meno divertente è invece il legame lavorativo che molti politici austriaci hanno stretto negli ultimi anni con la cupola che guida la Russia dal Cremlino, un virus che ha più o meno contagiato tutti i partiti presenti nell’Assemblea federale, il Bundesversammlung. I loro nomi sono noti: la prima da citare è certamente Karin Kneissl, già ministra degli Esteri in quota FPÖ nel primo governo Kurz, che si sposò nel 2018 a Gamlitz, un paesino della Stiria, con Vladimir Putin come ospite d’onore, al quale la sposa ritenne opportuno porgere un inchino di deferenza.

Non deve sorprendere perciò se oggi Kneissl sia dentro il cda del gigante russo del gas Rosneft e anche un apprezzatissima editorialista di Russia Today, per la quale ha tranquillamente definito il primo riconoscimento delle regioni separatiste ucraine, quello del 23 febbraio, «come un qualcosa del tutto normale nel diritto internazionale». La guerra non l’aveva minimamente sfiorata e lo stesso vale anche per il socialdemocratico Christian Kern, già direttore generale delle Öbb, le ferrovie austriache, e oggi passato a quelle di Stato di Mosca, che ha definito «non tutte le argomentazioni russe sull’Ucraina sbagliate» in un’intervista alla Salzburger Nachrichten.

Alla lista manca “lo Schröder d’Austria”: Wolfgang Schüssel, ex cancelliere popolare tra il 2000 e il 2007 (anni in cui ci fu il primo tentativo di emancipare la destra estrema, allora guidata da Georg Haider) e membro per lungo tempo della holding petrolifera russa Lukoil, lasciata soltanto a inizio marzo. «Per me l’aggressione all’Ucraina, i brutali attacchi e il bombardamento della popolazione civile hanno oltrepassato una linea rossa», ha dichiarato alla Reuters l’ex Cancelliere. Meglio tardi che mai.

La storica neutralità austriaca

Le radici di questa volontà austriaca di non schierarsi né da una parte né dall’altra risalgono ai tempi della fine della Seconda guerra mondiale. C’è infatti un motivo se l’Austria, come l’Irlanda e Malta, è uno dei pochi Paesi presenti nell’Unione europea non ancora iscritto alla Nato (al di là di Svezia e Finlandia, storicamente neutrali ma che sembrano essere sul punto di passare da membri associati a membri effettivi nel giro di pochi mesi).

Per Vienna le ragioni risalgono al 1955, quando nella Costituzione della nascente Repubblica d’Austria venne posto il principio di neutralità permanente per evitare nuove ingerenze straniere e mantenersi equidistante tanto dall’Ovest quanto dall’Est.

In questi quasi 70 anni i pericoli sono stati molti, come nel 1956 quando i sovietici attaccarono l’Ungheria, Stato confinante, o nel 1958, quando gli aerei statunitensi sorvolarono in pieno giorno il territorio austriaco per andare in Libano ad aiutare il presidente cristiano-maronita Camille Chamoun ma il principio è rimasto ancora valido, tant’è che c’è anche un giorno festivo appositamente dedicato, il 25 ottobre, giornata in cui ci sono centinaia di manifestazioni e concerti appositamente dedicati.

La regina Elisabetta "sguaina la spada" contro Putin. Francesca Rossi il 17 Marzo 2022 su Il Giornale.

Sua Maestà ha boicottato la Russia, rifiutando di prestare alcune antichissime spade per una mostra organizzata nel Cremlino di Mosca. 

Anche la regina Elisabetta ha sanzionato la Russia a causa dell’invasione dell’Ucraina. Il boicottaggio della sovrana, però, non riguarda le merci o l’economia. Il Cremlino, infatti, avrebbe dovuto inaugurare, nel marzo 2022, una mostra incentrata sulla storia dei duelli. Tra i pezzi più importanti dovevano esserci delle spade di inestimabile valore, provenienti dall’Inghilterra. Quando iniziarono a spirare i primi venti di guerra, però, Sua Maestà si sarebbe categoricamente opposta all’idea di prestare alla federazione russa degli emblemi della storia britannica.

"La regina Elisabetta è troppo debole": ecco cosa sta succedendo a Palazzo

La Regina sguaina la spada

Il Cremlino di Mosca era quasi pronto a inaugurare, nel marzo 2022, la mostra dal titolo “Il Duello. Dal processo al combattimento, un nobile delitto”. L’evento, ha raccontato l’Express, doveva essere sponsorizzato da Alisher Usmanov, un oligarca uzbeko, naturalizzato russo, colpito dalle sanzioni a causa dei suoi rapporti con il presidente russo Putin. Una vicinanza che Usmanov ha negato, come ricorda Il Messaggero, ma di cui sarebbe convinta l’intelligence americana, tanto da ritenere il controverso imprenditore “un soggetto pericoloso per la geopolitica occidentale”.

La mostra al Cremlino avrebbe dovuto ospitare opere provenienti da diversi Paesi europei, tra cui delle armi del XVII secolo prestate dalla Royal Collection, cioè il Fondo che raccoglie le opere d’arte della royal family e la cui proprietaria è la regina Elisabetta. Una delle spade pronte a essere inviate in Russia sarebbe appartenuta addirittura a re Carlo I (1600-1649). Quando sono comparse all’orizzonte le prime avvisaglie di guerra ed è iniziata la minacciosa escalation con le prime tensioni al confine ucraino, la Royal Collection (quindi la regina Elisabetta) sarebbe stata la prima a ritirare la partecipazione alla mostra, seguita dalle altre organizzazioni europee, spiegando la scelta in un comunicato ufficiale, citato dall'Express: “A metà febbraio è stata presa la decisione di posticipare il prestito di tre spade dalla Collezione Reale ai musei del Cremlino di Mosca”.

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Un gesto molto forte, quello di Sua Maestà. Un boicottaggio in piena regola che condanna l’invasione russa dell’Ucraina. Anche il Royal Armouries Museum di Leeds, ovvero il museo delle armi e delle armature, si è rifiutato di prestare al Cremlino di Mosca l’armatura di Enrico VIII che si trova nella Torre di Londra, puntualizzando in un’altra nota: “Abbiamo preso la decisione di non prestare l’oggetto, che deve necessariamente viaggiare con l’accompagnamento dello staff del Royal Armouries, cosa impossibile in queste circostanze”.

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Potere del boicottaggio?

La regina Elisabetta avrebbe preso posizione contro il conflitto prima ancora che questo esplodesse in tutta la sua terribile violenza. Sua Maestà ha poi continuato a dare il suo supporto al popolo ucraino attraverso una donazione al Dec (Disaster Emergency Committee), che si sta occupando di inviare rifornimenti di cibo e acqua in Ucraina. Inoltre, durante l’incontro con il primo ministro canadese Trudeau, avvenuto lo scorso 7 marzo, la sovrana ha fatto sistemare in bella vista una composizione di fiori gialli e blu, i colori della bandiera ucraina. Il mancato prestito delle opere può essere annoverato tra le sanzioni che l’Europa sta utilizzando per cercare di reagire alla tragica situazione geopolitica. A tal proposito l’Express ha chiesto l’opinione di Jane Duncan, esperta in materia, la quale ha dichiarato: “[Il boicottaggio può essere] molto efficace, poiché potrebbe avere un grande impatto psicologico”.

DAGONEWS il 10 marzo 2022.

Ondata di polemiche per le parole del principe William che, durante una visita al centro culturale ucraino di Londra, si è lasciato sfuggire una frase infelice sulle guerre, finendo per essere tacciato di razzismo. «A differenza dell’Asia e dell’Africa, è poco familiare vedere una guerra in Europa». 

Le sue parole hanno scatenato i twittaroli che gli hanno ricordato come i suoi antenati fossero responsabili di molti conflitti in quei continenti. «La sua famiglia ha dato più volte il via alla guerra e allo spargimento di sangue -ha twittato Snehesh Alex Philip, editore di Print, un sito di notizie indiano - In India i britannici torturavano e saccheggiavano anche se molte persone morivano di fame. Il subcontinente deve ancora far fronte alle violenze a causa del seme che hanno piantato prima di partire. Questo commento è così razzista».  

Il conduttore della CNN Jake Tapper ha twittato: «Leggi un libro sulla tua famiglia, amico» e ha allegato un'immagine di Edward, il duca di Windsor, e sua moglie, Wallis Simpson, che si incontravano con Adolf Hitler in Germania nel 1937.

Bernice King, figlia di Martin Luther King Jr. e amministratore delegato del Martin Luther King Jr. Center for Nonviolent Social Change, ha definito l'osservazione di William "orribile": «Gli europei hanno calpestato il continente africano, depredando comunità, violentando donne, schiavizzando esseri umani, colonizzando per profitto e potere, rubando risorse, causando devastazione. Tuttora le nazioni europee continuano a danneggiare l'Africa».

Il discorso al Senato. Appoggiare il popolo ucraino vuol dire difendere i nostri principi e il nostro futuro, dice Draghi. Linkiesta il 2 Marzo 2022.

L’invasione dell’Ucraina segna una svolta decisiva nella storia europea, spiega il premier, rompendo l’illusione la guerra non avrebbe più trovato spazio in Europa. Ma le cose sono cambiate e, aggiunge, la resistenza del popolo ucraino obbliga l’Italia e altri Paesi a compiere scelte fino a pochi mesi fa impensabili 

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia segna una svolta decisiva nella storia europea. Negli ultimi decenni, molti si erano illusi che la guerra non avrebbe più trovato spazio in Europa.

Che gli orrori che avevano caratterizzato il Novecento fossero mostruosità irripetibili.

Che l’integrazione economica e politica che avevamo perseguito con la creazione dell’Unione Europea ci mettesse a riparo dalla violenza.

Che le istituzioni multilaterali create dopo la Seconda Guerra Mondiale fossero destinate a proteggerci per sempre.

In altre parole, che potessimo dare per scontate le conquiste di pace, sicurezza, benessere che le generazioni che ci hanno preceduto avevano ottenuto con enormi sacrifici.

Le immagini che ci arrivano da Kiev, Kharkiv, Maripol e dalle altre città dell’Ucraina in lotta per la libertà dell’Europa segnano la fine di queste illusioni.

L’eroica resistenza del popolo ucraino, del suo presidente Zelensky, ci mettono davanti una nuova realtà e ci obbligano a compiere scelte fino a pochi mesi fa impensabili.

Voglio ribadire, ancora una volta, tutta la mia solidarietà, quella del Governo e degli italiani al Presidente Zelensky, al Governo ucraino e a tutte le cittadine e cittadini dell’Ucraina.

Voglio inoltre esprimere vicinanza alle 236mila persone di nazionalità ucraina presenti in Italia che vivono giorni drammatici per il destino dei propri cari.

L’Italia vi è riconoscente per il contributo che date ogni giorno alla vita del nostro Paese.

Siamo al vostro fianco – nel dolore che avvertiamo di fronte alla guerra, nell’attaccamento alla pace e nella determinazione comune ad aiutare l’Ucraina a difendersi.

L’aggressione – premeditata e immotivata – della Russia verso un Paese vicino ci riporta indietro di oltre ottant’anni, all’annessione dell’Austria, all’occupazione della Cecoslovacchia e all’invasione della Polonia.

Non si tratta soltanto di un attacco a un Paese libero e sovrano, ma di un attacco ai nostri valori di libertà e democrazia e all’ordine internazionale che abbiamo costruito insieme.

Come aveva osservato lo storico Robert Kagan, la giungla della storia è tornata, e le sue liane vogliono avvolgere il giardino di pace in cui eravamo convinti di abitare. Ora tocca a noi tutti decidere come reagire. L’Italia non intende voltarsi dall’altra parte.

l disegno revanscista del Presidente Putin si rivela oggi con contorni nitidi, nelle sue parole e nei suoi atti.

Nel 2014, la Russia ha annesso la Crimea con un referendum illegale, e ha incominciato a sostenere dal punto di vista finanziario e militare le forze separatiste nel Donbass.

La settimana scorsa, ha riconosciuto – nel più totale sprezzo della sovranità ucraina e del diritto internazionale – le due cosiddette repubbliche di Donetsk e Lugansk.

Subito dopo, in seguito a settimane di disinformazione, ha invaso l’Ucraina con il pretesto di “un’operazione militare speciale”.

Le minacce di far pagare con “conseguenze mai sperimentate prima nella storia” chi osa essere d’intralcio all’invasione dell’Ucraina, e il ricatto estremo del ricorso alle armi nucleari, ci impongono una reazione rapida, ferma, unitaria.

Tollerare una guerra d’aggressione nei confronti di uno Stato sovrano europeo vorrebbe dire mettere a rischio, in maniera forse irreversibile, la pace e la sicurezza in Europa.

Non possiamo lasciare che questo accada.

Mentre condanniamo la posizione di Putin, dobbiamo ricordarci che questo non è uno scontro contro la nazione e i suoi cittadini – molti dei quali non approvano le azioni del loro Governo.

Dall’inizio dell’invasione, sono circa 6.000 le persone arrestate per aver manifestato contro l’invasione dell’Ucraina – 2.700 solo nella giornata di domenica.

Ammiro il coraggio di chi vi prende parte.

Il Cremlino dovrebbe ascoltare queste voci e abbandonare i suoi piani di guerra.

Sinora, i piani di Mosca per un’invasione rapida e una conquista di ampie fasce del territorio ucraino in pochi giorni sembrano fallire, anche grazie all’opposizione coraggiosa dell’esercito e del popolo ucraino e all’unità dimostrata dall’Unione Europea e dai suoi alleati.

Le truppe russe proseguono la loro avanzata per prendere possesso delle principali città.

Una lunga colonna di mezzi militari è alle porte di Kiev, dove nella notte si sono registrati raid missilistici, anche a danno di quartieri residenziali, ed esplosioni.

Aumentano le vittime civili di questo conflitto ora che l’attacco, dopo aver preso di mira le installazioni militari, si è spostato nei centri urbani.

A fronte del rafforzamento delle misure difensive sul fianco esto della NATO, il Presidente Putin ha messo in allerta le forze di deterrenza russe, incluso il dispositivo difensivo nucleare.

È un gesto grave che però dimostra quanto la resistenza degli ucraini e le sanzioni inflitte alla Russia siano efficaci.

Un altro segnale preoccupante proviene dalla vicina Bielorussia, i cui cittadini domenica hanno votato a favore di alcune rilevanti modifiche della Costituzione ed eliminato lo status di Paese “denuclearizzato”.

Questo potrebbe implicare la volontà di dispiegare sul proprio suolo armi nucleari provenienti da altri Paesi.

In Ucraina sono presenti circa 2.300 nostri connazionali, di cui oltre 1.600 residenti.

Dal 12 febbraio la Farnesina ha raccomandato agli italiani presenti nel Paese di lasciare l’Ucraina con i mezzi commerciali disponibili.

A partire dal 24 febbraio, in seguito agli attacchi da parte russa, l’avviso è stato modificato.

Ai connazionali ancora presenti nella capitale ucraina e dintorni abbiamo raccomandato di utilizzare i mezzi tuttora disponibili, inclusi i treni, per lasciare la città, negli orari in cui non c’è il coprifuoco.

In queste ore non vige il coprifuoco, ma la situazione potrebbe cambiare in conseguenza dell’andamento delle operazioni militari. Raccomandiamo la massima cautela.

Il personale dell’Ambasciata a Kiev si è spostato dall’Ambasciata presso la Residenza dell’Ambasciatore insieme a un gruppo di connazionali, inclusi minori e neonati.

In Residenza si sono concentrate 87 persone, di cui 72 dovrebbero partire oggi.

Voglio ringraziare l’Ambasciatore in Ucraina, Pier Francesco Zazo, il personale dell’Ambasciata per lo spirito di servizio, la dedizione, il coraggio mostrati in questi giorni drammatici.

L’Unità di Crisi mantiene regolari contatti telefonici con i nostri connazionali in Ucraina e con i rispettivi familiari in Italia.

Voglio ringraziare anche il Ministro Di Maio e i diplomatici della Farnesina per l’incessante lavoro a sostegno dei nostri cittadini.

L’Italia è impegnata in prima linea per sostenere l’Ucraina dal punto di vista umanitario e migratorio, in stretto coordinamento con i partner europei e internazionali.

La situazione umanitaria nel Paese è sempre più grave.

L’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari ha stimato in 18 milioni il numero di persone che potrebbe necessitare di aiuti umanitari nei prossimi mesi.

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) stima che gli sfollati interni potrebbero raggiungere cifre tra i 6 e i 7,5 milioni e i rifugiati fra i 3 e i 4 milioni. Sono stimate in circa 400.000 le persone che hanno lasciato l’Ucraina, in direzione principalmente dei Paesi vicini.

L’Italia ha già contribuito in modo considerevole all’emergenza con un finanziamento di 110 milioni di euro a favore di Kiev come sostegno al bilancio generale dello Stato.

Abbiamo stanziato un primo contributo del valore di un milione di euro al Comitato Internazionale della Croce Rossa, donato oltre 4 tonnellate di materiale sanitario, e offerto 200 tende familiari e 1.000 brandine.

Abbiamo in programma l’invio di beni per l’assistenza alla popolazione, l’invio di farmaci e dispositivi sanitari e il dispiegamento di assetti sanitari da campo.

Voglio ringraziare la Croce Rossa Italiana, la Protezione Civile e tutti i volontari per il loro costante impegno a favore dei più deboli.

L’Italia è pronta a fare di più, sia attraverso le principali organizzazioni umanitarie attive sul luogo, sia con donazioni materiali.

Nel Consiglio dei Ministri di ieri abbiamo stanziato 10 milioni di euro, a carico del Fondo per le emergenze nazionali, per assicurare soccorso e assistenza alla popolazione ucraina.

Per farlo è stato dichiarato uno stato di emergenza umanitaria, che durerà fino al 31 dicembre e che ha esclusivamente lo scopo di assicurare il massimo aiuto dell’Italia all’Ucraina.

È un impegno di solidarietà, che non avrà conseguenze per gli italiani, e che non cambia la decisione di porre fine il 31 marzo allo stato di emergenza per il Covid-19.

Per quanto riguarda i rifugiati, come hanno preannunciato i Ministri Di Maio e Bonetti, siamo impegnati nell’attivazione di corridoi speciali per i minori orfani, perché possano raggiungere il nostro Paese al più presto ed in sicurezza.

Domenica, nel Consiglio straordinario dei Ministri dell’Interno dell’Unione Europea è stata valutata la possibilità, che l’Italia sostiene, di applicare per la prima volta la direttiva sulla protezione temporanea prevista in caso di afflusso massiccio di sfollati.

Questa Direttiva garantirebbe agli Ucraini in fuga di soggiornare nell’Unione Europea per un periodo di un anno rinnovabile ed eviterebbe di dover attivare onerose procedure di asilo dopo i 90 giorni di soggiorno senza visto. La Direttiva porterebbe inoltre gli Stati membri a indicare la propria capacità di accoglienza e a cooperare tra loro per il trasferimento della residenza delle persone da uno Stato all’altro.

Il Ministero dell’Interno sta lavorando alla predisposizione di apposite norme sull’accoglienza degli sfollati ucraini nelle strutture nazionali.

Faremo la nostra parte, senza riserve, per garantire la massima solidarietà.

Abbiamo già instaurato un dialogo con le Agenzie delle Nazioni Unite competenti per individuare le priorità di intervento e procedere con l’elaborazione di progetti d’assistenza ai rifugiati nei Paesi vicini all’Ucraina Intendiamo rendere più facile, l’esame delle domande di protezione internazionale che verranno presentate.

In seguito all’intensificarsi dell’offensiva russa, abbiamo adottato una risposta sempre più dura e punitiva nei confronti di Mosca.

Sul piano militare, il Comandante Supremo Alleato in Europa ha emanato l’ordine di attivazione per tutti e 5 i piani di risposta graduale che ho illustrato la settimana scorsa.

Questo consente di mettere in atto direttamente la prima parte dei piani e incrementare la postura di deterrenza sul confine orientale dell’Alleanza con le forze già a disposizione.

Mi riferisco al passaggio dell’unità attualmente schierata in Lettonia, alla quale l’Italia contribuisce con 239 unità.

Per quanto riguarda le forze navali, sono già in navigazione e sotto il comando NATO.

Le nostre forze aeree schierate in Romania saranno raddoppiate in modo da garantire copertura continuativa, assieme agli assetti alleati.

Sono in stato di pre-allerta ulteriori forze già offerte dai singoli Paesi Membri all’Alleanza: l’Italia è pronta con un primo gruppo di 1.400 militari e un secondo di 2.000 unità.

Ringrazio il Ministro Guerini e tutte le forze armate per il loro impegno e la loro preparazione.

Dopo il ruolo centrale che avete avuto durante la pandemia, l’Italia vi è di nuovo riconoscente.

L’Italia ha risposto all’appello del Presidente Zelensky che aveva chiesto equipaggiamenti, armamenti e veicoli militari per proteggersi dall’aggressione russa.

È necessario che il Governo democraticamente eletto sia in grado di resistere all’invasione e difendere l’indipendenza del Paese.

A un popolo che si difende da un attacco militare e chiede aiuto alle nostre democrazie, non è possibile rispondere soltanto con incoraggiamenti e atti di deterrenza.

Questa è la posizione italiana, dell’Unione Europea, dei nostri alleati.

Questa convergenza è anche il frutto di un’intensissima attività diplomatica.

Venerdì ho preso parte a un vertice dei Capi di Stato e di Governo della NATO in cui ho ribadito che l’Italia è pronta a fare la propria parte e a mettere a disposizione le forze necessarie.

Il giorno successivo, ho avuto un colloquio telefonico con il Presidente ucraino Zelensky, al quale ho confermato il pieno sostegno dell’Italia.

Gli ho anticipato la nostra intenzione di aiutare l’Ucraina a difendersi dalla Russia e gli ho ribadito il nostro convinto supporto alla posizione dell’Unione Europea sulle sanzioni.

Lunedì pomeriggio, ho partecipato a una videoconferenza con i leader del G7, della Polonia, della Romania i Presidenti della Commissione Europea e del Consiglio Europeo e con il Segretario Generale della NATO.

In questi incontri, l’Unione Europea e gli alleati hanno dato prova di grande fermezza e unità.

Abbiamo adottato tempestivamente sanzioni senza precedenti, che colpiscono moltissimi settori e un numero importante di entità e individui, inclusi il presidente Putin e il ministro Lavrov.

Sul piano finanziario le misure restrittive adottate impediranno alla Banca centrale russa di utilizzare le sue riserve internazionali per ridurre l’impatto delle nostre misure restrittive.

In ambito UE si sta lavorando a misure volte alla rimozione dal sistema SWIFT di alcune banche russe.

Questo pacchetto ha inflitto già costi molto elevati a Mosca. Nella sola giornata di lunedì, il rublo ha perso circa il 30% del suo valore rispetto al dollaro.

La Borsa di Mosca è chiusa da ieri e la Banca centrale russa ha più che raddoppiato i tassi di interesse, passati dal 9,5% al 20%, per provare a limitare il rischio di fughe di capitali.

Stiamo approvando forti misure restrittive anche nei confronti della Bielorussia, visto il suo crescente coinvolgimento nel conflitto.

La Russia ha subito anche un durissimo boicottaggio sportivo, con l’annullamento di tutte le competizioni con squadre russe in ogni disciplina.

L’Italia è pronta a ulteriori misure restrittive, ove fossero necessarie.

In particolare, ho proposto di prendere ulteriori misure mirate contro gli oligarchi. L’ipotesi è quella di creare un registro internazionale pubblico di quelli con un patrimonio superiore ai 10 milioni di euro.

Ho poi proposto di intensificare ulteriormente la pressione sulla Banca centrale russa e di chiedere alla Banca dei Regolamenti Internazionali, che ha sede in Svizzera, di partecipare alle sanzioni.

Allo stesso tempo, è essenziale mantenere aperta la via del dialogo con Mosca.

Ieri, delegazioni russe e ucraine si sono incontrate in Bielorussia, al confine con l’Ucraina.

Auspichiamo il successo di questo negoziato, anche se siamo realistici sulle sue prospettive.

Ai cittadini italiani, che sono preoccupati per le conseguenze di questo conflitto, voglio dire che il Governo è al lavoro incessantemente per contrastare le possibili ricadute per il Paese.

Il Ministero dell’Interno ha emanato le direttive in merito alle misure di vigilanza, a protezione degli obiettivi sensibili.

Per gli aspetti legati ai controlli di sicurezza dei rifugiati, il Governo ha attivato tutti i meccanismi nazionali e di coordinamento internazionale per monitorare le potenziali minacce.

Il deterioramento delle relazioni tra la Russia e l’Unione Europea e la NATO ha reso ancora più aggressiva la postura di Mosca verso l’Occidente in ambito cibernetico e di disinformazione.

La Russia infatti ha accentuato le sue attività ostili nei confronti dei Paesi dell’Unione Europea e della NATO, con l’intento di minare la nostra coesione e capacità di risposta.

È stato attivato un apposito Nucleo per la Cybersicurezza per condividere le informazioni raccolte e al suo interno è stato istituito un tavolo permanente dedicato alla crisi in atto.

Voglio ringraziare il Ministro dell’Interno Lamorgese, il Sottosegretario Gabrielli e tutte le forze dell’ordine per il loro lavoro a difesa dei cittadini.

Il governo è inoltre al lavoro per mitigare l’impatto di eventuali problemi per quanto riguarda le forniture energetiche.

Al momento non ci sono segnali di un’interruzione delle forniture di gas.

Tuttavia è importante valutare ogni evenienza, visto il rischio di ritorsioni e di un possibile ulteriore inasprimento delle sanzioni.

L’Italia importa circa il 95% del gas che consuma e oltre il 40% proviene dalla Russia.

Nel breve termine, anche una completa interruzione dei flussi di gas dalla Russia a partire dalla prossima settimana non dovrebbe comportare problemi.

L’Italia ha ancora 2,5 miliardi di metri cubi di gas negli stoccaggi e l’arrivo di temperature più miti dovrebbe comportare una significativa riduzione dei consumi da parte delle famiglie.

La nostra previsione è che saremo in grado di assorbire eventuali picchi di domanda attraverso i volumi in stoccaggio e altra capacità di importazione.

Tuttavia, in assenza di forniture dalla Russia, la situazione per i prossimi inverni rischia di essere più complicata.

Il Governo ha allo studio una serie di misure per ridurre la dipendenza italiana dalla Russia.

Voglio ringraziare il Ministro Cingolani per il grande lavoro che sta svolgendo su questo tema.

Le opzioni al vaglio, perfettamente compatibili con i nostri obiettivi climatici, riguardano prima di tutto l’incremento di importazioni di gas da altre fornitori – come l’Algeria o l’Azerbaijan; un maggiore utilizzo dei terminali di gas naturale liquido a disposizione; eventuali incrementi temporanei nella produzione termoelettrica a carbone o petrolio, che non prevedrebbero comunque l’apertura di nuovi impianti.

Se necessario, sarà opportuno adottare una maggiore flessibilità sui consumi di gas, in particolare nel settore industriale e quello termoelettrico.

La diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico è un obbiettivo da perseguire indipendentemente da quello che accadrà alle forniture di gas russo nell’immediato.

Non possiamo essere così dipendenti dalle decisioni di un solo Paese.

Ne va anche della nostra libertà, non solo della nostra prosperità.

Per questo, dobbiamo prima di tutto puntare su un aumento deciso della produzione di energie rinnovabili – come facciamo nell’ambito del programma “Next Generation EU”.

Dobbiamo continuare a semplificare le procedure per i progetti onshore e offshore – come stiamo già facendo – e investire sullo sviluppo del biometano.

Il gas rimane un utile combustibile di transizione.

Dobbiamo ragionare su un aumento della nostra capacità di rigassificazione e su un possibile raddoppio della capacità del gasdotto TAP.

L’Europa ha dimostrato enorme determinazione nel sostenere il popolo ucraino.

Nel farlo, ha assunto decisioni senza precedenti nella sua storia – come quella di acquistare e rifornire armi a un Paese in guerra.

Come è accaduto altre volte nella storia europea, l’Unione ha accelerato nel suo percorso di integrazione di fronte a una crisi.

Ora è essenziale che le lezioni di questa emergenza non vadano sprecate.

In particolare, è necessario procedere spediti sul cammino della difesa comune, per acquisire una vera autonomia strategica, che sia complementare all’Alleanza Atlantica.

La minaccia portata oggi dalla Russia è una spinta a investire nella difesa più di quanto abbiamo fatto finora.

Possiamo scegliere se farlo a livello nazionale, oppure europeo.

Il mio auspicio è che tutti i Paesi scelgano di adottare sempre più un approccio comune.

Un investimento nella difesa europea è anche un impegno a essere alleati.

Lo straordinario afflusso di rifugiati che ha già incominciato ad arrivare dall’Ucraina, ci obbliga poi a rivedere le politiche d’immigrazione che ci siamo dati come Unione Europea.

In passato, l’Unione si è dimostrata miope nell’applicare regolamenti datati, come quello di Dublino, invece di adottare un approccio realmente solidale.

L’Italia è pronta a fare la sua parte per ospitare chi fugge dalla guerra, e per aiutarlo a integrarsi nella società.

I valori europei dell’accoglienza e della fratellanza devono valere sempre.

In caso di interruzioni nelle forniture di gas dalla Russia, l’Italia avrebbe più da perdere rispetto ad altri Paesi europei che fanno affidamento su fonti diverse.

Questo non diminuisce la nostra determinazione a sostenere sanzioni che riteniamo giustificate e necessarie.

È però importante muoverci nella direzione di un approccio comune per lo stoccaggio e l’approvvigionamento di gas.

Farlo permetterebbe di ottenere prezzi più bassi dai Paesi produttori e assicurarci vicendevolmente in caso di shock isolati.

La guerra avrà conseguenze sul prezzo dell’energia, che dovremo affrontare con nuove misure a sostegno delle imprese e delle famiglie.

È opportuno che l’Unione Europea le agevoli, per evitare contraccolpi eccessivi sulla ripresa.

Nel lungo periodo, questa crisi ci ricorda l’importanza di avere una visione davvero strategica e di lungo periodo nella discussione sulle nuove regole di bilancio in Europa.

A dicembre, insieme al Presidente francese Macron, abbiamo proposto di favorire con le nuove regole gli investimenti nelle aree di maggiore importanza per il futuro dell’Europa, come la sicurezza, o la difesa dell’ambiente.

Il disegno esatto di queste regole deve essere discusso con tutti gli Stati membri.

Tuttavia, questa crisi rafforza la necessità di scrivere regole compatibili con le ambizioni che abbiamo per l’Europa.

L’invasione da parte della Russia non riguarda soltanto l’Ucraina.

È un attacco alla nostra concezione dei rapporti tra Stati basata sulle regole e sui diritti. Non possiamo lasciare che in Europa si torni a un sistema dove i confini sono disegnati con la forza.

E dove la guerra è un modo accettabile per espandere la propria area di influenza.

Il rispetto della sovranità democratica è una condizione alla base di una pace duratura.

Ed è al cuore del popolo italiano che, come disse Alcide De Gasperi, è pronto ad associare la propria opera a quella di altri Paesi, “per costruire un mondo più giusto e più umano”.

La lotta che appoggiamo oggi, i sacrifici che compiremo domani sono una difesa dei nostri principi e del nostro futuro.

Ed è per questo che chiedo al Parlamento il suo sostegno.

Marco Zonetti per vigilanzatv.it l'1 marzo 2022.

Ha preso la parola anche Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, durante la diretta dalla Camera dei Deputati, dove il Presidente del Consiglio Mario Draghi sta presenziando in questi minuti per le comunicazioni sul conflitto tra Russia e Ucraina. 

Offrendo "il massimo sostegno al popolo ucraino che sta insegnando al mondo intero cosa sia la "dignità" e "l'amore per la propria patria", auspicando che l'Italia faccia tutto quello che può per favorire i negoziati per la pace e criticando tuttavia le abilità diplomatiche del Governo Draghi nonché la sua comunicazione, la leader di FdI ha speso parole di lodi nei confronti della comunità ucraina in Italia, composta di molte persone "integrate", "rispettose delle nostre regole" e di "lavoratori onesti". 

"Così li avrebbe chiamati un tempo la Sinistra italiana quando aveva un'identità, mentre oggi li definisce cameriere e badanti" ha tuonato la Meloni. E in cauda venenum: "Ho visto molti più camerieri tra i giornalisti, che nella comunità ucraina".

L'allusione è ovviamente alla discussa gaffe della conduttrice di Mezz'ora in più, spartita con il Direttore del Day Time Rai Antonio Di Bella, durante un recente Speciale del Tg3, nel quale i due giornalisti hanno parlato in diretta, pensando di non essere uditi, di comunità ucraina in Italia composta da "cameriere, camerieri, badanti e amanti". "

LE DICHIARAZIONI DI DRAGHI IN CONFERENZA STAMPA. Dagospia il 24 febbraio 2022.

Nella notte, la Russia ha avviato un’offensiva militare nel territorio ucraino da più parti, con lo scopo di distruggere le principali installazioni di difesa di Kiev, almeno inizialmente. L’apparato militare di Mosca si è mosso in maniera coordinata, con incursioni aeree, terrestri, anfibie, focalizzate sugli obiettivi di primaria importanza.

L’Ucraina è un Paese europeo, una nazione amica. È una democrazia colpita nella propria legittima sovranità. Voglio esprimere la solidarietà piena e incondizionata del popolo e del Governo italiano al popolo ucraino e al Presidente Zelensky. Quanto succede in Ucraina riguarda tutti noi, il nostro vivere da liberi, le nostre democrazie.

La nostra Ambasciata a Kiev è aperta, pienamente operativa e mantiene i rapporti con le Autorità ucraine, in stretto coordinamento con le altre Ambasciate, anche a tutela dei circa 2000 italiani residenti. L’Ambasciata resta in massima allerta, pronta ad adottare ogni decisione necessaria.

L’Italia condivide la posizione più volte espressa anche dai nostri alleati, di voler cercare una soluzione pacifica alla crisi. Ho sempre pensato che qualsiasi forma di dialogo dovesse essere sincero e soprattutto utile. Ma l’esperienza di questi giorni mostra che le azioni del governo russo rendono questo dialogo nei fatti impossibile. L’Italia, l’Unione Europea e tutti gli alleati chiedono al Presidente Putin di mettere fine immediatamente allo spargimento di sangue e di ritirare le proprie forze militari al di fuori dei confini internazionalmente riconosciuti dell’Ucraina in modo incondizionato.

In queste ore ho sentito i partner europei, a partire dal Presidente francese Macron, dal Cancelliere tedesco Scholz e dalla presidente della Commissione Europea, von der Leyen.  

Con gli Alleati della NATO, ci stiamo coordinando per potenziare immediatamente le misure di sicurezza sul fianco Est dell’Alleanza e stiamo rafforzando il nostro già rilevante contributo allo spiegamento militare in tutti i Paesi Alleati più direttamente esposti. Domani ci sarà anche una riunione straordinaria dei leader della NATO.

Questo pomeriggio avremo una consultazione dei G7, alla quale parteciperà anche il Segretario Generale della NATO Stoltenberg, al termine della quale mi recherò a Bruxelles per un Consiglio Europeo straordinario. 

In quella sede, decideremo un pacchetto di sanzioni molto dure nei confronti della Russia. Avevamo ribadito in tutte le sedi di essere pronti a imporre conseguenze severe nel caso la Russia, come è purtroppo accaduto, avesse respinto i nostri tentativi di risolvere la crisi per via politica. Questo è il momento di metterle in campo. L’Italia è pienamente allineata ai nostri partner su questa posizione.

Capisco che queste siano ore di grande preoccupazione per tutti i cittadini. Domani riferirò al Parlamento sugli sviluppi del conflitto in corso. Voglio dirvi che il Governo intende lavorare senza sosta per risolvere questa crisi. Abbiamo accanto i nostri alleati – l’Europa, gli Stati Uniti e molti altri Paesi. Insieme faremo tutto il necessario per preservare la sovranità dell’Ucraina, la sicurezza dell’Europa, e l’integrità dell’ordine internazionale basato sulle regole e sui valori da noi tutti condivisi. Grazie

(ANSA il 24 febbraio 2022) Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha definito l'operazione militare della Russia in Ucraina "inaccettabile" descrivendola come "un colpo alla stabilità e alla prosperità della nostra regione" durante una conferenza ad Ankara. Lo fa sapere l'agenzia Anadolu. 

Il presidente turco ha fatto sapere di avere parlato al telefono con l'omologo ucraino Volodymyr Zelensky esprimendogli il sostegno della Turchia per la protezione dell'integrità territoriale dell'Ucraina. "Facciamo nuovamente appello affinché i problemi tra Russia e Ucraina siano risolti attraverso il dialogo nell'ambito degli accordi di Minsk" ha detto il capo di Stato turco.

(ANSA il 24 febbraio 2022)

Ucraina: Biden, da Putin guerra premeditata da mesi.

 - "E' una guerra premeditata da mesi": lo ha detto il presidente Usa Joe Biden parlando alla nazione dalla Casa Bianca del conflitto ucraino. 

Biden, Putin ha respinto ogni offerta di dialogo

"Vladimir Putin ha respinto ogni offerta di dialogo. Putin è l'aggressore, Putin ha scelto questa guerra": lo ha detto il presidente Usa Joe Biden parlando alla nazione dalla Casa Bianca.  

Biden sanziona 4 banche russe, stop export tecnologico

 Joe Biden ha annunciato nuove sanzioni e il bando dell'export tecnologico per punire la Russia della sua invasione in Ucraina. Nella blacklist altre quattro banche statali russe. Più della metà delle importazioni tecnologiche della Russia, ha precisato Biden, sarà bloccata. 

Biden, proteggeremo alleati Nato, ogni centimetro territorio

"Prenderemo iniziative per proteggere gli alleati della Nato. Le nostre forze in Europa difenderanno gli alleati della Nato, difendendo ogni centimetro del territorio dell'alleanza". Lo afferma il presidente americano Joe Biden. 

Biden,cercheremo limitare effetti sanzioni per gli americani

 "Faremo il possibile per limitare i danni per gli americani, ma questa aggressione merita una risposta". Lo afferma il presidente Joe Biden. 

Biden, useremo riserve petrolifere strategiche se serve

Gli Stati Uniti rilasceranno ulteriori riserve petrolifre strategiche se servirà. Lo afferma Joe Biden. 

Biden, tra quattro banche russe sanzionate anche Vtb

Tra le quattro banche russe sanzionate dagli Usa c'è anche la Vtb, una delle più grandi del Paese. Lo ha detto Joe Biden. 

Biden, Putin ha visione sinistra del futuro del mondo

 "Vladimir Putin ha una visione sinistra per il futuro del nostro mondo": lo ha detto il presidente degli Stati Uniti Joe Biden 

Ucraina: Biden, nessun piano di parlare con Putin

"Non ho nessun piano di parlare con Putin". Lo afferma il presidente Usa Joe Biden.

Biden, Putin diventerà paria sulla scena internazionale

Putin diventerà un "paria sulla scena internazionale": lo ha detto il presidente Usa Joe Biden. 

Biden, Swift resta opzione, al momento nessun piano per usarla 

"Swift è sempre un'opzione, al momento non ci sono piani per usarlo". Lo afferma Joe Biden, riferendosi all'opzione paventata da più parti di espellere la Russia dal sistema di pagamenti internazionali Swift con gravi danni al sistema finanziario di Mosca.

Stasera Italia, Federico Rampini sbugiarda Joe Biden: sanzioni inutili, nessun danno a Vladimir Putin. Federica Pascale Il Tempo il 24 febbraio 2022.

“L’intelligence americana aveva previsto tutto” afferma Federico Rampini, che ricorda come sia rimasta, fino ad oggi, quasi inascoltata e “accolta con molto scetticismo e diffidenza dalle capitali europee”. Il giornalista e scrittore, ospite di Barbara Palombelli a Stasera Italia, il talk di approfondimento politico in onda su Rete 4, consiglia quindi di ascoltare e prendere sul serio, almeno questa volta, le ultime previsioni del Pentagono che “dice che i russi vogliono conquistare e controllare tutti i maggiori centri abitati in Ucraina”.

Con più di un’ora di ritardo, stasera giovedì 24 febbraio, è intervenuto sul tema il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden, che ha sottolineato come la Nato sia compatta nel condannare le azioni della Russia, alla quale saranno destinate pesanti sanzioni nel tentativo di metterla in ginocchio dal punto di vista economico, isolandola: “Il discorso di Biden è un discorso tipico di un leader che deve usare aggettivi roboanti per nascondere una realtà modesta – commenta Rampini -. Ha parlato di sanzioni devastanti, ma non sono affatto devastanti”. “Sono sanzioni che a Putin non fanno male, perché si prepara da anni a resistere ad una raffica di sanzioni economiche occidentali. Ha costruito un’economia sempre più povera, ma anche più autosufficiente e meno esposta all’estero. Ha meno debito estero, più riserve ufficiali nella sua banca centrale”.

Biden: Putin è un dittatore, pagherà. E annuncia due nuove misure. Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 2 marzo 2022. 

Il presidente degli Stati Uniti nel discorso sullo stato dell’Unione prepara task force per perseguire il malaffare degli oligarchi russi.

L’attesa risposta di Joe Biden a Vladimir Putin, e alla sua decisione di invadere l’Ucraina, è politica e morale: in bilico tra l’emozione anche un po’ di retorica. 

Il presidente americano annuncia due nuove misure. La chiusura dello spazio aereo americano per i voli commerciali provenienti dalla Russia e il prelievo di 30 milioni di barili di petrolio dalle riserve strategiche che insieme ad altri 30 milioni in arrivo da 30 Paesi del mondo saranno messi a disposizione delle economie più in difficoltà. 

Non c’è molto altro. Se non «una task force di investigatori per perseguire il malaffare degli oligarchi russi». Biden ha dedicato alla crisi ucraina circa un quarto del suo «Discorso sullo Stato dell’Unione», che ha tenuto martedì 1 marzo, davanti al Congresso riunito in seduta comune. 

No alla «no fly zone»

È stato un intervento duro, ma non l’orazione di un presidente, di una Nazione in guerra. È probabile che il leader ucraino Volodymyr Zelensky e i suoi concittadini sulle barricate si aspettassero qualcosa di più. 

Biden era stato molto netto nei giorni precedenti e ieri, nell’occasione più solenne dell’anno, in diretta televisiva alle 21, l’ora di massimo ascolto, ha sostanzialmente confermato la sua strategia. 

Gli Stati Uniti non invieranno soldati a combattere in Ucraina e nemmeno aerei per formare una «no fly zone» in modo da proteggere le città ucraine da possibili e purtroppo probabili bombardamenti russi. Il messaggio è «chiaro come il cristallo: gli Stati Uniti e i suoi alleati difenderanno ogni singolo centimetro del territorio Nato con il pieno delle forze collettiva». 

Gli aiuti per la sicurezza

All’Ucraina, e questo è l’impegno più concreto, continueranno ad arrivare «aiuti per la sicurezza (cioè forniture di armi e mezzi militari ndr), sostegno economico e umanitario». Putin, «pagherà un prezzo altissimo» grazie alle sanzioni appena varate, anche se ci vorrà «tempo». Il leader russo, anzi «il dittatore russo ha sbagliato clamorosamente i suoi calcoli: pensava che avrebbe travolto l’Ucraina e che il mondo sarebbe andato a rotoli. Invece ha trovato un muro di forza che non aveva neanche immaginato. Ha incontrato il popolo ucraino. Dal presidente Zelensky a ogni singolo ucraino: il loro sprezzo del pericolo, il loro coraggio, la loro determinazione hanno ispirato il mondo. Come dice Zelensky, la luce sconfiggerà le tenebre». Biden invita senatori e deputati ad alzarsi «perché noi siamo con il popolo ucraino». 

I colori dell’Ucraina

La scenografia è in tono. Diverse deputate e senatrici si sono vestite con i colori della bandiera ucraina: l’oro del grano e l’azzurro del cielo. In tribuna, tra gli ospiti d’onore, c’è l’Ambasciatrice di quello Stato sotto assedio, Oksana Markarova. È seduta accanto alla First lady, Jill Biden, che la abbraccia almeno un paio di volte. Deputati e senatori, democratici e repubblicani sono in piedi, battono le mani, tutti insieme, come non si vedeva da anni al Congresso: abbiamo contato 15 applausi sui 15 minuti dello «speech» dedicati al conflitto «nel cuore dell’Europa». Biden ricorda le ragioni storiche del patto transatlantico, «costituito per assicurare la pace e la stabilità dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale». Poi torna su Putin e il suo «attacco premeditato e non provocato da nessuno»: «Pensava che l’Occidente e la Nato non avrebbero risposto. Pensava che avrebbe potuto dividerci in casa nostra. Ebbene Putin si è sbagliato. Noi eravamo pronti…ci siamo preparati con cura e in modo approfondito. Abbiamo impiegato mesi per costruire una coalizione tra Stati che amano come noi la libertà: dall’Europa, dalle Americhe, dall’Asia e dall’Africa». 

«Putin è isolato»

Prima conclusione: «Putin è ora isolato dal mondo come non lo è mai stato». Ed è solo l’inizio. Le misure restrittive hanno già innescato la reazione dei mercati, per esempio: «Il rublo ha perso il 30% del suo valore; la Borsa di Mosca il 40% e le transazioni sono ora sospese». Il presidente Usa indugia su qualche dettaglio: «Abbiamo impedito alla Banca Centrale russa di difendere la quotazione del rublo, rendendo inutili le riserve in valuta per 630 miliardi di dollari, il fondo accantonato per la guerra». Inoltre: «Abbiamo soffocato le forniture tecnologiche che mineranno la crescita economica e indeboliranno l’apparato militare da qui agli anni a venire». Infine un messaggio minaccioso agli oligarchi: «Ci uniremo ai nostri alleati europei per cercarvi e sequestrare i vostri yacht, i vostri appartamenti lussuosi, i vostri jet privati. Stiamo arrivando a dare la caccia ai vostri guadagni accumulati in modo sporco». Non basta: «Il Dipartimento di Giustizia formerà una task force per perseguire i crimini degli oligarchi russi». 

I contraccolpi per gli alleati

Quali saranno i contraccolpi per il popolo americano e per il mondo occidentale? Qui Biden abbozza solo un’operazione verità: «Sarà onesto con voi, come vi ho sempre promesso… ci saranno dei costi per il mondo, per noi potrebbero esserci dei problemi con il prezzo del gas. Lo so che queste notizie possono sembrare allarmanti. Ma voglio che sappiate che tutti noi staremo bene». Poi Biden passa in rassegna l’agenda interna, rilancia i provvedimenti sulla sanità, l’istruzione, i farmaci, l’energia affossati con il «Build Back Better». Assicura che ha un piano per frenare l’inflazione. Sprona il Congresso ad approvare le leggi per il controllo delle armi, per tutelare i diritti di voto, per mettere in sicurezza il diritto di aborto. Lancia un segnale agli elettori più moderati, irritando l’ala radicale del Partito democratico: «Bisogna dare più fondi alla polizia, non toglierli». Invita i repubblicani a collaborare su quattro iniziative «universali»: il contrasto all’epidemia di oppiacei; l’assistenza per le persone con disturbi mentali; la lotta contro il cancro; il sostegno ai veterani. Annuncia anche un’iniziativa importante per gestire quella che appare la fase d’uscita della pandemia: le farmacie faranno i test e ai positivi somministreranno subito la pillola anti-virale prodotta da Pfizer. Tutto gratis. 

Le «assenze»

Nel discorso ci sono tante cose, ma ne mancano due. E sono assenze significative: nessun cenno a Donald Trump e alle sue critiche; neanche una parola sull’assalto al Capitol Hill del 6 gennaio. Come dire: sono stagioni passate, ora guardiamo avanti. La chiusura è all’insegna del patriottismo: «Sono venuto qui per riferirvi sullo Stato dell’Unione e io vi dico che l’Unione è forte, perché voi siete forti, perché il popolo americano è forte».

LE REAZIONI.

Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 21 maggio 2022.

Il presidente Joe Biden e la sua vice Kamala Harris, alcuni capi dei servizi di intelligence, ma anche l’attore statunitense Morgan Freeman. Sono nella lista compilata dal ministero degli Esteri russo sulle persone alle quali è vietato entrare nel Paese. L’elenco è stato rintracciato sul web dagli specialisti dell’intelligence e condiviso con tutti gli Stati che affiancano l’Ucraina nel conflitto. La propaganda di Mosca si alimenta anche di foto e video dei soldati del battaglione Azov con tatuaggi con simboli nazisti per dimostrare che l’acciaieria rientra nella denazificazione dell’Ucraina

La lista nera

L’elenco stilato dallo staff del presidente Vladimir Putin contiene 963 nomi di cittadini statunitensi ai quali è vietato entrare in Russia. Nella nota del ministero degli Esteri di Mosca viene evidenziato che «la Russia non cerca il confronto ed è aperta a un dialogo onesto e reciprocamente rispettoso che separa il popolo americano, che gode del suo rispetto, dalle autorità statunitensi, che incitano alla russofobia e da coloro che li servono».

Nell’elenco ci sono:

- Il presidente degli USA Joe Biden

- Il figlio del presidente degli USA Hunter Biden

- Il Segretario di Stato americano Anthony Blinken

- Il vice Presidente degli USA Kamala Harris

- L’ex consigliere presidenziale John Bolton

- L’assistente del Presidente per gli Affari della Sicurezza nazionale Jacob Sullivan

- Segretario alla Difesa Lloyd Austin

JOE E HUNTER BIDEN

- Il Procuratore Generale degli Usa Merrick Garland

- Il Direttore della CIA William Burns

- L’ex Direttore della CIA John Brennan

- L’ex Direttore della CIA Robert James Woolsey

- Il Direttore dell’FBI Christopher Wray

- Il Segretario ai Trasporti Usa Peter Buttigieg

- L’ex Segretario di Stato Hillary Clinton

- L’ex Comandante in Capo della NATO Philip Breedlove

- L’ex portavoce della Casa Bianca Jennifer Psaki

- L’attore Morgan Freeman.

- L’imprenditore Mark Zuckerberg. 

Le “inique sanzioni” all’Italia fascista: storia di un fallimento annunciato. FRANCESCO FILIPPI su Il Domani il 21 aprile 2022.

Quando nel 1935 l’Italia di Mussolini aggredisce l’Etiopia la comunità internazionale riunita nella Società delle nazioni cerca di utilizzare l’arma delle sanzioni economiche per fermare l’espansionismo fascista.

Ritardi, incertezze, disaccordi e interessi di parte contribuiscono al fallimento di una linea d’azione comune contro i totalitarismi europei.

Dopo il “caso Etiopia” la Società rimane attiva ancora una decina d’anni, riuscendo a superare la Seconda guerra mondiale nella quasi totale indifferenza internazionale: viene definitivamente soppiantata dall’istituzione dell’Organizzazione delle Nazioni unite e sciolta nel 1946. Dal 22 aprile in edicola e in digitale il nuovo numero di Scenari.

FRANCESCO FILIPPI. Storico della mentalità, è cofondatore dell’associazione Deina, associazione che organizza viaggi di memoria e percorsi formativi in tutta Italia. Ha collaborato alla stesura di manuali e percorsi educativi sui temi del rapporto tra memoria e presente. Tra le sue pubblicazioni più recenti ricordiamo Prima gli italiani! (sì, ma quali?) (2021). Per Bollati Boringhieri ha pubblicato Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo (2019), Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto (2020) e Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie (2021).

Da ansa.it il 20 aprile 2022.

Diversi leader del G20 si sono alzati e hanno lasciato l'incontro del G20 quando il ministro delle finanze russo Anton Siluanov ha preso la parola. 

Lo riporta il Washington Post citando alcune fonti, secondo le quali fra coloro che hanno abbandonato la riunione ci sono il segretario al Tesoro americano Janet Yellen e i funzionari ucraini. 

Proprio i delegati di Kiev hanno parlato all'incontro prima della Russia. Anche il commissario europeo Paolo Gentiloni ha lasciato il G20 quando il ministro delle finanze russo ha iniziato a parlare. Lo riferiscono alcune fonti.

Leonardo Martinelli per “la Stampa” il 24 marzo 2022.  

È apparso in videoconferenza con la sua solita t-shirt militare, color kaki. Ieri Volodymir Zelensky, il presidente dell'Ucraina, l'eroe di un popolo, ha parlato al Parlamento francese, chiedendo aiuto per mettere fine a «una guerra contro la libertà, l'eguaglianza e la fraternità»: un richiamo al motto della Francia repubblicana. Ha anche sottolineato come certe immagini a Mariupol e altrove «ricordino le rovine di Verdun».

Alla fine, però, ha lasciato i toni più solenni ed è arrivato al sodo: ha esortato le imprese francesi, insediate nelle terre di Putin, a smettere di sostenere «la macchina da guerra» russa e ad abbandonare il Paese, citando alcuni colossi del made in France, come Auchan, Leroy Merlin e Renault. E proprio l'industria automobilistica, a fine giornata, decide di lasciare la Russia.

Più tardi Dmytro Kuleba, ministro degli Esteri, ha addirittura lanciato un appello al «boicottaggio» mondiale del gruppo automobilistico, mentre da giorni i grandi gruppi francesi stanno facendo resistenza, anche all'opinione pubblica interna. Difficile uscirne perché non stiamo parlando di un fenomeno marginale. Prima della guerra erano oltre 500 le imprese francesi a operare in Russia, tra cui 35 delle 40 con le maggiori capitalizzazioni alla Borsa di Parigi.

Tutte insieme rappresentano nel Paese la principale fonte di lavoro da parte di investimenti stranieri, oltre 160mila posti. Renault ha una presenza produttiva diretta (la fabbrica di Mosca, dopo l'interruzione delle attività, ha riaperto due giorni fa) e controlla il 67% del fabbricante nazionale Avtovaz, quello del marchio Lada, in cui ha investito massicciamente negli ultimi anni.

La casa automobilistica ora teme la nazionalizzazione. Altro gruppo esposto in Russia è quello della famiglia Mulliez, nella grande distribuzione: Auchan vi realizza il 10% del suo fatturato mondiale e per Leroy Merlin la Russia è il mercato più grosso dopo la Francia. Proprio Adeo, la holding che controlla Leroy Merlin, ha risposto ieri a Zelensky sottolineando che chiudere in loco i propri punti vendita «aprirebbe la strada a un'espropriazione, che rafforzerebbe i mezzi finanziari della Russia».

Il presidente ucraino avrebbe invece frenato Joe Biden nella sua volontà di imporre sanzioni per punire Roman Abramovich. Il dipartimento del Tesoro americano aveva già preparato una bozza con le sanzioni, ma il Consiglio per la sicurezza nazionale ha chiesto di attendere. Secondo il Wall Street Journal ci sarebbero dietro le pressioni di Zelensky, che vuole preservare il miliardario russo, l'unico ad aver detto pubblicamente di tentare di spingere Mosca a trovare una soluzione pacifica al conflitto. Intanto, domani il presidente ucraino prenderà parte al Consiglio europeo in videoconferenza. E parlerà ai leader dei 27 Paesi.

Guido Crosetto smaschera francesi, turchi e inglesi: ecco cosa fanno con Mosca e con Putin. Milena Desanctis mercoledì 23 Marzo 2022 su Il Secolo d'Italia.

Non tutti stanno scegliendo la linea dura contro Putin. In un tweet Guido Crosetto osserva: «I francesi riprendono le produzioni, i turchi aprono porti e banche agli oligarchi, gli inglesi non hanno toccato un bene privato russo sul loro suolo, gli israeliani fanno ponti d’oro agli investimenti e trasferimenti di capitali. Diciamoci chiaramente che la realpolitik esiste».

Crosetto, il caso della Renault

Crosetto condivide nel tweet anche l’indiscrezione (poi confermata) della riapertura degli stabilimenti russi della Renault, che ha ripreso a sorpresa la produzione a Mosca. Il caso della Renault non è passato inosservato. Come riporta il Sole 24Ore «nella guerra in Ucraina giocano un ruolo di primo piano anche i rapporti tra Stato ed economia. Il caso più clamoroso è quello di Renault, che non ha ancora suonato la ritirata. Anzi dopo una sosta di alcuni giorni ha ripreso a produrre auto nella sua fabbrica di Mosca. Con Parigi azionista di riferimento al 15,01%, e ispirata a un atteggiamento prudente sul conflitto provocato dall’aggressione di Kiev da parte di Mosca, Renault ha optato per una visione pragmatica».

Il caso della Nestlè

Ma c’è anche il caso della Nestlè, una delle poche a non lasciare la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Ieri il team internazionale di hacker Anonymous ha violato il database della più grande azienda alimentare del mondo perché si è rifiutata di lasciare il mercato russo. Ne dà notizia l’agenzia di notizie ucraina Unian. Dieci gigabyte di indirizzi email e password il “bottino” dell’attacco informatico del team di hacker.

Il collettivo, riporta il sito dell’Ansa.it, ha rivendicato l’azione su Twitter rilasciando dieci gb di dati della società svizzera. «Questa è una rappresaglia del collettivo per aver continuato l’attività dell’azienda in Russia». L’azione è accompagnata dall’hashtag #BoycottNestlè ed è arrivata allo scadere delle quarantott’ore che il gruppo aveva dato alla società per lasciare la Russia.

I francesi riprendono le produzioni, i turchi aprono porti e banche agli oligarchi, gli inglesi non hanno toccato un bene privato russo sul loro suolo, gli Israeliani fanno ponti d’oro agli investimenti e trasferimenti di capitali.

(ANSA-AFP il 23 marzo 2022) - Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba ha chiesto un boicottaggio mondiale della Renault. La Renault è tra le aziende francesi che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha accusato oggi di "sponsorizzare la guerra" per non aver lasciato la Russia. 

"La Renault si rifiuta di ritirarsi dalla Russia", scrive su Twitter il ministro degli Esteri ucraino. "Chiedo ai clienti e alle aziende di tutto il mondo di boicottare il Gruppo Renault", prosegue Kuleba.

Paolo Levi per l’ANSA il 23 marzo 2022. 

J'accuse di Volodymyr Zelensky contro diversi gruppi francesi, tra cui Renault, accusati di fare da sponsor alla guerra in Ucraina. "Le aziende francesi - ha ammonito il leader di Kiev nel suo intervento in videocollegamento al Parlamento di Parigi - devono lasciare il mercato russo. 

Renault, Auchan, Leroy Merlin e altri devono cessare di essere sponsor della macchina da guerra della Russia". E ancora: "Devono smettere di finanziare l'assassinio di donne e bambini, di finanziare lo stupro. Tutti ricorderanno che i valori contano più dei profitti". Renault - tra i marchi simbolo della Francia, di cui lo Stato è principale azionista - ha confermato ieri la riapertura, dal 21 marzo, del suo stabilimento di Mosca, dove la produzione è regolarmente ripresa.

La storica 'Régie' guidata da Luca De Meo aveva sospeso la produzione nell'impianto il mese scorso, spiegando la decisione con problemi logistici sorti dopo l'invasione dell'Ucraina da parte delle truppe di Vladimir Putin. La Russia è il secondo mercato del gruppo automobilistico dopo l'Europa. 

Il costruttore è presente sul posto in particolare con la filiale AvtoVAZ, che ha sospeso una parte della produzione a metà marzo a causa della penuria di componenti per le sanzioni occidentali contro Mosca. Anche Leroy Merlin è molto presente in Russia, il suo secondo mercato dopo la Francia, con 36.000 dipendenti in 107 ipermercati e 62 città.

I dipendenti della celebre catena di bricolage in Ucraina hanno chiesto lunedì scorso al marchio francese di cessare le attività in Russia dopo il bombardamento di un loro punto vendita a Kiev. Diffusissima in Russia pure Auchan, con 231 supermercati per un fatturato di 3,2 miliardi di euro, oltre il 10% della sua attività globale.

Dinanzi ai deputati e ai senatori riuniti in seduta comune a Parigi, Zelensky ha anche fatto riferimento alle "rovine di Verdun" durante la Prima Guerra Mondiale per denunciare la spirale di morti e devastazioni perpetrate dall'esercito russo a Mariupol. Dopo essersi detto "riconoscente" per gli "sforzi" messi in campo da Emmanuel Macron, il leader ucraino ha invocato un maggiore sostegno della Francia per fermare quella che ha definito "una guerra contro la Libertà, l'Eguaglianza e la Fraternità", in riferimento ai valori fondanti della République che, ha osservato Zelensky tra gli applausi dell'aula, "hanno reso l'Europa unita".

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 14 marzo 2022.

Confesso che un singolo cittadino americano non mi dispiace affatto, ma gli americani in gruppo mi fanno orrore da sempre. Quando ero un ragazzino e frequentavo l'oratorio, la domenica sera andavo nel cinema dei preti dove si proiettavano film western imbarazzanti. I poveri indiani che erano proprietari dei loro territori venivano massacrati con armi da fuoco, mentre gli invasori, come i russi oggi fanno in Ucraina, avevano di fronte degli sfigati che si difendevano con gli archi e le frecce. Ovvio che facessi il tifo per Toro Seduto. 

Erano pellicole Usa di tipo epico, sgangherate, che esaltavano i pistoleri e dipingevano gli aborigeni come deficienti votati alla morte. È poi universalmente noto che gli statunitensi hanno seviziato i negri, molti dei quali furono raccattati in Africa, caricati su navi e portati nelle piantagioni, furono schiavizzati con una crudeltà stomachevole, infine vennero liberati ma considerati comunque carne da macello. Oggi le cose sono in parte cambiate, ma la gente di colore viene comunque maltrattata. 

Ecco perché gli americani mi stanno sul gozzo e da loro non accetto lezioni di civiltà. In questo momento alla Casa Bianca c'è Rimbambiden al quale non importa un accidenti di quello che sta accadendo in Ucraina, anzi se ne giova. L'Europa, invece, pur dicendo di essersi finalmente compattata, è stata capace solo di infliggere sanzioni alla Russia senza capire che in questa maniera ha danneggiato se stessa, quando invece Putin se la cava perché ha più mezzi.

Quanto all'Italia occorre dire che si è autocastrata alla grande. Rischia di non importare più energia, pertanto fra qualche mese potrebbe rimanere col sedere per terra. I disagi mostruosi del tempo di guerra li subiremo noi, poveri idioti, che dando retta ai Verdi e alle varie correnti ecologiste, abbiamo votato due referendum per bocciare il nucleare, inoltre il nostro popolo bue ha impedito trivellazioni e lo sfruttamento dei giacimenti italici, quando altri paesi si sono assicurati da anni autonomia energetica. 

Però noi facciamo i ganzi e diciamo, apertis verbis, di essere pronti ad aiutare gli ucraini martoriati. Cosicché Biden, reduce dai trionfi in Afghanistan, se la ride e ci incita a proseguire in una politica suicida: «Andate avanti voi cretini, che a me viene da ridere».

Intanto ci viene solo da piangere. Sappiamo tutti che l'impietosa Russia farà un macello senza precedenti, ma ci illudiamo lo stesso che Zelensky possa vincere il conflitto grazie all'eroismo dei suoi connazionali, non ci rendiamo conto che i sogni finiscono all'alba.

La Cina si sfila e boccia le sanzioni contro Putin. Il Tempo l'8 marzo 2022.

La Cina chiede la «massima moderazione» per evitare una crisi umanitaria in Ucraina e boccia le sanzioni alla Russia, che definisce «dannose per tutti». A colloquio con il presidente francese, Emmanuel Macron, e con il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, il presidente cinese, Xi Jinping, ha definito «preoccupante» la situazione in Ucraina e ha dichiarato che la Cina «deplora profondamente la guerra» nel continente europeo, usando il termine più forte a cui finora Pechino ha fatto ricorso per descrivere la situazione in Ucraina.

Nel primo colloquio con i leader occidentali dall’inizio dell’invasione russa, Xi ha ribadito i punti fermi di Pechino rispetto alla situazione in Ucraina, ovvero il rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale di tutti i Paesi ma anche la comprensione per le preoccupazioni riguardanti la sicurezza di tutte le parti, senza citare direttamente la Russia e ha espresso sostegno per «tutti gli sforzi volti a una soluzione pacifica» del conflitto. A Francia e Germania, poi, la Cina ha espresso apprezzamento per gli sforzi di mediazione nel conflitto, dicendosi disposta a mantenere il coordinamento con Parigi, Berlino, e con l’Unione Europea, sulla crisi ucraina. La Cina, ha detto Xi, è pronta a svolgere un «ruolo attivo» con la comunità internazionale, «secondo le esigenze di tutte le parti interessate». 

È sulle sanzioni, però, che le visioni con i partner europei, e occidentali, divergono. Mentre il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden dichiara lo stop alle importazioni di petrolio, al gas naturale liquefatto (Lng) e al carbone russi, Xi boccia nuovamente le misure prese contro Mosca: «Avranno un impatto negativo sulla stabilità della finanza globale, dell’energia, dei trasporti e delle catene di approvvigionamento, e trascineranno al ribasso l’economia mondiale, che è sotto il pesante fardello della pandemia, e saranno dannose per tutti», ha scandito nel colloquio con Macron e Scholz. Al contrario, Pechino chiede cooperazione per «ridurre l’impatto negativo della crisi». A preoccupare la Cina sono soprattutto gli approvvigionamenti energetici e alimentari, tema di discussione in questi giorni da parte dei funzionari di Pechino riuniti nei lavori della sessione plenaria annuale dell’Assemblea Nazionale del Popolo, l’organo legislativo del parlamento cinese. Lo stesso Xi aveva citato l’importanza dell’approvvigionamento di grano nei giorni scorsi, durante un incontro con esponenti del mondo agricolo. Fonti al corrente dei piani di Pechino, citate dall’agenzia Bloomberg, rivelano che il governo cinese ha avviato discussioni con alcuni grandi gruppi statali per possibili investimenti nei colossi russi, in particolare il gigante del gas Gazprom, e il gruppo dell’alluminio, Rusal. I piani di investimento o di acquisto di asset dei gruppi di Mosca vedrebbero in prima linea il gigante cinese degli idrocarburi China National Petroleum Corporation (Cnpc) China Petrochemical, Aluminum of China e China Minmetals. Gli investimenti, spiegano le fonti della Bloomberg, qualora si verificassero, servirebbero a sostenere le importazioni e non sarebbero da interpretare come un sostegno di Pechino a Mosca.

Guerra Russia-Ucraina e chip: transizione ecologica a rischio. Milena Gabanelli e Massimo Sideri su Il Corriere della Sera il 9 Marzo 2022.

Pochi giorni prima dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia (qui le ultime notizie in diretta), la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, aveva ottenuto l’approvazione del cosiddetto «Chip Act»: un investimento tra i 43 e i 45 miliardi di euro per la produzione di semiconduttori in Europa. «Si tratta di 15 miliardi di investimenti pubblici e privati aggiuntivi entro il 2030, oltre ai 30 miliardi già previsti da Next Generation Eu, da Horizon Europe e dai bilanci nazionali», aveva spiegato la von der Leyen. «L’Eu Chip Act cambierà le regole del gioco», aveva concluso con toni euforici. Ma in pochi giorni le priorità del mondo – e non solo dei Paesi europei – sono cambiate. Con l’aggressione di Putin all’Ucraina è scoppiata una guerra «in Europa». I mercati sono stati investiti dall’incertezza. Si profila la crisi energetica, vista la nostra dipendenza dal gas russo, e l’aumento dell’inflazione. Dunque: ha ancora senso spendere tanto denaro pubblico per dei chip? Vediamo. 

Tutto funziona col chip

«Disegnato in California, assemblato in Cina». Tutti almeno una volta abbiamo letto questa scritta dietro ad un prodotto Apple, ma probabilmente non ci siamo mai chiesti se manchi qualcosa. Se un iPhone è progettato negli Stati Uniti e assemblato nelle fabbriche di Shenzhen, a pochi chilometri di distanza da Hong Kong, il passaggio occulto è: chi produce i singoli pezzi con cui viene costruito, in particolare i fondamentali microchip? Lo stesso vale per tutti i prodotti tecnologici che possediamo: laptop, lavatrici, contatori della luce, caldaie, automobili, server, router, sistemi wireless per collegarsi ad internet, orologi, telecomunicazioni, satelliti, sistemi di controllo della temperatura, videocamere di sicurezza, aerei, elicotteri, automobili in condivisione, bike sharing, Kindle, microscopi, macchine a raggi x, per le ecografie e le analisi del sangue, manifattura 4.0 (il cuore dell’Europa industriale), stampanti, impianti fotovoltaici, sistemi in cloud dove ormai risiedono tutti i nostri certificati sanitari e amministrativi. Sommandoli tutti avremo una idea concreta di quanto tutti noi dipendiamo dai chip. Basta aprire il portafoglio e guardare le carte di credito e i bancomat: hanno un microchip accanto alla banda magnetica che nessuno utilizza più. Solo in Europa abbiamo 810 milioni di carte di pagamento. 

Dove si producono

Il chip, che letteralmente significa « pezzetto», «frammento», è un circuito integrato che racchiude milioni di transistor. Generalmente il semiconduttore con cui è fatto è il silicio, da cui viene il nome della Silicon Valley, e ne esistono di semplici e complessi, con diverse funzioni, da una memoria digitale a un microprocessore.

La geografia dei chip, il cuore di qualunque tecnologia, segue la geopolitica: vengono prodotti sempre di più in Asia, sempre di meno in Europa e negli Stati Uniti

La capacità produttiva nei semiconduttori dell’Unione europea è scesa dal 24% mondiale del 2000, all’8% attuale. Secondo un rapporto appena pubblicato da Asml, leader olandese di questa industria, questa percentuale rischia di scendere al 4% se non verrà fatto nulla. Mentre il fatturato di questa industria passerà nei prossimi otto anni da un trilione a due trilioni di dollari: più dell’intero Prodotto interno lordo italiano per intendersi. Ma non è solo una questione di denaro, progresso e occupazione. L’Europa oltre a perdere la cosiddetta «sovranità tecnologica», diventerà totalmente dipendente dall’Asia (la Russia non è un grande produttore di microchip, ma ha un ruolo cruciale che vedremo dopo). 

Europa: da produttore a cliente

Solo nel 1990 l’Europa produceva il 44% dei microchip con anche campioni italo-francesi quali StM che fornivano il leader mondiale dei cellulari Nokia. Sempre nel 1990 gli Stati Uniti producevano il 37% del mercato dei semiconduttori. Il problema, oggi, è che dipendiamo totalmente dal mondo digitale. Il numero degli apparecchi collegati alla Rete, secondo le proiezioni, passerà dagli attuali 40 miliardi a 350 miliardi nel 2030. Ecco di cosa parliamo quando parliamo di 5G, automobili elettrici, Internet delle cose, città intelligenti, industria 4.0, smart working, metropolitane a guida autonoma, energie rinnovabili, efficienza energetica della Rete elettrica. Anche la scienza e la ricerca dipendono dai chip: pochi giorni fa il ministro dell’Università e della Ricerca, Cristina Messa, si è recata al Cineca di Bologna per il lancio del supercomputer Leonardo: con 270 petaflops (270 milioni di miliardi di operazioni al secondo) sarà uno dei più potenti al mondo. Ma dentro non c’è traccia di tecnologia europea. Non è un caso che, qualche mese prima, anche il presidente degli Stati Uniti Biden avesse chiesto più o meno la stessa cifra al congresso americano: 50 miliardi di dollari. Anche il nome è lo stesso: Chip Act. Navighiamo nelle stesse acque, come si è visto con i problemi di fornitura durante la crisi legata al Covid-19 (detto chip shortage). I maggiori produttori al mondo sono Cina, Giappone, Taiwan e Corea del Sud. Con la Cina che, nel 2030, prenderà il posto che avevamo noi europei nel 2000, con un quarto del mercato mondiale. 

La guerra in Ucraina e la carenza di chip

Secondo Aslm potremmo trovarci in una situazione di «chip shock», paragonabile all’oil shock del 1973, quando il prezzo del petrolio costrinse gli italiani ad andare in bicicletta. Ma oggi, senza i chip, nemmeno la bicicletta o il monopattino elettrico in condivisione si muoverebbero. In altre parole, la transizione ecologica stessa - che si basa su una transizione energetica e il passaggio a nuove industrie come quella dell’automobile elettrica - potrebbe essere frenata da variabili esterne: la carenza di chip. A peggiorare le prospettive c’è la tragedia Russia-Ucraina. Quando si parla di chip in realtà si semplifica brutalmente un mercato molto ampio e variegato. Esistono chip a bassa e ad alta tecnologia (questi ultimi concentrati in Corea del Sud e a Taiwan, su cui Pechino ha delle chiari mire che l’escalation della guerra tra Russia e Ucraina potrebbe risvegliare). Ma l’industria è così complessa da avere ramificazioni inaspettate. L’Ucraina è tra i principali esportatori di C4F6 e di neon, un gas che serve per l’incisione laser dei wafer di silicio con cui si costruiscono i chip. Il 90% del neon usato nell’industria americana viene proprio da Kiev. Un’altra materia prima indispensabile è il palladio, e il 45% è prodotto in Russia, mentre le terre rare sono quasi tutte in mano cinese. Nella guerra di sanzioni tra Occidente e Russia come si posizionerà la Cina? In questo momento la geopolitica del chip può sembrare un fatto secondario, eppure proprio l’accelerazione guerrafondaia di Putin dovrebbe alzare ancora di più le antenne. Oggi anche le armi hanno bisogno di chip. 

La grande rincorsa

Per tutte le ragioni sopra elencate l’Europa e gli Stati Uniti vogliono tornare sul mercato con decine di miliardi pubblici per risvegliare l’industria. La tecnologia però non basta, ci vogliono anche le materie prime. Vuol dire cominciare a blindarsi con il Sudafrica, secondo produttore di palladio, e dare inizio all’estrazione e trasformazione delle terre rare presenti in Europa (progetto Eurare).

La storia recente ci ha dimostrato che la pianificazione sul lungo periodo porta vantaggi, mentre quella a breve è sempre perdente

Negli anni Novanta all’interno delle istituzioni europee si tenne un acceso dibattito sulla costruzione di un proprio sistema di geolocalizzazione, quello che oggi, con 24 satelliti, si chiama Galileo ed è più avanzato del sistema Gps americano. Tra le argomentazioni di allora c’era anche questa: perché spendere dei soldi pubblici quando possiamo usare il Gps americano o, all’occorrenza, il Glonass russo? Un errore che invece ha fatto la politica italiana non diversificando le fonti di approvvigionamento energetico, e rendendoci dipendenti dal gas russo. Si dice sovranità, ma si legge crescita economica ed occupazione. Forse anche libertà.

Lo Zar contrattacca: niente import-export di materie prime con i Paesi ostili. Gian Micalessin il 9 Marzo 2022 su Il Giornale.

Reazione agli Usa: in arrivo l'elenco degli Stati colpiti. Stop anche a Nord Stream 1

L'Occidente è servito. Chi si illudeva che le sanzioni colpissero, come accaduto in passato con Iraq, Cuba, Serbia, Iran e Siria soltanto i cosiddetti «cattivi» ora deve fare i conti con i piani di un Vladimir Putin deciso a rispondere colpo su colpo ad Usa ed Europa. E soprattutto a far valere i vantaggi garantitigli dal guidare un paese immenso, esteso su una superficie di poco inferiore a quella di Cina e Stati Uniti, ma abitato da appena 144 milioni di persone. Ovvero meno della metà dei 329 milioni cittadini statunitensi e un decimo della popolazione cinese.

Quindi un paese autonomo per quanto riguarda i propri consumi interni, ma capace di mandare nel caos i mercati internazionali bloccando selettivamente o globalmente la vendita delle proprie materie prime. Elementi sufficienti per capire quanto sia insidioso il decreto, firmato ieri da Putin, con cui si annuncia la decisione di limitare le esportazioni di materie prime verso paesi scelti sulla base di liste che verranno decise nei prossimi giorni. Come riportato dall'agenzia di stampa russa Tass che cita il testo del decreto, l'obiettivo è quello di «garantire fino al 31 dicembre 2022 l'applicazione delle seguenti misure economiche speciali: divieto di esportazione al di fuori del territorio della Federazione Russa e (o) importazione nel territorio della Federazione Russa di prodotti e (o) materie prime secondo le liste stabilite dal governo della Federazione Russa». Il decreto è chiaramente una risposta alla decisione del presidente americano Joe Biden, subito condivisa dall'alleato inglese, di mettere al bando le importazioni di petrolio russo.

Secondo i dati disponibili a novembre 2021 il Regno Unito importava dalla Russia 170mila barili di petrolio al giorno pari all'11% del totale di 1,567 milioni. Gli Stati Uniti, invece, acquistavano da Mosca 626mila barili al giorno pari al 7% del totale di greggio importato quotidianamente, pari a 8,533 milioni di barili. Già questi dati bastano a capire come la guerra delle reciproche sanzioni abbia - in questo caso- ripercussioni non solo per una Russia terza esportatrice mondiale di greggio, ma anche per quei paesi che il petrolio dovranno andarselo a comprare altrove.

Per l'implacabile legge della domanda e dell'offerta la cancellazione del petrolio russo dai mercati internazionali causerà inevitabilmente una levitazione dei prezzi che colpirà i consumatori occidentali con inevitabili conseguenze politiche non solo per chi subisce, ma anche per chi applica le sanzioni. Ma ripercussioni sono attese anche sul fronte europeo dopo l'annuncio dell'Unione europea di voler tagliare di due terzi le importazioni di gas russo entro l'anno. Una decisione che potrebbe venir anticipata dalla chiusura da parte russa di North Stream 1, il gasdotto operativo dal 2012 che ogni anno garantisce alla Germania, ma anche al resto dell'Europa forniture di gas per oltre 55 miliardi di metri cubi. Ma le conseguenze si faranno sentire in tutti i settori delle materie prime e dell'agroalimentare. E da Mosca è arrivata un'altra bastonata. È stata sospesa la vendita di valuta estera da oggi al 9 settembre 2022: «Le banche non saranno in grado di vendere valuta estera ai cittadini», fa sapere la banca centrale Russa.

La contromossa del Cremlino. Perché l’Italia è nella black list dei “Paesi ostili” della Russia e cosa cambia con la decisione di Putin. Redazione su Il Riformista il 7 Marzo 2022. 

C’è anche l’Italia nella lista dei “Paesi ostili” diramata dal governo russo, rei di aver applicato sanzioni nei confronti del Cremlino dopo l’invasione da parte delle truppe fedeli a Putin della vicina Ucraina.

L’elenco è stato reso noto dall’agenzia stampa ufficiale russa Tass e tra le nazioni presenti nella “black list” ci sono i vari paesi parte dell’Unione europea che hanno deciso di colpire il regime dello Zar con durissime sanzioni economiche, oltre ovviamente alla stessa Ucraina, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia, la Nuova Zelanda, l’Islanda e la Svizzera, che in occasione del conflitto ha rinunciato alla sua storica neutralità per schierarsi accanto alla comunità occidentale contro Mosca.

Nell’elenco ci sono anche alcune ‘micro-nazioni’ come Andorra, Liechtenstein, Monaco, Micronesia e San Marino, che proprio con le autorità russe aveva sviluppato il vaccino anti-Covid Sputnik.

Secondo il decreto, lo Stato, le imprese e i cittadini russi che abbiano debiti nei confronti di creditori stranieri appartenenti a questa lista potranno pagarli in rubli.

In pratica i bond emessi dallo stato russo o da una qualsiasi istituzione pubblica o privata potrebbero perdere di valore, dal momento che nessuna controparte internazionale accetterebbe di essere saldata in una valuta il cui valore sta precipitando in maniera verticale. “La nuova procedura temporanea si applica ai pagamenti superiori a 10 milioni di rubli al mese (o un importo simile in valuta estera)“, aggiunge ancora la nota diffusa dalla Tass.

Nel breve comunicato si fa riferimento anche a Taiwan, definendola “territorio della Cina, ma governato dalla propria amministrazione fin dal 1949”, ennesimo assist all’alleato di Pechino che col passare delle settimane potrebbe diventare sempre più fondamentale per la fragile economia russa di fronte alle sanzioni internazionali.

Un comportamento, quello del Cremlino, che non sorprende. Già in passato dalla Russia erano state stilate delle “black list” di Paesi ostili. In particolare nel 2021 la tv di stato ne aveva presentata una più corta: al suo interno figuravano gli onnipresenti Stati Uniti, il Regno Unito, l’Ucraina, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Georgia e il ‘trio baltico’ composto da Lituania, Lettonia ed Estonia.

Tornando all’Italia, il suo inserimento nella black listi del Cremlino era scontato alla luce delle sanzioni. A spiegarlo chiaramente è stato anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio: “Capiremo quali saranno le prossime iniziative, ora ce lo aspettavamo perché siamo tra i Paesi che dopo l’invasione russa dell’Ucraina hanno reagito con le sanzioni che stanno andando a colpire gli oligarchi, i super ricchi russi e che stanno colpendo l’economia russa“, ha spiegato il titolare della Farnesina.

(ANSA il 5 marzo 2022) - Le sanzioni che vengono imposte alla Russia sono come una dichiarazione di guerra: lo ha dichiarato il presidente russo, Vladimir Putin. "Molto di ciò che sta accadendo ora e di ciò a cui stiamo assistendo e di ciò che accadrà - ha detto Putin, citato dall'agenzia Interfax - è senza dubbio un modo per combattere contro la Russia. E queste sanzioni che ci vengono imposte sono come una dichiarazione di guerra".

(ANSA-AFP il 5 marzo 2022) - Il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che non ha alcuna intenzione di dichiarare la legge marziale in Russia. Il capo del Cremlino ha detto: "La legge marziale dovrebbe essere introdotta solo quando c'è un'aggressione esterna. Non la stiamo subendo e spero che non lo faremo".

I Metternich da tastiera. Andrea Pogliano il 4 marzo 2022 su Il Giornale. 

«Un giornale, il giorno dopo, è buono solo per incartare il pesce» diceva Indro Montanelli molto prima che iniziasse l’era digitale. Da anni non è più così. Le parole in rete restano, vincolate da un contratto a tempo indeterminato con la realtà.

Con la guerra alle porte, saltano uno dopo l’altro i parametri che fino a poco fa sembravano veri. Erano veri. Le parole usate per un articolo sulla guerra appaiono inappropriate a distanza di ore. Troppo fredde, asettiche, scollegate.

Le parole, quando sono sconnesse dalla realtà, diventano viti spanate che stringono, stringono, ma poi si aprono agli antipodi, e mollano la presa. Perdono la loro funzione. Ora è il momento dell’empatia, e degli aiuti di qualsiasi genere al popolo ucraino determinato a difendersi da un pazzo scatenato che vuole imporre la fratellanza con le bombe a grappolo.

Prima, qualsiasi disadattato su internet cadeva sotto una categoria unica: leone da tastiera. Colui che nella vita di tutti i giorni non riusciva a liberare il suo “io” leonino chiuso in gabbia, davanti a una protesi tecnologica menava duro sui tasti. Insultava. Esprimeva pensieri apocalittici, con poca attinenza alla realtà. Da oggi esiste una nuova sconnessione dalla realtà, con una nuova unità di misura: i Metternich da tastiera.

Fino a ieri restare freddi, in rete, era un pregio, e non esisteva un’espressione ironica per descrivere persone troppo cerebrali sui social networks. L’etichetta esigeva che l’homo digitalis, digito ergo sum, dovesse avere una frontiera con controllo passaporti tra cervello, cuore e budella. Ora siamo entrati nell’era degli organi senza frontiere, obbligati dalle circostanze a produrre parole in sintonia con la follia che ci sta venendo incontro come una nube tossica.

Le nostre pupille da qualche giorno restano dilatate anche in piena luce come al buio. Sembra la molecola dell’atropina, ma è solo paura. 

P.S. Naturalmente non vuole essere un dogma, e spero che voi mi smentiate. 

Armiamoci e partite. Michel Dessì il 5 marzo 2022 su Il Giornale.

È proprio il caso di dirlo: “armiamoci e partite”. Ma questa volta non siamo in una sceneggiatura di un film comico dei primi del novecento con Totò o Franco e Ciccio. Siamo nel 2022 e i versi del poeta Olindo Guerrini scritti nel 1897 sono ancora attuali. Oggi più di ieri. 

«Ah, siete voi? Salute o ben pensanti,

In cui l’onor s’imbotta e si travasa;

Ma dite un po’, perché gridate “avanti!”

E poi restate a casa?

Perché, lungi dai colpi e dai conflitti,

Comodamente d’ingrassar soffrite,

Baritonando ai poveri coscritti

“Armiamoci e partite?”

Partite voi, se generoso il core

Sotto al pingue torace il ciel vi diede.

O Baiardi, è laggiù dove si muore

Che il coraggio si vede,

Non qui, tra le balorde zitellone,

Madri spartane di robuste prose,

Che chieggon morti per compor corone

D’alloro, ahi, non di rose!»

Scriveva il poeta. I tempi passano ma la storia si ripete. L’Italia partecipa alla guerra, ma da lontano. Molto lontano. Sta a casa e guarda. Si limita ad armare gli ucraini con mortai, lanciatori Stinger, mitragliatrici pesanti Browning , colpi browning, mitragliatrici leggere, lanciatori anticarro, colpi anticarro, razioni K, radio , elmetti e giubbotti. E attende. Forse la fine, ma è difficile sapere chi avrà la meglio. Intanto lo scalo polacco di Rzeszow Jasionka viene utilizzato in questi giorni per fare arrivare gli “aiuti” bellici a Kiev. Si parla di un gran viavai di aerei militari, compresi i nostri. Atterrano e scaricano centinaia di mortai e mitragliatrici così come i lanciatori, milioni di munizioni e migliaia di elmetti e giubbotti. Tutto quello che può servire per abbattere il nemico. Per neutralizzare i russi. Tutto il necessario per fare la guerra. Ma non sia mai, noi in guerra non ci siamo. Si sa, l’Italia la “ripudia”. Ma la fa. Solo per corrispondenza.

DAGONEWS il 4 marzo 2022.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha ripetutamente esortato i leader occidentali a imporre una "no-fly zone" sull'Ucraina, ma la richiesta è destinata a rimanere inascoltata. L'imposizione di una no-fly zone (NFZ) significherebbe una escalation della guerra, portando potenzialmente la NATO, di cui l'Ucraina non è membro, direttamente in un conflitto con una potenza nucleare.

Cos'è una no-fly zone

Una no-fly zone è lo spazio aereo in cui alcuni aerei non possono entrare. Nel contesto di conflitti e guerre, viene in genere utilizzato per impedire ai velivoli nemici di entrare nello spazio aereo per lanciare attacchi e trasportare truppe e armi. Le no-fly zone devono essere fatte rispettare militarmente, il che vuol dire anche dover abbattere aerei.

Quello che vuole l'Ucraina

Zelensky ha detto che l'Ucraina vuole una no-fly zone su "parti significative" del paese: «Se l'Occidente la istituisce, l'Ucraina sconfiggerà l'aggressore con lo spargimento di meno sangue».

Il presidente ucraino ha ripetuto l'appello più volte e giovedì ha affermato che se gli Stati Uniti e la NATO non stabiliranno una "no-fly zone", dovranno fornire aerei da guerra in modo che l'Ucraina possa difendersi. 

Perché è improbabile che l'Occidente agisca

Se i paesi occidentali, in particolare la NATO, imponessero una no-fly zone, sarebbero responsabili di farla rispettare, il che potrebbe significare abbattere aerei militari russi. «Se la NATO la impone e abbattiamo anche un solo aereo russo, siamo in guerra con la Russia» afferma Howard Stoffer, professore all'Università di New Haven. E ovviamente è l’ipotesi che la NATO non vuole.

Inoltre la NATO dovrebbe decidere quali paesi ne sarebbero responsabili, l'alleanza dovrebbe anche istituire un sistema di difesa "molto complicato" per monitorarla e applicarla.

Dove sono state utilizzate le NFZ

Libia: il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha autorizzato una no-fly zone, imposta dalla NATO, sulla Libia nel 2011 per "proteggere i civili minacciati".

Bosnia: la NATO ha imposto una no-fly zone sulla Bosnia dall'aprile 1993 al dicembre 1995.

Iraq: gli Stati Uniti e i paesi della coalizione hanno imposto due no-fly zone in Iraq dopo la Guerra del Golfo del 1991. 

La linea di fondo

Imporre una no fly zone è «un'idea prematura in questo momento - afferma Stoffer - Non siamo in una posizione in cui vogliamo impegnarci in un conflitto con i russi perché potrebbe rapidamente degenerare a livello nucleare».

Libia, Egitto, Siria. La guerra ha già superato i confini dell’Ucraina. GUIDO RAMPOLDI su Il Domani il 03 marzo 2022

La guerra dell’Ucraina è molto più larga dell’Ucraina. Un primo segnale di sommovimenti che si profilano fuori dall’Europa arriva dalla Libia che teme un’invasione da parte dell’Egitto.

L’Egitto è il più grande importatore al mondo di grano, per il 60/80 per cento da Russia e Ucraina. Se non fosse in grado di calmierare il prezzo dei generi alimentari la casta militare potrebbe optare per una guerra per nascondere inefficienze, ruberie, violenze brutali.

Anche la Siria è un problema europeo, non fosse altro perché cinque milioni di siriani sparsi tra Turchia ed Europa non potranno rimpatriare finché Assad e i suoi alleati, gli irregolari iraniani e russi, saranno padroni di Damasco. 

GUIDO RAMPOLDI.  Scrittore e giornalista. Dal 1987 al 2011 ha seguito tutti i più importanti eventi di politica estera, prima per "La Stampa" e poi per "La Repubblica". Inviato speciale, editorialista e war-correspondent, ha vinto alcuni tra i maggiori premi di giornalismo, tra i quali il Barzini e il Mad David. Laureato in Filosofia, ha pubblicato saggi sullo sterminio come pratica ‘politica’ dal dopoguerra ad oggi (L'innocenza del Male, Laterza 2004) e sull'uso politico degli idrocarburi nel mondo contemporaneo (I giacimenti del potere, Mondadori 2006). Un suo romanzo ambientato in Afghanistan (La mendicante azzurra, Feltrinelli 2008) ha vinto il Premio Bagutta opera prima. Il suo successivo romanzo (L'acrobata funesto, Feltrinelli 2012) è stato letto come una satira del giornalismo corrente.

OPERAZIONE “MODERAZIONE”. Ucraina, Israele lavora come mediatore anche per tutelare i suoi interessi sul fronte siriano. DAVIDE LERNER su Il Domani il 03 marzo 2022

Un ex dirigente del ministero degli Esteri israeliano dice che Israele si sta ritagliando un ruolo da interlocutore fra Russia e Ucraina che ne aumenterebbe il prestigio internazionale.

A Washington la prudenza dello stato ebraico rispetto alla guerra di Vladimir Putin causa malumori: «È ora che decidano da che parte stare”, ha detto un ex segretario della Difesa statunitense.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il primo ministro Naftali Bennett avrebbero discusso la possibilità di lanciare Gerusalemme come possibile sede di negoziati per il cessate il fuoco. L’israeliano è anche in contatto con il presidente russo. 

DAVIDE LERNER. Giornalista. Ha lavorato per tre anni a Tel Aviv presso il quotidiano Haaretz e scritto per Repubblica da Israele, Cisgiordania e Gaza. Collabora con vari think-tank fra cui l’ISPI e ha lavorato per le agenzie AP e AFP. 

Il fronte anti Putin: la mappa imprevista, dalla Serbia all’Egitto. E l’Onu torna centrale. Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.  

L’iniziativa dell’Assemblea ha obbligato i Paesi incerti a venire allo scoperto. Ma con India e Cina tra gli astenuti c’è metà della popolazione mondiale. È il momento dell’Onu. Da mezzo secolo il «palazzo di vetro» è accusato di essere burocratico e impotente: incapace di impedire o arrestare i conflitti. Regola che sembra confermata dalla guerra in Ucraina: un dittatore chiuso in un bunker che ha metodicamente preparato e poi lanciato un attacco contro un Paese sovrano in violazione di tutte le leggi internazionali e degli impegni Onu sottoscritti anche dalla Russia. Sordo ai tentativi di mediazione che si sono susseguiti prima dell’invasione, peraltro condotti su base bilaterale da Macron e da altri leader. La risoluzione di condanna del Consiglio di Sicurezza, l’unica giuridicamente vincolante, è stata, poi, inesorabilmente vanificata dal veto russo.

Stavolta, però, il consueto, deprimente copione è stato scosso da una ribellione della maggior parte dei Paesi del mondo che hanno preso un’iniziativa quasi senza precedenti (l’ultimo risale a 40 anni fa): convocare una sessione di emergenza dell’Assemblea generale, dove non c’è diritto di veto, per condannare con la massima solennità possibile l’aggressione di Mosca e chiedere l’immediato e totale ritiro delle truppe russe. Non accadrà, certo, e le risoluzioni dell’assemblea non sono vincolanti, ma se è vero che nei conflitti dell’era moderna la comunicazione e la pressione psicologica sono importanti quasi quanto l’azione delle armi, la condanna venuta da ben 141 Paesi su 193, con solo due vassalli del Cremlino (Bielorussia e Siria) e due schegge vaganti (Nord Corea ed Eritrea) schierate con Putin, è importante da almeno tre punti di vista. 

In primo luogo ha obbligato i Paesi incerti o tentati di mimetizzarsi per opportunismo, a venire allo scoperto. Molti lo hanno fatto con coraggio e questo, se non avrà conseguenze in Ucraina, potrà avere un peso su altri scacchieri. Il risultato forse più importante è la condanna della Russia da parte della Serbia. Belgrado è alleata di Mosca e non è un mistero che, dopo l’Ucraina, il Cremlino vorrebbe portare il conflitto nel cuore dell’Europa usando i serbi della Bosnia. La condanna serba allontana gli scenari peggiori e conferma la capacità di attrazione di una pur claudicante Unione europea. E ieri altri due Paesi dell’Est ai confini dell’impero che Putin vorrebbe ricostruire, Georgia e Moldavia, hanno chiesto l’adesione alla Ue.

Buone notizie anche dal Medio Oriente: l’astensione degli Emirati sulla mozione del Consiglio di Sicurezza e il rifiuto della Turchia, membro della Nato, di applicare le sanzioni nei confronti di Mosca (pur aiutando l’Ucraina) avevano generato timori di defezioni nel mondo arabo e anche quella di Israele che ha sempre mantenuto aperto un canale con Mosca (puntando, forse, ad avere un ruolo di mediazione). Potevano pesare preoccupazioni commerciali e alimentari, visto che tutto il Medio Oriente dipende dall’Ucraina per il grosso delle sue forniture di grano (70% l’Egitto, 78% la Turchia). Invece i Paesi di questa vasta area hanno condannato in blocco la Russia, compresi quelli, come Libia e lo stesso Egitto, su cui Mosca ha una forte influenza (uniche eccezioni le astensioni dell’Algeria e del Sudan). Compatto anche il continente americano con al Sud l’astensione della sola Bolivia, mentre al centro a non condannare Mosca sono stati Cuba, Nicaragua e Salvador.

Un secondo elemento riguarda il valore, comunque rilevante, delle astensioni, numericamente limitate ma riguardanti molti grandi Paesi: non solo la superpotenza cinese e l’India, la maggiore democrazia del mondo, ma anche Pakistan, Vietnam, Iran, Sudafrica. Complessivamente si tratta di circa metà della popolazione mondiale. Anche questo dovrebbe spingere a rivalutare l’Onu: bisogna decidere certo, ma prima bisogna dialogare e capire cosa sta succedendo nel mondo. Europa e Stati Uniti nel «Palazzo di vetro» si confrontano con una realtà — l’influenza calante dell’Occidente che perde centralità soprattutto economica — spesso ignorata nel dibattito politico delle nostre democrazie. Confronti utili anche per misurare le distanze reali tra Paesi. Per capire, ad esempio, dalle imbarazzate parole dell’ambasciatore cinese per giustificare l’astensione («insufficienti consultazioni con le parti interessate») che Pechino è molto contrariata dall’attacco di Putin.

Infine il voto dell’Onu legittima l’assistenza anche militare che gli Usa ma, sempre più, anche l’Europa, danno all’Ucraina. Con Paesi non Nato — Svezia e Finlandia — che mandano anche loro armi a Zelensky. Senza uno sforzo così vasto per isolare Putin non lo avrebbero fatto.

La guerra e le sanzioni: dal familismo delle caverne al familismo delle Nazioni. Dal conflitto in corso in Ucraina a rimetterci saranno le popolazioni della zona, ma anche gli europei, l’Italia in particolare. E per quale ragione? Nessuna.  Michele Finizio il 24 Febbraio 2022 su basilicata24.it. 

Ogni guerra è abominevole, ingiustificabile tragedia della stupidità degli uomini. I conflitti armati servono a nulla e per raggiungere traguardi umanamente inspiegabili seminano morti, povertà, sofferenza, odio. La Storia ci spiegherà, se possibile, le non ragioni del conflitto in Ucraina, ci dirà chi ci ha avrà guadagnato e perché, chi ha lavorato per la guerra e per quali non ragioni. Fatto sta che dal conflitto in corso, a rimetterci saranno le popolazioni della zona, ma anche gli Europei, l’Italia in particolare. Gli Usa, come al solito, giocano con le vite e le economie degli altri per fare gli interessi di casa propria, al pari della Russia.

Tra commercio, energia e caro-bollette, le misure contro la Russia peseranno più sull’Europa e sull’Italia che sugli Stati Uniti. Questa è una verità che bisogna raccontare. “Da una parte, l’Europa dipende dal gas russo e la crisi energetica potrebbe intensificarsi facendo aumentare ulteriormente i prezzi della bolletta. Dall’altra, la Russia rappresenta uno dei principali partner commerciali europei e, soprattutto, italiani.”

Abbiamo “finanziato” noi la guerra di Putin? Dall’estate scorsa il Cremlino ha ridotto del 25 per cento le forniture di gas, facendo quadruplicare i prezzi nella UE. Questo aumento ha fatto salire il costo dell’energia elettrica per causa del fatto che in molti Paesi viene prodotta dal gas naturale. Quindi i russi hanno ridotto le forniture e aumentato il prezzo: miliardi di dollari guadagnati in pochi mesi. Qualcuno si è chiesto in quel momento le ragioni della stretta russa sui rubinetti del gas?

L’Italia importa il 43 per cento del gas dalla Russia e lo utilizza per produrre circa il 60 per cento dell’elettricità. Il primo trimestre di quest’anno è iniziato con un aumento della bolletta di oltre il 50%. Tuttavia per le utenze domestiche, il prezzo è salito alle stelle e già oggi siamo in presenza di un aumento generalizzato dei prezzi degli altri beni e servizi.

La Russia oggi è il terzo partner commerciale dell’Italia e il quinto dell’UE, mentre gli Stati Uniti hanno uno scambio molto più limitato. Non a caso Draghi si sta muovendo con una certa prudenza. Staremo a vedere

Dunque le sanzioni potrebbero non essere efficaci e produrre danni alla UE e soprattutto all’Italia. Putin ha già dichiarato: “Se mi punite chiudo i rubinetti che danno energia alle vostre case”.

In questa situazione non è facile bilanciare gli effetti delle politiche sanzionatorie ed è difficile creare un forte clima di coesione tra i Paesi dell’UE. Tra l’altro, dividere gli europei sarebbe uno dei gli obiettivi collaterali di Putin.

Ma questo è solo un tassello del dramma umano ancora irrisolto. Il paradigma della convivenza più o meno pacifica (e che produce continue guerre) tra gli Stati va rovesciato. Tutto il mondo si regge sugli equilibri di un “familismo nazionale”. Il principio di fondo è che ogni nazione ha il diritto-dovere di difendere e promuovere i propri interessi, e l’esercizio di questo principio spetta allo Stato. Il popolo apprezza il governo che fa gli interessi nazionali, ossia gli interessi del popolo.

La storia dell’umanità è anche storia di “familismo”. Al centro di questo familismo troviamo il “territorio”, la sua difesa o conquista, e il gruppo, il clan, la tribù. E poi il feudo, le contee, i marchesati e i ducati. E poi le etnie, e poi gli Stati. Sempre in conflitto. Insomma ci siamo capiti. Dal familismo delle caverne al familismo delle nazioni. Rileggere la storia da questa prospettiva, seppure semplificata e parziale, ci aiuta a capire perché il paradigma della tutela dei propri interessi è destinato a lasciare il passo a nuovi paradigmi. Dalle tribù siamo passati agli Stati. Ora bisogna passare dagli Stati a qualcos’altro. All’appartenenza planetaria? Alla tutela degli interessi del Pianeta e, quindi, dell’Umanità?

Che cosa sono le guerre se non l’estremizzazione del familismo nazionale? Una nazione si comporta in base alla seguente regola: “Massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine del popolo che la costituisce (famiglia), supponendo che tutte le altre nazioni si comportino allo stesso modo”. I governi incapaci di fare questo non sono apprezzati dal popolo.

Familismo perché lo Stato persegue solo l’interesse nazionale, del popolo (della propria famiglia) e mai quello della comunità umana che richiede cooperazione tra popoli. A-morale perché seguendo la regola si applicano le categorie di bene e di male solo agli appartenenti allo stesso popolo, e non verso gli altri popoli della comunità umana. A-morale perché si mette al centro il proprio interesse difendendolo, promuovendolo, tutelandolo anche a costo di danneggiare gli interessi legittimi degli altri popoli.

Parafrasando Banfield, – mantenendo ferma la critica nei suoi confronti circa lo scarso spessore scientifico del suo libro su Chiaromonte –  e adattando il suo discorso al ragionamento di questo articolo possiamo affermare che: L’incapacità di sviluppare comportamenti orientati verso la comunità umana (umanità), è causa di una “umanità arretrata”. È causa di guerre, conflitti, odio, violenza, schiavitù, povertà.

La storia ha dimostrato che perseguendo ognuno gli interessi nazionali, la comunità umana intera non progredisce, mentre una parte di popolazione terrestre cresce nell’illusione della ricchezza e del benessere. È evidente che le società si sono trasformate, che la modernità galoppa, che le tecnologie hanno cambiato il mondo, che gli strumenti dell’esistenza hanno subito profondi mutamenti. È altrettanto evidente che la sostanza dei mali dell’umanità è rimasta invariata: Guerre, fame, sfruttamento, dominazioni, violenza, schiavitù, povertà, distruzione. Tutto questo non consentirebbe ad alcuno di affermare che l’umanità è progredita. Potremmo al contrario affermare che il mondo intero ha subito “un’evoluzione involutiva”.

Ciò che accade in Africa, in Medio Oriente e oggi in Ucraina sia in relazione ai conflitti armati sia in relazione alle guerre economiche è l’applicazione del paradigma del familismo nazionale intrecciato, influenzato, penetrato dagli interessi di poteri sovranazionali. Ciò che accade in Europa, tra gli Stati, è l’applicazione del paradigma dell’interesse nazionale. Lo stesso si dica dei rapporti tra Europa e Usa, tra Usa e Cina, e così via nelle vicende dei conflitti economici in atto. Accade oggi, ciò che è sempre accaduto nel passato. Prevalgono valori “particolaristici” sui valori universalistici. E questo alla lunga metterà in grave pericolo l’esistenza dell’intera umanità già segnata da continue tensioni, disastri, tragedie umanitarie e ambientali. Nel mondo, in questo momento, oltre l’Ucraina, 70 paesi sono coinvolti in guerre feroci. Guerre di cui nessuno parla. A queste dobbiamo aggiungere i conflitti armati che non possiamo definire guerre vere e proprie. E questa sarebbe l’umanità progredita? Lo stesso conflitto nel Donbass risale al 2014, ma qui nessuno ne ha mai parlato. Se ne parla oggi perché gli interessi “particolari” in occidente sono a rischio.

Occorre dunque liberarsi dal “tribalismo” moderno che caratterizza le relazioni tra i popoli. C’è bisogno di un nuovo e diffuso senso civico mondiale che sottraendosi alla visione capitalistica del mondialismo, riesca ad innescare nuovi processi politici e culturali alternativi al familismo nazionale o, se volete, al nazionalismo familistico. Al centro delle politiche nazionali deve esserci la cooperazione tra i popoli finalizzata al reciproco benessere piuttosto che al reciproco interesse. Una visione che trae origine dalla consapevolezza che la felicità di un popolo dipende dalla felicità degli altri popoli. È questa l’interdipendenza che va costruita: mondializzare l’interesse collettivo dell’umanità anziché l’interesse particolare di un popolo a discapito di un altro popolo. Se ciò non accadrà sarà la storia ad emettere la sentenza. E saremo tutti vittime del nostro suicidio.

Tornando ai tragici fatti di oggi, rischiamo di essere vittima, qui in occidente, del divario tra sapere e vedere e tra sapere e agire. A migliaia di chilometri di distanza saremo come il solito “telespettatori” di orrori televisivi e di sofferenze lontane. E guarda caso le inquietudini ci derivano in gran quantità dal rischio diretto che corriamo, un rischio legato anche questa volta alla rozza materia: il carburante, il nostro interesse, le nostre comodità, il prezzo della farina,  l’inflazione. Evviva.

Domenico Quirico per "la Stampa" il 2 marzo 2022.

Lo confesso: sono un ingenuo. Da una settimana, da quando la coscienza rantola sotto le rovine dell'Ucraina mi ostino a cercare notizie dell'Onu. Sì. Nella ennesima quaresima del dispotismo, e questa venata di allarmanti cantilene atomiche, mi sforzo di trovare notizie di Antonio Guterres, il segretario generale. Il segretario generale: riempie la bocca, segretario generale, dà l'idea di un onnipotente. 

Sono cresciuto e non sono certo il solo, nell'idea che ci sono delle istituzioni che per la loro natura, la vita che vi è raccolta e condensata, i ricordi e le speranze che ci si intrecciano alla loro fondazione, talvolta anche con il solo suono del nome o l'evocazione del palazzo che li ospita, diventano, nel bene e nel male, l'immagine obbiettiva di una situazione, di una vicenda, di una storia.

E finiscono per identificarsi con quella come fossero la loro forma reale, la loro proiezione esterna, politica, umana. Ecco: il Palazzo di vetro, le Nazioni unite per gli ingenui di tutto il mondo come me sono ancora la pace, la possibilità almeno della pace, il luogo fisico dove la pace può diventare forza e diritto. Dove esiste, comunque, anche quando le trame di violenti e concussori tentano e talora riescono a umiliarla e a guadagnare posizioni. Ebbene nel corso dei decenni, mentre la Storia finiva e poi ricominciava e ricominciava ancora e forse l'Ucraina è quest' altro terribile inizio, le agenzie delle Nazioni unite sembrano aver soppiantato la casa madre impegnata in vaste capitolazioni.

Perché funzionano abbastanza bene, li vedi nelle grandi crisi umanitarie, salvano e sfamano fuggiaschi, scavalcano a fatica una elefantiasi burocratica che spesso fa asciugare vanamente molte energie nella sabbia del superfluo. Lì ci sono ancora uomini di buona volontà che agiscono e non chiacchierano. Ma questo non basta. L'Onu non è nato forse per la pace, per impedire le guerre, per punire e frenare i prepotenti? 

Per questo non resiste da mezzo secolo nelle bufere della Storia? Lo so che fa cilecca da almeno mezzo secolo, che da artificiere degli incendi dei conflitti si è trasformato nello squallido teatro della solita solfa. Opera come datore di lavoro di caschi blu arruolati in paesi poverissimi alla ricerca di una paga, che assistono impotenti ai massacri dei prepotenti, senza mezzi, senza ordini, senza forza. Li ho osservati ieri nella riunione, ovviamente di urgenza, convocata per il precipitare della crisi ucraina.

Gente che andava e veniva, scranni vuoti, i rappresentanti russo e ucraino che sventolavano fogli di carta con le prove della perversione diabolica dell'uno e dell'altro. Una tribuna periferica e neppure troppo importante per la propaganda. Il solito labirinto minotaurico delle buone intenzioni, una ritualità sgonfia di effetti ma stratificata e inestricabile come un palinsesto bizantino. Un accorto burocrate di scuola borbonica vi avrebbe riconosciuto, con cognizione di causa, la triste odissea della pratica «guerra in Ucraina».

È lo stesso iter di quella della guerra siriana, del genocidio ruandese, della mattanza somala eccetera eccetera. Un cataclisma sulla scena internazionale è dapprima etichettato come "normale", fase in cui è sacrosanto non fare nulla. Poi diventa "urgente": non prestate attenzione ai toni isterici delle dichiarazioni, i navigatissimi argonauti del palazzo di vetro sanno che non val la pena di dar loro retta. Poi approda all'"urgentissimo'' come nel caso dell'attacco russo a Kiev. E allora tutto si placa, a poco a poco si spegne e diventa superfluo.

Il ruolo di Guterres, portoghese ma che per il suo ruolo sembra appartenere più al Mistero che a una patria, si è esaurito in una spelacchiata dichiarazione di estrema preoccupazione, nell'invito ai belligeranti a mantenere la calma, a non far follie. Forse è timido, eppure è stato confermato per un secondo incarico. Si occupa molto di ecologia, argomento sicuramente meno infiammabile dei bombardamenti di Charkov. Setaccio giornali agenzie televisioni: solo Nato, ancora Nato, Unione europea, Stati uniti con l'appendice inglese, oltre che naturalmente russi e ucraini in prima linea.

E le Nazioni unite? Attendiamo con modesta impazienza la solita riunione "urgentissima" che forse passerà al voto di una inutile mozione di condanna della aggressione russa. Poco più della lega araba e l'Organizzazione dell'unità africana o l'associazione tra i paesi del basso Pacifico, che forse qualche ragione geografica per non immischiarsi ce l'hanno. Ma non era a New York il parlamento dell'uomo, inventato proprio per offrire un luogo fisico e politico dedito alla mediazione, alla diplomazia dell'ultimo minuto e dell'impossibile, anche con piccoli metodici passi?

Dove certo ci si scambiava i fragorosi "niet" e si faceva propaganda ma dove al momento cruciale anche le superpotenze potevano confrontasi prima di compiere gesti di cui non si aveva il tempo per pentirsi. Durante la Guerra fredda questo è stato il loro ruolo. Pensavo che questa volta non sarebbe successo come per il Ruanda o la Cambogia, la religione nichilista del nostro tempo non avrebbe accomunato i rappresentanti di tutti i paesi del mondo in un ripiegamento su se stessi, in una inerzia di parole in attesa che la catastrofe passi, ammesso che ci risparmi.

Che fa sempre il gioco dei disegni dei nichilisti. Questa volta non era una guerra di fanatici o un regolamento di conti etnici, uno dei protagonisti dispone delle bombe atomiche e siede in quel sinedrio dei potenti per definizione, a cui spettano i poteri e le maggiori responsabilità di causare catastrofi. C'è una urgenza ancor più disperata di inventare, di operare. 

Di offrire una sponda ai tanti che sperano ancora nella diplomazia senza arrendersi al sopruso ma senza allinearsi rassegnati alla forza. Invece i giorni scorrono via, i morti e le distruzioni aumentano, gli attori della tragedia si moltiplicano e le Nazioni unite semplicemente non esistono. 

L'unico tremolante negoziato è iniziativa dei due contendenti e il terreno neutro è fornito da un satrapo per di più direttamente implicato nello scontro. Le Nazioni unite sono comunque una autorità morale, non potevano prendere l'iniziativa di mettere di fronte i contendenti? Perché teniamo in piedi la recita del Palazzo di vetro? A che servono le migliaia di funzionari ambasciatori diplomatici che affollano il grattacielo di New York?

(ANSA l'1 marzo 2022) - La Cina "deplora lo scoppio del conflitto tra Ucraina e Russia ed è estremamente preoccupata per i danni ai civili". Così il ministro degli Esteri Wang Yi nella telefonata avuta su richiesta di Kiev con la controparte Dmytro Kuleba. La posizione di base della Cina "è aperta, trasparente e coerente. Abbiamo sempre sostenuto il rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale di tutti i Paesi. In risposta all'attuale crisi, la Cina invita Ucraina e Russia a trovare una soluzione al problema attraverso i negoziati e sostiene tutti gli sforzi internazionali costruttivi che portino a una soluzione politica".

Da adnkronos.com l'1 marzo 2022. 

Parla il ministro degli Esteri della Russia, Sergei Lavrov, e l'Onu si svuota. Mentre Mosca porta avanti la guerra in Ucraina, diplomatici e ambasciatori lasciano in massa l'aula del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra quando il ministro degli Esteri della Russia inizia il suo intervento in collegamento video con l'Onu. 

Quella di Lavrov è ''disinformazione totale'' e non merita l'attenzione dei diplomatici, scrive su Twitter la ministra degli Esteri britannica Liz Truss. "La Russia è isolata e dovrebbe vergognarsi di sedere alle Nazioni Unite", aggiunge ancora Truss.

Per la Russia è "inaccettabile" la presenza di armi nucleari americane in Europa, dice Lavrov davanti ad una platea vuota. "Per noi è inaccettabile che, contrariamente ai principi fondamentali del Trattato di non proliferazione, armi nucleari statunitensi siano ancora presenti sul territorio di alcuni Paesi europei", aggiunge Lavrov, sottolineando l'importanza di evitare una nuova corsa agli armamenti ed esortando Washington ad aderire a una moratoria sul dispiegamento di missili a corto e medio raggio in Europa.

Cambio di paradigma. L’analfabetismo di fronte al male e la nouvelle vague della politica estera. Davide Riccardo Romano su L'Inkiesta l'1 marzo 2022.

L’invasione russa fa riflettere su quanto le istituzioni del mondo occidentale siano incapaci di leggere le intenzioni dei regimi autoritari, un errore già commesso con Hitler e ripetuto oggi con Putin. La tendenza attuale, poi, è punire certi atteggiamenti con le sanzioni, la nuova arma delle democrazie contro chi le vuole distruggere.

L’invasione russa in Ucraina deve farci riflettere su due grandi questioni: la prima è un errore storico che continuiamo a ripetere. La seconda invece, è relativa a un nuovo modo di fare politica estera cui stiamo assistendo.

Partiamo dalla prima questione: l’analfabetismo delle nostre istituzioni di fronte al Male. Come diceva saggiamente Franz Kafka: «Il male conosce il bene, il bene non conosce il male». È infatti dai tempi di Hitler che l’Occidente non ha voluto né saputo leggere e prendere sul serio i suoi libri, i suoi discorsi, le sue parole. Con le conseguenze che ben conosciamo.

Eppure da Adolf Hitler a Vladimir Putin, il loro programma era scritto nero su bianco. Siamo stati noi a non volerlo capire. I discordi di Putin sull’Ucraina come parte integrante della Russia sono lì, scritti nero su bianco. Bastava volerli leggere.

Tutti i regimi vivono di propaganda, ma noi non sappiamo più leggerla, purtroppo. Il nostro passato fascista e la nostra cultura antifascista sono ormai annacquati feticci: abbiamo perso la capacità di interpretare i voleri dei regimi autoritari, pur avendone vissuto uno durato vent’anni.

L’altra grande questione è la nuova politica estera che stiamo inaugurando in questi giorni: le sanzioni economiche. Il mondo intero (Svizzera compresa!) sta ormai procedendo unitamente contro l’economia russa.

È indubbio che i risultati arriveranno, basta vedere le reazioni di panico della borsa russa e del suo rublo ai primi provvedimenti da parte del mondo libero. Ed è proprio questo il punto che ora a tanti sfugge: stiamo creando un importante precedente.

Dal subire la guerra ibrida (dal terrorismo alle fake news di cui siamo inondati da parte di diversi regimi) al reagire con una guerra nonviolenta condotta attraverso le sanzioni la differenza è enorme.

Oggi l’oggetto della nuova politica estera nonviolenta è la Russia. E domani, la Cina? O la Turchia? Chiunque avesse proposto queste politiche sanzionatorie ieri, sarebbe stato preso per pazzo. Da domani, a fronte di un Recep Tayyip Erdoğan che cancelli il libero voto, chi proponesse di rimuovere alcune banche turche dal sistema Swift (sul modello di quanto applicato alla Russia) potrebbe essere visto come un pragmatico.

Voglio dire che al di là della situazione contingente, ci troviamo di fronte a un potenziale cambio di paradigma nelle relazioni internazionali: dove finalmente le democrazie potrebbero muoversi contro chi le vuole distruggere, e non solo difenderti passivamente come fatto sino ad ora. Il fine ultimo? Passare dalle sanzioni come reazione a una avvenuta invasione, alle sanzioni per prevenire invasioni o cancellazioni del libero voto democratico. Sta solo a noi, opinioni pubbliche occidentali, essere più determinate e coraggiose. Prossima tappa? La difesa di Taiwan. 

Armi, banche e spazio aereo, così l'Europa fa la guerra a Putin. Il Tempo il 27 febbraio 2022.

«Per la prima volta in assoluto l’Ue finanzierà l’acquisto e la consegna di armi ed equipaggi per un Paese sotto attacco. È un momento spartiacque per noi - così Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue con riferimento allo European Peace Facility con cui l’Europa acquisterà armi letali per l’Ucraina - Chiudiamo lo spazio aereo Ue ai russi. Proponiamo un bando per tutti i velivoli di proprietà russa, registrati in Russia o controllati dai russi. Questi aerei non potranno più atterrare, decollare o sorvolare il territorio dell’Ue. Il nostro spazio aereo sarà chiuso ad ogni aereo russo, inclusi i jet privati degli oligarchi», conclude.

La guerra dell'Europa alla Russia si giocherà anche sul piano economico. «Importanti banche russe saranno escluse dal sistema Swift - prosegue la Von der Leyen - Vieteremo anche le transazioni della banca centrale russa e congeleremo tutti i suoi beni per impedirle di finanziare la guerra di Putin. E prenderemo di mira i beni degli oligarchi russi. Continuiamo a coordinarci strettamente con i partner in tutto il mondo. E rimaniamo in stretto contatto con i nostri amici ucraini».  

Riflettori anche sul ruolo dei media. «Con un altro passo senza precedenti, vieteremo nell’Ue la macchina dei media del Cremlino. Russia Today e Sputnik, di proprietà statale, così come le loro sussidiarie non saranno più in grado di diffondere le loro bugie per giustificare la guerra di Putin e di vedere la divisione nella nostra Unione. Quindi stiamo sviluppando strumenti per vietare la loro disinformazione tossica e dannosa in Europa». 

Orso mangia orso. Massimo Gramellini su il Corriere della Sera il 28 febbraio 2022.

Notoriamente allergici alla retorica, gli inglesi sono gli unici a dirlo senza eufemismi: l’obiettivo delle sanzioni è rovesciare Putin. Non solo costringere i carrarmati russi a mettere la retromarcia, ma liberare il mondo dall’uomo che, come ha notato Zelensky, ha occhi senza sguardo. Dopo l’attacco sgangherato all’Europa e le foto dei bambini uccisi per strada, Putin ha suscitato una tale ondata di disprezzo planetario che la sua appartenenza al consesso civile risulta largamente compromessa e forse nemmeno un accordo onorevole potrebbe bastare a salvargli la faccia e di conseguenza il posto. L’Occidente è un po’ meno vile di come lui se lo immagina, ma soprattutto non è per nulla sprovveduto. Non potendo andare a prelevarlo di persona al Cremlino, cerca di convincere qualcun altro a farlo. Grazie alle sanzioni, gli oligarchi russi hanno già perso oltre cento miliardi in una settimana e qualcuno di loro comincia ad agitarsi e a rivelarsi, almeno nelle interviste, molto meno putiniano di certi politici italiani. La Storia insegna che a pensionare un potente impazzito non è mai la povera gente che lo subisce, ma gli altri potenti, spesso gli stessi che lui ha beneficiato. Per far fuori il fanatico Savonarola, papa Borgia minacciò Firenze di interdetto: dare dei soldi ai mercanti fiorentini sarebbe diventato improvvisamente un peccato mortale, per la gioia di chiunque avesse avuto un debito con loro. Fu così che in poco tempo quei mercanti trovarono il modo di liberarsi del frate. Il Caffè di Gramellini vi aspetta qui, da martedì a sabato. Chi è abbonato al Corriere ha a disposizione anche «PrimaOra», la newsletter che permette di iniziare al meglio la giornata.. Chi non è ancora abbonato può trovare le modalità per farlo, e avere accesso a tutti i contenuti del sito, tutte le newsletter e i podcast, e all’archivio storico del giornale.

Peggio di chi difende Putin è solo chi accusa sempre l’Europa. Aldo Cazzullo su il Corriere della Sera il 28 febbraio 2022.

Spettabile Cazzullo, quando la Nato (Italia compresa) bombardò la Serbia perché si opponeva alla secessione del Kosovo lei si indignò? Non credo. Luigi Facchin, Milano

Spettabile Facchin, Ricevo molte lettere come la sua. Le confesso che preferisco i lettori coerenti, che scrivevano bene di Putin ieri e lo difendono oggi. Non condivido una parola delle loro argomentazioni. Ma le trovo meno ipocrite rispetto ai ragionamenti di chi sino all’ultimo ha elogiato Putin o — per chi fa politica e/o affari; a volte le due cose coincidono — ha cercato un rapporto privilegiato con lui e con il suo regime, e ora, non potendo tenere il punto di fronte al sangue e al coraggio del popolo ucraino, se la prende con l’America, con la Nato, con l’Europa. Intendiamoci: l’America, la Nato, l’Europa non sono il Bene. Erano semplicemente la parte giusta con cui stare nei decenni drammatici della guerra fredda che oppose le democrazie occidentali — imperfette, limitate, ma pur sempre democrazie — all’impero sovietico. Anche nel conflitto ucraino stare con l’Occidente significa stare dalla parte giusta. Poi certo sono stati commessi errori. Ma quali? Tra i critici dell’America, della Nato, dell’Europa non c’è uno che dica la stessa cosa. Alcuni sostengono che sia stato sbagliato inglobare nella Nato i Paesi baltici, la Polonia, insomma gli ex satelliti sovietici, finendo per provocare Putin. Altri dicono il contrario: la Nato doveva avere più coraggio e includere pure l’Ucraina, che a quel punto la Russia non avrebbe osato aggredire. Io non posseggo la verità, ma visto che lei spettabile Facchin mi chiama in causa personalmente le rispondo che quando gli aerei Nato bombardarono Belgrado mi sentii come europeo profondamente turbato, proprio come milioni di italiani. Ma il suo paragone è totalmente campato in aria. All’epoca la Nato intervenne per fermare il massacro dei kosovari. Da allora migliaia di soldati italiani hanno servito in Kosovo, per proteggere la popolazione locale e costruire istituzioni democratiche; almeno loro, spettabile Facchin, meriterebbero il suo rispetto. Oggi a massacrare gli ucraini sono le truppe di Putin.

Putiniani inconsapevoli. Abbiamo già abbastanza agenti del caos in giro, vediamo di non aiutarli con le nostre scemenze. Francesco Cundari su L'Inkiesta l'1 marzo 2022.

A sentire giornali e tv, in quattro giorni appena, Putin ha stravinto una guerra che non ha mai cominciato, però l’ha anche già persa, contro quei paesi occidentali che pur avendo irresponsabilmente provocato tutto questo, al tempo stesso, non hanno fatto un bel nulla

In meno di una settimana, sui giornali e in tv, i più autorevoli analisti, editorialisti e commentatori ci hanno spiegato, nell’ordine, che Putin non avrebbe mai invaso l’Ucraina (fino al giorno prima dell’invasione); che Putin aveva già vinto (dal giorno stesso dell’invasione, 24 febbraio); che l’occidente aveva sbagliato tutto e a questo punto poteva fare ben poco (dal 25); che Europa e Stati Uniti avevano cinicamente abbandonato l’Ucraina al suo destino, perché non avevano più né la voglia né la forza né l’interesse di scontrarsi con la Russia, e nemmeno di sacrificare i propri interessi economici (fino all’altro ieri); che Stati Uniti ed Europa non dovevano esagerare e dovevano invece dare modo a Putin di ritirarsi salvando la faccia (ieri).

Ricapitolando, in quattro giorni appena, Putin ha stravinto una guerra che non ha mai cominciato, però l’ha anche già persa, contro quei paesi occidentali che pur avendo irresponsabilmente provocato tutto questo, al tempo stesso, non hanno fatto un bel nulla, anche perché disponevano solo di armi spuntate, con cui ora però non devono cercare di stravincere, perché il troppo stroppia. Chiaro, no?

Se pensiamo che siamo appena all’inizio del quinto giorno di guerra, c’è di che essere preoccupati sul serio, non solo per l’andamento di un conflitto terribile e dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche per il mondo intero; ma anche per l’equilibrio psicologico ed emotivo del nostro dibattito pubblico. In ogni caso, vista la prova data fin qui dal giornalista, dal politico e dal geopolitologo collettivo, non pare il caso di fare tanto gli spiritosi sugli strateghi di Twitter e gli analisti militari dell’accademia di Facebook, che alla fin fine non hanno fatto certo peggio di quelli visti sin qui sui mezzi di informazione più blasonati.

C’è però un problema di fondo che questo assurdo dibattito mette in evidenza. Se infatti ripercorrete a ritroso la marea di fregnacce dette in questi giorni e qui solo sommariamente riassunte, vi accorgerete che, al netto di tutte le evidenti contraddizioni, vi è un robusto filo conduttore che le tiene insieme.

Nell’assoluta incoerenza e autocontraddittorietà dei riferimenti fattuali, c’è infatti una perfetta e direi adamantina coerenza d’ispirazione. Europa e Stati Uniti possono essere guidate da cinici politicanti che abbandonano l’Ucraina al suo destino per tutelare i propri interessi fino a ieri e da irresponsabili guerrafondai che rischiano di trascinarci nella terza guerra mondiale oggi, e così governi, partiti e Parlamento italiani ed europei, anzi, soprattutto partiti e parlamenti. Il geniale stratega, l’uomo forte, l’invincibile giocatore di poker è sempre l’autocrate; le democrazie sono sempre o imbelli o in preda all’isteria. È una retorica di cui, a cento anni esatti dalla marcia su Roma, non si dovrebbe faticare a riconoscere la matrice culturale. Una concezione del mondo in cui la democrazia, proprio come la donna, è sempre o debole o isterica, mentre la prepotenza degli aggressori è prova di forza e scaltrezza superiori.

La dura necessità di combattere il Covid ci ha insegnato l’importanza dell’osservare tutti alcune norme di comportamento, a tutela della salute collettiva. Se non vogliamo rendere sin troppo facile il lavoro ai tanti agenti del caos che lavorano alacremente alla destabilizzazione delle democrazie occidentali, dovremo imparare a prenderci altrettanta cura dell’igiene del nostro dibattito pubblico, che non significa solo mettere al bando gli organi di propaganda e disinformazione più smaccati (come si sta giustamente facendo in Europa), ma anche fare banalmente un po’ più attenzione, ciascuno di noi, nel nostro piccolo, persino sulle nostre piccolissime pagine social, a non alimentare il contagio della propaganda antidemocratica e antipolitica.

Inutile aggiungere che su questo terreno in Italia, specialmente noi giornalisti, siamo un pochino indietro.

Legge marziale, cos’è il provvedimento preso in Ucraina dopo l’invasione della Russia. Giampiero Casoni il 24/02/2022 su Notizie.it.

Kiev ha proclamato ufficialmente la legge marziale, cos’è il provvedimento preso in Ucraina dopo l’invasione della Russia e cosa comporta nel quotidiano. 

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha proclamato la legge marziale, dopo l’invasione della Russia e l’offensiva scatenata da Putin lo stato delle cose ha messo Kiev nelle condizioni di varare leggi speciali di guerra che vigeranno per un periodo di tempo limitato ma che di fatto capovolgono il sistema legislativo nazionale.

A ventilare l’ipotesi poche ore prima che le truppe della Federazione Russa attaccassero Donbass e città dell’Ucraina occidentale oltre il Dniepr era stato il segretario del Consiglio nazionale di Sicurezza e difesa ucraino, Oleksiy Danilov.

Legge marziale in Ucraina: la proclamazione ufficiale

Il ministro aveva detto: “Se necessario, la legge marziale verrà introdotta all’istante. Ora non esiste una decisione in tale senso, ma siamo pronti per qualsiasi cosa”. Subito dopo l’attacco gli ha fatto eco il capo dello stato con la proclamazione ufficiale: “Niente panico, siamo pronti a tutto e sconfiggeremo tutti”.

La legge marziale era stata già introdotta in Ucraina nel 2018 per un mese: in quelle circostanze la Russia sequestrò tre navi della marina militare ucraina nello stretto di Kerc, tra il Mar d’Azov e il Mar Nero. Con la legge marziale entra in vigore un sistema di leggi straordinario; sono norme che un paese applica in casi di estrema gravità come calamità naturali o guerre. Con quel vero ordinamento giuridico separato molte leggi ordinarie perdono di efficacia e l’amministrazione della giustizia passa ai tribunali militari.

Leggi speciali, coprifuoco e tribunali militari

Nei paesi come l’Ucraina, da sempre divisa fra filorussi e filo europeisti slavi la necessità delle legge marziale è figlia della necessità di incidere con provvedimenti eventuali anche sugli stessi cittadini divisi per ideologia e per fazioni di appartenenza. Tra le altre cose con la legge marziale vengono introdotti il divieto di riunioni politiche, il coprifuoco e in casi estremi la pena di morte per pronunciamento diretto di un collegio giudicante militare per tradimento.

Zelensky: «Sono l’obiettivo numero 1 dei russi, resto qui». Le ipotesi di un governo a Leopoli o in esilio. Giuseppe Sarcina e Paolo Foschi su Il Corriere della Sera il 25 Febbraio 2022.

Drammatico videomessaggio del presidente ucraino: siamo stati lasciati soli a combattere contro l’Armata rossa. Gli Usa studiano come garantire la sua sicurezza, ma Biden sembra escludere l’invio di un commando militare per metterlo in salvo. 

Il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky nella notte di giovedì 24 febbraio — il primo giorno dell’invasione totale del suo Paese — si è presentato davanti alle telecamere per chiedere ancora una volta l’aiuto dell’Occidente, per provare a rassicurare i suoi concittadini, ma soprattutto per annunciare: «Sono io l’obiettivo numero uno del nemico, la mia famiglia è il numero due». 

I russi sono alle porte di Kiev, anzi, come ha riferito lo stesso presidente, «squadre di sabotatori sono già penetrate all’interno della città». 

«L’Ucraina è stata lasciata sola a combattere contro l’Armata rossa» ha aggiunto, «chi è pronto a combattere con noi? Non vedo nessuno. Chi è pronto a dare all’Ucraina una garanzia di adesione alla Nato?».

Nelle ultime ore, al Pentagono come al comando Nato di Bruxelles, cresce la convinzione che Putin voglia «decapitare il governo ucraino». Ieri sera il Segretario di Stato Antony Blinken è uscito allo scoperto in un’intervista televisiva: «Penso che Putin proverà a rovesciare il governo di Kiev». 

Zelensky ha sfidato i russi: «non me ne andrò, resterò al mio posto». 

Tuttavia americani ed europei sono preoccupati non solo per la sua incolumità personale, dei suoi ministri e dei famigliari, ma anche per il rischio che il Paese resti senza istituzioni riconosciute. Washington e Bruxelles hanno bisogno in un interlocutore legittimo. In caso contrario l’Ucraina potrebbe sprofondare nel caos e per Putin sarebbe più facile assumere il controllo del territorio. 

La portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, ieri ha glissato sul punto, ma con un elaborato giro di parole ha fatto capire che il tema «della sicurezza» di Zelensky è all’ordine del giorno. E probabilmente Joe Biden ne ha parlato con lo stesso leader ucraino nella telefonata di mercoledì notte, subito dopo l’inizio dell’attacco russo.

Siamo ancora nel campo delle ipotesi. Ma a quanto sembra il presidente Usa non è intenzionato a inviare un commando militare per portare in salvo Zelensky, se la situazione dovesse precipitare rapidamente. 

Non ci sarebbero, allora, molte possibilità. 

Gli americani cercheranno di convincere Zelensky a non asserragliarsi nel palazzo presidenziale, come fece Salvador Allende nel Cile del 1973 pur di non cedere il passo al generale golpista Pinochet. 

Il presidente ucraino, invece, dovrebbe lasciare Kiev e a formare un esecutivo in un’altra città, probabilmente a Leopoli, vicino al confine polacco. Ma potrebbe anche non bastare per sfuggire ai tank di Putin. 

E allora Zelensky potrebbe riparare all’estero, nella stessa Polonia per esempio, e formare un governo in esilio, cercando di restare il punto di riferimento per gli ucraini e per una possibile seconda fase del conflitto, di cui pure si comincia parlare: la resistenza, la guerriglia contro gli invasori.

Ucraina: Kiev chiama i cittadini alle armi. (ANSA il 24 febbraio 2022) - Tutti coloro che sono pronti e sanno come utilizzare le armi possono unirsi alle Forze di difesa territoriale delle Forze armate ucraine nella loro regione: lo ha scritto oggi su Facebook il ministro della Difesa ucraino, Oleksiy Reznikov, sottolineando che il Paese "sta passando alla modalità di difesa completa". Lo riporta Interfax.

Ucraina: Bbc, Kiev e altre 6 città sotto attacco russo

La Bbc pubblica sul suo sito una cartina dell'Ucraina in cui segnala le città del Paese attualmente sotto attacco da parte delle forze russe: nel complesso, sono almeno sette le località prese di mira da Mosca, inclusa Kiev. Oltre alla capitale, sono contrassegnate con il simbolo di un'esplosione le città di Kharkiv (est), Ivano-Frankivsk (ovest), Kramatorsk (est), Dnipro (est), Odessa (sud) e Mariupol (sudest).

Ucraina: testimone, ci hanno chiesto di ospitare 3000 bimbi

"Cerchiamo di mantenere la calma e ci stiamo preparando per accogliere gli evacuati. Abbiamo ricevuto la direttiva di accogliere 3.000 bambini provenienti presumo dagli orfanotrofi della zona del Donbass. Abbiamo svuotato i collegi, gli appartamenti per gli studenti, ci sono anche spazi comunali, e molte famiglie ci hanno contattato per ricevere bambini". A parlare all'ANSA è Tamara Senyushko, dalla Regione sudoccidentale di Cernivtsi. 

L’attacco all’Ucraina e la resistenza di Kiev: la mappa delle forze in campo. Guido OIimpio e Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 24 Febbraio 2022.

La mappa dell’attacco russo all’Ucraina. Bombardamenti e cyber attacchi, poi le unità scelte. I russi puntano alla capitale per insediare un governo filorusso. Gli ucraini reggono a Mariupol ma perdono Chernobyl. 

I russi stanno attaccando (qui le notizie di oggi, 25 febbraio) almeno una decina di città ucraine. Ma per Vladimir Putin l’obiettivo numero uno è insediare un governo filo russo a Kiev. L’esercito ucraino sembra in difficoltà. La Nato è in allarme e ha già attivato la «Forza di risposta rapida». Joe Biden avverte: «Putin non si fermerà, vuole un impero, vuole ricostituire la vecchia Unione Sovietica». Proviamo, allora, a tracciare i possibili sviluppi, militari e politici, partendo dalla situazione sul campo.

L’offensiva ha seguito uno schema consolidato. Alle 5 di ieri mattina, ora locale, è iniziato un pesante bombardamento preparatorio su larga parte del territorio, da Kiev a Kharkiv (est) fino a Odessa (sud): missili balistici e da crociera, ordigni «Kalibr» scagliati dalle navi nel Mar Nero, più colpi di artiglieria e raid dell’aviazione. In azione almeno 75 aerei, come i bombardieri Tu-95 e i Su 34.

I russi hanno fatto sapere di aver distrutto 71 «target», tra cui 11 aeroporti, e un gran numero di mezzi, inclusi jet, droni. La prima ondata ha colpito depositi di munizioni, impianti strategici, centri di comando-controllo, strutture logistiche, batterie anti-aeree, radar. I missili terra-terra Iskander sono stati impiegati contro bersagli nell’area di Kiev. È stato un pugno possente, combinato con disturbi elettronici e incursioni cyber, per disarticolare le difese. Quindi è iniziata la seconda fase affidata alle unità scelte. Un reparto elitrasportato ha assaltato l’aeroporto di Gostomel, una ventina di chilometri a nord ovest di Kiev, uno scalo merci importante. I video hanno mostrato il volo a bassa quota di Mi 8, Mi 24 e Kamov 52, una trentina. I fanti di marina hanno condotto operazioni nel settore di Odessa.

L’esercito di Kiev ha abbandonato quasi immediatamente i presidi al confine con la Bielorussia e ha aspettato all’interno le colonne dei russi. Il ministero della Difesa ucraino ha fatto sapere che l’esercito «ha respinto il nemico» a Chernikiv, ma ha ceduto a Chernobyl, lasciando sguarnita la strada verso la capitale. Sempre le autorità di Kiev informano che la «situazione è molto difficile» a Kharkiv, dove comunque la contraerea «ha distrutto cinque aeroplani e due elicotteri» degli invasori. Inoltre gli ucraini starebbero reggendo a Mariupol, dopo «aver abbattuto sei velivoli e due elicotteri», oltre ad aver distrutto «dozzine» di mezzi corazzati.

Ma il problema è: quanto sarà in grado di reggere l’Ucraina? La disparità delle forze è evidente. Da una parte circa 200 mila soldati, molti dei quali super addestrati e con grande dispiego di forze. Dall’altra un esercito con altrettanti militari e, potenzialmente, 900 mila riservisti, ma dotazioni nettamente inferiori. Un solo esempio: 852 carri armati, contro i 1.200 schierati dai russi.

Oggi ci sarà il vertice straordinario dell’Alleanza Atlantica per adottare le contromisure. Il comando di Bruxelles ha già mobilitato la «Nato Response Force», un robusto e ben addestrato contingente, che, nel giro di tre giorni, può schierare fino a 44 mila soldati. Si dovrebbero spostare verso il fianco Est dell’Alleanza, dove nelle scorse settimane sono già arrivate unità di rinforzo, tra cui i 4.700 militari provenienti direttamente dagli Usa.

Ne partiranno altri, ha detto ieri il presidente americano. Praticamente tutte le basi dell’Alleanza, comprese quelle italiane, sono in «pre allerta operativo». Tutta questa agitazione può avere un impatto sulla guerra? Posto che la Nato interviene solo in caso di aggressione a uno dei suoi trenta partner, ci sarebbe in teoria la possibilità di formare una «coalizione di volenterosi» per soccorrere Kiev. Biden ha escluso ancora una volta un impegno diretto in Ucraina.

D’altra parte non troverebbe sponde tra gli alleati europei, con l’eccezione, forse, del Regno Unito. C’è, però, un altro elemento. «Putin non ha intenzione di fermarsi in Ucraina», ha sottolineato Biden. I generali americani suggeriscono di rafforzare in particolare le difese dell’Estonia, il Paese potenzialmente più esposto a incursioni o a provocazioni russe.

Si prova anche a guardare avanti. Che cosa succederebbe se l’esercito ucraino dovesse cedere, magari già nei prossimi giorni? Una delle ipotesi è che il presidente Volodymyr Zelensky potrebbe rifugiarsi a ovest, a Leopoli, o in Polonia, costituendo un governo in esilio. A quel punto Putin sarebbe costretto a gestire un’occupazione di lungo periodo. Ma per controllare il Paese e rimetterlo in moto non basterebbero 200 mila soldati. Si stima che ce ne vorrebbero almeno 800 mila. E qui le analisi lasciano lo spazio all’immaginazione.

C’è chi, come Greg Austin dell’International Institute for Strategic Studies, prevede «una guerriglia cibernetica». Altri pensano a una resistenza più tradizionale, tipo quella che obbligò gli stessi russi a ritirarsi dall’Afghanistan, nel 1989. In questo caso i Paesi Nato dovranno decidere se e come fornire le armi e i mezzi necessari per sconfiggere Putin nel lungo periodo.

La disperazione di un popolo. Fuga dall’Ucraina, le donne napoletane: “La benzina sta finendo, bancomat fuori uso”, famiglia scappa e lascia nonna allettata. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 24 Febbraio 2022. 

Bancomat fuori uso, benzina in esaurimento e connessione a intermittenza. Migliaia i cittadini in fuga dall’Ucraina tra mille difficoltà. Dopo il bombardamento avviato la scorsa notte dalla Russia, da questa mattina, 24 febbraio, è in atto la prima grande fuga dal Paese. E’ il caos: strade bloccate e lunghe code per lasciare la capitale Kiev. Diverse le testimonianze di donne e uomini di nazionalità ucraina presenti in Italia. Sono in costante contatto con i loro familiari che stanno provando a lasciare la Nazione tra mille difficoltà.

“Ogni persona può mettere massimo 20 litri di benzina, i rifornimenti stanno finendo, i bancomat sono chiusi ed è impossibile ritirare denaro” denuncia Oksana, una giovane donna che da anni vive e lavora a Napoli. “L’apprensione è forte, la mia famiglia sta provando a scappare in Polonia, mia nonna è allettata e purtroppo è rimasta a casa, non ce la faceva a scappare con i miei genitori e i miei fratelli. E’ tutto così assurdo”. Un racconto drammatico.

Un’altra donna, Iryna, anche lei a Napoli da anni, racconta: “Una mia amica è scappata all’alba da Kiev, ha preso un taxi, ha pagato 200 euro ed è riuscita a raggiungere Ustyvytsia, cittadina a sud-est della capitale. Sua madre – aggiunge – è rimasta a Kiev e dice che ci sono tante vittime tra i civili”.

“La guerra è sempre una pessima notizia: l’invasione dell’Ucraina ci desta una profonda preoccupazione per le conseguenze che potrebbero esserci in Europa e nel mondo intero. La guerra produce delle conseguenze che si riversano sulle popolazioni più deboli. Non soltanto su quelle coinvolte direttamente nei conflitti, e qui ribadisco la ferma condanna di ogni forma di violenza e di guerra. Le conseguenze sul piano economico, infatti, potrebbero esserci per tutti i paesi, Italia compresa. Con un aumento delle disuguaglianze, ma anche delle difficoltà di accesso alle cure, se si dovesse sviluppare una crisi economica dalle conseguenze incerte”. Così il Presidente della Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici chirurghi e degli Odontoiatri, Filippo Anelli, commenta le notizie che arrivano dall’Ucraina.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

(ANSA il 24 febbraio 2022) - L'interscambio commerciale russo verso il resto del mondo ha raggiunto i 785 miliardi di dollari nel 2021, in aumento del 38% rispetto al 2020. Determinante la dinamica dell'export (+45,8%) a 492 miliardi di dollari, mentre le importazioni sono state pari a 293 miliardi di dollari (+26,7%). Lo rileva l'analisi della Direzione studi e ricerche di Intesa Sanpaolo in un report sul commercio russo. 

Le importazioni sono costituite prevalentemente da macchinari, prodotti chimici, mezzi di trasporto e prodotti dell'agro-alimentare. Le esportazioni da minerali per quasi la metà del totale, seguiti da merci varie, metalli, pietre e metalli preziosi, prodotti dell'agro-alimentare. Il principale mercato degli scambi russi resta l'Europa, sebbene la sua rilevanza sia andata calando negli anni, a vantaggio del continente asiatico.  

Sostanzialmente stabile la quota sia delle Americhe che dell'Africa. La Cina è il primo partner commerciale con una quota del 18% degli scambi nei primi undici mesi del 2021, seguita dalla Germania con il 7,4%. L'Italia è settima con il 3,9%. La Cina ha fornito alla Russia macchinari per 35 miliardi di dollari (pari al 54% del totale), prodotti del tessile e abbigliamento, metalli e mezzi di trasporto.  

Le esportazioni sono per tre quarti costituite da minerali. Anche dai paesi della Ue arrivano macchinari, ma per soli 27,2 miliardi di dollari (32%), seguiti da mezzi di trasporto, prodotti chimici e agro-alimentari. L'export russo verso la Ue è dato per oltre la metà da minerali, seguiti da merci varie e metalli.

Le reazioni dei mercati. Vola il prezzo del petrolio, la Borsa di Mosca sospende gli scambi. Linkiesta il 24 Febbraio 2022.

Il greggio sopra i 100 dollari a barile per la prima volta dal 2014. Le borse asiatiche virano in negativo, l’oro ai massimi. Parte la corsa ai beni rifugio. Il rublo russo al minimo storico

I mercati reagiscono immediatamente alle notizie dell’operazione militare della Russia in Ucraina.

Come riporta Bloomberg, la Borsa di Mosca ha sospeso tutti gli scambi. Mentre il prezzo del petrolio vola, con il Brent che supera i 100 dollari al barile, per la prima volta dal 2014 e il Wti è a 95,54 dollari.

Il rublo russo è sceso del 5,4% al minimo storico

Le borse asiatiche virano in negativo: l’indice Hang Seng di Hong Kong arretra del 2,51%. Perdite anche a Shanghai e Shenzhen.  I future sui listini di Wall Street segnano un forte calo.

L’operazione militare apre la corsa ai beni rifugio. L’oro sale ai massimi da oltre un anno, crescendo dell’1% a 1.928,80 dollari l’oncia. Le valute rifugio come yen e dollaro Usa crescono di valore, insieme ad altre materie prime preziose come il nichel e il grano.

Il Bitcoin in calo perde l’8%.

(ANSA il 24 febbraio 2022) All'ennesima domanda sulla "invasione" dell'Ucraina da parte della Russia posta dai media occidentali, la portavoce del ministero degli Esteri cinese, Hua Chunying, ha respinto "l'uso preconcetto delle parole". Nel corso del briefing quotidiano, Hua ha aggiunto di ritenere la vicenda un "tipico stile di fare le domande dei media occidentali".

(ANSA il 24 febbraio 2022) - La Cina rispetta "sempre la sovranità e l'integrità territoriale di tutti i Paesi. Allo stesso tempo, abbiamo anche visto che la questione Ucraina ha latitudine e longitudine storiche complesse e speciali e comprendiamo le legittime preoccupazioni della Russia sulla sicurezza". 

Lo ha detto il ministro degli Esteri Wang Yi, nella telefonata con la controparte russa Sergei Lavrov, aggiungendo che "la Cina sostiene che la mentalità da Guerra Fredda dovrebbe essere del tutto abbandonata e che un meccanismo di sicurezza europeo equilibrato, efficace e sostenibile dovrebbe essere finalmente formato attraverso il dialogo e la negoziazione"

"Attiviamo l'articolo 4 della Nato". Cosa prevede il Patto Atlantico. Lorenzo Vita il 24 Febbraio 2022 su Il Giornale.

I Paesi baltici e la Romania chiedono immediate consultazioni per la minaccia all'integrità territoriale e alla sicurezza dei Paesi membri dell'Alleanza. Si teme per il confine ucraino.

La Nato cerca di compattarsi per reagire di fronte all'attacco della Russia all'Ucraina. Mentre il segretario generale, Jens Stoltenberg, ha convocato una conferenza stampa per le ore 12, il fronte più bollente è quello al limite orientale dell'Alleanza.

I Paesi baltici, la Polonia, e la Romania, subito dopo l'inizio delle operazioni russe in Ucraina, hanno chiesto l'attivazione dell'articolo 4 della Nato. Su Twitter, la premier estone Kaja Kallas ha scritto che il suo Paese "ha deciso di attivare le consultazioni in base all'articolo 4 del trattato, in cooperazione con altri alleati, fra cui Lettonia, Lituania e Polonia". Per il capo del governo di Tallinn, la guerra è "una minaccia a tutto il mondo libero". Dello stesso avviso il ministro degli Esteri romeno, Bogdan Aurescu, che sempre attraverso i suoi profili social ha annunciato di aver invitato la missione romena presso la Nato a "cercare, insieme ad altri alleati, l'attivazione dell'articolo 4 del Trattato di Washington". ll presidente rumeno Klaus Iohannis ha convocato il Consiglio supremo della difesa nazionale.

L'articolo 4 Nato prevede che "le parti si consulteranno ogni volta che, nell'opinione di una di esse, l'integrità territoriale, l'indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti fosse minacciata". In questo caso, giova ribadirlo, è stato attaccato un Paese che non fa parte dell'Alleanza Atlantica. Dunque non possono scattare misure belliche come nell'eventualità di una aggressione nei confronti di uno Stato membro. La richiesta di attivazione dell'articolo 4, ovvero la richiesta di consultazioni urgenti per una minaccia, è però un passaggio importante perché formalizza per la prima volta il rischio che il conflitto possa incidere sulla sicurezza dei Paesi membri.

In questo senso, è chiaro che la Romania, ma soprattutto il fronte del Baltico, sono le aree più interessate dalle fiamme che si propagano dall'Ucraina dopo l'attacco russo. Innanzitutto perché confinano chi con il territorio ucraino chi con la Russia. E questo implica inevitabilmente un pericolo non solo dal punto di vista bellico, ma anche per le conseguenze sulla popolazione. Dalle capitali orientali si chiede un maggiore rafforzamento dell'apparato militare dell'Alleanza Atlantica, preoccupati non solo dalle operazioni in Ucraina ma anche dall'oblast di Kaliningrad, avamposto russo sul Baltico. Mentre Bucarest è allarmata dalle possibile conseguenze sul Mar Nero e al confine settentrionale.

Molti, soprattutto i Paesi più vicini alla parte occidente dell'Ucraina, temono un esodo della popolazione. Un rischio che da tempo è considerato molto elevato e che potrebbe diventare realtà nelle prossime ore. Le colonne di auto che fuggono dalle città ucraine potrebbero essere il segnale dell'inizio di una fuga di massa. E i Paesi dell'Europa orientale potrebbe avere difficoltà a gestire non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello sociale. Altri, come già avvenuto l'anno scorso con la Bielorussia, temono che la questione migratoria possa essere sfruttata in caso di "guerra ibrida" come ulteriore leva contrattuale nei confronti dei Paesi Ue e Nato.

Estratto dell’articolo di Lorenzo Lamberti per lastampa.it il 24 febbraio 2022. 

C'è chi intravede un allineamento vero e proprio tra Pechino e Mosca, ma come sempre bisogna leggere tra le righe quando si parla di Cina. Il governo di Xi Jinping appare infastidito su diversi piani per l'azione russa. Alla quale comunque il governo ha sottolineato che non offrirà assistenza militare.

«La Cina non fornirà mai armi a una delle parti in conflitto in Ucraina», ha fatto sapere il ministero degli Esteri. Aggiungendo: «A differenza degli Stati Uniti». Un'aggiunta cruciale, visto che la retorica del Partito comunista si concentra proprio sull'addossare le colpe della crisi su Washington e sulla Nato. Tra le altre cose, vengono condannate le sanzioni internazionali che «infiammano» la crisi.

Senza però entrare tra le pieghe delle rivendicazioni territoriali russe né del riconoscimento delle repubbliche separatiste. Sviluppi che, anzi, mettono in difficoltà Pechino su diversi piani che aveva finora provato a mantenere una posizione neutrale, come sua tradizione, su una vicenda che però rischia ora di intaccare ulteriormente i suoi rapporti con l'occidente. 

Gli interessi di Mosca e Pechino collimano soprattutto su un punto: la retorica anti-americana. Sul dossier ucraino i media cinesi non hanno mai criticato Kiev: i «cattivi» sono sempre Washington e la Nato. Per Cina e Russia, magnificare la profondità del rapporto rappresenta una leva negoziale nei confronti degli Usa o dei rispettivi vicini. Sotto la patina formale, però, c'è anche qualcosa che continua a dividere i due partner non (ancora) alleati.

Il complesso di inferiorità dei tempi di Mao è diventato un netto senso di superiorità: Pechino si sente il fratello più grande e non ha intenzione di condividere il timone. Anzi, osserva con inquietudine le mosse avventate di un partner che percepisce funzionale a livello retorico ma talvolta scomodo su quello pratico. Ora, però, l'invasione russa rischia di mettere a nudo i limiti della politica estera di Xi.

Articolo di “Le Monde” - dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 24 febbraio 2022. 

In un articolo per "Le Monde", il consulente Laurent Malvezin osserva un'analogia tra la crisi innescata da Mosca sull'Ucraina e il desiderio cinese di riunificare Taiwan, che potrebbe assumere la forma di un'annessione parziale.

Questo desiderio condiviso di rivedere l'ordine esistente si è trasformato in una convergenza ideologica e auto-realizzante: la Dichiarazione congiunta russo-cinese su un mondo multipolare e la creazione di un nuovo ordine internazionale è stata adottata a Mosca il 23 aprile 1997 durante la visita ufficiale del presidente della Repubblica popolare cinese, Jiang Zemin, nella Federazione Russa.

La dichiarazione è stata firmata da parte russa da Sergei Lavrov, l'attuale ministro degli affari esteri, che rappresentava il suo paese all'ONU in quel momento. 

Questa dichiarazione congiunta del 1997 segue un accordo fondatore per la ricostruzione della fiducia tra i due paesi: il Partenariato strategico di uguaglianza, fiducia reciproca e coordinamento reciproco, firmato il 26 aprile 1996 a Pechino. Da allora è diventato il quadro per il progressivo approfondimento delle relazioni bilaterali. 

Fermezza e ostilità verso l'UE

Nelle parole del ministro degli Esteri cinese Wang Yi, intervistato il 30 dicembre 2021 da un media ufficiale, il coordinamento strategico e la cooperazione con la Russia sono "globali per i nostri due paesi e globali nell'influenza (...) e a tutto tondo". Inizialmente limitato ai voti all'ONU (compreso l'uso del veto), il coordinamento tra gli apparati politici russo e cinese è stato esteso ai campi dell'intelligence e della sicurezza, alle strategie economiche e commerciali, all'innovazione e ai grandi programmi industriali. 

Da allora, si è imposto uno stretto meccanismo di consultazioni basato sulla non dissimulazione e sulla complementarietà strategica e operativa. Pechino ha potuto sviluppare rapidamente il suo campo d'azione in un altro trattato di sicurezza, firmato lo stesso giorno dell'accordo bilaterale di partenariato strategico sino-russo del 1996: il trattato di cooperazione di Shanghai ribattezzato, nel 2001, "Shanghai Cooperation Organisation" (SCO).

La SCO è stata in sordina negli ultimi anni - così come l'Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), che è sotto il controllo russo ed è stata rivitalizzata sulla scia dei recenti disordini in Kazakistan - ma Pechino potrebbe farne un uso maggiore, anche sul fronte militare. 

Da gennaio, il suo segretariato generale è caduto di nuovo alla Cina, guidato dall'ex ambasciatore cinese presso l'UE (2017-2021), Zhang Ming, noto per la sua posizione ferma e persino ostile verso l'UE.

Ucraina e Taiwan nella stessa situazione 

Ma ciò che significa per l'élite del Partito Comunista Cinese (PCC) entrare in una "nuova era" non è solo militare o legato alla sicurezza. Secondo il rapporto del 19° Congresso del PCC nel 2017: "La nazione cinese, che ha a lungo sofferto dall'era moderna, ha fatto un grande balzo in avanti, passando dallo stare in piedi, arricchendosi, allo stare forte (...); il socialismo con caratteristiche cinesi apre le possibilità di modernizzazione dei paesi in via di sviluppo, offrendo una nuova scelta ai paesi e alle nazioni del mondo che desiderano accelerare il loro sviluppo pur mantenendo la loro indipendenza. (...) Porta la saggezza cinese e le soluzioni ai problemi dell'umanità.”

Un avvicinamento tra la crisi provocata da Mosca intorno all'Ucraina e il desiderio cinese di riunificare Taiwan, che potrebbe assumere la forma di un'annessione parziale, paragonabile a quella della Crimea, è allettante. Tanto più che Pechino usa lo stesso termine ("bukefenge", letteralmente "infrangibile") in cinese per designare il carattere "indivisibile" della sua relazione con Taiwan e il concetto di "indivisibilità" della sicurezza, riabilitato da Mosca.

Tuttavia, dove i casi taiwanese e ucraino si uniscono veramente è che rappresentano due "conquiste" democratiche definitive: nel 2014, con il ribaltamento del popolo ucraino verso l'Europa, e, nel 2020, a Taiwan, con quello del popolo taiwanese che, rieleggendo il presidente Tsai-Ying-wen, di orientamento pro-indipendenza, si confronta con il candidato del Kouomintang (KMT), (KMT, partito nazionalista) candidato, Han Kuo-yu, sostenuto da Pechino, ha suonato la campana a morto dei tentativi di imporre politicamente, da parte di un taiwanese, il software politico del partito comunista incarnato nella formula "Un paese, due sistemi".

Entrambi questi casi consacrano l'emancipazione delle "masse" da un futuro che era stato descritto come nel loro interesse ma che le privava della loro libertà. Quello che José Ortega y Gasset (1883-1955), ne La rivolta delle masse (1930), chiedeva per il futuro del continente europeo: l'avvento di una federazione degli Stati Uniti d'Europa, dove i popoli si sarebbero liberati dall'"assorbimento di ogni spontaneità sociale da parte dello Stato". Le masse agirebbero da sole. L'episodio ucraino non è che la continuazione di un processo coordinato di contenimento delle società aperte su scala globale, guidato da Cina e Russia. 

La presidente UE Von der Leyen: “Attacco barbarico. Sanzioni ai settori strategici russi”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 25 Febbraio 2022

In serata il Consiglio europeo straordinario ha deciso ulteriori sanzioni contro la Russia per l’invasione dell’Ucraina. Von der Leyen: "Bloccato l’accesso a tecnologie e mercati. Congelate le attività russe nell'Ue e bloccato l’accesso delle banche russe ai mercati finanziari europei"

L’Unione europea ha reagito all’invasione della Russia all’Ucraina . Con una dichiarazione congiunta questa mattina la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel hanno annunciato che nel vertice straordinario di stasera i leader Ue discuteranno della guerra in Ucraina e di ulteriori sanzioni. “Condanniamo questo barbaro attacco e gli argomenti cinici usati per giustificarlo” ha detto la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen che, con l’Alto rappresentante Ue per gli Affari europei e la politica di sicurezza Josep Borrell, ha spiegato cosa conterrà il nuovo “pacchetto di sanzioni massicce e mirate” con le quali verranno colpiti “settori strategici dell’economia russa“: sarà bloccato l’accesso a tecnologie e mercati che sono fondamentali per la Russia. Obiettivo, ha detto la von der Leyen, “indebolire la base economica della Russia e la sua capacità di modernizzazione. Saranno anche congelate le attività russe nell’Ue e bloccato l’accesso delle banche russe ai mercati finanziari europei“.

“Il presidente Putin è responsabile di riportare la guerra in Europa”, ha detto denunciato von der Leyen e “quello che stiamo affrontando è un atto di aggressione senza precedenti da parte della leadership russa contro un Paese sovrano e indipendente“. Per la presidente “l’obiettivo della Russia non è solo il Donbass, l’obiettivo non è solo l’Ucraina, l’obiettivo è la stabilità in Europa e l’intero ordine internazionale basato su regole. Per questo, riterremo responsabile la Russia“. Von der Leyen ha sottolineato la compattezza tra i Paesi Ue e gli alleati anche sulla nuova tornata di misure: “Come con il primo pacchetto di sanzioni (entrato in vigore mercoledì scorso n.d.a), siamo strettamente allineati con partner e alleati. Queste sanzioni sono progettate per colpire gli interessi del Cremlino e la capacità russa di finanziare la guerra“.

Nella mattinata i 27 ambasciatori dei Paesi Ue si sono riuniti per esaminare il nuovo pacchetto di sanzioni e tutti sono concordi sulla necessità di incrementarlo. Il nuovo pacchetto prevede il divieto di trasferimento tecnologico per l’estrazione di idrocarburi (questa è la parte dedicata al settore energetico) , controllo sull’export di tecnologia dual use, cioè per un uso civile e militare, divieto di finanziamento da parte delle banche dell’Ue di progetti già concordati di imprese pubbliche russe, blocco dei conti europei degli oligarchi e blocco di materiali destinati ai sistemi di trasporto aereo. È stato anche affrontato il problema dei visti dei passaporti diplomatici di servizio russi. Sono in fase di valutazione ulteriori sanzioni individuali. La Polonia ha chiesto di invitare al summit di questa sera il presidente ucraino Zelensky. Gli ambasciatori si riuniranno di nuovo nel pomeriggio e poi il pacchetto di sanzioni sarà sottoposto ai leader Ue che si riuniscono in serata. Alcuni Stati membri hanno insistito per applicare subito il maggior numero di sanzioni, mentre Germania, Italia, Francia ma anche Cipro insistono per una gradualità. 

Il presidente del Consiglio Mario Draghi nella giornata di ieri ha rilasciato una lunga nota alla stampa: “Nella notte, la Russia ha avviato un’offensiva militare nel territorio ucraino da più parti, con lo scopo iniziale di distruggere le principali installazioni di difesa di Kiev. L’apparato militare di Mosca si è mosso in maniera coordinata, con incursioni aeree, terrestri, anfibie focalizzate sugli obiettivi di primaria importanza.L’Ucraina è un Paese europeo, una nazione amica. È una democrazia colpita nella propria legittima sovranità. Voglio esprimere la solidarietà piena e incondizionata del popolo e del Governo italiano al popolo ucraino e al Presidente Zelensky“

 Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, al Consiglio europeo straordinario sull’Ucraina. 

“Quanto succede in Ucraina riguarda tutti noi, il nostro vivere da liberi, la nostra democrazia” – ha aggiunto il premier Draghi “La nostra Ambasciata a Kiev è aperta, pienamente operativa e mantiene i rapporti con le Autorità ucraine, in stretto coordinamento con le altre Ambasciate, anche a tutela dei circa 2000 italiani residenti. L’Ambasciata resta in massima allerta, pronta ad adottare ogni necessaria decisione.L’Italia condivide la posizione più volte espressa anche dagli alleati di voler cercare una soluzione pacifica alla crisi. Ho sempre pensato che qualsiasi forma di dialogo dovesse essere sincero e soprattutto utile. Le azioni del governo russo di questi giorni lo rendono nei fatti impossibile. L’Italia, l’Unione Europea e tutti gli alleati chiedono al Presidente Putin di mettere fine immediatamente allo spargimento di sangue e di ritirare le proprie forze militari al di fuori dei confini internazionalmente riconosciuti dell’Ucraina in modo incondizionato.

“In queste ore ho sentito i partner europei, a partire dal Presidente francese Emmanuel Macron, dal Cancelliere tedesco Olaf Scholz e dalla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen” continua Draghi nella sua nota “Con gli Alleati della NATO, ci stiamo coordinando per potenziare immediatamente le misure di sicurezza sul fianco Est dell’Alleanza e stiamo rafforzando il nostro già rilevante contributo allo spiegamento militare in tutti i Paesi Alleati più direttamente esposti. Domani ci sarà anche una riunione straordinaria dei leader della NATO“. 

“Questo pomeriggio avremo una consultazione dei G7, alla quale parteciperà anche il Segretario Generale della NATO Stoltenberg, al termine della quale mi recherò a Bruxelles per un Consiglio Europeo straordinario. In quella sede, decideremo un pacchetto di sanzioni molto dure nei confronti della Russia. Avevamo ribadito in tutte le sedi di essere pronti a imporre conseguenze severe nel caso la Russia, come è purtroppo accaduto, avesse respinto i nostri tentativi di risolvere la crisi per via politica. Questo è il momento di metterle in campo. L’Italia è pienamente allineata ai partner su questa posizione. Capisco che queste siano ore di grande preoccupazione per tutti i cittadini. Domani riferirò al Parlamento sugli sviluppi del conflitto in corso. Voglio dirvi che il Governo intende lavorare senza sosta per risolvere questa crisi. Abbiamo accanto i nostri alleati – l’Europa, gli Stati Uniti. Insieme faremo tutto il necessario per preservare la sovranità dell’Ucraina, la sicurezza dell’Europa, e l’integrità dell’ordine internazionale basato sulle regole e sui valori da noi tutti condivisi” ha concluso Draghi. Redazione CdG 1947

100 MILIARDI PER LA BUNDESWEHR E ARMI AGLI UCRAINI. Ucraina, la svolta del “cancelliere di guerra” Scholz dopo la linea morbida.  LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 28 febbraio 2022

Scholz nel fine settimana ha dato il via a un posizionamento geopolitico della Germania che da tanto tempo Berlino si rifiutava di prendere. Sembra quasi che il cancelliere voglia recuperare tutto il tempo perso nelle ultime settimane con passi troppo timidi 

In Germania, la notizia della decisione del governo di investire 100 miliardi di euro nel miglioramento dell’equipaggiamento della Bundeswehr è stata salutata come il ritorno del paese alla realtà.

Nelle ultime settimane, il cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz era stato accusato di eccessiva timidezza nei confronti del presidente russo Vladimir Putin. 

Scholz, secondo i critici, era troppo vincolato nella sua capacità di manovra politica dal patto con Mosca sul gasdotto Nord Stream 2.

Anche il passo indietro sull’attivazione dell’infrastruttura era stato considerato un intervento troppo poco incisivo per bloccare i piani di Putin. Pesava sulla coalizione semaforo pure la decisione di non fornire armi agli ucraini, difesa più volte dalla ministra degli Esteri Annalena Baerbock, e considerata ingiustificabile in un contesto in cui la Germania è una dei maggiori esportatori di armi al mondo, anche verso paesi governati da presidenti non democratici. 

INVERSIONE DI MARCIA

Nel fine settimana, il governo ha compiuto una totale inversione sulla sua linea attendista, annunciando prima l’invio di armi al governo ucraino, poi la decisione di aumentare il budget di spesa per la Bundeswehr: sì all’investimento del 2 per cento dei Pil per la difesa, come da richiesta della Nato, sì allo sviluppo di nuovi progetti militari con i partner europei e sì all’utilizzo di droni militari. Tutte questioni che fino a pochi giorni prima sembravano fuori discussione.  

Una svolta epocale, che Scholz ha definito in maniera puntuale Zeitwende, mutamento dei tempi. Secondo Ferdinand Otto della Zeit, la decisione del cancelliere porta la Germania definitivamente fuori dall’ombra di Washington, dietro a cui Berlino soprattutto negli ultimi anni si è nascosta per non prendere posizioni troppo nette sul piano geopolitico. Spesso, la mancanza di iniziativa dei governi tedeschi aveva causato incomprensione e sfiducia da parte dei partner internazionali, ma sulle decisioni che coinvolgono la difesa nazionale in Germania continua a pesare la lezione del Novecento e il tema è sempre stato troppo delicato perché un governo si assumesse l’onere di mettervi mano.

Ma ora i tempi sono cambiati, il cancelliere fa esplicitamente riferimento ai costi elevati che la decisione comporterà, ma spiega che sono «gestibili per un paese della nostra dimensione e del nostro peso in Europa». Una presa d’atto del fatto che l’assunzione di responsabilità geopolitica per la Germania non è più rinviabile. 

RECUPERARE IL TEMPO PERDUTO

La mossa di Scholz appare anche come un tentativo di recuperare tutto il tempo che si è perso con i passi troppo timidi degli ultimi giorni.

Una strategia figlia della sottovalutazione delle intenzioni di Putin: ora i toni sono cambiati, e ad approvare le «parole chiare e coraggiose» del cancelliere, come per esempio scrive Bild sono soprattutto i commentatori di centrodestra. 

Persino il “falco gentile” Christian Lindner, ministro delle Finanze, ha acconsentito a mettere da parte il culto dei liberali per freno al nuovo indebitamento previsto dalla Costituzione per garantire il finanziamento delle spese per la difesa. A contraddirlo senza troppa convinzione è stato quasi solo il capo della Cdu Friedrich Merz, che ha chiesto di riflettere sull’effetto dei nuovi debiti sulle generazioni future. 

Le voci critiche sono poche. Dopo il discorso di Scholz al Bundestag, il gruppo della Linke ha condannato la decisione spiegando di «non voler sostenere questa gara al riarmo». Anche la formazione giovanile dei Verdi si è espressa contro l’iniziativa del governo.

Il quotidiano di sinistra Taz dà del «cancelliere di guerra» a Scholz, sottolineando quanto sia paradossale il fatto che la centenaria tradizione antimilitarista della Spd venga infranta proprio per combattere quella Russia che ha contribuito in maniera determinante alla liberazione della Germania dal nazionalsocialismo.

Contemporaneamente però il quotidiano valuta la situazione attuale come «eccezione alla regola» che può giustificare anche un sostegno militare, a patto che non sfoci in militarismo «che si radica progressivamente nella politica e nella società».  

LISA DI GIUSEPPE. Scrivo di politica, economia ed esteri (soprattutto Germania). Ho lavorato per Reuters, La7, Corriere della Sera e Public Policy.

Gian Micalessin per "il Giornale" il 28 febbraio 2022.  

La realtà, ancora una volta, supera le peggiori fantasie. Se mai ci avessero detto che la Germania, guidata da un Cancelliere socialdemocratico e da una leader verde, avrebbe investito in armamenti ben più del due per cento di bilancio previsto dalla Nato difficilmente avremmo trattenuto le risate.

E ci saremmo indignati se ci avessero riferito di un'Europa pronta trasferire armamenti ad un paese in guerra. Ma avremmo anche dato del pazzo a chi avesse collegato questi rivolgimenti alle parole di un Vladimir Putin pronto a evocare il ritorno ad un confronto nucleare. 

E invece eccoci qua con il Cancelliere socialdemocratico Olaf Scholz pronto a spendere ogni anno più di cento miliardi in armamenti investendo «più del 2% del prodotto interno lordo per la difesa». E ad autorizzare la consegna di 1.000 armi anticarro e 500 missili terra-aria del tipo Stinger ai combattenti ucraini. Il tutto per la gioia del ministro degli esteri Annalena Baerbock, leader di quel partito verde che, negli anni 80 condannava gli «euromissili» nel nome del pacifismo mentre oggi difende l'interventismo della Nato.

Ma l'addio dei verdi al pacifismo e della socialdemocrazia tedesca dall'antica «ostpolitik» è poca cosa rispetto al salto in avanti delle autorità europee pronte non solo ad abbracciare la causa del presidente Zelensky, ma anche ad armarne l'esercito . «È caduto un tabù per la prima volta forniamo armi ad un paese in guerra», ha ammesso tradendo una certa esultanza l'Alto Commissario per la politica estera Josep Borell.

Certo i sentimenti di un rappresentante europeo - umiliato un anno fa da Sergei Lavrov durante un'infelice missione a Mosca - possono venir capiti. Ma resta difficile da comprendere la logica con cui si è scelto di convertire i fondi europei per le «iniziative di pace» in capitoli di spesa destinati a finanziare le armi «letali» destinate a Kiev. A trasformare lo stupore in realtà ci pensa comunque, poche ore dopo, la Presidente della Commissione Europea.

«Siamo a uno spartiacque - dichiara Ursula von der Leyen per la prima volta in assoluto l'Unione Europea finanzierà l'acquisto e la consegna di armi ed equipaggiamenti ad un paese che è si trova sotto attacco». Dichiarazioni che hanno dell'incredibile se si considera il clima da guerra fredda e ritorno allo scontro nucleare in cui ciò avviene. Solo poche ore prima Vladimir Putin ha annunciato, infatti, la messa in stato d'allerta della «forza di dissuasione russa» ovvero gli assetti militari in cui sono inserite anche le testate nucleari.

La misura annunciata dal presidente ha in verità più un effetto politico che pratico. Il provvedimento si limita infatti a inserire l'utilizzo dell'arma atomico nel contesto delle modalità di difesa ed attacco. Più importante del comunicato è la coreografia utilizzata per diffonderlo. Putin sceglie di annunciare la nuova misura davanti ai vertici della difesa e delle forze armate tra cui il ministro della difesa Sergej Shoigu e il capo di Stato maggiore Valerij Gerasimov.

Un intervento in cui il leader del Cremlino fa riferimento alle «sanzioni illegittime» e alle forniture d'armi all'Ucraina, decise dalla Germania e da altre capitali europee. «Belgio, Canada, Repubblica Ceca, Estonia, Francia, Germania, Grecia, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Portogallo, Romania, Slovacchia, Slovenia, Regno Unito e Stati Uniti - annunciava ieri la Nato - hanno già inviato o stanno approvando consegne significative di equipaggiamenti militari a Ucraina. 

L'Ucraina ha già ricevuto armi letali, inclusi missili Javelin e missili antiaerei, dagli alleati della Nato, oltre a milioni di euro di assistenza finanziaria». E la premier danese Mette Frederiksen ha ieri detto che consentirà ai suoi cittadini di unirsi come volontari alle brigate internazionali che l'Ucraina intende formare per combattere l'invasione russa.

Da quirinale.it il 24 febbraio 2022.

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha presieduto, al Palazzo del Quirinale, la riunione del Consiglio Supremo di Difesa. Alla riunione hanno partecipato: il Presidente del Consiglio dei Ministri, Prof. Mario Draghi; il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, On. Luigi Di Maio; il Ministro dell’Interno, Cons. Luciana Lamorgese; il Ministro della Difesa, On. Lorenzo Guerini; il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Dott. Daniele Franco; il Ministro dello Sviluppo Economico, On. Giancarlo Giorgetti; il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Amm. Giuseppe Cavo Dragone.

Hanno altresì presenziato il Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dott. Roberto Garofoli; il Segretario Generale della Presidenza della Repubblica, Dott. Ugo Zampetti; il Consigliere per gli Affari del Consiglio Supremo di Difesa, Dott. Francesco Saverio Garofani. 

Il Consiglio Supremo di Difesa esprime la più ferma condanna per l’ingiustificabile aggressione militare lanciata dalla Federazione Russa contro l’Ucraina, che rappresenta una grave e inaccettabile violazione del diritto internazionale e una concreta minaccia alla sicurezza e alla stabilità globali. 

La Repubblica Italiana chiede alla Federazione Russa l’immediata cessazione delle ostilità e il ritiro delle forze fuori dai confini internazionalmente riconosciuti dell’Ucraina. 

L’Italia ribadisce il pieno sostegno all’indipendenza e all’integrità territoriale dell’Ucraina, Paese europeo amico e democrazia colpita nella sua sovranità. La Repubblica Italiana esprime massima vicinanza e solidarietà al popolo ucraino e alle sue legittime Istituzioni, alle vittime e alle tante persone che ne soffriranno le conseguenze. 

Nell’affrontare la crisi in atto, l’Italia manterrà uno stretto raccordo con i propri partner in tutti i principali consessi internazionali. Insieme con i paesi membri dell’UE e gli alleati della NATO è indispensabile rispondere con unità, tempestività e determinazione. L’imposizione alla Federazione Russa di misure severe vede l’Italia agire convintamente nel quadro del coordinamento in seno all’Unione Europea. 

Perché l’Europa non precipiti improvvisamente in un vortice di guerre, è necessario agire con forza e lungimiranza per ristabilire il primato del diritto internazionale e la salvaguardia dei principi e dei valori che hanno garantito pace e stabilità al nostro continente.

Assedio alla "fortezza-Russia". Ma Putin si preparava da anni. Lorenzo Vita il 25 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Le sanzioni possono colpire duramente l'economia russa. Ma le scelte degli ultimi anni del Cremlino segnalavano la voglia di Mosca di sganciarsi, in parte, dai legami con l'Occidente.  

È difficile capire cosa abbia in mente Vladimir Putin. In questi giorni gli analisti hanno provato a delineare il quadro delle strategie vere o presunte del Cremlino, cercato di interpretare i segnali e i messaggi che giungevano dal suo inquilino. Ma per adesso - forse - quello che sorprende ancora di più l'Occidente è la capacità del presidente russo di fare esattamente quello che dice. Un decisionismo che ha riportato le lancette della storia europea indietro nel tempo, ma che sembra soprattutto avere disegnato una profonda divisione tra due modi di vivere la leadership e la politica, autoritarismo interno ma anche internazionale. Si pensava che fosse un bluff di un giocatore di poker. Ma quello che sta avvenendo in queste ore è soprattutto la mossa di un judoka, come appunto lo è Putin: sfruttare la debolezza dell'avversario, assecondarla, per poi vincere.

L'Occidente si sta mostrando unito di fronte ai missili che piovono su Kiev, e questo è un punto su cui Nato, Ue e Usa possono ripartire. Ma la sua debolezza è parte integrante delle scelte putiniane. Una debolezza che è stata anche miopia, in cui adesso si scopre abbastanza inerme di fronte alle decisioni di Mosca, che anche sul fronte delle sanzioni rischia di saper sfruttare anni di sottovalutazione dei rischi.

Perché quella che Putin ha costruito nel corso degli anni non è una superpotenza economica, né una potenza in grado - a livello finanziario - di rivaleggiare con le potenze occidentali. Ma, come ricordato da diversi esperti, è una potenza che nella sua fragilità economica ha saputo rendersi sempre meno scoperta sul fronte internazionale, consolidando una posizione "autarchica".

Morya Longo, nell'edizione di oggi de Il Sole 24 Ore, cita alcuni dati interessanti. Il debito pubblico russo all'estero è sempre più ridotto, ha 630 miliardi di dollari di riserve: 150 miliardi in oro. Negli anni questa cifra si è ridotta, specialmente quella che fa riferimento alla moneta americana. E da quando Mosca ha deciso di blindare le proprie posizioni rivendicando uno spazio di influenza come quello che aveva ai tempi dell'Unione Sovietica o dell'Impero, ha cominciato a sviluppare delle formule di sopravvivenza economica e finanziaria per evitare di essere in balia dell'Occidente. Scelte che hanno costruito una "fortezza", come la chiamano gli esperti, che di fatto può sopravvivere per mesi, se non anni, anche di fronte al più duro embargo messo in campo dal blocco Ue e Stati Uniti.

Questo non significa che l'economia russa non soffra le sanzioni. Qualcuno ricorda che le misure messe in campo nel 2014, quando Mosca decise di annettere la Crimea, hanno rosicchiato diversi punti percentuali di Pil. Ma basta leggere i dati dell'export di gas e petrolio per dare un quadro dei pro e dei contro della conflittualità tra Occidente e Russia. "Ogni singolo giorno, secondo i calcoli di Bloomberg, vende 3,5 milioni di barili di petrolio e 275 milioni di metri cubi di gas a Europa, Stati Uniti e Gran Bretagna, incassando qualcosa come 700 milioni di dollari. Ogni 24 ore" scrive il quotidiano finanziario riferendosi alla politica del Cremlino. Bloccare le materie prime colpirebbe la Russia? Certo. Ma colpirebbe prima l'Europa. Colpire il sistema finanziario russo, sganciandolo dal sistema Swift, sarebbe un colpo duro? Sicuramente. Ma Mosca anche in questo caso ha iniziato da anni una politica di diversificazione dei circuiti finanziari. E se l'Europa può dire di avere un'economia decisamente più forte di quella russa, d'altro canto è proprio la Russia a poter sopravvivere forse anche meglio rispetto alle misure messe in campo dall'Occidente.

L'impressione è che per anni si sia pensato che quello di Putin fosse solo un metodo e non una vera e propria strategia nel breve e medio termine. Impossibile comprendere, per ora, gli effetti sul lungo. Perché lo "zar" deve mettee in conto un pericoloso isolamento non privo di conseguenze interne sianell'opinione pubblica che negli apparati dello Stato profondo. Ma le debolezze dell'Occidente, in particolare dell'Europa, sono state talmente evidenti da far sì che il Cremlino potesse in questi anni non solo prepararsi militarmente all'azione, come osservato con la guerra in Ucraina e prima ancora in Siria, ma anche a prevederne le conseguenze.

Questo non significa prevenirle in tutto: le sanzioni possono colpire duramente le capacità di Mosca di finanziarsi altrove, di colmare il gap tecnologico, e rischiano di concedere la Russia alle mire cinesi (cosa che non piace a molti). Tuttavia, rovesciando il punto di vista, appare difficile applicare il nostro modello di pensiero a quello che invece domina nelle stanze del potere del Cremlino. L'idea dei due blocchi diventa in questo caso non solo militare, ma anche di filosofia del potere: Putin è disposto a pagare le conseguenze delle sue azioni. L'Occidente invece deve ancora accettare di dover dare un prezzo alla propria essenza. E se è compatto nel condannare la guerra all'Ucraina, non lo è nel quantificare il tributo da dare alla propria causa.

(AGI/AFP il 24 febbraio 2022) - Il premier britannico, Boris Johnson, ha annunciato nuove sanzioni contro la Russia per l`invasione dell`Ucraina, tra cui una diretta alla compagnia di bandiera Aeroflot, bandita dai cieli del Regno Unito. 

Le altre misure prendono di mira il settore bancario, le esportazioni di tecnologia e cinque uomini d`affari."Putin non potrà mai lavarsi le mani dal sangue dell`Ucraina", ha detto Johnson annunciando "il piu` grande e severo pacchetto di sanzioni economiche che la Russia abbia mai visto".

(ANSA il 24 febbraio 2022) - Il presidente russo Vladimir Putin è un "aggressore con le mani sporche di sangue che crede nella conquista imperiale" ed era da "sempre determinato ad attaccare il suo vicino, qualunque cosa facessimo". Lo ha detto il premier britannico Boris Johnson alla Camera dei Comuni intervenendo sull'attacco russo all'Ucraina.

(ANSA il 24 febbraio 2022) - Il premier britannico Boris Johnson ha annunciato una nuova ondata di sanzioni anti russe in risposta all'azione militare di Mosca in Ucraina mettendo al bando tutte le banche russe dal mercato finanziario della City. Al bando nel Regno Unito anche Aeroflot, mentre vengono sanzionati altri 100 fra individui, entità e società russe. Annunciate pure misure per limitare i capitali depositabili da cittadini russi in conti bancari nel Regno.

Johnson, intervenendo alla Camera dei Comuni per aggiornare i deputati sul "violento attacco" della Russia all'Ucraina, ha definito quello odierno "il più grande e pesante pacchetto di sanzioni mai imposto" contro Mosca: a partire dal congelamento di "tutti gli asset di tutte le principali banche russe" (inclusa Vtb Bank) attive sul mercato finanziario britannico, di gran lunga il più importante d'Europa, e dalla loro esclusione della possibilità di finanziarsi o fare clearing alla City.

Ha poi annunciato il congelamento dei beni riconducibili ad altri 100 fra individui e entità russe, una nuova stretta legislativa per impedire alle grandi aziende e allo Stato russo di raccogliere risorse o prestiti alla City, la sospensione della licenza di esportazione di beni verso la Russia utilizzabili anche per scopo militari, di tutte le componenti ad alta tecnologia e delle attrezzature per la raffinazione del petrolio. 

Sanzioni sono previste pure per la Bielorussia, mentre entro Pasqua è stata promessa una legge per rendere più stringenti i controlli su proprietà o capitali considerati opachi riconducibili a cittadini od oligarchi russi che negli anni post sovietici hanno arricchito il mercato britannico, in particolare quello immobiliare della cosiddetta Londongrad.

Tra gli altri 5 oligarchi presi personalmente di mira oggi oltre ai tre - personalmente vicini al presidente Vladimir Putin - colpiti fin dai giorni scorsi (Gennady Timchenko, Boris Rotenberg e Igor Rotenberg), spiccano i nomi di Kirill Shamalov, ex marito di Iekaterina Tikhonova, una delle figlie di Putin, nonché di Pyotr Fradkov, banchiere e figlio dell'ex premier ed ex capo dei servizi segreti esteri russi (Fsb) Mikhail Fradkov.

(ANSA il 24 febbraio 2022) - Il premier britannico Boris Johnson "non esclude nulla" nella risposta economica all'attacco delle truppe di Mosca contro l'Ucraina ed è favorevole all'espulsione della Russia dal sistema di pagamenti internazionali Swift. Il primo ministro, intervenendo ai Comuni, ha aggiunto che se ne sta discutendo della possibilità ma serve comunque l'accordo di tutti i membri del G7.

(ANSA il 24 febbraio 2022) - I paesi occidentali sono divisi sull'espulsione della Russia dal sistema di pagamenti internazionali Swift che comporterebbe gravi danni al sistema finanziario di Mosca.

Lo scrive il Financial Times secondo cui il premier britannico Boris Johnson starebbe "premendo fortemente" sulla misura mentre il cancelliere tedesco Scholz si sarebbe detto contrario, sottolineando che nemmeno la Ue prenderebbe una decisione simile. Con l'uscita da Swift, utilizzato da oltre 11mila banche in tutto il mondo, la Russia sarebbe tagliata fuori dalle transazioni internazionali e avrebbe difficoltà a ricevere i ricavi dalle vendite di gas e petrolio.

(ANSA il 24 febbraio 2022) - Boris Johnson ha promesso alla Camera dei Comuni - sullo sfondo dei venti di guerra in Ucraina - di voler scatenare una controffensiva in piena regola contro quella che definito "la tormenta di bugie e disinformazione" attribuite alla Russia. Il premier Tory ha sostenuto che alle "fake news" imputate al Cremlino, in particolare come pretesto per attaccare l'Ucraina, si dovrà rispondere diffondendo "la verità". 

Durante il dibattito, segnato da una pressoché unanime condanna di Mosca espressa in toni durissimi, esponenti di maggioranza e di opposizione sono arrivati a chiedere addirittura Johnson di valutare iniziative di tipo militare contro Mosca.

E non sono mancate sollecitazioni a prendere di mira nel Regno Unito la tv Rt, sovvenzionata dal Cremlino, un'emittente il cui destino il primo ministro ha peraltro affidato ancora una volta alle decisioni dell'Ofcom, l'autorità indipendente britannica di sorveglianza sui media, nel rispetto della normativa vigente nel Paese.

Intanto, fuori dal Parlamento di Westminster, l'ex first minister scozzese ed ex leader dell'Snp, Alex Salmond, ha annunciato la sospensione "fino a nuovo ordine" del programma che egli conduceva da tempo come anchorman dagli schermi di Rt Uk: un'attività che gli era valsa sull'isola l'accusa di complicità con uno strumento "della propaganda russa", incluso dagli ex compagni di partito dell'Snp.

Luigi Ippolito per corriere.it il 24 febbraio 2022.

Bandito di fatto dalla Gran Bretagna: l’oligarca Roman Abramovich, amico di Putin e patron della squadra di calcio del Chelsea, non potrà più risiedere a Londra. La sua posizione è gestita direttamente dall’«Unità per i casi speciali» del ministero dell’Interno britannico, che ha ricevuto istruzioni affinché il magnate russo non possa legalmente fare base nel Regno Unito. L’Unità in questione fa parte del direttorato per la sicurezza e l’anti-terrorismo, che gestisce le questioni di sicurezza nazionale. 

Abramovich, che siede su una fortuna di circa 10 miliardi, manca da mesi da Londra: l’ultima volta ci era stato brevemente di passaggio a ottobre, grazie al suo passaporto israeliano, che gli consente visite turistiche: ma se volesse tornare a vivere in Gran Bretagna, dovrebbe ottenere un visto. Fonti del governo hanno però fatto sapere che «ogni tentativo sarebbe respinto» 

Già nel 2018 l’oligarca aveva dovuto rinunciare a chiedere uno dei cosiddetti «visti d’oro», quelli garantiti ai grandi investitori stranieri, dopo l’attacco col nervino perpetrato a Salisbury da agenti del Cremlino contro l’ex spia russa Serghej Skripal. E ora le sue chance di tornare stabilmente a fianco del Chelsea sono ridotte a zero.

Ma ovviamente Abramovich non è l’unico magnate russo nel mirino: adesso ci si chiede se Boris Johnson troverà finalmente il coraggio di stringere il cappio attorno a Londongrad, quel groviglio di soldi, affari e interessi che hanno fatto della City una succursale all’estero di Mosca.

Basti pensare che la seconda più grande residenza in Gran Bretagna, dopo Buckingham Palace, è di proprietà di un oligarca russo, Andrey Guryev: si tratta di Witanhurst, a nord di Londra, una magione del valore di oltre 350 milioni di euro. Così come Hamstone House, la casa art deco dove Churchill pianificò lo sbarco in Normandia, è stata messa sul mercato per oltre 20 milioni dal suo padrone, l’industriale russo Oleg Deripaska. Il magnate dei metalli Alisher Usmanov divide invece il suo tempo fra Beechwood House, una residenza da 60 milioni di euro a nord di Londra, e Sutton Place, un castello Tudor nel Surrey già posseduto da Paul Getty.

In totale si stima che i super-ricchi russi detengano in Gran Bretagna proprietà per un miliardo e mezzo di sterline (circa 1 miliardo e 800 milioni di euro), il 28 per cento delle quali si trova nell’area di Westminster. E sono fra i 30 e i 50 gli oligarchi con legami diretti col Cremlino cha trascorrono parte dell’anno in Gran Bretagna. 

Ma c’è molto di più, e molto di più oscuro. Oltre duemila aziende registrate in Gran Bretagna sono state accusate di corruzione e riciclaggio legati alla Russia, per la stratosferica cifra totale di 100 miliardi di euro. E i personaggi coinvolti non sono in molti casi soltanto dei loschi uomini d’affari, ma membri della cerchia ristretta di Putin che agiscono per suo conto: tutta gente che è stata accolta a braccia aperte dalla City perché garantiva un flusso di capitali, per quanto di dubbia origine. Fra il 2008 e il 2015, sono stati ben 700 i “visti d’oro” concessi ai russi.

Si tratta di capitali che alimentano ogni settore della vita britannica. L’università di Oxford, ad esempio, ha ricevuto una donazione di quasi 100 milioni dall’oligarca Len Blavatnik (e gli ha in cambio intitolato la sua business school), mentre gli oltre 2300 studenti russi iscritti nelle scuole private inglesi (figli e figlie dell’élite) pagano rette per un totale di 70 milioni. A Londra un’intera economia di ristoranti, club e negozi di lusso non potrebbe esistere senza le generose spese dei loro clienti russi.

I rubli oliano anche il mondo legale e delle pubbliche relazioni: gli oligarchi possono contare nella City su un esercito di avvocati e consulenti di pubbliche relazioni che curano i loro interessi. E infatti Abramovich ha vinto una causa contro la giornalista Catherine Belton, che lo aveva accusato di aver comprato il Chelsea su ordine di Putin. 

Lo stesso partito conservatore al governo non è esente da sospetti: i Tories hanno ricevuto tre miliardi e mezzo da finanziatori russi, inclusi due milioni da Lubov Chernukin, moglie di un ex ministro di Putin, la quale due anni fa alla festa del partito ha vinto un’asta da 45 mila sterline per poter giocare a tennis con Boris Johnson. E il primo ministro è in stretti rapporti con Evgeny Lebedev, il magnate russo proprietario dell’Independent e dell’Evening Standard (oltre che figlio di un agente del Kgb), che ha ospitato più volte il premier nella sua villa in Umbria e in cambio è stato nominato alla Camera dei Lord. 

Ma ora su questo mondo dorato potrebbe calare il sipario, almeno in parte. Boris Johnson ha convocato ieri i rappresentanti della City, incluse aziende come Goldman Sachs, Lloyd’s e Barclays, per avvertirli che la prossima raffica di sanzioni contro gli interessi russi dovrà “realmente mordere”: la guerra in Ucraina porterà a una resa dei conti con Londongrad?

Articolo del "Guardian" dalla rassegna stampa di "Epr Comunicazione" il 24 febbraio 2022.

Siate pronti per una lunga attesa. Questo era il sottotesto del messaggio di Boris Johnson ai parlamentari quando si è impegnato a inasprire le sanzioni contro la Russia. 

L'avvertimento di prepararsi per una "lotta prolungata" è stato sia tempestivo che appropriato. Non ci sarà un colpo rapido perché Vladimir Putin ha avuto il tempo di prepararsi e si è ben trincerato. 

In apparenza, dovrebbe essere una lotta impari. La Russia è la più grande massa terrestre del mondo, ma ha una produzione annuale inferiore a quella dell'Italia. Il reddito pro capite è circa un quarto di quello del Regno Unito.

L'economia russa ha attraversato fasi distinte dal crollo dell'Unione Sovietica all'inizio degli anni '90: una terapia d'urto iniziale che ha portato a una recessione selvaggia ed è culminata in una crisi finanziaria nel 1998; una forte ripresa nel primo decennio del XXI secolo sulla base del boom delle esportazioni di petrolio e gas; e un recente periodo di stagnazione, poiché la mancata diversificazione dell'economia ha pagato pegno – scrive The Guardian.

Dopo essere cresciuta in media del 7% all'anno nel decennio precedente il crollo finanziario globale del 2008, l'economia russa si stava espandendo solo del 2% circa all'anno nei tre anni precedenti la pandemia. 

Il risultato è che - almeno per alcuni aspetti - l'economia non è realmente andata avanti dai tempi dell'Unione Sovietica. La Russia è ancora ricca di risorse naturali e di capitale umano, ma si comporta in modo fiacco e ha solo legami limitati con l'Occidente.

Il dottor Holger Schmieding, capo economista della banca d'investimento Berenberg, ha detto che la Russia è una grande potenza militare e un produttore di energia, ma non un mercato rilevante per la maggior parte dei paesi. La Germania, per esempio, esporta molto di più in Polonia che in Russia. 

Ma, come hanno scoperto a loro spese coloro che hanno affrontato la Russia in passato, le apparenze possono essere ingannevoli e ci sono una serie di ragioni per cui una rapida vittoria dell'Occidente sembra improbabile.

In primo luogo, Putin ha cercato attivamente di isolare la Russia dall'Occidente fin dall'invasione della Crimea nel 2014. Le importazioni occidentali di carne, frutta, verdura e latticini sono state vietate quando sono state imposte le sanzioni. 

In secondo luogo, l'autosufficienza è stata accompagnata da un tentativo di diversificazione, con un deliberato pivot politico verso la Cina. Un accordo con Pechino - sempre nel 2014 - ha aperto la strada alla costruzione del Power of Siberia - un gasdotto che collega i due paesi, aperto nel 2019. 

La Cina è la seconda economia più grande del mondo e la sua forte domanda di energia è stata uno dei fattori che ha spinto i prezzi dell'energia globale nell'ultimo anno. Putin ha già dato l'approvazione per Power of Siberia 2.

In terzo luogo, la Russia ha usato il denaro ricevuto dalle sue esportazioni di petrolio e di gas per costruire sostanziali difese finanziarie. Mosca è seduta su riserve di valuta estera di circa 500 miliardi di dollari (369 miliardi di sterline) e, per gli standard internazionali, ha livelli estremamente bassi di debito nazionale. Mentre la pandemia ha mandato il rapporto tra debito nazionale e PIL del Regno Unito a superare il 100%, in Russia è inferiore al 20%.

Questa potenza di fuoco finanziaria potrebbe smussare una delle armi che l'Occidente intende utilizzare in risposta alla crisi in Ucraina: il divieto per la Russia di emettere o commerciare il suo debito sovrano a Londra e New York. La quantità di obbligazioni che la Russia ha bisogno di vendere è relativamente piccola, e solo il 10% del totale è stato acquistato da non residenti l'anno scorso. 

Infine, Putin ha alcune armi proprie che potrebbe essere tentato di usare come ritorsione contro le sanzioni occidentali. La Russia fornisce il 40% del petrolio e del carbone dell'UE e il 20% del suo gas.

È il più grande esportatore mondiale di fertilizzanti e di palladio, un componente cruciale per l'industria automobilistica perché è necessario per fare le marmitte catalitiche. 

L'Istituto Kiel, un thinktank tedesco, afferma che l'interruzione delle esportazioni di gas eliminerebbe il 3% del PIL russo, mentre la fine delle esportazioni di petrolio comporterebbe un colpo dell'1,2%. 

Mentre i paesi occidentali sarebbero in grado di rifornirsi di energia altrove, una riduzione dell'offerta porterebbe inevitabilmente all'aumento dei prezzi del petrolio e del gas. 

Anche durante i periodi più tesi della guerra fredda, l'Unione Sovietica ha continuato a fornire energia all'Occidente. Tagliare le forniture di petrolio e gas avrebbe un costo pesante, ma sarebbe un esempio di una strategia già messa in atto nella storia del paese: la politica della terra bruciata.

Da tuttosport.it il 25 febbraio 2022.

Mentre la guerra tra Russia e Ucraina scuote il mondo intero, la Camera dei comuni del Regno Unito si è riunita per discutere delle sanzioni da comminare al governo Putin. Al centro del dibattito è finito anche il patron del Chelsea Roma Abramovich, accusato dal deputato laburista Bryant di essere un fiancheggiatore del governo russo e di "attività e pratiche corruttive", citando un documento del Ministero dell'Interno di cui è entrato in possesso.

Il magnate russo, che ha acquistato i Blues nel 2003, potrebbe dunque essere oggetto delle tanto annunciate sanzioni dopo lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina. Bryant attacca e non ci sta: "Come può ancora possedere un club di calcio in questo Paese? Dovremmo cercare di sequestrare alcuni dei suoi beni, inclusa la sua casa di 152 milioni di sterline, e assicurarci che altre persone che hanno visti di livello 1 come questo non siano coinvolte in cattive attività nel Regno Unito".

Il premier Johnson ha annunciato dure sanzioni. Roman Abramovich bandito dal Regno Unito, è “guerra” agli oligarchi russi fedeli a Putin. Roberta Davi su Il Riformista il 24 Febbraio 2022.  

Roman Abramovich è stato bandito dal Regno Unito. Londra chiude le porte al magnate russo, amico di Putin e patron del Chelsea: il suo visto è scaduto nel 2018 e, secondo fonti del governo, ogni tentativo di tornare a vivere nel Paese sarebbe respinto.

A riportare la notizia è il The Sun: il suo caso verrebbe gestito dall’Unità per i casi speciali del ministero dell’Interno. Abramovich manca da tempo dalla Capitale britannica: l’ultimo passaggio risale a ottobre, grazie al passaporto israeliano che gli consente visite turistiche.

Oggi il deputato laburista Chris Bryant lo ha accusato di “attività e pratiche corruttive” nel corso di un discorso al Parlamento. Ha citato un documento del 2019 del Ministero dell’Interno di cui è entrato in possesso sulle sue relazioni con il governo di Putin (che il miliardario ha sempre smentito), proponendo di sequestrare i suoi beni, tra cui una casa da 152 milioni di sterline, oltre a bloccare il possesso della squadra di calcio di Londra.

Gli oligarchi russi nel Regno Unito

Non solo Abramovich. Il primo ministro Johnson ha annunciato che il Regno Unito adotterà il “più massiccio e duro” pacchetto di sanzioni economiche che la Russia abbia mai visto. Nel mirino altri oligarchi russi e ‘Londongrad’, il nomignolo conquistato da Londra, dove si è creata una sorta di ‘succursale’ di Mosca, tra soldi e affari. La guerra in Ucraina avrà infatti grosse ripercussioni sugli interessi russi.

Secondo una stima citata dal Corriere, i ricchi magnati russi detengono nel Paese proprietà del valore di un miliardo e mezzo di sterline: e sarebbero fra i 30 e i 50 quelli che hanno legami diretti con il Cremlino ma trascorrono gran parte del loro tempo in Gran Bretagna.

Infatti la seconda proprietà più grande del Paese (dopo Buckingham Palace), una magione da 350 milioni di euro, è di proprietà di un oligarca russo, Andrey Guyev; mentre il ‘magnate dei metalli’ Alisher Usmanov si divide tra Beechwood House, lussuosa residenza da 60 milioni di euro a Londra, e Sutton Place, un castello Tudor nel Surrey. Hamstone House, casa di interesse storico, è stata messa in vendita per più di 20 milioni dal suo proprietario Oleg Deripaska. Ma non solo. Circa duemila aziende registrate in Gran Bretagna sarebbero state accusate di corruzione e riciclaggio legati alla Russia, per cifre esorbitanti, circa 100 miliardi di euro. A essere coinvolti non solo uomini d’affari, ma anche persone della cerchia ristretta di Putin. 

Come sottolinea il Guardian, chiudendo un occhio sulla provenienza di tante ricchezze, il Paese ha permesso ai soldi russi di oliare il mondo della politica, del commercio, quello legale e della filantropia, garantendo ‘visti d’oro’ agli investitori russi. Cospicue donazioni russe sono arrivate anche all’università di Oxford- 100 milioni dall’oligarca Len Blavatnik- senza contare tutti gli studenti che frequentano le prestigiose scuole private inglesi, o i ricchi cittadini russi che riempiono negozi, club e ristoranti.

Da quando Boris Johnson è diventato primo ministro, il partito conservatore ha beneficiato della notevole generosità di figure come Lubov Chernukin, ora cittadina britannica e moglie di un ex ministro delle finanze sotto Vladimir Putin: le sue donazioni le hanno permesso anche di giocare una partita a tennis con lo stesso Johnson e David Cameron. E sempre il premier ha stretti rapporti con il magnate russo Evgeny Lebedev, proprietario dell’Independent e dell’Evening Standard, nominato alla Camera dei Lord.

Le sanzioni del governo britannico

Come annunciato da Boris Johnson, intervenendo alla Camera dei Comuni, si partirà dal congelamento di “tutti gli asset di tutte le principali banche russe” (inclusa Vtb Bank) attive sul mercato finanziario britannico, escludendole dalla possibilità di finanziarsi o fare clearing alla City. Il premier ha inoltre comunicato il congelamento dei beni riconducibili ad altri 100 fra individui ed entità russe; una ‘stretta legislativa’ per impedire alle grandi aziende e allo Stato russo di raccogliere risorse o prestiti alla City, nonché la sospensione della licenza di esportazione di beni verso la Russia utilizzabili anche per scopi militari, di tutte le componenti ad alta tecnologia e delle attrezzature per la raffinazione del petrolio.

Entro Pasqua è stata promessa una legge per rendere più stringenti i controlli su proprietà o capitali, considerati ‘opachi’, che siano riconducibili a cittadini od oligarchi russi che negli anni post sovietici hanno arricchito il mercato britannico, in particolare quello immobiliare, proprio della cosiddetta Londongrad.

Roberta Davi

(ANSA il 24 febbraio 2022) - "Non ci sono truppe Nato in Ucraina al momento, non abbiamo né piani né intenzioni di dispiegare le truppe Nato in Ucraina ma stiamo incrementando truppe nella parte orientale dell'Alleanza in territorio Nato. L'Ucraina è un partner di valore, ma non abbiamo truppe e non abbiamo piani di inviare truppe in Ucraina". Lo ha detto il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg.

(AGI il 24 febbraio 2022) - "In risposta all`ammassamento militare russo stiamo gia` rafforzando le nostre difese collettive di terra, in mare e nei cieli e nelle scorse settimane gli alleati nordamericani ed europei hanno mobilitato migliaia di soldati nella parte Est dell`alleanza e messo in stand-by altre truppe. Abbiamo oltre 100 jet in massima allerta che proteggono il nostro spazio aereo e oltre 120 navi alleate in mare dal Nord al Mediterraneo". Lo ha dichiarato il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, in una conferenza stampa.

(ANSA-AFP il 24 febbraio 2022) - Varsavia ha chiesto l'attivazione dell'articolo 4 del trattato Nato. Lo rende noto il governo polacco. L'articolo 4 del trattato Nato prevede "consultazioni di emergenza se un membro è minacciato", dopo che la Russia ha lanciato un attacco contro l'Ucraina. 

L'ambasciatore polacco a Bruxelles, dove ha sede la Nato, "ha presentato una richiesta al segretario generale della Nato, insieme a un gruppo di alleati", ha detto il portavoce del governo polacco Piotr Mueller. L'Ucraina non è un membro della Nato, ma l'alleanza ha ripetutamente condannato le aggressioni della Russia contro il suo vicino.

(ANSA-AFP il 24 febbraio 2022) - Il presidente francese Emmanuel Macron ha chiesto la riunione di un vertice Nato "al più presto". Lo riferisce l'Eliseo. 

"Il presidente della Repubblica auspica la convocazione al piu' presto di un vertice della Nato, in concertazione con i nostri partner e alleati", afferma l'Eliseo, ricordando che una richiesta simile a quella di Emmanuel Macron è stata espressa anche dal premier, britannico Boris Johnson.

(ANSA il 24 febbraio 2022) - "Le azioni della Russia pongono una seria minaccia alla sicurezza euro-atlantica e avranno conseguenze geo-strategiche. Oggi abbiamo tenuto consultazioni nell'ambito dell'articolo 4 del Trattato e abbiamo deciso di prendere ulteriori passi per rafforzare la difesa dell'Alleanza. Le nostre misure resteranno preventive e proporzionate". È quanto si legge nelle conclusioni del Consiglio Nord Atlantico della Nato.

(ANSA il 24 febbraio 2022) - "I Paesi alleati della Nato non accetteranno mai riconoscimenti illegali" da parte di Mosca. "Richiamiamo con urgenza la Russia a tornare indietro dal percorso di violenza e aggressione scelto". È quanto si legge nelle conclusioni del Consiglio Atlantico della Nato.

(ANSA il 24 febbraio 2022) - I leader dei Paesi aderenti alla Nato si riuniranno domani in videoconferenza per fare il punto della situazione sull'attacco della Russia all'Ucraina. Lo si apprende da fonti dell'Alleanza.

(ANSA il 24 febbraio 2022) - Nel corso della riunione del Consiglio Atlantico è stata approvato un ulteriore dispiegamento di forze di terra, acqua e aria sul fianco sinistro dell'Alleanza. E' stata anche aumentata la prontezza di risposta dei contingenti". E' quanto si legge nelle conclusioni del Consiglio Atlantico della Nato.

(ANSA il 24 febbraio 2022) - "La Russia ha attaccato l'Ucraina, è un atto brutale di guerra. Quello che aveva detto da mesi è successo. E' un momento grave per noi, la guerra è in Europa". Lo dice il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg in una dichiarazione alla stampa.

(ANSA il 24 febbraio 2022) - "Nei prossimi giorni invieremo ulteriori forze sul fianco Est dove già sono state inviate migliaia di truppe. Dopo l'invasione della Russia di un Paese non alleato abbiamo attivato oggi il piano di difesa della Nato, che dà maggior autorità ai comandanti in campo. Noi siamo pronti, ma la nostra è un Alleanza preventiva, non vogliamo un conflitto". Lo dice il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg in un punto stampa. "La Russia ha chiuso le porte ad una soluzione diplomatica", ha aggiunto. 

"Potremo muovere le nostre forze più velocemente" con l'attivazione dei piani di Difesa. In risposta all'ammassamento militare russo stiamo già rafforzando le nostre difese. Nelle scorse settimane gli alleati nordamericani ed europei hanno mobilitato migliaia di soldati nella parte Est dell'alleanza e messo in stand-by altre truppe.

Abbiamo oltre 100 jet in massima allerta che proteggono il nostro spazio aereo e oltre 120 navi alleate in mare dal Nord al Mediterraneo", spiega Stoltenberg. "I piani vanno a coprire tutta la parte orientale dell'Alleanza e danno più spazio ai nostri comandanti", sottolinea Stoltenberg che a chi gli chiede se è la prima volta che l'Alleanza ricorre ad un piano di difesa risponde: "non so se posso rispondere, non so se è mai stato reso pubblico in precedenza".

(ANSA il 24 febbraio 2022) - "La Russia e la Nato non firmeranno accordi sulla non ulteriore espansione dell'Alleanza, i Paesi alleati non scenderanno ad alcun compromesso. Noi rispettiamo le decisioni di Finlandia e Svezia se unirsi o meno. Ogni Paese è libero di scegliere". Lo dice il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg. Al summit di domani "avremo anche Svezia, Finlandia e Ue", aggiunge. 

Estratto dell'articolo di Marco Bresolin per "la Stampa" il 25 febbraio 2022.

La risposta dell'Unione europea all'invasione russa in Ucraina è forte, fortissima, inedita. Ma non è la più forte possibile. Perché i 27 governi vogliono tenersi ancora qualche munizione da usare in caso di un'ulteriore escalation. […] la misura su Swift non era inclusa nel pacchetto di sanzioni che la Commissione ha presentato ieri mattina durante la riunione degli ambasciatori dei 27, ma è anche vero che i Baltici hanno proposto di aggiungerlo. 

La Germania, sostenuta dall'Italia e da Cipro, ha però stoppato subito l'iniziativa. Per motivi "strategici" […] e legati ai rispettivi interessi nazionali. […] le sanzioni […] colpiscono in modo particolare il settore finanziario, ma anche quello dei trasporti, l'export di prodotti tecnologici utilizzati in ambito militare e le aziende pubbliche russe. Si tratta di misure «coordinate con gli alleati» che «imporranno conseguenze massicce e gravi alla Russia».

[…] l'altra grande questione che ha animato il confronto riguarda la possibile inclusione nella blacklist dei sanzionati del ministro degli Esteri Sergei Lavrov e dello stesso Vladimir Putin. Su questo si sono scontrate due diverse visioni: da un lato, chi ritiene necessario colpire subito anche loro […] Dall'altro, chi invece ritiene che sia meglio tenere aperto uno spiraglio per cercare una soluzione diplomatica.  […] Il Consiglio europeo ha poi valutato la possibilità di imporre nuove sanzioni alla Bielorussia per via del sostegno del regime di Lukashenko a Mosca. […]

Estratto dell'articolo di Marco Bresolin per "la Stampa" il 25 febbraio 2022.  

Sarà la Germania a pagare il prezzo più alto per le sanzioni alla Russia decise ieri dal Consiglio europeo. E al secondo posto nella classifica degli Stati più colpiti non c'è l'Italia, ma i Paesi Bassi. […] Questo perché Berlino e L'Aia sono i due Paesi con i maggiori legami con la Russia nel settore finanziario e in quello che riguarda l'export di beni ad alta tecnologia, i due capitoli principali del pacchetto adottato ieri dall'Ue.

Il fatto di aver escluso interventi sul gas ha in qualche modo risparmiato l'Italia da conseguenze peggiori. Per quanto riguarda gli interventi sulle banche russe […] il divieto di prestare soldi e acquistare titoli è stato esteso a cinque istituzioni statali e a due banche private: Alfa Bank e Bank Otkritie. Per bloccare i finanziamenti alle imprese statali russe si è deciso di proibire la nuova quotazione di aziende sui mercati azionari Ue, inoltre saranno vietati i prestiti e l'acquisto di titoli di alcune aziende pubbliche. Nell'elenco ci sono Almaz-Antey (settore aerospaziale), Kamaz (automotive), Novorossiysk Commercial Sea Port (settore portuale), Rostec (settore militare), Russian Railways (infrastrutture), Sovcomflot (trasporto marittimo), Sevmash e United Shipbuilding Corporation (cantieristica navale). C'è poi un capitolo che punta a frenare i flussi finanziari dalla Russia all'Ue.

Le banche europee non potranno più accettare i nuovi depositi dei cittadini russi se superiori ai 100 mila euro, misura pensata per colpire le élite. Saranno inoltre vietati i depositi di titoli Ue dai conti correnti dei clienti russi e la vendita ai residenti in Russia di titoli denominati in euro. Per quanto riguarda l'energia, l'Ue vieterà l'esportazione di specifiche tecnologie per la raffinazione del petrolio. 

Mentre nel settore dei trasporti le imprese europee non potranno più vendere aeromobili, ma nemmeno singole parti e attrezzature. Bando anche per i servizi di manutenzione e finanziari, come ad esempio il leasing di aeromobili. Il quarto capitolo riguarda invece limitazioni o addirittura lo stop dell'export dei beni ad alta tecnologia "dual-use", vale a dire che possono essere utilizzati sia in ambito civile che militare. Elementi che, spiegano fonti Ue, «possono contribuire, direttamente o indirettamente a potenziare la capacità militare e tecnologica della Russia».

Ma la misura non colpirà soltanto i clienti militari, bensì tutti gli utenti finali e potrebbe portare a una limitazione nella vendita di articoli elettronici, computer, sensori e laser. Infine la Commissione presenterà a breve una proposta per sospendere l'esenzione dal visto per i titolari di passaporti diplomatici russi, mentre il servizio per l'azione esterna dell'Ue è al lavoro per allungare la blacklist delle figure colpite da sanzioni individuali. Saranno estese a tutti i membri della Duma (nel primo pacchetto c'erano soltanto i 351 deputati che avevano votato a favore del riconoscimento delle autoproclamate repubbliche del Donbass) e probabilmente anche a tutti i membri del Consiglio di sicurezza russo. 

Cremlino, riconosciamo Zelensky come presidente ucraino

(ANSA il 25 febbraio 2022) - La Russia continua a riconoscere Volodymyr Zelensky come legittimo presidente dell'Ucraina. Lo ha detto il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, citato dall'agenzia Interfax, rispondendo alla domanda di un giornalista: "Sì, certo, Volodimir Zelensky è il presidente dell'Ucraina, sì", ha detto Peskov. 

Ucraina: Zelensky alla Ue, rafforzare sanzioni a Russia  "Non tutte le possibilità di sanzioni sono state ancora esaurite. La pressione sulla Russia deve aumentare. Ho detto questo alla (presidente della commissione Ue, Ursula, ndr) atVonderleyen. Sono grato alla presidente per la sua decisione su un'ulteriore assistenza finanziaria": lo ha scritto in un tweet il presidente ucraino Volodymir Zelensky.

Cremlino, riconosciamo Zelensky come presidente ucraino

La Russia continua a riconoscere Volodymyr Zelensky come legittimo presidente dell'Ucraina. Lo ha detto il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, citato dall'agenzia Interfax, rispondendo alla domanda di un giornalista: "Sì, certo, Volodimir Zelensky è il presidente dell'Ucraina, sì", ha detto Peskov.

Ucraina: Zelensky a Putin, sediamoci a tavolo trattative

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha di nuovo invitato l'omologo russo, Vladimir Putin, a sedersi ad un tavolo delle trattative. Lo scrivono le agenzie russe Tass e Interfax.

"Vorrei rivolgermi ancora una volta al presidente della Federazione russa - dice Zelensky in un video pubblicato su Telegram -. Il combattimento è in corso su tutto il territorio ucraino, sediamoci al tavolo dei negoziati e mettiamo fine alla perdita di vite".

Ucraina: Zelensky, la risposta europea è troppo lenta

(ANSA-AFP il 25 febbraio 2022) - Il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, giudica la risposta europea alla Russia "troppo lenta". 

Zelensky ai cittadini europei,venite a combattere per Kiev

Il presidente ucraino Zelesky ha invitato gli europei che hanno "esperienza di guerra" a "venire a combattere in Ucraina".

Zelensky, non ho risposto a Draghi? C'è la guerra qui...

(ANSA il 25 febbraio 2022) - "La prossima volta cercherò di spostare l'agenda bellica per parlare con Mario Draghi ad un'ora precisa". Lo scrive via Twitter il presidente ucraino Volodymyr Zelensky dopo che il premier Mario Draghi questa mattina aveva detto di aver provato a contattare il presidente ucraino senza riuscirci.

"Questa mattina alle 10:30 agli ingressi di Chernihiv, Hostomel e Melitopol ci sono stati pesanti combattimenti. Le persone sono morte. Nel frattempo, l'Ucraina continua a lottare per il suo popolo", ha tagliato corto Zelensky.

Da rainews.it il 25 febbraio 2022.

L'Europa trova l'accordo su nuove sanzioni "massicce" nei confronti di Mosca dopo l'aggressione russa all'Ucraina. Lo si legge nel comunicato finale del Consiglio europeo straordinario a Bruxelles e lo ribadiscono i leader europei in conferenza stampa al termine dei lavori.

Von der Leyen: le sanzioni colpiscono il 70% delle banche russe. Putin deve fallire e fallirà

"Il pacchetto di sanzioni massicce e mirate approvato stasera mostra quanto sia unita l'Ue. In primo luogo, questo pacchetto include sanzioni finanziarie, mirate al 70% del mercato bancario russo e alle principali società statali, compresa la difesa".

Lo dice la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, al termine del Consiglio europeo straordinario sull'Ucraina. "Cercheremo di erodere le basi dell'economia" e di "diminuire le riserve dei ricchi russi che non potranno più mettere il loro denaro nei paradisi fiscali", aggiunge. Tra le sanzioni lo stop "alla fornitura di parti di ricambio per gli aerei, i tre quarti della flotta aerea russa sono stati costruiti in Canada". E aggiunge: Putin deve fallire e fallirà".

Michel: decise sanzioni dolorose per Mosca. Dobbiamo ridurre la nostra dipendenza energetica

"Abbiamo deciso sanzioni dolorose per Mosca". Lo ha dichiarato il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, al termine del vertice. Le sanzioni saranno formalmente adottate dal Consiglio, ha aggiunto. 

 Poi annuncia che sono stati decisi maggiori aiuti umanitari per l'Ucraina e l'assistenza per l'accoglienza dei rifugiati, mentre a marzo e spiega: "Dobbiamo ridurre la nostra dipendenza energetica, abbiamo intenzione di avere un dibattito approfondito su questo al Consiglio europeo di marzo. E poi dobbiamo aumentare le nostre capacità di difesa e sicurezza". 

Macron: Putin ha scelto la guerra invece di negoziare, solidarietà Ue per i rifugiati ucraini

"C'è unanimità" nell'applicare "la solidarietà di tutti gli europei" nei confronti di chi fugge dall'Ucraina. "Questa crisi credo che ricordi a chi ha fatto prova di minor solidarietà in crisi passate che è bene essere solidali. La Francia farà la sua parte, gli ucraini che lasceranno il Paese potranno essere accolti in Europa". Lo dice il presidente francese, Emmanuel Macron, in conferenza stampa.

Poi aggiunge: "Ho avuto uno scambio con il presidente russo, Vladimir Putin, franco, rapido e diretto, su richiesta del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, per chiedere la cessazione dell'intervento militare" ma "per il momento non ha dato frutti". E ancora: "C'è stata doppiezza" da parte del leader russo, ha ammesso il presidente francese. "Ha scelto di scatenare la guerra, quando erano ancora aperte le vie diplomatiche". Tuttavia "può essere utile lasciare aperta la strada del dialogo" con Putin. 

Il comunicato sulle sanzioni

"Le sanzioni - si precisa nel comunicato finale del Consiglio europeo - coprono il settore finanziario, energetico quello dei trasporti, l'export di beni e finanziario, la politica dei visti e l'inserimento nella lista nera, e con nuove criteri, di personalità russe". 

"Il Consiglio adotterà il pacchetto senza ritardi" e annuncia nuove sanzioni anche alla Bielorussia.

"Il Consiglio europeo condanna con la massima fermezza l'aggressione militare non provocata e ingiustificata della Federazione russa contro l'Ucraina". Parole nette e chiare da parte del Consiglio europeo straordinario riuniti in serata a Bruxelles. 

"Con le sue azioni militari illegali, la Russia sta violando gravemente il diritto internazionale e i principi della Carta delle Nazioni Unite e minando la sicurezza e la stabilità europea e mondiale".

"Il Consiglio europeo sottolinea che" la tutela dei principi "include il diritto dell'Ucraina di scegliere il proprio destino. La Russia ha la piena responsabilità di questo atto di aggressione e di tutta la distruzione e la perdita di vite umane che causerà. Sarà ritenuta responsabile delle sue azioni". 

"Il Consiglio europeo chiede che la Russia cessi immediatamente le sue azioni militari, ritiri incondizionatamente tutte le forze e l'equipaggiamento militare dall'intero territorio dell'Ucraina e rispetti pienamente l'integrità territoriale, la sovranità e l'indipendenza dell'Ucraina entro i suoi confini internazionalmente riconosciuti".

"Il Consiglio europeo - si legge ancora - invita la Russia e le formazioni armate sostenute dalla Russia a rispettare il diritto umanitario internazionale e fermare la loro campagna di disinformazione e attacchi informatici". 

"Il Consiglio europeo condanna inoltre fermamente il coinvolgimento della Bielorussia in questa aggressione contro l'Ucraina e la invita ad astenersi da tale azione e a rispettare i suoi obblighi internazionali".

La verità sulle sanzioni a Putin, Rampini smaschera Biden e l'Europa: "Lo sanno tutti che non sono efficaci". Il Tempo il 25 febbraio 2022.

Nelle parole del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, si trova tutta l'impotenza dell'Occidente nell'affrontare l'aggressione della Russia di Vladimir Putin all'Ucraina. Federico Rampini venerdì 25 febbraio è ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira, il programma di La7, e la sua analisi sulle armi spuntate di Usa ed Europa nei confronti dello Zar è spietata. 

Il giornalista si ricollega alle parole di Vittorio Sgarbi che aveva parlato appunto dell'impotenza dell'Occidente. "Lo spettacolo di questa impotenza è dato da sanzioni economiche contro la Russia di cui tutti sanno la scarsa efficacia" dice il corrispondente di Repubblica che cita il discorso di Biden di giovedì 24 febbraio. "È stato uno spettacolo di incoerenza dichiarata, ammessa, esplicita. Da un lato ha descritto le sanzioni 'devastanti' ma quando gli hanno chiesto se secondo lui queste sanzioni possono dissuadere Putin dal fare quello che sta facendo ha detto no". Tradotto: non sono affatto "devastanti". 

Ma c'è altro. Rampini punta il dito contro la tendenza dell'Occidente ad "autoflagellarsi" e a "riscrivere la storia" in una riscrittura, questa volta, "putiniana": Ossia accettare la versione che dopo la caduta del muro di Berlino in "maniera arrogante e irresponsabile" la Nato si è allargata a dismisura fino ai confini della Russia minacciando la sicurezza di Mosca. "È una storia parzialmente vera, l'Occidente ha fatto atti di arroganza ma anche grandi aperture come quella di Bill Clinton che lanciò la partnership tra Russia e Nato, o Bush junior che accolse Mosca al G7. Lo stesso Putin all'inizio è stato filo-americano...".  

Quando è cambiato tutto? "Dopo la sua seconda campagna elettorale, quando vide crescere la protesta interna e iniziò a parlare di complotti americani per rovesciarlo", dice Rampini che parla di "sindrome dell'accerchiamento" da parte del presidente russo. 

Fausto Carioti per “Libero quotidiano” il 25 febbraio 2022.

Ministro degli Esteri nel governo Berlusconi e figlio di un ministro degli Esteri: Gaetano Martino, la cui firma appare sui trattati europei del 1957. Atlantista convinto, tanto che nel 2004 gli fu offerto l'incarico di segretario generale della Nato (da lui rifiutato, come aveva fatto suo padre). 

Vicino ai conservatori e ai libertari statunitensi («devo essere conservatore per conservare le libertà che abbiamo»), Antonio Martino si rifiuta di riconoscere il democratico Joe Biden come leader del mondo occidentale che si contrappone a Vladimir Putin. «Considero Biden peggiore del suo maestro Barack Obama. Costui era stato sinora il peggiore presidente nella storia degli Stati Uniti, Biden è riuscito a superarlo».

Quali errori ha commesso?

«Ha ritirato gli ultimi soldati americani dall'Afghanistan, regalandolo ai talebani e aprendo così alla Cina la strada che porta al Mediterraneo. Ha stravolto le disposizioni per il controllo del confine meridionale degli Stati Uniti, col risultato che i crimini e l'afflusso degli immigrati illegali sono esplosi. 

Quindi ha tolto le truppe americane dalle vicinanze del confine tra Russia e Ucraina, praticamente invitando Putin a invadere l'Ucraina. L'ultimo dei suoi capolavori».

Secondo molti osservatori il primo grande errore di Washington fu non sciogliere l'Alleanza atlantica dopo il crollo del Muro e la dissoluzione dell'Urss, quando il suo obiettivo era stato raggiunto.

«La Nato era un'alleanza difensiva, ossia di tipo esclusivo, creata per escludere il Paese o il gruppo di Paesi dai quali ci si difende: in questo caso, ovviamente, l'Unione sovietica e il Patto di Varsavia. Caduti questi e svanito il rischio di una guerra tra i due blocchi, l'alleanza difensiva ha perso senso. È rimasto, però, il problema della sicurezza mondiale».

La Nato sarebbe dovuta diventare un'alleanza per la sicurezza, quindi.

«Sì. E mentre le alleanze difensive sono esclusive, quelle per la sicurezza sono inclusive: quanti più Paesi aderiscono all'organizzazione, tanto più essa è efficiente». 

La vecchia idea, sua e di Silvio Berlusconi, di includere la Russia nella Nato. Nessun ripensamento, alla luce di quanto accaduto in Ucraina?

«Nessuno. Oggi criticare Putin è giusto e doveroso, ma la storia è molto più complessa. Putin avrebbe potuto essere prezioso e la sua Russia sarebbe stata utilissima se inserita in un'organizzazione per la sicurezza. Gli accordi di Pratica di Mare del 2002, con cui Berlusconi voleva avvicinare la Russia nella Nato, erano una cosa saggia».

È chiaro che qualcosa non ha funzionato.

«La Nato non è riuscita a trasformarsi e Mosca ha continuato a percepirla come la vecchia alleanza difensiva, creata contro l'Urss e "riconvertitasi" contro la Federazione russa. E poi, purtroppo, i rapporti tra la Russia e la Cina sono Il presidente degli Usa, Joe Biden migliorati. 

L'importanza delle divisioni tra i due giganti dell'ex comunismo si è attenuata, mentre sono sorte tensioni nuove tra la Russia e l'Occidente». 

Occidente che si compone degli Stati Uniti governati da Biden, del quale ha detto, e dell'Unione europea. Sulla quale il suo giudizio non è mai stato tenero.

«Ancora meno lo è adesso. È un'insensata organizzazione di Paesi che si comportano in modo demenziale. Malgrado tutte le sue arie di superiorità, Ursula von der Leyen è incapace e inadeguata. Non rappresenta nulla: l'Unione europea non ha una politica estera né può averla, perché non dispone di un proprio esercito e non è un'entità statale».

Lei ha conosciuto Putin. Che idea si è fatto dell'uomo?

«Lo conobbi da vicino nel novembre del 2003, quando ero ministro della Difesa. Lui era in visita a Roma e lo accompagnai all'Altare della Patria. Non parla inglese né francese, solo il tedesco, che aveva imparato perché era stato agente del Kgb nella Germania di Erich Honecker. 

Non sono un ammiratore della sua politica, volta soprattutto a soddisfare le passioni della popolazione russa, però ho notato in lui qualità interessanti». 

Quali?

«Innanzitutto è un russo astemio, quindi una mosca bianca. Mangia poco, fa sport e arti marziali, ha un fisico atletico che mantiene in forma. È sempre perfettamente in controllo delle sue azioni e dei suoi sentimenti. Un personaggio per certi versi da ammirare, e quindi da temere. Perché queste sue qualità positive, se messe a disposizione di una persona che non ha buone intenzioni, possono essere terribilmente pericolose. Fosse un ubriacone, sarebbe meno temibile». 

Come spiega la sua decisione di invadere l'Ucraina?

«Ci ho pensato e onestamente non riesco a spiegarmela. Non ci sono motivi economici: l'Ucraina non ha ricchezze che possano interessare Mosca, le cui risorse naturali sono enormi.

La Federazione russa non ha bisogno di ulteriori pezzi di territorio, perché è sterminata e copre undici fusi orari diversi: come si fa a governare una superficie simile, così diversificata dal punto di vista linguistico, religioso, etnico? Per fortuna di Putin, buona parte è inabitata e non crea problemi. Ma la Russia, più che di espandersi, avrebbe bisogno di contrarsi». 

Resta il fatto che oggi i soldati di Putin sono in Ucraina e le uniche sanzioni credibili passano per la rinuncia al gas russo, che rappresenta il 43% del metano importato dall'Italia.

«Quanto avvenuto conferma la grande saggezza dei padri fondatori dell'Europa, che nel 1957, nei trattati di Roma, crearono, oltre al mercato comune europeo, l'Euratom. Ritenevano l'indipendenza energetica indispensabile affinché l'Europa potesse avere una propria politica estera. In caso contrario, dicevano, sarebbe stata sempre politicamente vincolata al fabbisogno di energia».

Come poi è accaduto.

«Gli anti-nuclearisti sono degli imbecilli, hanno privato l'Europa della fonte energetica più economica, pulita e sicura. Il nucleare è l'unica fonte con cui un Paese privo di petrolio può approvvigionarsi di energia». 

Così oggi noi italiani abbiamo un dilemma economico e soprattutto politico: possiamo permetterci di rinunciare al gas russo?

«No, non ce lo possiamo permettere. Abbiamo bisogno del metano russo, è essenziale per l'Italia, come lo sono le importazioni di petrolio. La nostra economia vive grazie a quel gas. Come possiamo mettere sanzioni su ciò che ci serve per vivere?». 

Tiriamo le somme. Se Biden è quello che descrive lei, la Ue e la von der Leyen sono quello che sono, l'esercito europeo non esiste e le uniche sanzioni credibili sono quelle che non possiamo adottare, come se ne esce? Ammesso che se ne possa uscire...

«Questo è il problema. Il comportamento di Putin è deplorevole e va condannato, ma non siamo in grado nemmeno di esprimere una condanna credibile, perché ci siamo messi nella impossibilità di farlo. Non possiamo fare quello che vorremmo e dovremmo fare, e la colpa è nostra. Che senso ha esprimere condanne e minacciare sanzioni, se non si può fare nulla di concreto per cambiare il corso degli eventi? Abbiamo le mani legate».

DAGOREPORT il 25 febbraio 2022.  

Provate a immaginarvi Zelensky, asserragliato in qualche rifugio sotterraneo a Kiev per sfuggire all’avanzata russa, entrare nel suo profilo Twitter per lamentarsi pubblicamente – e ironicamente – dell’agenda del presidente del consiglio italiano Mario Draghi. Un po’ fuori le righe, se vogliamo.

L’episodio tuttavia nasconde una realtà che finora nessuno ha avuto il coraggio di vedere e che Zelensky stesso sta iniziando a riconoscere in queste ore. A nessuno, in Occidente, frega davvero nulla dell’Ucraina. Putin ha invaso sapendo che gli Usa non avrebbero mai risposto.

Questa estate Biden ha dovuto assecondare le richieste degli americani sul ripiego immediato delle truppe dall’Afghanistan, pressioni così dure da orchestrare una ritirata goffa e imbarazzante, che ha poi lasciato – com’era prevedibile – un Paese conteso da decenni in mano ai talebani.

Figuriamoci se Banana Joe oggi ha la forza (elettorale) per portare gli scarponi dei suoi marines sul territorio ucraino con le prossime elezioni midterm date già in bilico da gran parte dei bookmakers. La sua popolarità, già inesistente, cadrebbe a picco. E con lui tutto il Democratic Party. 

Putin ha quindi preso tutti in contropiede, in fondo i regimi hanno logiche consensuali opposte a quelle delle democrazie. Si diceva “guerra di parole”, invece Vladimir ha dimostrato a tutti che i vecchi carrarmati e i missili funzionano eccome, anzi sono molto più scenici e di impatto rispetto ai droni che usava Obama nello Yemen.

Non solo: ha dimostrato che la Nato non esiste più da molti, moltissimi anni; e che l’Onu è una carovana di falsità con un Consiglio di Sicurezza settato ancora sul secondo Dopoguerra (ironia della sorte, riunitosi in questi giorni il Consiglio era presieduto, a turno, proprio dai russi). 

Peraltro, con i cinesi su Taiwan, per primo ha compreso che nessuno avrebbe mai avuto il coraggio, né la voglia, né il tempo di fermarlo. E l’avanzata si è compiuta senza troppi intoppi, fino alla proposta degli ultimi minuti di trattare su una Ucraina “neutrale”.

Chi credeva che non ce l’avrebbe fatta ha ignorato che Putin era ed è il solo ad avere le idee chiare, sapeva quello che voleva e dove voleva andare, a differenza degli europei, che per l’ennesima volta si sono invece, davanti ai fatti, mostrati divisi e frammentati. 

Le sanzioni sono state deboli, ma soprattutto la spaccatura sullo Swift è stata emblematica. Nel momento in cui bisognava alzare il tiro, come sempre, ognuno ha pensato ai cazzi suoi. Anche MarioPio: in mattinata non aveva avuto il tempo di rispondere a Zelensky e ha rimandato. Questo perché tutti sanno che è nel Mar Cinese che si gioca la partita più importante.

Per Washington, l’Ucraina è solo un fastidioso effetto collaterale di una possibile intesa tra Mosca e Pechino che, in questo modo, colpirebbe sì duramente gli interessi, ma anche l’immagine, degli Stati Uniti in tutto il mondo. I caccia militari cinesi nei cieli di Taipei sono stati un segnale molto chiaro.

Non è un caso che a gennaio il dipartimento di Stato Usa abbia pubblicato un report per esplicitare l’illegalità delle rivendicazioni di Pechino nel Mar Cinese Meridionale. Taiwan è l’ultimo scoglio. È lì, dove giacciono circa 11 miliardi di barili di petrolio, oltre 50 trilioni m³ di gas naturale e dove transita il 30% del commercio marittimo mondiale, che potrà consumarsi la vera guerra. 

In Ucraina, con ogni probabilità, assisteremo invece a un ritorno al tavolo dei negoziati molto presto. Con una sola, grande differenza rispetto a un mese fa: che Putin ci si siederà – ahinoi - da vincitore, con Kiev nel taschino della giacca. 

Antonio Di Noto per open.online il 25 febbraio 2022.

Non solo la politica, anche il mondo dello sport si schiera. Atleti russi, ucraini, ma anche di altre nazionalità hanno espresso la loro preoccupazione per la guerra in corso tra Russia e Ucraina. Diversi eventi sono stati cancellati, spostati o rinviati a data da destinarsi. La finale di Champions League si giocherà a Parigi, e non più a San Pietroburgo, mentre è saltato il Gran Premio di Formula 1 a Sochi e tre partite di Eurolega non sono state disputate.

É di oggi, 25 febbraio, la decisione della Uefa di spostare la finale di Champions League dalla Gazprom Arena di San Pietroburgo allo Stade de France di Parigi mantenendo invariata la data: 28 maggio. L’Uefa ha anche annunciato che i club e le nazionali russe e ucraine che gareggiano in competizioni internazionali dovranno giocare le partite casalinghe in sedi neutrali «fino a nuovo ordine». 

Sempre in seguito allo scoppio della guerra, il Manchester United ha rescisso con un anno di anticipo la sua partnership con Aeroflot, la compagnia aerea di bandiera della Russia, rinunciando a 40 milioni di sterline per l’ultimo anno della collaborazione che sarebbe comunque terminata nel 2023. Già martedì la squadra si era recata a Madrid con un volo Titan Airways. Rimane tuttora irrisolta la questione Gazprom. 

Dopo che lo Schalke 04 ha deciso ieri di togliere il logo del colosso degli idrocarburi russo dalla divisa di gioco, anche la Uefa si trova sotto pressione per dissociarsi dalla compagnia, tra i maggior sponsor della Champion’s League, di cui lo stato russo è il maggior azionista. In Europa League, ieri, ha fatto il giro del mondo il gesto di Ruslan Malinovskyi, giocatore ucraino dell’Atalanta, che si è sollevato la maglia rivelando la scritta “no war in Ukraine” dopo la doppietta segnata contro i greci dell’Olympiacos.

In Formula 1, il Gran Premio di Sochi è stato annullato. La decisione è stata presa oggi 25 febbraio in un incontro tra tutti i team a Barcellona, dove si stanno svolgendo i test pre-campionato.  

Prima che venisse ufficializzato l’annullamento del Gp, avevano fatto rumore le dichiarazioni del quattro volte campione del mondo Sebastian Vettel: «Ritengo sia sbagliato correre in Russia e ho già deciso che non lo farò», aveva commentato il pilota tedesco. La posizione di Vettel era stata condivisa dal campione in carica Max Verstappen: «Se un Paese è in guerra non vi si dovrebbe correre».

«In momenti come questi ti rendi conto che il tennis non è così importante», ha commentato ieri il tennista russo Daniil Medvedev dopo aver scalzato Novak Djokovic dal numero uno del ranking Atp. Dopo la vittoria contro Yoshihito Nishioka, Medvedev ha risposto agli attacchi ricevuti sul web a causa della sua nazionalità: «Da tennista voglio promuovere la pace in tutto il mondo. Giochiamo in così tanti paesi… sono stato in così tanti paesi da junior e da pro. Non è facile sentire certe cose. Io sono per la pace».  

La parole di Medvedev fanno eco a quelle del connazionale Andrey Rublev, che ha ribadito che «in certi momenti il match non è importante», perché quello che succede là fuori «è molto peggio». La dichiarazione di Rublev è giunta il 20 febbraio dopo la sua vittoria al Challenger di Marsiglia, in doppio con l’ucraino Denys Molchanov: «La pace nel mondo è importante a prescindere, dovremmo rispettarci tutti e stare uniti», ha detto il tennista russo.

Nella pallacanestro a poco sono servite le rassicurazioni dell’Eurolega sul regolare svolgimento delle partite in programma tra ieri e oggi. Il Barcellona doveva giocare a San Pietroburgo questa sera, ma ha deciso di non salire sul volo per la Russia. 

Anche il Bayern Monaco non è sceso in campo a Mosca dopo che Magenta Sport, la rete televisiva tedesca che detiene i diritti tv dell’Eurolega in Germania aveva fatto sapere che non avrebbe trasmesso il match contro il Cska, in programma ieri sera. Vista la situazione l’Eurolega ha deciso di rinviare a data da destinarsi le due partite, e la stessa sorte è toccata anche a Baskonia-Unics Kazan. 

Da ilnapolista.it il 25 febbraio 2022.

Ora che la Russia invade l’Ucraina, e gli sponsor russi spariscono dalle maglie di calcio come dalle livree della Formula Uno, in Germania (dove il legame tra Gazprom e lo Schalke 04 è un caso da molto prima che la situazione precipitasse in Ucraina) si chiedono: “Come è stato possibile per il calcio europeo arrivare a dipendere dalle flebo di uno Stato in guerra che da anni muove burattini negli stadi europei attraverso una delle sue società?”.

In particolare se lo chiede la Faz. La Sueddeutsche Zeitung se la prende con la Fifa di Infantino, per la quale ha una particolare predilezione, ma il senso è lo stesso: “Ora le federazioni hanno la forza e la determinazione per prendere in mano la situazione dopo l’invasione dell’Ucraina, per salvare dalla propria reputazione se ancora essere salvata?”

Il senso di quella che il quotidiano tedesco chiama “una bugia per tutta la vita” è: se ne sono accorti solo ora?

Gazprom è praticamente il main sponsor della Uefa. Lo stadio dove doveva giocarsi (oggi l’Uefa deciderà di spostare la partita in altra sede) la finale di Champions, a San Pietroburgo, si chiama Gazprom Arena. “Le conseguenze di politica finanziaria e sportiva per l’Uefa potrebbero essere gravi”.

Anche i top club europei sono indirettamente legati alla società russa per gli alti introiti che incassano in Champions League. Gli esperti stimano che Gazprom abbia inciso sull’economia del calcio europeo per il 20-25%.

Secondo le informazioni della Faz, il gigante dell’energia aveva pianificato di utilizzare la Champions come piattaforma per pubblicizzare in anticipo in Germania le campagne per il gasdotto del Mar Baltico Nord Stream 2, come sta già facendo nell’ambito della sua partnership con lo Schalke 04. Ora dovrà per forza cambiare tutto, anche per il calcio.

Debole nella Nato e tenera con Putin: le responsabilità della Germania. VITTORIO DA ROLD su Il Domani il 25 febbraio 2022

Berlino spende per la difesa solo l’1,38 per cento del Pil rispetto al 2 per cento minimo promesso agli alleati. La Germania ha fatto pressioni a Washington per fermare le sanzioni più dure e trovare un’intesa con il Cremlino.

Per Marcel Dirsus, analista politico tedesco presso l'Institute for Security Policy dell’università di Kiel, «l'intera narrativa della politica estera tedesca che ha puntato tutto sul cambiamento attraverso il commercio» è completamente fallita.

Eppure Berlino, per 16 anni con Angela Merkel e prima con Gerhard Schröder, esponente di punta del partito filorusso in Germania, ha continuato a commerciare e a credere di poter ricondurre Putin a più miti consigli. Non è stato così: e forse è giunta l’ora di fare ammenda pubblica di questa pericolosa illusione.   

VITTORIO DA ROLD. Dopo essersi laureato alla facoltà di Storia e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano ha iniziato la carriera di giornalista nel 1986 a ItaliaOggi di Marco Borsa e Livio Sposito dopo aver collaborato all'Ipsoa di Francesco Zuzic e Pietro Angeli. Segue la politica estera e l'economia internazionale con un occhio di riguardo per tutto ciò che è ad Est rispetto all'Italia: dalla Polonia alla Turchia, dall'Austria alla Grecia fino ad arrivare all'Iran. È stato Media Leader del World Economic Forum.

Da tech.evereye.it il 25 febbraio 2022.

La crisi in Ucraina, con l’escalation da parte della Russia di questa notte ha provocato un crollo del mercato delle criptovalute e dei mercati finanziari mondiali, ma secondo un nuovo rapporto pubblicato dal NYT, i token digitali potrebbero rivelarsi fondamentali per l’economia russa. 

Dagli Stati Uniti, Unione Europea e Regno Unito sono in arrivo sanzioni ai danni della Russia, che seguiranno quelle già predisposte qualche giorno fa dall’amministrazione Biden e dal Consiglio Europeo e che hanno preso di mira le banche e gli oligarchi russi. Nelle prossime ore è atteso un altro pacchetto che, secondo i politici, mira a danneggiare in maniera importante l’economia della Russia.

Secondo il New York Times, però, la nazione guidata da Putin potrebbe servirsi delle criptovalute per eludere tali sanzioni. Il popolare giornale riferisce che gli istituti russi starebbero preparando delle contromisure che prevedono accordi con chiunque sia disponibile a lavorare con loro. Tra le misure messe in campo ci sarebbe anche l’utilizzo di criptovalute per rendere i flussi di denaro non tracciabili e quindi di fatto non sanzionabili, nonostante siano registrati sulla blockchain e quindi potenzialmente trasparenti.

Le criptovalute, secondo il Times, potrebbero arrivare in soccorso in vari modi: ad esempio la Russia potrebbe utilizzare tecniche di hacking come i ransomware per recuperare il denaro perso a causa della sanzioni tramite token. Tra i partner che sarebbero disposti ad accettare accordi di questo tipo ci sono quelli già colpiti dalle sanzioni americane, incluso l’Iran e la Cina. I paesi occidentali potrebbero anche giocarsi l’opzione nucleare Swift.

Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” l'1 marzo 2022.

Nella Spd tedesca si stringe il cerchio intorno a Gerhard Schröder, l'ex cancelliere in affari con Putin, con il quale neppure di fronte all'invasione dell'Ucraina vuole tagliare i ponti. Per la prima volta, i co-presidenti socialdemocratici Lars Klingbeil e Saskia Esken gli hanno chiesto di rompere ogni rapporto d'affari con il leader del Cremlino, «aggressore e guerrafondaio». 

Oltre a coltivare con Putin una forte amicizia personale, Schröder è diventato negli anni il principale lobbysta di Mosca in Germania e probabilmente in Europa. Egli è infatti membro dei consigli di amministrazione dei consorzi dei gasdotti Nord Stream 1, Nord Stream 2, del gigante petrolifero Rosneft e da giugno dovrebbe entrare a far parte del board di Gazprom, monopolista del gas russo e pilastro portante del sistema Putin.

Soprattutto il Nord Stream 2, già completato ma mai entrato in attività e di cui il governo tedesco ha ora deciso il blocco, è una creatura di Schröder, che chiuse l'accordo per la sua costruzione durante il secondo mandato da cancelliere. «Un ex cancelliere non può considerare questi rapporti solo come fatti privati, è tempo di chiuderli», ha scritto Klingbeil. Esken ha definito Rosneft e Gazprom «infrastrutture di una sanguinosa guerra d'aggressione», aggiungendo che «Schröder danneggia l'immagine della socialdemocrazia».

L'uscita di Klingbeil è tanto più significativa, in quanto egli è considerato un pupillo dell'ex cancelliere, per il quale ha lavorato nelle due campagne elettorali del 1998 e del 2002. Con lui, anche un dirigente molto vicino a Schröder, il premier della Bassa Sassonia Stephan Weil, lo ha invitato «a terminare ogni incarico nelle imprese russe, appoggiando gli sforzi del governo tedesco e dell'Occidente». 

«Agire sul piano economico insieme al sistema Putin - ha detto il capogruppo socialdemocratico al Bundestag, Rolf Mützenick - in questa fase non è possibile». Fonti socialdemocratiche rivelano che nel fine settimana, prima di queste uscite, c'è stato un tentativo dello stesso Weil di contattare l'ex cancelliere per tentare di convincerlo, che però non ha avuto successo.

Schröder avrebbe infatti rifiutato il colloquio che gli era stato chiesto dal ministro-presidente di Hannover, la città dove lui vive. È vero che nei giorni scorsi Schröder ha pubblicato una dichiarazione su Instagram, nella quale aveva parlato di «errori da entrambe le parti» a proposito della guerra in Ucraina. Senza mai fare il nome di Putin, aveva aggiunto che è «nella responsabilità del governo russo porre fine al conflitto al più presto». Poi non ha più detto nulla o reagito alle critiche.

Martedì scorso, la sua quinta moglie, la coreana So-yeon Schröder-Kim, aveva addirittura ipotizzato in un post su Instagram che suo marito potrebbe fare da mediatore nella crisi ucraina, ma che questo dipendeva dal governo tedesco. Il messaggio era stato poi cancellato. Nella Spd, l'uscita dell'ex cancelliere è stata giudicata del tutto inadeguata, soprattutto perché non è stata accompagnata fin qui da alcun gesto concreto di abbandono dei suoi incarichi per conto della Russia, profumatamente retribuiti. Intanto crescono le critiche e gli attacchi all'ex cancelliere anche da parte di esponenti di altri partiti politici.

Frank Oesterhelweg, leader della Cdu della Bassa Sassonia, dove i cristiano-democratici governano da junior partner della Spd, ha chiesto a quest' ultima di espellere Schröder dal partito e al governo federale di privarlo dei suoi privilegi da ex cancelliere, come l'ufficio e la scorta «pagati a spese del contribuente tedesco»: «I suoi rapporti con Mosca sono una vergogna per la carica di cancelliere che ha ricoperto», ha detto.

Articolo di “Le Monde” - dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 4 marzo 2022.

Nonostante le immense pressioni, l'ex cancelliere socialdemocratico si rifiuta di rinunciare ai suoi redditizi mandati al servizio delle compagnie energetiche russe. 

Gerhard Schröder è un re nudo - scrive Le Monde. L'ex cancelliere socialdemocratico, che è stato al potere tra il 1998 e il 2005 ed è famoso per il suo ruolo di lobbista di punta per le aziende statali russe in Germania, è più isolato che mai.

L'ex leader, che è vicino a Vladimir Putin, si rifiuta ancora di chiudere i suoi mandati come capo del consiglio di sorveglianza del gruppo del gas Rosneft e all'interno di Nord Stream, una filiale di Gazprom, la società del gasdotto baltico, di cui era un ardente sostenitore.

Questa ostinazione del vecchio cancelliere, nonostante tutte le pressioni a cui è stato sottoposto, in particolare nell'ultima settimana dalla leadership del Partito Socialdemocratico (SPD), sta diventando tragica. 

Tutti i suoi stretti collaboratori gli hanno voltato le spalle. Martedì 1 marzo, i quattro impiegati del suo ufficio si sono dimessi in un colpo solo. Oltre alla sua pensione di 7.000 euro al mese, il signor Schröder riceve 407.000 euro all'anno dai contribuenti per il suo ufficio al Bundestag e gli stipendi dei suoi assistenti. Secondo la stampa tedesca, riceve anche 600.000 euro all'anno per il suo mandato alla Rosneft, e 250.000 euro da Nord Stream.

Le defezioni più spettacolari sono state quelle dei fedelissimi: Albrecht Funk, il suo capoufficio, che scriveva i suoi discorsi da vent'anni, e Béla Anda, ex portavoce del governo tra il 2002 e il 2005, che produceva con lui un podcast molto popolare e alimentava il suo account sulla rete LinkedIn, hanno anche annunciato la fine di tutte queste collaborazioni. Sulla rete, Schröder aveva scritto la settimana scorsa che "gli interessi di sicurezza della Russia non giustificano l'uso di mezzi militari", ma non aveva nominato Vladimir Putin né annunciato il suo ritiro dalle società di gas a lui vicine.

La lealtà sopra ogni cosa

Da allora, la questione ha preso una pesante piega istituzionale. Gli assistenti degli ex cancellieri sono nominati dalla cancelleria e finanziati dai suoi fondi. Ci sono molte voci contro il rinnovo degli assistenti, finché il signor Schröder non ha rinunciato ai suoi mandati. 

"Il mio consiglio a Gerhard Schröder è di dimettersi da queste posizioni", ha detto il cancelliere Olaf Scholz alla ZDF giovedì sera (3 marzo). Poche ore prima, l'influente associazione dei contribuenti tedeschi, che denuncia la cattiva gestione della spesa pubblica, ha chiesto il ritiro della sovvenzione dell'ex cancelliere. 

Altre organizzazioni stanno rompendo con lui. Gerhard Schröder potrebbe perdere, tra l'altro, il suo titolo di membro onorario del club di calcio Borussia Dortmund, così come quello di cittadino onorario di Hannover. Rischia di essere espulso dalla SPD. Anche l'industriale Herrenknecht e il gruppo mediatico svizzero Ringier hanno terminato la loro collaborazione con lui. 

Il caso solleva due questioni fondamentali. Uno riguarda l'uomo, Gerhard Schröder: perché si ostina a mantenere, a qualunque costo per il suo paese e per le persone a lui vicine, una "amicizia privata" con Vladimir Putin che è diventata così profondamente inquietante? 

Secondo alcuni osservatori, una componente personale potrebbe essere in gioco: il 77enne ex cancelliere, che proveniva da un ambiente modesto ed è salito al vertice dello Stato a forza di ambizioni, mette la lealtà e l'amicizia al di sopra di tutto e si rifiuta di cedere alle pressioni. A lungo apprezzato per la sua schiettezza e la sua aura nei circoli della classe operaia, l'ex cancelliere è ora rifiutato da tutti.

L'altra questione è il suo partito, la SPD, e la sua relazione con la Russia e, attraverso di essa, con tutta la Germania. Perché abbiamo dovuto aspettare una guerra sanguinosa in Europa per reagire adeguatamente al carattere autoritario e sempre più violento del regime di Vladimir Putin? 

Dalla Ostpolitik ("politica dell'Est") del cancelliere Willy Brandt (1969-1974), la posizione della SPD, portata da Schröder, era che l'Europa non può essere fatta senza la Russia. Per costruire la fiducia e la stabilità, era necessario mantenere strette relazioni con Mosca. In primo luogo attraverso la cooperazione economica ed energetica, e in secondo luogo attraverso i legami culturali nel senso più ampio. Ma fino a che punto?

Diminuzione dell'influenza russa

Da quando l'esercito russo ha attaccato l'Ucraina, tutte queste relazioni privilegiate sono in procinto di crollare. La procedura di approvazione del gasdotto Nord Stream 2, che avrebbe dovuto raddoppiare la capacità di consegna del gas russo alla Germania, che già dipende al 55% da Mosca per questo combustibile, è stata congelata. Probabilmente non entrerà mai in funzione.

Per quanto riguarda gli altri relè dell'influenza russa in Germania, sono stati screditati da molto tempo. Il famoso club di calcio Schalke 04, per esempio, ha terminato la sua cooperazione con il gruppo statale Gazprom, il più grande produttore di gas del mondo, che era stato il suo sponsor principale negli ultimi 15 anni. Il club di Gelsenkirchen, nel cuore della Ruhr, tradizionale roccaforte della SPD, era già stato criticato per questa cooperazione nel 2014, durante l'annessione russa della Crimea, ma non aveva rinunciato a questa lucrativa partnership.

Martedì 1 marzo, è stato il famoso direttore d'orchestra Valery Gergiev, che è vicino a Vladimir Putin, che ha dovuto rinunciare al suo posto di direttore della Filarmonica di Monaco dopo aver rifiutato di "prendere chiaramente e inequivocabilmente le distanze dalla brutale guerra di aggressione che il signor Putin sta conducendo contro l'Ucraina", ha detto il sindaco di Monaco, Dieter Reiter. La musica classica ha un'aura molto importante tra l'élite tedesca. 

Attaccando l'Ucraina, "la Russia ha perso uno dei suoi più importanti sostenitori in Europa, la Germania", ha riassunto Judy Dempsey, analista del centro di ricerca Carnegie Europe, in una nota pubblicata giovedì 3 marzo. Cieco all'estremismo del regime russo, Gerhard Schröder è diventato la triste incarnazione degli errori di una Ostpolitik distorta dagli anni di Putin.

Paolo Valentino per corriere.it il 25 aprile 2022.  

«Non farò alcun mea culpa. Non è roba per me». Scatenano un putiferio in Germania le dichiarazioni al New York Times dell’ex cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, che rivendica e difende tutte le sue scelte controverse, dall’amicizia con Vladimir Putin al mantenimento degli incarichi ben remunerati al servizio dell’industria energetica russa, al rifiuto di criticare direttamente il leader del Cremlino, condannando esplicitamente l’aggressione contro l’Ucraina. 

È la prima volta che Schröder parla pubblicamente dall’inizio della guerra e la gravità delle sue dichiarazioni spinge perfino la copresidente della Spd, Saskia Esken, a dire che l’ex cancelliere dovrebbe lasciare il partito socialdemocratico: «Lo abbiamo più volte invitato a lasciare i suoi incarichi nelle aziende russe, ma non ha voluto seguire il nostro consiglio. Purtroppo, agisce da molti anni soltanto come un uomo d’affari. Ora dobbiamo smettere di guardare a lui come a uno statista ed ex cancelliere», ha detto Esken, secondo cui «la sua difesa di Putin dall’accusa di crimini di guerra è assurda». 

«L’ordine dei massacri non è arrivato da Putin»

Nel colloquio con la corrispondente da Berlino del quotidiano americano, Schröder infatti contesta con forza che a Bucha, l’esercito russo abbia massacrato i civili, come confermato anche da testimoni internazionali, sostenendo che «la cosa va indagata». E in ogni caso, ha aggiunto, «non credo che l’ordine sia venuto da Putin, ma da un livello più basso».

L’ex cancelliere rifiuta di ammettere alcun errore nella politica verso Mosca durante il suo cancellierato, che gettò le basi per una sempre più forte dipendenza della Germania dalle forniture di gas e petrolio russi, soprattutto con i due progetti del Nord Stream 1 e 2: «Negli ultimi trent’anni è stata una linea sostenuta da tutti, nessuno ha fatto obiezioni, né la Cdu, né l’industria. Ora all’improvviso fanno tutti i saputelli», dice Schröder in una chiamata di correo, che in effetti tocca il nervo scoperto dell’intero sistema-Germania. 

La telefonata di Vladimir

Ma qualche problema d’immagine all’inizio deve averlo avuto anche lui, stando all’aneddoto rivelato alla giornalista: il 9 dicembre 2005, tre settimane dopo aver lasciato la cancelleria, Schröder infatti esitò quando ricevette la telefonata di Vladimir Putin, che gli offriva la presidenza del consiglio di sorveglianza del Nord Stream, il gasdotto russo tedesco che passa sotto il Mar Baltico. 

«Hai paura a lavorare per noi?», gli chiese Putin facendosi una risata. Pochi giorni dopo egli accettò l’incarico. L’ex cancelliere ricorda di aver «sempre rappresentato gli interessi tedeschi» e che anche «la Germania ha beneficiato dei miei legami con Putin», nel frattempo diventati di forte amicizia anche grazie all’adozione di due bambini russi da parte di Schröder e della sua ex moglie Doris, ottenuta grazie all’intercessione del presidente russo.

Se Mosca chiude i rubinetti del gas

Solo nel caso in cui Putin dovesse chiudere i rubinetti del gas e del petrolio verso l’Europa, così Schröder, egli si dimetterebbe dagli incarichi, nel frattempo moltiplicatisi con un posto nel consiglio di amministrazione di Rosneft e uno prossimo in quello di Gazprom: «Ma sono certo che non succederà. Non è mai successo neppure durante i peggiori momenti della Guerra Fredda». 

Una versione però contestata dal giornale Die Welt, che stamane in una ricostruzione ricorda come durante la crisi del Muro nel 1961 e quella dei missili a Cuba nel 1962 non un solo barile di petrolio o un metro cubo di gas russo arrivarono nella Repubblica Federale. Molto controverse sono anche le dichiarazioni sulla guerra, che l’ex cancelliere si limita a definire «un errore» rifiutandosi però di citare per nome Putin e prenderne le distanze, adducendo come scusa che in questo modo «perderebbe la fiducia dell’unica persona che può terminare la guerra».

E aggiunge: «Anche Putin è interessato a porvi fine, ma non è così facile, occorre ancora chiarire un paio di punti». Un mese fa, Schröder era stato protagonista di un tentativo di mediazione, autorizzato dagli ucraini. Ma il suo viaggio a Mosca, dove aveva parlato per alcune ore con Putin, non ha avuto alcun seguito. L’articolo del New York Times ha avuto l’effetto di una bomba a Berlino, dove critiche feroci si sono levate all’indirizzo dell’ex cancelliere, definito «una vergogna per la Germania» dal capo dei giovani cristiano-democratici Tilman Kuban. 

La posizione di Scholz

L’imbarazzo è soprattutto interno alla Spd e lambisce anche il cancelliere Scholz, che ha già problemi di suo. Il capo del governo è infatti sotto attacco per il suo atteggiamento cauto e reticente sulle forniture di armi pesanti all’Ucraina, invocate ormai pubblicamente anche dai suoi alleati verdi e liberali.

Intanto, il capo dell’opposizione e leader della Cdu-Csu, Friedrich Merz, ha annunciato di voler presentare una mozione in Parlamento favorevole all’invio di carri armati e altri sistemi d’arma a Kiev, offrendo un patto di collaborazione ai partiti della maggioranza, che potrebbe spaccare la coalizione. Dopo le dichiarazioni dell’ex cancelliere, il sindaco di Kiev, Vitali Klitschko, ha chiesto che l’Occidente aggiunga il nome di Schroeder alla lista delle sanzioni, poiché «egli fa parte del sistema Putin ed è corresponsabile del massacro di donne e bambini in Ucraina».

L’ex cancelliere Schröder fa causa al parlamento tedesco. Il Domani il 12 agosto 2022

L’ex capo del governo tedesco ha perso i suoi privilegi a maggio. Il suo legale nella richiesta di riavere collaboratori e uffici, sostiene che sia a causa della sua vicinanza con Putin, da cui non ha mai preso le distanze

Gerhard Schröder ha fatto causa al Bundestag per riavere i suoi privilegi. Schröder aveva perso il suo ufficio e i suoi collaboratori a maggio.

L’ex cancelliere ha perso molto consenso nel paese dopo la sua scelta di non prendere le distanze da Vladimir Putin, suo amico personale e datore di lavoro, dopo l’invasione dell’Ucraina. Schröder ha lavorato per diverse aziende statali russe, tra le altre Rosneft. Di recente e sotto la minaccia di sanzioni da parte del parlamento europeo nei suoi confronti ha deciso di lasciare la sua posizione nel consiglio d’amministrazione di Rosneft e di rinunciare a quella che gli era stata offerta da Gazprom.  

LA VICENDA

Il Bundestag nega però che ci sia un  legame tra la sua decisione e le posizioni personali di Schröder. La riduzione dei privilegi sarebbe avvenuta perché i mezzi sarebbero proporzionati «alle incombenze che continuano a esserci dopo la conclusione del mandato».

La decisione spetta ai parlamentari, in particolare a quelli che siedono nella commissione Bilancio, che hanno deciso che per gestire queste incombenze a Schröder sarebbero bastati meno mezzi. L’anno scorso le spese per la gestione dell’ufficio dell’ex cancelliere era costata 400mila euro al Bundestag. Schröder continua comunque ad avere una scorta e percepire una pensione di oltre 8mila euro al mese.

Solo qualche giorno fa è fallito un processo interno alla Spd a suo carico che mirava a espellerlo dai socialdemocratici su richiesta di alcuni membri. Adesso il suo avvocato ha presentato una richiesta di reintegro dell’ufficio, visto che a suo parere le «incombenze» che Schröder non starebbe gestendo – e per le quali quindi non avrebbe più bisogno di assistenza – non sono ben definite e quindi è difficile verificare se l’ex cancelliere sarebbe impegnato ad affrontarle.

Secondo il legale, traspare che la causa della decisione sarebbe un’altra, cioè la posizione personale del cancelliere nei confronti della Russia. 

Schröder ha ricoperto la carica di cancelliere dal 1998 al 2005 ed è stato leader dei socialdemocratici dal 1999 al 2004. Non ha mai risposto alle richieste dei vertici del partito di limitare le sue relazioni con la Russia.

 

LA RISPOSTA ALL’INVASIONE. Guerra in Ucraina, l’Occidente sanziona Putin ma le misure sono piene di buchi. GIOVANNA FAGGIONATO su Il Domani il 25 febbraio 2022

L’Occidente ha approvato due pacchetti di sanzioni economiche contro la Russia ed è pronta a colpire direttamente Putin e Lavrov. Le misure attuali intanto hanno grossi buchi. 

Il primo buco è che permettono comunque il pagamento a istituti russi di forniture di energia e materie prime, cioè oltre il 70 per cento dell’export russo, il secondo è l’esclusione dei beni di lusso.

Inoltre i paesi Ue hanno per ora evitato l’esclusione di Mosca dal sistema Swift. La Russia è il sesto paese per pagamenti con banche estere. Ma dopo il pressing delle ultime ore la Germania si è detta aperta all’”opzione nucleare”. Una guida alle misure approvate finora. 

GIOVANNA FAGGIONATO. Giornalista specializzata in economia e affari europei. Prima di arrivare a Domani, ha lavorato a Milano e Bruxelles, per il Sole 24 Ore e Lettera43.

DAGONEWS il 25 febbraio 2022.

Secondo “Axios” al congresso americano sta circolando una risoluzione che chiede l’espulsione della Russia dal Consiglio di sicurezza dell’ONU. La risoluzione non ha alcuna chance di passare alle Nazioni Unite, ma sarebbe un forte segnale politico a Putin e a tutti quelli che credono (finora, a ragione), che l’Occidente sia inerme di fronte alle ansie espansionistiche dello Zar. 

La risoluzione è importante anche da un punto di vista interno: il Congresso è spaccato tra democratici e repubblicani, e sarebbe un segno di unità nazionale non male per il claudicante Joe Biden.

A portare avanti la proposta è la deputata repubblicana Claudia Tenney, che si è coordinata con un democratico: “È ovviamente dura far uscire la Russia, ma è uno degli strumenti diplomatici a nostra disposizione per aumentare la pressione e accrescere l’isolamento di Mosca”, ha detto al sito americano Nick Stewart, capo staff di Tenney.

(ANSA il 25 febbraio 2022) - Gli Usa, insieme all'Albania, hanno chiesto il voto venerdì in Consiglio di Sicurezza Onu sulla bozza di risoluzione che condanna l'aggressione della Russia e la violazione dell'integrità territoriale dell'Ucraina. Lo confermano fonti diplomatiche precisando che si terrà alle 15 ora locale, le 21 italiane. Il testo è destinato al fallimento perchè Mosca userà il suo diritto di veto in Consiglio per bloccarlo, ma Washington punta ad ottenere la più ampia maggioranza possibile e poi portare la risoluzione nei prossimi giorni in Assemblea Generale.

Andrea Morigi per “Libero quotidiano” il 25 febbraio 2022.  

Palazzo di Vetro non pervenuto. Quello rivolto ieri al presidente russo Vladimir Putin dal segretario generale dell'Onu Antonio Guterres è un appello doveroso quanto inutile: «A nome dell'umanità, ritiri le truppe in Russia, non permettiamo che scoppi la peggiore guerra dall'inizio del secolo». 

Ci mancava solo che le Nazioni Unite se ne stessero anche zitte. Il problema comunque è proprio che si esprimono, prevalentemente a vanvera. E sì che l'obiettivo del consesso dei Paesi, civili e non, dovrebbe invece essere, in teoria, mantenere la pace e la sicurezza a livello mondiale e sviluppare relazioni amichevoli fra le Nazioni.

In realtà, ultimamente si sono occupati più che altro di argomenti parecchio divisivi, promuovendo campagne sulla salute riproduttiva, per diffondere l'aborto e la contraccezione a tutte le latitudini, e conducendo aspre battaglie sull'ideologia gender, dalle quali hanno ottenuto risultati come l'introduzione di nuovi standard culturali irrispettosi della natura umana, della giustizia sociale e della cultura dei popoli. A volte, hanno anche intuizioni tragiche.

Come quando nominano presidenti dei Comitati di difesa dei Diritti umani i lugubri rappresentanti di Paesi torturatori, dove i carnefici non conoscono disoccupazione. Dicono che prima o poi un seggio di vertice, a turno, deve toccare a tutti, al Venezuela che incarcera gli oppositori, così come all'Iran che impicca gli adulteri. Del resto, a New York City e a Ginevra presso la più prestigiosa delle istituzioni internazionali, qualsiasi decisione finisce per essere inghiottita nel nulla. 

Una volta, se riuscivano a mettersi d'accordo, mandavano i Caschi Blu nei territori contesi. Di solito, arrivavano troppo tardi, spesso si sono resi responsabili di abusi proprio nei confronti di coloro che dovevano proteggere.

A parte alcune lodevoli eccezioni, come la missione Unifil, dal 1978 in Libano, che ha compiuto egregiamente il proprio dovere di forza di interposizione, in molti altri contesti non si è neppure potuto ipotizzare l'invio di una contingente di peace-keeping, come nel recente conflitto fra il Nagorno-Karabakh e l'Azerbaigian. 

È naturale che sin dalla sua fondazione, nel 1945, l'organismo più rappresentativo e anche potente dell'Onu, il consiglio di sicurezza, abbia funzionato male. Vi siedono due Paesi come la Russia e la Cina, che la storia annovera come aggressori netti, l'una di Ungheria, Cecoslovacchia, Afghanistan e Ucraina, l'altra di Tibet, Mongolia, Hong Kong e, prevedibilmente, Taiwan.

Insomma, Mosca e Pechino sono potenze nucleari e costituiscono la peggiore minaccia alla sicurezza del pianeta Terra, però possono impedire agli altri di condannare le loro malefatte. È l'assetto pensato perché non si potessero più ricreare le condizioni che portarono alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Un equilibrio instabile, mantenuto grazie agli accordi di Yalta fra le potenze vincitrici del conflitto. 

Fra le quali ve n'era una, l'Unione Sovietica, che cercava di esportare la rivoluzione socialcomunista in tutto il mondo con le armi in pugno. Il lupo, anzi l'orso, non ha perso né pelo né vizio. Non funzionerebbe nemmeno la Corte penale internazionale, con sede all'Aia, in Olanda, istituito sotto l'egida dell'Onu con competenze, sui crimini di genocidio, crimini contro l'umanità, crimini di guerra, su gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra, e, solo dall'estate 2018 proprio a seguito degli emendamenti di Kampala, anche sui crimini di aggressione.

Non ne fanno parte né la Russia né l'Ucraina. Putin non potrebbe mai esservi processato. Anche perché dall'altra parte c'è il nulla, europeo e statunitense, come ai tempi della Società delle Nazioni, fallita con la Seconda guerra Mondiale. Ora è l'Onu a non aver più un ruolo riconosciuto nel quadro delle crisi mondiali. Potrebbe tranquillamente sciogliersi. Nessuno ne sentirebbe la mancanza.

L’Alleanza atlantica farà le sue mosse. Tutte le sanzioni contro la Russia, cosa succederà dopo l’invasione dell’Ucraina. Claudia Fusani su Il Rifromista il 25 Febbraio 2022. 

Le piazze italiane si mobilitano in nome della pace. Le stanno organizzando cittadini, sindacati, Ong. La mobilitazione è pari alla preoccupazione e alla paura. E però il governo stamani farà una decreto per predisporre le misure necessarie alla nostra partecipazione all’azione militare che sarà decisa in ambito Nato ed approvata la notte scorsa a Bruxelles dove si è riunito in via straordinaria il Consiglio europeo. Poi non si chiamerà guerra. La definiremo “legittima difesa dei confini europei e dell’alleanza”. In un modo o nell’altro ci sarà un importante dispiego di uomini e mezzi.

A parte Putin che la sta già facendo, la Nato non ha dichiarato guerra. Ma è come se lo avesse fatto visto che in tutte le dichiarazioni dei leader europei, e prima fra tutti il premier Draghi, si parla di “Ucraina paese europeo”. Quello di Putin è stato un atto bellico contro un paese europeo e contro le democrazie occidentali. La Nato non pianificherà alcun attacco diretto. Lo ha detto in chiaro il segretario generale Jens Stoltenberg: “Non invieremo truppe in Ucraina ma saranno potenziate le misure di sicurezza sul fronte est e sarà rafforzato lo spiegamento militare in tutti i paesi alleati più esposti”. Detto questo, l’Alleanza atlantica farà le sue mosse attivando gli articoli 4 e 5 del Trattato. L’articolo 4 prevede “consultazioni in risposta a minacce”: è stato chiesto da Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania e Slovacchia. La richiesta di questi paesi, tutti membri dell’Alleanza e tutti sotto minaccia, presuppone la disponibilità ad utilizzare l’Articolo 5 dello stesso Trattato: risposta armata congiunta in caso di aggressione esterna contro uno qualsiasi degli alleati. In pratica, “un attacco armato contro dei paesi dell’alleanza è considerato un attacco diretto contro tutte le parti” tale per cui scatta l’esercizio della legittima difesa.

Di questo si è discusso fino a notte a Bruxelles. Una lunghissima notte che in pochi avevano previsto nonostante gli alert e i report da Washington. L’Ucraina, ha detto Draghi, è “una democrazia colpita nella propria legittima sovranità”. Quello che sta succedendo là, ha aggiunto, “riguarda tutte le nostre democrazie”. Una giornata di riunioni, dopo una notte insonne, iniziata ieri mattina con il Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica, proseguita con il Consiglio dei ministri, con un vertice del G7, con la riunione del Consiglio supremo di difesa e poi in volo per Bruxelles dove tutti i leader europei sono stati convocati per un Consiglio Ue straordinario. C’erano tutti i 27. Una giornata che nella sua drammaticità ha reso l’immagine più forte – e anche l’unica utile – che l’Europa potesse dare: unità e compattezza. Nella riunione al Quirinale, presenti i ministri della Difesa, dell’Interno, dell’Economia e degli Esteri, si è ragionato sul fatto che proprio in quelle ore, nel pomeriggio avanzato, le truppe russe erano ormai nella regione di Kiev. E che “nel quadrante era stato ormai stabilito un punto di non ritorno”. Da qui la decisione di provvedere oggi con un decreto legge per dare il via libera alle “misure necessarie per la nostra partecipazione”. Basi aeree Nato che insistono sul territorio italiano ma anche l’impiego del nostro personale ed altro. Non è guerra. È legittima difesa.

“L’attacco di Putin all’Ucraina ha ricompattato la Nato”, intervista a Ferdinando Nelli Feroci

Da ieri mattina il Parlamento italiano è mobilitato in modo “permanente” dopo che nella notte aerei russi hanno bombardato almeno una decina di paesi nella parte est del paese. Un crescendo di attacchi arrivato ieri nel pomeriggio fino alla regione di Kiev dove sarebbero entrate truppe russe. Fino all’occupazione di uno degli aeroporti. E attacchi nell’area di Chernobyl. Una guerra vera e propria guerra. Con Putin che si giustifica in tv e sui social con frasi come “abbiamo fatto quello che dovevamo” e “non ci possono cacciare dal sistema”. E Zelensky, il cui governo è il vero obiettivo dell’attacco militare di Mosca che vuole a Kiev un governo fantoccio, che replicava: “Sta nascendo una nuova cortina di ferro contro la Russia”. E più tardi, via twitter: “Sono in contatto con tutti i leader europei e Nato. Stiamo costituendo un’alleanza anti Putin. Non siamo soli”. Intanto lo zar di Mosca a sua volta ribadiva: “Guai a chi vorrà interferire”.

I partiti in questi giorni si sono divisi in Parlamento sulla crisi tra Russia e Ucraina. Il Pd punta a stanare la Lega, ribadisce la linea del no a ricatti e ad ambiguità, serve una condanna forte nei confronti del presidente russo Putin. Letta nel pomeriggio è andato all’ambasciata russa, per protestare sulla decisione di Mosca di invadere l’Ucraina. “Aspettiamo il presidente del Consiglio domani (oggi, ndr) in aula” ha scritto su twitter il segretario dem. “Chiediamo – che ci sia una riunione del Parlamento che prenda una posizione chiara e tutti si esprimano senza ambiguità, le sanzioni sono la prima misura: si stringa un cordone attorno alla Russia. I comodi terzismi son stati spenti dalle bombe di Putin; ora è o di qua o di là. Basta guardare al dibattito domestico italiano. Ci siano sanzioni senza precedenti”. In realtà le divisioni si sono via via spente lungo il corso della giornata. Tutte le forze parlamentari hanno condannato duramente l’aggressione della Russia. Sotto traccia nel Movimento 5 stelle e nel Carroccio permangono i distinguo sull’evoluzione della crisi e anche sul tema delle sanzioni ma “oggi – ha poi tagliato corto Salvini – è il momento dell’unità nazionale”.

Allineati anche Fratelli d’Italia. Oltre ad insistere sulla “necessità della centralità del Parlamento in momenti così delicati”, il partito di Giorgia Meloni ha lanciato un appello affinché l’Italia abbia un indirizzo chiaro e perché il Parlamento dia “pieno mandato” al premier Draghi. Quella di stamani non sarà quindi un’informativa. La richiesta è che il premier faccia delle comunicazioni in modo che le Camere si possano esprimere con un documento unitario e lo possano votare. L’avvitarsi della crisi ha alla fine – e per fortuna – compattato le forze parlamentari. “La Russia ha torto” ha detto Salvini. “Il Pd chiede di più? Non so più cosa fare o dire: mi do fuoco sulla piazza?”. Certo, c’è tutto il problema delle conseguenze causate dall’evolversi della situazione. Le sanzioni commerciali saranno durissime e colpiranno soprattutto i canali finanziari. “L’Italia – ha sottolineato Salvini è il Paese che rischia di più perché metà del nostro gas parte dalla Russia. Non abbiamo le condizioni di autosufficienza”.

Anche i 5 Stelle sembrano aver perso le non lontane simpatie per la Russia di Putin. “Ferma condanna per l’attacco russo che precipita la situazione e allontana ogni soluzione diplomatica. Confidiamo in una risposta comune europea e nel contributo che l’Italia può dare” ha detto il presidente Conte, “siamo preoccupati per le ripercussioni”. Giorgia Meloni ha scritto a Draghi per garantire “la massima collaborazione del partito”. “Ci saranno tentativi della Russia di dividere l’Occidente puntando sulle questioni economiche ma l’Occidente non ci deve cascare, ora dobbiamo lavorare tutti per l’unità dell’Occidente” ha aggiunto il coordinatore nazionale di Forza Italia Tajani, rivelando che non c’è stato alcun contatto tra Putin e Berlusconi. “L’Italia sia come sempre al fianco di Europa e Stati Uniti in nome della libertà e dei valori” è l’appello di Matteo Renzi che ha indicato Angela Merkel come inviato speciale Nato-Ue per il conflitto Russia-Ucraina. Anche il pacifismo della sinistra fa un passo indietro di fronte alle scelte unilaterali dello zar di Mosca. “È in corso una inaccettabile escalation militare della Russia” ha detto il capogruppo Federico Fornaro. Per ora è mandato pieno a Draghi. Vedremo tra qualche giorno. 

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Lo scontro. Crisi in Ucraina, Zelensky ‘gela’ Draghi: “Cercherò di spostare l’orario della guerra per parlare con lui”. Fabio Calcagni su Il Rifromista il 25 Febbraio 2022. 

Una doccia gelata per Mario Draghi. Il premier italiano si è visto rispondere ‘in malo modo’ dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky dopo il discorso tenuto dal presidente del Consiglio alla Camera, in audizione sulla crisi in corso a Kiev.

“Oggi alle 10:30 sui fronti di Chernihiv, Gostomel e Melitopol ci sono stati pesanti combattimenti e sono morte molte persone. La prossima volta cercherò di spostare l’orario della guerra per poter parlare con Mario Draghi in un momento specifico. Nel frattempo, l’Ucraina continua a lottare per il suo popolo”, ha scritto su Twitter Zelensky.

Il riferimento è alle parole pronunciate alla Camera, in cui aveva comunicato che questa mattina Zelensky lo aveva cercato, “abbiamo fissato un appuntamento telefonico per le 9,30 (ora italiana) ma non è stato poi possibile fare la telefonata perché il presidente Zelensky non era più disponibile”.

Sullo sfondo resta la complicatissima partita diplomatica. Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, durante un incontro con i rappresentanti delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, aveva parlato di popolazione del Donbasss “molestate e attaccate quotidianamente dal regime di Kiev, che ha deliberatamente preso la strada della russofobia e del genocidio”.

Un segnale di evidente chiusura che però è stato successivamente ammorbidito dal portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, che ha sottolineato come la Russia riconosce in Volodymyr Zelensky il legittimo presidente dell’Ucraina.

Anche per questo in un video pubblicato sui canali Telegram, Zelensky si è rivolto al “presidente della Federazione russa” chiedendo di “sederci al tavolo dei negoziati e mettiamo fine alla perdita di vite”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Dagospia il 24 Febbraio 2022. IL GENIO DI PALAZZO CHIGI CHE NON HA PASSATO IMMEDIATAMENTE LA TELEFONATA DI ZELENSKI SOTTO LE BOMBE DI KIEV A MARIO DRAGHI SI CHIAMA LUIGI MATTIOLO: E' IL CONSIGLIERE DIPLOMATICO DEL PREMIER CHE HA RIMBALZATO IL DISPERATO PREMIER UCRAINO RISPONDENDO: "PRENDA UN APPUNTAMENTO TELEFONICO" (MA DOVE LI TROVIAMO?)

DAGONEWS il 27 Febbraio 2022.

Come gode Travaglio di fronte al disastro combinato dal consigliere diplomatico di Palazzo Chigi, Luigi Mattiolo. 

Come Dago-rivelato, il presidente ucraino Zelensky ha cercato di parlare con Draghi, e si è visto rimbalzare da quel genio di Mattiolo, che gli ha risposto così: “Prenda un appuntamento telefonico”.

Il resto, ormai, è storia: “Mariopio” che prova a richiamare Zelensky, quello che, cercando di sopravvivere dalle bombe dei russi, non risponde, il discorso commosso del “Grande Gesuita” in Parlamento e il tweet stizzito del presidente ucraino, già incazzato per la morbidezza italiana sulle sanzioni a Putin.

Scrive il direttore del “Fatto Quotidiano”: “Sostituite ’Mario Draghi’ col nome e il cognome di un altro premier (uno a caso) e immaginate lo sdegno unanime misto a shignazzi di tg, talk, giornali e politici assortiti. Invece Draghi è come Dash: lava più bianco. Nessun titolo o commento indignato, anzi trovare la notizia completa è impossibile (fuorché su Dagospia)”.

E continua: “Nessuno di quanti dipingevano Draghi come il nuovo capo dell'Europa al posto della Merkel spiega come mai il fu SuperMario s' è ridotto a bonsai e prende sberle da tutti: dai russi, dagli ucraini e persino dagli amici inglesi e americani che non lo riconoscono più. Del popolo ucraino non frega niente a nessuno: tutti usano la guerra per le proprie guerricciole domestiche” (anche questa, l’ha letta su Dagospia).

In Russia è record di prelievi. Ora l'economia fa paura. Angelo Allegri il 26 Febbraio 2022 su Il Giornale.

In 48 ore ritirati dagli sportelli 1,3 miliardi. Redditi in calo da 10 anni: sono la metà di quelli portoghesi.

Ai tempi dell'Unione Sovietica si diceva che la preoccupazione del partito comunista era tenere insieme la tv e il frigorifero. La televisione era la propaganda, che dipingeva una realtà sempre rose e fiori; il frigorifero era quello che il cittadino russo trovava nella cucina di casa in termini di capacità di spesa e consumo.

Vladimir Putin ha lo stesso problema, ogni giorno più difficile da risolvere: il frigorifero è sempre più lontano dalla tv.

Una società di consulenza internazionale, Simon-Kucher, ha appena pubblicato una ricerca sull'andamento dell'economia russa negli ultimi anni. Risultato: il Paese, nonostante la ricca dotazione di materie prime, è in realtà sempre più povero. E forse anche per questo più pericoloso.

Il primo dato da cui si parte è l'andamento del Pil russo, nel 2021 pari a 1.650 miliardi di dollari. È il 7,2% della ricchezza prodotta dagli americani (23.000 miliardi di dollari) e il 10,9% di quella prodotta dall'Unione Europea (15.200). Nel 2013, anno precedente all'invasione della Crimea, le distanze erano molto più ridotte: la Russia produceva il 12,7% della ricchezza Usa e il 12,9% di quella europea.

Il divario è cresciuto se si guarda anche al reddito pro-capite: in Russia è di 11.273 dollari a testa (ben 3.490 in meno che nel 2013, più o meno la metà di quello portoghese). Il reddito medio europeo è di circa 32mila euro, di poco superiore a quello italiano.

Se si guarda al commercio internazionale, nel periodo 2010-2019 la Russia ha esportato per 4,3 miliardi di dollari (l'Italia poco meno di 3,9). Tre quarti della cifra è rappresentata da gas e petrolio, il resto sono quasi tutte materie prime di altro genere.

A Mosca si produce poco o nulla che interessi al resto del mondo. E la scarsa vitalità dell'economia è confermata dalle registrazioni di brevetti validi sul territorio dell'Unione Europea. In dieci anni i giapponesi ne hanno registrati 1.812 per milione di abitanti, gli americani 535, i russi la bellezza di sei.

Le università del Paese sfornano a tutto andare ingegneri, matematici e informatici di alto livello. Ma questi, appena possono, se ne vanno all'estero. Non meraviglia dunque, che al di là della facciata costruita dal regime, la prospettiva delle sanzioni causi in Russia grandi preoccupazioni. Sul sito del Consiglio per la politica estera e di difesa (la sigla russa è SVOP) un think tank che, nonostante il nome, vive di donazioni private, ieri faceva bella mostra di sé l'intervento di un professore russo che insegna a Chicago e che ipotizzava scenari di «tipo sovietico» con code ai negozi e carenza di beni di consumo. La home page del quotidiano economico Kommersant presentava invece un lungo elenco di aziende europee che rinunciano ai progetti in Russia o hanno deciso di chiudere i loro impianti, insieme alla notizia, con relative spiegazioni, che le carte di credito delle banche oggetto di sanzioni non potranno essere più utilizzate per pagamenti su internet o con i circuiti internazionali.

Il cittadino medio da parte sua inizia a correre ai ripari: tra mercoledì e giovedì i prelievi dai conti correnti hanno raggiunto quota 1,3 miliardi di dollari, un record dall'inizio del 2020, quando il governo introdusse una tassa sui conti che superavano un determinato ammontare, scatenando la corsa al ritiro.

La finanza è del resto in prima linea: la Banca centrale ha raccomandato agli istituti di credito «di considerare il rinvio del pagamento di dividendi e bonus ai manager», annunciando una serie di misure di sostegno al settore. Putin l'altro pomeriggio ha riunito al Cremlino i vertici dei maggiori gruppi industriali del Paese. Ha cercato di tranquillizzarli dicendo che il governo è in grado di limitare l'effetto delle sanzioni. Difficile che li abbia convinti fino in fondo.

"Democrazie bloccate dal tabù della guerra. Putin ha carta bianca". Paolo Bracalini il 26 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Lo scrittore Battista: "L'Occidente non è più disposto a perdere vite e i dittatori restano impuniti".

Pierluigi Battista, la risposta delle democrazie occidentali a Putin finora è stata debole. Nessuno vuole morire per Kiev.

«Il punto è che ormai nelle democrazie la guerra è un tabù. Putin può fare quello che vuole perché non ha una libera stampa, non c'è un Parlamento che lo controlli, non c'è un'opinione pubblica che ne contesti le decisioni. Le democrazie invece devono tenere conto dell'opinione pubblica e quindi l'opzione militare è considerata impraticabile. L'unica democrazia che si misura con la guerra è Israele, perché vive in una situazione di mobilitazione permanente essendo circondata da nemici che hanno come progetto il suo annientamento. Ma ciò nonostante Israele riesce dal '48 nel miracolo di mantenere in piedi una democrazia. Ma è un caso unico, per il resto delle democrazie occidentali ormai è impensabile perdere vite umane».

Vale anche per gli Usa?

«Gli Stati Uniti ancora non si sono ripresi dal trauma del Vietnam. Biden lo ha detto chiaramente: gli americani non possono più morire per l'Afghanistan. Le immagini della ritirata americana da Kabul sono emblematiche. Penso che da quella scena Putin abbia ricavato un motivo in più per attaccare in Ucraina».

Quindi i despoti nel mondo hanno carta bianca?

«Il problema non è il dispotismo, che è tollerato da sempre, il problema è la guerra. L'Europa ha una moneta unica ma non si pone nemmeno il problema non dico di un esercito comune ma anche solo di un coordinamento degli eserciti dei paesi europei. Persino la crescita della spesa militare verrebbe considerata una provocazione, uno spreco. Le democrazie, in particolare Usa, non sanno più immaginare una dimensione militare. In Cina tutti sanno che c'è un terribile dispotismo che fa cose tremende, perseguita le minoranze, manda i dissidenti nei campi di concentramento. Eppure i cinesi sanno che noi non moriremo mai per Taiwan. Se la Cina la invadesse noi non faremo nulla. I dittatori sanno che possono fare quello che vogliono»

È uno scenario terribile.

«Io infatti penso che sia iniziata un'epoca di declino delle democrazie rispetto ai modelli autocratici che sono vincenti. In particolare Cina e Russia, le due nuove potenze che hanno sostituito il precedente ordine mondiale. Obama disse che l'uso delle armi chimiche in Siria era la linea rossa da non sperare, ma Assad la superò e Obama non fece nulla. Lì nasce il problema con gli Usa che minacciano un intervento ma non lo fanno. Poi c'è stata Kabul e ora l'Ucraina».

Le sanzioni servono?

«Un po' di danni li fanno, ma la sanzione non equivale al dispiegamento di forze militari, non è una guerra fatta con altri mezzi, è proprio un'altra cosa. Il punto è semplice. L'Occidente è disposto a pagare in vite umane? No. Putin è disposto a pagare in vite umane? Sì. Questa è tutta la differenza».

Si può immaginare che l'Europa torni a difendere il diritto con le armi?«

«Solo se la Russia attaccasse i paesi baltici, ma lì c'è la deterrenza dell'appartenenza alla Nato. Non penso voglia arrivare a quello. Putin vuole mettere un governo fantoccio a Kiev, fare dell'Ucraina una nuova Bielorussia, uno stato vassallo sotto l'influenza di Mosca. Il suo è un progetto di riconquista imperiale della grandezza della Russia e poi dell'Urss».

Si prepara una grande sconfitta per l'Europa?

«Lo è già, ma è una catastrofe. Quello che sta succedendo è la prova che quando un delinquente è sicuro di essere impunito, fa quello che vuole. Non è che cinque anni fa Putin fosse più democratico, è l'espansionismo militare la novità. Purtroppo non vedo soluzioni se non sperare nella resistenza eroica del popolo ucraino. E tanto vale che finisca presto».

Nato e Usa, le forze schierate ai confini dell’Ucraina. Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 24 Febbraio 2022. 

L’Ucraina sotto attacco: migliaia i soldati Usa e Nato schierati nei Paesi confinanti. Ma il presidente Usa avverte: non combatteremo. Ieri — prima dell’inizio dell’attacco all’Ucraina, ordinato da Putin alle 4 del mattino di oggi — il Segretario alla Difesa americano, Lloyd Austin, aveva congedato il suo ospite, il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, promettendo «assistenza militare». Ma ricordandogli che gli Stati Uniti non interverranno direttamente per difendere l’Ucraina. Il motivo è semplice e lo ha spiegato il presidente Joe Biden: «Se russi e americani cominciano a spararsi, significa che è scoppiata la Terza guerra mondiale»; tra potenze nucleari, va aggiunto.

La posizione di Biden è in bilico. Da una parte potrebbe essere accusato di aver consentito a Vladimir Putin di fagocitare un pezzo di Europa. Dall’altra rischia di trascinare gli Usa in un conflitto spaventoso. Ecco perché Washington si è sforzata, negli ultimi giorni, di valorizzare al massimo i numeri del suo «impegno militare», lasciando, però, «aperta la strada per la diplomazia». Il sito del Pentagono sottolinea come ora ci siano «circa 90 mila militari» schierati in Europa. Nell’ultimo mese sono partiti 4.700 soldati dalla base di Fort Bragg in North Carolina, diretti in Polonia, dove sono stati raggiunti da 300 militari distaccati dai presidi tedeschi. E altri 8.500 sono pronti a muoversi dagli Stati Uniti, con un rapido preavviso. Il Pentagono, poi, ha spostato mille combattenti e battaglioni corazzati «Stryker» in Romania e un piccolo presidio di 100 unità in Bulgaria. L’altro ieri, infine, la Difesa americana ha comunicato altri quattro «riposizionamenti». Circa 800 fanti Usa, ora di stanza a Camp Ederle, Vicenza, si schiereranno in Lettonia, Estonia e Lituania. Sempre sul Baltico arriverà un battaglione formato da 20 elicotteri di attacco, attualmente fermo in Germania. Altri 12 elicotteri dello stesso tipo (AH-64) si muoveranno dalla Grecia alla Polonia. Infine otto aerei da caccia F-35 lasceranno le basi tedesche per rinforzare i presidi in Polonia, Romania e Bulgaria.

Ma tutto ciò non sembra impressionare più di tanto Putin. Il calcolo politico-strategico del leader russo si basa su due assunti. Il primo è che davvero l’esercito Usa non entrerà mai in Ucraina. Anzi Lloyd ha già fatto rientrare i 150 addestratori militari presenti a Kiev. Secondo: Putin naturalmente conosce bene il funzionamento della Nato. Nel corso degli ultimi venti, trent’anni, gli Usa hanno alleggerito la presenza militare in Europa. Un solo dato: nel 1987 le grandi basi dell’esercito, della marina e dell’aviazione Usa erano 80; oggi sono 29, distribuite principalmente in Germania, Italia, Spagna, Regno Unito e Turchia. Con la fine della guerra fredda, gli Usa hanno gradualmente lasciato spazio alla Nato.

Ora, l’Alleanza Atlantica si definisce un’organizzazione difensiva che si mette in moto solo se un Paese invoca l’aiuto degli altri partner, appellandosi all’obbligo della difesa reciproca, sancito dall’articolo 5 del Trattato. Oppure la Nato può agire su mandato dell’Onu, anche fuori dai suoi confini. È accaduto nel 1995, con l’operazione in Bosnia-Erzegovina. Nel 1999, però, l’Alleanza Atlantica decise di bombardare Belgrado per fermare le stragi ordinate in Kosovo dal leader serbo Slobodan Milosevic. È il precedente che qualche analista suggerisce di ripetere per fermare Putin.

Nel 2014, proprio in risposta all’annessione russa dell’Ucraina, i Paesi Nato decisero di costituire la «Response Force», un nucleo in grado di mobilitare immediatamente fino a 40 mila militari, nel giro di pochi giorni. Inoltre la struttura comprende nove «Rapid Deployable Corps», con un potenziale di 60 mila unità ciascuno. Sulla carta, quindi, l’Alleanza sarebbe in grado di contrastare l’avanzata di Putin. Il punto, però, è che le missioni Nato si decidono «per consenso», praticamente con l’unanimità dei trenta Stati membri. Si è visto, però, con quanta fatica europei e americani abbiano concordato le sanzioni da imporre alla Russia. È facile immaginare che il fronte si spezzerebbe nel caso si dovesse progettare una spedizione militare in soccorso dell’Ucraina. Del resto nelle ultime settimane gli europei hanno risposto in modo diverso anche solo all’urgenza di rafforzare il fianco est europeo.

I partner più reattivi sono stati la Danimarca, che ha inviato una fregata nel Mar Baltico e quattro caccia F-16; la Spagna che ha messo a disposizione navi da guerra nel Mediterraneo e Jet per la Bulgaria. L’Italia è impegnata in tre operazioni che ora verranno rafforzate: sorveglianza aerea in Romania; missione Nato in Lettonia (200 soldati); pattugliamento aereo-marittimo. Francia e Germania hanno dato contributi limitati. Parigi conta di inviare «alcune centinaia» di soldati in Romania. Berlino ha già destinato 130 militari in Lituania, che si sono aggiunti ai circa 350 già presenti. Ora potrebbe mandarne altri. In sostanza sono solo misure di rinforzo dello schieramento difensivo. L’Occidente stavolta punta tutto sulle sanzioni e sulla politica.

Ucraina, perché è il fallimento delle Nazioni Unite: così "crolla" il Palazzo di Vetro. Andrea Morigi su Libero Quotidiano il 25 febbraio 2022

Palazzo di Vetro non pervenuto. Quello rivolto ieri al presidente russo Vladimir Putin dal segretario generale dell'Onu Antonio Guterres è un appello doveroso quanto inutile: «A nome dell'umanità, ritiri le truppe in Russia, non permettiamo che scoppi la peggiore guerra dall'inizio del secolo». Ci mancava solo che le Nazioni Unite se ne stessero anche zitte. Il problema comunque è proprio che si esprimono, prevalentemente a vanvera. E sì che l'obiettivo del consesso dei Paesi, civili e non, dovrebbe invece essere, in teoria, mantenere la pace e la sicurezza a livello mondiale e sviluppare relazioni amichevoli fra le Nazioni. 

In realtà, ultimamente si sono occupati più che altro di argomenti parecchio divisivi, promuovendo campagne sulla salute riproduttiva, per diffondere l'aborto e la contraccezione a tutte le latitudini, e conducendo aspre battaglie sull'ideologia gender, dalle quali hanno ottenuto risultati come l'introduzione di nuovi standard culturali irrispettosi della natura umana, della giustizia sociale e della cultura dei popoli. A volte, hanno anche intuizioni tragiche. Come quando nominano presidenti dei Comitati di difesa dei Diritti umani i lugubri rappresentanti di Paesi torturatori, dove i carnefici non conoscono disoccupazione. Dicono che prima o poi un seggio di vertice, a turno, deve toccare a tutti, al Venezuela che incarcera gli oppositori, così come all'Iran che impicca gli adulteri. Del resto, a New York City e a Ginevra presso la più prestigiosa delle istituzioni internazionali, qualsiasi decisione finisce per essere inghiottita nel nulla. Una volta, se riuscivano a mettersi d'accordo, mandavano i Caschi Blu nei territori contesi. Di solito, arrivavano troppo tardi, spesso si sono resi responsabili di abusi proprio nei confronti di coloro che dovevano proteggere. A parte alcune lodevoli eccezioni, come la missione Unifil, dal 1978 in Libano, che ha compiuto egregiamente il proprio dovere di forza di interposizione, in molti altri contesti non si è neppure potuto ipotizzare l'invio di una contingente di peace-keeping, come nel recente conflitto fra il Nagorno-Karabakh e l'Azerbaigian. 

È naturale che sin dalla sua fondazione, nel 1945, l'organismo più rappresentativo e anche potente dell'Onu, il consiglio di sicurezza, abbia funzionato male. Vi siedono due Paesi come la Russia e la Cina, che la storia annovera come aggressori netti, l'una di Ungheria, Cecoslovacchia, Afghanistan e Ucraina, l'altra di Tibet, Mongolia, Hong Kong e, prevedibilmente, Taiwan. Insomma, Mosca e Pechino sono potenze nucleari e costituiscono la peggiore minaccia alla sicurezza del pianeta Terra, però possono impedire agli altri di condannare le loro malefatte. È l'assetto pensato perché non si potessero più ricreare le condizioni che portarono alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale. Un equilibrio instabile, mantenuto grazie agli accordi di Yalta fra le potenze vincitrici del conflitto. Fra le quali ve n'era una, l'Unione Sovietica, che cercava di esportare la rivoluzione socialcomunista in tutto il mondo con le armi in pugno. 

Il lupo, anzi l'orso, non ha perso né pelo né vizio. Non funzionerebbe nemmeno la Corte penale internazionale, con sede all'Aia, in Olanda, istituito sotto l'egida dell'Onu con competenze, sui crimini di genocidio, crimini contro l'umanità, crimini di guerra, su gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra, e, solo dall'estate 2018 proprio a seguito degli emendamenti di Kampala, anche sui crimini di aggressione. Non ne fanno parte né la Russia né l'Ucraina. Putin non potrebbe mai esservi processato. Anche perché dall'altra parte c'è il nulla, europeo e statunitense, come ai tempi della Società delle Nazioni, fallita con la Seconda guerra Mondiale. Ora è l'Onu a non aver più un ruolo riconosciuto nel quadro delle crisi mondiali. Potrebbe tranquillamente sciogliersi. Nessuno ne sentirebbe la mancanza. 

(ANSA il 25 febbraio 2022) - "Il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, di cui l'Italia ha la presidenza, ha preso la decisione di estromettere dalla propria membership la Federazione Russa, ai sensi dell'articolo 8 dello Statuto del Consiglio d'Europa. L'Italia ritiene che si tratti di una misura necessaria alla luce dell'inaccettabile aggressione militare russa ai danni dell'Ucraina, che costituisce una grave violazione del diritto internazionale". Così il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, presidente in esercizio del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa.

Ucraina: Ft,Ue si prepara a congelare asset Putin e Lavrov

 (ANSA il 25 febbraio 2022) - L'Ue si prepara a congelare gli asset di Vladimir Putin e del ministro degli Esteri Sergei Lavrov nel suo pacchetto di sanzioni. Lo riporta il Financial Times citando alcune fonti. 

Putin e Lavrov non saranno comunque colpiti da un divieto dei viaggi, una mossa che segnala la volontà dell'Ue di mantenere aperta la porta della diplomazia, aggiunge il Financial Times.

Fonti, oggi ok Ue a congelamento asset Putin e Lavrov

(ANSA il 25 febbraio 2022) - A quanto apprende l'ANSA nel corso del Consiglio Affari Esteri che si riunirà alle 15 sarà dato il via libera al congelamento degli asset di Vladimir Putin e del ministro degli Esteri Serghei Lavrov. La misura sarà inclusa nel secondo pacchetto di sanzioni la cui approvazione sarà finalizzata stasera. 

Macron, sanzioni Ue riguarderanno più alti dirigenti russi

 (ANSA il 25 febbraio 2022) - Le sanzioni europee riguarderanno "i piu' alti responsabili" russi: lo ha detto il presidente francese, Emmanuel Macron.

In un messaggio rivolto al Parlamento francese e letto dai due presidenti dell'Assemblea Nazionale e del Senato di Parigi, Macron ha ricordato che il consiglio europeo di Bruxelles "ha deciso ieri una serie di sanzioni inedite contro la Russia e la Bielorussia. 

Le sanzioni riguarderanno anche personalità russe, incluso alti dirigenti della Federazione di Russia": Fonti hanno riferito all'Ansa che il presidente russo, Vladimir Putin e il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, vedranno i loro beni congelati. 

Berlino, dall'Ue severe sanzioni contro Putin e Lavrov

(ANSA-AFP il 25 febbraio 2022)  - L'Ue varerà "severe" sanzioni nei confronti del presidente Vladimir Putin e Serghiei Lavrov. Lo dice il governo tedesco. 

Con le sanzioni Ue colpiamo "il sistema Putin dove è necessario colpire, non solo economicamente e finanziariamente ma nel suo nucleo di potere, ed è per questo che non elenchiamo solo gli oligarchi", i parlamentari "che hanno preparato questi passi. Ora mettiamo nell'elenco anche il presidente Putin e il ministro degli Esteri Lavrov che sono responsabili degli innocenti che muoiono in Ucraina, sono responsabili di aver calpestato il sistema internazionale". Lo ha detto la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock, arrivando al Consiglio Ue straordinario degli Esteri

Da tag43.it il 25 febbraio 2022.

L’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca giovedì mattina ha provocato un mezzo terremoto nei board di due società russe. In risposta all’aggressione di Putin, Matteo Renzi ha infatti lasciato il cda di Delimobil. Leader nel car sharing e fondata dall’imprenditore italiano Vincenzo Trani, la compagnia è partecipata per il 15 per cento dalla banca di Stato Vtb. Come riferisce il Financial Times, il leader di Italia viva ha presentato via mail le sue dimissioni con effetto immediato. Lo stesso ha fatto Esko Aho, ex primo ministro finlandese, che si è dimesso dal cda della Sberbank, una delle più grandi banche russe dove era consigliere indipendente e membro del consiglio di sorveglianza.

Delimobil è stata fondata da Vincenzo Trani a capo della Camera di commercio italo-russa

Trani, che è anche a capo del fondo Mikro Kapital, guida la Camera di commercio Italia-Russia che il mese scorso aveva promosso un incontro tra Putin e gli imprenditori italiani. La società, con un fatturato nel primo semestre 2021 di circa 70 milioni di euro, avrebbe dovuto quotarsi al Nyse a fine anno, ma l’operazione era stata congelata a causa delle crescenti tensioni geopolitiche.

Oltre a Renzi e Aho, sono molti gli ex politici e funzionari europei che hanno legami con le compagnie russe. Su tutti, l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder, che siede nel cda di Rosneft, società petrolifera statale russa ed è presidente del Comitato degli azionisti di Nordstream AG, la società che gestisce il gasdotto sotto il Baltico. A far compagnia a Schröder nel Consiglio di Rosneft ci sono ora anche altri personaggi di primo piano, dal compatriota Matthias Warnig all’americano Robert Dudley, dallo svizzero Hans Georg Rudloff ai due rappresentanti del Qatar, Faisal Alsuwaidi e Hamad Rashid Al Mohannadi.

Evidente l’intenzione di Igor Sechin, Ceo plenipotenziario legato con doppio filo a Putin, di fare di Rosneft un player internazionale con solidi legami non solo in Europa. L’ex primo ministro francese, François Fillon, invece è nel board del gruppo petrolchimico Sibur. Ma la lista è ancora lunga: si va dall’ex cancelliere austriaco Christian Kern nel consiglio di amministrazione delle ferrovie russe all’ex ministra degli Esteri austriaca Karin Kneissl in Rosneft. 

L’ingresso di Kneissl nella primavera del 2021 nel gigante petrolifero russo aveva suscitato scalpore in Europa visto che nell’estate del 2018, la ministra aveva invitato Vladimir Putin al suo matrimonio. Kneissl, diplomatica in carriera, era stata chiamata al governo dall’allora cancelliere Sebastian Kurz in quota FPÖ, il partito nazionalpopulista austriaco. Ora è alla corte del Cremlino.

Da gazzetta.it il 25 febbraio 2022.

Il comitato esecutivo dell’Uefa ha deciso ufficialmente di spostare la finale di Champions, prevista per il 28 maggio da San Pietroburgo, allo Stade de France di Parigi. Il cambiamento era nell’aria già da ieri, dopo l’invasione russa dell’Ucraina. 

La capitale francese torna così a ospitare una finale di Champions dopo 16 anni. L’ultima risale infatti al 17 maggio 2006, con la vittoria del Barcelona sull’Arsenal 2-1. E’ il terzo anno consecutivo che la sfida che assegna la coppa cambia sede. Nel 2020 e 2021 per la pandemia si è infatti giocata in Portogallo, prima a Lisbona e poi a Porto, entrambe le volte spostandola dalla sede originale di Istanbul. Inizialmente si era parlato di Wembley come possibile sostituta di San Pietroburgo, stadio che peraltro è già stato designato per la finale 2024. La scelta è invece caduta su Parigi.

Da ilnapolista.it il 25 febbraio 2022.

Ora che la Russia invade l’Ucraina, e gli sponsor russi spariscono dalle maglie di calcio come dalle livree della Formula Uno, in Germania (dove il legame tra Gazprom e lo Schalke 04 è un caso da molto prima che la situazione precipitasse in Ucraina) si chiedono: “Come è stato possibile per il calcio europeo arrivare a dipendere dalle flebo di uno Stato in guerra che da anni muove burattini negli stadi europei attraverso una delle sue società?” 

In particolare se lo chiede la Faz. La Sueddeutsche Zeitung se la prende con la Fifa di Infantino, per la quale ha una particolare predilezione, ma il senso è lo stesso: “Ora le federazioni hanno la forza e la determinazione per prendere in mano la situazione dopo l’invasione dell’Ucraina, per salvare dalla propria reputazione se ancora essere salvata?”

Il senso di quella che il quotidiano tedesco chiama “una bugia per tutta la vita” è: se ne sono accorti solo ora? 

Gazprom è praticamente il main sponsor della Uefa. Lo stadio dove doveva giocarsi (oggi l’Uefa deciderà di spostare la partita in altra sede) la finale di Champions, a San Pietroburgo, si chiama Gazprom Arena. “Le conseguenze di politica finanziaria e sportiva per l’Uefa potrebbero essere gravi”. 

Anche i top club europei sono indirettamente legati alla società russa per gli alti introiti che incassano in Champions League. Gli esperti stimano che Gazprom abbia inciso sull’economia del calcio europeo per il 20-25%. Secondo le informazioni della Faz, il gigante dell’energia aveva pianificato di utilizzare la Champions come piattaforma per pubblicizzare in anticipo in Germania le campagne per il gasdotto del Mar Baltico Nord Stream 2, come sta già facendo nell’ambito della sua partnership con lo Schalke 04. Ora dovrà per forza cambiare tutto, anche per il calcio. 

L'invasione dell'Ucraina. Dopo 8 anni Biden si fa fregare di nuovo da Putin: come vice di Obama fece flop. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 26 Febbraio 2022. 

Il vecchio Joe Biden se ne vantò tre anni dopo apertamente: «Li guardai negli occhi e dissi: “Sentite, ragazzi: io me ne vado tra sei ore e se quando dovrò andar via quel procuratore non sarà stato licenziato, voi ucraini non beccherete un solo dollaro del fondo che abbiamo creato per voi. Ci credereste? Quel figlio di puttana fu licenziato». Il figlio di puttana in questione non era un procuratore, ma il Procuratore Generale dell’Ucraina, Viktor Shokin che indagava sui conti del consiglio d’amministrazione della società Burisma Holdings, fra cui c’era anche Hunter Biden, assunto con uno stipendio di 50mila dollari al mese senza sapere una parola di ucraino o intendersi di gas business.

Era stato assunto dagli ucraini quando il presidente Obama varò un programma di aiuti all’Ucraina. La storia era saltata fuori quando i giornalisti avevano scoperto che le fortune del giovane Biden erano cominciate durante un viaggio col padre in Cina dove aveva incontrato uomini d’affari ucraini. L’attuale presidente degli Stati Uniti ha dunque un figlio che sulla scia degli incarichi ricevuti dal padre allora vicepresidente, era di colpo diventato un milionario americano in Ucraina. La faccenda puzzava di marcio ma quando fu portata alla ribalta dai giornali era il momento in cui tutta l’attenzione dei media era dedicata all’impeachment di Donald Trump. Biden si difese alla meno peggio alzando le spalle, sostenendo che lui non sapeva nulla degli affari del figlio e irritando il presidente Barack Obama, il quale scoprì sui giornali e non da Biden padre, che il giovane Hunter Biden si arricchiva grazie alla posizione del padre.

Obama si infuriò e gli echi della sfuriata lambirono i giornali per qualche giorno. Donald Trump fu invece messo in stato d’accusa per aver tentato di estorcere a Kiev notizie sulle ipotetiche malefatte di Hunter Biden. Poi lo scandalo si spense. Ma oggi riemerge: il Procuratore generale ucraino ci aveva rimesso la testa e la carriera proprio in seguito al discorsetto agli amici di Kiev di cui abbiamo detto all’inizio: levatemi dalle palle quel procuratore che infastidisce mio figlio altrimenti io chiudo il rubinetto del contributo che non era da poco: un miliardo di dollari. I soldi per l’Ucraina non erano soltanto americani ma facevano parte di una tranche stanziata anche dall’Unione europea e gestita in comune da Washington e Bruxelles. Governava a Kiev il presidente Viktor Yanukovich, il quale peraltro faceva il gioco di Putin: dopo aver fatto ammazzare centinaia di manifestanti durante i mesi della rivoluzione arancione, salì di notte su un elicottero e si rifugiò in Russia.

Ma il ragazzo Hunter era entrato nominalmente nel consiglio di amministrazione della Burisma Holdings nel maggio del 2014 dopo l’incarico che Obama affidò a Biden, oggi Presidente, di “seguire la transizione politica in Ucraina”, una transizione già travolta proprio dagli scandali del Yanukovich, il quale faceva il doppio gioco: era l’uomo di Putin che mentre simulava uno sfrenato europeismo bloccò all’ultimo momento l’adesione del Paese all’Ue sorprendendo il Parlamento e provocando moti di piazza. Quindi lo scandalo che coinvolgeva il figlio dell’attuale presidente Biden (che aveva avuto l’incarico di seguire e proteggere la transizione dell’Ucraina) avveniva all’ombra di un governo a fianco del quale gli amici di Putin godevano del denaro che l’Unione Europea e gli Stati Uniti erogavano per la transizione che fu poi strozzata dal tradimento del presidente, dalla rivolta popolare e, mentre scriviamo. dai carri armati di Mosca.

Hunter Biden capì che era meglio dimettersi quando suo padre si candidò formalmente come successore di Trump, ma era troppo tardi perché la notizia trapelò e Trump cercò di sfruttarla per danneggiare il suo opponente. Sui media fu una brutta storia, ma di breve durata perché prevalsero sulle prime pagine le vicende dell’impeachment di Trump. Ma anche in campo democratico serpeggiò un fortissimo malumore: la senatrice Elizabeth Warren disse che se fosse stata eletta lei non avrebbe mai permesso ai figli del suo vicepresidente di occupare ruoli in aziende straniere, una circonvoluzione per indicare il figlio Biden senza nominarlo. Quanto a Kamala Harris che correva in ticket con Joe, e che oggi è la vicepresidente degli Stati Uniti d’America, non emise un fiato. E persino l’angelo moralista e socialista Bernie Sanders, amato dai giovani per la sua purezza, fu colpito da afasia.

Grazie al silenzio ufficiale del suo partito e ai clamori delle ultime imprese di Donald Trump questa storia non fece mai troppo clamore e venne insabbiata. L’ordine di Biden di cacciare il procuratore ucraino serviva ovviamente a togliersi dai piedi un uomo scomodo che avrebbe potuto danneggiare sia il proprio figlio che sé stesso e nessuno disse una parola nella nuova Casa Bianca. E oggi Biden minaccia sanzioni terribili all’autocrate di Mosca che gioca col suo mappamondo da ridefinire a sua immagine e somiglianza. Biden è stato un un testimone privilegiato delle vicende ucraine di cui guidava la transizione e oggi i repubblicani lo accusano di essere stato molto debole insinuando che conosca fin troppo bene i suoi polli ucraini e russi. È apparsa subito notevole la differenza di reazione all’attacco russo, tra quello del presidente degli Stati Uniti e quello del Primo ministro del Regno Unito Boris Johnson, il quale dichiarandosi un seguace di Winston Churchill ha prospettato l’ipotesi di rispondere alle mosse armate di Putin con una minaccia non economica ma militare del Regno Unito: quello che con disprezzo Putin chiama “l’isola”.

C’è dunque sulla guerra in corso una biforcazione fra gli anglosassoni delle due sponde dell’atlantico che non è una novità perché anche ottanta anni fa mentre Churchill da solo resisteva alle armate hitleriane, l’inquilino della Casa Bianca di allora, Franklin Roosevelt parlava, parlava, ma senza alcuna intenzione di entrare in guerra con la Germania nazista. Non pensiamo che la storia si ripeta, tuttavia va preso nota del fatto che l’attuale presidente degli Stati Uniti non sembra la persona più indicata per una linea realmente intransigente e fra Biden e Johnson sempre meno corre buon sangue.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Ieri la Polonia, oggi l'Ucraina. Con Putin è tornato Hitler, ma manca un Churchill…Riccardo Nencini su Il Riformista il 26 Febbraio 2022. 

Questa Europa somiglia sempre di più all’Europa del 1938. Allora le popolazioni tedesche dei Sudeti, oggi le due regioni filorusse dell’Ucraina. Entrambe rivendicate: ieri Hitler, oggi Putin. Daladier e Chamberlain, i leader di Francia e Inghilterra, prima dichiarano di voler proteggere la Cecoslovacchia – i Sudeti ne fanno parte – poi abbandonano ogni ipotesi di difesa militare, infine accettano la mediazione di Mussolini e firmano la cessione dei Sudeti alla Germania. È il patto di Monaco, passato alla storia come uno degli errori più grandi compiuto da storiche democrazie nei confronti di un dittatore. Churchill scrisse: «Francia e Gran Bretagna potevano scegliere tra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore, avranno la guerra».

Oggi la guerra c’è già. La Russia ha attaccato uno stato sovrano, i carri stanno circondando Kiev, i missili si abbattono sulle città, è iniziata la conta dei morti. Chi sostiene che bisogna preservare a ogni costo la pace non si è accorto che il fronte orientale è in fiamme. Una guerra vera, non scaramucce di frontiera. Una guerra destinata a ridisegnare i rapporti di forza e, Dio non voglia, ad approfondire la frattura tra democrazie occidentali e regimi autocratici. L’Iran applaude Putin, gli occhi sono puntati sul comportamento della Cina. Anni fa lo scrittore Milan Kundera sostenne che “la guerra in Europa era diventata antropologicamente impossibile”. Sanate le ferite tra Francia e Germania, di guerre continentali non avremmo più sentito parlare. E invece il baratro si è spalancato a oriente. Prima la Cecenia, poi la Crimea, poi la Georgia, poi il conflitto tra Armenia e Azerbajan, infine l’Ucraina. Ovunque c’è Putin.

È tempo per l’Occidente di porsi una domanda: fino a quando? Ancora: l’Ucraina è paragonabile alla Polonia del 1939? Ancora: le sanzioni sono sufficienti o non converrebbe promuovere una risoluzione dell’Onu per inviare in Ucraina reparti di caschi blu? Di più: ha ancora senso parlare di valori universali, di libertà, di autodeterminazione dei popoli, ha senso rievocare chi morì sul fronte della guerra civile spagnola, piangere riascoltando il discorso di Churchill nel 1940 e al contempo preoccuparsi innanzitutto dell’approvvigionamento di gas? Insomma, Kiev val bene una messa o l’Occidente è disposta a sacrificarla?

Sacrificarla sarebbe un terribile errore strategico. Avrebbe riflessi sui paesi confinanti, darebbe l’immagine di una Nato inetta e di una Unione Europea inesistente. Una slavina. Sanzioni sì, ma pesanti e non graduate, economiche e soprattutto finanziarie e bancarie, tali da incidere pesantemente sugli affari dei vertici del regime. Pretendere che non si insedi a Kiev un governo fantoccio. Utilizzare forze speciali sotto l’egida dell’Onu. Riccardo Nencini

Morya Longo per “il Sole 24 Ore” il 26 febbraio 2022.

Guardando le chiusure delle Borse di ieri, con quelle europee rimbalzate ben oltre il 3% e quella di Mosca in recupero del 26%, verrebbe da dire che i listini si siano sollevati quando Vladimir Putin ha aperto (ma in serata ha un po' richiuso) la porta del dialogo con l'Ucraina. Come se vedessero una guerra lampo e la fine della ostilità. 

Ma questo è vero solo in parte: i listini salivano, e non poco, anche prima di questa apertura. Salivano mentre Kiev veniva bombardata. Mentre l'Europa discuteva di nuove sanzioni. Mentre l'esercito russo sembrava entrare nel Paese come un coltello nel burro. C'è dunque altro per spiegare il rimbalzo delle Borse ieri.

E l'altro è questo: il mercato è tornato a scommettere sul fatto che guerra e sanzioni colpiranno l'economia europea e statunitense quel tanto che basta per non fare troppo male ma contemporaneamente per indurre le banche centrali (la Bce innanzitutto) a fare marcia indietro sui rialzi di tassi. Ieri pomeriggio, quando le Borse europee chiudevano, le informazioni erano ancora vaghe, incomplete e imprecise. Eppure i mercati scommettevano su questo: economia colpita ma non troppo e Banche centrali più accomodanti del previsto.

E le parole del numero uno Bce Christine Lagarde, che ha fatto capire che la Bce terrà conto di questa situazione nelle sue decisioni, hanno avvalorato la tesi. Il gran rimbalzo Non si spiegano altrimenti (aggiungendo anche le ricoperture dopo i cali di giovedì) i brillanti rimbalzi di ieri: Milano +3,60%, Parigi +3,55%, Francoforte +3,67%, Londra +3,91%. E a ruota, in serata, anche le Borse Usa. Rimbalzo favorito e parallelo al calo del prezzo del gas e del petrolio (Brent sotto i 100 dollari). 

Ma l'aspetto forse che più colpisce (e che forse più dovrebbe far riflettere chi parlava ancora ieri di sanzioni «dure») è stata la reazione della Borsa di Mosca (+26% ieri, dopo aver perso circa il 40% giovedì) e il rimbalzo del rublo (+1,7% sul dollaro). Si è anche affievolita la corsa ai beni rifugio, a partire dall'oro. Le ragioni sono di duplice natura.

Da un lato tecniche, con le ricoperture seguite a un posizionamento eccessivamente pessimista giovedì. Dall'altro economiche. Per l'Europa la sensazione, come detto, è che l'economia resterà colpita quel poco che basta per far passare alla Bce la voglia di stringere troppo i cordoni della politica monetaria. 

Per la Russia la percezione (che in qualunque momento potrebbe essere smentita dai fatti) che le sanzioni non siano così dure come si poteva temere. Colpo ancora timido Nel momento in cui le Borse chiudevano si ragionava ancora sulle sanzioni varate la sera di giovedì. E, pur nella loro vaghezza, sin dalla mattina sono arrivati studi di economisti per valutarne l'impatto.

Il risultato dei calcoli è sintetizzato da Richard Flax, Cio di Moneyfarm, quando parla di «natura relativamente moderata (per il momento) delle sanzioni». Opinione condivisa da molti. Gli economisti di Commerzbank hanno provato a stimare l'impatto di un po' tutti i principali capitoli di queste misure. E giungono anch' essi alla stessa conclusione: l'impatto c'è, ma nulla di drammatico. Ha poco effetto, per esempio, il fatto che la Russia - per usare le parole di Von Der Leyen - «non avrà più accesso ai mercati finanziari più importanti». «L'economia russa è poco dipendente dai mercati internazionali - osserva Commerzbank -, avendo un surplus di bilancio che varia tra il 4% e il 6% del Pil».

Dunque, questo è colpo quasi a salve. Non molto diverso l'impatto delle sanzioni che hanno colpito le banche, che rende difficile per loro fare attività oltreconfine. «Le misure - stima sempre Commerzbank - non impediscono il business con la Russia». Discorso un po' diverso sulle restrizioni all'export, soprattutto di beni tecnologici, perché «potrebbero colpire l'economia russa nel lungo termine».

Per questo Commerzbank ha abbassato le previsioni di crescita. Ma nulla che possa mettere in ginocchio il Paese nel breve. Gli effetti sull'economia L'impatto comunque ci sarà. Soprattutto in Russia, ma anche in Europa e negli Stati Uniti. Per la Russia Capital Economics stima che questa situazione possa togliere dalle precedenti stime sul Pil uno o due punti percentuali. 

L'Ispi ricorda che con le precedenti sanzioni del 2014 (che furono ancora più blande di quelle attuali), fu calcolato che nel 2017 (tre anni dopo) il Pil fosse più basso di 2,3 punti percentuali rispetto a quanto non sarebbe stato senza sanzioni. Ma i mercati guardano più all'Europa e agli Usa. E anche qui l'impatto ci sarà: sia sull'inflazione (che sarà più elevata) sia sulla crescita.

Gli economisti censiti da Bloomberg hanno abbassato le previsioni medie di crescita dell'Eurozona nel 2022 dal 4,2% stimato a inizio anno al 4% attuale. Per gli Usa la media è scesa dal 3,9% al 3,7%. Tanto basta per sperare che la Bce (più difficilmente la Fed) allontani l'intenzione di terminare gli acquisti di titoli di Stato prematuramente e di alzare i tassi già nel 2022. E, come visto, questo è ciò che i mercati vogliono sentirsi dire. Fino a rimbalzare con vigore mentre in Europa scoppiano le bombe.

(ANSA il 27 Febbraio 2022) - La lista delle banche russe che saranno tagliate fuori da Swift è in via di definizione. Lo afferma un funzionario americano, sottolineando che gli Stati Uniti e l'Ue stanno lavorando a stretto contatto nella definizione. "So che le sanzioni sul sistema swift innervosiscono. Ma abbiamo studiato la misura in modo che colpisca Putin e non colpisca noi". Lo ha detto la ministra degli esteri tedesca Annalena Baerbock, parlando al Bundestag.

(ANSA il 27 Febbraio 2022) - Le sanzioni contro la Russia sono "peggio di una guerra. La Russia viene spinta verso una terza guerra mondiale": lo ha detto oggi il presidente bielorusso Alexander Lukashenko, secondo quanto riporta la Tass. 

"In una situazione come questa dovremmo essere consapevoli che ci sono tali sanzioni. Si parla tanto di settore bancario, gas, petrolio, Swift. È peggio della guerra. La Russia viene spinta verso una terza guerra mondiale. Dovremmo essere molto riservati e stare alla larga da essa. Perché la guerra nucleare è la fine di tutto".

 Minsk inviterà Mosca a schierare armi nucleari in Bielorussia se gli Stati Uniti o la Francia le schiereranno in Polonia o in Lituania: lo ha detto oggi il presidente bielorusso, Alexander Lukashenko, riferendo di una conversazione su questo tema avuta ieri con il presidente francese Emmanuel Macron. Lo riporta la Tass.

Il presidente bielorusso Alexander Lukashenko ha affermato che Mosca e Minsk hanno raggiunto un accordo per lo spostamento di armi aggiuntive in Bielorussia. Lo riporta La Tass.

"Sono stati sviluppati piani per difendere la Bielorussia. Sappiamo già di quale equipaggiamento aggiuntivo abbiamo bisogno nel prossimo futuro. 

Siamo d'accordo con Putin - ha detto ai giornalisti - e sposteremo qui armi aggiuntive, che possono causare danni tali che né i polacchi né i lituani vorrebbero combattere con noi". 

MINACCE ALL’ITALIA.

Italia, dai vecchi avvertimenti Usa alle nuove accuse da Mosca. Lorenzo Vita su Inside Over il 4 giugno 2022.

Le accuse di Mosca all’Italia non sono le prime e probabilmente non saranno nemmeno le ultime. C’è un filone narrativo abbastanza lineare che dalla Russia circonda l’Italia: è quello di un Paese che ha “tradito” e di cui Mosca si sente particolarmente delusa. Il nodo della ormai famigerata missione dei militari russi a Bergamo nel 2020, in piena prima ondava di Covid, è solo la punta dell’iceberg. Sotto, si cela un sistema di relazioni molto più complesso frutto di anni, se non decenni, di solidi rapporti strategici che hanno coinvolto i due Stati e che oggi, con la guerra in Ucraina e la netta presa di posizione euro-atlantica di Roma, appaiono messi in discussione.

L’ira di Mosca, rivelata dalle dichiarazioni di alcuni esponenti politici ma anche dal più recente comunicato del ministero degli Esteri fatto circolare sul social VKontakte, rivela che l’Italia avesse veramente un ruolo di primo piano nell’agenda europea del Cremlino. Un Paese su cui fare affidamento e con cui erano stati costruiti negli anni rapporti basati non solo sul gas e sul petrolio, ma anche intensi scambi commerciali, di intelligence e relazioni triangolari per aree di crisi e questioni transatlantiche. Una tradizione che deriva certamente dai tempi della Guerra Fredda, ma che è poi stata ribadita anche caduto il Muro di Berlino in una serie di iniziative politiche volte a blindare i legami storici tra i due Paesi anche in chiave di ricomposizione della frattura tra Oriente e Occidente. Tutto questo, in larga parte, senza mai abbandonare la fedeltà all’Alleanza Atlantica né all’Unione europea.

Le cose sono cambiate negli ultimi anni con una rinnovata polarizzazione del confronto tra Washington e Mosca: confronto che rappresenta anche un terreno di scontro del più ampio confronto con Pechino. Da diverso tempo, le richieste che arrivano da Oltreoceano sono quelle di una maggiore chiarezza nei legami tra gli alleati europei della Nato e gli avversari strategici degli Stati Uniti, ovvero Russia e Cina. E per questi legami, l’Italia è sempre stata oggetto di particolare interesse dal momento che, non è un mistero, alcuni partiti hanno perorato spesso delle politiche estere ben diverse da quanto richiesto dalla Casa Bianca e dal Dipartimento di Stato. E in anni in cui sembrava calare nuovamente la cortina di ferro con la Russia e in cui si ampliava la frattura con la Repubblica popolare cinese, tutte le “ambiguità” italiane venivano viste con sospetto. Dalla questione libica a quella venezuelana, dall0agenda sull’Iran fino appunto al tema energetico con Mosca o la via della Seta cinese. Da tempo tutte le amministrazioni Usa, sia con Donald Trump che con Joe Biden, hanno avvertito che i Paesi dell’Europa, Italia in primis, avrebbero dovuto fare un passo in più per dimostrarsi compatte con Washington evitando tentennamenti. E su questo punto, sia il governo giallo-verde che quello giallo-rosso erano apparsi troppo titubanti per larghe fette dello Stato profondo americano.

Mario Draghi, una volta nominato presidente del Consiglio, fu subito chiaro: atlantismo ed europeismo sarebbero state le stelle polari del suo nuovo corso. Una scelta di parole precisa che serviva a sgomberare subito il campo dai dubbi posti dall’altra parte dell’Atlantico e da Bruxelles. E in questo senso, sono in molti ad avere visto nell’arresto del capitano Walter Biot, accusato di essere un doppiogiochista al soldo dei russi, un modo molto netto per far capire che l’esecutivo italiano non avrebbe accettato di essere considerato un territorio di caccia di altre potenze. Scelte che sono state ribadite anche con la guerra in Ucraina, in cui il governo italiano, pur avendo mostrato delle perplessità su alcuni Paesi estremamente intransigenti, ha fatto capire di non essere un Paese “neutrale” di fronte all’aggressione russa, ma ha deciso di sostenere apertamente Kiev. Questo ha cambiato forse definitivamente la percezione italiana in Russia. E ora dal Cremlino e dagli apparati russi arrivano segnali che non sembrano semplici accuse contingenti, ma indicazioni di un nuovo corso nelle relazioni tra Mosca e Roma.

La missione russa e il nuovo ricatto di Putin all’Italia: «Relazioni danneggiate». Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 3 Giugno 2022.  

Il timore degli analisti è che la nuova minaccia possa riguardare il disvelamento di dati sensibili acquisiti nel marzo 2020. 

È il secondo avvertimento in due mesi. 

Dopo le dichiarazioni di Alexei Vladimorovic Paramonov, 60 anni, ex console russo a Milano, direttore del dipartimento europeo del ministero degli Esteri che il 21 marzo aveva minacciato «conseguenze irreversibili» se il nostro Paese avesse aderito al nuovo piano di sanzioni contro Mosca parlando di «ingratitudine» dopo gli aiuti per il Covid, interviene direttamente il ministero degli Esteri di Mosca. 

La nota sottolinea che «il tentativo dei media italiani di dipingere la missione russa anti-Covid in Italia nel 2020 come un’operazione di spionaggio danneggia le relazioni tra Mosca e Roma» e accusa «le nostre controparti italiane abbiano la memoria corta. Una linea di comportamento così servile e miope non solo danneggia le nostre relazioni bilaterali, ma dimostra anche la moralità di alcuni rappresentanti delle autorità pubbliche e dei media italiani». 

Una nota non firmata dal ministro e dunque riconducibile, secondo gli analisti, direttamente al presidente Vladimir Putin.

«Sanifichiamo gli uffici pubblici»

In realtà sono le carte ufficiali a dimostrare che l’intenzione dei russi, resa esplicita dal generale Sergey Kikot, il vice comandante del reparto di difesa chimica, radiologica, biologica dell’esercito russo, in un colloquio avvenuto subito dopo l’arrivo in Italia con il generale Luciano Portolano - all’epoca comandante del Coi, il Comando operativo interforze, e i vertici del Comitato tecnico Scientifico, Agostino Miozzo e Fabio Ciciliano — era di «sanificare l’intero territorio italiano entrando anche negli uffici pubblici e in tutte le sedi a rischio». 

Il 22 marzo 2020, mentre l’Italia era in piena emergenza pandemica, a Pratica di mare erano sbarcati 123 militari da undici velivoli. La missione era stata concordata il giorno precedente da Vladimir Putin e dal presidente del consiglio Giuseppe Conte.

Le mail trasmesse in quei giorni rivelano che i russi ci hanno consegnato «521.800 mascherine, 30 ventilatori polmonari, 1.000 tute protettive, 2 macchine per analisi di tamponi, 10.000 tamponi veloci e 100.000 tamponi normali». 

Materiale che non bastava a fare fronte nemmeno alle esigenze di mezza giornata. La missione tra vitto, alloggio, rimborso carburante e altre «voci» è costata all’Italia più di 3 milioni di euro.  

Un impegno ritenuto dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini troppo gravoso tanto che proprio lui, agli inizi di maggio, a ritenere conclusa la missione ringraziando con una lettera il suo collega russo Sergei Shoigu.

L’indagine Copasir e il ricatto

Il Copasir ha avviato un’indagine sulla missione e ha già ascoltato il sottosegretario Franco Gabrielli e i vertici dei servizi segreti. Le minacce e gli avvertimenti che le autorità russe continuano a rivolgere al nostro Paese vengono ritenute la conferma che in realtà quella missione servisse proprio a captare informazioni riservate. Dati sensibili e altre notizie che adesso, con l’Italia schierata al fianco dell’Ucraina, si teme possano essere utilizzate per ritorsione. In particolare preoccupa il riferimento alla «moralità di alcuni rappresentanti delle autorità pubbliche» come a far intendere che le notizie riservate possano riguardare anche la sfera privata.

Minacce della Russia ai leader italiani: "Basso carattere morale, hanno dimenticato il nostro aiuto sul Covid. Rapporti rovinati". Giuliano Foschini su La Repubblica il 3 Giugno 2022.

Il ministero degli Esteri di Mosca dopo il sospetto spionaggio: "Miopi e servili"

È un ricatto? Una minaccia? O, invece, una dimostrazione di debolezza? Ci sono tre strade per leggere l'attacco frontale che il ministero degli Esteri russo ha compiuto contro l'Italia. E i suoi ultimi due governi, Conte e Draghi, accusati di essere "servili, miopi" e dal basso "carattere morale", come a voler fare credere di conoscere notizie riservate sulla vita privata di qualcuno dei nostri uomini pubblici.

In un messaggio pubblicato su VKontakte, il Facebook di Mosca, il governo di Putin ha messo sotto accusa il nostro Paese, la nostra televisione pubblica, la Rai. E in particolare la puntata di Report del 9 maggio scorso: in un servizio era stato raccontato quanto sta emergendo nelle inchieste ufficiali (al lavoro c'è il Copasir) e giornalistiche su "Dalla Russia con amore", la missione dei 104 militari russi che il 22 marzo 2020 arrivarono a Bergamo nel momento più difficile della battaglia contro il Covid per supportarci. Ufficialmente quella doveva essere una missione umanitaria. Ma invece, come per prima Repubblica ha raccontato, è stata soprattutto un tentativo di spiare il nostro paese. Ad aiutarci non erano stati mandati medici o esperti. Ma agenti dei servizi e tecnici alla ricerca di dati per produrre il vaccino anti-Covid.

Una ricostruzione che però i russi hanno fortemente contestato. "Il 9 maggio, il Giorno della Vittoria - ha scritto infatti ieri il ministero degli Esteri russo nel messaggio pubblicato sui social - il canale televisivo Rai 3 invece di trasmettere documentari sull'eroismo delle truppe alleate, compresa l'Armata Rossa, ha messo in onda un servizio di bassa propaganda: i nostri militari in Italia hanno rischiato la vita". Nella nota c'è un messaggio esplicito ai nostri politici. "Nel 2020 i partner italiani - si legge - hanno dimenticato il nostro aiuto. Una linea d'azione servile e miope che non solo danneggia le relazioni bilaterali, ma dimostra anche il carattere morale dei singoli rappresentanti delle autorità ufficiali dell'Italia e dei suoi media".

A chi sono rivolte queste parole? Al governo Conte sicuramente con il quale i russi presero accordi per quella missione che nacque dopo una telefonata tra l'allora premier 5 Stelle e Vladimir Putin e fu stoppata soltanto dal ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, che dopo aver raccolto i dubbi dei nostri militari bloccò la seconda fase della missione. Ma, nella lettura che ne hanno fatto ieri membri della nostra intelligence, sembra essere un gesto di debolezza. O comunque un messaggio destinato al pubblico interno. Non è la prima volta che la Russia attacca l'Italia su questo argomento: "Vi abbiamo teso una mano e ce l'avete morsa" dissero proprio dopo le polemiche suscitate dall'articolo di Repubblica. C'è poi il mezzo scelto: quando la Russia vuole parlare al mondo sceglie Telegram o Twitter, dove la nota non è stata pubblicata. C'era soltanto sui canali di VKontakte, preferito per gli affari interni. 

Missione Covid dei russi, così le scienziate di Mosca hanno avuto accesso ai dati sanitari dello Spallanzani. Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 25 Maggio 2022.  

La relazione sull’accordo siglato nel 2021 per gli studi su Covid-19 e Sputnik. Ecco chi sono le ricercatrici inviate da Mosca. 

Le autorità russe potrebbero aver ottenuto dati sanitari di cittadini italiani. Esiste una relazione allegata all’accordo stilato nel 2021 tra l’ospedale Spallanzani di Roma e l’Istituro Gamaleya di Mosca, in piena emergenza pandemica da Covid-19, che elenca i termini dell’intesa. Fornisce le generalità delle tre dottoresse che hanno trascorso all’interno del nosocomio della Capitale 24 giorni. E specifica che «il suddetto personale russo ha accesso ai laboratori e al sistema informatico in uso presso Inmi».

È un dettaglio finora sempre negato dai vertici dello Spallanzani, che anzi avevano assicurato: «Nessun dato sensibile è stato reso noto, abbiamo soltanto acquisito informazioni preziose per la ricerca che saranno oggetto di pubblicazioni e condivisioni, proprio come accaduto con altri Paesi».

La realtà appare ben diversa e adesso bisognerà capire quale sia stato il vero ruolo delle ricercatrici, soprattutto dopo aver verificato che la missione «Dalla Russia con amore» concordata tra Vladimir Putin e l’allora premier Giuseppe Conte avrebbe consentito l’ingresso nel nostro Paese di numerose spie di Mosca. Tanto che a metà marzo, dopo l’inizio della guerra, un funzionario del ministero degli Esteri ha minacciato «conseguenze irreversibili» per l’adesione del nostro Paese alle sanzioni lasciando intendere di avere informazioni riservate da rivelare.

Le tre scienziate

La relazione contiene nomi, curriculum, documenti delle scienziate inviate a Roma. Sono Inna Vadimovna Dolzhikova, 34 anni, indicata come «ricercatrice di riferimento» che ha «partecipato a numerose attività di ricerca epidemiologica e sui vaccini, comprese quelle su Ebola e Sars-Cov-2». C’è poi Daria Andreevna Egorova, 35 anni, anche lei ricercatrice senior che nel curriculum aveva inserito «una presentazione sullo stato attuale e risultati delle sperimentazioni libiche del vaccino Sputnik V». Infine Anna Sleksieyevna Iliukhina, 25 anni, che pur così giovane «dal 2017 lavora presso il centro di ricerca statale per l’immunologia dell’Agenzia federale medica e biologica della Russia come assistente di laboratorio».

La missione

La prima missione russa, che aveva portato in Italia 123 militari il 22 marzo 2020, si era conclusa agli inizi di maggio, quando il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, perplesso sin dall’inizio sull’opportunità di accogliere così tanti soldati, comunicò la fine al collega russo Sergej Shoygu. Ma poco dopo fu avviata la trattativa per l’intesa tra Spallanzani Inmi e Gamaleya. Nell’accordo si parla esplicitamente di «scambio di informazioni e materiali biologici» ma anche di «condividere campioni umani (sieri) da soggetti che hanno ricevuto il vaccino Sputnik V in Russia» e di «esplorare modalità specifiche per l’implementazione di studi clinici che prevedono l’utilizzo di Sputink V in volontari in Italia».

La ricerca

La relazione interna dello Spallanzani dà conto che «le tre ricercatrici russe operano presso i laboratori dal 4 giugno 2021. Sono giunte a Roma il 3 giugno alle ore 11.35 con volo SU2402 accompagnate da una donna addetta alla sicurezza. Il volo di rientro Roma-Mosca Su2403 è prenotato per il 27 giugno 2021 alle ore 8.35». Qual è stato il vero lavoro delle scienziate in quei 23 giorni? La relazione è esplicita nel confermare l’accesso «ai laboratori e al sistema informatico in uso presso Inmi». Si sa che in seguito altri ricercatori russi hanno collaborato con lo Spallanzani. E la cooperazione è proseguita anche dopo l’inizio del conflitto, fino a quando la Regione Lazio non ha ritenuto inopportuno andare avanti. L’obiettivo dichiarato era fare ricerca sullo Sputnik, nonostante le agenzie regolatorie non abbiano mai concesso l’autorizzazione alla somministrazione. Quanto sta emergendo dimostra che il vero scopo della missione organizzata dai russi era evidentemente ben altro, visto che mirava a un’attività di spionaggio. E il sospetto forte è che siano riusciti a raggiungerlo.

Dalla Russia con amore. Report Rai PUNTATA DEL 09/05/2022 di Danilo Procaccianti

Collaborazione di Federico Marconi 

È stata solo una missione di aiuto o i russi hanno fatto spionaggio militare e sanitario?

Il 22 marzo 2020 in piena pandemia sbarcano all'aeroporto di Pratica di Mare 104 militari russi.  Sono destinati a Bergamo, in quel momento fra i luoghi più colpiti al mondo dal virus pandemico. Dovevano portare aiuti e medici ma erano perlopiù esperti di guerre batteriologiche. Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina anche quella missione è sotto la lente d'ingrandimento del Copasir, l'organismo parlamentare di vigilanza dei nostri servizi segreti.  

Riceviamo e pubblichiamo:

Le risposte del Ministero della Salute

Le risposte del Ministero della Difesa

Da: ufficiostampaatsanita.it

Inviato: lunedì 9 maggio 2022 11:51

A: [CG] Redazione Report Cc: Ministero della Salute, Ufficio Stampa; danilo procaccianti

Oggetto: Re: Richiesta informazioni - Report Rai3

Gentilissimi, La collaborazione tra l'Istituto Lazzaro Spallanzani (INMI) e l'istituto Gamaleya, che risulta al momento sospesa, rientra tra le iniziative autonome di collaborazione internazionale dei nostri istituti di ricerca per favorire la ricerca e lo sviluppo di vaccini, terapie diagnostiche e farmacologiche. Dai primi mesi del 2020 obiettivo prioritario della ricerca internazionale è stato il contrasto alla pandemia di Covid-19. A tale scopo sono naturali le collaborazioni scientifiche con le principali Università e Istituti di Ricerca di numerosi Paesi. Cordiali saluti Ufficio Stampa

Da: "[CG] Redazione Report"

A: "Ministero della Salute, Ufficio Stampa" Cc: "danilo procaccianti"

Inviato: Mercoledì, 4 maggio 2022 11:00:15

Oggetto: Richiesta informazioni - Report Rai3 Report Via Teulada, 66 – 00195 Roma 2 Tel. +39 (0)6 36866393 E-mail: redazionereportatrai.it

Alla c.a. del dott. Cesare Buquicchio Capo ufficio stampa - Ministero della Salute Lungotevere Ripa, 1 00153 - Roma E-mail: ufficiostampaatsanita.it

Gentilissimo dottor Buquicchio, per il programma Report, in onda su Rai3, stiamo realizzando un servizio sulla missione "Dalla Russia con amore" del marzo 2020 a Bergamo e anche sugli accordi tra l'Istituto Spallanzani e l'Istituto Gamaleya di Mosca. Al fine di fornire un'informazione completa e trasparente ai nostri telespettatori desideriamo sottoporvi alcune domande funzionali alla correttezza del nostro racconto. 1) Quali erano gli accordi e i protocolli tra le autorità sanitarie italiane e i rappresentanti russi? Era permesso loro di fare e processare tamponi? I russi avevano al seguito un laboratorio mobile: eravate informati di questo? Avete avuto modo di supervisionare la loro attività in questo laboratorio? E' stato concesso loro di recuperare materiale biologico di qualsiasi tipo? 2) L'Istituto Spallanzani di Roma insieme alla Regione Lazio ha firmato un memorandum d'intesa con l'Istituto Gamaleya di Mosca e il fondo sovrano russo RDIF. Il Ministero della Salute è stato coinvolto nella stesura del Memorandum? Il Ministero della Salute è stato informato prima della firma del Memorandum? Essendo lo Spallanzani un IRCCS sotto la vigilanza e il controllo del Ministero della Salute in che termini andava coinvolto? Essendo presenti allo Spallanzani banche dati condivise con gli altri Paesi della Nato è stato predisposto un protocollo di sicurezza e controllo per gli scienziati russi che entravano allo Spallanzani? La loro attività è stata in qualche modo tracciata? Potreste fornirci le date esatte delle comunicazioni tra Ministero della Salute e Istituto Spallanzani relativamente al Memorandum d'intesa? Per esigenze di produzione vi preghiamo di rispondere entro le 18 di venerdì 6 maggio p.v. Non esitate a contattarmi per qualsiasi informazione al numero della redazione (06-36866393) o al mio personale (333-4019957). Confidando in una vostra pronta risposta, 3 vi invio i miei più cordiali saluti, Danilo Procaccianti Report – Rai3

MINISTERO DELLA DIFESA GABINETTO DEL MINISTRO UFFICIO PUBBLICA INFORMAZIONE E COMUNICAZIONE 1 Roma, 06.05.2022

Spett.le Rai 3 - Redazione Report ROMA Quali accordi sono stati presi dal Ministro Lorenzo Guerini con il suo omologo russo dopo la prima telefonata tra il Presidente Conte e il Presidente Putin? Le interlocuzioni tra i due Paesi hanno preso avvio il 5 marzo 2020 con una comunicazione dell’Addetto militare russo in Italia allo Stato Maggiore della Difesa, nella quale si rendeva disponibile ad inviare aiuti in base alle necessità delle Forze Armate italiane. Il Comando Operativo di Vertice Interforze ha risposto fornendo elenchi e quantità di materiali di protezione individuali in quel momento irreperibili sul mercato. Nello specifico: 4 milioni di mascherine FFP2, 2 milioni di mascherine FFP3, 4 milioni di mascherine chirurgiche. A seguito di tale scambio, il successivo 21 marzo, il Ministro della Difesa italiano ha confermato al suo omologo russo, Sergey Shoigu, le necessità sopra elencate, chiedendo la massima urgenza nei tempi e mettendo anche a disposizione un aereo dell’Aeronautica Militare per il carico dei materiali direttamente in Russia. Lo stesso giorno, in una successiva telefonata avvenuta nel pomeriggio, il Presidente Putin ha esteso al Presidente Conte la fornitura di altri ulteriori aiuti, che comprendevano anche l’invio di team specializzati. Quali informazioni erano a vostra disposizione sui militari e sul personale civile facente parte del contingente russo prima del suo arrivo? A fronte di una iniziale offerta da parte dal Presidente Putin dell’invio di circa 400 unità di personale in massima parte militare, il Ministro della Difesa Guerini ha reputato tale entità esorbitante rispetto alle esigenze, chiedendo la riduzione della delegazione a poco più di cento persone. Le 104 unità effettivamente sbarcate all’aeroporto di Pratica di Mare, il 22 marzo, erano composte da: 32 operatori sanitari e 51 bonificatori, oltre a 8 interpreti e 12 assistenti a supporto e il Capo delegazione. Dal momento dell’arrivo fino alla partenza (avvenuta l’8 maggio), la delegazione è stata presa in carico e seguita in tutti gli spostamenti e nelle attività da personale delle Forze Armate italiane. Quali informazioni erano a vostra disposizione sulle attività che avrebbe svolto il contingente russo sul nostro territorio prima del suo arrivo? Sono stati concordati i seguenti aiuti: invio di team sanitari legati alle attività di contrasto alla diffusione del virus, invio di mezzi specializzati per la sanificazione e bonifica di luoghi e superfici, fornitura di materiale sanitario. Quali informazioni avete ricevuto dall’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte sul perimetro delle attività consentite al contingente russo sul territorio italiano? Sulla base delle interlocuzioni tra il Presidente Conte e il Presidente Putin, la Difesa per quanto di sua competenza ha attivato tutte le procedure di perimetrazione affinché le attività fossero svolte in sicurezza ed efficacia. Sulla base delle richieste espresse da Protezione Civile, Regione e ASL Lombardia, le attività, nello specifico, hanno riguardato la bonifica di luoghi e ambienti (soprattutto RSA, che come noto erano particolarmente esposte), il supporto a strutture ospedaliere in prima linea nella lotta al COVID-19 attraverso l’affiancamento ai medici e agli infermieri italiani (in particolare presso l’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo e presso l’ospedale da campo allestito dall’Associazione Nazionale Alpini in prossimità del citato nosocomio civile).

MINISTERO DELLA DIFESA GABINETTO DEL MINISTRO UFFICIO PUBBLICA INFORMAZIONE E COMUNICAZIONE 2

Eravate a conoscenza che il contingente russo avrebbe eseguito opere di bonifica? È vero che il ministero della Salute vi aveva indicato questa attività come non necessaria e potenzialmente pericolosa per l’ambiente, come ha confermato al nostro inviato l’allora Capo di Stato Maggiore della Difesa, il Generale Vecciarelli? L’attività dei team russi era finalizzata anche alla bonifica di determinate strutture e aree di Bergamo e Brescia e rispettive provincie, definite dalla Protezione Civile, in coordinamento anche con la Regione e la ASL Lombardia. A tal fine, sono state costituite squadre miste con personale militare italiano del 7° Reggimento CBRN Cremona dell’Esercito Italiano, con capacità similari. Riguardo alle modalità di svolgimento dell’attività di bonifica, era stato disposto che fossero usati solo materiali di sanificazione conformi alle certificazioni nazionali e comunitarie, in sostituzione del materiale russo che non rispondeva a tali requisiti. L’ex Capo di Stato Maggiore della Difesa, il Generale Vecciarelli, ci ha detto che nei giorni della missione russa il contingente russo voleva recarsi in prossimità delle basi Nato di Ghedi e Amendola, ma che gli è stato impedito dai nostri militari. La decisione era stata presa nell’ambito dell’accordo tra il Presidente Putin e il presidente Conte? Oppure a livello di ministri della Difesa? Il Presidente Conte ha affermato al nostro inviato che lui – all’epoca della missione – non era stato informato dal Capo di Stato Maggiore nemmeno della possibilità che il contingente russo si potesse avvicinare a basi Nato. Era stato invece informato il Ministro della Difesa di questa possibilità? La perimetrazione geografica delle attività dei team russi è stata definita dal COVI - identificato dal Capo di SMD quale referente unico per la gestione dell’emergenza sanitaria in sinergia con le Forze Armate e in coordinamento con il Dipartimento della Protezione civile, Ministero Affari Esteri e della Salute - assentita dal Ministro della Difesa. Sono state a tal fine adottate tutte le misure necessarie affinché gli spostamenti degli assetti russi avvenissero secondo le modalità stabilite, prevenendo ogni possibile interferenza con attività di interesse della Difesa. Pertanto, a fronte della disponibilità russa di intervenire in più aree del territorio nazionale, i piani di movimento e di esecuzione delle operazioni di sanificazione della delegazione furono circoscritti nelle zone a maggior incidenza del virus, dove c’era maggior bisogno di assistenza, e nel perimetro stabilito. Al contingente russo era possibile raccogliere materiale biologico sul suolo italiano e svolgere tamponi? Era parte degli accordi presi prima del suo arrivo? Tutte le attività sanitarie, anche per quel che riguarda il concorso dei medici militari italiani nelle strutture ospedaliere civili, non erano di competenza della Difesa ma delle altre autorità preposte. Così come non era in carico al Ministero della Difesa il coordinamento degli aiuti provenienti dall’estero che, va ricordato, in quel periodo proveniva da diversi Paesi.

DALLA RUSSIA CON AMORE di Danilo Procaccianti collaborazione Federico Marconi immagini Carlos Dias, Cristiano Forti, Tommaso Javidi, Andrea Lilli ricerca immagini Paola Gottardi, Silvia Scognamiglio montaggio e grafica Monica Cesarani

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Aeroporto Pratica di Mare, 22 marzo 2020, alle 21.15 atterrano tredici aerei cargo decollati da Mosca.

LUIGI DI MAIO – MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI 22/03/2020 L’Italia non è sola e qui c’è la testimonianza della solidarietà che ci arriva da tutto il mondo e quando, senza fare polemica, in questi anni ci hanno detto che non andavano coltivati i rapporti con la Russia…

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Aperti i portelloni, dagli aerei scendono donne e uomini in tuta mimetica accompagnati da ventitre camion. Uno schieramento di forze che preoccupò l’allora capo di Stato Maggiore della Difesa, il generale Enzo Vecciarelli.

ENZO VECCIARELLI – CAPO DI STATO MAGGIORE DELLA DIFESA (2018-2021) L’assetto russo era completamente diverso da tutto quello che avevo visto fino ad allora. Uno si aspettava di vedere degli aiuti sanitari invece iniziarono a scendere dei camion militari, questo mi destò preoccupazione...

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO I russi portarono 30 ventilatori difettosi perché con le nostre prese di corrente rischiavano di prendere fuoco, circa 500.000 mascherine che era il fabbisogno di mezza giornata e solo 27 medici su 104 militari russi. La missione sarebbe addirittura costata all’Italia 3 milioni di euro perché gli abbiamo pagato vitto, alloggio e anche il carburante per gli aerei.

DANILO PROCACCIANTI A pagare tutte le spese di quella missione è stata l'Italia. E così?

SERGEY RAZOV – AMBASCIATORE FEDERAZIONE RUSSA IN ITALIA No, non è così. Se non mi sbaglio, noi abbiamo richiesto dalla parte italiana un'assistenza nella manutenzione e nel rifornimento degli aerei che dovevano tornare dall'Italia in Russia. Quanto questo sia costato alla parte italiana io non oserei giudicare.

DANILO PROCACCIANTI Si parla di una cifra intorno ai 3 milioni di euro, tra vitto e alloggio e carburante per gli aerei.

SERGEY RAZOV – AMBASCIATORE FEDERAZIONE RUSSA IN ITALIA Io non posso né smentire né confermare, l'unica cosa che posso dire è che al bilancio della Federazione Russa e del ministero della Difesa russo è costata di più.

DANILO PROCACCIANTI Questa missione sarebbe costata all'Italia circa 3 milioni di euro. Si dice “bell'aiuto”, insomma GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (2018 – 2021) Adesso non conosco i dettagli di quella spesa, penso che ci sia… Stiamo parlando di vitto, di alloggio….

DANILO PROCACCIANTI E del carburante per gli aerei.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DE CONSIGLIO DEI MINISTRI (2018 – 2021) Dovremmo vedere se hanno dato un aiuto reale. Non mi è facile in questo momento valutare la reale, il reale vantaggio che ne ricavammo

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO I camion russi all’indomani risalgono l’Italia e si dirigono a Bergamo, percorrendo tutta l’autostrada con le bandiere al vento. Alla missione viene anche dedicato un nome “Dalla Russia con amore”, esattamente come il film di James Bond. Mentre in Russia i casi ufficialmente censiti di Covid erano solo 648, senza nemmeno un morto, l'Italia era travolta: Bergamo in quel momento era l’epicentro mondiale della pandemia. Il 18 marzo le immagini dei camion dell'Esercito con le bare avevano fatto il giro del mondo. Quello che sorprende però è che a Bergamo nessuno sapeva dell’aiuto dei russi, che stavano arrivando.

GIORGIO GORI – SINDACO DI BERGAMO Non ne avevo mai sentito parlare.

DANILO PROCACCIANTI Lei come seppe di questa missione?

GIORGIO GORI – SINDACO DI BERGAMO Seppi dalla Regione con la quale stavo discutendo da qualche giorno dell'apertura dell'ospedale da campo, quando si pensava che fosse in arrivo un contingente cinese. Poi si scoprì che i cinesi erano invece un bluff. Finché a un certo punto è arrivata la notizia che invece c'erano i russi.

DANILO PROCACCIANTI Lei voleva sapere le regole di ingaggio, cioè che cosa avrebbero fatto questi russi?

RICCARDO MAGI – DEPUTATO +EUROPA Capimmo che non c'era una definizione rigorosa. Ma noi partivamo da questa valutazione che la Russia è la Russia, che non è un partner dell'Unione Europea, non è la Francia, non è la Germania, è una autocrazia, è un posto dove si sa come operano gli apparati dei servizi segreti.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La missione si perfezionò durante una telefonata tra l’allora premier Giuseppe Conte e Vladimir Putin

DANILO PROCACCIANTI Che cosa vi siete detti con Putin il 21 marzo 2020? Quali erano gli accordi?

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (2018 – 2021) Più volte ci fu la disponibilità sua a fornire un aiuto in un momento di grandissima difficoltà per l'Italia. Eravamo nel periodo della fase più acuta della pandemia. In particolare avrebbe mandato personale specializzato visto che avevano maturato una grande esperienza per quanto riguarda il contrasto alle pandemie, la SARS e via discorrendo.

DANILO PROCACCIANTI Quindi lei e Putin non avete preso diciamo un accordo stringente.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (2018 – 2021) Guardi ovviamente non è che io potevo curare poi gli aspetti attuativi di questa missione. Mi colpì il fatto, questo sì lo ricordo a memoria, nel corso della conversazione, che l'estrema precisione per quanto riguarda si concentrò molto sulla sanificazione.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ma la sanificazione non solo potevano farla i nostri militari ma addirittura il capo di Stato Maggiore, il generale Vecciarelli, si sorprende quando scopre che i camion russi sarebbero serviti per disinfettare.

ENZO VECCIARELLI – CAPO DI STATO MAGGIORE DELLA DIFESA (2018-2021) Ma a quel tempo noi ci eravamo già proposti per fare questa attività e ci era stato sconsigliato dal ministero della Salute perché si rischiava di inquinare le falde acquifere.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO E secondo i direttori delle Rsa non ce ne era neppure tanto bisogno

FABRIZIO LAZZARINI – DIRETTORE GENERALE CASA DI RICOVERO SANTA MARIA AUSILIATRICE Non avevo questo grande bisogno, però che te devo dì, ti danno una mano gli vuoi dire di no? Loro avevano proprio uno staff di guerra, degli esperti infettivologi ed erano molto accompagnati dalla televisione, volevano che io gli rilasciassi una dichiarazione di ringraziamento per quello che stavano facendo

DANILO PROCACCIANTI Lei in questi giorni ha espresso dei dubbi su quella missione.

GIORGIO GORI – SINDACO DI BERGAMO Col senno di oggi, cioè vedendo quale spregiudicatezza guidi l'iniziativa russa in Ucraina, mi è venuto il dubbio sinceramente, se avevano altri scopi. Colpiva il modo in cui queste persone, tutte in divisa militare, interpretavano il rapporto con la stampa. Quando un giornalista provò a dire “ma vorremmo sapere qualcosa in più”, niente domande.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ovviamente capire se in quella missione ci fossero agenti dei servizi segreti russi non è semplice, ma il professor Igor Pellicciari, che è stato console onorario della Federazione Russa a Bologna, qualche certezza ce l’ha.

IGOR PELLICCIARI – PROFESSORE STORIA RELAZIONI INTERNAZIONALI UNIVERSITA’ DI URBINO Chi studia la funzione pubblica russa sa che in particolare nell'esercito, c'è un ufficiale di collegamento dei servizi. Questo è evidente. Può far piacere o non piacere. Però leggerci una eccezionalità mi sembra, mi sembra un po’ ingenuo, insomma ecco.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il responsabile della logistica della missione era Aleksej Nemudrov l’addetto militare dell’ambasciata russa, uomo chiave in questa vicenda. Ha rapporti con entourage di Savoini, portavoce di Salvini, poi verrà espulso un anno dopo perché coinvolto in una vicenda di spionaggio di carte Nato con l’ufficiale italiano Walter Biot. Fu proprio Nemudrov il 5 marzo il primo ad offrire aiuto all’Italia. Prima ancora della telefonata di Putin del 21 marzo. Putin aveva offerto a Conte più di 400 uomini e fu il ministro della difesa Guerini ad opporsi e a ridimensionare la portata della missione. Ma c’è di più, i nostri militari avrebbero evitato un’azione di spionaggio da parte di Mosca, i cui obiettivi erano le basi dell’Aeronautica Militare di Ghedi in Lombardia, dove sono custodite testate nucleari, e di Amendola in Puglia, dove ci sono i droni utilizzati in Iraq e Afghanistan.

DANILO PROCACCIANTI I russi volevano bonificare pure tutti gli uffici pubblici. Le risulta questa cosa?

ENZO VECCIARELLI – CAPO DI STATO MAGGIORE DELLA DIFESA (2018-2021) Eh sì, e questo era il motivo di preoccupazione no

DANILO PROCACCIANTI E voi gli avete detto di no

ENZO VECCIARELLI – CAPO DI STATO MAGGIORE DELLA DIFESA (2018-2021) E certo che gli abbiamo detto di no, gli abbiamo detto che chiaramente avremmo concordato con le autorità sanitarie quelle che sarebbero state le priorità e così è stato. Cioè non è che questi potevano pensare di andare in giro per l’Italia a fare quello che ritenevano loro

DANILO PROCACCIANTI E questa cosa che volevano andare nelle basi di Ghedi e di Amendola in Puglia, le risulta?

ENZO VECCIARELLI – CAPO DI STATO MAGGIORE DELLA DIFESA (2018-2021) E questo è quello che fa parte delle mie preoccupazioni, certo.

DANILO PROCACCIANTI Quindi è vero?

ENZO VECCIARELLI – CAPO DI STATO MAGGIORE DELLA DIFESA (2018-2021) Sì, assolutamente. Anche il presidente del Consiglio si è trovato in una situazione di emergenza e ha preso tutto quello che riusciva a prendere magari senza riuscire a vedere a fondo il retroscena di certe cose.

DANILO PROCACCIANTI I generali dicono questi volevano bonificare tutto, volevano andare vicino le basi di Ghedi e Amendola in Puglia, le basi Nato, e noi glielo abbiamo proibito. Le risulta questo?

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (2018 – 2021) No, ma ci mancherebbe. Se fosse stata questa l'intenzione, giusto che fosse stato proibito e giusto che siano stati indirizzati dove volevamo noi, dove potevamo aver bisogno noi e che abbiano fatto quello che gli abbiamo chiesto noi.

DANILO PROCACCIANTI Però i russi dicono ai generali in quel momento dicono vogliamo fare questo in virtù di accordi superiori. C'erano questo tipo di accordi tra lei e Putin?

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (2018 – 2021) Guardi, assolutamente no. Ma scherza, secondo lei io con Putin dicevo manderemo le tue unità nelle nostre basi? Assolutamente, non scherziamo. Su queste cose non scherziamo.

DANILO PROCACCIANTI Sai cosa mi colpisce, lei dice… I generali dicono questi volevano andare vicino le basi Nato. Lei dice questo non lo so. Possibile che il capo di Stato maggiore non avverta il presidente del Consiglio su una roba del genere?

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (2018 – 2021) Assolutamente non sono stato avvertito, glielo confermo, glielo confermo. E mi sorprende anche che ci sia stata questa richiesta da parte dei russi. SERGEY RAZOV – AMBASCIATORE FEDERAZIONE RUSSA IN ITALIA E io posso ribadire che i nostri militari facevano quello e solo quello che gli veniva richiesto dalla parte italiana.

DANILO PROCACCIANTI Quindi i nostri generali mentono.

SERGEY RAZOV – AMBASCIATORE FEDERAZIONE RUSSA IN ITALIA Questa è una domanda che dobbiamo fare a loro. Io non posso accusare nessuno di niente. Io parlo solo dei fatti che conosco.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dalla Russia con amore, ma soprattutto con 104 militari al seguito. Una missione di una dimensione che non si era mai vista in un Paese della Nato. Ufficialmente era una missione sanitaria, doveva portare aiuto, ha portato dei ventilatori, però non idonei, e delle mascherine, non sufficienti. Il Capo di Stato Maggiore della Difesa dell’epoca, il generale Enzo Vecciarelli, ha detto: i russi volevano andare alla base aeronautica di Ghedi, vicino Brescia, dove ci sono le testate nucleari e in quella di Amendola, da dove si sono alzati in volo i droni per l’Afghanistan e per l’Iraq. Però i nostri uomini, i militari, hanno seguito passo passo i russi e hanno delimitato il loro raggio di azione. L’ex premier Conte ci ha detto, pur ammettendo di non sapere quale sia stato poi l’impatto in termini di benefici della missione russa nel nostro paese, ha detto di non essere stato informato su queste dinamiche. All’epoca aveva anche la delega ai servizi segreti. Ora però Report ha scoperto che a favorire la missione dei russi in Italia, probabilmente è stata un’internazionale sovranista. È questa che avrebbe ispirato la telefonata di Putin all’allora premier Conte. Ma qual è stata la vera missione di questa spedizione? È possibile che il Cremlino abbia inviato le migliori risorse nel campo dell'intelligence biologica solo per spruzzare un po’ di disinfettante nelle nostre residenze per anziani?

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Se il governo italiano avesse fatto un controllo sui personaggi che stavano entrando nel nostro Paese, già dai nomi qualcosa si poteva intuire. La missione era guidata dal generale Sergej Kikot, un ufficiale con una lunga esperienza maturata anche in Siria, dove si è fatto notare per avere negato l'impiego di armi chimiche da parte del regime di Damasco. È uno dei più grandi esperti mondiali di guerra batteriologica. C’era poi Igor Bogomolov, un'altra figura con preparazione e rango straordinariamente superiori alle mansioni svolte in Lombardia. Ha addestrato i soldati per la guerra in Cecenia; preso parte alla campagna "per imporre la pace in Georgia". Bogomolov è numero due dell'intero 48° Istituto Centrale di Ricerca, un istituto molto discusso da cui proviene anche un altro partecipante alla missione, il tenente colonnello Alexander Yumanov. Bogomolov e Yumanov dirigono rispettivamente il laboratorio di Ekaterinburg e quello di Kirov entrambi i laboratori sono finiti nella lista delle sanzioni degli Stati Uniti perché sospettati di aver preparato l’ultima versione del veleno usato per cercare di assassinare gli oppositori del Cremlino, da Sergej Skipral ad Aleksej Navalny.

DANILO PROCACCIANTI Esperti di guerre batteriologiche e armi chimiche. C'era chi aveva addestrato i soldati russi per la guerra in Cecenia, chi ha negato l'uso di armi chimiche in Siria, chi dirigeva laboratori sanzionati dagli Stati Uniti. Insomma, io questi a casa mia non li avrei fatti entrare.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (2018 – 2021) Io non ho avuto un elenco, quello che lei mi sta dicendo non è passato dalle mie mani e ripeto tutto l'aspetto attuativo che non è stato curato da me.

DANILO PROCACCIANTI C'è stata una sottovalutazione iniziale?

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (2018 – 2021) Direi di no nella misura in cui nessuno ha aperto il Paese a missioni di governi esteri in modo indiscriminato. Il dato importante è che il Copasir si è anche occupato... Alla fine, ha concluso nella relazione inviata al Parlamento che non ci sono elementi per pensare che questa missione abbia presentato criticità e si sia svolta al di fuori dell'ambito sanitario.

DANILO PROCACCIANTI Però, diciamo, lei sa benissimo che il Copasir sta continuando, insomma. Non è chiusa la faccenda.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (2018 – 2021) E scusi, c'è una relazione depositata al Parlamento. Quella relazione, io le sto dicendo un fatto. Lei mi sta dicendo un'ipotesi

DANILO PROCACCIANTI No, le sto dicendo che sta continuando.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (2018 – 2021) E ci mancherebbe. Ma il Copasir deve continuare e deve fare. Ben vengano ulteriori approfondimenti.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Alle autorità italiane non furono comunicati i reparti di appartenenza dei militari russi, ma certo a rileggere oggi quei nomi non si capisce perché l’élite russa del contrasto alle guerre batteriologiche stava nelle nostre RSA a spruzzare disinfettante. A Pratica di Mare, poi, nessuno ha fatto caso a un nome aggiunto a penna alla lista: Natalia Pshenichnaya, vicedirettrice dell'Istituto centrale di ricerche epidemiologiche. Due mesi dopo pubblicherà un paper sulla situazione italiana con giudizi spietati sulle iniziative del nostro governo: “L'assistenza sanitaria del paese – scrive - non era preparata (…) le misure di controllo dell'infezione non sono state attuate e hanno portato alla diffusione del contagio tra gli operatori sanitari (…)”. Pshenichnaya però dà un valore politico alle sue ricerche: nel settembre 2020 scrive un testo in cui analizza come "il coronavirus ha determinato nuovi parametri per costruire l'ordine mondiale". È come se mostrasse il vero volto dell'operazione "Dalla Russia con amore”. Ma l’Italia veniva utilizzata come il cavallo di Troia per sbirciare dal buco della serratura su cosa stava effettivamente succedendo nei paesi occidentali colpiti dal virus. Ma doveva servire anche alla Russia per arrivare prima in una corsa in cui tutte le potenze mondiali si stavano confrontando: quella al vaccino.

IGOR PELLICCIARI – PROFESSORE STORIA RELAZIONI INTERNAZIONALI UNIVERSITA’ DI URBINO Era chiaro che chi sarebbe arrivato prima intanto a un vaccino, era chiaro che avrebbe avuto un asset strategico pazzesco. Perché arrivare a un vaccino per primi in un contesto dove il vaccino lo controlla un'azienda farmaceutica che deve fare marginalità per sua stessa missione è diverso rispetto al potere geopolitico che ha un vaccino di Stato, cioè uno Stato decide a chi darlo ovviamente non per guadagnarci economicamente quanto geopoliticamente.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’importanza del vaccino russo come strumento geopolitco sembrerebbe confermata dai documenti segreti del Dossier Center di Londra. Un piano firmato dal braccio destro dell’oligarca russo Kostantin Malofeev, nel marzo 2021, prevedeva la creazione di una rete occulta nota come Altintern alla quale dovevano aderire politici stranieri. E il vaccino Sputnik sarebbe stata la strada «per ripristinare i contatti con i partiti euroscettici» con il fine di «contrastare la politica sanzionatoria di Bruxelles».

FEDERICO MARCONI Cos’è Altintern?

HOLGER ROONEMAA – GIORNALISTA INVESTIGATIVO EKSPRESS MEEDIA Altintern era uno degli strumenti per formare questa rete, attraverso l’impiego di soldi e know how russi. Nei documenti che abbiamo visto ci sono i principali partiti che avrebbero fatto parte di questa rete: come la Lega di Matteo Salvini, il partito di Marine Le Pen in Francia, e il Partito della Libertà austriaco.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Una sorta di internazionale sovranista che si sarebbe mossa anche in occasione della missione di Bergamo. Il 20 marzo 2020, il giorno prima della telefonata tra Putin e Conte, il deputato tedesco Ulrich Oehme del partito di estrema destra Alternative für Deutschland, notoriamente legato a filo doppio con Russia Unita di Putin, scrive questa lettera che vi mostriamo in esclusiva. Si rivolge a Roman Babayan, un membro della Duma, il parlamento russo, e chiede aiuti russi per la Lombardia, dice di averne parlato al telefono con il deputato della Lega Nord Paolo Grimoldi che sarebbe stato entusiasta dell’idea. Si sarebbe mossa quindi, quella che il deputato tedesco chiama “la falange per affrontare la crisi del coronavirus in Italia”. Il giorno dopo, Putin chiama Conte e il deputato leghista si prende tutti i meriti dell’intermediazione: sul suo profilo Facebook scrive: "Non è tempo di appendersi medaglie al petto… Fatta questa premessa allego questa testimonianza del deputato tedesco Ulrich Oehme che dimostra come la richiesta, pressante, di aiuto sanitario alla Russia, che ha portato all’invio in Lombardia di medici russi e materiale per i nostri ospedali, sia partita dal sottoscritto.

DANILO PROCACCIANTI Il merito era suo di quella missione

PAOLO GRIMOLDI – LEGA Ho rotto le palle pesantemente affinché… scusi lei mi sta dicendo che un singolo parlamentare è in grado di far arrivare degli aerei militari speciali in Italia?

DANILO PROCACCIANTI Vi vantavate di aver coinvolto Putin…

PAOLO GRIMOLDI – LEGA Io mi vanto, per il ruolo che ho, di essere quello che ha avuto l’idea di chiedere aiuto all’ufficio di presidenza dell’Osce. Punto.

DANILO PROCACCIANTI È il deputato tedesco che dice di aver risposto a lei in una chat dei conservatori europei. Non all’Osce.

PAOLO GRIMOLDI – LEGA Lui scrive dove vuole, io non so in che chat è dentro lui.

DANILO PROCACCIANTI Adesso vuole prendere le distanze dai russi?

PAOLO GRIMOLDI – LEGA Ma no! Né più né meno di quelli che ho fatto. Ho chiesto aiuto per il mio paese in un momento di difficoltà. Sono orgoglioso che nel chiedere aiuto qualcuno abbia risposto.

DANILO PROCACCIANTI E questa internazionale sovranista segreta voluta dall’oligarca Malofeev?

PAOLO GRIMOLDI – LEGA Io di queste cose non so niente.

DANILO PROCACCIANTI Le risulta un’intermediazione del partito tedesco Alternative für Deutschland per questa missione.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (2018 – 2021) Mai mai sentito, questa notizia non mi risulta affatto mai sentito nessuno di Alternative für Deutschland, mai sentito Grimaldi. Assolutamente una notizia che è priva di fondamento per quanto mi riguarda.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Invece la lettera c’è e probabilmente è sconosciuta all’allora premier Giuseppe Conte. Facciamo attenzione alle date perché hanno un ruolo fondamentale. Il 5 marzo l’addetto militare dell’ ambasciata russa, ricordiamoci il nome – Nemudrov – perché è un nome che ricorrerà spesso, è fondamentale – Nemudrov – scrive, chiama il nostro ministero della Difesa e offre un aiuto. Il nostro ministero accetta di buon grado e dice: inviateci per favore 10 milioni di mascherine, tra FFP2, 3 e quelle chirurgiche. Ma i contatti tra le due parti si diradano. Sino a quando il 20 marzo 2020, Ulrich Oehme che è un parlamentare dell’estrema destra tedesca, legato a doppio filo al partito Russia Unita di Putin, scrive una lettera a Roman Babayan, politico Russo vicino al presidente Putin.. Oehme chiede un intervento russo in aiuto della Lombardia, e dice di averne parlato con il deputato della Lega Paolo Grimoldi, all’epoca anche segretario della Lega in Lombardia. Si sarebbe dovuta attivare quella che Oehme definisce “la falange per affrontare il coronavirus in Italia”. Il giorno dopo quella lettera, il 21 marzo 2020 Putin chiama Conte, e il 22 marzo 104 militari russi atterrano all’aeroporto di Pratica di Mare. Ma i medici sono solo 27, portano 30 ventilatori che non sono compatibili con le prese italiane e 500mila mascherine, sufficienti solo per mezza giornata. Il convoglio si dirige verso Bergamo, centro della pandemia nel nostro paese. Il giorno dopo, il 23 marzo, il deputato Grimoldi che aveva fondato anche il gruppo parlamentare amici di Putin, scrive su Facebook, con un certo orgoglio, cita la lettera del deputato dell’estrema destra tedesco Oehme, si attribuisce il merito dell’intervento russo in Lombardia. Oggi, dopo le polemiche Grimoldi si schernisce, dice che un semplice deputato non può certo provocare l’intervento di una missione così importante e dice di aver chiesto aiuto, sì, ma solo attraverso i canali ufficiali in quanto membro dell’Osce. Noi però abbiamo visto che il parlamentare tedesco di estrema destra nella sua lettera parlava di telefonate intercorse con Grimoldi, di chat tra parlamentari. Ma qual è il vero scopo della missione “Dalla Russia con amore”? Ora, il collega Holger Roonema, parlava dell’esistenza di una rete occulta “altintern”, ispirata, tanto per cambiare, dall’oligarca di Dio, il solito putiniano Kostantin Mallofev, alimentata con soldi russi. Di questa rete avrebbero fatto parte i partiti stranieri come la Lega di Matteo Salvini, il partito di Marine Le Pen in Francia, l’FPO austriaco. Al centro della sua mission ci sarebbe stato il veicolare il vaccino Sputnik come strumento di geopolitica per «contrastare la politica sanzionatoria di Bruxelles nei donfronti della Russia dopo l’ invasione della Crimea.» Una strategia confermata dai documenti segreti del dossier center di Londra, l’organizzazione che fa capo al dissidente Kodorkosky. Insomma una internazionale sovranista si sarebbe mossa anche in occasione della missione russa a Bergamo. Ma cosa c’entra tutto questo con la fabbricazione dello Sputnik? Lo vedremo tra un minuto, dopo una brevissima pubblicità.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora stavamo parlando della missione russa in Italia del marzo 2020. Nessuno si è insospettito quando tra i militari c’erano anche i direttori di quel laboratorio che secondo l’intelligence statunitense aveva preparato le sostanze per cercare di eliminare l’oppositore russo Alexey Navalny, così come altri oppositori russi. Le migliori risorse dell'intelligence biologica, sbarcati in Italia, hanno preso posizione nell'epicentro della pandemia nella bergamasca, un osservatorio privilegiato, strategico, anche dal punto di vista politico. Una delle esperte al seguito, Natalia Pshenichnaya, dopo aver sbirciato dal buco della serratura di un Paese Nato, scrive: "il coronavirus ha determinato nuovi parametri per costruire l'ordine mondiale". Dunque c’era la consapevolezza che sarebbe servita un’arma strategica, a cui stavano concorrendo tutte le potenze mondiali in quel momento, la corsa al vaccino, ad arrivare primi, perché a quel punto ci si sarebbe potuti sedere a quel tavolo dei vincitori e dettare le regole. Ma per fabbricare il vaccino occorre il virus vivo e anche delle sacche di plasma per poter sperimentare se funziona.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (2018 – 2021) CONFERENZA STAMPA 30 GENNAIO 2020 C’erano due casi sospetti di coronavirus, e abbiamo avuto un aggiornamento dopo le verifiche effettuate, che effettivamente questi due casi sono confermati. In Italia per la prima volta oggi abbiamo due casi accertati di due turisti cinesi.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO I due cinesi vengono portati all’Istituto Spallanzani, l’ospedale di Roma specializzato in malattie infettive. Qui fanno i tamponi molecolari e in sole 48 ore i nostri scienziati riescono a sequenziare il virus. Solo con il sequenziamento del virus però non riesci a lavorare per sviluppare un vaccino.

GLORIA TALIANI - PROFESSORESSA ORDINARIA MALATTIE INFETTIVE UNIVERSITA’ LA SAPIENZA DI ROMA Serve il virus cresciuto in coltura

DANILO PROCACCIANTI Serve il virus vivo, diciamo.

GLORIA TALIANI - PROFESSORESSA ORDINARIA MALATTIE INFETTIVE UNIVERSITA’ LA SAPIENZA DI ROMA Una volta che il virus è stato prelevato dal paziente dal soggetto malato, nel giro di poco muore. La capacità di mettere un virus in coltura è una competenza.

ANDREA CASADIO – MEDICO E GIORNALISTA “DOMANI” Cosa fanno i russi? Vengono in Italia e di tutti i posti dove potevano andare vanno a Bergamo, cioè là dove c'era il più alto numero di pazienti portatori del coronavirus. Io se voglio avere dei campioni di coronavirus vivi, vado laddove ne trovo di più, ovviamente. Come si fa per isolare il virus in coltura, io prendo un tampone, te lo infilo nel naso là dove c'è del virus. E poi devo correre per, si dice in gergo, per piastrarlo, cioè sfregarlo su una coltura di cellule simili a quelle umane, perché queste cellule umane devono essere infettate dal coronavirus. Solo dentro a queste cellule il virus cresce, si replica e si moltiplica.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Proprio nei giorni in cui i russi erano in Italia, gli scienziati degli istituti Vector e Gamaleya, centri di ricerca statali, stavano iniziando le ricerche per produrre un vaccino, ma per farlo dovevano prima generare un loro ceppo virale vivo su cui poi effettuare gli esperimenti. In quei giorni però negli ospedali russi c’erano pochissimi malati di covid.

ANDREA CASADIO – MEDICO E GIORNALISTA “DOMANI” Uno scienziato del Gamaleya, in un'intervista al New Yorker, un prestigioso giornale americano ha detto: noi a marzo eravamo disperati perché correvamo avanti e indietro dagli ospedali di Mosca per cercare di ottenere campioni di virus vivo dai pochi malati che avevamo. E non ci siamo riusciti. Perché non sapevamo come isolare il virus in coltura. Non sapevamo quanto a lungo quelle colture sarebbero durate. Quindi brancolavano nel buio a marzo i russi.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO C’è la concreta possibilità che alcuni campioni di virus se li siano procurati a Bergamo, una prova in tal senso è nel vero cuore della missione: cinque furgoni, inaccessibili agli italiani, parcheggiati nell'aeroporto di Orio al Serio. Si tratta del complesso di moduli mobili multifunzionali per l'analisi dei materiali biologici patogeni.

LUCA BONZANNI – GIORNALISTA “L’ECO DI BERGAMO” Lo stesso console citò che avevano a disposizione tamponi che davano il risultato in appena un’ora. La Regione si premurò di precisare che avrebbe comunque seguito le indicazioni dell'Istituto superiore di Sanità dell'Oms e che non avrebbe fatto uso di quei tamponi.

DANILO PROCACCIANTI I russi processavano tamponi?

FABRIZIO LAZZARINI – DIRETTORE GENERALE CASA DI RICOVERO SANTA MARIA AUSILIATRICE Io so che loro li facevano, però noi personalmente avevamo già trovato una soluzione direttamente con un ospedale quindi non avevamo questo...so che li facevano.

DANILO PROCACCIANTI Diciamo lei, questo lo dà per certo che i russi in qualche modo siano andati a prendere la sequenza virale o comunque a rendersi conto di com'era questo virus.

IGOR PELLICCIARI – PROFESSORE STORIA RELAZIONI INTERNAZIONALI UNIVERSITA’ DI URBINO Sicuramente la raccolta dei biodati la do per scontata, perché questo è il lavoro che fanno in qualche modo.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (2018 – 2021) Di spionaggio sanitario? Ma guardi queste ovviamente...

DANILO PROCACCIANTI Da quel punto di vista che accordi c'erano, perché questi avevano un laboratorio mobile e potevano fare tamponi

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (2018 – 2021) Assolutamente guardi. Con il presidente Putin non parlammo assolutamente di nessuna, diciamo agevolazione, per quanto riguarda accesso a dati sensibili, dati sanitari. Noi siamo un Paese democratico e vorrei ricordare che quando c'è stata la sequenziazione del virus quei dati li hanno trasmessi all'Organizzazione mondiale della Sanità, in modo da metterli a disposizione di tutti i ricercatori del mondo.

DANILO PROCACCIANTI Per sviluppare un vaccino c'è bisogno anche di fare esperimenti sul virus vivo e in quel momento, ribadisco, Bergamo era laboratorio mondiale

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (2018 – 2021) Però non credo che a Bergamo abbiano avuto accesso in indiscriminato ai dati sanitari

DANILO PROCACCIANTI È bene chiarirlo

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI (2018 – 2021) Sono stati confinati in un protocollo diciamo di operatività molto ben definito.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Sta di fatto che ad agosto 2020, Vladimir Putin, tiene una videoconferenza con il suo gabinetto di governo. Quella video conferenza poi verrà trasmessa con grande risalto sui telegiornali di tutte le reti russe.

VLADIMIR PUTIN – PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE RUSSA 10/08/2020 «Stamattina è stato approvato il primo vaccino contro il coronavirus al mondo. So che si è dimostrato efficiente e forma un’immunità stabile, e vorrei ripetere che ha superato tutti i test necessari».

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO I russi sono stati i primi a registrare un vaccino, ad agosto 2020. Ma le date sono importanti perché ancora una volta si intersecano con quelle della missione di Bergamo. Involontariamente ce lo aveva confidato il capo del laboratorio dell’Istituto Gamaleya in una nostra inchiesta dell’aprile 2021, quando il clamore della missione russa in Italia ancora non era esploso.

VLADIMIR GOUSCHIN – CAPO DEL LABORATORIO ISTITUTO GAMALEYA In questa stanza abbiamo elaborato il primo prototipo dell’adenovirus per lo Sputnik. Era febbraio 2020.

LORENZO VENDEMIALE Praticamente la Russia ha avuto prima il vaccino anti-Covid del Covid stesso

VLADIMIR GOUSCHIN – CAPO DEL LABORATORIO ISTITUTO GAMALEYA Esatto. Ci mancava il virus. Perché tu puoi anche avere il vaccino, ma finché non hai la malattia vera non capisci se funziona. Ma ci ha dato una mano proprio l’Italia. Perché il virus l’ha portato qui un cittadino italiano. Era il 15 marzo 2020 e abbiamo ricevuto un campione di tampone nasale da questa persona

LORENZO VENDEMIALE A marzo c'era un missione russa in Italia a Bergamo, nel centro dell’epidemia di Covid, con una missione russa, il virus proveniva dalla missione in Italia?.

VLADIMIR GOUSCHIN – CAPO DEL LABORATORIO ISTITUTO GAMALEYA No, non c’è alcun legame con la missione. Abbiamo ricevuto il virus da questa persona che proveniva da Roma

DANILO PROCACCIANTI I russi però dicono noi abbiamo sviluppato partendo da un cittadino che dall'Italia è arrivato a Mosca positivo e da lì abbiamo sviluppato tutto.

ANDREA CASADIO - MEDICO E GIORNALISTA “DOMANI” Vai tu a capire da dove l’hanno isolato. L’hanno tirato fuori da un paziente di Bergamo? Se lo sono isolati loro da un paziente, guarda caso, russo che tornava dall’Italia? Probabilmente il genoma di questi ceppi virali sarebbe identico e sarebbe impossibile risalire all’origine. Se volessi intorbidare le acque e non far capire da dove l’ho preso, io direi: l’ho preso da un paziente russo che tornava dall’Italia. DANILO PROCACCIANTI Lei escludi che possano essere stati prelevati dei campioni biologici per sviluppare poi il vaccino Sputnik? Perché gli appartenenti alla missione russa avevano un laboratorio mobile in cui si potevano processare tamponi. Che uso ne hanno fatto i militari? Perché c’era?

SERGEY RAZOV – AMBASCIATORE FEDERAZIONE RUSSA IN ITALIA Io quando leggo nei giornali le affermazioni, tipo quella che ha fatto lei, mi viene da sorridere.

DANILO PROCACCIANTI Oggi c'è una guerra in corso. Appunto i rapporti sono diversi. La Russia non viene più percepita come Paese amico e quindi si va ad analizzare anche l'attività pregressa.

SERGEY RAZOV – AMBASCIATORE FEDERAZIONE RUSSA IN ITALIA I nostri rapporti si stanno degradando e questa non è stata la nostra scelta.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Beh certo, colpa nostra non è. Ora però, gli scienziati dello Spallanzani sono stati tra i primi in Europa a sequenziare il genoma del virus. Ma questo non basta per fabbricare il vaccino. Ci vuole il virus vivo, e i russi – lo abbiamo sentito – nel marzo del 2020 non lo avevano ancora. Lo abbiamo sentito perché lo dicono in un’intervista al New Yorker, e poi lo abbiamo anche sentito in un’inchiesta di Report dell’aprile 2021. Lo abbiamo sentito dal il capo del laboratorio dell’istituto Gamaleya Vladimir Gouschin, che ha ammesso che il primo prototipo dell’adenovirus per lo Sputnik l’avevano pronto a febbraio 2020, ma gli mancava il virus, non avevano la malattia vera. Era impossibile sapere se avrebbe funzionato. Ma per fortuna poi - dice lo scienziato russo - ci ha dato una mano proprio l’Italia, ce lo ha portato qui un italiano. Report è stato l’inconsapevole testimone di una confessione che oggi sarebbe imbarazzante. Lo Sputnik vaccino strumento di geopolitica, è stato il primo vaccino registrato al mondo, mai approvato dagli enti regolatori, criticato da molti scienziati perché le pubblicazioni erano prive di dati ritenuti essenziali. Ora il capo del laboratorio dell’istituto russo Gamaleya ha detto che è stato un italiano a portare il virus? Chi è stato? Bisogna ricordare che secondo quello che c’era scritto nella mission della rete occulta “altintern”, fondata dall’oligarca Malofeev, il vaccino, lo Sputnik, doveva essere uno strumento da utilizzare contro le politiche sanzionatorie di Bruxelles. Ora Report è venuto in possesso di un documento datato 20 aprile 2020, in piena pandemia, in piena missione dei russi in Italia, in base al quale avremmo consegnato proprio noi il virus ai russi.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La velocità con la quale i russi hanno sviluppato lo Sputnik ha lasciato perplessi tutti i membri della comunità scientifica mondiale. Tanto che gli enti regolatori occidentali come l’FDA americana e l’europea Ema non hanno mai approvato il vaccino russo per mancanza di dati sufficienti.

GLORIA TALIANI - PROFESSORESSA ORDINARIA MALATTIE INFETTIVE UNIVERSITA’ LA SAPIENZA Quello che però rimane e genera un po’ di sconcerto in tutti, in tutta la comunità scientifica, è il fatto che non sia possibile l'accesso ai dati cosiddetti grezzi, ai dati crudi che sono il principale elemento di trasparenza in tutte le attività scientifiche, non si può dire “ti devi fidare”.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Gli scienziati russi a settembre 2020 completano una prima fase della sperimentazione sull’uomo, e pubblicano un articolo sulla prestigiosa rivista scientifica Lancet

ANDREA CASADIO – MEDICO E GIORNALISTA “DOMANI” Era un articolo ridicolo nel quale il vaccino era stato testato solo su 38 persone. Con dati piuttosto dubbi e discutibili.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO A febbraio 2021 una nuova pubblicazione su Lancet, questa volta si tratta di una sperimentazione su 22 mila persone

ANDREA CASADIO – MEDICO E GIORNALISTA “DOMANI” Dove dicono “Gli effetti collaterali sono così scarsi e innocui che non li menzioniamo neanche in questo articolo, ve li mostreremo poi più avanti”. Secondo lei li hanno mai mostrati?

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO A febbraio del 2021 all’istituto Spallanzani di Roma viene nominato un nuovo direttore generale, Francesco Vaia che firma un parere tecnico scientifico su quel vaccino. Quel parere provoca sconcerto tra molti scienziati dello Spallanzani come ci racconta una ricercatrice sotto la garanzia dell’anonimato

DANILO PROCACCIANTI A febbraio c'è questo parere

RICERCATRICE ANONIMA Ma non era per niente “lo studio dello Spallanzani”. Lo studio de che? Si sono letti il lavoro e hanno detto che il lavoro era ineccepibile, cosa che invece altri hanno detto di no. E da lì è iniziato l'interesse per lo Sputnik.

DANILO PROCACCIANTI Il vostro era un semplice commento a un articolo scritto da chi aveva sviluppato il vaccino però.

ANDREA ANTINORI – DIRETTORE SANITARIO SPALLANZANI ROMA Sì, era semplicemente un parere tecnico su una sperimentazione. Non c'era nessuna volontà di prevaricare le autorità regolatorie o altri meccanismi.

DANILO PROCACCIANTI Moltissimi scienziati, però, in tutto il mondo avevano criticato quello studio, soprattutto per mancanza di dati.

ANDREA ANTINORI – DIRETTORE SANITARIO SPALLANZAZNI ROMA Il vaccino Sputnik, in realtà, è stato poi riconosciuto da più di 70 Paesi su un bacino di utenza di più di 3 miliardi di persone potenzialmente vaccinabili. Quindi non mi pare che sia nata nella diffidenza della comunità scientifica.

DANILO PROCACCIANTI Gli studiosi russi risposero che avrebbero messo a disposizione i dati. Ancora oggi questi dati non ci sono.

ANDREA ANTINORI – DIRETTORE SANITARIO SPALLANZAZNI ROMA Ma io credo che il fatto che Ema non abbia approvato questo vaccino non dipenda tanto dalla contestazione del risultato scientifico. Io credo che i problemi siano nati soprattutto sulle questioni relative ai siti di produzione.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Anche se il vaccino Sputnik è avvolto dai dubbi, il 13 aprile 2021 l’assessore alla Sanità del Lazio D’Amato e il direttore Vaia firmano un memorandum d’intesa con l’Istituto Gamaleya e un fondo sovrano russo che prevedeva scambio di materiali e conoscenze. Tre scienziate russe hanno avuto libero accesso ai laboratori dove, tra l’altro, ci sono le banche dati condivise con i Paesi della Nato. Il memorandum sarebbe stato firmato senza autorizzazione preventiva del ministero della Salute.

RICERCATRICE ANONIMA La professoressa Capobianchi ha sollecitato che si facesse una comunicazione formale al ministero che arrivavano queste persone che venivano a lavorare nel nostro laboratorio. Perché siamo legati col Patto Atlantico, quindi siamo in dovere di comunicarlo.

DANILO PROCACCIANTI E il ministero non ne sapeva nulla?

RICERCATRICE ANONIMA Il ministro lo ha detto è un'iniziativa autonoma dello Spallanzani e della Regione. La collaborazione è stata comunicata a posteriori.

DANILO PROCACCIANTI E questa è una stranezza secondo lei?

RICERCATRICE ANONIMA Sì. Noi siamo un Irccs. E la parte scientifica è sotto la tutela e la vigilanza del ministero. Andava discusso e concordato. Non è che uno così si mette a fare la ricerca col Gamaleya, conosciamo bene il Gamaleya. Hanno una mentalità un po’ particolare. La mentalità è che se il capo dice che è A e l'esperimento mi mostra che è B, non si può dire che è B.

DANILO PROCACCIANTI Il fatto che lo Spallanzani sia comunque una banca dati, ci siano anche i sieri contro le armi batteriologiche condivise con i paesi Nato, non siete stati un po’ leggeri in questo?

ALESSIO D'AMATO - ASSESSORE SANITÀ REGIONE LAZIO No, assolutamente no, nessuna leggerezza. Non è stato utilizzato nessun dato.

DANILO PROCACCIANTI Su questa vicenda del protocollo Spallanzani-Gamaleya, perché avete scavalcato il ministero?

ALESSIO D'AMATO - ASSESSORE SANITÀ REGIONE LAZIO No, nessun scavalco. Massima trasparenza. È stato pubblicato sul bollettino ufficiale, è una delibera di giunta.

DANILO PROCACCIANTI A noi ci risulta che è stato informato quando già avete deciso.

ALESSIO D'AMATO - ASSESSORE SANITÀ REGIONE LAZIO Il ministero è stato sempre informato dallo Spallanzani.

DANILO PROCACCIANTI Cioè parliamo di un fondo sovrano. Lo ha firmato lei, il fondo sovrano, altri due istituti, quindi.

ALESSIO D'AMATO - ASSESSORE SANITÀ REGIONE LAZIO No, parliamo due istituti di ricerca. Poi, nel caso Ema avesse approvato, diciamo l'uso in Europa del vaccino come abbiamo sempre detto, noi eravamo anche pronti eventualmente a produrlo nel nostro distretto farmaceutico, che è uno dei più importanti in Italia.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il 20 gennaio 2022, gli scienziati dei due istituti hanno pubblicato online un preprint, cioè un articolo non ancora approvato in cui si misuravano i livelli di anticorpi nello Sputnik.

ANDREA CASADIO – MEDICO E GIORNALISTA “DOMANI” cosa fanno gli scienziati dello Spallanzani e dell'Istituto Gamaleya? Paragonano il livello di anticorpi in pazienti vaccinati con lo Sputnik da 3 a 6 mesi con persone vaccinate con il vaccino Pfizer, vaccinate però da sei mesi. Quindi paragonano un gruppo di persone vaccinate…

DANILO PROCACCIANTI …vabbè ma non è possibile…

ANDREA CASADIO – MEDICO E GIORNALISTA “DOMANI” ..con lo Sputnik da 3 a 6 mesi, con un gruppo di vaccinati con il vaccino Pfizer sei mesi prima. Secondo lei il livello di anticorpi più alto dove sarà?

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Lo Spallanzani ha definito i dati «estremamente incoraggianti e il presidente Putin ha commentato: «Lo studio dell’Istituto Spallanzani ha dimostrato che il vaccino russo Sputnik è il migliore di tutti nel neutralizzare Omicron».

DANILO PROCACCIANTI Quel memorandum ha prodotto appunto uno studio criticatissimo, perché c'era un paragone che non stava in piedi.

ANDREA ANTINORI – DIRETTORE SANITARIO SPALLANZANI ROMA Lo studio è attualmente sottoposto alla revisione di una rivista scientifica internazionale di vaccinologia.

DANILO PROCACCIANTI Come si fa però a paragonare i livelli di anticorpi in persone vaccinate in momenti diversi? ANDREA ANTINORI – DIRETTORE SANITARIO SPALLANZANI ROMA Se lei legge bene l'articolo, non c'è nessun reale confronto con i sieri dei vaccinati, con il vaccino pfizer che poi eravamo noi e che eravamo i nostri operatori sanitari. DANILO PROCACCIANTI Perché non utilizzare persone che erano state vaccinate nello stesso lasso di tempo?

ANDREA ANTINORI – DIRETTORE SANITARIO SPALLANZANI ROMA Perché avevamo a disposizione quei campioni.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ad aprile 2021 il Brasile rifiuta lo Sputnik. Parlano di “rischi inerenti” e “gravi difetti” nella sua composizione, nonché una mancanza di informazioni su sicurezza, qualità ed efficacia. Ma il difetto più pericoloso è che l’adenovirus presente nel siero può riprodursi. Proprio in quel contesto allo Spallanzani si sarebbero mostrati disponibili ad analizzare delle fiale di Sputnik provenienti da San Marino.

RICERCATRICE ANONIMA Ci hanno chiesto di verificare se nel vaccino Sputnik che hanno fatto arrivare da San Marino ci fosse l’adenovirus infettante ed è una cosa che non era di nostra competenza ma dell’Istituto Superiore di Sanità. La professoressa Capobianchi, direttrice del laboratorio disse “ditemi che devo fare con queste fiale: restituirle, distruggerle, perché è un’attività che non è legittimo che facciamo noi”.

DANILO PROCACCIANTI Era Vaia che vi aveva chiesto di esaminare lo Sputnik?

RICERCATRICE ANONIMA Si, San Marino si era messo d’accordo con Vaia. C’era una richiesta per verificare la conformità. Ma questo non potevamo farlo noi. Pensi se dietro ci fosse stata una cosa losca e avessero riscaldato le fiale o inattivato il virus infettante e poi noi gli avremmo dato un parere di conformità positivo. Avrebbero usato il nostro nome per ripulire le loro cose. Che ne sappiamo noi di quelle fiale che ci ha mandato San Marino? DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Lo Spallanzani, avvertì sia l’Aifa sia l’Istituto superiore della sanità di aver ricevuto da San Marino la “richiesta di esaminare la capacità replicativa” del virus contenuto nello “Sputnik”. Li avverte però quando già le fiale erano già in laboratorio. A quel punto Vaia scrive a San Marino che può esaminare la capacità replicativa del virus ma che “i test non rappresentano una valutazione di conformità”

ANDREA ANTINORI – DIRETTORE SANITARIO SPALLANZANI ROMA Noi non potremo mai esprimere un parere di conformità. Tutt'al più avremmo potuto valutare se c'era un adenovirus replicante in quel campione o meno.

DANILO PROCACCIANTI Ma arrivarono queste fiale? Con quale protocollo?

ANDREA ANTINORI – DIRETTORE SANITARIO SPALLANZANI ROMA Questo tipo di ricerca non fu svolta.

DANILO PROCACCIANTI Ma arrivarono o no?

ANDREA ANTINORI – DIRETTORE SANITARIO SPALLANZANI ROMA Io non le so dire di più su questo. Però comunque non fu una parte di lavoro che fu svolta.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Tra lo Spallanzani e i russi c’è stato un rapporto strettissimo. Questo documento che vi mostriamo in esclusiva era un accordo tra EVAg, l’archivio europeo dei virus, l’Istituto Spallanzani, e il Vector, l’istituto di ricerca russo. È il 14 aprile 2020, nel pieno della missione russa a Bergamo. Lo ha firmato l’allora direttore scientifico dello Spallanzani, Giuseppe Ippolito. Grazie a questo contratto i russi ottengono i preziosi campioni di coronavirus vivo. È un contratto ambiguo: da un lato c’è scritto che si tratta di materiale finalizzato alla sola ricerca, per usi commerciali si sarebbe dovuto stipulare un altro contratto, ma in fondo c’è scritto che sarà utilizzato per lo sviluppo del vaccino.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma avevano bisogno del virus vivo e qualche campione glielo abbiamo dato noi. In particolare l’ex direttore scientifico dello Spallanzani, Giuseppe Ippolito, oggi direttore generale del ministero della Salute, aveva firmato un accordo con l’istituto scientifico Vector russo. Un accordo in base al quale, se poi si fosse concretizzato in prodotto commerciale il materiale che gli avevamo messo a disposizione, si sarebbe dovuto rivedere il contratto e riconoscere anche delle royalties allo Spallanzani. Poi effettivamente l’istituto Vector ha fabbricato un vaccino, l’EpiVacCorona, e però di royalties non se ne sono viste e particolare non trascurabile, il Vector è controllato dallo Stato russo, così come il Gamaleya. Chi esclude che non ci sia stata poi una collaborazione tra scienziati russi, visto che anche il capo del laboratorio del Gamaleya aveva detto che era grazie a un italiano che erano riusciti a fabbricare il vaccino, e che poi non abbiano fabbricato lo Sputnik senza riconoscere anche qui delle royalties. In sintesi, che cosa è successo? Che i russi sono venuti qui per aiutarci, i risultati sono stati un po’ scarsini, e forse anche gratis. Ma il ministero della Salute tutto questo lo sapeva? Perché lo Sputnik, lo abbiamo visto, era uno strumento fondamentale. Era al centro della mission della rete occulta “altintern” fondata dall’oligarca Malofeev, e poi c’era anche stata un’esperta nel corso della missione “Dalla Russia con amore” in Italia, che aveva sottolineato come si stesse costituendo un nuovo ordine mondiale e dunque il vaccino era strumento strategico. Appare chiaro che alla guerra ci si stesse preparando da tempo, così come da tempo ci si fosse attrezzati con il controspionaggio. E infatti esattamente un anno dopo la missione dalla Russia viene espulso per un brutto caso di spionaggio l’addetto militare Nemudrov, lo stesso che aveva chiamato il 5 marzo il nostro ministero della Difesa, si era offerto a dare aiuti militari, lo stesso che si era occupato della logistica della missione “Dalla Russia con amore”, uomo che ha contatti con esponenti del partito politico della Lega. Ora viene coinvolto in un caso di spionaggio di documenti secretati della Nato. Una vicenda che ci riporta indietro nel tempo, ai tempi della guerra fredda, quando le ideologie non solo dividevano i vivi, ma anche i morti.

Affare Spallanzani-Sputnik, ecco il documento che prova che il virus ai russi l’abbiamo dato noi (gratis). ANDREA CASADIO su Il Domani l'8 maggio 2022

Da tempo sosteniamo che all’inizio della pandemia di Covid-19, tra marzo e aprile 2020, i ricercatori italiani dell’Istituto Spallanzani hanno consegnato gratis il coronavirus “vivo”, che erano riusciti ad isolare e mettere in coltura tra i primi al mondo, agli scienziati russi, che così hanno potuto sviluppare i due vaccini russi di stato - Sputnik V e EpiVacCorona.

Nel Material Transfer Agreement sottoscritto dai dirigenti russi dell’istituto Vector, che stavano richiedendo il virus, e dai dirigenti italiani dell’Istituto Spallanzani, che glielo stavano fornendo, c’è scritto nero su bianco che gli scienziati russi potevano utilizzare il virus isolato allo Spallanzani per “sviluppare mezzi per la diagnosi, la prevenzione, e il trattamento del Covid-19”, cioè per sviluppare farmaci e vaccini, al fine di “migliorare la sorveglianza e la risposta contro il Covid-19 nella Federazione Russa”.

In altre parole, i russi hanno utilizzato il materiale virale dello Spallanzani per produrre vaccini al fine di combattere meglio la pandemia nel loro paese. E cosa abbiamo ottenuto in cambio noi italiani? Semplice: nulla. 

ANDREA CASADIO. È medico, giornalista e autore tv. Ex docente universitario ed ex ricercatore di neuroscienze alla Columbia University di New York, ha partecipato agli studi sulla memoria che hanno permesso a Eric Kandel, capo del laboratorio, di ottenere il premio Nobel per la Medicina nell'anno 2000. Ha collaborato come inviato e autore televisivo a varie trasmissioni (Turisti per caso, Sciuscià, Velisti per caso, Annozero, Servizio pubblico, Piazzapulita).

NATALIA PSHENICHNAYA E ALEKSANDR SEMENOV. La strana coppia dell’affare Sputnik: chi sono realmente i due “scienziati” russi di Putin? ANDREA CASADIO su Il Domani l'08 maggio 2022.

Per capire meglio l’oscuro affaire Italia-Russia, è utile raccontare chi sono le due figure chiave in questa vicenda: Natalia Yurievna Pshenichnaya e Aleksandr Vasiliev Semenov.

I due non hanno pubblicato un solo articolo di rilievo sulle riviste scientifiche più autorevoli, invece hanno sono stati autori di molti articoli di geopolitica, che pare essere il loro interesse principale.

La loro tesi è che la pandemia ha costituito un nuovo ordine mondiale in cui gli Usa hanno perso il ruolo di leader e al cui vertice stanno la Russia e la Cina, le nazioni che hanno contrastato meglio delle altre il Covid-19.

(Adnkronos il 20 aprile 2022. ) - La Nato è preoccupata dalle operazioni condotte dalla Russia in Italia nel quadro dell'emergenza coronavirus. Lo ha sottolineato al 'Corriere della Sera' il Comandante Supremo dell'Alleanza Atlantica in Europa, il generale americano Tod Wolters, senza entrare nel merito delle decisioni del governo italiano, ma dicendo di essere "molto, molto focalizzato su quelle transazioni" che sono "fonte di preoccupazione".

 Il generale ha messo in guardia l'Italia chiedendole di "prestare una strettissima attenzione alla maligna influenza russa", ribadendo che la Nato "resta molto, molto vigile rispetto a quelle transazioni" e "continua a monitorarle al massimo grado".

Andrea Casadio per “Domani” il 5 maggio 2022.

Ora lo possiamo affermare con certezza: a marzo 2020, i ricercatori italiani dell’Istituto Spallanzani hanno consegnato il Coronavirus vivo, che erano riusciti ad isolare e mettere in coltura tra i primi al mondo, agli scienziati russi, che così hanno potuto sviluppare i due vaccini sovietici di stato: Sputnik V e EpiVacCorona. 

Riassumiamo la vicenda. Il 29 gennaio 2020 due turisti cinesi provenienti da Wuhan in visita a Roma si ammalano e sviluppano i sintomi tipici del Covid - febbre alta e polmonite bilaterale. 

Vengono ricoverati all’istituto Spallanzani di Roma, e qui in pochi giorni un team di scienziati guidati dalla dottoressa Maria Capobianchi, direttrice del laboratorio di virologia, riesce a isolare dai due il Coronavirus, a metterlo in coltura e a sequenziare il suo genoma.

In quei giorni, a inizio pandemia, isolare il virus in coltura significava avere a disposizione un materiale biologico preziosissimo a cui ambivano tutti i laboratori di ricerca pubblici e privati del pianeta. Fino a quel momento, solo tre altri laboratori – uno cinese, uno statunitense e uno inglese – erano riusciti a farlo. 

Perché era così importante avere il virus in coltura a quel tempo? Per poter studiare come esso infettasse le nostre cellule in vitro e capire i meccanismi della malattia, ma soprattutto per produrre farmaci e vaccini contro il Covid.

Chi riesce a mantenere il virus in coltura possiede una vera e propria fabbrica inesauribile di materiale genetico che può utilizzare per produrre in massa un vaccino; poi, può verificare se gli anticorpi e l’immunità indotta da quel vaccino riescono a neutralizzare il virus che cresce in quelle stesse colture, e se ciò accade, può iniziare a testarlo sull’uomo. 

Gli scienziati dello Spallanzani possedevano una  miniera d’oro. Il direttore scientifico dell’ospedale, Giuseppe Ippolito, l’aveva detto chiaramente: «L’isolamento del virus è un passo fondamentale che permetterà di mettere a punto un vaccino».

«Quando a febbraio 2020 noi dell’Istituto Spallanzani abbiamo isolato il coronavirus e siamo riusciti a metterlo in coltura e poi a sequenziarlo», mi dice la dottoressa Maria Capobianchi, «la sequenza dell’intero genoma è stata pubblicata sulla piattaforma di condivisione Gisaid, disponibile per tutto il mondo scientifico. 

Si chiama Inmi-1, (che sta per Istituto Nazionale Malattie Infettive, lo Spallanzani) e chiunque sia registrato su Gisaid la può vedere e scaricare. L’isolato iniziale, sempre denominato Inmi-1, è stato messo da noi a disposizione della comunità scientifica internazionale tramite biorepository certificate di condivisione di ceppi, come EvaG in Europa e Bei per gli USA. Su richiesta, con motivazione scientifica, è stato dato per studiarlo».

E voi l’avete fornito a qualcuno? 

«L’abbiamo dato a una ventina di laboratori». 

Anche russi? 

«Sì, l’abbiamo fornito a Vector, il centro di ricerca statale russo». 

Quando ho saputo questa notizia sono trasalito. «L’avete dato ai russi dell’Istituto Vector?»

«La condivisione dei ceppi delle sequenze tra organizzazioni impegnate nella ricerca sicuramente ha giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo dei vaccini e dei monoclonali», risponde la dottoressa Capobianchi. «Non c’è niente di losco o demoniaco nella condivisione, purché ovviamente sia trasparente e regolamentata». 

Quindi, l’Istituto statale di ricerca russo Vector attraverso EvaG ha avuto in maniera «trasparente e regolamentata» il prezioso ceppo virale Inmi-1, isolato dai ricercatori dello Spallanzani. Ma questo fatto ormai ammesso nasconde molte ambiguità.

Per capirle bisogna spiegare che cos’è EvaG, e che cos’è l’istituto Vector. 

EvaG, che sta per European Viral Archive Global – cioè Archivio Virale Europeo Globale – è un’organizzazione non profit che gestisce un "repository”, cioè una specie di biblioteca online che comprende tutti i virus del mondo e tutti i ceppi di ogni virus, isolati da singoli laboratori scientifici sparsi nelle varie nazioni.

Il loro motto è: “Il miglior modo per ottenere materiale virale nella comunità scientifica!” Si rivolgono all’EvaG sia istituti di ricerca pubblici – come laboratori di università dei vari paesi – che sfogliano il suo catalogo online poi richiedono un virus per studiarlo, sia aziende private –come le compagnie farmaceutiche – che richiedono un determinato materiale virale, per esempio, per produrre un vaccino.

Ogni volta che un ente pubblico o privato richiede un materiale virale all’EvaG, deve sottoscrivere con esso un cosiddetto MTA, cioè un Material Transfer Agreement, ovvero un Accordo di Trasferimento di Materiale, nel quale c’è scritto che non può consegnare quel materiale ad altri, e viene stabilita una cifra in denaro da versare al laboratorio che ha isolato quel virus. 

Se un virus viene richiesto dagli scienziati di un laboratorio per ricerche senza scopo di lucro (mettiamo che vogliano studiare se possa infettare le cellule cerebrali dell’uomo), allora quel laboratorio deve pagare da contratto una cifra irrisoria, che copre giusto le spese di spedizione e di mantenimento del prezioso materiale. 

Se volete il virus dello Spallanzani per fare ricerche dovete pagare all’EvaG solo 2000 euro.  Se invece viene richiesto da una casa farmaceutica che a partire da quel prezioso virus in coltura progetta di sviluppare un vaccino, allora questa intenzione deve essere messa nero su bianco in un MTA che in questo caso viene definito "Industrial”, cioè “industriale”, e la casa farmaceutica si impegna a pagare una cifra sostanziosa e a versare royalty sulle vendite del futuro vaccino a chi quel virus l’ha isolato. 

Quando il gruppo di ricerca del quale facevo parte a fine anni Novanta sequenziò un gene che in un mollusco marino e nel ratto sembrava controllare la formazione della memoria a lungo termine, una compagnia farmaceutica chiese di utilizzarlo per ricavare un ipotetico farmaco contro l’Alzheimer, ma prima dovette pagare alla mia università alcuni milioni di dollari di diritti.

E adesso bisogna spiegare cos’è il Centro di Ricerca russo Vector, che a marzo 2020 ha richiesto, e ottenuto, da EvaG un prezioso campione del Coronavirus isolato dalla Spallanzani, e con esso le istruzioni su come mantenerlo in coltura in vitro. 

Il Centro Nazionale di Indagini di Biologia e Biotecnologie Vector è uno degli istituti di ricerca biologica statale più grande di tutta la Russia. Si trova a Koltsovo, nell’oblast di Novosibirsk, in Siberia. 

È stato fondato nel 1974 e faceva parte del sistema di laboratori per la guerra biologica denominato Biopreparat.

Dentro i suoi grigi edifici sono stati creati virus capaci di produrre tossine, si sono studiati batteri letali e varie sostanze tossiche per il sistema nervoso usate come veleni durante la guerra fredda. I suoi edifici sono circondati da uno spesso muro di cinta guardato a vista ancor oggi da un distaccamento militare. 

Con il crollo dell’Unione Sovietica, il Vector è stato gradualmente riconvertito, almeno sulla carta, in un laboratorio di ricerca come tutti gli altri.

Nel 1990 il Vector è diventato il centro di virologia e microbiologia più grande e moderno dell’Unione Sovietica, superando i 4.500 addetti. 

Oggi possiede laboratori di ricerca di microbiologia, virologia e biologia molecolare adatti anche per i più alti livelli di rischio biologico, e ospita una delle collezioni di virus vivi più complete al mondo, che include esemplari di virus pericolosissimi come l’Ebola, il virus Marburg e quello della SARS, ed è uno dei due soli laboratori al mondo – assieme a quello del Cdc americano –  autorizzato a conservare esemplari del virus del vaiolo. Però ci sono alcuni problemi. 

Il primo problema è che l’Istituto Vector ha un record di sicurezza non proprio cristallino. Nel 1998, il dottor Nikolai Ustinov, che ci lavorava, morì dopo essersi punto accidentalmente con una siringa piena di virus Marburg: stava cercando di sviluppare un missile mortale caricato con quel virus che potesse essere usato per bombardare gli Usa.

Nel 2004, la dottoressa Antonina Presnyakova morì dopo essersi punta accidentalmente con un ago contaminato dal virus Ebola mentre stava cercando di sviluppare un vaccino. 

Il 17 settembre 2019, in una sala di decontaminazione del Vector dove venivano conservati ceppi di virus dell’epatite e dell’influenza aviaria, un’esplosione di gas ferì gravemente uno scienziato e provocò la dispersione di molti virus. 

«Saranno anche i più moderni di tutta la Russia, ma i laboratori del Vector hanno apparecchiature antiquate che noi in occidente usavamo trent’anni fa», confessa un biologo che quei luoghi li conosce bene.

Ma il problema fondamentale è un altro. «Vuoi sapere quanti studi di ricerca di base di buon livello hanno pubblicato negli ultimi vent’anni gli scienziati del Vector?», chiede ironicamente un illustre virologo di fama mondiale che preferisce restare anonimo.  «Zero, nessuno. Perché all’Istituto Vector fanno pochissima ricerca di base, cioè non studiano come funzionano i virus, ma fanno solo ricerca applicata, cioè producono scoperte che abbiano un uso commerciale». 

Negli ultimi anni gli scienziati del Vector hanno brevettato un sistema di diagnosi per il virus HIV e un altro per quello dell’epatite B, hanno prodotto molecole quali l’interferone alfa 2, da utilizzare come farmaco immunostimolante, o farmaci antivirali come il Ridostin, efficace contro l’influenza, hanno sviluppato un vaccino contro l’epatite A e uno contro l’Ebola.

Insomma, il Vector sulla carta figura come un insieme di laboratori di ricerca simili a quelli di una qualsiasi università occidentale, ma invece è una compagnia farmaceutica che per di più dipende dallo Stato, visto che è sotto il diretto controllo del Servizio Federale di Supervisione della Protezione e del Benessere del Consumatore, il Rospotrebnadzor, il quale a sua volta è controllato direttamente dal governo russo, cioè dal presidente Putin. 

E così il Vector, una compagnia farmaceutica di Stato mascherata, a marzo 2020 richiede allo Spallanzani, tramite l’EvaG, i preziosi campioni del coronavirus che i nostri scienziati italiani erano riusciti ad isolare. Per farci cosa?

A fine gennaio 2020, Sergey Krayevoy, viceministro della Salute russo, l’aveva spiegato chiaro e tondo in una intervista alla Tass, l’agenzia di stampa ufficiale governativa: «Abbiamo cominciato a lavorare sul vaccino, ma prima dobbiamo risolvere alcune questioni fondamentali. Primo, ci serve un modello sperimentale animale appropriato. Secondo, ci serve il virus vivo. Stiamo cercando di ottenere dai compagni cinesi il materiale biologico che ci serve».

Per avere il virus, a febbraio 2020, Putin aveva inviato a Wuhan due tra i più noti scienziati russi: Natalia Pshenichnaya, vicedirettrice dell’Istituto centrale di ricerche epidemiologiche, e Aleksandr Semenov, dell’Istituto Pasteur di San Pietroburgo, entrambi membri del Rospotrebnadzor, la struttura sanitaria civile a cui il presidente Putin aveva affidato il contrasto all’epidemia.

Facevano parte di una delegazione internazionale dell’Oms, e intendevano visitare ospedali e laboratori cinesi per ottenere il virus: però, i compagni cinesi avevano proibito loro l’accesso a quelle strutture, avevano secretato ogni informazione, e soprattutto il virus ai russi non lo avevano dato mai. E così, i russi lo hanno chiesto allo Spallanzani, che glielo ha dato. 

A questo punto resta da chiarire una questione fondamentale. Quando l’istituto Vector ha richiesto i campioni di Coronavirus vivo allo Spallanzani, l’ha fatto in qualità di istituto di ricerca di base – cosa che risulta solo sulla carta – oppure in qualità di compagnia farmaceutica di Stato- cosa che è in realtà? 

Perché se ha dichiarato che quel virus gli serviva per ricerca di base avrebbe dovuto sborsare solo poche migliaia di euro, ma se invece avesse dichiarato che gli serviva per sviluppare il vaccino avrebbe dovuto sottoscrivere un MTA industriale, e versare royalties probabilmente multimilionarie allo Spallanzani.

Perché un vaccino contro il Coronavirus, se funziona, è un business assicurato, dato che puoi di sicuro venderlo in miliardi di dosi. 

«Glielo abbiamo dato gratis, questo è il problema», mi confida un alto dirigente dello Spallanzani. 

Quindi i russi non hanno pagato nulla, non hanno firmato un accordo in cui fosse scritto che avrebbero usato quel virus per sviluppare un vaccino e che quindi avrebbero dovuto pagare una cifra probabilmente multimilionaria allo Spallanzani? 

«Sì. E di sicuro non l’hanno deciso la dottoressa Capobianchi e il team che ha isolato il virus», mi risponde il dirigente.

Se uno è uno scienziato, sa bene che dietro alla facciata dell’Istituto Vector si nasconde un’azienda di Stato, e che se gente di quell’istituto ti chiede il Coronavirus lo fa chiaramente per sviluppare un vaccino a fini commerciali, e guadagnare un mucchio di soldi. 

«Beh, cosa sia effettivamente il Vector uno scienziato che abbia dimestichezza di questa cose lo sa, sono d’accordo con lei», mi dice. 

Allora, questa decisione è stata presa più in alto, in base a considerazioni geopolitiche?, chiedo interessato.

«E’ stato un accordo tra governi», ammette il mio interlocutore. 

L’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha fatto pressioni affinché il virus fosse consegnato ai russi? E ignorava quale valore commerciale avesse? Oppure lo sapeva benissimo e glielo ha dato lo stesso? 

Il mio interlocutore sorride, si stringe nelle spalle e commenta: «Con tutte le dosi di Sputnink che i russi hanno venduto avremmo potuto fare un bel po’ di soldi anche noi».

A quell’epoca chi fosse riuscito a sviluppare per primo un vaccino contro il Coronavirus ne avrebbe guadagnato anche un grande prestigio politico. Il presidente Putin in persona ci teneva moltissimo. Fatto sta che a metà marzo 2020 gli scienziati russi dell’Istituto Vector chiedono allo Spallanzani un prezioso campione di Coronavirus isolato in coltura, e lo Spallanzani glielo dà, ma si tratta di una leggerezza imperdonabile: è incredibile che questo passaggio di materiale sia avvenuto senza alcun tipo di accordo formale tra i due enti, che regolamentasse in quale modo questo potesse essere utilizzato.

Il fatto che sia rimasto tutto nascosto per due anni sembra una conferma che qualcuno abbia fatto di tutto perché questa cosa non venisse alla luce. 

E non bisogna dimenticare che molti degli scienziati dello Spallanzani che avevano isolato il Coronavirus, poi, se ne sono andati dall’Istituto: forse perché si trovavano in una posizione scomoda, o non erano d’accordo sulla linea tenuta?

Insomma, quel prezioso e pericolosissimo campione di virus vivo isolato allo Spallanzani viene sigillato dentro a un contenitore ultra-sicuro, e viene consegnato agli scienziati russi, probabilmente verso la fine di marzo, se a metà marzo gli scienziati russi dicono di non possedere alcun campione del virus vivo. 

Ma proprio il 22 marzo 2020, erano atterrati in Italia, a Pratica di Mare, tredici quadrireattori Ilyushin con a bordo 106 persone- 28 medici, 4 infermieri, due civili e tutto il resto militari- e un gran numero di mezzi attrezzati e camion, che facevano parte della missione Dalla Russia con amore.

Li guidava il generale Sergej Kikot, capo del corpo di guerra chimica-batteriologica della Difesa russa, ed erano venuti, si dice, a portarci aiuti contro la pandemia. 

In un primo tempo, la lista degli autorizzati allo sbarco comprendeva solo 104 nomi, ma all’ultimo momento, dopo una telefonata personale tra l’allora premier Giuseppe Conte e il presidente Vladimir Putin, i nomi dei due civili erano stati aggiunti a penna alla lista degli ‘ospiti’ ufficiali.

I due ospiti ‘speciali’ in più erano proprio Natalia Pshenichnaya e Aleksandr Semenov, gli illustri virologi alti dirigenti del Rospotrebnadzor, la struttura sanitaria che coordina la lotta all’epidemia, e che controlla l’Istituto Vector: proprio quelli che il presidente Putin aveva inviato a Wuhan per procurarsi il virus, e che erano tornati a mani vuote.

Probabilmente, il prezioso campione di Coronavirus vivo isolato allo Spallanzani è stato consegnato proprio nelle mani di Natalia Pshenichnaya e Aleksandr Semenov, visto che erano i rappresentanti dell’Istituto Vector in Italia e si trovavano a Roma, e poi loro l’hanno caricato su uno degli aerei russi parcheggiato a Pratica di Mare, che è partito per la Russia, destinazione Mosca e poi Novosibirsk, dove ha sede il Vector.

Ma assieme all’isolato virale gli scienziati dello Spallanzani hanno ovviamente fornito ai colleghi russi le istruzioni per l’uso e il mantenimento di quelle colture – su quali linee cellulari cresce il virus, quali sostanze nutritive vanno aggiunte al cosiddetto medium di coltura perché il virus possa crescere, eccetera-, altre informazioni di valore inestimabile. 

Probabilmente, Natalia Pshenichnaya e Aleksandr Semenov le hanno lette, e così hanno imparato come metterlo in cultura, nozioni che prima non conoscevano. 

Gli stessi Pshenichnaya e Semenov, poi, a capo della convoglio di uomini e autocarri Kamaz, alcuni dei quali trasportavano laboratori mobile per l’isolamento dei virus, si sono diretti verso il nord Italia, a Bergamo - il luogo al mondo in cui allora infuriava con maggiore forza l’epidemia: e qui i russi si sono messi a perlustrare freneticamente ospedali e residenze per anziani, all’apparenza per sanificarle. E invece noi supponiamo volessero procurarsi altri preziosi esemplari del virus vivo, e magari campioni delle nuove varianti mutate sorte nel frattempo, che ora sapevano come coltivare.

Gli stessi due scienziati, Pshenichnaya e Semenov, sempre loro, hanno anche supervisionato l’accordo siglato a marzo 2021 con lo Spallanzani di Roma per le ricerche sul vaccino Sputnik. 

In ogni caso, a marzo 2020, i due maggiori istituti di ricerca russi, il Vector a Novosibirsk e il Gamaleya a Mosca, partono a macchine avanti tutta per produrre i due vaccini di stato russi - l’EpiVacCorona e lo Sputnik V. Hanno utilizzato il virus dello Spallanzani? Quasi sicuramente sì, ma non lo potremo provare mai. 

"Così Conte ignorò gli allarmi di militari e 007". Pier Francesco Borgia il 22 Aprile 2022 su Il Giornale.

Il responsabile Difesa di Fi: "Inesperto e inadeguato sulla missione russa".  

Onorevole Perego, lei è stato nominato responsabile del dipartimento Difesa di Forza Italia. Cosa rappresenta questa nomina?

«Non solo mi onora ma è un ulteriore stimolo a fare di più per quello che i fatti di questi ultimi mesi dimostrano essere un settore strategico per il Paese».

Come giudica l'aumento del budget militare annunciato dal premier?

«Forza Italia da tempo si muove verso questa direzione. La nostra politica ha una lunga storia iniziata proprio con il compianto Antonio Martino, straordinario ministro della Difesa e appassionato sostenitore dell'Alleanza atlantica».

Il conflitto in Ucraina ha forti ripercussioni nella nostra politica interna e ora non si parla che del «Russiagate».

«Già due anni fa, nel corso di audizioni informali alla Camera dei Deputati, del capo di Stato Maggiore della Difesa Vecciarelli e del Comandante del comando operativo di Vertice Interforza Portolano, osservavo che mi sembrava quantomeno poco opportuna la missione di medici e militari russi nel nostro territorio, sia pur in un momento eccezionale come quello della pandemia di Covid-19».

Si riferisce ai medici russi venuti a studiare i primi malati di Covid?

«Era una missione sicuramente improntata a una nobile causa ma lasciava aperte molte incognite sulla sua opportunità».

I vertici Nato e più in generale i partner occidentali cosa pensarono della missione russa?

«Di sicuro sono rimasti perplessi. Nella loro missione i delegati russi dovevano visitare strutture sanitarie e Rsa. Le varie articolazioni della Difesa incluso il Ministero, misero in allerta Palazzo Chigi sul fatto che era bene controllare i russi e scortarli ed evitare come invece fu richiesto l'accesso ad edifici pubblici. E nondimeno che la loro visita era fonte di imbarazzo e preoccupazione».

E cosa fece Palazzo Chigi?

«Conte preferì non dare corso a questi allarmi. Per fortuna l'intervento della Difesa fu provvidenziali e venne vietato l'accesso ai luoghi sensibili. Però l'episodio rappresenta un segno di inadeguatezza politica del ruolo che Conte si è assunto oltre alla beffa di aver pure speso tre milioni per l'intera missione russa (rimborso carburante aerei e vito alloggio ai militari)».

Conte non doveva tenere per sé la delega ai Servizi segreti?

«Ritengo poco logico che un premier senza esperienza politica tenga per sé la delega dei Servizi. Forse Conte non si è accorto che quanto stava accadendo rappresentasse quello che nel gergo militare si chiama Stratcom abbinato al soft power, volto ad indebolire le relazioni dell'Italia con l'Occidente».

Timori Usa nelle carte segrete: Conte ondivago e filorusso. Stefano Zurlo il 21 Aprile 2022 su Il Giornale.

Lo sconcerto nel dossier del 2020 anche per i militari da Mosca: "L'Italia deve difendere i propri interessi".

Le liti fra Renzi e Conte, le critiche dei partiti italiani ai decreti sulla pandemia, poi all'improvviso una frase sibillina che non passa inosservata al Dipartimento di Stato: «L'Italia deve ora più che mai definire e difendere i suoi interessi nazionali».

Un testo che fotografa lo sbandamento di quel periodo e non a caso viene sottolineato da una manina, non si capisce bene se alla partenza, a Roma, o all'arrivo, a Washington.

Certo, quelle poche righe firmate il 29 aprile 2020 dall'allora ambasciatore in Italia Lewis Eisenberg colgono, sia pure con sottigliezza diplomatica, la confusione e l'imminente fine di un'epoca caratterizzata dalle giravolte e dalle capriole di Giuseppe Conte.

Conte, come raccontato anche ieri dal Giornale, si accredita presso Trump che nel 2019 incorona Giuseppi sul campo. L'Italia sviluppa una politica estera a dir poco avventurosa: il capo del Dis Gennaro Vecchione incontra a cena il ministro della giustizia americano Bill Barr che cerca nella penisola le fantomatiche prove del Russiagate.

Contemporaneamente l'Italia sposa, in perfetta solitudine fra i partner occidentali, la Via della seta, strumento di penetrazione commerciale e strategica di Pechino, e riceve un aiuto, persino eccessivo e sempre più sospetto, da Putin che invia un poderoso contingente militare per combattere il Covid a Bergamo.

L'ambasciatore registra tutto, monitora gli scontri all'arma bianca fra Conte e Renzi che alla fine sarà l'artefice del cambio a Palazzo Chigi e dell'arrivo di Draghi. Ancora, Eisenberg riporta i pareri degli editorialisti e cerca di trasferire negli Usa il clima e gli umori che respira nella capitale.

Ma qua e là affiorano i giudizi e le previsioni, tutte sottolineate nei documenti trasmessi a Washington. «L'Italia deve ora più che mai definire e difendere i suoi interessi nazionali». In un momento in cui certo il Paese è sotto l'attacco durissimo del Covid, esploso fra Codogno e Bergamo, ma è anche protagonista con Conte di una politica estera a dir poco ondivaga.

Eisenberg, nei documenti declassificati, tradotti e studiati dal professor Andrea Spiri, docente di storia dei partiti politici alla Luiss, si sbilancia con una sorta di profezia che si avvererà: «È probabile che questo governo non duri a lungo». All'orizzonte, per Eisenberg «c'è un governo tecnico». Insomma, nella primavera del 2020, in piena e drammatica emergenza sanitaria, l'ambasciatore americano capta l'arrivo di Mario Draghi, anche se il suo sarà in realtà un esecutivo di unità nazionale.

Spiri evidenzia poi un altro frammento del report, relativo alla missione dei russi a Bergamo per aiutare la popolazione alle prese con la pandemia. Sulla carta il team è formato da medici e infermieri, ma Eisenberg ha ben chiaro che si tratta di «soldati russi», come è emerso sempre più nettamente nelle ultime settimane. Quando si è capito che Conte aveva allargato con una certa disinvoltura il perimetro d'azione dei russi. Per Eisenberg però il capitolo è ormai chiuso: «Nessuna regione italiana ha chiesto il loro intervento». E la loro partenza per Mosca è imminente.

Non c'è alcun commento formale, ma a Washington devono essere soddisfatti per la mancata proroga. E la sottolineatura è un modo per enfatizzare il dettaglio sconcertante di quel viaggio che, due anni dopo, è al centro di polemiche e retroscena per il dilettantismo mostrato da Conte nei delicati rapporti internazionali. Ma per Conte non c'è nulla di strano né di misterioso: «Non sono emersi elementi di spionaggio, i sanitari russi non hanno mai travalicato i confini, ho sempre perseguito l'interesse nazionale - afferma l'ex premier, ospite di Liili Gruber a Otto e mezzo - L'incontro con Barr, poi, è stato studiato e preparato, i nostri servizi non gli hanno aperto l'archivio. Non sono stato né disinvolto né disattento».

Il piano di 'bonifica' nelle missive. Missione russa in Italia, le mail segrete tra ambasciata e Farnesina: “Mezzi speciali nei luoghi infetti, costi a carico del governo”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 19 Aprile 2022. 

“Dalla Russia con amore” e forse con l’obiettivo di mettere in moto una operazione di spionaggio contro un Paese che era appena finito nel vortice della prima ondata di Covid-19. Con la pubblicazione di alcune email inviate nel marzo 2020 dall’ambasciata di Mosca a Roma per pianificare l’arrivo dei 130 uomini destinati alla missione ‘sanitaria’ in Italia emergono dettagli che aumentano ancora i dubbi sulla reale natura della missione russa.

A dare conto di queste email è oggi il Corriere della Sera in un articolo di Fiorenza Sarzanini, in cui si evidenzia chiaramente l’intenzione russa di “bonificare” le strutture pubbliche italiane, così come della necessità da parte del governo di coprire le spese del contingente spedito nel nostro Paese.

“Sono state preparate brigate mediche con impianti e attrezzature necessarie per prestare assistenza d’urgenza e curare gli ammalati. Si prevede di inviare i mezzi speciali per la disinfestazione di strutture e centri abitati nelle località infette”, si legge in una mail inviata alle 8,48 del 22 marzo 2020.

Insomma, gli accordi previsti tra l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il numero uno del Cremlino Vladimir Putin era diversi da quelli poi rivelati, anche alla luce della scarsità di materiale effettivamente trasportato in Italia con l’obiettivo della presunta “bonifica”, alimentando così ulteriormente il sospetto che le reali intenzioni russe fossero di ben altro tipo.

Anche i toni russi nelle mail sono perentori, da ultimatum: “Attendiamo risposte alle domande entro tre ore sui canali diplomatici a Roma o a Mosca”. Risposta affermativa che chiaramente è arrivata, dato poi lo sbarco in Italia del contingente russo a Pratica di Mare.

Nelle comunicazioni inviate Mosca pianifica di effettuare dal 22 marzo al 15 aprile una serie di voli da Soci allo scalo militare italiano per il trasporto di “personale medico, dispositivi di protezione, attrezzatura medica e i mezzi per la lotta contro il Coronavirus”. Arrivi con cadenza quotidiana: “Il decollo del primo aereo è programmato per le ore 14 di Mosca poi a seguire a distanza di un’ora altri quattro aerei. Attualmente si stanno preparando alla partenza 123 persone e 7 mezzi. Fra gli specialisti russi ci saranno 12 interpreti di lingua italiana per poter assicurare la comunicazione immediata con gli esperti italiani”.

Come ormai noto, tra i 104 nomi messi a disposizione da Mosca i medici e infermieri erano in realtà solamente 28, guidati tra l’altro da un generale dell’esercito, Sergey Kikot, vice comandante del reparto di difesa chimica, radiologica e biologica dell’esercito russo.

Anche i costi della missione, emerge dalle email pubblicate dal Corriere, erano a carico dell’Italia. Nelle note inviate dall’ambasciata si chiede infatti di “provvedere al servizio terrestre aeroportuale nonché al refueling fino a 50 tonnellate di combustibile a titolo di cortesia”, oltre al “rifornimento gratuito degli aerei russi presso gli aeroporti italiani per il volo di ritorno e sull’esenzione dalle tasse di aeronavigazione, pagamento del parcheggio e altri servizi aeroportuali”.

Non solo. Anche tutte le altre spese relative alla permanenza in Italia del contingente russo è stato a carico del nostro governo, come viene chiarito da una successiva nota: “Ci auguriamo che le questioni di vitto alloggio e supporto alla vita dei medici russi siano risolte dalla parte italiana, come pure la messa a disposizione di materiali consumabili necessari, per esempio per il funzionamento degli apparecchi di ventilazione artificiale dei polmoni che saranno portate dalla Russia”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

L’accordo segreto Italia-Russia: «Mezzi speciali nei luoghi infetti». Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 19 Aprile 2022.  

Le mail riservate inviate dall’ambasciata di Mosca per pianificare l’arrivo dei voli e dei 130 uomini destinati alla missione anti Covid del marzo 2020. 

«Sono state preparate brigate mediche con impianti e attrezzature necessarie per prestare assistenza d’urgenza e curare gli ammalati. Si prevede di inviare i mezzi speciali per la disinfestazione di strutture e centri abitati nelle località infette». Sono le 8.48 del 22 marzo 2020. Dalla Farnesina viene trasmessa una nota verbale inviata dall’ambasciata russa. Comunica ai funzionari del ministero, del governo e della Protezione civile il contenuto della missione in arrivo da Mosca. E così svela che i russi avevano avvisato il governo italiano dell’intenzione di «bonificare» dal virus le strutture pubbliche ottenendo il via libera. Ma anche che l’Italia aveva accettato di sostenere tutte le spese per l’arrivo di 130 persone.

Le mail per l’accordo

Sono proprio le mail e gli altri documenti raccolti durante l’indagine del Copasir a rivelare nuovi e clamorosi retroscena di quella missione cominciata nel marzo del 2020, poche settimane dopo che l’Italia era entrata in pandemia e durata due mesi. Svelando come i termini dell’accordo tra l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte e quello della Federazione russa Vladimir Putin fossero ben diversi da quanto è stato poi rivelato. Certamente il materiale sanitario era insufficiente rispetto alle esigenze e questo alimenta il sospetto che l’obiettivo dei russi fosse l’attività spionistica e non — come era stato dichiarato — l’aiuto umanitario. Anche perché sin dalla prima mail la loro condizione era ultimativa: «Attendiamo risposte alle domande entro tre ore sui canali diplomatici a Roma o a Mosca». Risposte che sono state evidentemente affermative, visto che poi sono atterrati in Italia i primi 11 velivoli militari. E l’Italia ha fornito un programma così come era stato concordato sin dall’inizio visto che nel testo si sottolinea come «per programmare il volo e svolgere i lavori umanitari servono le informazioni sugli aeroporti di arrivo e le località in cui saranno inviati gli specialisti russi».

I voli pianificati

Il documento trasmesso per via diplomatica rivela dettagli di un’operazione impossibile da pianificare in poche ore. Viene infatti specificato che «secondo le intese raggiunte durante il colloquio telefonico tra il presidente della Federazione russa Vladimir Putin e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ai fini di prestare aiuto nella lotta contro il coronavirus, la parte russa pianifica di effettuare quotidianamente dal 22 marzo al 15 aprile sulla rotta Soci-Pratica di Mare-Soci i seguenti voli speciali». Viene indicato l’elenco degli aerei e il nome dei comandanti. Poi si specifica che «gli aerei trasportano il personale medico, i dispositivi di protezione, l’attrezzatura medica e i mezzi per la lotta contro il coronavirus» evidenziando anche che «i voli sono quotidiani dal 22 marzo al 15 aprile 2020». E ancora: «Il decollo del primo aereo è programmato per le ore 14 di Mosca poi a seguire a distanza di un’ora altri quattro aerei. Attualmente si stanno preparando alla partenza 123 persone e 7 mezzi. Fra gli specialisti russi ci saranno 12 interpreti di lingua italiana per poter assicurare la comunicazione immediata con gli esperti italiani».

La lista della spesa

Ufficialmente l’operazione era stata accettata per ottenere mascherine e ventilatori, all’epoca introvabili in Italia. Una missione umanitaria, secondo la versione fornita all’epoca dal governo italiano. Il testo dell’accordo rivela invece che sin dall’inizio l’Italia sapeva di dover pagare tutte le spese. Un conto, si è scoperto adesso, di oltre tre milioni di euro. Scrivono i russi: «L’ambasciata sarà grata a codesto ministero se vorrà provvedere ad ottenere dell’autorità competenti italiane l’autorizzazione per il sorvolo del territorio italiano e lo scalo sull’aeroporto di Pratica di Mare. Si prega altresì di provvedere al servizio terrestre aeroportuale nonché al refueling fino a 50 tonnellate di combustibile a titolo di cortesia. Contiamo sul rifornimento gratuito degli aerei russi presso gli aeroporti italiani per il volo di ritorno e sull’esenzione dalle tasse di aeronavigazione, pagamento del parcheggio e altri servizi aeroportuali». Non solo. Nell’accordo viene specificato che anche tutte le altre spese relative alla permanenza dei russi nel nostro Paese saranno a carico del governo italiano. Nella lettera all’ambasciata se ne parla come un auspicio, ma il tono non lascia adito ad altre opzioni: «Ci auguriamo che le questioni di vitto alloggio e supporto alla vita dei medici russi siano risolte dalla parte italiana, come pure la messa a disposizione di materiali consumabili necessari, per esempio per il funzionamento degli apparecchi di ventilazione artificiale dei polmoni che saranno portate dalla Russia».

Putin e l’operazione Sputnik in Italia1: lo Spallanzani isola il Coronavirus. ANDREA CASADIO su Il Domani il 06 aprile 2022

A febbraio 2020, gli scienziati dell’Istituto Spallanzani prelevano i campioni prelevati dei due turisti cinesi, e in sole quarantotto ore riescono ad isolare il virus responsabile del Covid-19, che verrà poi denominato Sars-CoV-2: sono tra i primi al mondo a farlo.

Chi possiede una coltura cellulare nella quale si riproduca un virus, specialmente se si tratta di un virus nuovo e sconosciuto, possiede un tesoro perché su quel virus vivo può effettuare ogni tipo possibile di sperimentazione. Ma soprattutto, solo se hai a disposizione il virus vivo in coltura puoi produrre un vaccino.

Gli scienziati dello Spallanzani avevano isolato il virus vivo, e noi italiani avremmo potuto sviluppare un vaccino o nuovi farmaci. Ma non siamo riusciti a fare né uno né l’altro. L’Italia ha quasi rinunciato alla competizione, oppure ha scelto di favorire altri paesi. Indovinate quali, e perché.

08/01/2021 Roma, Reithera azienda specializzata in biotecnologie, con sede alle porte di Roma, sta lavorando sul vaccino anti-Covid GRAd-CoV2, che rappresenta la risposta italiana ai vaccini di Pfizer e di Moderna. Dopo la fase 1 di sperimentazione il vaccino Reithera ha dimostrato di essere sicuro e di avere capacita' di indurre risposta immunitaria, come confermato dal direttore scientifico dell'Ospedale Lazzaro Spallanzani di Roma. Nella foto i ricercatori al lavoro nei laboratori con una fiala di vaccino anti-Covid GRAd-CoV2

Putin e l’operazione Sputnik in Italia 2: Ecco cosa cercavano gli scienziati russi a Bergamo. ANDREA CASADIO su Il Domani il 07 aprile 2022

Se vuoi sviluppare un vaccino contro un virus ti devi prima procurare quel virus vivo e poi metterlo in coltura per fare gli esperimenti. E dove è più facile trovarlo? Dove ce n’è di più. Nel marzo 2020, l’Italia era il paese al mondo con il più alto numero di casi di Covid.

A metà marzo, l’allora presidente del Consiglio Conte chiama Putin e concorda con lui un piano di aiuti. I russi organizzano una spedizione e vanno a Bergamo. A fare cosa? I russi a Bergamo sono riusciti a ottenere un campione di virus vivo? O qualcuno gliel’ha passato?

Gli scienziati russi dell’Istituto statale Gamaleya da marzo 2020 si mettono a sviluppare il vaccino contro il Covid, mentre gli scienziati dello Spallanzani, che avevano isolato il virus in coltura ed erano pronti a sviluppare un vaccino dai primi di febbraio, non fanno nulla.

Putin e l’operazione Sputnik in Italia 3: Gli interessi diretti dello zar e dell’Istituto Gamaleya. ANDREA CASADIO su Il Domani l'08 aprile 2022

All’Istituto statale Gamaleya, a Mosca, un team di scienziati guidati dal dottor Denis Logunov ha sviluppato il nuovo vaccino russo contro il coronavirus, chiamato Sputnik V, in pochi mesi, da marzo ad agosto 2020. Hanno fatto tutto da soli? Oppure qualcuno li ha aiutati?

Per sviluppare un vaccino contro un virus, devi prima isolarlo in coltura. Vladimir Gutschin, scienziato del Gamaleya, ha raccontato che fino a metà marzo non erano riusciti a isolare il coronavirus e che non sapevano come coltivarlo. Invece, nostri scienziati allo Spallanzani l’avevano isolato e messo in coltura da inizio febbraio: qualcuno ha insegnato ai russi come fare, o gli ha passato il virus?

Fatto sta che gli scienziati russi in breve tempo sono riusciti a sviluppare il loro vaccino Sputnik V, mentre gli scienziati dello Spallanzani che per primi avevano isolato il virus sono stati costretti a interrompere le loro ricerche.

Quella strana sintonia tra lo Spallanzani e Mosca che solo la guerra ha cancellato. ANDREA CASADIO. su Il Domani il 9 aprile 2022

Alcuni scienziati dell’Istituto romano erano pronti a sviluppare un vaccino italiano, ma qualcuno faceva il tifo per Mosca.

Tutti si aspettavano che gli alti dirigenti e il team di scienziati dello Spallanzani, che a febbraio 2020 avevano isolato il coronavirus per primi in Europa venissero in qualche modo premiati.

Molti di loro sono stati invece messi ai margini, e qualcuno dentro allo Spallanzani si è messo a fare il tifo per il vaccino russo Sputnik V.

La collaborazione tra lo Spallanzani e l’Istituto russo Gamaleya è continuata tra mille dubbi fino al 25 febbraio di quest’anno.

Putin e l’operazione Sputnik in Italia: il parallelo con le manovre russe in Argentina sul vaccino. ANDREA CASADIO su Il Domani l'11 aprile 2022

Quando, a inizio dell’anno 2020, scoppiò la pandemia di COVID-19, molte nazioni del mondo e le più grandi compagnie farmaceutiche si lanciarono in una corsa frenetica a chi produceva per primo il vaccino. La Russia di Vladimir Putin arrivò prima, col suo vaccino Sputnik V. Ma gli scienziati dell’Istituto Gamaleya che lo hanno sviluppato non hanno mai mostrato i dati relativi alla sua sicurezza e alla sua efficacia.

Allora come mai il governo dell’Argentina ha approvato il vaccino Sputnik e lo ha utilizzato per vaccinare i suoi concittadini? Il Cremlino ha esercitato pressioni affinché il governo di Buenos Aires approvasse il vaccino? E cosa gli ha dato in cambio in governo argentino?

La strategia del Cremlino è chiara. Dato che gli enti di supervisione internazionali sono giustamente esigenti, si rivolge a singoli Stati amici dove è più facile fare approvare lo Sputnik, e in cambio permette a quegli Stati di produrre in casa loro il vaccino. Tutti ci guadagnano, e tutti sono contenti.

ANDREA CASADIO. È medico, giornalista e autore tv. Ex docente universitario ed ex ricercatore di neuroscienze alla Columbia University di New York, ha partecipato agli studi sulla memoria che hanno permesso a Eric Kandel, capo del laboratorio, di ottenere il premio Nobel per la Medicina nell'anno 2000. Ha collaborato come inviato e autore televisivo a varie trasmissioni (Turisti per caso, Sciuscià, Velisti per caso, Annozero, Servizio pubblico, Piazzapulita).

Inchiesta su Sputnik e lo Spallanzani, invece di minacciare Domani Conte potrebbe leggerlo. STEFANO FELTRI, direttore, su Il Domani l'11 aprile 2022.

Il presidente dei Cinque stelle Giuseppe Conte pensa che il titolo di un mio editoriale sia diffamatorio (Perché il governo Conte ha asservito la ricerca italiana sul Covid alla propaganda russa?). Bene, io penso che il suo intervento a Non è l’arena di Massimo Giletti su La7 sia diffamatorio. 

Non è la prima volta che l’ex presidente del Consiglio approfitta della visibilità che gli concede il suo ruolo per rispondere con insulti e velate minacce giudiziarie alle inchieste di questo giornale. 

Conte potrebbe almeno premurarsi di leggere i giornali che intende querelare. Se poi volesse fare un confronto con domande vere, non quelle di Giletti, noi siamo sempre disponibili.

Il presidente dei Cinque stelle Giuseppe Conte pensa che il titolo di un mio editoriale sia diffamatorio (Perché il governo Conte ha asservito la ricerca italiana sul Covid alla propaganda russa?). Bene, io penso che il suo intervento a Non è l’arena di Massimo Giletti su La7 sia diffamatorio. 

Non è la prima volta che l’ex presidente del Consiglio approfitta della visibilità che gli concede il suo ruolo per rispondere con insulti e velate minacce giudiziarie alle inchieste di questo giornale, senza rispondere nel merito, era già capitato un anno fa dopo le inchieste di Emiliano Fittipaldi sui compensi (veri) ricevuti da Conte nell’ambito del fallimento del gruppo Acqua Marcia, dei quali aveva parlato l’avvocato Piero Amara a verbale. Conte evidentemente ha questa idea dei giornali: se scrivono cose sgradite, si insulta invece di replicare nel merito.

Ma anche Giletti ha un’idea bizzarra di giornalismo, visto che il suo modo di riassumere un’inchiesta alla quale Andrea Casadio ha dedicato cinque puntate e oltre 100.000 battute (e io un editoriale di accompagnamento) è di questo tenore: «Su Domani, Feltri, direttore continua a dire che lei nasconde qualcosa, lei che risposta dà?».

Ora, neanche io saprei rispondere a una domanda così sconclusionata, ma Conte sì perché si era preparato il sermoncino e dice che lui mai si sarebbe permesso di parlarne “perché non voglio approfittare del mezzo televisivo”, ma poi ne approfitta.  E dice tre cose irrilevanti: che lui ne ha già parlato in una audizione (secretata) del Copasir, il comitato che vigila sui servizi segreti, che l’accordo tra l’istituto Spallanzani e il russo Gamaleya è dell’aprile 2021 (ma l’inchiesta di Casadio parte da fatti del marzo 2020) e che gli scienziati dello Spallanzani hanno condiviso con la comunità scientifica i dati sul sequenziamento del virus  del Covid.

Nessuna di queste informazioni c’entra con l’inchiesta di Casadio che ha ricostruito come la ricerca dello Spallanzani sul vaccino anti-Covid, partita a razzo nel marzo 2020, si interrompa di fatto dopo la strana missione militare russa voluta da Conte subito dopo la quale, guarda caso, i russi hanno il materiale genetico per iniziare a sviluppare il proprio vaccino farlocco, Sputnik V, mai autorizzato dalla Commissione europea o da altri paesi seri perché i russi non sono mai stati capaci di produrre evidenza scientifica a sostegno della sua efficacia.  

Conte dovrebbe spiegare cosa sono venuti a fare i russi, il fatto che la missione «non abbia travalicato l’ambito sanitario», come dice lui, è esattamente ciò che l’inchiesta di Casadio suggerisce: che il vero scopo fosse appunto mettere le mani sui campioni di virus che servivano per lavorare su Sputnik.

Niente di male a favorire la ricerca medica, specie durante una pandemia, ma come ha ricostruito Casadio qui si è subordinata la trasparenza della cooperazione internazionale in ambito scientifico alle esigenze di propaganda di Vladimir Putin, che con il fondo sovrano del governo era anche il primo investitore nel progetto Sputnik V.

Di questo dovrebbe parlare Conte, ma probabilmente non è consapevole di quello che i russi gli hanno fatto sotto il naso. All’epoca aveva la parziale giustificazione di essere molto impegnato a gestire l’emergenza ora che ha molto più tempo libero, potrebbe almeno premurarsi di leggere i giornali che intende querelare. Se poi volesse fare un confronto con domande vere, non quelle di Giletti, noi siamo sempre disponibili.

STEFANO FELTRIdirettore. Nato a Modena nel 1984. Ha studiato economia alla Bocconi con l’idea di fare il giornalista. Ha lavorato per la Gazzetta di Modena, Radio24, il Foglio, il Riformista e poi dal 2009 al Fatto Quotidiano, di cui è stato prima responsabile dell’economia e poi vicedirettore. Nell’estate 2019 si è trasferito negli Stati Uniti per lavorare e studiare alla University of Chicago - Booth School of Business, dove ha curato il sito ProMarket.org dello Stigler Center diretto dal professor Luigi Zingales. Ora è direttore di Domani.

Giuliano Foschini,Tommaso Ciriaco per “la Repubblica” il 2 aprile 2022.

Agostino Miozzo, allora membro del Comitato tecnico scientifico, ha raccontato: «Ci dissero che avevano carta bianca e intendevano sanificare tutti gli edifici, compresi quelli pubblici». «Sicuramente portarono nei territorio personale medico e attrezzature per la logistica. Ma provarono a fare anche altro e noi glielo impedimmo. Certo, che volessero cercare dati è assolutamente plausibile» ha spiegato invece l'ex capo di Stato maggiore, il generale Enzo Vecciarelli.

«Parliamoci chiaro », si è sfogato Luciano Portolano, che all'epoca guidava il Comitato operativo interforze, «quella missione era anomala da ogni punto di vista, ma quando lo segnalai venni preso per paranoico. Io l'avevo detto che era una cosa che non bisognava fare». 

Il racconto di alcuni dei protagonisti, sul fronte italiano, della spedizione "Dalla Russia con amore" - gli uomini arrivati da Mosca a marzo del 2020 per aiutare l'Italia, così aveva detto Vladimir Putin all'allora premier Giuseppe Conte, nella battaglia contro il Covid - ha convinto il Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza, che no, gli approfondimenti necessari sulla visita degli uomini di Mosca in Italia non erano da considerarsi chiusi. Così come lo stesso Conte aveva suggerito nei giorni scorsi dopo la sua audizione al Copasir.

Sono invece necessari ulteriori domande e approfondimenti. E per questo tra due settimane il Comitato ha deciso di ascoltare proprio Miozzo e i generali Vecciarelli e Portolano. Per sentire dalle loro voci cosa accadde in quei giorni. Che tipi di dubbi ebbero. E, soprattutto, se gli allora vertici della sicurezza nazionale presero, a partire dall'autorità delegata (il presidente Conte, per l'appunto) tutte le necessarie precauzioni per non mettere a rischio dati riservati per la sicurezza nostra e degli altri paesi Nato. 

Nella sua lunga audizione della scorsa settimana Conte si è detto sicuro di aver chiarito tutti i punti. In realtà tutti i membri del Comitato - su sollecitazione del segreta rio, il senatore Ernesto Magorno di Italia Viva - hanno ritenuto opportuno approfondire alcuni aspetti. L'ex premier ha spiegato, infatti, che fu lui a definire i dettagli dell'operazione con una telefonata con Vladimir Putin. Proprio alla vigilia di quel viaggio.

A Repubblica risulta che l'operazione fosse da tempo sul tavolo ma che dovesse riguardare soltanto l'invio di materiale sanitario: mascherine, dispositivi di protezione, ventilatori. Sabato 21 marzo ci fu invece una telefonata diretta tra i due presidenti e venne deciso l'upgrade. 

Nemmeno 24 ore dopo ventitré quadrireattori decollati da Mosca atterrarono, accolti con il tappeto rosso, in un aeroporto militare di un paese Nato. «Non esattamente una procedura standard» si lascia andare oggi una fonte. Anche perché quando i nostri uomini li videro sbarcare capirono immediatamente, dall'attrezzatura che trasportavano, che non si trattava di una visita di cortesia.

«Fummo sorpresi - ha detto al Foglio il generale Vecciarelli, che era lì sulla pista - e io per primo rimasi colpito dal dispiegamento di mezzi che scendevano dai velivoli russi. Non le nascondo che all'inizio ci fu anche una certa preoccupazione». La sensazione di Vecciarelli verrà confermata dagli uomini sul campo, che seguirono i russi passo passo. Il 7 maggio, poi, il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, interruppe la spedizione. Riducendo da circa 500 a 104 gli uomini russi arrivati in Italia. Il 7 maggio non era una data qualsiasi: i russi avevano appena annunciato di voler continuare il lavoro in Piemonte e in Puglia, dove c'era la base Nato di Amendola. Ma non fu consentito loro di sbarcare . 

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” l'1 aprile 2022.

La nomina di Francesco Vaia a direttore generale dell'Istituto Spallanzani - formalizzata ieri dalla Commissione sanità della Regione Lazio - cade in uno dei momenti più controversi della storia dell'Istituto. Specialmente per quel che riguarda i fatti accaduti da quando proprio Vaia fu nominato direttore generale "facente funzione" (ossia nel gennaio 2021). Da allora succedono molte cose nebulose. 

Vaia ha dichiarato che «nell'ambito della collaborazione con l'Istituto russo Gamaleya è stato effettuato uno studio di laboratorio, condotto su sieri di soggetti vaccinati in Russia con il vaccino Sputnik V, regolarmente importati secondo le procedure autorizzative del ministero della Salute, sull'effetto neutralizzante in vitro di Sputnik contro la variante Omicron. Studio concluso ben prima degli eventi bellici e per il quale i costi sostenuti dall'Istituto ammontano a poche migliaia di euro, essendo stati i costi relativi alle trasferte delle tre colleghe russe sostenuti dalle istituzioni russe». 

Ma secondo quanto risulta a La Stampa, tre ricercatrici russe erano già state allo Spallanzani nell'estate del 2021 e hanno condotto ricerche non solo su Omicron (che allora non c'era), ma testando neutralizzazioni dei ceppi virali Delta e Alfa con i sieri dei vaccinati russi. Dei risultati di quello studio non si sa più nulla, perché? 

Il direttore del dipartimento clinico, Andrea Antinori, ha ammesso nell'ottobre scorso in tv che furono fatte le prove di neutralizzazione del ceppo Delta, fornendo anche un dato sull'efficacia di Sputnik, «l'82 per cento rispetto all'88 di Pfizer, quindi un risultato molto buono». Di questa attività non esiste a oggi alcun riscontro scientifico (articolo, preprint, presentazione a convegni). Quelle tre russe non tornarono mai più allo Spallanzani.

Furono rimpiazzate. Da San Pietroburgo, per le prove su Omicron (avvenute nell'inverno 2021 a Roma) mandarono altre tre ricercatrici, diverse. Forse i risultati iniziali non erano piaciuti? 

Non è chiaro perché lo Spallanzani abbia continuato a testare l'efficacia dello Sputnik anche a dicembre scorso, quando era ormai certo non solo che Ema non aveva autorizzato il vaccino russo, ma anche che non lo avrebbe autorizzato. Lo Spallanzani ha ricevuto ieri una serie di nostre domande dettagliate, alle quali per ora non ha risposto. 

«La collaborazione è stata di natura puramente scientifica, del tutto scevra da qualsiasi considerazione di natura politica o di altra natura», dice il direttore scientifico Enrico Girardi. Eppure nel Memorandum firmato (aprile 2021) tra Spallanzani, assessorato alla sanità della Regione e i russi (Gamaleya e Fondo russo) si legge anche che i test sarebbero stati fatti in vista della «integrazione di Sputnik V nella campagna vaccinale italiana»: come poteva lo Spallanzani dire questo, che è cosa di competenza esclusivamente governativa?

Ieri Roberto Speranza ha scaricato completamente quell'accordo coi russi, quando ha precisato che «rientra tra le iniziative autonome di collaborazione internazionale dei nostri istituti di ricerca, ed è stato comunque sospeso». 

Invece l'assessore alla sanità regionale, Alessio D'Amato, il primo marzo 2021, pretendeva addirittura che Ema si sbrigasse: «Su Sputnik l'Ema acceleri le procedure. O intervenga l'Aifa», tuonava. «Si sta chiedendo di evitare le pastoie burocratiche. Sarebbe utile che Aifa prendesse in esame la possibilità di autorizzare in emergenza il vaccino Sputnik V».

«La collaborazione con i russi non ha comportato alcun trasferimento di dati personali», assicura ora lo Spallanzani. Solo i ceppi virali dell'Istituto sono stati usati dai russi: ma per quale motivo darglieli visto che le sequenze dei virus isolati sono disponibili su database internazionali (tipo Gisaid) pubblicamente disponibili? 

Pfizer e Moderna hanno sviluppato il loro vaccino sulla base della sequenza del virus isolato a Wuhan e caricato su Gisaid nel gennaio 2020. I russi invece l'hanno sequenziato a partire dal virus contratto da un russo che si era ammalato in Italia il 15 marzo. E da lì nacque Sputnik, nei giorni esatti della missione "Dalla Russia con amore".

Dopo la nomina di Vaia a "dg facente funzione" è impressionante l'esodo dallo Spallanzani di dirigenti, ricercatori, personale in posizione apicale. Situazioni certo diverse, ma un patrimonio inestimabile di talenti che l'istituto viene a perdere. Escono, con diverse ragioni ma escono, Marta Branca, direttore generale, Giuseppe Ippolito, direttore scientifico, Roberto Noto, direttore amministrativo, Nicola Petrosillo, responsabile del dipartimento clinico, Maria Rosaria Capobianchi, responsabile del dipartimento preclinico e direttore del laboratorio di virologia, Antonino di Caro, responsabile del laboratorio di microbiologia, Roberta Nardacci, responsabile della microscopia elettronica, Alessia de Angelis, responsabile degli infermieri.

E Concetta Castilletti, responsabile dell'Unità Virus emergenti, la donna che assieme a Capobianchi e a Francesca Colavita aveva isolato il coronavirus nel gennaio 2020. Vaia ha anche precisato - a proposito dell'offerta di 250 mila euro fatta a un dirigente dell'Istituto da parte di funzionari di stato russi (l'offerta, rivelata da La Stampa, fu rifiutata dal dirigente) - «per quanto mi risulta, attraverso le informazioni acquisite, non fu sporta alcuna denuncia. Ove emergessero elementi anche di solo sospetto, non esiterei ad intraprendere tutte le azioni legali a tutela dell'Istituto». Che non ci sia una denuncia non significa naturalmente che il fatto non sia stato segnalato alle autorità competenti.

Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” il 31 marzo 2022.

«Visti con le lenti di oggi, quegli incontri con la delegazione russa sembrano sospetti. In Italia stava nascendo l'asse gialloverde e può essere che a Mosca cercassero un contatto per avere informazioni sulle politiche energetiche del nostro Paese. E sarò sincera, in convegni così, tanti russi insieme, con ruoli importanti, non li avevo mai visti».

A parlare è Pinuccia Montanari, assessora all'Ambiente nella giunta di Virginia Raggi dal 2016 al 2019. 

Nel giorno in cui l'ex sindaca prova a smarcarsi dalle accuse di filo-putinismo, dopo avere rilanciato nelle chat grilline post e video in cui il governo ucraino viene bollato come «eterodiretto da Usa e Ue» e sostenuto da «battaglioni nazisti», l'ex assessora, vicina a Beppe Grillo, rivela i dettagli di due incontri con una delegazione del governo di Mosca nel 2018. Il primo a fine aprile, mentre si formava l'asse Lega-M5S; il secondo a inizio settembre, quando il Conte I era già operativo da 3 mesi. 

È questo il clima quando, il 20 e 21 aprile 2018, in Campidoglio vengono ricevuti Anton Kulbachevskiy, capo del Dipartimento russo per la gestione delle risorse naturali e l'ambiente, e la sua vice Evgeniya Semutnikova. Sono gli unici rappresentanti di uno Stato estero, a parte il Vaticano, nel convegno organizzato da Raggi e Icef (International Court of the Environment Foundation). Come ricorda Amedeo Postiglione, direttore dell'Icef, «fu la delegazione russa a proporsi. 

Nelle riunioni preparatorie, il Campidoglio aveva ipotizzato di aprire l'evento anche a rappresentanti russi. E a Mosca si mostrarono interessati, anche rispetto ad altri paesi che invitammo, ma poi non furono presenti». La visita a Roma fu ricambiata con un invito in Russia pochi mesi dopo. Il 6 e 7 settembre, Montanari partì alla volta di Mosca per partecipare al "Climate Forum of Russian Cities". «Eravamo costantemente controllati, perfino se salissimo sulla macchina giusta - ricorda Montanari - Durante un colloquio con una giornalista non autorizzata, mi si avvicinarono 4 signori per fermarmi.

Erano dei servizi, credo». Montanari - che ci tiene a sottolineare: «Sto con Zelensky » - avvalora il sospetto che da parte russa potessero esserci all'epoca altri interessi, «ma noi ci occupammo solo di clima, c'erano anche delegazioni di altre città europee». Racconta un altro ex assessore, che chiede l'anonimato: «Non attribuirei certo a Raggi complotti con Mosca. Semplicemente, le relazioni internazionali del Campidoglio erano tutte improvvisate». 

È possibile che qualcuno, fuori, se ne sia approfittato, contando sul fatto che in quel momento sindaco e premier fossero dello stesso partito? Raggi rigetta l'etichetta: «Non sono filo-putiniana: in Ucraina c'è un aggressore, la Russia », scrive sui social dopo la pubblicazione della chat. Che conferma: «Ho condiviso le analisi sulle tensioni tra Russia e Ucraina che aveva fatto, fin dal 2014, l'ex parlamentare Ue Tamburrano», poi suo collaboratore in Comune. A qualcuno, in Campidoglio, la risposta non basta. Carlo Calenda chiede di sfiduciare Raggi dalla presidenza della Commissione Expo 2030. Iv, con Luciano Nobili e altri, già raccoglie le firme. Il Pd è in imbarazzo: «Raggi chiarisca».

Francesco Verderami per il “Corriere della Sera” il 31 marzo 2022.

Il caso della missione russa in Italia ai tempi del Covid non è chiuso, anzi deve ancora aprirsi. Fonti qualificate della Difesa e dell'Intelligence rivelano che nel marzo del 2020 è stata evitata un'azione di spionaggio da parte di Mosca, i cui obiettivi erano le basi dell'aeronautica militare di Ghedi in Lombardia e di Amendola in Puglia. 

Il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica è pronto ad approfondire quanto accadde «prima durante e dopo» l'accordo tra l'allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte e Vladimir Putin, che nei giorni più drammatici della pandemia offrì assistenza sanitaria a Roma tranne poi inviare solo 28 medici, 4 infermieri e ben 72 militari, molti dei quali appartenenti al servizio segreto delle Forze Armate russe.

La scorsa settimana, nell'intervista a Fiorenza Sarzanini per il Corriere della Sera , Conte aveva respinto «dubbi e insinuazioni», spiegando che «i direttori delle Agenzie di intelligence Aise e Aisi hanno assicurato che non c'è mai stata attività impropria» da parte dei russi. Tesi ribadita davanti al Copasir. 

Ma proprio un esponente del Copasir, Enrico Borghi, membro della segreteria pd, in una dichiarazione all'Eco dell'Ossola ha commentato: «È per l'impegno della nostra sicurezza se quella missione ha avuto un esito non problematico. Dire che non ci sono stati problemi, infatti, non significa che non ce ne sarebbero potuti essere. E se non ce ne sono stati è perché c'è stato chi li ha evitati».

Così si torna ai due mesi in cui la colonna militare con le insegne della Federazione iniziò a scorrazzare per la Lombardia. Secondo il New Yorker , grazie a quella spedizione Mosca avrebbe elaborato il vaccino Sputnik, ricavandolo dal Dna di un cittadino russo ammalatosi di Covid in Italia. In ogni caso c'è (molto) altro. Al convoglio inviato da Putin venne assegnata una scorta di militari italiani. 

A deciderlo fu il generale Luciano Portolano, che all'epoca guidava il Comando Operativo Interforze e aveva avuto uno scontro con il generale Sergej Kikot, capo della missione «Dalla Russia con amore». Dinnanzi alle insistenze di Kikot, che sosteneva di potersi muovere «su tutto il territorio italiano» in base a un «accordo politico di altissimo livello», Portolano rispose altrettanto duramente: «Qui siamo in Italia e si fa come (bip) dico io». Il comandante del COI - raccontano più fonti della Difesa - stabilì le regole d'ingaggio, in base alle quali i russi si sarebbero dovuti mantenere «ad almeno cinquanta chilometri dai siti sensibili».

Le stesse fonti rilevano come Portolano, in successivi colloqui operativi della Difesa, avesse paventato i rischi di un'operazione ibrida. Il primo indizio si ebbe quando i russi proposero di sanificare un'area del bresciano nelle vicinanze di Ghedi. Lì c'è una base dell'aeronautica militare italiana - nella quale opera il 61.mo Stormo - che nei piani dei sovietici ai tempi della Guerra Fredda era considerata un obiettivo da distruggere, perché in una parte riservata all'aviazione statunitense sarebbero state custodite una dozzina di bombe nucleari. La richiesta di Kikot venne ovviamente respinta, mentre alla Difesa saliva l'insofferenza verso «gli ospiti».

Già il titolare del dicastero, Lorenzo Guerini, non aveva accettato di buon grado la missione di Mosca e aveva ridotto da 400 a 104 unità il suo contingente. A maggio decise di rimandare tutti a casa. Accadde dopo che i russi chiesero di spostarsi in Puglia, regione a loro assai cara perché - questa fu la tesi - è la terra di san Nicola, venerato anche dagli ortodossi, al punto che Putin donò una statua del santo e la fece porre davanti alla basilica di Bari. Le motivazioni religiose furono il secondo (e decisivo) indizio che l'obiettivo di Kikot non fosse quello di sanificare il territorio.

A parte il fatto che l'epicentro della pandemia continuava a essere la Lombardia, e che in Puglia i casi di Covid erano limitati, proprio in quella zona c'era un altro «sito sensibile»: Amendola, il maggior aeroporto militare italiano, dov' è di stanza il 32.mo stormo con le macchine tecnologicamente più avanzate. Gli F-35. Era il momento di dire ai russi «dasvidania». Non è ancora il momento di dire che il caso è chiuso.

"Si fa come c... dico io". Così il generale paralizzò i russi in Italia. Federico Garau l'1 Aprile 2022 su Il Giornale.

Proseguono le ipotesi sulla missione russa in Italia. Da un lato viene garantito che l'operazione fu svolta in sicurezza, dall'altro ci sono fonti che alimentano i sospetti.  

Si torna a parlare della missione russa in Italia, avvenuta lo scorso marzo 2020, quando il nostro Paese stava cercando da solo di affrontare i primi effetti della diffusione del Sars-Cov-2. Viene ancora esaminato il ruolo ricoperto dai russi entro i nostri confini nazionali e, secondo quanto riportato da Il Corriere, alcune fonti della Difesa e dell'Intelligence italiana ribadirebbero il fatto che all'epoca fu evitato un tentativo di spionaggio.

In particolare, stando sempre alle fonti citate dal Corriere, gli obiettivi sarebbero stati le basi dell’aeronautica militare di Ghedi in Lombardia e di Amendola in Puglia. Da qui la decisione del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica di proseguire con le indagini.

Interpellato più volte sull'argomento, anche solo per il fatto di essere stato lui, in quanto premier, a prendere accordi con il presidente Vladimir Putin all'epoca, Giuseppe Conte ha respinto ogni insinuazione o dubbio sulla questione, ribadendo anche al Corriere che "i direttori delle Agenzie di intelligence Aise e Aisi hanno assicurato che non c’è mai stata attività impropria" da parte dei russi. La stessa tesi è stata riportata anche dinanzi al Copasir. E allora perché oggi si parla addirittura di spionaggio?

Ad alimentare i sospetti è stato Enrico Borghi, membro della segreteria del Partito Democratico, che all’Eco dell’Ossola ha dichiarato: "È per l’impegno della nostra sicurezza se quella missione ha avuto un esito non problematico. Dire che non ci sono stati problemi, infatti, non significa che non ce ne sarebbero potuti essere. E se non ce ne sono stati è perché c’è stato chi li ha evitati". Anche il New Yorker fa delle insinuazioni, andando ad affermare che i russi sarebbero riusciti a mettere a punto il vaccino Sputnik grazie alla loro spedizione in Italia.

Di certo sappiamo che ai russi arrivati nel nostro Paese fu assegnata una scorta di militari italiani, come disposto dal generale Luciano Portolano, a quel tempo alla guida del Comando Operativo Interforze. Il Corriere parla di uno scontro fra lui ed il generale Sergej Kikot, capo della delegazione russa. Stando a certe ricostruzioni, Kikot avrebbe voluto muoversi su tutto il territorio italiano in base a un "accordo politico di altissimo livello", ma il generale Portolano si oppose. "Qui siamo in Italia e si fa come (bip) dico io", sarebbe stata la sua risposta. Ai russi, dunque, fu imposto di stare "ad almeno cinquanta chilometri dai siti sensibili".

Le fonti citate dal Corriere, infine, riportano che il generale Portolano aveva paventato i rischi di un'operazione definita come "ibrida". Fra i sospetti, il fatto che i russi avessero proposto di sanificare un’area del bresciano nei pressi di Ghedi, dove si trova la base dell’aeronautica militare italiana in cui opera il 61.mo Stormo. Ai russi fu impedito di procedere, mentre la Difesa italiana cominciava a manifestare un certo nervosismo.

Poi fu la volta della Puglia, dove la delegazione russa chiese di svolgere un'operazione di sanificazione. Nella Regione si trova Amendola, il maggior aeroporto militare italiano in cui opera il 32.mo stormo. Fu allora che, stando a certe ricostruzioni, Lorenzo Guerini, rappresentante Pd e ministro della Difesa, decise di far tornare a casa i russi. Guerini non ha mai fatto mistero delle proprie idee relative alla missione russa in Italia, fin dall'inizio decise di intervenire, facendo ridurre le unità dalle 400 iniziali a 104.

Il mistero delle sei scienziate russe allo Spallanzani. Luca Sablone l'1 Aprile 2022 su Il Giornale.

I forti timori sulle sei ricercatrici russe: possono aver carpito informazioni riservate? Il sospetto: "In tre furono rimpiazzate. Mosca era delusa dai risultati iniziali?"

La missione anti-Covid promossa dalla Russia in favore dell'Italia continua a impregnarsi di perplessità, dubbi e sospetti. Da Mosca sono arrivati aiuti sanitari al solo scopo di sostenere il nostro Paese contro l'emergenza Coronavirus che stava dilagando o dietro c'era un secondo (ma primario) obiettivo? Domande che dividono il mondo della politica, tra chi scommette sulla bontà russa e chi non esclude addirittura l'ipotesi spionaggio nonostante le smentite e la rassicurazioni del caso.

Ma a tutto ciò si aggiunge un'altra questione, relativa all'accordo siglato il 13 aprile 2021 tra l'ospedale Spallanzani di Roma e il centro di ricerca Gamaleya di Mosca. Si tratta di uno dei centri storici per la ricerca scientifica in Russia che svolge la sua attività sin dal 1891: tra le altre attività svolge quella di sviluppare mezzi per la terapia e prevenzione delle infezioni virali e batteriche.

Fuga di dati?

Si è arrivati a un memorandum d'intesa su cooperazione scientifica e scambio di materiali e conoscenze. Le parti hanno raggiunto un accordo, decidendo collaborare in una serie di settori cruciali. Tra questi rientrano due punti chiave: la pianificazione congiunta e conduzione di studi clinici con l'impiego del vaccino Sputnik V "ivi compresi studi di combinazione con altri vaccini contro il Covid-19", oltre che "testare l'efficacia del vaccino in singoli gruppi della popolazione o sottogruppi specifici" e nella diffusione di nuovi ceppi. A darne notizia ufficiale era stata l'Ambasciata della Federazione Russa in Italia.

Dunque i lavori sullo Sputnik sono andati avanti ed è proprio questa la fonte di principale preoccuppazione: le sei ricercatrici russe possono essere entrate in possesso di informazioni riservate? La direzione dell'ospedale tiene a precisare che tutto è stato regolare. Una voce di conforto arriva anche da Alessio D'Amato, assessore regionale del Lazio, secondo cui "non c'è stata alcuna violazione o fuga di dati" anche perché il lavoro "mirava soltanto ad avere maggiori competenze per combattere la pandemia".

La sperimentazione

Il Corriere della Sera riporta le parole del professor Andrea Antinori: il direttore del Dipartimento clinico e di ricerca ha fatto sapere che sì sono stati effettuati studi sullo Sputnik, ma che "non c'è stata alcuna sperimentazione perché non è arrivata l'approvazione". Anche lui ha tenuto a garantire che "nessun dato sensibile è stato reso noto" poiché ci si è limitati ad acquisire una serie di informazioni per la ricerca "che saranno oggetto di pubblicazioni e condivisioni, proprio come accaduto con altri Paesi".

Secondo quanto risulta a La Stampa, tre ricercatrici russe sarebbero già state allo Spallanzani nell'estate del 2021 "e hanno condotto ricerche non solo su Omicron (che allora non c'era), ma testando neutralizzazioni dei ceppi virali Delta e Alfa con i sieri dei vaccinati russi". L'articolo a firma di Jacopo Iacoboni chiede conto dei risultati di quello studio: "Quelle tre russe non tornarono mai più allo Spallanzani. Furono rimpiazzate. Da San Pietroburgo, per le prove su Omicron (avvenute nell'inverno 2021 a Roma) mandarono altre tre ricercatrici, diverse. Forse i risultati iniziali non erano piaciuti?".

Incontri e viaggi

Stando a quanto riferito dal Corriere della Sera, nel documento si parlerebbe di contatti spontanei tra i due istituti che, nel corso del tempo, "hanno dato vita a incontri periodici". Motivo per cui sarebbe stato previsto "di programmare viaggi di professionisti esperti" che avrebbero potuto "partecipare operativamente alle attività di ricerca in modo da promuovere un proficuo scambio di conoscenze teoriche e pratiche".

Ieri il ministro della Salute Roberto Speranza, rispondendo a un'interrogazione al Senato, ha dichiarato che l'accordo di collaborazione (oggi sospeso) tra l'Istituto Gamaleya di Mosca e l'Inmi Spallanzani di Roma "rientra tra le iniziative autonome di collaborazione internazionale dei nostri istituti di ricerca". Per questo motivo ritiene "che la vicenda vada ridimensionata".

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 31 marzo 2022.

Lo «scambio di conoscenze Nicola Marfisi / AGF » non è mai avvenuto: i ricercatori di Mosca sono stati in Italia, quelli dello Spallanzani non hanno mai messo piede al Gameleya. Pur non avendo alcuna autorizzazione, né da Ema né da Aifa, si era immaginata una somministrazione di Sputnik in Italia, «al fine - si legge nel memorandum - di dimostrare l'efficacia e la sicurezza» del vaccino russo finanziato dal Fondo russo per gli investimenti diretti.

Infine, ma non per ultima, una strana coincidenza: subito dopo l'avvio del protocollo due dei più importanti dirigenti dello Spallanzani, la professoressa Maria Capobianchi, la donna che per prima ha isolato il Covid in Italia, e Nicola Petrosillo, l'infettivologo che ha curato i primi pazienti Covid, sono andati via. Anticipando la loro pensione. In polemica per la questione Sputnik, dicono alcuni. «Nessun commento», rispondono loro. 

La storia della sperimentazione - che poi sperimentazione non era - dello Sputnik in Italia, sulla base di un accordo firmato l'8 aprile del 2021 tra l'istituto Spallanzani di Roma e l'istituto Gamaleya di Mosca diventa sempre più un caso politico.

Perché se l'assessore alla Sanità, Alessio D'Amato, che ieri ha visto Franco Gabrielli, autorità delegata per la sicurezza in Italia, e che di quell'accordo è stato sponsor e firmatario, oggi rassicura tutti parlando di compattezza all'interno dell'istituto, «e della massima fiducia nel più importante Istituto di Malattie Infettive italiano», in realtà i punti ancora da chiarire sono molti. Tanto che al Copasir non escludono che sia necessario occuparsene. 

Ieri Repubblica ha raccontato come il memorandum prevedesse, tra le altre cose, che i russi potessero accedere «alle banche biologiche dell'Unione europea per gli agenti virali», che lo Spallanzani conserva. E come all'interno di quelle banche dati ci fosse anche materiale delicato per i paesi Nato, con gli studi su eventuali sieri contro le armi batteriologiche. 

I russi hanno avuto accesso a quei dati?

«Nulla di riservato è stato condiviso », assicura il direttore sanitario, Francesco Vaia, che nelle prossime ore dovrebbe essere nominato dalla Regione direttore generale nonostante la bufera. Ma non ci sono registri delle attività o documenti che possano testimoniare l'attività dei russi. Nessuno sa cosa hanno visto.

E cosa hanno preso. C'è altro, però. 

Nel memorandum era previsto un rapporto di reciprocità di informazioni. Che invece non c'è stato. Nessuno dello Spallanzani è stato a Mosca, nonostante fosse espressamente previsto. Di più: a leggere il memorandum appare chiaro che era stata prevista anche la possibilità di sperimentare lo Sputnik in Italia, con tre pianificazioni di studi clinici previste. Su campioni prima di 50-100 persone, poi di tremila fino a «grandi numeri». Tutto questo nonostante gli enti che avrebbero dovuto rilasciare le autorizzazioni non hanno mai aperto allo Sputnik. «Se non lo farà l'Europa, lo farà l'Italia. 

E sono non lo farà l'Italia lo farà il Lazio» diceva l'8 marzo l'assessore D'Amato, un mese prima di firmare il memorandum con Kirill Dmitriev, il direttore generale del Fmi, oggi in black list europea. E proprio la velocità con cui i dirigenti dello Spallanzani, meglio alcuni di essi, hanno avviato la collaborazione con Mosca ha colto di sorpresa molti all'interno dello stesso istituto. Ieri si è detto della pensione anticipata della professoressa Capobianchi.

Che gestiva i laboratori dove, a un certo punto, Vaia fece arrivare dosi di Sputnik da analizzare prese a San Marino. Stessa scelta fatta un anno fa, proprio nello stesso periodo, dal professor Petrosillo. L'infettivologo che aveva curato i primi malati. Perché professore ha scelto di andare in pensione un anno prima? Ha influito la vicenda Sputnik? «Sulla collaborazione con i russi non sono mai stato consultato. Leggevo sui giornali, mi dicevano che c'erano russi in istituto, ma nonostante fossi un capo dipartimento nessuno aveva ritenuto opportuno informarmi. Né mi è stato chiesto di condividere dati sui pazienti. Tutto nella regola, sia chiaro». È andato via per questo? «Non ho altro da dire ».

Inchiesta sull'ospedale Spallanzani, l’intesa con Mosca spinse all’addio due alti dirigenti. Giuliano Foschini e Clemente Pistilli su La Repubblica il 31 Marzo 2022. 

La storia della sperimentazione — che poi sperimentazione non era — dello Sputnik in Italia, sulla base di un accordo firmato l’8 aprile del 2021 tra l’istituto Sdi Roma e l’istituto Gamaleya di Mosca diventa sempre più un caso politico.

Lo "scambio di conoscenze" non è mai avvenuto: i ricercatori di Mosca sono stati in Italia, quelli dello Spallanzani non hanno mai messo piede al Gameleya. Pur non avendo alcuna autorizzazione, né da Ema né da Aifa, si era immaginata una somministrazione di Sputnik in Italia, "al fine — si legge nel memorandum — di dimostrare l’efficacia e la sicurezza" del vaccino russo finanziato dal Fondo russo per gli investimenti diretti.

Estratto dell'articolo di Clemente Pistilli e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 30 marzo 2022.

Cosa hanno consultato i ricercatori dell'istituto Gamaleya di Mosca, gli uomini del vaccino Sputnik, nei database dell'istituto Spallanzani di Roma? Hanno preso le cartelle cliniche dei pazienti ammalati di Covid, studiato i 120 ceppi conservati per sviluppare il vaccino come avevano dichiarato?

O hanno invece avuto anche accesso all'intera banca dati dell'Istituto nazionale per le malattie infettive che contiene, tra le altre cose, le ricerche sui sieri da utilizzare in caso di armi batteriologiche? Registri, tra l'altro, condivisi con i paesi della Nato?

Senza girarci troppo attorno, è questa la domanda che rimbalza in Italia e in molti paesi alleati. Una domanda la cui risposta reale sarà difficilissima da ottenere. Perché non ci sono registri di accesso, non c'è alcuna corrispondenza ufficiale, non ci sono relazioni sul lavoro svolto dai russi in Italia. Niente. 

C'è soltanto la certezza che i russi erano dentro lo Spallanzani - come ha raccontato Repubblica Roma - e una serie di punti interrogativi che partono da una data: l'8 aprile del 2021.

Quella mattina l'istituto romano firma un accordo di cooperazione scientifica con il Gamaleya, il suo omologo russo. A gestire l'operazione è Francesco Vaia, potentissimo direttore sanitario dell'istituto dal curriculum giudiziario accidentato - agli atti parlamentari c'è per esempio un'interrogazione del Movimento 5 Stelle che chiede come mai un soggetto «pluricondannato per reati di corruzione e doveri di atti d'ufficio, poi prescritti» e con una condanna anche della Corte dei Conti potesse ricoprire incarichi pubblici - ma dalle grandissime relazioni.

Vaia crede da subito alla bontà dell'operazione russa, tanto da spingerla con l'assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato. È il momento in cui, mentre i dati di Pfizer e Astrazeneca sono comunque confortanti, in Italia si alzano più voci a favore di Sputnik. 

C'è quella dello Spallanzani, appunto. E fortissima quella di Matteo Salvini che cita come esempio virtuoso la sperimentazione di San Marino. Risultato: viene di fatto accantonato la strada italiana al vaccino, nonostante i risultati buoni che stavano avendo le prime sperimentazioni su Reithera.

Si diceva, il memorandum. Nell'accordo lo Spallanzani si impegna a uno scambio di materiale biologico con Gamaleya, nel quadro di un accordo in cui noi dovremmo condividere i dati sui pazienti e i russi i risultati sul vaccino. Ricercatori di Mosca arrivano in Italia e accedono alla banca dati. Per fare cosa, non si sa. «Per quanto ci riguarda - dice Vaia oggi a Repubblica - il rischio di trasferimento di dati sensibili è pari a zero».

Lo dice con la certezza dell'indicativo. Ma chi ha cominciato a guardare i termini di quell'accordo ha qualche dubbio. Non fosse altro - così come accaduto per la spedizione a Bergamo - che nessuno sa cosa abbiano fatto effettivamente i ricercatori. Perché nessuna informazione da parte loro è stata condivisa.

Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 29 marzo 2022.

A maggio 2020, due mesi dopo l'opaca operazione «Dalla Russia con amore » , il Copasir lanciò l'allarme sulle politiche portate avanti da Mosca sull'onda dell'emergenza Covid. «L'obiettivo - sostenne il Comitato - è quello di creare sfiducia nei governi occidentali, nei loro sistemi sanitari e nel settore scientifico». 

Dopo l'annuncio fatto da Vladimir Putin della realizzazione di un vaccino contro il virus da parte del Centro Gamaleja, lo Sputnik V, e sulla scorta di un articolo pubblicato sempre quell'anno dalla rivista scientifica Lancet sull'efficacia di quel farmaco, nonostante non ci fosse e non sia mai arrivata l'autorizzazione dell'Ema, lo stesso assessore regionale alla sanità Alessio D'Amato e il direttore dello "Spallanzani", Francesco Vaia, sono però diventati i principali sponsor proprio del vaccino russo.

Una storia andata avanti per un anno e che, dopo la crisi che si è aperta con la guerra in Ucraina, vale la pena ripercorrere. A novembre 2020 sempre il Copasir indicava il Fondo sovrano russo, detentore del brevetto di Sputnik, « un veicolo per la penetrazione economica russa in Italia». 

Ma a quanto pare non era abbastanza per frenare gli entusiasmi. A febbraio dello scorso anno dallo Spallanzani arrivò un parere tecnico- scientifico sul vaccino di Mosca, riproducendo di fatto i contenuti dello studio pubblicato su Lancet. E nel marzo successivo il dem D'Amato iniziò a premere affinché venisse autorizzato il prima possibile, specificando che il Lazio era pronto ad acquistarlo e chiedendo al Governo di valutare l'opportunità di produrlo in Italia.

L'assessore e Vaia, il 23 marzo 2021, presero anche parte a un convegno per spiegare la bontà di quel vaccino, insieme all'ambasciatore Sergey Razov, lo stesso della denuncia della settimana scorsa a La Stampa. Ad aprile si arrivò così alla firma di un memorandum tra lo Spallanzani e il Gamaleya per la sperimentazione. 

Diversi scienziati sollevarono perplessità, ma vennero sostanzialmente ignorati. I vaccini adenovirali come Sputnik erano tra l'altro già stati abbandonati in Italia ma, mentre lo stesso Spallanzani si sfilava di fatto dalla sperimentazione su quello italiano di ReiThera, andava avanti con Mosca. A luglio 2021 sempre D'Amato rilanciò, sostenendo che non riconoscere il farmaco del Gamaleya stava creando danni al turismo.

Si arrivò così al gennaio scorso, quando venne annunciata la pubblicazione di un preprint dello studio condotto dallo Spallanzani sull'efficacia di Sputnik V anche contro Omicron, posizione ugualmente criticata da parte della comunità scientifica. Perché insistere su un farmaco che se pure arrivasse l'autorizzazione non verrebbe utilizzato in Italia e al massimo verrebbe prodotto sul suolo nazionale per poi farlo esportare ai russi in altri Paesi? L'interrogativo resta senza risposta. 

La guerra intanto ha tolto la Regione da una situazione che ormai si stava facendo imbarazzante. Ancor di più dopo le dichiarazioni dell'immunologa Antonella Viola che, bocciato Sputnik, ha detto di aver ricevuto una strana telefonata «di una persona che disse di essere del Ministero degli Interni e che voleva informazioni

Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 29 marzo 2022.  

Il memorandum firmato lo scorso anno per la sperimentazione di Sputnik non è stato solo un accordo tra due istituti scientifici come lo Spallanzani e il Gamaleja. Quel documento porta anche le firme dell'assessore regionale dem alla sanità Alessio D'Amato e del direttore del Fondo sovrano russo, Kirill Dmitriev, uno degli oligarchi ora colpiti dalle sanzioni. Un fatto insolito in situazioni del genere.

Venne inoltre deciso di mettere a disposizione dei russi l'ampia banca dati dell'Istituto nazionale per le malattie infettive e venne garantito che ogni passaggio nell'attività sarebbe stato adeguatamente finanziato, cercando anche insieme, Roma e Mosca, finanziamenti a livello nazionale e internazionale. 

«In una montagna di cose vaghe, come del resto accade con i memorandum di questo tipo, la sensazione finale è che si tratti di un escamotage per far arrivare ai pazienti italiani lo Sputnik, che non è stato ancora autorizzato ma che può appunto arrivare tramite un programma di ricerca», dichiarò subito Enrico Bucci, professore della Temple University di Philadelphia.

Tanti gli interrogativi, a cui dal 26 luglio scorso sta cercando, seppure invano, di ottenere risposta pure il capogruppo di Fdi alla Regione Lazio, Fabrizio Ghera. L'esponente di Fratelli d'Italia, considerando i silenzi davanti alla sua interrogazione, ne ha così presentata ora una seconda, chiedendo perché la Regione abbia abbandonato ReiThera per dedicarsi alla sperimentazione di Sputnik, cosa intenda fare per far luce sulle pressioni che sarebbero state esercitate nei confronti dell'Istituto Spallanzani da parte di funzionari russi, quali risorse pubbliche siano state destinate alla sperimentazione del vaccino russo e quali siano i dati e i risultati scientifici di quel lavoro.

L'esponente di Fratelli d'Italia tocca infine un nervo scoperto. E' quello dell'uso che ora la Russia può fare dei dati sanitari acquisiti in Italia. « Nonostante le mie sollecitazioni - specifica infatti Ghera, denunciando da parte della giunta Zingaretti scarsa trasparenza e carenza di informazioni - dalla Regione Lazio non è arrivato alcun chiarimento, né sull'entità dei fondi stanziati per la collaborazione con l'istituto russo, né sullo scambio di dati scientifici e sanitari, né sull'eventuale presenza e attività di personale russo nelle strutture di ricerca e cura regionali durante la pandemia».

La sceneggiata russa. La querela dell’ambasciatore di Putin alla Stampa sembra una messinscena alla Borat. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 28 Marzo 2022.

È improbabile che il diplomatico di Mosca abbia davvero sporto querela a Piazzale Clodio, dove ha convocato la conferenza stampa, perché da due anni si fanno soltanto telematicamente.

Sono passati trentuno anni da quando l’Italia fece la conoscenza di Maurizio Cocciolone, capitano di aviazione, e del suo secondo Daniele Bellini, precipitati nel deserto del Kuwait durante una missione militare e catturati dall’esercito di Saddam Hussein.

Il leader iracheno pensò bene di terrorizzare l’Italia trasmettendo il filmato dell’ufficiale con un occhio pesto che farfugliava inviti alla pace.

Bastò quello ad originare un vivace movimento di protesta pacifista alla cui testa si mise addirittura Emilio Fede che aveva colto lo scoop della guerra al volo, mentre circolava anche un remix delle frasi del prigioniero battezzato «my name is Cocciolone».

Come andò a finire la guerra e la vicenda dei due militari è cosa nota: l’esercito di Saddam, il Feroce Saladino, si dissolse in pochi giorni e i due italiani tornarono incolumi, accolti ovviamente come eroi.

Il ricordo di quell’inaspettata disfatta e dello psico-dramma del pacifismo italiano mi è tornata in mente diverse volte in questo periodo di guerra in Ucraina.

Allora il terrore degli Alessandro Orsini dell’epoca (intesi come i predecessori dell’ormai popolare professore) era l’arsenale batteriologico e chimico che Saddam aveva largamente impiegato nella guerra dell’anno precedente contro l’Iran. In realtà non l’usò mai, neanche quando gli americani invasero il Paese nel 2002 dopo le stragi dell’11 settembre 2001.

A disarcionare la potenza americana non furono le armi di distruzione di massa, ma le forbicine con cui i terroristi si impadronirono degli aerei che schiantarono contro le torri del World Trade Center a New York e al Pentagono, e poi la guerriglia dinamitarda dei Talebani in Afghanistan.

Oggi il mondo è tornato a tremare (leggete pure le cronache dal Kuwait, le previsioni catastrofiche, ben altro è arrivato): mentre si paventa l’olocausto nucleare, la cronaca dai campi di battaglia ci rimanda immagini di un esercito russo brutale ma rallentato da uno meno numeroso, ma meglio motivato.

Secondo La Repubblica, durante un vertice romano delle agenzie di intelligence americane ed europee si è arrivati alla conclusione che le risorse belliche della Russia sono sufficienti ancora per un mese.

Sarà vero? Non saprei dire, certo c’è un episodio che da avvocato mi fa sorgere un serio dubbio: la querela presentata dall’ambasciatore russo Razov contro il quotidiano La Stampa, colpevole di aver ipotizzato nientemeno che il possibile assassinio dell’amato leader Putin.

La cronaca racconta che il diplomatico ha improvvisato una conferenza davanti all’ingresso del principale del Tribunale di Roma dove si sarebbe recato a depositare l’atto. Una cornice disadorna di un giardinetto triste, dove sono soliti presenziare i querelomani che si lamentano delle ingiustizie dei tribunali ai loro danni, ha fatto da sfondo alle minacce e agli insulti di Razov al giornale di Torino.

Lungi dal voler svilire la drammaticità del momento, da modesti praticoni del diritto ed esperti della realtà giudiziaria romana tocca osservare che la visita di Razov a piazzale Clodio sembra più che altro una messinscena degna di Borat Sadgyev, l’immaginario giornalista del Kazakistan ideato da Sacha Baron Cohen.

Il punto è che da circa due anni querele e denunce si possono inoltrare solo ed esclusivamente per via telematica su di un apposito portale del Ministero di giustizia italiano sicché l’idea di Razov che vagola nei corridoi del disadorno palazzone alla disperata ricerca di un’anima buona di burocrate disposto a raccogliere la querela ha una sua forte comicità da farsa italiana («la querela? Embé, nun cio’ sai che la devi manna’ sur portale, a Razov macchestaiaddi’?»), ma appare improbabile.

La Procura di Roma col riserbo che la contraddistingue non ha confermato, ma diciamo che siamo in grado di tranquillizzare Giannini e il gruppo Gedi (a titolo gratuito, che di questi tempi per una casa editrice non è male), salvo immaginare l’ambasciatore Razov a pestare i tasti di un pc per capire come si invia una denuncia, atto che richiede attitudini particolari e la fortuna di beccare il portale funzionante.

C’è un legittimo interrogativo da porsi che riguarda lo stato di salute di un regime che deve ricorrere a una messa in scena da cine-panettone per minacciare un giornale. Forse ha ragione Marx, la storia si ripete sotto forma di farsa. Anche tragica e sanguinosa, ma farsa.

Estratto dell’articolo di Francesco Verderami per il “Corriere della Sera” il 26 marzo 2022. 

(…) Sono molte le stranezze che si succedono in Italia da quando Putin ha attaccato Kiev. E nel governo s' interrogano sull'attivismo dei russi: la lettera minatoria inviata ai parlamentari che hanno votato l'invio di armi all'Ucraina; le dichiarazioni minacciose verso il ministro della Difesa; l'esposto alla Procura per un articolo della Stampa.

Strano, «perché Mosca non si comporta così in altri Paesi», dice un rappresentante dell'esecutivo. Che ovviamente lì si ferma, mentre il senatore Quagliariello va oltre e spiega a Radio Radicale che «se il Parlamento italiano è particolarmente attenzionato dalla diplomazia russa, evidentemente c'è tra noi qualcuno che ha degli scheletri nell'armadio. La lettera ai parlamentari è un atto d'ingerenza.

I pizzini sono invece un modo per tenere sotto pressione le figure istituzionali che tengono l'Italia ancorata al fronte pro-ucraino». Se questo è il contesto, appare scontato il fatto che da Roma i diplomatici dei Paesi alleati trasmettano da giorni alle loro cancellerie dispacci preoccupati.

Nei quali si evidenzia come il pacifismo si sia trasformato in uno strumento popolare per stare dalla parte di Putin: sulla falsariga di quanto accadde in Italia ai tempi delle proteste per l'installazione degli Euromissili, mentre l'Unione Sovietica aveva già puntato gli SS 20 contro l'Europa.

Ecco perché il dibattito su un ordine del giorno parlamentare per le risorse alla Difesa finisce per avere riflessi internazionali. C'è un conflitto in atto. E sebbene i governi di unità nazionale siano caratteristici dei tempi di guerra, proprio la guerra sta mostrando le crepe nella larga maggioranza. (…)

Da open.online il 25 marzo 2022. 

L’ambasciatore della Russia in Italia Sergey Razov ha convocato una conferenza stampa per oggi in procura a piazzale Clodio, dove si è recato per depositare un esposto per istigazione a delinquere e apologia di reato per alcuni articoli comparsi sul quotidiano La Stampa. 

Sulla guerra in Ucraina, Razov ha detto che «prima finisce meglio è», aggiungendo che sono in corso colloqui con Kiev «e speriamo in esiti positivi».

Secondo la feluca non c’è «nessuna minaccia sul nucleare da parte di Mosca, ma riflessioni di scenari possibili in caso di minacce per la sicurezza della Federazione Russa. La cosa che ci preoccupa è che gli armamenti italiani saranno usati per uccidere cittadini russi. 

 Voglio ricordare decisione che la decisione è stata presa quando è iniziata la prima tappa delle trattative: i fucili vengono distribuiti non solo tra i militari, ma anche tra i cittadini e non si capisce come e quando saranno usati».

L’ambasciatore si è detto dispiaciuto per la rovina dei rapporti con l’Italia: «Lavoro in Italia da 8 anni e ho lavorato con Renzi, Conte, Letta e adesso Draghi. Abbiamo fatto di tutto per costruire ponti, rafforzare i rapporti in economica, cultura e altri campi. Con rammarico adesso tutto è stato rivoltato». 

Poi ha parlato della guerra, invitando i giornalisti a seguire i messaggi russi: «Dovreste seguire entrambi i messaggi e non solo quelli della parte ucraina. Ogni giorno leggo la stampa italiana e vedo ogni giorno alcune foto la provenienza delle quali è molto dubbiosa». Infine, sulla missione russa in Italia di marzo 2020 Razov ha detto che «mordere la mano che aiuta non vi fa onore». 

“Uccidere Vladimir Putin”. L'ambasciatore della Russia Razov querela La Stampa: preoccupati dalle armi italiane. Il Tempo il 25 marzo 2022.

L’Ambasciatore della Federazione Russa in Italia, Sergey Razov, questa mattina si è recato a piazzale Clodio a Roma per depositare un esposto che ipotizza per istigazione a delinquere e apologia di reato per un articolo del quotidiano La Stampa. «Questo articolo d’autore considerava la possibilità dell’uccisione del presidente della Russia. Non c’è bisogno di dire che questo è fuori dell’etica, dalla morale e dalle regole del giornalismo - spiega Razov -. Nel codice penale dell’Italia si prevede possibilità di istigazione a delinquere e apologia di reato. In precisa conformità alla legislazione italiana mi sono recato alla procura della Repubblica per registrare questa querela con la richiesta alle autorità italiane di esaminare questo caso. Confido nella giustizia italiana».

Razov ha poi risposto alle domande dei cronisti presenti davanti al tribunale che gli chiedevano conto della guerra in Ucraina: «La Russia non sta attaccando i civili nella città ucraina di Mariupol o in altre località ma seguendo le indicazioni del presidente Vladimir Putin di colpire solo siti militari. È necessario valutare con molta attenzione quanto sta accadendo a Mariupol. Ricordo quando il presidente Putin ha parlato degli obiettivi dell’operazione militare speciale e ha dato l’ordine di bombardare solo i siti militari. Per quel che riguarda la popolazione che è presente a Mariupol e nelle altre città, i militari russi stanno proponendo di aprire dei corridoi umanitari. Sulla situazione a Mariupol e nelle altre città ucraine sarebbe opportuno sentire le due parti e non solo la propaganda ucraina. Denunce di crimini di guerra? Ogni giorno - si sfoga l’ambasciatore - leggo la stampa italiana e vedo foto sulla cui provenienza ci sono dubbi. Nessuna minaccia sul nucleare da parte di Mosca, ma riflessioni di scenari possibili in caso di minacce per la sicurezza della Federazione Russa».

«La cosa che ci preoccupa è che gli armamenti italiani saranno usati per uccidere cittadini russi. Voglio ricordare decisione che la decisione è stata presa quando è iniziata la prima tappa delle trattative: i fucili vengono distribuiti non solo tra i militari, ma anche tra i cittadini e non si capisce come e quando saranno usati», non ha quindi nascosto la sua irritazione per i comportamenti dell’Italia e del governo Draghi. Razov si è imbufalito anche per le polemiche in Italia sulla missione russa quando scoppiò l’emergenza Covid: «La missione è andata solo nei posti indicati dall’Italia, precisamente a Nembro, centro della pandemia in quel momento. Facevamo solo quello che veniva detto dai colleghi italiani. La missione russa è terminata quando l’Italia ha proposto di terminarla. Le autorità italiane hanno espresso gratitudine nel 2020 per quanto fatto. Al popolo italiano è stata tesa una mano di aiuto, ma se qualcuno la morde non è onorevole».

Il pizzino di Razov: «Italia, mordi la mano che ti ha aiutato…» Con la scusa della querela presentata contro la Stampa, l'ambasciatore russo improvvisa una sorta di conferenza stampa in cui rimprovera di ingratitudine gli "ex amici"...di Rocco Vazzana su Il dubbio il 25 marzo 2022.

Dopo il direttore del dipartimento europeo del ministero degli Esteri russo, Alexej Paramonov, tocca all’ambasciatore della Federazione in Italia, Sergey Razov puntare il dito contro la smemoratezza del nostro Paese. Il tema è sempre lo stesso: Mosca ha aiutato Roma durante la fase più critica della pandemia (anche se le modalità di questo sostegno sono ancora tutte da chiarire) ma ora che il peggio è passato il governo italiano si sarebbe rivelato irriconoscente, trasformandosi in uno dei più agguerriti nemici della Russia putiniana.

«Nel 2020 al popolo italiano è stata tesa una mano di aiuto, che qualcuno ora morde in modo poco onorevole», dice l’ambasciatore Razov, fuori dal Tribunale di Roma in cui si è recato per presentare un esposto per istigazione a delinquere e apologia di reato contro la Stampa per un articolo dal titolo «Guerra Ucraina-Russia: se uccidere Putin è l’unica via d’uscita» pubblicato sul quotidiano. E così, con la scusa della querela, Razov improvvisa una sorta di conferenza stampa in cui ribadisce i concetti che nell’ultima settimana si sono trasformati in una sorta di strategia russa per mettere in difficoltà l’Italia. Perché dietro al ricordo reiterato del supporto di Mosca sembra celarsi un non detto indirizzato non solo al governo di allora (il Conte due) ma anche a tutti gli alleati europei: per quanto il Belpaese ostenti ostilità contro Putin, sembrano voler dire i russi, fino a ieri l’Italia aveva una certa “intimità” con Mosca.

In cosa consista questa intimità, ovviamente, non è dato saperlo, ma i funzionari della Fedarazione sembrano voler giocare proprio con questo mistero. Un segreto paventato da usare in funzione bellica, adesso, magari per provare a indirizzare, a spostare, le scelte del Parlamento italiano. Tanto da portare l’ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ad essere ascoltato dal Copasir due giorni fa. «I direttori delle agenzie di intelligence Aise e Aisi hanno assicurato che non c’è mai stata attività impropria che ha travalicato dai confini sanitari», si è sempre difeso l’ex premier. L’ambasciatore Razov, formalmente, conferma le parole di Conte, sottolinenando la regolarità dei rapporti tra i due Paesi, ma non rinuncia a rimettere sul piatto quell’aiuto controverso. «Lavoro in Italia da 8 anni e ho lavorato con Renzi, Conte, Letta e adesso Draghi», dice. «Abbiamo fatto di tutto per costruire ponti, rafforzare i rapporti in economia, cultura e altri campi. Con rammarico adesso tutto è stato rivoltato». Nemmeno una cenno ai motivi di questi “improvvisi” mutamenti nelle relazioni internazionali, ma Razov ne approfitta per esprimere preoccupazione per le «armi italiane» distribuite in Ucraina che «saranno usate per uccidere cittadini russi». Un gesto di inimicizia non giustificato nemmeno dalle parole del presidente russo sul nucleare: «Non ho visto nessuna minaccia in questa dichiarazione, soltanto una riflessione di scenari possibili in caso di minacce per la sicurezza nazionale russa», spiega l’ambasciatore.

Per quanto possa sembrare paradossale, che Mosca non si capaciti dei motivi di tanto astio da parte italiana non è così strano. Fino a ieri il nostro Parlamento pullulava di leader innamorati di Putin e partiti, diventati grandi, che coi russi intrattenevano relazioni poco trasparenti. Gli aggressori si sarebbero aspettati un trattamento di favore per questioni di riconoscenza o, almeno, per il timore di qualcuno di finire “sputtanato” dai vecchi amici. Ed è proprio quello, il potere della paura, che la Federazione vorrebbe continuare a esercitare. Perché, come dice Razov, «le crisi vanno e vengono e andrà via anche questa, ma gli interessi nazionali restano». E rapporti normali rapporti «tra Roma e Mosca, «sono interesse del popolo italiano e di quello russo e noi lavoriamo per questo».

Sergey Razov denuncia Domenico Quirico: "Istigazione a delinquere". Perché il giornalista è nel mirino di Putin. Libero Quotidiano il 25 marzo 2022.

L'ambasciatore russo in Italia, Sergey Razov, ha deciso di querelare La Stampa per l'articolo firmato da Domenico Quirico e pubblicato lo scorso 22 marzo. Nel pezzo si parla della possibile uccisione del presidente Vladimir Putin. "Non c'è bisogno di dire che questo è un atteggiamento anti etico e contro la morale delle regole del giornalismo", ha commentato Razov fuori dal Tribunale. "Nel codice penale italiano si prevede la responsabilità per l'istigazione a delinquere e l'apologia di reato. In precisa conformità con la legge italiana mi sono recato alla Procura della Repubblica per presentare una querela e la richiesta alle autorità italiane affinché esaminino imparzialmente questo caso. Facendo questo confido nell'alta professionalità della giustizia italiana", ha aggiunto l'ambasciatore.

"Suggerirei all'ambasciatore russo di leggere una migliore traduzione del pezzo, dove io sottolineavo che l'idea ahimè abbastanza corrente che l'unico modo di risolvere il problema sia che qualche russo ammazzi Putin fosse priva di senso e immorale, e questo c'era scritto bene in evidenza, e in secondo luogo che non porterebbe a niente e anzi porterebbe a un caos maggiore", ha ribattuto Quirico parlando con Adnkronos. II titolo dell'articolo era: "Se uccidere il tiranno è l'unica via d'uscita". Ma non diceva che sia giusto farlo. Anzi.

"Evidentemente qualcuno gliel'ha tradotto male", insiste Quirico. "Gli suggerirei di rileggerlo con attenzione e farselo tradurre bene, perché il senso è stato totalmente travisato, basta leggerlo". Nel pezzo di analisi, spiega il giornalista de La Stampa, "c'è scritto che il piano di sperare che Putin venga eliminato in una congiura di palazzo è prima di tutto difficilmente realizzabile e poi un piano totalmente idiota, perché ogniqualvolta c'è stato un tirannicidio nella storia il risultato è stato di complicare le cose invece che di risolverle". In conclusione, "ognuno la può leggere come vuole, mi interessa in modo relativo. Ma si prendano un traduttore dall'italiano al russo migliore di quello che hanno".

Domenico Quirico per “la Stampa” il 22 marzo 2022.

Ammettiamolo. In questa orgia di bugie, disinformazione, mezze verità, propaganda che marchia anche il conflitto ucraino almeno con noi stessi abbiamo l'obbligo della sincerità. Esclusa per fortuna l'ipotesi di entrare direttamente in guerra con uomini, aerei, bombe atomiche, amputata la possibilità di affidarsi alla diplomazia avendo definito Putin il nuovo Hitler con cui l'unico rapporto possibile è come per i nazisti, darsi appuntamento nell'aula di un tribunale apparecchiato per una seconda Norimberga, il piano numero uno di Biden, della Nato e anche degli europei è uno solo: che qualcuno a Mosca uccida Putin liberandoci dal fardello.

Insomma si invoca, neppur troppo scopertamente, un «happy end» mediante il tirannicidio, la congiura. Non resta che il pugnale di un monarcomaco, come si diceva nel secolo di ferro, quello delle guerre di religione (e quale secolo è più di ferro ahimè di questo appena avviato?). Scandagliamo un giuda del regime oligarchico che per trenta denari o per salvare la pelle elimini il tiranno.  

Ci penseremo noi a trasformare il traditore in un Bruto senza paura folgorato sulla via della democrazia e dei diritti umani. Sentiamo già l'odore delizioso del sangue. Il pugnale è strumento vecchiotto. La Cia (e i loro colleghi del Kgb poi Fsb) hanno nell'assassinio del singolo nemico una certa pratica anche non sempre coronata da successo: dai sigari bomba al polonio è stato arricchito tecnologicamente l'armamentario dei Borgia.

Nei primi giorni di guerra correvano rumori su piani ingegnosi dei russi per decapitare l'Ucraina uccidendo il coriaceo e ipercomunicativo Zelenski. Piano evidentemente o inesistente o inconcludente. Chissà che dall'altra parte dell'oceano non abbiano qualcosa di più risolutivo in mente. 

Lo scenario del dopo? Anche quello sarebbe già scritto: all'annuncio della fine prematura e spiccia del despota le folle russe scendono in piazza, finalmente libere dalla paura, per salutare l'avvento della prima democrazia russa, gli apparati repressivi si sfaldano, Navalny e gli altri oppositori liberati dalle galere vengono portati in trionfo alla Duma e prendono il potere. Soprattutto i soldati impantanati dal fango dell'Ucraina e dal disgusto della guerra gettano le armi e tornano a casa.

Gli oligarchi o fuggono in Corea del Nord o vengono catturati e costretti a confessare i loro delitti. Tutto il mondo torna al suo posto. Bisogna trovare però il tirannicida. E' uno scenario possibile? O meglio: è uno scenario probabile? Per prima cosa, si suggerisce, alleggeriamoci del fardello morale: domandarci cioè se un delitto abbia in questa circostanza giustificazione. 

Eppure dai tempi di Armodio e Aristogitone che eliminarono Ipparco un pioniere della tirannide nell'antica Atene, questo dibattito affatica filosofi e teologi. In effetti l'eliminazione fisica del dittatore ha antipatiche ma evidenti parentele con le pratiche del terrorismo. I confini sono labili visto che anche i terroristi usano gli stessi metodi e invocano l'assoluzione che viene da una buona causa, la loro. Allora non vi propongo ciance sulla legittimità di uccidere.

Non sono tempi adatti a questi etici dettagli, mi rispondereste. L'unico dibattito è quello pratico, materialistico: il tirannicidio ha dimostrato di avere alte probabilità di successo? Ovvero morto il despota cosa succede? Il nocciolo della questione, cinicamente imposto, non è se un assassinio sia mai giustificabile ma se l'assassinio sia efficace. Dovete poter rispondere che lo è: che ci consentirà cioè di raggiungere, nella Russia di oggi e in questa situazione di guerra, obiettivi altrimenti inaccessibili a causa del controllo ferreo che Putin esercita sul Paese; o per l'impossibilità in tempi brevi che perda la guerra e venga travolto dalla sconfitta.

Che è più sicura tagliola in cui hanno lasciato le zampe lupi assai più astuti e feroci di lui. Inoltre dobbiamo esser certi che una diversa eliminazione dal potere richiederebbe un prezzo elevato, ovvero una guerra prolungata che è più costosa che una sola vittima. In questo caso potreste dire che il piano numero uno, e unico, è un atto politico efficace. Lo conferma il Corano che spiega: se ci sono due califfi uno dei due deve morire perché la morte è meglio della discordia. 

Siamo nel caso coranico dei due califfi? L'eliminazione dell'uomo che incarna il neo imperialismo russo risolve tutti i problemi anche a lungo termine? Un assalto al palazzo di inverno, ovvero una rivoluzione, non sembra, analizzando la società modellata da Putin in vent' anni, possibile. E allora come insegnava il realista Machiavelli ci vuole una congiura «fatta da uomini grandi o familiarissimi del principe».

Attenti però, aggiunge: le congiure falliscono per imprudenza o per leggerezza ogni volta che coloro che ne sono a conoscenza superano il numero di tre o quattro persone. E' necessario dunque che nel cerchio più ristretto del potere putiniano qualcuno tradisca. A riguardare il passato occorre essere di palato grosso: in fondo molti dei tirannicidi dell'età classica avevano, accanto a proclamate esigenze di libertà, ben più personali e meschine motivazioni di vendicarsi del padrone. Lo stesso Bruto in fondo... Forse si può sperare in qualche oligarca umiliato nelle sue aspirazioni o depredato di una parte del bottino che gli spettava.

Darei più possibilità ai militari: nella guerra ucraina muoiono molti generali, segno che Putin li esige in prima linea sul modello staliniano, forse insoddisfatto dei risultati. Quelli che ordinavano una ritirata Stalin li faceva fucilare. Un ricordo che può solleticare qualche idea di rivolta salvavita. Resta da risolvere il problema del cosa accadrà dopo. Siamo certi che l'eliminazione violenta e oligarchica del tiranno non inneschi un caos peggiore? Il pessimismo è obbligatorio.

Quasi mai il risultato è stato conforme ai desideri di chi pensava di risolvere tutto al prezzo di una sola vita per di più sciagurata. Nel 1914 il serbo Gavrilo Princip si illuse: ammazzando l'erede al trono austriaco i problemi dei Balcani sarebbero stati risolti, pensava. Invece eliminò l'unico personaggio che probabilmente, non per indole pacifista, avrebbe impedito che l'Europa precipitasse nella tragedia della Prima guerra mondiale.

Grazia Longo per “la Stampa” il 9 giugno 2022.

La Stampa-Ambasciata russa in Italia: 1 a 0. Si chiude a favore del nostro giornale la partita scatenata dall'esposto dell'ambasciatore russo a Roma Sergey Razov contro un articolo di Domenico Quirico, accusato di aver istigato all'omicidio del presidente della Federazione russa Vladimir Putin. 

La giudice per le indagini preliminari di Torino, Giorgia De Palma, ha infatti archiviato il procedimento penale nei confronti di Quirico e del direttore Massimo Giannini, accogliendo la richiesta del procuratore capo Anna Maria Loreto, in merito all'articolo Se uccidere il tiranno è l'unica via d'uscita.

«L'articolo in esame - sostiene la procura - alla luce del principio costituzionale di necessaria offensività, non turba la sicurezza pubblica né è concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti». 

La vicenda esplose la mattina del 25 marzo scorso, quando Razov improvvisò una conferenza stampa di fronte ai cancelli della Procura di Roma per comunicare che aveva presentato una querela per istigazione a delinquere e apologia di reato in relazione a un articolo pubblicato il 22 marzo su La Stampa.

«Nel titolo - tuonò Razov - si considera la possibile uccisione di Putin, questo è fuori etica, morale e regole del giornalismo. Nel codice penale dell'Italia si prevede l'istigazione a delinquere e apologia di reato. In precisa conformità alla legislazione italiana mi sono recato alla procura della Repubblica per registrare questa querela con la richiesta alle autorità italiane di esaminare questo caso. Confido nella giustizia italiana». 

Ora la giustizia italiana gli ha dato torto. «A ben leggere l'articolo in esame - precisa Loreto nella richiesta di archiviazione - ed in disparte la vis polemica della replica di Domenico Quirico, questo Ufficio ritiene che essa colga nel segno, ovvero che non sussista la condotta materiale integrante i reati».

Quirico, uno dei più riconosciuti esperti di guerre e politica internazionale, con trent' anni di esperienza sul campo, aveva subito replicato a Razov suggerendogli «di leggere una migliore traduzione del pezzo, dove io sottolineavo che l'idea ahimè abbastanza corrente che l'unico modo di risolvere il problema sia che qualche russo ammazzi Putin fosse priva di senso e immorale, e questo era scritto bene in evidenza, e in secondo luogo che non porterebbe a niente e anzi porterebbe ad un caos maggiore». 

E aveva concluso: «Consiglio all'ambasciatore russo di scegliere un traduttore di qualità migliore».

Il direttore Massimo Giannini aveva aggiunto: «Solo nel mondo alla rovescia di "santa madre Russia", quella che piace tanto a Putin, può accadere che un ambasciatore di un Paese che ha decretato la più sporca guerra contro una democrazia liberale come l'Ucraina possa intentare una causa contro un giornale responsabile solo di raccontare quello che sta succedendo in quel Paese». E ancora: «Siamo un giornale libero che cerca di raccontare i nudi fatti. Un giornale che ha le sue idee e le propugna, le idee della liberaldemocrazia contro tutte le autocrazie».

A parte il fatto che, come constata la procura nella richiesta alla gip, «consultando le fonti aperte sono innumerevoli le fonti che diramavano la notizia dell'esistenza di un piano di uccisione del presidente russo», Quirico non suggeriva affatto la sua morte.

«L'autore dell'articolo prende atto di un fatto asserito, ovvero della sussistenza del piano ideato da altri (Biden, la Nato e gli europei) di uccidere Putin e si domanda (peraltro fin dal titolo) se questo piano sia la via d'uscita alla crisi in atto. La risposta che si dà è negativa.

Anzi, a ben leggere l'articolo, si tratta di una critica alla mancata individuazione di soluzioni da parte dei soggetti citati nell'incipit».

Si chiude quindi con l'archiviazione questa pagina di dissidi tra l'ambasciatore Razov e il nostro giornale. 

Che non è neppure la prima: già in passato l'ambasciata russa aveva attaccato il giornalista Jacopo Iacoboni per i suoi articoli sugli aiuti provenienti da Mosca e diretti al nostro Paese per affrontare l'emergenza coronavirus. 

In quella occasione, era il 2020, l'ambasciatore russo si era "limitato" a una lettera aperta al direttore. Stavolta le accuse a La Stampa di essere un quotidiano "russofobo" sono sfociate in un procedimento penale. Ma la legge gli ha dato torto: «L'accusa di Razov trae davvero origine dal travisamento del testo».

“Uccidere Putin” non è solo l’auspicio colmo d’odio del mainstream. Il dossier che teorizzava l’uccisione del leader russo. Zaira Bartucca il 26 Marzo 2022 su recnews.it.   

L'idea di epurare il mondo da un leader che continua ad opporsi ai piani globalisti, all’omologazione gender e alle democrazie su carta non risiede solo nella mente di qualche giornalista che scrive per il mainstream. Putin doveva lasciare libero il posto di presidente anche secondo… idea di epurare il mondo da un leader che continua ad opporsi ai piani globalisti, all’omologazione gender e alle democrazie su carta non risiede solo nella mente di qualche giornalista che scrive per i media mainstream. Putin doveva lasciare libero il posto di presidente russo – ufficialmente per un “malore” connesso alle “precarie condizioni di salute” – anche secondo il Libro Bianco del governo e dei Servizi segreti ucraini analizzato in esclusiva da Rec News. Ecco allora che l’esposto presentato ieri dall’ambasciatore russo a Roma Sergey Razov assume altri contorni. Chi detta la linea ai quotidiani, ai tg e ai siti che fanno da megafono a Kiev e tentano di agevolarne i piani? Come è possibile una tale coordinazione sui contenuti, tutti appiattiti e omologati come se provenissero da una sola voce? I nuovi servizi segreti ucraini tanto radicati all’estero hanno un ruolo? Come impiega i cospicui fondi ricevuti dagli USA e dall”UE la presidenza Zelensky? Ci sono briciole che vengono buttate a terra anche all’indirizzo delle casse di risonanza della narrazione ucraina, come è già avvenuto per il covid? Domande legittime che, c’è da scommettersi, nemmeno sfioreranno chi sarà chiamato a dare giudizi di merito sul presunto caso di apologia di reato e istigazione a delinquere denunciato dall’ambasciatore russo. Ma intanto Razov ha lanciato un segnale forte: la Russia non ha alcuna volontà di restare con le mani in mano rispetto alle manipolazioni dei media che confidano nell’uccisione di Vladimir Putin e suggeriscono anche come attuarla: con l’aiuto di un “fedelissimo”. Considerazioni che farebbero rabbrividire se non si fosse abituati ai toni violenti che dal covid in poi caratterizzano i “giornaloni“. “Com’è noto – ha detto ieri l’ambasciatore davanti ai giornalisti riuniti a Piazzale Clodio – il Codice Penale della Repubblica Italiana prevede la responsabilità per l’istigazione a delinquere e l’apologia di reato. Io, da cittadino russo in territorio italiano, ho appena presentato una querela alla Procura di Roma con la richiesta di esaminare obiettivamente ed imparzialmente questo caso”. L’invito a fare suonare entrambe le campane L’ambasciatore russo ha inoltre invitato i giornali a “seguire entrambi i messaggi, non solo quelli della parte Ucraina“. “Ogni giorno – ha detto Razov – leggo la stampa italiana e vedo foto dalla provenienza molto dubbiosa“. Il diplomatico si è espresso anche sul conflitto in sé per sé auspicando che “finisca quanto prima. Sono in corso trattative con l’Ucraina e speriamo in esiti positivi”. Sulla presunta minaccia nucleare sbandierata dai media commerciali e anche dalla finta controinformazione l’ambasciatore ha detto che è “inesistente. Nessuna minaccia nucleare da parte di Mosca, ma riflessioni di scenari ipotetici in caso di minacce per la sicurezza della Federazione Russa”. Esclusivo | Il dossier del governo ucraino che nel 2021 predisse la guerra con la Russia (Pdf). Il ruolo dei super 007 radicati all’estero Gli spoiler del Libro Bianco”, con prefazione di Zelensky. La diaspora ucraina e il riconoscimento provvisorio delle Repubbliche di Luhansk e Donetsk e le sanzioni personali contro i funzionari russi si sono già avverati. Perché il governo di Kiev, già allora, ne sapeva più di tutti?  Espressa preoccupazione per l’invio di armi in Ucraina da parte del governo Draghi Razov ha anche biasimato l’invio – su mandato del governo Draghi e dei suoi ministri – di armi all’Ucraina. “La cosa che ci preoccupa – ha detto l’ambasciatore – è che gli armamenti italiani saranno usati per uccidere cittadini russi. E voglio ricordare che la decisione è stata presa quando è iniziata la prima tappa delle trattative: i fucili vengono distribuiti non solo tra i militari, ma anche tra i cittadini e non si capisce come e quando saranno usati”. Intanto si moltiplicano gli episodi di spedizioni punitive a danno di civili da parte delle milizie ucraine, incredibilmente giustificate

PiazzaPulita, l'affondo di Domenico Quirico: "Dovrebbero querelare Joe Biden. Se nemmeno Dio..."Libero Quotidiano  l'01 aprile 2022.

"Sei stato querelato dall'ambasciatore russo ed è un onore per te": Corrado Formigli si è rivolto così al suo ospite Domenico Quirico a PiazzaPulita su La7. Il giornalista de La Stampa, infatti, è stato attaccato da Mosca per via di un articolo intitolato "Se uccidere il tiranno è l'unica via d'uscita".  E a tal proposito ha detto: "L'ambasciatore dovrebbe querelare Joe Biden perché è stato lui a dirlo chiaro: neanche Dio vuole più che Putin stia al potere".

Quirico ha spiegato che si possono usare i termini più diversi, ma alla fine il concetto non cambia: "Si può parlare di eliminazione, liquidazione, uccisione. Sono metodi che sono la specialità della casa per la Cia oltre che per il Kgb che utilizza il suo celeberrimo veleno. Io ho fatto questo articolo non perché aspiri a diventare tirannicida, ma solo perché circola, da quando è iniziata questa tragedia, che il sistema più rapido e forse l'unico che abbiamo sia che qualcuno faccia fuori Putin".

Il giornalista, però, come già aveva fatto nel suo articolo finito sotto accusa, ha spiegato che spesso l'uccisione del tiranno non risolve mai la situazione: "La storia dimostra che questo sistema non ha mai funzionato, per il caos che ne segue o perché chi sostituisce il tiranno distrutto è peggio di lui".

Il falco della propaganda di Mosca che recapita dossier ai senatori. Massimo Malpica il 26 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il capo della diplomazia russa in Italia è un abile tessitore di relazioni politiche. Gli incontri con Salvini e il M5s.

L'insolita «conferenza stampa» dell'ambasciatore russo in Italia Sergey Razov a Piazzale Clodio è l'ultima mossa della feluca venuta da Mosca. Razov, 69 anni, già ambasciatore in Mongolia, Polonia e Cina nonché vice-ministro degli Esteri prima di sbarcare, nel 2013, a Villa Abamelek, e diventare ambasciatore della Federazione russa in Italia e a San Marino, si era già fatto sentire sulla questione ucraina poco prima dell'invasione, a metà febbraio, ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta.

Nell'occasione il diplomatico bollò le operazioni militari come «esercitazioni periodiche», e non come i prodromi dell'invasione, e sostenne addirittura che la Russia «non ha obiezioni» rispetto all'ipotesi dell'ingresso dell'Ucraina nella Ue. La realtà, poi, ha detto ben altro, come è noto. Ma Razov ha rilanciato la propaganda di Mosca, pure ieri ribadendo il succo delle dichiarazioni rilasciate dal direttore del Dipartimento europeo del ministero degli Esteri russo Paramonov a proposito, per esempio, della «ingratitudine» italiana sulla «mano d'aiuto» che la Russia aveva dato all'Italia durante la pandemia.

Il ruolo di Razov come normalizzatore e pompiere era già stato esercitato nella scorsa primavera, quando l'ambasciatore venne convocato alla Farnesina dal ministro degli Esteri Di Maio dopo che l'ufficiale di Marina Walter Biot, impiegato presso lo Stato maggiore della Difesa, venne beccato in flagranza mentre consegnava documenti riservati a un funzionario russo dell'ambasciata in cambio di denaro. Da Di Maio, la feluca fece spallucce: «Come ho sottolineato durante l'incontro con i vertici del ministero degli Esteri italiano spiegò alle telecamere Rai - contiamo che questo incidente non influisca negativamente sulle relazioni complessivamente costruttive tra i nostri Paesi. Bisogna avere uno sguardo più ampio, sono relazioni articolate che non possono assolutamente essere ridotte a singoli episodi spiacevoli».

Fedele alla linea di Putin anche e soprattutto in momenti difficili come questo, Razov è stato nel recente passato anche un abile tessitore politico per le relazioni italiane di Mosca. Un suo non-paper, in cui si sosteneva la strumentale creazione di una «minaccia russa» da parte della Nato, era stato recapitato a novembre scorso ai componenti della commissione Esteri di Palazzo Madama, per il tramite del presidente, il putiniano pentastellato Vito Petrocelli. Anche Matteo Salvini, quando il leader del Carroccio guardava con aperta simpatia alla Russia, aveva individuato nell'ambasciatore un interlocutore privilegiato per le trattative internazionali condotte da Giancarlo Giorgetti e Guglielmo Picchi, con due incontri a fine marzo 2018 e poi con la partecipazione dello stesso Salvini, il 7 giugno dello stesso anno, alla cerimonia per la «giornata della Russia» a villa Abamelek, presente anche Gianluca Savoini. Due anni prima, acclamato ospite e protagonista di quel ricevimento era stato un M5s, Alessandro Di Battista.

Già, perché pure Beppe Grillo e i suoi aprirono, nel 2015, un canale con Putin proprio grazie ai buoni uffici dell'ambasciatore russo. Successe quando, come racconta il giornalista della Stampa Jacopo Iacoboni, sono Manlio Di Stefano e appunto Di Battista ad accompagnare l'ex comico per incontrare Razov nella sua residenza romana, aprendo a una serie di missioni moscovite. Sfociate in un atteggiamento del Movimento spesso più amichevole nei confronti di Putin. Un esempio? La scelta di astenersi, nel 2020, quando l'Europarlamento votò la richiesta di un'indagine internazionale sull'avvelenamento del dissidente Alexei Navalny.

Il messaggio al vetriolo di Draghi contro l'ambasciatore russo in Italia: "Da noi c'è libertà di stampa e si sta molto meglio". Il Tempo il 25 marzo 2022.

L'ambasciatore russo in Italia, Sergey Razov, presenta querela contro un articolo di giornale, e quella che doveva essere una breve dichiarazione sull'esposto, si trasforma in una conferenza stampa sulla crisi ucraina, con decine di giornalisti, assiepati davanti al tribunale di Roma, a fare domande al diplomatico. Nella querela si ipotizza l'istigazione a delinquere e l'apologia di reato in relazione a un articolo pubblicato da La Stampa il 22 marzo scorso: "Nel titolo - spiega l'ambasciatore - si considera la possibile uccisione di Putin. Questo è fuori dall'etica, dalla morale e dalle regole del giornalismo. Per questo chiedo alla magistratura italiana di esaminare il caso, e confido nella giustizia di questo Paese". 

Il caso arriva fino a Bruxelles dove è in corso il Consiglio europeo. Il premier Mario Draghi, dopo il vertice e in conferenza risponde prima a una domanda sulle posizioni in merito alla guerra tenute da Salvini, Berlusconi e Conte. "La politica oggi deve parlare del presente e del domani. In questo momento l'unica cosa che secondo me può fare una politica che vuole bene al Paese e vuole la pace è stare uniti - è il messaggio del presidente del Consiglio -. La cosa più importante è guardare avanti ora, poi i conti si fanno poi con la coscienza e anche con il proprio elettorato. Ma non è ora il momento". E riguardo all'aumento delle spese militari, ricorda, "il 2 per cento fu un impegno preso dal governo italiano nel 2006, e sempre confermato da tutti i governi da allora. Ora è tornato alla ribalta questo impegno perché più urgente è venuta l'esigenza di iniziare a riarmarci".

La conferenza stampa a Bruxelles si chiude con il premier interrogato sull'esposto presentato dall'ambasciatore russo, Sergey Razov. "Voglio esprimere la mia solidarietà a tutti i giornalisti de 'La Stampa' e al suo direttore Giannini, veramente una solidarietà sentita", scandisce per poi abbandonarsi a delle considerazioni al vetriolo: "La libertà di stampa da noi è sancita dalla Costituzione. Forse in un certo senso non è una sorpresa che l'ambasciatore russo si sia così inquietato con un giornale italiano che poteva esprimere degli atteggiamenti di critica, perché in fondo lui è l'ambasciatore di un Paese dove non c'è la libertà di stampa. Da noi c'è e da noi si sta molto meglio. Glielo direi subito".

Da corriere.it il 19 marzo 2022.

Mosca mette in guardia l'Italia dall'assumere un atteggiamento ancora più duro sul piano delle sanzioni e minaccia «conseguenze irreversibili». E' quanto affermato all'agenzia Ria Novosti Alexei Paramonov, direttore del dipartimento europeo del ministero degli Esteri russo.

Mosca, ha detto Paramonov senza però fornire dettagli, sta lavorando a una risposta alle sanzioni «illegittime» degli Stati Uniti e dell'Unione europea. Citando la dichiarazione del ministro dell'Economia francese Bruno Le Maire sui piani dell'Ue per lanciare una «guerra economica e finanziaria totale» contro la Russia, Paramonov ha affermato: «Non vorremmo che la logica delle dichiarazioni del ministro trovasse seguaci in Italia e provocasse una serie di corrispondenti conseguenze irreversibili».

Massimo Malpica per ilgiornale.it il 26 marzo 2022.

L'insolita «conferenza stampa» dell'ambasciatore russo in Italia Sergey Razov a Piazzale Clodio è l'ultima mossa della feluca venuta da Mosca. Razov, 69 anni, già ambasciatore in Mongolia, Polonia e Cina nonché vice-ministro degli Esteri prima di sbarcare, nel 2013, a Villa Abamelek, e diventare ambasciatore della Federazione russa in Italia e a San Marino, si era già fatto sentire sulla questione ucraina poco prima dell'invasione, a metà febbraio, ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta.

Nell'occasione il diplomatico bollò le operazioni militari come «esercitazioni periodiche», e non come i prodromi dell'invasione, e sostenne addirittura che la Russia «non ha obiezioni» rispetto all'ipotesi dell'ingresso dell'Ucraina nella Ue. La realtà, poi, ha detto ben altro, come è noto. Ma Razov ha rilanciato la propaganda di Mosca, pure ieri ribadendo il succo delle dichiarazioni rilasciate dal direttore del Dipartimento europeo del ministero degli Esteri russo Paramonov a proposito, per esempio, della «ingratitudine» italiana sulla «mano d'aiuto» che la Russia aveva dato all'Italia durante la pandemia.

Il ruolo di Razov come normalizzatore e pompiere era già stato esercitato nella scorsa primavera, quando l'ambasciatore venne convocato alla Farnesina dal ministro degli Esteri Di Maio dopo che l'ufficiale di Marina Walter Biot, impiegato presso lo Stato maggiore della Difesa, venne beccato in flagranza mentre consegnava documenti riservati a un funzionario russo dell'ambasciata in cambio di denaro.

Da Di Maio, la feluca fece spallucce: «Come ho sottolineato durante l'incontro con i vertici del ministero degli Esteri italiano spiegò alle telecamere Rai - contiamo che questo incidente non influisca negativamente sulle relazioni complessivamente costruttive tra i nostri Paesi. Bisogna avere uno sguardo più ampio, sono relazioni articolate che non possono assolutamente essere ridotte a singoli episodi spiacevoli».

Fedele alla linea di Putin anche e soprattutto in momenti difficili come questo, Razov è stato nel recente passato anche un abile tessitore politico per le relazioni italiane di Mosca. Un suo non-paper, in cui si sosteneva la strumentale creazione di una «minaccia russa» da parte della Nato, era stato recapitato a novembre scorso ai componenti della commissione Esteri di Palazzo Madama, per il tramite del presidente, il putiniano pentastellato Vito Petrocelli.

Anche Matteo Salvini, quando il leader del Carroccio guardava con aperta simpatia alla Russia, aveva individuato nell'ambasciatore un interlocutore privilegiato per le trattative internazionali condotte da Giancarlo Giorgetti e Guglielmo Picchi, con due incontri a fine marzo 2018 e poi con la partecipazione dello stesso Salvini, il 7 giugno dello stesso anno, alla cerimonia per la «giornata della Russia» a villa Abamelek, presente anche Gianluca Savoini. Due anni prima, acclamato ospite e protagonista di quel ricevimento era stato un M5s, Alessandro Di Battista.

Già, perché pure Beppe Grillo e i suoi aprirono, nel 2015, un canale con Putin proprio grazie ai buoni uffici dell'ambasciatore russo. Successe quando, come racconta il giornalista della Stampa Jacopo Iacoboni, sono Manlio Di Stefano e appunto Di Battista ad accompagnare l'ex comico per incontrare Razov nella sua residenza romana, aprendo a una serie di missioni moscovite.

Sfociate in un atteggiamento del Movimento spesso più amichevole nei confronti di Putin. Un esempio? La scelta di astenersi, nel 2020, quando l'Europarlamento votò la richiesta di un'indagine internazionale sull'avvelenamento del dissidente Alexei Navalny.

Massimo Giannini per lastampa.it il 26 marzo 2022.

Solo nel mondo alla rovescia di Vladimir Putin può accadere che un suo ambasciatore denunci per istigazione a delinquere un giornale italiano, responsabile solo di raccontare la guerra che Santa Madre Russia sta conducendo in Ucraina.

Una guerra sporca, che il Cremlino chiama “operazione militare speciale”, e che invece sta mietendo migliaia di vittime, sta distruggendo città, sta bombardando ospedali, scuole, teatri, palazzi. Com’era accaduto a Grozny e ad Aleppo. Sergey Razov accusa pubblicamente La Stampa, in una pseudo conferenza stampa improvvisa davanti alla Procura di Roma. Di cosa siamo colpevoli? Ricostruiamo i fatti.

Nei giorni scorsi siamo stati attaccati perché abbiamo pubblicato in prima pagina una foto che ritraeva una strage nel Donbass. Titolo: “La carneficina”. Senza ulteriori specifiche, né sul luogo esatto della strage né sui responsabili della medesima (ne avevamo scritto in una pagina intera il giorno prima, raccontando che russi e ucraini si rinfacciavano l’eccidio).

Quell’immagine-simbolo aveva un solo scopo: descrivere gli orrori della guerra. Chiunque li avesse perpetrati. Già in quell’occasione l'ambasciata russa, col supporto della solita ondata di fango digitale cavalcata dai putinisti da tastiera, ci aveva accusato di disinformazione. In modo del tutto falso e strumentale. 

Martedì scorso abbiamo invece pubblicato uno splendido articolo del nostro grande inviato di guerra, Domenico Quirico, che ha smontato un’idea molto diffusa nelle cancellerie occidentali: ormai l’unico modo per fermare la guerra sarebbe uccidere Putin. Quirico articolava la “teoria”, inquadrandola nei precedenti storici.

La conclusione dell’articolo era chiarissima: chi segue questa corrente di pensiero si sbaglia e si illude. L’assassinio del Tiranno, oltre a essere immorale, sarebbe ancora più pericoloso. Potrebbe innescare processi incontrollabili in Russia. E addirittura peggiorare ulteriormente le cose.

Bastava leggere l’articolo, per rendersi conto che la tesi di Quirico è che questo apparente “rimedio” sarebbe peggiore del male. Ma l’ambasciatore Razov, con tutta evidenza, finge di non averlo letto. E per questo denuncia La Stampa per apologia di reato e istigazione a delinquere. Come se noi esortassimo non si sa bene chi ad assassinare il presidente della Federazione Russa. Cioè l’esatto contrario di quello che abbiamo scritto.

A questa clamorosa manipolazione della realtà, che rivela una visione del mondo e un’insidia che ci riguarda tutti, rispondiamo in modo fermo e sereno. Non accettiamo critiche di “disinformazione” da un Paese che fa strage della verità e della civiltà. Non prendiamo lezioni da un Paese nel quale viene assassinata una giornalista scomoda come Anna Politkovskaja, vengono chiusi giornali e radio sgraditi al Cremlino, vengono silenziati social network.

Nel quale vengono arrestati e condannati senza alcun motivo plausibile ex oligarchi come Khodorkovsky e dissidenti politici come Navalny. Nel quale vengono fatti avvelenare all’estero ex agenti dei servizi segreti come Livtinenko e Skrypall. Nel quale si viene arrestati e imprigionati solo per aver pronunciato la parola guerra, e viene repressa in modo violento qualunque forma di resistenza al regime. 

Questa è la Russia di Putin, oggi. E a questa Russia, attraverso il suo ambasciatore, vogliamo dire che le sue querele non ci spaventano. Abbiamo ricevuto tantissimi messaggi di solidarietà. Dai nostri lettori, ma anche da buona parte della classe politica.

Ne siamo felici, e ringraziamo tutti, da Enrico Letta a Giuseppe Conte, da Luigi Di Maio alle ministre Carfagna e Gelmini. Ma in particolare siamo grati al presidente del Consiglio Mario Draghi, che in conferenza a Bruxelles non ha solo espresso tutta la sua “sentita solidarietà” verso La Stampa e i suoi giornalisti.

Ma ha anche dato una lezione di democrazia a Razov, spiegando che «lui è l’ambasciatore di un Paese in cui non c’è libertà di stampa, mentre in Italia c’è ed è garantita dalla Costituzione». «Da noi si sta meglio», ha concluso il premier. Ed ha perfettamente ragione. Per questo, oggi, siamo sereni su quello che facciamo, su quello che pensiamo e su quello che scriviamo, perché siamo un giornale libero in un Paese libero. 

Anna Politkovskaja, nel suo ultimo saggio appena ripubblicato da Adelphi, scriveva questo di Putin: «Diventato presidente, figlio del più nefasto tra i servizi segreti del Paese, non ha saputo estirpare il tenente colonnello del Kgb che vive in lui e pertanto insiste nel voler raddrizzare i propri connazionali amanti della libertà... Non vogliamo più essere schiavi, vogliamo essere liberi, lo pretendiamo perché amiamo la libertà tanto quanto voi…».

Anna pagò con la vita il suo coraggio. Noi, come lei, continuiamo ad amare la libertà. E continueremo a difenderla, nonostante tutte le minacce e tutte le intimidazioni. Perché, per quanto imperfetta, vogliamo tenerci ben stretta la nostra democrazia. E sappiamo di stare dalla parte giusta della Storia.

Francesco Grignetti per “La Stampa” il 26 marzo 2022. 

Prendi un articolo di giornale, leggilo al contrario. Là dove c'è scritto che un'idea è sbagliata, urla contro il giornalista, per far passare il messaggio opposto. Ecco. Ieri mattina l'ambasciatore della Federazione russa, sua eccellenza Sergey Razov, ha preso carta e penna ed è andato personalmente alla procura di Roma per denunciare il direttore de La Stampa, Massimo Giannini, e una delle sue firme più prestigiose, Domenico Quirico.

L'esposto, depositato all'ufficio «ricezione atti», ipotizza i reati di istigazione a delinquere ed apologia di reato. Già, perché a suo dire, nel titolo di un articolo di Quirico del 22 marzo scorso, «si considera la possibile uccisione di Putin. Questo è fuori etica, morale e regole del giornalismo. Chiedo alla magistratura italiana di esaminare questo caso, confido nella giustizia di questo Paese». Il richiamo in prima pagina del pezzo in questione recitava testualmente, «Colpire il tiranno è l'ultima chance», dentro invece era titolato «Se uccidere il tiranno è l'unica via d'uscita».

È andata così. L'ambasciatore Razov, che non ha chiesto di incontrare il procuratore capo di Roma, Francesco Lo Voi, ma che si era premurato di convocare i giornalisti all'uscita per dire la sua verità, ha preso un articolo di Quirico quasi fosse la quintessenza della presunta russofobia dilagante in Italia e non solo.

L'articolo - e basta leggerlo per accertarsene - passava in rassegna il florilegio di ipotesi di questi giorni e smontava pezzo per pezzo proprio l'idea serpeggiante tra molti in Occidente che una soluzione alla guerra possa passare per un tirannicidio: Razov ha capovolto quelle parole presentandole come un immondo invito all'omicidio.

Non è la prima volta che Mosca capovolge l'interpretazione del mondo, come nei giorni scorsi, quando la tv di stato russa ha raccontato la devastazione di Mariupol come opera dei ribelli ucraini. E non è neppure raro che il regime di Putin reagisca male alle inchieste del giornalismo libero. 

Sembra che da ieri l'ambasciatore del Cremlino abbia iniziato una estrema controffensiva mediatica. Forse non è un caso che oltre all'esposto spericolato contro La Stampa abbia annunciato anche l'attivazione di una «linea speciale» dove i cittadini russi possano segnalare i casi di discriminazione nei loro confronti. Il tentativo è scoperto: passare loro, i russi, gli invasori, per le vittime.

Sua eccellenza Razov, che ben conosce l'Italia, deve essersi reso conto che il governo di Mario Draghi non è sensibile alle sirene moscovite, né lo è gran parte dell'opinione pubblica. E perciò attacca. Sugli aiuti militari all'Ucraina, ad esempio. 

«La cosa che ci preoccupa - dice con tono grave, sorvolando su chi abbia scatenato la guerra in Ucraina con una invasione - è che gli armamenti italiani saranno usati per uccidere cittadini russi. I fucili vengono distribuiti non solo tra i militari, ma anche tra i cittadini. Non si capisce come e quando saranno usati». Il vento nei confronti del Cremlino è mutato rispetto a qualche tempo fa, quando i sovranisti andavano per la maggiore e le simpatie nei confronti di Putin erano mainstream.

Il rappresentante di Mosca lo sa: «Lavoro in Italia da 8 anni e ho lavorato con Renzi, Conte, Letta, Draghi. Abbiamo fatto di tutto per costruire ponti, rafforzare i rapporti in economia, cultura e altri campi. Con rammarico adesso tutto è stato rivoltato, ma nell'opinione pubblica italiana, come sempre, c'è desiderio di rapporti buoni con la Russia».

Trova anche che i media in generale siano troppo duri nel raccontare l'invasione. E insiste: «Li invito a seguire entrambi i messaggi e non solo quelli di parte ucraina». Infine c'è la famosa questione della missione anti-Covid compiuta dai militari russi nel marzo del 2020. Razov è tagliente: «Al popolo italiano è stata tesa una mano di aiuto. Ma se qualcuno morde quella mano, non è onorevole. La missione è andata solo nei posti indicati dall'Italia, precisamente a Nembro, centro della pandemia in quel momento. Facevano solo quello che veniva detto dai colleghi italiani. E la missione è terminata quando l'Italia ha proposto di concluderla. 

Le autorità italiane hanno espresso gratitudine per quanto fatto». La sua speranza, tuttavia, è che anche questa storia passi. Sospira, ai giornalisti: «Le crisi vanno e vengono e andrà via anche questa. Mantenere rapporti normali è interesse del popolo italiano e di quello russo e noi lavoriamo per questo».

“Uccidere Putin” non è solo l’auspicio colmo d’odio del mainstream. Il dossier che teorizzava l’uccisione del leader russo.   Zaira Bartucca su Rec News il 26 Marzo 2022

L'idea di epurare il mondo da un leader che continua ad opporsi ai piani globalisti, all’omologazione gender e alle democrazie su carta non risiede solo nella mente di qualche giornalista che scrive per il mainstream. Putin doveva lasciare libero il posto di presidente anche secondo… idea di epurare il mondo da un leader che continua ad opporsi ai piani globalisti, all’omologazione gender e alle democrazie su carta non risiede solo nella mente di qualche giornalista che scrive per i media mainstream. Putin doveva lasciare libero il posto di presidente russo – ufficialmente per un “malore” connesso alle “precarie condizioni di salute” – anche secondo il Libro Bianco del governo e dei Servizi segreti ucraini analizzato in esclusiva da Rec News. Ecco allora che l’esposto presentato ieri dall’ambasciatore russo a Roma Sergey Razov assume altri contorni. Chi detta la linea ai quotidiani, ai tg e ai siti che fanno da megafono a Kiev e tentano di agevolarne i piani? Come è possibile una tale coordinazione sui contenuti, tutti appiattiti e omologati come se provenissero da una sola voce? I nuovi servizi segreti ucraini tanto radicati all’estero hanno un ruolo? Come impiega i cospicui fondi ricevuti dagli USA e dall”UE la presidenza Zelensky? Ci sono briciole che vengono buttate a terra anche all’indirizzo delle casse di risonanza della narrazione ucraina, come è già avvenuto per il covid? Domande legittime che, c’è da scommettersi, nemmeno sfioreranno chi sarà chiamato a dare giudizi di merito sul presunto caso di apologia di reato e istigazione a delinquere denunciato dall’ambasciatore russo. Ma intanto Razov ha lanciato un segnale forte: la Russia non ha alcuna volontà di restare con le mani in mano rispetto alle manipolazioni dei media che confidano nell’uccisione di Vladimir Putin e suggeriscono anche come attuarla: con l’aiuto di un “fedelissimo”. Considerazioni che farebbero rabbrividire se non si fosse abituati ai toni violenti che dal covid in poi caratterizzano i “giornaloni“. “Com’è noto – ha detto ieri l’ambasciatore davanti ai giornalisti riuniti a Piazzale Clodio – il Codice Penale della Repubblica Italiana prevede la responsabilità per l’istigazione a delinquere e l’apologia di reato. Io, da cittadino russo in territorio italiano, ho appena presentato una querela alla Procura di Roma con la richiesta di esaminare obiettivamente ed imparzialmente questo caso”.

L’invito a fare suonare entrambe le campane. L’ambasciatore russo ha inoltre invitato i giornali a “seguire entrambi i messaggi, non solo quelli della parte Ucraina“. “Ogni giorno – ha detto Razov – leggo la stampa italiana e vedo foto dalla provenienza molto dubbiosa“. Il diplomatico si è espresso anche sul conflitto in sé per sé auspicando che “finisca quanto prima. Sono in corso trattative con l’Ucraina e speriamo in esiti positivi”. Sulla presunta minaccia nucleare sbandierata dai media commerciali e anche dalla finta controinformazione l’ambasciatore ha detto che è “inesistente. Nessuna minaccia nucleare da parte di Mosca, ma riflessioni di scenari ipotetici in caso di minacce per la sicurezza della Federazione Russa”. Espressa preoccupazione per l’invio di armi in Ucraina da parte del governo Draghi Razov ha anche biasimato l’invio – su mandato del governo Draghi e dei suoi ministri – di armi all’Ucraina. “La cosa che ci preoccupa – ha detto l’ambasciatore – è che gli armamenti italiani saranno usati per uccidere cittadini russi. E voglio ricordare che la decisione è stata presa quando è iniziata la prima tappa delle trattative: i fucili vengono distribuiti non solo tra i militari, ma anche tra i cittadini e non si capisce come e quando saranno usati”. Intanto si moltiplicano gli episodi di spedizioni punitive a danno di civili da parte delle milizie ucraine, incredibilmente giustificate proprio dal quotidiano querelato da Razov. Media esteri, inoltre, riportano la notizia di campi di concentramento dove sarebbero internati i soldati russi

Guerra alle sanzioni, la Russia se la prende con il ministro della Difesa Guerini: "Falco antirusso".  Il Tempo il 19 marzo 2022.

Piovono minacce dalla Russia che avverte l'Italia sul conflitto in Ucraina. Sono gravi i pericoli che rischierebbe il Belpaese qualora continuasse a percorrere la strada delle sanzioni contro Mosca. E nel mirino del Cremlino finisce Lorenzo Guerini, il ministro della Difesa. 

La Russia ha lanciato un avvertimento all'Italia: se Roma deciderà di introdurre nuove sanzioni contro Mosca, ci saranno "conseguenze irreversibili". Una minaccia che è stata respinta "con fermezza" dalla Farnesina, che ha chiesto alla Russia di fermare l'attacco contro l'Ucraina e ha affermato che, insieme ai partner europei e internazionali "continuerà a esercitare ogni pressione affinché Mosca torni nel quadro della legalità internazionale".

In una lunga intervista rilasciata all'agenzia Ria Novosti, il direttore del dipartimento europeo del ministero degli Esteri russo, Alexei Paramonov, ha accusato l'Italia di essersi dimenticata degli aiuti ricevuti da Mosca durante la pandemia di Covid-19 e delle storiche relazioni bilaterali esistenti tra i due Paesi, in preda a "un'isteria anti-russa" che ha contagiato l'Occidente. Roma ha ricevuto "un'assistenza significativa" durante la pandemia, e "la richiesta di aiuti è stata inviata anche dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini, che ora è uno dei principali "falchi" e ispiratori della campagna anti-russa nel governo italiano", ha sottolineato Paramonov.

Il direttore ha detto che Mosca non vorrebbe che la logica delle affermazioni del ministro dell'Economia francese Bruno Le Maire, che ha dichiarato "guerra finanziaria ed economica totale" alla Russia, trovasse seguaci in Italia e causasse una serie di corrispondenti conseguenze irreversibili.

La Farnesina ha respinto "con fermezza" le dichiarazioni minacciose di Paramonov, e ha invitato il ministero degli Esteri russo ad "agire per la cessazione immediata dell'illegale e brutale aggressione russa nei confronti dell'Ucraina", che il ministero "condanna fortemente". "L'Italia insieme ai partner europei ed internazionali continuerà a esercitare ogni pressione affinché la Russia torni nel quadro della legalità internazionale", ha affermato il ministero.

Paramonov, che ha avvertito che Mosca sta preparando una risposta alle pesanti sanzioni occidentali, ha commentato anche le misure prese dagli altri Paesi europei, tra cui Francia, Spagna e Paesi Bassi. Riguardo all'Italia, ha poi sottolineato "la significativa dipendenza di Roma dal gas russo", ricordando che finora le compagnie russe hanno adempiuto ai loro obblighi. "L'abbandono di meccanismi affidabili di trasporto dell'energia che si sono sviluppati nel corso di molti decenni avrebbe conseguenze estremamente negative per l'economia italiana e per tutta la popolazione", ha sottolineato Paramanov.

E proprio per ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio in giornata ha stretto un accordo sull'energia con le autorità del Mozambico. Il titolare della Farnesina si è recato nel Paese africano insieme all'amministratore delegato dell'Eni Claudio Descalzi. La missione ha seguito quelle in Algeria, Qatar, Congo e Angola dei giorni scorsi. "Continuiamo a consolidare rapporti sull'energia, in modo da renderci autonomi dal gas russo e tutelare famiglie e imprese italiane", ha detto Di Maio che ha poi ribadito la richiesta all'Ue di intervenire per "fissare il tetto massimo ai prezzi del gas, mitigare i costi dell'energia e creare un fondo compensativo per gli Stati membri".

Da corriere.it il 19 marzo 2022.

Solidarietà di Draghi a Guerini: «Difende gli italiani»

«Esprimo piena solidarietà al Ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, vittima di attacchi da parte del Governo russo. Il paragone tra l’invasione dell’Ucraina e la crisi pandemica in Italia è particolarmente odioso e inaccettabile». Lo dice il presidente del Consiglio, Mario Draghi. «Il Ministro Guerini e le forze armate sono in prima linea per difendere la sicurezza e la libertà degli italiani. A loro va il più sentito ringraziamento del Governo e mio personale», aggiunge il premier.

Guerini sulle minacce: «Solo propaganda»

«Non diamo peso a propaganda, incoraggiamo ogni passo politico e diplomatico che metta fine alle sofferenze del popolo ucraino»: è la replica del ministro italiano della difesa Lorenzo Guerini, che in giornata era stato definito «un falco» dalla Russia per il suo sostegno alle sanzioni. Mosca aveva minacciato Roma di ritorsioni nel caso avesse sostenuto le misure di boicottaggio.

Ministero Esteri Mosca: Guerini «falco» antirusso

Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini è stato definito da un funzionario del ministero degli Esteri russo, Alexei Paromonov, «uno dei principali `falchi´ e ispiratori della campagna antirussa del governo italiano». Il direttore del primo dipartimento per l'Europa del ministero guidato da Serghei Lavrov lo ha detto in una intervista esclusiva alla testata russa Ria Novosti.

Il segretario del Pd Enrico Letta ha risposto con un tweet: «Il Ministero degli Esteri russo piega a propaganda di guerra anche il dramma Covid nell'attaccare con farneticazioni inaccettabili il Ministro Lorenzo Guerini. Il nostro sostegno è ancora più convinto e diventa legittimo dubitare delle reali intenzioni di quelle missioni di aiuto sanitario».

Il "falco" della Difesa? Ex dc lodigiano atlantista. Paolo Bracalini il 20 Marzo 2022 su Il Giornale. 

Un attacco diretto e inedito alla scelta pro Nato di Roma.

Difficile definire «falco» Lorenzo Guerini, ex enfant prodige della Democrazia Cristiana lodigiana, arrivato al Pd passando dal Partito Popolare, la fucina per definizione dei moderati di centrosinistra. È cresciuto politicamente nell'ammirazione di Ciriaco De Mita e dentro la Dc ha coltivato la capacità di mediatore tra le correnti, senza mai identificarsi con una in particolare, già quand'era assessore democristiano della Dc a Lodi nei primi anni '90, guadagnando proprio per questa qualità il grado di capogruppo. È da sempre considerato, nel suo partito, un abile mediatore e «tessitore» di compromessi, abilità che gli sono valse l'appellativo di «Arnaldo», in considerazione delle riconosciute qualità dell'ex segretario Dc, Arnaldo Forlani. Formatosi all'oratiorio San Lorenzo di Lodi, «allevato a suon di testi sacri e classici mandati giù a memoria sotto l'ala di monsignor Luigi Fioretti - scrive Lettera43 -, ancora oggi ricordato da molti coetanei dell'ex sindaco come il più grande parroco della città». Poi all'università cattolica, tesi con Lorenzo Ornaghi (futuro rettore e ministro montiano) sul pensiero del filosofo partigiano Alessandro Passerin D'Entreves. Le passioni più estreme che ha sono quelle per Bruce Spreengsteen, U2 e Van Morrison. Oltre a quella avuta, qualche anno fa, per Matteo Renzi, conosciuto ai tempi dell'Anci. Per il resto va in bici (non ha la patente) e da qualche anno fa il ministro della Difesa, dopo essere stato presidente del Copasir.

Può essere più distante dall'ex dc Guerini l'immagine di «falco» e «ispiratore della campagna antirussa», affibbiatagli dal diplomatico Alexei Paramonov? Certo ai russi non sono andate giù le dichiarazioni atlantiste di Guerini, considerato tra i ministri più filoamericani degli ultimi governi in Italia. Su questo il ministro è sempre stato netto, come nell'ultima dichiarazione di pochi giorni fa: «L'Italia è fortemente impegnata e determinata a lavorare per supportare le decisioni assunte in seno all'Alleanza Atlantica». Non certo una dichiarazione di guerra a Mosca. E prima: «Putin ha perso una scommessa clamorosa: voleva meno Nato e invece oggi c'è più Nato ed un'Europa più unita. C'è la possibilità che la Russia e Putin puntino ad un gioco irresponsabile, a conseguire risultati militari per poi sedersi con più forza ad un eventuale tavolo. Siamo in presenza di un azzardo compiuto da Putin sulla pelle della popolazione ucraina». Poi l'Italia, e quindi la Difesa, ha fornito armi all'esercito ucraino (la lista degli armamenti è secretata ma si parla di sistemi anticarro Spike e antiaereo Stinger, mitragliatrici pesanti Browning e mortai). Poi, quando il giorno della votazione in Parlamento sulle misure in favore dell'Ucraina l'ambasciata russa a Roma ha fatto recapitare ai parlamentari delle commissioni Esteri e Difesa una dichiarazione di ministro degli Esteri russo Lavrov, Guerini ha commentato che quell'ingerenza «dà il senso dell'arroganza del regime russo». A Mosca se la devono essere segnata. E Arnaldo è diventato il «falco» che «ispira» la campagna contro la Russia.

Maria Teresa Meli per il “Corriere della Sera” il 20 marzo 2022.

Protagonista suo malgrado: Lorenzo Guerini non ama le luci dei riflettori, concede poche interviste, centellina le dichiarazioni, le sue apparizioni in televisione sono rarissime, ma ieri il ministro della Difesa si è trovato al centro della ribalta internazionale per l'attacco sferratogli da Alexei Paramonov, il direttore del dipartimento europeo del dicastero degli Esteri russo. 

Quando gli hanno riferito la notizia Guerini era a Milano, all'Arco della Pace, con il capo di Stato maggiore dell'Esercito Pietro Serino, per il giuramento di fedeltà alla Repubblica italiana di 44 allievi della scuola militare Teulié.

Com'è nel suo stile, non ha fatto una grinza: «Il programma non cambia», ha detto a chi gli stava vicino. E ha continuato la cerimonia, fermandosi a parlare con i giovani allievi. Ai quali, poco prima aveva spiegato: «La reazione della Nato e dei Paesi europei all'aggressione russa dell'Ucraina è stata forte e unanime. Una reazione di solidarietà e di amore per la libertà che riflette i valori della famiglia della Difesa di cui entrate a far parte». 

Anche dopo, quando Guerini ha ricevuto la solidarietà personale e pubblica di molti, dal premier Mario Draghi al ministro degli Esteri Luigi Di Maio e al segretario pd Enrico Letta, e di tutti i partiti, il ministro ha limitato i commenti al massimo.

«È solo propaganda, da non prendere in considerazione, propaganda a cui non darei un eccessivo peso, non cadiamo in queste provocazioni», ha detto a chi gli chiedeva se non fosse preoccupato per questo attacco. 

Lo ha però molto colpito il riferimento agli aiuti russi per il Covid, come ha confidato a un parlamentare: «Ma cosa c'entra? Non si può fare propaganda su una tragedia come quella. Peraltro io a suo tempo ho ringraziato tutti quelli che ci hanno supportato, però non è che se uno ci aiuta e due anni dopo invade un Paese si può aspettare un "bravo" per quell’aggressione».

Qualche amico più tardi gli ha fatto notare: «Avresti mai creduto di passare per un falco?». E lui ha sorriso, perché della prudenza ha fatto la sua bandiera. Anche in questi giorni difficili, il suo invito alla «cautela» era ripetuto e insistito. 

La sua posizione sull'invasione russa è stata netta e ferma sin dall'inizio, «un'aggressione temeraria e sanguinosa», l'ha definita. Ma ha sempre lasciato la porta aperta alla possibilità di un negoziato «per porre fine alle sofferenze del popolo ucraino».

Perciò i suoi amici faticano a vederlo nei panni del falco che ha orchestrato una campagna contro la Russia. Anche nella stringatissima nota che nel pomeriggio si decide a rilasciare per commentare l'attacco che gli è stato rivolto, torna il termine «propaganda» a cui, ribadisce, non bisogna dare peso. Come a voler circoscrivere l'entità dell’episodio. 

Pure al suo dicastero si preferisce minimizzare. Ai suoi collaboratori Guerini ha detto: «È un attacco all'Italia, più che alla mia persona». Già, il ministro della Difesa non vuole fare «il personaggio». A suo giudizio i protagonisti di questa grave crisi internazionale sono altri. Il «popolo ucraino, che con la sua resistenza sta dando testimonianza di eroismo». 

E il presidente Zelensky, che «è un punto di riferimento per il suo popolo, ma anche per la comunità internazionale». Basso profilo, dunque, come sempre, perché Guerini è fedele al motto secondo il quale «un ministro della Difesa deve evitare di parlare troppo». Grande determinazione, però: «La linea è quella e non cambia». Certo non per un «attacco propagandistico».

La memoria corta. Paolo Guzzanti il 20 Marzo 2022 su Il Giornale. 

Speriamo che a Mosca ci sia ancora qualcuno con la testa sulle spalle che non abbia perduto il senso delle parole e delle proporzioni dopo gli ultimi lanci subsonici.

Speriamo che a Mosca ci sia ancora qualcuno con la testa sulle spalle che non abbia perduto il senso delle parole e delle proporzioni dopo gli ultimi lanci subsonici di minacce da bulli ministeriali come quella di «conseguenze irreversibili» che ricorda «l'ora delle decisioni irrevocabili». E poi i rinfacci: il più misero è quello di aver inviato una colonna militare in Italia all'inizio della pandemia su discutibilissimo invito del governo Conte. E poi frasi minacciose di vecchio sapore sovietico come quella dedicata al ministro della Difesa Lorenzo Guerini, definito «uno dei falchi e ispiratori della campagna antirussa del governo italiano».

A Mosca si dovrebbero dare una calmata: non esiste alcuna campagna antirussa, se non quella che il Cremlino si sta facendo da solo invadendo uno Stato sovrano nel quale porta rovina, morte e distruzione. Semmai, farebbero bene a scendere dalla torretta del carro armato e ragionare. Chiedendosi come mai, proprio l'Italia che ha mostrato sempre una solida amicizia malgrado i venti di guerra fredda, sia verso l'Urss sia per la Federazione Russa, oggi sia così compatta nel condividere lo stesso atteggiamento di condanna di tutte le democrazie occidentali, europee e no.

Siamo sicuri che a Mosca ricordino bene. L'Italia repubblicana ha svolto nei confronti della Russia una politica spesso non gradita dagli alleati atlantici, praticando una politica commerciale vantaggiosa per entrambi i Paesi. Basta ricordare la posizione entusiasticamente filorussa di Giulio Andreotti e quella di personale amicizia con Putin di due politici italiani fra loro avversari, come Romano Prodi e Silvio Berlusconi i quali, entrambi, hanno fatto risaltare il «fattore umano» come strumento geopolitico. L'Italia ha cercato sempre di smorzare i toni e ridurre le conseguenze di atti di forza ancor prima dell'invasione dell'Ucraina, come la violazione della frontiera con la Georgia e l'annessione della Crimea, che hanno provocato un crescendo di irritazione nel campo delle democrazie. Ogni volta, l'Italia e i suoi politici hanno affrontato con moderazione quel che accadeva, lavorando per ridurre l'asprezza delle sanzioni e proteggere rapporti e interessi commerciali. Quel che è accaduto con la sanguinaria operazione militare in Ucraina non poteva però non provocare reazioni e allarme. Chi ha creato questa situazione si trova a Mosca e non a Roma. Eppure il risultato sono minacce, rinfacci e insulti.

Potremmo prendere in prestito una vecchia maschera di Alberto Sordi e chiedere: «'A russi! Vi abbiamo protetto e amato quando gli altri vi odiavano e voi ci minacciate? Ve siete bevuti la vodka in orario di lavoro? State calmi e riportatevi a casa tutta la vostra ferraglia». Una volta la Russia era la patria di Gogol. Sarà rimasto qualcosa del senso dell'umorismo e della decenza?

Alessandro Di Matteo per “La Stampa” il 20 marzo 2022.

Adesso la Russia alza la voce con l'Italia, Mosca minaccia «conseguenze irreversibili» in caso di inasprimento delle sanzioni e attacca direttamente il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, definito un «falco» e accusato di avere dimenticato l'aiuto di Vladimir Putin durante l'emergenza Covid nel 2020. Un'escalation verbale che provoca la reazione di quasi tutti i partiti italiani e che il premier Mario Draghi respinge con una nota ufficiale. L'affondo arriva da Alexei Paramonov, direttore del primo dipartimento europeo del ministero degli Esteri russo, che risponde alle minacce francesi di inasprire le misure contro Mosca accusando, tra l'altro, il governo italiano di «isteria».

Un vero e proprio avvertimento, quello di Paramonov: «Non vorremmo che la logica delle dichiarazioni del ministro dell'Economia francese Bruno Le Maire, che ha dichiarato "guerra finanziaria ed economica totale" alla Russia, trovasse seguaci in Italia». Parole che fanno subito scattare la reazione di Enrico Letta, segretario del Pd, il partito di Guerini. «Il ministero degli Esteri russo piega a propaganda di guerra anche il dramma Covid, nell'attaccare con farneticazioni inaccettabili il ministro Lorenzo Guerini. Il nostro sostegno è ancora più convinto e diventa legittimo dubitare delle reali intenzioni di quelle missioni di aiuto sanitario».

Già due anni fa, del resto, c'erano state polemiche per la scelta del governo (allora guidato da Giuseppe Conte) di accettare l'aiuto dell'esercito russo. Netta anche la presa di posizione della Farnesina, che «respinge con fermezza le dichiarazioni minacciose» di Paramonov e «invita il ministero degli Esteri» russo ad «agire per la cessazione immediata dell'illegale e brutale aggressione» nei confronti dell'Ucraina. Ma poco dopo è lo stesso presidente del Consiglio a fare uscire una nota ufficiale: «Esprimo piena solidarietà al ministro della Difesa Lorenzo Guerini, vittima di attacchi da parte del Governo russo».

Il premier, poi, definisce «particolarmente odioso e inaccettabile il paragone tra l'invasione dell'Ucraina e la crisi pandemica in Italia» e conclude: «Il ministro Guerini e le forze armate sono in prima linea per difendere la sicurezza e la libertà degli italiani. A loro va il più sentito ringraziamento del Governo e mio personale». Parla anche il bersaglio degli attacchi russi, Guerini appunto, ma per minimizzare: «Non diamo peso alla propaganda. Incoraggiamo invece ogni passo politico e diplomatico che metta fine alle sofferenze del popolo ucraino.

L'Italia è a fianco dell'Ucraina e continuerà ad esserlo». Al ministro arriva una solidarietà praticamente unanime, anche se qualche sfumatura si nota. Oltre al Pd, schierato a difesa del suo uomo, anche Matteo Renzi, Carlo Calenda e Fi fanno quadrato. Per il partito di Silvio Berlusconi parla il coordinatore Antonio Tajani e tutti e tre i ministri - Mara Carfagna, Mariastella Gelmini e Renato Brunetta. A fianco di Guerini anche diversi esponenti M5s, a cominciare dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D'Incà. Dalla Farnesina Luigi Di Maio rimanda al mittente le accuse - «le minacce di Putin denotano la difficoltà in cui si trova» - e rilancia: «Il governo russo, invece di trascorrere le giornate minacciando, fermi la guerra in Ucraina che sta causando la morte di civili innocenti».

Più tiepido il sostegno di Lega e Fratelli d'Italia. Matteo Salvini non si pronuncia, la «piena e totale solidarietà» arriva dalla sottosegretaria alla Difesa Stefania Pucciarelli, da Paolo Ferrari e da Paolo Formentini. Per Fdi si fa sentire Fabio Rampelli: «Di fronte ai tentativi di intimidazione da parte di Putin e dei suoi ministri la posizione dell'Italia non cambia di un millimetro. Tace però Giorgia Meloni e, anzi, parlando con l'Ansa, il capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida, pur esprimendo solidarietà a Guerini, se la prende con Luigi Di Maio: «Ritengo sbagliati alcuni atteggiamenti tenuti dal governo italiano, in particolare le dichiarazioni del ministro di Di Maio che sono una miccia che rischia di innescare un conflitto dialettico tra la diplomazia»

Ilario Lombardo per “La Stampa” il 20 marzo 2022.

Come sempre quando mandano un messaggio, i russi vanno interpretati. Anche quando è così esplicito. Anzi: soprattutto quando è così esplicito. Ed è quello che hanno fatto nel governo, a Palazzo Chigi, agli Esteri e alla Difesa, dopo aver letto le dichiarazioni di Alexej Paramonov. Nonostante la minaccia di ritorsioni se l'Italia dovesse sostenere un inasprimento delle sanzioni contro Mosca, e l'attacco chirurgico contro il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, la prima reazione è stata: non rispondiamo. Il direttore del dipartimento europeo del ministero degli Esteri russo è sì un alto funzionario, ma non è il ministro, né il suo portavoce.

Via via che monta la polemica tra i partiti, però, nel governo cominciano a temere il proprio silenzio. Il sostegno tra forze politiche e ministri diventa universale, e precede la nota con cui il premier Mario Draghi difende e ringrazia Guerini e l'esercito, definendo «particolarmente odioso e inaccettabile il paragone tra l'invasione russa e la crisi pandemica in Italia», quando da Mosca, nel marzo 2020, arrivarono aiuti militari e sanitari che ieri il diplomatico ha rinfacciato al governo.

Paramonov non è un funzionario qualsiasi: ex console a Milano, conosce benissimo l'Italia, ed è stato tra i candidati per il posto di ambasciatore a Roma. L'intervista, consegnata non a caso all'agenzia pubblica Ria Novosti, ha uno scopo preciso. È il Cremlino che parla perché Palazzo Chigi intenda. E il messaggio, si diceva, va in parte decriptato. Soprattutto quando il diplomatico russo affibbia l'etichetta di «falco» a Guerini. Con i colleghi il ministro ci ha sorriso su: «Chiunque mi conosca non mi definirebbe così». Per carattere, per l'eredità democristiana su cui Guerini scherza sempre e che gli fa prediligere il realismo, non si sente un falco. Ma sa benissimo cosa c'è dietro la scelta di quel termine. Guerini è considerato la maggiore garanzia atlantista dentro il governo. Una fede, verso l'alleato americano, che ha sempre coltivato, anche da presidente del Copasir, la commissione parlamentare sui servizi segreti.

Per il suo incarico alla Difesa, per la distanza che è naturale resti sulla collaborazione militare, a differenza di altri Guerini ha invece mantenuto pochi rapporti con il governo di Mosca e ha visto il suo omologo Sergej ojgu, l'architetto dell'invasione dell'Ucraina, solo una volta. Lo ha pubblicamente ringraziato per i mezzi e gli uomini che arrivarono durante il Covid, ma pensare di tirar fuori quegli aiuti per ammorbidire la condanna di quanto sta avvenendo a Kiev, suona «moralmente» sbagliato, secondo Draghi e la totalità dei partiti. È all'amico di Washington, ed è dunque indirettamente all'amministrazione Usa, che i russi stanno lanciando i loro avvertimenti.

L'altro ieri Guerini ha visto Carlos Del Toro, segretario della Marina americana con cui ha parlato di partnership strategica nel settore navale. Ed è il ministro che più di tutti sta lavorando, da tre anni, per ridare ossigeno agli investimenti militari, e raggiungere l'obiettivo di aumentare la spesa fino al 2 per cento di Pil, come i presidenti degli Stati Uniti, Donald Trump e Joe Biden, chiedono da anni agli alleati Nato. C'è un accordo del 2014 che lo prevede. Quello fu l'anno dell'annessione della Crimea e dell'inizio della guerra nel Donbass.

Dopo 8 anni, e un mese di un'aggressione unilaterale che ha sfondato i confini dell'Europa, l'Italia vuole mettersi in pari il prima possibile: «Non ci faremo spaventare dalle minacce» è il senso in queste ore delle parole di Draghi, che martedì sarà alla Camera ad assistere all'intervento del presidente ucraino Zelensky. Aumentare i finanziamenti vuol dire rafforzare il sistema di sicurezza nei Baltici e ai confini della Russia. Il Cremlino lo sa. E lo teme. Aveva scommesso sullo sbandamento grillo-leghista del biennio 2018-2020 per Vladimir Putin, mentre ora si ritrovano il secondo principale partner commerciale in Europa che non si sottrae alle durissime sanzioni, nonostante i tentennamenti nei primi giorni dell'attacco.

Non si sa se le misure saranno esasperate. L'Italia non spinge a farlo fino a rompere ogni rapporto commerciale, e, visti i legami economici, storicamente sostiene una linea più moderata. Ma la strategia di Draghi prevede un principio: l'Italia si muove compatta con i partner europei. La solerzia con cui l'ambasciatore a Mosca Giorgio Starace avrebbe invitato le aziende italiane a non lasciare la Russia, come ricostruito da La Stampa una settimana fa, secondo fonti diplomatiche non è piaciuta a Draghi. La guerra in Ucraina ha cambiato tutto. E non bisogna mostrare alcuna ambiguità. Ecco perché il passaggio in cui Paramonov avverte l'Italia è definito «subdolo» dalle stesse fonti. La dipendenza dal gas russo fa paura. Ma altrettanto forte, al governo, è la sensazione che Putin non si priverà di una delle poche entrate certe che gli sono rimaste dall'estero e con cui finanzia l'enorme campagna ucraina.

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 21 marzo 2022.

Cartelle cliniche con i dati sanitari dei pazienti, accordi commerciali per farmaci e strumentazione, ma soprattutto un patto di ferro per la realizzazione dello Sputnik, il vaccino anti-Covid. C'è tutto questo dietro l'avvertimento all'Italia e l'attacco al ministro della Difesa Lorenzo Guerini di Alexei Vladimorovic Paramonov, 60 anni, ex console russo a Milano, direttore del dipartimento europeo del ministero degli Esteri che ha minacciato «conseguenze irreversibili» se il nostro Paese aderirà al nuovo piano di sanzioni contro Mosca.

Il timore della diplomazia e dell'intelligence è che la ritorsione si realizzi rivelando che cosa davvero accadde a partire dal marzo 2020, dopo l'arrivo di una delegazione di russi nel nostro Paese. La versione ufficiale parlava di aiuti per affrontare l'emergenza pandemica. In realtà la missione degli 007 aveva ben altri scopi. Al telefono con Putin È la sera di 22 marzo 2020, domenica, quando all'aeroporto militare di Pratica di Mare, alle porte di Roma, atterrano tredici quadrireattori Ilyushin decollati da Mosca. 

Ad attenderli c'è il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, l'accordo per la missione è stato preso il giorno precedente con una telefonata tra l'allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il presidente russo Vladimir Putin. Il livello dei rapporti tra Italia e Russia in quel momento è all'apice. Nel luglio precedente Putin è stato ricevuto con tutti gli onori a Villa Madama per una cena che ha unito imprenditori e politici, con 5 Stelle e Lega a farla da padrone. Quella sera, quando ha inizio la missione «Dalla Russia con amore», l'Italia ha 80.539 positivi da Coronavirus e 8.165 decessi.

La zona peggiore è quella di Bergamo con 7.458 contagiati. Ma a preoccupare è soprattutto la carenza di ventilatori e mascherine. Ne servono milioni al giorno ma l'Italia non ne produce e quindi la ricerca all'estero è spasmodica. Ecco perché, almeno inizialmente, la missione russa viene accolta con entusiasmo. Militari e scienziati Sin da subito qualcosa però non torna. Ufficialmente si tratta di aiuti sanitari ma nella lista dei 104 nomi ci sono solo 28 medici e quattro infermieri. Gli altri sono militari. 

A guidare la spedizione è il generale Sergey Kikot, vice comandante del reparto di difesa chimica, radiologica, biologica dell'esercito russo. Nel suo curriculum c'è la collaborazione con aziende che producono e riparano armi per la protezione chimica, radioattiva e biologica. Con lui ci sono Natalia Y. Pshenichnaya, vicedirettrice dell'Istituto centrale di ricerche epidemiologiche, e Aleksandr V. Semenov, dell'Istituto Pasteur di San Pietroburgo. Entrambi lavorano al Rospotrebnadzor, la struttura sanitaria civile a cui Putin il 27 gennaio 2020 ha affidato la supervisione del contrasto all'epidemia.

Qual è il vero ruolo di questi scienziati in Italia? E quali sono i compiti affidati ai militari? Ma soprattutto, quanti sono gli uomini del GRU, il servizio informazioni delle forze armate russe? Dna e dati sanitari Ci sono alcuni elementi che non possono essere ignorati. Nel febbraio 2020, quando il mondo affronta l'emergenza da Covid-19, i russi chiedono alle autorità cinesi di andare a Wuhan, ma il permesso viene negato. L'Italia non mette invece alcun vincolo per l'accesso agli ospedali, ai laboratori, ai dati. 

Qualche mese dopo il New Yorker rivela che «il Dna di un cittadino russo che si è ammalato in Italia il 15 marzo è stato usato per elaborare il vaccino Sputnik». È la dimostrazione che la delegazione proveniente da Mosca ha potuto utilizzare le informazioni, ma anche reperti genetici, visionare dati riservati relativi ai pazienti e all'organizzazione delle strutture sanitarie. Non è l'unica occasione.

Il patto di Roma Mentre nei mesi successivi si stringono numerosi accordi commerciali, nell'aprile 2021 la Regione Lazio firma un patto «per la collaborazione scientifica tra l'Istituto Spallanzani di Roma e l'Istituto Gamaleya di Mosca per valutare la copertura delle varianti di Sars-CoV-2 anche del vaccino Sputnik V». Nonostante Ema non abbia mai autorizzato lo Sputnik, tra le due strutture sanitarie ci sono stati numerosi scambi di dati «sensibili» relativi al Covid.

Come sono avvenuti? Su quali piattaforme? La collaborazione è stata interrotta dallo Spallanzani qualche giorno fa, quasi tre settimane dopo l'inizio dell'invasione. Ad alimentare il sospetto che molto ci fosse da nascondere in quella missione è stata anche la lettera - inviata nell'aprile 2020 al quotidiano La Stampa due anni fa dopo gli articoli di Jacopo Iacoboni che per primo aveva rivelato i dettagli della missione russa in Italia - firmata da Igor Konashenkov, capo della comunicazione ufficiale di Mosca. La fine della missiva era diretta: «Chi scava la fossa, ci finisce dentro».

Simone Bianco per il “Corriere della Sera” il 21 marzo 2022.

Il 26 marzo 2020 Giorgio Gori partecipò alla conferenza stampa - in cui le domande erano vietate - con i militari russi appena arrivati in città per aiutare un territorio devastato dal coronavirus. In un tweet di qualche giorno fa, il sindaco di Bergamo si è chiesto se quella missione fosse «aiuto, propaganda o intelligence». 

Nel marzo 2020 ci fu tempo per pensare alle reali intenzioni di quella missione?

«No, eravamo in grande difficoltà. L'apertura dell'ospedale alla Fiera di Bergamo venne inizialmente rinviata per il bidone dei medici promessi e mai inviati dai cinesi. Dell'arrivo dei russi qui abbiamo saputo all'ultimo, credo che su questo ci fosse stato un contatto tra Putin e Conte. Ricordo l'atmosfera sinistra di quella conferenza stampa, in cui i giornalisti non potevano rivolgersi ai militari». 

L'aiuto dei russi fu reale?

«Questo è certo. Oltre ad aver sanificato le case di riposo, trenta medici lavorarono in Fiera e furono determinanti per il funzionamento di quell'ospedale. Altri medici italiani mi hanno testimoniato la competenza dei colleghi russi. In effetti, quando se ne andarono, tributammo loro il giusto ringraziamento».

Negli ultimi due anni però sono emersi i dubbi.

«Sì, se guardiamo alla composizione di quel contingente russo, fatto solo in parte da medici, è giusto chiedersi quali fossero i loro reali obiettivi. Quando parlo di intelligence la intendo in senso scientifico: il vaccino Sputnik sarebbe stato sviluppato partendo da un campione di virus prelevato in Italia. Già questo basta per dubitare che la missione fosse dovuta a pura generosità. Aggiungiamo che la Russia ha usato quella missione per propaganda, sottolineando la supposta inefficienza dei Paesi Nato». 

La linea tenuta fin qui dal governo Draghi va confermata, anche di fronte alle minacce russe?

«Sì, come ha fatto dall'inizio il segretario del Pd Enrico Letta, bisogna essere fermi nel condannare l'aggressione e nel supportare l'Ucraina. Vedo invece in difficoltà un'altra area della maggioranza». 

Parla di Conte e Salvini?

«Nel mondo Cinquestelle e in quello leghista probabilmente c'è imbarazzo per i rapporti tenuti negli anni passati e nelle rispettive basi tuttora cova una diffusa simpatia per Putin e la Russia. Non so se sia un caso che Conte stia frenando sull'aumento della spesa militare, mentre Salvini si è buttato su questa linea pacifista davvero improbabile. Molto più coerente e credibile Giorgia Meloni, che dall'inizio ha condannato Putin e supportato l'invio di armi all'Ucraina». 

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 21 marzo 2022.

Il 5 marzo scorso, diciannove giorni prima dell'inizio ufficiale dell'invasione russa in Ucraina, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, che era stato testimone diretto dell'operazione degli "aiuti russi in Italia per il Covid" (i russi operarono a Bergamo e provincia), scrisse sui social: «Col senno di poi è inevitabile tornare alla missione russa in Italia della primavera 2020. Sono testimone dell'aiuto prestato a Bergamo dai medici del contingente, ma va ricordato che a Pratica di Mare arrivarono più generali che medici. Fu aiuto, propaganda o intelligence?».

Sabato scorso, dopo le minacce della Russia all'Italia e al ministro Lorenzo Guerini, il segretario del Pd Enrico Letta ha scritto: «Il ministero degli Esteri russo piega a propaganda di guerra anche il dramma Covid, attaccando con farneticazioni inaccettabili il ministro Lorenzo Guerini. Il nostro sostegno è ancora più convinto e diventa legittimo dubitare delle reali intenzioni di quelle missioni di aiuto sanitario». 

Ieri invece il M5S era irritato per le «strumentalizzazioni e dietrologie» sulla missione "Dalla Russia con amore", fatte «solo per attaccare il governo Conte e il suo operato in pandemia»: «Lo stesso Copasir - sostiene il M5S - ha potuto accertare che quella missione russa si è svolta esclusivamente in ambito sanitario, sempre sotto il controllo dei mezzi militari italiani».

Tuttavia agli atti del Parlamento c'è un'interrogazione parlamentare dei radicali, firmata da Riccardo Magi nell'aprile del 2020, che ottenne una risposta fin troppo esplicita, a rileggerla adesso, da parte del governo Conte: il 12 ottobre 2020, toccò alla viceministra degli Esteri, la grillina Emanuela Del Re, darla. Il testo è assai importante, adesso che i russi rinfacciano quegli "aiuti" all'Italia per esercitare una qualche forma di improbabile pressione sul governo Draghi, e spingerlo a non procedere con altre sanzioni a Mosca.

La prima cosa che Del Re mise agli atti del Parlamento fu che, appunto, la cosa era stata trattata direttamente da Putin e Conte, proprio come aveva scritto La Stampa: «A seguito di colloqui tra il Presidente Conte e il Presidente Putin e tra il Ministro della difesa Guerini e l'omologo russo Shoygu, è stato convenuto l'invio in Italia di materiali e personale sanitario». In pratica fu proprio il governo Conte a dire che i colloqui avvennero al più alto livello (l'allora premier italiano e Vladimir Putin), e dunque il contatto Guerini-Shoigu fu di natura attuativa di quanto deciso dai due leader. 

Basterebbe già questo a smentire le accuse russe a Guerini. Ma nella risposta di Del Re sono contenute altre due cose rilevanti. La prima e più clamorosa è questa: «Al personale russo impegnato nell'attività di supporto è stato fornito vitto e alloggio presso strutture alberghiere nel bergamasco, con oneri a carico della Protezione civile regionale». Traduzioni: i russi fecero passare il tutto come doni, ma l'Italia ha pagato anche la sistemazione in alberghi del personale.

Si trattò, scrive Del Re, di «104 unità, nello specifico 32 operatori sanitari (tra medici e infermieri), 51 bonificatori e altro personale di assistenza e interpretariato a supporto». Tutti a spese dell'Italia, non della Russia: «Il team sanitario russo è rimasto in Italia dal 22 marzo al 7 maggio 2020». A ciò va aggiunto, come scrisse allora La Stampa senza essere mai smentita, che quando i primi grandi aerei Ilyushin arrivarono a Pratica di mare, i comandanti della missione russa chiesero che fossero gli italiani a pagare le cospicue spese di volo e carburante degli aerei.

Qualcosa che si aggirava (calcolo per difetto) tra i 700mila euro e il milione. Il governo Conte comunicò infine al Parlamento l'entità dei famosi "aiuti", e qui dobbiamo correggerci: riferimmo di 600 ventilatori (cifra che sarebbe stata comunque modesta), ma il governo Conte ci dice che fu molto meno: «Per quanto riguarda le donazioni ricevute, la Protezione civile ha riferito di aver ottenuto e distribuito sul territorio nazionale: 521. 800 mascherine, 30 ventilatori polmonari, 1. 000 tute protettive, 2 macchine per analisi di tamponi, 10. 000 tamponi veloci e 100. 000 tamponi normali». 

La viceministra degli Esteri comunicò poi al Parlamento che «il rientro in Russia dei componenti della delegazione è stato completato il 15 maggio e il flusso degli invii di aiuti è stato sospeso, di comune accordo con la controparte russa, in considerazione del progressivo miglioramento della situazione sanitaria nel nostro Paese e del contestuale peggioramento della situazione sanitaria in Russia». La missione russa fu insomma chiusa anzitempo, e precipitosamente.

Pasquale Napolitano per “il Giornale” il 21 marzo 2022.  

Cosa si nasconde dietro le minacce di Mosca all'Italia? Perché il Cremlino ha messo nel mirino soprattutto Roma? E non altri Paesi europei che pure hanno approvato le sanzioni contro la Russia e inviato armi a Kiev. Due giorni fa, Alexei Vladimorovic Paramonov, ex console russo a Milano, direttore del dipartimento europeo del ministero degli Esteri, ha minacciato l'Italia di «conseguenze irreversibili» se aderirà al nuovo piano di sanzioni contro Mosca. 

Paramonov, che nel 2018 ha ottenuto su proposta dell'allora premier Giuseppe Conte, la nomina di Cavaliere della Repubblica italiana, ha bollato il ministro della Difesa Lorenzo Guerini come «un falco» e ha accusato il governo italiano di aver «dimenticato gli aiuti ricevuti dal Cremlino durante la pandemia». Il funzionario russo, uno che conosce molto bene il tessuto produttivo ed economico italiano, tira in ballo la missione «dalla Russia con amore».

È il 22 marzo 2020, l'Italia è aggredita dal coronavirus, quando all'aeroporto militare di Pratica di Mare arrivano in soccorso i russi: si tratta ufficialmente di una missione sanitaria. Ma nella delegazione, 104 componenti, ci sono solo 28 medici e quattro infermieri. Gli altri sono militari. Lo scopo della missione è supportare esercito e medici italiani nella lotta al Covid nella città di Bergamo.

I russi vengono accolti con tutti gli onori. All'aeroporto di Pratica di Mare c'è il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Il riferimento di Paramonov è alla missione del marzo 2020. Cosa c'è dietro? Le ipotesi sono due. La prima, che però non trova molti riscontri, è che quella missione portò in dote alla Russia una serie di accordi economici e commerciali con l'Italia. Una pista che metterebbe nel mirino l'allora inquilino di Palazzo Chigi Giuseppe Conte. Accordi «traditi» con la decisione del governo italiano di spostarsi sulle posizioni di Kiev e di sostenere le durissime sanzioni contro Mosca.

Un feeling archiviato: «L'Italia ha messo da parte ogni, per così dire, romanticismo nei confronti della Russia», conferma all'Ansa la vice premier dell'Ucraina Olga Stefanishyna. L'altra ipotesi, molto più accreditata sia negli ambienti italiani che russi, è che lo scopo della missione fu sostanzialmente quello di studiare da vicino un focolaio importante come quello italiano. Mosca intuì prima dell'Italia l'importanza politica del vaccino e della pandemia. 

La missione rientrava in quella che in quei giorni venne definita «diplomazia degli aiuti», una declinazione del cosiddetto soft power: un'operazione messa in campo dal Cremlino per accreditare il suo prestigio verso le popolazioni occidentali. Non ci fu, dunque, nessun accordo commerciale o economico alla base della missione. Quali allora le ragioni dell'attacco mirato contro il governo italiano? Mosca si sente tradita. L'Italia verso la Russia, anche durante le sanzioni, è stata la Nazione, tra quelle occidentali, che ha sempre mantenuto un dialogo.

Ma ha soprattutto conservato rapporti economici e culturali. Basta rileggere un documento firmato nel 2015 dall'allora Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (capo della diplomazia europea), l'italiana Federica Mogherini, nel quale insisteva sulla necessità per l'Europa di riaprire il dialogo con la Russia di Putin. Il documento fu giudicato da alcuni troppo conciliante con la Russia. E dunque, Mosca confidava in maggior prudenza da parte di Roma. Ma soprattutto sperava, in virtù di un'antica sintonia, nel ruolo di mediatore da parte del governo italiano.

Jacopo Iacoboni per “La Stampa” il 20 marzo 2022.

«Qui fodit foveam, incidit in eam». «Chi scava la fossa, ci finisce dentro». Alle sette di sera di venerdì 3 aprile 2020, il generale russo Igor Konashenkov - un uomo che è oggi uno dei quattro russi incaricati di gestire l'invasione in Ucraina, assieme a Vladimir Putin, al ministro della Difesa Sergey Shoigu, al capo delle forze armate Valery Gerasimov - pubblicò un post di duro attacco a La Stampa sul sito del Ministero della Difesa di Mosca.

Cosa era successo per meritarsi quella che a molti parve una seria minaccia? E che ruolo ebbe l'Italia, che ora viene allusivamente minacciata da Mosca, che ci ha sempre trattato come anello debole dell'Europa, negli anni dei populisti al potere? 

La Stampa aveva raccontato, in una serie di inchieste, alcuni dati di fatto, sulla base di tante fonti politiche e militari convergenti. Uno, che la cosiddetta missione di «aiuti russi all'Italia per il Covid» era stata trattata direttamente da Vladimir Putin con Giuseppe Conte.

Sabato 21 marzo del 2020 c'era stata una telefonata tra l'allora premier italiano e il presidente della Russia. La Stampa raccontò che i due avevano concordato che la Russia avrebbe mandato in Italia degli aiuti per la pandemia di Covid 19, ma un insolitamente laconico comunicato della presidenza del Consiglio sorvolava su questo aspetto. 

Rivelammo che gli «aiuti» sarebbero arrivati con una spedizione militare russa, attraverso giganteschi aerei militari cargo a Pratica di Mare, con un security clearance (controllo doganale solo sulle merci).

Dentro gli aerei vi sarebbero stati 22 autocarri militari e 120 medici militari russi, specialisti nella guerra batteriologica, alcuni provenienti da teatri di guerra (tipo i Paesi africani alle prese con Ebola) e sotto il controllo del ministero della Difesa di Mosca. 

Scoprimmo che il capo della missione era Sergey Kikot, già in guerra in Siria per la Russia, il generale a cui la Russia affidò la difesa di Bashar Assad al processo a L'Aja, dall'accusa (ormai provata) di aver usato gas sui civili a Ghouta, in Siria.

Lo stesso generale era incaricato in patria di vigilare sullo smantellamento dei laboratori chimici sovietici (poi riconvertiti nei «Novichok Labs»). Le nostre fonti sostennero, come fu riferito, che l'entità degli aiuti era limitata, «all'80% inutile», come poi i fatti confermarono (326 mila mascherine, il solo Egitto ne aveva mandate due milioni, e seicento ventilatori polmonari, alcuni dei quali - si apprenderà dopo - facevano parte di un lotto di ventilatori che finì sotto inchiesta negli Usa per gravi difetti: in sostanza, s’incendiavano). 

Venne fuori anche che il dono non era poi un dono (all'Italia era stato chiesto il pagamento del carburante dei voli). Tra l'altro, l'Italia ha già dei reparti NBC, chimici e batteriologici, all'avanguardia nella Nato: che bisogno c'era di farsi mandare quelli russi?

L'operazione fu chiamata dal Cremlino «Dalla Russia con amore», e diverse fonti di alto livello ce la presentarono come operazione di propaganda, con la sfilata (mai avvenuta prima in un Paese Nato) di camion militari e bandiere russe per seicento chilometri da Roma a Bergamo, e con possibilità molto seria di una operazione di intelligence, dissero diverse fonti on the record. 

Molti dei militari arrivati erano inquadrati nel GRU, i servizi segreti militari di Mosca. Mesi dopo il New Yorker rivelò le parole di uno dei direttori dell'Istituto Gamaleya: il primo Dna del coronavirus - usato dai russi per elaborare il vaccino Sputnik - era stato isolato da un cittadino russo che si era ammalato in Italia il 15 marzo.

Putin vide nel Coronavirus un'opportunità per incunearsi anche fisicamente nel teatro italiano. Il ministro della Sanità, Roberto Speranza, seppe della cosa all'ultimissimo momento. Farnesina e Difesa non ebbero la parola decisiva, che invece arrivò con certezza da Palazzo Chigi. 

Non sorprende ora che venga minacciato il ministro Lorenzo Guerini, uno dei più istituzionali in quella opaca e pericolosa vicenda. In quella fase anche oligarchi russi erano all'opera. Alisher Usmanov - ex capo di Gazprominvest e poi di Metalloinvest, di casa da noi, oggi sanzionato col sequestro totale degli asset - fece importanti donazioni sul Covid alla Sardegna.

L'ambasciata italiana a Mosca, retta allora da Pasquale Terracciano, in un comunicato ufficiale del 14 maggio 2020 annunciò che il capo del Fondo sovrano russo, Kirill Dmitriev (altro oligarca importantissimo, finito in diverse pagine dell'inchiesta di Robert Mueller, già ospite un anno prima, nel giugno 2019, della famosa cena a Villa Madama offerta da Palazzo Chigi, quella delle foto di Conte e dei suoi vice Salvini e Di Maio sorridenti accanto a Putin), veniva insignito dell'onorificenza dell'Ordine della Stella d'Italia «a titolo di riconoscimento da parte della Repubblica italiana al supporto del Fondo russo nella lotta contro la pandemia da coronavirus».

In quel comunicato si leggeva anche: «Il Fondo russo sta collaborando con le società italiane nel campo delle tecnologie mediche, ai fini della ricerca dei nuovi strumenti di lotta contro il coronavirus», e si faceva riferimento a collaborazioni con precise società italiane, anche «riguardo al trattamento del Coronavirus con i medicinali derivati dal plasma sanguigno umano». 

Vi fu, in seguito, una forte propaganda russa per far produrre o adottare il vaccino Sputnik in Italia, e una collaborazione con l'Istituto Spallanzani: l'obiettivo non fu raggiunto, anche perché l'Ema non autorizzò mai il vaccino russo.

Estratti dall'articolo di Carlo Tecce per espresso.repubblica.it/ del 13 novembre 2020. 

Un documento riservato dall’Ambasciata di Roma inviato a Washington indica i fedelissimi su cui la Casa Bianca può contare. Scarsa la considerazione per i 5 Stelle: solo Di Maio si salva

Alla fine li hanno messi assieme, un ex democristiano e un ex comunista: Lorenzo Guerini, ministro della Difesa e Vincenzo detto Enzo Amendola, ministro agli Affari europei. Per gli americani i due esponenti del Pd sono i ministri più “affidabili” del governo giallorosso di Giuseppe Conte. Lewis Michael Eisenberg, l’ambasciatore americano a Roma, l’ha riferito più volte a Washington e l’ha ripetuto nell’ultimo dispaccio - di cui l’Espresso ha notizia da più fonti qualificate - inviato al dipartimento di Stato alla vigilia delle elezioni per la Casa Bianca. Una sorta di documento di congedo con dettagliate annotazioni sull’esecutivo italiano.

Carriera a Wall Street con un passaggio a Goldman Sachs, capo dell’autorità portuale di New York, tesoriere del comitato nazionale dei Repubblicani e poi del fondo per la candidatura di Donald Trump, 78 anni compiuti, Eisenberg era già pronto al ritorno a casa per il prossimo gennaio, ora scontato con la vittoria di Joe Biden. 

Il titolare della Difesa parla poco, ma il suo potere sta crescendo. E con la pandemia ha ritagliato per l’esercito un ruolo chiave, facendosi amico l'alleato americano. Mentre l'ex ministra Trenta gli manda lettere furibonde

Non si sa molto di Lorenzo Guerini, solo che si tratta di un democristiano. Questo vuol dire, forse, che si sa tutto. Gli americani l’hanno notato tempo fa. Ancora prima che il 5 settembre 2019, di ritorno da un viaggio di famiglia negli Stati Uniti, venisse nominato ministro della Difesa. 

Guerini è il classico che torna di moda: democristiano, cattolico, americano. Dopo le sbandate russe e soprattutto cinesi del governo Conte I e la perigliosa politica estera dei vice Matteo Salvini e Luigi Di Maio, l’Italia si è ridata quel contegno che l’ha segnata sin dall’epoca di Alcide De Gasperi: Washington indica, Roma avanza. Guai a dirazzare. (…)

Dagonews il 23 marzo 2022.

Spionaggio batteriologico? Infiltrazione di intelligence negli uffici pubblici italiani? Maddeché! La missione dei russi in Italia del marzo 2020, ufficialmente organizzata per dare una mano al nostro paese travolto dalla prima ondata di covid, non serviva a infilare le cimici negli uffici del catasto o all’anagrafe di Bergamo. 

I servizi segreti italiani, che hanno storicamente avuto un dialogo con i colleghi russi, sapevano che nella delegazione messa su da Putin c’erano militari e uomini dell’Intelligence. E’ ingenuo pensare che i nostri servizi fossero all’oscuro di quel che stesse accadendo: quel tipo di missioni in arrivo dall’estero, per di più da un paese “sensibile” come la Russia, viene concordata a livello politico ma poi “vagliata” a livello di intelligence.

L’obiettivo dei russi era sperimentare, in quello che era il principale focolaio d’Europa in quel momento, le prime composizioni del vaccino Sputnik. Putin voleva portare a casa un successo internazionale: mostrare l’avanguardia della scienza russa e poi produrre, all’estero, il vaccino con cui salvare il mondo. 

Come ammesso a “Report” da Vladimir Gouschin, capo del laboratorio dell’Istituto Gamaleya di Mosca, il primo prototipo di Sputnik fu creato a febbraio 2020. E fu somministrato in Russia già agli inizi di marzo, senza nemmeno aspettare i test. Il 22 marzo la delegazione russa arrivò in Italia. Praticamente Mosca ha avuto prima il vaccino anti-Covid del Covid stesso, visto che le ondate del virus arrivarono in Russia nei mesi successivi.

Sputnik è stato il primo vaccino al mondo ad essere registrato: agosto del 2020. Ma la Russia non ha mai avuto grande capacità produttiva. 

E infatti la strategia adottata da Mosca era: siglare accordi con gli stati per permettere loro di produrre il vaccino da soli. In Italia, anche grazie alle decisioni dell’allora governo giallo-rosso, si avviò una collaborazione (era marzo 2021) tra l’Istituto Gamaleya, ente controllato dal governo di Mosca, e l’Istituto Spallanzani di Roma per la sperimentazione del vaccino Sputnik V. Collaborazione interrotta dopo l’invasione russa dell’Ucraina. 

A metà 2021 fu annunciato un accordo per la produzione di Sputnik proprio in un laboratorio in Lombardia. A cosa è servita la collaborazione scientifica e il tentativo di produzione in Italia? Erano solo strumenti della propaganda russa?

Come ammesso a “Report” da Denis Volkov, vicedirettore del Levada Center: “Sullo Sputnik l’attenzione russa è tutta rivolta verso l’esterno, Sputnik è uno strumento di geopolitica. Probabilmente è il più grande risultato raggiunto dai tempi della fine dell’Unione Sovietica”.

Estratto dell’articolo di Andrea Casadio per editorialedomani.it il 23 marzo 2022.

Quando è scoppiata la pandemia da Covid-19, la Russia si è lanciata nella corsa per la produzione del vaccino contro il virus. Il presidente Vladimir Putin voleva battere sul tempo gli altri stati del mondo, e per questo ha fatto arrivare cospicui finanziamenti statali all’istituto Gamalyeva, un centro di ricerche microbiologiche povero e in disarmo, come quasi tutto il settore delle scienze mediche russe. […]

In breve tempo, gli scienziati russi hanno avviato la sperimentazione sull’uomo, e a settembre 2020 hanno pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Lancet un articolo dal titolo Sicurezza e immunogenicità di un vaccino a vettore virale contro il COVID-19. E Putin ha potuto annunciare al mondo: «La Russia è arrivata prima nella corsa al vaccino contro il Covid».  […]

L’Ema ha iniziato a esaminare la domanda per lo Sputnik solo il 4 marzo 2021, e l’autorizzazione a oggi non è ancora arrivata, evidentemente perché i dati non convincono.

Insomma, il vaccino Sputnik è avvolto dai dubbi, eppure il 13 aprile 2021 la regione Lazio approva un memorandum, firmato dall’assessore alla Sanità D’Amato, dal direttore dello Spallanzani Francesco Vaia, dal direttore dell’istituto Gamalyeva Alexander Gintsburg, e dal direttore del fondo sovrano russo Rdif Kirill Dmitriev. 

In base all’accordo, gli scienziati dell’istituto Spallanzani dovranno studiare l’efficacia dello Sputnik V sulle varianti del coronavirus, e poi, dopo l’autorizzazione al commercio dell’Aifa, dovranno avviare una sperimentazione iniettando Sputnik a 600 volontari che abbiano ricevuto una prima dose di vaccino AstraZeneca. 

Questo progetto è andato avanti fino al 20 gennaio scorso, giorno in cui un gruppo congiunto di scienziati dell’Istituto Spallanzani, guidati dal professor Vaia, e dell’Istituto Gamalyeva, guidati dal prof Gintsburg, ha pubblicato online un preprint, cioè un articolo non ancora approvato e vagliato da altri esperti, intitolato Mantenimento della risposta neutralizzante contro la variante Omicron in individui vaccinati con Sputnik. V.

Lo Spallanzani ha cantato vittoria, definendo i dati «estremamente incoraggianti per definire nuove strategie vaccinali in rapporto all’evoluzione delle varianti del Covid». In pratica, si sono fatti i complimenti da soli. E il presidente Putin ha commentato raggiante: «La studio comparativo congiunto Russia-Italia sui vaccini condotto all’istituto Spallanzani ha dimostrato che il vaccino russo Sputnik è il migliore di tutti nel neutralizzare Omicron». Pura propaganda, perché lo studio non dimostra affatto quel che dice Putin. […]

Poi c’è un’altra questione. Sull’articolo si legge che la ricerca è stata finanziata dal fondo sovrano russo Rdif, che detiene i diritti sul vaccino. Invece, al direttore dello Spallanzani Francesco Vaia, coautore dello studio, è scappato di bocca che lo studio è stato interamente finanziato dallo stesso Spallanzani, ovvero dall’Italia. Perché? 

Molte cose non tornano in questa faccenda. Per dirne una, prima di diventare direttore del prestigioso Istituto Spallanzani, il professor Francesco Vaia aveva pubblicato solo quattro articoli scientifici minori, il più rilevante dei quali si intitola Efficacia dei dispositivi anti-risucchio nella prevenzione della contaminazione batterica delle linee d’acqua delle unità dentarie. In pratica uno studio su come evitare che i batteri presenti nella nostra bocca vengano risucchiati dal trapano del dentista contaminando poi lo sciacquetto. 

F. Mal. per "Il Messaggero" il 23 marzo 2022. 

«Non credo fosse solo propaganda né penso i russi fossero convinti di ottenere informazioni strategiche, più che altro immaginavano di reclutare gente per la loro causa. Volevano mettere radici per avere i ganci giusti una volta sviluppato un vaccino. Ora non se lo ricorda nessuno, ma a metà 2021 fu annunciato un accordo per la produzione di Sputnik proprio in un laboratorio in Lombardia». 

Continuano ad allungarsi ombre sulla missione From Russia with love che, nel marzo del 2020, portò da Mosca in Italia materiali sanitari, medici e soprattutto militari per aiutare la nostra protezione civile e il nostro esercito nella gestione dei focolai Covid che in quel momento sembravano incontrollabili.

E così, proprio nel giorno in cui l'immunologa Antonella Viola denuncia di aver ricevuto «strane telefonate» dopo la sua bocciatura al vaccino russo Sputnik, sono tre i componenti del Copasir che - sentiti dal Messaggero - collegano la visita del marzo 2020 con il tentativo di instaurare un primo dialogo con l'Italia proprio sul vaccino russo. Ed in effetti se il New Yorker ha sostenuto che Sputnik sia stato sviluppato a partire dal Dna di un cittadino russo prelevato in Italia, a riguardare le cronache del marzo 2021, si trova traccia di annunci entusiastici da parte del Fondo sovrano russo (Rdif) e della Camera di commercio italo-russa su un'intesa con l'azienda Adienne per la produzione dello Sputnik nello stabilimento di Caponago, in Brianza.

Un contratto - primo in Europa - di cui, dopo una frenata della stessa azienda, si sono poi sperse le tracce. Chiaramente è però impossibile stabilire un reale collegamento tra gli accordi e la missione russa, anche perché proprio il Copasir ha messo agli atti - dopo aver sentito Difesa ed intellingence - che si è trattata di un'iniziativa prettamente sanitaria. E rigettano ogni tipo di collegamento più o meno opaco, sia l'allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte che i vertici sanitari della Regione Lazio. Innegabile la vicinanza tra i ricercatori russi, la Regione e l'Istituto Spallanzani di Roma. Tant' è che solo pochi giorni fa è stata conclusa una collaborazione per la ricerca su nuovi farmaci tarati sulle varianti. «Ma la missione del marzo 2020 non c'entra nulla con la collaborazione» fanno sapere.

L'IMMUNOLOGA In ogni caso che la vicenda Sputnik non sia del tutto chiara (e non solo per i pochi dati resi disponibili dagli studiosi di Mosca o per il ritardo nella richiesta di approvazione dell'Ema), lo dimostrerebbe appunto chiamata ricevuta dall'immunologa dell'Università di Padova. Quando con altri studiosi Viola pubblicò su Lancet un commento che provava l'inefficacia del vaccino, «ricevetti una telefonata molto strana - ha raccontato a Radio 1 - di una persona che disse di essere del ministero degli Interni, della sicurezza, non ricordo. Voleva sapere se io sapessi di più sul vaccino Sputnik». Un episodio di certo non ordinario che, specie se alcuni dei vertici russi rinfacciano l'aiuto fornito e minacciano l'Italia in caso di nuove sanzioni, non può che lasciare dubbiosi su cosa sia accaduto a partire da marzo 2020 tra i due paesi. 

Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini e Tommaso Ciriaco per “la Repubblica” il 23 marzo 2022.

(…)  Per come è stata scritta fino a oggi, la storia della "operazione virus", la missione russa in Italia dal marzo al maggio 2020, ufficialmente nata per contribuire alla lotta contro il Covid, sta sostanzialmente in questi termini: un Paese straniero che in qualche modo approfitta dello stato di necessità dell'Italia e, nascondendosi dietro gli aiuti, cerca di rubare informazioni sanitarie. Senza però mai condividerne sviluppo e conclusioni.

Ora però c'è qualcuno che vuole sapere se altro non è mai emerso. E soprattutto che tipo di contromisure avessero preso il governo e il premier per evitare che una missione di aiuto si trasformasse in un'operazione di spionaggio.

Per questo, dopo un lungo dibattito interno, già domani nel comitato di presidenza del Copasir qualcuno ha annunciato che chiederà di ascoltare l'allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte per ricostruire tutti gli aspetti di quel viaggio. A partire da come sia nato. Secondo quanto Repubblica ha potuto ricostruire, il primo contatto ufficiale è dei primi giorni di marzo.

(…)  È venerdì 20 marzo quando Guerini sente il suo omologo, Sergej Soigu. Promette una spedizione per il lunedì successivo. Grazie - dice Guerini - per fare prima possiamo mandare nostri aerei a prendere il materiale . «Non c'è bisogno - è la replica - e comunque aspettiamo che Putin e Conte si sentano, la telefonata è prevista per lunedì». Si sentono anche prima, sabato 21 marzo: il leader russo non offre solo mascherine, ma la disponibilità dei suoi uomini.

E il premier italiano accetta. E così sulla pista di Pratica di Mare domenica 22 marzo non sbarcano solo container pieni di mascherine e tute. E nemmeno bonificatori: ma scienziati con apparecchiature sofisticate. Il resto sono 45 giorni tremendi, con i camion militari italiani che portano le bare a Bergamo e, accanto, il laboratorio mobile russo che studia - quasi di nascosto - il virus.  Con i nostri carabinieri e agenti dell'intelligence che li controllano a vista. (…)

Lorenzo Calò per “il Mattino” il 23 marzo 2022.

Agostino Miozzo era il coordinatore del Cts nel marzo 2020 quando, in piena pandemia, arrivò in Italia la missione di supporto umanitario russa: 104 unità di cui 28 medici e 4 infermieri. Il resto erano militari. 

Dottor Miozzo, chi erano quei medici e, nello specifico, che cosa dovevano fare nelle strutture sanitarie?

«Sapevamo che erano figure esperte in ambito Nbcr, ci avevano offerto collaborazione per la sanificazione degli ambienti ma noi del Cts non abbiamo mai avuto alcuna lista con i nominativi dei medici e infermieri partecipanti alla missione russa né abbiamo potuto conoscere o valutare i profili professionali e scientifici di questi esperti». 

E nelle Rsa della Lombardia, dove furono inviati, che cosa hanno fatto?

«Mi risulta che abbiano collaborato con le autorità sanitarie locali con le quali poi sono state in contatto per la bonifica di ambienti, nelle Rsa, negli ospedali e nelle strade. Mi risulta che anche i medici hanno offerto il loro supporto. Non era il Cts a coordinare questi interventi sul terreno né è stato mai chiesto a noi di fare qualsiasi relazione o di ricevere alcun report sulla loro attività. Pensi: non abbiamo mai visionato alcuna lista delle apparecchiature e dei supporti sanitari scaricati dai loro aerei. Non so dirle se erano attrezzature valide o meno». 

Quindi la missione russa arriva in Italia il 22 marzo 2020, fa un briefing con i vertici del Cts, con il generale Portolano, all’epoca comandante del Coi, e poi voi la perdete di vista...

«Ad accoglierli all’aeroporto di Pratica di Mare c’ero anch’io assieme al ministro Di Maio. Abbiamo saputo che poi sono andati via, circa due mesi dopo. Ma al Dipartimento di Protezione civile non mi risulta che nulla sia stato formalmente notificato».

Dopo l’incontro con il generale Sergej Kikot, capo della spedizione, vi siete più rivisti?

«No. L’ho incontrato soltanto quando c’è stata la riunione per definire le modalità operative». 

E con i russi chi stava in contatto?

«Non noi del Cts. Mi risulta che i rapporti fossero tenuti da un ufficiale di collegamento indicato direttamente dal nostro ministero della Difesa, se ben ricordo un colonnello. In quel periodo ospitavamo numerose delegazioni anche di altri Paesi: cubani, rumeni, libici, americani, tedeschi. La situazione era molto complessa, eravamo nella fase acuta del disastro e non so dirle se in Italia ci fossero le capacità e le competenze per ottenere sul piano sanitario quella risposta immediata e operativa che la gravità dello scenario in quel momento avrebbe richiesto».

Chi ha deciso di non autorizzare l’ingresso dei russi in strutture della Pa e negli uffici pubblici? C’è stato un input preciso da Palazzo Chigi?

«Come Cts nessuno ci ha fornito indicazioni o regole d’ingaggio. Ci siamo consultati con il generale Portolano e abbiamo deciso di insistere su quella che per noi era la priorità: ai russi chiedevamo assistenza sulla sanificazione delle strutture sanitarie e delle Rsa». 

La riunione operativa con la delegazione russa fu molto tesa. Perché?

«Perché i soggetti che avevamo di fronte sostenevano di avere un mandato preciso, ovvero di bonificare le strutture pubbliche. Questo è quello che disse Kikot e posso immaginare a che cosa si riferisse».

Perché? Lo conosceva già?

«Non lui ma conosco bene il suo capo: l’attuale ministro della Difesa di Mosca, Sergey Shoigu. È stato per anni capo della Protezione civile russa e ho a lungo collaborato con lui in missioni bilaterali e internazionali. È un militare esigente e deciso. Non so se Kikot si riferisse a Shoigu o a Putin quando ci parlava del mandato ricevuto ma poco importa, noi abbiamo tenuto il punto». 

Ha mai conosciuto l’ex console a Milano, Paramonov, dal quale sono arrivate minacce all’Italia, al ministro Guerini, e illazioni sull’aiuto russo ai tempi del Covid?

«Non ne ho un ricordo preciso, potrei averlo incontrato in qualche meeting con l’Ambasciatore russo con il quale invece i contatti erano più frequenti». 

Ha mai parlato di questa vicenda con il presidente Conte o con esponenti dei nostri Servizi?

«Non nello specifico. Del resto, questa collaborazione con la Russia in quel tempo avveniva in condizioni di assoluta amicizia e con relazioni diplomatiche molto solide». 

Ma militari russi hanno girato per due mesi in strutture sanitarie pubbliche di un Paese Nato...

«Questo è vero. Ma vede: in 40 anni di missioni di cooperazione internazionale ho imparato che una buona percentuale dei componenti i team operativi sul terreno, a tutti i livelli e in ogni Paese, è sempre appartenuto ai servizi di sicurezza e di intelligence. Per questo sono certo che anche i nostri apparati fossero stati allertati». 

Che effetto le fa rivivere quei momenti, oggi, due anni dopo, con i contorni di una spy story?

«Se un’operazione d’intelligence di un Paese, allora amico, è stata camuffata da missione umanitaria in un momento così difficile per l’Italia, non può che suscitarmi delusione e amarezza».

Missione anti-Covid in Italia, Guerini disse no all’invio dalla Russia di 400 uomini. Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 24 Marzo 2022.  

Fu il ministro a ridimensionare l’accordo tra Putin e Conte. Il rifiuto alla richiesta russa di spostarsi in Puglia Oggi il Copasir decide quando sentire l’ex premier. 

Otto squadre composte da 40 specialisti, oltre ai medici e agli infermieri: in tutto un contingente di circa 400 persone che doveva atterrare in Italia per un’operazione di contrasto all’epidemia da coronavirus. È la proposta di Vladimir Putin fatta nel marzo del 2020 all’allora presidente del consiglio Giuseppe Conte. Fu il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ad opporsi chiedendo di «ridimensionare il numero di uomini e mezzi». Basterebbe questo a spiegare l’attacco fatto allo stesso Guerini dal funzionario del ministero degli Esteri Alexei Paramonov, dopo aver minacciato l’Italia di «conseguenze irreversibili» se aderirà a sanzioni contro Mosca e accusato il nostro Paese di aver «dimenticato gli aiuti ricevuti». Ma adesso si scopre che due mesi dopo i russi volevano spostarsi in Puglia e a quel punto Guerini chiese a Mosca di interrompere l’operazione.

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina

Indagine al Copasir

Ufficialmente si trattava di una spedizione sanitaria, ma i dettagli emersi in questi giorni avvalorano il sospetto che potesse essere stata effettuata un’attività di spionaggio. E proprio per chiarire ogni aspetto della vicenda, oggi il Copasir fisserà la data dell’audizione di Conte. Sarà lui a dover ricostruire i contatti e gli accordi presi, ma anche che cosa accadde in quei due mesi. E perché l’Italia decise di spendere tre milioni di euro per rimborsare chi doveva invece collaborare. «Non abbiamo alcuna evidenza di attività impropria», ha detto l’ex premier ma ora dovrà fornire chiarimenti ulteriori.

Il primo contatto

Si torna dunque al primo contatto tra Guerini e il ministro della Difesa russo Sergej Shoygu. È il 21 marzo 2020, l’Italia è in emergenza perché ci sono decine di migliaia di contagiati ma mancano mascherine, guanti, ventilatori. Le strutture sanitarie sono in affanno, soprattutto in Lombardia. Da tutto il mondo arrivano offerte di aiuto. Shoygu contatta Guerini e offre mascherine, il ministro italiano risponde che un aereo può decollare per andare a prenderle a Mosca, ma l’interlocutore gli annuncia una telefonata tra Putin e Conte. Effettivamente qualche ora dopo il premier italiano contatta Guerini e conferma che Putin intende mandare centinaia di persone tra militari e medici per affiancare chi è impegnato a fronteggiare l’epidemia.

Il rifiuto

La posizione di Guerini è netta nell’escludere che la missione russa possa essere così numerosa. Si apre così una trattativa complicata e il compromesso finale prevede l’arrivo di cento persone. Nessuno si aspetta però che all’aeroporto militare di Pratica di Mare atterrino 17 quadrireattori e soprattutto un numero esiguo di materiale, nemmeno sufficiente a coprire le esigenze di un giorno. Non solo. Subito dopo comincia il braccio di ferro tra il capo della delegazione generale Sergey Kikot e il comandante del Coi, il comando operativo interforze, il generale Luciano Portolano. Perché durante un incontro riservato che si svolge in una foresteria della Capitale i russi chiedono di sanificare e bonificare gli enti pubblici, mentre gli italiani concedono soltanto l’accesso a ospedali e Rsa. Un’attività che prevede comunque l’acquisizione dei dati sanitari e di altre informazioni «sensibili» che — questo è il timore dopo le minacce — la Russia potrebbe adesso utilizzare contro il nostro Paese.

La fine della missione

L’atteggiamento «aggressivo» dei russi è stato confermato dall’allora responsabile del Cts Agostino Miozzo, presente alla riunione con il segretario Fabio Ciciliano e Portolano. Proprio per questo fu disposto che tutti i team dovessero essere sempre affiancati dai militari italiani e impiegati solo in Lombardia, che in quel momento aveva la situazione più grave. E agli inizi di maggio, quando i russi chiesero di trasferirsi in Puglia, Guerini ritenne che fosse arrivato il momento di «ringraziare Shoygu», dichiarando conclusa la missione.

(AGI il 24 marzo 2022) - "Durante i periodi più difficili della pandemia alcuni presidenti di regione sono stati particolarmente solerti nello sponsorizzare l`impiego del vaccino russo Sputnik. E` il caso di De Luca e di Zaia, solo per citare i più eclatanti e quelli che all`epoca fecero più rumore, che minacciavano di comprarne dosi a prescindere dalla validazione dell`EMA, o di Fontana e Zingaretti che avrebbero voluto addirittura produrlo in Lombardia e nel Lazio".

Lo afferma Giordano Masini, coordinatore della segreteria di +Europa." Oggi, di fronte alle numerose evidenze dei metodi poco ortodossi attraverso i quali i funzionari del Cremlino e del fondo sovrano russo proprietario di Sputnik cercavano di imporne l`impiego in Europa, si va dalle pressioni politiche alle minacce fino alla vera e propria corruzione - sottolinea Masini - i governatori devono contribuire a fare chiarezza su questa pagina imbarazzante della nostra storia recente e spiegare le ragioni del loro sostegno entusiasta all`impiego di un vaccino non sicuro e prodotto da una nazione ostile", conclude l`esponente di +Europa.

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 24 marzo 2022.

Il 14 maggio 2020, neanche due mesi dopo l'ormai famosa telefonata tra Giuseppe Conte e Vladimir Putin che vara la missione di «aiuti russi in Italia per il Covid», Kirill Dmitriev - il capo del Fondo sovrano russo, potentissimo oligarca della prima cerchia di Putin - viene insignito di una delle più alte onorificenze della Repubblica, l'Ordine della Stella d'Italia, «a titolo di riconoscimento del supporto del Fondo sovrano russo nella lotta contro la pandemia. Grazie alle azioni congiunte del Fondo e del ministero della Difesa della Federazione Russa sono stati recapitati tempestivamente in Italia i sistemi di test mobili Emg ad alta precisione prodotti con il supporto del Fondo e utilizzati dal gruppo di specialisti inviati dalla Difesa russa in Italia».

Veniamo poi informati che il Fondo «sviluppa partnership» con varie importanti aziende e istituti italiani, e «sta collaborando ai fini della ricerca dei nuovi strumenti di lotta contro il coronavirus». Undici mesi dopo, l'8 aprile 2021, Dmitriev firma di suo pugno, per la parte russa, un "Memorandum d'intesa per la collaborazione scientifica" tra l'Istituto Spallanzani, il Centro russo "Gamaleya", e il Fondo russo.

Il 4 marzo, appena un mese prima, gli Usa avevano già sanzionato 14 entità russe e tra queste tutti i principali centri di ricerca chimico-biologici russi, compreso il 48o Centro, che ha collaborato con il Gamaleya, e l'accademia di Kirov, da cui vennero tanti dei medici militari arrivati in Italia. Secondo Tesoro e Commercio Usa, questi centri hanno relazioni di diverso tipo con il dispiegamento di armi chimiche come il Novichok che ha avvelenato Alexey Navalny. Ma riavvolgiamo il filo ancora all'indietro.

A metà febbraio 2021 un "Gruppo di Lavoro Sperimentazione Vaccini e Terapie Innovative" dello Spallanzani, di cui diversi ricercatori interni dicono a La Stampa di non aver mai sentito parlare prima, produce un "parere tecnico scientifico sul vaccino Sputnik V", su carta intestata della direzione sanitaria (di solito per queste cose parla la direzione scientifica), primo firmatario il direttore sanitario Francesco Vaia. 

Il "parere" riproduce contenuti di uno studio iniziale di Lancet su Sputnik V, e si chiude così: «In base a tali considerazioni si ritiene che il vaccino Sputnik V possa avere un ruolo importante nei programmi vaccinali contro la SARS.CoV-2». Poco dopo, italiani e russi firmano il Memorandum. Perché lo Spallanzani abbandona Reithera, un molto promettente vaccino adenovirale italiano che era stato annunciato un mese prima proprio all'Istituto, per abbracciare la sperimentazione di un vaccino adenovirale russo?

In quella fase alcuni scienziati italiani non tacciono. Rischiano. Enrico Bucci muove rilievi molto seri e tecnici all'articolo di Lancet che pubblicava i risultati della fase 1 di Sputnik. E parla Antonella Viola, che oggi denuncia: «Quando sul vaccino Sputnik venne pubblicato il lavoro, insieme a Enrico Bucci e ad altri colleghi a livello internazionale scrivemmo su Lancet un commento per dire che il vaccino effettivamente non funzionava. In quei giorni, a parte che il mio telefono cominciò a dare dei seri problemi, ricevetti una telefonata molto strana, di una persona che disse di essere del ministero degli Interni, della sicurezza, non ricordo. E mi disse che voleva informazioni: voleva sapere se io sapessi di più sul vaccino Sputnik. Una strana telefonata, mi chiedeva dati».

Un importante dirigente dello Spallanzani «nel giugno 2020, due mesi prima che Putin annunciasse l'approvazione di Sputnik, viene avvicinato - ci viene messo per iscritto da una fonte, e confermato da altra fonte - da funzionari di stato russi che gli offrono parecchi soldi (circa 250 mila euro), ma lui prima ancora di farli finire, chiama i carabinieri e infatti qualche giorno dopo si presentano all'Istituto due signori dei Servizi per parlare con lui».

Le pressioni russe sono vaste. I modi duri. Agostino Miozzo, allora coordinatore del Comitato tecnico scientifico, che partecipò a una riunione con il generale Luciano Portolano e il generale russo Sergey Kikot nei primissimi giorni della missione degli aiuti russi in Italia, ricorda: «Kikot voleva avere accesso a tutti i luoghi dell'amministrazione, e riteneva di essere stato autorizzato al massimo livello a farlo (noi lo impedimmo). Allora avevamo tutti rapporti ottimi coi russi. Tuttavia so per certo che le antenne si erano alzate alla Difesa italiana, che tirò un compasso di trenta chilometri per tenere i russi lontano da obiettivi sensibili militari in Italia».

Proprio la toppa confermava l'esistenza del buco. Il Copasir, oggi in plenaria per la programmazione dei lavori, convocherà molto probabilmente l'allora premier Giuseppe Conte. Al Comitato, il Dis riferì che la missione-aiuti russi si era svolta in ambito sanitario, ma nella relazione annuale il Copasir scrisse poi che la vicenda dell'arresto di Walter Biot, il capitano di marina accusato (in un'altra storia) di spionaggio per i russi, non era affatto isolata: «Un chiaro esempio del metodo di avvicinamento a soggetti appetibili operato dai servizi russi, caratterizzato soprattutto nello status degli officer presenti nei vari Paesi occidentali, i quali sono tutti o quasi tutti coperti da status diplomatico e in genere tendono a infiltrare le istituzioni. Cercano anche aspetti economici».

Missione russa in Italia: “Un van attirò la nostra attenzione…”, intervista ad Alessandro Canali dell’agenzia delle Dogane. Nicola Biondo su Il Riformista il 24 Marzo 2022. 

La sera del 22 marzo 2020 l’avvocato Alessandro Canali era a Pratica di Mare dove atterravano gli aerei cargo russi, l’inizio della missione “dalla Russia con amore”. Canali, un passato da capo dell’ufficio legislativo M5S alla regione Lazio, in quel momento era il vice di Marcello Minenna, attuale capo delle Dogane. Ecco alcuni stralci dell’intervista che troverete domani sulle pagine de Il Riformista.

Avvocato Canali lei era sulla pista quando iniziarono ad atterrare i cargo russi. La merce come venne sdoganata? Era tutto materiale sanitario o c’era anche altro?

La merce fu sdoganata con una procedura semplificata, denominata “A22” e che prevede uno sdoganamento d’ufficio a richiesta dell’importatore.

Nell’elenco c’era materiale sanitario? Ufficialmente ci sarebbero dovute essere mascherine, test e una trentina di ventilatori. Lei li ha visti?

Sulla lista che ho visto io non mi sembrava ci fossero mascherine. E non ho visto alcun ventilatore. Magari erano sui voli arrivati dopo e quindi su altre liste.

Nelle foto sulla pista c’era anche l’Ambasciatore russo Sergey Razov. Ci furono momenti di tensione?

Era una situazione davvero straordinaria. Le autorità russe presenti sulla pista ci chiesero di operare velocemente. Un mezzo, lo ricordo bene, attirò la nostra attenzione.

Una nostra fonte ci ha parlato di un Van marrone…

Sì. Quando venne sbarcato ci dissero che serviva per fare collegamenti televisivi.

Perché attirò la vostra attenzione?

Perché era differente dagli altri e non sembrava trasportare materiale sanitario, era pieno di apparecchiature elettroniche. Nicola Biondo

  Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 24 marzo 2022.  

Otto squadre composte da 40 specialisti, oltre ai medici e agli infermieri: in tutto un contingente di circa 400 persone che doveva atterrare in Italia per un'operazione di contrasto all'epidemia da coronavirus. È la proposta di Vladimir Putin fatta nel marzo del 2020 all'allora presidente del consiglio Giuseppe Conte. Fu il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ad opporsi chiedendo di «ridimensionare il numero di uomini e mezzi».

Basterebbe questo a spiegare l'attacco fatto allo stesso Guerini dal funzionario del ministero degli Esteri Alexei Paramonov, dopo aver minacciato l'Italia di «conseguenze irreversibili» se aderirà a sanzioni contro Mosca e accusato il nostro Paese di aver «dimenticato gli aiuti ricevuti». Ma adesso si scopre che due mesi dopo i russi volevano spostarsi in Puglia e a quel punto Guerini chiese a Mosca di interrompere l'operazione.

Ufficialmente si trattava di una spedizione sanitaria, ma i dettagli emersi in questi giorni avvalorano il sospetto che potesse essere stata effettuata un'attività di spionaggio. E proprio per chiarire ogni aspetto della vicenda, oggi il Copasir fisserà la data dell'audizione di Conte. Sarà lui a dover ricostruire i contatti e gli accordi presi, ma anche che cosa accadde in quei due mesi.

E perché l'Italia decise di spendere tre milioni di euro per rimborsare chi doveva invece collaborare. «Non abbiamo alcuna evidenza di attività impropria» ha detto l'ex premier, ma ora dovrà fornire chiarimenti ulteriori.

Si torna dunque al primo contatto tra Guerini e il ministro della Difesa russo Sergej Shoygu. È il 21 marzo 2020, l'Italia è in emergenza perché ci sono decine di migliaia di contagiati ma mancano mascherine, guanti, ventilatori. Le strutture sanitarie sono in affanno, soprattutto in Lombardia. Da tutto il mondo arrivano offerte di aiuto.

Shoygu contatta Guerini e offre mascherine, il ministro italiano risponde che un aereo può decollare per andare a prenderle a Mosca, ma l'interlocutore gli annuncia una telefonata tra Putin e Conte. Effettivamente qualche ora dopo il premier italiano contatta Guerini e conferma che Putin intende mandare centinaia di persone tra militari e medici per affiancare chi è impegnato a fronteggiare l'epidemia.

La posizione di Guerini è netta nell'escludere che la missione russa possa essere così numerosa. Si apre così una trattativa complicata e il compromesso finale prevede l'arrivo di cento persone. Nessuno si aspetta però che all'aeroporto militare di Pratica di Mare atterrino 17 quadrireattori e soprattutto un numero esiguo di materiale, nemmeno sufficiente a coprire le esigenze di un giorno.

Non solo. Subito dopo comincia il braccio di ferro tra il capo della delegazione generale Sergey Kikot e il comandante del Coi, il comando operativo interforze, il generale Luciano Portolano. Perché durante un incontro riservato che si svolge in una foresteria della Capitale i russi chiedono di sanificare e bonificare gli enti pubblici, mentre gli italiani concedono soltanto l'accesso a ospedali e Rsa. Un'attività che prevede comunque l'acquisizione dei dati sanitari e di altre informazioni «sensibili» che - questo è il timore dopo le minacce - la Russia potrebbe adesso utilizzare contro il nostro Paese.

L'atteggiamento «aggressivo» dei russi è stato confermato dall'allora responsabile del Cts Agostino Miozzo, presente alla riunione con il segretario Fabio Ciciliano e Portolano. Proprio per questo fu disposto che tutti i team dovessero essere sempre affiancati dai militari italiani e impiegati solo in Lombardia, che in quel momento aveva la situazione più grave. E agli inizi di maggio, quando i russi chiesero di trasferirsi in Puglia, Guerini ritenne che fosse arrivato il momento di «ringraziare Shoygu», dichiarando conclusa la missione.

Andrea Galli per corriere.it il 22 marzo 2022.

La seconda metà del marzo del 2020, la fase più acuta e drammatica della pandemia: tra spostamenti ultra-limitati e strade vuote, nella Milano (come il resto d’Italia) in «zona rossa», qualcuno si mosse. 

Sostando, almeno ufficialmente, un’intera giornata in città; soste ripetute nei giorni successivi, stavolta non ufficialmente. Erano 72 donne e uomini russi; militari e dei Servizi segreti.

Ovvero la maggioranza dei componenti della delegazione spacciata per missione internazionale di soccorso contro il Covid e invece, come emerge in queste ore, organizzata da Mosca per altri motivi e accolta senza riserve dal nostro Governo, con evidenti anche se segrete e misteriose finalità di intelligence. 

Se dunque è vero che 32 medici e infermieri — la parte residuale di quel gruppo — andarono negli ospedali di Bergamo, allora fra le zone devastate dal virus, devono essere ancora scritte le azioni dei connazionali.

La missione a Milano

Il Corriere ha cristallizzato la tappa milanese, della quale è nota un’unica coordinata geografica, che potrebbe apparire fisiologica ma non è detto, e che manca di approfondimenti relativi alla logistica (quali abitazioni, dove, di quali proprietari), e ai movimenti (macchine prestate oppure a noleggio) che forse, a posteriori, potrebbero scattare. 

Militari e 007 raggiunsero il quartiere di San Siro, che in via Sant’Aquilino ospita la sede del consolato russo, un «protettorato» di Alexei Vladimorovich Paramonov, il direttore del Dipartimento europeo del ministero degli Esteri che i giorni scorsi, in risposta alle sanzioni economiche, ha minacciato l’Italia. 

A dire: proprio voi parlate? E a sottintendere: non siete nella posizione di farlo. In città, Paramonov ha guidato quello stesso consolato dal 2008 al 2013. Una forte distanza temporale, certo, cui è però seguita una costante opera di controllo a distanza. L’incontro in via Sant’Aquilino a che cosa davvero servì? Forse a pianificare la permanenza in Italia, considerato che la missione durò due mesi. Un’eternità.

Le attività di intelligence

L’assenza, per ora, di una precisa e reale certificazione del comportamento degli ufficiali e degli agenti russi, giocoforza innesca domande legate alle eventualità operative, che sembrano concentrate su tipiche attività di intelligence. 

Scontata obiezione: lo spionaggio esisteva prima dell’arrivo dei russi ed è proseguito anche dopo, e non unicamente per la presenza, a Milano, di ex del Kgb che possiedono società di facciata. Ma dobbiamo tornare agli estremi della situazione in esame: da una parte il pensiero comune rivolto alla pandemia con la sottovalutazione o il disinteresse per ogni altro tema; dall’altra parte, una sorta di legittimazione ad elementi russi per operare, secondo personali modalità, in un territorio Nato, e magari visitare luoghi, scattare fotografie, stilare mappe, organizzare sopralluoghi, compiere valutazioni dal vivo, senza dimenticare la possibilità, con la «scusa» dell’operazione sanitaria, di accedere in ospedali e acquisire (rubare) dati sensibili.

La colonna militare

La Russia cercò di ripetere la mossa con la Cina, che rifiutò di concedere l’ingresso. Appunto a differenza di quanto successo qui, dove peraltro, a sua volta, arrivò chiunque, sempre per portare soccorso: la medesima Cina, i cubani, gli albanesi... 

Nel caso della spedizione nel marzo 2020 orchestrata da Paramonov, si vocifera dell’eventualità di accordi segreti che Mosca sarebbe pronta a diffondere. Governavano i Cinque Stelle di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, che aveva accolto la delegazione, atterrata con 13 aerei Ilyushin e poi mossasi attraverso l’Italia con una colonna di mezzi. Destinazione la Lombardia.

Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 22 marzo 2022.

«Entrare negli edifici pubblici e sanificare il territorio»: era questa l’intenzione della delegazione russa arrivata in Italia il 22 marzo 2020 per affrontare l’emergenza da Coronavirus. Lo chiesero in una riunione finora riservata alla quale parteciparono i vertici militari provenienti da Mosca e quelli italiani del Comando Interforze, ma anche del Comitato tecnico-scientifico che collaborava con il governo nella gestione della pandemia. 

Ci fu un duro scontro tra le due delegazioni e alla fine gli italiani negarono il via libera. I russi eseguirono comunque una serie di interventi in ospedali e Rsa. Molti di loro erano militari. Ci sono altri dettagli inediti su quella operazione che tre giorni fa l’alto funzionario del ministero degli Esteri Alexei Paramonov ha citato nel suo attacco al nostro Paese minacciando «conseguenze irreversibili» se aderiremo alle sanzioni.

Foresteria militare di via Castro Pretorio a Roma, sala riservata alle delegazioni internazionali. Da una parte del tavolo c’è il generale Sergey Kikot, vice comandante del reparto di difesa chimica, radiologica, biologica dell’esercito russo insieme ad almeno dieci militari. Dall’altra il generale Luciano Portolano — all’epoca comandante del Coi, il Comando operativo interforze — e i vertici del Comitato tecnico-scientifico, Agostino Miozzo e Fabio Ciciliano. La richiesta di pianificare le attività che potevano essere svolte dal contingente russo nel nostro Paese arriva direttamente da palazzo Chigi. Kikot è subito esplicito: «Siamo qui sulla base di un accordo politico di altissimo livello. Dunque possiamo fare qualsiasi cosa per aiutarvi. Vogliamo sanificare l’intero territorio italiano entrando anche negli uffici pubblici e in tutte le sedi a rischio».

Portolano e Miozzo chiariscono che gli unici interventi possono riguardare ospedali e Rsa, le residenze per anziani dove c’erano già decine di decessi a causa del Coronavirus. Kikot insiste e la riunione viene interrotta. Portolano si consulta con i colleghi, la trattativa va avanti per ore e alla fine si decide di non cedere. Ma i toni sono aspri. Miozzo lo ricorda molto bene: «L’esordio di Kikot fu particolarmente intrusivo, ruvido. Parlava come se dovessero bonificare Chernobyl dopo l’esplosione nucleare. Ci disse che gli accordi di alto livello prevedevano sanificazioni su tutto il territorio e disse che loro intendevano sanificare tutti gli edifici, compresi quelli pubblici. Il colloquio fu interrotto varie volte ma con Portolano decidemmo di non accettare alcuna offerta di quel tipo. La riunione terminò con l’autorizzazione a entrare soltanto in alcune strutture sanitarie. In seguito ci fu confermato che avevano sanificato molte strade».

Che cosa accadde dopo è noto soltanto in parte. I russi arrivano in Lombardia e rimangono per due mesi. Collaborano con le strutture sanitarie con libero accesso ai reparti. Qualche mese dopo il New Yorker scrive che avevano «elaborato il Dna di un cittadino russo risultato positivo in Italia per le ricerche sullo Sputnik». Un anno dopo, nell’aprile 2021, è stato chiuso un accordo con l’ospedale Spallanzani di Roma proprio per la sperimentazione dello Sputnik, nonostante la mancata approvazione del vaccino russo da parte dell’Ema. La collaborazione è stata interrotta qualche giorno fa, tre settimane dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina.

Che cos’altro prevedeva l’accordo «di altissimo livello politico» di cui parlò Kikot? E soprattutto, a quali informazioni di tipo sanitario hanno avuto accesso i russi? Tra i responsabili della missione c’erano Natalia Y. Pshenichnaya, vicedirettrice dell’Istituto centrale di ricerche epidemiologiche, e Aleksandr V. Semenov, dell’Istituto Pasteur di San Pietroburgo. Entrambi dipendenti del Rospotrebnadzor, la struttura sanitaria civile a cui Putin il 27 gennaio 2020 aveva affidato la supervisione del contrasto all’epidemia. Gli stessi che avrebbero poi supervisionato l’accordo siglato con lo Spallanzani di Roma per le ricerche sul vaccino Sputnik.

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 22 marzo 2022.

Di Maio dà, Di Maio toglie. Conte invece diede, ma dimentica di aver dato. E incolpa Di Maio di ogni male. Sembra la traccia di una commedia dell'assurdo, invece è cronaca politica, va da sé, di marca grillina. Il ministro degli Esteri concesse due anni fa l'onorificenza di Commendatore dell'Ordine della Stella d'Italia (o dei Cinque Stelle?) ad Alexei Paramonov, alto diplomatico russo; Conte invece aveva già conferito due anni prima un'altra onorificenza, quella di Cavaliere, allo stesso personaggio. 

Ora entrambi si sono resi conto di aver commesso un errore madornale e cercano, chi meglio chi peggio, di salvarsi la faccia. Paramonov, ex console e ora capo del Dipartimento Europa del ministero degli Esteri russo, è infatti colui che qualche giorno fa ha usato frasi non proprio cordiali all'indirizzo del nostro ministro della Difesa Guerini, accusandolo di essere «un ispiratore della campagna antirussa», e minacciato l'Italia di «conseguenze irreversibili», ossia di chiudere i rubinetti del gas destinato al nostro Paese.

Ebbene, dopo la denuncia da parte di Libero e di alcuni politici dell'assurdità di conservare quell'onorificenza, Di Maio ha fatto marcia indietro e deciso di ritirare il riconoscimento. Chissà, magari avrà pure negato di aver mai elargito quel titolo a quel tale: Paramonov chi?... Di certo, ieri il titolare della Farnesina ha convocato una commissione ad hoc per esaminare tutte le onorificenze concesse a cittadini russi, tra i quali appunto il diplomatico, e avviare l'iter per la revoca. Ma Giggino era in buona compagnia quanto a scarse doti di avvedutezza.

Anche l'ex premier Giuseppe Conte aveva assegnato un'onorificenza a Paramonov nel 2018, nominandolo Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica italiana. Solo che adesso lo Smemorato di Volturara Appula rinnega di aver mai concesso quel riconoscimento e scarica tutte le responsabilità su Di Maio. 

«Non ricordo il nominativo di questo Paramonov», avverte il leader M5S, «ma dai riscontri effettuati risulta che le onorificenze gli sono state consegnate su proposta del ministro degli Esteri e la consegna della stella d'Italia è stata concessa dal ministero degli Esteri senza coinvolgere la presidenza del Consiglio».

Basta però consultare il sito del Quirinale, che formalmente ha conferito quei riconoscimenti, per rendersi conto che la proposta di fare Cavaliere Pararmonov arrivava direttamente dalla presidenza del Consiglio nel 2018, cioè da Giuseppi. Più seriamente il successore di Conte, Mario Draghi, si è accorto che continuare a chiamare cavaliere uno che dichiara guerra all'Italia suona come una scelta autolesionista.

E allora, come fanno sapere fonti di Palazzo Chigi all'AdnKronos, anche il premier è al lavoro sulla revoca del cavalierato a Paramonov. Scelta che segna una sconfessione politica forte di chi lo ha preceduto e la messa di fronte alle sue (ir)responsabilità. 

Ora Paramonov magari non si fascerà la testa, ma il Commendator Cavalier Gran Diplomatic Figl di Putin, per dirla con Fantozzi, si ritroverà con due medagliette in meno da appuntarsi al pezzo. Lui però almeno passerà alla storia come Paramonov, gli altri rischiano di essere ricordati come Paraculi.

Da Volturara Appula con amore. I russi minacciano di svelare gli accordi sulla missione militare in Italia, siamo tutt’orecchi. L'Inkiesta il 21 Marzo 2022.

L’ex console russo a Milano Alexei Paramonov, un personaggio con doppia onorificenza voluta da Di Maio, ci avvisa che se non ci fermiamo con le sanzioni è pronto a raccontare che cosa si sono detti Putin e Conte prima dell’oscura sfilata dell’esercito di Mosca mascherata da assistenza sanitaria. Ma magari.

Proviamo a raccontarla così, senza fare per qualche riga i nomi e i cognomi della potenza straniera e del governo sovranista coinvolti in questa vicenda, così da far capire anche agli irriducibili di casa nostra quanto è grave ciò che è successo questo fine settimana.

Sabato, un diplomatico straniero che ha ricevuto l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito e di Commendatore dell’Ordine della Stella d’Italia ha minacciato il nostro governo di «conseguenze irreversibili» in caso di nuove sanzioni al suo paese. E ha aggiunto che potrebbe rivelare quali accordi ha preso la delegazione straniera formata da 72 militari, 28 medici e 4 infermieri che nel 2020 ha girato per due mesi indisturbata per tutta Italia, all’apice della pandemia. 

Tre giorni dopo, invece di chiedere subito la revoca delle due onorificenze all’ex console russo a Milano Alexei Paramonov, tutto tace, a parte le lodevoli eccezioni di PiùEuropa e Italia Viva. E tra i commentatori c’è chi prega di non aumentare le sanzioni per non surriscaldare il clima politico. 

E no. Altro che fermare le sanzioni contro la Russia, il governo italiano ha il dovere di aumentarle per scoprire quali sono stati gli accordi presi tra il governo Conte e Vladimir Putin.

Stando alle insinuazioni russe, ci sono alcune cose da chiarire, a cominciare da che cosa ha promesso l’allora presidente del Consiglio Conte a Putin nella telefonata del 21 marzo 2020 per concordare l’arrivo della delegazione russa il giorno dopo all’aeroporto militare di Pratica di Mare.

Il New Yorker ha rivelato che Mosca ha elaborato il vaccino Sputnik partendo dal dna di un cittadino russo ammalatosi in Italia il 15 marzo. La delegazione russa in quei due mesi ha avuto accesso a dati sensibili riguardo a pazienti affetti da covid presenti nelle strutture sanitarie italiane? E poi ci sono stati scambi di dati sensibili tra le strutture sanitarie italiane e quelle russe?

Quali sono stati i compiti dei 72 militari presenti nella delegazione e perché, come ha rivelato La Stampa, è stata l’Italia ad accollarsi le spese di vitto e alloggio e pare anche di viaggio e trasporto? Quanti di questi militari che hanno sfilato da Roma a Bergamo facevano (e fanno) parte del servizio di informazioni delle forze armate russe (GRU)? 

A quali informazioni sensibili ha avuto accesso nei due mesi della sua permanenza il capo della delegazione, il generale Sergey Kikot, vicecomandante del reparto di difesa chimica e batteriologica dell’esercito russo?

Quanti e quali sono stati gli accordi commerciali e strategici presi dal governo italiano e russo durante i due mesi della delegazione “Dalla Russia con amore”. Tra questi c’è anche l’accordo siglato poi nell’aprile del 2021 tra l’Istituto Spallanzani di Roma e l’Istituto Gamaleya di Mosca? 

Quindi, cominciamo con il revocare istantaneamente le onorificenze conferite a Paramonov nel 2018 e nel 2020 e accettare la sfida: altro che minaccia, sveli tutti i dettagli dell’accordo tra Putin e Conte. Grazie.

Parla l’ex numero due delle Dogane. La verità di Alessandro Canali: “Ecco cosa vidi a Pratica di Mare quando arrivarono i russi”. Nicola Biondo su Il Riformista il 25 Marzo 2022. 

Ci sono due modi per raccontare cosa successe la sera del 22 marzo 2020 sulla pista di Pratica di Mare. Uno è semplice, garantito e tranquillizzante. È la visione dall’alto, quella dei summit, delle veline, delle comunicazioni governative. Quella per intenderci che ancora oggi, a distanza di due anni esatti, l’ex primo ministro Giuseppe Conte conferma, “il ponte aereo con Mosca fu solo grande solidarietà”. Poi c’è la visione dal basso, quella di chi quella sera, per tutta la notte, ha visto l’arrivo e curato lo sdoganamento di 9 aerei cargo russi. Il “basso” è la pista di Pratica di Mare. Ed è lì che si trovava l’allora numero due delle Dogane Alessandro Canali, già capo dell’ufficio legislativo del M5s alla Regione Lazio, in un’operazione pubblica, con giornalisti e telecamere, le cui finalità sono lontane dall’essere completamente disvelate.

Avvocato Canali lei era sulla pista quando iniziarono ad atterrare i cargo russi. La merce come venne sdoganata? Era tutto materiale sanitario o c’era anche altro?

La merce fu sdoganata con una procedura semplificata, denominata “A22” e che prevede uno sdoganamento d’ufficio a richiesta dell’importatore. Alla bolletta doganale vengono quindi allegati i documenti forniti da chi chiede lo sdoganamento e poi tutto viene registrato nel nostro sistema, tra cui, ad esempio, i numeri di targa dei veicoli importati.

Quando siete stati avvertiti dell’arrivo degli aerei?

Io fui informato la mattina stessa del 22 marzo.

Avevate idea di cosa avreste dovuto sdoganare, avevate una lista?

No, e questo è stato un problema. L’abbiamo ricevuta solo dopo l’atterraggio del primo aereo.

Ci è stato detto che questa lista era solo in cirillico, lo può confermare?

Sì, certo. Io l’ho avuta in mano. Ovviamente era incomprensibile per tutti. Io per fortuna leggo un po’ il russo. Non so che fine abbia fatto ma penso che sia stata allegata alla bolletta doganale.

Nell’elenco c’era materiale sanitario? Ufficialmente ci sarebbero dovute essere mascherine, test e una trentina di ventilatori. Lei li ha visti?

Sulla lista che ho visto io non mi sembrava ci fossero mascherine. E non ho visto alcun ventilatore. Magari erano sui voli arrivati dopo e quindi su altre liste.

Chi era con lei alle operazioni di sdoganamento?

I funzionari di Pomezia, oltre ovviamente al direttore Minenna e i dirigenti degli uffici Dogane del Lazio. Ricordo che c’era qualcuno che provava a tradurre la lista con Google translator.

Nelle foto sulla pista c’era anche l’Ambasciatore russo Sergey Razov. Ci fu tensione?

Era una situazione davvero straordinaria. Le autorità russe presenti sulla pista ci chiesero di operare velocemente. Un mezzo, lo ricordo bene, attirò la nostra attenzione.

Una nostra fonte ci ha parlato di un Van marrone.

Sì. Quando venne sbarcato ci dissero che serviva per fare collegamenti televisivi.

Perché attirò la vostra attenzione?

Perché era differente dagli altri e non sembrava trasportare materiale sanitario, era pieno di apparecchiature elettroniche. Quando ci passarono la lista in russo controllammo che ci fosse questo van che in effetti c’era, descritto con due parole la cui traduzione era più o meno: veicolo di informazione. Quello che ci colpì tra l’altro erano i vetri oscurati.

Avete chiesto informazioni?

Ci dissero che serviva per la tv ma non aveva alcuna parabola né un’antenna. Ci fu quindi un problema di sdoganamento perché il materiale elettronico ha una procedura leggermente differente.

E cosa successe?

So per certo che se ne parlò anche il giorno dopo e che il direttore Minenna si occupo della questione ma non so se poi il mezzo fu rimandato in Russia o sdoganato.

Dalle foto di questo van recuperate in rete si nota sul tetto una telecamera a 360 gradi. Lei ricorda questo particolare?

Tendo ad escludere che ci fosse quando iniziò lo sdoganamento.

Lei era a conoscenza che i voli dovevano essere 18 e invece si ridussero della metà?

A noi fu detto che sarebbero stati 15. ll giorno dopo scoprii che ne atterrarono solo 9.

La lista degli aiuti sdoganati era aderente a quella russa?

I mezzi corrispondevano.

Alle Dogane alcuni giornalisti chiesero con un accesso agli atti la lista degli aiuti ma la richiesta non ebbe seguito. Lei ricorda questo particolare?

A me non risulta che ci fosse un problema di riservatezza sull’elenco degli aiuti, si era data tanta pubblicità a tutta l’operazione e l’elenco venne reso pubblico in Parlamento. Dovrebbe chiedere a Minenna comunque perché io non sono stato più coinvolto in questa vicenda dopo quel giorno.

Ritorniamo a quella sera. Vennero effettuati controlli ai documenti di chi sbarcava? Non è competenza doganale. Non so se ci furono controlli dentro i mezzi. Di sicuro i militari, che erano davvero tanti, saranno stati identificati dal personale militare di Pratica di Mare. Ma voi avete avuto conferma che mezzi e personale russo abbiano lasciato l’Italia alla fine della missione?

C’è una procedura per la quale ci dovrebbe essere corrispondenza tra i mezzi e il personale russo entrato in Italia e cosa e chi poi è uscito dall’Italia a fine missione. Se un mezzo entra o riesce entro 180 giorni o deve essere reimmatricolato in Italia.

Sta dicendo che qualcosa o qualcuno può essere rimasto in Italia?

Io questo non lo posso sapere. Ma in teoria sarebbero tutti dovuti tornare in Russia a fine missione. Ripeto: era una situazione anomala dove le mie sensazioni non indicano evidentemente nulla. La richiesta era di fare il più in fretta possibile e i miei colleghi lavorarono duro tutta la notte per riuscirvi.

Nicola Biondo

Covid, gli aiuti russi erano 007? Ecco cos’hanno (già) detto i servizi segreti. Oggi l’audizione al Copasir di Giuseppe Conte sulla missione “dalla Russia con amore”.  Redazione su Nicolaporro.it il 24 Marzo 2022.

Oggi il Copasir sente Giuseppe Conte sulla vicenda della presunta “missione 007” dei russi in Italia, quando inviarono un centinaio di militari per aiutare la provincia di Bergamo. Operazione di intelligence? Ci hanno rubato chissà quali segreti? Si sono portati via informazioni importanti? Volevano “bonificare” gli uffici pubblici? Da giorni non si parla d’altro. Eppure il Copasir, cioè il Comitato parlamentare che controlla i nostri servizi segreti, ha già indagato su quei fatti. E solo un mese fa ha fatto uscire una relazione, che quasi tutti ignorano. Ecco cosa c’è scritto:

“L’attivismo della Russia si rivolge soprattutto all’acquisizione di informazioni di carattere politico-strategico, tecnologico e militare. Oggetto di particolare interesse sono i processi decisionali nei vari settori dell’azione politica tra cui gli affari esteri e quelli interni, la politica energetica, la politica economica e le dialettiche interne alla NATO e all’Unione europea. Le attività portate avanti in questi ambiti sono solitamente negabili e difficilmente attribuibili.

Secondo notizie di stampa, nel contingente militare russo inviato in supporto all’Italia nel contrasto all’emergenza sanitaria da COVID-19 nelle province di Bergamo e Brescia nel marzo/aprile del 2020, sarebbe stato presente personale dei servizi segreti russi. Tale vicenda è stata oggetto di una richiesta di informazioni al DIS e di richieste di chiarimenti durante le audizioni del Ministro della difesa e dei direttori dell’AISE e dell’AISI. Da quanto si è appreso, la missione russa si sarebbe svolta esclusivamente in abito sanitario con il compito di sanificare ospedali e residenze sanitarie assistenziali (RSA) e il convoglio si è mosso sempre scortato da mezzi militari italiani”.

In fondo i russi quando vogliono dare la caccia a informazioni militari e strategiche, usano gli “officer” accreditati all’ambasciata e coperto da immunità diplomatica. “Il Comitato – si legge ancora – ha approfondito la vicenda riguardante il capitano di fregata Walter Biot, in servizio presso lo Stato maggiore della Difesa, che ha trafugato documentazione classificata consegnandola all’officer del GRU (Servizio di intelligence militare), Dmitry Ostroukhov, in cambio di somme di denaro. La vicenda è un chiaro esempio del metodo di avvicinamento a soggetti appetibili operato dai servizi russi che è caratterizzato soprattutto nello status degli officer presenti nei vari Paesi occidentali, i quali sono tutti o quasi tutti coperti da status diplomatico e in genere tendono a infiltrare le istituzioni. Cercano anche aspetti economici, sebbene in termini forse un po’ più residuali rispetto ai cinesi, ma sono soprattutto orientati alla ricerca informativa nell’ambito istituzionale, grazie anche al loro status, che li porta ad avere delle frequentazioni pubbliche”.

Sulla natura di quella missione, il governo aveva fornito alcune informazioni grazie ad una interrogazione parlamentare. A concordare l’invio di aiuti fu l’allora presidente del Consiglio Conte in una telefonata diretta con Vladimir Putin, anche se poi i dettagli furono messi a punto dal ministro delle Difesa Lorenzo Guerini con l’omologo di Mosca, Shoygu. “I colloqui – si legge nella risposta del sottosegretario Emanuela Claudia Del Re – sono stati preceduti da contatti, a livello diplomatico, attraverso la nostra Ambasciata a Mosca e l’Ambasciata russa a Roma. D’intesa con Palazzo Chigi, il Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale, insieme a Difesa e Protezione civile, hanno avviato il coordinamento degli aiuti, la cui gestione è stata assicurata dalla Protezione civile”.

Quanto è durata la missione? “Il team sanitario russo è rimasto in Italia dal 22 marzo al 7 maggio 2020 e ha lavorato in sinergia con il personale della Difesa italiana e quello del Ministero della salute”. E ancora: “Il rientro in Russia dei componenti della delegazione è stato completato il 15 maggio e il flusso degli invii di aiuti è stato sospeso, di comune accordo con la controparte russa, in considerazione del progressivo miglioramento della situazione sanitaria nel nostro Paese e del contestuale peggioramento della situazione sanitaria in Russia”.

Quanti erano? “Il contingente russo era composto da 104 unità, nello specifico 32 operatori sanitari (tra medici e infermieri), 51 bonificatori e altro personale di assistenza e interpretariato a supporto”.

Come hanno operato? “Sono state costituite squadre miste con personale militare italiano del 7° Reggimento di Difesa (NBC) «Cremona» di Civitavecchia ed è stata avviata l’attività di sanificazione in alcune strutture e aree di Bergamo definite dalla Protezione civile, in coordinamento con regione e ASL Lombardia”.

Dove hanno lavorato? “Le attività di disinfezione e bonifica sono state dirette principalmente in favore delle residenze sanitarie assistenziali. Inoltre, il personale sanitario ha svolto attività presso il campo dell’Associazione nazionale degli alpini situato in prossimità dell’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo. Al personale russo impegnato nell’attività di supporto è stato fornito vitto e alloggio presso strutture alberghiere nel bergamasco, con oneri a carico della Protezione civile regionale. È stata riservata un’area presso il 3° Reggimento sostegno aviazione esercito «Aquila» (aeroporto Orio al Serio – Bergamo), dove è stato allestito un campo con materiali e tende forniti dalla Protezione Civile regionale”.

Cosa ci hanno donato i russi? “Per quanto riguarda le donazioni ricevute, la Protezione civile ha riferito di aver ottenuto e distribuito sul territorio nazionale: 521.800 mascherine, 30 ventilatori polmonari, 1.000 tute protettive, 2 macchine per analisi di tamponi, 10.000 tamponi veloci e 100.000 tamponi normali”.

Quanto è costata la missione Covid dalla Russia all’Italia? Tre milioni di euro in due mesi. Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 23 Marzo 2022.  

La missione dei militari russi in Italia nel marzo 2020, durante l’emergenza Coronavirus, è costata al nostro Paese oltre tre milioni di euro. Ma gli aiuti ricevuti da Mosca non sono stati sufficienti a coprire nemmeno il fabbisogno di un giorno. Il bilancio di quell’operazione concordata dall’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte con il presidente Vladimir Putin aumenta i dubbi e i sospetti sulla collaborazione offerta dal Cremlino, soprattutto alla luce della minaccia contro l’Italia rivolta dall’alto funzionario del ministero degli Esteri Alexei Paramonov che ha ricordato proprio quell’operazione “Dalla Russia con amore” parlando di «ingratitudine». E lascia aperto il mistero sugli accordi stretti in quell’occasione dai due governi, sui reali obiettivi della delegazione composta da 104 persone. Ecco perché è importante scorrere la lista della spesa, ricostruire che cosa accadde tra il 22 marzo e il 7 maggio, quando la missione fu dichiarata conclusa.

Mascherine e tamponi

Siamo a metà marzo di due anni fa, l’Italia è già stata colpita dall’epidemia. Il 22 marzo, quando atterrano a Pratica di Mare i tredici quadrireattori Ilyushin, ci sono 80.539 contagiati e 8.165 decessi. La zona peggiore è quella di Bergamo con 7.458 contagiati. Per fare fronte all’emergenza servono 90 milioni di mascherine al mese, almeno 300mila tamponi al giorno. Secondo la versione ufficiale i russi arrivano per portare aiuto, ma sono gli atti ufficiali a smentirla.

L’1 aprile 2020 l’onorevole di +Europa Riccardo Magi presenta un’interrogazione per sapere «se esista un accordo alla base di questa operazione e cosa preveda o se sia il frutto di un semplice accordo verbale» tra Putin e Conte, che tipo di attrezzature sia arrivato e in quale quantità, che qualifiche abbia il personale arrivato e quante unità di personale militare siano sbarcate, di chi si tratti, dove si trovino e quali siano i loro compiti». La risposta affidata alla viceministra degli Esteri Emanuela Del Re arriva il 12 ottobre 2020, quasi cinque mesi dopo. E rivela che i russi ci hanno consegnato: «521.800 mascherine, 30 ventilatori polmonari, 1.000 tute protettive, 2 macchine per analisi di tamponi, 10.000 tamponi veloci e 100.000 tamponi normali». Materiale che non bastava a fare fronte nemmeno alle esigenze di mezza giornata.

Il carburante

Altro capitolo sorprendente riguarda gli aerei. Nella riunione tra il capodelegazione il generale Sergey Kikot, il generale Luciano Portolano — all’epoca comandante del Coi, il Comando operativo interforze — e i vertici del Comitato tecnico-scientifico, Agostino Miozzo e Fabio Ciciliano avvenuta due giorni dopo l’arrivo a Roma, i russi dissero che volevano «sanificare tutti gli edifici pubblici» e chiesero il rimborso del carburante utilizzato per i voli. Istanza respinta quel giorno, ma evidentemente accolta in seguito.

Dall’elenco delle spese risulta infatti che furono elargiti circa 100mila euro per ogni volo, ma soprattutto che ai tredici aerei, se ne aggiunsero in seguito altri quattro per un totale di oltre un milione e mezzo di euro. Perché si decise di accettare quell’esborso? Il materiale sanitario era esiguo, dei 104 componenti la delegazione c’erano soltanto 32 tra medici e infermieri mentre gli altri erano militari. Dunque che cos’altro prevedeva l’accordo Roma-Mosca?

Vitto e alloggio

Interrogativo che diventa ancor più inquietante quando si scopre che tutti i russi furono ospitati a spese del governo italiano in un hotel di Bergamo. Il conto finale da poco più di 400mila euro fu saldato dalla Regione Lombardia che è in attesa del rimborso da palazzo Chigi. Un altro milione è stato già versato per le spese collegate relative agli italiani - soprattutto militari - che hanno affiancato la delegazione.

Nella relazione della viceministra Del Re si parla genericamente di «disinfezione e bonifica svolte soprattutto nelle Rsa» ma non si specifica in quali altri edifici siano entrati i russi. E tanto basta per alimentare l’ipotesi di un’attività spionistica per raccogliere dati e informazioni sanitarie da utilizzare poi in patria.

La riunione "segreta" e gli aiuti. Dalla Russia con amore, il caso della missione anti-covid in Lombardia: “È costata tre milioni all’Italia”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 23 Marzo 2022. 

Dalla Russia con amore. E con una serie di pretese grottesche, rimborsi spese, movimenti da decifrare nella campagna per aiutare l’Italia nella prima fase dell’emergenza covid. I russi volevano “sanificare l’intero territorio italiano entrando anche negli uffici pubblici e in tutte le sedi a rischio”. E quella missione costò alla fine circa tre milioni di euro all’Italia. Il Corriere della Sera ricostruisce quei giorni, la campagna russa, le pretese della delegazione e mette in fila alcune spese. Che, se confermate, sarebbero un’enormità rispetto ai sostegni effettivamente ricevuti.

La sera del 22 marzo atterrarono in Italia, all’aeroporto militare di Pratica di Mare 13 quadrireattori Ilyushin e 104 persone – 28 medici, 4 infermieri, il resto militari e forse apparati dell’intelligence. Alla guida il generale Sergey Kikot, vice comandante del reparto di difesa chimica, radiologica e biologica dell’esercito russo. Con lui Natalia Y. Pshenichnaya, vicedirettrice dell’Istituto centrale di ricerche epidemiologiche, e Aleksandr V. Semenov, dell’Istituto Pasteur di San Pietroburgo. Entrambi dal Rospotrebnadzor, la struttura sanitaria civile a cui il presidente Vladimir Putin aveva affidato la supervisione del contrasto all’epidemia.

A una riunione “segreta”, organizzata da Palazzo Chigi dopo una telefonata tra il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il Presidente della Russia Vladimir Putin, svelata dal quotidiano c’erano il generale Luciano Portolano, all’epoca comandante del Comando Operativo Interforze, e i membri del Comitato Tecnico Scientifico Agostino Miozzo e Fabio Ciciliano. Kikot, ha detto Miozzo, “parlava come se dovessero bonificare Chernobyl dopo l’esplosione nucleare. Ci disse che gli accordi di alto livello prevedevano sanificazioni su tutto il territorio e disse che loro intendevano sanificare tutti gli edifici, compresi quelli pubblici”. Alla proposta i due rifiutarono. Gli interventi dovevano riguardare soltanto ospedali e residenze per anziani.

Il New Yorker ha scritto che i russi, rimasti in Lombardia per altri due mesi, hanno “elaborato il Dna di un cittadino russo risultato positivo in Italia per le ricerche sul vaccino Sputnik”. La partnership tra l’ospedale Spallanzani di Roma e Mosca è stata interrotta soltanto dopo l’invasione dell’Ucraina. Già allora però il senatore di +Europa Riccardo Magi aveva presentato un’interrogazione per capire se ci fosse un accordo sull’operazione o se si trattava di un accordo verbale, per sapere che tipo di aiuti e personale e attrezzature fosse arrivato.

La viceministra degli Esteri Emanuela Del Re, a ottobre del 2020, parlò di 521.800 mascherine, 30 ventilatori polmonari, 1.000 tute protettive, 2 macchine per analisi di tamponi, 10.000 tamponi veloci e 100.000 tamponi normali – aiuti ampiamente insufficienti in un periodo in cui i positivi erano oltre 80mila al giorno e i morti più di ottomila. Secondo il Corriere quella missione russa costò oltre tre milioni di euro all’Italia: tra i presunti rimborsi spesa per ogni volo, l’alloggio di tutti i russi in un hotel di Bergamo – la Regione Lombardia aspetterebbe ancora il rimborso -, le spese agli italiani che hanno affiancato la missione.

Scenario inquietante quello tracciato dal quotidiano. Le minacce di “conseguenze irreversibili”, nel caso in cui l’Italia dovesse adottare nuove sanzioni contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina, dell’ex console russo a Milano Alexei Vladimorovic Paramonov, e le accuse al ministro della Difesa Lorenzo Guerini di essere diventato un “falco” e “ispiratore” della campagna antirussa in Italia; invece di intimorire l’Italia hanno portato ad approfondimenti su quei giorni di emergenza. I russi, tra l’altro, non avrebbero visitato né l’ospedale Sacco di Milano (avamposto in quella fase) né la zona più colpita dal contagio, quella del lodigiano, mentre entrarono più volte nella caserma militare di Orio al Serio per parcheggiare i mezzi.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

"Quella strana telefonata". Il retroscena della Viola sul vaccino russo. Marco Leardi il 22 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'immunologa Antonella Viola rivela di aver ricevuto una insolita telefonata dopo aver contestato l'efficacia del vaccino russo Sputnik. "Volevano dati, informazioni...". Poi i dubbi sul misterioso interlocutore.

"Sputnik non funziona". Il giudizio netto dell'immunologa Antonella Viola sul vaccino russo non era passato inosservato. Sulla rivista scientifica Lancet, la professoressa tarantina e alcuni suoi colleghi non avevano lasciato spazio alle ambiguità e in base alle loro ricerche avevano bocciato il ritrovato anti-Covid di Mosca. A distanza di mesi da quel pronunciamento, l'esperta rivela però un retroscena inedito, confessando di aver ricevuto una strana telefonata nella quale le si chiedevano informazioni dettagliate su quel vaccino e sulle carenze in esso riscontrate. Ancora oggi, l'immunologa non sa spiegarsi chi fosse il misterioso interlocutore che in quella circostanza si era spacciato come un emissario delle istituzioni.

Intervenendo oggi su Rai Radio1, nella trasmissione Forrest, Antonella Viola ha dapprima ribadito le proprie perplessità sullo Sputnik. "Non è un buon vaccino, non funziona, i dati non sono mai stati mostrati con chiarezza", ha dichiarato. Poi si è lanciata in una confidenza. "Vi racconto una cosa che non ho detto a nessuno. Quando sul vaccino Sputnik venne pubblicato il lavoro, insieme a Enrico Bucci e ad altri colleghi a livello internazionale, scrivemmo su Lancet un commento per dire che il vaccino effettivamente non funzionava. In quei giorni, a parte che il mio telefono cominciò a dare dei seri problemi, ricevetti una telefonata molto strana, di una persona che disse di essere del Ministero degli Interni, della sicurezza, non ricordo", ha rammentato l'immunologa, che è professore ordinario di patologia generale presso il dipartimento di scienze biomediche dell’Università di Padova.

Il misterioso interlocutore - ha raccontato l'esperta - "mi disse che voleva informazioni. Voleva sapere se io sapessi di più sul vaccino Sputnik. Una strana telefonata, mi chiedeva dati". A quel punto, Viola aveva cercato di capire con chi stesse parlando, forse per decidere anche sino a che punto sbilanciarsi nelle considerazioni. Ma nulla da fare: la persona al telefono rimaneva molto sul vago. "Mi disse che sarebbe venuto a trovarmi in studio ma non è mai più venuto. Ovviamente non sarà stato qualcuno del Ministero, immagino di no, però mi è rimasto il dubbio di capire chi fosse questa strana persona che si è presentata e che ha voluto sapere perché io avessi criticato il vaccino", ha chiosato l'immunologa.

Proprio nei giorni scorsi, l'Ema (l'agenzia europea per i medicinali) aveva comunicato che non vi sono progressi sull'autorizzazione dello Sputnik, al momento non riconosciuto dalle autorità europee. Da parte sua, invece, Antonella Viola aveva usato toni allarmistici invitando a non abbassare la guardia sulle possibili recrudescenze del Covid.

La missione russa del 2020. Conte dice che non sapeva della richiesta di Mosca di sanificare gli edifici pubblici. Linkiesta il 22 Marzo 2022.

L’ex presidente del Consiglio spiega che la delegazione agì in piena pandemia sotto il controllo dei militari e che informò Di Maio e Guerini. E sulla onorificenza a Vladimorovic Paramonov, che ora ha minacciato l’Italia, addossa tutta la responsabilità a Di Maio

Nel marzo del 2020, quando la delegazione russa arrivò in Italia in piena emergenza pandemia, Giuseppe Conte era presidente del Consiglio. Ora, dopo che Mosca ha rinfacciato al nostro Paese l’aiuto di quei giorni, il leader dei Cinque Stelle al Corriere spiega che in quei giorni ebbe «colloqui con i leader di tutto il mondo che mi cercarono per manifestare solidarietà per quello che stava accadendo in Italia e per aiutarci. Tra questi anche Putin, che si offrì di mandare personale specializzato. Mi disse che loro avevano maturato grande esperienza su come affrontare la pandemia perché avevano avuto la Sars. Noi eravamo in grandissima difficoltà. Non avevamo mascherine, non avevamo ventilatori. I nostri esperti non avevano neppure un protocollo di azione e non avevamo neppure sequenziato il virus. Ogni aiuto era ben accetto».

Conte dice che informò il ministro della Difesa Guerini e degli Esteri Di Maio, ma anche «altri ministri». Putin «mi disse che la squadra era autosufficiente. Posso assicurare che tutto si è svolto con il nostro controllo militare». E aggiunge: «I direttori delle agenzie di intelligence Aise e Aisi hanno assicurato che non c’è mai stata attività impropria che ha travalicato dai confini sanitari. Lo hanno riferito anche di fronte al Copasir specificando che l’attività dei russi si è svolta nei limiti e nelle forme che sono poi state concordate con le autorità sanitarie. Le insinuazioni, i dubbi e le perplessità mi sembrano assolutamente fuori luogo».

Secondo Conte, «non c’è alcun elemento per pensare che la loro attività e assistenza abbia travalicato i confini sanitari. Lo ripeto, i militari li hanno sempre affiancati. I riscontri che ho ricevuto sono stati di apprezzamento. Voler rileggere in modo strumentale e senza elementi concreti quello che accadde due anni fa alla luce del conflitto attuale mi sembra fuorviante».

Eppure il capomissione Sergey Kikot propose alla delegazione italiana di sanificare gli edifici pubblici. Se ne parlò in una riunione riservata alla quale parteciparono i vertici militari di Mosca e quelli italiani del Comando Interforze insieme ad esponenti del Comitato Tecnico Scientifico che collaborava con il governo. E alla fine, fa sapere il Corriere della Sera, tra le due delegazioni si arrivò allo scontro. Alla fine i russi eseguirono comunque una serie di interventi in ospedali e Rsa. Successivamente i russi arrivarono in Lombardia e lì rimasero per due mesi, collaborando con le strutture sanitarie e avendo libero accesso ai reparti.

E forse a queste tensioni si riferiva il responsabile sicurezza del Partito democratico Enrico Borghi, quando ha parlato di uno scontro con il ministro della Difesa Lorenzo Guerini che voleva mettere in sicurezza le infrastrutture strategiche italiane. «Non ho mai sentito questa cosa, nessuno me ne ha mai parlato», dice Conte.

Intanto, lo stesso governo Conte concedeva onoreficenze a personalità russe, compreso Alexei Vladimorovic Paramonov, che ha minacciato l’Italia. «Immagino che nel corso del tempo siano state assegnate onoreficenze a tantissime personalità russe. Non ricordo in particolare il nominativo di questo Alexei Paramonov, ma dai riscontri effettuati risulta che gli sono state consegnate su proposta del ministro degli Esteri e che la consegna della stella d’Italia è stata concessa dal ministero degli Esteri senza coinvolgere la presidenza del Consiglio», risponde. «Per quanto riguarda la revoca non so quali siano i precedenti, ma non sono affatto contrario che sia avviata subito la procedura».

E alla domanda se è ancora o no amico di Putin, risponde così: «Ho avuto varie occasioni per incontrare Putin e molti colloqui telefonici con lui quando ero presidente del Consiglio. Non ho mai colto questo disegno di attaccare l’Ucraina anche quando l’attuazione degli accordi di Minsk è stata al centro delle nostre conversazioni. Non so che cosa l’abbia spinto a mettere in atto questa invasione, ma sicuramente è una iniziativa militare grave e inaccettabile che rischia di fare molto male anche al suo popolo condannandolo a un isolamento politico e a grande sofferenza economica e sociale».

Conte conferma di essere contrario all’aumento delle spese militari: «Dopo due anni di pandemia ci sono caro-bollette, caro-energia, famiglie in ginocchio che non riescono ad arrivare a fine mese e intere filiere produttive che rischiano di soccombere, credo che sia quantomeno fuori luogo programmare incrementi della spesa militare. Non mi sento di presentare ai nostri concittadini un aumento di queste spese senza prima aver risolto queste urgenze».

La missione dei servizi russi: cosa è successo in quelle 24 ore. Massimo Balsamo il 22 Marzo 2022  su Il Giornale.

Militari e servizi segreti russi in azione a Milano nel pieno della pandemia: la visita alla sede del consolato e il giallo sulla durata della missione.

La missione della delegazione russa in Italia nel pieno della prima fase della pandemia da Covid-19 a metà marzo del 2020 resta un mistero. Nei giorni della crisi in Ucraina, si riaccende il dibattito sull’accordo tra l’ex premier italiano Giuseppe Conte e Vladimir Putin e spuntano importanti novità. Gli interventi degli esperti di Mosca in ospedali e rsa sono cosa nota, ma poco si sa sull’operato dei servizi segreti russi.

Il Cremlino inviò in Italia una delegazione per missione internazionale di soccorso composta da 72 persone, perlopiù militari e servizi segreti russi. Una parte della rappresentanza andò negli ospedali di Bergamo, la città più colpita dal virus, ma rappresenta ancora un giallo l’azione del resto dei connazionali, rimasti a Milano.

"Fu vero aiuto?". Il dubbio di Gori sui russi scatena le polemiche

Secondo quanto ricostruito dal Corriere, militari e servizi segreti russi raggiunsero il quartiere di San Siro, dove si trova la sede del consolato russo, un protettorato di Alexei Vladimorovich Paramonov. Quest’ultimo, direttore del Dipartimento europeo del ministero degli Esteri, negli scorsi giorni si è scagliato duramente contro Roma per le sanzioni alla Russia, arrivando alle minacce. Il vertice di via Sant’Aquilino resta un mistero, ma probabilmente servì per pianificare la permanenza in Italia, considerando che la missione durò più di due mesi. L’azione di militari e servizi segreti russi non è stata registrata o monitorata nel corso del tempo, ma tutto porta a pensare alle tipiche attività di intelligence, con la possibilità di accedere in ospedali e acquisire, se non rubare, i dati sensibili dei pazienti italiani.

“I direttori delle agenzie di intelligence Aise e Aisi hanno assicurato che non c’è mai stata attività impropria che ha travalicato dai confini sanitari”, ha tenuto a precisare Conte. Il leader del Movimento 5 Stelle ha stigmatizzato le insinuazioni nei suoi confronti: “Lo hanno riferito anche di fronte al Copasir specificando che l’attività dei russi si è svolta nei limiti e nelle forme che sono poi state concordate con le autorità sanitarie. Per questo le insinuazioni, i dubbi e le perplessità mi sembrano assolutamente fuori luogo”. 

"I russi in Italia? Non ci disse nulla". L'ex ministro inchioda Conte. Francesco Boezi il 22 Marzo 2022  su Il Giornale.

Conte non coinvolse l'esecutivo giallorosso sulla missione russa in Italia ai tempi delle prime ondate pandemiche. E ora il "capo grillino" potrebbe essere chiamato a spiegare.

L'ex ministro Teresa Bellanova, esponente d'Italia Viva e viceministro alle Infrastrutture del governo di Mario Draghi, torna ai tempi del Conte bis, inchiodando Giuseppe Conte sulla "missione" della Russia di Vladimir Putin in Italia ai tempi della prima ondata pandemica.

La questione sta suscitando numerosi interrogativi anche per via della riunioni che si sono svolte all'epoca. La Russia, dopo aver invaso l'Ucraina, ha risposto alla posizione assunta dall'Italia sulla guerra scatenata da Putin, ricordando appunto gli "aiuti" che lo "Zar" avrebbe garantito all'Italia in contemporanea con il primo lockdown. La Federazione russa ha inviato nel Belpaese anche medici, materiale e personale sanitario.

E la Bellanova, ricordando quanto accaduto, ha spiegato a IlFoglio come l'ex premier giallorosso abbia deciso, in quelle circostanze, di procedere in autonomia: "Non fummo coinvolti in cabina di regia e nemmeno in Consiglio dei ministri: nessun confronto. In altri casi l'aiuto di paesi stranieri ci veniva anticipato, magari informalmente. Per la Russia non avvenne. E non sono in grado di stabilire se la mossa di Putin fu furba". +

Il capo grillino, dunque, avrebbe evitato di rendere partecipe il Consiglio dei ministri. E questo, rispetto alla prassi, avrebbe costituito una novità rispetto a quanto Giuseppe Conte avrebbe predisposto per iniziative simili. Il sospetto è sempre lo stesso, ossia che Vladimir Putin, con quella missone, abbia provato ad "ottenere altro", come ipotizza sempre l'ex ministro. Pure sindaco di Bergamo Giorgio Gori, che è del Partito Democratico, ha ventilato la possibilità che i russi, con quegli aiuti, avessero in realtà un altro obiettivo.

L'esponente del partito guidato da Matteo Renzi incalza: "Forse, e lo dico in maniera retorica, ci sono fatti che, visto ciò che sta accadendo, andrebbero spiegati da parte dell'ex premier". La considerazione è politica ma Conte, almeno per ora, ha deciso di sorvolare e di non replicare. Però i contorni di questa storia sembrano presentare qualche mistero che neppure la Bellanova ha la possibilità di risolvere, in caso: "In quelle ore tutto era complicato e drammatico, questo va detto - ha aggiunto alla fonte appena citata - . Solo dopo venimmo a sapere che c'era stata una telefonata fra Conte e Putin. Stop. Non sono in grado di dire se ci furono anche altri accordi".

Tra "incontri segreti" e domande che per ora non conoscono risposta, Giuseppe Conte rischia di finire all'interno di un nuovo calderone.

Estratto dell’articolo di Simone Canettieri per “il Foglio” il 22 marzo 2022.  

“Non fummo coinvolti in cabina di regia e nemmeno in Consiglio dei ministri: nessun confronto. In altri casi l’aiuto di paesi stranieri ci veniva anticipato, magari informalmente. Per la Russia non avvenne. E non sono in grado di stabilire se la mossa di Putin fu furba”. Furba? “Sì, volta a ottenere altro”. Perché? “Le parole dell’altro giorno di Mosca contro il ministro Guerini sono state inquietanti, oltre che irricevibili”.

Teresa Bellanova, due anni fa faceva parte del governo Conte II. “Forse, e lo dico in maniera retorica, ci sono fatti che, visto ciò che sta accadendo, andrebbero spiegati da parte dell’ex premier”. 

(…) “In quelle ore tutto era complicato e drammatico, questo va detto. Solo dopo venimmo a sapere che c’era stata una telefonata fra Conte e Putin. Stop. Non sono in grado di dire se ci furono anche altri accordi”, dice al Foglio Bellanova, esponente di Italia viva (…) 

Il deputato del Pd Francesco Boccia – due anni fa era ministro degli Affari regionali in stretto contatto con la Protezione civile e i territori – dice che “l’Italia fu in perfetta buonafede e che all’epoca tanti paesi, come l’Albania e Cuba, ci diedero una mano con ventilatori e mascherine: ne eravamo sprovvisti, era una situazione drammatica. Quanto ai russi, che ricordando questa storia si sono dimostrati a dir poco sgradevoli, dormivano nelle nostre caserme ed erano scortati dal nostro esercito”.

Boccia “non si ricorda” se la mano del Cremlino fu interamente a titolo gratuito. Del materiale esatto non esiste una rendicontazione: la lista è stata secretata. Tutto partì da una telefonata fra Giuseppe Conte e Putin. Poi la notizia venne comunicata al ministero della Difesa e forse a quello della Salute. Al contrario, al Viminale dicono che non furono coinvolti. L’ex premier parla di “vicenda chiara e trasparente” ed è sicuro che la missione russa “non sia mai sconfinata dagli obiettivi sanitari”. (…) 

DAGONEWS il 22 marzo 2022.

Giuseppe Conte è nel panico: sulla vera storia degli aiuti russi all’Italia nel 2020 sta provando in tutti i modi, ma inutilmente, ad arrampicarsi sugli specchi. Anche il fido Ta-Rocco Casalino non sa che pesci prendere. I due sarebbero in forte disaccordo su quale strategia portare avanti. Oddio, "strategia" è un parolone: Peppiniello Appulo ha deciso di voler scaricare tutta la responsabilità sugli altri, ma dimentica alcuni particolari. 

Prendiamo per esempio la storia dell’onorificenza a Ivan Paramonov. Intervistato da Fiorenza Sarzanini sul “Corriere della Sera”, l’ex premier casca dal pero e butta il patatone bollente addosso a Luigino Di Maio: “Immagino che nel corso del tempo siano state assegnate onoreficenze a tantissime personalità russe. Non ricordo in particolare il nominativo di questo Alexei Paramonov, ma dai riscontri effettuati risulta che gli sono state consegnate su proposta del ministro degli Esteri e che la consegna della stella d'Italia è stata concessa dal ministero degli Esteri senza coinvolgere la presidenza del Consiglio”.

Mente sapendo di mentire, visto che una delle due onorificenze all’ex console Russo a Milano, che sabato ha minacciato il ministro Guerini, è stata deliberata proprio da Palazzo Chigi, durante il Conte 1, come confermano all’Adnkronos fonti diplomatiche. 

Così, in un colpo solo, “Giuseppi” ha fatto incazzare tutti: Mattarella, i diplomatici della Farnesina e i funzionari della Presidenza del Consiglio.

Nell’intervista al “Corriere”, Conte fa lo scarica barile con tutti anche sull’operazione “Dalla Russia con amore”, un misto di aiuti medici, spionaggio batteriologico e propaganda. 

Per lui, sarebbe tutta farina del sacco di Di Maio, Guerini e intelligence. Ma come fa notare la stessa Sarzanini, in un altro articolo di oggi sul “Corriere”, “la richiesta di pianificare le attività che potevano essere svolte dal contingente russo nel nostro Paese arriva direttamente da Palazzo Chigi”. 

Poi, a domanda precisa della giornalista (“il capomissione Sergey Kikot propose alla delegazione italiana di sanificare gli edifici pubblici”), l’ex avvocato del popolo fa lo struzzo e mette il ciuffo catramato sotto la sabbia: “Non ho mai sentito questa cosa, nessuno me ne ha mai parlato”.

Delle due l’una: o Peppiniello da premier non sapeva delle decisioni che venivano prese a Palazzo Chigi (e a quel punto: chi le prendeva?), oppure lo sapeva benissimo e ora fa lo smemorato. Quale sarà la verità?

(Adnkronos il 22 marzo 2022) - Fonti diplomatiche interpellate dall'Adnkronos spiegano che per le onorificenze Omri "l'esercizio è in capo a Palazzo Chigi che chiede i nominativi ai vari ministeri, seleziona e poi decide, mandando la lista definitiva al presidente della Repubblica per la firma finale". Anche per il caso PARAMONOV? "Sì - confermano le stesse fonti -, l'iter è uguale per tutti i casi, e, nel caso specifico risale al Governo Conte 1, concessa nel dicembre 2018".

Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 21 marzo 2022.

Nel marzo del 2020, in piena emergenza da pandemia di Covid 19, ci fu un incontro riservato tra i russi e gli italiani . Due giorni dopo l’arrivo a Roma - avvenuto la sera del 22 marzo di due anni fa - la riunione rimasta finora segreta ebbe come protagonisti la delegazione guidata dal generale Sergey Kikot, il vice comandante del reparto di difesa chimica, radiologica, biologica dell’esercito russo e gli italiani che in quel momento gestivano la crisi sanitaria. 

In una foresteria del ministero della Difesa i militari giusti da Mosca incontrarono il generale Luciano Portolano - all’epoca comandante del Coi, il Comando operativo interforze, e i vertici del Comitato tecnico Scientifico, Agostino Miozzo e Fabio Ciciliano.

All’ordine del giorno, le attività che potevano essere svolte dal contingente russo nel nostro Paese. E in quell’occasione la richiesta di Kikot fu esplicita: «Sanificare l’intero territorio italiano entrando anche negli uffici pubblici e in tutte le sedi a rischio». Di fronte alle resistenze della delegazione italiana Kikot fu ancora più esplicito: «Siamo qui sulla base di un accordo politico di altissimo livello. Dunque possiamo fare qualsiasi cosa per aiutarvi». 

Il rifiuto in quella circostanza fu netto, dopo ore di colloqui Portolano e Miozzo chiarirono che gli unici interventi dovevano riguardare ospedali e Rsa, le residenze per anziani dove c’erano già decine di decessi a causa del Coronavirus. Ma che cosa i russi riuscirono ad ottenere in seguito rimane ancora un mistero. È questo l’ultimo retroscena della missione che tante polemiche sta provocando dopo le dichiarazioni di Alexei Vladimorovic Paramonov, 60 anni, ex console russo a Milano, direttore del dipartimento europeo del ministero degli Esteri che ha minacciato «conseguenze irreversibili» se il nostro Paese aderirà al nuovo piano di sanzioni contro Mosca decise dopo l’invasione dell’Ucraina. 

L’accordo Conte-Putin

Fu palazzo Chigi a organizzare l’incontro. Il giorno prima dell’arrivo a Roma dei russi c’era stata una telefonata tra il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il leader russo Vladimir Putin. Il 22 marzo atterrano nell’aeroporto militare di Pratica di Mare, vicino Roma, tredici quadrireattori Ilyushin e 104 persone. Della missione concordata per dare aiuto all’Italia per la pandemia facevano parte 28 medici e quattro infermieri. Gli altri erano militari. 

Oltre a Kikot c’erano Natalia Y. Pshenichnaya, vicedirettrice dell’Istituto centrale di ricerche epidemiologiche, e Aleksandr V. Semenov, dell’Istituto Pasteur di San Pietroburgo. Entrambi dipendenti del Rospotrebnadzor, la struttura sanitaria civile a cui Putin il 27 gennaio 2020 aveva affidato la supervisione del contrasto all’epidemia.

«Entriamo negli edifici pubblici»

A Miozzo e Ciciliano fu chiesto di partecipare come rponsabili del Cts, proprio per pianificare gli interventi. Miozzo ricorda bene la trattativa: «L’esordio di Kikot fu particolarmente intrusivo, ruvido. Parlava come se dovessero bonificare Chernobyl dopo l’esplosione nucleare. 

Ci disse che gli accordi di alto livello prevedevano sanificazioni su tutto il territorio e disse che loro intendevano sanificare tutti gli edifici, compresi quelli pubblici. Noi decidemmo di interrompere i colloqui. Con Portolano decidemmo di non cedere e alla fine di quel pomeriggio comunicammo la nostra posizione. In seguito ci fu confermato che avevano sanificato molte strade». 

Gli accordi con gli ospedali

Che cosa accadde dopo è noto soltanto in parte. I russi arrivarono in Lombardia e rimasero per due mesi. Collaborarono con le strutture sanitarie con libero accesso ai reparti.

Qualche mese dopo il New Yorker scrisse che avevano «elaborato il Dna di un cittadino russo risultato positivo in Italia per le ricerche sullo Sputnik». Un anno dopo, nell’aprile 2021, è stato chiuso un accordo con l’ospedale Spallanzani di Roma proprio per la sperimentazione dello Sputnik, nonostante la mancata approvazione del vaccino russo da parte dell’Ema. La collaborazione è stata interrotta qualche giorno fa, tre settimane dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina. 

I dati “sensibili”

Che cos’altro prevedeva l’accordo «di altissimo livello politico» di cui parlò Kikot? E soprattutto, a quali informazioni di tipo sanitario hanno avuto accesso i russi? Circostanze fondamentali da accertare in questo momento di conflitto internazionale, anche per scoprire se - come si teme - la minaccia di Alexei Vladimorovic Paramonov riguardi il disvelamento dei patti siglati all’epoca.

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 22 marzo 2022.  

Presidente Conte, nel marzo del 2020 quando la delegazione russa arrivò in Italia lei era presidente del Consiglio. Quali accordi prese con Vladimir Putin?

«In quei giorni di massima emergenza dovuta alla pandemia ebbi colloqui con i leader di tutto il mondo che mi cercarono per manifestare solidarietà per quello che stava accadendo in Italia e per aiutarci.

Tra questi anche Putin che si offrì di mandare personale specializzato. Mi disse che loro avevano maturato grande esperienza su come affrontare le pandemia perché avevano avuto la Sars. Noi eravamo in grandissima difficoltà. Non avevamo mascherine, non avevamo ventilatori. I nostri esperti non avevano neppure un protocollo di azione e non avevamo neppure sequenziato il virus. Ogni aiuto era ben accetto».

Con chi ne parlò?

«Con il ministro della Difesa Guerini e degli Esteri Di Maio, ma anche con altri ministri. Putin mi disse che la squadra era autosufficiente. Posso assicurare che tutto si è svolto con il nostro controllo militare». 

Dopo le minacce all'Italia lei ritiene che tutto si svolse in maniera regolare?

«I direttori delle agenzie di intelligence Aise e Aisi hanno assicurato che non c'è mai stata attività impropria che ha travalicato dai confini sanitari. Lo hanno riferito anche di fronte al Copasir specificando che l'attività dei russi si è svolta nei limiti e nelle forme che sono poi state concordate con le autorità sanitarie. Le insinuazioni, i dubbi e le perplessità mi sembrano assolutamente fuori luogo». 

Non ha mai sospettato che fosse spionaggio?

«Non c'è alcun elemento per pensare che la loro attività e assistenza abbia travalicato i confini sanitari. Lo ripeto, i militari li hanno sempre affiancati. I riscontri che ho ricevuto sono stati di apprezzamento. 

Voler rileggere in modo strumentale e senza elementi concreti quello che accadde due anni fa alla luce del conflitto attuale mi sembra fuorviante». 

Eppure il capomissione Sergey Kikot propose alla delegazione italiana di sanificare gli edifici pubblici.

«Non ho mai sentito questa cosa, nessuno me ne ha mai parlato». 

 Alcuni parlamentari M5S sono schierati con Putin e non saranno alla Camera ad ascoltare Zelensky, è d'accordo?

 «Stiamo parlando di un conflitto e come diceva Bertrand Russel "in una guerra non decide chi ha ragione ma chi sopravvive". Io invidio chi, di fronte a un'escalation bellica, sfodera certezze assolute, chi ha convinzioni insuperabili.

Detto questo la nostra posizione è stata molto chiara: siamo di fronte a un'aggressione militare ingiustificata che merita risoluta condanna che ci spinge a offrire aiuto di vario tipo alla popolazione ucraina. 

Ma come Movimento Cinque Stelle il nostro obiettivo è far di tutto perché la follia della guerra ceda il passo a un percorso di razionalità e si possa recuperare attraverso la pressione costante e risoluta della comunità internazionale la soluzione politica e dei negoziati ponendo fine alla carneficina in atto». 

Il suo governo ha concesso onoreficenze a personalità russe, compreso Alexei Vladimorovic Paramonov, che ha minacciato l'Italia. È pentito?

 «Immagino che nel corso del tempo siano state assegnate onoreficenze a tantissime personalità russe. Non ricordo in particolare il nominativo di questo Alexei Paramonov, ma dai riscontri effettuati risulta che gli sono state consegnate su proposta del ministro degli Esteri e che la consegna della stella d'Italia è stata concessa dal ministero degli Esteri senza coinvolgere la presidenza del Consiglio. Per quanto riguarda la revoca non so quali siano i precedenti, ma non sono affatto contrario che sia avviata subito la procedura».

È ancora amico di Putin?

«Ho avuto varie occasioni per incontrare Putin e molti colloqui telefonici con lui quando ero presidente del Consiglio. Non ho mai colto questo disegno di attaccare l'Ucraina anche quando l'attuazione degli accordi di Minsk è stata al centro delle nostre conversazioni. 

Non so che cosa l'abbia spinto a mettere in atto questa invasione, ma sicuramente è una iniziativa militare grave e inaccettabile che rischia di fare molto male anche al suo popolo condannandolo a un isolamento politico e a grande sofferenza economica e sociale».

Perché siete contrari all'aumento delle spese militari?

«Dopo due anni di pandemia ci sono caro-bollette, caro-energia, famiglie in ginocchio che non riescono ad arrivare a fine mese e intere filiere produttive che rischiano di soccombere, credo che sia quantomeno fuori luogo programmare incrementi della spesa militare. Non mi sento di presentare ai nostri concittadini un aumento di queste spese senza prima aver risolto queste urgenze».

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 22 marzo 2022.  

(…)  Ci sono altri dettagli inediti su quella operazione che tre giorni fa l'alto funzionario del ministero degli Esteri Alexei Paramonov ha citato nel suo attacco al nostro Paese minacciando «conseguenze irreversibili» se aderiremo alle sanzioni.

Riunione in foresteria

Foresteria militare di via Castro Pretorio a Roma, sala riservata alle delegazioni internazionali. Da una parte del tavolo c'è il generale Sergey Kikot, vice comandante del reparto di difesa chimica, radiologica, biologica dell'esercito russo insieme ad almeno dieci militari. Dall'altra il generale Luciano Portolano - all'epoca comandante del Coi, il Comando operativo interforze - e i vertici del Comitato tecnico-scientifico, Agostino Miozzo e Fabio Ciciliano. 

La richiesta di pianificare le attività che potevano essere svolte dal contingente russo nel nostro Paese arriva direttamente da Palazzo Chigi. Kikot è subito esplicito: «Siamo qui sulla base di un accordo politico di altissimo livello. Dunque possiamo fare qualsiasi cosa per aiutarvi. Vogliamo sanificare l'intero territorio italiano entrando anche negli uffici pubblici e in tutte le sedi a rischio».

Lo scontro Portolano e Miozzo chiariscono che gli unici interventi possono riguardare ospedali e Rsa, le residenze per anziani dove c'erano già decine di decessi a causa del Coronavirus. 

Kikot insiste e la riunione viene interrotta. Portolano si consulta con i colleghi, la trattativa va avanti per ore e alla fine si decide di non cedere. 

Ma i toni sono aspri. Miozzo lo ricorda molto bene: «L'esordio di Kikot fu particolarmente intrusivo, ruvido. Parlava come se dovessero bonificare Chernobyl dopo l'esplosione nucleare. Ci disse che gli accordi di alto livello prevedevano sanificazioni su tutto il territorio e disse che loro intendevano sanificare tutti gli edifici, compresi quelli pubblici. Il colloquio fu interrotto varie volte ma con Portolano decidemmo di non accettare alcuna offerta di quel tipo. 

La riunione terminò con l'autorizzazione a entrare soltanto in alcune strutture sanitarie. In seguito ci fu confermato che avevano sanificato molte strade». 

(…) Che cosa accadde dopo è noto soltanto in parte. I russi arrivano in Lombardia e rimangono per due mesi. Collaborano con le strutture sanitarie con libero accesso ai reparti. Qualche mese dopo il New Yorker scrive che avevano «elaborato il Dna di un cittadino russo risultato positivo in Italia per le ricerche sullo Sputnik».

 Un anno dopo, nell'aprile 2021, è stato chiuso un accordo con l'ospedale Spallanzani di Roma proprio per la sperimentazione dello Sputnik, nonostante la mancata approvazione del vaccino russo da parte dell'Ema. La collaborazione è stata interrotta qualche giorno fa, tre settimane dopo l'inizio dell'invasione russa in Ucraina. (…)

Pd, Borghi: "Mosca non perdona a Guerini di aver impedito lo spionaggio russo nel 2020". Giovanna Casadio su La Repubblica il 21 marzo 2022.  

Intervista al responsabile Sicurezza del Pd dopo le minacce fatte recapitare da Putin al nostro ministro della Difesa: "I suoi aiuti all'Italia per il Covid? Certe reazioni stizzite tradiscono il fatto che quello che credevano un investimento in realtà non ha ritorni". "Mosca non perdona a Lorenzo Guerini di avere agito per mettere in assoluta sicurezza le nostre infrastrutture strategiche quando nel marzo del 2020 un contingente militare russo venne in Italia per l'emergenza Covid". Enrico Borghi, responsabile Sicurezza del Pd, amico personale del ministro della Difesa, ha pochi dubbi: avere impedito allora l'attività di spionaggio dei russi è una delle ragioni del

Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 20 marzo 2022.

È la sera di 22 marzo 2020, domenica, quando all’aeroporto militare di Pratica di Mare, alle porte di Roma, atterrano tredici quadrireattori Ilyushin decollati da Mosca. Ad attenderli c’è il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, l’accordo per la missione è stato preso il giorno precedente con una telefonata tra l’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il presidente russo Vladimir Putin. Il livello dei rapporti tra Italia e Russia in quel momento è all’apice. 

Nel luglio precedente Putin è stato ricevuto con tutti gli onori a Villa Madama per una cena che ha unito imprenditori e politici, con 5 Stelle e Lega a farla da padrone.

Quando ha inizio la missione «Dalla Russia con amore» a marzo di due anni fa l’Italia ha 80.539 positivi da Coronavirus e 8.165 decessi. La zona peggiore è quella di Bergamo con 7.458 contagiati. Ma a preoccupare è soprattutto la carenza di ventilatori e mascherine. Ne servono milioni al giorno ma l’Italia non ne produce e quindi la ricerca all’estero è spasmodica. Ecco perché inizialmente la missione russa viene accolta positivamente.

La minaccia per le sanzioni

Adesso che Alexei Vladimorovic Paramonov, 60 anni, ex console russo a Milano, direttore del dipartimento europeo del ministero degli Esteri ha minacciato l’Italia di «conseguenze irreversibili» se aderirà al nuovo piano di sanzioni contro Mosca, ha bollato il ministro della Difesa Lorenzo Guerini come «un falco» e ha accusato il nostro Paese di aver «dimenticato gli aiuti ricevuti dal Cremlino durante la pandemia», si ha la conferma che ci sia molto altro dietro quella missione di due anni fa.

La diplomazia e l’intelligence italiana in queste ore rassicurano sulla portata effettiva dell’avvertimento che «rientra nella propaganda di Mosca anche perché affidato a una figura di rango non elevato». 

Senza però escludere che la ritorsione possa essere proprio il disvelamento di tutti gli accordi presi in quei due mesi di permanenza dei militari russi in Italia. Un vero e proprio ricatto che potrebbe mettere in difficoltà chi, all’epoca, aveva condiviso con i russi informazioni e siglato accordi economici e commerciali.

La vera minaccia di Mosca nei confronti dell’Italia potrebbe essere proprio questa. Ecco perché è utile tornare a quel 22 marzo del 2020 e ricostruire che cosa accadde.

Militari e scienziati

Quella sera a chi è in servizio a Pratica di Mare basta scorrere la lista dei componenti della missione per comprendere che qualcosa non torna. 

Ufficialmente si tratta di aiuti sanitari ma nella lista dei 104 nomi ci sono solo 28 medici e quattro infermieri. Gli altri sono militari.

A guidare la spedizione è il generale Sergey Kikot, vice comandante del reparto di difesa chimica, radiologica, biologica dell’esercito russo. Nel suo curriculum c’è la collaborazione con aziende che producono e riparano armi per la protezione chimica, radioattiva e biologica. 

Con lui ci sono Natalia Y. Pshenichnaya, vicedirettrice dell’Istituto centrale di ricerche epidemiologiche, e Aleksandr V. Semenov, dell’Istituto Pasteur di San Pietroburgo. Entrambi lavorano al Rospotrebnadzor, la struttura sanitaria civile a cui Putin il 27 gennaio 2020 ha affidato la supervisione del contrasto all’epidemia.

Qual è il vero ruolo di questi scienziati in Italia? E quali sono i compiti affidati ai militari? Ma soprattutto quanti sono gli uomini del GRU, il servizio informazioni delle forze armate russe? 

Gli obiettivi segreti

Il 5 marzo scorso, due settimane dopo l’attacco della Russia contro l’Ucraina, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori scrive su Twitter: «Col senno di poi è inevitabile tornare alla missione russa in Italia della primavera 2020. Sono testimone dell’aiuto prestato a Bergamo dai medici del contingente, ma va ricordato che a Pratica di Mare arrivarono più generali che medici. Fu aiuto, propaganda o intelligence?». 

Ci sono alcuni elementi che non possono essere ignorati. Nel febbraio 2020, quando il mondo affrontava l’emergenza da Coronavirus, i russi chiesero alle autorità cinesi di poter andare a Wuhan, lì dove tutto era cominciato, ma non ottennero il permesso. Ufficialmente ci furono contatti e riunioni soltanto in videoconferenza.

L’Italia diede invece libero accesso ai propri reparti ospedalieri, ai laboratori senza vincoli . Tanto che qualche mese dopo il New Yorker rivelò che «il Dna di un cittadino russo che si è ammalato in Italia il 15 marzo è stato usato per elaborare il vaccino Sputnik». 

Tra i materiali scaricati c’erano anche 150 ventilatori che dovevano servire per le emergenze, ma numerosi operatori sanitari denunciarono le difficoltà a utilizzarli e qualche mese dopo si scoprì che quegli stessi strumenti a Mosca si erano incendiati uccidendo almeno cinque pazienti.

Lo Sputnik, un anno dopo, è stato al centro di un accordo annunciato dall’assessore della Sanità del Lazio Alessio D’Amato «per la collaborazione scientifica tra l’Istituto Spallanzani di Roma e l’Istituto Gamaleya di Mosca per valutare la copertura delle varianti di Sars-CoV-2 anche del vaccino Sputnik V». 

Il problema è che Ema non ha mai autorizzato lo Sputnik, ma nonostante questo nell’ultimo anno ci sono stati numerosi scambi di dati tra le due strutture sanitarie. Una collaborazione che lo stesso Spallanzani alla fine ha deciso di interrompere qualche giorno fa, quasi tre settimane dopo l’inizio dell’invasione.

Ad alimentare il sospetto che molto ci fosse da nascondere in quella missione è stata anche la lettera inviata al quotidiano La Stampa due anni fa dopo gli articoli di Iacopo Iacoboni che per primo aveva rivelato la missione russa in Italia, firmata da Igor Konashenkov, capo della comunicazione ufficiale di Mosca. Quella lettera si concludeva con queste parole: «Chi scava la fossa, ci finisce dentro».