Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

ANNO 2022

L’ACCOGLIENZA

OTTAVA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI EUROPEI

I Muri.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i finlandesi.

Quei razzisti come i belgi.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli inglesi.

Quei razzisti come i cechi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i serbi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AFRO-ASIATICI

 

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come i libici.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come gli ugandesi.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i sudafricani.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come gli arabi sauditi. 

Quei razzisti come i qatarioti.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli iracheni.

Quei razzisti come gli afghani.

Quei razzisti come gli indiani.

 Quei razzisti come i singalesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come i kazaki.

Quei razzisti come i russi.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i filippini.

Quei razzisti come i giapponesi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AMERICANI

 

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i peruviani.

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i colombiani.

Quei razzisti come i brasiliani.

Quei razzisti come gli argentini.

Quei razzisti come gli australiani.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.

I LADRI DI NAZIONI.

CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.

I SIMBOLI.

LE PROFEZIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. PRIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SECONDO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. TERZO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUARTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUINTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SESTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SETTIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. OTTAVO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. NONO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. DECIMO MESE.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE MOTIVAZIONI.

NAZISTA…A CHI?

IL DONBASS DELI ALTRI.

L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.

TUTTE LE COLPE DI…

LE TRATTATIVE.

ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.

LA RUSSIFICAZIONE.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.

IL FREDDO ED IL PANTANO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE VITTIME.

I PATRIOTI.

LE DONNE.

LE FEMMINISTE.

GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.

LE SPIE.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.

LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.

LA GUERRA ENERGETICA.

LA GUERRA DEL LUSSO.

LA GUERRA FINANZIARIA.

LA GUERRA CIBERNETICA.

LE ARMI.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA DETERRENZA NUCLEARE.

DICHIARAZIONI DI STATO.

LE REAZIONI.

MINACCE ALL’ITALIA.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

IL COSTO.

L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.

PSICOSI E SPECULAZIONI.

I CORRIDOI UMANITARI.

I PROFUGHI.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

I PACIFISTI.

I GUERRAFONDAI.

RESA O CARNEFICINA? 

LO SPORT.

LA MODA.

L’ARTE.

 

INDICE DODICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

PATRIA MOLDAVIA.

PATRIA BIELORUSSIA.

PATRIA GEORGIA.

PATRIA UCRAINA.

VOLODYMYR ZELENSKY.

 

INDICE TREDICESIMA PARTE

 

La Guerra Calda.

L’ODIO.

I FIGLI DI PUTIN.

 

INDICE QUATTORDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’INFORMAZIONE.

TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA. 

 

INDICE QUINDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA PROPAGANDA.

LA CENSURA.

LE FAKE NEWS.

 

INDICE SEDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.

LA RUSSOFOBIA.

LA PATRIA RUSSIA.

IL NAZIONALISMO.

GLI OLIGARCHI.

LE GUERRE RUSSE.

 

INDICE DICIASSETTESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CHI E’ PUTIN.

 

INDICE DICIOTTESIMA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…le Foibe.

Lo sterminio comunista degli Ucraini.

L’Olocausto.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Il Caso dei Marò.

Che succede in Africa?

Che succede in Libia?

Che succede in Tunisia?

Cosa succede in Siria?

 

 

L’ACCOGLIENZA

OTTAVA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Guerra Calda.

LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.

Così Putin ha portato la Russia al primo posto tra gli esportatori di grano. Federico Rampini su Il Corriere della Sera il 28 Agosto 2022.

Il riscaldamento climatico penalizza alcune aree della Terra ma agevola Mosca, che vede incrementare la sua produzione

È un vecchio problema che affligge i media: le buone notizie ci sembrano poco eccitanti, le catastrofi danno dei titoli più attraenti. Fino a creare un sistematico pregiudizio in favore dell’Apocalisse: le profezie sulla fine del mondo hanno buona stampa, i messaggi moderatamente ottimisti vengono considerati irresponsabili.

Mi è capitato di pagarne un prezzo, quando di recente ho ridimensionato l’allarme sull’emergenza alimentare nel mondo. Apriti cielo, mi sono arrivate rampogne da tutte le parti (a cui risponderò puntualmente). Anche perché nel dare una buona notizia – i prezzi dei cereali e altri prodotti agricoli sono finalmente scesi – ne ho veicolata un’altra, perfino più scomoda: la Russia ha un’agricoltura che scoppia di salute e quest’anno raggiungerà esportazioni record di grano, smentendo gli scenari di penuria. Le vendite di cereali non sono soggette a sanzioni e quindi il mondo intero continuerà ad avvalersi della produzione russa senza ostacoli. È assai sgradevole, per chi (come me) considera Vladimir Putin un leader che si è coperto di crimini orrendi, dovergli riconoscere qualche merito. Ma bisogna saper scindere il giudizio politico e morale, dalla constatazione che in qualche campo può avere avuto successo.

L’agricoltura è il «trionfo segreto» di Putin. Ho un’età che mi consente di ricordare quando i cittadini sovietici potevano arrivare a fine mese perché gli agricoltori del Midwest americano li sfamavano. Proprio così: la collettivizzazione imposta dal comunismo generò crisi agricole a ripetizione, dai tempi di Stalin a quelli di Brezhnev, incluse alcune carestie. Negli anni della guerra fredda, il grande nemico americano divenne in realtà un salvatore: le forniture di cereali dall’Iowa e dintorni furono essenziali per Mosca. Tutto questo è un lontano ricordo, oggi. Sotto la presidenza Putin la Russia ha conosciuto una spettacolare rinascita della sua produzione agricola.

Dal 2000 al 2018 le esportazioni di derrate agroalimentari dalla Russia verso il resto del mondo sono aumentate di ben 16 volte. La Russia è tornata ad essere sotto Putin una superpotenza agricola, come lo era stata ai tempi di Caterina la Grande alla fine del Settecento. Oggi la Russia produce più grano degli Stati Uniti. Queste due nazioni sono rispettivamente al terzo e quarto posto mondiale con 85,9 milioni di tonnellate la Russia e 49,7 milioni di tonnellate gli Stati Uniti. Al primo e secondo si collocano la Cina (134 milioni di tonnellate) e l’India (108). Ma Cina e India hanno 1,4 miliardi di abitanti ciascuna e devono dedicare la gran parte della produzione agricola al fabbisogno domestico, mentre Russia e America hanno molta più capacità di esportazione.

Se si guarda alla classifica dell’export 2021 la Russia è in testa come esportatrice di grano con 37,2 milioni di tonnellate seguita da Usa e Canada quasi appaiati in seconda e terza posizione con 26,1 milioni di tonnellate ciascuno. Tra le buone notizie che faticano a trovare visibilità: quest’anno malgrado la siccità la produzione di grano sarà in aumento sia in Russia sia negli Stati Uniti.

Una buona notizia che piace particolarmente a Putin, e che l’Occidente tende a ignorare, riguarda l’impatto del cambiamento climatico sull’agricoltura. L’ambientalismo apocalittico che è di moda in Occidente tende ad associare l’aumento della temperatura con un calo di produzione agricola; i più catastrofisti non esitano a descrivere uno scenario di penuria alimentare. Ma non c’è nulla di simile nelle proiezioni degli scienziati che formano il consenso dominante nei panel dell’Onu. Il cambiamento climatico danneggerà l’agricoltura di alcune aree del mondo e la favorirà in altre. La Russia, insieme con il Canada e i paesi scandinavi, sono dalla parte dei vincitori.

Putin questo lo sa, e cominciò a dirlo molti anni fa. Nel 2003 il leader russo dichiarò: «Un aumento della temperatura di due o tre gradi non sarebbe male per un paese nordico come la Russia. Spenderemo meno in pellicce e i raccolti di grano cresceranno». Non era una battuta. Putin sapeva di cosa stava parlando. In un’inchiesta di ProPublica su “Come la Russia vincerà la crisi climatica” diversi scienziati ambientalisti hanno illustrato questo scenario: il cambiamento climatico con lo scioglimento del permafrost potrebbe aggiungere alla Siberia una superficie coltivabile superiore a tutta quella degli Stati Uniti. È uno scenario estremo, però dà il senso di un trend. A cui potrebbe aggiungersi un’evoluzione positiva anche in senso migratorio: la Siberia diventerebbe più attraente per insediarvi una nuova popolazione di agricoltori (anche se qui si apre un capitolo diverso e cioè il problema legato alla sinizzazione etnica, perché già oggi l’immigrazione cinese sta cambiando gli equilibri demografici nella parte asiatica della Russia). Diversi esperti americani giudicano che la Russia è in una posizione ottimale per trarre vantaggio dal cambiamento climatico, e non solo sul versante agricolo.

Intanto bisogna dare atto a Putin di aver risollevato l’agrobusiness del suo paese dal sottosviluppo, fino a controllare (a seconda delle annate) dal 13% al 16% di tutto l’export globale di grano. E a fine 2022 le esportazioni russe dovrebbero superare i livelli dell’anno precedente, cioè di prima della guerra in Ucraina. Non a caso i prezzi dei cereali sono ridiscesi a livelli pre-conflitto. Restano alti. Ma non bisogna scambiare un problema d’inflazione con uno di scarsità. Il cibo abbonda nel mondo ma è mal distribuito e ci sono scelte politiche che spingono i prezzi al rialzo: vedi la decisione dell’India di non esportare più il suo grano, per dedicarlo ai consumi interni. Tornerò su questo tema, perché la questione alimentare è avvolta nei malintesi, spesso alimentati da potenti interessi.

"Da Mosca frumento rubato a 14 Paesi poveri". Accuse di Michel all'Onu, il russo lascia la sala. Valeria Robecco il 7 Giugno 2022 su Il Giornale.

Da Putin sottratte 500mila tonnellate incassando 100 milioni di dollari.  

La Russia sta vendendo grano rubato ai Paesi poveri colpiti da siccità e fame. L'accusa arriva dagli Usa, che hanno voluto mettere in guardia i governi di 14 nazioni - in gran parte africane, oltre a Pakistan, Bangladesh, Sri Lanka e Turchia - che navi mercantili russe piene di quello che un cablogramma del dipartimento di Stato ha definito «grano ucraino rubato» potrebbero essere dirette verso di loro.

L'allerta è stata inviata il mese scorso, come riporta il New York Times, e pone ai Paesi interessati il dilemma di cosa fare: beneficiare di possibili crimini di guerra indispettendo il potente alleato occidentale o rifiutare il grano a buon mercato in un periodo in cui il suo prezzo si sta impennando e centinaia di migliaia di persone sono affamate. Per gli esperti contattati dal quotidiano, la prima alternativa sarà quella per la quale propenderanno la maggior parte di essi. Molti Stati africani sono già ambivalenti riguardo la campagna delle sanzioni di Usa e alleati per ragioni che includono la dipendenza dalla vendita di armi russe, persistenti simpatie risalenti all'era della Guerra Fredda e la percezione di doppi standard degli occidentali, oltre al fatto che il continente sta soffrendo fortemente. Russia e Ucraina, infatti, normalmente forniscono circa il 40% del fabbisogno di grano in Africa, dove i prezzi sono aumentati del 23% nell'ultimo anno, secondo l'Onu. Intanto, nella regione del Corno d'Africa, una devastante siccità ha lasciato 17 milioni di persone affamate, soprattutto in alcune parti di Etiopia, Kenya e Somalia (e in quest'ultima oltre 200mila abitanti sono sull'orlo della carestia). Di fronte a un bisogno così urgente, ha spiegato Hassan Khannenje, direttore dell'Istituto internazionale di studi strategici Horn, un ente di ricerca in Kenya, è improbabile che i Paesi africani esitino prima di acquistare grano fornito dalla Russia, a prescindere da dove proviene. «Questo non è un dilemma, agli africani non importa da dove arriva il cibo - ha detto Khannenje - Il bisogno di sostentarsi è così grave che non è qualcosa su cui si deve discutere».

L'allarme lanciato da Washington rafforza le accuse del governo di Kiev secondo cui Mosca dall'invasione dell'Ucraina ha rubato sino a 500mila tonnellate per un valore di 100 milioni di dollari, trasferendolo nei porti in Crimea e poi caricandolo sulle navi mercantili (alcune delle quali sottoposte alle sanzioni). Per i funzionari ucraini la soluzione al problema alimentare dell'Africa è una maggiore pressione globale per porre fine alla guerra, non l'acquisto di grano saccheggiato. C'è una «risposta semplice», ha sottolineato Taras Vysotsky, viceministro dell'agricoltura di Kiev: «Fermare i combattimenti». Vysotsky ha accusato per mesi Mosca di aver sottratto grano dai territori che occupa: «Non c'è più niente da rubare», ha aggiunto in un'intervista.

Intanto, all'Onu, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha sottolineato che le sanzioni «non impediscono alle navi russe di portare cibo, grano o fertilizzanti ai Paesi in via di sviluppo». «La Russia è l'unica responsabile per l'incipiente crisi alimentare - ha proseguito, mentre l'ambasciatore russo lasciava Vassily Nebenzia la sala - Il Cremlino sta usando le forniture di cibo come un missile invisibile contro le nazioni emergenti».

I ladri del Cremlino. I russi rubano i bambini e molto altro (e il furto è legalizzato). Maurizio Stefanini su l'inkiesta il 4 Giugno 2022.

In Ucraina, Putin e i suoi sodali hanno mostrato di non avere alcun rispetto per la vita umana, hanno deportato in Russia oltre un milione e mezzo di ucraini e hanno depredato il paese aggredito di qualsiasi cosa. Ora per decreto possono fregarsi anche le proprietà intellettuali dei paesi non amici.

E mentre i suoi soldati rubano mutande, Putin si sta scippando perfino Peppa Pig! Da Karen Dawisha a Moisés Naím, è da tempo che il regime al potere in Russia è definito in chiave di «cleptocrazia». Ma era in senso lato: un gruppo di ex-membri dei Servizi dell’epoca comunista che si impadronisce delle risorse di un Paese. 

Con la guerra all’Ucraina, ora, la definizione di «regime di ladri» sta diventando anche letterale, dal momento che gli accoliti di Putin stanno rubando di tutto. Dalle lavatrici ai bambini passando per il grano e per la proprietà intellettuale. Come denuncia The Economist, perfino del popolare cartone animato britannico!

All’inizio dell’invasione, la cosa che ha fatto più notizia è stata l’attività di saccheggiatori dei soldati russi, che riportavano a casa in particolare gli elettrodomestici, ma non solo. A fine aprile da Kherson è trapelata la notizia che soldati di etnia buriata avevano sparato contro ceceni, accusandoli di perdere tempo a depredare le case degli ucraini invece di combattere. 

E giovedì la Procura generale dell’Ucraina ha aperto un’indagine penale contro dieci soldati russi accusati di aver rubato ai civili elettrodomestici, vestiti e biancheria intima. Refurtiva che sarebbe stata prelevata tra il 24 febbraio e il 31 marzo nella località martire di Bucha, e che di lì avrebbero poi spedito a casa per posta attraverso la Bielorussia. 

Ma questo è quasi folklore rispetto all’ultimo allarme sulle risorse alimentari dell’Ucraina. Da questo Paese prima della guerra veniva il 10% dell’export mondiale di grano, il 14% del mais, il 17% dell’orzo, il 51% dell’olio di semi di girasole. Non solo l’offensiva russa ha ridotto questo export dell’80% ed ha bloccato almeno 27 milioni di tonnellate di grani nei porti. 

Zelensky ha accusato i russi di rubarlo anche il grano ucraino, a partire dalle immagini satellitari che mostravano due navi cargo battenti bandiera russa, la Matros Pozynich e la Matros Koshka, entrambe della capacità di 30.000 tonnellate cubiche l’una, ormeggiate in Crimea a fianco a quello che sembra un sylos. 

Il 30 maggio Taras Vysotskyi, viceministro ucraino per le politiche agrarie e l’alimentazione, ha dettagliato questa appropriazione in mezzo milione di tonnellate. «Ci sono prove da tutte le regioni temporaneamente occupate: Cherson, Zaporizhia, Luhansk, Donetsk e Kharkiv. Il carico viene portato in Russia, principalmente da Kharkiv, Donetsk, Lugansk o attraverso la Crimea» ha detto. 

E giovedì l’ambasciata ucraina a Beirut ha ulteriormente denunciato come almeno 100.000 tonnellate di questo grano, rubato dagli impianti di stoccaggio ucraini nelle aree recentemente occupate dalle forze russe, sarebbe stato inviato in Siria. 

Una parte, appunto, a bordo della Matros Pozynich, che è partita da Sebastoboli il 19 maggio, e che le immagini satellitari Pbc di Planet Labs hanno mostrato attraccata a Latakia nel porto siriano di Latakia il 29 maggio. Con i prezzi internazionali del grano superiori a 400 dollari a tonnellata, sarebbe un valore per più di 40 milioni di dollari. 

Prima della guerra il grano esportato da Russia e Ucraina copriva il 30% del consumo mondiale e il 40% di quello africano, e il solo grano ucraino permetteva di realizzare il 50% del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite. Così ci sono 400 milioni di persone nel mondo a rischio di fame, da 135 milioni che erano prima della pandemia e 276 all’inizio della guerra. Ma almeno 1,7 miliardi potrebbero avere problemi di approvvigionamento alimentare, e l’Onu prevede una crisi alimentare globale entro agosto. 

Come presidente di turno dell’Unione Africana il presidente del Senegal Macky Sall ha appena chiesto a Putin di sbloccare l’export ucraino. In Ruanda, Tanzania e Senegal l’import di grano da Russia e Ucraina rappresenta il 60% del fabbisogno; in Egitto l’80%; in Benin e Somalia il 100%. Il Ciad ha appena dichiarato uno stato di emergenza alimentare, dichiarando che un terzo dei suoi abitanti – 5,5 milioni di persone – ha bisogno di aiuto umanitario d’urgenza. Letteralmente, Putin sta rubando il pane agli affamati. 

Saccheggiata anche Chernobyl. Prima di andarsene, i russi hanno portato via 700 computer, 300 veicoli, migliaia di strumenti per misurare le radiazioni, e software. I Gps dei pc rubati indicano che stanno in Bielorussia.

Un «furto legalizzato» da parte di Putin è peraltro denunciato anche dall’Italia. Così Augusto Cosulich, amministratore delegato della genovese Fratelli Cosulich, definisce la decisione della Repubblica Popolare di Donetsk di nazionalizzare la Tzarevna: nave sotto bandiera maltese proprietà del gruppo, bloccata nel porto di Mariupol con un carico di bramme d’acciaio prodotte dall’acciaierie Azovstal e destinate ai laminatoio di Metinvest a San Giorgio di Nogaro, in Friuli. 

La nave vale 9 milioni di dollari, la merce a bordo altri 12 milioni, e i sequestratori offrono un indennizzo da 100.000 dollari. Sta accadendo lo stesso a altre navi, e col suo caratteristico fiuto per comprendere l’essenza delle situazioni Salvini il 31 maggio ha praticamente elogiato il furto via tweet: «Bene, le armi più potenti sono dialogo e diplomazia, l’impegno per la Pace vale più di qualsiasi critica», condividendo la schermata di un articolo del Corriere della sera dal titolo «Partita dal porto di Mariupol la prima nave merci». 

Conoscendo la levatura intellettuale del personaggio viene dato per scontato che non sia andato oltre il titolo, e non si sia così reso conto che non si trattava di una nave di grano diretta a paesi affamati, bensì di una nave carica di metallo rubato portato in Russia. 

La cosa più atroce è il furto di bambini, che riporta a epoche di un fosco passato. Tipo l’Impero Ottomano che sequestrava i figli dei cristiani per farne giannizzeri. Il governo di Kiev denuncia che 1.550.000 ucraini sono stati deportati in Russia contro la loro volontà. Tra di loro, almeno 230.000 bambini. Zelensky accusa il Cremlino di perseguire una «coerente politica criminale di deportazione del nostro popolo». 

Secondo il Consigliere della missione permanente ucraina presso l’Onu, Sergiy Dvornyk «lo scopo di questa politica criminale non è solo quello di rubare le persone, ma di far dimenticare ai deportati l’Ucraina e impedirgli di tornare». Putin ha firmato un decreto che certifica il rilascio della cittadinanza per i bambini rimasti orfani o senza cure parentali e che risiedono attualmente nei territori occupati dalle truppe di Mosca, a richiesta dei «tutori o delle organizzazioni che hanno in carico questi minori», a condizione però di avere un passaporto russo. 

La legge attualmente al vaglio della Duma, presentata dal partito di Putin, prevede un iter semplificato per le adozioni. Per presentare domanda, sarà sufficiente il solo documento di identità. A breve partirà uno studio sulle famiglie di provenienza dei piccoli. Se verranno trovati parenti anche non di secondo grado che vivono in Russia, allora verranno affidati a loro. In caso contrario chiunque potrà presentare una domanda di adozione. 

Fino a quel momento, i minori saranno sotto le cure dello Stato e riceveranno «supporto sociale». Sui social, fan di Putin sostengono la tesi che tra questi adottandi vi sarebbero dei bambini geneticamente potenziati dai vagheggiati «biolaboratori della Nato» a Azovstal, e che Putin vorrebbe dunque trasformare in futuri super-soldati «sottraendoli all’Occidente!». 

E un altro decreto di Putin che in pratica è un furto legalizzato è il 299. Come spiega appunto l’Economist, «modifica il Codice Civile in modo “da autorizzare l’uso di invenzioni brevettate, anche in medicina e tecnologia digitale, provenienti da “paesi ostili” senza chiedere il permesso al proprietario o pagare alcun compenso». 

Spiega sempre l’Economist che in teoria la mossa non sarebbe del tutto illegale secondo il Diritto Internazionale. «I Paesi possono derogare alle regole sui brevetti in caso di emergenza nazionale. Scartoffie ingombranti e noiose negoziazioni sui prezzi possono causare ritardi». Sarebbe però previsto comunque un compenso, per quanto piccolo. Con la nuova legge russa, i titolari di brevetti potrebbero invece rimanere senza nulla. 

Sebbene poi la legge si applichi in teoria solo ai brevetti che proteggono le invenzioni, di fatto i tribunali russi hanno già iniziato ad applicarla per estensione anche ad altri tipi di violazione della proprietà intellettuale. Già a marzo, ad esempio, Entertainment One UK, filiale britannica di una società canadese, ha perso la causa contro un rivale russo che ha usato una falsa Peppa Pig. 

Solo nelle ultime due settimane di marzo sono state depositate più di 50 domande di registrazione di marchi occidentali come Coca-Cola e Christian Dior. E il 6 maggio, la Russia ha pubblicato un elenco lungo 25 pagine di prodotti che potranno essere importati senza il permesso del proprietario. Include telefoni Apple, console di gioco Nintendo e parti per auto Tesla, oltre ad armi e munizioni.

Guerra in Ucraina: stop all’export di grano tenero, mais e concime. Perché la sicurezza alimentare in Italia è a rischio. Michelangelo Borrillo e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 21 marzo 2022.

C’è una nave che fotografa la crisi agroalimentare che da fine febbraio sta vivendo mezza Europa, Italia compresa. Una nave che il 27 febbraio scorso avrebbe dovuto caricare nel porto d’Azov 30 mila quintali di grano tenero e che non è mai partita. A bordo c’era il carico acquistato dal pastificio Divella. Altre 90, di cui almeno una quindicina con destinazione finale Italia, sono ferme allo stretto di Kerch, che collega il Mar Nero al Mar d’Azov, la distesa di acqua che ora separa (in tempo di guerra) separa la Russia dall’Ucraina. Senza quelle navi il mercato internazionale dei prodotti alimentari ha già cambiato volto.

Il grano tenero

Se l’Ucraina è il granaio d’Europa, la Russia lo è del mondo. Per l’Italia le principali importazioni legate al mondo agroalimentare provenienti dai due Paesi sono grano tenero, mais, semi oleosi e fertilizzanti. Partiamo dal grano tenero (quello che serve per il pane e la pasticceria): da gennaio del 2021 fino al 23 febbraio 2022, ovvero il giorno precedente all’invasione dell’Ucraina, l’Italia ne ha importato 142 mila tonnellate dall’Ucraina e 116 mila dalla Russia. Secondo l’ufficio studi di Confagricoltura rappresentano circa il 5% del totale delle importazioni italiane di grano tenero. Le quantità che mancano fanno salire i prezzi. 

Il riferimento in Italia per le contrattazioni dei prodotti agricoli è la Borsa Merci di Bologna: alla rilevazione dello scorso 18 marzo le quotazioni del grano tenero sono cresciute del 33% in un mese, sfondando per la prima volta nella storia in Italia (dato Consorzi agrari d’Italia) quota 40 euro a quintale. L’esempio pratico di come il mercato specula su una merce che scarseggia lo fornisce proprio Vincenzo Divella, amministratore dell’omonimo gruppo alimentare che attende la nave non ancora partita: «Abbiamo rimpiazzato quel carico acquistando lo stesso quantitativo a Napoli e Manfredonia: si tratta di grano arrivato da Canada, Russia e Kazakistan prima della crisi. Ma comunque lo abbiamo pagato il 35% in più di quello che aspettavamo dal Mar d’Azov, e di conseguenza abbiamo dovuto aumentare il prezzo della farina per pasticceria di circa il 15%, ma fra 20 giorni dovremo aumentare ancora. Noi abbiamo sempre preferito rifornirci da Russia e Ucraina per via delle annose questioni sul glifosate canadese».

Il mais

Il secondo pilastro che sta venendo meno con il blocco dei mercati russo e ucraino è quello del mais, che rischia di non essere nemmeno seminato nel mese di aprile, e quindi la sua mancanza potrebbe prolungarsi a tutto il 2023. L’Ucraina è per l’Italia il secondo fornitore di mais (dopo l’Ungheria): nell’ultimo anno l’Italia ha importato 1,1 milioni di tonnellate dall’Ucraina (105 mila dalla Russia). Sul totale delle importazioni pesa per il 15%, e il rialzo dei prezzi è già stato del 41% in un mese. Il mais è fondamentale per la produzione di mangimi per gli animali. La conseguenza è l’incremento del costo della carne: secondo la Cia-Agricoltori Italiani, un chilogrammo di manzo al banco è passato dai 12 a quasi 15 euro, la lombata si aggira sui 25 euro, mentre una bistecca potrebbe arrivare costare a breve il 20% in più. 

I fertilizzanti

Il terzo mercato andato in tilt è quello dei fertilizzanti. Forse quello su cui fa più affidamento Putin visto che lo ha citato come leva principale dell’inflazione alimentare globale. La Russia — stando ai dati di Confagricoltura — produce il 15% dell’intera produzione mondiale di fertilizzanti. E le vendite all’estero di nitrato di ammonio sono già state bloccate fino ad aprile, proprio nella fase fondamentale delle coltivazioni. Sempre nell’ultimo anno l’Italia ne ha importato dall’Ucraina per 47 milioni di euro (il 6% sul totale) con un aumento del 600% rispetto al 2020, e dalla Russia per 61 milioni di euro (7% sul totale) con una diminuzione dell’11%. 

I nuovi mercati e i nuovi rischi

Il premier Mario Draghi al recente vertice europeo di Versailles, ha dichiarato che bisognerà rivolgersi ad altri mercati: dagli Stati Uniti all’Argentina fino al Canada. Problema n.1): gli alti costi della logistica e tempi lunghi del trasporto navale atlantico per prodotti che ci servono a breve. Problema n.2): il grano trattato con glifosato, un potente erbicida classificato dallo IARC come «probabile cancerogeno», dalla Ue autorizzato con molte prescrizioni fino alla fine del 2022, e in Italia consentito solo in fase di pre-semina, in Canada lo usano anche in pre raccolta del grano come disseccante. Dall’ultimo rapporto Efsa: i prodotti agroalimentari extracomunitari venduti in Europa presentano residui chimici irregolari pari al 5,6% rispetto alla media Ue dell’1,3% e quella italiana di appena lo 0,9%. Per quel che riguarda il mais, gran parte della produzione Usa è Ogm. In Italia il mais ogm non è vietato per la mangimistica, ma molti consorzi ne proibiscono comunque l’uso. Ostacoli che il ministro delle Politiche agricole Stefano Patuanelli vorrebbe rimuovere.

Vuol dire rinunciare a formaggi e carni Dop, perché hanno nel disciplinare l’obbligo di rifornirsi da animali allevati con mangimi non Ogm

Quanto ai fertilizzanti, una soluzione, almeno parziale, la Coldiretti l’avrebbe trovata negli scarti della produzione di biometano, il «digestato». In pratica si tratta di letame e liquami trattati con batteri anaerobici, e che contengono azoto, fosforo e potassio, quindi ideali per concimare i terreni. Però la direttiva sui nitrati ne prevede un uso limitato perché c’è il rischio eutrofizzazione delle acque, e per incrementarne l’utilizzo serve l’autorizzazione del Mite. Un problema secondo Coldiretti risolvibile frazionando la concimazione durante la fase di coltivazione, come si fa con i prodotti chimici. 

Il cambio di produzioni

Tutte le organizzazioni agroalimentari hanno chiesto al governo di aumentare la produzione di grano tenero, mais e semi oleosi rimuovendo i limiti alla coltivazione dei terreni italiani – derivanti dalla Pac (Politica agricola comune) – vale a dire circa un milione di ettari destinati a produzioni non essenziali o alla non produzione. Ma l’ultima parola spetta a Bruxelles. Il rischio — in queste settimane cruciali per la programmazione della coltura del pomodoro da industria — è che molti produttori decidano di puntare su mais, girasole o soia. Visti i prezzi — è l’allarme di Alleanza cooperative agroalimentari — saranno più convenienti dei pomodori, dove il costo di produzione è aumentato di oltre 1.200 euro all’ettaro a causa dell’impennata dei prezzi dei concimi, dell’energia, della logistica e dei materiali da imballo, oltre alla siccità in corso su tutto il centro-nord. Chi ne trae vantaggio è la Cina, ormai diventata il primo fornitore italiano di concentrato di pomodoro: 60 mila tonnellate solo nei primi 6 mesi del 2021. Ma ne risentiranno anche altre grandi colture che sono patrimonio dell’agroalimentare italiano come piselli, fagioli e ceci, perché è più conveniente coltivare mais. 

La pasta

Almeno sulla pasta i rischi stanno a zero. Si fa con il grano duro e dall’Ucraina non ne importiamo, dalla Russia solo il 2,5%. La percentuale prodotta in Italia di grano duro è del 60%, e questo fa del nostro Paese un esportatore di pasta, per cui anche in caso di necessità basterà esportarne di meno. Costerà un po’ di più per via dei rincari dell’energia elettrica, e del gas. Secondo Divella è atteso entro marzo un aumento di 12 centesimi al chilo. Considerando che il consumo attuale di pasta pro capite in Italia è di 23 chilogrammi all’anno, ovvero circa 2 kg al mese, tradotti in euro per una famiglia di 4 persone fanno poco più di 1 euro al mese.

Il cambio dei consumi

Ma non si vive di sola pasta. Con l’aumento dei costi di energia e carburanti sta aumentando tutto: il recente blocco dei pescherecci per il caro carburante ha fatto incrementare il prezzo del 30% all’ingrosso e del 50% nelle pescherie. Analizzando le rilevazioni della Borsa Merci di Bologna sulle contrattazioni fisiche dei prodotti agricoli, si scopre che a fronte di un rialzo del grano tenero del 33%, e del mais del 41,1% , il grano duro è rimasto pressoché invariato (2,2%), ma si è mosso poco anche il riso Arborio: è cresciuto solo del 4,7%. L’Italia, tra l’altro, per il riso bianco è un Paese totalmente autosufficiente. 

Dai dati dell’Ente Risi ne produciamo ogni anno circa un milione di tonnellate, e ne esportiamo più della metà, fra il 55-60%. Importiamo solo da India e Pakistan alcune qualità particolari come il basmati. Come dire…se alla fine scarseggiano i crackers o grissini, possiamo sempre mangiare gallette di riso.

Carlo Ottaviano per “il Messaggero” il 24 marzo 2022.

Diecimila e cinquecento ettari in Campania, 11 mila in Lombardia, 12.300 in Veneto, altri 17.544 in Piemonte e 20 mila in Emilia Romagna. Sono queste le regioni maggiormente interessate allo sblocco dei terreni a riposo per fronteggiare gli effetti della guerra in Ucraina e la mancanza di cereali e altre colture proteiche. 

Nel Centro Italia, i dati approssimativi indicano circa 5 mila ettari nel Lazio e poco più di 3 mila in Abruzzo. Complessivamente nel Paese sono 200 mila gli ettari liberati dal vincolo del riposo permanente che pesa sul 5% delle superfici agricole. La decisione è stata presa ieri mattina a Bruxelles dalla Commissione UE «per consentire eccezionalmente e temporaneamente agli Stati membri di derogare ad alcuni obblighi del greening».

È di fatto un sostanziale cambiamento della Pac, la politica agricola comune, approvata solo pochi mesi fa e della strategia Farm to Fork. È quindi «consentita la produzione di qualsiasi coltura su terreni a riposo che fanno parte di zone ecologiche prioritarie nel 2022», pur garantendo il pagamento per le previste pratiche ambientali. In totale in Europa saranno così disponibili quattro milioni di ettari.

«Una dimensione comparabile - ha detto il commissario europeo all'Agricoltura, Janusz Wojciechowski - all'intera superficie dei Paesi Bassi o alla superficie agricola della Repubblica Ceca: è molto importante per la produzione aggiuntiva di cibo, che è assolutamente necessaria nella situazione attuale».

Il via libera al ripristino delle coltivazioni nei terreni a riposo - secondo le previsioni di Coldiretti - dovrebbe consentire una produzione aggiuntiva di circa 15 milioni di quintali di mais per gli allevamenti, di grano duro per la pasta e tenero per la panificazione, necessari per ridurre la dipendenza dall'estero. «Un quantitativo - secondo il presidente dell'organizzazione Ettore Prandini - che potrebbe aumentare di almeno cinque volte con la messa a coltura di un milione di ettari lasciati incolti per la insufficiente redditività».

L'Italia potrebbe così limitare la dipendenza dall'estero da dove arriva circa la metà (47%) del mais per il bestiame, il 35% del grano duro per la pasta e il 64% del grano tenero per il pane. L'eccezionalità del momento e il fatto che già in aprile bisogna seminare i cereali, spinge a rendere il provvedimento immediatamente esecutivo. Questa è stata la chiave di lettura dell'incontro che in serata il ministro Stefano Patuanelli ha avuto con i vertici di Coldiretti.

Tra gli altri provvedimenti in tema agricolo decisi ieri dall'Ue, anche l'attivazione della riserva di crisi Pac da 500 milioni (48 milioni per l'Italia), che gli Stati membri potranno cofinanziare al 200%, così come l'ulteriore quadro temporaneo sugli aiuti di Stato alle aziende in crisi. «Ma entrambe le misure - spiegano alla Cia Agricoltori Italiani - dipendono dalle risorse singole che ogni Paese metterà in campo e, quindi, potrebbero creare delle disparità nei sostegni al settore».

Le decisioni di Bruxelles per l'Italia si traducono in una disponibilità di 195 milioni già nel 2022. «Tocca ora al dibattito parlamentare - precisa il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti - proseguire su questa strada potenziandolo». Nel pacchetto anche lo stoccaggio delle carni suine; sistemi di monitoraggio per assicurare la continuità delle forniture. 

Non mancano le critiche a partire dalla soglia massima - 35 mila euro per le aziende agricole, 400 mila per le imprese alimentari - per gli aiuti previsti. «Misure inadeguate e troppi limiti burocratici», sintetizza Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia.

Grano, mais, olio di girasole: è crisi per la guerra? Abbiamo un milione di ettari da coltivare per evitarla.  Giuditta Mosca su La Repubblica il 26 Marzo 2022.  

Il conflitto in Ucraina ha prodotto serie difficoltà di approvigionamento all'agricoltura e all'allevamento di bestiame, ma l'Italia ha le potenzialità per dipendere meno dalle importazioni. 

Sostenere che l'importazione di cereali dalla Russia e dall'Ucraina siano un cappio al collo per l'Italia è fuorviante. Il quadro va esteso alle ricadute del conflitto che stanno spingendo verso l'alto il prezzo dell'energia e che impongono a diversi Paesi il blocco dell'export di materie prime per soddisfare la domanda interna. La situazione attuale sui mercati alimentari mondiali è il frutto di eventi a cascata: il conflitto è un fattore accelerante che riapre vecchie ferite aperte dai cambiamenti climatici ed esasperate dalla pandemia da cui non siamo ancora del tutto usciti.

Fabrizio Goria per “la Stampa” il 27 marzo 2022.

Dopo la guerra, la carestia. Il rischio è quello di avere almeno 13 milioni di persone di nuovi affamati nel mondo. L'allarme lo lancia la Fao, a nome del vicedirettore generale Maurizio Martina, ma questa è solo l'ultima voce che si sta elevando nel definire l'invasione della Russia tale da creare un dramma alimentare con pochi precedenti dal Secondo dopoguerra a oggi. Il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato due giorni fa di sussidi per il cibo in tutto il Paese. Il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres da una settimana invoca il cessate il fuoco per evitare» un uragano di fame».

Intanto, tuttavia, i prezzi di grano duro, mais, soia, olio di semi e fertilizzanti alimentari continuano a ritracciare nuovi record. Il G7 si prepara ad affrontare un'economia bellica. Anche sugli scaffali dei supermercati. «La guerra di Putin pone crescente pressione sulla sicurezza alimentare globale», spiegano i leader, promettendo di fare uso di «tutti gli strumenti e i meccanismi finanziari» per risolvere la scarsità presente e futura. Ed è possibile una sessione straordinaria della Fao «per affrontare le conseguenze sulla sicurezza alimentare mondiale e l'agricoltura derivanti dall'aggressione russa contro l'Ucraina». Il G7 si impegna «a erogare forniture alimentari sostenibili all'Ucraina e sostenere i suoi sforzi di produzione alimentare».

Non solo. Il presidente statunitense Joe Biden ha promosso un programma da 11 miliardi di dollari in cinque anni a sostegno della lotta alla fame nel mondo. Il primo allarme è stato lanciato lo scorso 19 marzo da Guterres. «La guerra in Ucraina sta già interrompendo le catene di approvvigionamento e facendo salire alle stelle i prezzi di carburante, cibo e trasporti. Dobbiamo fare tutto il possibile per scongiurare un uragano di fame e un tracollo del sistema alimentare globale», ha spiegato il numero uno del Palazzo di Vetro. Poi, è intervenuto il presidente del Consiglio dei ministri, Mario Draghi. Nel suo riferimento all'economia di guerra, c'era anche quello ai razionamenti. Non solo di energia elettrica, ma anche di risorse alimentari.

Perché, come spiegano fonti di Palazzo Chigi, è da mesi che il tema del grano fa capolino nelle discussioni dei consulenti economici dell'ex numero uno della Bce. Infine, è giunto l'intervento senza giri di parole dell'inquilino dell'Eliseo, Emmanuel Macron, a premere sulla sicurezza alimentare. Tema quanto mai attuale, viste le tensioni nell'Africa del Nord e, nello specifico, l'Egitto. Senza però dimenticarsi del resto del continente europeo. Non a caso, come stato fatto notare anche da Eurasia Group, c'è molta attesa per la semina dei cereali nei campi ucraini.

Francia e Germania, spiegano fonti diplomatiche, hanno richiesto in modo esplicito a Mosca di non impedire le operazioni agricole. Secondo Macron, qualora i semi non fossero gettati, la guerra in corso potrebbe provocare una «carestia ineluttabile» nel corso dei prossimi 12-18 mesi. Mentre i canali diplomatici avanzano, i primi riscontri sui prezzi si stanno già verificando. Un mese di ostilità in Ucraina ha già avuto un contraccolpo sui prezzi delle materie prime alimentari, come rimarcato dai dati pubblicati dalla Fao e dalla World Bank. Nel caso del greggio, utile per l'autotrazione, i rincari sono stati in media del 26,5% nei primi 25 giorni, mentre il grano ha avuto un rialzo del 53% su base annua nello stesso periodo temporale. Cifre che potrebbero essere riviste al rialzo ogni giorno di conflitto in più.

Carlo Ottaviano per “il Messaggero” il 27 marzo 2022.

«Negli ultimi sei mesi i pastifici italiani hanno perso almeno 150 milioni di margine. Anzi lavoriamo in perdita perché in un prodotto di prima necessità come la pasta, i prezzi sono contenuti, i guadagni risicati». 

Riccardo Felicetti, presidente dei pastai italiani, non può non essere preoccupato.

«Se aumentiamo i listini vuol dire che mettiamo le mani nelle tasche degli italiani; se non lo facciamo mettiamo a repentaglio le nostre aziende e chi ci lavora». 

Però i prezzi di un pacco di pasta sono già aumentati dallo scorso autunno, in alcune catene e per alcuni marchi anche del 40-50%?

«Ma il prezzo del grano già lo scorso anno era cresciuto dell'80-100% a causa principalmente della siccità in Nord America e della produzione ridotta del 50% di Usa e Canada. Il grano duro serve non solo per fare la pasta: in Italia lo usiamo anche per alcuni pani come quello di Altamura e in Africa per il cous cous». 

Gli ultimi aumenti sono per la crisi Ucraina, ma da lì non importiamo grano duro?

«Viviamo in una economia globalizzata. Noi italiani ne compravamo poco e niente in quell'area, ma non così altri Paesi che adesso si dovranno rivolgere a nuovi fornitori, facendo alzare i prezzi. È chiaramente la dinamica della domanda e dell'offerta, niente di nuovo sotto il sole». 

Speculazione compresa?

«Chi ha stoccato il grano decide se metterlo sul mercato immediatamente o lentamente, alzando i prezzi, giocando sulla mancanza. Lo fanno quelli che hanno i futures in mano; è sempre stato fatto nelle commodities, nel petrolio, come per l'oro. Forse non ci si dovrebbe stupire più». 

I consumatori però si stupiscono dei prezzi?

«La guerra ha amplificato la crisi e non importa neanche distinguere tra grano duro (per la pasta) e tenero (per il pane). Il duro è un decimo (33 milioni di tonnellate) di quello tenero. Ma il punto è che ogni variazione trascina le altre: costa di più il mais per il mangime animale, costano di più i concimi per la mancanza di sostanza azotata, costano di più i trasporti».

L'Italia è comunque carente di grano, sia esso duro o tenero?

«Scontiamo un deficit di produzione nel 30% sul duro e di circa il 50%, dipende dalle annate, di tenero». 

Carenza che ora pesa nei conti delle aziende e nelle tasche dei consumatori?

«Noi tra settembre e gennaio avevamo cercato di affrontare in modo responsabile gli aumenti dell'energia e dei trasporti. Fondamentalmente avevamo voluto ragionare solo sull'aumento del costo del grano del 2021, contenendo quindi gli incrementi dei listini. Ma a fine febbraio, improvvisamente, alcuni aumenti di materie prime ci hanno preso alla sprovvista».

A causa delle minacce russe già da gennaio e della guerra dopo?

«Prima russi e ucraini troveranno un accordo e meglio sarà oltre che per le popolazioni coinvolte, per l'economia. Naturalmente affrontando anche il tema delle risorse energetiche».

E intanto?

«Intanto, abbiamo da un lato fornitori che cambiano i prezzi con cadenza bisettimanale e dall'altro i clienti».

Che principalmente non sono i consumatori finali ma la grande distribuzione?

«E non solo. Ci sono le grandi comunità, le mense collettive, pensi solo alle forniture per gli ospedali. Come facciamo a garantire gli stessi prezzi per un anno?»

Carlo Ottaviano per “il Messaggero” il 27 marzo 2022.  

Le notizie positive sono solo due, entrambe provenienti dalla Borsa di Chicago. La prima: per la seconda settimana consecutiva l'indice dei future sul grano duro durum è in diminuzione (-1,39%). La seconda: i prossimi raccolti estivi non dovrebbero subire la stessa drammatica siccità che lo scorso anno aveva dimezzato le quantità e abbassato la qualità della produzione di Usa e Canada, Paesi da cui importiamo la maggior quantità di materia prima per l'industria della pasta. Stop alle buone notizie.

La situazione non cambierà neanche nelle prossime settimane in virtù dei 200 mila ettari immediatamente coltivabili, grazie alla decisione dell'Ue che ha liberato il 5% dei terreni che avrebbero dovuto riposare. Ad aprile sarà difficile per la maggior parte degli agricoltori seminare. Infatti tranne pochissime varietà, le diverse tipologie di grano vengono seminate in settembre e quindi gli eventuali raccolti aggiuntivi si avranno solo nel 2023.

È più probabile che nei terreni ora disponibili venga coltivato il mais necessario agli allevamenti di bestiame, anche questo in forte crisi di disponibilità con la chiusura dei porti del Mar Nero e il blocco dell'export da Ucraina e Russia. Un problema che interessa l'Italia ma anche molti altri Paesi in Europa. 

Le altre notizie - più o meno legate alla guerra in Ucraina - purtroppo indicano il rischio, anzi la certezza, di ulteriori aumenti dei prezzi e nubi sugli approvvigionamenti futuri di frumento. A denti stretti gli imprenditori della filiera ipotizzano ulteriori incrementi di prezzo del 40% per il grano duro (e leggermente meno per il tenero). Poi bisognerà capire come gli aumenti della materia prima influiranno al dettaglio.

Dalla scorsa estate una tonnellata di grano duro di qualità media è passata da 280 euro ai 500 di oggi (+ 44%); il grano tenero dai 220 euro ai 400 euro (+ 45%). Un panificatore che per un chilo di farina spendeva 60 centesimi a dicembre, adesso ne spende 95. A noi consumatori mediamente il pane costa 3,30 euro al chilo contro i 3 euro di pochi mesi fa; un pacco di pasta da un chilo almeno 40 centesimi in più. 

Ad aggravare la situazione, sono anche le carenze idriche in Italia e la mancanza di piogge dell'inverno. La Borsa merci telematica italiana nel suo ultimo report settimanale scrive che è «possibile attendersi futuri aumenti di prezzo del grano duro in Italia, perché c'è incertezza sui raccolti italiani, che in molti areali del Sud e anche del Nord sono preda già oggi della siccità».

Condizionata proprio dal dato italiano (siamo il Paese maggior produttore dell'Unione con 3,8 milioni di tonnellate), la produzione complessiva di grano duro in Ue dovrebbe essere in calo dello 0,5% nel 2022, realizzando non più di 7,7 milioni di tonnellate. I prezzi del grano duro sono quindi destinati ancora a salire. Forse più di quanto già avvenuto: alla Borsa merci di Roma dal 29 settembre 2021 alla seduta di mercoledì scorso una tonnellata valeva 37 euro in più (495 euro); a Bari 46 in più (539), a Napoli 50 in più (550), a Milano 52 euro in più (552).

A pesare sugli aumenti non è però solo la materia prima, perché rilevante è la parte che riguarda i costi dell'energia e del petrolio, che ricadono in primo luogo sui trasporti. «Incredibilmente spiega l'imprenditore dolciario veneto Dario Loison attualmente la spedizione di un container dall'America vale quanto il grano che contiene».

Non c'è dubbio che al momento non si comprende neanche chi subisca maggiormente la situazione. «Siamo tutti vittime precisa Ivano Vacondio, presidente di Federalimentare inutile cercare un capro espiatorio nella filiera. Gli agricoltori si lamentano, noi industriali ci lamentiamo, chi trasforma ancora dopo di noi si lamenta. Ci è capitato uno tsunami mai visto prima, l'intera catena è andata in difficoltà». E poi c'è la speculazione. «Basti pensare aggiunge che alla Borsa di Chicago ogni 10 quintali fisici di cereali trattati, ce ne sono 100 virtuali legati ai futures».

Tutte le materie prime strategiche che la Russia controlla. Andrea Muratore l'11 Marzo 2022 su Il Giornale.

Materie prime per la transizione in volo e caos: la partita energetica è sempre più complessa, come ricorda un report Prometeia.

La Russia e l'Occidente sono in una fase di vera e propria guerra economica e il sistema globale inizia fare i conti con le dipendenze da Mosca per molte materie prime strategiche. In una fase di acuta volatilità dei prezzi su tutta la banda di oscillazione degli indici che misurano il valore dei panieri di materie prime di ogni tipo ci si accorge che, da un lato, colpire la Russia sull'economia passa necessariamente per un'azione decisa contro il suo indotto in questo campo e, dall'altro, si rischia uno shock economico mondiale in caso di esclusione di Mosca dai mercati.

I mercati delle materie prime stanno già interiorizzando queste incertezze e volatilità. E se il petrolio, in cui Mosca pesa per il 17% dell'output mondiale, e il gas naturale (in cui la Russia pesa per il 12,6%) hanno dinamiche ormai note, così come conosciute e temute sono quelle che riguardano il grano e altri prodotti alimentari (mercati che vedono Russia e Ucraina come primi esportatori mondiali), molto da attenzionare è il settore delle materie prime legate alla transizione.

La transizione energetica imporrà la più imponente e strutturata ristrutturazione industriale della storia e porterà in cima alla richiesta dei mercati materie prime strategiche molto importanti per i mercati, in cui in diversi casi la Russia è in testa alle catene di fornitura. L'indice dei prezzi delle materie prime Prometeia-APPIA segnala questa criticità nell'ultimo rapporto legato al cambiamento avvenuto tra gennaio e febbraio: anche in caso di immediato riassorbimento degli effetti dell'incertezza legati alla guerra tra Russia e Ucraina "il mero effetto di trascinamento dei formidabili rincari intervenuti finora in alcuni mercati comporterebbe comunque un rialzo di oltre il 27% dell’indice Prometeia-APPIA nel 2022 (ben 14 punti percentuali in più rispetto a quanto ipotizzato in febbraio), che si andrebbe a sommare al notevolissimo incremento (+70% circa) già maturato nel corso del 2021".

La metallurgia (+4,9% di costi complessivi in filiera) è non a caso, essendo uno dei settori più energivori, in testa alla classifica dei rincari misurati da Prometeia. Alluminio, palladio e nickel sono altri mercati in cui su scala mondiale si sta verificando una crescente criticità per la carenza di forniture dalla Russia che si adombra come prospettiva. Mosca fornisce il 38% del palladio al mercato mondiale, garantendo dunque continuità di un materiale chiave per le industrie dell'auto elettrica e delle tecnologie per la sostenibilità. Inoltre, copre il 6,1% della domanda di alluminio e nickel al mondo. La corsa delle materie prime inquieta i mercati di tutto il mondo. "Negli ultimi giorni, il governo cinese ha riunito i principali produttori domestici di neodimio-praseodimio (la lega fondamentale per la produzione di magneti per i motori dei veicoli elettrici) per calmierare i prezzi", fa notare Formiche. E a cascata anche altri settori possono essere interessati. Benjamin Louvet, commodities fund manager di Ofi Asset Management, ha sottolineato che in particolare anche i metalli preziosi potranno essere tra le materie prime più attenzionate dalla transizione: "a mobilità elettrica richiede metalli per i pacchi batterie", ha dichiarato l'esperto a Milano Finanza. "L'argento è uno di questi, e anche se la quantità caricata per veicolo è piccola, sta già influenzando il mercato. Con l'avanzare della tecnologia, insomma, sono necessari sempre più metalli diversi". Ebbene, Prometeia ci ricorda che la Russia detiene il 5,4% delle riserve mondiali di argento e il 10,6% della produzione del platino, un'altra delle risorse che si trova ad essere tra le materie prime "preziose" più strategiche. A conferma del fatto che, complice la guerra russo-ucraina, la transizione energetica non sarà un pranzo di gala.

LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.

Biolaboratori in Ucraina, il ministero della Difesa russo pubblica altri nomi di soggetti coinvolti. Rec News dir. Zaira Bartucca.  Articolo del 19 Aprile 2022 di Redazione.

Il Ministero della Difesa russo ha pubblicato l’elenco di altri soggetti coinvolti nella creazione di laboratori biologici in Ucraina. Come abbiamo già avuto modo precisare, la presenza di biolaboratori è stata confermata dalla stessa Organizzazione mondiale della Sanità, che l’11 marzo scorso raccomandava all’Ucraina – riportato da Ansa – di distruggere gli agenti patogeni ad alto rischio nei laboratori prevenire potenziali fuoriuscite. Tra i soggetti coinvolti compare un ex dipendente Dipartimento di Stato russo che in passato ha avuto a che fare con le forze nucleare sovietiche. Secondo quanto reso noto dai militari russi, gli americani stavano pian infettare il Mar Nero e il Mar d’Azov, Russia, Bielorussia, Polonia e Moldavia con tifo, epatite ed altri patogeni.

Il ruolo dell’UNTC, il Centro Scientifico e Tecnologico Ucraino.

Un ruolo cardine in questo contesto era ricoperto dal Centro Scientifico e Tecnologico (UNTC), organizzazione intergovernativa internazionale che si occupa della distribuzione di sovvenzioni nel campo delle armi biologiche. “A prima vista si tratta di un’organizzazione pubblica che non ha nulla a che fare con il Pentagono”, ha detto il capo delle Forze protezione dalle Radiazioni e dalla contaminazione Chimica e Biologica Igor Kirill di un briefing, prima di delineare le caratteristiche della struttura. L’UNTC – è quanto documentato nel corso dei lavori – conta su uffici di rappresentanza a Baku, Chisin Kharkov e Lviv. Quel che inquieta, tuttavia, è che gli scienziati hanno effettuato campionamenti in alcune aree di interesse come i fiumi Dnepr, Danubio e Dnieste canale della Crimea settentrionale, trovando agenti patogeni riconducibili al coler all’epatite A ed E. Ma c’è di peggio.

Malati psichiatrici utilizzati come cavie per la sperimentazione umana.

L’UNTC avrebbe inoltre condotto una campagna di sperimentazione umana su malati psichiatrici. Un orrore che sarebbe avvenuto tra il 2019 e il 2021 nella città di Merefa regione di Kharkiv, nei reparti dell’ospedale psichiatrico clinico n.3. “Le persone mentali sono state selezionate per gli esperimenti in base alla loro età, alla nazionalità e allo stato immunitario. Il risultato del monitoraggio dei pazienti è stato scoperto consultando alcuni moduli. Le informazioni non erano inserite nel database dell’ospedale, perché al personale dell’istituto medico è stato fatto divieto di divulgazione”, ha detto Kirillov. Attualmente le attrezzature e i preparati del presidio sanitario sarebbero state trasferite nell’Ucraina occidentale con l’ausilio e la compiacenza dei Paesi coinvolti. “Solo negli ultimi anni – ha detto ancora Kirillov – oltre 350 milioni di dollari sono stati spesi per realizzare progetti UNTC promossi da Washington. I clienti e gli sponsor sono il Dipartimento di Stato e il Ministero della Difesa. Il finanziamento viene effettuato anche attraverso l’agenzia protezione dell’Ambiente, il Dipartimento dell’Agricoltura, della Salute e dell’Energia degli Stati Uniti”.

I nomi e cognomi di alcuni soggetti coinvolti.

Il ministro della Difesa russo ha dunque divulgato i nomi e i cognomi dei soggetti colpevoli di aver condotto campagne di sperimentazione umana in Ucraina. La posizione di direttore esecutivo dell’UNTC era ricoperta da Kurtis Belayach, statunitense nato il 27 agosto in California. Laureato presso l’Università della California, è titolare di un master in finanza internazionale e lavora in Ucraina dal 1994. Presidente del Consiglio di amministrazione dell’UNTC dell’Unione Europea nel dipartimento russo è invece Eddie Arthur Mayer.

Altro curatore Statunitense – ha reso ancora il ministero che fa capo a Sergej Shoigu - è Philip Dolliff. Al Dipartimento di Stato ha ricoperto il ruolo di vice assistente Segretario di Stato per la sicurezza internazionale e i programmi di non proliferazione delle armi di distruzione di massa. Il suo mandato è scaduto il 31 marzo, ma le informazioni sono conservate sul sito del Dipartimento. Prima di entrare nel Dipartimento di Stato, ha studiato nelle forze nucleari strategiche sovietiche e ha partecipato a programmi per la riduzione delle minacce terroristiche.

Un ruolo rilevante era svolto anche dall’appaltatore del Pentagono Black & Veatc, strettamente connesso – è emerso – all’UNTC. I curatori americani erano al lavoro su diversi progetti come il 6166 sulla proliferazione di armi di distruzione di massa e il 9601, “trasferimento di tecnologie ucraine per la produzione di materiali complessi a duplice uso nell’Unione Europea“.

La minaccia delle basi biologiche militari.

 “Le basi biologiche militari statunitensi sono una vera minaccia. Se non chiudiamo questi laboratori, dagli Stati Uniti giungerà una minaccia costante alla sicurezza mondiale, ha detto Gennady Onishchenko, medico onorato della Russia che a inizio del 2020 ha reso uno studio e una lista di farmaci raccomandati per la cura del covid19. Secondo Onishchenko queste basi hanno iniziato a formarsi dopo il crollo dell’Unione sovietica. A essere interessata non è solo l’Ucraina, ma anche altri territori dell’ex URSS come Georgia e Kazakistan. I fondi per il sostentamento dei laboratori provengono dal bilancio della Difesa degli Stati Uniti e sono consultabili apertamente.

Secondo le informazioni ufficiali, i laboratori dovevano servire a combattere le malattie infettive e prevenire i focolai delle epidemie, invece avrebbero avuto un ruolo attivo nella diffusione dei patogeni. Secondo il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin, il Pentagono starebbe cercando di coprire le tracce di “programmi segreti, inclusi esperimenti con campioni di coronavirus, antrace e altre malattie mortali. Abbiamo tutte le ragioni di credere che nelle immediate vicinanze della Russia in Ucraina sono stati creati componenti di armi biologiche”, ha detto Putin.

La preoccupazione delle autorità russe risiede nel fatto che la legislazione degli Stati Uniti consente il lavoro nel campo delle armi biologiche. “Gli Stati Uniti hanno accompagnato la ratifica del protocollo di Ginevra del 1925 con una serie di riserve, una delle quali l’uso reciproco di armi chimiche e tossiche“, ha detto il ministro della Difesa. Mosca ha cercato per molti anni di rafforzare il regime della Convenzione sul divieto di armi biologiche e tossiche, ma gli Stati Uniti continuano a mettere veti sul processo di ratifica. La situazione potrebbe cambiare con la pubblicazione – già annunciata – di nuove prove documentali.

Il Pentagono ammette: gli Usa supportano 46 biolab in Ucraina. Piccole Note il 13 giugno 2022 su Il Giornale.

Gli Stati Uniti hanno finalmente ammesso di aver “supportato” 46 biolaboratori in Ucraina, dopo aver respinto per mesi le dichiarazioni in tal senso dei suoi antagonisti geopolitici. Lo ha riferito il Pentagono, ovviamente dichiarando che le ricerche ivi svolte erano legittime e non dirette a creare armi biologiche, anzi.

Il documento del Pentagono spiega che l’interesse per tali siti nesce nel 1991, quando fu varato il Programma Nunn-Lugar Cooperative Threat Reduction (CTR) con il compito di trattare le armi di distruzione di massa nei Paesi dell’ex Unione sovietica. Quattro le missioni del Programma, che elenchiamo di seguito.

“1) consolidare e proteggere le armi di distruzione di massa e il materiale relativo alle armi di distruzione di massa in un numero limitato di siti sicuri; 2) inventariare e rendicontare tali armi e materiali; 3) fornire [attrezzature e competenze per] una manipolazione e uno stoccaggio sicuro di tali armi e materiali, come richiesto dagli accordi sul controllo degli armamenti; e 4) offrire assistenza per un ricollocamento retribuito a migliaia di ex scienziati sovietici esperti in armi di distruzione di massa, in materiali relativi alle armi di distruzione di massa e nei trasferimenti delle stesse”.

Questa le missioni, alle quali gli Stati Uniti, spiega il documento, si sono adoperati distruggendo o mettendo in sicurezza le testate nucleari, in collaborazione anche con la Russia, come anche le bio-armi risalenti al tempo sovietico.

“Gli Stati Uniti, attraverso la collaborazione internazionale, hanno anche lavorato per affrontare altre minacce biologiche in tutti i Paesi dell’ex Unione Sovietica. A tale scopo il governo degli Stati Uniti ha ingaggiato esperti in materia di biologia, biodifesa, salute pubblica e campi correlati”.

Quanto all’Ucraina, specifica il documento, gli Usa hanno eliminato la minaccia nucleare, in collaborazione con la Russia (collaborazione durata fino al 2014, l’anno di Maidan), tanto che nel Paese sarebbe rimasto solo un quantitativo poco rilevante di uranio arricchito, non sufficiente per produrre una testata atomica (e una bomba sporca?).

Riguardo alle bio-armi ucraine, si legge, “Gli Stati Uniti hanno lavorato in collaborazione [con Kiev] per migliorare la sicurezza biologica, la protezione e la sorveglianza delle malattie dell’Ucraina, sia per quanto riguarda la salute umana che degli animali, fornendo supporto, negli ultimi due decenni, a 46 laboratori pacifici ucraini, strutture sanitarie e siti diagnostici delle malattie. La collaborazione si è concentrata sul miglioramento della salute pubblica e delle misure di sicurezza agricola, rispettando i dettami della non proliferazione”.

Arduo immaginare che gli Stati Uniti potessero dire il contrario: di certo non potrebbero mai ammettere, anche se così fosse, che questi 46 biolab servivano (servono?) a produrre bio-armi. E, però, leggere nero su bianco che gli Usa ingaggiavano esperti di armi biologiche da tutta l’Unione sovietica, al di là dello scopo dichiarato, vero o falso che sia, fa un certo effetto.

Inoltre, la descrizione dei biolab in oggetto come una sorta di laboratori diagnostici, del tipo di quelli disseminati nelle grandi città italiane, fa un po’ sorridere. Con 46 di tali centri, poi, se lo scopo fosse davvero quello dichiarato, dovremmo presumere che gli ucraini e i loro animali godono di una salute di ferro.

Sul punto, torna prepotentemente alla memoria la famosa dichiarazione di Victoria Nuland al Congresso degli Stati Uniti. Interpellata sui biolab ucraini, allora ancora de facto negati dagli Usa, la sottosegretaria di Stato disse: “Siamo piuttosto preoccupati che l’esercito russo possa cercare di prenderne il controllo”.  Perché preoccuparsi tanto, se si trattava di innocui centri benessere?

Al di là dell’ironia del caso, ce ne scusiamo con i lettori ma era d’obbligo, resta che, dopo tanta reticenza, l’America ha finalmente messo nero su bianco il suo lavoro oscuro nei biolab ucraini (nel documento si parla di trasparenza, ma di trasparente c’è ben poco, se si considera che alcuni mesi fa negavano l’esistenza di tali biolab, bollando le accuse come Fake News)

Concludiamo riprendendo l’inizio della nostra nota, cioè alle missioni assegnate al CTR e chiedendoci, ingenuamente, perché gli incaricati di tale programma non abbiano semplicemente distrutto le bio-armi ereditate dall’era sovietica, perché hanno ingaggiato gli esperti che ci lavoravano perché proseguissero quel lavoro e, infine, quanti saranno i biolab sparsi nei Paesi ex sovietici oggi passati nell’orbita occidentale, supportati dagli Usa, se già 46 sono disseminati in Ucraina.

Ps. Ipotizzare che un biolab possa servire per creare armi biologiche, ad esempio virus che si diffondono tramite insetti, non è necessariamente complottista. Alcuni membri del Congresso degli Stati Uniti, ad esempio, nel luglio 2019, chiesero al Dipartimento della Difesa se avesse creato o usato tali armi biologiche tra gli anni ’50 e la metà degli anni ’70.

Dubitiamo che la richiesta abbia ottenuto risposta, anche perché, di lì a poco, sarebbe arrivato il coronavirus e c’era il rischio di gettare benzina sul fuoco alimentato dai cosiddetti complottisti. 

A pochi giorni dalla richiesta, coincidenza temporale, fu chiuso il più importante biolab della Difesa Usa, Fort Detrick, nel quale si studiavano pericolose “tossine, e germi chiamati agenti selezionati , che secondo il governo avevano ‘il potenziale per rappresentare una grave minaccia per la salute pubblica, animale o vegetale” (New York Times). Le autorità si peritarono di rassicurare che non era successo nulla, solo un problema di sicurezza delle acque reflue, Nessuna informazione ulteriore, perché fu chiuso per ragioni di “sicurezza nazionale”, sulle quali vige il segreto.

L’Italia tra i Paesi che collaboravano con un biolaboratorio ucraino finanziato dal Pentagono. Zaira Bartucca il 31 Marzo 2022 su recnews.it.

Il legame tra medici e organizzazioni italiane e lo IEKVUM di Karkhiv, dove si studiano, conservano e producono patogeni. E’ classificato come a rischio biologico alto. 194 i laboratori ucraini finora noti finanziati dal Pentagono e da organizzazioni estere. La minaccia biologica agitata ai confini della Russia e dell’Ue che il mainstream non racconta e che in parte ha motivato l’intervento russo i parla tanto di una minaccia nucleare che a diversi analisti di geo-politica appare infondata, ma si parla ancora poco della possibile guerra biologica – un’altra, subito dopo il covid – che si agita ai confini della Russia e della stessa Ue. Lo scorso 6 marzo RIA Novosti ha pubblicato il documento relativo all’ordine del Ministro della Salute ucraino Viktor Lyashko di distruggere gli agenti patogeni e i documenti compromettenti nei laboratori biologici finanziati dal Pentagono di Poltava e Kharkiv. Stranamente tra i media mainstream nostrani sempre pronti a fare da cassa di risonanza ai sottoposti di Zelensky, la notizia non ha avuto alcuna eco. C’è una buona ragione e risiede nei rapporti – di cui si dirà più avanti – intercorsi tra alcune organizzazioni del nostro Paese e uno di questi bio-laboratori.

L’11 marzo Ansa rilanciava un monito analogo dell’OMS che era tutto un’ammissione, quello cioè di “distruggere gli agenti patogeni ad alto rischio nei laboratori sanitari per prevenire potenziali fuoriuscite”. “L’Oms ha raccomandato all’Ucraina di distruggere gli agenti patogeni ad alto rischio nei laboratori sanitari per prevenire potenziali fuoriuscite. Lo riferisce la Cnn. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha “fortemente raccomandato” al Ministero della Salute in Ucraina di distruggere in sicurezza “agenti patogeni ad alta minaccia” che potrebbero essere ospitati nei laboratori di salute pubblica del Paese al fine di prevenire “eventuali fuoriuscite. L’Oms ha anche incoraggiato “lo smaltimento sicuro e protetto di qualsiasi agente patogeno” e si è messa a disposizione per assistere se necessario e ove possibile”. Il riferimento è ai 194 laboratori ucraini dove – almeno dal 2012 – si studiano patogeni in grado di colpire umani e animali e di contaminare spazi naturali (per esempio fiumi, laghi o piantagioni). Coronavirus, febbre suina, peste, antrace, la lista è davvero infinita: si parla di migliaia tra virus e batteri e altrettanti esemplari di campioni di DNA di genotipi specifici schedati dai medici finanziati dal Pentagono. Un faro sull’argomento è stato acceso da RT Spagna  dopo la conferenza stampa degli scorsi giorni del comandante delle truppe per la Protezione radiologica, chimica e biologica Igor Kirillov, dove è stata resa nota parte della documentazione comprovante la presenza di laboratori dove si effettua anche sperimentazione umana (reazioni a vaccini e farmaci, studi sul DNA e sull’RNA, trasmissioni di virus e batteri dagli animali all’uomo). Emblematico il caso di 4000 soldati ucraini – svelano i carteggi – volontariamente esposti a una forma di febbre emorragica. Per uno di questi bio-laboratori – l’Istituto di Medicina Veterinaria Sperimentale e Clinica di Kharkiv – Rainews e AGI hanno perfino fatto una vera e propria levata di scudi, pubblicando due articoli quasi identici, non solo nel titolo: Ucraina, Science: “La propaganda russa diffonde fake news sulla ricerca scientifica”. La propaganda russa diffonde fake news sulla ricerca internazionale. Il legame tra medici e organizzazioni italiane e lo IEKVUM Scavando di un livello e incrociando i dati emersi dai documenti resi noti, si scopre che l’Italia fa parte dei Paesi che collaboravano/collaborano con l’Istituto di Medicina Veterinaria di Kharkiv (e presumibilmente con altri) assieme a Polonia, Danimarca, Serbia, Germania, Cina, Svizzera, Gran Bretagna, Spagna, Canada, Svezia e Francia. Come si può notare, se si mette da parte la Cina sono tutti Stati che stanno difendendo la retorica dell’invasione ucraina e stanno ignorando il problema dei laboratori biologici. Nella Republika Srpska a maggioranza serba la guerra in Ucraina ha addirittura fatto scoppiare un conflitto parallelo con le popolazioni croato-bosniache, mentre per quanto riguarda la Danimarca si è parlato a più riprese di una possibile e funzionale annessione alla NATO, proprio mentre il Paese si prepara – il prossimo 1 giugno – a esprimersi tramite referendum su una possibile sottomissione alla Difesa dell’Unione Europea. Non è la difesa del popolo ucraino a motivare la retorica degli interventisti Non è, insomma, la “causa ucraina” o “il popolo ucraino” – ignorato dal 2014 in poi, anche mentre avvenivano sanguinosi scontri nel Donbass – a motivare i vari governi che stanno inviando armi e capitali, ma piuttosto il desiderio di nascondere le proprie responsabilità e di tutelare i cospicui investimenti fatti in ambito – ancora una volta – sanitario e sperimentale. Se il covid è stata una “guerra” (biologica, più che figurata), un altro conflitto silenzioso e silenziato avveniva in un’Ucraina piegata da morbi un tempo messi da parte e poi – contestualmente alla presenza di laboratori – riesumati. Nel 2017 a Kharkiv si verifica un focolaio di Epatite virale A e altri simili si verificano a Zaporizhye, Mykolaev e Odessa (tutte zone interessate dall’operazione speciale russa di bonifica dai laboratori e dai presidi NATO). Sempre a Kharkiv nel 2019 si verificano nuovi focolai, prima di meningite e poi nuovamente di Epatite, che questa volta si manifesta in 328 soggetti, il 52% dei quali bambini. Riservatezza 01/04/22, 07:11 L'Italia tra i Paesi che collaboravano con un biolaboratorio ucraino finanziato dal Pentagono.

La zona è interessata dalla presenza del Karkhiv Regional Laboratory Center, struttura dislocata al confine con la Russia finanziata dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Consultando fonti aperte, è possibile accertare due finanziamenti (uno da 1,64 milioni di dollari e uno da 440 mila dollari) erogati tramite l’appaltatore generale Black & Veatch. Non è l’unica struttura a fare capo al Pentagono, e qui torniamo al laboratorio che vanta una partnership “primaria” con organizzazioni italiane e dunque all’Istituto di Medicina Veterinaria Sperimentale e Clinica di Kharkiv. Il Centro sorge o sorgeva (la città, al pari delle altre che ospitano laboratori e presidi NATO, nelle ultime settimane è stata interessata da diversi attacchi) sull’edificio originario della vecchia clinica del 1923 in via Pushkinskaja 83, protetto da ampie mura perimetrali e alti viali alberati che lo circondano sui quattro lati. Nel 2015 sugli insediamenti originari si sviluppa un laboratorio moderno che lavora su patogeni letali, organizzato in uno dei sotterranei dell’Istituto e ad accesso impedito ai medici ucraini. Prevalente la componente americana, ma molti sono anche i professori e le professoresse italiani. Dopo i primi cospicui foraggiamenti devoluti dall’amministrazione Obama (che, ancora senatore, visiterà il complesso per vedersi “sventolare davanti una fialetta di antrace e una di peste”, dirà in un suo libro) sorgono i problemi: i rubinetti vengono chiusi dagli stessi democratici e e al plesso rimangono i problemi di gestione e soprattutto conservazione dei patogeni. Il rischio di fuoriuscite diventa un problema concreto, ammesso dallo stesso ex presidente degli USA: “Vidi un frigo tenuto chiuso da un filo”, è il racconto allarmante che farà più tardi. Per comprendere il pericolo agitato ai confini della Russia e della stessa Europa, bisogna sottolineare che lo IEKVUM comprende/comprendeva una raccolta di virus di malattie animali, collezioni di determinati pool genetici, colture cellulari per la medicina veterinaria e le biotecnologie. Negli anni l’Istituto ha studiato, sperimentato e manipolato i virus di aviaria, tubercolosi e altri che provocano malattie nelle zanzare, nelle api, negli uccelli e nei pesci. Il lavorìo sotterraneo prendeva corpo in 14 laboratori (uno specializzato proprio sull’aviaria) una stazione di ricerca e 5 centri di produzione. Il tutto in pieno centro di Karkhiv, ma sottoterra, al riparo da sguardi indiscreti, mentre il livello superiore (in alto, nella foto), appariva come un normale centro di ricerca. Moltiplicare almeno per cento (periferia di Kiev, Lviv, Zaporizhzhya, Mykolaiv) per comprendere l’altro volto dell’Ucraina nascosto dalla macchina della propaganda e dai dispacci dei servizi segreti esteri pilotati dalla CIA. E il ruolo delle organizzazioni italiane coinvolte, come accennato, è tutt’altro che secondario, essendo collegate a laboratori con il più alto livello di rischio biologico. La spy story della famiglia Biden: Hunter e il progetto di sicurezza nazionale Truman Un ente no-profit gestito dai dem in realtà parte preponderante di una strategia che serviva a influenzare per conto di Stati esteri il governo e la politica americani.

 Da chi sono finanziati i biolaboratori in Ucraina Sui finanziamenti di questi laboratori biologici è già stato scritto molto dopo la fuga di informazioni che è avvenuta tra fine febbraio e inizio marzo e dopo il punto stampa del comandante delle truppe per la Protezione radiologica, chimica e biologica Igor Kirillov. Oltre al Pentagono, le strutture possono contare sui foraggiamenti delle solite fondazioni sorosiane, sull’incubatore Black & Veatch e sulle iniezioni di capitale da parte dei Paesi coinvolti. Un ruolo cardine ha la famiglia Biden, legata – abbiamo scritto due anni fa  – a doppio filo con l’Ucraina. Il riferimento è alla società di investimenti Rosemont Seneca Partners, fondata nel 2009 dal rampollo che ha avuto tanta parte anche nella nota vicenda Burisma. Gli affari erano intrecciati a quelli di Metabiota, azienda con sede a San Francisco specializzata in patogeni in grado di scatenare pandemie. Zaira Bartucca Direttore e Founder di Rec News, Giornalista. Inizia a scrivere nel 2010 per la versione cartacea dell’attuale Quotidiano del Sud. Presso la testata ottiene l’abilitazione per iscriversi all’Albo nazionale dei giornalisti, che avviene nel 2013. Dal 2015 è giornalista praticante. Ha firmato diverse inchieste per quotidiani, siti e settimanali sulla sanità calabrese, sulle ambiguità dell’Ordine dei giornalisti, sul sistema Riace, sui rapporti tra imprenditoria e Vaticano, sulle malattie professionali e sulle correlazioni tra determinati fattori ambientali e l’incidenza di particolari patologie. Più di recente, sull’affare Coronavirus e su “Milano come Bibbiano”. Tra gli intervistati Gunter Pauli, Vittorio Sgarbi, Giulio Tarro, Armando Siri, Gianmarco Centinaio, Michela Marzano, Vito Crimi, Daniela Santanché. Premio Comunical (2014, Corecom/AgCom). Autrice de “I padroni di Riace – Mimmo Lucano e gli altri. Storie di un sistema che ha messo in crisi le casse dello Stato”.

Dalla diossina al nervino: quei veleni usati contro i nemici. Alessandro Ferro il 29 Marzo 2022 su Il Giornale.

La tradizione dei russi di fare fuori i nemici con varie tipologie di veleni a seconda della circostanza, ha origini che risalgono almeno al 1920: ecco alcune vittime eccellenti del Kgb e Putin.

Gli ultimi bersagli, in ordine di tempo, sono stati Abramovich e i negoziatori ucraini che avrebbero accusato gli effetti di un avvelenamento dopo un incontro avvenuto a Kiev all'inizio di questo mese: occhi rossi, lacrimazione costante e dolorosa e desquamazione della pelle di mani e volto. Sicuramente non era Covid e neanche un'intossicazione alimentare. Ma del "killer silenzioso", ossia i veleni con cui vengono eliminati i nemici, ne è piena la storia.

La "tradizione" russa

Non lascia tracce come farebbe una pistola o un attentato, i servizi segreti hanno spesso utilizzato diversi veleni per togliere di mezzo i nemici. Da questo punto di vista la Russia ha fatto scuola, visto che già un secolo fa l'Urss aveva creato il Dipartimento 12, meglio conosciuto come "Kamera", con questa missione il cui testimone è successivamente passato nelle mani del Kgb. Corsi e ricorsi storici, intorno al 1950 alcuni nazionalisti ucraini di estrema destra furono fatti fuori da Mosca in questo modo. Per arrivare ai giorni nostri, come dimenticare l'avvelenamento da diossina del leader ucraino Viktor Yushchenko, sopravvissuto per miracolo nel 2004 nonostante le analisi avessero dimostrato una concentrazione mille volte superiore al normale di quel veleno nel suo sangue. Sorte diversa toccò invece all'ex agente de Kgb, Aleksandr Litvinenko, che fu fatto fuori con un tè al polonio radioattivo nel 2016 a Londra: il mandante fu lo zar russo in persona.

Gli effetti del gas nervino

Nel 2018, sempre in Gran Bretagna, un altro ex agente del Kgb viene ritrovato incosciente insieme alla figlia su una panchina di Salisbury: Sergey e Yulia Skripal vengono ricoverati per avvelenamento, un tentativo di omicidio con il gas nervino Novichok. Sopravvissero entrambi ma, qualche mese dopo, una donna trovò in un parco la fiala del veleno abbandonata, e morì. Come per le armi comuni, esistono gli effetti collaterali, dipende da circostanze e capacità del killer: c'è il rischio di contaminare innocenti o testimoni. Due dei presunti colpevoli finiranno poi in un'indagine aperta in Bulgaria per il tentato omicidio - nel 2015 - di un mercante d'armi. Prima ancora, in piena Guerra fredda, gli 007 bulgari liquidarono l'esule Georgi Markov con una micro-pallina alla ricina sparata da un ombrello modificato in una via di Londra.

Il caso Navalny

Non ha mai avuto pace Aleksej Navalny, che adesso dovrà scontare 9 anni di carcere per "frode e insulti a un giudice". Sorvolando su questa accusa, ha rischiato di lasciarci la pelle nel 2020 in Siberia quando fu avvelenato dal gas nervino che avrebbe dovuto ucciderlo ma si salvò grazie al soccorso di un'eliambulanza tedesca che lo portò a Berlino. Come ricorda il Corriere, la sostanza tossica gli era stata nascosta nelle mutande tant'é che, una volta ripresosi, soprannominò Putin proprio come "l'avvelenatore di mutande". Secondo il giornalista investigativo Andrei Soldatov, questo è uno dei metodi privilegiati da russi per la lenta agonia con cui viene eliminato il nemico incutendo molto timore negli avversari. Non solo, ma si può sostenere la tesi che a uccidere il bersaglio siano stati malattie, droghe o cibi scaduti perché è un tipo di sostanza che può nascondersi facilmente dietro altre patologie dirottando in questo modo la responsabilità su altri colpevoli.

"La pozione di Dio"

L'agenzia di intelligence nazionale di Israele ha definito questo metodo con il nome a effetto della "pozione di Dio", per il fatto di non lasciare traccia. Sempre con questo metodo fu stato ucciso nel 2010 un alto dirigente di Hamas impegnato nell'approvvigionamento di armi. Il sistema, comunque, ha fatto scuola visto che la Corea del Nord aveva pianificato di uccidere con il gas nervino il fratellastro di Kim Jong-un, perché sospettato di parlare con la Cia. La storia centenaria dei veleni, nonostante l'età, è viva e vegeta e si perpetra nel tempo.

Domenico Quirico per “La Stampa” il 27 marzo 2022.

L'ingranaggio della guerra ha compiuto un altro dei suoi inesorabili movimenti in avanti, l'incastro ha spinto il meccanismo secondo un andamento interno che sembra non possa essere mutato. È la volta della guerra chimica, si evoca apertamente (le notizie di «intelligence»...) la possibilità di una guerra chimica, la ipotizza il presidente americano Joe Biden. Che promette adeguate e corrispettive risposte. 

Davvero sembra che nessuno si impegni a toglier vento alle vele della guerra. I gas venefici: è l'Apocalisse possibile, perché l'abbiamo conosciuta anche in tempi recentissimi, perché ne abbiamo le immagini fosche davanti agli occhi. Perché temiamo sempre che diventi arma del terrorismo globale. Esiste.

Al contrario dell'altra Apocalisse, quella atomica che, nonostante Hiroshima, per la sua enormità che va oltre l'immaginabile esiste ma come impossibilità, come negazione, come pura e finora efficace deterrenza. Fragile parola a cui ci attacchiamo per non precipitare nel caos. E se suonasse l'ora del disinganno ? Yprite, fosgene: son parole che hanno dentro, a sillabarle, il sapore della morte. La scienza messa a testimonio della strage.

Si sa come è fatta la natura umana: finché ci sono migliaia di chilometri a separarci da una realtà, la Siria, l'Iraq, siamo portati a vedere le cose, anche se si tratta di realtà, come fuochi fatui nella nebbia. Nel tragico, sanguinoso museo delle cere del presente il loro profilo spicca purtroppo con vividezza. Un popolo intero, oggi, ora, vive con a portata di mano la maschera. Perché ad ogni momento potrebbero risuonare quelle particolari sirene: bombardamento, rischio chimico o batteriologico...

I gas sembravano legati al macello delle trincee, alla prima guerra mondiale. Allora la morte era un dato statistico, normale, inevitabile, come adesso gli incidenti stradali. Eppure la morte era più orribile, diversa. Raccontiamo dunque come si muore, come si potrebbe morire anche oggi in Ucraina. Se la guerra diventasse ancora una volta un'azione su formule, leve e rubinetti.

Dapprima pareva solo una nube di fumo più spessa delle altre il residuo della parete di fuoco e di acciaio del bombardamento. Per i soldati nella trincea tutti ciechi, ubriachi di fatica, erano sordi anche ai sibili delle ultime granate stanche, molto distanziate che sembravano la coda del bombardamento. Avevano visto molte volte quel paesaggio ardente. Poi la brezza svelava nubi rosse color del sangue, spesse, robuste come una parete. 

Si sentiva un odore forte di mandorle amare e ti accorgevi che eri già in una densa nuvola di gas. Gli occhi cominciavano a lacrimare e le gole bruciavano, in preda a uno spasmo di tosse. Nelle gabbiette gli uccellini che servivano come avviso cadevano morti. «Gas! gas!» si comincia gridare, bisogna tirar fuori le maschere indossarle come si è ripetuto mille volte in addestramento. Perché adesso per fortuna c'erano le maschere. 

All'inizio ci si illudeva di difendersi con una garza imbevuta di urina o bicarbonato di sodio premuta contro il viso. Non è più una simulazione, è un brancolare frenetico, solo i più bravi riescono a coprire il viso, ad assicurarle. Altri, troppi, gridando e inciampando, sembrano uomini in preda al fuoco.

Adesso tutti stanno appiattiti contro la trincea con grandi occhi spettrali sbarrati e i becchi fantastici che deformano il viso. Si guardano attraverso i vetri appannati delle maschere spalmate di sapone all'interno perché il vapore del respiro non si condensi accecandoti. Bisogna restare immobili sperando che nel frattempo il nemico non approfitti per avanzare e balzare nella trincea finendoti con la mazza o la zappetta. 

Poi alcuni quelli che hanno tardato cominciano a contorcersi come in preda ai crampi e si strappano la maschera per vomitare. Gli occhi bianchi si contorcono e il sangue arriva ad ogni movimento del corpo con un gorgoglio dei polmoni rosi già dal gas. Dicono che nelle trincee li ritrovarono riversi sulla schiena con i pugni serrati come a protestare contro quella morte, le labbra e gli occhi bluastri. Quando a Ypres dove furono i tedeschi a lanciare le granate a gas, e a Loos dove gli inglesi replicarono, quella guerra era già vietata da una convenzione fin dal 1902.

Ma i fronti erano immobili, la immancabile vittoria era diventata un sogno per gli stati maggiori. I generali radunarono il loro genio. Bisognava trovare un modo nuovo di uccidere, sconosciuto e per questo all'inizio letale. 

Tutto, anche l'orrore chimico, gli alambicchi letali di una alchimia della morte di massa diventavano indispensabili e quindi leciti. Il rischio è lo stesso anche ora, in questa guerra: una offensiva che si incaglia, il conflitto da lampo diventa infinito, eppure bisogna uscirne vincitori se non si vuole essere spazzati via dalla Storia. Allora anche i gas... 

Perché dal quell'inizio di secolo nessuno ha rinunciato a questi arsenali. L'eterno meccanismo della deterrenza: gli altri li hanno, non possiamo restare indifesi... nessuno è riuscito finora a spezzarlo. Perché non c'è, in fondo, la scelta tra una guerra criminale, fuori dalle regole e una guerra pulita. È la guerra stessa che è un crimine.

Eppure Hitler non osò, i tedeschi non impiegarono i gas nella Seconda guerra mondiale, neppure sul fronte orientale dove l'ideologia nazista regrediva il nemico a sotto uomini, selvaggi contro cui le regole della guerra da gentiluomini non avevano valore. Non osò forse perché aveva provato i gas nelle trincee della Prima guerra mondiale. Altri dittatori, nel nostro tempo non hanno avuto lo stesso timore.

Saddam Hussein li ha usati nella guerra contro l'Iran e per punire i curdi. Non gli sembravano abbastanza decisi nel lottare contro le truppe di Khomeini, affidò la punizione a un tecnico della morte chimica, Ali Hassan al Majid: furono cinquemila morti, uomini donne bambini, irrigiditi in orrende pose da oranti. Il luogo Halabia 16 marzo 1988. Non c'erano maschere, protezioni. Non suonarono sirene. Nessuno sapeva, nessuno immaginava. 

Il nome è scritto nella vergogna infinita del Novecento. E poi fu Bashar e il nome è Goutha. La sua guerra andava male, la rivoluzione sembrava inarrestabile nonostante disponesse di pochi mezzi, usò il quartiere ribelle per dare una lezione, per mostrare che non aveva scrupoli e nulla poteva fermarlo.

Anche qui abbiamo visto: bocche contratte nella supplica della tremenda agonia, l'anima sputata fuori in un grumo di bava e di sangue. La morte aveva modellato quella maschera, una sintesi perfetta della guerra. Dovremo guardare ancora? E il teatro di Dubrovka a Mosca, era il 2002, i terroristi ceceni e gli ottocento ostaggi russi? Un inutile assedio di due giorni, gli specnaz di Putin sembravano impotenti. Iniettarono un gas nel sistema di aerazione. Morirono anche 129 ostaggi. Chi diede l'ordine?

Un veleno 26 volte più letale del cianuro. Cos’è il Sarin, il gas che uccide in pochi minuti: “Antidoti contro il veleno all’esercito russo”. Redazione su Il Riformista il 26 Marzo 2022. 

Dopo le accuse sull’utilizzo di presunte bombe al fosforo bianco (da parte dell’esercito russo) e la presenza in Ucraina, secondo il ministero della Difesa di Mosca, di laboratori per le armi biologiche con il coinvolgimento di un fondo di investimento guidato da Hunter Biden, figlio del presidente Biden, la guerra sul presunto utilizzo di armi chimiche e biologiche non si placa.

“La Russia si prepara a usare veleni e altre sostanze chimiche contro gli ucraini, mentre agli ufficiali razzisti vengono dati degli antidoti”. E’ quanto sostengono gli analisti volontari di InformNapalm, citati su Telegram da Ukraine Now, che avrebbero prove che all’esercito russo sono stati dati antidoti a determinati tipi di veleno, incluso l’agente nervoso paralizzante ‘Sarin’, un gas nervino con effetti paralizzanti classificato come arma chimica di distruzione di massa. Si tratta di un veleno 26 volte più letale del cianuro. Il 20 marzo, sarebbero state rilasciate fiale con atropina al personale di comando delle forze d’invasione della Federazione Russa. L’atropina, insieme alla pralidossima, si usa come antidoto per l’avvelenamento chimico.

La Federazione Russa è già stata accusata di aver usato armi chimiche in Siria, dove avrebbe colpito i civili contrari al regime di Bashar al Assad in almeno trecento attacchi. L’esposizione al gas Sarin è letale anche a concentrazioni molto basse e la morte può verificarsi entro dieci minuti dopo l’inalazione diretta a causa del soffocamento da paralisi respiratoria, a meno che gli antidoti non vengano somministrati rapidamente.

Le persone che invece assorbono una dose non letale, ma non ricevono cure mediche immediate, possono subire danni neurologici permanenti. Un’adeguata concentrazione di vapori è in grado di attraversare la pelle, rendendo non sufficiente l’uso di una maschera antigas.

Come gli altri agenti nervini, il Sarin colpisce il sistema nervoso degli organismi viventi, in particolare mammiferi e uccelli. E’ in grado di neutralizzare l’acetilcolinesterasi, un enzima presente nello spazio sinaptico all’estremità dei neuroni che in condizioni normali serve a distruggere l’acetilcolina, un neutrotrasmettitore che dovrebbe essere eliminato dopo l’uso. In assenza di acetilcolinesterasi, l’acetilcolina non viene eliminata e si accumula nello spazio intersinaptico, ciò rende impossibile la trasmissione dell’impulso lungo le fibre nervose danneggiando il loro funzionamento e dando luogo a una serie di effetti a cascata.

I primi sintomi dell’esposizione a Sarin sono difficoltà respiratoria e contrazione delle pupille. Segue una perdita progressiva del controllo delle funzioni corporee, salivazione, spesso si verifica vomito e perdita di urina e feci. 

Oltre all’utilizzo in Siria, sono tre le occasioni accertate in cui il gas Sarin è stato utilizzato: 1988 dai militari dell’Iraq durante un bombardamento contro la città a maggioranza curda di Halabja (morirono tra le 3200 e le 5000 persone) e due volte dalla setta religiosa giapponese Aum Shinrikyo, a Matsumoto nel 1994 e a Tokyo nel 1995.

Ma cosa sono le armi chimiche e biologiche di cui si parla?

Le armi chimiche hanno una lunga storia nel loro utilizzo nei conflitti. Per arma chimica si intende “una sostanza chimica utilizzata per causare morte o danni intenzionali a causa delle sue proprietà tossiche”, aggiungendo che “anche munizioni, dispositivi e altre apparecchiature specificamente progettati per armare sostanze chimiche tossiche rientrano nella definizione di armi chimiche”.

Vengono quindi incluse tutte le sostanze tossiche e i loro precursori che, attraverso le loro proprietà, sono in grado di alterare i processi vitali causando “morte, incapacità temporanea o danni permanenti all’uomo o agli animali”. Qualunque dispositivo utilizzato per creare, lanciare e rilasciare le sostanze chimiche viene definito arma chimica, pertanto vi rientrano bombe, missili, proiettili di artiglieria, mine e anche alcuni tipi di carrarmati.

Le armi biologiche si differenziano da quelle chimiche poiché si basano su agenti patogeni già esistenti in natura come batteri, funghi, virus e altre tossine. La Convenzione firmata nel 1993 Parigi sulla proibizione delle armi chimiche del include anche le armi biologiche. In base a questa convenzione, ogni agente chimico di qualunque origine è considerato arma chimica a meno che non sia usato per scopi non vietati.

Le armi chimiche sono bandite ai sensi della Convenzione sulle armi chimiche (CWC) entrata in vigore il 29 aprile del 1997 e attuata dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPCW). Si tratta di un organismo intergovernativo con sede all’Aia (Paesi Bassi) di cui fanno parte 193 Stati. Lo scopo dell’OPCW non è solo quello di promuovere l’adesione alla convenzione, che vieta “l’uso, lo sviluppo, la produzione, lo stoccaggio e il trasferimento su larga scala di armi chimiche e dei loro precursori”, ma verifica anche con ispezioni in loco la distruzione degli stock di queste armi.

Gli Stati membri devono comunicare quali e quante armi chimiche possiedono e le devono distruggere sotto la supervisione dell’OPCW. Sebbene la Russia abbia completato la distruzione del 100 percento delle sue 40mila tonnellate di armi chimiche nel 2017, come evidenziato in un comunicato stampa dell’ente preposto alla verifica, gli Stati Uniti avvertono che il Cremlino potrebbe utilizzarle durante la guerra in Ucraina, dopo che la Russia ha accusato proprio gli USA di sviluppare armi di questo tipo in laboratori ucraini.

Tahar Ben Jelloun per “la Repubblica” il 25 marzo 2022. 

Noi europei possiamo dire: "Non abbiamo salvato Aleppo dalle bombe russe nel 2013 e malgrado la resistenza dei suoi cittadini stiamo per perdere Kiev". Se, fra il 2012 e il 2013 Barack Obama fosse stato di parola e avesse reagito quando Bashar al-Assad ha superato la linea rossa e usato armi chimiche contro il suo popolo, forse oggi l'Ucraina non sarebbe sotto le bombe. È solo un'ipotesi ma ciò che Putin ha fatto in Siria è grave e sanguinoso quanto ciò che il suo esercito sta facendo oggi in Ucraina.

Per capire un altro aspetto delle origini della guerra che sta conducendo contro gli ucraini, bisogna ricordare il ruolo determinante che Putin ha avuto in Siria a partire dal 2012. Oggi Bashar al-Assad non sarebbe più al potere se Putin non l'avesse spalleggiato, intervenendo militarmente contro i ribelli in diverse località della Siria. Gli aerei di Putin hanno bombardato i civili, uccidendo migliaia di siriani per la soddisfazione del dittatore Bashar, sterminatore del suo popolo.

Il 20 agosto 2012 Barack Obama avvertiva il regime di Assad: «Il minimo spostamento o impiego di armi chimiche avrà conseguenze gravissime e costituirà una linea rossa». Obama minacciava «un possibile intervento militare» in caso di superamento della linea rossa. La sua posizione era stata approvata dal primo ministro britannico David Cameron come da François Hollande, che aveva dichiarato: «L'uso di armi chimiche giustificherebbe un intervento diretto».

Bashar, consigliato e aiutato da Putin, ha fatto orecchie da mercante e non ha esitato a uccidere nel sonno intere famiglie con queste armi terribili. L'ha fatto a Ghouta Est, ad Adra e a Duma. Il giorno dell'attacco chimico più micidiale sulla periferia di Damasco (Jobar, Zamalka, Ein Tarma e Hazeh) è stato il 21 agosto del 2013. Né Obama, né Cameron, né Hollande hanno mosso un dito. Solo parole! Così Putin ha avuto mano libera e ha inviato i suoi aerei a bombardare Aleppo e altre località che resistevano a Bashar. 

L'assenza di reazioni da parte del resto del mondo ha permesso il ritorno sulla scena mediorientale di Putin, che non era stato consultato dagli americani quando hanno deciso di intervenire in Iraq né dai francesi quando hanno mandato i loro aerei in Libia. Oggi Putin ridefinisce le frontiere del suo impero. Proteste e sanzioni non lo toccano. Avanza, preme, fermamente convinto delle sue assurde teorie.

Putin non è pazzo. Pazzo è chi non sa quello che fa. Putin invece ha un piano e una strategia e li segue con costanza e precisione sapendo che né gli americani né gli europei andranno a fermarlo. Joe Biden l'ha appena definito «un criminale di guerra». Un'accusa grave ma gratuita. Certo, le conseguenze di quest' accusa dovrebbero portare Putin davanti a un tribunale. 

Il Tribunale penale internazionale non è riconosciuto né dagli Stati Uniti né dalla Russia. Solo gli europei potrebbero prendere l'iniziativa di processarlo, cosa che non lo preoccupa per niente. Come ha detto Rony Brauman, un medico che lavora in ambito umanitario: «Per essere credibili, bisognerebbe prima processare George W. Bush». Oltretutto, la propaganda funziona piuttosto bene in Russia, dove gli ucraini sono considerati aggressori anche quando gli aerei russi bombardano un reparto maternità o un teatro in cui hanno trovato rifugio civili e bambini.

Solo l'opposizione interna potrebbe dissuadere Putin da questa impresa sanguinaria, un'opposizione che si esprime flebilmente ma con coraggio. L'atteggiamento fermo degli europei e degli americani non lo preoccupa molto. Le rappresaglie economiche contro di lui, il suo entourage e tutta la Russia colpiscono soprattutto i cittadini più poveri. Come all'epoca di Saddam, quando chi ha sofferto di più per l'embargo mondiale contro l'Iraq è stato il popolo iracheno. La guerra prosegue e l'Europa ha paura.

In Francia regna un misto di angoscia e coscienza sporca. Quando i rifugiati siriani e iracheni bussavano alle porte dell'Europa, solo la Germania li ha accolti. Gli altri Paesi europei non ne volevano, con la scusa che fra i rifugiati potevano nascondersi dei terroristi. Due pesi e due misure, con sullo sfondo un sottinteso razzista. Quelli erano musulmani, questi sono cristiani. Sono in molti a prendere sul serio la minaccia del ricorso alle armi nucleari fatta da Putin all'inizio della guerra.

La campagna per le presidenziali francesi è stata sabotata da questa guerra. È la prima volta che l'Europa si ritrova unita di fronte a una minaccia reale di cui i cittadini temono gli effetti collaterali. Putin è riuscito a unire i ventisette Paesi dell'Unione. Non sappiamo dove fermerà il suo esercito. Ah, se Obama e gli europei avessero tenuto fede alle loro minacce contro Bashar, forse Putin non avrebbe invaso l'Ucraina.

Angelo Zinetti per “Libero quotidiano” l'1 aprile 2022.

Manovra a tenaglia contro Hunter Biden, figlio del presidente degli Stati Uniti. Da Mosca si annuncia una inchiesta della Duma sui suoi affari in Ucraina, come chiesto giorni fa da Donald Trump, mentre il Washington Post, quotidiano molto influente in area democratica, ha pubblicato le prove che il 52enne avvocato e uomo d'affari ha ricevuto pagamenti dalla Cina. 

Quest' ultima vicenda è la più grave: un accordo firmato da Hunter e da top manager di una compagnia privata cinese è stato rivelato dal quotidiano di Jeff Bezos che ha trovato documenti che proverebbero la presenza di rapporti tra la famiglia Biden e dirigenti cinesi della Cefc, una delle dieci compagnie private più grandi della Cina. 

Per quattordici mesi, scrive il giornale americano, il conglomerato dell'energia e i suoi manager hanno versato 4,8 milioni di dollari a entità controllate da Hunter Biden e da uno zio, come risulta da alcuni documenti e dalle email conservate nella memoria di un computer e ritenuto appartenere proprio a Hunter.

Il Post non ha trovato prove che Joe Biden avesse beneficiato direttamente dalle transazioni, ma emergono accordi firmati dal figlio, Hunter, che avrebbe così approfittato della posizione pubblica del padre per guadagnare. 

Le attività estere del figlio del presidente sono al centro di un'inchiesta federale. L'obiettivo è capire se Hunter abbia nascosto al fisco gli introiti arrivati dalla Cina. Personale dello staff presidenziale ed ex membri dell'Intelligence americana ritengono che Hunter isaa innocente e che la memoria del suo computer possa essere stata manipolata dai russi al fine di compromettere la campagna del padre, ma i dati analizzati dal Post sarebbero coincidenti con quelli di altri documenti, tra cui attestati bancari.

Il figlio di Biden avrebbe ricevuto i 3,8 milioni di dollari dalla Cefc attraverso contratti di consulenza. Biden Jr avrebbe ricevuto un ulteriore milione di dollari per rappresentare negli Stati Uniti Patrick Ho, un manager del conglomerato cinese, finito poi sotto inchiesta per un caso di corruzione legato al Chad e all'Uganda. 

Questo accordo riporta le firme di Hunter e di Ho. Anche da Mosca arrivano brutte notizie per il rampollo presidenziale. La Duma di Stato russa ha infatti aperto una inchiesta su una presunta rete di bio laboratori controllati dagli Stati Uniti in Ucraina e riferirà delle conclusioni dei lavori al Presidente Putin e alle organizzazioni internazionali. 

La vicepresidente del parlamento russo, Irina Yarovaya, ha citato il coinvolgimento di Hunter Biden, con il suo fondo di investimenti Rosemont Seneca, e della sottosegretaria di Stato Usa per gli affari politici, Viktoria Nuland, a cui la Duma chiede formalmente spiegazioni. Pochi giorni fa era stato Donald Trump a chiedere a Putin di pubblicare le prove degli affari sporchi di Hunter in Ucraina. Subito esaudito.

Da “il Giornale”  l'1 aprile 2022.  

Le sanzioni contro la Russia dell'ultimo pacchetto «non saranno le ultime». Parola del vicecancelliere tedesco, Robert Habeck, che lo ha annunciato a margine del colloquio con il collega francese, Bruno La Maire, nel giorno in cui la Russia lancia la sua guerra del gas. Habeck ha spiegato che i due ministri hanno già individuato i punti che dovrebbero essere contenuti in un prossimo pacchetto.

 L'Europa non indietreggia, nonostante le minacce sul gas della Russia di Vladimir Putin e quelle dirette al figlio di Joe Biden, Hunter. Il ministero della Difesa russo sostiene di avere una corrispondenza tra Hunter Biden, e i dipendenti del Defense Threat Reduction Agency americana e gli appaltatori del Pentagono. 

I documenti confermerebbero - secondo quanto annunciato da Igor Kirillov, capo delle forze armate russe di protezione dalle radiazioni, chimiche e biologiche - il suo ruolo importante nella fornitura di finanziamenti per il lavoro con gli agenti patogeni in Ucraina. Secondo alcuni esperti americani, l'inchiesta già avviata negli Usa su una serie di attività commerciali e finanziarie di Hunter all'estero, in Ucraina e Cina, potrebbe portare a un'incriminazione. 

Accuse, controaccuse e minacce. Ecco il contesto. E i timori sulla Russia crescono in tutto il vecchio continente. In allarme la Svezia, dopo la scoperta che i due aerei russi che il 2 marzo scorso hanno violato lo spazio aereo svedese, vicino a Gotland, erano equipaggiati con armi nucleari.

 L'aviazione svedese, che a causa della guerra ha aumentato il livello di attenzione, ha notato in anticipo che i piloti russi si stavano dirigendo a Gotland. La violazione dello spazio aereo svedese è durata circa un minuto ed è considerata intenzionale dalle forze armate del Paese. In risposta, l'aviazione di Stoccolma ha fatto alzare in volo due caccia JAS 39 Gripen.

Nel frattempo, la Nato annuncia un'adesione rapida della Finlandia in caso di richiesta di adesione. «La Finlandia è un partner molto stretto della Nato - ha spiegato ieri il segretario generale dell'Alleanza Atlantica - Ho visitato la Finlandia e la Svezia e ho visto coi miei occhi quanto le loro truppe rispettino gli standard della Nato, quanto sappiano lavorare insieme a stretto contatto le truppe svedesi e finlandesi con quelle della Nato, e ovviamente se decidessero di fare domanda» di adesione «mi aspetto che siano benvenuti e che si trovi un modo per concordare velocemente sul protocollo di accesso. 

Ma sta alla Finlandia decidere e aspetteremo la sua decisione». In conferenza stampa Stoltenberg ha anche ribadito che «la Nato ha sempre sostenuto il diritto fondamentale di ogni Paese di scegliere il proprio percorso. È questo include il diritto di Svezia e Finlandia di non chiedere l'adesione alla Nato». «È stata la loro politica per decenni e l'abbiamo rispettata. Ma ovviamente rispetteremmo la Finlandia se cambiasse» linea «e dicesse di essere pronta per l'adesione. Questa è solo una decisione finlandese, una decisione sovrana.

Mosca accusa figlio Biden per laboratori biologici ucraini. ANSA il 25 marzo 2022. La Russia afferma che il figlio del presidente Usa Joe Biden, Hunter, potrebbe essere coinvolto nella gestione di laboratori per lo sviluppo di armi biologiche in Ucraina. Rispondendo alla domanda di un giornalista nel suo briefing quotidiano, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha detto: "Naturalmente chiederemo delle spiegazioni (sul possibile coinvolgimento). E non solo noi. Come sapete la Cina ha già chiesto chiarimenti". Hunter Biden è nella lista delle personalità americane prese di mira dalle controsanzioni russe. (ANSA).

 (ANSA il 31 marzo 2022) - Il ministero della Difesa russo ha una corrispondenza tra Hunter Biden, il figlio del presidente degli Stati Uniti, con i dipendenti della Defense Threat Reduction Agency americana e gli appaltatori del Pentagono, che conferma il suo ruolo cruciale nel fornire finanziamenti per il lavoro con gli agenti patogeni in Ucraina. 

Lo ha detto il capo delle forze russe di protezione dalle radiazioni, chimiche e biologiche, Igor Kirillov in conferenza stampa, come riporta la Tass. "L'esistenza di questo materiale è confermata dai media occidentali", ha aggiunto.

Da “La Stampa” il 31 marzo 2022.  

In una nuova intervista Donald Trump chiede aiuto a Vladimir Putin perché rilasci informazioni su Hunter Biden, il figlio del presidente Joe Biden. «Credo che Putin debba pubblicare le informazioni sporche su Joe e Hunter Biden», ha detto l'ex presidente Usa. 

L'appello, che arriva nel mezzo di una guerra e con la tensione massima tra Stati Uniti e Russia, è stato lanciato attraverso un controverso giornalista di estrema destra, John Solomon, per «Real America' s Voice».

Trump ha ripetutamente mosso dubbi sugli affari fatti da Hunter Biden, sostenendo che il figlio del presidente avesse ricevuto anni fa milioni di dollari dalla moglie dell'ex sindaco di Mosca, Yury Luzhkov. 

«Lei - ha accusato Trump - gli diede 3,5 milioni di dollari, così ora penso che se Putin conosce il motivo, dovrebbe renderlo pubblico. Noi dovremmo conoscere la risposta». Trump non ha però ricordato che fu proprio lui, secondo «Politico», a cercare di fare affari con Luzhkov alla fine degli anni '90.

La Casa Bianca non ha voluto commentare.

Stefano Graziosi per “La Verità” il 31 marzo 2022.  

Nuova tegola su Hunter Biden. I senatori repubblicani Chuck Grassley e Ron Johnson hanno presentato una ricevuta, che dimostra come il figlio dell'attuale presidente americano abbia riscosso una forte somma in denaro da una controversa azienda cinese. In particolare, secondo i documenti pubblicati, il 4 agosto 2017 il colosso Cefc ha versato 100.000 dollari a Owasco, società di Hunter. 

«Non c'è nessun intermediario in questa transazione. Si tratta di 100.000 dollari da quello che è effettivamente un braccio del governo comunista cinese a Hunter Biden», ha detto Grassley. Non è la prima volta che si parla degli opachi affari di Hunter nella Repubblica popolare.

A novembre 2020, i senatori repubblicani pubblicarono un rapporto, in cui si mostrava come State Energy HK Limited, compagnia con sede a Shangai, avesse effettuato, tra febbraio e marzo 2017, due bonifici da 3 milioni di dollari alla Robinson Walker LLC: società di uno storico socio di Hunter, Rob Walker. 

Tra l'altro, il rapporto sottolineò che la stessa State Energy HK Limited era a sua volta affiliata a Cefc, che all'epoca era guidata da Ye Jianming: controverso businessman cinese, legato all'Esercito popolare di liberazione, che «coltivava rapporti con la Russia e con attori connessi al presidente russo Vladimir Putin».

Il rapporto mostrava inoltre come Hunter fosse in «stretto contatto con Ye». In tutto ciò, proprio ieri il Washington Post ha pubblicato una dura inchiesta sugli affari cinesi del figlio del presidente. 

«I potenziali progetti energetici discussi da Hunter Biden con Cefc non sono mai stati realizzati. Tuttavia, i conti collegati a Hunter Biden hanno ricevuto almeno 3,79 milioni di dollari in pagamenti da Cefc attraverso contratti di consulenza», ha scritto il quotidiano. 

Inoltre, secondo la testata, «Hunter Biden ha ricevuto un importo addizionale di un milione di dollari, emesso come parte di un accordo per rappresentare Patrick Ho, un funzionario di Cefc che sarebbe stato successivamente accusato negli Usa in relazione a uno schema multimilionario per corrompere i leader di Ciad e Uganda.

Tale accordo, in un documento appena scoperto, contiene le firme sia di Hunter Biden che di Ho, il quale è stato successivamente condannato a tre anni di carcere». Insomma, i rapporti tra il figlio di Biden e Cefc sono ormai conclamati. 

È la seconda volta in pochi giorni che la grande stampa americana si accorge (finalmente) dei controversi affari di Hunter. 

Due settimane fa, il New York Times è infatti stato costretto ad ammettere non solo che il famoso laptop del figlio di Biden esiste, ma anche che i suoi contenuti sono stati autenticati. 

E pensare che, quando il New York Post pubblicò i primi scoop sul laptop nell'ottobre 2020, gran parte della stampa, insieme a Silicon Valley e pezzi di intelligence statunitense, bollò il tutto semplicisticamente come «disinformazione russa».

Certo: il Washington Post ha riferito che non ci sono al momento prove in grado di dimostrare che Joe Biden abbia beneficiato direttamente di questi affari. Resta però il fatto che il primo contatto tra Cefc e Hunter sarebbe avvenuto nel dicembre 2015, quando cioè Biden era vicepresidente degli Stati Uniti: lo sarebbe rimasto fino al 20 gennaio 2017. E proprio nel corso del 2017 avvennero i contatti più significativi tra Hunter e Ye. Tra l'altro, già a novembre di quell'anno, Joe Biden disse pubblicamente di non escludere una candidatura presidenziale nel 2020. 

Domanda: è normale che il figlio di un ex vicepresidente e potenziale candidato alla Casa Bianca abbia intrattenuto simili rapporti con un colosso cinese e con un businessman sospettato di avere agganci con l'Esercito popolare di liberazione? Un colosso che, come sottolineato dall'indagine dei repubblicani, intrecciava legami anche con la Russia? 

Ricordiamo che, secondo un altro report dei senatori repubblicani (pubblicato a settembre 2020), Rosemont Seneca (società di cui Hunter era co-fondatore) avrebbe ricevuto 3,5 milioni di dollari nel 2014 dalla donna d'affari russa Elena Baturina. 

Donald Trump ha pubblicamente chiesto a Putin di divulgare le informazioni in suo possesso proprio su quest' accusa (che i legali di Hunter avevano respinto). Quello stesso Putin che, a ottobre 2020, disse però di non essere a conoscenza di attività criminali da parte del figlio di Biden. 

Hanno torto i repubblicani? E se invece fosse Putin, insieme ai Biden, ad avere qualcosa da nascondere? Ricordiamoci i legami tra Hunter e Cefc e quelli tra Cefc e Mosca.

In tutto questo, gli affari cinesi di Hunter vedevano coinvolti anche altri membri della sua famiglia (a partire dallo zio James). 

Del resto, un'email rivenuta nel famoso laptop a ottobre 2020 smentì quanto asserito dallo stesso Joe, il quale aveva detto di non essersi mai occupato degli affari del figlio: quell'email, datata aprile 2015, dimostrò invece che Hunter aveva organizzato un incontro tra suo padre e un alto dirigente di Burisma. 

Del laptop si continuerà quindi a parlare. Non solo perché è da lì che sono state reperite le prove dei legami finanziari tra il figlio di Biden e l'appaltatore del Pentagono, Metabiota.

Ma anche perché il deputato repubblicano, Matt Gaetz, ha ottenuto che il materiale contenuto in quel dispositivo venga inserito nel verbale ufficiale del Congresso degli Stati Uniti. 

Come lasciato intendere dallo stesso Gaetz, la mossa potrebbe essere finalizzata a richiedere un ordine di comparizione per Hunter davanti alla Camera. Per il figlio di Biden la strada si prospetta in salita.

Da agenzianova.com il 31 marzo 2022.  

Il figlio secondogenito del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, Hunter, guadagnò 4,8 milioni di dollari tra il 2017 e il 2018 grazie a un accordo finanziario con la compagnia energetica cinese Cefc. 

Lo rivela una nuova inchiesta pubblicata oggi dal quotidiano “Washington Post”, basata su documenti governativi, fascicoli giudiziari, dati bancari e sulle email contenute in un computer portatile appartenuto al figlio del capo della Casa Bianca. 

L’affare, racconta l’inchiesta, fu concluso ufficialmente il 2 agosto del 2017 con le firme dello stesso Hunter Biden e di un dirigente cinese di nome Gongwen Dong. Pochi giorni dopo, milioni di dollari iniziarono a d approdare su un conto corrente appena aperto presso la Cathay Bank. L’intera operazione durò tuttavia poco più di un anno.

“Molti aspetti dell’accordo finanziario di Hunter Biden con Cefc China Energy sono stati già resi pubblici e inclusi in un rapporto stilato dal Partito repubblicano al Senato nel 2020. L’inchiesta ha confermato molti dettagli chiave e ha trovato ulteriori documenti che mostrano le interazioni tra la famiglia Biden e i dirigenti cinesi”, si legge nell’articolo. 

I documenti mostrano che nel corso di 14 mesi il conglomerato cinese e i suoi dirigenti versarono 4,8 milioni di dollari a entità controllate da Hunter Biden e da suo zio. Non risulta invece alcuna prova che l’attuale presidente Joe Biden abbia beneficiato personalmente delle transazioni con la Cefc, iniziate un anno dopo la conclusione della sua esperienza da vice di Barack Obama e ben prima dell’annuncio della sua candidatura per le elezioni presidenziali Usa del 2020. 

Tra i documenti rinvenuti dal “Washington Post” figurano il pagamento di un onorario da un milione di dollari e quello di 3,8 milioni per attività di consulenza. Secondo il quotidiano statunitense, essi mostrano “come la famiglia abbia goduto delle relazioni costruite da Joe Biden in decenni di servizio pubblico”. 

Hunter Biden è già stato oggetto di un’indagine federale per presunta evasione fiscale e al centro dell’attenzione sono finiti anche i suoi affari in Ucraina, legati alla compagnia energetica Burisma e citati dai repubblicani in relazione a un possibile conflitto d’interessi. La Cefc ha rappresentato tuttavia l’affare più remunerativo mai condotto all’estero dal figlio del presidente degli Stati Uniti.

I potenziali progetti energetici discussi da Hunter Biden con la compagnia cinese non sono mai stati resi pubblici, ma l’uomo d’affari statunitense ricevette almeno 3,79 milioni di dollari in contratti di consulenza. Biden guadagnò poi un altro milione di dollari difendendo Patrick Ho, dirigente della Cefc accusato dagli Usa di aver organizzato in uno schema multimilionario di corruzione che coinvolse anche il Ciad e l’Uganda e successivamente condannato a tre anni di carcere.

Miranda Devine per nypost.com il 31 marzo 2022.  

Le sorprese non finiscono mai. Prima il New York Times. Poi la CNN. Ora il Washington Post si è accorto della storia del portatile di Hunter Biden - soltanto 18 mesi dopo che il New York Post ha scoperto lo scandalo, e un po’ troppo tardi per le elezioni del 2020.

Ma ora, dopo che la nostra storia è stata censurata da Big Tech e respinta come "disinformazione russa" dal democratico Adam Schiff, e 51 ex spie guidate dall'ex direttore della CIA John Brennan, evidentemente è sicuro ammettere che il portatile è reale e che le e-mail che abbiamo pubblicato possono essere autenticate. 

Naturalmente, tutti evitano l'inevitabile conclusione da trarre dalle prove contenute nel portatile che il figlio tossicodipendente del presidente, Hunter, ha abbandonato in un negozio di riparazione nel Delaware nell'aprile 2019: che Joe Biden, quando era vicepresidente, era a conoscenza di, e intimamente coinvolto in, un corrotto, multimilionario, schema di traffico d'influenza internazionale gestito da Hunter, e dal fratello di Joe, Jim Biden, nei paesi per i quali Joe era uomo di punta nell'amministrazione Obama, come Russia, Ucraina e Cina.

Il computer portatile di Hunter è un grande pezzo del puzzle che porta ad una conclusione così scioccante. Ma pur riconoscendo che il materiale sul portatile ha mostrato che Hunter stava "commerciando sul nome di suo padre per fare un sacco di soldi", come ha detto John Harwood, corrispondente della CNN dalla Casa Bianca, sia il Washington Post che la CNN si sono preoccupati di assolvere Joe Biden da qualsiasi coinvolgimento. 

"Non ci sono prove che il vicepresidente Biden, o il presidente Biden, abbia fatto qualcosa di sbagliato in relazione a ciò che Hunter Biden ha commesso", ha detto Harwood. 

Il Washington Post ha dichiarato di "non aver trovato prove che Joe Biden abbia personalmente beneficiato o conosciuto i dettagli delle transazioni con CEFC (azienda energetica cinese), che hanno avuto luogo dopo che aveva lasciato la vice presidenza e prima di annunciare le sue intenzioni di correre per la Casa Bianca nel 2020".

Un pezzo del New York Times all'inizio di questo mese, che pure ha riconosciuto tardivamente la veridicità del portatile - al 24° paragrafo - non ha esplicitamente scagionato il presidente, ma ha semplicemente ripetuto le difese legali che Hunter potrebbe montare se fosse incriminato dal gran giurì del Delaware, che lo indaga su presunte evasioni fiscali, riciclaggio di denaro e violazioni del Foreign Agents Registration Act. 

Senza dubbio questi prestigiosi media che per un anno e mezzo hanno trattato la nostra storia con sogghignante disprezzo hanno le loro ragioni per saltare a bordo. Per prima cosa, il loro obiettivo originale di rimuovere Trump dalla carica è stato raggiunto molto tempo fa, e Joe Biden è ora così impopolare che la sua guardia pretoriana si sta sciogliendo, e riferire sulla sua famiglia è meno pericoloso per gli inviti alle cene della Beltway.

Per un'altra ragione, non possono tenere all’oscuro il loro pubblico, mentre il procuratore degli Stati Uniti nel Delaware completa la sua indagine su Hunter. Dio non voglia che i loro lettori e spettatori si sveglino sul fatto che sono stati ingannati e tenuti all'oscuro dai loro media di fiducia. 

Ma invece di fornire ai loro lettori tutta la verità, e nient'altro che la verità, il Washington Post ha curiosamente lasciato fuori i fatti cruciali in due storie dettagliate sul portatile, martedì, in un articolo di quasi 7.000 parole. Il pezzo principale era intitolata "Inside Hunter Biden's multimillion-dollar deals with a Chinese energy company”. Un articolo che conferma i dettagli chiave e offre nuova documentazione delle interazioni della famiglia Biden con i dirigenti cinesi". 

Entra nel dettaglio degli affari di Hunter Biden con il conglomerato energetico cinese, controllato dallo stato, CEFC - ma non menziona che era il braccio capitalista della Via della seta, il progetto che mira a intrappolare i paesi in via di sviluppo con prestiti massicci e superare gli Stati Uniti come potenza economica. 

Ma non menziona i 6 milioni di dollari che la CEFC ha versato sul conto bancario aziendale del fidato amico della famiglia Biden, Rob Walker, un ex funzionario dell'amministrazione Clinton, la cui moglie, Betsy Massey Walker, era stata l'assistente di Jill Biden quando era la seconda donna. Il 23 febbraio 2017 e il 1° marzo 2017, due bonifici, ciascuno per 3 milioni di dollari, sono stati inviati a Rob Walker da State Energy HK Limited, una società con sede a Shanghai collegata a CEFC. 

Quel denaro era un pagamento per il lavoro svolto da Hunter e dai suoi partner commerciali, durante gli ultimi due anni della vicepresidenza del padre Joe, in paesi come Romania  e Russia, usando il nome di Biden per aprire porte e trovare acquisizioni per CEFC.

Il Washington Post non menziona nemmeno la società SinoHawk Holdings, che è stata costituita il 15 maggio 2017, per una joint venture tra CEFC e Hunter e i suoi partner commerciali. Questo era l'affare per il quale Joe Biden doveva ottenere una quota del 10%, come citato in una famigerata e-mail del 2017 sul portatile, "10 [per cento] detenuto da H [Hunter] per il grande uomo." 

L'ex socio d'affari di Hunter, il CEO di SinoHawk, Tony Bobulinski, ha detto pubblicamente che Joe Biden è il "pezzo grosso". Ma il Washington Post curiosamente non menziona Bobulinski, anche se il suo nome è su tutte le e-mail e i documenti sul portatile relativi alla CEFC. Non menziona nemmeno che Bobulinski ha incontrato Joe Biden due volte nel 2017, per essere approvato come CEO di SinoHawk.

Considerando che il giornale dice di essere in possesso di una copia del disco rigido del portatile di Hunter del giugno 2021, queste sono omissioni curiose, che servono a sminuire il ruolo di Joe Biden. 

"E' chiaro che i media sono stati complici nell'aiutare a far eleggere Joe Biden sopprimendo quelle che sapevano essere storie dannose", dice il senatore repubblicano Ron Johnson del Wisconsin, che con il senatore GOP Chuck Grassley dell'Iowa ha condotto un'indagine su Hunter Biden ed è stato accusato dai democratici di spacciare "disinformazione russa" per il suo disturbo.

"La storia del Washington Post dovrebbe essere vista come ciò che i consiglieri di Nixon una volta definirono come un 'hangout limitato modificato'", dice, usando una frase di propaganda che significa rilasciare una piccola quantità di informazioni nascoste per nascondere i dettagli più importanti. 

Un altro pezzo del puzzle di Biden è stato fornito dall'inchiesta di Johnson e Grassley che ha avuto accesso ai "rapporti di attività sospette" confidenziali che le banche sono tenute a segnalare al Dipartimento del Tesoro, e ha permesso loro di rintracciare milioni di dollari da Cina, Russia, Ucraina e Kazakistan versati in conti associati a Hunter e Jim Biden e ai loro associati.

Johnson sostiene che la loro inchiesta è stata ostacolata dai democratici, che hanno organizzato falsi briefing dell'FBI per lui e poi hanno fatto trapelare dettagli alla stampa per mettere in dubbio i testimoni che voleva citare in giudizio, come Hunter e i suoi partner. 

Ma sono stati anche i membri del suo stesso comitato repubblicano a mettersi in mezzo, negando a Johnson i numeri di cui aveva bisogno per citare in giudizio i testimoni quando il suo partito aveva il potere. 

Johnson non li nomina, ma i senatori Mitt Romney e Rob Portman erano tra quelli che si sono opposti alla natura "politica" dei mandati di comparizione. 

Johnson e Grassley sono stati difesi ora, ma immaginate quanto sarebbe stata diversa la storia se fossero stati sostenuti dalla loro stessa squadra. Joe Biden probabilmente non sarebbe presidente oggi. 

Dagotraduzione dell’articolo di Michael Goodwin per nypost.com il 31 marzo 2022.  

A volte una storia di giornale è solo una storia su qualcuno. E a volte la storia rivela inavvertitamente molto di più sul giornale stesso. 

È il caso dell'articolo di giovedì del New York Times su Hunter Biden. Ciò che il lettore perspicace apprende sul Times è molto più importante di qualsiasi altra cosa sia stata rivelata sul figlio del presidente. 

L'unica notizia recente è che Hunter Biden ha preso un prestito per pagare al governo federale fino a 1 milione di dollari di tasse arretrate all’interno di un’inchiesta sulle sue iniziative imprenditoriali con società e individui stranieri. 

Ma questa notizia, che viene data nel primo paragrafo, è quasi oscurata dalla bomba che il Times spara successivamente. È solo nel paragrafo 24 che l’articolo menziona le e-mail che coinvolgono Hunter Biden e i suoi soci in quegli affari, con queste due frasi: "Quelle e-mail sono state ottenute dal New York Times da una cache di file che sembra provenire da un laptop abbandonato dal signor Biden in centro assistenza del Delaware. L'e-mail e gli altri documenti nella cache sono state autenticate da persone che hanno familiarità con i Biden e con l'indagine". 

Il cuore si blocca! Al New York Times sono serviti quasi 17 mesi per riconoscere, a malincuore, solo una minima parte di ciò che i lettori del New York Post hanno appreso già nell'ottobre 2020. Ovviamente, anche i lettori del Times avrebbero appreso i fatti allora, se il loro giornale si occupasse ancora delle notizie invece di fare il galoppino dei democratici. 

Il Post ha rivelato quelle e-mail e molte altre cose dopo essere entrato in possesso del contenuto del disco rigido del computer di Hunter Biden. I lettori sanno anche che il Times faceva parte della cricca Big Government, Big Tech e Big Media che ha cercato di nascondere quelle e-mail al pubblico durante le elezioni presidenziali del 2020.

Il motivo di quell'insabbiamento era semplice: molte delle e-mail, da e verso Hunter Biden, implicavano Joe Biden nell'attività di traffico di influenze internazionale gestita da Hunter e dal fratello di Joe, Jim Biden. Se l'intero paese avesse saputo che Joe Biden stava usando in modo fraudolento il suo ruolo per aiutare la sua famiglia a fare affari, ora saremmo al secondo anno del secondo mandato di Donald Trump. Questo è un dato di fatto, perché l'8% degli elettori di Biden ha detto ai sondaggisti che avrebbe sostenuto Trump se avessero saputo prima del contenuto bomba nascosto in quel computer.

Ma il Times, Facebook, Twitter, la CNN e il deep state non potevano permettere che ciò accadesse. Avevano trascorso quattro anni a cercare di cacciare Trump dalla Casa bianca, sostenendo falsamente che aveva collaborato con la Russia per rubare le elezioni del 2016. Erano determinati a non fargli ottenere l’incarico per altri quattro anni. 

Quindi, oltre a diffondere fake news su Trump, quando avevano notizie vere sulla corruzione della famiglia Biden, invece di diffonderle e consentire agli utenti di condividerle sui social media, hanno cospirato per occultarle. Bisogna incolpare loro per la disastrosa presidenza di Joe Biden.

E ora il Times ha il coraggio di comportarsi come se avesse fatto un’eroica inchiesta sostenendo che le e-mail "sono state autenticate da persone che hanno familiarità con loro e con l'indagine". Oh per favore. 

A differenza del Times, The Post non ha fatto affidamento su fonti anonime, dicendo apertamente che Rudy Giuliani ha dato al giornale una copia del disco rigido del laptop. Giuliani ha detto che proveniva dal proprietario di un centro assistenza del Delaware, che anche The Post ha intervistato. Ha detto che un uomo che ha firmato la ricevuta con il nome di Hunter Biden gli ha lasciato il computer per le riparazioni e non l'ha mai recuperato.

Le storie nascoste in quel computer, complete di immagini di Hunter drogato che fa sesso con prostitute, erano esplosive di per sé – e questo ben prima che Tony Bobulinski entrasse in scena. L'ex wrestler e ufficiale della Marina è stato per breve tempo partner e CEO di una joint-venture che Hunter Biden ha creato con un comunista cinese a capo di una conglomerata dell’energia.

Bobulinski, nelle settimane precedenti alle elezioni di novembre, ha pubblicamente  riconosciuto come autentiche alcune delle email, che riportavano il suo nome, che erano nel pc. Tra queste ce n’era una, indirizzata a se stesso, a Hunter e Jim Biden e ad altri due soci su come avrebbero diviso il loro capitale nella nuova joint venture. 

Quattro, incluso Hunter, otterrebbero ciascuno il 20%, mentre Jim Biden avrebbe preso il 10%. L'e-mail incriminante diceva che quel "10" aggiuntivo sarebbe stato detenuto da H, cioè Hunter, "per il pezzo grosso". Bobulinski ha identificato Joe Biden come il “pezzo grosso”. E nessuno nella famiglia Biden l’ha mai smentito. Sarebbe anche sciocco se lo facessero visto che Bobulinski è andato all'FBI a cui ha consegnato tutti i suoi dispositivi elettronici. Da questa decisione, probabilmente l’inchiesta su Hunter ha trovato nuova linfa ed è stata prorogata. 

Bobulinski ha anche rivelato pubblicamente, a me e ad altri, del suo incontro nel maggio del 2017 con Joe Biden sull'accordo con i cinesi e ha riferito che Joe Biden, che aveva appena lasciato la Casa Bianca da vicepresidente, era pienamente informato dei dettagli del piano messi a punto nei precedenti due anni. Cosa farà il New York Times al riguardo? Farà trascorrere altri 17 mesi per autenticare quel pacchetto di mail?

Ecco un'idea: perché non permette a Ken Vogel, uno dei tre giornalisti che ha firmato l’articolo ieri, di scrivere ciò che sa. Bobulinski ha detto a Vogel che l'e-mail del "pezzo grosso" era autentica già nell'ottobre 2020, ma il Times non ha mai ritenuto opportuno stampare questa notizia. E cosa farà il Times riguardo alla mail in cui Hunter si lamenta con sua figlia che suo padre gli prende metà delle sue entrate? O quello in cui un partner di altri affari, Eric Schwerin, scrive di spostare denaro tra i conti correnti di Hunter e Joe?

Quindi forse Joe Biden non ha semplicemente mentito sul fatto di non aver mai saputo degli affari di suo figlio. Forse stava ottenendo la sua fetta da quegli affari. 

Come ho scritto, il russo Vladimir Putin e il cinese Xi Jinping sanno tutto di questi accordi, incluso quanti milioni sono stati trasferiti da oligarchi e società legate ai comunisti a conti bancari controllati dai Biden. Sanno anche cosa hanno fatto i Biden per i soldi. Le uniche persone che non conoscono tutti i fatti sono gli americani. E per questo, possiamo ringraziare il New York Times e i suoi co-cospiratori corrotti.

Dopo che il New York Times ha verificato tardivamente le mail, l'addetto stampa della Casa Bianca Jen Psaki non si è nemmeno preoccupata di difendere la sua vecchia affermazione secondo cui l’articolo del New York Post sul pc di Hunter Biden non era altro che "disinformazione russa". 

Psaki è stata pressata durante il suo solito briefing con i giornalisti sulle sue fuorvianti affermazioni e su quelle dell'allora candidato Joe Biden. 

"Il New York Times ha autenticato le e-mail che sembrano provenire da un laptop abbandonato da Hunter Biden nel Delaware", ha iniziato il giornalista di RealClearPolitics Philip Wegmannn. "Il presidente in precedenza ha affermato che la storia del New York Post era 'un mucchio di spazzatura' e che si trattava di una 'macchinazione russa'. Sostiene questa valutazione?". Psaki ha ciurlato nel manico senza rispondere.

Hunter Biden coinvolto nella produzione di armi biologiche in Ucraina. L'accusa della Russia: finanzia i laboratori. Il Tempo il 25 marzo 2022.

La Russia chiederà spiegazioni sul presunto coinvolgimento di Hunter Biden, il figlio del presidente degli Stati Uniti Joe, nei laboratori in Ucraina dove si produrrebbero armi biologiche. Lo ha sottolineato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, nel corso di un punto stampa. «Certo, chiederemo spiegazioni. E non solo noi. Sapete che anche la Cina ha già chiesto spiegazioni e che questo programma sia reso trasparente al mondo. Naturalmente, questo sarà di interesse per molti. Si tratta di informazioni molto, molto sensibili, sia per noi sia per il mondo intero», ha detto Peskov, aggiungendo: «È chiaro che gli americani stanno ora cercando di sviare l’attenzione», ha detto il portavoce del Cremlino, citato dai media russi. Ieri il ministero della Difesa russo ha accusato Hunter Biden di essere coinvolto nel finanziamento di laboratori di armi biologiche in Ucraina. Nel corso di una conferenza stampa Igor Kirillov, capo della Forza di protezione chimica e biologica, ha mostrato dei documenti, asseritamente ucraini e americani, che sarebbero stati trovati durante le operazioni belliche in Ucraina. 

Secondo questi documenti, il fondo d’investimenti Rosemont Seneca Partners, presieduto da Hunter Biden, avrebbe sponsorizzato un programma di sviluppo di armi biologiche in Ucraina. Nel programma, accusa Kirillov, sarebbero coinvolti il Pentagono, l’agenzia Usa per lo sviluppo internazionale, i Centri per il Controllo e la prevenzione delle malattie e addirittura la fondazione di George Soros, il miliardario americano spesso preso di mira nelle teorie complottiste. 

Nel frattempo il Cremlino ha negato l'uso delle bombe al fosforo. "La Russia non ha mai violato le convenzioni internazionali, consigliamo comunque di contattare il ministero della Difesa per i dettagli”, la risposta di Peskov alle accuse del presidente ucraino Volodymyr Zelensky.

Ecco tutti i misteri del figlio di Biden. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 25 Marzo 2022.  

Hunter Biden, secondogenito del Presidente Usa, Joe Biden, è di nuovo al centro del dibattito politico americano. Ancora una volta, a far discutere, è il suo controverso rapporto con l’Ucraina. Come riportato dall’agenzia Ansa, la Russia afferma che Hunter potrebbe essere coinvolto nella gestione di laboratori per lo sviluppo di armi biologiche nel Paese ex sovietico. Rispondendo alla domanda di un giornalista nel suo briefing quotidiano, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha affermato: “Naturalmente chiederemo delle spiegazioni (sul possibile coinvolgimento)”. Ma cosa c’è di vero in quest’accusa del Cremlino? La prima ipotesi è che si tratti di una teoria del complotto diffusa dalla Federazione russa allo scopo di gettare fango sull’amministrazione Biden, strumentalmente cavalcata dalla stampa conservatrice americana. È la conclusione a cui è giunta la maggior parte della stampa americana. La seconda ipotesi, al momento difficilmente verificabile, vede altresì il figlio del Presidente Usa al centro di uno scandalo che avrebbe gravi conseguenze su Joe Biden e sulla sua amministrazione.

L’accusa: Hunter Biden coinvolto nella gestione dei laboratori ucraini

Ne ha parlato giovedì sera, generando non poche polemiche, il celebre anchorman di Fox News, Tucker Carlson, riprendendo un’inchiesta del sito conservatore National Pulse. La tesi della testata americana di destra è che una società di investimento diretta da Hunter Biden è stata uno dei principali finanziatori di una “società di monitoraggio e risposta alla pandemia” che ha collaborato all’identificazione e all’isolamento di agenti patogeni mortali nei laboratori ucraini, ricevendo nel frattempo fondi dal Dipartimento della Difesa.Rosemont Seneca Technology Partners (RSTP), una sussidiaria della Rosemont Capital fondata da Christopher Heinz, contava infatti sia Hunter Biden che Heinz come amministratori delegati. Heinz è il figliastro dell’ex Segretario di Stato americano, John Kerry. Tra le realtà che quest’ultima finanziava c’è Metabiota, una società con sede a San Francisco ha come mission quello di rilevare, tracciare e analizzare le “malattie infettive emergenti”. I rapporti finanziari rivelano che RSTP  ha finanziato per la prima volta Metabiota nel 2015, con un contributo di circa 30 milioni di dollari.

L’ex amministratore delegato e co-fondatore di RSTP, Neil Callahan, peraltro siede nel Board of Advisors di Metabiota insieme all’ex funzionario di Hillary Clinton, Rob Walker. Una storia – da confermare – ricca di quesiti, come ha sottolineato anche Tucker Carlson durante la sua trasmissione. “Quali sono i contorni di quella storia? Non siamo sicuri. Ma sappiamo che è legittimo chiedersi cosa significhi. Perché non dovrebbe essere? Non sei un “agente russo” se chiedi. Sei un buon cittadino”, ha detto il conduttore di Fox News. 

Burisma, l’incubo dei Biden

Il libro che conferma i lati oscuri di Hunter Biden

Tutti i guai di Hunter Biden

Altro che “disinformazione russa”: la verità sul laptop di Hunter Biden

Non sappiamo, al momento, se vi siano legami fra Hunter Biden e i laboratori ucraini e se le prove fornite da National Pulse siano sufficienti. Ciò che è sicuramente vero è che, per mesi, la stampa liberal ha bollato come “disinformazione russa” una notizia che si è poi dimostrata autentica. Dopo mesi di smentite, infatti, è stato il New York Times a confermare l’esistenza del famigerato laptop di Hunter Biden. Come ricorda il Premio Putlizer Glenn Greenwald, infatti, il 14 ottobre 2020, meno di tre settimane prima che gli americani votassero, il quotidiano più antico della nazione, il New York Post , ha iniziato a pubblicare una serie di rapporti sui rapporti d’affari del leader democratico Joe Biden e su suo figlio, Hunter, in paesi in cui Biden, in qualità di vicepresidente, esercitava una notevole influenza, tra cui Ucraina e Cina. Risultato? Chiunque abbia diffuso notizie su questa storia, è stato brutalmente censurato dai social media della Silicon Valley.

A un anno di distanza, nel silenzio generale, è stato il giornalista di Politico Ben Schreckinger, a scoprire che gli scoop del New York Post erano veri: prove che ha pubblicato in un libro intitolato The Bidens: Inside the First Family’s Fifty-Year Rise to Power. Schreckinger ha trascorso mesi a indagare sui documenti chiave pubblicati dal New York Post e ha trovato la prova definitiva che queste e-mail e i relativi documenti sono indiscutibilmente autentici. Schreckinger ha parlato con più persone vicine ad Hunter Biden, confermando l’autenticità delle mail pubblicate dal New York Post e buona parte del materiale contenuto nel laptop e divulgato. “Una persona che aveva accesso indipendente alle e-mail di Hunter mi ha confermato che le e-mail pubblicate dal New York Post relative a Burisma e all’impresa CEFC corrispondevano alla sostanza delle e-mail che Hunter aveva effettivamente ricevuto” sottolinea il giornalista in uno dei passaggi chiave del suo lavoro, menzionato anche da Politico nella sua newsletter. A un anno di distanza, un netto cambio di narrativa. Conferma ulteriore, come accennato poc’anzi, è arrivata dalla notizia pubblicata dal New York Times nei giorni scorsi circa l’ampia indagine penale in corso dell’Fbi sulle attività internazionali di Hunter Biden.

L’indagine dell’Fbi sul figlio del Presidente Usa

A proposito del laptop, occorre fare un passo indietro. Il 14 ottobre 2020 il New York Post pubblicava un’inchiesta bomba: secondo le e-mail ottenute dal giornale conservatore, infatti, Hunter Biden presentò suo padre, all’epoca vicepresidente, un alto dirigente di Burisma meno di un anno prima che Joe Biden facesse pressioni sui funzionari del governo di Kiev affinché licenziassero un procuratore che stava indagando sulla stessa società nel quale il figlio era un membro del cda. L’incontro è menzionato in un messaggio di apprezzamento che Vadym Pozharskyi, un membro del cda di Burisma, avrebbe inviato Hunter Biden il 17 aprile 2015, circa un anno dopo che il figlio dell’ex vicepresidente si era unito al consiglio di Burisma con uno stipendio di 50.000 dollari al mese. L’e-mail proviene proprio dal laptop di Hunter Biden, lasciato in un negozio del Delaware. Uno scandalo volutamente taciuto da buona parte dell’opinione pubblica, che ora torna a galla con nuove conferme.

Come già evidenziato in tempi non sospetti da InsideOver, per comprendere il ruolo di Joe Biden e del figlio Hunter occorre tornare al 2014. Come ricorda il giornalista investigativo Max Blumenthal su Grayzone, l’allora vicepresidente di Obama fece la sua prima visita a Kiev nell’aprile 2014, proprio quando il governo post-Maidan stava lanciando la sua operazione militare contro i separatisti russi nel Donbass. Rivolgendosi al parlamento di Kiev, Biden dichiarò che “la corruzione non potrà più avere spazio nella nuova Ucraina”, sottolineando che gli Stati Uniti “sono la forza trainante dietro il Fmi” e stavano lavorando per assicurare a Kiev “un pacchetto multimiliardario per aiutare” il governo. Nello stesso periodo, Hunter Biden venne nominato nel consiglio di amministrazione di Burisma. Nel maggio del 2016, Joe Biden in qualità di uomo di punta designato da Barack Obama per l’Ucraina, volò a Kiev per informare Poroshenko che la garanzia di un prestito ammontante a ben un miliardo di dollari americani era stata approvata per permettere a Kiev di fronteggiare i debiti. Si trattava, tuttavia, di un aiuto “condizionato”. Se Poroshenko non avesse licenziato il procuratore capo nello stretto giro di sei ore, Biden sarebbe tornato negli Usa e l’Ucraina non avrebbe più avuto alcuna garanzia di prestito. L’Ucraina, in quell’occasione, capitolò senza alcuna resistenza. Il procuratore stava indagando proprio sugli affari della Burisma Holdings, compagnia che aveva collocato nel proprio board operativo il figlio del vicepresidente. Lo stesso Biden si vantò di aver minacciato nel marzo 2016 l’allora presidente ucraino Poroshenko di ritirare un miliardo di dollari in prestiti se quest’ultimo non avesse licenziato il procuratore generale Viktor Shokin che stava indagando proprio su suo figlio Hunter.

Cosa sono e perché si usano le bombe al fosforo. Paolo Mauri su Inside Over il 25 Marzo 2022.  

Il fosforo è un elemento chimico che trova applicazioni diverse, sia militari sia civili. In quest’ultima categoria, si può trovare “fosforo bianco”, conosciuto col suo acronimo inglese WP (White Phosphorous) utilizzato in fuochi d’artificio, additivi alimentari, fertilizzanti e composti detergenti, solo per citarne alcuni. La sua applicazione militare, invece, lo vede utilizzato principalmente in granate, colpi di mortaio e proiettili di artiglieria per contrassegnare obiettivi, per fornire cortine fumogene, per “tracciare” la traiettoria dei proiettili (definiti traccianti) e come incendiario generico. Queste munizioni quindi sono classificate sia come fumogene che come incendiarie. Esistono tre tipi comuni di proiettili contenenti WP: razzi con paracadute per l’illuminazione, contenitori che cadono a terra, bruciano ed emettono fumo per cortine fumogene e proiettili con innesco impostato per esplodere a una determinata altezza dal suolo che bruciano con calore intenso ed emettono denso fumo bianco.

Il WP è una sostanza che si presenta di aspetto simile alla cera traslucida, da incolore a gialla, con un odore pungente, simile all’aglio. Il fosforo usato dai militari è altamente energetico (attivo) e si accende una volta esposto all’ossigeno il che lo rende un materiale piroforico, cioè spontaneamente infiammabile a contatto con l’aria. Il fosforo bianco produce calore che arriva a circa 800 gradi Centigradi.

La storia dell’utilizzo del fosforo bianco

L’esercito britannico introdusse le prime granate WP alla fine del 1916. Nella Seconda Guerra Mondiale, bombe da mortaio, proiettili, razzi e granate al fosforo bianco furono ampiamente utilizzati dalle forze americane, del Commonwealth e, in misura minore, dal Giappone, anche per eliminare le truppe nemiche.

All’inizio della campagna in Normandia, il 20% dei colpi di mortaio americani da 81 millimetri erano con carica a fosforo bianco e si calcola che nella sola liberazione di Cherbourg, nel 1944, un singolo battaglione di mortai degli Stati Uniti, l’87esimo, sparò 11899 proiettili di fosforo bianco nella città. Le bombe incendiarie sono state ampiamente utilizzate dalle forze aeree tedesche, britanniche e statunitensi contro popolazioni civili e obiettivi di importanza militare in aree civili (Amburgo, Dresda, ecc), e verso la fine della guerra alcune di queste bombe usavano fosforo bianco al posto del magnesio come acciarino per la loro miscela infiammabile.

Le munizioni WP sono state ampiamente utilizzate in Corea, Vietnam e successivamente dalle forze russe in Cecenia: si calcola che, in media, nella battaglia del dicembre 1994 per Grozny, ogni quattro o cinque colpi di artiglieria di mortaio sparati dai russi, uno era un proiettile al fosforo bianco.

In Iraq il regime di Saddam Hussein ha utilizzato il fosforo bianco, oltre ad armi chimiche proibite da trattati internazionali, durante la guerra contro l’Iran negli anni ’80, mentre potrebbero averle usate anche contro i ribelli curdi e la popolazione di Erbil e Dohuk.

Durante la Seconda Guerra del Golfo, nel 2003, è stato segnalato l’uso di fosforo bianco da parte statunitense nella battaglia per Fallujah (2004), tuttavia Washington ha sempre negato un utilizzo diverso da quello legato agli scopi di illuminazione o per oscurare i movimenti delle truppe. Risulta che anche nel 2006 durante il conflitto Israele-Libano, Tel Aviv abbia utilizzato (e ammesso di averlo fatto) proiettili al fosforo contro obiettivi militari in campo aperto nel sud del Libano, ma risulta che siano stati colpiti anche civili.

Effetti

Il fosforo bianco provoca dolorose ustioni chimiche. L’ustione risultante appare tipicamente come un’area necrotica con un colore giallastro e un caratteristico odore di aglio. Il fosforo bianco è altamente liposolubile e, come tale, ha una rapida penetrazione attraverso il derma una volta che le particelle riescono a oltrepassare l’epidermide. Le particelle incandescenti di WP possono produrre ustioni estese che sono anche profonde e quindi molto dolorose. Le particelle di fosforo bianco continuano a bruciare a meno che non vengano private dell’ossigeno atmosferico o fino a esaurimento delle stesse. Se particelle di WP in fiamme colpiscono e si attaccano agli indumenti, occorre disfarsene rapidamente prima che raggiunga la pelle. Se è impossibile farlo, i manuali suggeriscono di immergere la pelle o gli indumenti contaminati dal fosforo in acqua fredda o inumidire il tutto abbondantemente per estinguere la reazione. Quindi rimuovere immediatamente gli indumenti interessati e risciacquare le aree cutanee interessate con una soluzione fredda di bicarbonato di sodio o con acqua fredda. Se a contatto con la pelle bisognerebbe inumidire la pelle e rimuovere il fosforo visibile (preferibilmente sott’acqua) con un oggetto tagliente o una pinzetta.

La regolamentazione internazionale

Sia il Protocollo di Ginevra del 1925 sull’uso di gas velenosi che la Convenzione sulle armi chimiche (CWC) del 1993 vietano l’uso di armi chimiche nei conflitti armati mentre il Terzo protocollo sulle armi incendiarie della Convenzione su certe armi convenzionali (CCCW) del 1980 proibisce l’uso di questo munizionamento dall’aria su concentrazioni di civili, dove con questi termine si intende qualsiasi concentrazione di civili, permanente o temporanea, come in parti abitate di città, o paesi o villaggi abitati, o come in campi o colonne di profughi o sfollati, o gruppi di nomadi. Il protocollo, però, non impedisce gli attacchi da terra o dal mare con armi incendiarie.

Le munizioni WP contengono sostanze chimiche ma non sono necessariamente armi chimiche perché il loro utilizzo bellico (contrassegnare o illuminare bersagli, creare cortine fumogene e scopi incendiari) è consentiti dalla CWC come “scopi militari non collegati all’uso di armi chimiche e non dipendenti dall’uso delle proprietà tossiche delle sostanze chimiche come metodo di guerra” purché i tipi e le quantità delle sostanze chimiche siano coerenti con tali scopi. Per vietare l’uso di munizioni WP ai sensi della CWC, dovrebbe essere stabilito che il fosforo bianco è una sostanza chimica tossica o un precursore chimico e che è stato utilizzato per scopi vietati dalla Convenzione.

Sulla prima di queste questioni, la CWC definisce una sostanza chimica tossica come “ogni sostanza chimica che attraverso la sua azione chimica sui processi vitali può causare la morte, l’incapacità temporanea o un danno permanente all’uomo o agli animali” mentre un precursore è definito come “qualsiasi reagente chimico che prende parte in qualsiasi fase della produzione, con qualsiasi metodo, di una sostanza chimica tossica”. Il WP può causare danni agli esseri umani a causa della sua tossicità intrinseca, ma questo danno non è il fine delle munizioni WP.

Inoltre perché il fosforo bianco possa essere considerato una sostanza chimica tossica, o un precursore ai sensi della CWC, dovrebbe essere prima dimostrato che le munizioni che lo utilizzano sono destinate a scopi vietati dalla Convenzione.

Riassumendo il WP, così come altri esplosivi “ad aria compressa”, non è proibito o limitato dal Terzo protocollo della CCCW, né dal CWC o dal Protocollo di Ginevra, pertanto tutti i Paesi che ne sono firmatari possono usarlo durante un conflitto per i compiti che abbiamo già elencato.

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Bombe al fosforo su Irpin. La denuncia del sindaco: “Munizioni vietate, crimine contro l'umanità”. Il Tempo il 23 marzo 2022.

Ieri notte le forze di occupazione russe hanno utilizzato munizioni al fosforo vicino alle città di Irpin e Gostomel nella regione di Kiev, ha affermato il sindaco di Irpen Oleksandr Markushin. «Ieri, 22 marzo, in tarda serata, gli occupanti russi hanno usato munizioni al fosfato vietate nella periferia nord-occidentale di Kiev. L’area bersaglio della distruzione è Gostomel-Irpin», ha scritto Markushin sui social. Allo stesso tempo, ha allegato al messaggio una foto dell’esplosione. Il sindaco ha osservato che l’uso di tali armi da parte di nemici contro civili è un crimine contro l’umanità e una violazione delle Convenzioni di Ginevra del 1949.

Non è la prima volta che Kiev accusa Mosca di utilizzare armi chimiche nel conflitto in atto da quattro settimane. La località a nord est della Capitale è divenuta tristemente famosa per essere uno dei fronti più cruenti dall’inizio dell’invasione. Non solo: anche in Donbass, in quella parte di territorio tuttora controllato dall’esercito ucraino, le truppe del Cremlino avrebbero usato munizioni al fosforo. A sostenerlo è stavolta il vice responsabile della Polizia, secondo il quale a Kramatorsk, una delle città più popolose di tutta l’area, l’esercito di Mosca avrebbe colpito i civili con questo tipo di bombe.

La Russia accusa Ucraina e Usa: “Forniscano dati su attività biologica laboratori”. Federico Giuliani su Inside Over il 17 marzo 2022.

I laboratori e le attività biologiche tornano al centro della guerra in Ucraina. Se sui campi di battaglia, da Mariupol a Kharkiv passando per i sobborghi di Kiev, l’esercito russo e ucraino continuano a fronteggiarsi senza esclusione di colpi, lontano dall’epicentro del conflitto va in scena una sorta di guerra parallela. Potremmo definirla guerra di propaganda, o meglio scontro tra propagande incrociate.

Da una parte troviamo le notizie diffuse dall’ottimamente organizzato servizio comunicativo dell’Ucraina, che cita danni inflitti alle forze rivali e numero aggiornato di nemici uccisi; dati, questi, sistematicamente rigettati dalla controparte russa. Mosca, dall’altro lato, spinge su vari temi. Uno dei più caldi, appunto, è quello relativo alla presunta attività biologica militare che, secondo il Cremlino, Kiev avrebbe svolto nelle sue strutture di concerto con Stati Uniti e Unione europea. Non ci sono prove a conferma di questa tesi. Che, con il passare dei giorni, è diventata sempre più centrale nei discorsi di molti funzionari russi.

Laboratori nel mirino

È per questo motivo che la Russia ha chiesto all’Ucraina e agli Stati Uniti di fornire dati sulle presunte attività svolte nei laboratori dislocati sul territorio dell’ex repubblica sovietica. In particolare, lo ha apertamente dichiarato nelle ultime ore la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova. Nel corso di un briefinig, Zakharova ha auspicato che vengano assunte tutte le misure per risolvere questo problema. “Nervosa, allo stesso tempo assolutamente inutile, priva di prove, la reazione conferma solo la validità delle affermazioni russe sulle attività estremamente pericolose e illegali di cui sopra”, ha dichiarato Zakharova commentando le risposte di Kiev e Washington alle accuse di Mosca.

Nei giorni scorsi anche la Cina si è unita alle istanze russe, chiedendo di accendere i riflettori sul medesimo tema. “Abbiamo appreso la notizia che l’Oms ha consigliato al governo ucraino di distruggere gli agenti patogeni che si trovano nei laboratori per impedire la diffusione di malattie infettive. Noi aspettiamo di ricevere maggiori informazioni su questo. Nell’attuale situazione e per il bene della salute pubblica chiediamo che vengano messi in sicurezza i laboratori”, aveva fatto presente l’ambasciatore cinese, Zhang Jun, nel suo intervento al Consiglio di Sicurezza dell’Onu convocato dalla Russia per presentare le sue accuse riguardo a presunti programmi per armi biologiche condotti dagli Usa in Ucraina.

Un tema che scotta

La versione degli Stati Uniti è completamente diversa. A detta di Washington, dalla Russia arriverebbero “false accuse” e “disinformazione”. La portavoce della Casa Bianca ha replicato alle accuse del ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, che negli ultimi giorni ha ripetuto di presunti programmi americani per lo sviluppo di armi chimiche e batteriologiche in Ucraina.

“Abbiamo visto anche funzionari cinesi riprendere queste tesi complottiste”, ha aggiunto Jen Psaki sottolineando che gli Stati Uniti “rispettano a pieno” gli impegni della convenzione per le armi chimiche e batteriologiche, che ne vieta il possesso.

Gli Stati Uniti hanno quindi puntato a loro volta il dito contro Mosca, rea di “mantenere il programma per le armi biologiche in violazione della legge internazionale”, e ricordato l’uso delle armi chimiche in Siria nonché il sospetto avvelenamento del dissidente Alexei Navalny nel 2020 con l’agente nervino Novichok.

BIOLABORATORI. LE ARMI SEGRETE DEL PENTAGONO. Redazione su La Voce delle Voci il 7 Marzo 2022

“La Russia ha impedito a Washington di scatenare una guerra biologica”, è il titolo di un reportage firmato da Vladimir Platov per ‘journal-neo.org’ e ripreso dal sito di controinformazione ‘comedonchisciotte’.

Emerge con chiarezza il ruolo giocato dai tanti bio-laboratori militari supersegreti dislocati dal Pentagono in mezzo mondo, e soprattutto, in tante ex repubbliche sovietiche: laboratori destinati ad allestire le ‘biologic wars’ del futuro ma – ora lo capiamo meglio – anche di questo drammatico presente; e quindi particolarmente strategici sul fronte degli equilibri geopolitici in quelle aree bollenti.

La Voce, a partire da gennaio, ha scritto diverse inchieste sul tema, che potete rileggere cliccando sui link in basso.

Ma ecco, a seguire, il pezzo di Platov. 

LA RUSSIA HA IMPEDITO A WASHINGTON DI SCATENARE UNA GUERRA BIOLOGICA

Alla luce dei disordini che i servizi di intelligence statunitensi hanno provocato di recente in Asia centrale, Transcaucasia e in altre aree al confine con Russia e Cina, il rischio di un disastro biologico proveniente dai molteplici laboratori biologici militari segreti, dislocati dagli Stati Uniti in aree potenzialmente instabili politicamente e socialmente, è oggettivamente in aumento. A questo proposito, la questione della preparazione, da parte degli Usa, di una bomba a tempo biologica in Kazakistan era già stata sollevata molte volte in precedenza. Il rischio crescente che il Pentagono inizi unaguerra biologica utilizzando gli oltre 400 laboratori biologici statunitensi situati in tutto il mondo e la necessità di una risposta chiara alla possibilità di un disastro biologico mondiale causato da tali strutture segrete degli Stati Uniti all’estero sono stati ripetutamente sottolineati. Dopotutto, questi laboratori biologici impiegano circa 13.000 “dipendenti,” impegnati a creare ceppi di patogeni killer (microbi e virus) resistenti ai vaccini.

Oggi non è un segreto che gli Stati Uniti abbiano allestito tali laboratori biologici in 25 Paesi del mondo: in Medio Oriente, Africa, Sud-est asiatico. Solo nell’area dell’ex Unione Sovietica ci sono laboratori biologici militari statunitensi in Ucraina, Azerbaijan, Armenia, Georgia, Kazakistan, Kirghizistan, Moldova e Uzbekistan.

Gli Americani cercano di negare la natura militare degli studi condotti in tali laboratori. Tuttavia, la segretezza che li circonda è paragonabile solo a quella delle più importanti strutture militari. Non vi è alcuna responsabilità nei confronti del pubblico locale e globale per il “lavoro” svolto in queste strutture. Inoltre, nessun “risultato” scientifico è stato pubblicamente dimostrato dai biologi americani nel corso dei molti anni di esistenza di tali laboratori segreti e i risultati della loro ricerca non sono mai stati pubblicati su testate di pubblico dominio. Nel frattempo, i laboratori stanno attivamente raccogliendo informazioni sul pool genetico delle popolazioni dei Paesi in cui tali laboratori operano. Tutto ciò indica che il Pentagono si sta indubbiamente preparando a condurre una guerra biologica usando armi biologiche, messe a punto dagli Stati Uniti in quegli stessi laboratori. È noto che negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno speso oltre 100 miliardi di dollari per sviluppare armi per la guerra biologica. Gli Stati Uniti sono l’unico paese che ancora blocca l’istituzione di un meccanismo di verifica ai sensi della Convenzione del 1972 sulla proibizione dello sviluppo, produzione e stoccaggio di armi batteriologiche (biologiche) e tossiche e sulla loro distruzione.

Tuttavia, proprio come per le richieste della Russia all’Occidente per un chiaro accordo sulle misure di sicurezza universali e sulla non proliferazione della NATO ad est, gli avvertimenti sulla capacità degli Stati Uniti di scatenare una guerra biologica globale non sono mai stati ascoltati a Washington e nelle capitali occidentali.

Con questa premessa, non si può negare che la Russia, come qualsiasi altro Paese, non desideri avere vicino ai suoi confini armi che mettano a rischio la sicurezza di tutti.

Pertanto, nell’operazione militare di Mosca per la denazificazione e la smilitarizzazione dell’Ucraina, iniziata nei giorni scorsi, uno dei primi obiettivi èquello di neutralizzare i numerosi laboratori biologici militari statunitensi presenti sul territorio di quel Paese.

Il 24 febbraio la testata conservatrice britannica THE EXPOSÉ aveva pubblicato un articolo intitolato “Is there more to the Ukraine/Russia conflict than meets the eye?” [C’è di più di quanto sembri nel conflitto Ucraina/Russia? – ndt]. In esso si riconosce che la Russia avrebbe dovuto condurre l’attuale operazione militare sulla base dei suoi interessi di sicurezza, e conferma che esiste da tempo una seria minaccia per la vita e la salute della popolazione della Federazione Russa proveniente dal territorio dell’Ucraina. Fa riferimento ad almeno 16 laboratori biologici militari statunitensi situati a Odessa, Vinnitsa, Uzhgorod, Lviv (tre), Kharkiv, Kiev (anche qui tre installazioni), Kherson, Ternopil, Dnepropetrovsk, nonché vicino a Luhansk e al confine con la Crimea. Tale “cooperazione” tra il Pentagono e il Ministero della Salute ucraino risale al 2005. Nel 2013, i partiti di opposizione erano riusciti a coinvolgere la Verkhovna Rada [il Parlamento monocamerale dell’Ucraina, ndt], per tentare di porre fine a questa “cooperazione”, che, non solo continua, ma che sta anche sviluppandosi attivamente, sempre su iniziativa di Washington.

Molti dei segreti del Pentagono e della Casa Bianca sui laboratori biologici clandestini statunitensi all’estero erano stati rivelati da Francis Boyle, professore di diritto internazionale all’Università dell’Illinois a Champaign (USA) e autore del Biological Weapons Anti-Terrorism Act del 1989 (BWATA). Come sottolinea questo scienziato americano, “In questo Paese ora abbiamo un’industria di armi biologiche offensive che viola la Convenzione sulle armi biologiche e la mia stessa legge antiterrorismo sulle armi biologiche del 1989”. Secondo Boyle, “le università americane hanno una lunga storia di volontaria complicità nella loro agenda di ricerca …. per farsi cooptare, corrompere e pervertire dal Pentagono e dalla CIA, nella scienza della morte”. Cita come esempio il gruppo del dottor Yoshihiro Kawaoka, dell’Università del Wisconsin, che era riuscito ad aumentare la tossicità del virus dell’influenza di un fattore 200. Secondo Boyle, il Pentagono e la CIA sono “pronti, intenzionati e in grado di lanciare una guerra biologica quando farà comodo ai loro interessi… Hanno una scorta di quella super-arma all’antrace che avevano già usato contro di noi nell’ottobre 2001”.

La minaccia per le popolazioni che vivono anche a distanza da tali laboratori è testimoniata da un’indagine condotta dal quotidiano USA Today, in cui è emerso che, solo dal 2006 al 2013, si sono verificati oltre 1.500 incidenti e violazioni della sicurezza in 200 laboratori biologici militari sul territorio degli Stati Uniti. E che dire di possibili incidenti simili in laboratori biologici in Ucraina o in altre ex repubbliche sovietiche?

Nell’estate del 2019, “al principale laboratorio americano di guerra biologica era stato ordinato di interrompere tutte le ricerche sui virus e gli agenti patogeni più letali, per paura che rifiuti contaminati potessero fuoriuscire dalla struttura”, aveva riferito il britannico The Independent. Il Centers for Disease Control and Prevention (CDC), l’autorità per la salute pubblica negli Stati Uniti, aveva revocato al centro di bioricerca militare di Fort Detrick l’autorizzazione a trattare Ebola, vaiolo e antrace, dopo che, nella stessa struttura, gli ispettori del CDC avevano riscontrato “problemi con le procedure utilizzate per decontaminare le acque reflue”. A questo proposito, c’è da notare che la possibile dispersione di “virus e agenti patogeni mortali” nelle acque reflue di Fort Detrick era stata rilevata poco prima dell’epidemia di COVID-19, di cui gli Americani si sono affrettati ad incolpare la Cina. È anche degno di nota il fatto che, dal 2019, il Pentagono ha notevolmente intensificato le attività dei suoi laboratori biologici all’estero, chiaramente spostando oltremare il “lavoro” sui ceppi particolarmente pericolosi e sullo sviluppo di armi biologiche.

In queste circostanze, è pienamente giustificato, nell’operazione militare di Mosca, il compito di porre fine alle attività dei laboratori biologici segreti statunitensi in Ucraina, nell’ambito del programma di smilitarizzazione di quel Paese.

In questo contesto, è interessante notare che, dopo l’inizio dell’operazione militare di Mosca, l’ambasciata statunitense in Ucraina ha rimosso dal proprio sito web ufficiale tutti i documenti sui laboratori biologici di Kiev e Odessa. Ciò conferma ulteriormente che, oltre alla minaccia nucleare di Zelensky, la Russia stava andando incontro anche alla minaccia di una bioestinzione proveniente da oltreoceano. In queste circostanze, è comprensibile l’annuncio dello scorso ottobre, da parte dell’Agenzia statunitense per la riduzione delle minacce alla difesa (DTRA), pubblicato sul sito web degli appalti governativi statunitensi, di un addendum sulla “lotta contro gli agenti patogeni altamente pericolosi”. Questo documento riguardava il completamento, per un importo di 3,6 milioni di dollari, di due laboratori biologici in Ucraina, a Kiev e Odessa, di cui erano già pronti attrezzature e personale, per dar modo agli Stati Uniti di scatenare una guerra biologica [contro la Russia] dal territorio dell’Ucraina.

Vladimir Platov 

Fonte: journal-neo.org

tratto da comedonchisciotte.org

Da “il Giornale” il 15 marzo 2022.

Le attività militari biologiche in Ucraina «sono una preoccupazione della comunità internazionale: dozzine di laboratori biologici nel Paese sono gestiti per ordine del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e gli Usa hanno investito più di 200 milioni di dollari nelle loro attività».

È il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, ad attaccare le operazioni americane in Ucraina, supportando le «preoccupazioni» denunciate dalla Russia nel Consiglio di sicurezza Onu. «La ricerca Usa mira a creare un meccanismo per la diffusione di agenti patogeni mortali», ha detto.

Arsenale di illegalità. La guerra chimica e tutte le armi scorrette che sta usando l’esercito di Putin. Matteo Castellucci su L'Inkiesta il 15 Marzo 2022.

Missili termobarici, bombe a grappolo, attività biologiche militari: la Russia sta adoperando qualsiasi mezzo per cercare di venire a capo di un conflitto in cui, almeno per il momento, non riesce a ottenere quel che vorrebbe.

Quando la Russia nega categoricamente qualcosa, di solito poi la fa. Le smentite plateali hanno preceduto le invasioni di Georgia, Crimea e dell’Ucraina che, secondo l’ultima formulazione della propaganda del Cremlino, non hanno nemmeno «attaccato per primi». 

Fanno parte dello stesso cerimoniale anche le accuse agli Stati Uniti di minacce biologiche (inventate) e le illazioni della Cina su fantomatici laboratori. Suona, anche nella cronologia, come un’apologia preventiva ai crimini di guerra e fa temere che le armi chimiche siano la prossima voce nell’arsenale di illegalità, oltre ai missili termobarici e alle bombe a grappolo già sparate sui civili ucraini.

Il segnale da non sottovalutare, secondo l’amministrazione americana, è proprio la convergenza tra i russi e Pechino. L’allineamento coinvolge sia i media di Stato, come il colosso televisivo CCTV, sia i vertici, con il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, che ha ripetuto le teorie cospirative scandite dall’impassibile capobanda della diplomazia putiniana, Sergej Lavrov.

A Lijian, e quindi al governo comunista, le mistificazioni sulle «attività biologiche militari» fanno comodo per imputare all’Occidente una pandemia cominciata a Wuhan.

Sono a favore della Russia più della metà dei post più virali condivisi dai media cinesi sul social Weibo, durante i primi otto giorni di guerra.

In molti casi, ha scoperto un’analisi della Cnn, le informazioni riportate dalle testate erano le stesse degli organi ufficiali del Cremlino. «Dopo le falsità della Russia, con la Cina che ha appoggiato questa propaganda – ha detto la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki – dobbiamo aspettarci un possibile uso di armi chimiche o biologiche da parte della Russia in Ucraina». Al Pentagono non risulta che siano state impiegate sul campo. Almeno per adesso.

«Se vuoi conoscere i piani della Russia, guarda cosa la Russia accusa gli altri di pianificare», profetizza il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. È il teorema del Cremlino. Va così ogni volta. Imboccati dall’alto, i media hanno tacciato i ribelli siriani di stare assemblando armi chimiche, poco prima che Mosca ne avallasse l’utilizzo.

In Siria, l’aviazione di Bashar al Assad, alleato dello zar, ha colpito i civili con bombe al cloro e li ha soffocati con il sarin, un gas nervino: si stima che siano avvenuti trecento attacchi di questo tipo nel Paese.

In teoria, la Russia fa parte dei 193 Paesi che hanno sottoscritto la Convenzione sulle armi chimiche (Cwc) del 1997. Non istituisce solo il divieto di adoperarle, ma tra gli impegni al disarmo vincola i firmatari a smantellare gli arsenali. Prevede ispezioni e controlli. Agli osservatori internazionali risulta che sia stato disinnescato il 99% dell’armamentario degli Stati aderenti. Il dato sembra da aggiornare di fronte alla condotta dell’autocrazia di Vladimir Putin negli ultimi anni, tra i teatri di guerra e il tentativo di avvelenare i dissidenti, su tutti Alexei Navalny.

«Per la Russia – ha scolpito un editoriale su Global Biodefence – riesumare l’utilizzo dell’agente nervino Novichok con l’obiettivo di assassinare è un chiaro segnale che non solo al Cremlino non importa niente il rispetto degli impegni presi con la Convenzione sulle armi chimiche, ma sembra trarre una particolare soddisfazione nel violarli. Da questo punto di vista, Putin ha preso in prestito una pagina dal manuale del presidente siriano Assad su come usare le armi chimiche per indebolire l’opposizione e rafforzare la solidità del regime».

Il conflitto in Ucraina viene paragonato da diversi analisti a quello in Siria. Per l’avanzata difficoltosa e la resistenza a oltranza, per la brutalità indiscriminata, per le vittime civili, per la fuga di massa di profughi verso l’Europa e per le devastazioni patite dalle città. E c’è appunto lo spettro delle armi chimiche. Ma il Cremlino sta già giocando sporco, lo ha fatto fin dall’inizio.

L’esercito russo sta sparando missili termobarici. Lo ha confermato il ministero della Difesa britannico. Sono stati dislocati in Ucraina i lanciarazzi multipli TOS-1A, già impiegati massicciamente in Afghanistan e in Cecenia. Anche se questi armamenti non sono banditi, è proibito utilizzarli contro i civili.

I razzi termobarici montano un recipiente di combustibile e due cariche: lo scoppio della prima serve a disperdere il liquido infiammabile, quello della seconda a dargli fuoco mentre è ancora in aria. Il risultato è un’onda di fiamme e calore. Risucchiano l’ossigeno e creano un fortissimo sbalzo di temperatura che danneggia gli organi interni, a partire dai polmoni. I cingolati corazzati russi possano lanciare 30 missili in 15 secondi, con un raggio di sei chilometri.

È accertato anche l’uso di bombe a grappolo in Ucraina. Mosca (come Cina e Stati Uniti) non ha mai ratificato il trattato che mette al bando questo tipo di ordigni, che rilasciano una pioggia di altre munizioni più piccole che scoppiano al contatto con l’obiettivo, oppure si appoggiano al suolo come mine. Per l’Onu si tratta a tutti gli effetti di un crimine di guerra: l’ennesimo, e sono ancora negli occhi dell’opinione pubblica mondiale le immagini dell’ospedale di Mariupol bombardato.

Le bombe a grappolo sono pericolose perché possono restare inerti a lungo. Ancora nel 2015, le bombe a dispersione hanno ucciso 417 persone: più di un terzo erano bambini. La maggior parte di loro in Siria (248), dove Putin era appena intervenuto al fianco di Assad, Yemen (104) e Ucraina (19).

Per gli attivisti della Coalizione contro le bombe a grappolo c’è un legame tra la Russia e l’uso di questi esplosivi, da settembre 2015, nei territori in mano all’opposizione siriana. Mosca, che in una lugubre eco di quel periodo sta reclutando ex miliziani del’Isis per mandarli a combattere in Ucraina, ha sempre rigettato ogni responsabilità. Le menzogne dell’ultimo periodo autorizzano ad avere qualche dubbio.

In Europa, le armi chimiche non avvelenano (almeno secondo la cronistoria ufficiale, che sul loro utilizzo nei Balcani è divisa) un campo di battaglia da più di un secolo. Gli ultimi a impiegarle sono stati gli inglesi nel 1919, come ha fatto notare l’Economist, durante la guerra civile russa. Nel 2018, Stati Uniti, Francia e Regno Unito hanno risposto coi bombardamenti alle armi chimiche di Assad. Chissà se oggi «basterebbe» per convincere le potenze democratiche – così attente a non provocare Putin, che intanto però continua ad alzare la posta, in un’escalation di complicità – a smettere di negare agli ucraini, riforniti di equipaggiamento, almeno la no fly zone.

Armi chimiche e biologiche: che cosa sono e perché se ne parla per la guerra in Ucraina. Federico Giuliani su Inside Over il 12 marzo 2022.  

Dall’ipotesi di una guerra nucleare al rischio che una della parte coinvolte nel conflitto in Ucraina possa utilizzare armi chimiche o biologiche. La Russia ha chiesto una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sui presunti programmi di guerra biologica degli Stati Uniti in Ucraina. I riflettori si sono subito accesi su un tema caldissimo, tra accuse, propagande incrociate, smentite e controaccuse. Al di là dello scenario politico, che proveremo comunque a ricostruire, che differenza c’è tra armi chimiche e biologiche? Perché sono così pericolose? Potrebbero davvero essere utilizzate a Kiev e dintorni?

Che cosa sono le armi chimiche

Anche se spesso i due termini tendono a essere confusi e scambiati tra loro, armi chimiche e armi biologiche non sono affatto sinonimi. Per quanto riguarda le prime, possono essere definite sostanze chimiche impiegate per causare danni intenzionali o morte per via delle loro proprietà altamente tossiche. Rientrano nella categoria anche dispositivi, munizioni e apparecchiature programmate e sviluppate per armare sostanze chimiche tossiche.

Rientrano nella lista tanto le sostanze tossiche quanto i loro precursori che, mediante le rispettive proprietà chimiche, possono provocare danni permanenti a uomini o animali, incapacità più o meno temporanea e, ovviamente, morte. In altre parole, un’arma chimica è un qualsiasi strumento usato per lanciare, creare o rilasciare sostanze chimiche in grado di generare quanto sopra spiegato. Alcuni esempi di tali strumenti sono missili, proiettili di artiglieria, mine, certi tipi di carri armati, missili e bombe.

Ricordiamo che le armi chimiche sono vietate ai sensi della Convenzione sulle armi chimiche (Cwc), in vigore dal 29 aprile 1997 e attuata dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opcw).

I tipi di armi chimiche

Scendendo nel dettaglio, le armi chimiche più conosciute dai non addetti ai lavori sono gli agenti soffocanti (pensiamo ai gas) che, una volta dispersi nell’atmosfera, colpiscono polmoni, gola e naso generando danni alle vie respiratori. Citiamo a questo proposito la Cloropicrina (Ps), il Difosgene (Dp), il Cloro (Cl) e il Fosgene (Cg).

Le armi chimiche più comuni sono tuttavia i cosiddetti agenti blister, ovvero sostanze oleose che, mediante contatto o inalazione, agiscono come veleni per le cellule umani o irritanti. Vengono dispersi come vapori, gas o polveri, e i loro effetti sono ben chiari: bruciore all’apparato respiratorio, agli occhi e alla pelle. In questa categoria rientrano mostarda di azoto e di zolfo, lewisite e fosgene ossima.

Abbiamo poi gli agenti del sangue, i quali determinano il soffocamento e altri danni agli organi vitali grazie alla loro caratteristica di alterare la capacità delle cellule di usare o trasferire l’ossigeno. Citiamo il cloruro di cianogeno, l’arsina e l’acido cianidrico, e cioè gas a dispersione.

Passiamo quindi agli agenti nervini, forse le armi chimiche più letali della lista. Agiscono per contatto o inalazione e il loro funzionamento consiste nel bloccare un enzima del sistema nervoso del soggetto colpito. In pochissimo tempo provocano iperstimolazione di muscoli, nervi e ghiandole. Così facendo generano convulsioni, paralisi e morte. Troviamo due gruppi, il G e il V, diversi a seconda della persistenza nell’ambiente. Le più conosciute sono il Tabun, il Soman, la Ciclosarina, il Vx e il Sarin.

Che cosa sono le armi biologiche

Si definiscono armi biologiche quelle armi basate su agenti microbiologici nocivi o tossine da essi prodotte e usate attraverso particolari strumenti idonei a diffonderne la contaminazione in territori e popolazioni nemiche. L’enorme differenza che le contraddistingue dalle armi chimiche è che le armi biologiche sono composte da microrganismi già presenti in natura, e dunque non lavorati o sintetizzati in laboratorio per via artificiale. Il loro costo di fabbricazione è piuttosto basso e, inoltre, è complicato individuarne l’utilizzo da parte di un esercito.

In generale, armi sili operano in un lasso di tempo piuttosto esteso. Si tratta, infatti, per lo più di virus, batteri o altre tossine che riescono a diffondersi nella popolazione o nell’esercito avversari. Citiamo l’antrace, il botulino, alcune forme di peste e il vaiolo. Questi – e altri tipi di microrganismi – vengono conservati in laboratorio pronte per essere utilizzate nel momento più opportuno.

Anche in questo caso, ricordiamo che la Convenzione sulle armi biologiche, entrata in vigore nel 1975 e alla quale hanno aderito 183 Stati, vieta lo sviluppo, la produzione e lo stoccaggio di armi batteriologiche e tossiche. Impone, inoltre, la distruzione degli stock esistenti.

Quali sono le armi biologiche

Da un punto di vista tecnico le armi biologiche si suddividono a seconda della loro tipologia. Troviamo le armi virali, come ad esempio il Marburg U, capace di eliminare una persona in circa 72 ore provocando una febbre emorragica; ci sono poi gli agenti batteriologici come la peste; e infine i biologici a effetto indiretto, tra i quali il botulino, che danneggiano l’organismo umano sprigionando tossine.

Gli esperti ritengono che uno dei metodi di utilizzo più efficaci per usare tali armi consista nella dispersione di particelle di aerosol contenenti microbi infettivi. Al contrario, l’uso di dispositivi esplosivi, la contaminazione di acqua e cibo oppure la trasmissione da vettori animali, sono considerati meno efficaci.

L'ombra delle armi chimiche/biologiche in Ucraina

Tutto è iniziato da un’accusa lanciata dalla Russia nei confronti degli Stati Uniti. Il Ministero degli Esteri russo ha scritto che “gruppi radicali ucraini, sotto il controllo dei rappresentanti dei servizi speciali statunitensi, hanno preparato diversi potenziali scenari di utilizzo di sostanze chimiche tossiche per realizzare delle provocazioni. Il loro obiettivo è accusare la Russia dell’uso di armi chimiche contro i civili”.

La risposta della comunità internazionale non ha tardato ad arrivare. “L’Onu non è a conoscenza di alcun programma di armi biologiche in Ucraina”, ha dichiarato l’Alto commissario delle Nazioni Unite per il disarmo, Izumi Nakamitsu, intervenendo alla riunione del Consiglio di sicurezza Onu chiesta da Mosca per formulare le sue accuse. Nakamitsu ha però affermato che, a differenza delle armi chimiche, non esiste un regime di verifica indipendente per le armi biologiche e il monitoraggio è lasciato agli Stati che hanno aderito alla Convenzione, ma ha affermato che esiste un meccanismo per quegli stati parti per esprimere le loro preoccupazioni.

L’ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite, Linda Thomas-Greenfield, ha accusato la Russia di aver convocato una riunione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite “solo per diffondere bugie e disinformazione sull’Ucraina e sulle armi chimiche”. Greenfield ha sottolineato che gli Stati Uniti ritengono che potrebbe essere la Russia ad utilizzare armi chimiche o biologiche come parte di un incidente da utilizzare come pretesto o per supportare operazioni militari tattiche.

Nel frattempo risuonano le parole di Joe Biden: “Non posso parlare a nome dell’Intelligence, ma la Russia pagherebbe un prezzo molto alto se dovesse usare armi chimiche”. Un termine che, negli ultimi giorni, sta pericolosamente prendendo troppo campo per essere ignorato.

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LA GUERRA ENERGETICA.

Estratto dall'articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” il 12 settembre 2022.

Viene da "caos" la parola gas, inventata dall'alchimista fiammingo van Helmont (1557-1644). Gli pareva, ci avverte Savinio (Nuova Enciclopedia, Adelphi), che il "vapore sottile", che sarebbe stato poi chiamato anidride carbonica, somigliasse alla sostanza imponderabile del caos, aria fissa e massa informe, il vuoto di materia che, secondo Platone, diede origine a tutte le cose. 

Duemilacinquecento anni dopo, dunque, il caos della filosofia greca è il gas che racconta il nostro tempo di rigassificatori negati, di rubinetti che si chiudono e bollette che rincarano, del tubo di acciaio che dalla Russia, attraversando la Mongolia, arriverà in Cina.

Gas è il monosillabo che racchiude "un mondo in cui spaventose energie, e non parlo solo degli arsenali nucleari, dormono di un sonno leggero" scrisse Primo Levi, che era un chimico, narratore della tavola degli elementi (Il sistema periodico, Einaudi), amico dell'Idrogeno, che è il più leggero dei gas, e discendente dell'Argon, che è il più nobile dei gas. Ma, ci spiega la filologia, avendo gas e caos la stessa radice dei verbi greci dell'ottimismo, il campo semantico si allarga.

Così, al di là delle apparenze, il caos della matematica è lo stesso delle acque gassate. E l'effervescenza in bottiglia è lo stesso subbuglio delle città: caos e gas di scarico, dare gas e sentirsi gasati nel caos calmo, nel fuoco che produce gas e nel gas che diventa fuoco, anche quello delle passioni tossiche di Gianna Nannini: "Quest' amore è una camera a gas".  […] 

E sullo sfondo del Grande Disordine c'è sempre Pirandello che nacque nella contrada Caos, "il luogo dove avvengono i naufragi". E però, a ricordarci che ben prima dello scellerato Putin, la parola gas rimandava alla guerra e alla morte, c'è ancora Primo Levi che, nel suo memorabile ultimo articolo intitolato "Il buco nero di Auschwitz", scrisse che era stato il "gas prodotto da illustri fabbriche chimiche tedesche" a garantire l'eliminazione fisica di milioni di persone con metodo industriale. E oggi quel gas torna a dare la morte di Stato nelle prigioni della Carolina e persino in Italia dove i detenuti si suicidano sniffando le bombolette che alimentano i fornelli.

"Esplodere o implodere, questo è il problema" si chiedeva Italo Calvino (Cosmicomiche - Einaudi) facendo il verso all'Amleto: "che sia più nobile intento espandere nello spazio la propria energia senza freno, o stritolarla in una densa concentrazione interiore e conservarla ingoiandola". 

Schiavitù volontaria. Così l’Europa si era venduta al Cremlino per avere forniture di gas. Alberto Clo Linkiesta su il 14 Settembre 2022.

Rileggendo gli episodi del passato recente alla luce della situazione attuale, Alberto Clò mette in risalto nel suo libro (Il Sole 24 Ore) l’incredibile leggerezza con cui paesi come la Germania (ma anche l’Italia) abbiano chiuso gli occhi di fronte alle violenze della Russia in nome dell’energia

È davvero sconcertante osservare che nonostante i fatti della Georgia e i numerosi moniti che si levarono verso l’Europa perché allentasse le sue importazioni del gas russo, queste dopo il 2008 sono addirittura aumentate di oltre il 50% passando da livelli intorno ai 100 miliardi di metri cubi nel 2010 ai 155 miliardi registrati nel 2021. La Russia è diventata così di gran lunga il primo fornitore di energia dell’Europa: col 40% delle sue complessive importazioni di metano, il 25% di quelle di petrolio, il 55% di quelle di carbone, il 20% di quelle di uranio.

Percentuali che Putin aveva saputo guadagnare in un lungo arco di tempo, da quando operava come agente del KGB in Germania, di cui parlava la lingua; stringendo stretti rapporti personali soprattutto col cancelliere Gerhard Schröder. L’8 settembre 2005, una settimana prima delle elezioni che avrebbero portato al lungo cancellierato di Angela Merkel, Schröder firmò con Vladimir Putin il grande accordo per la costruzione del Nord Stream 1 – finalizzato ad aggirare l’Ucraina e indebolire i Paesi dell’Europa dell’Est – suscitando la rabbiosa reazione della Polonia che lo definiva come il «Molotov-Ribbentrop Pipeline» richiamando l’accordo russo-tedesco del 1939 che mirava a spartirsi la Polonia. Varsavia, per anni, per ritorsione, avrebbe votato contro ogni deliberazione europea che richiedesse l’unanimità dei voti dei Paesi membri.

Alcuni mesi dopo Putin nominò l’ex-cancelliere presidente del consorzio che avrebbe costruito il gasdotto suscitando forti reazioni nell’intera Europea. «Il Cancelliere uscente ha venduto la Germania ai voleri del Cremlino» chiosò André Glucksmann mentre Schröder definiva l’amico Vladimir un «impeccabile democratico». Non meno rilevante è stata la sua nomina anche nel board di Rosneft pochi giorni prima dell’invasione della Ucraina. Putin cercò di arruolare anche Romano Prodi per presiedere la società che avrebbe dovuto costruire il South Stream ma l’ex premier rifiutò nonostante i buoni rapporti personali.

Dal punto di vista dei rapporti russo-tedeschi non vi sarà alcuna discontinuità tra i cancellierati di Angela Merkel e Gerhard Schröder. Anzi. Dal 2005 l’interdipendenza sarebbe infatti enormemente cresciuta, non solo ampliando la quota delle importazioni di energia da Mosca su quelle complessive – col 60% per il gas, 34% per il petrolio, 53% per il carbone.

Di grande importanza fu la scelta strategica di Gazprom già alla fine degli anni Ottanta di volersi integrare a valle nella filiera metanifera, distribuendo il gas al consumatore finale anziché cederlo al confine. Quel che gli avrebbe consentito di raddoppiare i margini di profitto. Quando Ruhrgas, il principale operatore metanifero tedesco (poi fusasi con E.ON) rifiutò di farla entrare, Gazprom si accordò con Wintershall, controllata dall’impresa chimica BASF, creando Wingas nella distribuzione finale. Come si è visto, tentò di farlo senza successo anche in Italia, nonostante il rapporto tra Berlusconi e Putin.

Il massimo di apertura di credito della Germania a Gazprom fu comunque l’incondizionato affidamento di un quinto della capacità di stoccaggio del gas del Paese, primo strumento per la sicurezza energetica, Dovendo poi amaramente pentirsene quando nel 2021 iniziò la manovra di Putin di pressione sull’Europa e il colosso russo non provvide ad alimentare i siti di stoccaggio.

Lo status di “maggior favore” riconosciuto dalla Germania al gas di Putin ha reso ancor più evidente, nei tragici giorni d’oggi, i gravi errori compiuti da Berlino nello scorso mezzo secolo. I convincimenti, in particolare, che la Russia fosse un fornitore e partner affidabile; che il gas non sarebbe mai diventato un’arma di pressione politica; che politica e business potessero rimanere scissi. Errori perpetrati nei tempi più recenti con l’affrettata decisione per ragioni squisitamente elettorali di Angela Merkel nel 2011 di uscire dal nucleare (delle 17 centrali nucleari solo 3 sono ancora in esercizio) seguita da quella del 2018 di uscire dal carbone. Decisioni, l’una e l’altra, che si sarebbero riverberate sulla domanda di gas naturale, stante anche l’insufficiente progredire della transizione energetica verso le rinnovabili, di cui il gas avrebbe dovuto costituire la fonte energetica “ponte”.

Che la prima economia industrializzata d’Europa si sia venuta a trovare in totale balia delle decisioni della Russia, mal si concilia col sentimento di superiorità che specie nei lunghi anni di Angela Merkel la Germania ha avuto verso il resto d’Europa. Della partnership con Mosca tuttavia ne paga oggi maggiormente le conseguenze. Putin va infatti riservando un particolare accanimento all’ex-alleato, col progressivo taglio delle forniture di gas sino ad azzerarle attraverso il gasdotto Nord Stream 1, motivato per necessità di manutenzione. Il ministro dell’Economia Robert Habeck ha definito le decisioni di Mosca come un «attacco economico» annunciando un aumento del livello di allarme per i rischi di interruzione delle forniture russe.

Per circa mezzo secolo il maggior esportatore di gas nel mondo ha rifornito la maggior economia europea destinandole un quinto delle sue complessive esportazioni. In Germania, come in Italia, le relazioni energetiche con la Russia risalivano a un tempo lontano. Da quando nel 1955 il cancelliere Konrad Adenauer avviò i rapporti diplomatici con l’Unione Sovietica cui fece seguito nei primi anni del 1960 un’intesa per la fornitura da parte della Germania di tubature per l’oleodotto Druzhba (“Friendship Pipeline”), suscitando la preoccupata reazione dell’amministrazione Kennedy intenzionata a decretare un embargo, via NATO, a quelle forniture.

Ne seguì invece nel 1970 la storica intesa “pipe for gas” con la Germania che forniva in cambio di forniture di gas delle tubature per veicolarlo dalla Repubblica Ceca alla Baviera, favorita dalla Ostpolitik avviata dalla Germania del cancelliere Willy Brandt con l’Unione Sovietica, che sottintendeva lo scambio tra gas, petrolio, carbone e normalizzazione dei rapporti con la Repubblica Federale Tedesca e gli altri Paesi del blocco orientale. Da allora, la Russia allargava progressivamente la sua sfera di influenza, da un lato, sui Paesi confinanti un tempo satelliti e, dall’altro, sui Paesi europei, come «membro della “famiglia europea” nello spirito, storia e cultura» come ebbe a scrivere Putin, preferendo la via degli “accordi bilaterali”, nella più classica tradizione del divide et impera, a quella di un’intesa globale con l’Unione Europea, forte dell’assenza di una sua coerente politica di sicurezza energetica.

Privi di una qualsiasi parvenza di politica europea, i singoli Stati – specie quelli che acquistavano da lungo tempo gas russo – avrebbero deciso individualmente le loro politiche di approvvigionamento, forti della sovranità riconosciuta dalle normative comunitarie, magari correndo a Mosca «per negoziare da soli il prezzo della propria debolezza».

La difficoltà a forgiare una comune politica energetica interna avrebbe impedito il simmetrico formarsi di una comune politica energetica estera, per l’incapacità dell’Unione, a dire di Jacques Delors, «di esercitare pienamente il suo peso economico, commerciale, politico nelle relazioni con i Paesi produttori e di transito». La conclusione è che gli Stati europei non hanno mai ritenuto che la costruzione di un mercato unico consentisse di rafforzare la loro sicurezza energetica che, oggi come un tempo, reputano di massimizzare agendo individualmente.

In buona sostanza, e questo è il punto dirimente, la sicurezza energetica non è stata mai considerata dagli Stati come un «comune interesse» che richiederebbe uno spirito di solidarietà estraneo alla loro volontà. Con l’amara conclusione che la sfida all’insicurezza energetica deve, dovrebbe, conseguirsi all’interno dei confini europei ancora prima che al loro esterno.

La conclusione che ci sembra di poter trarre è che la dipendenza europea dal gas russo se è riconducibile a ragioni di convenienza economica e di prossimità geografica, lo è anche per ragioni squisitamente politiche. Quel che è confermato, a mio avviso, dal convincimento della Commissione e da tutti i Paesi europei di potersi liberare dalla nefasta dipendenza dal gas russo in tempi relativamente brevi. Che lo si sia capito solo a seguito della guerra a cui stiamo assistendo rende la cosa ancor più incredibile.

Rileggendo il dipanarsi delle vicende russe in campo energetico, specie dopo la salita al potere di Vladimir Putin, non può che sorprendere il fatto che al moltiplicarsi delle sue aggressioni, minacce, ritorsioni – dalle interruzioni delle forniture all’Ucraina nel 2006 e 2009 alla breve ma cruenta guerra in Georgia del 2008 – i Paesi europei non abbiano minimamente cercato di arginare la loro dipendenza energetica, ma che, al contrario, l’abbiano ogni volta innalzata. Una politica che ha finito per accrescere e rafforzare il potere di Putin forte della loro debolezza e accondiscendenza.

da “Il ricatto del gas russo. Ragioni e responsabilità”, di Alberto Clô, Il Sole 24 Ore, 112 pagine, 16 euro

Estratto dell’articolo di Stefania Maurizi per “il Fatto quotidiano” il 5 settembre 2022.

[…] Perché, dal 2008 in poi, quando i diplomatici americani iniziarono a mettere in guardia il nostro paese, nessuno ha preso sul serio l'allarme?  [...] Con 14 anni di tempo a disposizione, che cosa è stato fatto per diversificare le fonti di approvvigionamento, in modo da mettere in sicurezza la nostra economia, prima che si arrivasse a una grave crisi? Sono domande inevitabili, se si leggono le corrispondenze segrete (cablo) della diplomazia statunitense, che riguardano gli anni dalla fine del 2001 a febbraio del 2010.

Documenti autorevoli e resi pubblici dall'organizzazione di Julian Assange, WikiLeaks, nel 2010. […]  La questione della Russia di Putin e della dipendenza energetica del nostro paese da Mosca vengono descritte dall'ambasciatore Ronald Spogli […] come "un motivo di attrito in quella che è, altrimenti, una relazione quasi senza alcuna forma di attrito. Berlusconi gestisce direttamente la relazione con Mosca".

Due erano i sospettati principali: l'Eni e Berlusconi. "L'Eni è parte di un complotto del Cremlino?", si chiedevano i diplomatici Usa, analizzando quella che, secondo loro, era una precisa strategia politica della Russia di Vladimir Putin: stringere l'Europa in una morsa, con il ricatto dell'energia. 

Nell'aprile del 2008, discutono anche della necessità di mandare "duri messaggi all'amministratore delegato dell'Eni, Paolo Scaroni". Ma Scaroni non sembra turbato. Racconta ai diplomatici americani: "Più conosco i russi, più sono preoccupato", ma descrive la relazione Eni-Gazprom come "perfetta": burocratica, "ma affidabile".

[…] La relazione speciale tra Putin e Berlusconi viene analizzata e ricondotta a molteplici fattori, tra cui il desiderio di quest' ultimo di essere trattato da statista di profilo internazionale. 

I sospetti di un suo interesse economico personale, però, ricorrono nei documenti e vengono riportati con parole molto esplicite: "I [nostri] contatti sia nel partito di opposizione di centrosinistra, il Pd, sia in quello di Berlusconi, il Pdl, tuttavia, hanno insinuato una relazione più nefanda", scrive Spogli nel gennaio del 2009, "credono che Berlusconi e i suoi sodali stiano traendo un profitto personale ed enorme dai molti affari energetici tra l'Italia e la Russia".  […]

«L’Italia è l’unico Paese del G7 a non utilizzare il nucleare». Pagella Politica.it il 23 agosto 2022.

Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Regno Unito e Giappone hanno centrali nucleari operative, con differenze sui piani di sviluppo futuri. 

Il 23 agosto il leader di Azione Carlo Calenda ha rilanciato sui social la proposta di reintrodurre in Italia l’uso dell’energia nucleare, scrivendo che l’Italia è l’unico Paese del G7, che raggruppa le sette maggiori potenze economiche a livello mondiale, a non utilizzarla.  

Sul piano di Azione per riportare il nucleare in Italia abbiamo scritto più nel dettaglio in passato, qui. Ma è vero che il nostro Paese è l’unico del G7 senza nucleare? Abbiamo verificato e Calenda ha ragione.

Il G7 e il nucleare

I Paesi membri del G7 sono: Italia, Stati Uniti, Canada, Giappone, Francia, Germania e Regno Unito. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, una delle principali organizzazioni che si occupa dell’uso pacifico del nucleare nel mondo, fatta eccezione per l’Italia, tutti i Paesi del G7 hanno centrali nucleari. 

Nel 2021 gli Stati Uniti hanno prodotto quasi il 20 per cento della loro energia elettrica con il nucleare; il Canada poco più del 14 per cento; il Regno Unito quasi il 15 per cento; la Germania circa il 12 per cento (qui il governo è indeciso se fermare entro la fine dell’anno le ultime centrali operative); la Francia il 69 per cento; il Giappone il 7 per cento. A oggi, negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Giappone e in Francia sono in costruzione nuovi reattori nucleari (in alcuni casi con aumenti dei costi e dei tempi di costruzione rispetto ai tempi preventivati), mentre in Canada e Germania no. 

Tra i membri del G20, l’altra organizzazione che raggruppa i 20 Paesi più industrializzati al mondo, le nazioni che non fanno ricorso all’energia nucleare sono al momento cinque, compresa l’Italia. A questa si aggiungono Australia, Arabia Saudita, Indonesia e Turchia (dove però è in costruzione una centrale). Tra i 27 Paesi dell’Unione europea, quelli senza centrali nucleari sono 14.

Il verdetto

Secondo Carlo Calenda, l’Italia è l’unico Paese del G7 a non utilizzare l’energia nucleare. L’affermazione del leader di Azione è corretta: Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Regno Unito e Giappone hanno centrali nucleari operative, con differenze sui piani di sviluppo futuri.

Nucleare in cambio di gas: torna l’asse Parigi-Berlino. Francesca Pierantozzi Martedì 6 Settembre 2022 su Il Messaggero / Il Mattino

La sovranità europea, il gas, l’elettricità, il price cap, perfino il nucleare: sono in perfetta sintonia Emmanuel Macron e Olaf Scholz e l’asse tra Berlino e Parigi non è mai parso tanto solido come ieri, al termine della videoconferenza tra il presidente francese e il cancelliere tedesco. Assente l’Italia, che pure dall’inizio della crisi è sempre stata in prima linea grazie al presidente del Consiglio Mario Draghi. Ma le geometrie nell’Europa della guerra e della crisi energetica appaiono sempre più variabili, e ieri sono state la «solidarietà del gas» e la «solidarietà elettrica» a fare da collante tra le due capitali europee. Già giovedì scorso Macron aveva tenuto a salutare pubblicamente il discorso sull’Europa pronunciato a Praga dal collega tedesco. Scholz si è detto a favore dell’allargamento della Ue fino a «30 e anche 36 membri», ma ha anche lanciato un appello a favore della fine del diritto di veto per evitare le cicliche paralisi istituzionali. «Saluto il discorso di Scholz – ha detto Macron davanti ai suoi ambasciatori riuniti all’Eliseo – sono parole che vanno nello stesso senso della strategia francese per un’Europa più forte e più potente». La sintonia franco-tedesca è stata confermata ieri in un colloquio a distanza sull’energia e la strategia per superare i rigori invernali e l’annunciato taglio ai rifornimenti di gas russo. 

Parigi e Berlino si sono messe d’accordo su uno scambio bilaterale gas-elettricità: «Aiuteremo con il nostro gas e in cambio beneficeremo dell’elettricità dalla Germania» ha sintetizzato Macron in una conferenza stampa all’Eliseo. La Francia si è impegnata a esportare più gas in Germania, che in cambio fornirà più energie elettrica alla Francia, in difficoltà con la produzione nazionale a causa di una diminuzione di produzione nelle centrali nucleari, molte delle quali ferme per manutenzione. «Abbiamo bisogno di solidarietà – ha ripetuto più volte Macron – questa solidarietà franco-tedesca si iscrive più ampiamente in una solidarietà europea. Contribuiremo alla solidarietà europea in materia di gas e beneficeremo della solidarietà europea in materia di elettricità - ha sottolineato il presidente francese - nelle prossime settimane e mesi questo si tradurrà dal punto di vista franco-tedesco in modo molto concreto. Finalizzeremo i necessari collegamenti per poter fornire gas alla Germania ogni volta che ce ne sarà bisogno». «Allo stesso modo - ha continuato Macron - la Germania si è impegnata ad una solidarietà elettrica nei confronti della Francia e si metterà nella condizione di avere più elettricità da fornirci, soprattutto nelle situazioni di picco. Questa solidarietà franco-tedesca è l’impegno che abbiamo preso con il cancelliere Scholz». Macron ha anche ribadito la sua posizione a favore di «pratiche di acquisto comune di gas in Europa», per mantenere i prezzi «più bassi».  Altra arma cui Parigi intende ricorrere per contrastare l’aumento dei costi dell’energia: «Un meccanismo di sovvenzioni europee ai paesi che ne hanno più bisogno, ricavato da un contributo richiesto agli operatori energetici, i cui costi di produzione sono ora molto inferiori ai costi dell’energia a causa di un funzionamento distorto del mercato». Macron ha parlato di una convergenza franco-tedesca anche nella difesa di «questo meccanismo di contributo europeo»: se non si riuscirà ad avere un approccio comune a livello dell’Europa, ha precisato il presidente dall’Eliseo, «allora lo faremo a livello nazionale». 

In compenso il presidente francese non vede di buon occhio il progetto Midcat, che prevede la costruzione di un nuovo gasdotto tra Francia e Spagna, progetto invece sostenuto da Madrid e Berlino: «In Europa ci servono più interconnessioni elettriche ma non son convinto che ce ne servano altre per quanto riguarda il gas, il cui impatto sull’ambiente e l’ecosistema sono importanti – ha detto Macron - nessuno studio ci dimostra che ci sia questa necessità». Infine, ai francesi Macron ha chiesto di diminuire del 10 per cento i loro consumi. È la “sobrietà volontaria” che consentirebbe al paese di affrontare l’inverno con tranquillità. Se i francesi non riusciranno a essere virtuosi spontaneamente, lo stato dovrà intervenire con misure coercitive che potrebbero arrivare fino al razionamento. «La soluzione è nelle nostre mani – ha detto il presidente – tocca a noi». In Germania, Scholz ha deciso di correre ai ripari temporeggiando sulla annunciata fine del nucleare. Per far fronte a eventuali penuria di energia, il cancelliere ha deciso di tenere per il momento «in stato di veglia» fino alla primavera del 2023 due delle ultime tre centrali nucleari ancora in funzione e che avrebbero dovuto essere definitivamente chiuse entro la fine dell’anno. 

Perché il mondo non riesce a fare a meno del petrolio. Guerra in Ucraina, pandemia, inflazione: il prezzo scende, ma resta troppo alto. Biden fallisce la missione in Arabia Saudita. E la transizione green si allontana. Eugenio Occorsio  su L'Espresso il 25 luglio 2022.

Venerdì 15 luglio, mentre Joe Biden salutava, all’ingresso del palazzo Al Salam di Gedda, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman con il “fist bump”, il pugnetto reso celebre dal Covid, le quotazioni del petrolio scendevano a 95 dollari al barile, esattamente il livello del 23 febbraio, vigilia dell’aggressione russa all’Ucraina. Biden era lì per convincere il regno di Saul ad aumentare la produzione di petrolio di almeno 750mila barili al giorno, arrivando a 11 milioni, e il paradosso è solo apparente tant’è vero che nei giorni successivi le quotazioni hanno ricominciato a salire.

Perché la Germania non estrae il suo gas, e importa quello russo? Federico Rampini su Il Corriere della Sera il 26 luglio 2022.

La Germania ha giacimenti di gas di tutto rispetto: all’inizio del millennio, estraeva in media quanto necessario per coprire un quarto della domanda nazionale. Poi la produzione è crollata, e si è messa in condizione di essere ricattata da Putin. Perché?

Gran parte delle scarsità di cui soffriamo non sono carenze «fisiche», bensì provocate ad arte da scelte politiche sbagliate. 

Vale per il gas naturale: tutti lo abbiamo in casa, tedeschi inclusi, ma non lo usiamo ed è così che siamo diventati vittime dei ricatti di Putin. 

Lui stesso, peraltro, ci ha dato un «aiutino» fomentando le paure irrazionali degli ambientalisti più fanatici a casa nostra. 

Nel giorno in cui l’Unione europea ha raggiunto un accordo sui tagli del 15% ai consumi di gas in caso di emergenza, è utile mettere a fuoco il paradosso tedesco. Lo faccio con l’aiuto di un’analisi del settimanale The Economist ricca di dati: «Germans have been living in a dream». 

Dove si scopre che la Germania, pur senza arrivare alla ricchezza di gas naturale della vicina Olanda, possiede comunque dei giacimenti di tutto rispetto. 

All’inizio di questo millennio da quei giacimenti estraeva in media 20 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno, di che soddisfare un quarto della domanda nazionale. 

Gli studi geologici dicono che le riserve gasifere sotto il suolo tedesco contengono ancora almeno 800 miliardi di metri cubi. 

Ma la produzione nell’ultimo ventennio è crollata, scendendo a quota 5 miliardi di metri cubi annui, cioè un decimo delle importazioni dalla Russia. 

La Germania, insomma, si è messa in questa situazione di estrema dipendenza e ricattabilità da parte di Putin pur senza esservi costretta. Ormai conosciamo la storia dell’ex cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder assunto da Gazprom. 

Come lui, tanti altri politici tedeschi meno famosi si sono lasciati corrompere dal denaro russo e sono diventati lobbisti al servizio di Mosca, attivandosi per rafforzare i legami di dipendenza. 

Ma c’è un altro lato di questa storia, che coinvolge l’ambientalismo al servizio della Russia. 

Una ragione per cui il gas tedesco, pur abbondante, non viene usato, è che per estrarlo bisogna fare ricorso alla tecnica detta hydraulic fracturing. Il metodo è nato nel 1947 negli Stati Uniti dove viene ampiamente utilizzato. Consiste nell’utilizzare potenti getti di acqua misti con sabbia e qualche dose di solventi chimici. 

Da molti anni l’opinione pubblica tedesca si è convinta che lo hydraulic fracturing, abbreviato anche in fracking, è pericoloso e dannoso per l’ambiente. 

Si tratta di una paura irrazionale e anti-scientifica, smentita da tutte le ricerche. Lo hydraulic fracturing venne usato a lungo nella stessa Germania, a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, e non ha mai provocato un solo incidente con danni significativi all’ambiente. 

Tant’è: il rispetto della scienza vige solo quando la scienza non contraddice le nostre convinzioni dogmatiche e le nostre angosce apocalittiche. La mobilitazione contro quella tecnica di estrazione del gas conobbe un’impennata quando la multinazionale americana Exxon nel 2008 si candidò per usare il fracking in un progetto di estrazione nella Germania occidentale. I Verdi si misero alla guida delle proteste. 

Così nel 2017 cedendo alla pressione la cancelliera Angela Merkel mise fuori legge lo hydraulic fracturing. 

Ma i Verdi non erano soli in quella campagna. Nel diffondere allarmismo sui danni del fracking si distinse Russia Today, il canale televisivo di Mosca che da decenni è uno degli strumenti della propaganda russa in Occidente. Russia Today diede spazio a reportage senza basi scientifiche, che attribuivano al fracking danni mostruosi: radiazioni, malformazioni alla nascita, problemi ormonali, scorie tossiche, avvelenamento dei pesci. Si segnalò un intervento di Putin in persona, che andò a una conferenza internazionale a descrivere le (presunte) devastazioni del fracking. 

The Economist cita un autorevole geologo tedesco, Hans-Joachim Kümpel, il quale dirigeva il consiglio superiore delle geo-scienze presso il governo di Berlino. «Alla fine rinunciammo a spiegare che il fracking è del tutto sicuro. I cittadini, che non avevano alcuna nozione di geologia, sentivano raccontare solo storie dell’orrore». 

Putin ha ottenuto quel che voleva non solo con la complicità ben remunerata di Schroeder ma anche con la collusione anti-scientifica dei Verdi. 

Il governo Scholz è costretto a varare il piano di razionamenti dell’energia elettrica per l’autunno-inverno, con chiusure a rotazione delle fabbriche. Il gas tedesco è sempre lì: sottoterra. I produttori nazionali dicono che con l’uso di nuove tecnologie per il fracking ancora più sicure, pulite e sostenibili che in passato, potrebbero raddoppiare l’estrazione in meno di due anni, tagliando le importazioni dalla Russia di 15 miliardi di euro all’anno. Glielo lasceranno fare?

Le sanzioni mettono a rischio anche il pellet. Alessandro De Pascale su L'Espresso il 18 Luglio 2022.  

La Russia è il terzo esportatore mondiale del biocombustibile. Le azioni intraprese in seguito all’invasione dell’Ucraina sono un altro colpo al fabbisogno continentale, ma a pagare il conto più salato saranno i paesi nord-europei

Vyborg, ottantamila abitanti, regione di Leningrado, Russia europea, a 30 chilometri di distanza via terra dalla Finlandia. Sulla soglia del confine con l’Unione europea, c’è uno dei più grandi impianti per la produzione di pellet al mondo: sulla carta è in grado di realizzare circa un milione di tonnellate all’anno di cilindretti di legno vergine pressato.

Visto il loro potere calorifero, quasi doppio rispetto alla normale legna da ardere, sono molto richiesti, sia dal comparto industriale, sia da quello domestico. Con questo combustibile vegetale ricavato dagli alberi, l’Europa del nord ci alimenta da tempo centrali elettriche e impianti per il teleriscaldamento. In Gran Bretagna, una vecchia centrale a carbone nello Yorkshire è stata, ad esempio, convertita a pellet.

Dalla Russia, i sacchi di questo biocombustibile arrivano anche in Italia, dove però vengono usati quasi esclusivamente nel comparto domestico (stufe e caldaie). La conversione delle centrali a carbone italiane, a differenza del Nord Europa, è del resto avvenuta a favore del gas naturale che garantisce il 42,5 per cento del fabbisogno energetico, secondo i dati dell’Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale, il 38,2 per cento del quale di provenienza russa.

Da quando Mosca ha capito che la sviluppata Unione europea ha sete di energia, Vladimir Putin ha fatto monetizzare il più possibile anche gli alberi. E la Russia è il Paese più ricco di legname al mondo: 800 milioni di ettari di foreste, all’incirca il 20 per cento di quelle globali. Il 17 per cento di tutto il legname russo si trova proprio nella regione di Leningrado, dove le foreste di conifere ricoprono oltre la metà del territorio. 

E prima dell’invasione russa dell’Ucraina, in cima all’export di pellet russo c’erano la regione di Leningrado e l’area nord-occidentale del Paese che ha quasi la metà dei 600 impianti di produzione con seimila addetti. L’Unione era tra i clienti, dal momento che la produzione autonoma copre il 70 per cento della domanda. 

Era, appunto. Perché dall’inizio del conflitto alcuni organismi di certificazione hanno sospeso il rilascio dei nulla osta di sostenibilità per il pellet prodotto in Bielorussia e Russia. Mentre l’Ue, con i propri pacchetti di sanzioni, ha imposto lo stop alle importazioni: il 4 giugno è stato bloccato totalmente quello prodotto da Minsk e il 10 luglio anche quello proveniente da Mosca. Ci sarebbe il pellet dell’Ucraina che però non può né produrlo per via della guerra, né esportarlo via mare, al pari del grano, dal momento che la Russia blocca i porti sul Mar Nero e per liberarli chiede l’eliminazione delle sanzioni internazionali.

Così c’è anche questo capitolo nel libro della crisi energetica e alimentare mondiale innescata dall’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio scorso. Ci sono ricadute, ovviamente, anche sull’economia russa per un comparto che piazza il Paese al terzo posto nell’export, dopo Stati Uniti e Canada, con un bacino prevalente, pari quasi al 90 per cento, in Europa. «Nel 2021 abbiamo esportato 2,4 milioni di tonnellate di pellet. I principali clienti sono Danimarca, Svezia, Paesi Bassi, Regno Unito, Belgio, Finlandia, Germania, Francia, Lituania ma anche la Corea del Sud e, naturalmente l’Italia», spiegano a L’Espresso i rappresentanti della United bionergy association (Uba), sigla di categoria con sede a San Pietroburgo, che rappresenta circa 45 produttori, commercianti, fornitori di servizi e associazioni di consumatori del settore. Secondo gli ultimi dati di Uba solo i loro associati viaggiavano con forniture che vanno dalle 435 mila tonnellate della Danimarca alle 60 mila italiane.

Nel nostro Paese, lo scorso anno, «sono state consumate 11,37 milioni di tonnellate di legna da ardere, 3,35 milioni di pellet e 1,36 milioni di cippato (scaglie e particelle)», spiega l’Associazione italiana energie agroforestali. L’Aiel, sede operativa a Legnaro, nel Padovano, 500 imprese della filiera legno-energia nazionale rappresentate, fa un paio di conti: «Produciamo in Italia tra le 400mila e le 450mila tonnellate l’anno di pellet. Circa l’85 per cento del nostro consumo è basato su materiale importato dall’estero, da Paesi comunitari o extracomunitari». Tra i quali per l’appunto ci sono anche Russia, Bielorussia e Ucraina.

In base alle statistiche e ai dati dei flussi commerciali internazionali presenti nel database gratuito Un Comtrade, ancora nel 2021 in Italia sono state importate 102.860 tonnellate di pellet dalla Federazione Russa; 16.913 dall’Ucraina e 1.555 dalla Bielorussia che hanno coperto il 3,6 per cento dei consumi nazionali. Ma sono dati da maneggiare con cura, dal momento che, come avverte l’Associazione italiana energie agroforestali «persino i dati doganali sono spesso incerti e imprecisi». Quindi, «più realisticamente», l’Aiel stima a L’Espresso che, «nel 2020, le forniture di pellet proveniente da Russia, Bielorussia e Ucraina siano state poco più del 10 dieci per cento del totale consumato in Italia». Destinato «quasi esclusivamente al segmento domestico e solo per una piccola quota (5 per cento) a quello commerciale.

Se lo stop alle importazioni in Italia incide per percentuali non altissime, a rischiare di patire le maggiori conseguenze è il nord del Continente. E per converso gli impianti russi, realizzati anche con il concorso di società europee. Come il maxi stabilimento di Vyborg della Vlk Llc. Attivo dal settembre 2010, realizzato dalla conversione della cartiera Vyborgskaya Cellulose (Ojsc), finanziato, secondo la rivista specializzata svedese Bioenergy International, dalla filiale francese della banca Vtb (una delle più grandi della Russia) e con attrezzature da 40 milioni di euro dell’austriaca Andritz. Dotato di un porto con 300 metri di banchine per l’attracco simultaneo di quattro navi, Vyborg ha un deposito per il legname da lavorare grande 25 ettari. E la sua storia è costellata da scandali e critiche, soprattutto sul fronte della sostenibilità ambientale da parte di numerose organizzazioni indipendenti. 

Per impossessarsi di quella che allora era solo una cartiera, l’ex senatore ed influente imprenditore di San Pietroburgo Alexander Sabadash, nel 1998, aveva assaltato gli stabilimenti con tanto di forze speciali al seguito per contrastare i picchetti degli operai. I lavoratori ebbero la meglio, prendendolo anche in ostaggio e ritardarono di due anni la ristrutturazione. Nel 2014 è finito in carcere per frode fiscale e da allora il Cremlino ne ha assunto il controllo proseguendo gli affari con l’Europa. Fino al 24 febbraio.

Estratto dell’articolo di Roberta Amoruso per “il Messaggero” il 13 luglio 2022.

Nei primi cinque mesi dell'anno l'Italia ha esportato ben 1,5 miliardi di metri cubi di gas senza trattenerli in casa. A tanto ammonta secondo un'elaborazione del Messaggero la quantità di metano entrata in Italia dall'estero, ma poi subito uscita, seppure virtualmente, per prendere altre strade più remunerative degli stoccaggi per trader ed operatori. Si tratta di una quantità clamorosa, pari al 10% del gas necessario per riscaldare le case italiane in un anno.

Ma il numero appare ancora più clamoroso se si pensa a quanto è prezioso il gas per famiglie e imprese e alla corsa che sta facendo il nostro Paese per mettere in sicurezza l'inverno di fronte alle minacce di stop del gas russo. Non solo. A ben vedere i numeri, certe operazioni finanziarie sono state messe a punto soprattutto nei primi tre mesi dell'anno, e in particolare nel mese di marzo mentre avanzava la devastazione della guerra in Ucraina e i prezzi del gas toccavano il massimo giornaliero di sempre (345 euro per megawattora), con prezzi fotografati in chiusura a livelli 9 volte quelli del 2021.

Erano i tempi in cui anche il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, parlava per la prima volta di speculazione in atto sul mercato del Ttf di Amsterdam, un'altra storia. E le famiglie pagavano il sesto aumento in bolletta, il più alto per la luce (+55%) e il gas (+41,8%). 

La buona notizia è che oggi il gioco è finito per trader e operatori soprattutto stranieri che hanno preferito lauti guadagni invece che stoccare il metano necessario per il prossimo inverno. Del resto fare scorte era troppo rischioso e costava, appunto, anche 9 volte più dell'anno precedente. E non era bastato nemmeno l'appello del governo ad anticipare eccezionalmente gli stoccaggi. […]

Da liberoquotidiano.it l'1 giugno 2022.

È un sorprendente successo l’accordo raggiunto in Europa sull’embargo del petrolio che arriva dalla Russia? La considerazione di Beppe Severgnini, editorialista del Corriere della Sera, è girata da Lilli Gruber, conduttrice di Otto e mezzo su La7, a Lucio Caracciolo, direttore di Limes ed esperto di geopolitica, che la pensa in maniera diametralmente opposta all’altro ospite dell’edizione del 31 maggio: “È un successo, sì... ma di Orban. Vladimir Putin certamente non è preoccupato da queste sanzioni. I tubi passano per l’Ungheria, ha le sue raffinerie, ha il prezzo scontato e ci guadagna di più.

Non è un embargo sul petrolio, ma sulle petroliere, una cosa che non sta in piedi, perché sappiamo bene che quello del mare è un ambiente anarchico, non sappiamo niente di quello che c’è nelle navi. Le navi cariche di petrolio Putin le può mandare in un paese, Putin le vende ad un certo prezzo e poi quel paese le rivende a degli altri paesi, con delle triangolazioni, che sono il mezzo più usato nel mondo per superare le sanzioni. Lo fanno allegramente molti paesi europei. Non mi pare che questo embargo sia nulla che possa scalfire seriamente la posizione di Putin. Dico che purtroppo Orban è stato molto abile”. 

Severgnini interviene e difende la sua posizione: “Non ci sono solo sanzioni sul petrolio, ma anche l’esclusione di grandi banche russe dal sistema Swift. C’è la misura contro i dirigenti della Chiesa Ortodossa. Mi fido della competenza di Lucio e adesso sono preoccupato anche io, ma non è facile mettere d’accordo 27 leader, non penso che siano impazziti tutti e 27 quando hanno deciso di bloccare le petrolifere per rallentare la guerra in Ucraina di Putin”. 

Domenico Quirico per “la Stampa” il 9 giugno 2022.

Stringere la mano. Un gesto meraviglioso. L'hanno inventato non per incrementare il bon ton, ma perché la mano è aperta e l'altro vede che non stringi il coltello o la pietra assassina. Essere amici, non farsi del male, camminare forse insieme lungo gli impervi sentieri della vita. Questo vuol dire stringersi la mano. La sua negazione è fissata in un verbo: tradire. 

Nella vita comune si stringono innumerevoli mani, la maggior parte di persone sconosciute che dopo poco lo ritorneranno. E' gesto, in fondo, diventato così consueto, banale, da aver smarrito molto del suo antico, profondo, quasi religioso significato.

Ma nella politica internazionale non dovrebbe essere così. Stringere una mano, quella mano, vuol dire molto di più che cortesia o forma, ha un significato profondo.

Non è un gesto, è un simbolo. 

Non per i tiranni. Per loro è pura tattica, possono mentire stringere la mano a qualcuno che poco dopo aggrediranno. Per questo Machiavelli dedicò un libro al Cesare Borgia, personaggio per altri versi mediocre. Eliminò con perizia omicida i collaboratori più prossimi dopo aver appunto stretto loro la mano. E divenne immortale per la sua cinica astuzia.

Ma le democrazie dovrebbero, per fortuna, avere un'altra storia. Devono scegliere, sono obbligate a scegliere. Stringere la mano solo di coloro che rispettano le stesse regole. Il diavolo continuerà a calcare purtroppo la scena del mondo. Ma non bisogna frequentarlo, specchiarsi. E' l'alterità radicale la nostra salvezza. Una delle parole più brevi e convincenti è no. La stretta di mano a Monaco nel 1938 tra le democrazie e le tirannidi totalitarie ancora è esempio di vergogna.

Ora la complicata, dolorosa guerra di Ucraina. Per le democrazie d'Occidente a poco a poco, giorno dopo giorno, è diventata anche (e ahimè soprattutto) una faccenda di petrolio e di gas. E proprio lì il rigore morale e la fermezza ad ogni costo contro il prepotente di turno purtroppo si inceppa e fa risacca. 

I leader della coalizione dei virtuosi per ora sembrano granitici nel rifiutare di stringere la mano all'aggressore, a Putin. Anche se qualcuno l'affaccia come possibilità teorica, per carità... se non se ne potesse fare a meno... in fondo.

Ma stringono quelle degli autocrati del petrolio che dovrebbero evitare con accuratezza, soprattutto ora, quando bene e male sui affrontano in modo così esplicito. Perché sono contagiose, capaci di intaccare la loro posizione morale, il loro buon diritto di definirsi la parte giusta del mondo. 

Lo scopo è buono, anzi necessario, oppongono i realisti, razza pericolosa: bisogna evitare di arrendersi al ricatto petrolifero dello zar, imporgli l'unica sanzione che potrebbe davvero indebolirlo, cancellarlo dall'elenco dei fornitori di petrolio e gas.

Così Biden, che non accetterebbe mai di stringere, di nuovo, la mano al criminale Putin, si prepara a farlo con un personaggio che nell'elenco dei ricercati per delitti non sta certo agli ultimi posti, il principe ereditario della Arabia saudita Mohammed Ben Salman. Se un singolo omicidio di un oppositore può sembrare poco in un panorama mondiale di autocrati che operano su scala staliniana, all'eliminazione del giornalista Kashoggi, squartato nel consolato a Istanbul, dovete aggiungere il martirio degli innocenti nello Yemen, bombardato con criminale minuzia, scuole, ospedali, quartieri civili.

Alla Putin, si potrebbe dire. A quelli che scampano il principe ha provveduto con un blocco omicida di cibo e medicine. Perfino Erdogan, che non ha un cuore tenero e non è certo un democratico, si era indignato per il delitto consumato per di più, disinvoltamente, a casa sua. Poi anche lui ha cambiato idea. 

Biden, dopo qualche timida esitazione, stringerà dunque la mano al principe, viaggio confermato entro fine giugno. Il petrolio detta legge. Salman, con l'Opec, possiede la formula magica per aumentare la produzione e compensare il petrolio russo, tolto di scena con le sanzioni.

Siamo alle solite. Sottomessa a re feudali e a principi corrotti, vegetando nel medioevo sociale, analfabetizzata dal verbo wahabita e terrorista che ha inventato, l'Arabia vive della rendita dei tre tesori, manna petrolifera, potenza dei petrodollari investiti in Occidente e il quello teologico della Mecca. 

Ecco: il meccanismo che dovrebbe indignare e far riflettere: credere cioè che tutto è permesso e approvare la decisione di permettersi tutto. Biden è convinto di poter aprire e chiudere la parentesi saudita: adesso c'è la guerra bisogna vincere poi capolinea, tutto scendano!

Senonchè dopo, dopo la stretta di mano con il principe killer, nulla è come prima. Perché questi despoti delle materie prime (che vanno sempre d'accordo con violenza e corruzione) dopo la stretta di mano si sentono le ali addosso. Così confortati pubblicamente da quelli che dovrebbero toglier loro l'ossigeno per il respiro si danno libertà di azione. Biden aveva giurato di trattare il principe da «paria»'. Insomma, è quanto ha garantito a Putin. 

Al Cremlino staranno tirando calcoli promettenti sul rigore morale della potenza che difende i diritti umani ovunque e comunque. Salvo nuocciano ai suoi variabili interessi. E Maduro, il baffuto Nicolas Maduro? In fondo, con l'Arabia Saudita gli Stati Uniti sono complici da quando spedirono in pensione il vecchio imperialismo britannico.

Ma il caudillo di Caracas, il compagnero presidente, l'ultimo ostinato perturbatore del cortile di casa con le sue scalmane messianico-terzomondiste, l'amico di russi e iraniani? Washington offriva la taglia di 15 milioni di dollari a chi lo catturava, accusato di traffico di stupefacenti e pulizia industriale di denaro sudicio. 

Ancora a gennaio Biden proclamava che Maduro era «una minaccia straordinaria alla sicurezza degli Stati Uniti». E adesso? Solo per un po' di petrolio in più le sanzioni che lo assediano dal 2019 saranno attenuate. Come non fare le fusa a un autocrate che ha tra le più grandi riserve di greggio del mondo, finora costretto a venderlo clandestinamente e che rapidamente potrebbe raddoppiare la produzione a un milione e mezzo di barili al giorno?

Non si può fare a meno di lui «per contribuire alla stabilità del mondo». Il Caudillo, cento giorni fa, sosteneva a spada tratta Putin contro «l'imperialismo degli Yankee»'. Adesso la sua vice, Rodriguez, dice che «il Venezuela non sarà mai nel campo dei guerrafondai a tutti i costi» e contribuirà alla difesa dei diritti umani. Per ripulire basta una stretta di mano. 

Francesca Caferri per “la Repubblica” il 4 giugno 2022.

E alla fine Joe Biden cederà- Dopo aver definito, in campagna elettorale, l'Arabia Saudita uno Stato "pariah" per le responsabilità del principe ereditario Mohammed bin Salman nell'omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel 2018, il presidente americano è pronto a recarsi alla corte del principe ereditario saudita. 

Il viaggio, anticipato sul Washington Post da David Ignatius e confermato da fonti della Casa Bianca alla stampa Usa, non è stato ancora confermato ma si svolgerà con tutta probabilità a fine giugno, in concomitanza con la già programmata visita di Biden in Israele. «Non ho cambiato idea sui diritti umani, ma il mio lavoro è far avanzare la pace », ha detto Biden ai giornalisti che gli facevano domande. 

È un lungo cammino quello che porterà Biden a Riad: nella prima fase della sua amministrazione, il presidente aveva tenuto le distanze dai sauditi, a differenza del suo predecessore Donald Trump, che aveva con Riad rapporti strettissimi. Biden aveva chiamato re Salman - l'anziano monarca che ufficialmente guida il Paese, pur avendo nei fatti passato i poteri al figlio - ma rifiutato ogni contatto con il principe. 

Poi, spinte dalla crisi energetica (l'Arabia Saudita è il primo produttore al mondo di petrolio) le cose hanno cominciato a cambiare. Il rovesciamento totale con la guerra in Ucraina quando Mbs, ha raccontato il Wall Street Journal , rifiutò di rispondere a una telefonata di Biden che avrebbe voluto chiedere un aumento della produzione per compensare l'embargo alla Russia.

In quella fase, Mbs lanciò una sfida agli Stati Uniti, con una intervista all'Atlantic: «L'America dovrebbe considerare quali sono i suoi interessi quando si relaziona ai suoi alleati ». Un messaggio che la Casa Bianca, con il barile ormai sopra quota 120 dollari non ha potuto che accettare. Di qui, il viaggio. Che potrà avere anche conseguenze regionali: mentre re Salam si è sempre detto contrario agli Accordi di Abramo che hanno segnato la pace fra Israele e alcuni Paesi arabi, Mbs è più possibilista. Biden potrebbe svolgere il ruolo del facilitatore, presentando a Israele le condizioni dei sauditi. 

La stretta di mano fra Biden e Mbs segnerà in maniera definitiva il trionfo del principe 35nne che in cinque anni ha rivoluzionato il volto di quello che era il Paese più chiuso del mondo: concedendo alle donne il diritto di guidare, portando musica e spettacoli in una nazione dove erano proibiti, aprendo l'economia a settori nuovi come l'hi-tech e il turismo.

Ma anche imponendo una stretta nel campo dei diritti: nessuna forma di dissenso è tollerata, con centinaia di attivisti, economisti, giornalisti, in carcere. E il potere del principe, contrariamente alla tradizione degli Al Saud, non ha limiti nè bilanciamenti: nel 2017 centinaia fra principi e funzionari di Stato sono stati fermati e costretti a cedere le loro ricchezze con l'accusa di corruzione. Alcuni sono ancora agli arresti: come Mohammed bib Nayef, ex principe ereditario per anni vicinissimo a Washington. Un'altra Arabia Saudita: quella di oggi aspetta Joe Biden per segnare, il suo nuovo ruolo nel mondo.

Democrazia (e petrolio): gli Usa cancellano l'embargo contro Cuba e Venezuela. Biden ha finalmente cancellato le politiche di Trump verso Cuba e Venezuela. Paolo Manzo su Il Giornale il 19 maggio 2022.

Biden ha finalmente cancellato le politiche di Trump verso Cuba e Venezuela. Per la Casa Bianca, il ritiro deciso nelle ultime ore delle sanzioni ai regimi dell'Avana e di Caracas faciliterebbe «la democratizzazione dei due paesi». Sono senza dubbio le decisioni più rilevanti di Biden nei confronti delle due dittature più feroci dell'America latina ma, oltre a non essere state comunicate dal presidente bensì da funzionari in conversazioni con giornalisti e tramite comunicati stampa, non sono state neanche discusse nella Commissione esteri del Senato, presieduta dal democratico Bob Menendez. Per lui, importante politico cubano-americano della Florida, la tempistica di questa decisione storica «invia un messaggio assolutamente sbagliato».

Nel caso cubano, Biden ha deciso di ripristinare i voli verso tutte le principali città cubane e riattivare il programma di ricongiungimento familiare. Inoltre, Washington ha aperto ai viaggi di gruppo ed eliminato il limite di 1.000 dollari sulle rimesse inviate dagli Usa. Nei prossimi giorni, il Dipartimento di Stato Usa aumenterà l'emissione di visti presso l'ambasciata all'Avana e incoraggerà le società di pagamento elettronico a lavorare di più a Cuba, per facilitare l'invio di maggiori rimesse. La scorsa settimana, il Dipartimento del Tesoro ha persino autorizzato una società statunitense a offrire un credito e a fare un investimento in una società cubana. È la prima volta negli ultimi 60 anni che succede ed è paradossale, a detta di Menendez, che l'apertura di Biden arrivi tre giorni dopo l'approvazione di un nuovo codice penale all'Avana. Codice che inasprisce le condanne, introduce 37 nuovi reati connessi a Internet, oltre a confermare la pena di morte e l'ergastolo per chi tenta di rovesciare il regime. Tre anni di carcere per chiunque insulti un funzionario pubblico mentre, chi riceva fondi da ong sgradite alla dittatura castrista sarà punito con dieci anni di detenzione.

Nel caso del Venezuela, gli Stati Uniti da oggi consentono invece alla compagnia petrolifera californiana Chevron di tornare ad esplorare il territorio venezuelano, soprattutto il bacino dell'Orinoco, l'area con più greggio al mondo. E di farlo insieme alla compagnia statale nonché cassa del regime chavista, la PDVSA. Parimenti Washington permetterà alle società europee ancora operanti in Venezuela di dirottare immediatamente più petrolio nel Vecchio continente. La nostra Eni e la spagnola Repsol sono gli unici grandi produttori Ue con attività petrolifere in Venezuela e, a detta di una fonte sentita da Bloomberg, stanno già negoziando con l'amministrazione Biden per deviare il greggio venezuelano diretto in Cina verso l'Europa. Infine da segnalare che Carlos Erik Malpica Flores, ex dirigente della stessa PDVSA nonché nipote della moglie del presidente de facto, Nicolás Maduro, Cilia Flores, è stato rimosso dalla black list delle persone sanzionate dal Tesoro Usa, dove era stato inserito 5 anni fa per corruzione e riciclaggio di denaro dei narcos.

Da corriere.it il 30 maggio 2022. 

Fronte caldo sul petrolio. Mentre gli operatori attendono di vedere se l’Unione Europea raggiungerà un accordo sul divieto all’importazione del greggio russo, Serbia e Arabia Saudita continuano a fare affari con la Russia.

L’Opec+ non aumenterà la produzione per contenere i prezzi della benzina, sigillando il patto tra l’Arabia e la Russia. Mentre la Serbia, malgrado la candidatura all’ingresso nell’Unione Europea, ignora le sanzioni e stringe un accordo con Mosca per il gas a basso costo. Intanto i prezzi del greggio sono ai massimi da due mesi.

Le sanzioni

In attesa di sapere l’esito delle riunioni Ue di oggi e domani per discutere un sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia per l’invasione dell’Ucraina, la settimana si apre infatti con i futures del Brent che avanzano dello 0,53%, a 120,06 dollari al barile, mentre i futures del WTI guadagnano lo 0,83% a 116,03 dollari al barile. 

E proprio mentre l’Ue continua a lavorare a un accordo per bloccare le importazioni di greggio dalla Russia, facendo i conti con la resistenza dell’Ungheria, l’Opec plus non aumenterà la produzione nella riunione di giovedì, dicono le agenzie. 

L’offerta

Il G7 sull’energia di Berlino si è chiuso con la richiesta all’Opec di aumentare l’offerta di petrolio per contrastare i rincari, ma gli operatori non si aspettano passi avanti nella riunione di giovedì 2 giugno dell’Opec Plus, che unisce i 13 produttori del Cartello ai suoi dieci alleati, guidati dalla Russia. 

Ciò che ci si attende è piuttosto una conferma dell’aumento della produzione anche a luglio, come negli ultimi mesi, di 432 mila barili al giorno, per proseguire nella normalizzazione graduale dopo il super taglio di 10 milioni di barili al giorno deciso di fronte alla pandemia nel 2020. 

La scelta di Riad

Gli osservatori notano che l’Arabia Saudita, leader dell’Opec, ha già resistito prima della crisi ucraina alle pressioni (soprattutto dagli Usa) per aumentare la produzione e contenere il prezzo della benzina, freno per la ripresa, sostenendo che non c’è carenza di offerta. 

Nei giorni scorsi poi l’Arabia ha fatto sapere che sostiene il ruolo della Russia come membro del gruppo di produttori di petrolio Opec+ nonostante l’inasprimento delle sanzioni occidentali su Mosca. 

Il principe Abdulaziz bin Salman, ministro dell’Energia, ha dichiarato al Financial Times che Riyadh spera «di trovare un accordo con l’Opec+ che includa la Russia», insistendo sul fatto che «il mondo dovrebbe apprezzare il valore» dell’alleanza dei produttori. Tutto mentre il mercato è dubbioso sulla sopportabilità dell’uscita del mercato della produzione russa. 

L’intesa di Belgrado

Quanto alla Serbia, rischia di diventare un ulteriore caso di eccentricità dei Paesi dell’Europa dell’Est rispetto alla linea di Bruxelles. Belgrado infatti ha firmato una proroga di tre anni all’accordo per le forniture russe «a prezzi amichevoli». I dettagli dell’accordo saranno comunicati nei prossimi giorni, dopo l’incontro con i dirigenti di Gazprom, ha dichiarato il presidente serbo Aleksandar Vucic. In ogni caso aumenta la dipendenza da Mosca della Serbia.

Il presidente della Serbia, riporta l’agenzia AP, ha annunciato che ha assicurato un affare «estremamente favorevole» con la Russia sul gas naturale durante una conversazione avvenuta domenica con il presidente della Russia, Vladimir Putin. L’accordo, prosegue AP, dovrebbe essere siglato durante una visita di Sergey Lavrov, ministro degli esteri russo, a Belgrado ai primi di giugno.

Danilo Taino per “L’Economia – Corriere della Sera” il 30 maggio 2022.  

Lo 0,01% che doveva salvare il mondo è tornato di nuovo sulla Montagna Incantata. Senza neve e senza Moon Boot, questa volta, dopo due anni di assenza causa virus. Il clima, però, è sembrato più quello di un tardo autunno che di una primavera. Non poteva che essere così, al World Economic Forum 2022 di Davos.

Negli ultimi tempi, nell'incontro alpino, l'élite suprema della classe globale con milioni di punti frequent-flyer e flotte di aerei privati si era data, non necessariamente richiesta, il compito di risolvere i problemi dell'umanità.

Naturalmente il clima, poi le ingiustizie sociali, e lo shareholder capitalism da sostituire con lo stakeholder capitalism , i pericoli dell'Intelligenza Artificiale, le pandemie, la cooperazione tra i popoli, e perché no il governo mondiale. Grandi frasi e dichiarazioni ora però terminate e offuscate dall'ombra lunga di Vladimir Putin, egli stesso un tempo (2009) uomo di buona volontà a Davos quando diceva, guardando negli occhi politici, imprenditori e banchieri, che «dobbiamo rendere le relazioni internazionali meno pericolose e dobbiamo continuare con le misure di disarmo». Davvero parecchi gli dettero credito.

La strada

Prima di prendere la strada francescana in aiuto dei più poveri del mondo - in pratica prima della Grande Crisi che li ha spaventati nel 2008 - i più ricchi del mondo si incontravano sulle nevi svizzere per celebrare la globalizzazione della quale erano protagonisti. 

Avevano ragioni per farlo: l'apertura dei mercati, le nuove tecnologie, il mondo piatto facevano alzare il mare della ricchezza e tutte le barche salivano.

Certo, si facevano anche affari: con una concentrazione unica di Ceo, di banchieri, di petrolieri e di primi ministri sarebbe stato un crimine non parlare di business. E, certo, feste tutte le notti della settimana, con i ricevimenti indiani e sudafricani, cosa di meglio per l'élite globale. Dopo la caduta dell'Impero Sovietico, le paure erano scomparse, a cominciare da quelle delle guerre.

E dopo gli attentati dell'11 settembre, il Forum del 2002 si spostò a New York, Waldorf Astoria, per dire che nessuno avrebbe fermato il mondo. 

Era il business, soprattutto quello multinazionale, a guidare le danze, non più la politica. «Fate i soldi, non la guerra», ha riassunto lo slogan non ufficiale di quegli anni un commentatore del Financial Times.

Sono successe le cose più diverse, negli anni, a Davos. Dmitry Medvedev si presentava con la faccia aperta e affabile del russo moderno: oggi è il più falco dei falchi di Mosca. Bill Clinton ammaliava la platea con il racconto dell'ineluttabile marcia parallela della globalizzazione e della democrazia. Yasser Arafat portava un attacco rovente a Israele, per concludere che era pronto alla pace. 

Shimon Peres veniva onorato con il primo Spirit of Davos per avere sostenuto la missione del Forum di «migliorare lo stato del mondo».

Angela Merkel teneva tutti con gli occhi su di lei anche se non diceva niente. Xi Jinping si presentava come il grande difensore delle regole del commercio e del mondo aperto: e i capitalisti in sala lo applaudivano con entusiasmo. Nel 1998, banchieri e Ceo scapparono dalle nevi a metà settimana perché stava scoppiando una crisi finanziaria. E ogni anno vengono fatte previsioni sullo stato dell'economia e dell'umanità: indovinano sempre il passato, raramente quello che sta per accedere.

L'invito, quasi un ordine, «mettete i soldi dentro i vostri cannoni» ha mantenuto in forma il Forum per un trentennio. Ora, inevitabilmente prevale lo sconforto. Non che qualcuno si dica pentito di non avere visto arrivare Putin o di avere sopravvalutato Xi Jinping. No, non succede. 

È che gli annunci sulla de-globalizzazione in progress fanno vacillare le strategie del Big Business e minano il senso stesso dell'happening di Davos. La managing director del Fondo monetario internazionale, Kristalina Georgieva, ha avvertito di «un rischio acutamente cresciuto di una frammentazione geoeconomica».

Il Paese di cui, da tre mesi, più si parla nel mondo al Forum non c'è: la Russia quest' anno è stata esclusa. Gli oligarchi che intrattenevano a vodka e caviale non sono ospiti graditi. La Davos che aveva giocato un ruolo importante nel preparare l'ingresso della Russia nell'economia mondiale dopo il crollo dell'Unione Sovietica, un passaggio chiave della globalizzazione, ora le chiude le porte.

Al posto del Cremlino, parlano gli ucraini: Volodymyr Zelensky in collegamento con le sale del brutto e brutalista centro congressi. La guerra ha certificato la fine di un'era e il Forum non può che prenderne atto. Anche quando l'invasione dell'Ucraina sarà terminata, «la situazione non tornerà mai a quella che era prima», ha affermato George Soros.

«Abbiamo finito il dividendo della pace», ha convenuto Ian Bremmer, il presidente dell'Eurasia Group. Raramente è stato simpatico il World Economic Forum. Un club dei più ricchi che dicono di volere risolvere i problemi dei più poveri fatica a esserlo. Raramente ha avuto la vista lunga e infatti il ritorno della geopolitica e della competizione tra potenze non l'ha previsto.

Una funzione però l'ha avuta: ha accompagnato trent' anni di libertà dei mercati che hanno fatto bene al mondo, anche in Russia e soprattutto in Cina. Ora, è il momento di scendere dalla Montagna Incantata: come nel romanzo di Thomas Mann, ambientato in un sanatorio di Davos, siamo alla fine di una Belle Époque.

Federico Rampini per corriere.it il 30 maggio 2022.

L’Italia ha raddoppiato i suoi acquisti di gas russo, su base annua. L’aumento delle importazioni ha avuto un’accelerazione, sia pure con la legittima giustificazione di fare approvvigionamenti per il prossimo inverno. Di conseguenza il nostro Paese finanzia molto più la guerra di Putin di quanto stia concretamente armando l’Ucraina. 

Le armi che forniamo a Kiev sono poche, come Zelenski è costretto a ricordarci tutti i giorni, in un contesto in cui la pressione militare russa è tornata ad essere tremenda. E non convince la tesi per cui i nostri pagamenti di gas russo sono strutturati in obbedienza alle sanzioni in modo da sterilizzarne l’uso per spese militari: queste sono ingenuità dei tecnocrati di Bruxelles che s’illudono di essere più furbi di un sistema autoritario, abituato da anni ad aggirare sanzioni finanziarie occidentali per aiutare regimi sotto embargo in Corea del Sud, Iran, Venezuela. Insomma l’Italia nel bilancio economico reale non sta danneggiando la Russia, anzi partecipa al finanziamento della sua macchina militare. 

Nonostante questo continua un coro di voci italiane che descrivono Roma come un lacchè della Nato, quindi dell’America: l’Impero del Male per definizione, la superpotenza aggressiva che prima avrebbe «accerchiato» Putin allargando la Nato ai suoi confini, poi starebbe perseguendo una «guerra per procura», aizzando gli ucraini a resistere a oltranza. 

In questa rappresentazione assai diffusa in Italia, scompare il protagonismo di tutti gli altri. Si dimentica il fatto che per libera volontà democratica i popoli dei Paesi dell’Est liberatisi del giogo sovietico negli anni Novanta chiesero di entrare nella famiglia occidentale, aderire all’Unione europea, ottenere la protezione della Nato come una polizza vita contro i futuri rigurgiti d’imperialismo russo.

Si dimentica che la nazione ucraina ha deciso di difendere la propria vita e la propria libertà e si è guadagnata sul campo il rispetto dell’Occidente. Quegli stessi Stati Uniti che meno di un anno fa venivano descritti dagli antiamericani d’Italia come una superpotenza in decomposizione, umiliati dalla débacle di Kabul, un disastro dovuto all’incompetenza dei loro vertici, oggi invece sono denunciati come un mostro di efficienza, capaci di piegare il mondo intero ai propri disegni diabolici, di imporre la propria volontà ai popoli finlandesi, svedesi, ucraini, nonché a Mario Draghi. 

Le caricature italiane degli Stati Uniti in questi giorni sono sempre più rozze. Perfino le tragiche sparatorie nelle scuole diventano il pretesto per denunciare nei talkshow nostrani che la politica estera americana è anch’essa in ostaggio alla lobby delle armi. Non importa se c’è qualche confusione nei soggetti: in realtà gruppi industriali come Boeing Lockheed e Raytheon che forniscono armamenti al Pentagono non gestiscono i gun-shop domestici dove si comprano pistole e fucili. Le armi usate nelle sparatorie all’interno degli Stati Uniti sono anche di fabbricazione russa, cinese, e perfino italiana (costano meno). 

Tornano a circolare in Italia pregiudizi degni dei peggiori anni Cinquanta, si descrive un capitalismo americano assetato di guerre mentre il conto delle perdite fra Wall Street e Big Tech è tale che il capitalismo davvero influente è piuttosto assetato di pace ad ogni costo. Se davvero la politica estera di Biden fosse decisa dalle «lobby», bisognerebbe guardare a quelle che pesano di più. Il grande capitalismo americano ha sempre perseguito gli affari con Cina e Russia, ha prediletto una globalizzazione indifferente ai diritti umani, e vorrebbe chiudere questa guerra al più presto. La politica estera non è solo una derivata degli interessi materiali dei poteri forti, è il frutto di una sintesi con tante altre cose: ideologie, visioni del mondo, valori, sensibilità dell’opinione pubblica, e anche un certo peso da dare alla tenuta delle alleanze internazionali.

Esiste un establishment globalista, detto The Blob, che è affezionato all’influenza globale degli Stati Uniti (e criticò Biden per aver chiuso la guerra in Afghanistan). Esistono anche robuste correnti isolazioniste, da Donald Trump alla sinistra radicale. Viene generalmente ignorato in Italia il vivace dibattito americano sull’Ucraina, dove non mancano le voci in favore di un appeasement o accomodamento con Putin. Tra queste voci si è sentita al World Economic Forum di Davos quella di Henry Kissinger, ultranovantenne e ancora autorevole. Kissinger appartiene al campo – assai folto sia a destra che a sinistra – degli analisti americani che vogliono fare concessioni a Putin nella speranza di fermarlo. Va ricordato che la realpolitik di Kissinger fu sempre indifferente ai diritti umani o alla democrazia, assegnando invece un valore enorme alla stabilità. Congelare uno status quo è stata una delle sue linee-guida, ispirata al Congresso di Vienna del 1815 che restaurò alcune monarchie in barba alle aspirazioni democratiche dei popoli.

Altri gli obiettano che Putin capisce solo i rapporti di forze: interpreterebbe le concessioni come un incoraggiamento per future aggressioni; mentre al contrario l’allargamento della Nato impone dei limiti ai suoi appetiti imperialisti. Chi accusa Biden di volere la guerra a oltranza non tiene conto dei condizionamenti in cui si muove. Nella situazione attuale un presidente degli Stati Uniti non può telefonare a Putin e dirgli «ti dò il Donbass se ti fermi», negoziando sopra la testa dell’Ucraina. Non può farlo per rispetto a Zelensky, e per tenere conto delle sacrosante paure di molti paesi dell’Est, a cui si aggiungono ora Svezia e Finlandia. Avevo ventun’anni e debuttavo come giornalista della stampa comunista in Italia quando il segretario generale del Pci Berlinguer disse a Giampaolo Pansa, in un’intervista sul Corriere, che si sentiva più sicuro nella Nato.

L’Italia di oggi ha un arco di forze politiche filo-russe che allora non ci sognavamo. Faccio fatica a trovare negli anni della Guerra fredda una vicenda equivalente al forse-viaggio di Salvini a Mosca. Certo è sempre esistita in Italia una larga tradizione antioccidentale e antiamericana: dal fascismo al comunismo pre-svolta di Berlinguer, a certi settori del mondo cattolico. Tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento alcuni papi avevano esplicitamente condannato i cattolici Usa per deviazioni «moderniste e americaniste»: troppo liberali. Però quando un democristiano di sinistra come il sindaco di Firenze Giorgio La Pira si adoperava per la pace in Vietnam, prima di tutto stava dalla parte delle vittime. Oggi Putin ha perso per sempre il popolo ucraino, in compenso ha guadagnato influenza in un Paese più importante, l’Italia, membro della Nato e del G7.

La questione degli approvvigionamenti energetici blocca l’Ue. Embargo Ue, Eni e Enel chiedono il tetto al prezzo del gas. Vittorio Ferla su Il Riformista il 17 Maggio 2022. 

La questione degli approvvigionamenti energetici blocca l’Unione europea da quasi due settimane. Tanti giorni sono passati da quando la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha annunciato il sesto pacchetto di sanzioni dell’Ue contro la Russia al Parlamento europeo di Strasburgo. “C’è la volontà politica di smettere di acquistare il petrolio dalla Russia e già nei prossimi giorni prenderemo una decisione su un ritiro graduale”, affermano i funzionari europei coinvolti nei negoziati tra i paesi membri.

L’Ue vuole tagliare i suoi finanziamenti per lo sforzo bellico del Cremlino. Si capisce perché. I costi operativi per fare la guerra costano al Cremlino la bellezza di 850 milioni di euro al giorno. E gli incassi provenienti dalla vendita di energia ai paesi europei fruttano alla Russia proprio la stessa cifra: 850 milioni di euro al giorno. Questa semplice relazione numerica spiega bene il senso dell’iniziativa europea. Oggi la Russia esporta due terzi del proprio petrolio nell’Ue. Nel 2021 Mosca ha fornito il 30% del greggio e il 15% dei prodotti petroliferi acquistati dall’Unione. Il conto per le importazioni russe di petrolio era quattro volte superiore a quello del gas, 80 miliardi di dollari contro 20 miliardi. Tra i principali importatori di combustibili fossili dalla Russia (gas, petrolio greggio, prodotti petroliferi e carbone) ci sono paesi chiave come Germania, Italia, Paesi Bassi e Ungheria.

Ma la strada verso i nuovi provvedimenti – che dovrebbero comprendere appunto l’embargo sul petrolio che arriva da Mosca – è ancora piena di ostacoli. Lo conferma Josep Borrell, il capo della diplomazia europea, che, a margine della riunione del Consiglio Affari esteri svolta ieri a Bruxelles, rimarca la “situazione oggettiva” di alcuni Stati membri che dipendono più di altri dal petrolio russo, perché senza sbocco sul mare. I due paesi europei più a rischio sono Ungheria e Slovacchia: non hanno porti e non sono collegati ad alcun gasdotto europeo. Nel loro caso sarebbe necessario costruire nuove infrastrutture (ma in tempi inconciliabili con la necessità di bloccare l’aggressione russa) o trovare alternative. “Dobbiamo riconoscere che l’Ungheria dipende quasi interamente dalla Russia per il gas e il petrolio e dunque dobbiamo trovare anche per loro delle alternative, dobbiamo dimostrare una solidarietà a livello europeo”, aggiunge Frans Timmermans, vicepresidente esecutivo della Commissione europea e commissario al Green Deal europeo. Il punto di partenza è quello di dare un po’ più di tempo ai paesi riluttanti. Ma non basterà. “L’Ue è tenuta in ostaggio da uno Stato membro che non ci aiuta a trovare una soluzione”, denuncia il ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis. Per lui la Commissione europea sta facendo tutto il possibile: “Stiamo parlando di un embargo al petrolio che inizierebbe dal 31 dicembre 2024, dando quasi due anni e mezzo di tempo per riuscirci. Dovrebbe essere sufficiente. E non so spiegare perché non lo sia”, accusa il capo della diplomazia lituana.

Quali sono le misure allo studio per facilitare il più possibile i paesi più colpiti dal provvedimento (tra questi anche l’Italia con riguardo al gas) e che rischiano contraccolpi sulla loro economia? Una delle soluzioni allo stallo potrebbe essere quella di aiutare l’Ucraina a “disaccoppiarsi” dal petrolio e dal gas russi. Le forniture di petrolio all’Ungheria passano proprio attraverso il paese invaso. Così, “se il traffico dovesse essere fermato dall’Ucraina, la questione delle sanzioni sarebbe risolta”, confermano le voci provenienti da Bruxelles. C’è poi un’altra ipotesi, ben più rilevante sul piano politico-economico: immaginare un meccanismo simile a quello del Next Generation Eu, ma dedicato all’energia. “L’accelerazione di cui abbiamo bisogno richiederà ulteriori investimenti”, avverte ancora Timmermans. I fondi specifici dell’Ue sono adeguati, ma se fossero necessari mezzi ulteriori l’insieme degli stati sarebbe chiamato a farvi fronte. Assicura Timmermans: “Ho l’impressione che gli stati membri siano aperti a un’istituzione simile al Next Generation Eu: dopo il Covid abbiamo visto un approccio comune nell’Ue e non escludo che potremo ripetere questa esperienza”.

Inoltre, bisogna evitare che le decisioni europee si traducano in un’impennata globale dei prezzi del petrolio (e, in prospettiva, del gas), che avrebbe effetti controproducenti anche sulle economie occidentali. “Dobbiamo stare attenti con un divieto europeo globale sulle importazioni di petrolio”, ha avvertito il segretario al Tesoro Usa, Janet Yellen, il mese scorso. Il tetto al prezzo del petrolio è stato auspicato anche da Joe Biden nei colloqui con Mario Draghi della settimana scorsa. In questo modo si evita la speculazione e il petrolio resta redditizio, ma dovrebbe applicarsi anche al di là delle economie occidentali. La volontà europea di diversificare le proprie forniture e un calendario da sei a otto mesi per cessare gli acquisti di greggio e prodotti petroliferi russi sono tutti annunci volti proprio a evitare un boom dei mercati. Dal punto di vista dell’Italia, la questione del tetto dei prezzi – per calmierare il forte aumento sui mercati internazionali, che danneggia le imprese e impoverisce le famiglie – riguarda anche il gas. Il governo italiano lo dice da mesi a Bruxelles, contro i paesi del Nord Europa che non vogliono rinunciare alla liberalizzazione del mercato, e all’Olanda che non vuole perdere i profitti della borsa del gas TTF ad Amsterdam. Mario Draghi lo ha ripetuto anche nei colloqui di Washington con l’amministrazione americana. A sostegno del governo si schierano anche anche i big italiani dell’energia.

Nel weekend, gli amministratori delegati di Eni ed Enel, Claudio Descalzi e Francesco Starace, ospiti a un convegno della Lega a Roma, sono sulla stessa lunghezza d’onda: serve un price cap europeo del gas. “Dobbiamo mettere un tetto europeo al prezzo del gas. Se mettiamo un ‘cap’, chi ha la pipeline deve vendere il gas a questo prezzo, che sarà comunque molto più alto di quello di produzione. Ma questa cosa deve essere fatta a livello europeo”, spiega Claudio Descalzi. Secondo l’ad di Eni, il prezzo del gas aumenta a causa di “speculazione, paura, mancati investimenti nell’oil&gas negli ultimi 6-7 anni per i prezzi bassi e per la transizione ecologica (150 miliardi di dollari in meno, -50%), aumento dei consumi di gas da parte della Cina per sostituire il carbone (da 80 miliardi di metri cubi a 400)”.

Gli fa eco Francesco Starace di Enel: “L’aumento delle bollette è conseguenza dell’aumento del prezzo del gas, ed è destinato a rimanere finché non si farà quello che diciamo da tempo, e che il ministro Cingolani ha detto essere la volontà del governo italiano: porre un tetto alla volatilità senza motivo che il gas sta avendo in Europa”. Secondo l’ad di Enel, l’eccessiva dipendenza del nostro paese dal gas russo deriva dal fatto che il metano di Putin ha sostituito quello libico dopo la caduta di Gheddafi. Per Starace, bisogna spingere sulle rinnovabili e sulle pompe di calore elettriche per il riscaldamento, e lasciare il gas solo per le industrie energivore. Sul price cap la linea del ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, è chiara da tempo. “Siamo in una economia di guerra. Le regole di pace, dove qualche operatore olandese si arricchisce sul prezzo del gas, non vanno più bene. Il gas ha raggiunto prezzi folli, le imprese e le famiglie non ce la fanno. Domandiamoci quanto questo libero mercato stia funzionando. Occorre fare una riflessione, occorre un calmiere dei prezzi. Noi abbiamo proposto un ‘european price cap’, che tagli i picchi dei prezzi del gas”, ribadisce Cingolani.

Nel frattempo, dopo le rilevazioni di ieri, i prezzi del gas europei sono in lieve calo: sotto i 100 euro per megawattora. Viceversa, le previsioni parlano di un aumento dell’inflazione in Europa pari al 6,1% (per l’Italia +5,9%). Infine, nelle previsioni economiche di primavera – pubblicate ieri – la Commissione europea rivede al ribasso le stime di crescita del Pil per il 2022 sia nell’eurozona che nell’Ue. Anche per l’Italia previsioni al ribasso: dal 4,1% al 2,4%. L’espansione “prolungata e robusta” del post-pandemia è frenata dall’invasione russa dell’Ucraina che esercita “ulteriori pressioni al rialzo sui prezzi delle materie prime, provocando rinnovate interruzioni dell’offerta e una crescente incertezza”. Tuttavia, secondo la Commissione, le riaperture post-lockdown e la forte azione politica per sostenere la crescita durante la pandemia confermano un segnale di ripresa dell’economia.

Vittorio Ferla. Journalist, author of #Riformisti, politics, food&wine, agri-food, GnamGlam, libertaegualeIT, Juventus. Lunatic but resilient

Lo scontro politico-istituzionale. Gas russo in rubli, Eni avvia la procedura per il doppio conto ma l’Europa frena: “Viola le sanzioni”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 17 Maggio 2022.

Aprire un ‘secondo conto’ in rubli presso Gazprombank per acquistare il gas russo nella valuta di Mosca apre uno scontro tra Unione Europea ed Eni. Il gigante italiano dell’energia oggi ha infatti comunicato l’avvio della procedura di apertura di un doppio conto in euro e rubli nella banca russa, ma “senza accettazione di modifiche unilaterali dei contratti in essere”. Una scelta, spiega la società in una nota, “condivisa con le istituzioni italiane”.

“La decisione – spiega infatti l’Eni – è stata presa nel rispetto del quadro sanzionatorio internazionale e nel contesto di un confronto in corso con Gazprom Export“.

Il gruppo italiano guidato da Claudio Descalzi “in assenza di future risposte complete, esaustive e contrattualmente fondate da parte di Gazprom Export, avvierà un arbitrato internazionale sulla base della legge svedese (come previsto dai contratti in essere) per dirimere i dubbi rispetto alle modifiche contrattuali richieste dalla nuova procedura di pagamento e alla corretta allocazione di costi e rischi“.

Una mossa che non è piaciuta a Bruxelles, con l’Unione Europea che ha aperto ad una possibile procedura d’infrazione perché l’apertura del ‘secondo conto’ presso Gazprombank “va al di là di quello che abbiamo detto che è permesso nel quadro degli orientamenti che abbiamo dato agli Stati membri”.

Per il portavoce della Commissione europea, Eric Mamer, la questione “è molto semplice”. “Ciò che non è nelle linee guida per il pagamento del gas russo non è autorizzato – ha detto rispondendo a una domanda nell’incontro quotidiano con la stampa – Tutto quello che va al di là di aprire un conto nella valuta prevista dal contratto, fare un pagamento in quella valuta e fare una dichiarazione in cui si dice che il pagamento in quella valuta chiude il pagamento per la fornitura di gas in questione, viola le sanzioni. È tutto quello che possiamo dire su questa materia: le nostre posizioni non sono cambiate per nulla in queste ultime settimane”.

Si entra dunque in una posizione di stallo e di possibile scontro politico-istituzionale, mentre all’orizzonte si avvicina la fine di maggio e con essa la ‘deadline’ per molti dei pagamenti dovuti dagli importatori europei per il prezioso gas russo.

Ma come Eni anche la compagnia francese Engie ha dichiarato di aver raggiunto un accordo con Gazprom sulle modalità di pagamento delle consegne di gas dalla Russia. A scriverlo è l’agenzia Reuters, mentre la società in una nota ha spiegato di aver preso misure necessarie per essere pronta a eseguire i suoi obblighi di pagamento affinché siano conformi al quadro delle sanzioni europee e non modifichino l’equilibrio dei rischi” per l’azienda.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

"Sanzioni, l'Ucraina vincerà". Ma l'Europa si spacca sullo stop al petrolio russo. Patricia Tagliaferri il 5 Maggio 2022 su Il Giornale.

Parla Von der Leyen, poi la decisione slitta. Greggio, l'Ungheria pone il veto. No di Cechia, Slovacchia e Bulgaria. Kiev: complici di Putin. A rischio tv russe e personalità: c'è la famiglia Peskov.

Il sesto pacchetto di sanzioni contro Mosca che sta per essere varato dall'Ue colpisce anche il patriarca Kirill e moglie e figli del portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov. Oltre ai militari responsabili del massacro di Bucha e dell'assedio a Mariupol. C'è poi l'embargo al greggio entro sei mesi, dei prodotti raffinati entro fine anno, il divieto di trasportare il petrolio russo per le navi battenti bandiera europea, l'esclusione della prima banca di Mosca dal sistema Swift e il bando in Europa di altre tre principali emittenti russe, dopo Russia Today e Sputnik. Le imprese di Mosca, infine, non potranno più avvalersi di consulenti e spin doctor europei.

Quello presentato ieri a Strasburgo dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, è il pacchetto più duro delle misure approvate finora e non mette d'accordo tutti i 27 Paesi dell'Unione, in particolare quelli che non sono nelle condizioni di diversificare a breve le forniture. Non solo Ungheria e Slovacchia, che hanno tempo fino al 2023 per applicare il blocco delle importazioni e ancora minacciano di ricorrere al veto, ma anche la Repubblica Ceca, che avrebbe chiesto maggiori garanzie per il periodo transitorio e un rinvio di due o tre anni, e la Bulgaria che vorrebbe l'esenzione dall'embargo. «Abbiamo iniziato con il carbone, ora stiamo affrontando la nostra dipendenza dal greggio. Non sarà facile. Alcuni Stati sono fortemente dipendenti dal petrolio russo, ma dobbiamo farlo», ha detto la Von der Leyen. «Vogliamo che l'Ucraina vinca questa guerra», ha aggiunto. Per questo la Commissione si impegna a muoversi con cautela in modo da ridurre al minimo i danni collaterali, dando il tempo ai Paesi di garantirsi rotte di approvvigionamento alternative. La resistenza di alcuni Stati Ue all'embargo ha scatenato l'ira di Kiev. «Sono complici dei crimini commessi dalla Russia in territorio ucraino», ha detto il ministro degli esteri ucraino, Dmytro Kuleba. I contrasti sulle misure durante la discussione hanno spinto i Paesi membri a chiedere più tempo per esaminare i provvedimenti. In settimana si terranno altre riunioni nel tentativo di arrivare all'entrata in vigore del pacchetto entro il 9 maggio, giornata in cui l'Ue celebra se stessa e la Russia la sua vittoria sul nazismo. Non sarebbero emerse invece riserve sull'esclusione da Swift di Sberbank, di gran lunga la prima banca russa, e di altri due istituti di credito. «In questo modo colpiamo banche che sono di importanza critica per il sistema finanziario russo e per la capacità di Putin di portare distruzione. Ciò consoliderà il completo isolamento del sistema finanziario russo dal sistema globale», ha spiegato la presidente della Commissione europea. C'è accordo di massima anche sui nomi da inserire nella blacklist, compreso quello del patriarca Kirill, ritenuto «responsabile delle minacce all'integrità dell'Ucraina», e di moglie e figli del portavoce del Cremlino Dmitri Peskov, che non ha gradito il coinvolgimento della sua famiglia, tanto da lanciare un monito all'Europa: «Il costo di queste misure per i cittadini europei aumenterà ogni giorno». L'Ue lo sa. E anche Berlino, in un primo momento riluttante, sostiene questa strada, seppure nella consapevolezza che l'embargo potrebbe portare a interruzioni delle forniture e aumenti dei prezzi, come ha detto il ministro dell'Economia tedesco, Robert Habeck.

Un nuovo pacchetto di sanzioni è stato varato pure dal Regno Unito, che ha bandito la Russia e le sue aziende dalla rete di servizi finanziari, di consulenza e di pubbliche relazioni della City britannica. Pronti ad un'ulteriore stretta anche gli Stati Uniti. «Siamo sempre aperti a sanzioni aggiuntive», ha detto il presidente Joe Biden spiegando che si sta consultando con i membri del G7 sul da farsi. Oltre al tema delle sanzioni, l'Unione europea ha «in programma di aumentare significativamente» il sostegno militare alla Moldavia «fornendo ulteriori equipaggiamento alle sue forze armate». Lo ha annunciato il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, in una conferenza stampa congiunta a Chisinau con la presidente moldava Maia Sandu.

Gas, che cosa è il Nigal e perché se ne parla. Il Domani il 20 aprile 2022

Il progetto è emerso per la prima volta negli anni Ottanta, ma il primo accordo intergovernativo tra Algeria, Niger e Nigeria è stato firmato nel 2009, trovando difficoltà nella realizzazione a causa della forte presenza di gruppi terroristici nel Sahel

Un gasdotto lungo quattromila chilometri partendo dalle coste della Nigeria attraversa il Niger e arriva fino al centro dell’Algeria, passando per il deserto del Sahara. È il progetto della Trans Sahariana, noto anche con l’acronimo Nigal, che indica appunto il suo percorso.

Nel suo tentativo di diversificare gli approvvigionamenti energetici, per fare a meno delle forniture di gas e petrolio russo, il governo italiano e l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, stanno puntando all’Africa. Lo scorso 11 aprile il premier Mario Draghi – preceduto alcuni giorni prima dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e dall’ad di Eni – ha infatti chiuso un accordo con il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune: la Sonatrach, società di stato algerina, ha dato la disponibilità per aumentare le forniture di gas verso l’Italia per un massimo di 9 miliardi di metri cubi l’anno, un terzo delle importazioni italiane dalla Russia.

In cambio però, il paese nordafricano avrebbe chiesto sostegno all’Italia per lo sviluppo energetico, sia nel settore delle rinnovabili sia per il rafforzamento delle infrastrutture, come il gasdotto Nigal, che necessita di un aiuto sul piano tecnologico e sul piano politico. 

COS’È IL NIGAL

Il progetto è emerso per la prima volta negli anni Ottanta, ma il primo accordo intergovernativo tra Algeria, Niger e Nigeria è stato firmato nel 2009, ma ha trovato difficoltà nella realizzazione a causa della forte presenza di gruppi terroristici nel Sahel. I tre paesi sono infatti tra le aree meno sicure della regione. Per questo motivo, come fa notare Luca Pagni su Repubblica, un appoggio da parte di un paese europeo, come l’Italia, potrebbe dare al progetto una spinta definitiva, anche in termini di sicurezza, oltre al supporto tecnico. 

Nel 2021 Algeria e Niger hanno riaperto i loro confini e da allora la costruzione è ripresa. Il gasdotto permetterebbe quindi di aumentare le forniture dall’Algeria verso i paesi europei. Dalla regione nigeriana di Warri, attraversando interamente il Niger, il condotto arriverebbe ad Hassi R’Mel, in Algeria, collegandosi così ai gasdotti già esistenti che forniscono l’Europa: il TransMed, il Maghreb–Europe, Medgaz e Galsi.

IL RUOLO ITALIANO

Sul piano infrastrutturale, l’italiana Saipem, società partecipata da Eni e da Cassa depositi e prestiti, potrebbe giocare un ruolo importante. L’Italia sta quindi cercando di essere centrale nel trovare nuove vie di approvvigionamento energetico dall’Africa. 

È in corso infatti una visita in Congo e in Angola dei ministri degli Esteri e della Transizione energetica, Di Maio e Roberto Cingolani per cercare di chiudere ulteriori intese e accordi sul piano energetico.

Ad anticipare le visite governative è Eni vista la sua forte presenza in Africa. Descalzi, oltre ad aver accompagnato il ministro degli Esteri in Congo il 12 aprile, ha incontrato il presidente egiziano al-Sisi, il primo ministro e il ministro dell’Energia algerini e l’ad di Sonatrach, Toufik Hakkar, precedendo gli esponenti del governo italiano.

VERSO LO STOP ALLA DIPENDENZA DAL GAS RUSSO. L’Italia ha raggiunto l’intesa con l’Angola e il Congo sul gas. Il Domani il 21 aprile 2022

Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e il ministro della Transizione energetica Roberto Cingolani, accompagnati dall’ad di Eni, sono in visita nei paesi africani per aumentare le importazioni di gas e diversificare le forniture energetiche

L’Italia ha firmato intese con l’Angola e il Congo, durante la visita dei ministri degli Esteri e della Transizione energetica, Luigi Di Maio e Roberto Cingolani, per aumentare le importazioni di gas e diversificare le forniture energetiche. Ad accompagnare i ministri italiani, l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi.

In Angola, i ministri hanno firmato una dichiarazione di intenti nel settore del gas naturale: aumento dell’export verso l’Italia, sviluppo di progetti congiunti a favore della de-carbonizzazione e transizione energetica del paese africano. «Abbiamo raggiunto un altro importante accordo con l’Angola per l’aumento delle forniture di gas. Si conferma l’impegno dell’Italia a differenziare le fonti di approvvigionamento: un’azione costante a difesa delle famiglie e delle imprese italiane», ha scritto Di Maio su Facebook. 

IN CONGO

Per favorire l’indipendenza dal gas russo, il governo italiano da settimane sta cercando per via diplomatica di firmare accordi e aumentare le forniture dei paesi africani. Dopo le intese con Algeria, Egitto e Angola, i ministri questa mattina hanno chiuso un accordo anche con i colleghi di Brazzaville, in Congo. Il governo mira a sviluppare un progetto già avviato da Eni nel paese. 

Le esportazioni accordate con i paesi africani, visitati in questi due giorni dai ministri, sarebbero di gas naturale liquefatto, il Gnl. Nel nostro paese attualmente ci sono tre terminali di gassificazione, su cui il governo sta lavorando per un maggiore sviluppo.

Eni ha reso noto il contenuto dell’intesa, che prevede «l’accelerazione e l’aumento della produzione di gas in Congo, in primis tramite lo sviluppo di un progetto di gas naturale liquefatto (Gnl) con avvio previsto nel 2023 e capacità a regime di oltre 3 milioni di tonnellate all’anno (oltre 4,5 miliardi di metri cubi / anno)», scrive la società, sottolineando che «l’export di Gnl permetterà di valorizzare la produzione di gas eccedente la domanda interna congolese».

Otto Lanzavecchia per formiche.net il 13 aprile 2022.

L’invasione dell’Ucraina è alla settima settimana, e l’economia più grande d’Europa non ha ancora presentato un piano B realistico per disassuefarsi dal gas russo, che copre il 40% del fabbisogno tedesco anche dopo le misure di riduzione.

Il cancelliere Olaf Scholz ha reiterato più volte l’avversione tedesca a un embargo sugli idrocarburi russi, spiegando che imporlo avrebbe condannato la Germania alla recessione. Ma così, di fatto, si condannano gli ucraini a tenersi i russi in casa.

La posizione di Berlino è uno degli ultimi ostacoli all’imposizione dell’embargo europeo, che secondo un ex consigliere di Vladimir Putin potrebbe far finire la guerra nel giro di poche settimane. 

Il miliardo di euro giornalieri per l’energia (stima di Josep Borrell) è l’unico vero indotto dell’economia russa, prossima al default sotto il peso delle sanzioni occidentali; in Russia i derivati dalla vendita di idrocarburi sono il 35% del budget federale.

La Germania da sola assorbe il 20% degli idrocarburi russi: smettere di importarli aprirebbe un bel buco nel bilancio di Mosca anche senza il resto d’Europa. 

Berlino sta già diversificando le forniture di petrolio e carbone. Ma il problema, spiegano, è l’impossibilità di sostituire a stretto giro le forniture di gas, che è troppo importante per il mix energetico tedesco. Se solo esistesse una fonte di elettricità alternativa, peraltro pulita, pronta a soppiantare il gas perduto…

La soluzione nucleare

Nel dopo Fukushima, la Germania ha deciso di denuclearizzarsi e ha chiuso 27 reattori. Oggi il 12% dell’elettricità del Paese proviene dagli ultimi tre reattori rimasti, che andranno in pensione entro fine anno. È parte del piano tedesco per la transizione, non dissimile da quello italiano: puntare sul gas come veicolo per la transizione, sostituirlo alle fonti indesiderate, e contemporaneamente aumentare la capacità di generazione rinnovabile.

Peccato che il piano tedesco non abbia tenuto conto del fattore Putin. In Germania un terzo del gas viene bruciato per generare elettricità: escludendo il ricorso agli idrocarburi inquinanti, ovvero petrolio e carbone (già il 28% del mix energetico nel 2021), spegnere le centrali nucleari richiederà alla Germania di aumentare l’importazione di gas del 30%. Da dove? Probabilmente la Russia, perché se i tedeschi avessero canali alternativi li starebbero già utilizzando. 

Di contro, tenere i reattori in funzione eliminerebbe questa necessità. Anzi: riaprirne altri, come spiega l’esperto Tomas Puevo, potrebbe di fatto permettere alla Germania di fare a meno del gas russo (più un po’ di carbone). 

I numeri non mentono: se il 40% del gas è russo e il 35% serve per produrre elettricità, si può agilmente sostituire la produzione elettrica via gas con quella via atomo (diversi reattori si possono riaccendere con sforzi, costi e tempi molto ragionevoli). I pochi punti percentuali che mancano possono essere compensati con la diversificazione. Dunque, perché Berlino continua a rifiutare l’opzione nucleare? 

Il nodo ideologico

In sostanza: la Germania può, ma non vuole, fare a meno del gas russo sfruttando la capacità nucleare già installata. Manca la volontà politica, che risente dell’ideologia antinuclearista dei Verdi tedeschi, da anni impegnati in una crociata antinuclearista. 

“Abbiamo di nuovo esaminato molto attentamente se un funzionamento più esteso delle centrali nucleari ci aiuterebbe in questa situazione di politica estera”, ha detto il vicecancelliere tedesco Robert Habeck, dei Verdi, l’otto marzo. “La risposta è negativa: non ci aiuterebbe”. 

Habeck si stava riferendo a uno studio condotto ad hoc dal ministero dell’economia e della protezione climatica, che poi è in mano allo stesso Habeck.

Nel documento non c’è praticamente alcuna analisi dei benefici e non si tiene conto del contesto geopolitico, tantomeno della necessità di fare a meno del gas russo. Di contro, scrive Puevo, “ogni argomento usato per difendere la chiusura dei reattori tradisce una mancanza di volontà politica: bisognerebbe cambiare le leggi, accettare alcuni rischi, accelerare i processi, pagare il carburante, le persone e i pezzi di ricambio…”

Criticità risolvibili: le leggi si cambiano come avvenuto dopo Fukushima, il rischio è irrisorio (per le Nazioni unite sono morte un centinaio di persone nella Storia per l’esposizione alle radiazioni, contro 4,2 milioni all’anno per l’inquinamento da CO2), carburante e talento si recuperano da altrove nell’Occidente geopolitico e non solo. 

Non solo la Germania ha i fondi per risolvere questi problemi; in ultima analisi, sono problemi che vanno soppesati contro il sangue versato dagli ucraini.

Il Belgio, altro Paese in procinto di chiudere le ultime centrali sull’onda del post-Fukushima e con i Verdi al governo, ci ha già ripensato. 

Anche in Giappone il caro-energia ha fatto sì che la maggioranza della popolazione tornasse a sostenere l’energia dell’atomo per la prima volta dal disastro. Incredibilmente, pure gli stessi tedeschi sono favorevoli alla riapertura dei reattori: se prima dell’invasione circa tre quarti della popolazione sosteneva la spinta alla denuclearizzazione, oggi il 70% ritiene che sia necessario ri-nuclearizzarsi (sondaggio di Civey realizzato per Augsburger Allgemeine). Manca solo il governo di Scholz. 

Dagotraduzione da Bloomberg l'11 aprile 2022.

Quand’è che un carico di diesel russo non è un carico di diesel russo? La risposta è quando Shell Plc, la più grande compagnia petrolifera europea, lo trasforma in quella che i commercianti chiamano una miscela lettone. 

Il punto è commercializzare un barile di cui solo il 49,99% proviene dalla Russia; agli occhi di Shell, fintanto che l'altro 50,01 per cento proviene da un'altra parte, il carico di petrolio non è tecnicamente di origine russa.

La manovra è alla base di un mercato fiorente e opaco per il diesel russo miscelato e altri prodotti petroliferi raffinati, uno dei tanti che le compagnie petrolifere e i commercianti di materie prime stanno utilizzando per mantenere l'energia russa in circolazione in Europa, soddisfacendo allo stesso tempo l'opinione pubblica che chiede di smettere di sovvenzionare la macchina da guerra di Vladimir Putin. 

Siccome l'Europa ha smesso di applicare limiti o sanzioni all'acquisto di petrolio, gas o carbone russi, vendere la nuova miscela è perfettamente legale. Se Shell e altri seguissero alla lettera le regole europee, potrebbero acquistare carichi di origine russa al 100%.

Ma la fusione è uno strumento conveniente per le aziende per dire pubblicamente una cosa (eliminare gradualmente le molecole russe) e farne un'altra (acquistare molte molecole russe). 

Nel caso di Shell, la società ha modificato i cosiddetti termini e condizioni generali dei suoi contratti per consentire il blending russo. I nuovi termini dicono (corsivo mio): 

“È una condizione di questa offerta e sarà una condizione di qualsiasi contratto risultante che le merci vendute e consegnate dal Venditore non siano di origine della Federazione Russa ("RF") e non siano state caricate o trasportate da RF. Le merci sono considerate di "origine RF" se prodotte in RF o se il 50% o più del loro contenuto (in volume) è costituito da materiale prodotto in RF".

Nel mercato petrolifero, i commercianti sussurrano di una "miscela lettone" - una nuova origine per il diesel che sembra una soluzione alternativa per fornire prodotti russi mescolati con qualcos'altro. Il commercio tipico inizia da Primorsk, una città russa di esportazione di petrolio vicino a San Pietroburgo, e finisce a Ventspils, un porto in Lettonia che ha un grande terminal petrolifero e una grande capacità di cisterne. È lì che avviene la fusione. Ci sono molti altri luoghi in cui si sta verificando la fusione, compresi i Paesi Bassi e il mare aperto, in quelli che i commercianti chiamano trasferimenti da nave a nave. Per molti sul mercato, la miscela lettone è semplicemente un'abbreviazione per qualsiasi miscela che contenga molecole russe, indipendentemente da dove è avvenuta la miscelazione.

La miscela lettone ricorda le backdoor simili utlizzate per il commercio di greggio iraniano e venezuelano sanzionato, che per anni era stato offerto in Estremo Oriente come "miscela malese" o "miscela Singapore". Per Shell, la strategia non è esente da rischi. La società è stata costretta a scusarsi il mese scorso dopo che i suoi commercianti hanno acquistato un singolo carico di greggio fortemente scontato degli Urali russi, innescando una protesta a cui si è unito anche il ministro degli Esteri ucraino accusando la compagnia di trarre profitto dal sangue ucraino.

Alessia Conzonato per corriere.it il 9 aprile 2022.

Il settore energetico è stato colpito dal quinto pacchetto di sanzioni contro la Russia, a causa del conflitto in Ucraina, con l’embargo sul carbone. Ma, consapevoli che questo non sarà sufficiente a rappresentare un problema per il presidente Putin, i Paesi dell’unione europea continuano a interrogarsi se disporre o meno un embargo anche per il gas russo, di cui molti sono fortemente dipendenti. Tra questi c’è anche l’Italia, che sta valutando le diverse possibilità per raggiungere una propria autonomia energetica.

L’impianto Giulia di fronte a Rimini

Il mare Adriatico, ad esempio, sembra essere una fonte di gas naturale fondamentale per il Paese. Secondo Davide Tabarelli, docente universitario e leader di Nomisma Energia, aumentare la produzione interna potrebbe essere la soluzione ai problemi di approvvigionamento. «Dai Lidi ferraresi alle Marche, si potrebbero rimettere in moto circa 50 piattaforme - ha detto -, pronte a fornire circa 3 miliardi di metri cubi di gas all’anno». Tra questi giacimenti si trova anche “Giulia”, circa a 15 km dalla costa di Rimini. Secondo le stime attraverso l’impianto è possibile estrarre 500 milioni di metri cubi di gas. La sua installazione risale al 1980, appartiene ad Eni e attualmente non è in uso, perché l’unica cosa che manca è un tubo che lo colleghi alla terraferma. 

Il piano “no trivelle” che blocca l’estrazione di gas

A fermare non solo il giacimento “Giulia” ma anche a rallentare l’estrazione nazionale, però, si è posto il Pitesai “Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee”: si tratta di dossier, varato dal primo Governo Conte come strategia alternativa alle trivelle (quindi molto prima dell’emergenza causata dalla guerra) ma approvato lo scorso 12 febbraio, per l’esplorazione e produzione di metano. 

Il documento ha creato non poche complicazioni: su 123 concessioni minerarie, sono ben 108 quelle legate al gas ma oltre il 70% si trovano in aree definite, appunto, non idonee. Di queste, sono già 20 quelle revocate mentre 45 sono ancora in fase di verifica. Il piano, però, ferma anche gli investimenti in nuovi pozzi: 42 titoli esplorativi, su un totale di 45 che sono stati presentati, saranno revocati, così come 37 istanze - che sono state presentate per gas e petrolio tra il 2004 e il 2009 - sono state rigettate in questi giorni dal ministero per Transizione ecologica in conformità con il Pitesai. Secondo le stime, i paletti del dossier rischiano di far spegnere fino a un miliardo di gas all’anno. 

Sotto il canale Sicilia è in corso il progetto per il giacimento Cassiopea, sempre di proprietà Eni, per cui ora è prevista un’accelerazione nell'avvio della produzione, così come per altri impianti situati lungo le coste italiane, ad esempio nelle Marche, dove la piattaforma Bonaccia, di fronte a Porto Recanati, nel Maceratese, ha accolto coralli e aragoste diventando un rifugio ambientale.

Rispetto a quando il Pitesai è stato emanato, che ha poi richiesto tre anni di gestazione, lo scenario sul piano energetico è molto cambiato e non solo a causa del conflitto in Ucraina, ma anche al forte aumento dei prezzi delle materie prime iniziato ben prima. Un’ipotesi sul tavolo potrebbe essere anche quella di allentare la stretta del dossier con un provvedimento mirato alla sua deroga in modo da non bloccare gli investimenti fatti nel settore, che hanno causato un calo della produzione nazionale di gas naturale. Come ha ricordato lo stesso ministro Cingolani, si è passati «da circa 15 miliardi di metri cubi ai 3,3 attuali».

Ucraina, il suicidio italiano sul gas: ne siamo pieni ma non lo estraiamo. Michele Zaccardi su Libero Quotidiano il 09 aprile 2022.

Nonostante i proclami di intransigenza di vari politici nei confronti di Mosca, l'Italia non sembra pronta a rinunciare al gas russo. Riuscire a rimpiazzare in pochi mesi 29 miliardi di metri cubi su un fabbisogno di 76,2 appare improbabile. Oltre a trovare nuovi fornitori, il governo è al lavoro per aumentare la produzione nazionale. Il mini incremento, di uno o due miliardi di metri cubi, però, si scontra con un fatto: in Italia è molto complicato estrarre gas. Solo nei giorni scorsi, il Ministero della transizione ecologica ha bocciato 37 richieste di esplorazione del sottosuolo presentate tra il 2004 e il 2009 da compagnie come Eni, Total e Shell.

IL RIGETTO

Il motivo del rigetto va cercato nell'oscuro acronimo Pitesai, in pratica il piano regolatore per le attività minerarie. Varato dal Governo Conte I e operativo da quattro mesi, il documento mette dei vincoli stringenti a tutte i lavori connessi alla "coltivazione" dei giacimenti di gas e petrolio. Secondo un'analisi di Assorisorse, l'associazione di categoria delle aziende minerarie, soltanto tre permessi o istanze di ricerca di nuovi siti su 45 sopravviveranno alla tagliola del Pitesai. Il resto delle licenze, invece, verrà bloccato o revocato, portando di fatto, scrive Assorisorse, «all'azzeramento delle attività future, sia a terra che a mare». Per quanto riguarda 123 giacimenti oggi in funzione (di cui 108 di gas), soltanto 21 non avranno problemi. Infatti, 20 concessioni saranno revocate, altre 45 dovranno superare una verifica per continuare a produrre, mentre 37 siti saranno sottoposti a limiti. «Il Pitesai è una follia» commenta Davide Tabarelli, fondatore della società di ricerca Nomisma Energia. Il documento, prosegue il professore, «introduce tantissimi elementi di incertezza e di incomprensione, oltre a portare all'esclusione di molte aree dove in precedenza erano stati dati dei permessi».

Il Pitesai, del resto, va ad aggravare una situazione già di per sé critica. Dal 2009, infatti, la superficie delle aree in concessione si è ridotta di un terzo mentre dal 2019 non è stata fatta nessuna perforazione a scopo esplorativo. Il risultato si vede nei dati sulla produzione nazionale di gas, declinata dagli oltre 17 miliardi di metri cubi del 1997 ai 3,34 dell'anno scorso. E i numeri di quest' anno, se possibile, sono ancora peggiori. A gennaio e febbraio sono stati estratti 542 milioni di metri cubi di gas, in calo del 18,9% sullo stesso periodo del 2021. Con i lacci imposti dal Pitesai, del resto, è difficile fare meglio. «Se riusciamo ad arrivare a 4 miliardi di metri cubi di produzione è già molto» sottolinea Tabarelli. Anche perché, per iniziare a estrarre gas da un giacimento passano in media quattro o cinque anni, senza contare le lungaggini burocratiche. Ne è un esempio il Canale di Sicilia, dal quale si potrebbe ricavare fino a un miliardo di metri cubi l'anno. Il progetto per l'estrazione di metano dai giacimenti Argo e Cassiopea, presentato nel 2014, è stato autorizzato solo a settembre del 2021 e non entrerà in funzione prima del 2024. Il problema, dunque, non è la mancanza di gas, anzi. Secondo le stime più attendibili, le riserve italiane di metano ammonterebbero a 60 miliardi di metri cubi, a cui vanno aggiunte quelle "probabili" pari a 200 miliardi. «Ma si tratta di valutazioni fatte quando il prezzo era a 15 euro al megawatt», prosegue Tabarelli, «con i valori attuali, e applicando le sofisticate tecnologie sviluppate da Eni, le nostre riserve potrebbero essere anche di 500 miliardi di metri cubi».

RIGASSIFICATORI

C'è poi l'altro pilastro del piano del governo per liberarsi dalla dipendenza da Mosca: l'importazione di gas liquefatto. L'Italia ne acquista poco, 9,8 miliardi di metri cubi nel 2021, perla mancanza di rigassificatori e per il minor costo del metano russo. Gli impianti in grado di trattare il gas liquefatto sono infatti tre (contro i sei della Spagna), con una capacità di 15,25 miliardi di metri cubi usata, l'anno scorso, al 64,4%. Per aumentare Palazzo Chigi ha dato incarico a Snam di procurarsi due navi rigassificatrici mentre sono ripresi i lavori per la costruzione dell'impianto di Porto Empedocle. Ma anche se dovessero crescere le forniture dal Qatar (nel 2021 pari a 7,4 miliardi) si potrà fare ben poco. Nel frattempo le imprese americane sembrano aver anticipato la promessa fatta da Biden di aumentare di 15 miliardi di metri cubi la vendita di metano liquido all'Europa, con le esportazioni Usa che hanno raggiunto i quasi i 9 miliardi nei primi due mesi dell'anno.

Stefano Piazza per “La Verità” il 5 aprile 2022.

Arrivati al quarantunesimo giorno di una guerra che non accenna a finire e viste le trattative a dir poco infruttuose, nella maggioranza di governo italiana, così come in altri Paesi europei, si sta saldando un fronte che vorrebbe bloccare l'importazione di gas e petrolio dalla Russia in modo da mettere definitivamente in ginocchio Vladimir Putin che ogni mese incassa qualcosa come 1 miliardo di euro da coloro che nell'Ue acquistano dai russi queste preziose risorse.

Tutto giusto se non fosse che gli effetti di una decisione come questa per l'Italia non sarebbero affatto semplici da gestire. 

Prima di tutto occorre ricordare che il nostro Paese importa dall'estero quasi tutto il gas che utilizza e parliamo del 95,6% del gas del quale necessitiamo. Quanto ne importiamo? Circa 72,75 miliardi di metri cubi di gas naturale compresi i 9,97 miliardi di gas naturale liquefatto (Gnl).

E quanto gas russo compriamo? Nel 2021 è stato pari al 38,2% del gas che consumiamo pari a 29,07 miliardi di metri cubi di gas naturale, un numero che mostra come la Russia sia di gran lunga il nostro principale fornitore. 

Un trend in grande crescita visto che nel 2012 l'Italia acquistava da Mosca circa il 30% di gas, poi il balzo del 2015 con il 44%.

Chi sono gli altri nostri fornitori oltre alla Russia? Tra loro ci sono alcuni Paesi non proprio esempi e campioni di democrazia e di diritti umani come ad esempio l'Algeria (27,8%), l'Azerbaijan protagonista della guerra del Nagorno-Karabakh del 2020, un conflitto armato tra le forze azere e quelle armene per il controllo della regione caucasica. Dall'Azerbaijan importiamo il 9,5% del gas che ci occorre.

Poi c'è la Libia, diventata un vero e proprio «non Stato» in preda a continue violenze (4,2%), senza dimenticare il Qatar che ha fomentato e finanziato negli anni numerosi gruppi terroristici islamici (per questo sono aperte numerose inchieste negli Stati Uniti), oltre a essere lo Stato protettore della Fratellanza musulmana.

Il Qatar ci fornisce, senza sollevare in Italia nessuno scrupolo, il 13,1% di Gnl che consumiamo. Un 2,9% del gas arriva dalla Norvegia e dai Paesi Bassi. 

Ma noi dobbiamo per forza acquistare il gas da guerrafondai dell'Est Europa oppure da generali libici o da emiri che applicano la sharia? Qui la storia si fa interessante perché di gas l'Italia ne ha, solo che non lo usa o meglio, ne usa pochissimo.

I dati aggiornati al 2021 del ministero dello Sviluppo economico ci dicono che l'Italia estrae il 4,4% del gas che consuma: significa che produciamo 3,34 miliardi di metri cubi di gas naturale, ma ne utilizziamo 76,1 miliardi. I giacimenti di gas sono 1.298 ma 752 di loro sono solo sulle cartine geografiche in ossequio alla legge 133 del 2008 che vieta l'estrazione di gas nell'area dell'Adriatico settentrionale (la stima è che in quella zona possano esserci fra i 30 e i 40 miliardi di metri cubi di gas).

Una legge resasi necessaria per evitare che si abbassi il livello del suolo meglio noto come fenomeno di subsidenza che provoca anche il crollo degli argini. Ora l'obbiettivo recentemente dichiarato dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani è quello di aggiungere altri 2,2 miliardi di metri cubi, che porterebbe così l'ammontare totale a oltre 5,5 miliardi di metri cubi di gas.

Ma anche così saremmo sempre obbligato a rivolgerci ai nostri abituali fornitori. E qui parte l'altro tormentone sull'utilizzo di energia pulita, pannelli solari ed eolico. Tutto bellissimo se non fosse che per sostituire gas e petrolio comprato dai «cattivi» ci vorranno vari decenni. Ma vai spiegarlo a chi crede di risolvere tutto su Twitter e Facebook.

La vera causa dell'emergenza gas? L'ambientalismo ideologizzato. Francesco Giubilei il 2 Aprile 2022 su Il Giornale.  

La stessa rapidità con cui negli ultimi anni, per seguire le sirene dell’ambientalismo ideologizzato e una concezione della transizione ecologica basata sul tutto e subito, si è smantellata l’indipendenza energetica italiana ed europea, è ora necessaria per correre ai ripari. Non serviva una guerra per capire che la sovranità energetica non è un vezzo ma una prerogativa di cui una nazione come l’Italia non può fare a meno. Eppure le scelte compiute per seguire una certa vulgata, unite a una congiuntura geopolitica internazionale sfavorevole, ci hanno portato a dipendere in modo eccessivo da un unico fornitore, la Russia, da cui oggi siamo costretti a dover rivedere le nostre forniture.

Le strade intraprese per diversificare l’approvvigionamento di gas sono essenzialmente quattro: aumentare le forniture da altri paesi come l’Algeria o l’Azerbaijan con la realizzazione del nuovo gasdotto Eastmed; accrescere l’estrazione di gas italiano; incrementare il Gnl (gas liquido) e puntare sulle rinnovabili. Il Gln arriverebbe in prevalenza dagli Stati Uniti via mare in nave ma ha una serie di problematiche dovute al costo più alto (si stima del 15-20% rispetto al gas che arriva tramite gasdotto), al fatto che inquina di più dovendo essere trasportato oltre Oceano e soprattutto alla mancanza di un numero sufficiente di rigassificatori, gli impianti necessari per convertire il gas che sono solo tre in tutta Italia. Inutile dire che costruirne di nuovi, oltre a investimenti, richiede tempo che non abbiamo.

Fa particolarmente riflettere l’intervista rilasciata dal commissario europeo per il mercato interno Thierry Breton in cui ha sostenuto che l’Ue è pronta a sostituire il metano russo ma “serviranno carbone e nucleare”. Le sue dichiarazioni cancellano anni di propaganda ambientalista poiché, nel caso dovessero interrompersi le forniture di gas dalla Russia, per compensare il fabbisogno energetico, sarà necessario rinviare la chiusura delle centrali nucleari e riattivare quelle a carbone.

Sebbene il primo obiettivo della commissione sia “più Gnl e spinta all’eolico e al solare”, non esclude ricorrere a soluzioni fino a pochi mese fa apertamente osteggiate. Breton ha puntato il dico contro l’Italia e la Germania poiché “il mix energetico dipende esclusivamente dalle scelte degli Stati. Alcuni sono stati prudenti, hanno diversificato, garantendo la sicurezza degli approvvigionamenti, altri no”.

Spiegando: “Guardiamo alla Germania: ha scelto di fermare le centrali nucleari, passando a un maggior utilizzo del gas e del carbone russi. L'Italia ha deciso di avere nel suo mix energetico il 40% di gas, con il 40% di questo che arriva dalla Russia. Oggi siamo in una situazione difficile perché ogni anno importiamo 155 miliardi di metri cubi di gas dalla Russia. La sola Italia ne acquista 30 miliardi, il 20%. E questa dipendenza è stata scelta”.

Da qui la necessità di un piano per essere pronti a ogni evenienza che prevede la sostituzione entro la fine dell’anno prossimo di “50 miliardi di metri cubi di gas con l'aumento delle forniture di gas naturale liquefatto, anche se ovviamente bisogna incrementare la rigassificazione. Altri 10 miliardi via gasdotto, soprattutto a Sud, dal Nord Africa o dall'Est. Possiamo inoltre ridurre il consumo abbassando termosifoni e climatizzatori e accelerando il risparmio energetico: circa 14 miliardi. E poi spingere il biometano, così come i progetti per l'eolico e il solare: ulteriori 25 miliardi”.

Un progetto che permetterebbe di raggiungere circa 100 miliardi di metri cubi lasciando un gap di 50 miliardi di metri cubi in caso di un’interruzione improvvisa, da qui l’apertura a fonti energetiche più tradizionali: “In una situazione estrema avremmo bisogno di misure estreme. Penso alle centrali a carbone: si potrebbe decidere di non chiuderle oppure di riaprirle. Questo ci permetterebbe di sostituire 20 miliardi di metri cubi di gas, di cui 14 dalla sola Germania. Stesso discorso per le centrali nucleari, che garantirebbero l'equivalente di 12,5 miliardi di metri cubi di gas”.

Si tratta di un piano a tutti gli effetti emergenziale vista la situazione in cui si trova l’Europa ma è arrivato il momento di realizzare proposte in grado di garantire nei prossimi decenni una sovranità energetica italiana ed europea ma, ancora una volta, rischiamo di imboccare una strada, quella del Gnl, che presenta numerose criticità e limiti.

Rinnovabili, 517 impianti solari ed eolici fermi: ecco chi blocca i permessi. Fausta Chiesa su Il Corriere della Sera il 2 Aprile 2022.

Rinnovabili, 517 progetti in attesa della Via nazionale

Sono 517 i progetti di rinnovabili che attendono il via, o sarebbe meglio dire la Via, la valutazione di impatto ambientale necessaria per passare alla fase successiva dell’iter dei permessi. Si tratta di 240, impianti fotovoltaici, 254 eolici onshore e 23 di eolico offshore. Il loro elenco è pubblico e si trova a un link del sito del ministero della Transizione ecologica, che da settembre scorso ha il compito di rilasciare la valutazione di impatto ambientale al posto delle Regioni, dopo che il governo (con il decreto Semplificazioni-bis) ha deciso di riportare a livello centrale per velocizzare i tempi. Così, parte dei progetti presentati alle Regioni sono stati dirottati verso gli uffici nazionali del Mite e in particolare alla Commissione Tecnica Pnrr Pniec (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e nel Piano energia-clima 2030).

Ma ci sono anche le richieste rimaste in capo alle Regioni. Complessivamente risultano iter aperti progetti per 25 Gigawatt di eolico e 34 GW di solare.

Qual è la situazione di uno dei settori diventato strategico sia per la transizione ecologica sia per l’autonomia energetica? Come si comportano i vari enti che devono dare la loro approvazione? Chi blocca i progetti? L’Osservatorio R.E.gions2030 ha condotto uno studio. Ecco i risultati.

Chi blocca i permessi

Quali sono gli enti che ostacolano maggiormente le procedure di permessi (il cosiddetto «permitting»)? La risposta la hanno data gli operatori rispondendo all’indagine dell’Osservatorio «R.E.gions2030» a cura di Elemens e Public Affairs Advisors. La maggior parte degli operatori (64%) ha individuato nel ministero della Cultura e nelle Soprintendenze regionali i soggetti principalmente caratterizzati da un atteggiamento negativo verso lo sviluppo delle rinnovabili. Il 31% ha invece individuato negli Uffici regionali la barriera più significativa allo sviluppo dei progetti.

«Leggendo i dati - commentano i ricercatori - colpisce la resistenza opposta dalle Regioni (e dal ministero della Cultura) nell’ambito dei procedimenti di Valutazione di Impatto Ambientale nazionale (cioè la Commissione del Mite, ndr): la quasi totalità dei pareri espressi è infatti negativa (per le Regioni 46 pareri negativi su 47 pareri forniti, per il ministero della Cultura 41 pareri negativi su 47). La lentezza delle procedure comporta anche un altro effetto: le tecnologie dei progetti, trascorsi gli anni dedicati alle procedure autorizzative, possono diventare superate e rendere necessaria l’autorizzazione di una variante progettuale, procrastinando ulteriormente l’entrata in esercizio dell’impianto e aprendo un circolo vizioso di iter burocratici che in numerosi casi si conclude con lo stallo di un progetto che di fatto era già autorizzato».

Ma come si comportano le singole Regioni?

La performance amministrativa delle Regioni

Ma come si comportano le singole regioni? I criteri presi in considerazione per valutare la performance amministrativa sono stati l’avanzamento dei progetti nel processo autorizzativo, il numero di Autorizzazioni Uniche rilasciate fino a fine 2021 e anche (ma solo per l’eolico) le tempistiche medie di ottenimento dei titoli autorizzativi e il numero di progetti con problemi di permessi o «bloccati» da varianti e proroghe non concesse. Le migliori performance sono mostrate in Friuli Venezia Giulia, seguita da Emilia-Romagna, Liguria (pur su un campione limitato ed esclusivamente relativo a progetti eolici) e Sicilia. «Particolarmente interessante, sul piano della performance, è proprio la Sicilia, che sebbene interessata da un numero significativo di istanze (la Sicilia è infatti seconda dopo la Puglia nell’attrattività) presenta un buon numero assoluto di Autorizzazioni Uniche rilasciate: un dato che la distingue dalla Puglia, ove le autorizzazioni, negli ultimi anni, sono state pressoché ferme».

Eolico, procedure di permesso sempre più lente

Le domande per nuovi progetti eolici sono costantemente cresciute dal 2018. In base a dati di Regions 2030, nel 2021 sono state richieste autorizzazioni per 9,4 GW. «I procedimenti autorizzativi, tuttavia - analizza l’Osservatorio - non sembrano mantenere il passo rispetto alla crescita delle istanze di progetti eolici: a titolo esemplificativo, dei 1.370 MW (1,3 GW) per cui è stata presentata istanza nel 2018, 788 MW, pari al 57,5%, sono ancora fermi in attesa di completare la prima parte dell’iter di permitting, quello della Valutazione di Impatto Ambientale». Il dato dei progetti fermi aumenta man mano che i progetti diventano più recenti: si tratta del 79,3% dei progetti presentati nel 2019, del 90% dei progetti presentati nel 2020 e del 99,9% dei progetti presentati nel 2021.

L’accelerazione del fotovoltaico

Per quanto riguarda il fotovoltaico, nel 2018 le domande raggiungevano appena un valore di 718 MW, ma nel 2020 e nel 2021 si è verificata invece un’esplosione: le amministrazioni hanno ricevuto richieste relative a progetti fotovoltaici per un valore complessivo nei due anni che supera i 30 GW. «La PA - commenta Regions 2030 - ha fornito i primi segnali di un timido risveglio: nel 2021 il numero di autorizzazioni è cresciuto arrivando a 2,4 GW (di cui oltre 1,4 GW su area agricola e quasi 1 GW su area industriale), un valore che pur inferiore alla traiettoria necessaria, supera nettamente quello degli anni passati».

Fotovoltaico, richieste per 35 Gigawatt

Le domande annuali per nuovi progetti fotovoltaici sono costantemente cresciute dal 2018, arrivando a oltre 15,7 GW nel 2021, per un valore cumulato di oltre 35 GW. «Anche in questo caso - analizza l’Osservatorio Regions 2030 - i procedimenti di valutazione da parte delle amministrazioni procedono con lentezza: a titolo esemplificativo, il 48,4% dei progetti per cui è stata fatta richiesta nel 2019 è ancora oggi in attesa del giudizio di compatibilità ambientale (primo step del percorso autorizzativo). Tale valore cresce significativamente nel 2020, quando a fronte di 14,5 GW di istanze presentate, il 79,5% della nuova capacità è ferma in attesa di giudizio di compatibilità, e nel 2021, anno in cui il 92,4% della capacità solare presentata è rimasto in attesa di valutazione».

Fausta Chiesa per corriere.it il 30 marzo 2022.

«La raffineria funziona a pieno regime, non c’è nemmeno un quarto d’ora di cassa integrazione, ma si lavora con il punto interrogativo perché l’allungarsi dei tempi della guerra preoccupa tutti». 

Siamo a Priolo, sulla costa a Nord di Siracusa, e a parlare è Fiorenzo Amato, sindacalista interno e segretario della Filctem Cgil locale. Siamo in Sicilia, ma la proprietà della Isab (Industria Siciliana Asfalti e Bitumi) l’ultima raffineria costruita e avviata in Italia, è della Lukoil, secondo produttore russo di petrolio.

La Isab — anzi, le due Isab, l’impianto Nord e quello Sud un tempo appartenenti a Erg — è di proprietà della svizzera Litasco SA, controllata da Lukoil, posseduta in maggioranza dall’oligarca Vagit Alekperov, quarto uomo più ricco del Paese e già vice-ministro dell’industria petrolifera e del gas dell’Unione Sovietica.

Le sanzioni internazionali finora non hanno colpito l’energia, come il petrolio e il gas, ma le pressioni da parte degli Stati Uniti ci sono e in futuro l’embargo potrebbe colpire anche qui. Anzi, comincia già a colpire. «Il problema finora — spiega Amato — ha riguardato la scontistica delle fatture delle imprese fornitrici, come le aziende che fanno i lavori all’interno della raffineria, che la banca non anticipa più». Le sanzioni hanno già colpito i sistemi di pagamento con la Russia. 

Da Lukoil il 13% del petrolio raffinato in Italia

Così al momento le conseguenze riguardano l’indotto, ma se le sanzioni dovessero estendersi all’energia il nostro Paese avrebbe un problema in casa sua. Non soltanto perché si fermerebbero i mille dipendenti e i 2.500 lavoratori dell’indotto, oltre che la mobilità su strada della regione e buona parte di quella nazionale.

Isab è la più grande raffineria italiana in termini di capacità, e rappresenta quasi un quarto (circa il 22%) della capacità di raffinazione complessiva del Paese, secondo i dati dell’organismo dell’industria petrolifera Unem, di cui è socia. Nel 2019, prima che la pandemia di Covid-19 intaccasse la domanda di energia, la produzione ammontava a 10,6 milioni di tonnellate, il 13% del totale italiano. L’impianto dà lavoro a circa mille persone, che diventano 2.500 considerando i lavoratori dell’indotto. 

Lukoil in Italia dal 2009

La sua importanza va ben oltre il numero dei lavoratori. Lukoil è una delle compagnie petrolifere più importanti al mondo per riserve di greggio. È sbarcata in Italia nel 2009 e da ottobre ha iniziato a operare sul mercato italiano, importando e distribuendo prodotti raffinati dal gruppo (gasoli, plastiche, paraffine, lubrificanti e altri) e crescendo nel segmento della distribuzione.

La possibilità di caricare presso la raffineria mette a disposizione una gamma di prodotti extra rete, dal gasolio auto al gasolio per riscaldamento e produzione energia elettrica, da benzina agricola a Gpl miscela e propano. Capo-fabbrica a Priolo è Oleg Durov, direttore generale, che il 29 marzo ha incontrato le Rsu per annunciare il nuovo vice-direttore generale che succederà a breve all’ingegnere Bruno Martino: è l’ingegnere Enzo Maurizio Montalbano.

Alternative al gas russo? Ecco cosa rivela la "caccia". Lorenzo Vita il 30 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'Europa cerca di diminuire la dipendenza dal gas russo. Ma la diversificazione delle fonti non è affatto semplice. E il Mediterraneo è una scacchiera complicata.

La ricerca del gas è il tema centrale delle strategie italiane ed europee di questi giorni. La guerra in Ucraina ha avuto tra i primi effetti quello della caccia a fonti alternative rispetto alla Russia, che dopo avere avviato le operazioni militari contro Kiev, subisce l'isolamento da parte dei Paesi del blocco occidentale.

Spezzare la dipendenza dalla Russia

La scelta europea non è per delle più semplici. Stati Uniti e Regno Unito hanno puntato a un embargo nei confronti degli idrocarburi russi che ha un impatto nettamente inferiore rispetto a quello che potrebbe avere per i Paesi dell'Unione europea. L'Europa è fortemente dipendente dall'oro blu di Mosca. E trovare alternative al rifornimento energetico dai giacimenti russi significa soprattutto dover fare i conti con un problema economico: il gas russo, anche solo per motivi geografici, costa meno e arriva in quantità maggiori rispetto a quello proveniente da altre fonti. Il collegamento terrestre permette il transito del gas attraverso i gasdotti, garantendo quindi flussi continui, in quantità rilevanti e soprattutto con rischi che possono essere calcolati e azzerati anche in termini di sicurezza. Lo conferma un dato del quotidiano americano Washington Post, che ricorda il curioso caso della società ucraina Naftogaz. Il Wp spiega infatti che "anche se la Russia fa piovere missili sull'Ucraina, sta ancora inviando circa il 30 per cento del gas che vende in Europa attraverso il Paese invaso. E sebbene i leader ucraini abbiano chiesto al continente di fermare immediatamente le importazioni di gas russo, non stanno facendo nulla per interferire con il flusso di gas che scorre attraverso i gasdotti a una velocità di 40 miliardi di metri cubi all'anno verso clienti tra cui Germania, Austria, Italia, Slovacchia, Ungheria e Repubblica Ceca".

Intanto però la guerra ha, come detto, scatenato la ricerca di altre fonti e quindi di altre rotte di rifornimento. E il Mediterraneo può diventare uno snodo fondamentale anche alla luce dell'offerta di gas naturale liquefatto da parte dei gradi produttori.

Il nodo del gas liquefatto

Gli Stati Uniti hanno già offerto il loro gas per provare a colmare (molto parzialmente) il vuoto lasciato dall'eventuale stop alle forniture russe. Nella dichiarazione congiunta della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e del presidente Usa, Joe Biden, si legge che Washington si adopererà per "garantire un volume di gas naturale liquefatto (Gnl) per il mercato dell'Ue di almeno 15 miliardi di metri cubi nel 2022". Agli Usa si unisce il Qatar, altra potenza del settore, che sta ricevendo numerose offerte per ricevere il Gnl nei rigassificatori europei: non ultimo dalla Slovenia, che, come riporta Italpress, sta provando a strappare un accordo per l'arrivo dell'oro blu qatariota attraverso i rigassificatori dell'Alto Adriatico.

Dal canto suo - scrive il Sole 24 Ore - l'Italia si muove sul fronte del gas liquefatto come già suggerito dalle parole del presidente del Consiglio, Mario Draghi. Secondo il Sole, Snam "è pronta a organizzare un gasdotto 'virtuale' con un sistema di navi per il trasporto di Lng dalla Spagna al proprio rigassificatore di Panigaglia; dall'altra parte sta lavorando sul mandato ricevuto dal Governo per rafforzare la potenza di fuoco della rigassificazione, con l'obiettivo di mettere a disposizione circa 10 miliardi di metri cubi di gas aggiuntivi nel giro di due anni". Il nodo è cruciale ma la partita è molto più complessa di quello che potrebbe apparire. La rigassificazione, infatti, richiede navi specifiche che sono in numero molto ridotto e molte già prenotate. Inoltre, il prezzo non è certamente paragonabile a quello del gas russo o di quello che arriva attraverso gasdotti fisici. E dal punto di vista burocratico, le cose potrebbero andare per le lunghe in attesa delle autorizzazioni necessarie per le navi e per il trasporto del gas fino alla terraferma.

La partita geopolitica

Oltre al tema delle navi, c'è poi il problema generale dell'approvvigionamento energetico come nodo politico. La volontà di spezzare la dipendenza dal gas russo è infatti al momento un obiettivo che si può sostanziare in una diversificazione complessiva delle fonti, ma sembra impossibile ridurre drasticamente la fornitura da Mosca in breve tempo. Al momento i maggiori rifornimenti di gas dopo la Russia sono Norvegia e Algeria. Un'analisi che fa riferimento al 2019 mostra che il 41% delle importazioni di gas naturale in Ue provenivano dalla Russia, il 16% dalla Norvegia, l'8% dall'Algeria e il 5% dal Qatar.

Per il fronte sud, è fondamentale l'approvvigionamento energetico da Mosca ma anche dai partner nordafricani e mediorientali. Per l'Italia, il discorso vale non solo per l'Algeria, ma anche per la Libia, e si aggiunge il tema delle importazioni del gas dall'Azerbaigian attraverso Tap. Elementi cui si agigungono anche i progetti di gasdotti che spesso hanno condotto e possono condurre a scontri particolarmente profondi che incidono sulla convivenza tra gli Stati.

La partita energetica era fondamentale prima e lo è ancora di più adesso con un intero continente che cerca di emanciparsi da un fornitore storicamente più forte. E questo basta per far capire cosa potrebbe ribollire nel Mediterraneo orientale, dove Israele, Turchia, Egitto e Cipro sono particolarmente interessate a quanto accade sul fronte del gas all'Ue. Lo stesso dicasi per l'Iran, produttore isolato per via delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti. E sul fronte sempre delle rotte energetiche, non vanno sottovalutati anche i confronti interni al panorama africano, in particolare quelli che coinvolgono Algeria e Marocco, oltre alla ben nota questione della stabilizzazione della Libia.

Carlo Tecce per l’Espresso articolo del 04 marzo 2022.

Non l’ha fatto da solo. Non l’ha fatto da poco. Ha ricevuto il supporto di politici, imprenditori, dirigenti, banchieri, diplomatici. È merito, colpa, loro se qualcuno in Italia ha reputato Vladimir Putin uno statista. 

Le bombe russe che uccidono in Ucraina annientano le polemiche, ma non possono tramortire pure la memoria. Ecco come il fenomeno putiniano ha soggiogato Roma per vent’anni.

Da mezzo secolo, fin dal Sessanta e dall’Eni di Enrico Mattei, la Russia ha garantito all’Italia un flusso costante di petrolio e poi anche di gas. Con Putin la ricerca di Mosca di nuovi mercati s’è fatta insistente. 

L’energia si è trasformata in uno strumento per influenzare la politica europea. Creare dipendenze. E il capo di governo Berlusconi ha aiutato “l’amico Vlad” in questa missione.

L’immagine simbolo di un’alleanza che muove potere e denaro è del novembre 2005 e vede schierati Berlusconi e Putin insieme col presidente turco Recep Tayyp Erdogan all’inaugurazione del gasdotto Blue Stream, un’infrastruttura della massima importanza strategica costruita da Gazprom con Eni per portare il gas russo attraverso il mar Nero fino alle coste dell’Anatolia.

Lo stesso gasdotto da cui adesso l’Eni, mentre i missili russi devastano l’Ucraina, si dice pronta a disimpegnarsi liberandosi della propria quota del 50 per cento e rompendo così il sodalizio con Gazprom che dura da un quarto di secolo. La firma del primo contratto, per la progettazione e lo sviluppo di un’opera costata oltre 5 miliardi di euro, risale infatti al lontano 1997, a Palazzo Chigi c’era Romano Prodi, ma fu Berlusconi a raccogliere i frutti del patto con il colosso dell’energia controllato dal regime di Putin.

Il nuovo corso con Mosca provocò anche un ribaltone al vertice dell’Eni. Nel maggio del 2005, fase crepuscolare del governo di Berlusconi, Paolo Scaroni prese la poltrona di Vittorio Mincato, che si era opposto al progetto di autorizzare Gazprom a distribuire gas in Italia con Bruno Mentasti, imprenditore e grande amico di Berlusconi.

Alla fine l’operazione fallì, ma l’anno dopo Scaroni firmò comunque un’intesa con i russi per prolungare sino al 2035 i contratti di fornitura di gas all’Italia, mentre il giovane Ernesto Ferlenghi fu promosso alla guida degli uffici di Mosca al posto di Mario Reali, che aveva presidiato la sede russa prima di Montedison e poi dell’Eni dalla fine degli anni Sessanta, ai tempi dell’Unione Sovietica.

Nel 2010 i documenti segreti svelati da Wikileaks hanno fatto emergere i sospetti degli Stati Uniti sulle connessioni sempre più strette fra Eni e Gazprom e le pressioni di Washington sulla multinazionale italiana per cambiarne traiettoria.

Durante la gestione Scaroni, sostituto con Claudio Descalzi dal premier Matteo Renzi nel 2014 e salutato da Putin con un’onorificenza di Stato, il flusso di gas proveniente dalla Russia è sempre cresciuto. Nel 2000 le forniture di Mosca coprivano poco più del 20 per cento del fabbisogno nazionale, una quota che nel 2010 aveva già raggiunto il 28 per cento.

Quando si è insediato Descalzi si era già arrivati al 40 per cento con la Russia come principale esportatore di gas in Italia in luogo dell’Algeria. Niente è cambiato finché il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, temendo il blocco delle esportazioni russe, la settimana scorsa si è precipitato ad Algeri nel tentativo di ricevere forniture supplementari il più in fretta possibile.

Oltre a consolidare la storica collaborazione con Gazprom, nella stagione di Scaroni, l’Eni si è anche messa in società con Rosneft, l’altro gigante energetico del Cremlino, per cercare il petrolio nell’Artico, nel mare di Barents. L’accordo, siglato in pompa magna a Mosca nel 2013 alla presenza di Putin, è stato vanificato poco dopo dalle sanzioni internazionali a Mosca in seguito all’annessione della Crimea scippata all’Ucraina.

È invece in piena attività l’enorme giacimento di gas di Zohr, proprio di fronte alle coste egiziane. Nel 2016 l’Eni di Descalzi ne ha girato una quota del 30 per cento a Rosneft, agevolando l’ingresso nel Mediterraneo alla società affidata da Putin al suo antico sodale Igor Sechin. 

Rosneft ricorre più volte negli affari italiani in Russia. Nel maggio 2014, fu il gruppo petrolifero di Sechin a soccorrere Marco Tronchetti Provera dopo la rottura con l’altro socio forte di Pirelli, la famiglia Malacalza. Giusto due mesi dopo l’invasione della Crimea ordinata da Putin, la società petrolifera di Stato russa comprò per 552 milioni di euro il 13 per cento della multinazionale con base a Milano.

Nel 2015 i cinesi di ChemChina sono diventati i principali azionisti di Pirelli, ma i russi hanno conservato una quota del 6 per cento circa tramite una catena societaria quanto mai opaca che via Lussemburgo conduce a Mosca e a Sergey Sudarikov, amministratore di Region Group, la società che ha in dote il fondo pensioni di Rosneft. Sudarikov da dicembre del 2019 non figura più tra gli amministratori della holding del Granducato a cui sono intestate le azioni Pirelli, ma è ben conosciuto in Italia nella rete di manager e finanzieri amici di Mosca.

Per esempio da Antonio Fallico, un manager siciliano che si è trasferito a Mosca come capo di Banca Intesa Russia. Quest’ultima, al pari del concorrente Unicredit, da tempo opera al servizio delle aziende italiane che esportano e lavorano in Russia. 

Però Intesa ha trovato anche il modo di inserirsi da protagonista in un’operazione come la parziale privatizzazione di Rosneft, che nel 2017 ha rinvigorito le casse del Cremlino con almeno 10 miliardi di euro. Intesa finanziò con un maxi prestito di 5,2 miliardi di euro i due compratori, il gruppo svizzero Glencore e il fondo sovrano del Qatar che rilevarono una quota azionaria complessiva del 19,5 per cento.

Il cinquantenne romano Ernesto Ferlenghi ha il passaporto russo. Un aspetto che definisce. Nonostante il recente sacrificio: le dimissioni dal consiglio di Federal Grid (società elettrica) su indicazione/imposizione dell’Italia e di Lapo Pistelli (vicepresidente di Eni) per la guerra scatenata in Ucraina.

A Mosca è una sorta di anfitrione di politici e imprenditori. Confindustria in Russia e in ciascuna repubblica ex sovietica è territorio di sua competenza. Ha ceduto la presidenza di Confindustria Russia a Gianni Bardazzi di Maire Tecnimont e ha accettato l’incarico di vice con deleghe esecutive. Accolse le guarnigioni berlusconiane e poi quelle assai più strampalate di Matteo Salvini. E omaggiò lo stesso «capitano» leghista durante la visita di ottobre 2018. 

Quella che per l’inviato speciale Gianluca Savoini si concluse all’albergo Metropol con una avventurosa trattativa per innaffiare di rubli i bilanci della Lega così da prepararsi alle elezioni europee. Allora Ferlenghi era concentrato sul Forum di dialogo italo-russo, una struttura per scambi di ogni tipo - economico e culturale - creata nel 2004 da Berlusconi con l’amico Vladimir.

La presidenza del Forum era l’ultima bollinatura da conquistare per raggiungere il rango di Fallico. Ferlenghi si affidò a Salvini e al suo consulente al governo Claudio D’Amico, fondatore assieme a Savoini dell’associazione “Lombardia Russia”, e ottenne il posto a discapito di Luisa Todini (luglio 2019). I russofili d’Italia brindarono a Ferlenghi nella cena a Villa Medici incrociando i calici con Putin. C’era pure Savoini. I media statali di Mosca celebrarono il nuovo corso del Forum.

Ferlenghi non ha smentito le attese. Lo scorso anno ha organizzato un incontro per spingere l’Italia a utilizzare il vaccino Sputnik e ovviamente ha approvato (agevolato) l’accordo fra gli scienziati dell’Istituto “Spallanzani” e i colleghi del “Gamaleya”. Il 21 febbraio, a due giorni dall’invasione russa in Ucraina, si è tenuta la riunione plenaria del forum con dieci tavoli tematici. 

In teoria la gestione è bilaterale, ma la comunicazione col gruppo Ima e il denaro con diverse aziende pubbliche - Novatek (gas naturale), Transneft (oleodotti), Sukhoi (aeronautica), Rzd (ferrovie), Tmk (siderurgia) - sono di marca russa. Spiccioli in confronto ai capitali che ha a disposizione “Conoscere Eurasia” di Fallico, un’associazione che si propone di rafforzare le relazioni con la Russia e i vicini Bielorussia, Kazakistan, Armenia, Kirghizistan eccetera. Una visione gradita al Cremlino. Dal 2007 il siciliano di Bronte, per un vertice economico, raduna a Verona ministri italiani e stranieri, dirigenti statali e privati e soprattutto coinvolge le più ricche aziende di Mosca.

All’edizione di ottobre ha ospitato Prodi, Scaroni, Tronchetti Provera, Emma Marcegaglia, Carlo Bonomi, Francesco Profumo, mezza nomenclatura moscovita e anche il qatariota Mohammed bin Jassim al Thani, il ministro degli Esteri. Un evento di prestigio con i contributi di Banca Intesa, Coeclerici, Generali, Accenture e i rubli di Gazprombank, Rosneft, banca Mkb, banca Vtb. Il manager Sudarikov, quello del fondo Region e dell’operazione Pirelli, è un vice di Fallico in “Conoscere Eurasia”. L’altro vice è l’oligarca Alexander Abramov del gruppo Avraz, grande produttore di acciaio. 

Comunque Fallico non ha bisogno di intermediari. Il putiniano Sechin, ex agente segreto e capo di Rosneft, volentieri è più volte andato negli anni scorsi in trasferta dal caro Antonio in quel di Verona. La sorte ha voluto che i seminari di “Conoscere Eurasia” fossero frequenti alla vigilia dell’offensiva russa in Ucraina.

Tre si sono svolti a febbraio, il 10 con base a Mosca, il 17 a Milano, il 18 a Genova. Davanti ai colleghi dirigenti di Banca Intesa e alle istituzioni italiane, a Mosca c’era l’ambasciatore Giorgio Starace, a Milano il presidente regionale Attilio Fontana, a Genova il presidente regionale Giovanni Toti, Fallico ha recitato vibranti discorsi in difesa della Russia di Putin. 

Ha criticato il sistema delle sanzioni occidentali, «lo fanno da 500 anni contro Mosca: iniziative per fermare i concorrenti», ha denunciato una «campagna di disinformazione, se non proprio di diffamazione» e con le stesse parole, a Milano e Genova, ha accusato la Nato, ha elencato gli aiuti in armi all’Ucraina e ha sentenziato: «La Russia non ha attaccato mai nessuno».

In questi anni Ferlenghi e ancora più Fallico hanno riportato e cantato in Italia le gesta del ventennio di Putin, una maniera classica per sensibilizzare la pubblica opinione e incunearsi tra le fragili convinzioni dei politici. Mosca e Roma hanno ridotto le distanze. Ciò non sarebbe accaduto se Berlusconi non avesse plasmato l’alleanza con la Russia di Putin e se la diplomazia, a lungo diretta dal ministro Franco Frattini, oggi presidente del consiglio di Stato nonché presidente dell’Istituto studi euroasiatici, non l’avesse accompagnato.

Fu l’ambasciatore Gianfranco Facco Bonetti (2001/06) il primo a trattenersi, in qualche modo, dalle parti del Cremlino una volta concluso il suo mandato al servizio del governo italiano. Poiché fu indicato rappresentante del Sovrano ordine di Malta, carica assunta fino al 2019 e adesso consegnata al manager Aimone di Savoia Aosta, figlio di Amedeo, capo di Pirelli in Russia. Invece Vittorio Claudio Surdo (2006/10) ha riscosso più fortune. Anche economiche.

Dopo la pensione dalla Farnesina, Surdo è diventato consulente di Enel per il mercato russo e di Bosco dei ciliegi della catena moscovita dei magazzini d’alta moda Gum e infine, ormai da oltre un decennio, è il lobbista in Italia e nell’Europa del sud per Lukoil, la seconda compagnia petrolifera del Paese. L’11 marzo 2021, a neanche un mese dal giuramento del governo, Surdo era già da Roberto Cingolani, ministro per la Transizione ecologica, a perorare le cause di Lukoil.

L’ambasciatore Cesare Ragaglini (2013/2018) si è congedato la scorsa estate dal lavoro in Russia dopo la ben remunerata esperienza di vicepresidente della banca statale di sviluppo Veb. Ragaglini accettò l’incarico diplomatico a Mosca con qualche reticenza, poi si ambientò, a tal punto da rifiutare il trasloco a Bruxelles dopo un negoziato non troppo soddisfacente con il premier Matteo Renzi. 

Nel discorso di saluto ai colleghi, nella solenne conferenza degli ambasciatori del 2017, Ragaglini giustificò l’occupazione russa della Crimea: Putin va compreso. Il successore Pasquale Terracciano (2018/21) ha vissuto sentimenti molto più sfumati di Ragaglini. Da ottobre a Mosca c’è Giorgio Starace, ambasciatore pragmatico, fratello di Francesco, amministratore delegato di Enel, multinazionale con milioni di interessi e migliaia di dipendenti in Russia. Starace dovrà chiudere per Roma un’epoca di rapporti affettuosi con Putin e ne dovrà aprire un’altra ancora ignota e certamente molto complessa. Di sicuro nei prossimi vent’anni ci saranno più italiani in Russia e meno italiani di Russia.

Washington ha già vinto, al di là di come finisce la guerra. ALBERTO NEGRI su Il Quotidiano del Sud il 26 Marzo 2022.

CI VOLEVA una guerra agli Usa per vincere la battaglia del gas contro Mosca. La scellerata iniziativa di Putin ha sconvolto l’Ucraina con morti, distruzione e profughi, ma ha messo al tappeto anche l’Europa che prende dalla Russia in media il 40-50% del suo gas. Ora sono gli Stati Uniti che ci venderanno il gas per sganciarci, progressivamente, dalla dipendenza da Mosca: con prezzi superiori a quelli russi in media del 20% e soprattutto senza una garanzia di forniture continue.

Poniamo l’ipotesi più estrema, ovvero che Putin sospenda le forniture o che noi ci rifiutiamo di pagare il suo gas in rubli perché è una violazione contrattuale. Mosca ci manda circa 30 miliardi di metri cubi l’anno su un consumo di 75 miliardi. Secondo Davide Tabarelli, capo di Nomisma Energia, sarebbe un disastro perché sul mercato l’Italia riuscirebbe da sola a procurarsene non più di 10 miliardi di metri cubi. Questo significherebbe razionamento e recessione.

Ma ecco che adesso arrivano gli americani che di tutto hanno fatto perché Germania e Russia non costruissero il gasdotto Nord Stream 2. Voluto fortemente dalla ex cancelliera Angela Merkel. Questa era la vera leva politica ed economica che tratteneva Putin da azioni dissennate con la guerra in Ucraina. Molti non lo avevano capito perché attribuivano al gas russo una valenza soltanto economica: aveva invece un enorme valore politico per tenere agganciata Mosca all’Europa.

Uscita di scena la Merkel, gli Usa hanno avuto campo libero. La guardiana di Putin e del gas non c’era più e gli americani hanno capito che il presidente russo era diventato più pericoloso ma anche più vulnerabile. Per due mesi gli Usa hanno avverto dell’invasione dell’Ucraina. I gasdotti sono stati il cordone ombelicale che ha legato Mosca all’Unione all’europea, la dipendenza dava a Putin un senso di sicurezza, lo strumento per condizionare gli europei e renderli più docili e interessati alle sorti della Russia.

Quando Mosca ha capito che con il debole cancelliere Scholz il Nord Stream 2 non sarebbe stato al sicuro ha cominciato le minacce all’Ucraina che in precedenza russi e tedeschi avevano pagato perché non protestasse troppo per la realizzazione del gasdotto, assai temuto dalla Polonia in quanto visto come uno strumento di espansione dell’influenza Putin. Gli americani per altro avevano già messo alle corde anche la Merkel, obbligandola ad acquistare quantitativi di gas liquido americano di cui Berlino non aveva alcun bisogno.

E così adesso con la guerra si è arrivati alla resa dei conti, almeno sul gas. Il presidente degli Stati Uniti  Biden ha quindi annunciato un aumento delle spedizioni di gas naturale liquefatto all’Europa per ridurre la dipendenza del continente dal gas russo. E ieri, prima di partire per la Polonia, Biden ha incontrato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che ha ricevuto presso la missione statunitense a Bruxelles. Manco nella casa europea, tanto per far capire chi comanda.

Così gli Stati Uniti forniranno all’Ue fino a 15 miliardi di metri cubi di gas naturale liquefatto entro la fine del 2022. Quantità che dovrebbe salire a 50 miliardi l’anno entro il 2030. La realtà è che l’Unione europea è sottoposta a forti pressioni affinché estenda l’embargo al gas e petrolio russo come fatto da Washington e Gran Bretagna, ma il cancelliere tedesco Scholz ha spiegato che uno stop immediato provocherebbe una recessione nel Vecchio Continente.

La reazione di Scholz è puro istinto di sopravvivenza per salvare la Germania e l’Europa. Di recente l’Ue ha presentato un piano per sostituire il gas russo importando 50 miliardi di metri cubi in più di Gnl (gas liquido) da produttori globali tra cui Stati Uniti, Qatar ed Egitto, ma alcuni analisti hanno avvertito che il piano non è realistico. Secondo il Financial Times la quantità finale di Gnl fornita all’Ue dipenderebbe dai contratti commerciali. Gran parte della produzione degli Stati Uniti è già destinata a Paesi di tutto il mondo, in particolare in Asia. Questo significa che l’Europa dovrebbe prepararsi a pagare prezzi del gas più alti nei prossimi anni per raggiungere gli obiettivi del piano. Tra l’altro la capacità di importazione di Gnl con i rigassificatori è concentrata nella penisola iberica ma la Spagna ha scarsi collegamenti via pipeline per spostare il gas importato nel Nord Europa.

Le nazioni dell’Europa orientale più fortemente dipendenti dal gas russo non hanno le infrastrutture per beneficiare delle importazioni di Gnl, il che vuol dire che avrebbero difficoltà ad aumentare ulteriormente le importazioni. Ma di tutto questo agli Usa importa relativamente. Con la guerra l’Europa dovrà pagare di più la sua quota Nato, aumentare le spese per la difesa, comprando ovviamente più armi e aerei da caccia Usa, e anche più gas americano.

La guerra economica. Biden ha piazzato all’Europa il gas americano che già vende alla Cina. Angela Nocioni su Il Riformista il 26 Marzo 2022. 

Gas americano per l’Europa. Gli Stati Uniti si sono impegnati ieri ad aumentare del 68% le loro esportazioni di gas naturale alla Ue «per aiutare» il Vecchio continente «a svincolarsi dalla dipendenza dal gas russo». Si tratta in ogni caso di una grande affare su larga scala che rafforza il primato mondiale americano nella produzione ed export di gas naturale liquido. L’emergenza guerra ha scavalcato quelle obiezioni sulla tecnica (chiamata fracking, fratturazione idraulica) usata dagli Usa nella estrazione di gas da una dozzina d’anni che l’Europa non ha mai condiviso perché ha sempre sostenuto di ritenere eccessivi i costi ambientali che comporta. Il gas liquido arriverà via mare e avrà bisogno di rigassificatori. Per ora la gran parte del gas liquido prodotto dagli Stati Uniti è acquistato, a caro prezzo, dalla Cina, assai bisognosa di assicurarsi forniture di energia.

Secondo fonti citate dalla Reuters il gigante petrolchimico cinese Sinopec avrebbe rinunciato alle trattative per un investimento mirato a commerciare il gas russo: si potrebbe trattare di un primo segno che le sanzioni occidentali alla Russia stanno avendo ripercussioni anche nei rapporti tra Mosca e Pechino. Lo stato maggiore delle forze armate russe se ne è uscito ieri con l’assicurazione che sua intenzione sarebbe prendersi solo la regione del Donbass, dell’intero Donbass non soltanto i territori separatisti di Donetsk e Lugansk. Il che potrebbe far supporre che Mosca sia disponibile a non tentare di sfondare verso ovest. “Le nostre forze e i nostri mezzi si concentreranno nell’obiettivo principale: la liberazione completa del Donbass” ha detto ieri il generale Serguei Rudskoi, vicecapo di stato maggiore.

Oltre al giorno del gas americano, ieri è stato anche il giorno della visita di Biden il Polonia, l’alleato Nato più esposto a Putin sul fronte est dell’alleanza. Un mese di guerra ha cambiato anche la posizione di Varsavia sullo scacchiere politico internazionale. Messe da parte giocoforza le questioni riguardanti la qualità del suo stato di diritto, la Polonia è l’unico Paese che Biden visiterà nel suo viaggio in Europa dopo la tappa a Bruxelles per l’incontro con gli alleati nato. Perché la Polonia è adesso fondamentalmente la principale porta d’entrata dei profughi in fuga dall’Ucraina (2,2 milioni sui 3,7 milioni calcolati finora).

Avrebbe dovuto parlare di piani sull’accoglienza dei profughi con il presidente polacco Andrzej Duda, mai arrivato a causa, dicono le comunicazioni ufficiali, di un problema che ha costretto l’aereo a un atterraggio di emergenza prima e a un immediato rientro a Varsavia poi. Biden è andato quindi nella caserma di Rzeszow che ospita le truppe della 82ma divisione aviotrasportata Usa, occupata nel rafforzamento del fianco orientale della Nato. Lì ha detto: «La posta in gioco non è solo la difesa dell’Ucraina ma la democrazia nel mondo, siamo nel mezzo di una battaglia tra democrazie e autocrazie». È necessario «fare di tutto per far fallire l’autocrazia» e per «difendere la democrazia». Ieri le Nazioni Unite hanno denunciato l’esistenza di fosse comuni a Mariupol. Intercettazioni radio delle conversazioni di militari russi in Ucraina pubblicate dal New York Times raccontano una armata in gravi difficoltà, sotto tiro, senza carburante e senza supporto aereo.

Per il gas non dipenderemo dal Cremlino ma dagli Usa: il gnl però è più caro e inquina di più. Francesco Severini sabato 26 Marzo 2022 su Il Secolo d'Italia.  

Come farà l’Europa a liberarsi dalla dipendenza energetica che la lega alla Russia? Gli Usa si impegnano a fornire all’Ue per il 2022 15 miliardi di metri cubi aggiuntivi di gas naturale liquefatto (Gnl), rispetto ai 22 mld di metri cubi consegnati nel 2021. Quindi, circa 37 miliardi di metri cubi per il 2022.

Accordo sul gas proveniente dagli Usa: +15 mld nel 2022

Gli Usa sono storicamente reticenti ad esportare gas, per il timore che i prezzi salgano sul mercato interno, ma aumenteranno la produzione. Per questo, l’accordo politico siglato venerdì a Bruxelles fornisce una cornice indispensabile per la stesura dei contratti, che saranno tra privati, ma che l’intesa favorisce: in sostanza, gli Usa si impegnano a fornire all’Ue un certo quantitativo di gas naturale liquefatto e, in cambio, l’Ue si impegna ad assicurare una domanda costante.

Per il gas liquido occorrono nuovi rigassificatori

La quantità aggiuntiva di Gnl che gli Usa si impegnano a fornire a medio termine (per aumentare la produzione occorre un po’ di tempo) è pari a circa “un terzo”, nota un’alta funzionaria Ue, dell’attuale import totale di gas dalla Russia, che oggi ammonta a circa 157 miliardi di metri cubi l’anno. Occorrerà anche costruire nuovi rigassificatori in Europa: non potendo essere trasportato via tubo attraverso l’Atlantico, il gas deve essere ridotto allo stato liquido, trasportato sulle grandi navi metaniere, rigassificato all’arrivo e trasportato via gasdotto.

Sono strutture che richiedono investimenti cospicui, ma hanno il vantaggio di poter essere usate in futuro anche per l’idrogeno, uno degli obiettivi a lungo termine della transizione verde.

Più che un aiuto all’Europa è un affare per gli Usa

Più che un aiuto all’Europa un affare per gli States. Vedremo – ha premesso Draghi – come verranno distribuiti i 15 mld di metri cubi di gas liquido “ma in proporzione non creeranno disaccordo. L’importante è vedere se noi disponiamo dei rigassificatori. Ne abbiamo 3: uno molto grande, due piccoli, il ministro Cingolani ha dato disposizioni alla Snam di acquistarne altri due, navi galleggianti, non su terreno. Noi contiamo di essere in grado di assorbire la nostra quota”.

Il gas liquido è più inquinante e più caro

Soltanto l’Italia – ricorda Libero – “consuma ogni anno 70 miliardi di metri cubi di gas dei quali il 45% proviene da Mosca. E a gennaio oltre il 50% di gas liquefatto importato in Europa era di provenienza Usa. Nonostante le rassicurazioni dei produttori americani, sembra difficile che, con gli impianti che lavorano già a pieno regime, si riescano ad aumentare in poco tempo le forniture ai Paesi Ue”.

Questo gas è poi molto più inquinante: “Il gas Usa è lo shale gas, un metano che viene ricavato tramite fratturazione idraulica di terreni argillosi. La tecnica di estrazione, che fa uso di acqua condita con sostanze chimiche, è molto inquinante, dal momento che gran parte dei liquidi rimane nel sottosuolo”. Costa dunque di più del metano russo perché richiede un processo estrattivo più complicato.

Per evitare che il maggior costo si scarichi sui consumatori, nell’accordo sono state inserite delle clausole per far rimanere «i prezzi accessibili», anche se questi non saranno calmierati, secondo quanto riportato da un alto funzionario della Commissione. Insomma, il gas continuerà a essere scambiato sul mercato, ma con alcuni vincoli per limitarne le oscillazioni.

Poco e costoso. Il gas americano non ci salverà dai nostri errori. Nicola Porro il 26 Marzo 2022 su Il Giornale.

Impossibile compensare l’offerta russa. Colpa anche di scelte ideologiche e miopi di Bruxelles sull’energia.

Qualche numero semplice che descrive i tanti errori europei riguardo alla nostra dipendenza energetica. Così da depurare dalla propaganda fatta in questi giorni da cliente e fornitore, e cioè da Europa e Russia. I primi fingendo di poter sostituire facilmente il gas siberiano e i secondi fingendo di poterselo far pagare in rubli.

Partiamo da un numero molto semplice. Mosca esporta in Europa 155 miliardi di metri cubi di gas l'anno.

Circola l'idea totalmente falsa che si possano sostituire con molecole americane. Gli Stati Uniti che per anni sono stati importatori netti di combustibili fossili, da qualche anno sono diventati esportatori, grazie a nuove tecniche di estrazione. Nonostante ciò, le loro quote non sono comparabili con quelle russe. Su una produzione di 850 miliardi di metri cubi, gli Usa sono in grado di esportarne solo una frazione pari a 100 miliardi. Se anche dovessero dirottare tutto questo surplus in Europa, cancellando le rotte asiatiche, si tratterebbe comunque di una quantità insufficiente a soddisfare i bisogni del Vecchio continente. 

C'è un ulteriore aspetto contraddittorio. L'Europa dipende dal gas russo, in un crescendo che però parte dai tempi dell'Unione Sovietica, per un motivo piuttosto banale: costa relativamente poco. Ovviamente in condizioni di mercato normali. Il gas arriva in Europa con dei tubi, partendo quasi dalla bocca di pozzo. Il gas americano dovrebbe arrivare da queste parti in forma liquida e poi essere ritrasformato in stato gassoso. Prima raffreddi e poi riscaldi: il che ha un costo. A ciò si aggiunga che deve essere trasportato da grandi navi, che fanno tragitti fenomenali. Insomma costa più caro che ottenerlo dalla pressione di un tubo che te lo porta direttamente a casa. 

In Europa inoltre, per la nostra miopia strategica, non ci sono molti luoghi in cui è possibile ritrasformare il gas da liquido a gassoso. La penisola iberica è la più dotata di questo genere di infrastrutture: ne ha nove. E per la verità sono anche sottoutilizzate; insomma potrebbero accogliere più materia prima. Peccato che governi, comitati, politici e compagnia danzante abbiano di fatto bloccato il potenziamento del tubo che dalla Spagna avrebbe potuto portare alla Francia e per questa via all'Europa, il gas prima liquido e poi rigassificato nelle strutture iberiche. Per farla breve: gli unici che hanno i rigassificatori in Europa, sono isolati.

Roba da pazzi. Ma sarebbe meglio dire, «roba europea». Nella cosiddetta tassonomia per la transizione energetica, il gas veniva considerato il diavolo. Il Vecchio continente non investe più da anni nel settore e ha ridotto negli ultimi tre anni la produzione del 15 per cento. Fenomeni. Oggi ci troviamo impiccati al fornitore russo, preghiamo gli americani di fornirci a caro prezzo il loro, che comunque è insufficiente, e se dovesse arrivare nell'unico luogo in Europa dotato di rigassificatori, ebbene non avremmo i tubi per diffonderlo. Se avessimo piazzato alla guida della politica energetica europea il Joker e lo avessimo fatto fidanzare con Greta, non saremmo stati così bravi a farci del male. 

Nel frattempo i cattivoni di Gazprom, come ha recentemente spiegato Paolo Scaroni a Quarta Repubblica, mantengono i loro contratti come se fossimo in tempi normali. Inviano il gas persino ai loro clienti ucraini. E hanno fatto della loro affidabilità e rispetto dei contratti un punto di onore e di mercato. Per questo è molto difficile che rispettino il diktat putiniano di farsi pagare in rubli. Come notava il boss dell'Eni austriaca un paio di giorni fa sul Financial Times, il cambio della moneta nell'esecuzione di un contratto rappresenta una violazione sostanziale dello stesso.

Quest'inverno l'Europa ha speso 400 miliardi di euro in più per elettricità e gas rispetto a quello precedente. Metteteci la tara di una robusta ripresa economica. Resta il fatto che i consumi e la domanda giustificano oggi investimenti che ieri anche dal punto di vista economico potevano apparire poco convenienti. Altro che transizione energetica e palle sulla decrescita felice. Oggi è il momento di investire in infrastrutture ed esplorazioni, rendendo davvero l'Europa unita e non a chiacchiere, su uno dei cardini della propria indipendenza.

Dov’è Angela Merkel? In Germania processo ai suoi anni: «Quanti errori, ora li paghiamo tutti». Paolo Valentino, corrispondente da Berlino su Il Corriere della Sera il 26 Marzo 2022.

Dov’è Angela Merkel? Cosa fa? E soprattutto, cosa pensa della crisi in Ucraina? Un fantasma si aggira per la Germania. Mentre il governo federale, sull’onda della guerra di aggressione di Vladimir Putin, getta alle ortiche 70 anni di cautele, riluttanze e comode ambiguità in politica estera, un dubbio improvvisamente attanaglia il Paese. E se non fosse stato tutto oro quello che luccicava nei sedici anni dell’eterna cancelliera? Sono passati appena quattro messi dall’addio al potere di Merkel, quando fiumi di lodi e rimpianti accompagnarono la sua uscita di scena: «Ci mancherà», fu la parola d’ordine di quei giorni. Ma il 24 febbraio, il giorno in cui Putin ha cambiato il corso della Storia europea, ha segnato uno spartiacque anche per l’ex cancelliera e il suo lascito. D’un tratto, i tedeschi si guardano indietro, chiedendosi se f orse qualcosa non funzionasse nel dolce letargo in cui Angela Merkel li ha cullati così a lungo.

La crisi ucraina è stata per la Germania una sorta di mezzo di contrasto che sta evidenziando i lati oscuri di tutto quello che ha rappresentato l’era Merkel: la dipendenza energetica, l’uscita affrettata dall’energia atomica, lo scarno bilancio per la difesa, la sovranità europea, perfino la pandemia. Nell’arco di pochi giorni le scelte della cancelliera non hanno più retto la prova del tempo. «Come siamo arrivati a questa situazione?», si chiede sul settimanale Die Zeit Tina Hildebrandt, secondo cui la guerra «ha reso Merkel come prigioniera in una terra di nessuno politica, lost in transition per così dire». Le domande fioccano: perché sotto Merkel l’Ucraina non è stata agganciata in modo stabile all’Occidente? Perché la cancelliera ha permesso che la Germania diventasse così fortemente dipendente dalle importazioni di gas dalla Russia? Sin dall’inizio delle ostilità, Merkel si è appalesata soltanto con una dichiarazione di «netta condanna» dell’aggressione russa, definita «un taglio profondo nella storia dell’Europa», senza tuttavia pronunciare il nome di Putin. Il resto è stato silenzio e totale sparizione dalla scena pubblica.Ma di lei si parla molto.

Sui media, nei talkshow, nei colloqui confidenziali con ex ministri e collaboratori, nelle interviste degli analisti politici. Secondo Martin Koopman, della Fondazione Genshagen, un think tank che promuove il dialogo europeo, il problema è che le decisioni di Merkel furono raramente l’esito di un pensiero politico strategico: «Non perdere il filo del dialogo, tenere insieme l’Europa, tenere insieme tutto: questo era il metodo Merkel. Chi modera sempre forse dura a lungo, ma non imprime una direzione alle cose». Il capitolo d’accusa più forte riguarda naturalmente il rapporto con Vladimir Putin e la Russia. Non si è mai fatta illusioni, Angela Merkel sul leader del Cremlino, che ha sempre considerato un furfante e non ha esitato a criticare «Ma un furfante del quale si poteva fidare e col quale doveva dialogare», chiosa Hildebrandt. A questo contribuivano anche l’affinità e la passione di Merkel per la Russia e la sua cultura. L’errore più grande, dicono i critici, fu di autorizzare il Nord Stream 2 nel 2014, lo stesso anno cioè in cui Putin si annesse la Crimea, contro il parere del suo consigliere per la Sicurezza nazionale, Christoph Heusgen, che l’aveva messo in guardia dai rischi geopolitici del gasdotto.

C’è tuttavia molto senno di poi e un po’ di ipocrisia, in questa lettura revisionista dell’età di Merkel. Perché le sue scelte furono condivise in pieno dall’industria tedesca, dal suo partito, la Cdu, e soprattutto dagli alleati della Spd, che fino al 24 febbraio hanno considerato una «vacca sacra» il dialogo e la cooperazione economica con Mosca, in nome della Ostpolitik. Lo stesso Olaf Scholz è stato più volte ministro e da ultimo anche vicecancelliere sotto di lei. Perfino i Verdi, che pure si sono sempre opposti al Nord Stream 2 e che erano all’opposizione, non sono in una posizione impeccabile, avendo sempre visto di buon occhio gli scarsi fondi per la difesa. Insomma, se Merkel porta la colpa principale, nessuno è innocente se la Germania negli ultimi venti anni si è legata mani e piedi al gas russo ed ha rifiutato di assumersi responsabilità geopolitiche. «Merkel — dice l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer, che è sempre stato coerente nel suo giudizio sulla cancelliera — ha sempre e solo pensato a tenere i tedeschi al riparo da ogni pericolo, salvaguardandone tranquillità e benessere come se il mondo e le sue dinamiche politico strategiche non li riguardassero. Ma oggi purtroppo paghiamo il prezzo. Ed è un prezzo molto alto».

Lucio Caracciolo per “la Stampa” il 25 marzo 2022.

Il 27 febbraio scorso il cancelliere Olaf Scholz ha annunciato il riarmo della Germania. Cento miliardi di euro subito e la decisione di investire più del 2% del pil tedesco ogni anno nella difesa: la Repubblica Federale diventerà così la terza potenza al mondo, dopo Stati Uniti e Cina, quanto a spese per le Forze armate. Quando la guerra in Ucraina sarà finita (o sospesa) e guarderemo indietro alle sue conseguenze, questa sarà senza dubbio fra le più rilevanti. Perché la Germania non sta sulla Luna ma nel cuore dell'Europa. 

Perché è il nostro principale partner economico, al quale ci lega non solo la moneta ma l'interdipendenza industriale in settori decisivi della produzione. E perché, da paesi sconfitti, abbiamo seguito un percorso geopolitico spesso parallelo dopo il 1945, ma che non sarà più lo stesso dell'anteguerra ucraino. La rivoluzione di Scholz conferma che ci troviamo in un altro mondo, dai contorni indefiniti. E soprattutto in un'altra Europa. Questa sfida ci coglie impreparati.

Per tre generazioni abbiamo vissuto nella quasi certezza della pace. Ciò che nessun'altra generazione di italiani, anche prima dell'Unità, aveva potuto concedersi il lusso di pensare. Abbiamo perciò trascurato le nostre Forze armate, che pure oggi sono seconde solo alla Francia - davanti alla Germania - nell'ambito continentale. Soprattutto, ci siamo disabituati a ragionare in termini strategici, a considerare l'importanza della nostra collocazione geopolitica, a valutare il peso della storia e della geografia nella dinamica delle potenze.

C'è voluta l'invasione dell'Ucraina per ricordarci, ad esempio, che la Federazione Russa è nient' altro che la forma presente dell'impero russo. E che l'Ucraina attuale si considera in lotta per emanciparsi definitivamente dalla sfera d'influenza moscovita, a un secolo e mezzo dai primi tentativi di definire una propria identità contro il governo dello zar. La guerra e la scelta della Germania annunciano una stagione di riarmo in Europa.

Il nostro governo aumenterà la spesa per la difesa, anche se probabilmente il traguardo atlantico del 2%, che significherebbe portare da 25 a circa 40 miliardi gli stanziamenti per le Forze armate, non sarà raggiunto causa pesantissima crisi economica. Immaginare di poter adeguare la nostra sicurezza alla fase di instabilità in cui resteremo a lungo immersi con un'operazione di bilancio e di politica industriale è pericolosa illusione. Insieme alle armi ci serve una strategia.

Che senso ha dotarsi di nuovi mezzi senza aver stabilito a quale scopo ci debbano servire? Dalla fine della guerra fredda abbiamo orientato lo strumento militare verso le missioni di pace (ovvero di guerra a bassa intensità) o come surrogato delle polizie, dei servizi sanitari e di altri commendevoli impieghi civili. Molto spesso abbiamo lanciato le nostre Forze armate in guerre di destabilizzazione delle frontiere italiane - dalla Jugoslavia alla Libia - ossia contro il nostro primario interesse di sicurezza. 

Mai abbiamo avuto il coraggio e la decenza di chiamare con il loro nome queste operazioni, quasi la pace consistesse nel non pronunciare la parola guerra. Con un'ardita incursione in territori proibiti, lo Stato maggiore dell'Esercito ha diffuso il 9 marzo per circolare l'ordine, causa «noti eventi», di addestrare le nostre truppe al «warfighting», lemma evidentemente introducibile nella nostra lingua.

Speriamo che dei 15 miliardi teoricamente aggiuntivi qualche spicciolo venga indirizzato verso la riconversione culturale (e linguistica) non solo delle Forze armate ma dell'opinione pubblica. Allo scopo di riprendere contatto con la realtà. Quindi con l'urgenza dell'elaborazione di una strategia nazionale inquadrata nel nostro sistema di alleanze più o meno cogenti. Altrimenti saremo a disposizione dell'aggressore o di alleati che ci useranno per i propri scopi.

Tutto questo investe l'autorità del governo e del parlamento. Solo dal vertice politico può prendere impulso la più ampia e libera discussione della strategia nazionale. Quella che ci è stata finora (auto)inibita dallo status di paese sconfitto. A proposito: anche il nostro partner in questa desueta categoria, la Germania, ha deciso il 18 marzo di avviare solennemente il dibattito sulla propria strategia di sicurezza, finora tabù. 

Analogo processo inclusivo e pubblico, da istituzionalizzare in un Consiglio per la sicurezza nazionale, è urgente e inaggirabile anche da noi. Soprattutto per adeguare la nostra opinione pubblica al nuovo clima ed evitare fughe in avanti o paralizzanti crisi di panico. Per rientrare nella storia che pensavamo di avere abolito occorrerà forse una generazione. Speriamo di averne il tempo.

Sergio Barlocchetti per “La Verità” il 25 marzo 2022.

Il sospetto che dietro l'invasione dell'Ucraina ci siano questioni energetiche è fondato: Kiev prima dell'inizio degli scontri stava per diventare uno dei maggiori fornitori di litio a «portata di treno» dalle fabbriche europee di batterie e auto, sbandierando una riserva stimata di 500.000 tonnellate di litio, cruciale per la transizione all'elettrico dell'Unione. Proprio il governo di Zelensky aveva firmato un'alleanza strategica per fornire il prezioso materiale alla Ue il 13 luglio scorso. 

Le firme sul documento erano quelle del vicepresidente Maro efovi e del primo ministro Denys Shmyhal, d'accordo nel rafforzare la cooperazione tra Bruxelles e Kiev nei settori del Green Deal e della strategia industriale 2020-2050.

Un accordo simile sarebbe stato possibile anche tra Ue e Russia, ma nella corsa globale all'elettrificazione Mosca credeva meno di quanto facciano i più scettici europei, seppure la società energetica e nucleare statale Rosatom prevedesse di poter raggiungere una produzione nazionale di litio equivalente al 3,5% della produzione mondiale entro il 2025. 

Per farlo, tuttavia, sarebbe stata costretta a rivedere le concessioni fatte ai cinesi per sfruttare i giacimenti della Siberia e della Yakutia, acquisire la gestione di attività minerarie di litio in Africa e America Latina e soprattutto ad aggiornare la tecnologia estrattiva e delle semi lavorazioni associate a questa attività.

A onor del vero, a partire dall'ottobre 2019 Rosatom aveva cominciato a produrre litio per batterie presso gli stabilimenti di Novosibirsk, il cui prodotto principale però è il combustibile per le centrali nucleari. 

Lo fece dopo che nel 2017 annunciò un investimento pari a 15,6 milioni di dollari per avviare la produzione di batterie, un progetto sul cui effettivo stato si sa poco, soprattutto oggi che gli accordi stipulati dalla società controllata da Rosatom, la Uranium One Group (U1g), con i potenziali clienti sono stati bloccati prima dal Covid e poi dalle sanzioni.

Tra questi pre-contratti, quello per il gruppo canadese Wealth Minerals, nel quale si delineava l'acquisizione da parte russa di una partecipazione di maggioranza nel progetto per il litio «Atacama» della Wealth Mineral, in Cile. 

Dove però il governo locale, solleticato dal prezzo stellare che ha raggiunto il prezioso minerale, sta ripensando la politica nazionale che regola la produzione e il commercio del litio. 

I timori delle possibili interruzioni delle forniture russe di metalli come alluminio, rame e stagno ne hanno infatti fatto alzare i costi ai massimi storici dall'inizio di febbraio, innescando un fenomeno che si è sovrapposto agli effetti della transizione verso la mobilità elettrica. Ma nessun metallo è aumentato come il litio, che ha quasi quintuplicato il valore in un anno arrivando alla media di 76.700 dollari la tonnellata, con un aumento del 10% in sole due settimane e del 95% da gennaio 2022. Soltanto un anno fa veniva scambiato a 13.400 dollari la tonnellata.

Dunque nel sottosuolo ucraino si troverebbe una ricchezza mineraria in grado di dare un futuro redditizio alla nazione e anche essere irrinunciabile per l'Europa. Nel 2021 Kiev aveva iniziato a mettere all'asta i permessi di esplorazione per sviluppare le sue riserve di litio oltre a rame, cobalto e nichel, e a questo proposito ricordiamo le parole di Roman Opimakh, capo dei geologi ucraini, che nel maggio di quell'anno commentava: «Questi accordi hanno un'importanza strategica per l'affermazione del nostro Paese sulla scena mondiale in un nuovo ruolo».

A seguito delle trattative, nel novembre 2021 la European Lithium, una società che a dispetto del nome è di proprietà australiana (quotata nelle borse di Sydney e Francoforte, rappresentata in Europa dall'austriaca Ecm Lithium At GmbH), aveva dichiarato l'ormai prossima chiusura di un accordo per assicurarsi i diritti su due promettenti giacimenti di litio scoperti negli anni Ottanta e Novanta. Uno si trova a Shevchenkivske, nel Donetsk, l'altro a Dobra, nell'Ucraina occidentale.

Alla luce delle moderne tecnologie di esplorazione entrambi i siti sarebbero stati sottovalutati e conterrebbero ampie risorse. La società australiana, che finora si è fatta un nome in Europa perché proprietaria di un progetto di estrazione di litio a Wolfsberg, in Carinzia, in territorio ucraino è rappresentata dalla Petro Consulting llc Millstone. 

Questa ha una partecipazione nei due progetti minerari, quello austriaco e quello nazionale. Ebbene: European Lithium ha dichiarato che l'acquisizione delle miniere ucraine sarà graduale e dovrebbe concludersi, guerra permettendo, nel novembre prossimo a scapito della cinese Chengxin Lithium, che aveva chiesto gli stessi diritti e che per ottenerli avrebbe già investito molto denaro in altri settori con accordi di scambio con Kiev.

Investimenti che la guerra, se persa, vedrebbe a rischio o azzerati. Sarà un caso, l'invasione russa è cominciata proprio mentre l'Ucraina stava cercando di posizionarsi sul mercato come uno dei principali attori nella transizione verso l'energia pulita, cominciando un'evoluzione rapida soprattutto per una nazione che ha costruito a lungo la sua economia su carbone, ferro e titanio. 

È quindi chiaro che se ci fosse la pace oggi Kiev sarebbe tra i cinque Paesi maggiori fornitori di litio al mondo insieme con Cina, Australia, Cile e Congo. Non possiamo considerarla la ragione principale dell'invasione russa, tuttavia è ovvio che Mosca ambisca alle caratteristiche minerarie del sottosuolo come alla produzione agricola e alla posizione strategica di questa nazione.

Michele Arnese per startmag.it il 23 marzo 2022.

Il presidente russo Vladimir Putin ha detto che la Russia accetterà solo pagamenti in rubli per le forniture di gas naturale agli stati considerati “ostili”.

“Ho preso la decisione” – ha detto oggi Putin durante una riunione con il governo russo – “di passare ai pagamenti in rubli per le nostre forniture di gas naturale ai cosiddetti Paesi ostili, smettendo di usare le valute compromesse in queste transazioni”. Le banche avranno una settimana per adeguarsi al cambio di politica e sviluppare un meccanismo che permetta i pagamenti in rubli.

Putin ha poi aggiunto che non ha senso, per la Russia, esportare merci negli Stati Uniti o nell’Unione europea utilizzando dollari o euro. Una dichiarazione che lascia immaginare una possibile estensione del meccanismo in rubli all’interezza dei prodotti venduti da Mosca, e non solo al gas.

In risposta alle sanzioni imposte da parte della comunità internazionale verso la Russia per l’invasione dell’Ucraina, qualche settimana fa Mosca ha stilato una lista di paesi e territori “ostili”: sono definiti così dal Cremlino per aver adottato “azioni ostili”, appunto, nei confronti della Russia e delle sue aziende.

Ci sono tutti i paesi membri dell’Unione europea (anche l’Italia, di conseguenza), e poi Albania, Andorra, Australia, Regno Unito, Anguilla, Isole Vergini britanniche, Gibilterra, Islanda, Canada, Liechtenstein, Micronesia, Monaco, Nuova Zelanda, Norvegia, Corea del sud, San Marino, Macedonia del nord, Singapore, Stati Uniti, Taiwan, Ucraina, Montenegro, Svizzera e Giappone. 

La lista era stata redatta anche con l’intenzione di stabilire che il governo e le aziende russe potessero ripagare in rubli i debiti in valuta estera contratti con i creditori residenti in questi paesi. A fine febbraio l’Unione europea, gli Stati Uniti, il Regno Unito e il Canada avevano annunciato il congelamento delle riserve in valuta estera della Banca centrale russa, limitando le capacità della Russia di ripagare il proprio debito.

L’Unione europea è estremamente dipendente dalle forniture di gas russo per il soddisfacimento del proprio fabbisogno energetico: la quota di Mosca sul totale delle importazioni comunitarie è di quasi il 40 per cento. Tra i paesi membri più vulnerabili a un’interruzione dei flussi ci sono la Germania (che acquista da Mosca il 49 per cento del gas importato) e l’Italia (43 per cento).

Putin ha specificato che “la Russia continuerà sicuramente a fornire gas naturale in linea con i volumi, i prezzi e i meccanismi di prezzo stabiliti nei contratti esistenti”. 

Ogni giorno i paesi europei acquistano idrocarburi (gas, carbone e petrolio) dalla Russia per 1 miliardo di euro. Gli acquisti vengono effettuati tramite la rete SWIFT, lo standard internazionale per i pagamenti finanziari da cui alcune banche russe sono state espulse.

Dopo l’annuncio sui pagamenti in rubli, i prezzi europei del gas sono cresciuti fino al 21 per cento all’ICE Endex di Amsterdam: è qui che viene gestito lo scambio dei contratti di gas all’interno del Title Transfer Facility (TTF), il punto di scambio virtuale per il combustibile in questione che funge da hub per l’Europa continentale. 

Il prezzo del gas è arrivato a 118,75 euro al megawattora, contro i 115,9 euro/MWh alla chiusura di ieri.

Dopo l’annuncio di Putin, il valore del rublo rispetto all’euro è aumentato: il cambio è passato da 112 a 108,50. Il rapporto tra dollaro e rublo, invece, è passato da 103 a 97,75 per risalire poi a 100,25. 

La mossa del Cremlino puntava esattamente alla crescita del rublo, sia per infliggere un danno economico ai paesi che hanno reagito all’invasione russa dell’Ucraina con sanzioni finanziarie contro Mosca e sia per ridurre la spesa per le importazioni della Russia.

La Russia vuole che il gas le sia pagato in rubli per due motivi. Il primo è frenare la caduta della moneta russa (un effetto al momento visibile sui mercati). L’altra motivazione è che con questa mossa il costo del gas continuerà a lievitare. Maggiori prezzi significa per Mosca maggiori profitti e quindi più mezzi per sostenere lo sforzo bellico e fare fronte alle sanzioni occidentali.

Ma secondo la società di rating Moody’s, “il rischio di insolvenza [della Russia, ndr] e le potenziali perdite per gli investitori rimangano molto elevati, dato il marcato deterioramento che abbiamo visto nella capacità e nella volontà del governo di far fronte ai propri obblighi di debito nelle ultime settimane”. Moody’s ha tagliato il giudizio della Russia a Caa2, due livelli sopra il default, si legge su MF-Milano Finanza.

Il 25 maggio scadono peraltro le esenzioni concesse dagli Stati Uniti ai soggetti americani che devono ricevere interessi, dividendi o pagamenti in scadenza connessi al debito o all’equity ed emessi dal ministero delle Finanze russo, dalla banca centrale o dal fondo sovrano del paese. 

Moody’s ha fatto sapere che giudicherà come default il ripagamento in rubli delle obbligazioni denominate in valuta estera, anticipato da Mosca con un decreto presidenziale del 5 marzo scorso.

Stando a Bloomberg, le obbligazioni russe in scadenza e sotto osservazione internazionale sono quattro, per un totale di circa 2,25 miliardi di dollari. La prima è una cedola da 65,6 milioni di dollari, scaduta il 21 marzo e non ancora pagata ma rimborsabile in rubli (è previsto). Segue una seconda cedola da 102 milioni, in scadenza il 28 marzo e ripagabile in rubli. La cedola da 87,5 milioni in scadenza il 31 marzo, invece, può venire rimborsata solo in dollari. E lo stesso vale per il grande bond, da 2 miliardi di dollari, che scadrà il 4 aprile prossimo.

Partnership mediterranea. Quanto è sicuro il gas dell’Algeria? Guglielmo Gallone u L'Inkiesta il 15 Marzo 2022.

Lo Stato nordafricano è già il secondo fornitore italiano (il terzo per l’Europa) e potrebbe prendere nuove quote di mercato dalla Russia. Ma le sue relazioni economiche e politiche con Mosca potrebbero diventare un problema.

Ancora oggi l’Unione europea paga alla Russia quasi un miliardo di euro al giorno per l’energia (660 milioni per il gas e 350 milioni per il petrolio). Con la guerra in Ucraina si è iniziato a guardare altrove per staccarsi dall’energia di Mosca.

Pochi giorni fa il ministro Luigi Di Maio è volato ad Algeri – con l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi – per incontrare i rappresentanti del governo del Paese nordafricano. «Con l’Algeria avremo una partnership energetica più forte che ci consentirà di mitigare gli effetti delle sanzioni alla Russia – ha commentato il capo della Farnesina – c’è una grande disponibilità da parte dell’Algeria a sostenerci sia nel breve, medio e lungo periodo».

L’iniziativa del governo rispecchia la recente pubblicazione del nuovo censimento del bilancio italiano sul gas, aggiornato a tutto il 2021, da cui emerge che le due principali fonti di gas per l’Italia sono la Russia (28,988 miliardi di metri cubi) e l’Algeria (22,584 miliardi di metri cubi).

In tutta l’Europa, invece, il gas arriva per il 41% dalla Russia, per il 16,2% dalla Norvegia e per il 7,6% dall’Algeria.

L’origine geografica del gas importato in Italia: Snam Rete Gas s.p.a

La nuova politica energetica che si sta ipotizzando in questi giorni non prevede di chiedere agli algerini di fare ciò che fanno i russi, ma di garantire qualche sforzo in più. Eppure, siamo proprio sicuri di poter fare affidamento sull’Algeria?

Tra Mosca e Algeri c’è un legame molto forte. La Russia è stato il primo Paese al mondo ad aver riconosciuto, nel 1962, il governo provvisorio della Repubblica algerina dopo la guerra d’indipendenza.

Tra il 1962 e il 1989, Mosca ha fornito 11 miliardi di dollari di equipaggiamento militare all’Algeria. Nel 2001 l’Algeria è diventato il primo Paese arabo a firmare un accordo di partenariato strategico con la Russia. Vladimir Putin, in visita ad Algeri nel 2006, ha annunciato la cancellazione del debito algerino verso Mosca (4,7 miliardi di dollari) e un contratto da 7,5 miliardi di dollari per la vendita di armi.

Nel settore delle armi l’Algeria si conferma uno dei primi tre clienti di Mosca insieme a Pechino e New Dehli. Lo scorso ottobre l’ufficio stampa del Distretto Militare Meridionale della Federazione Russa riferisce che Mosca e Algeri hanno avviato le prime esercitazioni militari congiunte presso il campo di addestramento e la base militare di Tarsky, in Ossezia del Nord, Caucaso Settentrionale.

Ma il sodalizio tra Mosca e Algeri ha basi anche nel campo dell’energia. Negli anni ’70 l’Unione Sovietica ha contribuito alla costruzione di impianti metallurgici (El Hadjar e Annaba), centrali termiche (Jijel), gasdotti (Alrar–Tin Fouye–Hassi Messaud e Beni-Zid) e dighe (Tilezdit).

Nel 2006 la compagnia russa Gazprom e la compagnia di Stato algerina Sonatrach hanno firmato un protocollo d’intesa per la produzione del gas e l’ammodernamento degli impianti. Due anni dopo sono iniziate le esplorazioni e le estrazioni di idrocarburi nell’area di El Assel.

Nel 2014 i due Paesi hanno firmato un accordo di cooperazione nel settore dell’energia nucleare, aprendo la strada alla possibile costruzione di una centrale in Algeria (che, ad oggi, non è ancora avvenuta).

La vicinanza dell’Algeria a Mosca è stata confermata lo scorso due marzo alle Nazioni Unite, quando l’Assemblea generale ha adottato una risoluzione per riaffermare la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Ucraina. Hanno votato a favore 141 Paesi, 5 i contrari, 35 gli astenuti. Tra gli astenuti, c’era anche l’Algeria. È solo un gesto d’imparzialità? O c’è altro? Ancora prima, l’alleanza è stata confermata per combattere il Covid: l’Algeria è stato uno dei primissimi Paesi a usare e produrre il vaccino russo Sputnik.

Bisogna poi tener conto dei problemi interni al Paese africano. Da un lato, Sonatrach nel 2021 ha registrato esportazioni per oltre 34,5 miliardi di dollari: un aumento del 70% rispetto al 2020. Il tasso di crescita è stato del 5% e le esportazioni sono aumentate del 19%. Pochi giorni fa, l’amministratore delegato del colosso algerino ha detto di essere «un fornitore di gas affidabile per il mercato europeo, disposto a supportare i suoi partner a lungo termine in caso di situazioni difficili». Tuttavia, «Algeri potrà sostenere il continente solo dopo aver soddisfatto la domanda nazionale e gli impegni contrattuali», ha aggiunto il leader di Sonatrach.

S&P Global riferisce che il consumo di gas algerino è aumentato di oltre il 6% all’anno dal 2010 al 2019, prima che la pandemia provocasse una contrazione della domanda del 7% nel 2020.

Di fronte a un mercato poco stabile, si aggiungono problemi amministrativi: in soli tre anni la Sonatrach ha cambiato quattro presidenti e affrontato scandali di corruzione.

Infine, la politica interna. L’attuale presidente Tebboune, eletto il 12 dicembre 2019, è alle prese con due grandi problemi: manifestazioni di piazza (il movimento Hirak, simbolo della mobilitazione sociale) e astensionismo. Il quadro che emerge è quello di un Paese frammentato. Ed è un problema anche per l’Italia, perché il ponte tra Algeria ed Europa passa proprio per il gasdotto Transmed nel Mar Mediterraneo.

L’esportazione del gas algerino in Europa: una mappa di S&P Global

L’impianto ha una capacità di circa 32 milioni di metri cubi l’anno – è gestito da Sonatrach ed Eni. A dicembre 2021 le due aziende hanno siglato un nuovo contratto petrolifero nell’area onshore del bacino del Berkine per realizzare un programma di esplorazione e sviluppo accelerato di riserve. In quest’occasione, hanno anche firmato un protocollo d’intesa sulla cooperazione nel campo delle rinnovabili (impianti fotovoltaici) e dell’idrogeno (cattura, utilizzo e stoccaggio della Co2).

Quella di guardare altrove per le forniture di gas è un’operazione lecita e condivisibile, ma non priva di rischi.

Il primo è che nessun Paese, oggi, sembra capace a prendere il posto di Mosca come principale fornitore di gas per l’Europa. Il gas non è un rubinetto che si apre e chiude. Non si può deviare la fornitura da un giorno all’altro o da un Paese all’altro. Certe operazioni richiedono soldi, tempo, spazio. Non solo per la produzione, ma anche per il trasporto del materiale. Soprattutto in tempi di guerra e inflazione.

Il secondo rischio lo si è visto con la Russia: vanno bene le relazioni diplomatiche e gli sforzi per cercare nuovi fornitori, ma per intrecciare le relazioni economiche con un Paese su un tema così delicato come l’energia, non si può tralasciare la storia e la politica di quello stesso Paese. Sicuri di bussato al fornitore giusto?

Addio alla centrale a carbone di Cerano: l'Enel conferma chiusura. Il progetto prevede la trasformazione delle attuali Centrali in nuovi poli energetici innovativi. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Marzo 2022.

 La guerra in Ucraina e le misure eccezionali che il governo nazionale deciderà di adottare per l'approvvigionamento energetico e abbattimento dei costi non «modificheranno la strategia» di Enel né l’obiettivo della decarbonizzazione. Lo ha assicurato il responsabile Affari istituzionali territoriali Enel Italia, Gaetano Evangelisti, ascoltato questa mattina in I commissione del Consiglio regionale pugliese in merito ai programmi e prospettive della centrale Enel di Brindisi.

Enel, ha detto il dirigente, proseguirà nel proprio percorso di sviluppo delle fonti rinnovabili e dei sistemi di accumulo, accelerando nell’installazione di nuova capacità. Queste azioni dovrebbero consentire di ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e nello stesso tempo di mitigare gli impatti dei prezzi del gas. Il progetto prevede la trasformazione delle attuali Centrali in nuovi poli energetici innovativi. Il percorso di riconversione della centrale Enel di Cerano, quindi, prosegue e un gruppo di produzione a carbone è stato chiuso e resta l'obiettivo della dismissione dell’impianto a carbone nel 2025.

Mirko Molteni per “Libero quotidiano” il 14 marzo 2022.

Un mare di gas sotto il territorio italiano non sfruttato per motivi burocratici. È la ridicola condizione del nostro Paese nel mezzo della crisi globale dovuta alle sanzioni alla Russia per l'invasione dell'Ucraina, che sta condizionando la vita economica delle famiglie e delle aziende, specie quelle le cui produzioni dipendono da grandi fonti di calore, come le produzioni ceramiche, metallurgiche o vetrarie.

In tutta Italia, sulla terraferma e in mare, sono stati censiti a tutt' oggi 1.298 pozzi di estrazione metanifera, fra grandi e piccoli, dei quali ben 752 sono catalogati "inattivi" benché siano tutt' altro che esauriti. Nel solo Adriatico le piattaforme di trivellazione marina estraevano nel 2000 circa 17 miliardi di metri cubi all'anno, crollati del 95% nel giro di vent' anni fino ad arrivare nel 2021 a soli 800 milioni.

Complessivamente, l'Italia è ferma a 3,3 miliardi di metri cubi annui di propria estrazione, solo il 6% dei consumi nazionali, nonostante gli esperti concordino su un potenziale di 10 volte tanto, ovvero 30 miliardi di metri cubi annui. Gli italiani potrebbero contare, più o meno, per metà del fabbisogno di metano su pozzi nazionali. Il vantaggio sarebbe anzitutto strategico, perché il nostro paese dipenderebbe assai meno da Russia, Libia, Algeria, Azerbaijian. Geopolitica a parte, ne guadagnerebbe il portafoglio del cittadino.

I COSTI

l gas nazionale costerebbe infatti 5 centesimi a metro cubo, anziché i 70 centesimi di quello importato. Il paradosso è stato illustratoda un'inchiesta televisiva del noto programma Fuori dal coro, condotto da Mario Giordano su Rete 4. Il suo inviato Tommaso Mattei s' è recato in barca al largo delle Marche, per constatare la triste condizione del parco metanifero nazionale, tecnicamente valido, ma a cui normative e carenze autorizzative tarpano le ali.

All'altezza di San Benedetto del Tronto, c'è la piattaforma Fabrizia, definita "pozzo produttivo, non erogante". Tradotto, di gas sotto il fondo marino ce n'è a iosa, ma la piattaforma non può estrarlo, rimanendo dormiente e rischiando peraltro di deteriorarsi inutilmente a causa della salsedine e degli agenti atmosferici. Nella stessa area, la piattaforma "Davide" è pure inattiva, pur avendo sotto di sé ben 4 pozzi, che salgono a 6 nel caso dell'impianto Pennina. Nel profondo Sud, nel canale di Sicilia, ENI sta investendo sui campi metaniferi Argo e Cassiopea, che avrebbero un potenziale, solo essi, di almeno 1 miliardo di metri cubi annui. 

Tuttavia, come ha confermato a Fuori dal Coro, l'amministratore delegato di DG Impianti-Assomineraria, Michelangelo Tortorella, «aumentare l'estrazione è possibile, ma come tempo necessario parliamo di mesi, il problema è che non abbiamo il sostegno autorizzativo». Mancano insomma le autorizzazioni, la carta bollata.

Un grosso scoglio è stato costituito dal ritardo accumulato dal cosiddetto Pitesai, ovvero il "Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee", creato nel 2018 dal primo governo Conte. Ma c'è stata anche la moratoria del 2019 su nuove prospezioni ed estrazioni, dovuta anche a preoccupazioni come quella sulla potenziale "subsidenza", ovvero dissesti nel fondo marino dell'Alto Adriatico tali da far lentamente affondare Venezia.

Solo lo scorso 11 febbraio 2022, il Pitesai ha pubblicato la mappa aggiornata delle aree del territorio italiano in cui sarà autorizzata di nuovo l'estrazione di metano, per un totale di 26.000 chilometri quadrati sulla terraferma e 91.000 chilometri quadrati di superfici marine. 

Eppure nelle ultime settimane il piano del Pitesai è stato già attaccato e impugnato dalle associazioni ecologiste, che vedono il metano come uno dei peggiori gas serra, senza considerare che, dopotutto, fra tutti i combustibili fossili è il più pulito. 

LE STIME

Secondo una stima Pitesai, le riserve italiane note di gas ammonterebbero ad almeno 92 miliardi di metri cubi, tuttavia c'è chi, come Oscar Guerra, amministratore delegato di Rossetti Marino Spa, accredita un potenziale di 140 miliardi di metri cubi. Senza contare, beninteso, giacimenti ancora ignoti, che potrebbero portare il totale delle riserve "tricolori" a 350 miliardi di metri cubi. 

Quantità, quest' ultima, che però verrebbe esaurita in 10-15 anni se l'estrazione decuplicasse, mentre durerebbe un secolo se si restasse sugli scarsi livelli attuali, ma in tal caso è un problema di quanto la nostra società sia energivora.

Secondo i dati del Ministero dello Sviluppo Economico, durante il 2021 il record regionale di estrazione da terraferma spettava alla Basilicata, con 1 miliardo e 79 milioni di metri cubi annui, seguita dalla Sicilia con 149 milioni e dall'Emilia Romagna con 119 milioni. Quanto alle estrazioni marine, organizzate per "zone", la palma va alla Zona A dell'Alto Adriatico, davanti all'Emilia-Romagna, con 940 milioni di metri cubi.

Fuori dal coro, Mario Giordano davanti ai pozzi di gas dell'Adriatico fermi: "Perché non li attiviamo, quanti soldi regaliamo a Putin". Libero Quotidiano il 13 marzo 2022.

L'Italia resterà senza gas in seguito alla guerra in Ucraina? Se lo chiede Mario Giordano, che a Fuori dal Coro manda un suo inviato in barca a 10 miglia dalle coste delle Marche, davanti a una delle piattaforme di estrazione "completamente spente, anche in questa zona del Mar Adriatico". 

"In Italia ci sono 752 pozzi di estrazione del gas completamente inattivi. Di 1.298 punti di estrazione, 752 sono fermi". In Romagna, nella Laguna di Venezia, davanti alle Marche e all'Abruzzo. Poi c'è la piattaforma Fabrizia, davanti a San Benedetto del Tronto. "Qui sotto c'è un pozzo produttivo non erogante. Ovvero, il gas ci sarebbe e sarebbe pronto per essere preso, ma nessuno lo estrae", da tre anni. 

"Il crollo dell'estrazione del gas nell'Adriatico è stato vertiginoso - spiega l'inviato del talk di Rete4, dati alla mano -. Nel 2000 si estraevano 17 miliardi di metri cubi, oggi 800 milioni. Tradotto: il 95% in meno". Come sottolinea Michelangelo Tortorella, Ceo di Dg Impianti Assomineraria, "è la peggior condizione possibile" per affrontare una crisi energetica come quella che ci sta travolgendo. Stessa sorte poco più a Sud, per la piattaforma Davide, con 6 pozzi non eroganti. Nel 2021, l'Italia ha estratto dal sottosuolo solo 3,3 miliardi di metri cubi di gas, quando sotto i nostri piedi c'è un tesoro da 30 miliardi all'anno, 10 volte in più di quanto produciamo oggi. Tutto fermo, perché mancano le autorizzazioni. Preferiamo utilizzare il 6% di gas italiano, comprandone il 95% dall'estero. Risultato per le nostre tasche: potremmo spendere 5 centesimi di euro a metro cubo, ne diamo invece 70 a Vladimir Putin, alla Libia e all'Algeria.

Andrea Morigi per “Libero quotidiano” il 10 marzo 2022.

Tra farci gasare da Vladimir Putin o dallo sceicco Tamim bin Hamad Al Thani non c'è poi così tanta differenza. Ma conviene sempre fare qualche distinzione, così come fra il Qatar e l'Azerbaigian. Quel che li accomuna è che vanno presi tutti con le molle. E se si offendono ci lasciano al freddo. 

Con l'eccezione della Norvegia, che entro la fine del 2022 potrebbe aver terminato il proprio gasdotto che alimenterà la Polonia, tutti gli altri giacimenti di gas naturale pienamente attivi si trovano - anzi giacciono - in Paesi non democratici o militarmente aggressivi verso i vicini.

Chissà se, quando le missioni del ministro degli Afffari Esteri Luigi Di Maio, ultimamente spedito in giro per il mondo con il cappello in mano, saranno andate a buon fine e dall'Emirato di Doha apriranno i rubinetti del gas, potremo ancora dire che i nostri fornitori di energia sono anche esportatori e sponsor del fondamentalismo islamico, finanziatori delle moschee più radicali d'Europa, con il benestare dello sceicco Tamim bin Hamad Al Thani.

 Oppure se, dopo che avremo implorato ordinativi aggiuntivi e il dittatore locale Ilham Aliyev li avrà approvati, ci rimarrà un briciolo di coraggio per denunciare gli orrori della guerra santa dichiarata dai musulmani dell'Azerbaigian contro i cristiani dell'Armenia e del Nagorno-Karabakh.

Anche perché Baku avrebbe pagato 2,8 miliardi di dollari in mazzette a politici europei per evitare voti di condanna al Consiglio d'Europa per le sue frequenti violazioni dei diritti umani. Sono decenni che il rispetto deille libertà viene subordinato al tepore domestico e alla mobilità. Nessuno si scandalizza più e nemmeno rimane sorpreso. Peccato che, oltre che dai satrapi di mezzo mondo, ci siamo fatti ricattare anche da ecologisti e adolescenti svedesi. 

Tanto che «in Italia, dove sono abbondanti le riserve, la produzione va verso l'azzeramento per opposizione politica a ogni tipo di perforazione, sviluppo e ricerca. Dal picco di 21 miliardi di metri cubi all'anno nel 1994, nel 2021 si produrranno 3 miliardi di metri cubi», spiegava il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli, su We Energy, la rivista dell'Eni, nel dicembre scorso.

Scampate le conseguenze di una primavera araba in Algeria, le elezioni hanno confermato alla guida del Paese un esponente della nomenklatura socialista come Abdelmajid Tebboune. 

In un certo senso è una garanzia. Ieri l'ambasciatore dello Stato nordafricano ha assicurato un potenziamento delle forniture attraverso il gasdotto che collega la sponda sud del Mediterraneo all'isola.

Visto che almeno Algeri non è caduta in mani jihadiste, ora però occorrerà fare attenzione alla sua collocazione nello scacchiere mondiale. Al Palazzo di Vetro, il 2 marzo, il rappresentante algerino si è astenuto, insieme ad altri 34 Paesi, sulla risoluzione dell'Assemblea Generale dell'Onu che chiedeva sanzioni contro la Russia per l'invasione dell'Ucraina. E l'Italia è uno degli Stati "ostili" nella lista nera di Mosca, primo fornitore di armi all'Algeria.

 "Ognuno ha i suoi bastardi", è valso come giustificazione per varie amministrazioni degli Usa ai tempi della guerra fredda, quando preferivano un torturatore militare a un carnefice filosovietico.

Adesso che invece alla Casa Bianca c'è un presidente democratico, Joe Biden, si è disposti a fare uno strappo per un brutto ceffo comunista come Nicolás Maduro, il tiranno venezuelano, liberandolo dalle ritorsioni commerciali purché sganci un po' di greggio. È amico di Putin, anch' egli incarcera e uccide gli oppositori, ma ha dei pozzi da sfruttare e l'oro nero riesce a compensare ogni barbarie. 

 L’Italia, che non ha nemmeno lontanamente l'autosufficienza energetica dell'America, ed già abbastanza preoccupata della situazione in Libia, dalla quale dipende l'approvvigionamento petrolifero della Penisola, dovrà fare i conti con la realpolitik. Ci sono già mercenari russi schierati in Cirenaica, pronti a farci pagare il conto delle sanzioni economiche imposte a Mosca.

BIDEN: STOP A PETROLIO E GAS RUSSI. Da ansa.it l'8 marzo 2022.  

Gli Usa vieteranno l'import di petrolio e gas russi: lo ha confermato Joe Biden parlando dalla Casa Bianca, dopo le indiscrezioni dei media. 

Biden ha vantato l'accordo bipartisan in Usa sull'embargo all'energia russa, ma ha detto di capire che molti alleati non sono in grado di allinearsi su questa misura. "Putin non vincerà - ha sottolineato -, potrà conquistare città ma non un intero Paese". 

Il petrolio vola a New York, dove le quotazioni balzano del 7,38% a 128,11 dollari al barile con Joe Biden che annuncia il divieto delle importazioni di petrolio negli Stati Uniti.

Da ilsole24ore.com l'8 marzo 2022.   

Gli Usa vieteranno l’import di petrolio e gas russi: lo ha confermato Joe Biden parlando dalla Casa Bianca, dopo le indiscrezioni dei media. Stessa decisione, per quanto riguarda il petrolio, è stata annunciata dal Regno Unito.

«Colpendo la maggiore arteria dell’economia russa, il popolo americano darà un altro potente colpo alla macchina da guerra di Putin», ha spiegato Biden. 

«Un rublo ora vale meno di un penny, un centesimo di dollaro americano», ha aggiunto. Le sanzioni occidentali hanno già causato pesanti danni all’economia russa, «hanno creato un cratere». 

Il blocco sarà unilaterale, senza cioè l’assenso degli alleati europei ma è stato fatto «in stretta consultazione» con loro, ha detto il presidente americano. Biden ha detto che capisce la scelta dell’Unione europea, molto più dipendente degli Stati Uniti dall’energia russa. L’Unione Europea importa dalla Russia circa il 25% del petrolio che compra all’estero mentre la quota russa del gas importato è ancora più alta, circa il 40 per cento.

La stretta Usa ha avuto un immediato effetto sui mercati delle materie prime: a New York il petrolio vola, con le quotazioni del Wti che schizzano verso l’alto e il Brent oltre i 130 dollari al barile (+7%). Negli ultimi 6 mesi del 2021 gli Stati Uniti hanno importato dalla Russia circa il 7% del petrolio comprato all’estero. 

Anche Londra blocca l’import di petrolio russo

Anche il governo britannico ha annunciato l’uscita da tutte le importazioni di petrolio russo e suoi derivati entro il 2022, come ulteriore sanzione contro la guerra in Ucraina scatenata da Vladimir Putin. 

La misura, riferisce Bloomberg che cita una persona a conoscenza del piano, verrà implementata nel corso dei prossimi mesi in coordinamento con gli Usa ma non coinvolgerà il gas russo. La Russia ha una quota del 12-13% sull’import di petrolio britannico e dell’8% sui consumi finali.

«Il Regno Unito eliminerà gradualmente l’importazione di petrolio e prodotti petroliferi russi entro la fine del 2022 - ha detto il ministro dello Sviluppo economico Kwasi Kwarteng -. Questa transizione darà al mercato, alle imprese e alle catene di approvvigionamento un tempo più che sufficiente per sostituire le importazioni russe», 

Aie: pronti a rilasciare ulteriori riserve contro caro-energia

L’attesa per le mosse americane sull’import di energia dalla Russia prende dunque la scena, mettendo in secondo piano le altre novità di rilievo della giornata, Come l'intenzione dei paesi membri dell’Agenzia internazionale per l’energia (Aie) di rilasciare a breve ulteriori quantitativi di scorte di petrolio per far fronte all’impennata dei prezzi dell’energia provocata dalla guerra in Ucraina.

Dopo aver annunciato il piano anti-rincari il direttore dell’agenzia, Fatih Birol, ha criticato la decisione di Arabia Saudita e Emirati Arabi di non pompare più greggio sul mercato per raffreddare i prezzi. 

In un'intervista al Financial Times, Birol ha spiegato che il rilascio coordinato della scorsa settimana da parte degli Stati Uniti e di altre grandi nazioni consumatrici di energia di 60 milioni di barili è stata una “risposta iniziale” e che l’Iea è pronta a fare “tutto” per ridurre la volatilità nei mercati energetici causata dall'invasione russa dell’Ucraina.

“Siamo pronti a rilasciare tutto il petrolio necessario”, ha detto Birol al Financial Times, osservando che 60 milioni di barili rappresentavano solo il 4% delle riserve petrolifere strategiche totali dei membri dell’Aie. 

Spesa energetica, Bruxelles smentisce nuovi Eurobond

E appartiene al fronte energia anche l’altra indiscrezione rilevante di oggi, secondo cui l’Unione europea si starebbe preparando a lanciare bond “su vasta scala” per finanziare le spese dell'energia e della difesa.

È quanto riporta l’Agenzia Bloomberg citando fonti riservate secondo le quali i tecnici delle autorità europee sono al lavoro per mettere a punto un piano da presentare dopo il prossimo summit di Versailles in programma per il 10-11 marzo. 

Ancora da decidere l'importo e la struttura dell'operazione. L'indiscrezione su possibili Eurobond in cantiere non tarda a riflettersi sull'andamento dei mercati, in particolare quelli dell’Europa meridionale: Madrid e Milano guadagnano il 3% e Lisbona il 2,5%. Più caute Parigi (+1,64%) e Francoforte (+1,41%).

La Commissione europea, per bocca del vicepresidente Timmermans, ha però smentito questa indiscrezione: «Non c’è nessun progetto di eurobond per le spese energetiche a livello di Commissione, forse c’è a livello di qualche Stato membro», ha detto. 

Una bozza della dichiarazione comune che chiuderà il vertice dei leader Ue di giovedì e venerdì, quindi soggetta a possibili ulteriori negoziati, sottolinea l’obiettivo europeo “dell’eliminazione della dipendenza da petrolio, gas e carbone importati dalla Russia” attraverso “la diversificazione delle forniture”. Tra i temi sul tavolo anche l’uso di Eurobond per le spese energetiche, sul quale la presidenza francese è in prima linea.

Apripista il Qfp Ue da 1.800 mld

L'operazione Eurobond (obbligazioni, bond in inglese, che garantiscono congrui interessi agli acquirenti, emesse in cambio di prestiti) giunge a un anno dal pacchetto complessivo da 1.800 miliardi di euro (Qfp) dell’Ue, che comprende anche il Next Generation Fund, per sostenere i maggiori sforzi dovuti alla pandemia da Covid 19. 

Con la nuova iniziativa l'obiettivo dell’Unione europea è di finanziare le maggiori spese dovute alla riforma della difesa e delle infrastrutture energetiche a seguito dell'invasione russa dell'Ucraina.

L'ipotesi allo studio consiste nell'emissione di obbligazioni da parte della Commissione Europea, che poi convoglierebbe i proventi agli Stati membri sotto forma di prestiti agevolati per finanziare la spesa nelle aree energia e difesa. 

L’apertura del commissario Gentiloni

È del 7 marzo scorso la dichiarazione del commissario europeo all’Economia, Paolo Gentiloni, che ha indicato la necessità di “concentrarsi su ulteriori impegni e iniziative” evitando di “riorientare la Recovery and Resilience Facility” ipotizzando un “meccanismo di compensazione” per i possibili problemi futuri di forniture energetiche. 

Secondo le indiscrezioni raccolte da Bloomberg la struttura del nuovo finanziamento potrebbe ricalcare quella del precedente programma “Sure” per finanziare il sostegno all'occupazione a seguito della pandemia.

Ecco perché l’embargo del petrolio di Usa e Gb non farà tanto male alla Russia. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 09 marzo 2022

Le quantità di petrolio e prodotti raffinati che smetteranno di comprare i due paesi saranno molto ridotte e la Russia può semplicemente vendere il suo petrolio ad altri acquirenti. Eni non stipulerà nuovi contratti, quelli esistenti continueranno

L’embargo del petrolio russo «servirà semplicemente ad aumentare il turismo del greggio», spiega Salvatore Carollo, esperto di trading petrolifero con un passato in Eni.

Per quanto riguarda i prodotti petroliferi, quindi benzina, gasolio e nafta, avverte Carollo, è tecnicamente è difficile garantire che nei due paesi – come negli altri – non arriverà più niente di russo. 

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

(ANSA il 10 marzo 2022) - "Al G7 energia c'era ospite il mio equivalente ucraino, nella sessione di apertura, e potete immaginare cosa ci ha raccontato", dice il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, in un'audizione al Senato sul Pnrr. Con gli acquisti di gas "stiamo finanziando una guerra che a noi non piace" riconosce il ministro, che aggiunge "il collega tedesco diceva: non possiamo chiudere e fermare tutta l'economia, altrimenti diventa una tragedia sociale in Germania". "Vale anche da noi, onestamente, perché Germania e Italia hanno un destino simile come importazione", sottolinea il ministro.

Biden annuncia l’embargo al petrolio russo. Ma l’Europa non intende seguirlo. Bruxelles per ora non è in grado di rinunciare all’approvvigionamento energetico da Mosca. Giacomo Puletti su Il Dubbio l'8 marzo 2022.

Gli Stati Uniti hanno aggiunto un nuovo tassello al puzzle di sanzioni contro la Russia di Vladimir Putin. Un tassello che certo non provocherà sconquassi nell’economia energetica a stelle e strisce, ma che comunque traccia una via potenzialmente percorribile dal resto dell’Occidente nei prossimi giorni. Il presidente Joe Biden ha infatti annunciato il bando completo di tutte le fonti fossili che gli Stati Uniti finora importavano dalla Russia, cioè petrolio, gas liquefatto e carbone. Ovvero quello che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky vorrebbe facesse anche l’Unione europea.

«Stiamo cercando di colpire al cuore la macchina economica di Putin», ha detto l’inquilino della Casa Bianca. Non solo, una delegazione statunitense lo scorso weekend si è recata a Caracas, per parlare con il regime di Nicolas Maduro di un eventuale alleggerimento delle sanzioni contro il Venezuela così da rimpiazzare quelle contro la Russia, e si parla anche di possibili colloqui addirittura con Teheran. Di pari passo il discorso per i privati, con il colosso petrolifero anglo-olandese Shell che ha annunciato che non acquisterà più greggio dalla Russia e che ritirerà la propria partecipazione a tutte le attività legate agli idrocarburi nel Paese. «Sono riconoscente all’azienda per questo passo responsabile ed etico», ha scritto in un tweet il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba. «Sappiamo che i nostri alleati dell’Ue non sono in grado di seguirci – ha aggiunto Biden – ma sappiamo che anche loro implementeranno strategie a lungo termine per ridurre la dipendenza dall’energia russa».

Il motivo della differenza di strategia tra Bruxelles e Washington è presto detto. Rispetto al totale dei consumi, gli Stati Uniti dipendono dal petrolio russo per il 3 per cento del proprio fabbisogno, l’Italia per l’11 per cento, la Germania per il 35 per cento. E infatti è proprio Berlino a mettersi maggiormente di traverso rispetto all’ipotesi di sanzioni energetiche contro Mosca. Sul totale dell’import, la Russia fornisce alla Germania più della metà del suo fabbisogno di gas, la metà del carbone e, come detto, il 35 per cento del petrolio. E l’Italia? Il nostro paese ha comprato dalla Russia un quarto del gas necessario al proprio fabbisogno, mentre tre quarti arriva dagli stoccaggi e da altri fornitori. «Abbiamo fatto un’operazione estremamente anticipata e rapida ed entro la primavera inoltrata circa 15-16 miliardi di metri cubi saranno rimpiazzati da altri fornitori – ha detto il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ad Agorà extra – Stiamo lavorando con impianti nuovi, rigassificazione, contratti a lungo termine e rinforzo delle nostre infrastrutture: ragionevolmente in 24-30 mesi dovrebbero consentirci di essere completamente indipendente».

Nel frattempo, il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha parlato con il presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliyev per discutere «la situazione sul terreno in Ucraina e l’ulteriore rafforzamento della cooperazione bilaterale, in particolare nel settore energetico», come specificato da palazzo Chigi. Ma in questa guerra contro il tempo per emanciparsi dal gas russo, nessuno si salva da solo. Ed è per questo che giovedì e venerdì, nel Consiglio europeo informale convocato a Versailles dal presidente francese e presidente di turno del Consiglio dei ministri dell’Unione europea, Emmanuel Macron, si discuterà di un piano per emettere debito in comune, garantito dagli Stati membri, per finanziare sia le spese necessarie alla conversione energetica sia quelle per la difesa comune. Come precisato in conferenza stampa da Frans Timmermans, uno dei vicepresidenti della Commissione europea, il piano è tuttavia un’idea di alcuni leader degli Stati membri, e non della Commissione in sé. Una strategia del genere, sulla falsa riga del Next generation Ue, dovrebbe infatti essere approvata all’unanimità e difficilmente al momento la si otterrebbe.

Ma c’è chi, anche all’interno della Commissione, punta a questo obiettivo. O comunque a qualcosa di simile. Per il commissario europeo all’Economia, Paolo Gentiloni, occorre infatti trovare «strumenti nuovi» per affrontare i problemi che la crisi ucraina pone all’Ue. «Bruxelles si liberi adesso dalla dipendenza energetica russa – ha detto il segretario di Stato statunitense, Anthony Blinken, sulla falsa riga del discorso di Biden – è un imperativo, perché Mosca la usa come un’arma». Se ne parlerà, forse, a Versailles. Nel frattempo, l’Unione europea non potrà far altro che continuare a comprare gas per miliardi di dollari ogni giorno dalla Russia di Putin.

DAGONOTA il 9 marzo 2022.

Che schiaffone per Biden! Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti si sono rifiutati di parlare con il presidente americano, che voleva chiedere ai due Mohammed (Bin Salman e Bin Zayed) di fare qualcosa per arginare l’aumento dei prezzi del petrolio. 

MBS e MBZ hanno dato un bel due di picche a “Sleepy Joe” per una ragione precisa: il “disaster-in-chief” sta apparecchiando il nuovo accordo sul nucleare con l’Iran, insieme a Germania, Francia, Gran Bretagna, Ue e Russia (almeno finché Putin non ha iniziato a bombardare l’Ucraina). Per Riad e Abu Dhabi, a maggioranza sunnita, gli ayatollah sciiti che governano Teheran sono il nemico pubblico numero uno.

Le relazioni dei due Paesi del Golfo con gli Usa sono peggiorate drasticamente con Biden alla Casa Bianca (due esempi: le accuse a Bin Salman su Khashoggi e il mancato supporto alla guerra in Yemen). Per Biden, che ora è costretto anche a cercare disperatamente l’aiuto dell’odiatissimo Maduro in Venezuela, è una bella badilata in fronte, nonché l’ennesima dimostrazione che la politica internazionale è una banderuola soggetta ai cambiamenti delle correnti e degli interessi di parte: mai allearsi con il peggior nemico del tuo migliore amico, o finirai travolto.

Da lastampa.it il 9 marzo 2022.  

In un titolo al centro della prima pagina, il Wsj evidenzia che «Arabia Saudita ed Emirati arabi uniti snobbano la chiamata di Biden», riferendo che non è riuscito il tentativo del presidente americano di contattare telefonicamente i leader dei due Paesi per chiedere loro di agire sulla leva della produzione petrolifera in modo da arginare in una certa misura l'aumento dei prezzi.

Peggio, i sauditi sono tornati a sottolineare come le loro relazioni con Washington si siano deteriorate sotto l’amministrazione Biden anche perché chiedono maggior sostegno per il loro intervento in Yemen, aiuto con lo sviluppo del programma nucleare civile mentre l’Iran avanza e – soprattutto - l’immunità legale per il principe Mohammed negli Stati Uniti dove, invece, è sotto accusa per diverse denuncia tra cui l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel 2018. 

Sulla stessa lunghezza d’onda gli Emirati che condividono le preoccupazioni saudite sulla risposta moderata degli Stati Uniti ai recenti attacchi missilistici dei militanti Houthi sostenuti dall’Iran in Yemen, così come temono il rilancio dell’accordo nucleare iraniano.

Biden si trova quindi a un bivio e il petrolio a 130 dollari al barile aumenta le pressioni per trovare una soluzione diplomatica. Almeno in medio oriente: i due Paesi sono gli unici grandi produttori in grado di pompare milioni di barili in più. Una capacità che potrebbe aiutare a tagliare i prezzi del greggio.

Rifiutando di parlare con Biden, di fatto, hanno risposto picche alla richiesta americana spiegando di attenersi al piano approvato dall’Opec, senza dimenticare il progressivo avvicinamento a Mosca in nome proprio dell’alleanza energetica.

LA GUERRA DEL LUSSO.

Da corriere.it il 26 giugno 2022.  

Un altro colpo all’economia di Mosca. Quattro Paesi del G7, in corso a Elmau in Baviera, vieteranno le esportazioni russe di oro in un nuovo tentativo di impedire agli oligarchi di aggirare le sanzioni imposte contro la Russia. L’iniziativa congiunta di Regno Unito, Canada, Giappone e Stati Uniti «colpirà direttamente gli oligarchi russi e colpirà il cuore della macchina da guerra di Putin», ha affermato il primo ministro britannico Boris Johnson. Su Twitter il presidente Usa, Joe Biden, scrive invece che il G7 annuncerà «il divieto di importazione dell’oro russo» dal quale Mosca «incassa decine di miliardi di dollari». Lo stop alle importazioni dovrebbe essere ufficializzato martedì 28 giugno.

Il peso dell’oro russo

Il blocco dell’oro comporta danni non da poco per la Federazione. L’oro è la seconda più grande fonte di reddito da export per Mosca, dopo l’energia, con il paese che produce ogni anno circa il 10% dell’oro estratto a livello mondiale. Nel dettaglio, la Russia ha riserve auree tra le più grandi del mondo, per un valore stimato di oltre 140 miliardi di dollari. La maggior parte del metallo viene acquistato dalle banche commerciali russe che lo inviano ai raffinatori prima di venderlo all’estero o alla banca centrale russa, che il 27 febbraio ha dichiarato di voler riprendere gli acquisti di oro sul mercato locale.

Il precedente

Riserve che di fatto la stanno aiutando Mosca ad aggirare le sanzioni vendendo i suoi lingotti. Come successo in Svizzera a maggio quando sono entrate nel paese 3,1 tonnellate di oro di origine russa. Si trattava di lingotti destinati ad essere fusi e per cui l’Ufficio federale della dogana e della sicurezza dei confini (Udsc-Bazg) ha comunicato di aver aperto un’inchiesta per verificare l’eventuale violazione delle sanzioni. 

Le conseguenze

Ma quali sono le conseguenze di uno stop all’oro russo? La premessa è doverosa. Le sanzioni occidentali contro la Russia non hanno, fino ad ora , preso di mira direttamente gli scambi commerciali in oro, ma molte banche, spedizionieri e raffinatori hanno smesso di trattare il metallo russo dopo l’inizio del conflitto in Ucraina.Ad esempio, la London Bullion Market Association (Lbma) ha deciso il 7 marzo 2022 di togliere alle raffinerie russe il bollino “Good Delivery”. 

Un marchio che serve a indicare i lingotti vendibili per scopi finanziari. Con il nuovo stop per la Russia diventerà ancora più difficile vendere il proprio oro e lo stesso vale per gli oligarchi. Il divieto di transazioni colpisce infatti chiunque commercia in oro dalla Russia ma non è retroattivo, non riguarderà l'oro di origine russa che è stato precedentemente esportato. Il metallo russo, in ogni caso, continuerà a trovare acquirenti dalla Cina al Medio Oriente.

Non toccati nucleare civile e gas. Sanzioni alla Russia, nuovo pacchetto dell’UE: stop a diamanti e caviale, rating e acciaio. Vito Califano su Il Riformista il 15 Marzo 2022. 

Il nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia è stato pubblicato oggi nella Gazzetta Ufficiale europea. E quindi giù, ancora un altro colpo durissimo all’economia russa, questa volta indirizzato allo stile di vita dei cittadini, i beni di lusso, la capacità industriale, l’export di tecnologia e i servizi per l’energia, l’import di acciaio e alluminio “made in Russia”. Le sanzioni seguono la durissima prima tranche attivata dopo l’invasione dell’Ucraina. Sospesa l’adesione della Bielorussia, principale alleato di Mosca, all’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Altri 15 nomi nella lista di oligarchi tra cui il Presidente del Chelsea Roman Abramovich e l’azionista di Alfa Group German Khan. Colpiti imprenditori di spicco attivi nei campi della siderurgia (stimate perdite per circa 3,3 miliardi di Mosca), dell’energia, del settore bancario, nei media e nei prodotti militari. Per esempio l’amministratore delegato di Channel One Russia Konstantin Ernst. Colpite anche nove nuove società tra militari e di difesa. A chi entra nella black list vengono congelati i beni e le transazioni ed è impedito l’ingresso nell’Unione Europea.

L’Unione Europea, in collaborazione con il G7 e altri partner, ha inoltre deciso che potrà aumentare i diritti di dogana in qualsiasi momento su qualsiasi prodotto russo. “Decisione senza precedenti”, per Valdis Dombrovskis, vicepresidente della Commissione Ue con delega al trade. Vietata qualsiasi transazione con le società statali russe attive nel settore energetico con l’eccezione per l’energia nucleare civile e il trasporto di petrolio e gas – l’Europa, e in particolare Italia e Germania, restano ancora dipendenti dalle materie prime russe. Introdotto un divieto (con Stati Uniti e Regno Unito) di rating della Russia e delle società russe da parte delle agenzie Ue e un altro divieto di fornitura di servizi di rating ai clienti russi.

Blocco secco anche ai prodotti di lusso che non potranno più essere esportati: il tetto minimo è stato fissato a 300 euro. Colpiti dunque anche la classe media oltre agli oligarchi. Lo stop, come elenca Il Corriere della Sera, coinvolge anche teleferiche, seggiovie, sciovie, meccanismi di trazione per funicolari, caviale, tartufi, champagne, Asti spumante, birra, sigari, profumi, pelletteria, selleria, articoli da viaggio, borsette e articoli simili di alta qualità, cappotti, giacche o altri indumenti, accessori di abbigliamento e calzature (indipendentemente dal materiale), cravatte, tappeti e arazzi anche non fatti a mano, perle, pietre preziose e semipreziose, articoli di perle, di gioielleria o di oreficeria, monete e banconote non aventi corso legale, vasellame di porcellana, di gres, di maiolica o di terraglia, apparecchi elettronici od ottici per la registrazione e la riproduzione di suoni e immagini oltre i mille euro, articoli sportivi (sci, golf, immersione e sport acquatici), articoli e attrezzature per il biliardo, il bowling automatico, i giochi per casinò e i giochi azionati da monete o banconote.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

FRANCESCA PIERANTOZZI,JACOPO ORSINI per il Messaggero il 12 marzo 2022.

L'Europa e gli Stati Uniti varano nuove sanzioni contro la Russia. Nel mirino questa volta i beni di lusso, quelli comprati dall'élite ricca del Paese. Con un obiettivo preciso: accrescere le restrizioni sui miliardari e sul loro sfavillante stile di vita affinché costringano Vladimir Putin a fermare le bombe sull'Ucraina e a sedersi al tavolo della trattativa. 

L'Unione europea oggi si appresta ad adottare una serie di misure contro Mosca che prevedono lo stop alle esportazioni di beni di lusso, la sospensione da Fondo monetario internazionale e Banca mondiale e la revoca delle condizioni speciali riconosciute all'Organizzazione mondiale del commercio. Ad annunciare le nuove mosse è stata ieri la presidente della Commissione di Bruxelles, Ursula von der Leyen. «Ci sarà il divieto di esportare qualsiasi bene di lusso dall'Unione europea verso la Russia, un colpo diretto all'élite. Coloro che sostengono la macchina da guerra di Putin non devono più godersi uno stile di vita opulento, mentre le bombe cadono sulle persone innocenti in Ucraina», ha sottolineato.

Le sanzioni andranno a colpire due settori molto rilevanti, soprattutto per Italia e Francia. Il sistema della moda tricolore, quindi tutto il comparto del tessile e abbigliamento, vende nell'ex Unione sovietica circa 1,5 miliardi di euro l'anno. Un giro d'affari che il Covid ha scalfito solo in parte (alla fine del 2021 il valore era ancora inferiore ai livelli pre-pandemia ma di soli sei punti percentuali) e che rappresenta il 2-3% circa delle esportazioni complessive italiane del settore nel mondo. 

LE MISURE Il provvedimento ricalca quello già annunciato da Washington e verrà preso in coordinamento con tutti i Paesi del G7. Il congelamento della posizione di Mosca in Fondo monetario e Banca mondiale in particolare impedirà a Mosca di ricevere prestiti o altre forme di finanziamento. Si allungherà poi la black list degli oligarchi e dei loro familiari vicini a Putin soggetti a blocco dei beni. Proprio ieri lo yacht a vela più grande del mondo, il Sy A, custodito in un rimessaggio di Trieste, del valore di circa 530 milioni di euro e riconducibile all'oligarca russo Andrey Igorevich Melichenko, è stato sottoposto a un provvedimento di congelamento dalla Guardia di finanza. Sarà poi vietata l'importazione di beni in ferro e acciaio dalla Federazione russa e verrà proposta l'adozione di un divieto generalizzato sui nuovi investimenti in Russia nel settore energetico, un divieto che si applicherà anche ai trasferimenti di tecnologia e ai servizi finanziari.

Anche gli Stati Uniti hanno annunciato la messa al bando delle esportazioni di beni di lusso verso Mosca, oltre che il divieto di importare caviale, vodka e diamanti. «Prenderemo di mira i loro super-yacht e le residenze estive da centinaia di milioni di dollari e stiamo rendendo loro anche più difficile comprare prodotti di fascia alta fabbricati nel nostro paese, vietando l'esportazione di beni di lusso in Russia», ha detto Biden riferendosi ai ricchi amici di Putin. «Il G7 sta aumentando la pressione sui miliardari corrotti russi, stiamo aggiungendo nuovi nomi alla lista degli oligarchi e delle loro famiglie che prendiamo di mira», ha aggiunto il presidente americano sottolineando che «stiamo aumentando il coordinamento tra i Paesi del G7 per prendere di mira e sequestrare i loro beni ottenuti in modo illecito».

«Sostengono Putin, rubano al popolo russo e cercano di nascondere i loro soldi nei nostri Paesi - ha continuato l'inquilino della Casa Bianca - fanno parte di quella cleptocrazia che esiste a Mosca e anche loro devono soffrire per le sanzioni». Intanto in Francia i vari Louis Vuitton, Chanel, Hermès o L'Oreal, liquidano la questione con il fatto che la Russia non pesa che per l'uno, massimo due per cento sul mercato del lusso. Se gli uffici stampa delle grandi maison sono rimasti molto discreti sulla guerra in Ucraina, gli esperti del settore sono unanimi: «Tutti restano molto dipendenti dalla Russia, sia perché il paese offre un pubblico appetitoso di quasi 270mila milionari in dollari, sia perché le famiglie degli oligarchi sono tra i più entusiasti acquirenti di borse, profumi e vestiti di alta gamma in tutto il mondo, da Parigi a Courchevel.

Abbandonare la Russia potrebbe significare allontanare queste élite anche dalle boutique su suolo occidentale, con un peso sugli affari a medio termine». I grandi non hanno comunque aspettato l'ordine delle sanzioni arrivato ieri. Hermes ha chiuso le sue tre boutique già il 5 marzo, seguito subito dopo da Kering, il gruppo della famiglia Pinault, che ha abbassato il sipario dei suoi due negozi e quattro corner. 

Via dalla Russia anche Chanel, che ha chiuso le sue 17 boutique e ha sospeso la sua attività di e-commerce. Anche Lvmh aveva già fermato i suoi 124 negozi. Poco male, ha fatto sapere il gruppo, precisando che realizza in Russia «meno del 2 per cento» dei suoi 64 miliardi di euro di vendite. Kering stima invece che la parte russa dei suoi affari valga appena l'uno per cento del totale. La stessa percentuale del gigante italofrancese Essilorluxottica, che nell'ex Urss vende circa l'1% dei suoi occhiali. 

Da corriere.it il 12 marzo 2022.

Gli Stati Uniti imporranno il divieto di import da Mosca di bevande alcoliche, pesce e diamanti. Tolta l’ultima voce, la messa al bando riguarda principalmente caviale e vodka vale a dire le eccellenze del lusso targato Russia conosciute nel mondo ma che nella bilancia commerciale tra i due Paesi non figurano certo ai primissimi posti. (…) 

Paradossalmente a beneficiare dello «sgarbo» di Biden a Putin potrebbe essere l’Italia: dagli anni ‘90 del secolo scorso si è infatti sviluppato un polo di itticoltura e produzione in provincia di brescia che è progressivamente cresciuto fino a collocare l’Italia tra i principali esportatori mondiali di questo prodotto alimentare di lusso. 

Il sistema predisposto dall'Ue. Sanzioni contro gli oligarchi, c’è qualcosa che non torna. Baldassarre Lauria su Il Riformista l'11 Marzo 2022. 

Il sistema sanzionatorio predisposto dall’Unione Europea, per l’invasione illegittima dell’Ucraina, nei confronti dei presunti fedelissimi del presidente russo, Vladimir Putin, al di là di ogni considerazione circa l’opportunità e/o l’efficacia persuasiva di queste misure, sul piano strettamente giuridico rischia di essere un vero e proprio atto di “prepotenza legale”. I provvedimenti di congelamento dei beni eseguiti nei confronti di cittadini della Federazione Russa pongono, infatti, una serie di interrogativi in ordine alla natura giuridica e alla riconducibilità di essi a una “base legale”, compatibile con il diritto comunitario e costituzionale. Nei comunicati diffusi dalle Autorità nazionali, i detti provvedimenti hanno riguardato soggetti appartenenti all’Elite Economica russa, nei confronti dei quali non è stata mossa alcuna specifica contestazione fra quelle contemplate dai Trattati UE, valorizzando così una sorta di “pericolosità sociale da posizione”.

Si tratta di decisioni significativamente incidenti sulle libertà personali, ancor prima di una formale contestazione e indipendentemente dall’apertura di un’indagine, di fatto uno strumento sostitutivo dell’azione militare. In una prospettiva strettamente giuridica, però, si tratta della negazione dei principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di confisca dei beni nei confronti dei soggetti pericolosi. L’art. 215 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, nell’ambito di poteri assegnati dall’art. 29 allo scopo di determinare scelte politiche degli Stati extra-UE, prevede che il Consiglio possa adottare misure restrittive (rectius sanzioni) nei confronti di persone fisiche o giuridiche, di gruppi o di entità non statali. Le anzidette sanzioni, dunque, possono essere adottate come misure proprie dell’Unione, o al fine di attuare Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nei casi in cui paesi extra-UE o persone fisiche o giuridiche non rispettano il diritto internazionale o i diritti umani, o pongono in essere azioni tendenti a violare la pace.

In siffatto contesto giuridico-convenzionale ci si interroga, allora, sulla compatibilità di dette sanzioni con i principi che ne governano il funzionamento quando esse riguardano persone estranee alle contestate violazioni del diritto internazionale. Se, da un lato, v’è un evidente deficit di “giurisdizionalizzazione”, dall’altro lato sono plurime le incertezze legate al giudizio sanzionatorio che ispirano il congelamento dei beni. Il vuoto di tutela che grava sul soggetto destinatario di dette misure spinge, poi, a domandarsi se la misura sia espressione di un adeguato e legittimo bilanciamento tra finalità politica e libertà individuali. Le misure restrittive relative ad azioni che minacciano l’integrità territoriale dell’Ucraina e la sua sovranità trovano il loro antecedente nelle sanzioni adottate nei confronti di alcune persone ai sensi della Decisione Quadro 2014/145/PESC e del Regolamento UE n. 269/2014, strumenti questi ultimi che confermano come il “congelamento” non operi alla stregua di una sanzione, pur determinandone gli effetti. E del resto non potrebbe esserlo, infatti non è contestato alcun fatto illecito specifico, non è richiesta alcuna pertinenzialità del bene congelato rispetto a un qualsiasi reato, non è prevista l’attivazione di un procedimento. Insomma, una vera e propria finzione giuridica che sotto le vesti di misure ad personam cela una vera e propria sanzione economica diretta a uno Stato sovrano per le politiche “criminali” del suo governante.

Tale impostazione, però, non appare compatibile con i principi della Convenzione EDU, cui aderisce anche la Federazione Russa. Proprio, l’art 1 della Convenzione riconosce il diritto di ogni persona al rispetto da parte degli Stati delle proprie libertà individuali, mentre l’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU protegge il diritto di proprietà di ogni persona fisica o giuridica al rispetto dei suoi beni. Sicché, appare evidente come la nobile causa che ispira la repressione della violazione dell’ordine internazionale attraverso il sistema delle sanzioni ai cittadini russi, solo perché tali, in assenza di alcun giudizio di colpevolezza di qualsivoglia natura, colloca le stesse misure in un’area giuridica assai incerta e di dubbia costituzionalità, per difetto di precisione e determinatezza del paradigma normativo che configura la fattispecie oggetto di sanzione. Non sfugge allora come l’anzidetto “sistema sanzionatorio”, espressione del c.d. diritto penale ad alta velocità, rischi di piegare la storica sensibilità giuridica dell’Unione Europe alla logica della guerra, quella indiretta attuata con le sanzioni all’economia dello Stato aggressore, e ciò in assenza della dichiarazione dello stato di guerra da parte dei singoli Stati. Baldassarre Lauria

LA GUERRA FINANZIARIA.

Inadempiente. La Russia è in default sul debito estero per la prima volta da oltre un secolo. L'Inkiesta il 27 Giugno 2022

Domenica è scaduto anche il periodo di grazia su due bond denominati in dollari. Mosca non è riuscita a pagare perché le sanzioni imposte dall’Occidente di fatto l’hanno isolata dal sistema finanziario globale

La Russia è inadempiente nei confronti dei suoi creditori e degli investitori che detengono le sue obbligazioni internazionali. In altre parole, è in default tecnico. Cento milioni di dollari di interessi per due bond denominati in dollari sono scaduti domenica sera, ma non c’è stato alcun pagamento: è il primo default di Mosca dalla crisi finanziaria del 1998.

I 100 milioni di dollari di interessi potevano essere pagati entro il 27 maggio scorso. Poi, come sempre in questi casi, c’è un “periodo di grazia” di un mese che dovrebbe consentire al debitore di mettersi in regola. Il mese scadeva ieri, domenica 26 giugno.

La Russia in realtà avrebbe sufficienti riserve economiche – grazie alle esportazioni di petrolio e gas – ma a causa delle sanzioni applicate in questi mesi non riesce a fare operazioni sullo scenario finanziario internazionale. È per questo che si tratta di un default molto singolare: Mosca non ha pagato non perché non volesse o non avesse i fondi per farlo, ma perché le condizioni economiche imposte dall’Occidente glielo hanno di fatto impedito. Un caso senza precedenti.

Forse è per questo che nessun organismo internazionale ha ancora dichiarato la Russia in default. Perché se da un lato è vero che le agenzie di rating, ad esempio, si sono svincolate dalle entità russe da un po’, sulla scia delle sanzioni internazionali, dall’altro probabilmente si cercano conferme più nette.

L’ultimo default sul debito estero della Russia, scriveva ieri Bloomberg, risale a un secolo fa, cioè quello al 1918 – a differenza del 1998, che era un default sul debito interno. All’epoca, dopo la Rivoluzione bolscevica, il leader sovietico Lenin si rifiutò di ripagare i debiti internazionali che erano stati fatti dall’impero ormai scomparso.

La condizione di isolamento dal sistema economico internazionale che ha tolto a Mosca ogni possibilità di fare le transazioni necessarie per il pagamento, unito alla teorica disponibilità economica di pagare i debiti, potrebbe spingere il Cremlino a rifiutare la definizione di default: il ministro delle Finanze Anton Siluanov ha già puntato il dito contro i governi occidentali dicendo che stanno cercando di costringere il Paese «a un default artificiale e hanno tentato di aggirare le loro stesse sanzioni suggerendo che Mosca potrebbe pagare in rubli se i pagamenti in dollari non possono raggiungere gli obbligazionisti».

Un mese fa, prima della scadenza ufficiale dei termini per il pagamento, la Russia ha incontrato un enorme ostacolo sul suo cammino, scrive il Financial Times: «L’Office of Foreign Assets Control (OFAC) del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha effettivamente bloccato Mosca dall’effettuare pagamenti».

Di norma, le conseguenze di un default sono molto dure per il Paese che lo dichiara, in questo caso però le conseguenze per la Russia potrebbero essere relativamente contenute. Di solito infatti c’è un problema di fuoriuscita rapida di tutti gli investimenti esteri, e si registra un’enorme difficoltà a rifinanziarsi sui mercati. Ma tutte queste cose sono ormai lo status quo da diverse settimane.

Intanto dal G7 è in arrivo anche un bando dell’oro russo: stop delle importazioni impedirà agli oligarchi di usarlo per convertire i loro beni e aggirare così le sanzioni.

Può sembrare singolare che questa decisione arrivi così tardi, dopo oltre quattro mesi di guerra e decine di tavoli per stabilire se applicare questo o quel tipo di sanzione per colpire l’economia del Cremlino.

La Russia è il secondo produttore mondiale di oro, ogni anno estrae il 10% del totale estratto su scala globale, e rappresenta la seconda voce, dopo l’energia, delle esportazioni russe. Inoltre, le disponibilità auree della Russia sono praticamente triplicate dopo l’annessione della Crimea nel 2014. Cosa più importante, le riserve auree in Russia sono rimaste invariate nel primo trimestre del 2022 rispetto agli ultimi quattro mesi del 2021, secondo il World Gold Council.

Il bando all’oro russo, però, sarebbe per lo più simbolico, secondo alcuni analisti, poiché i suoi flussi sono già stati limitati dalle sanzioni. «L’impatto di un divieto sulle importazioni di oro russo da parte delle nazioni del G-7 sarà probabilmente piuttosto limitato, dato che il settore ha già adottato misure per limitare l’oro russo», ha detto a Bloomberg Warren Patterson, capo della strategia delle materie prime di ING Groep NV.

Vivek Dhar, analista della Commonwealth Bank of Australia specializzato in materie prime, diramato una nota ufficiale in cui spiega che tale divieto «formalizza ciò che è stato in gran parte in vigore tramite sanzioni», e infatti non si aspetta un rialzo sostanziale dei prezzi dell’oro.

Infine, come scrive Politico, fin qui le sanzioni – per quanto ampie e aggressive – non hanno ancora scoraggiato davvero Putin, né lo hanno convinto a ritirare le sue truppe dall’Ucraina.

Russia da domani in default tecnico (prima volta dal 1998): i due bond non pagati e cosa può succedere. Giuliana Ferraino su Il Corriere della Sera il 26 giugno 2022.  

La Russia è a poche ore dal default.

È terminato domenica notte il «periodo di grazia» di 30 giorni per pagare gli interessi su obbligazioni per 71,25 milioni di dollari e 26,5 milioni di euro, scaduti il 27 maggio. Questa mattina, a meno di pagamenti (improbabili) dell’ultima ora, la Russia sarà perciò in default «tecnico», cioè inadempiente nei confronti dei creditori. È la prima volta che la Russia fa default sul suo debito estero dai tempi della rivoluzione bolscevica. Allora i rivoluzionari decisero di ripudiare il debito estero contratto dall’impero zarista e nel 1918 Lev Trotsky lo annunciò ai creditori occidentali dicendo: «Signori, siete stati avvertiti». L’ultimo default sul debito sovrano russo in rubli, invece, risale al 1998. Allora la crisi finanziaria provocò la drammatica svalutazione del rublo, che costrinse Mosca a fermare i pagamenti sui suoi titoli di Stato.

Obbligazioni per 40 miliardi di dollari

Questa volta è diverso. Mosca ha circa 40 miliardi di dollari di obbligazioni estere in circolazione e deve onorare circa 2 miliardi di dollari di pagamenti in scadenza entro la fine dell’anno. Grazie alle entrate miliardarie della vendita di petrolio e gas, Mosca ha le risorse per far fronte ai pagamenti sugli interessi, ma non può farlo perché Europa e Usa hanno escluso la Russia dal circuito dei pagamenti internazionali, dopo l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio. Dopo l’espulsione di Mosca dai sistemi finanziari, che fanno girare le ruote del credito e del commercio internazionale, il default ora ne suggella lo status di paria globale.

Il blocco americano

Il mese scorso, il Dipartimento del Tesoro americano ha messo fine alla possibilità della Russia di ripagare gli investitori internazionali attraverso le banche americane. In risposta, Mosca ha replicato che pagherà i debiti denominati in dollari in rubli e offrirà «l’opportunità di una successiva conversione nella valuta originale».

Quando un Paese va in default, può essere tagliato fuori dai prestiti sul mercato obbligazionario fino a quando l’insolvenza non viene risolta e gli investitori non riacquistano fiducia nella capacità e nella volontà del governo di pagare. Ma la Russia è già stata esclusa dai mercati dei capitali occidentali, quindi un eventuale ritorno al prestito è comunque molto lontano.

Perciò l’impatto è soprattutto simbolico. Il default rappresenta uno schiaffo all’orgoglio del presidente Vladimir Putin. E pesa sulla credibilità di Elvira Nabiullina, la governatrice della Banca centrale, che aveva conquistato gli investitori internazionali con le sue credenziali di economista seria e la promesse di modernizzare la finanza russa, garantendone l’affidabilità. Alle sanzioni imposte dai Paesi occidentali, il Cremlino ha accusato l’Occidente di spingerla verso un default «artificiale». Che adesso arriva.

L’impatto sugli invetitori stranieri

«Da marzo pensavamo che un default russo fosse probabilmente inevitabile, e la domanda era solo quando», ha dichiarato alla Reuters Dennis Hranitzky, responsabile del contenzioso sovrano presso lo studio legale Quinn Emanuel. Il default è alle porte. Ma qual è l’impatto del default fuori dalla Russia?

Le sanzioni occidentali per la guerra hanno fatto fuggire le aziende straniere dalla Russia e hanno interrotto i legami commerciali e finanziari del Paese con il resto del mondo. Il default sarebbe un ulteriore sintomo di questo isolamento . Gli analisti ritengono che un default della Russia non avrebbe il tipo di impatto sui mercati e sulle istituzioni finanziarie globali che ebbe il precedente default nel 1998. All’epoca, l’insolvenza della Russia sulle obbligazioni in rubli nazionali portò il governo degli Stati Uniti a intervenire e a chiedere alle banche di salvare Long-Term Capital Management, un grande hedge fund statunitense il cui crollo, si temeva, avrebbe potuto scuotere il sistema finanziario e bancario.

I detentori delle obbligazioni, ad esempio i fondi che investono in obbligazioni dei mercati emergenti, in teoria potrebbero subire gravi perdite. La Russia, però, pesa poco negli indici delle obbligazioni dei mercati emergenti, e ciò limita le perdite agli investitori dei fondi.

Francesco Bertolini per “La Verità” il 24 maggio 2022.

Il rublo ha superato la soglia dei 60 dollari (ieri a 58 sul dollaro) per la prima volta da aprile 2018, un livello che preoccupa le stesse autorità monetarie russe, orientate ad allentare i controlli sui capitali, dietro pressione del governo e della Confindustria russa. La sua corsa sembra inarrestabile per molteplici motivi, ma la notizia è sfuggita ai nostri grandi giornali che, pochi giorni dopo l'invasione, prefiguravano nell'esclusione dal sistema swift l'arma nucleare economica per affondare il rublo e la Russia. 

Ursula von der Leyen tuonava che questa decisione avrebbe messo in ginocchio la Russia e che l'Unione Europea non si sarebbe fermata, avrebbe isolato Mosca togliendole ogni collegamento con il resto del mondo. Dopo quasi 3 mesi di guerra, la Russia continua a incassare giornalmente molti più soldi rispetto a un anno fa, in quanto il prezzo del gas è quintuplicato rispetto ai 12 mesi precedenti, per cui il bando di vodka e caviale non crea particolari problemi al Cremlino.

E il prezzo del gas non c'entra niente con Putin e con la guerra in Ucraina; le modifiche introdotte dall'Unione europea che hanno spinto il mercato del gas verso le quotazioni spot del mercato di Amsterdam, inevitabilmente più volatile e soggetto facilmente a ogni tipo di speculazione rispetto a contratti a lungo termine con prezzi pre determinati sono la vera causa dell'impennata folle dei prezzi del gas. 

Senza riprendere la questione tragicomica del gas russo e dei pagamenti in rubli sembra che a nessuno, in realtà, interessi tagliare il gasdotto che arriva dalla Russia e che attraversa l'Ucraina. In questi mesi sono state sganciate migliaia di bombe e distrutti migliaia di obiettivi militari e infrastrutture civili, acquedotti, scuole, ferrovie, industrie di ogni tipo; solo una cosa è rimasta intatta, il gasdotto, nessuno ha neanche lontanamente lanciato un missile su questo tubone che collega Russia, Ucraina e Europa.

Zelensky, invece di fare il predicatore social in giro per parlamenti e festival, avrebbe potuto chiudere i rubinetti, avrebbe potuto mettere una bomba, avrebbe potuto in sintesi tagliare il cordone energetico tra Russia e Europa; ma non l'ha fatto, continua a utilizzare il gas russo e a incassare le royalties per il passaggio del gasdotto sul territorio ucraino.

L'ipocrisia dovrebbe essere la vera vincitrice del festival di Cannes, dove Zelensky ha partecipato al suo ultimo show, chiedendo aiuto all'Europa per cacciare via il lupo cattivo russo, per usare un linguaggio alla Furio Colombo. Il gas è solo una delle tante criticità che la guerra ha esasperato, pur non essendone in questo caso specifico la principale responsabile. Sono i prezzi delle materie prime, che, insieme all'inflazione, di cui sono concausa e conseguenza, che rischiano di creare un disastro globale ben superiore agli effetti diretti della guerra.

Fino a un anno fa, alla sempre nostra mitica Ursula veniva detto che l'inflazione non era un pericolo, nonostante le montagne di soldi immessi nel sistema per far fronte alla gestione della pandemia. In realtà l'inflazione è l'unico modo che il mondo ha per gestire i debiti pubblici dei Paesi con maggiori difficoltà; ma rischia di sfuggire di mano. Cominciano a saltare paesi, oggi piccoli e poco significativi come il Libano e lo Sri Lanka, ma le prospettive sono drammatiche.

La carenza di materie prime e l'aumento dei loro prezzi ha come unica prospettiva una esplosione sociale in molti paesi cosiddetti emergenti, dove l'aumento dei prezzi non sarà accompagnato da un aumento dei salari; le borse si sono gonfiate come mai negli ultimi due anni e in queste settimane cominciano a perdere terreno pesantemente, ma la grande finanza continua a appropriarsi di fette sempre più grandi della capacità produttiva mondiale, ovviamente a debito, chiedendo risorse ai mercati dove il famoso parco buoi è tutto contento di investire sapendo già che si vedrà restituito il capitale a 5/10 anni che varrà immensamente meno. 

E mentre Furio Colombo, Ursula e i loro amici etici e responsabili attendono il fallimento della Russia, autonoma sia da un punto di vista energetico che alimentare, i poveri saranno sempre più poveri e in numero esponenzialmente in crescita, mentre pochissimi ricchi saranno sempre più mostruosamente ricchi.

Ucraina, Guido Crosetto solleva il sospetto più inquietante: "Nessuno li ha toccati". I soldi della Russia all'Ucraina. Giada Oricchio Il Tempo il 10 aprile 2022.

“Strano… Nessuno li ha toccati”. Guido Crosetto, oggi imprenditore, ma qualche anno fa padre putativo di Fratelli d’Italia, ha una visione molto pratica dell’invasione in Ucraina da parte della Russia. Su Twitter ha scritto: “Le "transit fee" e cioè i soldi che la Russia paga all’Ucraina per il passaggio del gas nei gasdotti sul suo suolo, rappresenta circa il 4% del Pil ucraino. Continuano a essere pagate anche in queste settimane”.

E con un filo di ironia osserva: “Infatti, stranamente, nessuna delle parti ha toccato i gasdotti”. Il senso del messaggio è chiaro: un circolo vizioso difficile da spezzare lega la Federazione russa, l’Ucraina di Zelensky e l’Occidente attaccato alla “canna” del gas, Germania e Italia in primis. Ieri, 9 aprile, la compagnia statale russa Gazprom ha fatto sapere che sta fornendo gas naturale all'Europa attraverso la terra che sta martirizzando, l'Ucraina, nel pieno rispetto dei contratti con gli Stati europei. Tuttavia, secondo quanto ha riportato l’agenzia Reuters, le richieste sono state di circa 78,3 milioni di metri cubi per il 9 aprile, in netta diminuzione rispetto ai 91,3 milioni di metri cubi richiesti il giorno prima. E questo perché la guerra ha svegliato l’Europa che ha intrapreso tutte le strade per non farsi ricattare da Putin sul gas. 

Ilario Lombardo per “La Stampa” il 7 aprile 2022.

Andò così. Fu Mario Draghi, ex presidente della Bce, a suggerire alla Commissione Ue di colpire il cuore delle risorse finanziarie di Putin: la Banca centrale russa. Avvenne la notte del terzo giorno di guerra, a fine febbraio. 

A ricostruire quelle ore è stato il Financial Times, ma già sui quotidiani italiani era trapelata la volontà di Draghi di colpire l'accumulo di riserve che Putin aveva portato avanti per anni.

Ieri, il presidente del Consiglio ha confermato il retroscena. Fu proprio lui a studiare i meccanismi «per congelare le riserve della Banca centrale russa depositate o presso altre banche centrali o in banche normali in giro per l'Europa». Nessun Paese si oppose. 

Una sanzione durissima, che piegherà le capacità di autosufficienza economica dei russi. Draghi ci tornerà sopra, qualche giorno dopo, rivendicando la scelta. Lo farà in Parlamento spiegando che le riserve della Banca di Mosca erano aumentate di sei volte dalla guerra di Crimea, nel 2014, a oggi.

Nei primi giorni della guerra scatenata lo scorso 24 febbraio, l'Italia, troppo dipendente dal gas russo, è sospettata di voler frenare sulle sanzioni. Draghi propone di puntare su altro e di usare il primo dei cinque pacchetti di misure finora confezionati dall'Ue contro il salvadanaio di Putin. 

È la presidente della Commissione Ue Von der Leyen a chiedergli una mano, mentre a Washington la segretaria del Tesoro Yellen sta studiando come procedere. Nella ricostruzione dei funzionari di Bruxelles, i leader europei temevano che la Russia potesse venire a conoscenza dei piani, se non avessero fatto in fretta. Von der Leyen chiama Draghi e gli chiede di mettersi in contatto con Yellen per trovare al più presto la soluzione. Qualche ora dopo arriva la proposta del premier italiano.

La rete bucata delle sanzioni, così il rublo è tornato a salire. Federico Fubini e Marco Galluzzo su Il Corriere della Sera il 22 Marzo 2022.  

Niente rivela forza e limiti delle sanzioni europee contro la Russia come il viaggio del rublo nell’ultimo mese. Ha perso il 42% sull’euro da quando Bruxelles annunciò il blocco delle riserve valutarie della banca centrale, nelle prime due settimane di guerra. Ha recuperato il 32% nelle seconde due settimane ed è esattamente questa inversione di tendenza a porre domande che i leader europei, nel loro vertice di domani, potrebbero fingere di non capire perché non hanno risposte. O almeno non ne hanno ancora, a causa delle esitazioni della Germania e di una generale assenza di coordinamento fra i governi che ricorda le prime settimane della pandemia. Allora ogni Paese cercava respiratori solo per sé, a costo di sottrarli agli altri. Oggi cerca rigassificatori galleggianti e nuovi fornitori di energia solo per sé, sempre a costo di sottrarli agli altri: Germania e Italia competono fra loro proprio in questi giorni per gli acquisti di gas liquefatto dal Qatar e di navi di rigassificazione in offerta nel mondo.

Non è sorprendente. Proprio la rivalutazione della moneta di Vladimir Putin segnala alcuni buchi nella rete delle sanzioni e nell’approccio europeo in questa crisi. Preservati dal blocco, gli istituti pubblici russi Gazprombank e Sberbank incassano ancora euro e dollari in cambio di gas, petrolio e carbone venduto all’Europa. Quindi con l’80% di quei flussi di moneta forte acquistano rubli, sistematicamente. In altri termini la moneta di Mosca si rivaluta perché sostenuta dagli interventi - almeno venti miliardi di euro nell’ultimo mese - con soldi degli europei. Così la rendita di Mosca da fonti fossili sta negando parte dell’efficacia delle sanzioni già prese.

La risposta sarebbe semplice: indicare una strada magari graduale e parziale, ma precisa, che porti l’Europa a ridurre i trasferimenti consegnati ogni giorno al Cremlino e alla sua macchina bellica. Ai prezzi attuali, anche senza contare il gas, sono circa 200 miliardi di dollari per il greggio e 44 per il carbone nel 2022. Ma la bozza di conclusioni del vertice europeo di domani e venerdì mostra come i leader europei esitino a muovere anche un solo passo in questo senso. «L’Unione uscirà gradualmente dalla sua dipendenza dal gas, dal petrolio e dal carbone il prima possibile», si legge nella bozza. È possibile che venerdì la posizione finale risulti più risoluta. Ma colpiscono per ora l’assenza di scadenze precise negli impegni e la certezza che l’Europa dipenda dal carbone di Mosca (per 130 milioni di tonnellate all’anno). In realtà non è così: il carbone russo viene importato in gran parte dalla Germania, ma esisterebbe già oggi l’alternativa del prodotto australiano messo sotto embargo dalla Cina. La scelta tedesca di rifornirsi in Russia dunque non è obbligata, ma solo frutto di una preferenza commerciale. Anche sul petrolio sono state proposte ai governi europei possibili contromisure: per esempio, imporre una tassa sull’importazione di barili che sia fatta pagare ai produttori russi.

Berlino però esprime riluttanza a tutte queste idee che ridurrebbero la rendita esorbitante di Vladimir Putin: no alla tassa sul greggio, no al carbone australiano, no anche alla proposta italiana di un tetto al prezzo del gas. Il timore di nuocere all’industria tedesca è troppo forte, anche se intanto l’Ucraina brucia. Così il vertice europeo si limita a promettere, per ora, che tutte le opzioni saranno riviste dopo un rapporto dei regolatori europei (Acer) atteso fra un mese. È possibile che l’orrore della guerra e la pressione degli altri governi spingano Berlino, ancora una volta, a un’apertura nelle prossime ore. Tutte le idee restano sul tavolo. Jake Sullivan, della Casa Bianca, fa capire che gli Stati Uniti aumenteranno le forniture di gas liquefatto all’Europa. Ursula von der Leyen chiederà un livello minimo comune di stoccaggio del gas pari al 90% delle capacità degli impianti. La presidente della Commissione otterrà anche una piattaforma europea, che aggreghi la domanda di gas e petrolio di tutti i Paesi: simile a quanto accaduto con i vaccini anti-Covid. Oggi però, di fronte al dramma ucraino, l’Europa non ha ancora raggiunto il livello di unità politica del 2020. Anche perché manca la figura che nel 2020 la permise, Angela Merkel.

“Inglesi furbi con le sanzioni alla Russia”. Bonomi si infuria: rischio boomerang per l'Italia. Mezz'ora in più, “inglesi furbi con le sanzioni alla Russia”. Carlo Bonomi si infuria: rischio boomerang per l'Italia. Il Tempo il 06 marzo 2022.

“Contro la Russia sanzioni dure ma compatibili perché rischiano di essere un boomerang”. Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, è stato intervistato da Lucia Annunziata nel corso della puntata del 6 marzo di Mezz’ora in Più su Rai3 ed il primo tema affrontato è quello della guerra in Ucraina: “Sulle sanzioni tutti giochino la stessa partita o avremo problemi. L’Italia ha messo in atto 490 interventi, la Svizzera 371, il Canada 417, l’Australia 403 e l’Inghilterra invece 16. Credo che tutti sappiamo come il Regno Unito sia la residenza di molti oligarchi russi, o giochiamo la stessa partita o sarà difficile giustificare alle nostre imprese che in Russia investono 11 miliardi di euro che devono accettare questo pacchetto di sanzioni quando qualcun altro non gioca la stessa partita. Le sanzioni che giustamente l’occidente ha messe in campo sono sanzioni molto pesanti mai realizzate prima nel corso della storia ma - sottolinea Bonomi - che hanno tenuto fuori il tema dell’energia perché è un tema delicato per tutti. Sanzioni che rischiamo di essere un boomerang e che determinano una incongruenza. Noi abbiamo bloccato gli stock di riserve della banca centrale russa ma non il flusso. Per questo a maggior ragione, dobbiamo modificare il nostro mix energetico”. 

“La Russia - prosegue il numero uno degli industriali italiani nello studio dell’Annunziata - ha invaso un paese democratico e noi dobbiamo sostenere l’Ucraina. Poi il fronte della diplomazia si è mosso e si muoverà ancora, lo stesso Stato del Vaticano si è mosso perché tutti noi vogliamo la pace. L’imprenditore fa delle scelte economiche, non politiche. C’è stato un periodo in cui ci sono state forti relazioni con il nostro paese e la Russia, agevolazioni e spinte per andare a investire in Russia e quindi il sistema economico si è indirizzato verso quell’area. Ma nel merito la Russia ha invaso l’Ucriana. E questo non si può perdonare come non si può perdonare la non creazione di corridoi umanitari… Civili inermi costretti a restare sotto le bombe. Abbiamo una necessità fondamentale di raggiungere l’indipendenza energetica, noi e l’Europa. Bisognerebbe avere il coraggio di dire, dobbiamo cambiare alcuni investimenti energetici, nelle industrie della difesa, nella ricerca e nella tecnologia, e il Pnrr dovrebbe essere modificato, riscritto e allungato nella sua estensione temporanea, servirebbe a tutta l’Ue”.

Si passa poi ad un giudizio sul lavoro del governo guidato da Mario Draghi: “I nostri giudizi sono sempre sul merito. Il presidente Draghi è una personalità tale da riportarti a livelli internazionali ed è un presidente competente che sa cosa deve essere fatto. È un presidente che ci deve consentire di fare quelle riforme di cui questo Paese ha necessità. Ed è nostro dovere dargli tutto il supporto. Ma questo non ha impedito di dire che alcune cose della legge di bilancio non ci piacevano, questo è entrare nel merito delle cose”.

(ANSA-AFP il 3 marzo 2022) - Le agenzie di rating Fitch e Moody's hanno declassato la Russia nella categoria dei paesi che rischiano di non poter rimborsare il debito, nel contesto dell'invasione dell'Ucraina. Moody's ha abbassato il proprio giudizio sul debito a lungo termine da Baa3 a B3, mantenendolo sotto osservazione viste le sanzioni imposte dai paesi occidentali alla Russia. Fitch ha abbassato il rating da BBB a B, con outlook negativo. Questi rating pongono il debito della Russia al livello 'speculativo'.

Federico Fubini per il “Corriere della Sera” il 3 marzo 2022.

Lo choc energetico della guerra si sta riversando sull'Europa come uno tsunami partito non appena il primo stivale russo ha calpestato il suolo ucraino. Ora il continente e l'Italia sono alle prese con una cascata di implicazioni: economiche, finanziarie, ma anche politiche ed etiche, perché i Paesi dell'Ue si trovano di fatto a co-finanziare l'aggressione di Vladimir Putin a Kiev pagando a Mosca le forniture di gas, petrolio e carbone a prezzi esorbitanti in moneta forte e al riparo dalle sanzioni che essi stessi hanno appena stabilito.

Che questo equilibrio non possa reggere a lungo risulta chiaro però dall'esplosione delle quotazioni in queste ore. Ieri il prezzo del gas europeo sul mercato di Amsterdam è rincarato del 42,2%, su valori più che doppi rispetto ai livelli già altissimi di inizio anno. Il carbone ha fatto registrare un balzo del 33% e ormai tratta al triplo dei prezzi del primo gennaio; quanto al petrolio (Brent), è cresciuto del 6% e scambia ai massimi dal 2014. Il detonatore nelle ultime ore è stato proprio il pacchetto di sanzioni alla Russia, benché le materie prime fossili restino fuori.

«Il mercato ha iniziato da solo ad applicare un embargo sugli idrocarburi russi», spiega Simone Tagliapietra, ricercatore di Bruegel e docente della Cattolica di Milano. «Gli intermediari non vogliono più trattare il gas siberiano o il petrolio degli urali, perché temono nuovi divieti». La Russia oggi vale un decimo delle esportazioni mondiali di greggio e quasi il 40% delle importazioni di metano in Europa, quindi i rischi di scarsità delle forniture nel futuro prossimo mettono istantaneamente le ali ai prezzi.

Ma anche senza contare il balzo delle ultime ore, si sta verificando una torsione paradossale: proprio mentre cerca di paralizzare le fonti di finanziamento del regime putiniano, l'Europa lo sta finanziando come non mai. Lo si può stimare dai dati della Bp Statistical Review of World Energy. Nell'ipotesi di una proiezione sul 2022 dei prezzi di martedì - prima dei picchi di ieri - l'Europa quest'anno verserebbe alla Russia circa 260 miliardi di euro per comprare gli stessi volumi di gas, petrolio e carbone importati nel 2020 durante la profonda recessione pandemica.

È una somma pari a un quinto del prodotto interno lordo russo. Nell'ipotesi invece di prezzi medi dell'energia simili a quelli meno elevati di inizio gennaio, i Paesi dell'Unione verserebbero a Mosca circa 130 miliardi di euro. Mai accaduto prima. Eppure queste somme in valuta pregiata diverrebbero liberamente fruibili dal governo di Mosca mentre commette crimini di guerra, anche perché da Bruxelles è arrivata una decisione che ha creato sorpresa: dal pacchetto di sanzioni contro Mosca sono escluse Sberbank e Gazprombank, prima e terza banca russa, entrambe controllate strettamente dal governo. Entrate del Cremlino Forse anche per questo Dmitry Peskov, portavoce del Cremlino, ha commentato le sanzioni con tono di sfida: «L'economia russa sta subendo seri colpi - ha riconosciuto -. Ma rimarrà in piedi perché c'è un certo margine di sicurezza».

Impossibile dire oggi se, alla fine del 2022, i governi europei avranno contribuito con cento o duecento miliardi di euro al bilancio del regime che oggi bombarda Kiev, Kharkiv e Mariupol. Di certo il blocco da parte di Bruxelles della parte in euro delle riserve della banca centrale di Mosca vale circa 185 miliardi, ma rischia di essere controbilanciato dalle entrate del gas e del petrolio in breve tempo. Certo è anche quanto accade in questi giorni, nelle stime di Simone Tagliapietra di Bruegel: ai prezzi di ieri l'Europa versa a Mosca 800 milioni di euro al giorno, dei quali quasi 80 vengono dall'Italia.

Austerity sui consumi Districarsi in breve tempo da questa contraddizione è impossibile, perché essa è il frutto della miopia strategica dell'Europa almeno dal primo attacco all'Ucraina nel 2014. Impensabile rinunciare di colpo a tutto il gas russo, che vale un terzo dei consumi europei, senza chiudere le fabbriche e sprofondare in recessione. Eppure il disgusto nell'opinione pubblica per i crimini di Putin e la stessa tensione dei prezzi imporranno presto una svolta: su tutte le fonti fossi l'Europa è di gran lunga il primo cliente di Mosca e deve cercare di sottrarsi il più possibile.

Propone Chicco Testa, presidente di Assoambiente: «Iniziamo a comprare almeno carbone e petrolio da altri Paesi e a ridurre i consumi non essenziali di gas». Diminuzione delle temperature in casa, meno illuminazione notturna, limiti di velocità ridotti e ora legale prolungata sono le prime misure possibili. Chi non vuole provarci per scelta morale o politica, dovrà adeguarsi per far tornare i conti.

Gabriele Rosana per “il Messaggero” il 3 marzo 2022.

Alla fine l'Europa ha sganciato l'arma nucleare finanziaria. Dopo un lungo negoziato e il tira-e-molla fra i governi che per ora salva l'acquisto del gas, ieri è arrivata la formale esclusione di sette fra le maggiori banche russe dallo Swift. Ma altre potrebbero presto seguire, è il monito da Bruxelles. 

Con oltre 11mila istituti collegati in oltre 200 Paesi e territori, lo Swift è il sistema di messaggistica finanziaria che regola i pagamenti internazionali in tutto il mondo.

Lo stop sarà, tuttavia, effettivo solo a partire dal 12 marzo, al termine di un periodo di transizione di dieci giorni che a Bruxelles è visto come «intervallo di tempo ragionevole» per portare a compimento le operazioni in corso e mitigare ogni possibile impatto negativo sulle imprese e i mercati finanziari dell'Ue.

Coordinata con Washington e Londra, la misura scatta per sette istituti di credito in precedenza già colpiti a vario titolo dalle sanzioni: sono Vtb Bank (che ha cominciato a liquidare le sue posizioni in metalli, oro compreso), Bank Rossiya, Bank Otkritie, Novikombank, Promsvyazbank, Sovcombank e Veb.rf.

L'esclusione dallo Swift - che finora aveva conosciuto un precedente, nel 2012, ai tempi delle sanzioni contro l'Iran - impedirà a queste banche di condurre transazioni finanziarie in tutto il mondo in modo rapido ed efficiente.

All'appello mancano però, come previsto alla vigilia, Sberbank, il principale gruppo bancario del Paese (che, con la controllata austriaca in insolvenza, ha nel frattempo lasciato il mercato europeo, dov' era presente con una serie di filiali) e soprattutto Gazprombank, il vettore usato dal monopolista di Stato del gas per incassare i pagamenti delle forniture energetiche. 

Escluderlo dal lotto equivale a evitare, almeno per il momento, una probabile chiusura dei rubinetti. 

Non essendo possibile colpire solo alcune transazioni in maniera selettiva, e nonostante il pressing dell'Est Europa guidato dalla Polonia, tra i Ventisette è prevalso per il momento l'orientamento di non toccare questi due istituti; una mossa che equivale anche a tenere altri colpi in canna per continuare a colpire Vladimir Putin e il Cremlino nei giorni a venire. 

Eppure Mosca - che intanto sta vivendo una crisi di liquidità e sta assistendo a una disperata corsa agli sportelli e al blocco dei circuiti elettronici - potrebbe non essere davvero intimidita dal nuovo affondo europeo. E avere qualche asso nella manica.

Gli analisti finanziari fanno infatti notare che dopo l'annessione illegale della Crimea nel 2014 e il primo round di sanzioni che vi fece seguito, la Russia aveva messo in piedi l'Spfs, una propria piattaforma di messaggistica per le transazioni internazionali alternativa allo Swift che ha cominciato a essere impiegata in particolare per gli scambi - un volume di circa il 20% nel 2020 - nell'ambito dell'Unione economica eurasiatica con Bielorussia, Kazakistan, Armenia e Kirghizistan. 

Oltre alla scappatoia fatta in casa, Mosca potrebbe pure rivolgersi al Cips, il sistema creato da Pechino, che regola in renminbi: l'alternativa cinese appare però un approdo poco probabile e male si presterebbe a rimpiazzare lo Swift, fanno notare fonti di Bruxelles.

Le nuove sanzioni entrate in vigore ieri colpiscono anche la Banca centrale russa: «Abbiamo congelato la gran parte dei suoi asset all'estero», ha fatto sapere a sera, al termine dell'Ecofin informale, Bruno Le Maire, ministro dell'Economia della Francia che ha la presidenza di turno del Consiglio.

E di fronte alla volata del Bitcoin sui mercati, con le criptovalute viste come un bene rifugio, Le Maire ha annunciato una stretta: «Non possiamo tollerare che vengano usate per aggirare le sanzioni». D'accordo anche il vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis («Valuteremo la situazione e, se necessario, proporremo nuove misure») e, da Washington, pure il governatore della Fed Jerome Powell («Serve un nuovo quadro di regole»). Gabriele Rosana

Matteo Giusti per "La Stampa" il 2 marzo 2022.

I colossi dell'energia dicono addio alla Russia, ma anche la grande industria, quella dell'auto in primis, i fondi di investimento pubblici e gli spedizionieri stanno valutando come procedere a quasi una settimana dell'attacco russo all'Ucraina. 

Sul fronte energetico è di ieri l'annuncio di Eni, che intende cedere la quota del 50% nel gasdotto BlueStream paritetica a quella di Gazprom. Bp ha deciso di dismettere la partecipazione del 19,75% in Rosneft e la norvegese Equinor di cessare la partnership con Rosneft, rescindendo anche l'accordo per le esplorazioni in Siberia.

Lascia il Paese la danese Orsted, controllata dallo Stato al 50,1%, mentre i francesi di TotalEnergies, non apporteranno più capitali a nuovi progetti in Russia e Shell uscirà dalla joint venture nel Gnl con Gazprom.

Addio alla Russia anche da parte dei fondi sovrani australiano e norvegese, mentre Renault ha chiuso l'impianto di Mosca. Daimler Truck ha interrotto la partnership con Kamaz, mentre stanno valutando come muoversi Stellantis e Volkswagen. 

In uscita dalla Russia anche l'armatore danese Maersk, l'operatore del leasing degli aerei AerCap, e i corrieri Ups e FedEx. Anche Apple chiude le porte a Mosca come del resto Exxon, Ford, Bmw, Volvo e Harley Davidson.

Fabio Savelli per corriere.it il 2 marzo 2022.

Un’immagine racconta molto di quello che sta avvenendo in Russia. Le decisioni politiche, il confronto globale con Mosca, la scelta di farla diventare un «paria internazionale», copyright della Casa Bianca, escludendola dal sistema delle comunicazioni delle transazioni Swift. 

Il contraccolpo si riverbera sulle modalità di acquisto dei biglietti della metropolitana. Un tweet di lunedì, con la foto della coda in una stazione della metropolitana di Mosca (una delle più belle del mondo), segnala come sia diventato impossibile pagare il ticket con lo smartphone appoggiandolo sul lettore ottico.

I pagamenti digitali in Russia sono estremamente sviluppati. Come tutte le forme di pagamento mobile contactless. Non funzionano nemmeno le carte di credito dei circuiti Visa e Mastercard, anche per effettuare transazioni online verso i Paesi che hanno emesso sanzioni contro la Russia.

Il blocco dei codici internazionali di pagamento Swift ha causato anche il crollo del rublo, la valuta russa, che ha perso il 30% sul dollaro costringendo la banca centrale russa ad alzare fino al 20% il tasso di interesse sui prestiti, un tasso che potremmo definire di usura secondo le coordinate occidentali, per provare ad impedire l’iper-inflazione a Mosca sui beni di prima necessità. 

Secondo le statistiche riportate da The Verge riportate da Wired Us, il servizio di pagamento online più diffuso in Russia è Sberbank, seguita da YooMoney e Qiwi. Almeno il 29% dei russi usa Google Pay e il 20% Apple Pay. La popolazione russa da ieri ha incominciato a fare lunghe code agli sportelli dei bancomat in cerca di cash.

Anna Zafesova per “la Stampa” il 2 marzo 2022.

Un decreto presidenziale per impedire agli investitori stranieri di vendere le loro partecipazioni nelle società russe: Vladimir Putin ordina alla valanga sui mercati di fermarsi, forse convinto che può comandarli come i suoi carri armati. Ma è un fiume in piena, e i titoli russi stanno diventando carta straccia: Sberbank, la maggiore banca russa, ha perso alla borsa di Londra il 91% del suo valore.

Non sono solo le sanzioni europee, americane e britanniche, è un banale calcolo dei rischi del continuare a fare affari con un Paese che ha ribaltato l'ordine e il diritto internazionale, e due giganti petroliferi, la Shell e la British Petroleum, annunciano l'intenzione di liberarsi delle loro cospicue quote nelle società energetiche statali russe.

E i vip occidentali che sedevano nei consigli d'amministrazione dei giganti economici di Mosca stanno rassegnando le dimissioni uno dietro l'altro, con la visibile eccezione dell'ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder, i cui collaboratori si stanno licenziando in segno di protesta per la sua posizione più che ambigua. Non è chiaro se il premier Mikhail Mishustin ha avuto il coraggio di spiegare al padrone del Cremlino che non tutto il mondo gli obbedisce, e che i mercati in particolare non si possono controllare, meno che mai spaventare.

D'altra parte, il centro demoscopico Fom ha appena pubblicato un sondaggio nel quale sostiene che l'appoggio degli elettori al presidente è cresciuto in pochi giorni dal 60% al 71%, e che i russi applaudono le bombe sganciate sulle città ucraine. I russi possono continuare a scendere in piazza contro la guerra, andando incontro alle manette - gli arrestati negli ultimi giorni sono ormai quasi 7 mila - e a inondare i social di colombe della pace e proteste contro la guerra, ma sono informazioni che difficilmente raggiungeranno il Cremlino.

Il think tank inglese Rusi sostiene che anche dietro alla clamorosa sottovalutazione della resistenza ucraina ci sia stato un sondaggio, commissionato dal nono direttorato dell'Fsb, l'erede del Kgb: mostrava una società ucraina divisa, scoraggiata, con Volodymyr Zelensky al 27% di gradimento. Al Cremlino non sanno giudicare una democrazia: le elezioni si vincono con percentuali bulgare, i sondaggi mostrano sempre un appoggio entusiasta ai vertici, e così un leader che è in testa ai sondaggi della popolarità con "solo" un quarto dei voti viene considerato un debole fallito.

Una dittatura patisce sempre dell'assenza del feedback negativo, nessuno ha il coraggio di riferire informazioni sgradite al capo supremo, e quello che chiunque fosse stato per un giorno a Kyiv sapeva - che gli ucraini potevano essere divisi sui leader, i partiti e le idee, ma unanimi nell'amore per l'indipendenza nazionale - si è trasformato in qualche passaggio moscovita nelle rassicurazioni che non vedevano l'ora di tornare sotto la mano del Cremlino. Nonostante gli studi di marxismo obbligatori all'epoca sovietica, Putin si mostra un pessimo allievo che continua a non comprendere che è l'esistenza a condizionare la coscienza e non il contrario.

E così la Duma approva il carcere per chi "diffonde fake" sulla guerra, che non si può nemmeno chiamare "guerra", pena la censura. Ieri la magistratura ha oscurato la storica radio Eco di Mosca, che nemmeno i golpisti comunisti nell'agosto del 1991 avevano osato chiudere, e la tv via cavo Dozhd, le ultime emittenti che tra mille difficoltà cercavano di fare informazione. 

Con un'ostinazione orwelliana il Cremlino insiste a tacitare qualunque voce non allineata, ordinando "misure esaustive" contro chi diffonde informazioni e chiama alla protesta in piazza. L'ultimo bersaglio è Wikipedia, minacciata di oscuramento per la sua voce sulla guerra in Ucraina, mentre la durata dei talk show propagandistici in tv viene raddoppiata. Per informare i russi di quello che sta accadendo però bastano i tabelloni dei cambivaluta, i terminal dei bancomat con i contanti esauriti e gli schermi dei voli verso l'Europa e l'America cancellati.

Il governo ha ordinato agli 80 mila turisti rimasti all'estero di rientrare in patria con i propri mezzi, mentre gli aerei per Istanbul ed Erevan, o altre destinazioni non ancora bloccate, sono pieni di chi preferisce fuggire, anche se Putin ha vietato di portare fuori più di 10 mila dollari in contanti (e di trasferire soldi all'estero). Le frontiere per ora sono aperte, ma per il resto la Russia si sta trasformando rapidamente in una nuova Unione Sovietica.

Non ci saranno più carte di credito, né mutui, sostituiti dai contanti nascosti nel materasso. Non ci saranno più prime visioni di Hollywood, che ha sospeso la distribuzione nelle sale russe. Non ci saranno più auto di lusso: Bmw, Mercedes, Volvo e GM hanno fermato le esportazioni, e i marchi rimasti sul mercato stanno aumentando vertiginosamente i prezzi, per cercare di fare fronte alla previsione dell'inflazione che si aggira intorno al 20-30%. Ma il colpo finale è arrivato dalle maggiori società di container internazionali, come la Maersk: senza di loro, il traffico merci con la Russia viene praticamente annientato. 

Dare ordini ai mercati di non cadere troppo, in questo disastro, sembra quasi un sintomo di follia. Ma il governo di Mishustin va oltre, e stanzia fino a un trilione di rubli dal fondo della ricchezza nazionale per sostenere i titoli russi in picchiata. È il "tesoretto" petrolifero accumulato negli anni, che Putin si era rifiutato di utilizzare per proteggere i russi dal Covid. 

Oggi, dopo un milione di morti per coronavirus, il fondo viene aperto per salvare dalla miseria gli oligarchi di Stato. Se il collasso dei mercati proseguirà, una somma astronomica tolta ai contribuenti verrà polverizzata. Se si fermerà, lo Stato russo avrà acquistato a prezzi stracciati i big dell'economia, in una meganazionalizzazione che riporterà definitivamente l'Urss per la quale Putin e i suoi elettori provavano tanta nostalgia.

Federico Fubini per corriere.it l'1 marzo 2022.

Lunedì sera i vertici della Commissione europea erano ancora in contatto con rappresentanti di Italia, Francia, Germania, Spagna e Olanda in vista di un’ulteriore stretta sul sistema finanziario russo. Finora le sanzioni coprono circa il 70% delle attività bancarie, ma si lavora ad allungare la lista.

La Francia, che ha la presidenza di turno dell’Unione, sostiene un blocco pressoché totale. Germania e Italia sono meno radicali: vogliono lasciare aperti canali in grado di garantire gli acquisti di gas e stimano il blocco già deciso sul 55% delle riserve della banca centrale di Mosca denominate in euro (32,3%), dollari (16,4%) e sterline (6,5%) sufficiente a paralizzare l’economia russa. Che però in Europa si discuta di nuove sanzioni significa che la prima ondata delle misure più dure ieri ha superato il test dei mercati: ha portato un certo grado di devastazione finanziaria in Russia, senza contraccolpi intollerabili — per ora — in Europa e negli Stati Uniti.

Non era scontato. Sulla Russia oggi insistono duemila miliardi di dollari di debiti complessivi dello Stato, delle famiglie e delle imprese (eccetto banche e assicurazione). I bond emessi sui mercati valgono circa 700 miliardi di dollari, secondo la Banca dei regolamenti internazionali, e un’ampia parte di essi si trova nei bilanci di banche e fondi d’investimento occidentali. 

Poiché questa carta oggi è intoccabile, molti operatori europei e americani si trovano di fronte a perdite sulla Russia. La marea della liquidità internazionale si sta ritirando dal Paese ma — secondo la metafora di Warren Buffett — si inizia a vedere che nessun grosso operatore stava nuotando nudo. La reazione composta dei mercati globali ieri sembra indicare che, a meno di sorprese dei prossimi giorni, non si ripeteranno scene come quelle di Ltcm nel 1998.

Allora quello hedge fund newyorkese puntò con forza sulla Russia, in parte grazie a fondi ottenuti indebitandosi per 100 miliardi di dollari. Quando Mosca fece default nell’agosto di quell’anno, Ltcm dovette vendere a precipizio il resto del suo portafoglio nel tentativo di rientrare dai debiti e fece crollare Wall Street. La Fed di New York fu costretta a coordinare un salvataggio, prima che le grandi banche americane venissero investite dal crac.

Almeno ieri, invece, il film di Ltcm non si è ripetuto. Lo spread fra titoli di Stato tedeschi e italiani è persino sceso da 166 a 159 punti, perché la guerra in Ucraina allontana il rialzo dei tassi d’interesse da parte della Banca centrale europea. Per lo stesso motivo si sono distesi tutti i rendimenti sovrani in Europa. E poiché gli istituti austriaci risultano fra i più esposti su Mosca, persino l’intransigente governatore della banca nazionale di Vienna Robert Holzmann in pochi giorni è passato dal chiedere un rapido aumento dei tassi a posizioni attendiste.

Tutto questo ha sostenuto le piazze azionarie occidentali, abituate a trovare coraggio nelle cattive notizie — persino una guerra in Europa — perché è allora che contano di più sull’aiuto delle banche centrali. La Borsa di Londra ha perso appena lo 0,2%, Francoforte lo 0,7%, Zurigo lo 0,1%, Milano l’1,39% malgrado abbiano pesato le scivolate di Unicredit (-9,48%) e Intesa Sanpaolo (-7,43%) per la loro presenza in Russia. 

Quanto ai grandi gestori di risparmio americani — da Pimco, a BlackRock, fino a Fidelity — subiranno perdite sugli investimenti russi, ma questi rappresentano quote nel complesso marginali dei loro attivi. Colpiti più duramente saranno invece i colossi globali del petrolio e del gas, costretti a uscire con forti perdite dalle joint-venture russe: da Bp a Shell (che lo hanno già annunciato) a Exxon e Total che probabilmente seguiranno.

Ma nel complesso le più dure sanzioni mai dirette a una grande potenza nel dopoguerra non hanno portato un Armageddon sui mercati. Solo visto da Mosca il panorama si presenta diverso. Il rublo è crollato sull’euro fino a segnare un meno 27%, anche se la banca centrale ha introdotto controlli all’uscita dei capitali e più che raddoppiato i tassi d’interesse dal 9,5% al 20% nel disperato tentativo di arginare l’emorragia finanziaria. 

La Russia finirà dunque in recessione, mentre l’inflazione sembra destinata a esplodere verso livelli molto sopra al 10%. La Borsa di Mosca ieri è rimasta chiusa (lo stop alle contrattazioni è previsto anche per oggi) ma i titoli russi a Londra hanno subito un tracollo: -74% Sberbank, la prima banca del Paese; meno 80% il distributore alimentare Magnit; meno 62% il colosso del petrolio Lukoil.

Anche gli oligarchi russi non raggiunti da sanzioni personali stanno soffrendo. Ma questo non significa che la situazione abbia raggiunto una nuova stabilità, con la Russia isolata dal mondo. Anche per le economie avanzate due incognite gravano sul futuro. 

La prima riguarda la nuova ondata d’inflazione di guerra in arrivo in Europa, perché la tensione geopolitica sta facendo salire il prezzo quasi tutte le materie prime essenziali: ieri il gas naturale in Europa è rincarato del 3,4%, il Brent del 3%, il grano del 9% e il mais per allevamenti anche di più. È solo questione di tempo prima che i rincari colpiscano soprattutto i ceti più deboli sui beni alimentari e le bollette, anche in Italia, mentre la guerra frena la ripresa. Nel 2022 uno scenario di stagflazione non è affatto escluso.

La seconda area d’incertezza riguarda invece le forniture di greggio e gas russi, anche se Mosca decidesse di non tagliarle per ritorsione. È quasi inevitabile che con il tempo si crei una pressione crescente perché gli stessi compratori riducano di molto gli acquisti. Anche l’Italia sta entrando in terra incognita.

Da tgcom24.mediaset.it l'1 marzo 2022.

Gli Stati Uniti vietano con effetto immediato tutte le transazioni con la Banca centrale russa. Lo annunciano le autorità Usa secondo cui la banca di Mosca stava tentando di spostare asset finanziari verso dei paradisi fiscali. Si parla di un tesoro stimato in circa 630 miliardi di dollari che avrebbe dovuto garantire il finanziamento delle operazioni militari russe in Ucraina per diversi mesi.

L'amministrazione americana ha vietato a individui e imprese di fare affari e operazioni con la Banca centrale russa, il fondo sovrano russo e il ministero delle Finanze russo. "Questa azione immobilizzerà efficacemente qualsiasi asset della Banca centrale russa detenuto negli Stati Uniti o da cittadini statunitensi, ovunque si trovi", si legge in una nota del dipartimento del Tesoro americano. 

Tentativi di spostare asset in paradisi fiscali - Da quando le sanzioni sono state annunciate sabato la Banca Centrale russa ha lavorato per spostare i suoi asset in paradisi sicuri. Lo afferma un funzionario americano citato dai media statunitensi, sottolineando che i 630 miliardi di dollari di riserve della Banca Centrale sono stati a lungo considerati come una polizza assicurativa ma con "la decisione di oggi" di sospendere ogni transazione con l'istituto centrale "si rimuove questa assicurazione".

Isabella Bufacchi per “il Sole 24 Ore” l'1 marzo 2022.  

«Sono vietate tutte le operazioni relative alla gestione delle riserve e delle attività della Banca centrale di Russia»: è quanto ha stabilito l'Unione europea in un regolamento pubblicato in Gazzetta Ufficiale nella notte tra il 27 e il 28 febbraio. 

Una misura storica, senza precedenti: è la prima volta che la banca centrale di un Paese del G20 è oggetto di sanzioni. Prima di questa misura, solo le banche centrali di Iran, Venezuela e Afghanistan sono entrate nel mirino degli Usa.

L'armageddon finanziario contro la Russia è stato così sganciato dai Paesi Nato sui mercati. La prima vittima è stata il rublo, tramortito ha perso inizialmente il 30% contro dollaro Usa per poi recuperare a -20%. 

La seconda vittima è stata Sberbank Europe AG con sede in Austria e le sue sussidiarie in Croatia and Slovenia. Bce/SSM e Single Resolution Board hanno comunicato ieri mattina che queste banche «stanno fallendo o sono in via di fallimento» per problemi di liquidità: la casamadre Sberbank of Russia, al 51% posseduta dallo Stato russo, non avrebbe trasferito alle controllate la liquidità necessaria, evidentemente per far fronte al ritiro di depositi in valuta estera.

Sono i primi effetti della sanzione sulla banca centrale e della minaccia di esclusione dal circuito Swift. Stando a fonti bene informate, l'esposizione del sistema bancario europeo al rischio-Russia è modesta. Ma l'effetto-domino delle sanzioni finanziarie varate dalla Ue e dagli Usa è appena iniziato, ci saranno altre ramificazioni con un'escalation di default per ora imponderabile. 

La sanzione che colpisce la banca centrale russa ha una grande portata. «La banca centrale di Russia non può effettuare operazioni finanziarie di nessun genere sui mercati occidentali, non può vendere titoli, né oro né qualsiasi valuta di denominazione delle sue riserve e delle sue attività, con eccezione della valuta della Cina, perché quasi la totalità delle sue controparti bancarie non russe è soggetta al divieto di Ue, Usa, Regno Unito, Canada e Giappone», ha spiegato ieri al Sole 24 Ore Francesco Papadia, ex-direttore generale per le operazioni di mercato della Bce e attualmente senior Fellow di Bruegel.

La banca centrale russa può dare liquidità illimitata in rubli al sistema bancario russo che a sua volta trasferisce la liquidità a imprese e famiglie: ma la liquidità in valuta estera da ieri è prosciugata. Per questo il Cremlino ha varato un decreto per vietare il trasferimento di capitali su conti esteri e per imporre agli esportatori di cambiare in rubli l'80% degli incassi in valuta estera. 

«La banca centrale di Russia ha adottato due contromisure: ha raddoppiato i tassi d'interesse e introdotto controlli ai movimenti di capitale all'estero. Due interventi per proteggere il rublo, ma di dubbia efficacia», ha sostenuto Papadia secondo il quale «il crollo del rublo, che in apertura dei mercati ha perso oltre il 30%, ha dimostrato che la banca centrale di Russia si trova in estrema difficoltà a difendere la propria valuta. Un forte aumento dell'inflazione sembra inevitabile».

Inevitabile è anche in arrivo la lista Ue delle banche russe che saranno bandite da Swift: sui mercati si additano Sberbank e VTB. Questa misura non renderà i pagamenti impossibili del tutto ma li rallenterà, alzerà i costi e le complessità delle transazioni finanziarie all'estero delle banche russe. 

Intanto il rublo potrebbe continuare a perdere valore perché la banca centrale non potrà difenderlo adeguatamente. I correntisti delle banche russe tutte avranno grandi difficoltà a ritirare i depositi in valuta estera oppure a convertire il rublo, che si deprezza, in valuta estera. Le imprese russe potrebbero non essere più nella condizione di onorare i propri contratti finanziari, non potranno rimborsare prestiti bancari o bond in valuta estera, non riusciranno a versare i margini su swap e derivati in dollari oppure euro.

E queste inadempienze inevitabilmente avranno ripercussioni sulle controparti europee e americane. Deutsche bank ieri ha aperto un portale, sito web dedicato alle sanzioni contro la Russia perché «in mezza giornata abbiamo ricevuto 100 domande dalla nostra clientela corporate». 

Simona Buscaglia per “la Stampa” l'1 marzo 2022.

Usciti dalle sfilate, i turisti russi accorsi a Milano la scorsa settimana per seguire la moda, da domenica si sono ritrovati improvvisamente con le carte di credito azzerate e i conti degli alberghi (salati) da pagare. Le sanzioni imposte dall'Europa alla Russia per l'invasione dell'Ucraina, hanno colpito, e duro, perfino nelle tasche di chi era atterrato sotto la Madonnina per una settimana di passerelle e glamour milanese. «Appena è stato annunciato il blocco delle carte di credito, nel weekend abbiamo avuto dei clienti russi che si sono dovuti attrezzare correndo sabato a prelevare delle somme in contante - spiega Giuliano Nardiotti, direttore del quattro stelle Sina De La Ville - Per fortuna molti avevano pagato già in anticipo con l'agenzia».

 Per gli alberghi del centro, il mercato russo è tra quelli più importanti: «Per noi ha di gran lunga superato quello nordamericano, posizionandosi ben oltre il 20% delle presenze, e attorno al 25% del fatturato - precisa Nardiotti - Il Covid ha cancellato un po' tutto ma il mercato russo è rimasto forse l'unico, tra quelli extra Ue, sempre presente». Nemmeno la Fashion Week è riuscita però a dare un sospiro di sollievo agli albergatori: «Avevamo un bel numero di russi che sono dovuti scappare in anticipo e i buyer che sarebbero dovuti venire a ridosso delle sfilate hanno cancellato gli appuntamenti».

Ad aggiungersi al quadro delle ricadute dovute alle tensioni internazionali, troviamo i rincari del costo dell'energia: «Eravamo in una situazione di difficoltà per la pandemia, poi è arrivato il caro bollette e ora la guerra - racconta Guido Gallia, direttore dell'Hotel Cavour di Milano - Il mercato russo è al secondo posto nei nostri introiti, se sparisse, insieme a lui se ne andrebbe il 30% circa del fatturato - conclude Gallia - a fronte di una situazione dove siamo a poco più del 50% dei guadagni pre-Covid». I russi d'altronde non sono i soli a trovarsi in difficoltà.

Il discorso del blocco delle carte di credito vale anche per gli ucraini, pochi, che la scorsa settimana erano arrivati sulle Alpi per sciare. Come nel caso di due famiglie rimaste bloccate agli Appartamenti Vacanze Miramonti di Valtournenche, in Valle d'Aosta: non possono tornare a casa per via della guerra e hanno le carte di credito fuori uso. «Sono due famiglie di amici, entrambe con figli - racconta il direttore della struttura Valerio Cappelletti -. Erano venute per fare la settimana bianca ai piedi del Cervino. Sarebbero dovuti ripartire domenica. Ora li stiamo ospitando gratuitamente. Hanno amici e parenti nel loro Paese, e sono ovviamente scioccati. Doveva essere una vacanza, si è trasformata in un incubo».

Preoccupazione anche nel cuore produttivo della Brianza, con il fiore all'occhiello dell'economia del territorio, quello dei mobili, che potrebbe vedere i propri prodotti fermi in magazzino: «I numeri aggiornati fanno riferimento al periodo che va da gennaio a novembre 2021: il valore dell'esportazione verso la Russia di tutta la nostra filiera si attesta intorno ai 400-410 milioni di euro» dichiara Maria Porro, presidente di Assarredo, che rappresenta circa 500 aziende di produttori di mobili italiani.

Ad essere colpito dallo stop è soprattutto il settore dell'arredamento classico: «Molte di queste aziende sono sbilanciate sul mercato russo, che può valere dal 20 al 40% dell'esportazione totale: per loro questo è un momento di grande preoccupazione, anche a causa dei forti rincari che ci sono stati sulle materie prime». Tra le aziende brianzole c'è quella di Franco Cappellini, presidente della Cornelio Cappellini: «Noi creiamo prodotti di fascia alta, per i cosiddetti oligarchi, non solo di Mosca, ma anche in altre zone della Russia. Chiaramente quando li si blocca a livello finanziario l'ultimo problema per loro sarà l'arredamento delle case.

Noi però abbiamo degli ordini aperti di centinaia di migliaia di euro, che hanno chiaramente degli acconti, il cui saldo può essere però dal 50 al 70 per cento, parliamo quindi di eventuali ricavi in meno anche di oltre 50mila euro a ordine. E se contiamo che dal 10 al 15% del nostro fatturato riguarda il mercato russo, è ovvio che l'impatto potrebbe essere importante. Qualsiasi tensione internazionale coinvolge indirettamente tutto il nostro lavoro. Abbiamo 30-40 dipendenti e siamo solidi al momento ma le conseguenze del conflitto potrebbero essere una battuta d'arresto rispetto a un inizio dell'anno partito invece in netta risalita».

In fondo al tunnel si torna al baratto. Marcello Zacché su Il Giornale il 3 marzo 2022.

Le sanzioni, con limitazioni di accesso ai mercati, applicate non all'Iran bensì alla decima economia mondiale, fanno assai male a tanta gente. Non sono più una scelta solo politica, ma diventano un attacco concreto alla popolazione stessa della nazione che si vuole colpire. Un'economia avanzata è talmente connessa con il sistema globale, che il blocco dei sistemi di pagamento di una banca - per esempio - può avere effetti anche sul droghiere sotto casa che ha il conto in quella banca. Per questo con l'attacco all'Ucraina Putin ha esposto il popolo russo a conseguenze economiche pesanti. Ma inevitabili.

Come dice Yuval Noah Harari, tra i più autorevoli storici evoluzionisti in circolazione, ciò che distingue l'uomo dagli altri esseri viventi è l'immaginazione. È con l'immaginazione che gli esseri umani hanno fatto evolvere il mondo negli ultimi 40mila anni, inventandosi ogni possibile convenzione: dalle leggi, alle monete, ai diritti umani. Tutto frutto di fantasia, perché i diritti non esistono per natura. Ed è grazie agli innumerevoli tipi di «codici» che si sono sviluppate le civiltà più evolute, come quella occidentale dove viviamo noi. Perciò, quando qualcuno decide di infrangere queste regole di convivenza universalmente accettate, se ne deve assumere la responsabilità. E se questo lo fa non un individuo, ma uno Stato, la responsabilità ricade sull'intera popolazione.

Invadendo l'Ucraina con i carri armati Putin è entrato anche in questo territorio. E lo ha fatto in solitaria, senza un'alleanza che per una pur infinitesima parte lo potesse legittimare. Ecco perché le sanzioni del resto dell'umanità (quella più evoluta e ricca) verso la Russia sono in grado di causare danni ciclopici: la rottura del modello delle convenzioni si ritorce contro chi l'ha provocata, ad ampio raggio. E può arrivare fino alle estreme conseguenze. Infatti non c'è nulla di più convenzionale dei sistemi economici-giuridici. Si pensi a una semplice banconota o a una carta di plastica, cosiddetta di «credito», o al biglietto del tram: con questi oggetti, inventati dalla sfrenata fantasia dell'uomo, si formano le relazioni complesse tra capitale e lavoro o tra beni e servizi. Le sanzioni che mettono in ginocchio - per esempio - il sistema bancario, fanno saltare tutto ciò. Fino a condurre, come estrema teorica conseguenza, all'economia del baratto. Oppure a stare al buio, o al freddo. Un ritorno a un passato lontano a piacere.

In fondo, questa guerra europea del 2022 può avere questo unico lato positivo: ricordarci che le nostre società non funzionano per diritti naturali o grazie a benefici acquisiti, ma solo perché ci siamo inventati delle straordinarie regole. E difenderle equivale a proteggere la nostra civiltà.

 Il ritorno del baratto: un antico mezzo utile per superare le difficoltà attuali. Gabriele Laganà l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Lo strumento si sta rivelando vantaggioso per superare la crisi economica provocata dalla pandemia. Dalle persone alla finanza passando per i Comuni: ecco chi oggi sta rinunciando alla moneta.

Il baratto è un'operazione di scambio di beni o servizi fra due o più soggetti economici come ad esempio persone, imprese, enti o governi, senza l’uso di moneta. Uno strumento, questo, considerato come la prima forma di attività commerciale della storia. Eppure non ci sono prove storiche, antropologiche o etnologiche dell'esistenza di una società o di un'economia basata principalmente su questo mezzo.

Come tutto nella vita, anche il baratto ha subito un declino, arrivando praticamente a scomparire con il passare del tempo ed il progredire delle attività umane. Il punto di svolta avvenne attorno al V millennio avanti Cristo quando l’uomo iniziò a dare ad alcuni semplici oggetti (conchiglie, sale, punte di frecce ed altro) un valore intrinseco per favorire le negoziazioni. In pratica, in quell’epoca stava nascendo il commercio basato sul denaro.

Il nuovo boom del baratto

Si era, quindi, chiuso un capitolo. Ma non in modo definitivo. Perché oggi questo mezzo per scambiare beni e servizi sta tornando in auge, anche se declinato in chiave più moderna. Negli ultimi due anni, in particolare, il baratto ha conosciuto un vero e proprio boom. Un arco temporale non casuale ma che coincide con il diffondersi a livello mondiale del Covid-19.

La crisi economica acuita dall’emergenza sanitaria, infatti, non solo ha sconvolto la nostra quotidianità ma ha prodotto effetti devastanti per molti settori. E così lo scambio di merci e servizi ha iniziato a rappresentare una risorsa importante in quanto non comporta scambio di denaro. Denaro che in alcuni casi non c’è oppure è limitato.

Il baratto moderno è anche un modo pratico che consente di sfruttare al meglio le nuove tecnologie, superando gli ostacoli fisici, tra cui lockdown ed isolamento, imposti dalle restrizioni anti-contagio. Non è un caso che di recente siano divenuti molto popolari siti internet basati sulla "circolarità" dell’utilizzo e siano nate numerose app per la cessione di beni attraverso lo scambio.

Questi ultimi strumenti incentivano l’economia circolare producendo, allo stesso tempo, due conseguenze positive: un forte calo degli sprechi e la riduzione delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera (perché più si riutilizza e meno si produce). E minori danni per la natura significa miglioramento della qualità di vita degli esseri umani e minori costi per difendere l’ambiente.

Non meno importante è il recente sviluppo di forme di baratto amministrativo, che consentono di pagare multe impegnandosi in lavori socialmente utili.

Il baratto nel mondo finanziario

Il baratto sta subendo una naturale evoluzione tanto che negli ultimi tempi sta divenendo sempre più 4.0. Di conseguenza si sta allargando la platea di chi utilizza questo strumento. Oggi anche il mondo della finanza, come sottolinea il sito true-news.it, non disdegna di ricorrere al baratto.

Nella legge di Bilancio 2021 è stato introdotto il cosiddetto "baratto finanziario", un sistema di compensazione multilaterale di crediti e debiti commerciali legati a operazioni di scambio provate dalla presenza di fatture elettroniche.

In questo modo le aziende possono compensare le proprie posizioni, che siano creditorie o debitorie, senza usare la moneta. L’idea di introdurre questo sistema era stata avanzata dall’Associazione Nazionale Commercialisti e Confimi Industria (Confederazione dell'Industria Manifatturiera Italiana e dell'Impresa Privata): l’obiettivo era quello di realizzare un sistema sicuro per le imprese con lo scopo di sostenere le attività in crisi di liquidità.

L’idea del baratto coinvolge anche la Pubblica amministrazione. I Comuni possono fare ricorso a questo sistema per aiutare i cittadini che sono in difficoltà nel pagare le multe. La legge permette, in determinati e limitati casi, di convertire una sanzione con attività di pubblica utilità.

Nuove idee per il baratto moderno

Il baratto oggi è conosciuto anche con il nome "barter". Cambia il termine, un po’ forse per andare incontro alla nostra società che ama usare appellativi anglofoni, ma non la sostanza. Esempio pratico del boom del baratto al giorno d’oggi è rappresentato dal successo di BarattoBB.it: si tratta di portale dedicato ai soggiorni nei b&b in Italia. Sul sito è possibile scambiare beni o servizi per ottenere vantaggi di natura turistica senza costi aggiuntivi. Un modo per viaggiare senza spendere grandi cifre.

Non ci sono limiti alle idee per sviluppare un baratto in epoca moderna. Altra prova dell’evoluzione di questo sistema di scambio è testimoniata dal "burter" che si basa sulla vendita sottocosto di prodotti commerciali. Su questa base è nata la catena Portobello che ha sede a Roma.

Il meccanismo è tanto semplice quanto vantaggioso per produttori e consumatori: l’azienda acquista i beni eccedenti nei magazzini dei produttori offrendo in cambio spazi pubblicitari. Così facendo rimette in commercio prodotti ad un prezzo sensibilmente più basso rispetto a quelli del mercato, anche del 50%. Grazie a un modello di business circolare e integrato verticalmente, l’azienda offre prodotti di alta qualità a prezzi accessibili attraverso la vendita assistita presso i negozi.

Insomma, dal passato riemerge uno strumento considerato superato ma che, invece, sta risultando valido per superare le difficoltà del presente.

Gabriele Laganà. Sono nato nell'ormai lontano 2 aprile del 1981 a Napoli, città ricca di fascino e di contraddizioni. Del Sud, sì, ma da sempre amante dei Paesi del Nord Europa. Seguo gli eventi di politica e cronaca dall'Italia e dal mondo. Amo il calcio, ma tifo in modo appassionato solo per la Nazionale azzurra. Senza musica non potrei vivere. In tv non perdo i programmi che parlano di misteri e i film horror, specialmente del genere zombie. Perdono molte cose. Solo una no: il tradimento

Russia esclusa da Swift. Von der Leyen: “Paralizzeremo la Banca centrale russa”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 27 Febbraio 2022.

Gli Stati Uniti stanno valutando sanzioni contro la Banca Centrale russa, in una mossa che farebbe finire nel mirino americano 643 miliardi di dollari di riserve che il presidente Vladimir Putin ha accumulato prima della pianificata invasione dell'Ucraina. Lo riporta l'agenzia Bloomberg citando alcune fonti.

Gli alleati occidentali hanno deciso nuove sanzioni finanziarie contro la Russia per l’invasione dell’Ucraina e hanno deciso di escludere le banche russe dal sistema internazionale bancario SWIFT, che consente il trasferimento di fondi in tutto il mondo. L’annuncio è stato dato con una dichiarazione congiunta. “Noi, i leader della Commissione Europea, di Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Canada e Stati Uniti condanniamo la guerra decisa da Putin e gli attacchi alla nazione sovrana e al popolo ucraino” e “siamo con il governo ucraino e il popolo ucraino nei loro sforzi eroici per resistere all’invasione“. Dopo mezzanotte è arrivata la comunicazione ufficiale: “Ci impegniamo a garantire che le banche russe selezionate vengano rimosse dal sistema di messaggistica SWIFT. Ciò garantirà che queste banche siano disconnesse dal sistema finanziario internazionale e danneggino la loro capacità di operare a livello globale“. 

La presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen , il cancelliere tedesco Olaf Scholz, il presidente del Consiglio Mario Draghi, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, il presidente francese Emmanuel Macron e si riuniranno questa sera in videoconferenza. Lo riporta la Dpa citando alti funzionari. L’obiettivo è raggiungere un accordo su ulteriori sanzioni come il congelamento dei beni esteri degli oligarchi russi. Sul tavolo anche le misure su Swift. “Faremo in modo che Putin non utilizzi più i suoi fondi di guerra. Paralizzeremo le transazioni della Banca Banca Centrale Russa“, ha detto ancora la von der Leyen, specificando anche che l’Ue e gli Usa “proibiranno agli oligarchi russi l’uso dei nostri mercati finanziari”. 

Ma non solo. L’accordo prevede un impegno “per mettere fine alla procedura che consente ai ricchi russi legati a Mosca di diventare cittadini dei nostri Paesi e guadagnare accesso ai nostri sistemi finanziari” tramite i cosiddetti “passaporti d’oro”. Gli Stati Uniti stanno valutando sanzioni contro la Banca Centrale russa, in una mossa che farebbe finire nel mirino americano 643 miliardi di dollari di riserve che il presidente Vladimir Putin ha accumulato prima della pianificata invasione dell’Ucraina. Lo riporta l’agenzia Bloomberg citando alcune fonti.

Si è risolto, in questa prospettiva, anche il “Caso Italia” nato ieri dopo le parole del premier Mario Draghi in Aula e la replica via Twitter del presidente ucraino Zelensky . Il nostro Paese, Draghi in primis, veniva messo sotto accusa da varie personalità europee per non aver appoggiato la linea dura contro Putin, ma dopo le smentite ufficiali da Palazzo Chigi adesso è riconosciuto anche dall’Ucraina come allineato agli altri.

“A poche decine di chilometri dal confine orientale dell’Ue, l’esercito russo sta compiendo azioni barbare durante la sua invasione dell’Ucraina. Sta bombardando e lanciando attacchi missilistici, uccidendo persone innocenti. Allo stesso tempo, il mondo intero sta assistendo alla resistenza determinata e coraggiosa dell’esercito e della popolazione ucraini” ha dichiarato la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, che ha aggiunto “Mentre le forze russe scatenano il loro assalto a Kiev e ad altre città ucraine, siamo determinati a continuare a imporre costi alla Russia che isoleranno ulteriormente la Russia dal sistema finanziario internazionale e dalle nostre economie“.

Il segretario di Stato americano Antony Blinken ha annunciato ulteriori 350 milioni di dollari in nuova assistenza militare all’Ucraina.

E’ stato dichiarato lo stato di pre-allarme in Italia per il gas. A prendere la decisione, dopo aver sentito il Comitato di emergenza e monitoraggio nazionale, è stato il ministero della Transizione ecologica che è l’autorità competente per la sicurezza degli approvvigionamenti di gas naturale. I principali motivi riguardano il passaggio in Ucraina delle forniture che arrivano nel nostro Paese e l’elevata pericolosità della “minaccia“.

È stato convocato per lunedì un Consiglio Ue dell’Energia straordinario a Bruxelles. Sul tavolo gli effetti della crisi con la Russia. Per l’Italia parteciperà il ministro per la Transizione Ecologica Roberto Cingolani. Redazione CdG 1947

(ANSA il 26 febbraio 2022) - La scure delle sanzioni americane si abbatte su Vladimir Putin e la sua cerchia ristretta di collaboratori. 

Ma, secondo i critici, non colpisce il jet set degli ultraricchi russi, quegli oligarchi uomini del presidente con immense fortune parcheggiate all'estero. 

Se la Gran Bretagna e Londra sono emerse negli anni come il porto preferito dei paperoni di Mosca, Miami e New York non sono molto da meno, così come le università americane dove molti dei figli degli oligarchi russi studiano. 

Diversi osservatori americani ritengono che per far veramente male a Putin sarebbe necessario non tanto imporre sanzioni finanziarie agli oligarchi, ma strappare la doppia cittadinanza e lo stile di vita fastoso a cui sono abituati con le loro famiglie e spiegare che è colpa di Putin. 

Seguendo strada, è la convinzione, anche gli oligarchi potrebbero trasformarsi in attivisti anti guerra. Il Washington Post fa il caso dell'uomo simbolo, Roman Abramovich, proprietario della squadra di calcio del Chelsea, di uno yacht con eliporto e piscina, di una casa da 200 milioni di dollari a pochi passi da Kensington Palace e di altre proprietà ai Caraibi e negli Stati Uniti. Abramovich era nella lista dei target di sanzioni proposta lo scorso anno da Alexei Navalny.

«Imprese russe obbligate a consegnare euro e dollari». Così Mosca fa incetta di valuta estera. Barbara Millucci su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.

«La mia banca, la banca di stato VTB bank, ha appena emesso una circolare interna (raggiungibile qui, ndr) con cui lo stato russo obbliga tutte le imprese con valuta estera a convertire almeno l’80% dei depositi in rubli, al cambio che vogliono i vertici delle istituzioni bancarie». Alessandro Zocca, vicentino, è uno dei più grossi dealer di Mosca, nel commercio di prodotti italiani. Ho ottenuto la cittadinanza, e passaporto russo, dopo 20 anni e, non avendo più un visto sul passaporto italiano, al momento è bloccato, come tanti altri, nella capitale russa.

La testimonianza di Alessandro Zocca

«Un'azienda russa che vende un macchinario all’estero, non potrà più tenere valuta in euro come avviene ora ma verrà costretta a convertirla immediatamente nella moneta russa. Il documento che mi ha girato la banca fa riferimento ai depositi bancari. Non si bloccano le transazioni con l’estero anche perche tutte le imprese russe che esportano andrebbero subito al collasso», continua Zocca raggiunto via telefono a Mosca. «E’ la contromisura decisa da Putin per impedire che cittadini e aziende si liberino dei rubli, cosa che sta già accadendo. Le imprese che commerciano con l’estero in questo modo potranno tenere solo fino al 20% di valuta estera».

La svalutazione del rublo

Al momento, tra le banche sanzionate dall’occidente ci sono oltre a VTB, Alfa Bank (la più grande delle banche private in Russia, fondata dall'uomo d'affari russo Mikhail Fridman, che è ancora oggi il proprietario di controllo), Bank Otkrytie Financial Corporation (una delle più grandi banche commerciali con 440 uffici di diversi in tutta la Russia) la Promsvyazbank, e molte altre. «Questo apre scenari drammatici per il commercio estero, anche perché aumenterà in modo insostenibile e irreversibile il rischio di cambio».

Zocca vive a Mosca con la sua famiglia, moglie russa e due bambini. «Al momento i bancomat sono presi d’assalto. Non fanno in tempo a riempirli che la fila di gente li svuota subito. In una sola notte i russi hanno prelevato agli sportelli automatici attorno a un terzo dello stipendio mensile». Ma la svlautazione del rublo già corre e si fa insostenibile: «Se prima con mille rubli compravo 13 euro, oggi ne posso acquistare a mala pena 8 - racconta Zocca - Quando anni fa, aprii il mio conto nella banca di stato russa, tutti mi avevano rassicurato sulla sua affidabilità e sicurezza. Mai avrei immaginato una cosa simile».

Isabella Bufacchi per “il Sole 24 Ore” il 27 Febbraio 2022.

Bandire la Russia da Swift, la rete mondiale che fornisce servizi di messaggistica per la verifica dei pagamenti interbancari, equivale a sganciare un'«arma nucleare finanziaria», hanno detto il vicepresidente della commissione europea Valdis Dombrovskis e il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire. 

E per fermare la guerra in Ucraina, anche l'opzione nucleare Swift si fa strada e sta arrivando sul tavolo della Ue come supersanzione del terzo pacchetto di misure contro la Russia.

Resta da vedere se l'opzione Swift verrà sul nascere depotenziata, proprio per toglierle quella portata "nucleare" estremamente vasta: se cioè l'esclusione della Russia da Swift sarà «mirata e fatta in maniera funzionale» come hanno suggerito ieri i ministri tedeschi degli Esteri e dell'Economia Annalena Baerbock e Robert Habeck, entrambi del partito verde, in una dichiarazione congiunta. I due ministri hanno detto che si sta lavorando «a un'uscita dal sistema Swift della Russia che colpisca la gente giusta».

Tagliare fuori banche e società finanziarie russe dal circuito globale Swift, sanzione fortemente voluta da Usa, Canada, Regno Unito e Paesi baltici, non è esclusa, in linea di principio, da nessuno dei 27 Paesi membri della Ue. Germania, Italia, Francia, Ungheria, Cipro, ovvero gli Stati che inizialmente erano risultati tra i più cauti, hanno tutti via via chiarito di non aver mai posto veti a priori.

Le Maire, dopo un silenzio un po' sospetto del governo francese, ha detto che la Francia non «ha riserve». Il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner ha affermato, in merito a Swift: «Siamo aperti ma dobbiamo sapere cosa facciamo». L'Ungheria ha smentito le indiscrezioni circolate in questi giorni: «Non abbiamo mai ostacolato l'opzione Swift». 

La chiusura di Swift agli istituti russi tuttavia ha una portata distruttiva che può andare molto al di là della Russia e per questo è un'arma finanziaria "nucleare" che va maneggiata con cura, come ha detto Le Maire. Prima di essere usata dalla Ue come sanzione contro la Russia, dovrà essere soppesata e valutata in tutte le sue ripercussioni.

Una decisione sul via libera a Swift, l'armageddon delle sanzioni, verrà presa con voto all'unanimità dei 27, forse nelle prossime ore o nei prossimi giorni. E comunque solo dopo aver studiato analisi e valutazioni effettuate dalla Commissione europea e dalla Banca centrale europea su tutti i pro e su tutti i contro, su ripercussioni e costi, non solo per la Russia ma anche per l'Europa.

Anche la Federal Reserve starebbe valutando, come la Bce, l'impatto della sanzione Swift anche ai fini della stabilità finanziaria e dell'impatto sul dollaro Usa. La ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock aveva detto candidamente nei giorni scorsi che l'esclusione delle banche russe da Swift avrebbe avuto «danni collaterali enormi» perché avrebbe potuto mettere in pericolo l'approvvigionamento energetico della Germania in quanto le importazioni di energia dalla Russia non sarebbero state più pagate, almeno non più tramite Swift (e in attesa di alternative).

E questo vale per tutti i Paesi europei che importano energia russa. Il ministro dell'Economia Robert Habeck ha reso noto che il 35% di importazioni di petrolio, il 55% del gas e il 50% del carbone in Germania vengono dalla Russia. Il presidente Putin, a sua volta, potrebbe reagire al blocco su Swift chiudendo i rubinetti del gas come ritorsione. Alcuni parlamentari russi hanno dichiarato che una misura di questo genere sarebbe l'equivalente di una dichiarazione di guerra da parte dei Paesi Nato.

Secondo stime di esperti, la sanzione con disconnessione da Swift ridurrebbe il Pil russo del 5%. L'esclusione della Russia da Swift è stata indicata da Moody' s ieri come una misura che avrebbe «un impatto significativo sull'economia e il sistema finanziario» di Mosca e che potrebbe portare a un declassamento della Russia a livello "spazzatura". 

L'uso di Swift come sanzione non mirata è in effetti paragonabile a un'arma finanziaria nucleare perché, a differenza di una misura circoscritta a liste di banche e di imprese, ha un raggio di azione enorme, in definitiva colpisce qualsiasi transazione finanziaria dalla Russia ma anche verso la Russia.

Ad essere estromessi dal circuito dei codici BIC, che consentono di verificare le banche con le quali si effettua un pagamento transfrontaliero mandandolo a buon fine, sarebbero non solo banche, istituti finanziari, ma colpite anche aziende russe di qualsiasi dimensione, istituti culturali, organizzazioni Onlus, ambasciate, cittadini e residenti in Russia che utilizzano i conti in banca in loco per effettuare o ricevere bonifici da e per l'estero.

Resterebbero bloccati persino i trasferimenti di denaro agli studenti russi all'estero, per esempio, in un momento in cui, a causa della guerra in Ucraina, sembra che inizi ad essere difficoltoso persino l'uso di Paypal in Russia. Non è escluso che lo stop a Swift possa compromettere le transazioni domestiche, non solo internazionali e transfrontaliere. 

Il mercato dei derivati negoziati in Borsa e OTC potrebbe essere colpito nel momento in cui le controparti russe non fossero più in grado - per un blocco tecnico - di onorare i contratti puntualmente e integralmente: cosa accadrà al versamento dei margini iniziali infragiornalieri e giornalieri dovuti alle casse di compensazione e garanzia da controparti russe senza poter utilizzare i codici Swift? Questo va chiarito.

La stabilità finanziaria mondiale va preservata e non potranno esserci, a causa di sanzioni Swift, effetti domino del tipo cross default. Alcune tipologie di pagamento dovranno essere consentite comunque. La chiusura di Swift per le banche russe potrebbe inoltre incentivare il potenziamento di circuiti alternativi esistenti o la creazione di nuove reti o codici per pagamenti senza Swift in concorrenza, tra i quali criptovalute come Bitcoin ed Ethereum, stablecoin collegati al dollaro come Tether e sistemi FinTech e blockchain come Ripple.

La Russia dal 2014, cioè dall'invasione della Crimea, ha lanciato il suo SPFS, circuito di messaggistica per pagamenti interbancari domestici: viene utilizzato da 400 banche russe, ma sembra valga solo per il 20% delle transazioni ed è considerato "periferico" al sistema globale. Finora SPFS non è riuscito ad attrarre le banche non russe (solo una banca cinese risulta abbia aderito). L'ad di VTB ha detto che senza Swift utilizzerà WhatsApp e email, ma non è la stessa cosa.

Anche la Cina ha una sua rete come Swift, chiamata Cips, ma con volumi bassi, stimati non oltre lo 0,3% delle dimensioni Swift: Cina e Russia potrebbero unire le forze contro Swift, che è dominato dalle transazioni in dollari Usa. La dedollarizzazione, secondo esperti della materia, potrebbe avvenire proprio tramite la creazione di circuiti alternativi a Swift.

Per Sam Theodore, esperto di banche e vigilanza bancaria, consulente di Scope Investors Services, la vera arma nucleare finanziaria in mano all'Occidente contro la Russia è un'altra: il blocco dell'accesso della Banca centrale russa alle sue riserve internazionali (stimate in oltre 640 miliardi di dollari) che sono detenute presso altre banche centrali. «L'impatto sul sistema economico e finanziario russo di questa misura sarebbe relativamente veloce e veramente devastante», ha detto Theodore interpellato dal Sole 24 Ore.

La Svizzera: sanzioni alla Russia come la Ue. Rotta la storica neutralità. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2022.  

L'annuncio del presidente della Confederazione Ignazio Cassis. Fino a oggi Berna aveva mantenuto un atteggiamento morbido verso la Russia, limitandosi ad escludere una serie di persone e banche dall'intrattenere rapporti economici. 

Anche la Svizzera si appresta a colpire la Russia con una serie di sanzioni, adeguandosi a quelle decise dalla Ue . Lo ha annunciato il presidente della Confederazione Ignazio Cassis, parlando ai microfoni del canale francese della tv pubblica e definendo «molto probabile» che lunedì la Svizzera congelerà una serie di beni detenuti da cittadini russi. Si tratta di una svolta importante e per certi versi storica: Berna da un lato rompe la sua tradizionale neutralità di fronte alle guerre e dal'altro copre una «falla» che avrebbe potuto aprirsi nella morsa finanziaria che l'Occidente ha deciso di stringere attorno a Mosca.

Fino a sabato infatti la Svizzera aveva assunto una posizione piuttosto prudente nei confronti delle mosse di Putin. Il governo si era limitato a formulare una «black list comprendente circa 300 cittadini russi e 4 banche» a cui aveva imposto il divieto di intrattenere rapporti d'affari. In teoria, dunque i numerosi oligarchi e milionari russi che hanno conti nelle banche elvetiche avrebbero potuto continuare ad operare. Certo, il Paese avrebbe potuto andare incontro a un rischio giuridico e «reputazionale»: le banche che avessero mantenuto un rapporto disinvolto con interlocutori russi sarebbero potute andare incontro a citazioni in giudizio ma soprattutto essere considerate fiancheggiatrici indirette del regime di Putin. Rischiava insomma di riprodursi una situazione simile a quella della Seconda Guerra Mondiale quando la Svizzera continuò a intrattenere rapporti economici con la Germania di Hitler.

Il fronte compatto creatosi in Europa e non solo contro gli aggressori dell'Ucraina ha convinto ora anche Berna ad allinearsi, evitando il rischio di rimanere isolata. «Neutralità non significa indifferenza» aveva dichiarato il presidente Cassis in un messaggio alla nazione letto poche ore dopo l'attacco russo all'Ucraina. «La Russia ha violato in maniera flagrante il diritto internazionale e la sovranità di un altro Stato». Le posizioni dei partiti svizzera sembravano divergere sull'atteggiamento da mantenere verso Mosca: i Verdi spingevano per un maggiore rigore, L'Udc (partito della destra nazionalista) all'opposto chiedeva di preservare la neutralità del Paese.

SWIFT, LA DIGNITA' DI UN PAESE NON HA PREZZO. LA GUERRA IN UCRAINA - L'esclusione della Russia dal sistema di pagamenti internazionali costa a Italia e Europa come una pandemia. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 26 Febbraio 2022.

Ha fatto bene Mario Draghi a dire con chiarezza di essere favorevole all’unica sanzione che morde. Bisognerà vedere che cosa diranno tedeschi  e americani. Le ipotesi sono due: l’utilizzo dell’”arma nucleare” della finanza tout court o in modo selettivo escludendo gli istituti che comprano e vendono gas. Nella prima ipotesi gli effetti sono uno shock che vale su base annua  8/9 punti di Pil in Italia e 5 punti in Europa, ma la Russia perde di riflesso il 30% delle sue esportazioni  e non ha più le entrate valutarie per fare tante cose, anche  per fare mangiare le persone. Quella di Draghi è una scelta che ha la dignità delle grandi scelte di politica estera di un grande Paese. È evidente, però, che in Italia tutte le centrali a carbone riapribili vanno riaperte e si può arrivare al 15/20% della nostra domanda di elettricità che sono 3/4 miliardi di metri cubi di gas. Poi bisogna spedire Descalzi (Eni) in Algeria e in Libia e fare gli investimenti in Nord Africa per tirare fuori tutto il gas che c’è e che serve.  Stessa attenzione va riservata all’Iran e al Qatar.  E serve subito un super fondo europeo

HA FATTO bene Mario Draghi a dire con chiarezza di essere favorevole a fare uscire la Russia da Swift, il sistema internazionale che permette di eseguire gli ordini di pagamento. Ha fatto bene a sostenere di appoggiare la linea dura fino all’utilizzo di  questa specie di “arma nucleare” della finanza che l’Europa è pronta a lanciare sul terreno militare contro l’autocrate Putin. Una decisione che è diretta a colpire la violenta superpotenza russa all’assalto di Kiev capitale dello Stato libero dell’Ucraina e che di sicuro ha un impatto abnorme sulla bolletta energetica italiana e, cioè, sui conti delle imprese e delle famiglie italiane. Ovviamente bisognerà vedere che cosa dirà la Germania. Soprattutto che cosa diranno gli americani perché senza il loro assenso Swift non salta.

Bisognerà anche capire se si arriverà all’utilizzo dell’“arma nucleare” della finanza tout court o, come è più probabile, in modo selettivo escludendo Gazprombank e gli istituti che possono garantire la compravendita di gas. Perché nella prima ipotesi gli effetti per l’Italia sono quelli di una nuova pandemia con uno shock su produzione e consumi di dimensione straordinaria  che va affrontato all’istante con strumenti di sollievo europeo.

Per chi non lo avesse capito, parliamo di qualcosa che può valere 8/9 punti di Pil in Italia e 5 punti di Pil in Europa. Ci sono momenti, però, in cui sono in discussione la dignità di un Paese perché la democrazia non ha prezzo. In questo caso è in gioco la dignità dell’Italia e di una nuova Europa. Perché tagliare fuori la Russia dal circuito finanziario delle transazioni internazionali è l’unica sanzione che morde, quelle adottate fino a oggi sono bazzecole. Perché se io Europa non posso pagare il gas ovviamente non lo posso comprare, ed è vero che a noi Europa viene a mancare la materia prima per alimentare riscaldamento e elettricità e il petrolio per sostenere i trasporti, ma è evidente che la Russia perde di riflesso il 30% delle sue esportazioni e non ha più le entrate valutarie per fare tante cose, anche per fare mangiare le persone, oltre che a colpire i russi ricchi.

Essendo in guerra, si usano armi di guerra e si determinano le condizioni di un’economia di guerra. Una scelta così forte morde la carne viva della nostra economia sul fronte delle esportazioni e ancora di più su quello delle importazioni energetiche. Una botta sulla nostra economia di sicuro di calibro pandemico per fare fronte alla quale servono scelte coraggiose, appunto di guerra, in casa e in Europa. Proprio per questo, però, emerge la forza e la dignità di una scelta politica del premier Draghi che fa i conti con la realtà di un Putin che vuole riscrivere i confini europei e che senza un’alzata di scudi compatta della vecchia Europa potrebbe ripetere con i Paesi baltici quello che ha fatto con l’Ucraina.

Siamo in presenza di un signore che ha già tagliato il gas a noi italiani e che lo ha fatto programmando tutto in ogni singolo dettaglio. Perché è chiaro che è stato Putin a tagliare inopinatamente i quantitativi delle forniture facendo salire i prezzi e caricandoli tutti sulle nostre spalle. Al punto che non manca chi sostiene che Putin ha finanziato la sua guerra di annessione in Ucraina con i soldi degli italiani e dei tedeschi.

Ed è altresì chiaro a tutti gli europei  che se abbiamo livelli di prezzi e di inflazione che preoccupano non è perché è scappata di mano la domanda interna, ma perché Putin ha pilotato abilmente verso l’alto gas e petrolio. Questi prezzi sono aumentati per colpa sua che improvvisamente non ha voluto vendere con gli stessi quantitativi che vendeva prima e ha programmato a tavolino i nuovi scenari di domanda, offerta e prezzi. A questo punto, siamo tutti nella stessa barca. Perché dipendiamo tutti dall’energia, dipendiamo tutti da gas e petrolio russi, quanto noi i Paesi del Nord Europa, quanto noi o più di noi i Paesi dell’Est europeo come Bulgaria e Romania. Stanno meglio i francesi che hanno un po’ di nucleare e soffrono come noi anche i tedeschi che hanno un po’ più di carbone. 

È evidente che la scelta di una linea dura europea così forte richiede il coinvolgimento esterno di Giappone e Inghilterra. Bisogna che si avverta la tenaglia del mondo che stringe il collo di chi ha concepito l’espansionismo russo fuori da ogni regola e vuole oggettivamente cambiare gli equilibri internazionali con l’arma della guerra unilaterale riducendo le aree di influenza del mondo libero a favore del mondo autocratico. Si tratta di bloccare un processo che inizia ora, ma non si sa dove può arrivare. Mettersi intorno a un tavolo con un signore che la stampa americana descrive come “il nuovo Hitler” significa correre il rischio di ripetere colpevolmente gli errori della storia. Quando si disse “si prende  la Polonia e basta”, poi  si disse “si prende l’Austria ma era già sua” e poi siamo arrivati dove siamo arrivati.  Siamo sullo stesso crinale con un Putin che si è preso la Crimea, ha tentato con l’Afghanistan, poi si è preso pezzi del Donbass e ora vuole l’Ucraina che è un Paese libero sovrano che vale quasi tre volte l’Italia come dimensione con circa quaranta milioni di persone.

Che facciamo? Stiamo fermi e gli facciamo fare un genocidio? Gli consentiamo di ricostruire l’impero sovietico perché non sappiamo come pagare la bolletta ai russi decidendo di escluderli dal sistema internazionale di pagamenti? Se emerge una consapevolezza mondiale che la linea dura delle sanzioni vere è l’unica possibile, se questa è la posizione del Consiglio europeo, se questa è la posizione dominante del nuovo fronte unico mondiale l’Italia non può porre veti senza mettere in gioco la sua dignità e, per questa ragione, non lo farà.

Quella di Draghi è una scelta che ha la dignità delle grandi scelte di politica estera di un grande Paese. È evidente, però, che né l’Italia né l’Europa potranno rimanere con le mani in mano. In Italia tutte le centrali a carbone riapribili vanno riaperte. Civitavecchia, Brindisi, Fusina-Marghera a Venezia, La Spezia, Monfalcone. Si può arrivare a fare un 15/20% su base annua della domanda di elettricità importata dalla Russia per un controvalore di 3/4 miliardi di metri cubi di gas. Se avessimo fatto come la Germania che non ha smantellato quasi nulla a differenza nostra, oggi staremmo messi meglio. Per queste ragioni Descalzi, come un tempo Mattei, accompagnato dal ministro degli Esteri Di Maio e, se necessario, anche dal presidente del consiglio Draghi, deve volare in Algeria, in Libia. Bisogna “andare in ginocchio” in Nord Africa per fare quegli investimenti che i russi hanno fatto e tirare fuori tutto il gas che c’è e che serve.  Stessa attenzione va riservata all’Iran, al Qatar e a tutta l’Africa. Non si può tralasciare nulla. È ovvio che la spinta già decisa sulle rinnovabili dovrà ulteriormente essere intensificata.

L’Europa deve battere il secondo colpo dopo Next Generation Eu perché serve un super fondo europeo in quanto l’emergenza  energetica può fare saltare la ripresa europea e mettere in crisi quella mondiale. La guerra in Ucraina non rientra tra gli eventi prevedibili o di cui le democrazie europee hanno qualsivoglia responsabilità. La situazione non ha più nulla di ordinario e di convenzionale.

LA GUERRA CIBERNETICA.

Guerra Ibrida.

Guerra metafisica: guerra delle percezioni della Realtà

INFO OPS

Dottrina Nato

Guerra Elettronica (Malfunzionamento Reti Comunicazioni)

Operazioni sulle reti di computer (Hackeraggio)

Disinformazione (Fake News)

Sicurezza informativa (Spionaggio)

Operazioni Psicologiche (Propaganda)

Maurizio Stefanini per “Libero Quotidiano” il 19 marzo 2022.

Il Garante della Privacy ha aperto una inchiesta sull'uso dell'antivirus Kaspersky nella nostra Pubblica Amministrazione. Tre anni prima della guerra in Ucraina, il Senato Usa aveva deciso che affidare le reti dell'Occidente a un software creato da un informatico laureato presso la Facoltà di Matematica della Scuola Superiore del Kgb ancora in epoca sovietica (1987) configurava come minimo un comportamento a rischio. In Italia ci si è arrivati ora, sull'onda di una polemica di cui è stato elemento fondamentale anche una denuncia di Renato Farina su Libero.

PROTEZIONE Il Garante per la protezione dei dati personali ha dunque aperto un'istruttoria per valutare i potenziali rischi relativi al trattamento dei dati personali dei clienti italiani effettuato dalla società russa che fornisce il software antivirus Kaspersky (anche se il nome non è fatto esplicitamente). L'iniziativa è stata intrapresa d'ufficio dall'Autorità, ma si è resa necessaria dopo l'attacco di Putin all'Ucraina, allo scopo di approfondire gli allarmi lanciati da numerosi enti italiani ed europei specializzati in sicurezza informatica sul possibile utilizzo di quel prodotto per attacchi cibernetici contro utenti italiani.

Il Garante ha dunque chiesto a Kaspersky Lab di fornire il numero e la tipologia dei suoi clienti italiani, oltre a informazioni dettagliate sul trattamento dei dati personali effettuato nell'ambito dei diversi prodotti o servizi di sicurezza. Inclusi quelli di telemetria o diagnostici. 

La società dovrà inoltre chiarire se, nel corso del trattamento, i dati siano trasferiti al di fuori dell'Unione europea, o comunque resi accessibili a Paesi terzi. Kaspersky Lab dovrà infine indicare il numero di richieste di acquisizione o di comunicazione di dati personali, riferiti a interessati italiani, rivolte alla società da parte di autorità governative di Paesi terzi, a partire dal 1° gennaio 2021, distinguendole per Paese e indicando per quante di esse Kaspersky Lab abbia fornito un riscontro positivo.

Un linguaggio tecnico che indica comunque un inizio di azione, anche se più cauto rispetto al resto d'Europa. Mentre infatti l'Italia ancora indaga la Germania già ha deciso di rimuoverlo, e anche il Centro governativo di sicurezza informatica francese ha diramato un comunicato nel quale evidenzia come «nel contesto attuale, l'uso di alcuni strumenti digitali, in particolare gli strumenti della società Kaspersky, può essere messo in discussione a causa del loro legame con la Russia».

Il governo italiano starebbe comunque per varare una norma ad hoc per consentire alle pubbliche amministrazioni di disinstallare il software. Secondo la banca dati di Contrattipubblici.org., Kaspersky sarebbe utilizzato in Italia da ben 2384 enti. L'azienda e il fondatore provano a rassicurare sul fatto che il software non si presterà mai a condurre attacchi malevoli per conto del Cremlino. 

Per questo motivo nel novembre del 2020 ha completato il trasferimento di tutti i suoi server in Svizzera, ed ha anche inaugurato un Centro per la trasparenza in Nord America. Però nel 2011 fu sequestrato da malviventi Ivan: figlio di Eugene Kaspersky e di sua moglie Natalya, a sua volta programmatrice e dell'azienda. co -fondatrice Dopo una richiesta di riscatto, fu salvato in capo a pochi giorni per un intervento dei Servizi russi sui cui retroscena non è mai stata fatta chiarezza.

E la famiglia Kaspersky vive ancora ufficialmente nel Paese. Come spiega la testata specialistica Wired, «la tesi di numerosi esperti di sicurezza informatica è che la tecnologia stessa degli antivirus sia troppo invasiva per permettere che quelli installati in gangli vitali dell'amministrazione pubblica o delle imprese provengano da un Paese con cui si è in aperta ostilità.

Vedi Kaspersky e la Russia, che ha iscritto l'Italia nella lista dei Paesi ostili dopo che Roma si è unita alle sanzioni internazionali per l'Ucraina». «Per loro natura, gli antivirus sono software che decidono cosa è bene e cos' è male, cosa può passare e cosa dev' essere fermato, e lo fanno sulla base di liste di malware che sono conosciute solo dagli sviluppatori del software».

ESCLUSIVO - "Comunicazione classificata" per rischio cybersicurezza. “Disinstallate Kaspersky dai PC”, i servizi segreti lanciano l’allarme per l’antivirus usato da Farnesina e Viminale. Nicola Biondo su Il Riformista il 15 Marzo 2022. 

L’affaire Kaspersky – l’antivirus russo di grande successo- è diventato una questione di sicurezza nazionale. Nelle scorse ore una comunicazione “classificata” – che Il Riformista ha potuto leggere – è stata inviata a tutti gli uffici dei ministeri dell’Interno e della Difesa con la richiesta di sostituire il software russo da ogni dispositivo. La comunicazione è arrivata dal CSIRT, l’ufficio che monitora i rischi del perimetro cibernetico italiano, una sorta di unità di crisi dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale.

E che si tratti ormai di un’emergenza lo conferma anche un altro dato: è stato avviato il censimento da parte delle aziende, pubbliche e private, parte del perimetro cibernetico italiano: banche, assicurazioni, grandi aziende. La sicurezza nazionale vuole sapere chi usa Kaspersky. Fin qui le notizie. Ora di fronte a questo epic fail che il Riformista ha raccontato dieci giorni fa è tempo di correre ai ripari e avanzare qualche domanda. L’inchiesta aveva provocato una serie di domande che il Copasir ha rivolto al numero uno della sicurezza informatica, Roberto Baldoni. Poche ore dopo è partito il censimento e il reset richiesto agli uffici più sensibili, tra le quali tutte le forze di polizia.

Ma come è stato possibile che un software da tempo escluso da Francia, Olanda, Uk e Stati Uniti e definito “malicious” – pericoloso – dalla Ue possa essere finito nei dispositivi della pubblica amministrazione e di ministeri chiave tra cui la Farnesina?

Dal 2017 alcuni esperti di sicurezza informatica – Umberto Rapetto ex-Gdf, Stefano Quintarelli e Fabio Pietrosanti– avvertivano che Kaspersky è legato a doppio filo con il sistema di difesa e spionaggio russo.

Pietrosanti in una recente intervista al Riformista aveva spiegato come il software per le sue caratteristiche “è un classico cavallo di troia, un mezzo con il quale la Russia potrebbe spiare o addirittura disconnettere i dispositivi che lo utilizzano“.

Tutto noto da anni ma nonostante questo, nonostante il software sia stato tenuto lontano in molti paesi europei dalle amministrazioni pubbliche, l’Italia invece è andata in controtendenza. Comportamento che oggi è stato fatto “pagare” a livello europeo.

In poco più di un mese il Governo ha dovuto fare dietrofront non solo a causa della guerra in Ucraina ma anche di fronte alle segnalazioni dei partner europei. Uno smacco che ha messo l’Italia in una situazione di anomalia, una sorta di pulcino bagnato nell’ambito della cybersicurezza. All’Italia viene infatti contestata la decisione del 31 gennaio scorso giorno quando dal Mise arriva il definitivo via libera del all’utilizzo di Kaspersky anche negli archivi classificati della PA. Una scelta politica di grande rilevanza per la sicurezza, avallata non si da quale branca degli apparati, dalla quale oggi tutti vogliono prendere le distanze.

I costi di questa gigantesca operazione di sostituzione non sono al momento quantificabili, né lo sono tempi e modalità. Il rischio di invasione cibernetica è diventato reale. Nicola Biondo 

Le information operations: uno strumento per influenzare i processi decisionali Marco Stocuto su Difesa.it Marco Stoccuto Strategia 33 Informazioni della Difesa n. 4 - 2009

Il luogo ove i sistemi umani ed automatizzati osservano, orientano e prendono decisioni sulla base di tempestivi flussi informativi rappresenta il sistema informativo. Esso è costituito da tre sfere correlate: fisica, informativa e cognitiva.

Gli attori sono rappresentati da leaders responsabili dei processi decisionali, mentre il sistema informativo si basa su materiali e strutture atti a raccogliere, utilizzare e disseminare tali informazioni. In questo contesto, le Information Operations (Info Ops) rappresentano un concetto dottrinale correlato prettamente ai processi decisionali, integrale all’applicazione di un Approccio alle Operazioni Basate sugli Effetti (EBAO). Esse si interessano in particolare di coloro i quali hanno responsabilità e capacità sui processi decisionali (Decision Makers) e degli strumenti che consentono di acquisire in modo tempestivo ed accurato quelle informazioni necessarie a sviluppare i citati processi.

La funzione operativa Info Ops rappresenta un processo di coordinamento continuo tra tutte le attività militari che possano avere in qualche modo un effetto sull’ambiente informativo. Oggi la ricerca di scenari che evitino o quantomeno limitino i danni collaterali ed il rischio di perdite, obbliga tanto la componente politica che i Comandanti militari a cercare procedimenti che forniscano “metodi di guerra” alternativi a quelli tradizionali. Il fatto che i processi decisionali si fondino sulla disponibilità di informazioni precise e tempestive, ci suggerisce quanto oggi questo sia il “centro di gravità” da colpire; il mezzo alternativo all’attacco letale con cui scardinare la leadership nemica, limitando i danni collaterali. In tale logica, una dottrina (nazionale) in materia, deve definire gli ends (intenti e linee strategiche nazionali), le ways (dottrina e terminologia di base comune, linee-guida, compiti e responsabilità di tutti gli attori) ed i means, che raccordino in un processo unitario le esigenze in materia. Le Info Ops si interessano di coloro i quali hanno responsabilità e capacità sui processi decisionali (decision makers) e degli strumenti che consentono di acquisire in modo tempestivo ed accurato quelle informazioni necessarie a sviluppare i citati processi. Concomitante all’epoca dell’Information Technology (IT), ha avuto luogo una rivoluzione dei flussi informativi che ha contrassegnato l’attuale era come quella dell’informazione, capillare e pervasiva. L’emergere di una rete informativa globale e delle conseguenti modificazioni nell’ambito della società, hanno generato nuove minacce alla sicurezza, sia a livello nazionale che internazionale, ben al di là delle classiche minacce militari ed influito sulle possibili azioni con cui le si è contrastate ad oggi. La comunicazione globale si basa oggi su sistemi estremamente veloci, ma la maggior subordinazione alla tecnologia li rende contemporaneamente vulnerabili. Sono l’utilizzo delle informazioni e dei sistemi tecnologici collegati, che consentono la superiorità informativa, prerequisito indispensabile per mantenere la propria libertà d’azione sia in crisi che in guerra. Lo scopo delle Information Operations è supportare il conseguimento degli obiettivi strategici limitando, idealmente al massimo, l’uso della forza fisica. Nei complessi conflitti moderni si amplificano gli attori e i partiti, spesso in alleanze ampie, e create ad hoc, che operano con connotazioni globali al di fuori dei confini geografici dell’area contesa. Le cause dei conflitti sono parimenti complesse: religiose, etniche, politiche. Povertà ed oppressione percepita sono i fattori innescanti. Le azioni militari da sole non sono in grado di risolvere tali situazioni, per quanto possano porre le condizioni a premessa di una soluzione da parte di altri interpreti. La funzione Info Ops rappresenta un continuum del processo di coordinamento di quelle attività necessarie ad influenzare l’ambiente informativo in supporto agli obbiettivi prefissati, divenuto essenziale per la pianificazione delle operazioni militari: un key enabler. C’è pertanto la necessità di un’attività coerente, di un approccio intergovernativo, dove tutti gli elementi del potere nazionale siano rappresentati, in concerto con le altre Organizzazioni Governative internazionali. Una definizione ad ampio spettro della Information Policy Nazionale può garantire la necessaria unità di sforzi e coerenza politica e militare. Le Info Ops sono una parte fondamentale per un’efficace condotta delle operazioni militari. L’obiettivo fondamentale è di conseguire e mantenere l’information Superiority. In tale quadro forniscono un vantaggio reale se supportano un processo decisionale superiore e più veloce. Esse sono descritte come “l’impiego coordinato ed integrato di Electronic Warfare (EW), Computer Network Operations (CNO), Psychological Operations (PSYOP), Military Deception (MILDEC) ed Operations Security (OPSEC), in armonia e concerto con specifiche capacità di supporto o correlate, al fine di influenzare, disturbare, corrompere od usurpare il processo automatizzato ed umano di Decision Making avversario”. Conseguente alla diffusione dell’accesso ai media ed alla tecnologia, un aspetto critico per un approccio intergovernativo coeso, è rappresentato dalla gestione proattiva da parte dell’attività governativa. Quanto sopra è sintetizzato dall’Information Campaign (Info Campaign), definita come: “Risultato coordinato derivante dalle attività informative intraprese, in supporto agli obiettivi politici, da parte del governo, al fine di influenzare i decision-makers avversi e proteggere nel contempo i propri”. Ai governi spetta detenere l’iniziativa nella gestione dell’informazione, inviando messaggi politici chiari, per garantirsi la fiducia dell’opinione pubblica che li deve percepire come responsabilmente competenti. Ogni attività invia un messaggio dal quale vengono tratte delle deduzioni aggregate che comportano conseguenti azioni da parte di audiences amici, avversari e neutrali e probabilmente condurrà all’adozione del Course(s) of Action (CoA) o all’assenza d’azione da parte dei decision-makers individuati. L’Info Campaign incorpora tanto la gestione delle informazioni in termini di temi e messaggi che le azioni correlate intraprese per promuovere un determinato messaggio. Essa è per la sua stessa natura un’attività integrata ed inter-governativa, che ricorre ai tre strumenti di potere (politico, diplomatico e militare) tratti dai dipartimenti competenti. In tale contesto essa deve altresì coinvolgere organizzazioni quali:

• imprese commerciali, d’affari e private;

• agenzie umanitarie e non governative;

• organizzazioni internazionali come ONU o UE. L’impatto dell’informazione trasmessa da questi tre strumenti, così come l’inarrestabile evoluzione della tecnologia dei mezzi comunicativi implicano che il solo affidarsi alla policy della Pubblica Informazione o dei media non sia più sufficiente a gestire i momenti di crisi. Il “sistema informativo” è dunque il luogo ove i sistemi umani ed automatizzati (IT) osservano, orientano e prendono decisioni sulla base di tempestivi flussi informativi. I sistemi umani sono rappresentati dai leaders, responsabili dei processi decisionali; mentre i sistemi automatizzati sono i materiali e le strutture utilizzati per raccogliere, utilizzare e disseminare le informazioni (reti, il Cyberspazio - spettro magnetico o 4^ Dimensione). Il sistema informativo è pertanto costituito da tre sfere correlate: fisica, informativa e cognitiva. Comprendere ed usare le informazioni in tutti i campi, da quello militare, a quello economico e diplomatico, ha sempre rappresentato un vantaggio imprescindibile. Ecco quindi l’incontestabile beneficio nel conseguire e mantenere il controllo dei sistemi e mezzi che sostengono tale flusso informativo da e verso i decision makers garantendosi così l’information superiority. I sistemi computerizzati costituiscono il nocciolo di tutti i sistemi di Comando e Controllo non solo militari; l’affidabilità degli stessi è fondamentale per quello che viene definito oggi C4ISR: Comando, Controllo, Comunicazione, Computers, Intelligence, Sorveglianza e Ricognizione. Internet infine rappresenta lo strumento più potente mai esistito per la divulgazione e circolazione dati, ad una velocità inconcepibile pochi anni fa. Potente e vulnerabile, le informazioni in esso circolanti includono voci ed opinioni non controllabili, svincolate da ogni forma di esame della fonte. Tale libertà può essere, e spesso è, ampiamente sfruttata per veicolare messaggi ed attaccare i sistemi democratici, oltre che fonte di intelligence da parte di nemici reali o potenziali. Le Information Operations rappresentano in tale quadro la risposta sinergica da parte del livello politico e militare. Emerge qui l’idea di influenzare la volontà, la capacità e la comprensione di una data situazione colpendo sia con mezzi letali che non-letali obiettivi approvati. A tal fine, nel processo di pianificazione di un’operazione/campagna è necessario identificare una strategia dell’informazione - information strategy - coordinando temi, messaggi ed obiettivi informativi da indirizzare a specifici gruppi obiettivo. In tale strategia, sempre essere proposta al massimo livello politico, le Information Operations giocano buona parte del contributo prettamente militare. Inoltre, il moderno Battlespace è oggi collocato all’interno di una gigantesca bolla di cristallo all’interno della quale i media focalizzano, come una lente d’ingrandimento, l’attenzione dell’opinione pubblica. Poiché questa è elemento centrale per il mantenimento del rapporto di responsabilità delegata, e fiducia nei confronti dei governi democratici, da parte della popolazione, è necessario un atteggiamento che presenti la propria leadership attraverso messaggi coerenti, contrastando nel contempo le azioni di propaganda avversarie tese a minare tale supporto. Per acquisire, mantenere e garantire il supporto da parte dell’opinione pubblica i governi devono mostrare il massimo grado di trasparenza e legittimità di azioni, sia sotto il profilo legale che etico. Se valutiamo la sequenza degli eventi dell’11 settembre possiamo comprendere che la dinamica dei due attacchi è stata capillarmente coordinata. La successione degli eventi aveva lo scopo di influenzare la percezione, dell’opinione pubblica mondiale, attraverso uno studio dettagliato di audiences, technology e behaviours.

I DOMINI DELL’AMBIENTE INFORMATIVO Fisico: costituisce anche la dimensione dove risiedono le piattaforme fisiche e le reti di comunicazioni che le connettono, includendo mezzi di trasmissione, infrastrutture, tecnologie, gruppi e popolazioni. Gli elementi di questa dimensione sono i più semplici da misurare e conseguentemente il potenziale militare che ne fa parte, rappresenta quello tradizionalmente prioritario nella disamina. Informativo: è la dimensione dove il C2 delle moderne forze militari opera e dove viene espresso e trasmesso l’intento di un Comandante. È costituita dal contenuto e dal flusso delle informazioni. La dimensione informativa è quindi quella che deve essere protetta. Cognitivo: dimensione altresì condizionata dagli ordini del Comandante, dall’addestramento e dalla motivazione del rimanente personale. Tanto le battaglie che le campagne possono essere perse proprio nella dimensione cognitiva. Fattori come la leadership, il morale, la coesione, le emozioni, gli stati mentali, i livelli d’esperienza e di addestramento, la consapevolezza della situazione corrente, l’opinione pubblica, la percezione, i media e anche le indiscrezioni contribuiscono ad influenzare questo dominio.

Gli attacchi terroristici rappresentano un evidente esempio di guerra asimmetrica tanto nell’impiego dell’Information Technology che nello sfruttamento della capacità e della velocità di connessione, necessarie a diffondere messaggi shockanti, attraverso impatto emozionale e ricadute politiche. Le offensive non sono più confinate in un campo di battaglia popolato da navi, carri armati e velivoli da combattimento. Oggi l’attenzione si focalizza su quelle aree recondite della mente umana nella quale si formano e vengono processate le decisioni. La sola arma efficace è rappresentata dall’informazione con tutte le sue specificità. I militari, così come i civili devono incorporare nella propria attività di pianificazione tutto ciò che l’ampio spettro delle Info Ops sono in grado di offrire. Esse non sono un’arma od uno strumento: le Info Ops sono un processo. Sono un modo di ripensare le relazioni; un elemento facilitatore, “un moltiplicatore di potenza” che rinforza l’abilità di conformare l’ambiente operativo. Esse rappresentano uno sviluppo metodologico che supporta l’uso tradizionale delle forze militari a livello strategico, operativo e tattico, utilizzando strumenti atti a sincronizzare, dare sinergia e deconflittare le attività classiche, integrando orizzontalmente le diverse agenzie coinvolte. L’ambiente informativo è rappresentato da un aggregato di individui, organizzazioni e sistemi che raccolgono, processano, disseminano o agiscono in relazione alle informazioni di cui sono in possesso. È in sostanza il luogo ove i sistemi umani e/o automatizzati sviluppano il proprio OODA loop (Observe, Orient, Decide and Act) in relazione alle informazioni disponibili. Raffigura l’ambiente naturale ove operano i decision makers ed è rappresentabile nelle sue tre diverse dimensioni:

• fisica: l’insieme di sistema di Comando e Controllo (C2) e delle infrastrutture di supporto che consentono ad individui ed organizzazioni di condurre le operazioni attraverso le dimensioni terra, mare, aria e spazio;

• informativa: in cui le informazioni sono raccolte, processate, catalogate, disseminate, mostrate e/o protette;

• cognitiva: che abbraccia la mente dei decision Makers e dei Target Audiences (TA). In questa area le persone pensano, percepiscono, visualizzano e decidono. È la più importante delle tre dimensioni. In queste tre dimensioni l’attenzione non va sul come conseguire gli scopi ma piuttosto sugli effetti specifici da conseguire. Tale approccio viene definito come “basato sugli effetti”. Info OPS parte integrante dell’Ebao Le Effects-Based Operations (EBO) sono operazioni pianificate, eseguite, valutate ed adattate basandosi su un approccio olistico all’ambiente operativo, finalizzato a influenzare o modificare sistema, comportamenti o capacità e facendo ricorso ad un’applicazione integrata di strumenti di potere selezionati e finalizzati a conseguire scopi politici. La valenza di tale determinazione risiede nel fatto che la pianificazione si concentra su tutto ciò che può avere un impatto sulla Joint Operational Area (JOA); sui comportamenti e sulle capacità piuttosto che sull’attrito prodotto sulle forze avversarie, confidando sull’uso di tutti gli strumenti di potere disponibili anziché sulla sole proprie forze militari. È un processo cognitivo ed adattivo di analisi, pianificazione, esecuzione e valutazione di una missione, finalizzato al conseguimento dell’end-state attraverso il raggiungimento di effetti desiderati, riconoscendo l’ambiente operativo come un sistema di sistemi. Esso inoltre riconosce che la componente militare è parte di un sistema e come tale va coordinata ed armonizzata. Sebbene l’approccio effect-based sia oggi condiviso da molti, l’EBAO non è ancora supportato da nessuna dottrina ufficiale.

L’INFORMATION POLICY: comunione di intenti da conseguire tra livello politico-strategico livello operativo Deve in sostanza indicare quali finalità; da chi debbano essere garantite, con quali processi e con che mezzi debba essere condotta la raccolta, analisi, valutazione, trattazione, gestione e disseminazione delle information in un periodo di crisis management, per contribuire a conseguire gli end-state e gli obiettivi dello sforzo della Nazione/Alleanza. Nello specifico in essa dovrà comparire:

• la direttiva e la richiesta di indicazioni specifiche che gli organi governativi/politici preposti delineano;

• aggiornamento costante affinché una efficace Info Ops Policy sia coerentemente riflessa in tutti gli altri documenti politici correlati;

• una direttiva di carattere militare per le Info Ops da sviluppare in operazioni, esercitazioni ed addestramento;

• uno spunto, coordinamento e contributo allo sviluppo della dottrina Info Ops;

• lo sviluppo, l’aggiornamento e la divulgazione di quelle informazioni essenziali per l’identificazione e protezione delle informazioni critiche, dei processi decisionali, dei sistemi C2 e CIS da parte delle organizzazioni specializzate;

• lo sviluppo e l’aggiornamento delle misure Info Ops correlate con gli automatismi di Risposta alle situazioni di Crisi;

• direzione e guida per il livello strategico;

• le considerazioni per l’adeguamento delle direttive Info Ops per il conseguimento degli obiettivi in supporto alle operazioni al di fuori delle specifiche aree d’operazioni.

La definizione di operazioni basate sugli effetti non è ancora univoca e tra le caratterizzazioni maggiormente condivise si riporta la seguente: “Le Effect Based Operations sono operazioni concepite e pianificate in una struttura di sistema che considera l’ampio spettro di effetti diretti, indiretti o a cascata, i quali possono - con differenti gradi di probabilità - essere ottenuti attraverso l’applicazione di strumenti militari, diplomatici, psicologici ed economici”. Per effetto si deve intendere qui il risultato o l’impatto prodotto dall’applicazione della potenza militare, o dell’azione di altro strumento. Gli effetti possono essere fisici o mentali; diretti; primari, di secondo o terzo ordine. È probabile che alcuni di essi siano non intenzionali (forse perché noi non abbiamo compreso appieno il sistema che stavamo tentando di influenzare), così come altri saranno indesiderati (non sussisteva l’intenzione di produrli). Nell’influenzare l’ambiente è importante comprendere anche che potremmo colpire non solo il nostro avversario, ma anche parti amiche e neutrali e che occorre esercitare influenza anche sulle linee di operazione non-militari, per quanto le Military Info Ops abbiano il loro focus nei decision makers e nelle percezioni e comportamenti dei target audiences approvati. I risultati delle Info Ops non sono immediati. Affinché gli effetti possano emergere ed incidere sulla percezione dei gruppi obiettivo è richiesto tempo. Ne consegue la necessità di un coinvolgimento sin dalle fasi iniziali integrandole nell’attività di pianificazione generale della campagna militare. Quale elemento di supporto del piano generale, il piano della campagna Info Ops dovrà risiedere nel piano degli effetti desiderati. Quale elemento di supporto alle Info Ops, la pianificazione della campagna Psy Ops e PI dovrà a sua volta risiedere nel piano della campagna Info Ops. Tale concetto garantisce che ciascun piano supporti gli altri e che tutti siano collegati direttamente all’end-state desiderato. La rilevanza della dottrina Information Operations nel contesto del nuovo approccio Effect Based è innegabile ed imporrà in futuro un aggiustamento di policy e di dottrine nazionali. Il presupposto a tali sviluppi è determinato da uno spiccato coordinamento ed integrazione a tutti i livelli, sia verticale (strategico, operativo e tattico) sia orizzontale (nell’ambito degli staff) tesa ad armonizzare e garantire la sincronizzazione delle attività di tutte le componenti militari, politiche e civili, affinché attività in conflitto non annullino o sminuiscano i rispettivi effetti. Tutto lo sforzo delle Info Ops deve essere valutato nel contesto più ampio dell’Information Strategy dove le operazioni militari rappresentano una parte del contributo generale all’impatto che si vuole avere sugli aspetti diplomatici, informativi, militari ed economici.

Ruoli delle Info OPS ai livelli strategico, operativo e tattico Le operazioni militari sono dirette, pianificate e condotte a tre livelli di comando: la direzione e la guida sono espresse dal Comandante strategico, mentre la pianificazione e l’esecuzione sono gestite dai livelli operativo e tattico. Se la distinzione tra le attività condotte dalle forze ai vari livelli è chiara, gli effetti politici, strategici, operativi e tattici delle operazioni raramente rimangono separati. Questo ragionamento richiede per le Info Ops delle considerazioni speciali poiché, sistemi interconnessi e psicologia umana, fanno sì che azioni tattiche possono raggiungere implicazioni strategiche e viceversa.

L’INFORMATION STRATEGY: È la direttiva generale del Comandante operativo sulle intenzioni, obiettivi, temi ed aree d’attività per lo sviluppo di una strategia comune finalizzata ad influenzare specifici Target Audiences. In essa vengono indicate con quali modalità e con quali means (mezzi) viene dato luogo a quanto indicato nella Information Policy, al fine di consentire nello sviluppo dottrinale le modalità procedurali. Essa deve:

• designare lo staff Info Ops ed i meccanismi di integrazione dei relativi piani e della dottrina al livello strategico definendo i comandi subordinati e le relative responsabilità;

• sviluppare e migliorare le capacità, gli obbiettivi, le tecniche e le procedure di sicurezza all’interno dei comandi strategici, assicurando la necessaria coerenza con la condotta delle attività informative;

• integrare le Information Operations nei documenti di pianificazione coerentemente alle direttive date dal livello politico;

• fornire indicazioni al predetto livello politico sulle necessità delle Information Operations e delle risorse associate per conseguire gli obbiettivi preposti;

• rivedere e laddove necessario richiedere approvazione per lo sviluppo di misure di risposta alle crisi sotto il profilo Info Ops;

• assicurare che gli obiettivi Info Ops siano consistenti e coordinati con la missione approvata e le direttive strategiche diramate; • sviluppare degli standard addestrativi ed integrare le Info Ops nell’addestramento, esercitazioni e test con riferimento agli ambienti informativi prefigurati;

• fornire le direttive per l’addestramento Info Ops nel contesto delle previste organizzazioni scolastiche.

- Livello politico e strategico. Qui le Forze Armate sono usate in modo sincronizzato nel quadro di un disegno politico complessivo, supportate da una info strategy. A livello strategico deve essere considerato il contributo che le Info Ops possono fornire per raggiungere gli obiettivi generali. Il Comandante strategico dovrebbe essere consultato dai vertici politici per:

• identificare e definire i temi complessivi della info strategy;

• individuare le limitazioni politiche e legali circa l’uso delle Info Ops;

• considerare l’impatto delle ROE nell’applicazione delle Info Ops;

• aggiornare ed informare regolarmente il Comando strategico sul focus e sui progressi della info strategy complessiva; • assicurare il coordinamento del targeting a livello strategico, includendo le Info Ops. - Livello operativo delle Info Ops. Le Forze Armate sono impiegate per raggiungere obiettivi strategici. Il Comandante operativo è responsabile di:

• identificare gli obiettivi delle Info Ops al livello operativo necessari per raggiungere un obiettivo strategico;

• stabilire le priorità per raggiungere gli obiettivi operativi delle Info Ops;

• fornire guida per l’allocazione di forze e risorse ai Comandi subordinati per l’esecuzione dei loro compiti Info Ops;

• esprimere valutazioni sulla campagna Info Ops al Comandante strategico, allo scopo di assicurare che gli obiettivi dati nell’OPLAN del suo livello siano perseguiti;

• dare guida ai Comandanti del livello tattico per indirizzarli al conseguimento degli effetti desiderati, così come enunciati nell’OPLAN. - Livello tattico delle Info Ops. Le Forze Militari svolgono compiti per raggiungere obiettivi militari assegnati alle forze tattiche. Le Info Ops si focalizzano sul raggiungimento di un effetto sui decision makers più importanti a livello locale e su taluni gruppi di potere, cercando di colpire le loro volontà, i loro processi decisionali, e le loro capacità. Le attività di coordinamento per raggiungere questi effetti sono vitali per il successo dell’operazione militare. Nel Contempo devono essere condotte a tutti i livelli azioni imprescindibili alla protezione delle proprie informazioni e dei propri sistemi d’informazione. Le info OPS come strategia integrativa I Comandanti rimangono il punto focale di tutto il processo di pianificazione. La loro guida e direzione deve sempre includere una valutazione sulle vulnerabilità amiche ed avversarie che deve tradursi poi in una prioritizzazione degli sforzi in un contesto di risorse limitate. Il Comandante potrà altresì indicare il livello accettabile di rischio. Il suo indirizzo dovrà includere direttive in merito ai soggetti ed agli obiettivi dell’inganno; nonché di quegli elementi d’informazione, che dovranno essere garantiti sotto il profilo della sicurezza. Fondamentale per lo sviluppo delle direttive del Comandante, con riferimento alle Info Ops ed ai processi di targeting, risulta essere il confronto continuo con le implicazioni della Legge sui Conflitti Armati (LOAC); le Regole d’Ingaggio (ROE) ed i principi della guerra. Nel futuro, quando interamente integrate nel processo di pianificazione delle operazioni, i Comandanti avranno nelle Info Ops una vasta gamma di opzioni che include: inganno, degradazione, distruzione, manipolazione o distorsione delle informazioni e del sistema informativo avversario. La guida complessiva delle Info Ops sarà comunque espressa all’interno della info strategy e negli annessi all’OPLAN strategico, quando sviluppato (Direttiva Operativa Nazionale - DON). Nella info strategy deve comparire la direzione politica, gli obiettivi strategici, le direttive e le limitazioni. Il testo dell’OPLAN deve riassumere, poi, l’intento generale del Comandante strategico. Oggi non esiste alcuna operazione che non sia totalmente immersa e strettamente correlata all’ambiente informativo; in particolare è divenuto essenziale, e le esperienze maturate negli ultimi anni ne sono una palese conferma, proporsi quali elementi pro-attivi onde non subire pressioni nel dominio informativo, in grado di influenzare tutte le decisioni e le azioni sia politiche e, di riflesso, militari.

Così i primi 100 giorni di guerra in Ucraina hanno cambiato (per sempre?) il cyber crimine. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 24 Giugno 2022.

I gruppi più pericolosi, le principali minacce e i nuovi bersagli, come istituzioni e ministeri. In un report di Leonardo come gli hacker hanno modificato il tiro dopo l’iniziativa bellica russa. 

A quasi quattro mesi dallo scoppio del conflitto in Ucraina anche la criminalità informatica e la cyberwar tra collettivi di hacker, gruppi criminali e Stati è radicalmente cambiata, con realtà che si sono esposte più di altre, contesti geopolitici che ne sono stati maggiormente coinvolti e nuovi obiettivi, a volte pubblicamente designati, che sono stati colpiti da nuove minacce oppure da strumenti già ampiamente utilizzati in questo ambito, mentre altri sono stati gradualmente dimenticati.

Non si tratta solo dell’interventismo di Anonymous o dei principali gruppi che hanno invece scelto di abbracciare la causa del Cremlino. Anche se la dimensione cyber non è più una novità nell’ambito della guerra tra Mosca e Kiev, con un significativo coinvolgimento dell’Occidente, siamo giunti a un tempo relativamente significativo per permettere a realtà come il Cyber Threat Intelligence Team di Leonardo di delineare l’impatto della guerra in termini di gruppi più attivi negli ultimi mesi, le armi informatiche maggiormente utilizzate e le realtà più a rischio, anche in Italia. Un report specifico sul tema ha fatto maggiore chiarezza sugli attori in gioco e sulle loro mosse per i primi tre mesi di guerra, ma non solo quelli direttamente legati a quanto sta accadendo nella regione interessata dall’invasione delle truppe di Vladimir Putin.

I gruppi più attivi

A livello globale le attività più rilevanti sono quelle finalizzate allo spionaggio e nel corso delle ultime settimane si sono particolarmente messe in mostra realtà come il gruppo russo APT29 (e APT27), il collettivo iraniano MuddyWater e i cybercriminali cinesi APT41o e Deep Panda, abili nello sfruttare le falle nella sicurezza di sistemi come Microsoft Exchange, Zoho SelfService e Log4Shell presente in VMWare Horizon. I gruppi APT sono tra gli emergenti, la maggior parte dei collettivi erano invece già conosciuti, solo che la maggiore complessità degli attacchi ha costretto aziende e istituzioni a innalzare solide difese e sistemi di sicurezza più adeguati.

Molti di questi criminali sono sponsorizzati a livello statale, come nel caso della Russia, ma non mancano quelli che, come MuddyWater, guardano al contesto del Medioriente o la cinese Earth Lusca, realtà che spia principalmente i movimenti politici che vorrebbero promuovere i diritti e la liberà a Hong Kong. Il gruppo cinese Mustang Panda si è invece distinto particolarmente nei tentativi di disturbo ai servizi europei e agli enti che ogni giorno provano ad accogliere il maggior numero possibile di rifugiati ucraini. TA2541 è invece un gruppo che ha rappresentato più volte una minaccia per il settore dell’aviazione, un ambito particolarmente delicato in un periodo storico come quello presente. Già noto in occidente è infine Lapsus$, solo per citare i principali, per via della sottrazione di molti dati riservati di progetti Microsoft come Bing e Cortana.

Le principali minacce

Gli strumenti a disposizione dei cybercriminali sono tanti, ma tra le minacce emergenti più significative spiccano i cosiddetti «backdoor», ovvero metodi per aggirare la normale autenticazione di un prodotto o di un sistema informatico, come sistemi criptati o algoritmi (i più diffusi dallo scoppio del conflitto sono SysJoker, xPack, Marlin, SockDetour, Small Sieve, Starwhale, Gramdoor e Daxin, a seconda dei sistemi operativi presi di mira e dell’area geografica di interesse. 

Di fatto per gli hacker sono un modo per riuscire ad accedere da remoto a computer di istituzioni e aziende, ministeri e realtà governative comprese. In questo modo si può entrare in possesso del computer vittima. Tale strumento si rivela chiaramente l’arma più potente per chi vuole delinquere, dal momento che i tanto diffusi ransomware (che rimangono comunque una costante), utilizzati principalmente per carpire informazioni e dati e restituirle solo mediante il pagamento di un riscatto, hanno forse un impatto minore in un contesto di guerra, mentre in altre circostanze sono stati utilissimi per finanziare l’attività criminale e foraggiare il sistema, proprio come fosse la dinamica di un rapimento.

Attualmente i più diffusi sono AvosLocker, White Rabbit, Chaos, DeadBolt, Sugar, Zeon, Hive e Nokoyawa. Secondo il report pubblicato da Leonardo risultano invece sempre meno utilizzati i Botnet e i Trojan, tipi di virus e malware che, una volta immessi in un computer, procurano danni e malfunzionamento. La risposta chiara sulle tendenze della cybercriminalità sarebbe quindi quella di chiedersi «perché distruggere un obiettivo designato, molte volte ambito, se è oggi possibile prenderne il controllo?». Eccezione per i Remote Access Trojan (Rat), che sono essenzialmente quei malware che permettono di «bucare» un sistema, senza necessariamente distruggerlo (quelli che colpirono recentemente la Regione Lazio).

Gli obiettivi

Mentre prima della guerra le minacce informatiche e il comportamento di tanti collettivi poteva essere letto con un approccio anarchico, oggi gli obiettivi sono sempre più mirati e possono essere iscritti in ben precise categorie, data la frequenza degli attacchi e l’innalzamento della qualità e del grado di pericolosità degli stessi. Vere e proprie campagne di malspam, utilizzo delle email e altre comunicazioni per fini criminali, prendono di mira realtà aziendali e istituzioni, ma anche gli stessi dipendenti, che vi lavorano magari in smart working, collegati a reti Internet non propriamente sicure, ma detengono ugualmente l’accesso a piattaforme sensibili e informazioni riservate. 

Dall’altra parte sono designati bersagli come prodotti utilizzati tanto in ambito IT (Information Technology), quanto in ambito OT (Operational Technology), comprendendo programmi specifici, sistemi cloud e motori di ricerca, anche diffusi, come Google Chrome e Mozilla Firefox. Nelle scorse settimane proprio importanti OT come Siemens e Schneider Electric hanno emesso diversi avvisi di sicurezza relativi a 50 vulnerabilità scoperte nei loro prodotti.

Le realtà esposte alla cybercriminalità sono comunque della più varie, con un significativo aumento dell’importanza e della rilevanza degli obiettivi designati. Per questo sono oggi chiamate a dotarsi di maggiore protezione organizzazioni internazionali, Ong e nel terzo settore (molto esposte agli hacker russi quelle che sostengono apertamente la popolazione ucraina), società informatiche e aziende che occupano settori strategici, anche a livello nazionale e regionale, fondazioni che operano nell’ambito della salute e della ricerca scientifica (particolarmente sensibili anche dopo la pandemia), ospedali, scuole, università (colpire soprattutto per carpire dati e informazioni personali di studenti e docenti), istituzioni in generale. Di particolare importanza il settore governativo e della Difesa, che dallo scoppio della guerra in poi è risultato tra i più colpiti. Le cyberoffensive in questo ambito possono essere rilevanti anche per l’andamento della guerra, sebbene gli arsenali più forti dei singoli Stati siano ancora, per il momento, le armi e le munizioni tradizionali.

Mercenari digitali. Lo storico attacco hacker russo all’Ucraina che ha cambiato il mondo. Nicole Perlroth su L'Inkiesta il 9 aprile 2022.

Nicole Perlroth ha passato sette anni in giro per il mondo a investigare gli abissi del mercato delle armi cibernetiche. In un libro edito dal Saggiatore racconta la sua inchiesta su questi invisibili combattimenti attorno a noi per il controllo della nostra vita online.

Quando il mio aereo atterrò a Kiev – nel cuore dell’inverno del 2019 – nessuno poteva sapere se l’attacco fosse finito o se si trattava soltanto di un assaggio di ciò che sarebbe venuto dopo.

Nel momento in cui eravamo entrati nello spazio aereo ucraino, nell’aereo si era diffuso un certo panico contenuto, una vigile paranoia. Una turbolenza ci aveva spinti verso l’alto in modo così inaspettato da provocare attacchi di nausea a chi si trovava in fondo all’aereo. L’esile modella ucraina che mi stava di fianco mi strinse un braccio, chiuse gli occhi e iniziò a pregare.

Cento metri più giù, l’Ucraina era entrata in allerta arancione. Una tempesta improvvisa stava scoperchiando i tetti dei palazzi spargendone con violenza i frammenti in mezzo al traffico. I villaggi alla periferia della capitale e nell’Ucraina occidentale stavano restando, ancora una volta, senza elettricità. Quando sobbalzammo sulla pista ed entrammo nell’aeroporto internazionale Boryspil’, perfino le giovani e allampanate guardie di frontiera sembravano chiedersi nervosamente a vicenda: Sarà solo una tempesta o un altro attacco informatico russo? Di quei tempi non si poteva essere sicuri di niente.

Il giorno prima avevo salutato mio figlio e mi ero messa in viaggio verso Kiev come se si trattasse di una specie di misterioso pellegrinaggio. Ero venuta per osservare da vicino le macerie in quello che era stato l’epicentro del più devastante attacco informatico che si fosse mai visto. Il mondo intero si stava ancora riprendendo dagli effetti di un attacco russo sull’Ucraina che meno di due anni prima aveva messo fuori uso agenzie governative, ferrovie, bancomat, distributori di benzina, il servizio postale e perfino i rilevatori di radiazioni della vecchia centrale nucleare di Chernobyl, prima che il codice uscisse dall’Ucraina per fare il giro del pianeta senza uno schema ben preciso. A seguito della diffusione aveva paralizzato le fabbriche della lontana Tasmania, distrutto i vaccini di una delle aziende farmaceutiche più grandi al mondo, si era infiltrato nei computer di FedEx costringendo la più grande società di spedizioni internazionale a fermarsi, il tutto in pochi minuti. 

Il Cremlino aveva pianificato con astuzia l’attacco per la Festa della Costituzione ucraina del 2017 – l’equivalente del quattro luglio americano – per inviare un promemoria infausto agli ucraini. Avrebbero potuto festeggiare la loro indipendenza, ma la Madre Russia non li avrebbe mai davvero lasciati liberi.

Quello fu il culmine di una serie di attacchi informatici sempre più intensi e insidiosi da parte della Russia, come vendetta per la rivoluzione ucraina del 2014, quando centinaia di migliaia di ucraini avevano invaso la piazza dell’Indipendenza di Kiev per ribellarsi al governo ombra del Cremlino in Ucraina e deporre finalmente il presidente, nonché burattino di Putin, Viktor Yanukovich.

Dopo qualche giorno dalla caduta di Yanukovich, Putin lo fece rientrare a Mosca e inviò le sue truppe a invadere la penisola della Crimea, che prima del 2014 era un paradiso del Mar Nero, un diamante sospeso sulla costa meridionale dell’Ucraina. Una volta Churchill l’aveva definita «la riviera dell’Ade». Ora apparteneva alla Russia, epicentro infernale dello scontro tra Vladimir Putin e l’Ucraina.

Da allora l’esercito digitale di Putin aveva attaccato l’Ucraina. Gli hacker russi non si sono risparmiati colpi nell’hackerare tutto ciò che in Ucraina generasse un impulso digitale. Per cinque lunghi anni hanno bombardato gli ucraini con migliaia di attacchi informatici al giorno e hanno analizzato incessantemente le reti del paese in cerca di vulnerabilità – una password debole, uno zero al posto sbagliato, software piratati e privi di patch, firewall configurati frettolosamente – qualunque cosa potesse essere sfruttato per generare caos digitale. Qualunque cosa potesse seminare zizzania e danneggiare la leadership filoccidentale dell’Ucraina.

Putin aveva imposto solo due regole agli hacker russi. Primo, nessun attacco in madrepatria. Secondo, quando il Cremlino chiede un favore, si fa tutto ciò che lui vuole. Per il resto gli hacker disponevano di totale autonomia. Putin li venerava.

Gli hacker russi sono «come artisti che si svegliano di buonumore e iniziano a dipingere» disse Putin a un gruppetto di giornalisti nel giugno del 2017, solo tre settimane prima che i suoi hacker devastassero i sistemi ucraini. «Se sono patriottici, possono provare a fare la loro parte per combattere contro chi dice cose brutte sulla Russia».

L’Ucraina era diventata il loro banco di prova digitale, un inferno a combustione lenta dove potevano testare ogni trucchetto e strumento di hacking dell’arsenale digitale russo senza temere ritorsioni. Solo nel primo anno, il 2014, i media di Stato e i troll russi hanno bersagliato le elezioni presidenziali ucraine con una campagna di disinformazione che definiva le insurrezioni di massa a favore dell’Occidente come un colpo di Stato illegale, una «junta» militare o come «stati profondi» in America ed Europa. Gli hacker hanno sottratto e-mail elettorali, spiato i dati degli elettori, si sono infiltrati nelle autorità elettorali ucraine, hanno eliminato file e installato nel sistema di raccolta dei dati elettorali ucraino un malware che avrebbe dichiarato la vittoria del candidato di una frangia di estrema destra. Gli ucraini hanno scoperto il complotto poco prima che i risultati fossero comunicati ai media. Gli esperti di sicurezza elettorale lo hanno definito come il tentativo di manipolazione di un’elezione nazionale più sfrontato della storia.

A posteriori, tutto ciò avrebbe dovuto far scattare campanelli di allarme ben più forti negli Stati Uniti. Ma nel 2014 lo sguardo americano era puntato altrove: le violenze a Ferguson, Missouri, gli orrori dell’isis, apparentemente sbucato dal nulla e, nel mio settore, l’attacco informatico alla Sony Pictures da parte della Corea del Nord a dicembre, quando gli hacker di Kim Jong-un hanno ottenuto la propria vendetta sullo studio cinematografico per una commedia di Seth Rogen e James Franco che aveva inscenato l’assassinio del loro «caro leader». Gli hacker nordcoreani hanno messo fuori uso i server della Sony per poi pubblicare specifiche e-mail per umiliare i dirigenti Sony nell’ambito di un attacco che per Putin ha rappresentato la strategia perfetta da applicare nel 2016.

Per la maggior parte degli americani l’Ucraina sembrava ancora lontanissima. Avevamo intravisto immagini degli ucraini che protestavano in piazza dell’Indipendenza e che poco dopo festeggiavano il governo filoccidentale che aveva rimpiazzato il burattino di Putin. Alcuni hanno continuato a tenere d’occhio le battaglie nell’Ucraina orientale. La maggior parte ricorda ancora l’aereo malese carico di passeggeri olandesi abbattuto dai separatisti russi.

Ma se avessimo prestato maggiore attenzione, avremmo potuto notare i segnali di allarme, i server compromessi a Singapore e in Olanda, i blackout, il codice che puntava in ogni direzione.

Ci saremmo resi conto del fatto che l’obiettivo ultimo non era l’Ucraina: eravamo noi.

L’interferenza russa nelle elezioni ucraine del 2014 non è stata altro che un’anticipazione di ciò che sarebbe venuto dopo: una campagna di attacchi informatici e distruzione come non se n’erano mai viste prima.

Stavano riproponendo le vecchie strategie della guerra fredda, e mentre il mio taxi si dirigeva da Boryspil’ al centro di Kiev, in piazza dell’Indipendenza, cuore sanguinante della rivoluzione ucraina, mi chiesi da cosa avrebbero potuto attingere poi e se saremmo mai riusciti ad anticiparli.

Il nocciolo della politica estera di Putin consisteva nel limitare il controllo occidentale sugli affari globali. Attraverso ogni attacco e campagna di disinformazione, l’esercito digitale di Putin cercava di tenere gli oppositori della Russia impegnati con la propria politica distraendoli dal vero piano di Putin: far venire meno il sostegno alla democrazia occidentale e, sostanzialmente, alla Nato, l’unica che tenesse Putin sotto controllo.

Tanto più disillusi fossero diventati gli ucraini (dopotutto dov’erano i loro difensori occidentali?), quanto più facilmente si sarebbero allontanati dall’Occidente rifugiandosi nuovamente nel gelido abbraccio di Madre Russia.

E quale modo migliore per indispettire gli ucraini, seminando dubbi sul nuovo governo se non facendoli restare senza riscaldamento ed elettricità nel bel mezzo dell’inverno? Il 23 dicembre 2015, poco prima della vigilia di Natale, la Russia passò un Rubicone digitale. Gli stessi hacker russi che per mesi avevano disseminato di trapdoor ed esplosivi virtuali i sistemi dei media e delle agenzie governative ucraini, si erano furtivamente infiltrati anche nelle centrali elettriche nazionali. Quel dicembre erano entrati nei computer che controllavano la rete elettrica ucraina, spegnendo meticolosamente un interruttore dopo l’altro fino a che centinaia di migliaia di ucraini non erano rimasti senza elettricità. Per sicurezza avevano bloccato anche le linee telefoniche per le emergenze. Per arrecare ulteriori danni avevano interrotto l’alimentazione di emergenza dei centri di distribuzione ucraini, lasciando che gli operatori brancolassero nel buio.

L’elettricità non mancò a lungo in Ucraina (meno di sei ore), ma ciò che accadde nella parte occidentale del paese quel giorno non aveva precedenti. Le Cassandra digitali e i tanti complottisti avevano avvertito da tempo che un attacco informatico avrebbe colpito la rete elettrica, ma fino al 23 dicembre 2015 nessuno Stato-nazione dotato degli strumenti adatti aveva avuto il coraggio di farlo davvero.

Gli hacker che avevano attaccato l’Ucraina avevano fatto di tutto per celare la loro reale provenienza, instradando l’attacco attraverso server compromessi a Singapore, nei Paesi Bassi e in Romania, applicando livelli di offuscamento che gli investigatori forensi non avevano mai visto prima. Avevano schierato la loro arma in frammenti apparentemente benigni nelle reti ucraine per depistare i rilevatori antintrusione, randomizzando con attenzione il codice per raggirare i software antivirus. Eppure gli agenti ucraini avevano subito capito chi si celava dietro l’attacco. Il tempo e le risorse necessari per lanciare un attacco alla rete elettrica con quel livello di sofisticazione andavano ben oltre quelli di qualunque hacker sovrappeso che lavorasse dal suo letto.

Non si ottenevano vantaggi economici interrompendo la fornitura di elettricità. Si trattava di un’azione a sfondo politico, come confermato nei mesi successivi dai ricercatori di sicurezza. Questi ricondussero l’attacco a una nota unità d’intelligence russa e ne svelarono le motivazioni. L’attacco intendeva ricordare agli ucraini che il loro governo era debole, che la Russia era forte, che le forze digitali di Putin erano penetrate così in profondità in ogni anfratto digitale dell’Ucraina che la Russia avrebbe potuto spegnere le luci a suo piacimento.

E nel caso in cui il messaggio non fosse stato chiaro, gli stessi hacker russi si rifecero vivi un anno dopo, facendo nuovamente rimanere l’Ucraina senza elettricità nel dicembre 2016. In quell’occasione però privarono dei riscaldamenti e dell’energia il cuore della nazione, Kiev, mettendo in atto una dimostrazione di spudoratezza e abilità che fece trasalire perfino le controparti della Russia nel quartier generale della National Security Agency di Fort Meade, Maryland.

da “Così mi hanno detto che finirà il mondo. La corsa agli armamenti cibernetici e il futuro dell’umanità”, di Nicole Perlroth, Il Saggiatore, 2022, pagine 640, euro 27

Umberto Rapetto per infosec.news il 13 marzo 2022.  

Come la mafia uccide solo d’estate, gli hacker russi sono pericolosi solo la domenica. 

Dopo il terrificante ma provvidenziale annuncio dello scorso weekend che ha scongiurato ripercussioni catastrofiche sui sistemi informatici nazionali, anche questa settimana le nostre autorità – sempre vigili e tempestive – hanno saputo dar prova di insperata operatività. 

A quasi un mese dall’editoriale di Infosec News che domandava “In tempi di guerra, la nostra Difesa ha ancora un antivirus russo?” e dieci giorni dopo l’altro mio “calamaio alla griglia” che abbinava guerra cyber e rischio russo, arriva il sensazionale ed inaspettato colpo di scena della decisione del Sottosegretario Gabrielli (che sicuramente ha agito d’intuito e d’impeto per non perdere un minuto di più) di rimuovere l’antivirus Kaspersky dai server della Pubblica Amministrazione. 

Il sesto senso della nostra politica merita il plauso più indiscriminato. Già, la percezione del pericolo quando nessuno ci avrebbe mai pensato, quella che fa giustamente meritare stipendi da favola a chi con un guizzo evita problemi alla collettività…

Inebriati dalla contentezza di sentirsi tutelati, viene da domandarsi se la risoluzione guardi solo al futuro oppure porti ad un severo esame di coscienza su quel che nel “perimetro cibernetico” (mannaggia quanto ci piacciono queste espressioni che fanno tanto figo…) è stato fatto (al momento poco e male) e verrà realizzato in futuro. 

I più acidi cultori della materia si chiedono, ad esempio, come si sia potuto “certificare” un prodotto come quello che adesso ci si affretta a rimuovere? Dovendo procedere a “rimozioni” forse si dovrebbe cominciare con i grand commis che hanno svolto, approvato e supervisionato le attività di verifica di idoneità di un software che per sua natura incide profondamente nel ciclo biologico di qualunque sistema informatico. 

Poi viene voglia di conoscere chi (anche nomi e cognomi, preferendo alla privacy il rispetto della trasparenza amministrativa) abbia comprato quegli antivirus che adesso bisogna buttare via e sostituire (non senza oneri, né di soldi né di tempo).

Per quanto mi riguarda qualche legittimo dubbio sul fornitore lo avevo cominciato a manifestare il 6 ottobre 2017 nel mio blog su Il Fatto Quotidiano, ma credo che ora si debbano lasciar perdere le inutili considerazioni in proposito e ci si concentri prendendo solo atto che la guerra in Ucraina comincia ufficialmente il 22 febbraio 2022. Occhio alle date… 

I più impiccioni vorrebbero conoscere l’opinione di chi il successivo 3 marzo (quando era difficile non avere idea di cosa stava succedendo) è stato fianco a fianco del management di Kaspersky nel corso degli “Stati Generali dell’Ingegneria dell’Informazione”. A leggere le recensioni – tutte identiche, tutte scritte ricopiando un presumibile comunicato stampa – si è trattato di “un evento al quale hanno partecipato parlamentari, analisti e i massimi esperti di transizione digitale”. 

A parafrasare gli articoli online, al summit tenutosi presso la Sala Capitolare del Senato della Repubblica a tenere compagnia a Cesare D’Angelo, General Manager Italy di Kaspersky, c’erano tra gli altri la senatrice Urania Papatheu (Forza Italia, Presidente Intergruppo Parlamentare Inclusione Digitale), Mauro Minenna (Capo Dipartimento per la Trasformazione Digitale del MITD), Armando Zambiano (Presidente Consiglio Nazionale Ingegneri – CNI), Alessandro Astorino (Coordinatore Consiglio Operativo Comitato Italiano Ingegneria dell’Informazione – C3I), Luisa Franchina (Vice Presidente Centro Studi Difesa e Sicurezza – CESTUDIS). 

Fermiamoci qui. E’ domenica per tutti.

Laura Della Pasqua per “La Verità” il 28 marzo 2022.

«Chi diventerà leader nell'intelligenza artificiale dominerà il mondo». Era il 2017 e Vladimir Putin parlando agli studenti all'apertura dell'anno scolastico sottolineò l'importanza strategica delle nuove tecnologie. 

Nel 2013 esplose lo scandalo Datagate e Edward Snowden, informatico ex tecnico della Cia, rivelò al mondo che era in atto una guerra di spionaggio dove i protagonisti non erano gli 007 ma «cimici» calate negli abissi marini. 

Il grande pubblico venne a sapere che le profondità degli oceani sono percorse da un reticolo di cavi a fibre ottiche dove viaggiano miliardi di dati, di privati cittadini ma anche di aziende, governi, pubbliche amministrazioni, dati sensibili e quindi anche segreti di Stato. Snowden disse che l'intelligence inglese era riuscita a penetrare nei cavi, intercettando 600 milioni di telefonate al giorno.

Internet viaggia attraverso queste dorsali in fibra ottica subacquee. La loro importanza è sempre più strategica per la vita quotidiana, le attività economiche, ma anche per la sicurezza dei vari Stati, le decisioni strategiche e il controllo delle informazioni. Il 7 gennaio scorso, il capo della Difesa britannica, l'ammiraglio Sir Tony Radakin dichiarò al Times che «la Russia ha sviluppato la capacità di mettere in pericolo i cavi sottomarini e di sfruttarli». 

Secondo il capo delle forze armate, negli ultimi 20 anni c'è stato «un aumento fenomenale dell'attività sottomarina e subacquea russa». 

A dicembre 2020 la collisione tra una fregata britannica e un sottomarino russo avevano innescato una serie di speculazioni sull'entità dell'attività russa di mappatura dei cavi.

Un altro passaggio è utile a capire il carattere strategico di questa rete di cablaggio sottomarino. 

A novembre 2021 comparve sul sito Formiche.net un intervento dell'europarlamentare olandese Bart Groothuis, relatore della proposta di revisione della direttiva europea Nis sulla sicurezza delle reti e dei sistemi informativi nonché ex capo del bureau per la sicurezza cibernetica del ministero della Difesa dei Paesi Bassi, che dice: «Molti ministri della Difesa nella Nato e nell'Unione europea ed esperti hanno messo in guardia su sospette operazioni russe contro i cavi sottomarini in fibra ottica. Il timore è che qualcuno possa sabotarli.

E proprio la Russia ha fatto due test per disconnettersi da Internet». È questo un riferimento ai tentativi di Mosca di sperimentare una sorta di «Internet sovrano». 

Un'analisi del think tank statunitense Center for strategic and international studies ha rivelato che a ottobre 2020 i ministri della Difesa alleati hanno ricevuto un rapporto confidenziale sulla «vulnerabilità dei cavi sottomarini transatlantici». 

L'istituto sottolinea che «nonostante la proliferazione di dichiarazioni pubbliche, che affermano l'importanza di proteggerli, finora è mancata un'azione collettiva per rafforzare la loro sicurezza».

Ma di cosa stiamo parlando? I cavi sottomarini sono un'infrastruttura cruciale nel mondo contemporaneo, un asset strategico della geoeconomia e della geopolitica internazionali.

Il 97% del traffico Internet globale passa attraverso queste dorsali subacquee a fibra ottica (il restante sui satelliti) e grazie a esse si realizzano transazioni finanziarie pari a circa 10 trilioni di dollari al giorno. 

A oggi il fondo degli oceani è percorso da una rete di 426 cavi pari a 1,2 milioni di chilometri, cioè tre volte la distanza tra la Terra e la Luna. Lo sviluppo della telefonia cellulare, la possibilità di inviare file di ogni grandezza da un capo all'altro del mondo, ci ha portato a pensare che le informazioni viaggino preferibilmente via etere, tramite i satelliti. Niente di più sbagliato. Il veicolo più economico e performante per le connessioni a lunga distanza è rappresentato dai cavi sottomarini a fibra ottica.

L'area euro-atlantica è la strada di cablaggio più antica e trasporta il traffico di dati con dozzine di cavi, la maggior parte dei quali tra Stati Uniti, Regno Unito e Francia. L'Europa fa molto affidamento su questi cavi poiché la maggior parte dei suoi dati è archiviata in data center situati negli Stati Uniti. Altre rotte importanti sono quelle che collegano l'Europa all'Asia (attraverso il Mediterraneo e il Canale di Suez) e l'Asia con gli Stati Uniti (attraverso l'oceano Pacifico).

La pianificazione, la produzione, la distribuzione e la manutenzione dei cavi sottomarini sono quasi interamente nelle mani del settore privato. 

Attualmente, i quattro maggiori fornitori sono Alcatel submarine networks (Francia), Subcom (Stati Uniti), Nec (Giappone) e Huawei marine networks (Cina), la cui quota di mercato è progressivamente salita al 10%.

Pechino sta attuando una politica sempre più aggressiva. La sfida tra potenze si gioca anche negli abissi e i cavi, oltre a essere oggetto di spionaggio, possono diventare strumento di sabotaggio. Manomettere uno degli snodi del cablaggio sottomarino significa impossessarsi di dati sensibili, finanziari, militari ma anche potere determinare il blackout informativo di un intero Paese.

Nel dicembre 2019 Taiwan ha affermato che Pechino stava sostenendo investimenti privati nei cavi sottomarini del Pacifico come meccanismo per spiare e rubare dati. Quando la Russia nel 2014 annetté la Crimea, l'esercito russo prese di mira i cavi sottomarini che collegano la penisola alla terraferma per ottenere il controllo dell'ambiente informativo.

Controllare più porzioni della rete dei mari significa aumentare il proprio potere. Se ne sono accorti anche i fornitori di contenuti (Google, Amazon, Microsoft, Facebook) che stanno investendo in questo settore per garantire l'interconnessione dei loro data center. Google ha più di 100.000 chilometri di cavi posati, Facebook 91.000, Amazon 30.000 e Microsoft 6.000.

la dipendenza mondiale La dipendenza dai cavi sottomarini continuerà ad aumentare con la crescita della domanda di dati, spinta dal passaggio ai servizi cloud e dalla diffusione delle reti 5G. Un mondo iperconnesso e un'economia super digitalizzata dipenderanno sempre più dai cavi. Il mercato dei cablaggi sottomarini dovrebbe raggiungere nel 2026 il valore di 30,8 miliardi di dollari da 10,3 miliardi del 2017.

L'Italia ha un ruolo centrale perché nel Sud passano i cavi che collegano Africa, Medio Oriente, Asia ed Europa. A rivelarlo fu Snowden che nel 2013 descrisse come a Mazara del Vallo, in Sicilia, afferiscono 9 tra i più importanti cavi sottomarini internazionali, tra cui quello che rappresenta il più alto grado di criticità: il Sea-Me-We3 (South East Asia-Middle East-Western Europe 3).

Completato nel 2000, oltre a essere il cavo più lungo al mondo con i suoi 39.000 chilometri è capace di trasportare 960 gigabite al secondo. Lo snodo di Mazara del Vallo è un punto nevralgico per l'accesso ai cavi sottomarini più importanti del Mediterraneo. Ugualmente strategica è la base di Agios Nikolaos a Cipro, hub dei cavi in fibra ottica che collegano Israele, Siria, Libano, Egitto, Turchia, Grecia con l'Europa continentale.

I cyber legionari. Report Rai PUNTATA DEL 18/04/2022 Giuliano Marrucci

Collaborazione di Eleonora Zocca 

Il giovane Ministro della trasformazione digitale ucraino e l'appello a tutti i talenti digitali del mondo. ​​​​​​

26 febbraio. Sono passati due giorni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina quando Mykhailo Fedorov, il giovane ministro della trasformazione digitale nonché vice primo ministro del paese aggredito, dal suo account twitter lancia un appello a tutti i talenti digitali del mondo a unirsi alla resistenza cibernetica ucraina. Nel giro di pochi giorni il canale telegram supera i 300 mila iscritti: sono i legionari della prima vera e propria guerra mondiale cibernetica della storia. E sono destinati a cambiare per sempre l'idea che abbiamo di Internet.

I CYBER LEGIONARI Di Giuliano Marrucci Collaborazione Eleonora Zocca Immagini Giovanni De Faveri Montaggio e grafica Gabriele Di Giulio

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO 26 febbraio. Sono passati due giorni dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, quando Mikhail Fedorov, il giovane ministro della Trasformazione Digitale nonché vice primo ministro dell’Ucraina, lancia questo appello ai circa 280 mila follower del suo profilo Twitter: “Stiamo creando un’armata informatica. Abbiamo bisogno di talenti digitali. Tutti i compiti operativi saranno impartiti dal canale Telegram “itarmyofukraine”. Nel giro di pochi giorni, il canale Telegram supera i 300 mila iscritti. È la più grande armata cibernetica della storia, uno stormo di legionari provenienti da ogni angolo del pianeta che ha dato vita alla prima vera e propria guerra mondiale cibernetica, ed ha già cambiato per sempre il modo in cui pensiamo e ci comportiamo nella dimensione digitale.

FRÉDÉRICK DOUZET – DIRETTRICE GEODE Chiedere esplicitamente a volontari civili di tutto il mondo di intervenire nelle operazioni di attacco online è sicuramente una novità, e credo sia un’anomalia perché questa richiesta dovrebbe essere una prerogativa degli stati.

CYBER VOLONTARIO – FEARLESS SECURITY Quando abbiamo visto la propaganda di IT-Army Ukraine su Telegram ci siamo subito adoperati per creare un piccolo team italiano chiamato Fearless Security. Siamo tutti hacker etici, tutti con una laurea o un diploma in informatica ed alcuni di noi hanno già partecipato ad operazioni simili in passato.

GIULIANO MARRUCCI Vi sentite a tutti gli effetti dei combattenti in una guerra?

CYBER VOLONTARIO – FEARLESS SECURITY Noi siamo quelli della porta accanto, ma sì, in termini di cyber army ci sentiamo parte di questa guerra e in questo momento il nostro obiettivo è il governante russo.

STÉPHANE DUGUIN – AMMINISTRATORE DELEGATO CYBERPEACE INSTITUTE Civili che scelgono a livello individuale di prendere parte a un conflitto mettendo a disposizione le loro competenze ci sono sempre stati, ma mai niente di comparabile a quello a cui stiamo assistendo. Questo appello ha scatenato una quantità enorme di attività nella sfera digitale che potrebbero avere conseguenze gigantesche.

STUDIO SIGFRIDO RANUCCI Cyberspazio è il quarto dominio in una guerra dopo terra, mare e aria, lo ha decretato ufficialmente la NATO. Ora, dall’Iraq in poi diciamo che hanno combattuto delle guerre hacker i reparti specializzati degli eserciti. È successo in Iraq, è successo anche in Estonia, dove sono stati attaccati dei siti istituzionali, è successo anche in Georgia, dove sono stati procurati dei danni alla pipeline che corre tra Baku e Tbilisi. Ora sono stati questi attacchi però sempre svolti da reparti ufficiali cyber dei rispettivi eserciti. Quello che ha di nuovo questa guerra è che invece il governo ucraino, oltre a gestire il proprio di esercito, ha chiesto un aiuto anche a dei volontari civili, a dei legionari virtuali, presenti in tutte le aree del mondo. Siccome hanno risposto in tanti, per gestirli ha utilizzato due start up ucraine che hanno messo a disposizione un loro software per poter sferrare questi attacchi. Solo che la ricaduta potrebbe essere che potremmo cambiare per sempre la nostra idea di internet, del web e si potrebbero verificare delle ricadute inimmaginabili. Il nostro Giuliano Marrucci.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Ogni mattina, circa 300 mila persone sparse in tutto il pianeta si collegano a questo canale Telegram in attesa di istruzioni per il prossimo attacco cyber da lanciare contro obiettivi russi di ogni genere. Tra i cyber volontari ci sono anche diversi italiani, che però vogliono rimanere anonimi.

GIULIANO MARRUCCI In cosa consiste esattamente la vostra attività?

CYBER VOLONTARIO – FEARLESS SECURITY Ci sono reparti di noi che si dedicano all’editing video, altri che invece si occupano di veicolare messaggi alla popolazione russa, ad esempio facendo apparire su un sito qualsiasi un messaggio come “fermiamo il massacro in Ucraina” o cose del genere. Poi ci sono quelli che in particolare si dedicano agli attacchi DdoS

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Che sta per Distributed Denial of Service. In sostanza, si tratta di indirizzare quanto più traffico possibile verso uno specifico server in modo da intasarlo fino a renderlo irraggiungibile. Ogni giorno, il team dell’IT Army posta un elenco di siti web da rendere inaccessibili, e i legionari partono all’attacco. Questo è il sito della famigerata Gazprom. Questo quello di una nota banca russa, e questo il sito dell’amministrazione dell’Oblast di Orel, a 150 km dal confine ucraino.

GIULIANO MARRUCCI E che idea vi siete fatti delle potenziali conseguenze, anche in termini legali, di queste attività?

CYBER VOLONTARIO – FEARLESS SECURITY Non ci siamo posti questa domanda, non saprei risponderti. Vogliamo semplicemente la pace e non carnefici dittature.

GIULIANO MARRUCCI Ginevra, la città che ha dato il suo nome al complesso corpus di convenzioni che dicono cosa è ammesso e cosa no durante una guerra, e che sono probabilmente le leggi più frequentemente disattese dell’intero pianeta. In questo campus futuristico che ospita decine di istituti di ricerca e compagnie attive nel settore biomedicale, c’è la sede del Cyber Peace Institute, una Ong che si occupa di promuovere la pace e la giustizia nella cybersfera, e che conta nel suo consiglio di amministrazione pesi massimi di giganti globali come Microsoft, Mastercard e Telefonica.

STÉPHANE DUGUIN – AMMINISTRATORE DELEGATO CYBERPEACE INSTITUTE Quando uno decide di essere parte di un conflitto, automaticamente sta rinunciando volontariamente al suo status di civile. E sinceramente dubito che chi oggi sta usando il suo computer per partecipare, ad esempio, a un attacco DDOS contro bersagli russi sia consapevole delle conseguenze.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Le conseguenze potrebbero coinvolgere le responsabilità degli Stati. Aubervilliers, area metropolitana di Parigi. Nel più grande campus d’Europa dedicato alle scienze umane e sociali incontriamo Bill Woodcock, autorità indiscussa che ha contribuito concretamente a costruire Internet sin dagli inizi. Woodcock, oggi, è il direttore dell’organizzazione internazionale che offre supporto operativo alle principali infrastrutture di Internet e attualmente è in prima linea nella difesa di quelle ucraine.

BILL WOODCOCK – DIRETTORE ESECUTIVO PACKET CLEARING HOUSE Entro i confini territoriali ucraini, il governo ovviamente ha piena sovranità: può autorizzare attacchi informatici, non può invece autorizzare chi si trova in altri paesi. E un cittadino straniero che partecipa a un attacco potrebbe coinvolgere nel conflitto il suo paese.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO A complicare le cose c’è anche il fatto che per gestire le attività dell’IT Army, il governo ucraino ha coinvolto anche due aziende private: la Cyber Unit Tech di Yegor Aushev e, soprattutto, la Hacken di Dyma Budorin, una startup che opera nell’ambito del web3, la terza generazione del web, che grazie all’utilizzo delle blockchain dovrebbe permettere di effettuare transazioni finanziarie senza intermediari. Quindici giorni prima dello scoppio della guerra, il grosso del suo team si è trasferito in Europa. Noi lo abbiamo incontrato a Vienna, dove era venuto per visitare l’ambasciata USA nella speranza di ottenere un visto, senza successo. Il principale contributo di Budorin alla guerra cibernetica ucraina è stato mettere a disposizione il loro software per gli attacchi DDoS, che si chiama disbalancer. Scaricando disbalancer sostanzialmente rendi il tuo computer quello che in gergo si chiama una macchina “zombie”, e il team di Hacken la può usare a suo piacimento per lanciare attacchi DDOS ai server che decide lui. Inoltre, non puoi neanche capire esattamente come funziona, perché il codice non è aperto ma proprietario, quindi segreto.

DYMA BUDORIN – COFONDATORE E CEO HACKEN La responsabilità è tutta a carico nostro, ma non siamo politici, siamo imprenditori. Ed è nostro interesse farci una reputazione lavorando sodo e bene.

GIULIANO MARRUCCI Cosa ne pensi di questo progetto?

BILL WOODCOCK – PACKET CLEARING HOUSE Intanto chiariamo che questo è per definizione illegale. Scaricare codice da dei criminali che non sai esattamente cosa fa e permettergli di usare la tua macchina per portare a termine altre attività illegali, a me pare una pessima idea.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Ciononostante, a fidarsi sembra siano in parecchi. Disbalancer è stato già scaricato 80 mila volte, e per Hacken è anche una grande opportunità di farsi pubblicità e incassare soldi. Il software, infatti, è collegato a una criptovaluta che si chiama appunto DDOS, e che prima della guerra conoscevano in pochi.

DYMA BUDORIN – COFONDATORE E CEO HACKEN Il giorno che abbiamo annunciato che Hacken avrebbe partecipato alla guerra cibernetica, molti russi e altre persone non hanno voluto mischiare affari con politica, e hanno venduto. E il valore della valuta è crollato. Ma poi abbiamo ricominciato a crescere, e ora siamo a circa il doppio del prezzo iniziale.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Ed è solo l’inizio. Da qualche giorno Hacken ha annunciato il suo prossimo obiettivo: 100 mila utenti attivi che usano contemporaneamente disbalancer h24 sulle loro macchine. E nelle chat s’è scatenato l’entusiasmo. Secondo questo utente, una volta finita la guerra tutti conosceranno disbalancer, e DDOS diventerà un asset di grande valore. Secondo quest’altro invece investire in disbalancer oggi significa garantirsi ricchezza e una bella pensione anticipata.

DYMA BUDORIN – COFONDATORE E CEO HACKEN Questo obiettivo di centomila utenti deriva da un calcolo che abbiamo fatto: il nostro obiettivo è lanciare un attacco DDoS così grande da mandare in tilt tutte le porte di accesso all’internet russo contemporaneamente. A quel punto la Russia non avrà altra opzione che isolare il suo internet dal resto del mondo. Una volta che hai dimostrato che con dei software è possibile isolare completamente un paese, i paesi si organizzeranno a blocchi, e limiteranno il loro internet solo all’interno.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Sempre negli edifici del campus Condorcet di Parigi abbiamo incontrato anche Frédérick Douzet, la direttrice del gruppo di ricerca GEODE, che sta per Geopolitica della Datasfera.

GIULIANO MARRUCCI Siamo alla fine dell’internet come piattaforma globale senza frontiere?

FRÉDÉRICK DOUZET – DIRETTRICE GEODE In realtà, a causa di tutte le tensioni geopolitiche che stiamo vivendo, il processo di balcanizzazione del cyberspazio è già in corso. La domanda allora è se noi vogliamo incoraggiare ulteriormente questo processo. Io credo che avrebbe un effetto molto negativo sulla popolazione civile russa, li renderebbe ancora più impermeabili a qualsiasi informazione diversa dalla propaganda di stato.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Dyma Budorin ha lavorato per tre anni nelle forze armate ucraine alla costruzione di un sistema di difesa cibernetica adeguato con il presunto sostegno anche delle forze Cyber della NATO.

GIULIANO MARRUCCI Questo sostegno da parte delle forze Cyber della NATO è stato davvero di aiuto?

DYMA BUDORIN – COFONDATORE E CEO HACKEN Onestamente direi decisamente di no. Hanno mandato alcuni esperti, ma il loro interesse più che a creare un sistema di difesa sembrava finalizzato a venderci alcune vecchie tecnologie e anche a spiare. Ma anche il governo ucraino non ha mostrato volontà e competenze per costruire qualcosa di significativo per difenderci.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO E così quando alla fine è scoppiato il conflitto, il popolo ucraino si è ritrovato in balia degli attacchi russi. In Russia sarebbe in vigore, secondo gli analisti, un patto occulto di non belligeranza tra agenzie governative e gruppi criminali, che non vengono perseguiti ma quando serve devono essere pronti a prestare una mano per realizzare gli obiettivi strategici del governo. Ce lo aveva confidato nei minimi dettagli, cinque anni fa, Anton Nossik, considerato dai dissidenti il padre dell’Internet Russo. Report è stata l’ultima testata straniera a intervistarlo prima che nel 2017 scomparisse a causa di un infarto.

ANTON NOSSIK – GIORNALISTA E ATTIVISTA Se c’è un nemico della Russia, ad esempio quando è scoppiato il caos in Estonia, gli hacker russi hanno lanciato i loro attacchi contro i siti governativi. L’anno dopo è scoppiata la guerra in Georgia e gli hacker russi hanno attaccato il governo georgiano. Quando l’agenzia mondiale antidoping propone al CIO di escludere gli atleti russi dalle olimpiadi di Rio nel 2016, il giorno dopo i suoi server vengono hackerati. Si tratta in realtà sempre di singoli hacker che vengono assoldati da qualche colonnello o generale delle forze di sicurezza. Rubano informazioni commerciali sensibili, intercettano comunicazioni tra privati, vengono utilizzati per regolare i conti con i nemici di Putin. Come è successo quando sono state pubblicate comunicazioni riservate tra membri del governo, compreso il primo ministro, è emerso poi che figure apicali del dipartimento cyber security avevano pilotato gli hacker da quattro anni.

GIULIANO MARRUCCI E anche dopo l’invasione dell’Ucraina è andato in scena lo stesso identico copione.

BILL WOODCOCK – DIRETTORE ESECUTIVO PACKET CLEARING HOUSE Il giorno stesso dell’invasione russa c’è stato un attacco molto significativo contro un satellite di Viasat, che ha comportato problemi enormi in mezza Europa, compresi alcuni parchi eolici in Germania. Questo tipo di attacchi però richiedono che al momento dell’attacco le condizioni siano identiche a quando è stato preparato. Ma quando c’è una guerra tutto cambia velocemente, e quindi i russi hanno ripiegato verso attacchi più semplici, e così abbiamo assistito a un aumento di attacchi, il classico fishing per introdurre malware nei dispositivi dei cittadini comuni. E questo poi ha sconfinato verso la Polonia, dove ci sono tantissimi profughi.

STUDIO SIGFRIDO RANUCCI Sarebbe la fine di internet come piattaforma globale. La diffusione di questi software che rendono i computer degli zombie dai quali sferrare attacchi senza controllo indebolirebbe ulteriormente la rete, la renderebbe ancora più insicura e questo accelererebbe la balcanizzazione del web. Cioè proprio per motivi di sicurezza, ogni paese potrebbe propendere per un internet chiuso, questo a discapito della libertà, a discapito della democrazia e anche della libertà di stampa, quando il web non viene utilizzato per disinformare. Insomma, questa è una delle ricadute di questa orribile guerra, insieme a quella di aver generato circa quattro milioni di profughi. Cento mila sono arrivati nel nostro paese e si è posto anche il problema della loro ospitalità.

Guerra mediatica. Le infiltrazioni russe nella democrazia europea. Vincenzo Genovese su L'Inkiesta il 10 marzo 2022.

Una relazione approvata dal Parlamento di Strasburgo descrive tutti i metodi con cui il governo di Putin influenza da tempo gli Stati membri dell’Unione. I partiti del gruppo Id, tra cui la Lega, vengono usati come alleati interni.

«La macchina della propaganda russa accompagna quella militare in Ucraina, diffondendo informazioni false fra la sua popolazione». Lo ha detto Josep Borrell, l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli Affari Esteri e la politica di sicurezza, di fronte ai deputati del Parlamento europeo. Ma l’obiettivo delle campagne di disinformazione del Cremlino non sono solo i cittadini russi: l’Unione europea e i suoi abitanti sono nel mirino da tempo, come illustra la “Relazione sulle ingerenze straniere in tutti i processi democratici nell’Unione europea”, redatta da una commissione speciale (Inge) e appena approvata dalla plenaria dell’Eurocamera con 552 voti a favore, 81 contrari e 60 astenuti.

La longa manus del Cremlino

Certo, non c’è solo la Russia fra gli attori statali che «ricorrono alla manipolazione delle informazioni e ad altre tattiche di ingerenza per interferire nei processi democratici dell’Ue». La Cina, ad esempio, utilizza persino gli istituti di cultura Confucio disseminati in Europa come «piattaforma per i servizi di intelligence e il reclutamento di agenti e spie». Mosca e Pechino hanno anche approfittato della pandemia da Covid-19 per destabilizzare la regione dei Balcani, puntando a screditare le politiche comunitarie.

Altri Paesi come Azerbaigian, Qatar, Turchia ed Emirati Arabi Uniti hanno investito pesantemente in attività di lobby a Bruxelles, cercando di costruire una rete di organizzazioni, centri studio e iniziative utili a supportare i propri interessi: attività tecnicamente legali, ma funzionali a esercitare un’influenza indebita sul processo politico europeo.

La Russia, però, ricopre un ruolo preminente. Secondo i calcoli della commissione Inge, i regimi autoritari hanno speso più di 300 milioni di dollari in 33 Paesi per interferire con i processi democratici in tutto il mondo: la metà dei casi riguarda interventi russi in Europa.

Una strategia molto usata dal Cremlino è quella di strumentalizzare le minoranze russe o russofone negli altri Stati, promuovendo le cosiddette «politiche di protezione dei connazionali». Un copione seguito fino alle estreme conseguenze in Ucraina, con il riconoscimento delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk, ma che viene riproposto anche nei Paesi baltici. Il concetto di “mondo russo” viene utilizzato per giustificare, all’interno e all’estero, le proprie mire geopolitiche: in Europa, a sostenere questa narrativa sono spesso fondazioni private, imprese, organizzazioni di media e Ong direttamente riconducibili al governo di Mosca oppure a esso connesse tramite legami nascosti.

Il Cremlino appare poi particolarmente abile in un processo definito élite capture, che consiste nel cooptare ex esponenti politici o dirigenti d’azienda di grosso calibro, inserendoli ad esempio nei consigli d’amministrazione delle società statali.

Il caso più noto è quello dell’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder, presidente del consiglio di Sorveglianza della compagnia energetica statale russa Rosneft e coinvolto nella messa in opera del gasdotto Nord Stream 2, sospeso dal governo tedesco dopo l’invasione dell’Ucraina.

Ma per restare in tema ci sono stati anche l’ex primo ministro finlandese Paavo Lipponen, consulente per la Gazprom, l’ex ministra austriaca degli Affari esteri Karin Kneissl nel consiglio di amministrazione di Rosneft, o l’ex Primo ministro francese François Fillon nel consiglio di amministrazione di Zarubezhneft, un’altra società petrolifera. Molti altri funzionari e politici di alto livello ricoprono simili ruoli, si legge nella relazione del Parlamento, che contempla la possibilità di associare le strategie di lobby economica a obiettivi di ingerenza straniera.

Per la sua opera di influenza, l’esecutivo di Vladimir Putin si serve anche di alcuni noti partiti europei. Secondo la relazione approvata dall’Eurocamera, «la Russia cerca contatti con partiti, figure e movimenti al fine di utilizzare attori in seno alle istituzioni per legittimare le sue posizioni, esercitare pressioni per alleggerire le sanzioni e mitigare le conseguenze dell’isolamento internazionale».

Molti dei soggetti politici in questione fanno parte del gruppo Identità e democrazia al Parlamento e tutti quelli citati afferiscono all’ala destra dei rispettivi schieramenti nazionali. L’austriaco Fpö (Freiheitliche Partei Österreichs), il francese Rassemblement National e l’allora Lega Nord hanno direttamente firmato accordi di cooperazione con il partito Russia Unita del presidente russo Vladimir Putin.

I tedeschi di AfD (Alternative für Deutschland), gli ungheresi di Fidesz e Jobbik e i britannici del Brexit Party avrebbero «stretti contatti con il Cremlino», al punto di partecipare come osservatori ai processi elettorali nelle autoproclamate repubbliche del Donbass, per legittimarli.

Le forze politiche menzionate hanno contestato questa lettura e provato a eliminare il riferimento con una votazione sul singolo paragrafo, che però è stato confermato a maggioranza schiacciante.

I deputati della Lega si sono opposti alla parte in questione e poi astenuti sul voto complessivo. «Non potevamo avallare una relazione che è stata fortemente strumentalizzata», dice a Linkiesta l’europarlamentare leghista Marco Dreosto, membro della commissione Inge. «Doveva essere un documento strettamente tecnico, che facesse da base alla Commissione per prendere misure volte a contrastare le ingerenze. Ma alcuni gruppi del Parlamento hanno voluto inserire quel paragrafo, che è un attacco politico: la trovo una scorrettezza e ci vedo l’intervento dei parlamentari del Pd».

Di parere opposto l’eurodeputata del Movimento 5 Stelle Laura Ferrara: «Questi partiti, consapevolmente o no, hanno veicolato negli ultimi anni la disinformazione, le fake news, la manipolazione di fatti e la propaganda di Mosca. Le loro attività rappresentano una minaccia globale alle società democratiche», scrive in una nota.

Le contromisure dell’Europa

Proprio la disinformazione è l’obiettivo principale delle misure proposte dal Parlamento europeo, ma anche di una recente decisione storica presa dagli Stati membri.

L’Eurocamera invita la Commissione ad avviare uno studio sulle norme minime per i mezzi di comunicazione, quale base per revocare eventualmente le licenze in caso di violazioni. Alcune testate giornalistiche, infatti, non andrebbero considerate tali: le russe RT e Sputnik, le turche Anadolu e Trt World, le cinesi Cctv (China Central Television), Global Times e Xinhua. Pertanto, sostiene il Parlamento, non dovrebbero godere degli stessi diritti e protezione garantiti ai media democratici.

Su questa linea si è di recente mosso il Consiglio dell’Unione, che su proposta della Commissione ha sospeso dal 2 marzo i canali televisivi e web di Sputnik e RT/Russia Today. Le due società editoriali sono considerate «sotto il controllo permanente, diretto o indiretto, delle autorità della Federazione russa» e «determinanti per sostenere l’aggressione militare nei confronti dell’Ucraina e la destabilizzazione dei Paesi vicini».

I loro video e articoli sarebbero quindi parte di una «sistematica campagna internazionale di disinformazione, manipolazione delle informazioni e distorsione dei fatti». Per questo, la decisione rientra nella lunga lista di sanzioni comminate dall’Unione alla Russia in queste due settimane di guerra e verrà riconsiderata soltanto al termine dell’aggressione militare e comunque quando cesseranno le azioni disinformative nei confronti dell’Unione europea e dei suoi Stati membri.

Non tutti, in Europa, sono d’accordo. Il Sindacato dei giornalisti francese ha contestato la chiusura del canale RT France, sostenendo che il lavoro, pur discutibile, di una redazione giornalistica non va confuso con la politica del Paese che la finanzia.

Anche la Federazione dei giornalisti europei critica una scelta che rappresenta il primo esempio di censura moderna da parte dei governi nell’Europa occidentale, sottolineando al contempo come la regolamentazione dei mezzi di comunicazione sia competenza nazionale e non oggetto di decisioni comunitarie.

«La sfida per le democrazie è combattere la disinformazione preservando al contempo la libertà d’espressione», scrive il Segretario generale Ricardo Gutiérrez. Un equilibrio ancora più complicato da trovare in tempi di guerra.

Mirko Molteni per “Libero Quotidiano” il 10 marzo 2022.

Per gli hackers l'Italia è un ghiotto obbiettivo e da quando le truppe di Mosca sono entrate in Ucraina i pirati informatici russi turbano i sonni di aziende e amministrazioni pubbliche. Per ora, in apparenza, non sembrano esserci stati gravi attacchi, ma per gli esperti, i cyber-guastatori hanno già appostato in precedenza le loro pedine e per ora si limitano a scrutare il "campo".

Remo Marini, responsabile sicurezza informatica di Generali, ci spiega: «Nelle ultime settimane, dopo l'inizio del conflitto, non abbiamo rilevato un aumento di attacchi informatici, rispetto ai mesi passati. Semmai abbiamo notato un aumento dell'attività ricognitiva. 

Capiamo che c'è qualcuno che ci osserva e monitora la nostra attività in rete, sebbene non sia possibile quantificare il fenomeno perché è molto offuscato, a basso profilo. Pensare che dopo l'inizio della guerra debbano aumentare gli attacchi informatici è fuorviante.

È prima della crisi che sono stati eventualmente infiltrati tool e malware mantenuti dormienti fino al momento in cui si vuole attivarli. Per ora sono stati attivati solo tool di monitoraggio, mentre quelli più dannosi sono ancora inattivi, anche perchè così restano nascosti e non vengono "bruciati". Se si inasprirà la tensione queste minacce potrebbero essere attivate, oppure restare dormienti se la crisi si smorzerà».

Un anonimo responsabile di cybersecurity di un gruppo commerciale italiano, dal canto suo, nota: «Da quando è iniziatala guerra, non abbiamo subito un significativo aumento delle minacce informatiche, semmai abbiamo rilevato un aumento del traffico dati, il cosiddetto "rumore di fondo"' del web. 

Può essere un'attività ricognitiva, nel senso che qualcuno sta sondando il terreno. È come la classica attesa di quando si va a pesca, e non a caso si parla di phishing. Abbiamo innalzato il livello delle difese e dei controlli. Ma con la geolocalizzazione non è facile individuare la provenienza degli attacchi.

Un hacker russo potrebbe usare non il suo pc in Russia, bensì un botnet, una specie di computer-zombie di cui ha preso il controllo, che può essere ovunque, negli Stati Uniti, in Brasile o in Sudafrica. Una buona difesa informatica non si costruisce dall'oggi al domani, va preparata in anticipo. Noi ci siamo premuniti acquisendo le cosiddette "firme" di alcuni malware nuovi apparsi nei giorni scorsi in cyberattacchi contro l'Ucraina. Al bisogno, i nostri antivirus li riconosceranno».

L'ultimo rapporto di Clusit, l'associazione italiana per la sicurezza informatica, sarà pubblicato il 15 marzo, ma sono già uscite anticipazioni. Nel 2021 gli attacchi hacker gravi in Italia sono stati 2049, più 10% sul 2020. 

Temendo un'accelerazione nei prossimi giorni, il presidente di Clusit, Gabriele Faggioli, ha messo le mani avanti: «I numeri che leggerete nel rapporto saranno abbondantemente superati fra qualche mese, se non addirittura stravolti alla luce di quanto sta accadendo a livello internazionale».

Fra vari Paesi occidentali, l'Italia sarebbe preda ambita a causa di una sua doppia debolezza, nel settore delle infrastrutture pubbliche e nella mancanza di un deterrente, che così ci illustra Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa: «L'Italia, quanto a rischio cyberguerra, è messa male. Abbiamo infrastrutture mediamente vecchie e molto difficili da proteggere in campo informatico. 

Inoltre, e questa è una cosa che si sa poco perché non viene detta apertamente, la legge italiana non prevede la possibilità da parte nostra di reagire a un cyberattacco con un'azione, proporzionale, di rappresaglia cyber.

Per cui nella loro campagna di risposta alle sanzioni, gli hackers russi possono benissimo concentrare gli attacchi sull'Italia sapendo che essa non reagirà. Il nostro paese è quindi un agnello sacrificale. Le aziende dicono che questo grave problema ci rende i bersagli favoriti». 

Un rapporto del gruppo di ricerca sulla sicurezza informatica CyberKnow ha censito 50 gruppi di hackers di cui la maggior parte pro-Ucraina, mentre sarebbero 14 pro-Russia. Fra le "ciurme" di pirati informatici ucraini o filo ucraini c'è quel vero esercito informatico creato dal governo di Kiev, l'IT Army of Ukraine, oltre a gruppi filo-Kiev in altri stati, come i BlackHawks e i Gng in Georgia e i Monarch Turkish Hactivist in Turchia. Fra i gruppi russi primeggiano Conti, Red Bandits, Free Civilian e Sandworm di base in Russia e Cyberghost dislocato in Bielorussia.

Preoccupata è la Banca d'Italia, che nel suo documento Cyber Resilience per la continuità di servizio del sistema finanziario, scrive: «Un attacco cyber su larga scala contro punti nodali del sistema finanziario può innescare una crisi sistemica a livello globale. Dalla velocità delle transazioni discende una debolezza intrinseca legata alla rapidità con cui un evento anomalo o fraudolento può contagiare l'intero sistema».

Davide Arcuri per “Il Messaggero” il 17 marzo 2022.

La guerra del terzo millennio non è fatta solo di cannoni. Agli ucraini che tentano di difendersi dall'assalto dei russi servono sì le molotov e i missili anticarro, ma senza dare nell'occhio in migliaia stanno combattendo su una trincea non scavata. 

Invisibile e con molte feritoie, dalle quali è possibile colpire e far male al nemico moscovita. Non servono kalashnikov per partecipare alla battaglia: basta semplicemente uno smartphone. 

In questa chiamata collettiva alle armi gli ucraini si sono schierati in massa: con le mitragliatrici ma anche sul fronte digitale. Tanti piccoli hacker entrano in azione quotidianamente e partecipano alla difesa della sovranità: quella infrastrutturale e digitale, parallelamente a quella territoriale.

«In questa guerra non ci si deve difendere solo dai missili ma anche dalle armi cibernetiche», spiega Victor Zhora, il vicepresidente dell'Ssscip, il servizio di sicurezza per le comunicazioni ucraino che è di fatto la contraerea digitale di Zelensky: «Combattiamo ogni giorno per proteggere il nostro Paese, il nostro territorio, sia reale che virtuale».

Gli attacchi informatici da parte della Russia sono iniziati prima ancora dei bombardamenti, se è vero che dal 15 febbraio sono stati oltre 3mila, con un record di 275 al giorno. Gli obiettivi principali sono gli istituti finanziari, perché bloccare le banche di un paese significa congelarne l'economia. E gli effetti possono essere anche pratici: forzando i sistemi di una compagnia energetica si possono paralizzare i riscaldamenti delle case.

Bloccare le comunicazioni vuol dire isolare intere regioni e gettare la popolazione nel panico. E poi ci sono i dati personali dei cittadini: nomi, indirizzi e numeri di telefono che in tempo di guerra possono diventare un'arma molto pericolosa. 

«Gli ufficiali militari e le loro famiglie potrebbero essere identificati, come i civili che stanno danno il loro contributo alla resistenza racconta Victor Zhora -. Attraverso i dati rubati queste persone potrebbero essere rintracciate, minacciate o anche giustiziate».

Lo stato, almeno ufficialmente, non organizza operazioni di guerra cibernetica, ma i volontari non mancano. Anzi, secondo una stima sarebbero più di 300 mila, tutti mobilitati dopo un appello del ministro per la trasformazione digitale di Kiev, Mykhailo Fedorov. «Ringraziamo le comunità di hacktivisti in Ucraina e nel mondo sottolinea Zhora - Ogni azione in grado di rallentare l'esercito russo può essere utile». 

Dal 24 febbraio, data di inizio della guerra, il 90% degli attacchi informatici globali si è concentrato sull'Est Europa, il 70% ha avuto come obiettivo target russi e il 20% target ucraini.

Un vero e proprio esercito armato di mouse e tastiere da tutto il mondo ha messo a disposizione tempo e risorse per la causa ucraina, come il gruppo di soldati digitali Stand for Ukraine, uno dei più numerosi e attivi a oggi. Uno dei combattenti digital si fa chiamare Cruiser27: attacca da Leopoli e ovviamente non può essere riconosciuto. 

«Non avevo nessuna conoscenza del mondo hacker, per fare questa lotta bastano un computer e una buona connessione. L'idea alla base di queste azioni è molto semplice, si sceglie un bersaglio - ad esempio un sito web - e tutto il gruppo contemporaneamente invia un attacco». 

Sembra complesso ma Cruiser27 lo spiega in modo semplice: «Di base anche tu potresti farlo. Apri una pagina web e inizi a ricaricarla manualmente un'infinità di volte. Il sito, ricevendo migliaia di richieste contemporaneamente, finisce per crollare e bloccarsi».

L'azione è di gruppo e basta darsi appuntamento online, decidere il sito da attaccare e avviare un'applicazione che fa tutto autonomamente. La missione è doppia e l'obiettivo non è solo quello di mandare in tilt i siti istituzionali russi. 

L'altro targhet è l'informazione. Combattere la censura e le fake news, infatti, è uno degli obiettivi principali dell'esercito informatico: «Bisogna far arrivare al popolo russo la verità di questa guerra dice Victor Zhora - La verità sul fatto che il loro esercito sta uccidendo civili e bombardando ospedali. I dati rubati ai russi potranno esserci utili in futuro per identificare con nomi e cognomi i responsabili dei crimini di guerra». Il dossier per i tribunali internazionali lo prepareranno gli hacker.

(ANSA il 6 aprile 2022) - Gli Stati Uniti hanno smantellato una 'rete bot' controllata dall'intelligence militare russa. Lo ha annunciato il ministro della giustizia americano Merrick Garland. Una botnet è una rete di computer utilizzati per effettuare attacchi informatici. "Il governo russo ha recentemente utilizzato infrastrutture simili per attaccare obiettivi ucraini", ha detto il procuratore generale. 

"Fortunatamente, siamo stati in grado di bloccare la rete prima che potesse essere utilizzata di nuovo grazie alla collaborazione con i nostri partner internazionale. Garland ieri ha annunciato che gli Usa hanno incriminato l'oligarca russo Konstantin Malofeyev per il suo tentativo di violare le sanzioni russe inflittegli per aver finanziato il separatismo in Crimea e aver sostenuto le due repubbliche secessioniste filorusse del Donbass usando complici allo scopo di acquisire e gestire surrettiziamente media in Europa. Mentre un tribunale di New York ha aperto un provvedimento contro l'americano John Hanick, 71 anni, per accusato di violazione delle sanzioni e false dichiarazioni per aver collaborato diversi anni con Malofeyev.

Alberto Simoni per “la Stampa” l'1 maggio 2022.

Dall'inizio dell'invasione i russi hanno lanciato contro l'Ucraina 237 attacchi cyber. Molti sono stati indirizzati verso infrastrutture strategiche come centri per l'erogazione dell'energia e di comunicazioni; altri invece hanno avuto come obiettivo la disinformazione pura con lo scopo di creare un ambiente ostile per il governo ucraino presso la popolazione. 

È il contenuto di un report che Microsoft ha condiviso con le autorità statunitensi e che evidenzia come in prossimità di attacchi e raid missilistici, le operazioni di disinformazione si sono intensificate in una sorta di strategia composita che unisce la campagna di fake news per sostenere l'invasione terrestre al ricorso a malware contro infrastrutture critiche.

Sono sei i gruppi responsabili di queste azioni, operativi 24 ore su 24 e divisi in aree di competenza: c'è chi come Dev-0586 si occupa di «operazioni di influenza» (disinformazione) e chi come l'unità 71330 di sottrarre dati sensibili. Krypton fa phishing, mentre l'unità Strontium legata al Gru (intelligence militare russa) ha nel mirino i data center militari. Le azioni si sono intensificate nei giorni antecedenti l'invasione: fra il 15 e il 16 febbraio colpite le istituzioni finanziarie, il 23 febbraio il gruppo Iridium ha infettato con malware il settore tecnologico ed energetico lasciando scoperta per ore la catena di comando militare.

Sono azioni che Washington conosce bene e che etichetta sotto la dicitura «modus operandi tradizionale di Mosca». Già nel 2014 simili azioni di disinformazione erano state centrali nella strategia seguita dal Cremlino nel Donbass. 

L'ambasciatore americano all'Osce, Michale Carpenter, ha evidenziato che Mosca sta intensificando le azioni di disinformazione nel Donbass e nel Sud est dell'Ucraina. La strategia è la stessa della prima fase: far credere alla popolazione che una città o un villaggio sia ormai nelle mani dei russi e che gli abitanti siano stati lasciati, deliberatamente, al proprio destino dal governo di Kiev.

È lo stesso schema già usato a Mariupol dove per esempio fra il 1°e l'8 aprile, Dev-0586 si è finto un abitante della città assediata e ha inondato social e email con l'appello a rivoltarsi contro «il governo che ci ha abbandonato». Fonti Usa hanno spiegato che oggi i russi rivendicano di aver il controllo di interi villaggi e di alcune città e che referendum per l'indipendenza sono ormai pronti. «Sono solo fake news messe in giro per confondere la popolazione», hanno detto le fonti.

Dal terreno infatti - ha raccontato l'ambasciatore Carpenter - arrivano informazioni ben diverse rispetto alla narrazione che i russi stanno spargendo. «Ci sono trasferimenti forzati, i russi stanno deportando gli abitanti dalla zone libere e quelle sotto il loro controllo se non addirittura in Russia». E dalle zone del Donbass arrivano invece notizie di giornalisti, attivisti, funzionari comunali «torturati, picchiati e fatti sparire». È un fronte della guerra - dice il Dipartimento di Stato - decisivo e che non possiamo tralasciare.

Alessandro Da Rold per La Verità il 10 aprile 2022.  

In Italia è scattato l'allarme per possibili cyberattacchi da parte della Russia.

Non è notizia recente, ma ieri il direttore dell'Agenzia per la cybersicurezza nazionale, Roberto Baldoni, ha voluto ribadirlo pubblicamente, ricordando che «tutte le agenzie occidentali» sono «in massima allerta con condivisione di informazione continua, perché rispondere a quel tipo di attacchi significa anche scambiarsi più informazioni nel più breve tempo possibile per stimolare e alzare la difesa».

Che l'Europa e il nostro Paese siano da tempo nel mirino di cybergang considerate vicine ai russi è noto. Per di più la pandemia e lo smart working hanno esposto le aziende a maggiori rischi: basti pensare al caso di regione Lazio e Laziocrea. Il mese scorso c'è stato un attacco contro Trenitalia, con la richiesta di riscatto di 5 milioni di dollari, ma nelle ultime settimane si è registrato anche il sequestro del sito della Ulss 6 Euganea, l'Asl con le informazioni sensibili di tutti gli abitanti della provincia di Padova. Il Mite ha dovuto spegnere il proprio sito Internet in queste ore. 

La Procura di Roma indaga su un attacco informatico e tentativo di estorsione ai danni di Tim, dopo il blitz informatico dello scorso 23 marzo, con attacco ransonware molto simile a quello subito proprio da Regione Lazio, quando i pirati si intrufolarono tramite un dipendente in smart working della partecipata Laziocrea. A novembre a finire sotto attacco fu Mediworld.

«In questo momento noi possiamo solo difenderci», spiega alla Verità Pierguido Iezzi, titolare di Swascan polo italiano della cybersicurezza del Gruppo Tinexta, che di recente ha pubblicato una ricerca sulle debolezze infrastrutturali italiane in questo settore. «La Russia è un Paese che ha notevole capacità offensiva cyber. Non dimentichiamoci che l'80% delle cybergang sono considerate vicine alla Russia. E noi allo stesso tempo non possiamo fare il cosiddetto hackback perché la legge ce lo vieta», continua Iezzi. «Più che resilienza, il nostro è un lavoro di resistenza. Per questo motivo il Mite ha deciso di spegnere i propri sistemi. In questo modo è diventato invisibile in attesa di effettuare le opportune bonifiche». La situazione europea e italiana è molto diversa da quella russa. 

«L'11 marzo la Russia ha attivato runet, un gigantesco scudo, un sorta di firewall nazionale che le permette di essere invisibile all'esterno. Noi non vediamo i loro asset, ma loro vedono i nostri. L'Europa e l'Italia non dispongono di questa soluzione difensiva, di conseguenza la difesa agli attacchi cyber viene di fatto delegata a ogni singola azienda. E serve particolare attenzione alle piccole e medie imprese che lavorano con aziende più grandi o con il governo: da qui passa la sicurezza del nostro Stato perché da loro transitano informazioni sensibili». In sostanza, la debolezza europea si nota anche in questo campo.

Ogni Stato membro deve difendersi da sé. Non esiste una Difesa comune, né una strategia comune a livello cyber. «Come ha spiegato anche Baldoni, il pericolo cyber nel nostro Paese incomincerà a farsi sentire soprattutto dopo che il conflitto andrà a poco a poco diminuendo in Ucraina. Quando cioè non ci sarà più il rischio concreto di un conflitto diretto convenzionale tra Nato e Russia», ricorda alla Verità Stefano Mele, studio legale Gianni & Origoni, tra i massimi esperti di cybersecurity in Italia. «Gli attacchi cyber saranno fatti soprattutto in Italia anche per sensibilizzare il cosiddetto partito di Putin del nostro Paese. È un'arma del Cremlino per fare propaganda». Ormai gli attacchi alle aziende del nostro Paese sono quotidiani. «La Russia è una forza primaria in questo campo di battaglia. In Italia si calcolano milioni di attacchi cyber ogni giorno, meno gravi o più gravi, qualcuno da gestire con più attenzione altri meno.

Ma ogni maledetta domenica, per citare un vecchio film, il capo della cybersecurity di un'azienda si sveglia e sa che dovrà valutare come la propria rete e i propri sistemi informatici sono stati attaccati. Solo se capiamo la quotidianità degli attacchi nel cyberspazio possiamo iniziare a prendere le misure e imparare a difenderci». Non è una guerra fredda. «È un conflitto armato», conclude Mele, «che ben presto si sposterà soprattutto nel cyberspazio».

A portarlo avanti sono soprattutto le cybergang gang filorusse. Il gruppo Conti, Hive group o Lockbit scorrazzano da tempo tra le reti del nostro Paese. «Lavorano in franchising» conclude Iezzi. «Operano tramite affiliati in tutto il mondo. La gang fornisce il tutorial e i negoziatori. A chi si affilia spetta fino al 70% del riscatto». In realtà, solo la gang Conti ha annunciato il suo sostegno alla guerra di Putin, come risposta alle campagne di Anonimous. Il 27 febbraio, a tre giorni dall'attacco all'Ucraina e a meno di 48 ore dalle controverse dichiarazioni di sostegno al Cremlino da parte del Conti Team, un ricercatore di sicurezza ucraino ha divulgato diversi anni di log di chat interne all'organizzazione cybercriminale russa e altri dati sensibili. La guerra ormai passa anche da qui.

Hacker all'attacco dell'Italia, la minaccia su Telegram del collettivo filo russo. Angela Bruni su Il Tempo il 30 maggio 2022.

«Un colpo irreparabile in Italia». È questa la minaccia intercettata su Telegram del Collettivo filo russo Killnet. «30 maggio ore 5:00 - luogo di incontro Italia», inizia il post che riconduce esplicitamente il tutto alla sfida con i «rivali» di Anonymous, che a loro volta hanno messo nel mirino Killnet dopo l'inizio della guerra in Ucraina. «Vi aspettiamo», è la conclusione.

Qualche minuto dopo ed è gia partito un nuovo del Csirt (Computer Security Incident Response Team) dell'Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale: «Continuano a rilevarsi segnali e minacce di possibili imminenti attacchi ai danni in particolare, di soggetti nazionali pubblici, soggetti privati che erogano un servizio di pubblica utilità o soggetti privati che la cui immagine si identifica con il paese Italia», si legge in un avviso relativo al «potenziale rischio di attacco informatico ai danni di enti ed organizzazioni nazionali». «Facendo seguito alle campagne malevole perpetrate da attori di matrice russa e agli attacchi DDoS occorsi tra l'11 ed il 21 maggio ai danni di soggetti nazionali, nell'ambito delle attività di monitoraggio svolte a cura dello Csirt Italia continuano a rilevarsi segnali e minacce di possibili imminenti attacchi ai danni in particolare, di soggetti nazionali pubblici, soggetti privati che erogano un servizio di pubblica utilità o soggetti privati che la cui immagine si identifica con il paese Italia». Si raccomanda quindi «di implementare con effetto immediato, ove non già provveduto, le azioni suggerite dallo Csirt Italia, con particolare riguardo alle mitigazioni delle vulnerabilità maggiormente sfruttate da attori malevoli di matrice russa ed alle misure di mitigazione degli attacchi di tipo DDoS».

Si raccomanda inoltre «di mantenere un attento controllo sulle infrastrutture IT h24 teso a individuare evidenze di attacchi o comunque anomalie, rispetto alle quali si richiede di dare comunicazione tempestiva allo Csirt Italia». E per Roberto Baldoni, direttore dell'Agenzia per la Cybersicurezza nazionale, ci si deve preparare a centinaia di attacchi simultanei. L'invito è quello alla prudenza, perché ancora troppo spesso basta un «click» per aprire la porta all'attacco hacker. Utile certamente un buon antivirus, ma la prudenza è sempre l'arma più utile e potente. 

Da adnkronos.com il 26 marzo 2022. 

A due giorni dall'hackeraggio di Anonymous alla Banca Centrale di Russia 28 gigabyte di informazioni finanziarie riservate del governo russo sono state rese pubbliche. Dopo l'attacco informatico, il collettivo aveva annunciato che avrebbe rilasciato oltre 35mila file con accordi segreti.

"Nessun segreto è al sicuro. Siamo dappertutto: siamo nel tuo palazzo, dove mangi, al tuo tavolo, nella stanza in cui dormi", è la minaccia che Anonymous rivolge in un video a Vladimir Putin, definendolo "un bugiardo, dittatore, criminale di guerra e assassino di bambini". 

Il collettivo annuncia quindi la condivisione di "centinaia di documenti appartenenti alla Banca centrale di Russia: accordi, corrispondenza, trasferimenti di denaro, patti segreti degli oligarchi, veri rapporti sull'economia tenuti lontano dal pubblico, intese commerciali con altri Paesi, dichiarazioni, informazioni dei sostenitori registrati, video conferenze di Putin e i programmi che usa".

I 28 giga di file riservati sono stati resi disponibili per il download da un membro di Anonymous, The Black Rabbit World.

(ANSA il 31 marzo 2022) - Gli hacker russi hanno recentemente tentato di infiltrarsi nelle reti della Nato e dei ministeri della difesa di diversi paesi dell'Europa orientale, secondo un rapporto del Threat Analysis Group di Google. Lo scrive la Bbc. Il rapporto non dice quali forze armate siano state prese di mira in quelle che Google ha descritto come "campagne di phishing delle credenziali" lanciate da un gruppo con sede in Russia chiamato Coldriver, o Callisto.

Le campagne sono state condotte utilizzando account Gmail di nuova creazione. Google ha affermato che mentre "la percentuale di successo di queste campagne è sconosciuta", non è a conoscenza della compromissione di alcun account Gmail. Funzionari statunitensi hanno ripetutamente avvertito che la Russia e i gruppi di hacker sostenuti dalla Russia rappresentano una minaccia, mentre la Russia ha negato le accuse di attacchi informatici crescenti contro obiettivi occidentali.

Anonymous attacca Nestlé: pubblicati online 10 Giga dei suoi dati. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Marzo 2022.  

Il gruppo di Anonymous come spesso è accaduto in passato, ha deciso di fare giustizia in autonomia, attaccando e colpendo la multinazionale svizzera dell'alimentare con le sue armi più consuete, cioè le incursioni hacker. Una mossa giusta o sbagliata che sia, segue la decisione chiara e pubblica del collettivo di dichiarare guerra alla Russia, estendendola a tutti quelli che non si schierano contro l'attacco di Putin all'Ucraina. 

Sono moltissime le aziende occidentali che hanno deciso di abbandonare la Russia, e chiudere i propri negozi, fisici o virtuali, alla popolazione russa: dalla Apple a Coca Cola, da Ikea alla Nike. Qualcuno però come Nestlé ha fatto eccezione difendendo la propria decisione di rimanere operativa in Russia, nonostante la richiesta pressante dell’Ucraina di dare il proprio contributo — economico o simbolico — per arrivare a una conclusione della guerra.

La Nestlè è una multinazionale con sede in Svizzera, che viene considerata come la più grande società alimentare del mondo. La propria decisione di rimanere attiva in Russia è stata pero notata dagli hackers etici di Anonymous che ha deciso di prendere provvedimenti. 

Il collettivo di Anonymous ha dato un ultimatum di 48 ore alla Nestlé per abbandonare la Russia. Senza ricevere alcuna risposta. Allo scadere del tempo, con l’hashtag #BoycottNestle, il collettivo di hackers etici ha messo online il database hackerato della società, per un totale di 10gigabyte di dati, email, password, clienti aziendali. E non solo. Anche un campione di dati di più di 50mila clienti.

Anonymous ha dichiarato su Twitter che “sta attaccando siti web governativi in Russia, stampando con le loro stampanti, colpendo siti web russi, hackerando telecamere russe e inviando messaggi di testo ai cittadini russi sull’Ucraina e anche facendo trapelare molti dati“.

Anche lo stesso presidente ucraino Volodymyr Zelensky aveva chiesto alla multinazionale svizzera durante un discorso in streaming a una manifestazione a Berna, di unirsi alla lotta economica contro la Russia . Secondo Zelensky, rimanere nel Paese è in conflitto con il motto dell’azienda, “Good Food, Good Life”. Nestlé che ha più di 7.000 dipendenti in Russia e guadagna dalle operazioni nel Paese circa il 2 per cento del suo fatturato ha replicato di aver già “ridimensionato significativamente le sue attività, fermando sia le esportazioni sia le importazioni tranne che per prodotti essenziali”. E di aver sospeso i propri investimenti pubblicitari in Russia. “Non traiamo profitto dalle nostre attività rimanenti. Il fatto che noi, come altre aziende alimentari, forniamo alla popolazione alimenti importanti non significa che stiamo andando avanti come prima”.  Al momento, però ci sono ancora sei fabbriche della Nestè in funzione in Russia.

Il gruppo di Anonymous come spesso è accaduto in passato, ha deciso di fare giustizia in autonomia, attaccando e colpendo la multinazionale svizzera dell’alimentare con le sue armi più consuete, cioè le incursioni hacker. Una mossa giusta o sbagliata che sia, segue la decisione chiara e pubblica del collettivo di dichiarare guerra alla Russia, estendendola a tutti quelli che non si schierano contro l’attacco di Putin all’Ucraina. 

Anonymous ha sfidato la censura  di Putin mandando 7 milioni di Sms ai cittadini russi per renderli informati di tutto quello che sta realmente accadendo oltre confine.,  utilizzando Google Maps, e le recensioni di bar e ristoranti, per diffondere nel web i loro messaggi. Ma non solo. Infatti Anonymous  ha colpito la Tv russa ed ha persino diffuso i piani di invasione (presunta) della Russia in Ucraina diffondendoli su Twitter. Redazione CdG 1947

(Teleborsa il 24 marzo 2022) - Salto di qualità del collettivo di Anonymous che - dopo una serie di azioni dimostrative ad alto impatto mediatico, ha hackerato la Banca centrale russa, struttura decisamente strategica. "Entro 48 ore verranno rilasciati più di 35.000 file con accordi segreti", scrivono su Twitter gli attivisti. 

Se l'attacco venisse confermato dall'effettiva pubblicazione dei documenti nelle prossime ore così come annunciato, saremmo certamente in presenza di uno dei leak più importanti diffusi da Anonymous dall'inizio di #OpRussia, la campagna attraverso la quale gli hacker hanno messo nel mirino il Presidente Putin e tutte le istituzioni di Mosca. Intanto, secondo quanto riportato da Tass, la Banca Centrale Russa smentisce l'attacco.

Nei giorni scorsi Anonymous aveva già messo offline i siti di alcune società che continuano ad operare in Russia tra le quali Nestlè che, sotto pressione, ha deciso di ridurre le sue attività a Mosca.

L'azione - accompagnata dall'hashtag #BoycottNestlè. era stata rivendicata su Twitter rilasciando 10 GB di dati della società svizzera. "Questa è una rappresaglia del collettivo per aver continuato l'attività dell'azienda in Russia". 

Da quando è iniziata la guerra, Anonymous ha attaccato siti governativi di Mosca, hackerato telecamere e stampanti per inviare messaggi informativi sull'invasione e far sapere ai cittadini cosa accade in Ucraina.

Non solo, per aggirare la censura, nei giorni scorsi un gruppo legato ad Anonymous, ha messo online un sito che permette di mandare sms ai cittadini russi, anche in anonimato, che informano sulla guerra: secondo il collettivo ne sono stati inviati oltre 20 milioni.

Da open.online il 13 marzo 2022.

Sul profilo Twitter di Anonymous è stato pubblicato un video in cui il gruppo hacker invita la popolazione russa a ribellarsi a Vladimir Putin. «Siete intrappolati dietro una cortina di ferro di propaganda, il vostro governo cerca di impedirvi di essere parte del dibattito internazionale per paura di ciò che potreste scoprire», dice la voce nel video.

«Il regime di Putin ha commesso crimini di guerra con la sua recente invasione dell’Ucraina, che ha causato una massiccia crisi di rifugiati e innumerevoli morti». Il messaggio prosegue: «È una situazione terribile quella in cui siete stati messi, ma la vostra unica opzione per prevenire l’imminente collasso economico e la potenziale guerra mondiale è quella di intraprendere azioni per resistere alla guerra e al regime di Putin. A questo punto, il modo più pacifico in cui questo conflitto potrebbe finire è che il popolo russo si sollevi contro Putin e lo rimuova dal potere».

Conti, chi sono gli hacker filorussi che combattono Anonymous e hanno colpito anche l’Italia. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 9 Marzo 2022.

Gli hacker del team Conti sono schierati con Putin ma un infiltrato ucraino è riuscito a diffondere oltre 16mila messaggi del gruppo. Gli hacker bielorussi filoucraini bloccano nel frattempo le ferrovie di Minsk e Orsha. 

Nella guerra tra Ucraina e Russia non c’è solo il collettivo di hacker Anonymous, che da quando il Cremlino ha invaso quello che ritiene un suo Paese satellite, fino a negarne l’autodeterminazione, si è schierato apertamente contro Vladimir Putin. Allo scoppio del conflitto, il gruppo Conti ha pubblicato sui propri canali la volontà di difendere Mosca, appoggiando le scelte dello zar e ostacolando chiunque voglia affrontarlo sui campi di battaglia reali e virtuali. La cyber-gang filorussa non inizia a difendere gli interessi russi solo da questo momento, perché da almeno quattro anni il collettivo di hacker è autore dei principali attacchi all’Occidente portati a segno, soprattutto attraverso l’uso di armi come il ransomware, un malware che limita l’accesso al dispositivo informatico che infetta, consentendo di conseguenza la richiesta di un riscatto economico per sbloccarlo o l’inutilizzo dello stesso a tempo indeterminato, come fosse un vero e proprio sequestro di natura informatica. «Vogliamo rispondere ai guerrafondai occidentali e alle minacce americane di voler usare la guerra cibernetica contro la Russia», avevano annunciato pubblicamente allo scoppio del conflitto. «Noi condanniamo la guerra in corso ma, siccome l’Occidente prende di mira i civili, noi vogliamo reagire usando le nostre risorse informatiche contro qualsiasi minaccia in grado di danneggiare il benessere e la sicurezza dei cittadini».

Le chat intercettate

Queste informazioni sono state però rese note anche grazie al lavoro di un ricercatore ucraino, infiltratosi nel gruppo di hacker filorusso e capace di pubblicare e diffondere 13 mesi di informazioni riservate del team Conti, per un totale di oltre 60mila messaggi riservati, scambiati tra gli appartenenti al gruppo. Ci sono i piani per portare a segno degli attacchi informatici, i saldi dei conti relativi alle criptovalute, le trattative con le vittime che chiedevano di poter riaccedere ai propri dispositivi elettronici. In breve, tutto il loro operato nei confronti delle organizzazioni e le istituzioni che prendevano di mira, prevalentemente occidentali. Fra queste non fanno eccezioni quelle italiane, pubbliche e private, come il Comune di Torino, il marchio di patatine San Carlo o il produttore di giocattoli Clementoni. Più di recente ne è stato vittima anche il gruppo Angelantoni, che dal 1932 opera nel settore biomedicale. L’infiltrato è riuscito così ad assestare un colpo significativo alle intenzioni di Conti, pronti ad assestare ritorsioni a chiunque avesse leso gli interessi del governo russo. Lo schierarsi li ha evidentemente esposti anche ai pirati informatici che come Anonymous hanno deciso di sfidare il Cremlino.

Cyberpartigiani bielorussi

Tra le ultime battaglie della cyberguerra tra Russia e Ucraina non c’è però la fuga di notizie, perché nella stessa giornata la brigata di hacker bielorussi, ma filoucraini, Belarusian Cyber-Partisans, hanno annunciato di aver colpito le principali infrastrutture del Paese, colpendo in particolare le ferrovie e di conseguenza la capacità di trasporto delle truppe invasori. «Le ferrovie bielorusse sono passate alla modalità manuale, perché il software che utilizzavano è stato disabilitato. Gli hub ferroviari di Minsk e Orsha ora sono paralizzati», questa la comunicazione trionfale del gruppo di hacker. Ora che anche l’organizzazione Conti sembra essere stata smascherata nelle intenzioni e nel suo modus operandi, per quanto questi gruppi riescano sempre a riprendersi e reagire in breve tempo, il fronte ucraino spera di poter fare presto affidamento anche sugli hacker volontari che decideranno di schierarsi con Kiev. Dall’altra parte non mancano però le prese di posizione neutrali, come quella di LockBit, altro importante collettivo di hacker noto per i suoi attacchi ransomware, ma che da quando è scoppiato il conflitto ha deciso di non prendere parte alla cyberguerra, continuando a dedicarsi unicamente ai suoi interessi economici e alla tutela dei propri interessi, mantenendo le distanze dalla politica.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 7 marzo 2022.

Anonymous sostiene di aver violato la tv di stato russa per trasmettere filmati della guerra in Ucraina. Il collettivo di hacker ha affermato di aver preso di mira Russia 24, Channel One e Mosca 24 per mostrare la realtà dell’invasione selvaggia. 

Vladimir Putin ha detto ai russi che l'invasione è un’«operazione militare speciale» e un esercizio di mantenimento della pace, che reprime qualsiasi dissenso contro la guerra. I canali di propaganda del Cremlino hanno affermato che è scoppiata una guerra civile in Ucraina, guidata dai nazionalisti nazisti spinti dall'Occidente e dall'espansione della NATO.

Ma domenica Anonymous ha mostrato ai russi la realtà della guerra, diffondendo il messaggio anche sui servizi di streaming russi Wink e Ivi. Gli hacker hanno affermato che stanno prendendo parte alla «più grande operazione anonima mai vista» con la Russia. 

Parte del filmato trasmesso dalla TV russa diceva: «I russi normali sono contro la guerra» e li esortava a opporsi all'invasione. 

La scorsa settimana, gli hacker hanno affermato di aver chiuso l'agenzia spaziale russa, in modo che Putin «non abbia più il controllo sui satelliti spia». 

L’Ucraina vara la prima armata cyber. Francesca Salvatore su Inside Over il 7 marzo 2022.

Mai, fino a qualche settimana fa, le cyber war avevano assunto un carattere “ufficiale”, nonostante siano migliaia gli hacker in giro per il mondo che in autonomia, o per conto di enti statali, si occupano di pirateria informatica. L’Ucraina, mentre tenta di resistere all’aggressione, sdogana il metodo e mette su il primo IT army della storia: il 26 febbraio scorso, infatti, il vice primo ministro ucraino Mykhailo Fedorov ha annunciato su Twitter la creazione di un esercito informatico volontario. Reclutati sviluppatori, specialisti informatici, designer, copywriter, marketer: una guerra parallela indirizzata contro Bielorussia e Russia. Un precedente storico che cambierà per sempre il warfare tradizionale.

La chiamata “alle armi”

Nel frattempo, centinaia di migliaia di lavoratori del settore ICT ucraini hanno preso parte ad attacchi informatici contro il governo, i media e le istituzioni finanziarie russe negli ultimi giorni: un’industria in ascesa, quella tecnologica, che non solo non ha mai smesso di lavorare, ma è diventata parte della resistenza. Prima dello scoppio del conflitto, un ruolo cardine nello sviluppo del Paese era costituito dall’iniziativa Diia City, un enorme piano per incoraggiare più società tecnologiche straniere a trasferirsi in Ucraina e per incoraggiare più start up a crescere nell’ecosistema ucraino, attraverso agevolazioni fiscali e altri incentivi.

L’esercito informatico potrebbe contare più di 400.000 persone all’interno e all’esterno del Paese e ha fatto molto di più che disattivare o eliminare siti web russi, secondo quanto riferisce Viktor Zhora, responsabile della sicurezza informatica nel Paese, raggiunto dal Wall Street Journal. Nell’immediato, questo gruppo, anche in ordine sparso, si è occupato prevalentemente della gestione improvvisa delle raccolte di fondi attraverso criptovalute e della predisposizione di piani di emergenza per la comunicazione, man mano che i combattimenti si intensificavano. I membri di questa cyber army si sono presi il merito di aver temporaneamente messo offline una serie di siti web governativi e bancari russi (stesso obiettivo dichiarato dal collettivo Anonymous). Il gruppo starebbe tentando di aggirare la censura interna russa sulle notizie circa il conflitto, inviando a utenti russi informazioni e immagini tramite telefono, app di messaggistica e social: questo aspetto diventa fondamentale, soprattutto dopo l’inasprimento delle pene da parte del governo russo verso chi viene sospettato di fare propaganda pro-Ucraina e dopo la fuga dei giornalisti occidentali, non più al sicuro.

Le missioni

L’esercito IT ha avuto un battesimo relativamente pubblico dallo scorso fine settimana, quando Fedorov ha lanciato un appello agli operatori tecnologici ucraini affinché si unissero a un canale Telegram chiamato “Esercito IT dell’Ucraina“, che venerdì ha raggiunto quasi i 300mila iscritti. Nel gruppo si viene incoraggiati a utilizzare qualsiasi vettore di attacchi informatici Dos contro un elenco di 31 siti Web russi, molti dei quali bloccati nei precedenti giorni: fra gli obiettivi “sensibili” grandi banche come Sberbank e il produttore di petrolio Lukoil. Altri messaggi hanno chiesto ai volontari di raccogliere resoconti sui social media circa i parenti stretti degli oligarchi russi e i numeri di telefono delle élite russe, comprese celebrità e opinion leader. Il 27 febbraio, in aggiunta, i funzionari hanno chiesto ai volontari di prendere di mira i siti web in Bielorussia.

Si tratta, dunque, di volontari che rispondono alla chiamata social del ministro; non ci sono leader che coordinano a livello di personale: si tratta di un enorme gruppo di persone autonome. Presumibilmente, vi stanno aderendo non solo individui ma anche organizzazioni: ciò rende i loro sforzi combinati al pari dei più grandi gruppi statali di difesa informatica. Il viceministro ucraino per la trasformazione digitale Oleksandr Bornyakov ha dichiarato che non vi è al momento comunicazione one-to-one: obiettivi e compiti vengono lanciati sui canali-ritrovo e gli hacker eseguono. Solo un paio di minuti dopo alcune infrastrutture crollano. Le azioni finora riportate sembrano limitarsi agli attacchi del tipo “denial of service” (Dos), in cui più richieste vengono inviate a un sito web in modo coordinato per saturarlo e abbatterlo, e azioni di defacement, in cui il sito preso di mira mostra una pagina compromessa.

Questo non significa che chiunque ora possa diventare un hacker “al soldo” di Kiev. Come precisa Bornyakov, la guerra non è iniziata quattro giorni fa, ma nel 2014, anche da un punto di vista informatico. Quindi, in quegli anni il Paese ha sviluppato un sistema di difesa informatica davvero avanzato. Al momento, quindi, la difesa informatica è curata da un gruppo di persone, a livello statale e non. Non si può del resto dare accesso a chiunque a informazioni riservate: per ora l’IT Army è un gruppo pubblico, ma non è inquadrato nelle forze della Difesa. Ecco perché il “cyber-esercito” potrebbe anche chiedere agli hacker di provare a identificare le vulnerabilità di alcuni siti russi e inviare tali informazioni a specialisti più esperti in grado, di eseguire azioni intrusive più sofisticate, come il furto o la distruzione di dati.

Giovedì scorso, è stata poi annunciata una nuova serie di obiettivi, tra cui la rete ferroviaria bielorussa e il sistema di navigazione satellitare locale della Russia Glonass, un’alternativa alla rete di navigazione satellitare Global Positioning System (Gps).

Quali rischi?

Ma mentre l’idea può sembrare valida in teoria, i grandi esperti di sicurezza informatica mondiali avvertono che il digital free-for-all potrebbe ritorcersi contro. Un Paese che lancia un segnale alla comunità degli hacker potrebbe avere ripercussioni delle quali le persone coinvolte non si rendono conto, comprese vicende legali. Non vi è alcuna garanzia, né prerequisito, che tutte le persone coinvolte siano professionisti informatici qualificati e quindi in grado di non creare danni ulteriori. Ci sono rischi legali molto alti: attaccare un sito Web o penetrare in un server o in una rete è un crimine informatico, e questi hacker fai da te potrebbero rischiare grosso nel prossimo futuro. Altro rischio all’orizzonte, all’aumentare della virulenza degli attacchi informatici, è il rischio reale di “hack back“, un contrattacco distruttivo da parte di agenti russi.

La mancanza di formazione adeguata potrebbe perfino danneggiare pesantemente l’infrastruttura digitale dell’Ucraina. Ad esempio, un attacco DoS potrebbe mettere offline un nodo chiave utilizzato per il traffico Internet. Avere un gruppo di persone che si uniscono a questo sforzo significa anche che potrebbero non essere in grado di passare attraverso il processo di de-escalation quando il conflitto armato sarà terminato. Un certo numero di hacker candidati non si sono ovviamente presi la briga di creare un account Telegram speciale per partecipare all’esercito IT, a rischio di essere identificati dalla parte russa. Nel cyberspazio, e in particolare su forum e altri gruppi di discussione su Telegram o Discord, nessuno sa chi è chi: gli hacker inesperti, compresi giovani nerd nelle loro camerette, possono ritrovarsi coinvolti con infiltrati dal campo opposto e finire per lavorare proprio per l’avversario che volevano combattere. La Russia, in questo, ha fornito un esempio importante: il gruppo ransomware Conti, che ha dichiarato il proprio sostegno alla Russia, ha visto uno dei suoi membri filo-ucraini pubblicare per più di un anno delle sue comunicazioni interne per rappresaglia, offrendo una miniera di informazioni ai ricercatori mondiali di sicurezza informatica, alla polizia e agli specialisti di spionaggio.

Da liberoquotidiano.it il 4 marzo 2022.

Anonymous sta creando non pochi problemi alla Russia di Putin in questi giorni così delicati per l'Ucraina. Dopo aver dichiarato "guerra" allo zar qualche tempo fa, adesso ha pubblicato su Twitter alcuni documenti che rivelerebbero le mappe e le date dell'invasione russa in Ucraina. 

A tal proposito, il collettivo di hacker ha scritto: "Documenti presi alle truppe russe mostrano che la guerra è stata approvata il 18 gennaio e che il piano iniziale per colpire l'Ucraina prevedeva un attacco dal 20 febbraio al 6 marzo". 

Nella prima pagina dei documenti, come riporta l'agenzia Agi, si legge in cirillico "Flotta del Mar Nero" e "Mappa di lavoro". In ogni caso, non sarebbe ancora stato possibile verificare l'autenticità dei documenti.

Anche se, sempre su Twitter l'analista di sicurezza Micheal Horowitz ha scritto che i documenti sarebbero stati scoperti dal ministero della Difesa di Kiev "sul campo". E in effetti le forze armate ucraine sui social hanno fatto sapere che "gli occupanti russi perdono non solo equipaggiamento e vite umane. In preda al panico, lasciano sul campo anche documenti segreti".

Alla fine, le truppe ucraine hanno commentato: "Diremo una cosa agli occupanti russi: seminate in giro le vostre attrezzature e i documenti segreti, ci serviranno prima per i nostri difensori, e poi per l’Aia". Chiaro riferimento alla Corte penale che si esprime su crimini internazionali contro l’umanità e crimini di guerra.

Valerio Berra per open.online il 2 marzo 2022.  

Solo un gesto dimostrativo ma il dissenso passa anche da questo. Nelle ultime ore un gruppo di hacker legati al collettivo Anonymous ha deciso attaccare Graceful, lo yacht di Vladimir Putin dal valore stimato di 87 milioni di euro. Per diverse o questo gioiello dell’ingegneria navale è stato ribattezzato FCKPTN, la versione senza vocali di Fuck Putin. Il nome compariva sui dati di navigazione del portale Vesseltracker, dove sono tracciate tutte le imbarcazioni del mondo.

Gli hacker sono entrati nell’Automatic Identification System, il sistema che raccoglie tutti i dati di navigazione e li comunica a Vesseltracker. Il sistema era diventato noto nel marzo 2021, quando l’enorme nave cargo Ever Given si era incagliata nel canale di Suez bloccando una delle rotte più importanti per la logistica. 

Oltre al nome delle yacht, Anonymous ha cambiato anche la sua posizione. Graceful, o meglio FCKPTN, è stato segnato sull’Isola dei Serpenti, una piccola landa di terra nel Mar Nero dove un gruppo di soldati ucraini ha suggerito alla nave russa che aveva appena attraccato di «andare a farsi fottere». 

Oltre alla posizione sono stati manomessi anche i dati sulla sua destinazione: dopo qualche esitazione lo yacht di Putin è stato diretto verso un chiarissimo HELL. Al momento i dati sono stati sistemati e Graceful ha ritrovato il suo nome orginale. Al momento si trova ancorata in un porto del Mar Nero. Resta ancora una traccia dell’attacco: il suo Callsign è ancora settato su ANONYMO.

Ancora una volta Anonymous ha scelto un’azione dimostrativa. Al momento la linea sembra questa: gli hacker hanno deciso di colpire portali e siti che avessero soprattutto un valore simbolico. Sono un esempio gli attacchi al sito del Cremlino, di Gazprom o dell’agenzia Tass.

Al momento nessuna rete strategica russa è stata assaltata, Anonymous ha chiarito infatti che la sua operazione non è «contro il popolo russo. Non è nemmeno uno contro i soldati russi. L’operazione prende di mira Putin e l’apparato statale controllato da Putin, le società statali, i media controllati dallo stato e gli individui e le società private che hanno beneficiato per decenni del sistema autocratico di Putin». Ieri però è stato registrato un attacco all’Istituto di Sicurezza Nucleare di Mosca. È l’inizio di una nuova fase? 

(ANSA il 2 marzo 2022) - Il gruppo di hacker 'NB65', affiliato ad Anonymous ha colpito il centro di controllo dell'agenzia spaziale russa Roscosmos. Lo scrive Anonymous dal suo profilo Twitter. "La Russia - si legge -non ha più il controllo sui propri satelliti spia".

Estratto dell'articolo di Floriana Bulfon e Giuliano Foschini per “la Repubblica” l'1 marzo 2022.

Per esempio: sono entrati nel portale della compagnia ferroviaria bielorussa e hanno fermato i treni che portavano le truppe di Putin al confine con l'Ucraina. Per farli ripartire, i macchinisti sono stati costretti a riattivare il sistema manuale in disuso ormai da anni. Ancora: hanno bucato il server della storica agenzia di stampa russa, la Tass. 

E in conclusione di una notizia hanno aggiunto l'elenco - censurato a Mosca - delle perdite «delle Forze Armate della Federazione russa: 4300 uomini, 27 aerei, 26 elicotteri, 143 carri armati».

Nei giorni scorsi erano arrivati in televisione, prima facendo trasmettere ai canali nazionali russi gli inni nazionalisti ucraini e poi le immagini degli assalti ai civili. 

Ogni ora si moltiplicano le notizie sulle infrastrutture "bucate": banche, aziende di energia e petrolio, persino il colosso Gazprom, al cui interno sarebbero riusciti a far scoppiare un incendio.

In questi giorni orrendi di guerra, si pronuncia spesso una parola, "cyber", alla quale, però, in molti fanno fatica a dare una collocazione. Perché detta così sembra quasi un non definito war game. In realtà di "game" non c'è proprio nulla.

Queste ore stanno infatti dimostrando come quel conflitto cominciato sulla rete, in silenzio, ormai mesi fa sia diventato cruciale quanto quello sul campo. In grado di orientare il corso delle cose e di essere letale quanto lo sono, purtroppo, le armi tradizionali.

Tanto che c'è qualcuno che si spinge a ipotizzare, addirittura, che i soldati informatici potrebbero avere un ruolo anche nella partita nucleare (ieri sono stati pubblicati 40 mila documenti riservati e attribuiti all'Istituto di Sicurezza nucleare di Mosca). Se però è chiara la portata dello scontro, meno limpidi sono gli schieramenti in campo. 

Perché, come ha spiegato il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, è vero che un attacco cyber a un paese Nato può innescare l'articolo 5 del Trattato, cioè l'intervento da parte di altri Stati membri.

Ma è altrettanto vero che in questo campo, dietro la maschera è difficile essere veramente certi di chi ci sia. I primi a muoversi sono stati nelle scorse settimane gruppi vicini alla Russia. 

Su tutti il Conti Group, storicamente amici del Cremlino. Hanno attaccato per lo più infrastrutture ucraine: banche, società energetiche. Hanno preso informazioni e compiuto qualche gesto dimostrativo. 

Gli avversari sono, chiaramente, gli ucraini. Che dalla loro hanno i cyber attivisti bielorussi anti-Lukashenko. La vera novità è, però, l'entrata in campo dei due colossi: Anonymus e Atw (Against the West). «Questi gruppi - spiega Stefano Mele, avvocato dello studio Gianni &Origoni, tra i principali esperti italiani del settore - si muovono contro la legge.

Chiara Baldi per lastampa.it l'1 marzo 2022. 

Lo avevano annunciato su Twitter – la loro principale piattaforma di comunicazione – lo scorso venerdì 25 febbraio, a neanche 24 ore dall’ingresso dei carri armati russi in Ucraina, mentre erano in corso i primi bombardamenti: quella alla Russia di Putin sarà (anche) una «cyberguerra».

«Anonymous – si leggeva nel tweet sul loro account seguito da oltre 7 milioni di persone – è attualmente coinvolto in operazioni contro la Federazione russa. Le nostre operazioni prendono di mira il governo russo. È inevitabile che anche il settore privato ne risentirà molto».

La ragione, secondo il collettivo di hacker più famoso e battagliero al mondo, è semplice, e la spiegano loro stessi: «Mettetevi nei panni degli ucraini che vengono bombardati in questo momento. Insieme possiamo cambiare il mondo, possiamo resistere a qualsiasi cosa. È tempo che il popolo russo si unisca e dica no alla guerra di Vladimir Putin. Siamo Anonymous. Siamo una legione. Aspettaci».

E la prima azione era stata colpire il sito web «della stazione di propaganda russa “Russia Today” in risposta alla brutale invasione dell'Ucraina da parte del Cremlino». Con l’unico obiettivo, dichiarato davanti al mondo intero, di far cadere Putin. 

«Non è ora di rovesciare il tuo governo aggressivo in modo da poter vivere tutti in pace?», hanno scritto gli hacker qualche giorno fa sempre su Twitter, usando l’eloquente hashtag #UpTheRebels. 

Per questo il collettivo si è rivolto a tutti gli altri pirati informatici: «Hacker di tutto il mondo: prendete di mira la Russia nel nome di Anonymous: fategli sapere che non perdoniamo e non dimentichiamo».

Poche ore dopo il primo attacco informatico, Anonymous ha poi tirato giù anche il sito del ministero della Difesa russo e ne ha diffuso il database contenente telefoni, posta e nomi di dipendenti del Ministero (diffusione che, però, la Russia ha sempre negato). 

Era stato poi il turno del sito web del Cremlino: «Abbiamo mandato offline i siti governativi e girato le informazioni ai cittadini russi in modo che possano essere liberi dalla macchina della censura di Putin», avevano comunicato gli hacker di Anonymous, aggiungendo di star lavorando per «garantire al meglio la connessione online del popolo ucraino». Sabato, poi, era stata la volta della piattaforma online dell'Agenzia spaziale russa (roscosmos.ru) e al sistema ferroviario rzd.ru.

Domenica, poi, un nuovo attacco hacker contro un sito della rete di controllo del gas russo: il Russian Linux terminal di Nogir, nel nord dell'Ossezia. «Abbiamo cambiato i dati e alzato così tanto la pressione del gas da causare quasi un incendio. Ma così non è stato per la rapida azione di un responsabile», hanno scritto su Twitter. 

Poi hanno reso irraggiungibili circa 300 siti internet di compagnie, banche e media statali russi, tra cui quelli dei colossi energetici Gazprom, Lukoil e Rosneft e quello dell'agenzia stampa Tass. E soprattutto il sito del ministero dell'Energia russo. «Tango down», hanno twittato, cioè «Obiettivo centrato». 

Il video esplicativo

In un video di oltre tre minuti, poi, avevano chiarito le ragioni dell’operazione chiamata «OpRussia»: in qualità di attivisti, non rimarrà inattivo mentre le forze russe continuano ad uccidere persone innocenti che cercano di difendere la propria patria. Il messaggio è rivolto anche a tutti i soldati russi a cui viene chiesto di deporre le armi e di ritirarsi dall'Ucraina, in quanto «i crimini di Putin non devono essere anche i loro».

Come collettivo, Anonymous si propone di aiutare a fornire informazioni valide al popolo russo sulle «folli» azioni di Putin, provando anche ad aiutare le persone dell'Ucraina fornendo pacchetti di assistenza, cercando di mantenere aperti i canali di comunicazione e aiutare ad offuscare le loro comunicazioni da «occhi indiscreti». 

Un’azione, quella di Anonymous, che vuole in qualche modo contrastare la censura russa verso le piattaforme social: nei giorni scorsi Putin aveva infatti annunciato di aver bandito Facebook e poi anche Twitter. 

Non solo Russia

Gli attacchi informatici non si limitano alla sola nazione guidata da Putin: anche la Bielorussia, alleata della Russia, sta subendo da ore attacchi hacker dal collettivo. Il primo è stato contro le ferrovie bielorusse affermando che «tutti i servizi sono fuori uso» e resteranno «disattivati finché le forze russe non lasceranno il territorio della Bielorussia», mentre il secondo è avvenuto contro le banche del paese guidato da Aleksandr Lukashenko, fedelissimo di Putin.

L'appello del governo ucraino

D'altronde, sabato 25 febbraio era arrivata la “chiamata alle armi digitali” del ministro ucraino per la trasformazione digitale, Mykhailo Fedorov, che su Twitter aveva annunciato che la stessa Ucraina sta creando un «esercito informatico» per «continuare la lotta sul cyber fronte» contro la Russia. 

In un tweet, Fedorov aveva anche incluso un link ad una chat di Telegram dove si incoraggiano hacker ad attaccare aziende russe dell'energia e della finanza. La lista include il gigante del gas Gazprom e banche come Sberbank e VTB. 

Estratto dell’articolo di Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 19 marzo 2022.

«Combattete con tutti i mezzi a disposizione», ha chiesto il presidente Zelensky al suo popolo aggredito. Con i fucili, prima di tutto, perché la guerra è guerra e si fa così. Ma, in mancanza di altro, va bene anche il pc di casa. Esiste in Ucraina un esercito ombra che non spara ai russi e però li attacca. Come le Forze di difesa territoriale, è composto solo di volontari. Sono hacker professionisti, anche stranieri, e al loro fianco lavorano studenti, professori, ingegneri, pensionati, manager, chiunque, in altre parole, sappia smanettare col computer abbastanza da provocare un danno a qualcuno. Qualcuno, diciamo, dalle parti di Mosca.

Anton Gryb ha 19 anni e da un villaggio a centro chilometri a sud di Kiev dove si è rifugiato, assiste allo scempio, giorno dopo giorno, della sua Kharkiv. «Prima del 24 febbraio frequentavo la facoltà di Scienze informatiche e lavoravo in una società che si occupa anche di sicurezza cibernetica. Non so come si impugna un kalashnikov e non mi vedo al fronte, però non volevo neanche rimanere inerte, quindi con i miei due pc, che ho potenziato comprando a mie spese servizi di cloud, partecipo alle missioni».

Anton dice che non è poi così difficile farlo e comunque ha scritto su Telegram un documento con tutte le istruzioni. «Da quando riceviamo l'indirizzo web a quando buttiamo giù il portale passano al massimo 15 minuti. Siamo tantissimi, il numero è la nostra forza anche se, a mio parere, solo il dieci per cento degli iscritti al nostro canale ha competenze di un certo livello. E temo pure che ci siano dei russi infiltrati». 

Il cyber-esercito è nato nel terzo giorno del conflitto su iniziativa del ministero della Trasformazione digitale e ha raggiunto le dimensioni di un'armata: 309 mila utenti, a cui ogni mattina il governo, attraverso il canale Telegram "IT-Army of Ukraine", invia la lista dei target: siti istituzionali, banche, pagine dei politici, social network, giornali e televisioni. «Lo scopo è duplice: destabilizzare il funzionamento dei portali chiave di Russia e Bielorussia, e, contemporaneamente, condurre campagne mediatiche per far emergere la verità », spiegano dal ministero.

Bersagliano siti web e servizi online, mandandoli in tilt. Tecnicamente si definiscono DDoS ( Distributed denial of service ) e sono il livello base della pirateria informatica, però sono riusciti a bloccare per alcune ore le linee del colosso petrolifero Gazprom, della più importante banca di Stato russa (Sberbank), del Penitenziario federale e dell'Fsb, l'intelligence interna. (…)

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 20 marzo 2022.

Il deep fake russo che fa dire a un'immagine digitale di Zelensky, ben riprodotto ma dai movimenti innaturali e la voce incolore, che per l'Ucraina è venuto il momento di deporre le armi, ha l'efficacia di un semplice petardo nella feroce guerra scatenata dal Cremlino: consapevole dell'abilità dei russi nel seminare il caos diffondendo notizie false, il team del presidente ucraino aveva già avvertito i cittadini che sarebbe arrivato un attacco di infowar di questo tipo e nel giro di pochi minuti ha reagito con una videosmentita del vero Zelensky. Le reti sociali, da Facebook a YouTube hanno poi eliminato il falso dalle loro piattaforme.

Deep fake

Mentre Zelensky liquida il primo tentativo della storia di usare un deep fake come un'arma da guerra definendolo una «provocazione puerile» e mentre gli analisti si chiedono perché l'attesa e temuta offensiva russa di cyberwar non si sia fin qui materializzata salvo qualche tentativo di disinformazione con immagini false e messaggi automatici diffusi nelle reti sociali da bots , ora sono gli ucraini a cominciare a usare l'intelligenza artificiale: grazie all'assistenza di società tecnologiche americane, infatti, il governo di Kiev sta ottenendo l'accesso alla potente e controversa tecnologia del riconoscimento facciale.

Per fare cosa? In primo luogo per dare un nome ai soldati russi morti in guerra e per controllare i passaggi ai check point, evitando, così, l'infiltrazione di spie russe dotate di documenti falsi. Ma ci sono molti altri impieghi possibili.

Il governo ucraino non dice molto, ma fin dall'inizio del conflitto ha puntato sul digitale anche grazie alle buone conoscenze informatiche di alcuni suoi giovani ministri.

L'uomo chiave

La figura chiave è quella del vicepremier Mykhailo Fedorov: un 31enne imprenditore delle start up tecnologiche al quale è stata affidata la responsabilità della trasformazione digitale dell'Ucraina.

Uomo decisivo anche nell'adozione del riconoscimento facciale: lui tace, ma a parlare è la Clearview AI, la società americana che ha messo a disposizione del governo ucraino il suo software più avanzato in questo campo e che ora, evidentemente, vuole farsi pubblicità. 

Avendo accumulato un database di oltre 10 miliardi di foto, molte delle quali vengono dall'archivio di VKontakte, una specie di Facebook russa, Clearview ritiene di poter dare un nome a tutti i soldati russi impegnati nell'offensiva in Ucraina. Gli uomini di Zelensky stanno usando questa tecnologia per identificare i militari di Putin morti in modo da poter avvertire le famiglie.

Mossi dalla speranza di alimentare, in Russia, un'onda di ostilità al conflitto, più che da motivi umanitari. 

Database

L'uso del riconoscimento facciale ai posti di blocco è ipotizzato dalla stessa Clearview, ansiosa di vantare le potenzialità della sua tecnologia e di moltiplicare i servizi offerti. In una presentazione a porte chiuse agli investitori (la cui registrazione è stata arrivata al Washington Post che l'ha pubblicata) Clearview afferma che entro un anno arriverà a costruire un database di ben 100 miliardi di foto.

Se sono veri i numeri del database in costruzione (la società potrebbe aver esagerato per attrarre gli investitori) presto Clearview disporrà, in media, di 14 immagini per ognuno dei 7 miliardi di abitanti del Pianeta. 

La società, che ha comprato gli archivi fotografici delle reti sociali, zeppi di immagini dei loro utenti, è ora in grado di proporre un modello di sorveglianza universale che spaventa anche i governi clienti di Clearview.

Che ora parlano, tardivamente, di regolamentazione. Aiutare l'Ucraina può essere anche un modo per evitare regole e limiti: ci si presenta come azienda patriottica e si cerca di far dimenticare il carattere enormemente invasivo della propria tecnologia. 

Striscia la notizia, ecco le nuove armi usate nella cyberguerra tra Russia e Ucraina. Libero Quotidiano il 28 febbraio 2022.

Questa sera, lunedì 28 febbraio, a Striscia la notizia l’inviato Marco Camisani Calzolari spiega il ruolo centralissimo - nel bene e nel male - del digitale nel conflitto tra Russia e Ucraina. Criptovalute, blockchain e Nft: grazie a queste nuove tecnologie si stanno raccogliendo donazioni per l’esercito e il popolo ucraino.

Si è schierato anche il movimento decentralizzato di hacker Anonymous, che ha dichiarato guerra, anzi, cyberguerra, alla Russia. Dall’altra parte, però, Vladimir Putin ha già dimostrato di potersi disconnettere dal resto del mondo, creando una rete Internet interna, e ha lanciato contro l’Ucraina il primo malware ufficiale della guerra: Hermetic Wiper.

Tra l'altro proprio la Cnn ha riportato, proprio oggi, che diversi siti web dei media russi sembrano essere stati violati e almeno tre hanno visualizzato un messaggio contro la guerra anti-putin. “Cari cittadini. Vi esortiamo a fermare questa follia, a non mandare a morte certa i vostri figli e mariti. Putin ci fa mentire e ci mette in pericolo”, afferma un messaggio scritto in russo sui siti web di Forbes Russia, Fontanka, Takie Dela , visionati dalla Cnn.

Gli scenari della Cyberwar. Anonymous scende in guerra contro Putin: chi c’è dietro il collettivo e davvero sta vincendo la guerra cibernetica? Piero de Cindio su Il Riformista il 28 Febbraio 2022.  

E’ scoppiata la guerra in Ucraina e la novità è rappresentata dalla sezione cibernetica di un atavico conflitto mondiale. In questi giorni i media di tutto il mondo sono concentrati sulle azioni che attori statali delle divisioni cibernetiche sono i protagonisti delle cronache con attacchi alle infrastrutture di rete, pubblicazione di dati sensibili trafugati e azioni di spettacolo come il videomessaggio diffuso da Anonymous. Il gruppo di hacktivisti ha buttato giù i siti della tv Russia Today e del Cremlino per poi incidere sulla rete informatica dell’infrastruttura bielorussa e pubblicare 200 gb di dati di un’azienda che produce armi per Lukashenko.

“Il campo cibernetico è affascinante perché nuovo, ma non si è rivelato per fortuna come ci è stato prospettato” dichiara a Il Riformista il data journalist Livio Varriale “da aerei che possono schiantarsi a dispositivi che possono prendere fuoco, siamo ai soliti attacchi che il quotidiano ci riporta attraverso i gruppi specializzati in criminalità informatica. L’unica cosa tangibile è l’attività di propaganda che nel nostro territorio cibernetico europeista è sicuramente a favore della NATO. E’ il primo caso di un Governo in guerra che pubblica su un canale YouTube: lo stesso social network che vieta visibilità alle minoranze, bannandole, che sono in sofferenza da anni nel mondo”. Secondo Varriale “la Russia sembra soccombere al momento della guerra cibernetica, ma la violazione dei siti Internet mi sembra la strategia sovietica che bruciava i villaggi nel 700 per far avanzare il nemico con il fine di indebolirlo”.

Il ricercatore informatico Odisseus minimizza il clamore per l’attività cibernetica “da un lato abbiamo l’Armata Rossa che sta mietendo vittime, lanciando missili, distruggendo navi ucraine e infrastrutture militari, dispiegando oltre centomila uomini in territorio ucraino che seminano morte e distruzione; e dall’altro abbiamo qualcuno che inibisce qualche connessione web verso siti russi che non interessano a nessuno: qualcuno riesce a percepire la sproporzione? E l’inibizione di qualche connessione web sarebbe una notizia? Sarebbe questa la Cyberwar? Diciamoci la verità, i russi hanno dalla loro parte i migliori hacker del mondo per bravura e capacità tecniche, e adottano una politica di reclutamento molto diversa da quella italiana. Ricordo a tutti che Baldoni ha annunciato che l’Italia è a caccia di cervelli per il grande gioco della cybersecurity, in cui, in soldoni, si spertica per assumere sbarbatelli neolaureati. I russi, al contrario, reclutano hacker veri che si sono distinti per i loro crimini informatici attraverso l’intero globo terracqueo. Per capirci, mentre gli americani dell’FBI cercano di farli atterrare in uno dei paesi amici per poterli finalmente arrestare ed estradare negli USA, il governo russo li cerca per arruolarli e dargli un lavoro. E una nazione con questo tipo di “visione” sulla cyber, pensate che si faccia intimorire, o peggio, mettere nel sacco da Anonymous o da chi c’è dietro? Siamo seri. Si potrebbe parlare di Cyberwar se qualcuno riuscisse a manomettere le centrali nucleari russe o gli armamenti nucleari sovietici: c’è un’azione che assomiglia a questi due ultimi esempi nelle cronache recenti? No? Allora continuate a parlare di malware, di wiper, di ransomware a scrivere newsletters a caccia di soldi e lasciate la Cyberwar riposare in pace“.

Anche secondo Pierluigi Paganini, CEO Cybhorus esperto di cyber security ed intelligence, la chiamata alle armi di Anonymous ”ha sicuramente un impatto importante sul conflitto sotto il profilo tecnico quanto mediatico. Gli attacchi del popolare collettivo rappresentano in ogni caso un problema serio per organizzazioni governative e soprattutto aziende private Russe. Una violazione di dati potrebbe avere un impatto devastante su multinazionali come Gazprom e potrebbe alimentare una successiva ondata di attacchi da parte di attori statali e sindacati criminali in cerca di soldi facili”. Argomento più importante è che altro aspetto sottovalutato dai media “è l’utilizzo dell’operazione lanciata da Anonymous come paravento per altre operazioni che possono essere lanciate da altri attori statali che potrebbero unirsi alle offensive, sfruttarne gli effetti, per condurre operazioni parallele di spionaggio e sabotaggio. Infine, altro effetto importante della discesa in campo di Anonymous è quello di catalizzare l’attenzione di molti collettivi di hacker e comunità di esperti su scala mondiale. Tanti esperti, pur non essendo membri del collettivo, stanno fornendo a vario titolo il supporto alle operazioni del gruppo nelle ultime ore”.

Piero de Cindio. Esperto di social media, mi occupo da anni di costruzione di web tv e produzione di format

La video minaccia di Anonymous a Putin per la guerra in Ucraina: “Contro di noi non puoi vincere, colpiremo le tue infrastrutture”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Febbraio 2022.

Il video termina con il collettivo che afferma di sostenere il popolo ucraino, il popolo russo che si oppone “al dittatore Vladimir Putin” e tutte le persone del mondo che vogliono cambiare il posto in cui viviamo in un posto migliore. Nelle ultime ore sono stati attaccati e resi indisponibili alcuni siti russi, tra i principali si evidenziano quelli del Cremlino, del governo, di Gazprom. Inoltre è stato attaccato e reso indisponibile anche il sito istituzionale della Repubblica cecena

Il collettivo internazionale di hacker e attivisti etici di Anonymous ha spiegato in un video di oltre tre minuti diffuso sui suoi canali sociali i motivi dell’operazione denominata ‘OpRussia’ e la sua posizione nei confronti del presidente russo, Vladimir Putin. Nel video si rivendicano attacchi informatici contro la rete propagandistica russa e molti siti del governo di Mosca. In qualità di attivisti, il collettivo afferma che non rimarrà inattivo mentre le forze russe continuano ad uccidere persone innocenti che cercano di difendere la propria patria. 

Il messaggio è rivolto anche a tutti i soldati russi a cui viene chiesto di deporre le armi e di ritirarsi dall’Ucraina, in quanto “i crimini di Putin non devono essere anche i loro“. Come collettivo Anonymous si propone di aiutare a fornire informazioni valide al popolo russo sulle “folli” azioni di Putin, provando anche ad aiutare le persone dell’Ucraina fornendo pacchetti di assistenza, cercando di mantenere aperti i canali di comunicazione e aiutare ad offuscare le loro comunicazioni da “occhi indiscreti“. 

Secondo quanto riportato nel video, dall’inizio del conflitto contro il popolo ucraino, Putin avrebbe iniziato a censurare Facebook e Twitter in Russia, a tal fine il collettivo suggerisce l’utilizzo in Russia della rete Tor o di una Virtual Private Network per aggirare la censura da parte dei provider internet e accedere ai contenuti. Il video termina con il collettivo che afferma di sostenere il popolo ucraino, il popolo russo che si oppone “al dittatore Vladimir Putin” e tutte le persone del mondo che vogliono cambiare il posto in cui viviamo in un posto migliore. Nelle ultime ore sono stati attaccati e resi indisponibili alcuni siti russi, tra i principali si evidenziano quelli del Cremlino, del governo, di Gazprom. Inoltre è stato attaccato e reso indisponibile anche il sito istituzionale della Repubblica cecena. Redazione CdG 1947 

Chi è Anonymous, il collettivo di hacker che si è schierato accanto all’Ucraina. Alessio Lana su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.

Gruppo informale di hacker, ha dichiarato guerra alla Russia. Negli anni ha sferrato attacchi a enti e istituzioni abbracciando diverse rivolte politiche.

Hanno sferrato i primi attacchi hacker poco prima dell’invasione, poi hanno dichiarato guerra alla Russia e ora si sono infiltrati nelle Tv e nei siti di Stato. Dietro,a quanto pare c’è sempre la firma di Anonymous, collettivo di hacker attivisti (o hacktivisti, come si autodefiniscono) difficile da definire. Più che chiedersi chi è Anonymous, dovremmo chiederci cos’è. Questo gruppo informale infatti accetta chiunque ne abbracci i valori e abbia le capacità tecniche o comunicative per seguirne la linea, atteggiamento che ha dato vita anche a tanti emuli.

In nome della maschera

Tutti, in teoria, possono essere Anonymous (che non a caso significa «anonimo») se disposti a difendere la libertà di pensiero e di espressione, la base del collettivo. Emersi nel 2003, gli hacktivisti si distinguono per aver adottato la maschera di Guy Fawkes — il più noto dei cospiratori cattolici che tentarono di assassinare Giacomo I d’Inghilterra nella congiura delle polveri del 1605 — e tornata in auge grazie al fumetto (e al film) V per Vendetta. Questo è diventato un vero marchio distintivo non solo degli hacktivisti e dei loro supporter ma anche dei tanti «falsi» che in realtà non agiscono per conto o in nome di Anonymous.

Le armi di Anonymous

Le armi a disposizione di Anonymous sono molto variegate e dipendono dall’obiettivo. La principale è il DDoS (Distributed Denial of Service), in cui una serie di computer (anche di utenti inconsapevoli) si connettono contemporaneamente a uno o più server bloccando siti e servizi online. A volte i siti vengono modificati per mandare un messaggio o come sfottò verso il legittimo proprietario. Come abbiamo visto nel caso russo, Anonymous ha anche la capacità di infiltrare le televisioni tradizionali e talvolta gli hacktivisti aiutano le forze di polizia con indagini che hanno portato all’arresto di criminali.

Gli attacchi più noti

Questa formazione fluida, senza capi né struttura, ha reso difficile capire quando un attacco è stato sferrato «davvero» da Anonymous. Tra gli attacchi più celebri imputanti al collettivo c’è sicuramente il Chanology del 2008 che ha abbattuto i sistemi informatici della chiesa di Scientology. Di carattere più politico il supporto del 2010 a Wikileaks con relativi attacchi ad Amazon, PayPal, MasterCard e Visa che non permettevano di effettuare donazioni al sito. Sempre del 2010 Anonymous ha aiutato la rivolta tunisina attaccando otto siti governativi tunisini e fornendo gli strumenti per aggirarne la censura mentre l’anno dopo si è occupata dell’Egitto mandando offline i siti governativi finché Hosni Mubarak non si era dimesso.

Anonymous in Italia

A livello italiano Anonymous ha agito fin dal 2011 con un attacco a Enel seguito a stretto giro da Agcom (l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni), dalla manomissione dei siti di alcuni politici come Maurizio Paniz e Paola Binetti e quello di Miss Padania 2010, foriero di tanti meme. Poi si sono lanciati più volte su siti e blog di Trenitalia, Equitalia e Vittorio Sgarbi, su quelli dei ministeri dell’Interno e della Difesa, di Expo 2015 e del Vaticano, dei carabinieri e della polizia.

I problemi con la legge

Il carattere informale di Anonymous ha reso difficile identificare gli hacker a livello globale ma negli anni ci sono stati tanti arresti di rilievo. Il più noto è certamente quello di Topiary, al secolo Jake Davis, che aveva alzato il velo su questo mondo così difficile da leggere. Gli investigatori inglesi nel 2011 si erano trovati davanti un adolescente timido che viveva nelle remote isole Shetland e svolgeva la maggior parte della sua vita online. Una scoperta che aveva alimentato tanti tabloid scandalistici. A livello italiano invece avevano fatto rumore Aken e Otherwise, un 31enne di Livorno e un 27enne della provincia di Sondrio.

Intervista a Fabio Pietrosanti del centro Hermes. “Ecco come Putin può disconnettere l’Italia”, il rischio dell’antivirus Kaspersky utilizzato dagli enti pubblici. Nicola Biondo su Il Riformista il 28 Febbraio 2022. 

Fabio Pietrosanti è un attivista digitale, presidente del centro Hermes per i diritti digitali e un passato da hacker. Il suo sguardo sulla guerra è asimmetrico, chirurgico. L’allarme che lancia è pesante come un attacco militare, perché lo spazio cibernetico è campo di guerra. “Tantissimi enti pubblici, piccole e grandi aziende italiane utilizzano un antivirus russo, un software che ogni giorno si collega a Mosca per effettuare gli aggiornamenti. Devo continuare?”.

Siamo qui per questo. Partiamo dal nome di questo software e da chi lo gestisce.

“Si chiama Kaspersky e il suo inventore è un ex ufficiale del KGB”.

Quanto è diffuso in Italia e quali sono le realtà italiane che lo usano?

“Non sono noti i numeri delle installazioni di Kaspersky in Italia, possiamo ragionevolmente stimare da qualche centinaia di migliaia a qualche milione di computer che ogni giorno si collegano a Mosca per scaricare gli aggiornamenti.”

Anonymous scende in guerra contro Putin: chi c’è dietro il collettivo e davvero sta vincendo la guerra cibernetica?

Ci sono enti pubblici che usano Kaspersky?

“Secondo la mia analisi svolta nel 2018 il suo utilizzo era pervasivo addirittura in istituzioni preposte alla sicurezza nazionale. Oggi, seppur senza indicazioni ufficiali del governo, alcuni apparati di sicurezza l’hanno abbandonato. Ma i dati sono in costante aumento”.

Parliamo di questi numeri allora.

“Ad oggi stando al portale Contratti Pubblici oltre 2270 PA hanno acquistato il software Russo. Ad Ottobre 2021 il Ministero dell’Interno ha rinnovato il suo utilizzo per 36 mesi per non parlare della Guardia di Finanza e della Agenzia per la Coesione, oltreché di molte Regioni che custodiscono i sistemi sanitari. Ma non bastano le PA, stando a Kaspersky c’è stata una crescita di oltre il 23% nelle vendite alle aziende, e questa informazione esatta dovrebbe essere oggi urgentemente richiesta da parte delle autorità.”

Quali sono i rischi?

“Il Governo Russo può ordinare a Kaspersky di rilasciare un aggiornamento software automatico, ordine a cui l’azienda non può sottrarsi. L’Italia potrebbe trovarsi centinaia di migliaia, se non milioni di computer, al servizio dell’azione militare e di intelligence Russa”.

Uno scenario da apocalisse digitale.

“Esattamente: Distruzione di banche dati e di sistemi informativi (ci ricordiamo dei sistemi della Regione Lazio?) a Spionaggio Digitale e devastazione delle reti di telecomunicazione. Niente di meno di quanto è già capitato all’Ucraina per mano Russa nelle scorse settimane.”

Kaspersky viene utilizzato anche in altri Paesi?

“Certamente è usato anche in altri paesi, seppur il suo impiego è stato sostanzialmente bloccato in Cina dal 2014 e in US dal 2017.

In Europa, nonostante la Commissione Affari Esteri del Parlamento Europeo con la mozione A8-0189/2018 ne abbia richiesto la messa al bando definendo l’azienda “malicious per i suoi legami con l’FSB russo”, hanno visto una azione esplicita di divieto dell’uso nei sistemi più sensibili solo da parte di Olanda, Inghilterra e Lituania.

“Oggi nessun paese Europeo può più permettersi la diffusione pervasiva di agenti software di origine Russa dotati di capacità autonome di auto-aggiornamento, soprattutto in esecuzione sui computer con il massimo livello di privilegio amministrativo, e quindi con molte più possibilità di occultare funzionalità nascoste”.

Perché l’Italia è così distratta su questi temi?

“C’è da domandarsi perché il Copasir non svolge un’analisi approfondita? Perché nessun Parlamentare si interessa ad un argomento così importante? Questo è il Parlamento che vuole farci votare online, ha presente di cosa stiamo parlando?”

Kaspersky è uno sponsor Ferrari se non sbaglio.

“La Ferrari, oltre a dichiarare l’uso del software Russo per la propria difesa digitale, accompagna l’autorevolezza del proprio brand a quello di Kaspersky con una sponsorizzazione pluriennale. Ma dietro quel logo c’è l’apparato di intelligence russo.”

Lei ne è certo?

“C’è un’evidenza messa in luce da Stefano Quintarelli, uno dei massimi esperti di Rete in Italia, oggi su Il Post: fino a pochi giorni prima dello scoppio del conflitto in Ucraina il sito della Difesa russa veniva gestito dai servizi rilasciati da Kaspersky. Noi facciamo scansionare tutti i giorni i nostri computer da questa entità”.

Il prezzo di questo servizio è concorrenziale. C’è un motivo anche politico?

“Quando un prodotto software o un servizio viene anche erogato ad un prezzo sensibilmente più basso di quello medio di mercato, è legittimo domandarsi se la competizione sia figlia di una volontà commerciale o di una attenta politica di diffusione di agenti software, in grado di adeguare le proprie funzionalità in funzione del contesto geopolitico, rischio oggi assolutamente pragmatico”.

Lei sta dicendo che abbiamo fatto entrare un trojan horse nel cuore del nostro apparato di sicurezza?

“Certamente. Interno, Finanza, Esteri, Istat, CNR, Istituto di Fisica Nucleare, Regione Emilia Romagna, Autorità Garante Concorrenza e Mercato ed altre migliaia di enti pubblici hanno acquistato tecnologie Kaspersky e le hanno ora in utilizzo”.

Quindi qualsiasi informazione classificata è vulnerabile da Mosca?

“C’è di più, l’Italia ha certificato l’uso di Kaspersky proprio un mese fa, il 31/01/2022 secondo lo standard Common Criteria EAL2+, requisito necessario alla fornitura di tecnologie negli ambiti “Classificati”.

Ciò significa che Kaspersky è già in utilizzo, o prossimo ad essere usato, anche nel novero dei più sensibili ambiti di comunicazione classificata Italiani, altrimenti perché avrebbe conseguito tale certificazione?”

Non abbiamo una esatta percezione della sua diffusione a livello privato e aziendale”.

Quali possono essere le contromisure?

“Nel lungo periodo, attuare strategie di Sovranità Digitale, secondo i paradigmi definiti nel novero Comunitario, e fare scelte di politica di sicurezza nazionale basate sul buon senso, che includano come già in altri comparti della sicurezza nazionale come gli armamenti e le tecnologie di telecomunicazione classificate, la verifica e approvazione d’uso delle tecnologie più a rischio paese.

Nel breve periodo, attuare una azione urgente e incisiva di bonifica, eliminazione e sostituzione del software Kaspersky.

Affinché ciò accada è necessario che il Governo e tutte le istituzioni, inclusa la Agenzia per la cybersicurezza nazionale, prendano consapevolezza del rischio ed emanino direttive ad-hoc”.

Come giudica le attività di Anonymus?

“Posto che le attività di Anonymous, in un contesto di politica internazionale, nascondono spesso l’azione delle divisioni di cyber-intelligence di stati che preferiscono a questi attribuire le responsabilità, siamo di fronte al primo vero grande conflitto digitale e diffuso.

L’ucraina stessa ha creato la propria IT Army diffusa, una unità digitale che ha chiamato a raccolta tramite telegram centinaia di migliaia di esperti IT e hacker per contrattaccare le infrastrutture IT di Russia e Bielorussia.

Oggi il mondo assiste ad una “chiamata alle armi digitali” da parte dell’ucraina, per sabotare i sistemi Russi come forma di deterrenza rispetto all’invasione in atto. What a time to be alive!

Queste sono le domande che abbiamo rivolto a Kaspersky tramite Noesis che cura l’ufficio stampa in Italia.

1) Se hanno ricevuto disdette da clienti italiani dopo lo scoppio della guerra in Ucraina;

2) Kaspersky, laddove ricevesse richieste dalle autorità russe di intervenire sui prodotti installati in un paese, quale tipologia di reazione avrebbe a tutela dei propri clienti? Sarebbe nella condizione di opporsi e/o di renderlo noto?

3) Quali sono i rapporti tra l’azienda e il ministero della Difesa russo;

4) Quali sono i rapporti dei vertici dell’azienda con il Presidente Putin.

Nicola Biondo

Rischio cybersicurezza. La sicurezza italiana in mano a Kaspersky, l’azienda: “Nessun legame con Putin”. Ma i conti non tornano…Nicola Biondo su Il Riformista il 2 Marzo 2022. 

Seppur timidamente in Italia la questione del software russo Kaspersky sta emergendo in tutta la sua gravità. Quello che secondo alcuni esperti di cybersecurity sarebbe un “cavallo di troia” ben impiantato nel cuore della pubblica amministrazione e della sicurezza italiana, oltre che in qualche milione di dispositivi privati, è diventato tema politico con l’invasione russa dell’Ucraina. La denuncia fatta da Il Riformista – con l’intervista a Fabio Pietrosanti– ha causato un’interrogazione parlamentare del gruppo ambientalista alla Camera con primo firmatario Paolo Romano.

L’antivirus russo gira sui dispositivi della Pubblica amministrazione e nel cuore della sicurezza nazionale: dalla Regione Emilia Romagna, alla Sanità e al Viminale fino alla Finanza. Kaspersky peraltro è main sponsor della Ferrari, di cui cura anche la sicurezza informatica. Una vetrina sempre più difficile da mantenere con l’avvio delle sanzioni contro Putin e i suoi oligarchi.

Nelle scorse ore abbiamo posto quattro precise domande al colosso russo

In contemporanea il fondatore Eugene Kaspersky ha rotto il silenzio con un tweet che ha sollevato molte risposte piccate. L’ex-studente dell’Accademia del Kgb diventato uno degli oligarchi più potenti al mondo ha fatto un generico appello alla pace senza mai utilizzare la parola guerra.

Il Riformista ha chiesto all’azienda russa quali sono i rapporti con il Cremlino e il ministero della Difesa russo, se hanno avuto disdette dopo l’invasione dell’Ucraina e soprattutto se sarebbe in grado di opporsi ad una richiesta del governo di Mosca di intervenire sui suoi prodotti installati in ogni angolo del globo.

Le risposte non fanno chiarezza, anzi. Kaspersky sostiene che “l’azienda è una società internazionale privata, la cui holding è registrata nel Regno Unito“. Rimane incontrovertibile, come riporta il sito ufficiale del colosso russo, che il quartier generale si trova a Mosca: stando al profilo Linkedin della società risulterebbe che oltre 3.500 delle 3.619 persone lavorano nella capitale. Le risposte non sono altro che un copia/incolla delle Faq dal sito della casa madre. Kaspersky nega di aver avuto disdette a causa dello scoppio della guerra – “le operazioni procedono normalmente” – sostenendo di non aver “legami politici con nessun governo e collaborando con le forze di polizia internazionali nella lotta al cybercrimine“.

Sul tema più spinoso, quello di un concreto rischio che l’azienda possa essere il volano di una cyber guerra su richiesta del Cremlino la risposta è secca e anche qui si tratta di un copia/incolla: “La sicurezza e la privacy dei propri utenti e clienti è una priorità fondamentale. L’accesso ai dati degli utenti o all’infrastruttura dell’azienda non vengono fornite neanche alle forze dell’ordine o a organizzazioni governative. Kaspersky non è soggetta al Sistema russo di misure investigative operative (SORM) o altre legislazioni simili e non è quindi obbligata a fornire informazioni“.

Va da sé che “il sistema russo” a cui si fa riferimento non ha nessuna valenza in tempo di allerta militare o guerra: il rischio quindi che il regime di Putin possa imporre e ottenere l’uso dei prodotti di Kaspersky c’è, eccome.

Nessun legame infine ci sarebbe con la Difesa russa e più direttamente con Vladimir Putin, sostiene la nota. E questo come abbiamo detto non solo non è credibile ma non risponde a verità.

Secondo Stefano Quintarelli, uno dei pionieri della Rete in Italia, l’azienda russa ospita e “protegge” il sito del Ministero della Difesa di Mosca. Il link è diretto. Che Kasperskay sia un prodotto di successo è innegabile come è innegabile che fin dal 2017 è stato messo al bando in Cina e negli Usa e il Parlamento europeo lo ha definito “malicious“, dannoso, pericoloso.

Ma come è stato possibile che il software di un oligarca russo sia finito nel cuore dello Stato italiano? La risposta a questa semplice domanda l’ha rinvenuta Umberto Rapetto, uno dei più noti cyber-investigatori già alto ufficiale della Finanza, e si trova in un paper del Mise a cura della Direzione generale per le tecnologie e la sicurezza informatica.

Il responsabile che firma il rapporto per la certificazione per l’utilizzo dell’antivirus Kaspersky vanta nel suo cv queste quattro capacità nell’uso delle tecnologie informatiche: Windows, Office, posta elettronica e navigazione su internet. Forse abbiamo un problema.

Ecco di seguito il nostro carteggio con Kaspersky.

Kaspersky è una società internazionale privata, la cui holding è registrata nel Regno Unito. Come società privata, non ha legami politici con nessun governo e collabora con le autorità di molti paesi, nonché con le forze di polizia internazionali e le organizzazioni private e statali nella lotta al cybercrime. Nell’ambito di un’iniziativa denominata Global Transparency, dal 2018, i file dannosi e sospetti, condivisi volontariamente dagli utenti Kaspersky in Europa, Stati Uniti, Canada e svariati paesi dell’Asia Pacifica, vengono processati in due data center situati a Zurigo, in conformità con gli standard del settore garantendo i più elevati livelli di sicurezza.

L’azienda ha ricevuto disdette da clienti italiani dopo lo scoppio della guerra in Ucraina?

Le operazioni commerciali di Kaspersky procedono normalmente. L’azienda garantisce le sue attività verso i partner e i clienti, compresa la consegna e il supporto ai prodotti.

Kaspersky, laddove ricevesse richieste dalle autorità russe di intervenire sui prodotti installati in un paese, quale tipologia di reazione avrebbe a tutela dei propri clienti? Sarebbe nella condizione di opporsi e/o di renderlo noto?

Per Kaspersky la sicurezza e la privacy dei propri utenti e clienti è una priorità fondamentale. L’accesso ai dati degli utenti o all’infrastruttura dell’azienda non vengono fornite neanche alle forze dell’ordine o a organizzazioni governative. Kaspersky non è soggetta al Sistema russo di misure investigative operative (SORM) o altre legislazioni simili e non è quindi obbligata a fornire informazioni. Inoltre, la sicurezza e l’integrità dei suoi servizi dati e le pratiche di ingegneria sono state confermate da valutazioni di terze parti indipendenti, due organizzazioni di audit esterne indipendenti: attraverso l’audit SOC 2 (Service Organization Control for Service Organizations) di un revisore Big Four, che ha confermato la sicurezza del processo di Kaspersky per lo sviluppo e il rilascio di aggiornamenti AV contro il rischio di modifiche non autorizzate. I servizi dati di Kaspersky sono stati anche certificati da TÜV AUSTRIA secondo ISO/IEC 27001:2013.

Quali sono i rapporti tra l’azienda e il ministero della Difesa russo?

Kaspersky è un’azienda internazionale privata e non ha legami con nessun governo o agenzia governativa. È orgogliosa di collaborare con le autorità di molti paesi e con le forze dell’ordine internazionali nella lotta contro il crimine informatico. Kaspersky lavora con le autorità nel migliore interesse della sicurezza informatica internazionale, fornendo consulenze tecniche o analisi di esperti di programmi malevoli i per supportare le indagini sul crimine informatico e in conformità con le leggi applicabili.

Quali sono i rapporti dei vertici dell’azienda con il Presidente Putin?

Kaspersky, e il suo top management, non hanno alcun legame con il governo russo o qualsiasi altro governo, compresi i loro leader. Come anticipato invece collabora con le autorità di molti paesi, nonché con le forze di polizia internazionali e le organizzazioni private e statali nella lotta al cybercrime.

Kaspersky è una società internazionale privata, la cui holding è registrata nel Regno Unito. Come società privata, non ha legami politici con nessun governo e collabora con le autorità di molti paesi, nonché con le forze di polizia internazionali e le organizzazioni private e statali nella lotta al cybercrime. Nell’ambito di un’iniziativa denominata Global Transparency, dal 2018, i file dannosi e sospetti, condivisi volontariamente dagli utenti Kaspersky in Europa, Stati Uniti, Canada e svariati paesi dell’Asia Pacifica, vengono processati in due data center situati a Zurigo, in conformità con gli standard del settore garantendo i più elevati livelli di sicurezza.

P.S. Su un aspetto Kaspersky avrebbe avuto ragione a lagnarsi. Nel nostro pezzo di lunedì abbiamo riportato che il fondatore è stato un ufficiale del Kgb. Non è così: Kaspersky è stato allievo dell’Accademia del servizio segreto sovietico. Almeno su questo poteva correggerci ma non l’ha fatto: lo facciamo noi per rispetto dei fatti. Nicola Biondo

Da ansa.it il 23 marzo 2022.

E' ipotizzabile che l'attacco informatico alle Ferrovie che ha bloccato alcuni sistemi della società sia riconducibile alla Russia. 

La tipologia dell'attacco e il modus operandi con il quale è stato realizzato, sottolineano fonti qualificate della sicurezza italiana, sarebbero infatti riconducibili ad hacker russi. 

Secondo quanto si apprende da fonti qualificate, l'attacco sarebbe in corso da questa mattina e starebbe provocando diversi problemi in alcune stazioni. 

Secondo Ferrovie da stamattina sulla rete informatica aziendale "sono stati rilevati elementi che potrebbero ricondurre a fenomeni legati a un'infezione da cryptolocker". 

Al momento sono in corso verifiche. E' stata bloccata la vendita dei biglietti sia nelle biglietterie fisiche sia nei self service nelle stazioni, mentre funziona la vendita on line.

Attacco hacker alle ferrovie, Trenitalia bloccata: biglietterie e self service non vanno. «Chiesto riscatto». Alessio Lana, Paolo Ottolina e Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 23 Marzo 2022.

Disagi per un virus cryptolocker della famiglia dei ransomware. «Riscatto di 5 milioni di dollari, da pagare entro 3 giorni. Probabile si tratti di criminali comuni». È possibile acquistare i biglietti sull’app e sul sito online (o a bordo). 

Trenitalia e Rfi vittima di un attacco hacker. Dalla mattina di oggi, 23 marzo, biglietterie e self service sono state messe offline dalle stesse aziende per evitare la propagazione dell’infezione informatica e procedere alla bonifica, i cui tempi al momento non sono noti. I disservizi sono causati da un virus cryptolocker della famiglia dei ransomware (che cos’è) in grado di introdursi in una rete informatica per decriptare i dati sensibili e bloccarli, chiedendo poi un riscatto per rilasciarli e liberare il sistema. Un cyberattacco simile ad altri registrati in Italia negli ultimi mesi, come quello dell’estate scorsa alla piattaforma sanitaria della Regione Lazio che per un mese creò enormi danni anche alle prenotazioni per i vaccini anti-Covid e per le stesse prestazioni mediche.

«Chiesto un riscatto di 5 milioni di dollari»

Chi c’è dietro a questo attacco? Si era ipotizzato anche un coinvolgimento di un gruppo russo (collettivi di hacker russi come Conti sono specializzati proprio nei ransomware) ma secondo una nostra fonte, un professionista del mondo della sicurezza digitale, «l’origine sembra piuttosto legata a criminali comuni, che bloccano i sistemi per denaro. Nella schermata (che alleghiamo, ndr) i cybercriminali hanno chiesto a Rfi un riscatto di 5 milioni di dollari entro 3 giorni per sbloccare i computer criptati dal malware. Se il riscatto non sarà pagato entro 72 ore, la richiesta sale a 10 milioni di dollari». Gli esperti di sicurezza consigliano di non procedere mai al pagamento. Da parte sua, invece, Rete Ferroviaria Italia, attraverso un portavoce, non conferma di aver ricevuto richiesta di denaro. 

Spenti i terminali

L’attacco è scattato mercoledì notte contro la rete delle Ferrovie italiane, con la conseguente decisione dell’azienda di far spegnere subito i terminali informatici negli uffici a livello nazionale e con i problemi tecnici ai servizi per il pubblico, come i tablet a disposizione del personale di bordo e in banchina. Sono in corso indagini per risalire al gruppo di hacker che materialmente è entrato in azione: agenti della polizia postale stanno svolgendo una serie di accertamenti insieme con la protezione aziendale delle Ferrovie.

Come fare per i biglietti

«In via precauzionale sono state disattivate alcune utenze dei sistemi di vendita fisici di Trenitalia. Pertanto non è temporaneamente possibile acquistare titoli di viaggio nelle biglietterie e self service nelle stazioni, mentre è funzionante la vendita online», ha affermato in una nota Ferrovie dello Stato.

«Anche la prenotazione dei servizi delle Sale blu di Rfi potrebbe non avvenire con la consueta regolarità. I passeggeri sono autorizzati a salire a bordo treno e presentarsi al capotreno per acquistare il biglietto senza sovrapprezzo. Le disfunzioni registrate non impattano sulla circolazione ferroviaria che procede con regolarità», aggiunge la società.

Ransomware, che cos’è

Il malware di tipo CriptoLocker è un ransomware, ovvero una minaccia informatica che cifra i dati dei computer della vittima e li sblocca solo in caso si paghi un riscatto. Un sistema sempre più usato dai criminali informatici che aveva fatto clamore lo scorso anno con diverse agenzie pubbliche e aziende private colpite, anche con gravi ripercussioni. 

L’avviso ai dipendenti

Già nella mattinata sui computer dei dipendenti di Trenitalia e Rete ferroviaria italiana era comparso questo avviso: «Buongiorno, causa problemi di sicurezza della rete aziendale, si prega di spegnere i computer anche se presenti in modalità smart working. Grazie». Altri disservizi erano stati registrati lo scorso 17 marzo: i molti ritardi dei treni ad alta velocità avevano fatto pensare a un attacco ma Rfi aveva smentito, escludendo la matrice criminale.

Paolo Ottolina per il “Corriere della Sera” il 24 marzo 2022.

Trenitalia e Ferrovie dello Stato sono state colpite da un attacco hacker. Offensiva nel mondo digitale ma disagi in quello reale. In tilt, fin dalla mattina di ieri, biglietterie e macchine self service, messe offline dalle stesse aziende per evitare la propagazione dell'infezione informatica e procedere alla bonifica.

L'attacco è simile per modalità a quelli che nei mesi scorsi hanno colpito molte aziende e pubbliche amministrazioni come la Regione Lazio, che l'estate scorsa si ritrovò con la piattaforma sanitaria bloccata, con ricadute sulle prenotazioni per i vaccini anti Covid e per le stesse prestazioni mediche.

Una certezza è che si è trattato di un CryptoLocker, un software malevolo della famiglia dei ransomware. Ovvero di quei programmi creati ad arte per introdursi in una rete informatica da un pc, entrare poi in altre macchine, criptare e rendere inaccessibili una certa quantità di dati sensibili e poi chiedere un riscatto («ransom» in inglese) per liberare il sistema.

Chi c'è dietro a questo attacco? Nel mirino è finita un'infrastruttura sensibile ed è bene ricordare che, nell'attuale scenario di guerra, l'Agenzia per la cybersicurezza italiana ha mandato di recente avvisi per applicare una «postura di massima difesa cibernetica» attivando «tutte le misure di prevenzione e controllo più urgenti». 

In un contesto simile diventa fondamentale comprendere la motivazione del cyberattacco: ritorsione o semplice ricatto? I tecnici di Fs stanno lavorando con l'Agenzia per la cybersicurezza e con la Polizia postale: l'obiettivo primario è risalire agli indirizzi Ip e ai server utilizzati per l'attacco e individuare la porta di accesso utilizzata dagli hacker.

Al momento «non sussistono elementi che consentano di risalire all'origine e alla nazionalità dell'attacco informatico» dicono le Fs in una nota. Una fonte che lavora nel mondo della sicurezza digitale ci ha mostrato una schermata di una chat in cui veniva chiesto «un riscatto di 5 milioni di dollari, da pagarsi entro 3 giorni per sbloccare i computer criptati dal malware. Se il riscatto non sarà pagato entro 72 ore, la richiesta salirà a 10 milioni di dollari».

Gli esperti di sicurezza consigliano di non procedere mai al pagamento. Da parte sua, invece, Rete Ferroviaria Italia, attraverso un portavoce, non conferma di aver ricevuto richieste di denaro. Ma con questo tipo di malware è sostanzialmente una prassi.

Pierguido Iezzi, ceo di Swascan, polo italiano della cybersicurezza del Gruppo Tinexta, chiama in causa un gruppo di cybercriminali chiamato Hive. Incerta la nazionalità, «sebbene l'uso del cirillico all'interno di forum sul "Dark Web" li iscriva all'area dell'Europa orientale». 

Il gruppo Hive, attivo tra Russia e Bulgaria, si è fatto notare l'anno scorso grazie all'utilizzo dell'omonimo ransomware. Tra le vittime dei suoi attacchi ci sono state la catena di elettronica Media Markt (presente in Italia come MediaWorld), l'organizzazione Usa non profit Memorial Health System, la società di software Altus Group.

Secondo un recente rapporto della società di sicurezza Trend Micro, l'anno scorso l'Italia è stata prima in Europa (e quarta al mondo) per numero di attacchi informatici subiti. Nel 97% dei casi il vettore dell'infezione è un'email che contiene un link o un allegato infetto. 

Considerata l'infrastruttura colpita i disagi sono stati tutto sommato limitati: la circolazione ferroviaria è proseguita regolarmente e, finché non torneranno online i sistemi di biglietterie e self service, è possibile acquistare i biglietti con l'app o sul sito, regolarmente funzionanti. Inoltre, «i viaggiatori sprovvisti di biglietto saranno regolarizzati a bordo treno senza sovrapprezzo». 

Da ANSA il 19 maggio 2022.

Hacker cinesi hanno cercato di rubare dati e informazioni di difesa della Russia. Lo riporta il New York Times citando la società di cybersicurezza Check Point. Il 23 marzo scorso diversi scienziati e ingegneri di istituti militari russi si sono visti recapitare email provenienti dal ministero della sanità russo dal titolo "lista di persone sotto le sanzioni americane per l'invasione dell'Ucraina". 

Le email però non provenivano dal ministero della sanità russo: a inviarle è stato infatti un gruppo di hacker della Cina che volevano cercare di convincere i destinatari ad aprire e scaricare il documento contenente un malware. L'incidente mostra come la Cina cerchi di spiare la Russia e mette in evidenza il complicato rapporto fra i due Paesi che si sono uniti contro gli Stati Uniti, osserva il New York Times.

LE ARMI.

Quali e quanti armamenti ha dato la Nato all’Ucraina prima della guerra? Paolo Mauri il 22 Novembre 2022 su Inside Over.  

Lo sforzo militare ed economico dell’Ucraina per far fronte all’invasione russa del 24 febbraio scorso è fortemente dipendente dal sostegno dei Paesi della Nato e di alcuni alleati dell’Occidente come il Giappone.

Diversi e numerosi i mezzi e le tipologie di armi che sono state inviate a Kiev dall’inizio del conflitto: sistemi anticarro Javelin, Nlaw e altri, missili spalleggiabili antiaerei Stinger, elicotteri Mil Mi-17 (21), veicoli Humvee (o Hmmwv – High Mobility Multipurpose Wheeled Vehicles), Apc (Armored Personnel Carrier) tipo M113, obici da 155 millimetri tipo M777 , “droni kamikaze” come gli Switchblade, carri Gepard antiaerei, obici semoventi Caesar, Pzh-2000 e 2S1, missili Sea Spear/Brimstone, missili antiaerei Nasams, Hawk, Iris-T ed S-300 (questi ultimi di provenienza slovacca), missili antinave Harpoon, Mlrs (Multiple Launch Rocket System) tipo M-270, M-142 Himars e Bm-21, missili antiradiazioni Harm per i caccia ucraini, carri armati di fabbricazione russa T-72 e T-55 da Paesi dell’ex blocco del Patto di Varsavia, Ucav (Unmanned Combat Air Vehicle) tipo Bayraktar Tb2, sistemi elettronici e radar e l’elenco potrebbe continuare con diversi veicoli da combattimento corazzati/blindati di diverse tipologie, munizioni, ed equipaggiamento personale.

Negli Stati Uniti, al Pentagono, si sta discutendo della possibilità di inviare carri armati Abrams, mentre il Congresso – o una parte di esso – si è detto favorevole alla possibilità di spedire i missili Atacms per prolungare il raggio di azione degli Himars, opzione che la Casa Bianca, al momento, sembra non considerare per non aumentare l’escalation, e ha aperto all’addestramento dei piloti ucraini.

Le forniture prima della guerra

Si tratta quindi di una spedizione di armamenti molto consistente, che sta mettendo a rischio le riserve della Nato stante le difficoltà di produzione incontrate dall’industria bellica occidentale, che non è mobilitata per tempi di guerra, e non ha (avrebbe) la necessità di esserlo. Un sostegno che, oggettivamente, non è cominciato con l’inizio del conflitto, ma che va posto indietro nel tempo, più precisamente a seguito dell’invasione/annessione della Crimea e della guerra civile nel Donbass del 2014.

Allora, però, alcuni Paesi della Nato non hanno inviato armamenti pesanti in Ucraina, ma si sono limitati a fornire addestramento all’esercito di Kiev, assistenza tecnica per la modernizzazione di alcuni mezzi delle Forze Armate insieme a qualche tipologia di armamento che andremo a vedere in dettaglio.

L’esercito ucraino, infatti, nel 2014 aveva una consistenza molto diversa da quella odierna: indebolito da anni di abbandono e sottofinanziamento, era composto da circa 6mila effettivi, ma, da quel momento, le forze armate hanno apportato notevoli miglioramenti. L’Ucraina ha infatti intrapreso sforzi per adottare gli standard della Nato e ha ricevuto una significativa assistenza dall’Alleanza e dagli Stati Uniti avviando nel contempo riforme modellate sull’esperienza fatta nella difesa contro l’aggressione russa. Assistenza che si è palesata, ad esempio, con l’Operazione Orbital inglese che ha addestrato e formato circa 20mila uomini dal 2015 al 2020.

Il ruolo degli addestramenti

Le riforme attuate dall’Ucraina per migliorare la qualità del proprio esercito hanno spaziato dal livello tattico a quello strategico e si sono concentrate in particolar modo sulla modernizzazione delle attrezzature, la riforma dell’apparato di comando e controllo e una maggiore professionalizzazione delle forze armate.

Così prima del conflitto le forze armate ucraine potevano contare su circa 145/150mila uomini (incluse le forze aviotrasportate/paracadutisti) e su approssimativamente 50mila effettivi della Guardia Nazionale (che sovrintende al controllo dei confini), a cui si aggiungevano 10mila della difesa civile, entrambi però non alle dipendenze del Ministero della Difesa di Kiev. La mobilitazione generale, ordinata immediatamente, ha permesso di arrivare, circa, a 500mila uomini che vengono addestrati al di fuori dell’Ucraina da alcuni Paesi della Nato.

Alla vigilia dell’invasione russa, le forze armate di Kiev rappresentavano una forza da non sottovalutare, sebbene dotata nella stragrande maggioranza da armamenti di origine sovietica/russa: l’intera linea di carri armati contava su T-84, T-80, T-72 e T-64; i mezzi corazzati appartenevano alla serie Bmp, Bmd, Btr, Mt-Lb e qualche costruzione autoctona; i sistemi di artiglieria semoventi erano i 2S19, 2S1, 2S3, 2S7, 2S5 e 2S22 mentre i Mlrs erano Bm-21, Bm-27, Bm-30 insieme a Otr-21 Tochka (Scarab-B in codice Nato); quelli da difesa aerea erano batterie di S-300V1, Tor, Buk, Osa, e Strela-10 insieme a numerosi sistemi di artiglieria di vario tipo sempre di fabbricazione russo/sovietica. Kiev poteva contare anche su 35 elicotteri da attacco Mil Mi-24 e su 65 multiruolo Mi-8, che vanno ad affiancarsi agli esigui mezzi dell’aeronautica rappresentati da 43 Sukhoi Su-27, 27 Mig-29, 17 Su-25 e 12 Su-24M. La marina ucraina era praticamente composta solo da unità di piccole e piccolissime dimensioni da dopo il colpo di mano russo in Crimea: nella base navale di Odessa, infatti, era presente un’unica fregata classe Krivak III andata poi persa nei primi giorni di guerra.

Abbiamo detto che la Nato (e altri) ha cominciato a fornire armamenti a partire dal 2014, ma a quel tempo si trattava di spedizioni sporadiche e poco consistenti: il Canada ha inviato 39 Apc tipo Spartan consegnati tra il 2014/2015, il Regno Unito i veicoli Saxon, gli Usa jeep Humvee e gli Emirati Arabi Uniti altri veicoli blindati nello stesso periodo temporale.

Solo negli ultimi 4 anni sono aumentate le spedizioni, ma si è trattato sempre di sistemi d’arma non pesante o non moderni: la Polonia ha inviato Apc tipo Mt-Lb e Dozor-B nel 2019, la Turchia i droni Bayraktar (dal 2018), la Repubblica Ceca Ifv (Infantry Fighting Vehicle) e obici semoventi di fabbricazione sovietica tutti arrivati tra il 2018 e il 2020. Anche i primi missili Javelin sono arrivati dagli Stati Uniti a inizio del 2018, ovvero in un periodo in cui le tensioni tra Ucraina e Russia si stavano acuendo in modo quasi esponenziale.

Questi aiuti, comunque, non hanno trasformato le Forze Armate ucraine in modo tale da far arrivare Kiev ai primi posti dei maggiori Paesi importatori di armamenti: il sito del Sipri (Stockholm International Peace Institute) riporta infatti che nel periodo 2014 – 2021 l’Ucraina si pone in 77esima posizione per valore assoluto, dopo Estonia e Kenya e prima dell’Irlanda. Un po’ poco per un Paese che era impiegato in un conflitto civile alimentato dalla Russia, e altrettanto poco per poter rappresentare una minaccia esistenziale per Mosca.

Tutte le armi inviate all’Ucraina da febbraio a oggi. Paolo Mauri il 24 Novembre 2022 su Inside Over.  

L’Ucraina ha potuto sostenere l’impatto dell’invasione russa grazie a una serie di fattori tra cui spiccano la fornitura di dati di intelligence da parte di Stati Uniti e Regno Unito ma soprattutto il flusso di armamenti proveniente dalla Nato e da altri alleati dell’Occidente.

Abbiamo già avuto modo di stabilire che il sostegno militare dell’Alleanza a Kiev, dal 2014 – anno in cui la Russia si annette la Crimea dopo un’abile azione di Hybrid Warfare e destabilizza il Donbass con un’azione non altrettanto abile – al 2022, è stato rivolto più all’addestramento/riforma delle Forze Armate ucraine che alla fornitura di armamenti. La quantità di questi ultimi è però andata aumentando negli ultimi 4 anni, a fronte dell’acuirsi della crisi tra Ucraina e Russia, ma solo con l’inizio del conflitto il 24 febbraio scorso il sostegno si è fatto numericamente e qualitativamente importante.

Se Kiev, ad esempio, ha potuto non solo contrastare l’avanzata russa con relativa efficacia (il Cremlino ha dovuto più volte rimodulare i propri piani nel corso del conflitto), ma anche imbastire due controffensive che hanno permesso la riconquista di vaste porzioni di territorio invaso, è stato grazie a munizioni e sistemi d’arma come Mlrs (Multiple Launch Rocket System), missili di vario tipo (Atgm – Anti Tank Guided Missile), loitering munitions e Ucav (su tutti i turchi Bayraktar Tb2) forniti dai Paesi della Nato.

Munizioni che, come abbiamo visto, cominciano a scarseggiare tra gli alleati di Kiev, che si stanno chiedendo come poter fare a continuare a sostenere militarmente l’esercito ucraino senza intaccare le proprie vitali scorte.

Arrivati a questo punto del conflitto diventa quindi interessante dare uno sguardo alle tipologie di armamenti inviate a Kiev dalla Nato e da altri alleati, in particolare guardando ad alcuni riferimenti temporali che mostrano il crescente impegno dell’Alleanza a sostegno dell’Ucraina.

Cominciando dagli Mbt (Main Battle Tank), i primi 40 T-72 cominciano ad arrivare dalla Repubblica Ceca (attraverso un meccanismo di scambio in cui la Germania fa da intermediario) lo scorso aprile, e altri ne arrivano tra maggio e giugno. La Polonia a oggi è quella che ne ha inviati di più, con circa 230 di varie versioni, mentre figurano anche la Macedonia e la Slovacchia che però ha ceduto 28 M-55 (versione migliorata del T-55). In totale la stima dei carri armati spediti all’esercito ucraino è di circa 410, compresi i PT-91 polacchi (sviluppo locale del T-72).

Gli Ifv (Infantry Fighting Vehicle) sono, complessivamente, circa 210 provenienti da Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia, Grecia e Slovenia. Praticamente tutti sono Bmp-1 di progettazione russa eredità della Guerra Fredda o versioni locali dello stesso.

Gli Apc (Armoured Personnel Carrier) sono circa un migliaio provenienti da Olanda, Lituania, Regno Unito, Australia, Danimarca, Usa, Portogallo, Francia, Finlandia, Spagna e Canada. Si tratta di mezzi di diverso tipo ma gli M-113 (in varie versioni), sono la stragrande maggioranza.

I veicoli Mrap (Mine Resistant Ambush Protected) sono più di 800 provenienti da Spagna, Australia, Estonia, Regno Unito, Usa, Turchia e Germania. 440 di essi sono gli statunitensi M1224 mentre 90 sono i Bushmaster australiani e 200 i BMC Kirpi turchi.

I veicoli leggeri per la fanteria (tipo jeep) sono più di 1200 provenienti da Usa, Regno Unito, Portogallo, Canada, Polonia, Italia, Norvegia, Olanda e Francia. La stragrande maggioranza (un migliaio di esemplari) sono Humvee statunitensi che hanno cominciato ad arrivare ad aprile, mentre il nostro Paese ha fornito i Vtlm "Lince" a giugno.

I pezzi di artiglieria trainati (di vario calibro, dai 105 ai 155 millimetri), provengono da Usa, Australia, Canada, Estonia, Repubblica Ceca, Croazia, Italia, Lituania, Regno Unito e Lituania. Qui la parte del leone la fa l’obice M777 di fabbricazione statunitense (da aprile in avanti) ma fornito anche da Canada e Australia. Italie ed Estonia a maggio hanno inviato gli obici FH-70.

Per quanto riguarda l’artiglieria semovente, dei 200 veicoli ad oggi forniti (altri 180 dovrebbero arrivare prossimamente), spiccano i Pzh 2000 forniti dalla Germania e dall’Olanda, che si uniscono a Repubblica Ceca, Polonia, Francia, Norvegia, Slovenia, Lettonia, Lituania e Italia con altri mezzi (tra cui i vecchi M-109 da 155 millimetri).

Passando ai Mlrs, gli Stati Uniti hanno fornito, a oggi 38 Himars a partire da giugno, Germania e Regno Unito 11 M-270 (5+6) tra luglio e agosto, la Repubblica Ceca un numero imprecisato di BM-21 "Grad" e di RM-70 a partire da aprile, la Polonia più di 20 "Grad" mentre non è noto il numero dei TLRG-230 turchi arrivati durante l’estate.

Per quanto riguarda i sistemi d’artiglieria antiaerea la Germania ha inviato 30 "Gepard" semoventi da luglio in avanti che si affiancano a 23 ITK 61 finlandesi.

I missili antiaerei così tanto voluti da Kiev hanno visto due consegne in due momenti molto lontani tra loro nel tempo: tra marzo e aprile sono stati inviati 6 Strela-10 e una batteria di S-300 rispettivamente da Repubblica Ceca e Slovacchia, mentre il Regno Unito ha fornito 6 Stormer ad aprile. La seconda "ondata" è giunta in Ucraina tra ottobre e novembre rappresentata da Iris-T tedeschi (4), Nasams statunitensi (8), un Aspide 2000 spagnolo e un Crotale francese che presto saranno affiancati da una o due batterie di Hawk provenienti dalla Spagna.

Danimarca, Regno Unito, Stati Uniti e Olanda, tra giugno e luglio, hanno inviato missili antinave "Harpoon", ma si sospetta che almeno una batteria di provenienza inglese fosse già presente ad aprile.

La Polonia ha fornito un centinaio di missili aria-aria di fabbricazione russa R-73 per i caccia ucraini (MiG-29 e Su-27) mentre gli Stati Uniti hanno inviato i missili antiradiazioni Agm-88 Harm tra luglio e agosto. La Turchia, oltre a fornire i ben noti Ucav Bayraktar Tb2 ha fornito il relativo munizionamento di precisione da marzo sino a oggi.

Per quanto riguarda i missili sup-sup, i britannici Brimstone sono arrivati a maggio, mentre Hellfire svedesi sarebbero giunti prima di ottobre.

L’argomento più spinoso per quanto riguarda le forniture di armi all’Ucraina sembra essersi risolto con un accordo avvenuto ad aprile, quando 14 caccia Su-25 "Frogfoot" bulgari sono stati acquistati dalla Nato e trasferiti in Ucraina, a cui ne sono seguiti altri 4 dalla Macedonia ad agosto.

Numerosi anche gli elicotteri: 21 Mil Mi-17 (originariamente destinati all’Afghanistan) sono stati inviati dagli Stati Uniti da aprile in avanti, a cui si sono aggiunti quattro slovacchi, due estoni, 2 o 4 Mi-24 cechi, sei Ka-32 portoghesi e, notizia recente, tre Sea King britannici che dovrebbero essere consegnati entro fine novembre/dicembre. Il totale dei Bayraktar turchi consegnati tra marzo e settembre dovrebbe essere di 20, che si aggiungono a quelli già in possesso delle forze armate ucraine.

Le loitering munitions, invece, sono più di 2mila rappresentate per la maggior parte dagli Switchblade statunitensi (versione 300 e 600).

Mercoledì 23 novembre, la Casa Bianca ha autorizzato un nuovo pacchetto di aiuti militari del valore di 400 milioni di dollari composto da munizioni aggiuntive per i sistemi missilistici Nasams, 150 mitragliatrici pesanti con mirini termici per contrastare gli Unmanned Aerial Systems (Uas), munizioni aggiuntive per sistemi missilistici di artiglieria Himars, 200 colpi di artiglieria da 155 millimetri a guida di precisione, 10mila colpi di mortaio da 120 millimetri, un numero imprecisato di missili Harm, 150 veicoli Humvee, oltre 100 veicoli tattici leggeri insieme a munizioni per armi leggere, generatori e pezzi di ricambio per obici da 105 millimetri.

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Da lastampa.it il 10 novembre 2022. 

In un video di 55 secondi il mondo ha potuto dare un'occhiata a una nuova macchina da guerra con meno consumi, più silenziosa e dotata di intelligenza artificiale. Tutti problemi del suo predecessore. L'AbramsX, della General Dynamics, è il più grande aggiornamento della tecnologia dei carri armati americani dall'inizio della Guerra Fredda. 

Motore diesel ibrido elettrico, più leggero, può anche operare con un equipaggio ridotto a sole 3 persone e dispone di sistemi di intelligenza artificiale per individuare i nemici con una precisione del 90%. La nuova generazione dovrebbe prendere il posto dell' M1 Abrams, il carro armato principale dell'esercito americano e, fino a poco tempo fa, del corpo dei Marines. Visti gli ultimi aggiornamenti è stato dotato di una corazza potenziata per proteggerlo anche dalle bombe lanciate dai droni. Il tank può anche comunicare con i veicoli aerei senza equipaggio, che potrebbero individuare i pericoli più avanti.

Abrams-X: un nuovo carro armato per l’esercito Usa? Paolo Mauri il 10 Novembre 2022 su Inside Over.

A inizio ottobre la General Dynamics Land Systems ha ufficialmente svelato il suo progetto per il futuro Mbt (Main Battle Tank) dell’esercito statunitense, l’Abrams-X.

Il carro presentato è un concept, ovvero un dimostratore tecnologico, che rappresenta l’ultima evoluzione del ben noto – e datato – M1 Abrams in servizio nello U.S. Army.

L’Abrams-X, così come è stato osservato, presenta molte innovazioni rispetto al suo predecessore tra cui una torretta profondamente rivista che presenta più mirini elettro-ottici e una postazione per armi a controllo remoto con un cannoncino da 30 millimetri. Il pezzo principale è rappresentato da un cannone da 120 millimetri derivato dall’XM360, ma la vera innovazione è forse rappresentata dalla propulsione ibrida (diesel-elettrica) che secondo General Dynamics comporterà un enorme risparmio di carburante, pari a circa il 50% rispetto ai carri precedenti. Il motore a turbina degli Abrams viene quindi abbandonato per una soluzione che ricorda quella utilizzata su alcune unità navali: in questo modo l’Abrams-X potrà operare silenziosamente quando non impegnato in scontri a fuoco o in marcia veloce oppure spostarsi per brevi periodi a bassa velocità, il che fornirebbe un enorme vantaggio tattico.

La nuova torretta risulta essere senza equipaggio, con un sistema di caricamento automatico che h reso possibile la diminuzione del numero del personale preposto al funzionamento del carro da quattro a tre. Questo è un vantaggio sia perché riduce le perdite umane, sia perché libera spazio all’interno della torretta, utilizzabile per ottenere maggiori possibilità e rendendo il carro più versatile.

L’Abrams-X è più leggero dei suoi predecessori, in controtendenza rispetto alle evoluzioni degli M1 che risultano essere sempre più massicce. Ad esempio, il carro M1A2 System Enhanced Package Version 3 (Sepv3), la versione più moderna dell’Abrams attualmente in servizio, pesa circa 73,6 tonnellate, ovvero 10 tonnellate in più dell’M1 originale. Il peso dell’Mbt, unito alle sue dimensioni, impongono dei limiti alla quantità che se ne può trasportare all’interno di navi o aerei. L’ultima versione dell’Abrams è troppo pesante per essere trasportata da alcuni mezzi da sbarco e da tempo ci sono preoccupazioni su come il peso e le dimensioni del carro ne limitino la capacità attraversare i ponti, soprattutto in Europa. La questione non è di poco conto: recenti rapporti del Pentagono indicano che buona parte delle infrastrutture nell’Europa centrale non è adatta a sostenere un rapido dispiegamento delle forze qualora fosse necessario, e la problematica del peso degli Mbt non è affatto secondaria.

Tornando all’Abrams-X, The Drive ci informa che la spina dorsale del nuovo carro sarà il sistema digitale Katalyst Next Generation Electronic Architecture (Ngea). Esso collegherà tutti i suoi sottosistemi insieme e sarà particolarmente semplice aggiornarlo dal punto di vista dell’hardware e quindi modificare anche il software in modo che il carro armato possa rallentare la sua obsolescenza e possa essere adattato più rapidamente a nuove realtà tattiche e tecnologiche.

Sulla torretta sono presenti postazioni, oltre al cannoncino automatico, per installare altri sistemi e aumentarne la versatilità: lanciagranate di contromisura, sistemi di protezione attiva e sistemi di telecamere. Sembra esserci una suite di sensori avanzati per il conducente anche sulla parte anteriore dello scafo che potrebbe anche integrarsi con l’architettura di telecamere in torretta e fornire una visione a 360 gradi. Con l’aiuto della tecnologia a realtà aumentata questo consentirebbe all’equipaggio di “guardare attraverso” lo scafo del carro armato per un grande balzo in avanti nella consapevolezza situazionale (situational awareness) un po’ come avviene sui caccia di quinta generazione come l’F-35, dove il pilota riesce, attraverso i visori integrati nel caso, a guardare attraverso la cellula del velivolo. Il carro, quindi, userà anche un certo grado di intelligenza artificiale, come rilasciato dalla stessa General Dynamics in uno stringato comunicato stampa emesso il mese scorso: l’Abrams-X viene dato in grado di avere letalità, sopravvivenza, mobilità, teaming con equipaggio/senza pilota (MUM-T) e capacità autonome rese possibili dall’Ia.

Quello che sappiamo sul nuovo Mbt è comunque solo un assaggio, ovviamente, ma è evidente che la tecnologia digitale, Ia inclusa, lo rende in grado di collaborare con altri veicoli terrestri senza pilota e possibilmente interagire in tempo reale con altri mezzi sul campo di battaglia. Ci si avvicina quindi al concetto di “sistema di sistemi” terrestre, esattamente come avviene in campo aeronautico dove i futuri caccia di sesta generazione (Tempest, Ngad e il traballante Scaf) saranno in grado di comandare sistemi unmanned.

Sebbene l’Abrams-X rimanga un dimostratore tecnologico, al pari del nuovo carro tedesco recentemente presentato da Rheinmetall, il KF-51 “Panther” visto per la prima volta lo scorso giugno, l’esercito statunitense e gli alleati stanno sicuramente rivalutando il destino del carro armato e più in generale delle forze corazzate dopo gli eventi in Ucraina, che hanno dimostrato sia come questi sistemi siano ancora centrali nei conflitti terrestri, sia la loro fragilità verso le nuove armi e i nuovi concetti operativi ad esse associati. Se l’Abrams-X diventerà una realtà lo dirà solo il tempo e soprattutto la disponibilità finanziaria del Pentagono.

KIEV E I DRONI IRANIANI. Ernesto Ferrante su L’Identità il 6 Novembre 2022

L’Iran ha ammesso per la prima volta di aver venduto droni alla Russia, ma prima dell’inizio dell’operazione speciale in Ucraina. Dopo settimane di smentite, il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian (nella foto), ha corretto il tiro. “Il polverone sollevato da alcuni Paesi occidentali, secondo cui l’Iran avrebbe fornito missili e droni alla Russia per aiutare la guerra in Ucraina, è completamente sbagliato. La parte relativa ai droni è vera e abbiamo fornito alla Russia un piccolo numero di droni mesi prima della guerra in Ucraina”, ha rivelato il capo della diplomazia di Teheran, citato dall’agenzia Irna.

Teheran e Kiev avevano anche fissato un incontro per discutere dell’argomento, poi c’è stata un’inaspettata retromarcia. “Avevamo concordato con il ministro degli Esteri ucraino di fornirci i documenti in loro possesso secondo i quali la Russia avrebbe utilizzato droni iraniani in Ucraina, ha detto Amirabdollahian, ma la delegazione ucraina si è tirata fuori dall’incontro previsto all’ultimo minuto”.

Il ministro ha comunque assicurato che il suo Paese “non rimarrà indifferente” se verrà dimostrato che Mosca ha usato gli Shahed-136 nei suoi terrificanti raid.

Si affievoliscono di nuovo le speranze di pace. L’ambasciatore russo negli Stati Uniti, Anatoli Antonov, non prevede un miglioramento a breve dei rapporti Russia e Usa. In un’intervista all’agenzia di stampa Tass, Antonov ha dichiarato testualmente: “Crediamo fermamente che il dialogo tra i nostri Paesi sia necessario, non solo nell’interesse della Russia e degli Stati Uniti, ma nell’interesse dell’intera comunità internazionale”.

Il Cremlino non crede ad “un possibile miglioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Russia, almeno in una prospettiva di medio termine, nelle attuali condizioni diplomatiche”. Il diplomatico di Omsk ha affermato che i tentativi degli Stati Uniti per eliminare la Russia dalla scena internazionale sono falliti: “È impossibile cancellare la Russia. Ci sono questioni che non possono essere risolte senza la partecipazione della Russia, come la stabilità strategica, la non proliferazione delle armi nucleari, la sicurezza informatica globale o il cambiamento climatico”.

L’ambasciatore ha infine ricordato a Biden che “tutti i Paesi del mondo hanno gli occhi puntati su entrambe le potenze”, sottolineando la “particolare responsabilità di entrambi i Paesi per la pace e la stabilità internazionale”.

La mobilitazione straordinaria annunciata a settembre da Putin, non starebbe dando i frutti sperati. E’ quanto sostiene l’intelligence britannica nel consueto aggiornamento sulla guerra in Ucraina, secondo cui le nuove truppe inviate al fronte vengono dispiegate con “poco o nessun addestramento”. “A questi problemi, scrivono gli 007 di sua maestà su twitter, si aggiungerà l’ulteriore ciclo di coscrizione regolare autunnale, annunciato il 30 settembre e iniziato il primo novembre, che di solito prevede l’ingresso di altri 120.000 effettivi. I nuovi coscritti mobilitati hanno probabilmente una formazione minima o nulla. Le forze russe si stanno addestrando in Bielorussia a causa della carenza di personale addestrativo, munizioni e strutture in Russia. Il dispiegamento di forze con un addestramento scarso o nullo fornisce una scarsa capacità di combattimento offensivo aggiuntivo”. Nuove armi per Zelensky. “Siamo sinceramente grati a Olanda, Stati Uniti e Repubblica Ceca per aver fornito un supporto significativo e tanto necessario: 90 carri armati T-72. Le forze armate ucraine avanzano e hanno bisogno di questo equipaggiamento. Apprezziamo l’aiuto dei partner. Insieme sosteniamo la difesa della libertà e della democrazia!”, ha cinguettato il presidente ucraino dopo l’invio di altro materiale dai tre Paesi. Il gruppo Wagner ha inaugurato un centro di tecnologia militare a San Pietroburgo. Il suo fondatore, Yevgeni Prigozin, ha spiegato che “il Pmc Wagner Center” è “un complesso di edifici che ospitano inventori, sviluppatori di progetti, specialisti informatici, produttori sperimentali e varie aziende in fase di avviamento”. L’obiettivo di Prigozin è “fornire un ambiente confortevole per la generazione di nuove idee per migliorare le capacità di difesa della Russia”. Per Konstantin Dolgov, il centro sarà un “think tank, dove le persone, unite da un unico obiettivo, lavoreranno all’attuazione di determinati compiti a beneficio della Federazione Russa”.

Le nuove armi del conflitto e la svolta del soft power. Redazione e EDOARDO GREBLO e LUCA TADDIO su L'Identità il 5 Novembre 2022 

L’aggressione all’Ucraina non è stata un evento imprevedibile quanto l’ultimo episodio di una lunga serie di tensioni e di conflitti esplosi dopo il crollo dell’Unione Sovietica, dal Nagorno-Karabakh al Tagikistan, dalla Cecenia alla Transnistria, dall’Abkhazia all’Ossezia meridionale. E tuttavia, le vicende del conflitto hanno colto di sorpresa molti osservatori. A sorprendere è stato il fatto che la forza militare della Russia non sia stata finora in grado di realizzare gli obiettivi politici che Putin si era posto. Perché? È possibile avanzare alcune ipotesi in proposito. Sono almeno tre gli sviluppi che meritano di essere sottolineati in tal senso. Il primo consiste nella crescente influenza acquisita da attori o gruppi non statali, che hanno dimostrato di poter operarein modo autonomo, cresciuti non solo in termini di numero, ma anche di indipendenza e capacità di pressione. Si pensi al ruolo delle multinazionali, la cui influenza sulla risposta occidentale all’invasione russa dell’Ucraina non ha precedenti di questa portata. Storicamente, l’attività degli attori economici rispetto ai conflitti in atto è stata perlopiù guidata dalla ricerca del profitto. In questo caso la maggior parte delle multinazionali sembra però aver agito soprattutto per motivi politici, anche a costi significativi per i bilanci . Le decisioni di quasi mille aziende di ritirarsi dalla Russia hanno accresciuto il peso delle sanzioni economiche imposte dall’Occidente. Ma si pensi anche al modo in cui gruppi non statali hanno utilizzato i social. Le persone e le organizzazioni attive sul campo agiscono da influencer e da fonti in tempo reale di informazioni non filtrate, mentre quelle che operano al di fuori dell’Ucraina hanno organizzato sforzi di soccorso su scala globale. I network non governativi odierni sono in grado di implementare le loro attività in forme che non erano possibili prima di Tik Tok o di Twitter, anche attraverso il crowdsourcing e la condivisione di informazioni spesso preziose. Il secondo sviluppo è rappresentato dal modo in cui le relazioni tra gli Stati si stanno rivelando decisive nell’orientare le vicende militari. In genere, il potere statale viene valutato prendendo in considerazione fattori come le armi o il Pil. Tuttavia, poiché la globalizzazione e i cambiamenti tecnologici rendono più economico e più facile per beni, servizi e informazioni attraversare i confini e promuovere l’interconnessione tra i diversi Paesi, il sistema delle relazioni internazionali fondato sulle alleanze e le reti commerciali è diventato sempre più importante per valutare il potere reale di un Paese, anche al di là di fattori come le armi o il Pil. L’attuale conflitto offre esempi dei diversi modi in cui relazioni più profonde e interdipendenti possono pesare sulle vicende in corso. Ad esempio, gli Usa e gli alleati della Nato hanno fatto affidamento sulle forti relazioni politiche, economiche e militari per imporre sanzioni di vasta portata e per mobilitare aiuti militari. E i legami ideologici tra gli alleati della Nato e l’Ucraina sono un altro esempio di potere relazionale, che ha permesso all’Ucraina di avere accesso all’assistenza militare ed economica, al supporto di intelligence e infrastrutture e allo status internazionale che si stanno rivelando fondamentali sul teatro bellico. Un ultimo sviluppo è che alcune delle forme più decisive di potere nell’attuale conflitto non si basano solo sull’hard power derivato dalle capacità militari o dalla ricchezza economica, né dal soft power che influenza attraverso norme e idee. A incidere sembrano invece forme di potere che offuscano questa distinzione e si esercitano attraverso la loro combinazione. L’uso di strumenti di potere che fondono hard e soft power non è del tutto nuovo. Ad esempio, la Cina ha riconosciuto la lawfare (guerra legale) come componente essenziale della dottrina strategica per raggiungere obiettivi militari nel Mar Cinese Meridionale. Ma l’uso di tali strumenti è stato importante nel conflitto russo-ucraino, perché aiuta l’Ucraina a superare il vantaggio della Russia in termini di dimensioni e forza militare e facilita una risposta occidentale di vasta portata senza che sia necessario compiere l’ultimo e catastrofico passo: l’intervento militare diretto. Due esempi. Nel corso del conflitto gli Stati Uniti e i loro alleati hanno diffuso informazioni allo scopo di screditare le narrazioni russe e minare il morale dell’esercito e della popolazione . Un discorso analogo vale per il moltiplicarsi dei cosiddetti hacktivisti, che si stanno impegnando in una campagna online per hackerare i siti web russi e combattere la disinformazione putiniana. Alcuni analisti sostengono che il mondo sta entrando in una nuova Guerra fredda, dominata dal bipolarismo e dalla competizione tra autocrazia e democrazia. Ma la maggiore diversità degli attori che esercitano il potere, la maggiore interdipendenza e la proliferazione di strumenti che combinano hard e soft power sembrano suggerire il contrario.

Il mondo sembra muoversi verso un ambiente dove il potere è più diffuso, dinamico e trasversale di quanto non sia stato durante la Guerra fredda vera e propria. Ciò può portare a situazioni di crescente instabilità e di rinnovati conflitti internazionali, e certamente crea una serie di nuove sfide per gli Stati. Ma può anche dare vita a nuove opportunità, soprattutto per gli Stati più piccoli e periferici che vedono minacciata la loro esistenza da quelli più grandi e aggressivi, e per gli attori non statali che mirano a conquistarsi un’influenza non solo morale sugli affari internazionali.

Storia d'assalto. Quando l'elica sconfisse il reattore per l'ultima volta. Settant'anni fa, quando il motore a reazione aveva ormai rivoluzionato il modo di volare e con esso quello di combattere nell'aria, l'erede di una lunga dinastia di caccia ad elica si guadagnò la sua ultima vittoria nei cieli della Corea. Davide Bartoccini il 3 Novembre 2022 su Il Giornale.

Era l’8 agosto del 1952 quando il tenente della forza aerea imbarcata britannica, P. “Hoagy” Carmichael, volava in formazione con altri tre caccia modello Hawker Sea Fury. Tutti decollati, uno dopo l'altro, dal ponte della portaerei HMS Ocean. Deve portare a temine una delle tante missioni di “attacco al suolo” al ridosso di quello che era diventato noto come il 38° parallelo. Fanno tutti e tre parte dell’802° Squadron, raggruppamento aereo imbarcato del Fleet Air Arm, che compare nella lunga lista di unità inviate dal Blocco occidentale per combattere la guerra di Corea. Una delle fasi più acute e pericolose di quella guerra fredda che minacciava di precipitare subito in uno scontro tra le potenze attestatesi nell'assetto bipolare mondiale nel post 1945.

A supportare lo sforzo che intende respingere l’occupazione delle forze comunista dell'intera penisola, Londra ha inviato due portaerei (una terza è australiana), e il compito è sempre lo stesso. Dare appoggio aereo e colpire obiettivi "fondamentali", mentre a terra si combatte una devastante guerra di posizione lungo la linea Suwon-Wonju-Samcheok. I Sea Fury inglesi, cacciabombardieri imbarcati ad ala bassa sviluppati dai Tempest che si sono guadagnati la loro meritata fama nei cieli della Normandia, devono attaccare una via di rifornimento strategica dalla quale passano i rifornimenti cinesi diretti a Pyongyang. La sortita è consuetudinaria: il tempo di sganciare bombe da 2000 libre sull'obiettivo prefissato, e filare via - sempre tenendo gli occhi aperti per i MiG forniti da Mosca, che potrebbero sorprenderli in ogni momento e ingaggiare un combattimento aereo dalle sorti certe. O almeno così si pensava.

È l'alba quando il sole si stagliava sulle cime montagnose ancora parzialmente innevate, e nella radio il gregario di Carmichael avverte: “Mig! Mig a ore cinque!”. Alla sinistra della formazione, appare una coppia di jet a reazione MiG-15 ammantati dal sole che riflette l’argento del loro rivestimento spartano punta dritta su di loro. Caccia di produzione sovietica sponsorizzati dalla Cina, o forse, direttamente dall'Urss che rispondere allo sforzo bellico sostenuto dal blocco condotto da Washington. Quei MiG si riveleranno essere ben 8. E con il loro motore a getto preannunciano una superiorità aerea schiacciante nel duello.

Invece di virare bruscamente e battere in ritirata per saettare dietro la “linea sicura” garantita dall’anti-aerea alleata, i tre piloti inglesi rompono la formazione come da manuale. Sono pronti ad ingaggiare il combattimento coi i piloti avversari. Un duello tra motori a pistoni fabbricati in Inghilterra contro getti a reazione prodotti in Unione Sovietica (sebbene ispirati direttamente ai motori Rolls Royce reperiti dagli ingegneri sovietici in Inghilterra, ndr).

Un duello che farà storia

I piloti della Royal Navy si aprono a forbice per attirare su di loro gli inseguitori. Ognuno dei Sea Fury punta a ritagliarsi un angolo di tiro in deflessione se l’opportunità si presenta, sperando che i piloti delle macchine a reazione non siano veterani di quel prodigio della tecnica aeronautica inventato - almeno come principio teorico - da un ingegnere rumeno nel lontano 1910.

I MiG si dividono in gruppi di due, ciascuno in volo su una delle furie del mare che hanno rotto la formazione. Nel turbinio delle manovre aeree che aprono il duello dell’aria, un MiG entra subito nel collimatore di “Hoagy” Carmichael, che ne approfitta, e nella frazione di secondo fortunato scarica una raffica dai suoi quattro cannoncini Hispano da 20 mm. Seguiranno altri scambi andati a vuoto tra le nuvole, virate strette e cabrate. Finirà tutto in appena tre minuti. Poi i MiG se la battono. Fanno rotta sul nord.

Anche il sottotenente Haines, il tenente Davis e il sottotenente Ellis hanno fatto fuoco con i loro cannoncini, prendono parte al duello che ha fatto battere in ritirata i temutissimi MiG, forse affidati davvero a piloti poco esperti. Uno di loro, quello centrato da Carmichael, mentre si allontana dalla scontro lascia una lunga scia di fumo nero. Hoagy tende il collo per affacciarsi dall’abitacolo, oltre il tettuccio a goccia, mentre la formazione si ricompone per tornare alla portaerei. Solo allora noterà che quel MiG sta cadendo in una brusca virata per poi perdere quota e schiantarsi a terra tra le montagne innevate un giorno ormai sorto. Sarà la prima e l’ultima vittoria britannica registrata durante la guerra di Corea; ma anche uno degli ultimi storici duelli dell’aria in cui un velivolo della vecchia guardia, un velivolo ad elica, aveva battuto in manovra un jet a reazione dalle capacità indubbiamente superiori.

Quella che venne accredita come una vittoria individuale, è stata definita dallo stesso capo squadriglia del Fleet Air Arm che ne era stato l'artefice come "una vittoria condivisa e portata da un eccellente gioco di squadra". Le tattiche utilizzate dai cinesi, dimostrarono invece l’incapacità di sfruttare la superiorità dei loro velivoli e il vantaggio della loro velocità. Prendendo una batosta notevole dai vecchi caccia inglesi che poco dopo atterravano sul ponte della Ocean con una vittoria in tasca: la prima dal termine della seconda guerra mondiale.

Il contesto storico

Il primo duello tra “aerei a reazione” si era svolto appena due anni prima, nel teatro del medesimo conflitto. L’8 novembre del 1950, il tenente Russell J. Brown dell’Us Air Force aveva intercettato una coppia di MiG-15 nordcoreani nei pressi del fiume Yalu, quando si trovava ai comandi del suo P/F-80 Shooting Star. Riuscì ad abbatterli entrambi, portando così a termine - e con successo - il primo combattimento aereo tra jet della storia, nel corso di una guerra che come avremmo imparato a capire, non era che uno scontro tra assetti bipolari che rischiava di trascinare il mondo in un conflitto globale che avrebbe anche potuto portare all’impiego di armi nucleari tattiche o strategiche.

Prima di allora, la tecnologia dei jet a reazione teorizzata già negli anni dieci del novecento dall'ingegnere rumeno Henri Marie Coandă, progettata dal britannico Frank Whittle, e testata con successo da tedeschi e italiani per primi, attraverso i pionieristici Heinkel He-178 e Caproni Campini N.1 rispettivamente nel 1939 e 1940, aveva già trovato un impiego bellico, sebbene solo in maniera marginale, nelle ultime battute del secondo conflitto mondiale. Fu infatti il Messerschmitt Me 262 il primo caccia spinto da un motore turbogetto ad entrare in azione e trovare come avversari i progenitori del Sea Fury protagonista di questo articolo: gli Hawaker Typhoon e Tempest, al tempo i più veloci caccia britannici, prima dell'entrata in azione del Glooster Meteor, primo caccia a reazione della Royal Air Force britannica, impiegato solo ed esclusivamente come cacciatore di bombe volanti V-1 e con il ruolo di "cacciabombardiere" nel 1945. Motivo per cui sarebbero dovuti trascorrere ancora cinque anni prima che due jet a reazione si scontrassero nelle battaglie che da allora non hanno mai smesso di scuotere il mondo per loro mano.

Sul fronte ucraino rispolverano le armi che beffarono Hitler. Davide Bartoccini il 27 Settembre 2022 su Inside Over.

Elicotteri gonfiabili e batterie missilistiche, di gomma o di legno, per confondere i droni e mandare a vuoto i missili da crociera, o spingere i vertici militari a riconsiderare, modificare o deviare, offensive e controffensive. Sono le vecchie tattiche dell’inganno visivo, le stesse beffarono i nazisti nella Seconda guerra mondiale, quando gli aerei tedeschi puntavano su Alessandria e quando gli Alleati si preparavano ad invadere al Normandia.

Oggi le chiamano “fake weapon”, e sebbene nei tempi recenti fossero state relegate ad esercitazioni da poligono, sono tornate in prima linea per confondere il nemico e consentire agli eserciti belligeranti di salvaguardare quando si può, e indurre a sprecare quando si riesce, armi sofisticate e preziose. Ma sopratutto vere. Stiamo parlando di enormi “simulacri” gonfiabili, a grandezza naturale, di elicotteri medi con il Mil Mi-8 (nome in codice Nato “Hip“), o di interi sistemi missilistici S-300 che comprendono mezzo di trasporto e centro comando. A produrli su commissione del governo, almeno per conto di Mosca, è una fabbrica di palloni aerostatici, la Rusbal. Un’azienda che sempre stata in stretto contatto con il Cremlino e avrebbe accumulato negli anni un finto “arsenale” di armi gonfiabili.

Va in scena così la “maskirovka“: arte del camuffamento che può fare la differenza in prima linea. Soprattutto sul fronte ucraino dove non è ancora chiaro che tipo di armi, quante e come, siano schierate. Se ve ne siano in numero sufficiente, e inadeguato. Se siano state davvero impiegate tutte o meno. Se siano protette negli arsenali, in transito su mezzi civetta provenienti da confini vicini, o se siano state distrutte dal nemico.

Batterie antiaeree di legno e missili a vuoto

Se i russi stanno piazzando in basi avanzate fittizie elicotteri d’assalto gonfiabili per trarre in inganno i droni e deviare i piani di ipotetiche controffensive, gli ucraini – che non sono da meno – stanno rispondendo con l’allestimento di letali missili antiaerei di “legno”: per terrorizzare i piloti di Mosca che devono già fare i conti con considerevoli perdite e la diffusione di video brutali che le immortalano; e indurla a sprecare i propri missili intelligenti su finti obiettivi.

Ha riferire la notizia era stato il Washington Post, che illustrava come la tattica fosse analoga a quella tentata dai russi: ingannare i droni che poi avrebbero rilasciato le coordinate sulle quali lanciare costosi missili da crociera Kalibr russi schierati nel Mar Nero, o per ordinare un raid dei cacciabombardieri supersonici Su-34 che sono “a corto” di bombe guidate Kab.

Una discordanza che ha confermato il successo di queste fake weapon sarebbe registrata quando Mosca ha dichiarato di aver distrutto alcuni sistemi missilistici di artiglieria ad alta mobilità (HIMARS) che erano stati forniti dagli Stati Uniti. Sistemi che avevano consentito a Kiev di colpire con successo alcuni obiettivi strategici russi. Secondo l’intelligence di Washington però, tutti i sistemi HIMARS, ben contabilizzati, erano ancora in attivi e schierati nelle loro posizioni in Ucraina. Lasciando pensare che i raid condotti da Mosca fossero andati a vuoto su “finti bersagli”.

Del resto anche quella è guerra: guerra di informazioni ma anche di inganni quando si è costretti a fronteggiare avversari tecnologicamente più avanzati o superiori in numero; salvaguardando le armi più sofisticate ed efficaci. Una strategia già resa nota attraverso le tattiche di schieramento degli aerei ucraini e delle batterie antiaeree “vere”, che nelle fasi di stallo del conflitto andavano ben protette per essere impiegate al momento giusto e sull’obiettivo giusto. Lasciando credere al nemico che i pochi fossero molti, e viceversa.

Un precedente storico che ha fatto scuola

Passata alla storia come una delle operazioni più singolari e inaspettate di sempre, l’Operazione Fortitude consisteva in un grande inganno atto a non rivelare la scelta della Normandia come reale settore di sbarco scelto dagli Alleati per l’invasione dell’Europa. Questa tecnica dell’inganno visivo per depistare il nemico, venne messa appunto da Jasper Maskelyne, l’illusionista inglese che insieme alla sua “banda dei miracoli” fu in grado di “spostare” agli occhi dei bombardieri tedeschi l’intero Porto di Alessandria durante la campagna di El Alamein, 1942. Allora le semplici ma mai abbandonate bombe andarono sempre a vuoto, mentre le capacità logistiche del porto in mano inglese rimasero immutate fino alla vittoria della campagna d’Africa. Successo che verrà replicato nelle fasi di preparazione dell’Operazione Overlord.

Una strategia militare dell’inganno deve aver colpito particolarmente Mosca. Che in tempi non sospetti rivelò di nutrire un particolare interesse per questa tattica. L’ingegnere militare esperto di tale genere di giochi di prestigio, Aleksei A. Komarov, dichiarò al New York Times in passato: “Se studiate le grandi battaglie della storia, vedrete che l’inganno vince sempre. Nessuno porta a casa il risultato onestamente”. Ora quelle stesse tattiche – insieme alle false-flag – stanno ingannando i droni di Kiev come i missili di Mosca. Ma ancora nessuno porta a casa il risultato, drammaticamente.

La catastrofe di Nedelin: la palla di fuoco che incendiò la Guerra Fredda. Considerato il più grande incidente nel campo della missilistica, fu causato dall'avventatezza del generale sovietico Mitrofan Nedelin, diventanto l'ennesima cicatrice sul volto di una vecchia Russia impegnata nella corsa alla supremazia balistica. Davide Bartoccini il 25 Settembre 2022 su Il Giornale.

Avvenuta il 24 ottobre 1960, la catastrofe di Nedelin, dal nome del generale sovietico Mitrofan Ivanovic Nedelin, è ancora considerata il più grave incidente mai consumatosi nel campo della missilistica. Ed è, senza dubbio alcuno, una delle tante cicatrici sul volto di quella Russia impegnata anima, corpo, e risorse nella corsa alla supremazia balistica. Per mantenere la sua capacità di deterrenza nucleare e continuare a terrorizzare con le sue armi l'avversario occidentale.

La tragedia, strettamente legata all'impazienza imposta dal capo programma, si consumò a Bajkonur, nell’attuale Repubblica del Kazakistan (ex-stato satellite sovietico, ndr). Precisamente nel cosmodromo dal quale Mosca aveva ottenuto e ottenne i suoi maggiori traguardi spaziali, dove era stato nascosto - proprio come avveniva per le grandi città fortezza nucleari - il poligono di tiro per quelle che sarebbero state le future Forze missilistiche strategiche dell'Urss. Ben distante dagli occhi indiscreti che potevano "osservare" cosa stessero producendo i misteriosi scienziati sovietici. Non è un caso, infatti, se proprio dal cuore della steppa kazaka furono sparati in orbita lo Sputnik, e il vettore Vostok 1 che ospitava a bordo Yuri Gagarin, il primo uomo che viaggiò nello spazio.

Un razzo che avrebbe cambiato il corso della storia

Eroe pluridecorato dell’Armata Rossa, il generale Nedelin era uno dei principali sostenitori dello sviluppo di vettori missilistici capaci di colpire obiettivi del Blocco Occidentale, garantendo all’Unione Sovietica l’adeguato potere di deterrenza fino a un eventuale escalation della Guerra Fredda. Per questo le sue aspirazioni, ben accolte dal segretario Nikita Chruščёv, portarono all'accelerazione nel programma che avrebbe dovuto sviluppare un missile in grado di rappresentare una minaccia reale non solo per gli avversari della Nato che si trovavano sul continente Europeo, ma anche per gli Stati Uniti.

Fino a quel momento l’unico vettore capace di raggiungere l’America continentale con il suo temibile carico nucleare, era di fatto il missile R-7: un vettore spinto da motori alimentati da kerosene e ossigeno liquido che poteva essere lanciato solo ed esclusivamente da siti dotati di grandi rampe, e che, sopratutto, necessitava una preparazione al lancio di almeno 30 ore a causa del carico dell'ossigeno liquido. Non essenzialmente il tempo adatto ad un’arma da impiegare per una contromossa (o retaliatory strike nella strategia nucleare, ndr).

Quale comandante delle neonate Forze Missilistiche Strategiche, Nedelin affidò all’OKB-586 (divisione di sviluppo, ndr), diretto da Michail Kuz'mič Jangel' la progettazione di un nuovo vettore con capacità intercontinentali che avrebbe preso il nome di R-16: un missile a due stadi propulso da un particolare carburante che poteva essere facilmente immagazzinato, cosa che avrebbe consentito ai sovietici di rifornire e armare i nuovi missili con testate nucleari, e mantenerli con i serbatoi pieni in stato di allerta per un lancio immediato.

La soddisfazione nelle premesse del progetto in via di realizzazione e l’impazienza di Nedelin nel poter mostrare al segretario Chruščёv e al mondo intero le nuove capacità dell’Unione Sovietica - si ricordi in questa sede che Nedelin svolse a sua insaputa un ruolo fondamentale nell'introdurre il razzo come vettore ideale per l’impiego di testate nucleari, aprendo definitivamente all’era dei missili balistici intercontinentali - non tenne però conto della delicatezza di certi sistemi; e della necessità essenziale di una serie di test da condurre in piena sicurezza per garantire la completa operatività di apparecchiature così delicate.

La sequenza di lancio e l’inferno di fuoco

Abitudine squisitamente sovietica è sempre stata quella di collaudare o far sfilare in concomitanza con feste nazionali le nuove armi e tecnologie raggiunte dagli scienziati del popolo. Per questo Nedelin insistette affinché il nuovo vettore R-16 fosse pronto per l’anniversario della Rivoluzione d’ottobre. Il 23 di ottobre, il primo prototipo dell’R-16 venne sistemato sulla rampa di lancio del cosmodromo di Bajkonur e la procedura di lancio avviata. L'insorgere di problemi tecnici costrinse però i sovietici ad abortire la missione. Qualcosa era andato storto e i motori non si erano accesi correttamente. La colpa - probabilmente - era dovuta a un sistema interno al missile: il sequenziatore programmabile formato da un albero a camme e da un motore passo-passo che poteva subire dei disturbi dagli sbalzi di tensione che ne avrebbero modificato la corretta sequenza.

La prudenza e la coscienziosità dell’equipe di scienziati avrebbe dovuto suggerire lo svuotamento completo dei serbatoi e il minuzioso riesame di tutte le componenti per trovare l’errore. Ma per portare a termine questo controllo ci sarebbero voluti giorni, se non settimane, e questo non poteva essere tollerato da Nedelin che aveva promesso a Chruščёv e alla Piazza Rossa il suo nuovo missile intercontinentale. Il Cremlino acconsentì dunque per una seconda prova di collaudo l’indomani. Con un’ispezione sommaria del missile ancora carico del suo particolare propellente ipergolico.

Il 24 di ottobre, con una scrivania posta a pochi passi dalla delimitazione della rampa, e una folta schiera di ingegneri, esperti militari, e rappresentanti politici che vi prendevano posto e si affollavano al seguito, la sequenza di lancio venne riprogrammata e avvita. Fu sufficiente un’istante affinché la deflagrazione - registrata da tutti i sismografi della regione - sprigionasse una palla di fuoco che portò la temperatura ad oltre 1.500 grandi centigradi. La fiammata, durata diversi minuti, venne osservata da una distanza di 50 chilometri tanto era grande e potente. E venne immortalata dal video di una telecamera di sorveglianza che mostrerà le terribili immagini di uomini avvolti dalle fiamme che scappano prima di perire in un’innaturale oscurità a contrasto della luce sprigionata dall’esplosione.

La maggior parte dei presenti verrà completamente spazzata via, incenerita. Altri moriranno per le ustioni riportate e per l’avvelenamento causato dagli agenti chimici dispersi nell’aria. Del prototipo del missile R-16 - armato per fortuna solo con il simulacro di una testata nucleare - non era rimasto nulla. La commissione d’inchiesta verificò in seguito che le violazioni nei protocolli di sicurezza potevano essere contate a decine, e che la tragedia era stata causata dalla prematura accensione dei motori del secondo stadio in seguito ad un errore di sequenziazione del sistema. Causato, come preannunciato, da uno sbalzo di tensione.

Una strage da insabbiare

Il numero dei morti non è mai stato accertato. E come sempre accade per ciò che riguarda le tragedie consumatesi oltre cortina nel pieno della della Guerra Fredda, ci si è dovuti affidare ai documenti desecretati dai russi dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Questo nonostante alcune immagini catturare dagli aerei spia americani che avevano immortalato delle grosse macchie nere sul terreno, dove in precedenza si poteva distinguere una rampa di lancio.

Data la segretezza del programma e la portata irrivelabile del disastro, il Cremlino decise di insabbiare quanto era accaduto al cosmodromo di Bajkonur. Attribuendo la morte del generale Nedelin a un incidente aereo, ed elaborando versioni più o meno plausibili per la scomparsa di quelle che sono state calcolate come almeno 120 vittime totali. La cui metà non verrà mai identificata poiché completamente polverizzata al momento della deflagrazione.

Delle stesso Nedelin non rimase altro che la stella d'oro di una delle onorificenze puntualmente appuntate sul petto, parzialmente fusa, una delle sue spalline, e il suo orologio. Fermatosi nell’istante esatto dell’esplosione che ridusse in cenere tutta quella folle e scriteriata impazienza. Nedelin fu sepolto in una tomba nella necropoli delle mura del Cremlino nella Piazza Rossa a Mosca. Venne insignito postumo della dell'Ordine del Coraggio dal presidente della nuova Federazione Russa Boris Eltsin dopo il desecretamento di ulteriori informazioni sull'accaduto nel 1999. Quando al Cremlino, be’, quando al Cremlino ormai si era convinti di aver intrapreso un’altra strada.

Estratto Dell'articolo Marco Ventura Per “il Messaggero” il 20 settembre 2022.

Cattiva pubblicità che fa crollare le vendite, questo è la guerra in Ucraina per l'apparato industriale militare russo. A picco le vendite di caccia, carri armati e altro materiale nel mercato che per Mosca è fondamentale: l'Asia. […] 

Parlano i numeri. Lo scorso mese le Filippine hanno confermato la disdetta di un contratto da 227 milioni di dollari per 16 elicotteri Mi-17 per paura che Mosca non possa onorarlo a causa delle sanzioni. Che riguardano i componenti ma anche le transazioni. […] Le Filippine stanno valutando di spostarsi sul mercato americano per l'acquisto di elicotteri Chinooks CH-47. Perché ovunque l'industria delle armi russa perda terreno, a trarne vantaggio sono i rivali, dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Francia alla Gran Bretagna e altri Paesi europei.

Anche l'Indonesia ha annunciato lo scorso anno che avrebbe abbandonato l'acquisizione di 11 caccia Sukhoi Su-35 Flanker-E, in questo caso per le sanzioni imposte dal Congresso Usa già nel 2017. Altri ordini potrebbero esser cancellati dal Vietnam, che però ha il blocco di contratti decennali con la Russia per ricambi e munizioni. 

In generale, l'export militare russo è andato giù del 26 per cento nel 2017-2021 rispetto al 2012-2016, specie per le forniture dimezzate da India (-47 per cento) e Vietnam (-71 per cento). 

Le brutte prestazioni sul campo sono il colpo di grazia. Non giova che sia stata affondata la nave ammiraglia della flotta del Mar Nero, né il rincorrersi di notizie su caccia abbattuti e mancato controllo russo dello spazio aereo ucraino. È un tremendo spot negativo il video, virale tra gli esperti, di soldati di Kiev che ispezionano un carro T-80BVM e scoprono che i comparti di armatura reattivi per cui vanno famosi sono privi delle cariche esplosive per neutralizzare i razzi anti-carro Atgm, sostituite da sottili componenti-fai-da-te di gomma o cartoni delle uova[…]

Restrizioni all'import dopo l'annessione della Crimea nel 2014 hanno comportato fra l'altro l'impossibilità di ottenere polvere da sparo e propellenti per i missili, oltre che sistemi elettronici americani e taiwanesi. Un esempio citato da Breaking News: più o meno il 70 per cento dei componenti del missile da crociera Kalibr proviene dall'estero. Impossibile riprenderne la produzione (e vendita). […] 

L’Ucraina prepara l’autarchia delle armi: “Possiamo copiare anche gli Himars”. Daniele Raineri su La Repubblica il 6 Settembre 2022.

Kiev teme che un giorno gli alleati stoppino l’invio di aiuti. Nasce Ukroboronprom, che produce missili e droni “ispirati” a quelli ricevuti dai partner.

A fine agosto Oleh Boldyrev, un manager del settore, ha parlato per la prima volta in un'intervista al giornale di Kiev di una super azienda di Stato che in Ucraina si occupa in questi mesi di inventare, sviluppare e produrre armi per resistere all'invasione russa. Il conglomerato si chiama Ukroboronprom, riunisce 118 aziende che si occupano di ogni genere di progetti e spesso, dice Boldyrev, lo fa in collaborazione con produttori stranieri e naturalmente con il governo di Kiev.

L'indiscrezione dell'intelligence americana. Kim Jong-un in soccorso di Putin nella guerra in Ucraina: “La Corea del Nord fornisce armi alla Russia”. Redazione su Il Riformista il 6 Settembre 2022 

La Russia sta comprando migliaia di attrezzature militari dalla Corea del Nord. Non si conoscono precisamente i dettagli: quali armi, quali le modalità di spedizione e di consegna tra i due Paesi. E per motivi di sicurezza: le informazioni si trovano su documenti resi pubblici dai servizi segreti degli Stati Uniti. Un funzionario di Washington, al New York Times, ha dichiarato che la Russia ha ordinato razzi a corto raggio e munizioni di artiglieria. La notizia, oltre che dal quotidiano, è stata riportata anche alla Cnn.

E inquadra come la guerra in Ucraina stia diventando una guerra lunga, di logoramento anche per la Russia. I servizi segreti britannici hanno parlato in recenti report delle truppe di Mosca allo stremo, scontente per le condizioni e i pagamenti. Le difficoltà sul terreno della Russia, che aveva puntato a una guerra lampo, sono emerse quasi immediatamente, dopo l’avvio dell’invasione annunciata in diretta tv dal Presidente russo Vladimir Putin lo scorso febbraio.

A portare Mosca a rivolgersi a Pyongyang sarebbero le conseguenze delle sanzioni economiche imposte da Stati Uniti e Unione Europea, che se da un lato non hanno inciso più di tanto sull’economia del Paese (soprattutto grazie ai crescenti costi dell’energia), dall’altro hanno influito sulla capacità dell’esercito russo di riorganizzarsi riducendone la possibilità di ottenere armi e forniture per la guerra.

La Cina si sarebbe astenuta finora dal vendere attrezzature belliche all’esercito russo. Pechino è disposta ad aiutare Mosca sul piano economico ma non a farsi coinvolgere su quello militare. La Russia, secondo gli analisti avrebbe ripiegato su paesi isolati dai commerci internazionali. E infatti nei giorni scorsi si era parlato dell’acquisto di droni d’attacco forniti dall’Iran. Secondo l’analisi de Il Corriere della Sera la richiesta a Pyongyang riguarderebbe soprattutto munizioni per artiglieria per armi di medio e lungo raggio.

L’indiscrezione del Nyt riporta che non è escluso che gruppi di operai nordcoreani possano arrivare in Donbass. Le informazioni fornite dall’intelligence americana sono comunque molto difficili da verificare da fonti indipendenti. Se dovessero essere comunque vere, testimonierebbero una catena industriale bellica in grave affanno. Anche Kiev, d’altronde, dopo quasi sette mesi di guerra, si è dedicata a recuperare armi anche dal Pakistan, per esempio.

Il Presidente russo Putin si è intanto recato in visita in Estremo Oriente per seguire le imponenti manovre militari cui partecipano vari alleati della Russia. Come la Cina. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha parlato di una “riunione a porte chiuse” del presidente con il ministro della Difesa, Sergei Shoigu, e il capo di Stato Maggiore, Valery Gerasimov. Putin dovrebbe assistere anche a una fase delle esercitazioni Vostok 2022 che dovrebbero concludersi domani.

Estratto dell'articolo di Marco Ventura per Il Messaggero il 27 agosto 2022.

Altro che carri armati, lanciamissili lungo raggio e sommergibili nucleari. La guerra in Ucraina la fanno i droni […] come quelli che i britannici hanno promesso nell'ultima visita di Boris Johnson a Kiev per l'Indipendenza, i Black Hornet da 6 pollici che si tengono tra due dita, micidiali nel penetrare ambienti e fotografare obiettivi; o i formidabili droni turchi disegnati nientemeno che dal genero di Erdogan, che hanno salvato Kiev costringendo le colonne di tank russi alla ritirata.

O quelli fai-da-te progettati da patrioti ucraini con l'hobby del drone, che hanno usato la tecnica della stampa tridimensionale. O le bombette di fabbricazione russa modificate dagli ucraini con alette che le fanno dolcemente planare sui target per disintegrarli. O i kamikaze americani, i Phoenix fantasma che vanno a disintegrarsi senza un gemito sulle torrette dei tank. […]

Ottocentocinquanta i micro-droni portati in dote da Johnson a Zelensky, […] Quasi 2 km di raggio, velocità massima 17 km l'ora, visione notturna, 25 minuti come tempo di volo. Silenziosissimi, possono entrare in una stanza dalla finestra senza farsene accorgere, inquadrare e trasmettere immagini in alta definizione.

[…] Tra i maghi dei droni arruolati nell'esercito di Kiev il 31enne presidente della Federazione ucraina di atletica, Yechen Pronin. Alla periferia della capitale c'è un centro d'addestramento per piloti di Uav, 35 allievi alla volta per un corso di 5 giorni, alle prese con 15 diversi tipi di drone. 

I Switchblade, o Phoenix fantasma, possono volare per 15 minuti a quasi 100 km l'ora, una volta individuato il target si fiondano giù con l'esplosivo incorporato. Abbinata vincente col Puma: apertura alare di 4 metri e mezzo, lanciato a mano, 10 chili di peso, per 5 ore volteggia in un raggio di 40 km per individuare i target, in modo che il Phoenix debba solo andar dritto sull'obiettivo senza perdite di tempo.

[…] Non altrettanto efficaci i droni promessi a Putin dal regime iraniano, gli Shadhed 129, modellati su un prototipo israeliano e con apertura alare di poco inferiore alla lunghezza di un bus londinese.

L’allarme Usa: “Il 60-70% di armi spediti a Kiev non è mai arrivato in Donbass”. Federico Giuliani il 10 Agosto 2022 su Inside Over.  

Avrebbero dovuto aiutare l’esercito ucraino a respingere, o quanto meno contenere, l’avanzata delle forze del Cremlino. Le armi che gli Stati Uniti hanno inviato in Ucraina dall’inizio della guerra ad oggi, si sono invece trasformate in un mezzo caso nazionale. Un’inchiesta targata Cbs ha infatti evidenziato un aspetto preoccupante: tra il 60 e il 70% degli armamenti spediti a Kiev non è mai arrivato in Donbass, dove cioè si trova l’epicentro del conflitto. Ci sono due possibili spiegazioni capaci teoricamente di svelare l’arcano. La prima: Washington ha inviato regolarmente le sue armi sul territorio ucraino ma queste, anziché finire nelle mani degli uomini di Volodymyr Zelensky, hanno terminato la loro corsa in qualche deposito di smistamento. La seconda, e ben più preoccupante, ipotesi: le armi sono arrivate a destinazione ma sono sparite dai radar. In altre parole, non sappiamo che fine abbiano fatto, se sono ancora controllate dagli ucraini, finite sotto il controllo russo, o peggio, se sono state vendute sul mercato nero. Considerando che stiamo parlando di oltre la metà degli aiuti militari, lo scenario urge un approfondimento dettagliato. È per questo che qualche giorno fa, all’inizio di agosto, gli Stati Uniti hanno inviato in Ucraina  il generale di brigata Garrick M. Harmon, incaricato di controllare e monitorare gli armamenti Usa.

A caccia di armi

Sia chiaro: il vasto afflusso di moderne armi Nato, accompagnato da forniture militari occidentali, hanno consentito all’Ucraina di tener testa alla Russia e non esser spazzata via dalla furia del Cremlino. È tuttavia difficile tracciare il percorso di queste armi, come InsideOver aveva già sottolineato lo scorso aprile. In ogni caso, la maggior parte delle suddette armi si dirige verso il confine tra Ucraina e Polonia, dove i partner Usa e Nato trasportano tutto oltre la frontiera, nelle mani dei funzionari ucraini.  Da qui è difficile capire che cosa succede. Jonas Ohman, fondatore e CEO di Blue-Yellow, un’organizzazione con sede in Lituania, ha stimato che ad aprile solo il 30-40% dei rifornimenti in arrivo attraverso il confine ha raggiunto la destinazione finale. Impossibile stabilire che fine abbia fatto il resto. La situazione è insomma complessa. Mesi fa la Cnn ipotizzava di tracciare il percorso delle armi. Solo che gli Stati Uniti non erano in grado – e non lo sono tutt’ora – di controllare completamente le spedizioni di armi. La ragione principale è che in Ucraina non è presente l’esercito statunitense, che in caso contrario avrebbe potuto “vegliare” sul destino dell’arsenale. Come se non bastasse, i pacchetti di aiuti militari sono formati da armi e sistemi facilmente trasportabili oltre i (porosi) confini ucraini.

Rischi da evitare

A complicare lo scenario c’è il fatto che le linee del fronte ucraine non siano composte soltanto da militari professionisti, ma anche da forze volontarie e paramilitari, probabilmente non sempre filtrate a dovere da Kiev. Il rischio, quindi, è che i prezzi del mercato nero possano spingere qualche malintenzionato a far sparire i rifornimenti militari. Certo, l’Ucraina ha creato una commissione speciale temporanea per monitorare il flusso di armi all’interno del Paese, ma è pressoché impossibile azzerare completamente la possibilità di perdere armamenti tanto preziosi quanto pericolosi. Ricordiamo che gli Stati Uniti hanno impegnato oltre 23 miliardi di dollari in aiuti militari all’Ucraina dall’inizio della guerra alla fine di febbraio, secondo il Kiel Institute for the World Economy. Soltanto per citare altri Paesi, il Regno Unito ha messo sul 3,7 miliardi di dollari, la Germania 1,4 miliardi di dollari e la Polonia 1,8 miliardi di dollari. Il segnale che gli Stati Uniti hanno mandato a Zelensky è chiarissimo: Kiev deve iniziare a tracciare gli armamenti. Forse potrebbe però essere troppo tardi.

Gianluca Di Feo per repubblica.it il 10 agosto 2022.

Una missione di soccorso nelle profondità del Mediterraneo è stata portata a termine dall'Us Navy. Obiettivo: recuperare un caccia F-18 Hornet caduto dal ponte della portaerei Truman lo scorso 8 luglio non lontano dalle coste italiane. Una giornata di maltempo e venti improvvisi aveva messo in crisi l'ammiraglia americana schierata per contrastare l'invasione dell'Ucraina.

L'incidente

Da febbraio i suoi aerei garantiscono la difesa del fronte sud della Nato e proprio uno degli Hornet appena rientrato da un pattugliamento ha rotto i cavi che lo tengono fissato al ponte ed è finito in acqua: un incidente senza precedenti, che aveva destato grande stupore. In quel momento la Truman stava venendo rifornita da una nave cisterna: si ritiene che si trovasse nello Ionio, a largo della Calabria; ma la posizione non è mai stata confermata.

Lo spionaggio nel Mediterraneo

Gli F-18 dispongono di strumentazioni top secret, come il sistema radar, e c'è chi ipotizza che abbiano apparati speciali installati per spiare le navi russe attive nel Mediterraneo: equipaggiamenti che non possono finire in mani straniere. 

Per questo i palombari sono intervenuti subito, utilizzando un minisottomarino telecomandato chiamato Curv-21 per individuare la posizione del caccia: lo hanno trovato su un fondale di quasi tremila metri.

Una profondità superiore agli strumenti dell'Us Navy, che ha ingaggiato una nave speciale - la MPV Everest - della società lussemburghese Maritime Construction Services: si tratta di un'unità impiegata per riparare condotte sottomarine e piattaforme petrolifere. 

Il recupero

Il recupero è stato completato il 3 agosto: il velivolo è stato agganciato e portato in superficie, per poi venire issato sulla Everest. Ora si trova in una base americana - probabilmente Sigonella in Sicilia - in attesa di essere trasferito negli States. Il comando della VI Flotta ha lodato la rapidità del recupero, anche se resta aperta un'indagine sull'incidente.

Lo scorso anno un F35B britannico, la versione più segreta del supercaccia, era precipitato nel Mediterraneo orientale, in un'area battuta dagli incrociatori e dai sottomarini di Mosca: in quel caso l'operazione per difendere il relitto era stata più frenetica, con la partecipazione di tutta la flotta Nato, nel timore che parte degli equipaggiamenti venissero prelevati dai mezzi russi. 

La sfida con Mosca

Questa volta i rischi di spionaggio sono stati limitati dalla vicinanza alle coste italiane, anche se il movimento di alcune navi russe in viaggio dalla Siria all'Algeria alcuni giorni dopo "l'affondamento" dell'F-18 ha creato momenti di tensione: la pattuglia era composto da una petroliera e da un battello per ricerche idrografiche, in grado di perlustrare i fondali. 

La scorta della Truman ha impedito che si avvicinassero alla zona delicata, tenendo d'occhio gli spostamenti della Marina di Mosca. Si tratta delle ultime operazioni della portaerei, rimasta per oltre sei mesi in azione: nei prossimi giorni verrà rimpiazzata dalla Bush, salpata alcuni giorni fa dagli States. 

Lo strano caso dell’aereo perso in mare. Il mistero del caccia americano caduto in mare dalla portaerei Truman: “È stato recuperato a 3mila metri di profondità”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 9 Agosto 2022 

Può un jet accidentalmente cadere in mare da una portaerei militare? A quanto pare sì. È successo il 3 agosto alla portaerei della marina statunitense Harry S. Truman che ha “perso” un aereo al largo delle coste della Calabria, un F-18 Super Hornet. Si tratta di un velivolo di oltre 6,5 tonnellate e sembrerebbe scivolato in mare a oltre 3mila metri di profondità a causa del maltempo. Dopo l’incidente, l’aereo è stato recuperato con l’intervento di un robot telecomandato. Ci sono stati anche momenti di tensione per l’avvicinamento di alcune navi russe.

La portaerei Truman si trova in Italia per sostenere le operazioni Nato, impegnata in una missione di rifornimento in mare. Il 3 agosto la marina degli Stati Uniti ha comunicato fi aver recuperato un “aereo caduto in mare” l’8 luglio scorso. Il tweet parla in maniera generica di un incidente avvenuto nel mar Ionio, a largo delle coste della Calabria.

Nel comunicato stampa in cui la marina annunciava di aver perso un aereo in mare veniva specificata la motivazione: “maltempo inatteso”. E in effetti quella zona, in quei giorni, è stata interessata da una forte perturbazione. Today ha verificato i dati metereologici di quei giorni di luglio ed effettivamente la perturbazione c’era. Ciò non toglie la domanda: un aereo che pesa 6,5 tonnellate e che costa 50 milioni di dollari può cadere in mare per il maltempo?

Il recupero è poi avvenuto grazie a un minisottomarino telecomandato, Curv-21, su un fondale di quasi 3mila metri. L’operazione è terminata il 3 agosto: il velivolo è stato agganciato e portato in superficie, per poi venire issato sulla Everest. Ora si trova in una base americana – probabilmente Sigonella in Sicilia – in attesa di essere trasferito negli States. Il comando della VI Flotta ha lodato la rapidità del recupero, anche se resta aperta un’indagine sull’incidente.

Durante il recupero ci sono stati momenti di tensione per il passaggio di alcune navi russe dirette dalla Siria all’Algeria. Come riportato da Repubblica, la pattuglia era composto da una petroliera e da un battello per ricerche idrografiche, in grado di perlustrare i fondali. La scorta della Truman ha impedito che si avvicinassero alla zona delicata, tenendo d’occhio gli spostamenti della Marina di Mosca. Si tratta delle ultime operazioni della portaerei, rimasta per oltre sei mesi in azione: nei prossimi giorni verrà rimpiazzata dalla Bush, salpata alcuni giorni fa dagli States.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

La farsa dei carri armati tedeschi all’Ucraina. Federico Rampini su Il Corriere della Sera il 27 luglio 2022.

È lontana, per fortuna, l’epoca in cui le panzerdivisionen della Wehrmacht terrorizzavano l’Europa. Adesso la Germania cade nell’eccesso opposto: è la caricatura di una nazione che s’illude di poter essere una «potenza erbivora», le sue divisioni blindate suscitano ilarità e scherno, diventano bersaglio della satira politica. L’ultima farsa messa in scena in nome del conclamato pacifismo, è la consegna di tre – dicesi tre – carriarmati tedeschi Gepard all’Ucraina. Solo tre, ma «in compenso»… sono stati consegnati a Kiev con tre mesi di ritardo sul primo annuncio del cancelliere Olaf Scholz relativo a questa fornitura di aiuti militari. Si capisce l’ironia del Wall Street Journal sul nome del tank: il ghepardo è una belva famosa per la sua velocità. Quei tre Gepard hanno viaggiato come lumache, invece. La consegna tardiva dei tre blindati forniti di cannoni antiaerei corona una promessa che era già arrivata con grande ritardo: il cancelliere Scholz uscì dai suoi tentennamenti sulle forniture di armi all’Ucraina solo a fine aprile, due mesi dopo l’aggressione militare russa. Nel frattempo la Germania continua a finanziare ben più generosamente le operazioni militari di Vladimir Putin, con i suoi pagamenti del gas russo importato. In questo non è dissimile dall’Italia, dove le polemiche sulle forniture di armi all’Ucraina hanno avuto un aspetto paradossale: di armi reali dall’Italia a Kiev ne arrivano sempre pochissime, mentre i miliardi dall’Italia nelle casse di Putin affluiscono con regolarità e abbondanza.

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina, in diretta

La Germania è altrettanto divisa dell’Italia al suo interno. I più filorussi sono i socialdemocratici, cioè il partito del cancelliere. È una tradizione che risale al cancellierato Spd di Willy Brandt, il primo a stringere accordi con l’Unione sovietica su forniture di gas a lungo termine fin dall’inizio degli anni Settanta, nell’ambito di una OstPolitik («politica orientale») che s’illudeva di riformare il comunismo attraverso il business. In quel senso il più recente cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder, assunto e pagato profumatamente dalla Gazprom di Putin, s’iscrive nel solco di una tradizione antica. E Scholz continua ad essere troppo debole per tenere a bada il «ventre molle» delle sue constituency filorusse.

Per giustificare la lentezza e la modestia delle sue forniture di armi all’Ucraina, negli ambienti filorussi di Germania si sono usate le argomentazioni più disparate: si è detto che la Wehrmacht non doveva correre il rischio di sguarnire i propri arsenali; si è detto che armando «troppo» Kiev si aumentava il rischio di un attacco nucleare russo; si è detto che bisognava dare il tempo per l’addestramento degli ucraini. Tutte argomentazioni di comodo, contraddette peraltro dai flussi più abbondanti e rapidi di aiuti militari a Kiev già forniti dai paesi dell’Est come la Polonia e i Baltici. Gli altri due partiti della coalizione che governa a Berlino, i Verdi e i liberali, non sono affatto filorussi e continuano a criticare la lentezza tedesca nel fornire armi a Kiev. La vicenda tragicomica dei tre carriarmati Gepard che hanno impiegato tre mesi per fare 1.600 km è oggetto di polemiche infuocate all’interno della stessa Germania. Offre anche uno stimolo alla riflessione per tutti coloro che invocano una difesa comune europea, con il sottinteso che questo sarebbe un modo per prendere le distanze dalla Nato e quindi dall’America. Se la catena di comando e i tempi di reazione di un futuro esercito europeo dovessero assomigliare a quelli della Wehrmacht di Scholz, tanti auguri. Non è un caso se quelle nazioni che si sentono più direttamente minacciate dall’espansionismo russo – Polonia e Baltici, ma anche i candidati all’adesione Svezia e Finlandia – si fidano della Nato mentre hanno delle riserve sulla sua «alternativa» tutta europea. Anche qui le caricature sono facili: s’immagini di dover difendere un continente aggredito dalla Russia con dei comitati di 27 ambasciatori europei che si riuniscono per autorizzare ogni decisione militare.

Guerra Russia-Ucraina, Kiev riceve dalla Germania tre lanciarazzi multipli Mars II. Il Tempo il 26 luglio 2022

Dalla Germania sono arrivate armi pesanti per l'Ucraina per fronteggiare la guerra con la Russia. Si tratta di tre lanciarazzi multipli Mars II e altrettanti obici semoventi Panzerhaubitzen 2000.  "Manteniamo la parola data", ha affermato il ministro della Difesa di Berlino, Christine Lambrecht riferendosi alla promessa fatta a giugno dal cancelliere Olaf Scholz. Una spedizione concordata direttamente con gli Stati Uniti, che ha mandato lo stesso sistema di artiglieria in Ucraina e si occuperà della relativa formazione.

Il Mars II è la versione europea del M270 americano. È stato adottato dall'esercito tedesco nel 1990 e aggiornato nei 30 anni successivi. È composto da due unità usa e getta, ciascuna delle quali ospita sei container da trasporto e lancio con munizioni a propulsione a razzo, calibro 240 mm. I bersagli possono essere colpiti a una distanza massima 70 chilometri, a seconda delle munizioni. I lanciarazzi Mars II sono progettati per distruggere attrezzature nemiche, batterie di artiglieria, difese aeree, posti di comando e comunicazioni, nonché per allestire campi minati. 

Come riferisce il quotidiano "Bild", il Mars-II può lanciare dodici missili terra-terra in 55 secondi, con una potenza di fuoco pari al doppio degli Himars, i lanciarazzi multipli degli Stati Uniti. La gittata del Mars-II è di 84 chilometri. L'Ucraina attende ora dalla Germania un moderno sistema di difesa aerea Iris-T, per il prossimo autunno, e tre corazzati da recupero.

Russia: addio al "Dmitry Donskoy", il più grande sottomarino nucleare del mondo. Redazione Tgcom24 su Tgcom24 il 22 luglio 2022.  

La Marina russa ha deciso di mettere in disuso il sottomarino nucleare pesante TK-208 "Dmitry Donskoy", il più grande al mondo. Un gigante che ha dominato i mari con le sue 48mila tonnellate, che lo rendevano il protagonista principale del Progetto 941 Shark (classificazione NATO - SSBN Typhoon), all'interno del quale, a fargli compagnia, c'erano altri 6 sommergibili. Il sottomarino era stato inserito nella struttura di combattimento del corpo navale sovietico nel 1981. Ora ha perso il suo nome, assegnato a un altro bolide navale. Le sue 48mila tonnellate sono state dismesse e verranno rottamate.

Restyling - Nel 2002 varie sono state le modifiche apportate al mezzo navale per renderlo più moderno e raggiungere l'obiettivo di testare il missile balistico intercontinentale Bulava. L'idea era quella di mantenere "in vita" il sommergibile fino al 2020, per inserire il vettore di razzi pesanti all'interno dei test del missile Bulava-M rimodernato.

Passaggio di nomine - Un altro sottomarino degno di portare il nome "Dmitry Donskoy" è già stato individuato. Si tratta di un mezzo nucleare strategico della classe Borey-A (progetto 955A), la cui costruzione ha avuto inizio nel 2021. Si prevede di varare il sommergibile nel 2025. Il vecchio re dei sottomarini, invece, secondo una fonte dell’agenzia giornalistica pubblica russa Ria Novosti, dovrebbe essere smaltito nel reparto militare-industriale russo.

Gli alleati di Kiev temono il contrabbando delle armi fornite alla resistenza ucraina. Andrea Marinelli e Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 14 Luglio 2022.

I Paesi donatori hanno inviato oltre 10 miliardi di euro in aiuti militari, ma non esiste un sistema di tracciamento e ora temono che possano essere vendute sul mercato nero europeo.

Gli alleati occidentali hanno inviato in Ucraina oltre 10 miliardi di euro in aiuti militari dall’inizio del conflitto: soltanto gli Stati Uniti hanno stanziato 8 miliardi fra Javelin, Stinger, Himars, droni, elicotteri e centinaia di migliaia di munizioni. Ora però i Paesi fornitori chiedono a Kiev di garantire un sistema di tracciamento delle attrezzature, rivela il Financial Times, o quantomeno di fornire un inventario delle armi arrivate sul campo di battaglia: il timore è che gruppi criminali possano portarle fuori dall’Ucraina e venderle di contrabbando sul mercato nero europeo. «Quando cesserà il fuoco, arriveranno le armi illegali», aveva avvertito a giugno Jürgen Stock, il capo dell’Interpol, l’agenzia che facilità lo scambio di informazioni fra le forze di polizia dei vari Paesi.

Anche l’Europol, che coordina la lotta internazionale alle organizzazioni criminali, ha confermato la minaccia. «L’aggressione russa ha portato alla proliferazione di armi ed esplosivi in Ucraina», ha spiegato l’agenzia di polizia europea in una nota ai governi. «All’inizio i funzionari ucraini mantenevano un registro delle armi fornite ai civili, ma questa pratica è stata abbandonata e, con il proseguo della guerra, sono state distribuite senza mantenere un archivio». Ora il governo ucraino ha accettato però di realizzare un sistema di tracciamento con l’aiuto degli alleati occidentali, per mantenere una visuale delle spedizioni: il controllo sarà affidato all’Eu Support Hub, appena lanciato in Moldavia perché — ha spiegato il capo ad interim di Frontex Aija Kalnaja — «è qui che si concentra l’attività di contrabbando».

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina

Al momento, i pallet con le armi atterrano in Polonia, nella base di Rzeszow, e vengono trasferiti al confine ucraino, dove sono suddivisi in «pacchetti» più piccoli per attraversare la frontiera e raggiungere la destinazione finale a bordo di camion, furgoni e persino auto private che impediscono ai russi di intercettare i carichi. «Da lì in poi abbiamo un vuoto», ha spiegato una fonte europea al Financial Times. «Non conosciamo la posizione delle armi, non sappiamo dove vanno, dove vengono usate e neanche se restano nel Paese». La possibilità che quelle spedizioni finiscano nelle mani sbagliate non va esclusa. «Gli Stati Uniti si impegnano per proteggere le tecnologie di difesa di origine americana ed evitare che vengano dirottate in modo illecito», ha affermato a Bruxelles la sottosegretaria americana Bonnie Denise Jenkins, deputata al controllo delle armi e della sicurezza internazionale. «Abbiamo fiducia nell’impegno preso dal governo ucraino di proteggerle».

Secondo il consigliere della Difesa ucraina Yuriy Sak, ogni movimento delle armi all’interno o all’esterno del Paese — nel caso sia per esempio necessaria una riparazione — è monitorato con attenzione da Kiev e dagli alleati «Che l’Ucraina sia diventata un hub del contrabbando di armi non corrisponde alla realtà», afferma Sak, per il quale chi lo sostiene «potrebbe essere parte della guerra d’informazione russa per scoraggiare i partner internazionali». Tuttavia, sostiene la ministra della Difesa ceca Jana Cernochová, è difficile fermare il traffico illegale o il contrabbando di armi. «Non ci siamo riusciti nell’ex Jugoslavia, e probabilmente non ce la faremo neanche in Ucraina», ha spiegato nel weekend aggiungendo che, nonostante l’impegno dei «donatori», è impossibile seguire ogni singola attrezzatura.

È un rischio su cui si gioca anche una pericolosa battaglia di propaganda, come dimostra la storia di Victoria Spartz, prima deputata americana nata in Ucraina o in una ex repubblica sovietica, passata dall’essere un simbolo di impegno del Congresso all’inizio dell’operazione militare «speciale» alle accuse di diffondere disinformazione russa. La rappresentate repubblicana — e trumpiana — dell’Indiana, fra i primi a denunciare i crimini di guerra dell’Armata e a recarsi in Ucraina ad aprile, ha chiesto al presidente Biden di informare il parlamento americano su Andriy Yermak, capo dello staff di Zelensky considerato la seconda persona più importante del Paese, che Spartz accusa di corruzione e di aver sabotato alcune riforme per fare gli interessi del Cremlino.

«Dobbiamo essere sicuri che la nostra assistenza non finisca nelle mani delle persone sbagliate», ha affermato la deputata, a cui Kiev ha risposto intimandole di non diffondere propaganda e di non ostacolare i rifornimenti di armi americani. Pur senza rispondere direttamente, Yermak nega qualsiasi legame con il Cremlino ma Spartz ha infranto il codice d’onore in vigore in Ucraina dall’inizio della guerra: gli interessi personali e politici, dal 24 febbraio, sono stati sotterrati per non minare l’unità nazionale, ma le sue parole hanno provocato una crepa nel fronte interno della resistenza.

La Russia schiera il mostro degli abissi. Gianluca Di Feo su La Repubblica l'8 Luglio 2022.  

Entra in servizio il Belgorod, il più grande sottomarino varato dai tempi dell'Urss: concepito per usare gli apocalittici siluri nucleari

"Non abbiamo ancora cominciato a fare la guerra sul serio". Dopo 135 giorni di combattimenti, le minacce di Vladimir Putin vengono accolte come esercizi di propaganda: slogan per coprire i problemi mostrati sul campo dal suo esercito nella prima fase dell'invasione dell'Ucraina. Ma il potenziamento delle forze armate russe prosegue, guardando oltre l'Ucraina: continuano la costruzione di macchine belliche destinate alla sfida all'Occidente.

Gianluca Di Feo per repubblica.it il 9 luglio 2022.

"Non abbiamo ancora cominciato a fare la guerra sul serio". Dopo 135 giorni di combattimenti, le minacce di Vladimir Putin vengono accolte come esercizi di propaganda: slogan per coprire i problemi mostrati sul campo dal suo esercito nella prima fase dell'invasione dell'Ucraina. Ma il potenziamento delle forze armate russe prosegue, guardando oltre l'Ucraina: continuano la costruzione di macchine belliche destinate alla sfida all'Occidente. Un esempio? Oggi è ufficialmente entrato in servizio il "Belgorod", il più grande sottomarino nucleare completato dopo la fine dell'Urss. E' lungo 184 metri, inferiore per dimensioni solo alla classe "Typhoon", che negli anni Ottanta ispirò il kolossal hollywoodiano "Caccia all'Ottobre Rosso".

La nuova unità non è solo tecnologicamente più avanzata delle altre: rappresenta un concetto nuovo della battaglia subacquea. E' stato concepito per fare da "madre" a una famiglia di mezzi minori e soprattutto di battelli teleguidati. Il comandante in capo della flotta, Nikolaj Evmenov, lo ha presentato come un sistema di ricerca: il "Belgorod" apre nuove opportunità per la Russia nella conduzione di vari studi, consente di realizzare diverse spedizioni scientifiche e operazioni di salvataggio nelle aree più remote dell'Oceano".

La costruzione è iniziata nel 1992, subito dopo la fine dell'Urss ed è stata interrotta più volte. Poi il riarmo voluto da Putin ha spinto a completarlo, trasformandone la missione. I "Typhoon" erano protagonisti del folle equilibrio nucleare della Guerra Fredda, pronti a lanciare dalla profondità i missili intercontinentali a testata multipla. Il "Belgorod" invece vuole colpire direttamente negli abissi tramite il Poseidon: un mostruoso siluro con un'autonomia enorme, più volte evocato dal Cremlino. Lungo 24 metri, si ritiene che possa colpire a oltre 10 mila chilometri di distanza. L'obiettivo è quello di far esplodere un'atomica sott'acqua, scatenando una sorta di colossale tsunami sulle coste avversarie: immaginate la devastazione che potrebbe provocare in città come New York o Los Angeles.

Senza bisogno di arrivare a questi scenari apocalittici, il nuovo sottomarino dispone di altri strumenti micidiali: trasporta veicoli subacquei più piccoli, che possono sabotare le arterie costruite nei fondali marini. Mezzi per sabotare oleodotti o gasdotti, ma soprattutto per spiare e manipolare i cavi in fibra ottica che sono la rete vitale del mondo digitale, lì dove passano le connessioni web e le telefonate. La più nota di queste navette è il "Losharik", dal nome di un cavallo snodabile protagonista di un popolare cartone animato sovietico: può immergersi fino a duemila metri di profondità, dove non teme rivali.

Il "Poseidon" è ancora nella fase dei prototipi, mentre il "Losharik" sarebbe in riparazione. Ma il "Belgorod" ha già ricevuto un altro battello spia per condurre le sue missioni di intelligence, mascherate sotto la copertura di "esplorazioni scientifiche". Finora gli analisti della Nato avevano guardato con scetticismo al progetto: sono passati quattro anni dal varo del grande sottomarino e si riteneva che fosse lontano dal diventare operativo. Invece ieri è stato annunciato l'inizio dell'attività militare: un'altra pedina che entra nel confronto tra potenze innescato dall'invasione dell'Ucraina, con una situazione che appare ogni giorno più tesa.

Missili Kalibr sul Mar Nero: come funzionano. Alessandro Ferro il 5 Luglio 2022 su Il Giornale.

I russi sarebbero pronti a scagliare i loro missili da crociera e di precisione da navi e sottomarini: ecco di cosa si tratta e qual è il loro vantaggio

Se via terra i russi hanno definitivamente conquistato Lysychansk e non intendono fermarsi prima di aver preso tutto il Donbass, la flotta di Putin si organizza anche sul Mar Nero, pronta ad aprire il fuoco. Secondo il quotidiano Ukrinform, la flotta russa sarebbe pronta al lancio di missili Kalibr. "Nella parte nord-occidentale del Mar Nero", scrive il quotidiano, "ci sarebbero tre navi da guerra e due sottomarini pronte a lanciare più di 30 missili".

Cosa sono i Kalibr

Come abbiamo visto su InsideOver, la Russia non è nuova a lanci di questi missili avvenuti già a fine maggio scorso. I Kalibr sono missili da crociera e sono utilizzati per attacchi di precisione. La stessa tipologia di missile era stata lanciata dai sottomarini durante il conflitto in Siria contro lo Stato Islamico. La distanza che riescono a ricoprire arriva fino a 2.500 km e possiedono una testata in grado di contenere ben 450 chili di esplosivo ma anche una testata nucleare. Secondo alcune fonti, un solo missile costerebbe circa 6,5 milioni di dollari.

I Kalibr somigliano molto ai Tomahawk americani, missili a lungo raggio utilizzato dalla Marina degli Stati Uniti e dalla Royal Navy per le operatizioni via terra e via mare. Inoltre, i missili russi possono essere "guidati" grazie a un motore che rimane in funzione per tutta la durata del volo e alle ali che consenstono di virare e cambiare eventualmente la rotta. Questo conferisce un enorme vantaggio ai Kalibr rispetto ai classici missili balistici che hanno un'unica traiettoria prefissata.

Cosa succede in Ucraina

Il fronte del mare può essere un'arma in più per i russi per sorprendere e colpire al cuore gli ucraini. Come vediamo nella nostra diretta sulla guerra, i soldati russi hanno lanciato la scorsa notte un attacco missilistico contro una scuola a Kharkiv, ha riferito Oleg Synegubov, il capo dell'amministrazione militare regionale della città sul proprio canale Telegram. "Alle 2 del mattino, il nemico ha lanciato un attacco missilistico contro una delle istituzioni educative del distretto di Saltiv a Kharkiv. L'edificio è stato parzialmente danneggiato. Fortunatamente non ci sono state vittime", ha dichiarato Synegubov. Insomma, i russi avanzano, gli ucraini arrancano nonostante gli aiuti Occidentali già arrivati e con altri previsti nelle prossime settimane. Il conflitto non è certamente al capolinea, anzi: si teme il coinvolgimento di altri Paesi come la Bielorussia che potrebbe entrare in guerra a dar man forte all'esercito di Putin.

La petroliera del cielo inglese che rifornisce di carburante la Nato. Marco Pizzorno su Inside Over il 4 luglio 2022.

La consapevolezza situazionale della Nato è pienamente operativa sul fronte Est dell’Europa, grazie soprattutto alle recenti rivoluzioni nel campo della logistica che si sono rivelate fondamentali nello scenario dello “strategy warfare”. Le più importanti dialettiche editoriali di settore, infatti, rendono noto che ora i caccia, gli aerei da trasporto e quelli da rifornimento aria-aria, nonché le piattaforme di allarme e controllo aviotrasportato, sembrano essere ormai pronte ad affrontare qualsiasi aggressione e minaccia proveniente dall’Oriente.

Cosa accade nei cieli Nato ad Est?

In questi giorni, infatti, le risorse aperte stanno rilasciando particolari informative sulle straordinarie capacità della flotta aerea inglese. Nello specifico, i fari si sono accesi su alcune meraviglie tecnologiche conosciute come le “petroliere del cielo”, le quali, sono attualmente in servizio di pattugliamento sul fianco orientale europeo.

Questo super armamento è in forza a Sua Maestà e detiene il comando e coordinamento dell’Allied-Command della Nato. Le sue regole d’ingaggio sono destinate ad “operazioni speciali di vigilanza rafforzata” ed il suo nome è conosciuto come Voyager.

Sono a tutti gli effetti petroliere volanti e dotate di straordinarie capacità per il rifornimento aereo di velivoli civili e militari, oltre ad essere armate con una moltitudine di tecnologie dedicate al monitoraggio situazionale delle manovre nemiche. Il Regno Unito, secondo rumors del suo ministero della Difesa, starebbe impiegando queste macchine soprattutto sulla Polonia e nei territori baltici. Inoltre, proprio grazie alle particolari capacità espressive di tale armamento, sembrerebbe che Londra stia commentando con un certo entusiasmo sullo speciale supporto strategico di questi mezzi. Infatti, ultimamente, le dialettiche si sono vivacemente argomentate proprio perché queste navi volanti sarebbero riuscite a rifornire di carburante i-Typhoon della Royal-Air-Force, in maniera totalmente “continuativa“.

A conferma di ciò, l’aeronautica britannica fa sapere che, grazie ai Voyager, l’Alleanza Atlantica è riuscita ad essere impiegata in servizio di pattugliamento, addirittura 24 ore su 24. Inoltre, comunica con soddisfazione che attualmente potrà essere in grado di sorvegliare tutti quei territori ritenuti obbiettivi di altre eventuali  “operazioni speciali”.

Come funziona?

La Raf ci racconta che la flotta Voyager è l’unica “nave cisterna” di rifornimento aria-aria di Sua Maestà ed agisce in maniera simultanea anche come “trasporto aero-strategico”. La sua nascita avviene grazie ad un contratto con il consorzio AirTanker che ha una durata di 27 anni.

Quest’ultimo prevede la creazione di due tipologie di flotte, ovvero una “principale” composta da 8 aerei a destinazione militare ed un solo aereo per scopi civili. Mentre l’altra “flotta d’emergenza” si compone di 5 velivoli ad uso commerciale, ma modificabili per scopi militari. Il Voyager, anche detto A330 MRTT, risulta essere operativo dal 2012, sebbene l’Airbus Industry lanciò il progetto per un prototipo combinato del velivolo A340 con l’A330 già nel lontano 1987. La General Electric fu la fortunata ad inaugurare il suo primo volo, mentre fonti riportano che nel 1994 invece, fu Rolls-Royce a fornire tutta la meccanica.

Questi gioielli sono muniti di dotazioni sistemiche fly-by-wire che consentono ai velivoli un’interazione istantanea. La loro versatilità alla conversione militare ha reso questo armamento un aereo cisterna multiruolo che ha consentito il suo debutto con l’aeronautica inglese nel 1995. Gli A330, attualmente operativi nel Baltico, sono in servizio come Voyager KC MK2 e sono muniti di 2 pod underwing per il rifornimento dei caccia. I modelli dotati invece di un enorme tubo posto nella zona centrale della fusoliera, appartengono al modello KC MK 3 e sono destinati solo al rifornimento degli aerei di grande stazza. Il funzionamento si articola mediante la distribuzione di carburante che in sostanza viene prelevato dai serbatoi posti nelle ali, oppure proprio sotto la fusoliera dell’aereo. 

L’appellativo di “petroliera dei cieli” non è a caso: la Royal Air Force ci spiega testualmente che il soprannome dato a queste macchine viene proprio dalla capacità di poter operare su una “linea di traino”, nella quale l’aereo rimane in attesa dei cosiddetti “ricevitori”. Le operazioni per rifornire i jet nell’Europa dell’Est, invece, prevedrebbero una sola “scia” di volo, che, nel caso di specie, è stata minuziosamente pianificata proprio per soddisfare dinamiche operative basate su lunghe distanze ed a velocità molto elevate.

Questo, in pratica, è stato il rivoluzionario successo che ha consentito al capo di stato maggiore del Comando Aereo Alleato Gen Lebert di potere affermare che “l’attuale rafforzamento aereo”, ora è in grado di proteggere la Nato da qualsiasi aggressione.

Ci sono decine di produttori russi di armi che hanno evitato ogni sanzione. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 4 luglio 2022.  

Sono almeno 14 secondo un report della Reuters. A cui si aggiungono una trentina di leader delle aziende che producono missili, fucili, munizioni a grappolo. Tra questi Alan Lushnikov il maggiore azionista di Kalashnikov Concern JSC che produce l’AK-47

«L’economia russa vive la più grande crisi degli ultimi 50 anni. Il mondo ha rotto i legami con la Russia. Le parole “collasso”, “deficit” e “povertà” descriveranno questo Stato finché vorrà essere uno stato terrorista», ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky domenica, in un video pubblicato sui social. Ma un report elaborato dall'agenzia di stampa Reuters mostra che ci sono ancora molte aziende e magnati russi costruttori di armi che sfuggono alle sanzioni di Stati Uniti, Unione Europea e Regno Unito.

Tra questi Alan Lushnikov, il maggiore azionista di Kalashnikov Concern JSC, società che realizza il noto fucile d'assalto AK-47. Che ha il controllo del 95 percento della produzione russa di mitragliatrici, fucili di precisione, pistole e altre armi da fuoco portatili. La società è sanzionata dagli Stati Uniti dal 2014, l’anno in cui la Russia ha invaso la penisola della Crimea, mentre l'Ue e il Regno Unito hanno imposto le sanzioni quest’anno. Ma Lushnikov resta impunito.

Vale lo stesso anche per Almaz-Antey Concern, azienda di stato russa specializzata nella realizzazione di missili e sistemi antiaerei. La società è stata sanzionata da Usa, Eu, e Regno Unito ma il suo ceo, Yan Novikov, no. Sono sfuggiti del tutto alle sanzioni dell'Occidente anche l'impianto di munizioni di Klimovsk, a sud di Mosca, dove vengono prodotte le cartucce per le pistole e i fucili Kalashnikov, e quello di Novosibirsk che si definisce «una delle principali imprese di ingegneria del complesso militare-industriale russo».

Così, anche se dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina l'Occidente ha imposto sanzioni su una parte dell'economia russa per punire Mosca e generare malcontento tra le persone più vicine al Cremlino, i risultati non sono stati in grado, fino ad ora, di fermare l’offensiva sul territorio. Che continua anche sulle spalle della popolazione. Almeno 4.731 civili sarebbero stati uccisi in Ucraina dallo scorso 24 febbraio, tra cui più di 300 bambini. Altri 5.900 i feriti nel conflitto. Tra le armi utilizzate dall’esercito russo, i governi occidentali e i gruppi per i diritti umani hanno denunciato l'uso di munizioni a grappolo: piccole bombe lanciate da missili o razzi che, esplodendo, colpiscono aree molto ampie. Nonostante dal 2008 il diritto internazionale ne vieti l’utilizzo perché gli effetti sui civili sono devastanti, secondo le Nazioni Unite, lo scorso 24 marzo a Kharkiv i russi hanno utilizzato un sistema di lanciarazzi Uragan per sparare bombe a grappolo, uccidendo otto persone e ferendone altre 15.

L’azienda russa JSC Scientific and Production Association Splav che realizza Uragan è stata sanzionata dagli Stati Uniti ma non dall’Unione Europea e dal Regno Unito. Il suo ceo, Alexander Smirnov, è sfuggito completamente alle sanzioni dell’Occidente. Così come l’azienda VSMPO-Avisma Corp, una delle più importanti della Federazione, la più grande fornitrice di titanio al mondo. Tra i suoi clienti annovera, oltre all'industria della difesa russa, le principali società aerospaziali occidentali. E ha filiali negli Stati Uniti, in Svizzera e nel Regno Unito. Questo è senza dubbio un fattore che ha permesso alla società di evitare le sanzioni, secondo quanto alcuni esperti della difesa russa hanno dichiarato ai giornalisti Chris Kirkham e David Gauthier-Villars, autori del report per Reuters.

Da ansa.it il 29 giugno 2022. 

Tre carrarmati Pzh 2000 diretti in Ucraina, e provenienti dalla base militare di Persano (Salerno), sono stati fermati dalla Polizia Stradale di Napoli al casello di Mercato San Severino della autostrada Salerno-Caserta perché i trattori e i semirimorchi delle ditte private incaricate del loro trasporto erano sprovvisti della carta di circolazione e la prevista revisione periodica era scaduta. Inoltre, uno dei conducenti non aveva l'autorizzazione per guidare mezzi di trasporto eccezionali. È quanto riferisce il quotidiano Il Mattino nell'edizione di oggi.

I tre mezzi bellici sono stati spediti di nuovo alla base di Persano in attesa di essere ritrasportati su mezzi in regola con le carte: facevano parte di un convoglio di cinque carri armati diretti verso il luogo del conflitto in corso tra Ucraina e Russia. Gli altri due mezzi, che hanno passato i controlli, hanno proseguito il loro tragitto verso Bologna da dove poi, attraverso la Germania, arriveranno in Ucraina. L'episodio risale alla notte tra domenica e lunedì scorsi.

Un uomo solo può fermare la storia: i vigili e i carri armati per l'ucraina. Piccole Note l'1 luglio 2022 su Il Giornale.

Non ci saranno stati Totò e Peppino al volante, ma “tre carri armati Pzh 2000 diretti in Ucraina, e provenienti dalla base militare di Persano (Salerno), sono stati fermati dalla Polizia Stradale di Napoli, al casello di Mercato San Severino dell’autostrada Salerno-Caserta, perché i trattori e i semi-rimorchi delle ditte private incaricate del trasporto erano sprovvisti della carta di circolazione e la prevista revisione periodica era scaduta”.

“Inoltre, uno dei conducenti non aveva l’autorizzazione per guidare mezzi di trasporto eccezionali”. (ANSA).

Fino a qui la notizia che dipinge il solito ritratto di un Italia chiassosa (nei proclami) e approssimativa (nei fatti).

Poi comincia il balletto delle smentite e delle correzioni. I carri non sarebbero stati diretti verso l’Ucraina, ma altrove (Germania (SkyTg24), non erano tre ma cinque etc etc etc.

E però la scenetta, vera o falsa che sia, dei vigili che fermano con la loro paletta i carri armati spediti in Ucraina ha avuto l’effetto di far riemergere nella nostra memoria un ricordo lontano quanto sopito.

Al di là dell’ironia attuale contro la tragedia di allora, ci ha fatto rimembrare la scena dell’omino cinese che, a piazza Tienanmen, fermava col suo corpo i carri armati diretti contro la folla inerme.

“Un uomo solo può fermare la storia”, fu lo slogan azzeccato che accompagnò quella storica scena (anche se, purtroppo, fu sosta breve) come una paletta può fermarla adesso.

In una chiave vagamente simbolica, per restare nel campo dell’ironia, l’accidentale rinvio al mittente dei carri armati diretti in Ucraina (pur se la destinazione è risultata aleatoria), potrebbe essere letto come un messaggio criptico riguardo la nuova disposizione bellica dell’Italia atlantista-draghiana che, nonostante le smentite dell’amerikano Amato (che improvvidamente è stato posto a presiedere la Corte Costituzionale), è in netto contrasto con la Costituzione, redatta nel dopoguerra da chi la guerra l’aveva vista da vicino e ne conosceva gli orrori e le tante, indicibili, contraddizioni.

In appendice, resta la domanda sull’approssimazione delle cose italiche, dove un trasporto tanto eccezionale si può muovere senza le carte in regola e senza nessun coordinamento del caso, alla stregua di un carico di banane. E dire che con Draghi ci era stato detto che i treni, e i carri armati, sarebbero arrivati in orario.

Andrea Cappelli per “Libero quotidiano” il 30 luglio 2022.

In Italia il confine tra realtà e fantasia è sempre stato labile e in un gioco di specchi e di rimandi anche il dramma diventa ridicolo. A confermare questo assioma è un episodio di cronaca: nella notte tra domenica e lunedì, la polizia stradale di Napoli ha fermato un convoglio di cinque carri armati in viaggio lungo l'autostrada Salerno - Caserta. Con grande sorpresa, gli agenti si sono accorti che i veicoli stavano trasportando un carico d'armi. 

La notizia si è diffusa rapidamente, tanto da richiedere un intervento dello Stato maggiore della Difesa: «Si precisa che i mezzi trasportati, Pzh2000, provengono dalla base militate di Persano e erano diretti in Germania per una esercitazione. Il trasporto degli stessi era a carico di una ditta privata che non era in possesso di documentazione corretta». 

Tre carri armati su cinque, difatti, erano sprovvisti della carta di circolazione e con la revisione periodica scaduta. Non solo: uno dei conducenti non aveva l'autorizzazione per guidare mezzi di trasporto eccezionali. È mai possibile che in Italia anche la guerra si tramuti in farsa? Lo chiediamo a Enrico Vanzina (73 anni), che assieme al fratello Carlo (1951 2018) nell'arco della sua lunga e prolifica attività di sceneggiatore, regista e produttore ci ha regalato alcuni tra i più grandi capolavori della commedia all'Italiana.

Siamo un Paese destinato alla commedia?

«Sì, e non è necessariamente un male. Di fronte a storie come questa mi torna in mente l'auspicio formulato anni fa da uno scrittore francese: "Speriamo che il mondo rimanga ridicolo"». 

In Italia questo auspicio viene preso molto seriamente...

«Due mesi prima di morire, mio padre Steno (Stefano Vanzina, 19171988, tra i maggiori registi del cinema comico italiano del Novecento, ndr) mi disse: "Ricordati che l'Italia di Totò non finirà mai". A distanza di 70 anni da film come "Totò cerca casa" (1949), "Totò e i re di Roma" (1951) e "Totò e le donne" (1952), l'Italia descritta all'interno di quelle pellicole è rimasta invariata nei suoi tratti fondamentali.

Totò si confrontava con lo spirito degli italiani, ne aveva colto l'essenza: quel mondo popolato da azzeccagarbugli e fatto di impicci, raccomandazioni e Enrico Vanzina spintarelle lo ritroviamo intatto ancora oggi. Non è un caso che la commedia all'italiana sia stato il genere cinematografico più importante dal dopoguerra ai giorni nostri, quello che più di ogni altro è stato in grado di raccontare il nostro Paese. In Italia è impossibile prendere sul serio il reale». 

Detta così non sembra una bella cosa.

«Da una parte è disarmante, dall'altra costituisce la nostra salvezza. La risata contiene in sé una forza enorme, capace di abbattere anche il disastro. Occorre sempre tenere presente che qui da noi, quando si è deciso di affrontare le cose senza umorismo, è arrivata la dittatura. Non voglio essere frainteso, stiamo viaggiando sul filo del paradosso: dico solo che questo spazio di libertà ci consente di evitare il baratro». 

Dobbiamo imparare ad accettare il nostro spirito scanzonato?

«Io sono sposato con una tedesca, mi confronto ogni giorno con una mentalità diversa dalla mia. Dopo anni di vita in Italia, mia moglie comincia a rimpiangere una certa serietà teutonica. Anche noi italiani spesso desideriamo essere tedeschi... La verità è che in Germania, così come in Austria o in Inghilterra, i carri armati sono in regola e non vengono fermati al casello, ma quel modello di società presenta altri difetti, altrettanto vistosi». 

Del tipo?

«Ti racconto una storia: negli anni '90, assieme a mio fratello Carlo, ci trovavamo a Londra per il film "Io no spik inglish" (1995), con protagonista Paolo Villaggio nel ruolo dell'assicuratore Sergio Colombo. Una sera, finito di girare, Paolo voleva andare a mangiare al The Buccaneer, un pub a cui era affezionato. Il locale chiudeva alle 21 e, una volta giunti sul posto, il titolare è stato irremovibile: "Sono le 21.01, non posso farvi entrare". 

Questo è lo spirito dell'Inghilterra. Una volta respinti dal pub, Paolo ha cominciato a declamare: "Capri, ore 17 di Ferragosto, Antonio sta chiudendo la saracinesca dopo l'ultimo servizio. Arriva un'allegra comitiva. "Antonio, siamo in 15, c'è posto?". "Non c'è problema, dotto'..." risponde Antonio, e in men che non si dica corre a preparare il tavolo per i suoi clienti". Noi italiani siamo così, non siamo dogmatici. E a conti fatti credo sia un bene».

Dagospia il 30 luglio 2022. Riceviamo e pubblichiamo dalla Polizia di Stato:

In riferimento alla notizia riportata dagli organi di stampa riguardo al controllo di un trasporto eccezionale su strada di 5 carri armati dell’Esercito Italiano, al fine di fornire una corretta ricostruzione dei fatti, il Servizio di Polizia Stradale precisa quanto segue. 

Poco prima della mezzanotte di domenica scorsa al centro operativo della Polizia Stradale di Napoli è pervenuta una richiesta d’intervento da parte di Società Autostrade per l’Italia, a causa di una colonna di mezzi pesanti giunta alla barriera autostradale di Mercato San Severino (SA).

Detta Società era stata attivata dal casellante, il quale si era reso conto che si trattava di un trasporto eccezionale e che la documentazione esibita presentava anomalie. Inoltre, a causa delle caratteristiche del carico, il trasporto eccezionale era potenzialmente idoneo a creare pericolo per il transito sui viadotti presenti lungo il tragitto. 

Una pattuglia della Polizia Stradale si è recata sul posto avvedendosi che, complessivamente, si trattava di 5 carri armati trasportati, ognuno, su un carrello trainato da una motrice. 

A seguito del controllo i poliziotti hanno appurato che per tre carri armati, il cui trasporto era effettuato da una società privata, la documentazione di viaggio non era in regola.

Infatti, per un carro erano stati utilizzati carrello e motrice non in regola con la revisione.

Per il secondo carro, invece, carrello e motrice viaggiavano privi dell’autorizzazione al trasporto eccezionale da parte della concessionaria autostradale. 

Per il terzo carro mancava la carta di circolazione sia del carrello che della motrice, con quest’ultima che era pure priva dell’autorizzazione al trasporto. 

Ultimati i controlli, i due carri in regola hanno proseguito il loro viaggio, mentre i tre carri la cui documentazione era carente sono stati fermati, per consentirne il ritorno in sicurezza presso il luogo di partenza.

Roma, 30 giugno 2022

Lo spazio è diventato il nuovo campo di battaglia. Oltre l’atmosfera si configurano gli scenari bellici del futuro ma che coinvolgono in pieno anche la guerra in Ucraina in corso. E alle lotte tra le grandi potenze con astronauti e satelliti, si aggiunge il terzo incomodo degli interessi privati (e non c’è solo Elon Musk). Emilio Cozzi su L'Espresso il 27 Giugno 2022.

La Russia effettua un test, cosiddetto “Asat”, e con un missile distrugge Cosmos 1408, un suo satellite in disuso a circa 500 chilometri dalla Terra. La nuvola di almeno 1.500 detriti, che orbita a più di 24mila chilometri orari, scatena la reazione internazionale: la Nasa non esita a definire «irresponsabile» la Federazione, stigmatizzandone anche l’indifferenza nei confronti dell’incolumità della Stazione spaziale internazionale, cosmonauti (russi) compresi.

C’è un dettaglio che attrae meno l’attenzione: poco sopra la quota orbitale del test, opera la costellazione Starlink, con cui SpaceX, la compagnia privata di Elon Musk, punta a vendere Internet super veloce in ogni punto del Pianeta. Anche per questo oggi l’aneddoto assume le tinte plumbee di un avvertimento: rivendica la capacità di colpire chiunque, fosse anche al di là del cielo. Perché è lo spazio il nuovo centro della Terra.

Apparente paradosso, è verità confermata dalla Nato, che da anni annovera l’oltre-atmosfera fra i domini strategici: dallo spazio si coordinano le forze armate, si muove il proprio esercito e si spiano quelli altrui. Da lì, si garantiscono la capacità di comunicare e la precisione delle armi più letali, come i missili ipersonici.

Lo ribadisce un’altra «offensiva spaziale», datata 24 febbraio 2022: un’ora prima dell’entrata dei carri armati russi in Ucraina, un attacco cibernetico colpisce la rete satellitare Ka-Sat, della società di comunicazioni con sede negli Stati Uniti, Viasat, che fornisce l’accesso a Internet a banda larga in tutta Europa e in una ristretta area del Medio Oriente. Mentre l’obiettivo rimane incerto, il National cyber ​security center del Regno Unito, il Consiglio dell’Unione europea e il Dipartimento di Stato americano sono sicuri quando, a inizio maggio, attribuiscono formalmente l’hacking alla Russia. Secondo Washington, lo scopo era «interrompere il comando e il controllo ucraini durante l’invasione». 

Fra le tante analisi sulla guerra in Ucraina, una rivela un paradigma emergente: mentre le modalità del conflitto a terra evocano tattiche da secolo scorso, nello spazio si stanno configurando scenari bellici del futuro ed è lì, sopra le nostre teste, che oggi si decide la geopolitica di domani.

Con una novità assoluta: l’ingresso, anche nell’agone extra-atmosferico, di corporation e interessi privati. È un dettaglio cruciale, ma per raccontarlo conviene, prima, tornare alle ripercussioni spaziali più clamorose della guerra, come gli insulti via Twitter che a inizio marzo si sono scambiati Scott Kelly, fra gli astronauti americani rimasti più a lungo in orbita, e Dmitry Rogozin, fedelissimo di Vladimir Putin, già vice Primo ministro della Difesa e oggi direttore di Roscosmos, l’agenzia spaziale della Federazione.

Tutt’altro che puerile, la zuffa racconta il tramonto di una collaborazione pacifica durata quarant’anni. Tutto finito. O almeno da rifare. E non è un caso che la Stazione spaziale internazionale, il simbolo supremo di una space diplomacy di successo, sia stata al centro di tanto accapigliarsi: Rogozin, lesto a ricordare che la navigazione della Iss si deve al segmento russo, ha chiesto al Cremlino di concludere la collaborazione. Mosca ha fatto sapere che così sarà, sebbene i partner internazionali (Stati Uniti, Europa, Canada e Giappone) saranno edotti un anno prima delle dimissioni. Se è perciò improbabile che la Iss venga abbandonata in fretta e furia - e, anzi, pochi giorni fa l’amministratore della Nasa, Bill Nelson, e il direttore generale dell’Agenzia spaziale europea, Josef Aschbacher, hanno confermato che in orbita l’attività collaborativa di tutto l’equipaggio rimane encomiabile -, è certo che gli strascichi della crisi saranno lunghi anche fra le stelle. 

La prima a sperimentarne il prezzo, stricto sensu, è stata OneWeb, compagnia partecipata dal governo britannico. Si è vista lasciare sulla rampa di Baikonur, in Kazakistan i 36 satelliti della sua costellazione Internet che avrebbero dovuto essere lanciati il 4 marzo a bordo di razzi Soyuz (russi). Sorte identica per i due nuovi “Galileo” della costellazione europea per la navigazione e il geoposizionamento. Di contro, benché la Federazione si fosse detta pronta al decollo, ExoMars, la missione congiunta destinata a Marte e programmata il prossimo settembre, è stata sospesa dall’Agenzia spaziale europea, in attesa di tempi migliori. O di partner “pronta-consegna”, cioè la Nasa - come confermato da Nelson mercoledì, pronto a garantire il supporto statunitense alla missione - e soprattutto compagnie private, con SpaceX in testa.

Elon Musk è diventato il simbolo di come l’imprenditoria spaziale sia entrata a pieno titolo nel conflitto. Non solo perché è stata la sua SpaceX a correre in soccorso di OneWeb; fin dai primi giorni dell’invasione, Musk si è proposto di inviare dei terminali della rete Starlink all’Ucraina. Se da oltre tre mesi è possibile vedere gli interventi di Volodymyr Zelenskyj ai Parlamenti di mezzo mondo, è merito delle 11mila stazioni di SpaceX. Ed è solo la punta dell’iceberg: come confermato da un’inchiesta di “Politico”, firmata dai giornalisti Christopher Miller, Mark Scott e Bryan Bender, grazie alle componenti di terra e alla costellazione, a oggi costituita da più di 2.300 satelliti attivi sui 40mila previsti (entro il 2030), Starlink ha permesso di comunicare alle forze ucraine in prima linea, quelle schierate nell’est del Paese e nei territori occupati, dove le infrastrutture terrestri sono state distrutte.

Detto altrimenti, nonostante i reiterati attacchi elettromagnetici e informatici, Starlink è diventata un’arma finora incontrastabile per i russi. Non è un caso se nel 2021 la Duma volesse promulgare una legge per vietarne le trasmissioni sul territorio della Federazione, con l’accusa di aggirare i centri di controllo terrestri. Ed è altrettanto significativo che poche settimane fa, a maggio, sul cinese “Modern defence Techology”, un paper descrivesse le tecniche hard e soft per compromettere i satelliti di SpaceX, definiti «un pericolo per la sicurezza nazionale».

È per di più noto che Musk, o OneWeb, non esauriscano «la minaccia» di spie (private) oltre l’atmosfera: presto la costellazione Kuiper porterà 3.236 satelliti di Amazon nelle orbite basse, per incrementare l’accesso globale alla banda larga.

Già oggi però, non è SpaceX l’unica azienda attiva, attraverso lo spazio, nel conflitto in Ucraina: le società private che consentono di scaricare ed elaborare le immagini satellitari vanno arricchendosi. C’è la statunitense Spire Global, che possiede una costellazione costituita da più di un centinaio di nanosatelliti per l’osservazione della terra: accusato lo stop dei lanci russi - la compagnia si è sempre servita dei Soyuz - il cambiamento principale per Spire è che i dati raccolti dai suoi satelliti vengono richiesti come mai prima da aziende, governi e Ong. Spire raccoglie dati in radiofrequenza, che forniscono informazioni sul movimento di navi e aerei, ma anche sui modelli meteorologici.

Discorso analogo per BlackSky technology, che integra informazioni satellitari e da altre fonti per venderle. A gennaio l’azienda ha iniziato a monitorare lo schieramento delle forze russe al confine con l’Ucraina. Da allora fornisce immagini e dati ai clienti, al pubblico e ai media.

Come fa anche Maxar Technologies, che costruisce satelliti e fornisce dati di osservazione della Terra agli acquirenti: Tony Frazier, il vicepresidente esecutivo, ha dichiarato che la sua società monitora, con una risoluzione di 30 centimetri, gli eventi in Ucraina e in Bielorussia, giorno e notte, a terra e in mare.

Che questo tipo di controllo si traduca in un vantaggio strategico, oltre che economico, è evidente. Come è palese che mentre la Cina e l’Europa rincorrono la preminenza statunitense - la Commissione europea ha già annunciato una propria costellazione per le comunicazioni entro il 2030 -, là, oltreoceano, siano i privati a lastricare la via. Sempre si decida di ignorare che, oggi, il principale soggetto nello spazio non è la Nasa, ma il Dipartimento della Difesa statunitense. Motivo per cui è difficile non pensare agli Starlink in Ucraina come a un laboratorio sul campo, una tecnologia per testare e validare le infrastrutture dei conflitti che verranno. L’efficienza degli apparati, la stabilità delle comunicazioni e la resilienza rispetto a ai cyberattacchi – incensata lo scorso 20 aprile alla C4Isrnet Conference nientemeno che da David Tremper, il direttore dell’electronic warfare all’Ufficio del segretario della Difesa americano -, stanno delineando il nuovo identikit tecnologico di chi dominerà lo spazio.

È un punto di svolta epocale: nel 1991 la guerra nel Golfo rivoluzionò la cyberwar, dimostrando come satelliti e computer potessero interfacciarsi in tempo reale e intercettare i missili nemici. Vent’anni fa, i conflitti in Iraq e Afghanistan hanno rappresentato un’altra tappa per i fornitori di servizi satellitari per comunicazioni commerciali, pronti a elargire collegamenti ad alta larghezza di banda alle forze armate in Medio Oriente. 

Dall’Ucraina emerge un’evoluzione ulteriore: tutto, pace compresa, dipende(rà) dai dominatori del cosmo. Pubblici e privati. E questo fa tutta la differenza del mondo.

Forze corazzate. La guerra in Ucraina segnerà la fine dei carri armati? Michelangelo Freyrie su L'Inkiesta il 24 Giugno 2022.

I tank uniscono potenza di fuoco a mobilità e resistenza, oggi sono spesso superati da armi più agili e tecnologiche ma sempre meno adeguate a conflitti ad alta intensità.

Combattere una guerra è costoso e consuma una quantità oscena di risorse economiche e materiali bellici. Per questo, negli ultimi 150 anni, la maggior parte degli aggressori ha sempre scommesso sull’abilità delle proprie forze armate di vincere in tempi brevissimi e, se ciò non fosse possibile, evitando un contatto diretto fra le proprie truppe e quelle dell’avversario.

Per molto tempo si è tentato di minimizzare la lunghezza dello scontro pianificando una massiccia offensiva combinata che punta a sopraffare le difese nemiche con una battaglia di mobilità, colpendo i punti deboli dell’impianto avversario e distruggendone le capacità difensive prima che possa reagire.

Il carro armato unisce potenza di fuoco a mobilità e resistenza, e per questo è stato per decenni al centro di questo approccio alla guerra. Dagli anni ‘90 in poi si è iniziato a porre al centro della dottrina militare l’eliminazione dei punti nevralgici del nemico, ma investe pesantemente sulla componente aerea, missilistica, elettronica e cyber. Se uno scontro prolungato è inevitabile, allora la via maestra consiste nel minimizzare gli scontri diretti – da qui anche l’espressione “guerra indiretta” – e cercare soluzioni operative principalmente in nuove tecnologie, come fu fatto per piegare Belgrado senza schierare “stivali sul terreno”.

Si tratta qui di modelli ideali che non esistono nella realtà. Nei fatti, le guerre contemporanee si muovono su uno spettro fra questi due estremi e utilizzano in ogni caso tutti gli strumenti bellici a disposizione presenti in un arsenale. È però oggettivo che per motivi politici, culturali, economici, gli Stati Uniti e i Paesi Nato abbiano privilegiato negli ultimi anni la supremazia tecnologica per prevalere negli scontri armati.

Perché questo cambiamento? Di questi tempi non è particolarmente di moda citare autori russi; il profondo odio del presidente russo per Lenin giustifica però chiamare in causa il leader rivoluzionario.

Scrivendo nel 1913, Lenin aveva intuito che la maniera con cui un conflitto viene combattuto dipende direttamente dal sistema economico che ne puntella la produzione di armamenti. L’esperienza degli interventi in Medio Oriente e Africa e l’abolizione della leva, oltre che al declino demografico di tutto l’emisfero nord, hanno dato una giustificazione militare convincente affinché anche nel settore della difesa ci si muovesse verso i nuovi modelli aziendali affermati negli ultimi decenni. La capacità industriale ha ceduto il passo alla proprietà intellettuale e i sistemi d’arma sono diventati sempre più complessi e tecnologicamente intensivi.

Anche per questo, credo, molti opinionisti analizzano con soddisfazione gli eventi in Ucraina: l’offensiva lampo sferrata dai russi si è rivelata un immenso disastro e sembra ridimensionare l’importanza di uno dei sistemi d’arma, il carro armato, su cui la Russia godeva fino ad oggi un’ovvia superiorità numerica rispetto alla Nato. Anche chi non ha mai creduto che i balzi in avanti tecnologici paventati dalle forze armate russe corrispondessero alla realtà ha sempre presupposto che le capacità “novecentesche” dell’esercito di leva russo rappresentino comunque una soluzione di ripiego efficace.

L’ecatombe di T-72 e T-80 russi in Ucraina provoca però non pochi dubbi a riguardo. Nel giro di quattro mesi i russi hanno perso 786 carri da combattimento, tre volte il numero di panzer a disposizione dell’esercito tedesco. La proliferazione di droni e sistemi missilistici da spalla (Stinger e Javelin) sembrano sancire la fine della guerra corazzata.

Con sistemi relativamente poco costosi, ma ad alta tecnologia, i difensori hanno potuto fermare una macchina da guerra dal sapore sovietico. Con un sistema ispirato a Uber, le posizioni avanzate possono indicare all’artiglieria le posizioni da bombardare. La tentazione è decretare una vittoria della Silicon Valley contro la Fabbrica di Vagoni degli Urali (i produttori del carro T-72).

Sarebbe però un errore abbandonarsi all’arroganza tecnologica. Le perdite corazzate russe sono spesso state causate più da errori tattici che da una inevitabile supremazia tecnologica. Oltre che alle colonne createsi nei primi giorni, vulnerabili a imboscate e droni, i russi hanno spesso omesso di affiancare ai propri carri formazioni di fanteria adeguate per spianarne il percorso e proteggerli da sistemi anticarro.

In più, proprio le richieste di carri avanzate da Kiev in questi giorni sottolineano i contesti in cui le forze corazzate risultano imprescindibili: terreni aperti, come le steppe del Donbass, in cui sono fondamentali mobilità e la capacità di penetrare la corazza di veicoli nemici.

È impensabile poter montare una controffensiva che sfrutti eventuali punti deboli nella linea nemica senza potersi affidare a veicoli che, pur non essendo universalmente utili, sono comunque sufficientemente validi per concentrare sufficiente potenza di fuoco e manovrare oltre alle posizioni nemiche. Già dopo le pesanti perdite di carri israeliani durante la guerra dello Yom Kippur si è parlato del tramonto del carro armato. Quarant’anni dopo, complici numerosi sistemi di contromisure e survivability, le forze corazzate hanno ancora un ruolo centrale sul campo di battaglia.

Come ha scritto nel 2019 un generale dell’esercito australiano, «i carri armati sono come gli abiti da sera. Non servono molto spesso, ma quando capita, sono insostituibili». La situazione in cui ci troviamo, per rimanere nella metafora, è una in cui abbiamo deciso di svendere tutti i nostri abiti e comprare solamente tute Nike.

Concentrandoci su sistemi ad alto contenuto tecnologico abbiamo lasciato che la capacità di combattere anche conflitti di media durata ad alta intensità si degradasse. Il sistema di appalti dell’industria della Difesa e l’enfasi sull’avanzamento tecnologico ha limitato radicalmente la velocità e la scala con la quale è possibile mobilitare l’industria.

Sempre in Germania, fra il 2017 e il 2023 era prevista la produzione di 104 Leopard 2A7V per la Bundeswehr. Dal 24 febbraio a oggi, l’Ucraina ha avuto 196 perdite verificate, con il numero reale probabilmente maggiore.

Ovviamente la produzione ridotta è dovuta alla decennale mancanza di domanda, ma è lecito domandarsi se, in generale, l’approccio industriale e tecnologico che ha enfatizzato prodotti ad alta tecnologia rispetto a sistemi relativamente più semplici sia adeguato a una guerra ad alta intensità. Concertare operazioni che prevedono un massiccio utilizzo di forze di terra alla fine si riduce alla capacità di saper gestire grandi processi industriali e organizzare la produzione di centinaia di mezzi blindati standardizzati e affidabili pur essendo tecnologicamente avanzati.

Sono prerogative molti diverse rispetto a investire pesantemente su raffinati sistemi aerei multiruolo o kit individuali ad alta tecnologia per la fanteria, o a immaginarsi soluzioni high-tech per garantire la supremazia aerea evitando di mettere in pericolo i propri piloti.

La tecnologia ha un ruolo centrale in entrambi i casi ma, calcando la mano, da una prospettiva produttiva la differenza è la stessa che esiste fra una casa automobilistica e una big tech.

La guerra di manovra richiede prima di tutto sistemi affidabili e resilienti, la guerra indiretta precisione e perfezione tecnica. Aver pensato per decenni che lo sviluppo di nuovi sistemi d’arma fosse come comprare un nuovo iPhone, e che bastasse commissionare veicoli sempre più complessi per superare la guerra corazzata ci pone oggi di fronte a un’imbarazzante incapacità di rifornire i nostri alleati. E un sistema economico-industriale completamente impreparato a combattere un tipo di guerra che è tutto fuorché passata.

GLI HIMARS AL FRONTE. I lanciamissili americani sono arrivati in Ucraina. DAVIDE MARIA DE LUCA Il Domani il 23 giugno 2022

Dotati di raggio e precisione molto superiori all’artiglieria russa, gli ucraini sperano di utilizzarli per fermare l’avanzata metodica delle armate di Putin che ora minaccia il Donbass

Il ministro della Difesa ucraina Oleksii Reznikov ha annunciato oggi l’arrivo nel paese dei famigerati lanciamissili a lungo raggio americani Himars. «L’estate sarà calda per gli occupanti russi. E sarà anche l’ultima per alcuni di loro», ha scritto Reznikov su Twitter.

GLI HIMARS

Progettati negli anni Novanta, gli Himars sono veicoli pensati esplicitamente per contrastare un nemico dotato di grandi riserve di artiglieria, come la Russia. Dotati di missili con un raggio di circa 70 chilometri, gli Himars possono restare al di fuori della gittata di cannoni tradizionali e artiglieria a razzo mentre li colpiscono con le loro munizioni estremamente precise.

Sono armi perfette per l’attuale conflitto in Ucraina, dove sul fronte del Donbass i russi hanno iniziato ad utilizzare la loro superiore artiglieria per bombardare le linee fortificate degli ucraini e costringerli a una lenta ma costante ritirata.

Governo e militari ucraini chiedevano da molto tempo l’invio di armi come gli Himars, e di artiglieria di ogni tipo più in generale. Ma la spedizione di queste armi da parte degli Stati Uniti è arrivata con alcune importanti condizioni. In particolare, le munizioni fornite agli ucraini sono il tipo standard con un raggio inferiore ai cento chilometri.

Non sono state invece inviati i missili più avanzati, che possono estendere il raggio degli Himars fino a diverse centinaia di chilometri. Sul tema si era espresso il presidente Joe Biden in persona, che aveva sottolineato come gli americani non volessero inviare in Ucraina armi in grado di colpire in profondità il territorio russo.

CHE IMPATTO AVRANNO?

Nonostante l’entusiasmo degli ucraini, gli esperti militari sono scettici sull’impatto che queste armi avranno nel breve periodo. Per il momento, le forze armate dell’Ucraina hanno ricevuto soltanto quattro Himars e presto potrebbe essere annunciata una seconda consegna di altri quattro veicoli. Nel frattempo, l’artiglieria russa in Donbass si conta in centinaia di cannoni e sistemi lanciarazzi.

Ma con il loro raggio e la loro precisione, gli Himars quasi certamente riusciranno a restituire qualche colpo ai russi e questo potrebbe avere un effetto sul morale nemico maggiore dei danni materiali effettivamente causati. Questo senza contare l’effetto morale sugli ucraini stessi.

DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.

Guerra Ucraina-Russia: ecco i Paesi che hanno inviato più armi a Kiev. Primi gli Usa, la Polonia più di Germania e Italia. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Giugno 2022.

Gli Stati Uniti sono comunque il paese che sta facendo di più. Basandosi sui calcoli del Kiel Institute, al secondo posto, compare la Polonia, che finora ha inviato puntualmente quanto promesso: oltre un miliardo e mezzo di dollari in armi. Cioè più di quanto inviato fino al 7 giugno, da Francia, Germania ed Italia messe insieme. Il Regno Unito si piazza al terzo posto: armi consegnate per il valore di un miliardo.

Nel corso dell’offensiva concentrata in Dobass è venuta fuori la disparità di forza militare tra i due eserciti. I russi seppur lentamente avanzano sospinti dall’artiglieria pesante. La gran parte dei loro bombardamenti arrivano su un ultimo lembo della provincia di Luhansk controllato dagli ucraini: al centro dei combattimenti, le due città gemelle di Lysychansk e Sievierodonetsk. In molti si aspettavano che gli ucraini si ritirassero almeno da Sievierodonetsk, ma invece si sono arroccati in una parte estrema della città, per impantanare le forze russe in scontri ravvicinati, guadagnando tempo fino all’arrivo di altre armi occidentali. È stata questa la richiesta principale di Kiev all’Occidente: più armi per bloccare gli invasori; armi più pesanti e a lunga gittata, come i lanciarazzi americani M142 Himars, la cui disponibilità dovrebbe essere imminente. 

Zelensky nei giorni scorsi ha incontrato i leader di Germania, Italia e Francia, arrivati a Kiev per la prima volta dall’inizio della guerra insieme al premier della Romania . L’Europa finora si è mostrata unita nel sostenere la difesa dell’Ucraina, inviando aiuti militari e applicando delle ritorsioni economiche contro la Russia senza precedenti. Ma è altresì vero che ci sia un “blocco” di paesi composto dal Regno Unito, la Polonia e gli stati baltici che vorrebbero vedere attuata una politica più dura contro Mosca. Una differenza che si riflette anche nella quantità di armi spedite alle milizie ucraine sotto attacco. Il think tank tedesco Kiel Institute for the World Economy, tra i più influenti al mondo in politica internazionale, sta analizzando e calcolando proprio questo, ed i suoi risultati sono abbastanza chiari.

il presidente USA Joe Biden

Innanzitutto è emersa una differenza non indifferente tra gli aiuti promessi e quanto effettivamente inviato. Secondo dati aggiornati al 7 giugno, gli Stati Uniti dal 24 gennaio hanno stanziato in assistenza militari all’Ucraina un po’ più di 4 miliardi di dollari (a cui si è aggiunto un ulteriore miliardo annunciato ieri). Ma le armi effettivamente consegnate dagli Usa, comprese quelle pesanti, ammontano in tutto a poco meno di due miliardi di dollari. Gli Stati Uniti sono comunque il paese che sta facendo di più.

Basandosi sui calcoli del Kiel Institute, al secondo posto, compare la Polonia, che finora ha inviato puntualmente quanto promesso: oltre un miliardo e mezzo di dollari in armi. Cioè più di quanto inviato fino al 7 giugno, da Francia, Germania ed Italia messe insieme. Il Regno Unito si piazza al terzo posto: armi consegnate per il valore di un miliardo.

il cancelliere tedesco Olaf Scholz

La Germania finora aveva promesso circa mezzo miliardo di dollari in armi. Ma sempre stando al Kiel Institute ne ha consegnate molto di meno di quanto inviato dal lontano Canada e della Norvegia, e addirittura di meno dell’Estonia e della Lettonia. “I dati mostrano che la Germania ha fatto annunci ma poche consegne. Non ha ancora inviato armi pesanti e solo un terzo del sostegno militare promesso è giunto in Ucraina. Questo aiuta a spiegare l’urgenza degli appelli di Kiev”, ha dichiarato Christoph Trebesch, capo della ricerca del Kiel Institute e responsabile della squadra che sta tracciando il sostegno finanziario e militare al paese sotto attacco.

La titubanza del cancelliere tedesco Scholz è stata criticata anche da molti suoi compatrioti. Jurgen Hard, portavoce per gli affari esteri dei cristiano democratici, che oggi sono all’opposizione, ha spronato il cancelliere a inviare più armi, “perché a Putin non devono essere offerte soluzione salva-faccia”. Ma l’approccio tedesco, secondo Hard, è stato troppo morbido. In un’intervista al settimanale progressista britannico New Statesman, ha dichiarato che “la politica della Merkel di non armare l’Ucraina è fallita”.

Quanto all’Italia, secondo i dati del Kiel Institute, ha promesso e inviato meno armi della Francia. E la Francia, a sua volta, ha promesso e inviato meno di Estonia e Lettonia. Redazione CdG 1947 

Federico Rampini sbotta contro gli ospiti: "Balle", Veronica Gentili sconvolta. Libero Quotidiano il 20 giugno 2022.

Federico Rampini si scaglia contro l'Italia. Ospite di Controcorrente, il programma di Rete 4 in onda lunedì 20 giugno, il giornalista bacchetta il governo. Il motivo? Ancora una volta la guerra in Ucraina. "L'Italia ha già promesso poche armi per non dare fastidio a nessuno dei tanti cosiddetti pacifisti, ma delle armi fornite ne ha date così poche che siamo dietro all'Estonia e alla Lettonia, i cui abitanti sono meno di Milano".

Da qui lo sfogo che spiazza tutti, Veronica Gentili compresa: "Sono balle, state discutendo di cose che non esistono. L'Italia dovrebbe avere il coraggio di dire: 'Sto dalla parte di Putin', perché diamo con il gas miliardi e miliardi alla Russia mentre agli ucraini non stiamo dando niente". Ma la firma del Corriere della Sera se la prende anche con gli Stati Uniti, che farebbero ben poco per Kiev. 

Qualche giorno fa Rampini aveva messo in guardia su un altro pericolo: Xi Jinping. "Il pericolo del futuro in questi settori - commentava in riferimento all'economia - si chiama Cina. Possiamo renderci gradualmente meno dipendenti dalla Russia, ma potremmo scoprire di essere finiti nell’abbraccio mortale con Pechino che ad esempio nel settore del litio, fondamentale per le batterie delle auto elettriche, ha un semi monopolio globale". 

La Lettonia invia più armi a Kiev dell’Italia (e ha meno abitanti di Milano). Federico Rampini su Il Corriere della Sera il 20 Giugno 2022.

Un autorevole think tank tedesco ha messo in fila i Paesi che stanno aiutando di più l’Ucraina, al di là degli annunci: e la classifica ha aspetti sorprendenti. Il tutto mentre anche negli Stati Uniti l’attenzione per la guerra sembra scemare (mentre sale la preoccupazione per l’inflazione o la svolta «anti-Usa» dell’America Latina) 

La Lettonia sta mandando più armi a Kiev dell’Italia. 

Lo rivela lo studio di un autorevole think tank tedesco che denuncia l’immenso divario tra promesse e realtà: i maggiori paesi europei stanno fornendo pochissimi aiuti militari all’Ucraina. 

Questi dati mettono in una luce surreale, fra l’altro, il dibattito in corso dentro il M5S dove ci si spacca su una mozione che il Corriere ha riassunto con lo slogan «Stop all’invio di nuove armi». 

Per la verità sarebbe un buon inizio mandare quelle vecchie, cioè le armi già promesse e mai arrivate. 

La realtà vede un’Europa molto più impegnata a sovvenzionare la feroce avanzata di Vladimir Putin, continuando a pagargli gas e petrolio.

Quel che facciamo per l’Ucraina è risibile, come spiega lo studio del Kiel Institute for the World Economy. Ecco alcuni numeri. Il totale degli aiuti promessi dall’Occidente a Zelensky dall’inizio della guerra fino al 7 giugno raggiunge 85 miliardi di euro. Ma dentro questa cifra ci sta di tutto, è un’addizione di aiuti economici, umanitari, e militari. Disaggregando quel totale per i paesi di provenienza, gli Stati Uniti fanno la parte del leone con promesse di aiuti pari a 42,7 miliardi di euro. In confronto sono poca cosa gli aiuti che si sono impegnati a fornire i governi dell’Unione europea: tutti insieme arrivano a 27,2 miliardi di euro. 

Come notano gli stessi autori della ricerca tedesca, «è singolare che gli Stati Uniti da soli abbiano promesso molto più di tutti i paesi Ue messi insieme, considerando che questa guerra imperversa nelle immediate vicinanze dell’Ue». 

Ma l’amaro confronto con la realtà arriva quando dalle promesse si passa ai fatti. Un conto sono gli effetti-annuncio, i proclami fatti dai governi per darsi buona coscienza e garantire che stanno aiutando un popolo aggredito e oppresso. Altra cosa sono le forniture reali. Soprattutto sul terreno militare il divario è sostanziale. Perfino Washington è molto indietro, avendo fornito solo il 48% dell’assistenza militare promessa (armi, intelligence, addestramento) cioè meno della metà. Inoltre lo studio del Kiel Institute rivela che solo il 10% di questi aiuti militari americani sono armi vere e proprie come elicotteri o missili. Da qui in poi le cose peggiorano. 

Subito dietro gli Stati Uniti arriva la Polonia che è l’unico paese ad avere fornito tutta l’assistenza militare promessa. 

Poi, nell’ordine: Regno Unito, Canada, Norvegia, Estonia. Lettonia. Proprio così. 

Dove sono i big europei? Missing In Action. 

La Lettonia ha 1,8 milioni di abitanti, meno della metropoli di Milano, eppure ha fatto uno sforzo di fornitura militare superiore a quello di Germania, Francia, Italia. Ben lungi dall’ «aizzare» gli ucraini a combattere una guerra «per procura» (due argomenti che ricorrono nella narrazione distorta dei putiniani d’Italia), l’Occidente aiuta Kiev con il contagocce mentre non lesina fondi a Putin. 

E l’attenzione verso la guerra sta scemando perfino in quell’America che i putiniani descrivono come la diabolica regista della guerra. Lo ha denunciato l’ex campione di scacchi russo Garry Kasparov, oggi un implacabile oppositore (in esilio) di Putin, che dirige la ong Renew Democracy Initiative. 

In un editoriale sul Wall Street Journal, Kasparov ha osservato che nell’ultima intervista rilasciata da Joe Biden – al talkshow televisivo Jimmy Kimmel Live! – il presidente degli Stati Uniti ha parlato per 23 minuti senza citare una sola volta l’Ucraina. Ha parlato diffusamente dell’inflazione, dell’indagine parlamentare sull’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, del controllo delle armi e dell’aborto. Di tutto, ma non della guerra. 

Su un altro fronte, molto distante ma non marginale per misurare l’influenza globale dell’America e con essa dell’Occidente: non sottovalutiamo la vittoria in Colombia del primo presidente di sinistra nella storia di quel paese . Prima era toccato al Cile. Il Messico ha già un populista di sinistra alla presidenza. Se si aggiunge la probabile elezione del socialista Lula in Brasile questo autunno, significa che avremo una maggioranza di governi latinoamericani di impronta socialista, con vedute di politica internazionale divergenti da quelle di Washington se non apertamente ostili. Già ora peraltro l’intera America latina si rifiuta di aderire alle sanzioni contro la Russia. Poiché la geopolitica non tollera il vuoto, laddove retrocede l’influenza Usa avanzano quelle di Mosca e Pechino. 

L’INCHIESTA DEL NEW YORK TIMES. Guerra in Ucraina, quali sono le armi proibite usate dalla Russia. Il Domani il 20 giugno 2022

Un’inchiesta del New York Times ha raccolto centinaia di prove dell’utilizzo di munizioni vietate dai trattati internazionali o il cui utilizzo potrebbe costituire un crimine di guerra: dalle munizini a grappolo alle mine antiuomo

Nella sua guerra di invasione, la Russia ha impiegato decine di armi e munizioni vietate dai trattati internazionali o che, se usate in modo indiscriminato in presenza di civili, possono costituire crimini di guerra: dalle bombe a grappolo alle mine antiuomo, passando per gli ordigni incendiari. Per quattro mesi, il New York Times ha raccolto prove e indizi dell’utilizzo di queste armi.

Le più diffuse sono le munizioni non guidate: razzi e proiettili di artiglieria la cui traiettoria non può essere modificata una volta lanciate. Si tratta delle armi più utilizzate dalle forze armate russe, spesso in modo indiscriminato e contro aree abitate da civili.

L’utilizzo di queste armi può costituire un crimine di guerra se non vengono prese sufficienti cautele per evitare di arrecare danni alla popolazione. La Russia ha fatto ampio uso di questo tipo di munizioni per colpire le posizioni dell’esercito ucraino, ma anche per bombardare le città sulla linea del fronte, come Kharkiv e Mariupol. 

Ma il New York Times ha raccolto anche numerose prove dell’utilizzo di altre armi, il cui utilizzo è in alcuni casi esplicitamente vietato dalle convenzioni internazionali.

MUNIZIONI A GRAPPOLO

Le munizioni a grappolo, a volte indicate come “bombe a grappolo”, sono la più nota tra le armi vietate da trattati internazionali che vengono tuttora regolarmente utilizzate dagli eserciti. Il New York Times ha identificato 60 episodi in cui l’esercito russo avrebbe utilizzato questo tipo di munizione e 30 in cui munizioni a grappolo sono state rinvenute presso edifici civili.

Le munizioni a grappolo possono presentarsi sotto forma di razzi, missili, bombe o proiettili di artiglieria. Sono composte da un involucro esterno e da un contenitore che può ospitare decine di submunizioni, piccole bombe che possono essere non più grandi di un pugno. Quando il proiettile si avvicina al bersaglio, il contenitore si apre, disperdendo le submunizioni su una vasta area.

In questo modo, le munizioni a grappolo sono più efficienti di quelle convenzionali di pari peso. Invece di concentrare un’unica grande esplosione in uno spazio ridotto, le submunizioni consentono di suddividerla in numerose esplosioni, meno potenti, ma distribuite su un’area più vasta.

UN’ARMA INDISCRIMINATA

Per questa ragione, le bombe a grappolo sono considerate un’arma “indiscriminata”, difficile da indirizzare soltanto contro bersagli militari. Inoltre, fino al 20 per cento delle submunizioni rilasciate può arrivare a terra senza esplodere, restando pericolosa anche per anni.

Per questa ragione nel 2010 è entrata in vigore la Convenzione sulle munizioni a grappolo, che ne vieta la produzione e l’utilizzo. Centodieci paesi hanno firmato la convenzione, a cui però non partecipano né Russia né Ucraina. Nemmeno gli Stati Uniti hanno firmato il trattato, ma hanno volontariamente eliminato la gran parte delle munizioni a grappolo dal loro arsenale.

In passato, anche gli ucraini hanno utilizzato munizioni a grappolo, ma nell’attuale conflitto il New York Times ha identificato un solo caso in cui può essere dimostrato l’utilizzo di questo tipo di arma da parte delle forze armate ucraine.

TRAPPOLE E MINE

Il New York Times ha individuato diversi casi in cui l’esercito russo ha utilizzato mine e trappole esplosive. Vicino a Kiev, il quotidiano ha individuato una trappola esplosiva formata da una bomba a meno innescata nascosta in un bicchiere di carta.

Questa trappola potrebbe costituire una violazione della Convenzione su certe armi convenzionali, che proibisce di mascherare trappole sotto forma di oggetto di uso quotidiano che potrebbero essere manipolati da civili.

Un’altra arma identificata è la mina antiuomo Pom-3, un dispositivo molto avanzato, dotato di sensore di movimento che scatta quando una persona si trova nei pressi. A quel punto, una prima carica di esplosivo proietta la mina a circa un metro e mezzo di altezza, dove la detonazione di una seconda carica distribuisce tutto intorno schegge letali fino a una distanza di circa 30 metri.

Le mine antiuomo sono vietate da un trattato del 1997 firmato da 164 nazioni, tra cui l’Ucraina, ma in cui non compaiono né la Russia né gli Stati Uniti.

INCENDIARI E FRECCETTE

Infine, il New York Times si occupa di due tipi di munizioni non esplicitamente vietate dai trattati internazionali, ma il cui uso indiscriminato costituisce un potenziale crimine di guerra. 

Si tratta delle munizioni incendiarie, il cui uso è esplicitamente proibito nei pressi di insediamenti civili, visto che per loro natura sono armi “indiscriminate”, cioè i cui danni non possono essere con sicurezza limitati a obiettivi militari.

Il quotidiano ha identificato almeno un caso in cui questo tipo di munizioni è stato utilizzato nel sud est dell’Ucraina. Si tratta di munizioni incendiarie alla termite, un materiale che brucia ad altissime temperature e che viene distribuito da proiettili che si aprono in volo in modo non troppo diverso dalle bombe a grappolo.

Infine, a Kiev, sono state identificate tracce dell’uso di “flechette”, o “freccette”. Si tratta di normali proiettili per cannone, in genere in dotazione ai carri armati, riempiti non di esplosivo convenzionale, ma di piccole freccette di metallo. Queste munizioni sono in genere utilizzate in ruolo anti-fanteria per via della loro capacità di saturare una vasta area.

Secondo alcuni, questo tipo di munizioni potrebbe causare una «inutile sofferenza» e quindi il loro utilizzo potrebbe essere classificato come crimine di guerra. Stati Uniti e Israele in passato hanno utilizzato “flechette” durante i combattimenti in aree urbane.

La Cina lancia la sua terza portaerei: perché “Fujian” spaventa gli Usa. Federico Giuliani su Inside Over il 17 giugno 2022.

Per la Cina è un giorno storico. Pechino ha varato la sua terza portaerei, la Fujian, nota anche come Type 003, la prima che, per tecnologie utilizzate, caratteristiche tecniche e dimensioni è in grado di rivaleggiare con i colossi della Us Navy. Dopo una breve cerimonia, tenutasi presso i cantieri navali di Jiangnan, a Shanghai, c’è stato tutto il tempo per ammirare la possente imbarcazione che, prima di entrare ufficialmente in servizio, dovrà tuttavia essere sottoposta a test di ormeggio e navigazione.

La Fujian non ha niente a che vedere con la Liaoning e la Shandong, le altre due portaerei cinesi messe in servizio rispettivamente nel 2012 e nel 2017. Type 003, infatti, oltre ad avere una capacità di spostamento di 80.000 tonnellate, è la prima portaerei made in China dotata di catapulte elettromagnetiche per il lancio di aeromobili e pure di un ponte di volo piatto.

In generale, la Cina ha svelato al mondo l’ultima sua risorsa in un periodo di crescenti tensioni diplomatiche, concentrate soprattutto nell’Indo-Pacifico. Tra il testa a testa tra Pechino e Washington, le acque contese e la questione taiwanese, senza dimenticarsi del nodo coreano e della variabile Giappone, in Oriente c’è benzina a sufficienza per alimentare un incendio dagli esiti impossibili da pronosticare.

La terza portaerei della Cina

Tornando alla Fujian, il nome della portaerei cinese deriva, appunto, dall’omonima provincia orientale che si affaccia sull’isola di Taiwan. Da mesi, tra l’altro, le autorità di Taipei denunciano incursioni di aerei da combattimento cinesi nello spazio aereo di sicurezza da loro riconosciuto come proprio, ma considerato da Pechino appartenente alla Repubblica Popolare, così come le acque dello Stretto di Taiwan e l’intera isola.

La Type 003 serve anche e soprattutto a lanciare un messaggio preciso alle istituzioni taiwanesi ma non solo. La Fujian Type-003, infatti, amplierà ulteriormente le capacità della marina cinese, in procinto di effettuare un importante salto: da forza regionale a globale.

Prima di vedere all’opera la terza portaerei di Pechino dovranno però passare ancora diversi mesi, probabilmente dai due a sei mesi, ovvero il tempo necessario per perfezionare l’imbarcazione. Ricordiamo che la prima portaerei cinese Liaoning ha raggiunto la capacità operativa iniziale (Ioc) solo dopo sei anni, mentre la sua nave gemella, la Shandong, dal 2017 non è ancora in possesso di tutti i requisiti per la capacità operativa iniziale.

Le particolarità della Fujian

Come ha sottolineato Naval News, al momento della sua presentazione sulla nave si poteva leggere uno slogan emblematico, specchio delle ambizioni cinesi: “Costruire una marina forte e moderna e fornire un forte sostegno per la realizzazione del sogno cinese di un esercito forte”. E ancora: “Per realizzare l’obiettivo del partito di rafforzare l’esercito nella nuova era e trasformare l’esercito popolare in un esercito di livello mondiale a tutto tondo”.

Il design della Type 003 è simile a quello delle classi Nimitz e Ford della marina statunitense. Allo stesso tempo, è una evoluzione delle prime due portaerei cinesi, entrambe all’epoca costruite basandosi su tecnologia sovietica. Proprio come la portaerei Fort della US Navy, la Fujian può contare su catapulte di lancio EMALS (Electromagnetic Aircraft Launch System) che, utilizzando l’elettricità, dovrebbero essere in grado di lanciare aerei ad una velocità maggiore.

In mezzo a tutto questo, la marina cinese gestisce portaerei da 10 anni e ha fin qui sviluppato una buona formazione. Giusto per fare un esempio, negli ultimi mesi la portaerei Liaoning ha operato nelle acque aperte del Pacifico occidentale, mentre la Difesa giapponese ha rilevato oltre 100 lanci di aerei da parte di Pechino.

Lista delle priorità. Quali armi ha ricevuto fin qui l’Ucraina e di cosa ha ancora bisogno. L'Inkiesta il 15 Giugno 2022.

Il consigliere del presidente, Mykhailo Podolyak, ha stilato un elenco di equipaggiamenti militari che l’Occidente dovrebbe inviare a Kiev. Sperando che sia la volta buona: finora di tutti i sistemi promessi dagli alleati solo una parte è arrivata nelle mani dei soldati della resistenza.

Oggi inizia un altro giro di colloqui per il coordinamento di nuovi rifornimenti militari all’Ucraina. Si tiene a Bruxelles, a margine della riunione dei ministri della Difesa della Nato, e proseguirà fino a domani. La riunione sarà presieduta da Lloyd Austin, il segretario alla Difesa statunitense che ad aprile, ai colloqui di Ramestein (Germania), aveva promesso che i Paesi occidentali avrebbero continuato «a muovere cielo e terra» per dare all’Ucraina armi per difendersi.

I vertici di Kiev sembrano avere le idee molto chiare su cosa serva in questa fase della guerra, a quasi quattro mesi dall’inizio dell’invasione, con le forze del Cremlino che sembrano ormai pronte a prendere Sievierdonetsk, l’ultima grande città della regione di Luhansk.

«Per porre fine alla guerra abbiamo bisogno di pareggiare il conto delle armi pesanti: occorrono 1.000 obici calibro 155mm; 300 Mlrs; 500 carri armati; 2.000 veicoli blindati; 1.000 droni». È stato chiarissimo, diretto, preciso Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente Volodymyr Zelensky. Nello spazio di un tweet ha racchiuso le necessità militari di Kiev per avere la meglio sulla Russia.

Podolyak ha stilato un’audace e convincente lista della spesa, per far capire senza possibilità di fraintendimento come colmare le carenze di equipaggiamento ucraine e permettere alla resistenza di respingere l’armata dell’invasore.

Tuttavia, forse non sarà possibile rispettare in pieno le sue richieste. Alcuni osservatori le hanno interpretate come una mossa meramente negoziale nei confronti dell’Occidente – come quando si spara alto con le pretese all’inizio di una trattativa sapendo di dover giocare al ribasso per arrivare lentamente un punto di incontro da qualche parte nel mezzo.

Anche perché, come fa notare Dan Sabbagh sul Guardian, le richieste di Kiev potrebbero essere esagerate: «Trecento Multi rocket launchers (Mrl) equivarrebbero all’incirca alla metà delle unità esistenti negli Stati Uniti; mille obici è più o meno la quantità a disposizione nell’arsenale degli Stati Uniti».

Il problema è che dopo quasi quattro mesi di conflitto, i combattenti ucraini stanno esaurendo le scorte, come ad esempio le munizioni d’artiglieria: avevano una scorta di proiettili da 152 mm utilizzati nei sistemi di artiglieria dell’era sovietica, munizioni e pezzi d’artiglieria di produzione sovietica per gli ucraini sono un ottimo compromesso, sono facili da usare, molto accessibili e generalmente considerati affidabili. In compenso è rimasta un’ampia scorta di proiettili da 155 mm (equipaggiamento Nato), come ha confermato venerdì scorso il ministro della Difesa ucraino Oleksii Reznikov, ma mancano proprio le unità di artiglieria necessarie per spararli.

«Fino ad ora non tutti i fondi promessi sono stati impegnati in equipaggiamento militare, mentre i problemi di logistica e addestramento dei soldati ucraini hanno permesso solo a una modesta quantità di unità di arrivare davvero in prima linea in Ucraina», scrive il Financial Times.

Rispetto ai 1.000 obici da 155mm richiesti da Podolyak l’Occidente ne ha forniti o promessi solo 250, scrive il portale di intelligence open source Oryx. Inoltre sono stati forniti circa 270 carri armati, rispetto ai 500 richiesti, e degli oltre 300 sistemi Mrl ne sono arrivati poco più di 50.

Ad ogni modo, è impossibile stimare con certezza matematica le reali necessità ucraine in termini di armi, quindi le quantità che l’Occidente dovrebbe inviare per permettere alla resistenza di respingere l’aggressore. Tutto dipenderà dall’evoluzione del conflitto, da come si muoverà la Russia nelle prossime settimane e da come il Cremlino userà il suo arsenale. Ma anche da come si comporterà l’esercito di Kiev: dopotutto è sempre il fattore umano a determinare la qualità di un corpo di combattimento, e quello ucraino si è dimostrato abbastanza abile, forse anche grazie all’esperienza maturata dal 2014 in avanti, cioè dall’invasione della Crimea.

La distanza tra le richieste ucraina e gli aiuti europei e statunitensi potrebbe anche essere letta come un segnale preoccupante: alcuni leader politici europei fanno capire che spetta all’Ucraina decidere come e quando avviare i negoziati per porre fine alla guerra, come se dall’altro lato del fronte non ci fosse Vladimir Putin ma un leader politico democratico aperto al dialogo, uno con cui è possibile sedersi al tavolo e negoziare.

«Alcuni alleati europei stanno diventando nervosi di fronte alla prospettiva di una lunga guerra», ha scritto ieri il New York Times nel suo briefing sulla guerra, aggiungendo una possibile frizione interna al fronte occidentale. «Vogliono evitare di portare la Nato in conflitto diretto con la Russia e non vogliono indurre il presidente Vladimir Putin a usare armi nucleari o chimiche». Si vuole evitare il rischio di un’escalation, ma è evidente che la Russia non ha intenzione di allentare la presa.

Lo stupefacente autogol degli Usa: soldati ucraini salvati soltanto da Google Translate. Christian Campigli su Il Tempo il 07 giugno 2022.

Un errore già commesso in Afghanistan. E costato carissimo, in termini di vite umane perse. In una guerra che appariva, sulla carta, di facile risoluzione, ma che al contrario si rivelò per gli Stati Uniti un autentico inferno. Oggi, quella mancanza di precisione, quell'approssimazione di chi si crede invincibile potrebbe incidere in modo determinante anche sulle sorti del conflitto in Ucraina. Questa mattina il sergente Dmytro Pysanka ha raccontato all'inviato del New York Times una spiacevole avventura. A metà tra il ridicolo e il grottesco. Gli americani hanno spedito un telemetro ad alta tecnologia denominato Jim Lr, uno strumento che, grazie al laser, è in grado di misurare la distanza da un oggetto presente nel campo visivo. Un'arma molto sofisticata. Forse, persino troppo per l'esercito ucraino. Nessuno tra i soldati è infatti riuscito a capirne il corretto funzionamento.

Il manuale di istruzioni, un malloppo di trecento pagine, era tutto in inglese. Così il sergente Pysanka ha tirato fuori dalla tasca il suo cellulare e, con la pazienza di un Certosino, ha cercato di comprendere il funzionamento di Jim Lr grazie a Google Translate, il popolare programma di traduzione presente nel più importante motore di ricerca presente sul web. Quella che può sembrare una notizia presa da Lercio, lo straordinario portale satirico italiano, corrisponde solo alla fredda realtà. Per mesi i vertici di Kiev hanno ripetuto, in modo ossessivo, che per vincere il conflitto contro la Russia e respingere l'invasore di Mosca erano indispensabili le armi.

Fucili, missili o telemetri che vanno però saputi usare. Con grande precisione. La mancanza di un supporto logistico è una delle grandi pecche della strategia a stelle e strisce. Un simile, clamoroso errore fu già commesso nel conflitto Afghanistan. E le conseguenze furono nefaste. C'è da augurarsi che la storia abbia insegnato qualcosa ai vertici dell'esercito americano.

Arma: qualunque strumento per offendere, dalla fionda al missile. Figlia del latino con una radice in comune con ramo, può darsi che in origine avesse a che fare col braccio e la spalla. Da sempre deve fare i conti con le parole. Paolo Fallai su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2022.

In un tempo dominato dalla guerra, ma sono stati pochissimi nella storia umana i tempi dominati dalla pace, è inevitabile che ci si soffermi a parlare di armi. Questa piccola parola è diffusissima e con una storia molto antica. Ha un arco di impiego amplissimo, dalla clava al missile intercontinentale. 

Un’origine complessa. La parola arma è una delle più antiche del linguaggio e come accade in questi casi bisogna affrontare con prudenza il tema delle origini con tutto il rispetto dovuto agli studiosi che si applicano per anni per trovare risposte attendibili. Noi dilettanti che scherziamo intorno alle parole senza millantare conoscenze che non abbiamo, possiamo segnalare che secondo il giudizio di alcuni la parola arma deriva dalla stessa radice della parola ramo. Ed è impossibile non notare a questo punto come in inglese e tedesco la parola arm indichi il braccio. Così non è insolito trovare tra i motivi delle origini della parola arma proprio il fatto che i primi strumenti usati dall’uomo a questo scopo ,avevano a che fare con il braccio e la spalla. Insomma, siamo tornati per un attimo alla clava. 

Un significato senza equivoci. Molte meno discussioni sul suo utilizzo: Si intende con arma qualunque oggetto usato dall’uomo come strumento di offesa e di difesa. Proprio qualunque, senza alcuna differenza tra quelli semplici e perfino impropri (anche un ombrello in certe situazioni può diventarlo) e strumenti molto raffinati, complessi e naturalmente costosissimi. E così via per estensione, tenendo sempre presente che i concetti di offesa e difesa si confondono, arma è stata usata in senso figurato per indicare ogni strumento adatto a raggiungere un certo scopo. Il vocabolario di Tullio de Mauro utilizza due esempi illuminanti: «l’intelligenza è la sua arma migliore» e «usare l’arma dello sciopero». 

Un plurale generico e un singolare preciso. Inevitabile che l’arma finisse per indicare le parti in cui sono suddivise le forze armate in base ai compiti e alle caratteristiche del loro impiego. E che le armi in generale servissero ad indicare in modo generico l’esercito o le milizie impegnate in combattimento. Molto più precisa l’indicazione quando troviamo l’Arma con la A maiuscola, che nel nostro paese indica senza nessun equivoco il corpo dei carabinieri. 

Se il plurale è antico. Ci ritroviamo con il termine arme e siamo precipitati nel linguaggio araldico, dove indica l’emblema figurativo che rappresenta il contrassegno delle famiglie nobili o di una località. Lo stemma che rende unico e inconfondibile il riferimento e non è affatto detto che contenga armi nel disegno, anzi. 

Un tripudio di locuzioni. Sono decine le espressioni nate intorno a questa parola per chiarire un numero altissimo di situazioni: si abbassano le armi quando ci si arrende e si affilano quando ci si prepara a combattere; è uno scontro all’arma bianca quando si usano armi da taglio e si definisce arma bastarda l’arma da fuoco quando ha una canna molto corta rispetto al calibro. La natura delle singole armi ha fatto nascere quelle batteriologiche, chimiche, nucleari; decisa la divisione fra le armi convenzionali, locuzione con cui si intende armi al centro di convenzioni internazionali riconosciute, e armi non convenzionali, espressione con cui in qualche modo si indica che sono «fuorilegge». Discutibile l’espressione arma intelligente con la quale si intende specificare la presunta precisione della stessa. A meno di non introdurre l’inedita espressione arma scema per quelle particolarmente imprecise. 

Si fa per discutere. Ma ne esistono molte altre che non sono affatto di natura strettamente militare: con la locuzione «alle prime armi» ad esempio si indica una certa inesperienza, mentre l’espressione «arma spuntata», serve ad indicare in una discussione una tesi inefficace a controbattere quella dell’avversario. E quando vogliamo indicare uno spazio particolarmente grande, che sia una stanza o una grande area urbana usiamo l’espressione «piazza d’armi». Ma ce ne sono almeno altrettante che potrete cercare su un dizionario. Sempre che vi diverta, altrimenti potete mollare tutto e andarvene dove vi pare prendendo «armi e bagagli» (cioè tutto quello che vi appartiene). 

Un verbo combattivo e organizzato. Il verbo immediatamente vicino a questa parola è armare ma sarebbe riduttivo osservarlo solo con il significato di fornire delle armi, offrire armi a chi sta combattendo o si appresta a farlo. È un verbo che viene usato anche per indicare il complesso di operazioni per fortificare una località o rafforzare quelle che sono le strutture adatte a difenderla. Si usa armare anche semplicemente per caricare di proiettili una pistola o un fucile. Ma in questo verbo esiste una caratterista molto forte nel significato di allestimento. Per questo in un’area molto lontana dalle armi, come l’edilizia, si usa il verbo armare per descrivere l’operazione di sostegno di opere murarie. E perfino a teatro si può usare armare per identificare il rafforzare con telai di sostegno la tela su cui è dipinta la scena.

Risuona spesso nelle nostre città. Con una delle parole derivate da arma più comuni nel nostro linguaggio abbiamo a che fare tutti i giorni, quando sentiamo risuonare qualche sirena di sicurezza. Quel suono ci dice che è scattato un allarme per segnalare un tentativo di furto. Quello che la sirena non dice e che questo sostantivo maschile deriva dall’espressione all’arme (con l’apostrofo), una locuzione con cui si avvertivano le truppe di impugnare le armi nell’imminenza di uno scontro, un ordine perentorio con cui i superiori avvertivano i soldati di stare all’erta (cioè in piedi, insomma svegli e attenti). Comprensibile come l’evoluzione in senso figurato ci abbia portato ad usare questo allarme per descrivere qualunque stato di preoccupazione o di apprensione per un evento che sta per accadere o appena accaduto. 

Quando non averne è un guaio. Talmente frequente l’utilizzo della parola armi e degli strumenti che rappresenta che è apparso presto necessario individuarne un’altra per segnalarne l’assenza. Il prefisso di negazione dis- ci ha consentito di avere il verbo disarmare e l’efficace participio passato disarmato, cioè senza armi. Espressione che indica anche l’azione di togliere le armi, quindi spogliarlo della capacità di offendere. Ne occorre un’altra per indicare l’assenza di questi strumenti anche senza alcuna azione costrittiva. Ci avevano già pensato i latini, premettendo un prefisso in- con valore privativo e la lingua italiana non ha dovuto far altro che accoglierlo nel linguaggio fin dai primi anni: inerme è servito subito ad indicare chi è privo di armi o di difesa con la possibilità di indicare un singolo o un intero popolo e un’estensione in senso figurato che allarga il campo dallo scontro bellico ha fatto comodo per segnalare l’impotenza di fronte ad una avversità. 

Armatura per proteggersi. Appena pronunciamo questa parola ci viene in mente quel complesso vestito metallico indossato dai cavalieri medievali per difendersi e proteggere il corpo dai colpi nemici. Un equipaggiamento che poteva comprendere l’elmo, la corazza, coperture per le braccia le gambe e perfino i loro cavalli vennero dotati di bardature con piastre metalliche di difesa. Nel nostro tempo l’armatura che ci può capitare più di frequente di osservare è una struttura generalmente di legno che viene costruita a sostegno delle opere di scavo o di costruzione. Nelle gallerie o a cielo aperto questa armatura serve a proteggere i lavoratori. 

Armatore (spesso disarmato). Identifichiamo con questo termine chi ha in gestione una o più navi, curandone gli interessi commerciali, indipendentemente dall’essere o meno il proprietario. Curarne l’esercizio significa occuparsi di tutte quelle attività che le consentono di operare, dall’allestimento al rapporto con l’equipaggio, a quello con i porti, ai contratti commerciali relativi al carico trasportato. 

Una nave armata. Se vi capita di noleggiare una imbarcazione, il contratto di locazione specifica se si tratta di una nave a scafo nudo, cioè dotato solo delle sue pertinenze oppure di una nave armata. Non significa che state noleggiando un cacciatorpediniere dotato di cannoni e mitragliatori, ma solo che la nave che vi viene consegnata è dotata di tutti i beni di consumo necessari al viaggio. Se poi oltre ad essere armata è anche equipaggiata vuol dire che il noleggio comprende l’equipaggio incaricato di governarla e guidarla. 

L’arma delle parole. Non ci siamo volutamente soffermati sui singoli tipi di armi che sono tantissime e curiose (da dove venga la parola pistola non è chiarissimo, e la semplice allegria con nel nord Italia lo usano come sinonimo di sciocco non aiuta); né abbiamo approfondito l’obiettiva differenza tra una fionda (comunque efficacissima, chiedere a Davide o a Golia per conferma), un giavellotto (che almeno è finito alle Olimpiadi) e un missile ipersonico. Ci basta ribadire che l’intelligenza necessaria sta in chi le usa e quando lo fa e non in sofisticati programmi. Ma soprattutto non possiamo dimenticare che esistono armi sorprendenti perché non nascono con l’intento di nuocere, ma riescono a farlo in modo devastante. Millenni di letteratura possono insegnarci quanto siano potenti le parole. E non serve essere raffinati poeti per saperlo e subirne gli effetti. Spesso chi ci vuole far male usa le parole e capita che riesca a colpirci in modo grave. Le usano persone che amano ferire gli altri, i presuntuosi e gli imbecilli. Non esiste una classifica di pericolosità tra queste categorie prese singolarmente: ma se capita di incontrarle tutte insieme sono una sciagura.

Fabrizio Dragosei per il “Corriere della Sera” il 29 maggio 2022.

La Russia continua a mostrare i muscoli con lanci sperimentali di nuovi missili «prodigiosi» anche per rispondere all'annuncio che Washington fornirà agli ucraini razzi a media gittata. Ma non riesce a nascondere le sue difficoltà, compresa quella di reperire nuove reclute per sostituire gli effettivi persi nella guerra che non è guerra. Nell'armata russa si potranno arruolare per la prima volta ora anche i cinquantenni: il numero dei caduti, dei «soldatini» che tornano a casa nelle bare di zinco cresce e la leva obbligatoria non è sufficiente.

Servono più militari e c'è bisogno, se possibile, di uomini esperti. La nuova arma segreta di Putin, testata varie volte dal 2020, è stata lanciata da una nave nel Mare di Barents. L'obiettivo dello «Zircon» era stato posizionato a mille chilometri di distanza e, probabilmente non a caso, nel Mar Bianco, lo specchio d'acqua che si trova di fronte alla costa russa che dista un centinaio di chilometri dalla Finlandia. 

Secondo quanto ha detto lo stesso Vladimir Putin che si è vantato più volte dei gioielli messi a punto dai tecnici, lo «Zircon» viaggia a più di otto volte la velocità del suono e può portare sia testate convenzionali che nucleari. Si affianca al «Sarmat», un ordigno a lunga gittata ancora più veloce. Questo raggiungerebbe nella stratosfera la velocità di Mach 15 e quindi impiegherebbe molto meno dei 25 minuti necessari ai tradizionali vettori balistici per arrivare negli Usa.

Ma la principale difficoltà russa oggi non è quella di non avere armi sofisticate, quanto piuttosto di disporre solo di numeri limitati di ordigni. Così in Ucraina le Forze Armate ricorrono a vecchi lanciarazzi che sono tutt' altro che precisi. Riescono comunque ad arrivare lontano e quindi potranno essere bloccati solo dai nuovi pezzi promessi da Washington a Zelensky che possono colpire obiettivi distanti fino a 300 km.

Dall'inizio delle operazioni, il ministero della Difesa non ha più fornito aggiornamenti sulle perdite russe anche se calcoli occidentali dicono che sono molto alte. In un primo momento i centri di reclutamento hanno puntato sugli immigrati ai quali è stato offerto il permesso di residenza in cambio di un periodo al fronte.  

Ma questo non è bastato. Così il Parlamento si è affrettato a passare una legge apposita. Fino a ieri chi voleva arruolarsi per la prima volta doveva avere meno di quarant' anni. Ora si potrà firmare per la prima volta anche a cinquant' anni. La Difesa spera così di recuperare veterani delle precedenti guerre.

In assenza di dati ufficiali sulle perdite, gli esperti guardano alle notizie che arrivano dalle regioni: funerali di giovanissimi, eccetera. E qualcuno inizia a lamentarsi, anche tra i politici di stretta osservanza putiniana. A Vladivostok sono stati due deputati comunisti a parlare: «Se non ci fermiamo, avremo più orfani nel nostro Paese». Ma subito tutti gli altri deputati locali si sono dissociati: «Provocazione politica». 

Il missile balistico intercontinentale russo RS-24 Yars. Paolo Mauri su Inside Over il 2 giugno 2022.

Nell’arsenale nucleare strategico russo, l’unico in grado di dare un’effettiva capacità di deterrenza a Mosca, è presente il missile balistico intercontinentale (Icbm) RS-24 “Yars”.

Secondo Sergey Karakaev, comandante delle forze missilistiche strategiche, Yars è l’acronimo di Yadernaya Raketa Sderzhivaniya che significa “razzo di deterrenza nucleare”.

L’RS-24 Yars (SS-27 Mod 2 in codice Nato o secondo altre fonti SS-29) è stato introdotto in servizio tra il 2009 e il 2010 andando a equipaggiare la 54esima Divisione Missilistica delle Guardie della 27esima Armata Missilistica delle Guardie, basata a Krasnye Sosenki, ed è una versione aggiornata del missile balistico Topol-M, di cui condivide le linee generali.

Del missile esistono due versioni: una mobile, su veicolo Tel (Transporter Erector Launcher) e una fissa, utilizzante i silos di lancio sotterranei. La sua progettazione è iniziata nel 2004 ed il primo test di volo è stato condotto il 29 maggio 2007, quando uno Yars stato lanciato da Plesetsk, nel nord-ovest della Russia, e ha colpito il suo bersaglio nel poligono di tiro di Kura in Kamchatka nell’Estremo Oriente russo utilizzando più veicoli di rientro (RV- Reentry Vehicle). Risulta che la produzione in serie dell’Icbm sia cominciata nello stesso anno mentre un secondo test è stato effettuato a dicembre e un terzo a novembre del 2008. La Russia ha schierato il primo reggimento armato completamente di RS-24, composto da tre battaglioni, nell’agosto 2011 e sappiamo che nel 2014 uno di questi vettori è stato testato utilizzando il sistema di lancio da silo. Nel 2016 le forze missilistiche strategiche russe potevano contare la presenza di 63 di questi missili balistici intercontinentali nella versione mobile e 10 basati su silo, e a quel tempo la forza missilistica mobile poteva contare su un rapporto tra Topol-M e Yars di 50/50. Le forze armate della Federazione Russa hanno condotto 10 lanci di successo dello Yars nel periodo dal 2012 al 2020. Nel 2020, alle forze missilistiche strategiche è stato ordinato di schierare per il servizio di combattimento 20 lanciatori armati di missili Yars, insieme a 2 lanciatori per UR-100N UTTH con il veicolo a scorrimento ipersonico Avangard, mentre due reggimenti della Divisione missilistica Barnaul sono stati riequipaggiati con gli Yars mobili.

L’RS-24 è un missile a tre stadi a propellente solido lungo 22,5 metri e con un diametro di due, compatibile con Mirv (Multiple Independently Reentry Vehicles) e avente una gittata di circa 10500 chilometri. Il suo peso è di 49 tonnellate e utilizza un sistema di guida del tipo inerziale aggiornato e di tipo satellitare Glonass, lo stesso utilizzato nel missile Topol-M (RS-12M2). La precisione dovrebbe essere di circa 250 metri Cep (Circular Error of Probability) ma alcune fonti riportano tra i 150 e i 200. Il missile RS-24 può essere armato con un massimo di 10 testate, oppure di tre con Penaid (Penetrator Aid) ovvero di aiuti alla penetrazione delle difese antimissile.

Il sistema mobile Yars è montato su un camion MZKT-79221 16×16. Il veicolo Tel è destinato alle operazioni su tutti i tipi di strade e terreni e con una temperatura ambiente compresa tra -50°C e +45°C. Il motore è un diesel multicarburante a 12 cilindri, con turbocompressore e raffreddamento a liquido e una potenza di 588 kW (800 cavalli). La sospensione è di tipo idropneumatico indipendente mentre gli pneumatici sono del tipo a regolazione della pressione con sistema centralizzato e controllato dal posto di guida. Il Tel è gestito da un equipaggio di tre persone e ha un’autonomia su strada di 500 chilometri consentendogli di disperdersi, dalle basi dove sono assegnati, su un vasto territorio.

I missili balistici intercontinentali mobili sono più difficili da rilevare e colpire: questo perché, in condizione di preallarme, essi vengono distribuiti nelle vastità del territorio russo sfuggendo agli occhi della ricognizione satellitare. Questa possibilità serve a garantire la possibilità di sopravvivenza dell’arsenale atomico russo, stante il fatto che i silo di lancio fissi sono tra gli obiettivi principali di un primo attacco di counterforce. Gli Yars hanno quindi un’alta probabilità di sopravvivere a un primo colpo al pari di un altro ramo della triade nucleare russa: i sottomarini lanciamissili balistici a propulsione nucleare (o SSBN).

Dall’ordine di attacco, occorrono sette minuti per preparare il missile per il lancio. Lo Yars può lanciare il suo missile da un sito preparato, da un garage speciale con tetto scorrevole o da una posizione impreparata durante il dispiegamento sul campo. Il veicolo Tel, una volta lanciato il missile, può lasciare la sua posizione ed eventualmente venire ricaricato.

Durante il dispiegamento sul campo, il Tel viene affiancato da altri veicoli di supporto: esiste un posto comando, un veicolo su chassis 8×8 pensato per fornire elettricità sul campo e in caso di emergenza nella posizione di lancio in combattimento nonché per la sussistenza del personale (ciascun mezzo può sostenere sino a dieci persone completamente equipaggiate), veicoli cisterna per il carburante, un veicolo per lo sminamento “Foliage”, un Afv (Armoured Fighting Vehicle) tipo Typhoon-M, uno di supporto tecnico, uno per la decontaminazione NBCR (Nucleare, Batteriologica, Chimica e Radiologica) e altri di trasporto per le truppe che garantiscono la sicurezza del sistema di lancio. In caso di emergenza il Tel può operare autonomamente senza la sua scorta. Risulta che i russi abbiano anche sviluppato un “falso bersaglio”, ovvero un veicolo civetta uguale al vero Tel in grado di sviluppare anche la stessa segnatura termica. Il missile balistico intercontinentale Yars è stato progettato per una durata di circa 20 anni.

L’RS-24 è il vettore che andrà a equipaggiare il sistema ferroviario missilistico Barguzin, ovvero un treno armato col missile intercontinentale, ma il suo sviluppo – se davvero procederà – molto probabilmente verrà ritardato dalla scarsità di fondi disponibili.

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Nuove armi all'Ucraina: inviati i lanciamissili a lungo raggio. Federico Giuliani il 2 Giugno 2022 su Il Giornale.

Gli Stati Uniti forniranno all'Ucraina sistemi missilistici Himars; la Gran Bretagna sistemi missilistici M270. Blinken: "Kiev ha promesso di non usare i nuovi rifornimenti per attaccare la Russia oltre i propri confini".

Fornire all'Ucraina tutte le armi di cui ha bisogno fino alla fine della guerra. È questo l'imperativo portato avanti da Stati Uniti e Regno Unito, entrambe pronte a spedire a Kiev nuovi rifornimenti militari. Washington è pronta a consegnare i sistemi missilistici Himars, mentre la Gran Bretagna ha confermato l'invio di sistemi missilistici M270 a lungo raggio.

Lanciamissili a lungo raggio

Il primo annuncio è arrivato dagli Stati Uniti, precisamente dalla Casa Bianca. Joe Biden ha infatti ufficializzato un "nuovo significativo pacchetto di aiuti" agli ucraini che li "armerà con nuove capacità e armamenti avanzati, compresi i sistemi Himars con le munizioni, per difendere il loro territorio dall'avanzata russa". Il presidente Usa ha ribadito l'impegno statunitense nel continuare a fornire armi a Kiev.

La Gran Bretagna fornirà invece all'Ucraina sistemi missilistici M270 a lungo raggio. Il segretario alla Difesa britannico, Ben Wallace, ha spiegato alla Cnn che questo passaggio è stato "strettamente coordinato" con la decisione degli Stati di fornire all'Ucraina il sistema Himars. Il governo britannico ha anche affermato che l'esercito ucraino verrà addestrato a utilizzare i lanciarazzi nel Regno Unito in modo da massimizzarne l'efficienza.

Le garanzie di Kiev

Dal canto suo, Kiev si è impegnata a non utilizzare queste armi per colpire obiettivi situati nel territorio russo. Il segretario di stato americano, Antony Blinken, ha infatti dichiarato che l'Ucraina ha promesso agli Stati Uniti che non impiegherà i nuovi rifornimenti per attaccare la Russia oltre i propri confini. "C'è una forte relazione di fiducia tra Ucraina e Usa", ha assicurato Blinken che, incalzato dai cronisti sui rischi di escalation, ha risposto che "è la Russia che ha attaccato, se la Russia vuole evitare un'escalation può fermare la guerra".

Wallace ha affermato che la Gran Bretagna sostiene l'Ucraina e ha assunto un ruolo guida nella fornitura delle armi necessarie per difendere il Paese. "Mentre le tattiche della Russia cambiano, così deve cambiare il nostro sostegno all'Ucraina. Questi lanciarazzi multipli altamente efficaci consentiranno ai nostri amici ucraini di proteggersi meglio dall'uso brutale da parte della Russia dell'artiglieria a lungo raggio usata dalle forze di Putin per distruggere indiscriminatamente le città", ha aggiunto il segretario alla Difesa britannico.

Le caratteristiche delle nuove armi

Gli Himars (High Mobility Artillery Rocket System) sono lanciarazzi multipli montati su veicoli blindati leggeri. L'equipaggiamento inviato all'esercito ucraino avrà una portata di 80 chilometri. Non si tratta quindi di sistemi a lunghissimo raggio, di diverse centinaia di chilometri, come hanno anche gli americani.

Fonti dell'amministrazione Usa riferiscono che Kiev riceverà una fornitura ristretta del sistema missilistico di artiglieria ad alta mobilità M142 a medio raggio (Himars), che ha una portata ben più ampia dei 25 chilometri garantiti dagli obici M777, inviati sempre dagli Usa. Il sistema può lanciare un razzo capace di percorrere circa 77 km.

L’M270 è teoricamente in grado di sparare 12 razzi per poi ricaricarsi in tutta rapidità. In base alla munizione impiegata, la sua portata può estendersi in una forbice che va dai 30 ai 70 chilometri. Razzi più avanzati possono invece viaggiare per oltre 160 chilometri.

L’effetto dei cannoni italiani: "Così' stanno distruggendo i russi". Alessandro Ferro su Il Giornale il 27 maggio 2022.  

Non solo gli aiuti bellici italiani sono già arrivati in Ucraina e largamente utilizzati dall'esercito di Kiev, ma i soldati di Zelensky si dicono "entusiasti" di alcuni risultati che stanno ottenendo contro i russi. La battaglia in Donbass si arricchisce dei cannoni made in Italy FH-70, modello "Howitzer", che stanno risultando decisivi in alcune fasi del conflitto. Anche se come abbiamo visto sul Giornale.it, per motivi di sicurezza la lista delle armi inviate in Ucraina è secretato, in rete girano numerose foto e video degli FH da 155 millimetri che sparano superando distanze di 20 km.

L'elogio degli ucraini arriva direttamente sulla pagina ufficiale delle "Forze di terra" grazie ai primi risultati ottenuti sul campo di battaglia. La didascalia su questi cannoni è eloquente: "Stanno già distruggendo il nemico in prima linea. Grazie al caricatore semiautomatico, l'equipaggio addestrato può sparare fino a sei colpi al minuto, uno ogni dieci secondi". Come ricorda Repubblica, questo tipo di proiettile contiene almeno 10 chili di esplosivo ed è impiegato sul fronte "caldo" ad Est, dove si stanno concentrando tutti gli sforti da ambo gli schieramenti. Oltre alle armi, alcuni soldati sono stati visti indossare giubbotti antiproiettile sempre di dotazione italiana. Un plauso arriva anche dagli analisti di Ukraine Weapons Tracker, che hanno il compito di fare un reportage sulle armi donate dai Paesi occidentali. "Gli Howitzers italiani sono già in uso, una quantità non definita è stata donata di recente dall'Italia".

Anche se non si tratta di un'arma modernissima, l'FH-70 è comunque superiore a quelli più datati di origine sovietica degli anni '60. L'Italia ne conta circa 160, anzi ne contava visto che, nel terzo e ultimo pacchetto di auti all'Ucraina ne sono stati invitati un numero imprecisato. Questo tipo di arma è ben presente in Giappone, che ne conta 480, e in Gran Bretagna che ne conta 150. Nell'Esercito Italiano, questi cannoni sono stati dati, tra gli altri, ai reggimenti di artiglieria da montagna delle Brigate alpine e a uno specifico Reggimento delle artiglierie "Trieste" e "Peloritani".

"Invio armi finché serve"

Anche se l'Italia ha, per adesso, deciso di fermare l'invio dei propri aiuti, non si ferma quello degli altri Paesi Nato che dovrà continuare "fino a quando sarà necessario": lo ha detto il vicesegretario generale dell'Alleanza, Mircea Geoana, in un'intervista esclusiva al TG3. "È un processo che è iniziato a Ramstein - afferma il numero due della Nato - e noi continueremo ad aiutare l'Ucraina in termini militari, ma anche dal punto di vista umanitario e finanziario". Il vicesegretario generale ha confermato qual è il pensiero sull'esito finale del conflitto. "Come ho già detto e come ha dichiarato anche il segretario Stoltenberg, l'Ucraina può vincere questa guerra".

M777, ecco l’arma più potente con cui Kiev spera di vincere. Alessandro Ferro su Il Giornale il 26 maggio 2022.  

Gli aiuti americani arrivano di gran carriera a dare man forte all'esercito ucraino e i primi risultati già si vedono: è il caso degli M-777, le armi più letali finora fornite per contrastare i russi. Si tratta di obici, ossia un'arma a lungo raggio in grado di sparare proiettili con traiettorie piatte e dotate di un mortaio, che spara ad alti angoli di salita e discesa. Gli obici, che fanno parte integrante di quella che si chiama artiglieria, sono raggruppati per batterie. È proprio questo tipo di arma che potrebbe adesso iniziare a far la differenza contro i le forze russe che in diversi casi sono costrette a schierare vecchi carri armati degli anni '60.

Dopo tre mesi dall'inizio del conflitto, i primi M-777 sono adesso schierati in combattimento nell'est dell'Ucraina. Il loro arrivo ha aumentato le speranze dell'Ucraina di poter essere superiore quanto ad artiglieria in alcune aree di prima linea, un passo chiave verso le vittorie militari in una guerra che adesso si combatte soprattutto in una steppa piatta e aperta a lungo raggio. Come riporta il NYTimes, gli obici degli Stati Uniti sono grosse macchine in acciaio e titanio composte da tubi idraulici che si poggiano su quattro sostegni in grado di piegarsi verso il basso o l'alto in base alla direzione di fuoco necessaria. Gli ucraini hanno già sparato centinaia di colpi dal loro arrivo intorno all'8 maggio e sono già stati uccisi numerosi soldati e distrutti veicoli corazzati. "Quest'arma ci avvicina alla vittoria", ha dichiarato in un'intervista il colonnello Roman Kachur, comandante della 55esima brigata di artiglieria, la prima a schierare l'arma. "Con ogni arma moderna, ogni arma precisa, ci avviciniamo alla vittoria".

Quanto sia vicina questa vittoria non si può ancora dire: l'arrivo delle nuove armi non è garanzia di successo, i russi non mollano il Donbass e tutto dipenderà dai numeri dei prossimi giorni. "L'artiglieria è principalmente un affare di quantità", ha affermato in un'intervista telefonica Michael Kofman, direttore degli studi russi presso la Cna, Istituto di ricerca ad Arlington, in Virginia. "I russi sono uno dei più grandi eserciti di artiglieria che puoi affrontare". Fino a pochi giorni fa, gli Stati Uniti avevano dichiarato di fornire questi M-777 obici ma non se n'era ancora vista traccia. Soltanto da qualche giorno c'è stata la conferma da parte dei media internazionali che le armi sono effettivamente in uso.

L'addestramento degli ucraini

In ogni caso, gli analisti militari hanno detto che "l'effetto completo" non si farà sentire per almeno altre due settimane poiché i soldati ucraini devono ancora essere addestrati nel migliore dei modi per essere in grado di utilizzare i 90 obici fin qui disponibili e gli altri che arriveranno prossimamente. Stati Uniti, Francia, Slovacchia e altre nazioni occidentali si sono precipitate nel rifornire di artiglieria sistemi di supporto quali droni, radar, e veicoli corazzati l'Ucraina nonostante tutte le minacce di Putin con conseguenze nucleari se questo trend non si fosse arrestato in fretta.

Guerra elettronica. Il ruolo decisivo dei droni nella resistenza ucraina contro l’invasore russo. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 25 Maggio 2022.

I sistemi Uav (Unmanned aerial vehicle) e Usv (Unmanned surface vehicle) sono indispensabili per qualunque esercito moderno. I soldati di Kiev finora hanno dimostrato di saperli maneggiare a dovere in ognuna delle tante funzioni che possono svolgere, mentre Mosca ha subito molte perdite a causa dei sistemi d’interferenza

Il 2S7 è un’arma molto vecchia, un obice pesante di fabbricazione sovietica sviluppato nel corso degli anni ‘70. Un cingolato progettato per colpire obiettivi sensibili a diversi chilometri di distanza, già protagonista in Afghanistan e nelle guerre cecene attraverso gli ultimi decenni del secolo scorso, e oggi presente nell’arsenale dell’Ucraina e in quello della Russia.

Queste armi così vecchie sono ancora protagoniste soprattutto perché vengono aggiornate, integrate con nuovi sistemi. L’esercito ucraino ad esempio usa piccolo drone per scovare e puntare i bersagli che poi saranno colpiti dai colpi dell’artiglieria pesante: lo Spectator permette di visualizzare più chiaramente i bersagli, di correggere la traiettoria del fuoco e avere una probabilità di riuscita più alta per ogni attacco.

Un video diffuso sabato scorso mostrava il l’inquadratura di uno Spectator con gli attacchi degli obici 2S7 della 45esima brigata ucraina in un complesso industriale nell’area di Zaporizhzhia, territorio in cui un battaglione dell’esercito russo si era assestato temporaneamente.

Il video qui sopra è probabilmente il primo caso in cui quel battaglione ha usato lo Spectator con questa funzione. Ma è dall’inizio del conflitto che i droni giocano un ruolo chiave in ogni assalto.

Già all’inizio della guerra raccontavamo come il ministero della Difesa russo, a partire dalla guerra in Siria, avesse imparato ad apprezzare l’impiego di droni di ricognizione e sorveglianza per guidare l’artiglieria.

Ma probabilmente nel caso di Mosca l’esperienza maturata in passato non è sufficiente. O almeno questo è quello che dice il ministero della Difesa del Regno Unito. La Russia sta usando le stesse tattiche di “ricognizione” che aveva già testato in Siria, ma «si sta accorgendo di non avere Uav da ricognizione adeguati per questo compito in Ucraina, carenza esacerbata dalle limitazioni nella sua capacità di produzione nazionale derivanti dalle sanzioni», fanno sapere da Londra in un aggiornamento pubblicato sabato scorso con un report dell’intelligence come fonte.

«I veicoli aerei senza pilota (Uav) hanno svolto un ruolo chiave per entrambe le parti della guerra Russia-Ucraina, ma si logorano facilmente, ha scritto il ministero, poiché vengono spesso abbattuti o disturbati elettronicamente. Se la Russia continua a perdere droni al ritmo attuale, le capacità di intelligence, sorveglianza e ricognizione delle forze russe saranno ulteriormente indebolite, con un impatto negativo sull’efficacia operativa», ha scritto il ministero britannico.

Sui droni, come in tanti altri campi, Mosca avrebbe dovuto godere di un vantaggio competitivo considerevole rispetto a Kiev, almeno sulla carta. Molti analisti all’inizio del conflitto avevano ipotizzato che le azioni di interferenza elettronica della Russia avrebbero neutralizzato qualsiasi drone ucraino. Invece non tutto sta andando secondo i piani del Cremlino.

«Un drone riceve comandi dal suo operatore tramite un collegamento radio che può andare perso se il segnale viene sopraffatto da interferenze sulla stessa frequenza. Un drone bloccato può tornare nell’ultima posizione in cui era in grado di ricevere comandi, tentare un atterraggio morbido o semplicemente schiantarsi. I droni militari (come il turco Bayraktar TB2 che sta utilizzando l’Ucraina) hanno filtri elettronici per ridurre il rumore e resistere ai disturbi, ma altri droni possono essere vulnerabili», spiega l’Economist.

La Russia avrebbe tutti gli strumenti per inibire le operazioni dei droni ucraini, soprattutto quelli da ricognizione che volano a bassa quota. Ma le operazioni di interferenza sono meno efficaci quando si combattono battaglie su aree molto vaste, e la Russia sembra piuttosto riluttante a spostare le unità in avanti per guadagnare in efficacia: la paura è che possano essere distrutte o catturate: dall’inizio della guerra – 24 febbraio – ai primi giorni di maggio, sono stati abbattuti 31 droni russi, altri 14 sono andati dispersi tra il 3 e l’11 maggio, secondo Oryx, il blog di intelligence open source.

È chiaramente un merito dell’Ucraina, che sta valorizzando al meglio la fornitura di armi e sistemi da parte degli alleati occidentali.

«L’America sta fornendo attrezzature non specificate per la guerra elettronica all’Ucraina e le sue forze hanno una varietà di jammer (disturbatori di frequenze) portatili. Queste unità, che sembrano pistole laser di un film di fantascienza, devono essere puntate direttamente su un drone», si legge sull’Economist.

Nella maggior parte dei casi però si ragiona sui droni soprattutto in termini di Uav (Unmanned aerial vehicle), quindi nella dimensione aerea. Ma stanno giocando un ruolo determinante anche gli Usv (Unmanned surface vehicle), cioè barche o navi che operano sulla superficie dell’acqua senza equipaggio, con vari livelli di autonomia. Il Pentagono è il principale fornitore di questi sistemi per Kiev.

Ne ha parlato Forbes in un articolo pubblicato lunedì a firma di Vikram Mittal: «Sebbene non ci fossero dettagli sul tipo o sul numero di questi dispositivi forniti all’Ucraina, sono probabilmente sistemi utilizzati dalla Marina degli Stati Uniti. Gli Usv più grandi, come il Leidos Sea Hunter, servono per missioni a lungo termine che oggi sono svolte da navi della Marina con equipaggio. I sistemi Usv più piccoli, invece, sono destinati principalmente alla raccolta di informazioni e all’individuazione delle mine sottomarine. Gli Usv forniti all’Ucraina sono probabilmente la classe più piccola di sistemi Usv».

Tra i sistemi forniti all’Ucraina c’è ad esempio il Common Usv costruito da Textron: ha all’incirca le dimensioni di una motovedetta standard con una lunghezza di una decina di metri, possono trasportare diversi tipi di rifornimenti, incluse armi, possono raggiungere velocità di 30 miglia orarie con un’autonomia di 1.200 miglia.

Potrebbe esserci, tra i rifornimenti, anche il Mantas T-12 costruito da Martac. È un sistema abbastanza piccolo, 3,6 m di lunghezza con un carico possibile di 63,5 kg: si tratta di Usv destinati principalmente alla raccolta di informazioni e possono raggiungere velocità di 50 miglia orarie.

Andando oltre i singoli modelli, però, è chiaro le navi-drone avranno un ruolo significativo nel corso della guerra, dal momento che la Russia ormai è concentrata sul Donbass, regione che confina con il Mar d’Azov e il Mar Nero.

«Mentre la guerra entra nel suo terzo mese – è la conclusione dell’articolo di Forbes – l’uso dei droni è già stato senza precedenti. Hanno giocato un ruolo significativo nel successo iniziale dell’Ucraina e nei fallimenti russi. Nelle fasi successive della guerra, i droni continueranno a svolgere un ruolo chiave. In particolare, gli Usv possono fornire agli ucraini la capacità di limitare l’efficacia della Marina russa, che ancora non è realmente entrata in gioco».

M. Ev. per “Il Messaggero” il 23 maggio 2022.

L'Ucraina come la Siria. Putin schiera gli esperti in barili-bomba che causano devastazione e sofferenza. La rivelazione è del quotidiano britannico The Guardian che ieri ha raccontato: cinquanta tecnici siriani, specializzati nella fabbricazione di questo tipo di ordigni micidiali, sono stati trasferiti in Russia. La loro missione è organizzare una campagna simile a quella vista nel Paese medio-orientale anche in Ucraina. 

Secondo le fonti di intelligence, citate dal quotidiano britannico, questi specialisti sono atterrati in Russia qualche settimana fa per addestrare i militari di Putin. Per questo, da tempo, è diffuso un allarme sul possibile uso delle armi chimiche da parte dell'esercito russo. Come funzionano i barili-bomba? Sono bombole riempite di esplosivo e frammenti di metallo, ma in alcuni casi anche di cloro, e in Siria venivano lanciati dagli aerei, causando centinaia di vittime.

Non è certo la prima volta che Mosca, per questa feroce aggressione dell'Ucraina, si sta affidando ad armi micidiali: ha già lanciato due missili ipersonici e proprio ieri sono state segnale bombe a grappolo su Kherson che hanno causato tre morti. 

L'altro giorno un attacco missilistico su Lozova, nella regione Kharkiv, ha danneggiato mille appartamenti e undici strutture scolastiche.

Il ricorso però ai barili-bomba, sa sarà confermato, rappresenterà un ulteriore imbarbarimento dell'azione militare dei russi, che non sta risparmiando i civili, come dimostrano le stragi di Bucha o del teatro di Mariupol. Secondo gli analisti citati da The Guardian, «i barili bomba - esplosivi grezzi confezionati in fusti e sganciati da un elicottero - sono stati usati, con effetti devastanti, durante la guerra siriana».

Il regime di Assad è stato anche regolarmente accusato di aver riempito contenitori di cloro e di averli fatti cadere su paesi e città che erano controllate dall'opposizione, provocando centinaia di morti e scatenando un diffuso allarme.

Senza armi di difesa antiaerea, l'opposizione anti-Assad ha avuto pochi strumenti per contrastare la supremazia dell'esercito siriano. Qui però emerge una differenza rispetto alla situazione di partenza dell'Ucraina che potrebbe giocare a favore di Kiev e rendere inefficace il ricorso a questo tipo di arma.

Le truppe ucraine hanno già dimostrato di sapere usare con precisione i missili terra-aria che hanno a disposizione e grazie ai quali hanno, in più occasioni, abbattuto caccia ed elicotteri russi. Secondo un funzionario europeo anonimo, citato da The Guardian, «è probabilmente il motivo per cui non abbiamo ancora visto questi specialisti attraversare il confine».

Si sa che la capacità di sfruttare le bombe-barili c'è, ma i russi sanno anche che non è così scontato che potranno usarle senza avere pesanti perdite. I numeri sono forniti dagli ucraini e quindi vanno letti con prudenza, però ad oggi risultano esserci non solo 29mila soldati dell'esercito di Putin caduti in questa guerra, ma anche 204 caccia e 171 elicotteri russi abbattuti, ai quali si aggiungono 470 droni e 13 navi.

In sintesi: una cosa è, cinicamente e senza pietà, lanciare quelle bombe in Siria dove le forze anti governative non hanno armi difensive, un'altra è farlo in Ucraina dove l'esercito di Kiev si sta rivelando ben armato e ben addestrato.

The Guardian però fa anche un'analisi sul numero di mercenari che fino ad oggi sono arrivati dalla Siria per combattere al soldo di Putin: «Le fonti ritengono che tra gli 800 e i 1.000 siriani si siano offerti come volontari. Il Cremlino ha promesso loro stipendi compresi tra i 1.500 e i 4.000 dollari al mese, fino a venti volte l'importo che riceverebbero nel loro Paese dove il crollo dell'economia ha ridotto pesantemente il valore della valuta locale».

I centri di reclutamento sono stati allestiti a Damasco, Latakia, Hama e Homs e «le reclute sono schierate sotto contratto con il gruppo Wagner, l'organizzazione militare privata russa, che ha svolto un ruolo di primo piano nell'assunzione di mercenari a sostegno delle missioni all'estero dei russi». 

Il gruppo Wagner è stato schierato anche in Ucraina, si ipotizza almeno 500 uomini, e probabilmente ha avuto un ruolo anche nelle atrocità commesse a Bucha. Siriani, ma anche libici, secondo quanto detto dallo Stato maggiore ucraina, sono stati uccisi in battaglia a Poposna. 

Missili, intelligence, incursioni: il ruolo dei sommergibili russi nel Mar Nero. Andrea Marinelli e Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 23 maggio 2022.

Il ministro della Difesa russo ha annunciato il lancio di un missile da un sommergibile in Mar Nero. Poche righe per un attore non secondario: dall’inizio del conflitto la Marina russa ha mobilitato almeno 2 sottomarini della classe Kilo. 

L’ultimo strike è arrivato solo poche ore fa: il ministro della Difesa russo ha annunciato il lancio di un missile da un sommergibile in Mar Nero. Poche righe per un attore non secondario: dall’inizio del conflitto la Marina russa ha mobilitato almeno 2 sottomarini della classe Kilo. 

Di base a Sebastopoli, sono unità moderne, «silenziose», il loro soprannome è «Black Hole» (buco nero), spinte da motori diesel/elettrici, con un equipaggio di 52 marinai. Parliamo di personale di solito ben addestrato, esperto, chiamato ad agire in un contesto particolare. 

La Flotta ha schierato gli «squali» in un quadrante relativamente sicuro, in quanto Kiev non ha risorse sufficienti per contrastarli e dunque è stato possibile impiegarli in una serie di missioni con una certa libertà. I battelli — spiega l’esperto Giuliano Ranieri — sono in grado di dare un appoggio importante nel lavoro di intelligence sotto costa. Raccolgono dati elettronici grazie agli apparati a disposizione, rastrellano segnali e realizzano i database informativi, le cosiddette «librerie». Inoltre vengono usati in appoggio a uomini rana e commandos: li portano a poche miglia dalla spiaggia, quindi gli incursori procedono con mezzi speciali. Attività «coperte», nel segno della segretezza. 

Chissà se gli ucraini cercheranno di organizzare qualche sabotaggio, anche se i porti nemici dovrebbero essere ben protetti. L’affondamento del Moskva, centrato da un paio di missili Neptune, e il danneggiamento di un cargo invitano a non escludere nulla. 

Proprio il disastro dell’ammiraglia russa ha indirettamente accresciuto il ruolo dei Kilo. Mosca ha infatti tenuto al largo la sua task force di superficie per evitare altre sorprese: al momento non è infatti chiaro se l’Ucraina abbia solo i suoi missili anti-nave o, invece, abbia ricevuto nuovi ordigni. 

La Danimarca si è impegnata a fornire Harpoon, ma potrebbero arrivare mezzi anche da un Paese baltico: siamo sempre nell’area grigia, gli aiuti particolari vanno protetti per non concedere vantaggi. 

Il secondo fronte per i sottomarini — sottolinea Ranieri — è ancora più rilevante: il tiro di missili da crociera. I cruise sono sparati dai tubi lanciasiluri e possono raggiungere bersagli a distanze di 1.500-2.000 chilometri, un lungo braccio che ha avuto il suo battesimo del fuoco in Siria. Mosca ne ha riservati una quota per «battere» caserme, depositi militari, centri d’addestramento ben lontani dalla prima linea. Di fatto hanno affiancato l’aviazione che nell’invasione non ha certo brillato: la media dei raid è stata di 200-300 al giorno, si è concentrata nella parte sud e nel Donbass, non ha mostrato grande iniziativa. 

C’è anche una componente logistica. Più volte è stato scritto che gli invasori hanno dato fondo alle riserve di missili (bombe) «intelligenti»: non sempre ci sono scorte a sufficienza, serve tempo per produrli. Probabile che i russi abbiano ancora una buona quota di Kalibr per i Kilo e quindi attingono a questo arsenale per mantenere la pressione. Anche nel Mar Nero, dove Mosca mantiene il blocco che sta soffocando l’economia ucraina e provocando una crisi alimentare globale: la battaglia marittima servirà anche a riaprire le vie commerciali e permettere le esportazioni di grano e prodotti agricoli.

Terminator, la Russia schiera il super carro armato «inarrestabile». Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 23 maggio 2022.  

Si tratta di un tank, di cui ancora esistono pochi esemplari, dotato di un doppio cannoncino da 30 mm, di una mitragliatrice e di un sistema lanciarazzi. 

Area di Popasna, Ucraina orientale. È qui che i russi stanno accentuando la loro pressione e per questo hanno lanciato sul campo reparti più agguerriti. I rapporti sottolineano la presenza di parà, di incursori, di commandos che agiscono sotto la copertura dell’artiglieria, frequenti i raid notturni.

Le ultime notizie sull’Ucraina

Insieme agli uomini i mezzi. Lo Stato Maggiore ha schierato anche i Terminator, un mezzo presente ancora in pochi esemplari. È un blindato dotato di un doppio cannoncino da 30 mm, di una mitragliatrice e di un sistema lanciarazzi. Da tre a cinque i componenti dell’equipaggio, dipende dalla versione. Come evoca il nome, dovrebbe garantire un volume di fuoco intenso.

La decisione di impiegarlo è dovuta a due aspetti. Il primo. La necessità di avere maggiori risorse nel contrasto della fanteria ucraina, in particolare i team dotati di anticarro, rivelatisi piuttosto efficaci. La seconda. Mosca prova gli ultimi prodotti della sua industria bellica e li «mostra». E a proposito di Siria il Guardian scrive che i russi avrebbero fatto arriva-re da Damasco 50 esperti in esplosivi, tecnici che aveva-no costruito i barili-bomba sganciati su città e villaggi della ribellione. Non è tuttavia ben chiaro quale possa essere il loro contri-buto viste le differenze. Lo stesso giornale aveva parlato della mobilitazione di alcune centinaia di mercenari arabi, una presenza però mai accertata.

Atom, le moto elettriche dei cecchini ucraini: così colpiscono i russi come fantasmi. Libero Quotidiano il 21 maggio 2022.

Le moto elettriche Atom si stanno rivelando eccellenti nelle cosiddette operazioni stealth, ovvero silenziose. Sviluppate da Eleek, azienda con sede in Ucraina, questi mezzi a due ruote sono sorprendentemente diventi molto utili nel conflitto, dato che sono leggeri, silenziosi e quindi difficilmente individuabili dai nemici. Dopo che la Russia ha invaso il Paese nell’ambito della sua “operazione militare speciale”, l’Ucraina ha chiesto alla Eleek di fornire all’esercito un loto delle moto elettriche Atom.

A utilizzarle sono soprattutto i cecchini, che possono così cogliere di sorpresa i soldati russi: le possibilità di essere rilevati attraverso le scansioni termografiche sono minori e quindi è più facile arrivare di soppiatto sul luogo della missione, agganciare il bersaglio, colpire e ripartire rapidamente. Per quanto riguarda le caratteristiche, le moto elettriche Atom arrivano a una velocità massima di 90 km/h e possono viaggiare per circa 150 km con una singola carica. Inoltre possono trasportare l’attrezzatura necessaria per questo tipo di operazioni militari, dato che hanno una capacità di carico di 150 kg.

Insomma, tali moto si stanno rivelando uno strumento prezioso per le operazioni stealth dei tiratori scelti ucraini: oltre al vantaggio tattico, offrono una fuga piuttosto rapida e quasi del tutto silenziosa. Alla vista le Atom sono un ibrido tra una bicicletta e una moto: la leggerezza e la compattezza fanno sì che siano uno strumento ideale per l’utilizzo che se ne fa in guerra.

Armi laser, come funzionano e quali Stati già le usano? Romualdo Gianoli su Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022.

Non è come in «Star Wars» ma le armi basate sulla tecnologia laser hanno fatto molti passi avanti. I vantaggi rispetto ai proiettili tradizionali e i Paesi più avanti nella ricerca: non solo Russia e Stati Uniti.

Che cos’è un laser

Un po’ propaganda, un po’ realtà, un po’ futuro prossimo. Questo sembra essere lo scenario delle armi laser. Dopo l’annuncio dell’arrivo sul campo di battaglia ucraino di ‘Zadira’ e ‘Peresvet’, le risposte russe alle armi laser occidentali, il panorama bellico comincia a essere piuttosto affollato. Ma che cos’è un laser? Come funzionano le armi che si basano su di esso e quali sono i Paesi che li stanno sperimentando?

Laser è un acronimo che sta per light amplification by stimulated emission of radiation o, in altre parole, «amplificazione della luce mediante emissione stimolata di radiazione». Vuol dire che fornendo energia agli atomi di determinati elementi questi in risposta emettono luce come quella di una lampadina o del Sole ma con caratteristiche molto particolari che non esistono in natura.

Infatti, mentre la luce di una lampadina classica si propaga allo stesso modo in tutte le direzioni, quella di un laser resta confinata in uno stretto fascio collimato lungo una sola direzione. Questa proprietà è detta coerenza spaziale. Allo stesso modo, mentre la luce di una lampadina non è di un unico colore (cioè viene emessa su diverse lunghezze d’onda perché ai colori corrispondono specifiche lunghezze d’onda), quella di un laser è quasi sempre monocromatica, cioè di una sola lunghezza d’onda particolare. Questa caratteristica è detta coerenza temporale. Insomma, la luce di un raggio laser è coerente nello spazio e nel tempo e ciò le attribuisce speciali proprietà.

A che cosa serve un laser

In condizioni ideali la luce di un laser può viaggiare senza disperdersi o attenuarsi e può essere concentrata su superfici molto piccole trasferendo molta energia. Nella realtà, in atmosfera, a causa della presenza di acqua, gas, polveri o altre particelle in sospensione, il fascio laser subisce attenuazioni e dispersioni ma si riescono ugualmente a raggiungere distanze notevoli e trasferimenti di energia tali da renderlo utile per vari scopi.

I laser, ad esempio, sono usati come strumenti di precisione in interventi chirurgici, per accurate misure di lunghezze, per registrare, recuperare e trasmettere informazioni (pensiamo ai DVD o ai lettori di codici a barre), ma possono anche essere usati per fare saldature e tagliare diamanti o metalli spessi. Proprio la capacità del laser di concentrare molta energia in un’unica direzione e su una piccola superficie ha ben presto attirato l’attenzione dei militari.

I vantaggi delle armi laser

Essenzialmente le armi convenzionali che usiamo da secoli si basano su un principio molto semplice: scagliare un oggetto contro qualcuno (un nemico) o qualcosa (un mezzo o una struttura). Il resto lo fanno la massa e la velocità dell’oggetto perché, per le leggi della fisica, da questi due elementi dipende l’energia con cui riusciamo a colpire il bersaglio. Così è per una freccia scagliata da un arco, così per un proiettile sparato da un cannone e così è per una granata che proietta schegge in ogni direzione.

Con i laser è diverso perché, in questo caso, si cerca di realizzare un trasferimento diretto di energia dal fascio di luce concentrata al bersaglio. Non è esattamente il famoso ‘raggio della morte’, ma è comunque un sistema che offre una serie di vantaggi rispetto alle armi convenzionali.

Tanto per cominciare i ‘proiettili’ viaggiano alla velocità della luce, poi l’obiettivo può essere centrato con grande precisione, l’energia emessa può essere modulata in base al risultato che vogliamo ottenere, non sono necessari rifornimenti di munizioni o grandi quantità di parti di ricambio e quindi, in generale, una volta finito il periodo sperimentale, è un sistema più economico che semplifica di molto anche la logistica. Ma le armi laser offrono anche altri vantaggi come la possibilità di distruggere o danneggiare i sistemi di comunicazione satellitari del nemico, ’accecare’ la sua strumentazione sul campo ed evitare i danni collaterali normalmente connessi all’uso di armi convenzionali.

Quali laser usano gli eserciti e come funzionano

È almeno dagli anni ’60 che ci si interroga sulla possibilità di realizzare armi laser. Nel cinema o nella letteratura di fantascienza le cose sono state semplici (pensiamo ai fucili laser degli stormtrooper di Star Wars o al «phaser» del capitano Kirk in Star Trek, che pure ha proprietà anche differenti). Nella realtà le cose sono andate diversamente.

Nonostante grandi investimenti in ricerca e sviluppo (all’inizio soprattutto negli Stati Uniti), è solo da qualche tempo che si sono cominciati a raggiungere risultati concreti. La sperimentazione ha preso molte direzioni anche se non sempre è arrivata alla fase operativa. Fin dagli anni ‘70 sono stati sperimentati sistemi laser ad anidride carbonica (potenti sorgenti nell’infrarosso in grado di tagliare i metalli), a elettrone libero (studiati nell’ambito del programma ‘Guerre Stellari’ del presidente Reagan) e a ossigeno-iodio, testato a lungo su un Boeing 747 dell’Aviazione americana (Airborne Laser - ABL) per verificarne la capacità di abbattere missili in volo.

I laser ad alta energia come l’ABL sono tuttora in fase di sviluppo anche per l’uso a terra e in mare, per abbattere missili in arrivo, proiettili di artiglieria e possibilmente aerei o droni nemici. In pratica quello che è riuscita a fare la Marina americana qualche tempo fa abbattendo un drone con un raggio laser sparato da una nave e quello che probabilmente sta già accadendo (o accadrà) sui campi di battaglia in Ucraina.

Quali Stati utilizzano i laser

Attualmente sono almeno una decina i Paesi che utilizzano armi laser o hanno in corso sperimentazioni a vari livelli. Tra questi, ovviamente, Stati Uniti e Russia di cui molto si sta parlando in questi ultimi tempi. Gli altri sono la Francia, l’Iran, il Regno Unito, la Turchia, l’India, la Germania, Israele e la Cina. Interessanti i casi di Cina e Regno Unito. Quest’ultimo in un certo modo ci riguarda da vicino perché il Regno Unito ha investito circa 30 milioni di sterline nel progetto Dragonfire, un sistema di difesa a medio/corto raggio per proteggere le navi della Royal Navy dall’attacco di droni e altri velivoli, già oggetto di una dimostrazione nel 2017. Al progetto partecipa anche l’italiana Leonardo che sta fornendo il sistema di puntamento e acquisizione dei bersagli, in grado di individuare la minaccia in arrivo a varie distanze e in varie condizioni meteorologiche, sia in acqua sia a terra. Leonardo, tra l’altro, è responsabile di circa l’80% del mercato internazionale dei laser militari ad alta energia e fornisce il sistema di puntamento laser per gli F-35.

Infine, c’è la Cina che vorrebbe dotare i sui caccia stealth J-20 di laser, portando così la sua capacità aria-aria a livelli ben più alti di ora con la capacità, probabilmente, di difendersi anche dalle nuove armi ipersoniche. E questo potrebbe essere il vero motivo che si cela dietro il rinnovato interesse per le armi laser a cui stiamo assistendo: la loro capacità di contrastare efficacemente i missili ipersonici, grazie alle caratteristiche tecniche di velocità ed economicità, soprattutto se gestite dall’Intelligenza Artificiale.

Zadira e Peresvet, le armi-laser per prendersi l'Ucraina: cosa distruggono e come accecano i satelliti. Libero Quotidiano il 19 maggio 2022

Zadira e Peresvet: si chiamano così le nuove armi che la Russia sta schierando in Ucraina. Una notizia che si presta a una duplice interpretazione: Mosca vuole aumentare la potenza di fuoco, ma non la pensa così Volodymyr Zelensky, che ha ironizzato sull’annuncio riguardante queste armi, sostenendo che i russi le stanno gettando nella mischia perché stanno finendo i missili.

Fatto sta che Zadira e Peresvet non sono proprio sistemi banali. Il primo è un laser che viene trasportato su un veicolo e che dovrebbe avere un raggio di cinque chilometri di azione: è indicato soprattutto per l’abbattimento dei droni, che finora hanno creato tanti problemi all’esercito russo. Per quanto riguarda il Peresvet, si tratta di un’arma concepita per “accecare” i satelliti: è stato nominato anche da Vladimir Putin nel 2018, durante un discorso che ha tenuto sulla realizzazione di “armi superiori” rispetto a quelle in dotazione alla Nato.

Sia Zadira che Peresvet sarebbero già a disposizione dell’esercito russo impegnato sul campo di battaglia ucraino. Così come sarebbero appena stati schierati i veicoli militari soprannominati Terminator. In rete sono stati diffusi diversi video che testimoniano il dispiegamento di quelli che sono considerati i migliori veicoli corazzati a disposizione della Russia: vedremo se almeno questi saranno in grado di resistere agli attacchi della resistenza ucraina, che con l’aiuto dei missili britannici è finora riuscita a fare strage di carri armati.

NLAW, il lanciarazzi con bandiera italiana in mano ucraina: dal fronte, un video pazzesco. Libero Quotidiano il 18 maggio 2022

Nel covo della resistenza ucraina, tra le devastanti armi che stanno mettendo in ginocchio l'esercito russo. Claudio Locatelli, giornalista freelence in collegamento da Kiev con Myrta Merlino a L'aria che tira, su La7, porta la sua videocamera in un magazzino dove vengono stoccate le armi sottratte ai russi e quelle che verranno poi utilizzate contro il nemico. "Tra poco questi uomini andranno a combattere a Izyum, la porta del Donbass. Questa è una milizia cristiana, due uomini erano fino a pochi giorni fa alla Azovstal. Hanno catturato delle divise, delle granate ai russi". 

Locatelli quindi prende in mano l'innesco: "Se esplodesse adesso mi salterebbe la mano quindi lo tocco con delicatezza". Alcuni pezzi sono degli autentici "trofei di guerra". "Cosa abbiamo trovato di strano - prosegue il giornalista -, o meglio di particolare? Questo ragazzo opera con i droni come questo". Quindi mostra il gioiellino mortale: "Questi sono i droni che stanno facendo la svolta nella guerra. Se prima ci mettevano 100 colpi a distruggere un mezzo blindato russo, con questi droni normalmente utilizzati a scopi mediatici, per girare immagini dall'alto, impiegano 10 colpi quando va male. Capito? Dieci colpi al posto di cento". 

In un angolo del magazzino, nascosti da una bandiera italiana, ci sono dei modernissimi lanciarazzi, gli NLAW. "Non sono stati mandati dall'Italia, ma britannici. Ne sono stati inviati 4mila pezzi, sono anti-tank di ultima generazione. Si portano a spalla e fanno la differenza in combattimento, pesano circa 12 chilogrammi e consentono di colpire con maggiore precisione la Santabarbara dei carri armati russi. Questo colpisce, la parte esplosiva del carro armato esplode e la torretta si sgancia".

Le armi a Kiev e il pericolo di armare terroristi e neonazisti. Piccole Note il 16 maggio 2022 su Il Giornale.

“L’Ucraina può vincere questa guerra“, Così il Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg al vertice che ha riunito i ministri degli Esteri dei Paesi membri. Benzina sul fuoco, gettata anche per gelare la piccola speranza destata dalla telefonata tra i ministri della Difesa russo e americano del giorno precedente.

Per il resto, nulla di nuovo sul fronte orientale, dove il conflitto è raccontato in maniera diversa dalle opposte propagande, con conseguenti difficoltà per capire cosa sta realmente accadendo. Gli ucraini hanno lanciato una controffensiva presso Karkhiv e i russi continuano a guadagnare terreno nel Donbass, nell’idea di attestarvisi. Tutto qui.

Nel frattempo, la richiesta di adesione di Svezia e Finlandia nella Nato, cosa che più che semplificare, complica. La Russia si è detta pronta a rispondere con misure tecniche-militari, ma non sembra sia nell’aria l’apertura di un nuovo fronte. Piuttosto sembra a tema un ridispiegamento di forze ai confini (cosa, comunque, negativa per Mosca, che deve dissipare risorse e disperdere forze).

Di interesse un articolo del Washington Post sull’invio degli aiuti militari all’Ucraina: lo stanziamento monstre di 40 miliardi di dollari fa “dell’Ucraina il più grande destinatario del mondo dell’assistenza militare degli Stati Uniti, avendo ricevuto nel 2022 più di quanto gli Stati Uniti abbiano mai fornito ad Afghanistan, Iraq o Israele in un solo anno”.

Ma “l’afflusso senza precedenti di armi ha suscitato il timore che alcune attrezzature possano cadere nelle mani dei nemici dell’Occidente o riemergere in altri conflitti in futuro, per i decenni a venire“.

Prospettiva drammatica quanto realistica, perché “è semplicemente impossibile tenere traccia non solo di dove stanno finendo [tali armi] e di chi li stia usando, ma anche di come vengono utilizzate” come  ha dichiarato al WP Rachel Stohl, esperta di controllo degli armamenti e vicepresidente dello Stimson Center.

Non solo le difficoltà del momento. Va tenuto presente che “il mercato illegale delle armi dell’Ucraina è cresciuto a dismisura dall’invasione iniziale della Russia nel 2014, alimentato da un’eccedenza di armi disperse nel territorio e dai controlli limitati” (i media Usa continuano a parlare di invasione russa del 2014, ma quanto è avvenuto è molto diverso e articolato… detto questo, non è questa le sede per dilungarsi).

Le autorità americane hanno dichiarato che il flusso di armi è monitorato, ma gli esperti interpellati dal Wp spiegano che ciò è letteralmente impossibile. Peraltro, “il compito di garantire che le armi statunitensi vengano utilizzate per lo scopo previsto […] è reso ancora più difficile dall’enorme volume di armi che si stanno dirigendo verso l’Ucraina”.

Così ad esempio, “I missili Stinger a spalla, capaci di abbattere aerei di linea e commerciali, sono solo uno dei sistemi d’arma che gli esperti temono possano entrare in possesso di gruppi terroristici che progettano attentati di massa”.

“Il governo degli Stati Uniti sta volando alla cieca in termini di monitoraggio delle armi fornite alle milizie civili e ai militari in Ucraina”, rincara la dose William Hartung, esperto di controllo degli armamenti presso il Quincy Institute.

Le rassicurazioni dell’amministrazione Usa, benché reiterate, “non ispirano molta fiducia”, ha ribadito  Stohl. Inoltre, “non è chiaro quali misure di mitigazione del rischio o quale monitoraggio sia stato adottato gli Stati Uniti o altri paesi, o quali rassicurazioni abbiano ottenuto perché sia garantita la protezione dei civili nonostante i più che ingenti trasferimenti” di armi, ha dichiarato Annie Shiel, consulente del Center for Civilians in Conflict.

In particolare, gli esperti contattati dal Wp chiedono “rassicurazioni sul fatto che tutte le forniture di armi abbiano solide procedure di tracciamento, obblighi in materia di diritti umani inclusi nei contratti di vendita e indicazioni specifiche su quali unità siano autorizzate a riceverle”.

Sul punto, un cenno di grandissimo interesse: “Nel 2018, il Congresso ha vietato al battaglione Azov ucraino, un gruppo nazionalista di estrema destra associato al neonazismo, di ricevere armi statunitensi“.

Bizzarro, il neonazismo ucraino per i media maintream non esiste, eppure nel 2018, il battaglione Azov, oggi indicati come gli eroi di Mariupol, era stato classificato tale e pericoloso addirittura dall’Fbi..

Bizzarrie della propaganda. D’altronde, il rapporto controverso degli apparati Usa con il nazismo in chiave di contrasto alla Russia appartiene alla storia.

Infatti, a dirigere la sezione della Cia che al tempo si occupava di spiare l’Urss e i Paesi del Patto di Varsavia, fu per anni Reinhard Gehlen, già responsabile per la Germania nazista della rete di spionaggio sul fronte orientale, rete poi passata con lui al servizio della Nato.

Questa storia disdicevole ha un’appendice ucraina, dove la resistenza al regime filo-russo fu guidata da Mykola Lebed, presidente della Prolog Research and Publishing Association, che dagli Stati Uniti tirava le fila del dissenso ucraino.

Lebed fu presidente della Prolog fino a metà degli anni ’80, quando il suo passato iniziò a emergere fino a diventare di dominio pubblico grazie a un servizio di The Voice.

Così l’Associated Press del tempo: “The Voice ha affermato che Mykola Lebed, di 75 anni, guidava le forze di sicurezza di una fazione dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini che collaborava con i nazisti. Il gruppo ha commesso atrocità contro ebrei, intellettuali, comunisti e altre forze nazionaliste, secondo i documenti citati da The Voice. Inoltre, il settimanale ha accusato Lebed di aver frequentato una scuola della Gestapo in Polonia”.

L’Ap spiega che l’ex criminale nazista, che ovviamente si è difeso come ha potuto, fu coperto dalla Cia, che alle inchieste su Lebed effettuate dall’organismo di controllo dell’immigrazione avocò la segretezza per motivi di “sicurezza nazionale” (formula magica che tutto copre).

Ancora, riportiamo dal Nyt: “Nel 1985, un rapporto della Ragioneria Generale del Congresso descriveva Lebed come un collaboratore dei nazisti, criminale di guerra e terrorista, condannato a morte in Polonia nel 1934 per aver complottato per omicidio e reclutato in seguito dall’Agenzia [la Cia] per realizzare operazioni anticomuniste”.

Quella di Lebed non è una figura qualsiasi, anche per l’importanza dell’organismo che ha presieduto, alquanto strategico nell’economia della Guerra Fredda. Lo spiega uno studio di ScienceDirect: “La Prolog ha dimostrato di avere più successo nella sua strategia di liberazione riuscendo a fornire un notevole supporto tecnico, editoriale e finanziario ai dissidenti e alle correnti di opposizione all’interno del Partito Comunista ucraino”.

All’opposto di altri movimenti nazionalisti ucraini, spiega ancora SD, la Prolog non usava la tecnica dell’infiltrazione negli apparati nemici, troppo spesso scoperti, ma i metodi suddetti, che ne fecero l’organo sul quale la Cia più puntò per far fronte al nemico….

Insomma, il rapporto tra gli apparati Usa e il nazismo ucraino appare di lunga durata e imbarazzante, da cui la necessità di tenerlo segreto a ogni costo. Soprattutto adesso che c’è la guerra.

Saverio Alloggio per corriere.it il 15 maggio 2022.

L’andamento sul campo della guerra tra Ucraina e Russia non dipende solo dalle armi. Siamo probabilmente di fronte al conflitto che più di qualsiasi altro del passato è condizionato dalla tecnologia impiegata. 

In quest’ottica va letta Gis Art, un’applicazione sviluppata da Yaroslav Sherstyukun, programmatore ucraino di 34 anni. Questa permette di geolocalizzare i bersagli russi in appena 30 secondi e di colpirli prima che abbiano il tempo di spostarsi. Una piccola rivoluzione.

Come funziona Gis Art

L’idea è basata sul concetto di aggregazione. Immaginate un servizio come Google News, nel quale convergono le fonti di informazione più disparate, suddivise per categoria (politica, economia, moda etc.). 

Allo stesso modo Gis Art è in grado di elaborare una quantità enorme di dati attraverso l’intelligenza artificiale, provenienti da una serie potenzialmente infinita di sorgenti: video di sorveglianza, aerei, droni, persino le segnalazioni dei cittadini su apposite chat Telegram.

Il passaggio successivo avvicina l’app a Google Maps. L’elaborazione di tutti questi dati, infatti, scaturisce in una vera e propria mappa costantemente aggiornata rispetto alle posizioni del nemico e ai suoi spostamenti sul terreno di battaglia. 

Questo permette all’artiglieria ucraina di poter individuare rapidamente la controparte russa, correggendo il tiro dove necessario. Prima dell’avvento di questa soluzione, potevano essere necessari anche più di 15 minuti per individuare il bersaglio. Un risparmio di tempo enorme, che fa la differenza tra la vita e la morte.

Il ruolo di Elon Musk

Tutto questo ha ovviamente bisogno di un collegamento a internet per poter funzionare ed è qui che entra in gioco Elon Musk. Il patron di Tesla, attraverso la sua società SpaceX (attiva nel settore aerospaziale), ha infatti sviluppato da qualche anno il sistema Starlink. 

Si tratta di una costellazione di satelliti pensati per l'accesso a internet satellitare in banda larga in qualsiasi parte del mondo. Esattamente ciò che è necessario in uno scenario bellico, nel quale la normale infrastruttura di rete è tra i primi bersagli del nemico.

L’imprenditore americano ha offerto all’Ucraina l’utilizzo di Starlink fin dall’inizio della guerra. A differenza delle altre tipologie di connessione, la Russia non riesce ovviamente a “buttarla giù” e dunque Gis Art può funzionare e offrire il proprio vantaggio strategico. Anche perché ha una precisione che oscilla tra i sei e i venticinque metri che, nell’ambito dell’artiglieria, significa centrare praticamente sempre i bersagli. C’è chi l’ha ribattezzata “l’Uber dei cannoni”.

L’app è infatti in grado di assegnare le priorità, assegnando a ciascun elemento di artiglieria il bersaglio più a tiro. Esattamente come il noto servizio di trasporto automobilistico stabilisce una connessione tra il cliente e il mezzo geograficamente più vicino. 

Il Tactical Fire Direction System degli Usa

L’antenato di Gis Art può essere considerato il Tactical Fire Direction System (TACFIRE) dell’esercito statunitense. Impiegato, pensate, a partire dal 1959 e la cui dismissione (a favore di soluzioni più moderne) è avvenuta solo nel 1994. Un sistema che all’epoca ha automatizzato le funzioni di comando e controllo dell’artiglieria da campo, proprio come la creatura di Sherstyukun.

TACFIRE sfruttava computer e varie tipologie di dispositivi remoti, in grado di comunicare tra loro mediante onde radio e via cavo. Un sistema inevitabilmente soggetto a interruzioni causate dalle condizioni precarie del territorio in uno scenario di guerra, con il concetto di intelligenza artificiale che probabilmente non era mai stato neanche nominato. 

Potremmo dunque essere di fronte all’asso nella manica dell’esercito ucraino. Del resto la cronaca della guerra ci racconta come, su alcuni fronti (come le pianure a est), sia l’artiglieria pesante a recitare un ruolo da protagonista. L’Ucraina potrebbe dunque aver trovato in un software il vantaggio strategico rispetto alla superiorità numerica della Russa.

Il conflitto Russia-Ucraina. Cosa sono le armi difensive e quali quelle offensive, le differenze che non interessano agli ucraini. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 13 Maggio 2022. 

Voglio ringraziare il direttore per concedermi di rallegrare questo spazio con note di fiero dissenso, in forma non agitata. Dissenso, il mio, che attribuisco a disavventure personali come aver fatto il cronista per circa sessant’anni, per la mia incompleta passione pere la storia e la logica formale, per essere stato un socialista radicale e rivoluzionario e poi un liberale vicinissimo ai principi della Costituzione americana che considero l’avventura più alta tentato dall’umanità emigrata su un altro pianeta, e poi aver dovuto leggere tutti i verbali del patto di Varsavia (l’Anti -Nato) aver guidato la malfamata Commissione Mitrokhin che vanta una dozzina di morti noti come Alexander Litvinenko (cui dedicai “Il mio Agente Sasha”) e altri ignoti ma non meno morti.

Conosco da decenni i miei amici dell’Est, o per meglio dire di quell’istituzione capillare e militare, religiosa e occasionalmente spionistica, che è il Kgb, oggi Fsb e Svr. Questa istituzione, che può per potenza, dedizione e immortalità trovare suoi simili soltanto nella Compagnia di Gesù di Ignacio de Loyola e nell’Ordine dei Templari ha una specialità che supera per perfezione ogni straniero tentativo di emulazione, ed è un prodotto concepito a suo tempo dal Giacomo Casanova, creatore del modello di servizio segreto adottato dalla Serenissima Repubblica di Venezia e di lì passato nell’Est slavo e zarista fin quando il nobile polacco Felix Dzerzhinsky modificò per Lenin la sua Ceka facendone la GPU (detta Ghepeù) fin quando un altro rampollo straniero e di nobili origini, britanniche stavolta, Kim Philby tradì con altri quattro dandy di Cambridge per fuggire a Mosca e rivoluzionare l’ordine templare segreto che intanto aveva preso il nome di NKVD e rifondarlo alla maniera dell’M16 di Sua Maestà: una ferita che ancora sanguina infiammata nella zazzera di Boris Johnson e di ogni Prime Minister del Regno Unito (tranne al socialista Harold Wilson che per questo ingiustamente sospettato di farsela con i russi).

Forse non sarà del tutto casuale se l’organizzazione che seguitiamo a chiamare Kgb si forgiò sul background di aristocratici come Casanova, Dzerzhinsky e Philby cui si deve aggiungere un non nobile – e quindi propriamente uno snob. come il geniale stratega Yuri Andropov che fu prima capo del Kgb e poi leader sovietico, stroncato da un cancro mentre addestrava il suo pupillo prediletto Michail Gorbaciov, il quale rivelò pubblicamente ciò tutto il mondo sapeva: l’eccidio dei sessantamila ufficiali polacchi alle fosse di Katyn fu eseguito dai sovietici per ordine di Stalin e non dai nazisti e i protocolli segreti del cosiddetto “Patto di non aggressione” fra Stalin e Hitler erano un patto d’alleanza per cominciare e proseguire insieme la seconda guerra mondiale, senza il quale la guerra non sarebbe scoppiata.

Quale prodotto magnifico e perfido, superiore ad ogni altro del genere gli eredi del Kgb sanno usare? La parola migliore per nominarlo è inglese: “Fabrication”: che non è una menzogna, che non è una copia falsa, che non è una esagerazione, ma proprio una fabbricazione. Qual è la sua caratteristica che la rende superiore ad ogni prodotto concorrente? Una “fabrication” è come un presepe, o un plastico, che riproduce quasi perfettamente la realtà reale che dice di rappresentare, ma con alcune piccole ma sostanziali modifiche. L’uso della “fabrication” fu usato contro il Parlamento della Repubblica Italiana nel 2006 e in genere tutte le costruzioni di marca ex sovietica sono come i cubi di Kubrik: evidenti, falsi, irrisolvibili, inesplicabili, ma popolarissimi, Ora, anche se posso aver dato l’impressione di averla presa alla larga, il tenente colonnello Vladimir – “Volodia” – Putin fu prescelto al termine di un vero conclave del Kgb cui parteciparono tutti i grandi vescovi, cardinali, uomini d’influenza e detentori dei divini segreti – compresa la scomparsa del tesoro del Partito e del Kgb – e fu insediato e fatto eleggere con tutti i crismi dalla fabbricazione elevata a sistema.

Ora, scusate, Vladimir Putin in un quarto di secolo ha macellato la Cecenia facendo un hamburger della città di Grozny, e poi di Aleppo in Siria, ha rubato pezzi di Georgia e di Ossezia, si è fregato il Donbass e la Crimea sostenendone l’aperta ribellione e quindi guerra civile con un esercito di uniformi nere senza gradi né mostrine, ha detto e scritto che rivuole i territori dell’impero, ha detto che sputerò come moscerini in gola tutti coloro che in Russia amano l’Occidente, minaccia l’uso di armi nucleari lui soltanto con il suo puppet Medvev, opera non una invasione ma una spedizione punitiva contro un popolo e non colpisce i gangli industriali ma la vagina delle loro figlie e madri e sorelle, fa fucilare i vecchi, fa deportare i sopravvissuti, minaccia altri Paesi che hanno già assaggiato la Russia come padrone e che ora chiedono a viva voce come la Finlandia e la Svezia di stringersi in sacra alleanza per non essere divorati dal drago delle invasioni barbariche, e noi davvero siamo qui a chiederci come attivare la diplomazia, il papato, le bandiere della pace per ricondurre a trattative due ragazzacci – Russia e Ucraina – che se le stanno dando per strada come ubriachi?

Ma davvero? E davvero ci chiediamo che differenza ci sia fra armi offensive o e difensive quando si tratta di cacciare immediatamente e per sempre a calci in culo, l’orda degli invasori fuori dai propri confini per difendere fino alla morte – la loro morte – gli aggrediti? Ma davvero stiamo facendo questo pezzo di teatro sperimentale rancido? Mentre gli esseri umani muoiono come topi umani sotto le acciaierie? E i loro fantasmi chiedono aiuto e armi e noi gli diciamo ma guardate ragazzi che voi ci avete da un bel po’ rotto le palle? No, grazie. E grazie dell’ospitalità.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

(ANSA il 13 maggio 2022) - Limiti nelle difese aeree di fronte ad attacchi con missili, droni, aerei, navi o carri armati, problemi logistici e di connettività e scarsità di munizioni: sono alcune delle "gravi carenze" che avrebbe riscontrato la Commissione europea dopo aver analizzato lo status degli eserciti dei suoi Paesi membri. 

A riportarlo è il quotidiano El Pais, che afferma di aver avuto accesso a una bozza dell'inventario che sta preparando Bruxelles in vista del prossimo Consiglio Europeo straordinario, in programma a fine maggio. Una situazione, aggiunge il giornale spagnolo, che la Commissione riscontra in un momento di "aumento delle minacce alla sicurezza" con l'invasione russa dell'Ucraina.

Con limiti nell'efficienza delle forze armate europee frutto di "effetti negativi non solo di anni, bensì di decenni, di spese per la Difesa ridotte in tempo di pace", secondo la bozza dell'inventario europeo citato da El Pais. Secondo la Commissione, per sopperire a queste carenze è necessario che gli sforzi in corso per aumentare le spese militari siano "coordinati" a livello europeo, perchè, in caso contrario, potrebbero non risultare sufficienti a colmare il gap in efficienza militare rispetto ad altre potenze.

Estratto dell'articolo Daniele Raineri per “la Repubblica” il 13 maggio 2022.

Gli artiglieri ucraini usano una app rivoluzionaria che permette di battere gli artiglieri russi e per farla funzionare si appoggiano sistema satellitare Starlink, che l'imprenditore americano Elon Musk ha offerto all'Ucraina fin dall'inizio della guerra ormai settantotto giorni fa. Si chiama Ukrop e l'ha inventata un programmatore di 34 anni, Yaroslav Sherstyuk, che è anche un ex ufficiale di artiglieria. 

«Prima la squadra di artiglieri che manovra un cannone aveva bisogno di quindici minuti per identificare il bersaglio e distruggerlo. Con la app il tempo si è ridotto a trenta secondi», dice a Repubblica . […] 

«Il sistema permette di vedere che cosa sta succedendo sul campo e di elaborare in tempo reale una quantità enorme di dati da molte fonti: dai droni, dagli aerei, da video di sorveglianza e anche dai cittadini, che possono segnalare la posizione dei russi su apposite chat su telegram - ma queste segnalazioni sono verificate. I dati raccolti disegnano rapidamente una mappa in aggiornamento costante del nemico e dei suoi spostamenti sul terreno davanti agli occhi delle squadre di artiglieri, che condividono tutto e quindi sanno anche che cosa stanno facendo le altre squadre dalla loro parte. Il livello di controllo del campo di battaglia è molto più alto rispetto a prima e anche la capacità di correggere il tiro».

 La precisione dei colpi sta tra i sei e i venticinque metri, che è come dire che vanno a segno sempre (nessuno vuole stare a venticinque metri da un colpo di artiglieria). Qualcuno ha fatto anche un paragone con Uber, perché il sistema smista le priorità e sceglie per ogni bersaglio il pezzo d'artiglieria più vicino come Uber mette in connessione un cliente con la macchina più vicina.

I russi hanno tentato di bloccare questo programma al primo giorno di guerra e con un attacco hacker di massa hanno messo fuori uso decine di migliaia di modem satellitari Ka-Sat della Viasat - forse questo a febbraio era uno dei motivi della loro sicurezza di vincere in pochi giorni. «Il programma può trasferire dati in molti modi, anche via radio, non soltanto con i modem satellitari, quindi i russi non ci hanno bloccato».

Da due settimane, dice Sherstyuk, il sistema funziona grazie a Starlink di Elon Musk perché è una connessione satellitare che i russi non riescono a buttare giù anche se ci provano spesso. E com' è? «Molto veloce». 

[...] Sherstyuk mostra una schermata sul telefono, è il messaggio di un suo amico che in questo momento combatte dentro all'acciaieria Azovstal di Mariupol e lo ringrazia: «Il vantaggio maggiore è che ogni soldato può chiamare il fuoco e questo li rende sicuri. 

E quando uno vede sul telefono come è posizionata la sua squadra e dov' è il suo comandante, è sicuro di non essere abbandonato e ciascuno sa dove sono gli altri, cosa vede e dove corre. Ogni singolo soldato può chiamare il fuoco dei cannoni. E quando vede quanto appoggio ha, combatte come un eroe».

Guerra d’antan. L’Ucraina sta usando anche armi vecchie più di un secolo (e funzionano). L'Inkiesta il 14 Maggio 2022.

In ogni conflitto la supremazia tecnologica può fare la differenza, ma i soldati di Kiev sfruttano a loro vantaggio le mitragliatrici M1910, insospettabilmente efficaci per difendere alcune postazioni chiave, e altri fucili risalenti ai primi anni del Novecento.

La guerra in Ucraina è una guerra altamente tecnologica. I soldati russi e i soldati ucraini usano armi modderne, hanno droni kamikaze Switchbalde, artiglieria pesante, missili intelligenti. C’è una componente fondamentale nell’informatica e nei servizi indispensabili come i “modem” Starlink, il servizio di internet satellitare di SpaceX. In ogni dettaglio può nascondersi un fallimento o un trionfo in una battaglia: nella dottrina militare russa è nota l’importanza di una forte struttura C4ISR (Command, Control, Communications, Computers, Intelligence, Surveillance and Reconnaissance) – cioè un’integrazione fluida fra varie, con capacità di ricognizione e intelligence e cyber – ma allo stesso tempo la scarsa abitudine nell’utilizzare i complessi sistemi d’aviazione moderni stanno complicando la partita al Cremlino.

Curiosamente, però, nel conflitto stanno emergendo protagonisti inattesi, armi molto vecchie su cui poter fare affidamento anche in un contesto così sviluppato. Vale soprattutto per le forze ucraine: nel 2012 il ministro della Difesa ucraino aveva nel suo inventario 35mila armi in deposito, prodotte tra il 1920 e il 1950; nel 2016 ha autorizzato il rilascio di alcune mitragliatrici pesanti Maxim M1910 dalle scorte governative.

Il Maxim M1910 non è semplicemente un’arma vecchia, è un viaggio nel tempo. È la prima vera arma da fuoco automatica al mondo. È stata utilizzata in molti conflitti e guerre, ma oggi queste mitragliatrici si trovano più facilmente nei musei che nei teatri di guerra di tutto il mondo.

Quando le M1910 sono entrate in servizio l’Ucraina faceva ancora parte dell’impero russo governato da uno zar. Era il 1910, appunto. È diventata un’arma standard dell’esercito zarista, con grande protagonismo nella Prima e nella Seconda guerra mondiale.

Secondo la propaganda del Cremlino, l’esercito ucraino sta usando questi «oggetti d’antiquariato» in mancanza di armi moderne. «Ma la verità è più complessa», chiarisce l’Economist. I primi fucili Gatling avevano sei canne che necessitavano essere azionate a mano. Mentre l’arma progettata da Hiram Maxim, inventore americano-britannico, si basa sul principio del corto rinculo di canna: all’atto dello sparo, canna e otturatore rinculano assieme per un tratto, poi la canna si arresta mentre l’otturatore continua a retrocedere fino a sfilare il bossolo esploso. A questo punto, una robusta molla di recupero sospinge di nuovo in avanti l’otturatore, che sfila una cartuccia dal nastro e la inserisce in canna. E il raffreddamento ad acqua consente di sparare per lunghi periodi.

Di conseguenza, tenendo il dito sul grilletto si può scaricare una serie lunghissima di colpi a ripetizione: il meccanismo funziona perfettamente anche con pochissima manutenzione, anche in condizioni ambientali estreme. 

L’M1910 poggia su un affusto in ghisa pesante e massiccio che ha due ruote in legno per il traino: una mitragliatrice che non pesa meno di 74 kg secondo i dati ufficiali. «Ha un’estetica steampunk», scrive l’Economist. Il supporto fisso rende più facile mirare: un soldato ucraino intervistato nel 2016 ha dichiarato che l’M1910 è molto preciso anche a un chilometro, efficace fino a tre chilometri, e non lo avrebbe scambiato con un’arma più moderna.

Un gran bel pezzo d’ingegneria bellica, anche se le moderne mitragliatrici medie sparano le stesse munizioni da 7,62 mm e sono molto più leggere e portatili: l’attuale PKM russo ad esempio pesa meno di un quinto, ma non ha il raffreddamento ad acqua, quindi sparare continuamente per un minuto può causare la deformazione della canna.

L’impiego dell’M1910 è inevitabilmente marginale in una guerra così variegata: se ne sono visti solo una manciata da quando la Russia ha invaso l’Ucraina a fine febbraio, ma si sono dimostrati efficaci per difendere alcune postazioni chiave.

La mitragliatrice progettata da Maxim oltre un secolo fa non è l’unica arma vintage che stanno usando entrambi gli eserciti. I sistemi BM-21, conosciuti come Grad sono lanciarazzi decisamente più moderni, ma sono in servizio dall’inizio degli anni ‘60 e ancora giocando un ruolo importante nel conflitto. È sistema di missili a lancio multiplo (MLRS) montato su grossi camion. Lo scorso 3 aprile, Radio Free Europe ha intervistato un membro dell’esercito ucraino che stava usando un lanciatore Grad nell’est del Paese.

Sono ancora più vecchie le mitragliatrici leggere DP-27, prodotta dal 1927 al 1950 e introdotta come arma in dotazione all’Armata Rossa dell’Unione Sovietica. Un sistema economico e di facile manutenzione, che però ha un caricatore a disco dotato di una capacità piuttosto modesta, appena 49 colpi. Come molte altre armi leggere sovietiche dell’epoca, il DP-27 può essere maltrattato, usato in pessime condizioni e rimane sempre funzionante, anche a temperature molto rigide.

Alcuni osservatori hanno addirittura avvistato, nelle immagini in arrivo dai soldati ucraini, anche il Mosin-Nagant, un fucile a ripetizione manuale prodotto tra il 1891 e il 1959. In questo articolo di India Today viene riportato che «l’arma è stata usata l’ultima volta dalle forze russe durante la Seconda guerra mondiale. La pistola è stata poi fornita al Vietnam comunista ed è stata utilizzata dai guerriglieri vietcong. Ma da allora sono utilizzate raramente».

L’ombra del mercato nero sulle armi inviate in Ucraina. Federico Giuliani su Inside Over il 26 aprile 2022.

“Finalmente siamo stati ascoltati”. Volodymyr Zelensky esprime tutta la sua soddisfazione perché i partner occidentali dell’Ucraina hanno finalmente iniziato a fornire a Kiev le armi di cui aveva davvero bisogno. “Siamo stati ascoltati. Stiamo ricevendo esattamente quello che abbiamo chiesto”, ha aggiunto il presidente ucraino in uno degli ultimi videomessaggi diffusi sui suoi canali social.

Dagli Stati Uniti sono arrivati o stanno per arrivare diversi jolly: artiglieria pesante, droni tattici, veicoli corazzati. Dallo scorso 24 febbraio, giorno dell’inizio del conflitto, Washington ha fin qui fornito all’Ucraina armi per 3,4 miliardi di dollari, suddivisi in otto pacchetti di aiuti. Il più recente, da 800 milioni, contiene l’equipaggiamento adatto che dovrebbe consentire alla resistenza ucraina di contenere l’assalto russo nel Donbass.

Troviamo così i cosiddetti droni Phenix Ghost, 121 unità sviluppate in fretta e furia dall’Air Force per far fronte ai requisiti dell’Ucraina, e almeno 300 Switchblade, ovvero droni monouso o kamikaze. Presenti anche centinaia di corazzati M113 e corazzati multiuso ad alta mobilità, oltre a veicoli tattici capaci di trainare obici da 155 mm, le prime piattaforme di artiglieria pesante ad essere trasferite dalle scorte dell’esercito del corpo dei marine statunitensi alle forze ucraine.

E ancora: migliaia di missili Javelin, sistemi antiaerei Stinger, sistemi anti-corazza AT-4 portatili e altri sistemi missilistici a guida laser, senza dimenticarsi degli elicotteri Mi-17, radar di contro-artiglieria AN/TPQ-36, AN/MPQ-64 Sentinel, decine di milioni di munizioni per armi di piccolo calibro, fucili, pistole, mitragliatrici, granate e mortai.

Ci sarebbero anche da considerare centinaia di dispositivi di protezione chimica, biologica e nucleare, giubbotti antiproiettile, elmetti e altri strumenti. Insomma, un bell’arsenale con il quale riequilibrare, o quanto meno ridurre, il gap militare con la Russia. 

Il percorso delle armi

L’Occidente ha inviato queste armi con uno scopo ben preciso: fornire agli ucraini strumenti con i quali combattere l’esercito russo. E però c’è da mettere in conto il rischio, non così remoto, che in un futuro non troppo lontano queste armi possano finire nelle mani sbagliate.

Anche perché in Ucraina, fino a qualche anno fa, era attivo un mercato nero di armi particolarmente fiorente e produttivo, che riuniva gang criminali, criminalità organizzata e gruppi politici più o meno estremisti.

Tutto questo non significa che sia sbagliato consegnare armamenti all’Ucraina o che sia, al contrario, corretto incrementarne la quantità. Questo articolo, semmai, ruota attorno ad un’altra problematica: il percorso effettuato dalle citate armi. Già, perché se il tragitto convenzionale dovrebbe vedere cannoni e fucili transitare da Stati Uniti ed Europa all’Ucraina – e lì restare nelle mani dell’esercito regolare di Kiev – niente esclude che una o più parti dell’arsenale ucraino possano finire sotto il controllo di personaggi ben poco raccomandabili.

Se uno scenario del genere era plausibile ben prima del 24 febbraio, figurarsi se questo stesso scenario non può realizzarsi adesso, in pieno conflitto, o addirittura al termine delle ostilità. Pensiamo, ad esempio, a che cosa potrebbe succedere nel caso in cui l’Ucraina dovesse uscire sconfitta: chi prenderà il possesso di tutti i suoi armamenti? Ripetiamo: questo non significa essere a favore o contro l’invio di armi, ma semplicemente porsi domande lecite di fronte al rischio di peggiorare la situazione.

Mani sbagliate

Si potrebbe pensare di tracciare il percorso delle armi. Il punto è che è estremamente complesso farlo, o per lo meno farlo fino in fondo. Lo ha sottolineato anche la Cnn, spiegando che persino gli Stati Uniti hanno pochi modi per tracciare la consistente fornitura di armi spedita a Zelensky. Il motivo è presto detto: in Ucraina non è presente l’esercito statunitense, che in caso contrario avrebbe potuto “vegliare” sul destino dell’arsenale. Come se non bastasse, i pacchetti di aiuti militari sono formati da armi e sistemi facilmente trasportabili oltre i (porosi) confini ucraini.

Visto che né le forze armate Usa né la Nato sono presenti sul campo boots on the ground, il blocco occidentale dipende solo ed esclusivamente dalle informazioni fornite loro dal governo ucraino. L’amministrazione guidata da Joe Biden ha deciso consapevolmente di correre questo rischio. Un alto funzionario della Difesa statunitense ha però sppiegato che nel lungo periodo è altissimo il rischio che alcune delle armi spedite – ripetiamolo: con buone intenzioni – all’Ucraina possano finire nelle mani di altri eserciti e milizie che Stati Uniti e Occidente non intendevano armare.

Il passato non aiuta di certo. Gran parte di ciò che gli Stati Uniti avevano consegnato alle forze dell’Afghanistan è poi entrato a far parte dell’arsenale talebano dopo il crollo del governo e dell’esercito afghano. Le armi vendute invece ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi sono finite nelle mani di combattenti legati ad Al Qaeda e all’Iran. Niente vieta che un epilogo simile possa avvenire anche in Ucraina.

Il mercato nero: prezzi e compravendite

In Ucraina le “mani sbagliate” possono coincidere con quelle di gang locali, di criminalità organizzata o anche di soldati e cittadini intenzionati a racimolare qualche soldo in più. Basta dare un’occhiata agli archivi per rendersi conto che da anni in Ucraina è attivo uno dei mercati neri di armi più grandi d’Europa. Un bazar al quale chiunque può accedere, chiedere la propria arma preferita e volatilizzarsi in un battito di ciglia.

Da queste parti ha funzionato così per anni, e non si capisce perché questo meccanismo perverso dovrebbe fermarsi proprio adesso con la confusione portata dalla guerra e con le nuove armi appena giunte nel Paese.

Le mafie ucraine e russe e le gang rumene dominano il black market degli armamenti. Questi venditori agiscono nell’ombra ma risultano efficienti ed efficaci. Il loro mestiere, inoltre, è agevolato dal trattato di frontiera di Shengen, che rende pressoché impossibile tracciare o fermare la libera circolazione tra i Paesi europei. Ebbene, in questa libera circolazione rientrano anche mitragliatori Ak-47, pistole e fucili di ogni genere, che dall’Ucraina possono essere consegnati agli acquirenti senza troppe difficoltà.

Nel 2016 Sky News sottolineava come il prezzo di un Ak-47 – l’arma preferita dai terroristi – si aggirasse attorno ai 1.700 euro, mentre l’Aks-74u, la versione più moderna, anche a poco più di 500. Altre fonti parlano di fucili da cecchino venduti a poco più di mille euro, ma anche di armi quali lanciagranate e pistole (anche a prezzi abbordabili di una ventina di euro l’una), oltre ad armi pesanti.

Fino a qualche anno fa, questi cartelli erano disposti a vendere a chiunque, dai semplici rapinatori di banche a terroristi di qualsiasi gruppo. Approfittando dello scarso controllo in territorio ucraino, molti armamenti ricevuti dall’esercito regolare di Kiev per combattere i russi ai tempi della prima guerra del Donbass e dell’assalto di Mosca alla Crimea sono finiti in mano a gang rumene e altri criminali. Bucarest, incapace di monitorare l’area boschiva nella parte orientale della Romania, non è riuscita a stroncare il business; un business che potrebbe presto riproporsi con i medesimi schemi. E non solo lungo il confine tra Ucraina e Romania.

Carlo Tarallo per “La Verità” il 24 aprile 2022.  

La linea della cautela di Germania e Francia rispetto all'invio di armi pesanti in Ucraina (per quel che riguarda Berlino) e l'embargo sul gas russo (che vede anche Parigi scettica) innervosisce Usa e Gran Bretagna, e così continuano gli attacchi da parte della stampa anglosassone nei confronti delle due grandi potenze europee. 

Ieri è stato il quotidiano londinese The Telegraph a pubblicare un rapporto dell'Unione europea, che accusa Germania e Francia di aver violato l'embargo delle forniture di armi alla Russia deciso dall'Ue nel 2014, dopo l'annessione della Crimea da parte di Mosca.

«Francia e Germania», scrive il Telegraph, «hanno armato la Russia con 273 milioni di euro di hardware militare ora probabilmente utilizzato in Ucraina. Hanno inviato attrezzature, che includevano bombe, razzi, missili e pistole, a Mosca nonostante un embargo a livello Ue sulle spedizioni di armi alla Russia, introdotto sulla scia della sua annessione della Crimea nel 2014. 

La Commissione europea è stata costretta questo mese a chiudere una falla nel suo embargo», aggiunge il quotidiano londinese, «dopo che è stato scoperto che almeno 10 stati membri hanno esportato quasi 350 milioni di euro in hardware militare al regime di Vladimir Putin. Circa il 78% del totale è stato fornito da aziende tedesche e francesi.

Olaf Scholz, il cancelliere tedesco, ha affrontato critiche feroci questa settimana per la sua riluttanza a fornire armi pesanti all'Ucraina. Gli sforzi di Emmanuel Macron per negoziare con Putin», aggiunge ancora il Telegraph, «hanno visto il presidente francese accusato di appeasement. 

Sia Parigi che Berlino si sono opposte al divieto dell'Ue di acquistare gas dalla Russia, con il blocco che attualmente paga a Mosca un miliardo di euro al giorno per le forniture di energia». 

Queste forniture, naturalmente, riguardano gli anni scorsi, e la lista dei «cattivi» comprende anche l'Italia, «responsabile», secondo il Telegraph, «dell'invio di armi per un valore di 22,5 milioni di euro a Mosca dopo l'imposizione dell'embargo Ue, mentre la Gran Bretagna ha effettuato vendite per 2,4 milioni di euro. L'Austria, la Bulgaria e la Repubblica Ceca hanno esportato in totale 49,3 milioni di euro in armi alla Russia tra il 2015 e il 2022».

Siamo di fronte a un tentativo di mettere in difficoltà il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente francese Emmanuel Macron, quest' ultimo impegnato nel ballottaggio per le presidenziali. Scholz ancora l'altro ieri ha ribadito che «Le possibilità dell'esercito tedesco di consegnare armi dal proprio arsenale sono ampiamente esaurite» e che la priorità resta «evitare un'escalation»; Macron ha accusato Marine Le Pen di essere filorussa, e questa notizia rischia di depotenziare questa sua arma di campagna elettorale.

Il gioco del Teleghaph diventa però scoperto quando il quotidiano fa commentare la notizia al deputato rumeno Cristian Terhes, che ha pubblicato il rapporto della Ue: «Mentre l'Ucraina sta disperatamente chiedendo armi per difendersi dall'invasione di Putin», dice Theres, «la Germania e la Francia sono in silenzio, ma erano abbastanza felici di vendere tranquillamente e vergognosamente la loro merce a Mosca».

 Appare cristallino il tentativo di spingere Berlino e Parigi ad allinearsi all'approccio di Stati Uniti e Gran Bretagna sulla guerra in Ucraina. Evidentemente, Washington e Londra, che non avrebbero alcun danno da un embargo totale del gas russo, non tollerano che i due più importanti Stati europei si interroghino sulle conseguenze di questa eventuale decisione sulle loro economie. 

Andrea Marinelli e Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 2 maggio 2022.

Vladimir Putin ha spesso citato le super armi, uno show di potenza che non sempre corrisponde a quanto si vede in Ucraina. Sul campo di battaglia infatti c'è di tutto: novità come i droni-kamikaze, apparati tradizionali, ma anche soluzioni semplici quanto efficaci. 

M777 La sigla indica il cannone americano da 155 mm spedito di gran fretta a Kiev. Trainabile, ha una gittata di 18 miglia, è «servito» da 10 uomini e di solito fa parte di una batteria di almeno sei pezzi.

Se i soldati sono bene addestrati possono tirare 4 colpi al minuto. Gli americani ne hanno promessi oltre un centinaio e ritengono che la resistenza alla fine avrà una mezza dozzina di battaglioni. La sua precisione aumenta con il ricorso a radar specifici (ne sono stati garantiti diversi).

I droni

Ampio è l'uso di droni, in particolare i cinesi Dji, concepiti non solo per scopi militari: i prezzi variano dai 450 ai 1.000 euro l'uno e sono utilizzati per ricognizione e avanscoperta di piccoli nuclei. C'è una seconda tipologia, professionale, con camere termiche e precisione centimetrica che permette di guidare il tiro d'artiglieria.

In più hanno la possibilità di avere canali sul telecomando per dispositivi di rilascio (granate, bombe): per questa seconda opzione, i prezzi variano dai 4.000 ai 6.000 euro. Gli ucraini si affidano anche a un'unità composta da operatori di droni e membri delle forze speciali che, a cavallo di quad, conducono imboscate ai danni delle colonne russe. Colpiscono di notte, utilizzando visori, fucili di precisione, mine innescate a distanza e droni con telecamere a visione termica. 

I veicoli

Le foto mostrano piccoli mezzi, nati per uso civile, che sono stati riconvertiti dalla resistenza in un ruolo bellico. Di solito sono a 2 posti, hanno sull'intelaiatura un missile con il quale ingaggiare i corazzati. Permettono mobilità, si nascondono facilmente nella vegetazione, a volte hanno dei teloni mimetici. I commandos colpiscono a distanza e si allontanano sottraendosi all'eventuale risposta. 

Le bombe

I russi stanno impiegando missili da crociera e altri terra-terra, per distruggere spesso strutture industriali, caserme, ferrovie. In alcuni casi, si sono affidati a bombe a caduta libera che non garantiscono alcuna precisione. Analisi occidentali sottolineano come abbiano difficoltà nel centrare veicoli in movimento, per una mancanza di sistemi adeguati e tattiche. Altro punto debole dell'Armata - sempre secondo fonti Nato - sono le mappe a disposizione, considerate superate: alcune risalirebbero agli anni '70.

Le protezioni

Nei conflitti ci si adatta. E gli invasori hanno provato a farlo per proteggere i camion della logistica, presi di mira in modo incessante. Un rimedio effettuato in corso a dimostrazione di come non si siano preparati. Cassette di legno, sacchetti di sabbia, «blindature» rudimentali sono state piazzate ad avvolgere i veicoli. Numerosi carri armati sono stati dotati di una gabbia in metallo messa a coprire la torretta: un accorgimento per contenere gli effetti dei missili Javelin che piombano dall'alto. Un ombrello bucato. 

Le veterane

Sono ancora le immagini a «raccontare». La resistenza ha scovato in qualche deposito mitragliatrici Maxim, quelle del primo conflitto mondiale. Miliziani filorussi hanno impugnato mitra Pps, nati a metà degli anni 40, riconoscibili dal caricatore a tamburo. Sull'altra barricata vengono usati i fucili Mosint Nagant, in mano a qualche tiratore scelto. 

Le forze speciali ucraine hanno poi trasformato il classico Kalashnikov in una nuova versione, il Malyuk. Non pochi mezzi di quelli promessi dalla Nato a Zelensky erano tenuti in riserva: è il caso degli «anziani» blindati M113 e di alcuni modelli d'origine polacca o slovacca. Senza dimenticare i carri armati T-72, di progettazione sovietica, presenti in gran numero su tutti i fronti. Alcuni governi trovano il modo di piazzare sistemi «datati» per ottenere in cambio armi più moderne dalla Nato.

Armi all’Ucraina: dai cingolati M113 ai PzH2000, i mezzi che l’Italia potrebbe inviare. Marco Galluzzo su Il Corriere della Sera il 23 Aprile 2022.

La decisione sarà presa in vista del vertice di Ramstein in Germania, martedì. Il governo vorrebbe mandare armi molto più pesanti di quelle finora consegnate. Ma su alcuni mezzi potrebbero esserci delle resistenze da parte dello Stato maggiore. 

In vista del vertice di martedì prossimo nella base americana di Ramstein in Germania, l’Italia sta cercando di fare un salto di qualità nel supporto militare all’Ucraina. Al momento l’elenco del terzo decreto di aiuti militari è ancora in formazione. Ma la volontà di Palazzo Chigi è però quella di mandare alla resistenza ucraina armi molto più pesanti di quelle finora consegnate, come i missili Stinger, contenute nel primo decreto, o in consegna nei prossimi giorni subito dopo il varo del secondo decreto (in approvazione nelle prossime ore).

Elenco resterà secretato

L’elenco delle armi resterà in ogni caso secretato, così come avviene anche per gli altri Paesi dell’Unione europea, ma secondo fonti governative vicine al dossier in queste ore si sta facendo una ricognizione dei mezzi di artiglieria pesante disponibili, sia fra quelli già andati in riserva come gli M109, che hanno un calibro 155, sia fra quelli più moderni attualmente in uso dal nostro esercito. In questo secondo caso, sul quale però il nostro Stato maggiore potrebbe fare delle resistenze, il mezzo più avanzato di cui dispone il nostro esercito è il PzH2000 di fabbricazione tedesca, probabilmente il più moderno cingolato semovente al mondo con un obice di calibro 155. Ha una gittata massima di 40 km e una celerità di tiro massima di tre colpi in dieci secondi. Al momento il nostro esercito ne ha disposizione poco più di 70 unità e per questo la cessione di alcune unità agli ucraini è problematica.

Ripescare dalla riserva

Un’alternativa sarebbe quella di ripescare dalla riserva alcune decine di Sidam25. Un’altra ipotesi al momento in fase di valutazione è quella di inviare cingolati M113 per il trasporto di truppe di fanteria.

Il vertice a Ramstein

Martedì prossimo, al vertice voluto dagli americani, sono stati invitati 40 Paesi, di cui 20 appartenenti alla Nato. Nella base militare di Ramstein sarà presente il ministro Lorenzo Guerini, insieme ad una delegazione della nostra Difesa.

Cannoni, Lince e autoblindo: l’Italia studia i nuovi aiuti per l'Ucraina. Gianluca Di Feo su La Repubblica il 24 aprile 2022.

Non ci sono ancora decisioni ufficiali, ma il governo italiano sta studiando un pacchetto di aiuti militari più potenti per l’Ucraina: una fornitura che potrebbe essere definita nei prossimi giorni, prima del viaggio a Kiev del premier Mario Draghi. Al momento c’è solo la certezza di un nuovo lotto di mitragliatrici, razzi controcarro e munizioni: materiali già autorizzati dal decreto di un mese fa. La situazione sul terreno, con la seconda ondata russa lanciata nel Donbass e il logoramento degli equipaggiamenti ucraini, sta spingendo le cancellerie occidentali a inviare blindati e artiglieria. 

Francia, Olanda e Belgio si preparano a donare semoventi molto più moderni di quelli d’origine sovietica in dotazione all’esercito di Kiev: obici Caesar, M109 e Pzh 2000. Sistemi che hanno la stessa caratteristica di quelli regalati da Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada: impiegano proiettili Nato da 155 millimetri, superiori alle munizioni russe e con la possibilità di usare apparati di guida tali da renderli precisi come missili. Quasi tutti i Paesi hanno previsto anche scorte di munizioni: solo dagli Usa partiranno 144 mila colpi. 

L’esercito italiano dispone di molti cannoni semoventi M109 di questo calibro, accantonati alla fine della Guerra Fredda: il Comando Interforze ne sta verificando le condizioni, per capire quanto tempo sia necessario per renderli operativi. Il nostro Paese infatti ne aveva circa trecento, 221 dei quali sottoposti a un programma d’aggiornamento nei primi anni Novanta. Da circa vent’anni risultano in riserva, quasi tutti nel deposito di Lenta (Vercelli): almeno una settantina è stata venduta al Pakistan e dieci sono stati dati a Gibuti, in cambio della concessione di una base. I rimanenti però richiedono lavori che potrebbero durare mesi. Esclusa invece l’eventualità di imitare l’Olanda e mandare i modernissimi Pzh 2000: ne abbiamo soltanto settanta. 

L’ipotesi di concedere alcune autoblindo da battaglia Centauro, che hanno otto ruote motrici e un cannone in grado di affrontare i carri armati, pone invece problemi di munizionamento – utilizzano i 105 millimetri, non presenti in Ucraina – e la necessità di un lungo addestramento degli equipaggi. Più semplice invece recuperare i vecchi cingolati per trasporto truppe M113: gli Stati Uniti ne daranno duecento e nei nostri magazzini dovrebbero ancora essercene parecchi in condizioni valide, impiegati ormai solo per compiti secondari. Ancora più immediata sarebbe la consegna dei fuoristrada Iveco Lince a prova di mina, che hanno una blindatura leggera. Gli ucraini ne hanno catturati una dozzina ai russi, che li hanno prodotti su licenza e li stanno impiegando al fronte, e ne sono entusiasti. Le nostre forze armate ne hanno oltre duemila, in parte destinati a essere sostituiti da un nuovo modello, e non richiedono una preparazione particolare. 

Un’ultima valutazione riguarda le autoblindo Puma a sei ruote motrici: ce ne sono più di trecento, praticamente nuove ma accantonate perché in Afghanistan si sono dimostrate vulnerabili alle mine. Sono però mezzi semplici e robusti, che potrebbero ancora dare protezione ai fanti ucraini nei combattimenti urbani. 

L’esame dei tecnici militari su questi armamenti dovrebbe avvenire entro la prossima settimana e trasmesso al ministero della Difesa. Poi sarà il governo a trarre le conclusioni sulla quantità e la qualità del sostegno italiano alla resistenza contro l’invasione.

Lince 2, è italiano il blindato più costoso: «Perchè è ultratecnologico e sicuro». GIOVANNA GUECI su Il Quotidiano del Sud il 13 luglio 2022.

È DI qualche giorno fa la notizia di un nuovo decreto interministeriale, il quarto, per la fornitura di armi all’Ucraina (tema sul quale si sono registrate spaccature politiche di non poco conto). Il testo prevederebbe l’invio da parte del governo italiano di equipaggiamento, mezzi blindati armati per trasporto del personale e artiglieria pesante. E, al di là delle scelte dei singoli Stati membri, la questione di una “difesa europea” da permanente diventa sempre più di stretta attualità, con le inevitabili diversità economiche e tecnologiche che ciascun Paese dovrà affrontare in un’ottica militare comune e comunitaria effettiva.

IL PROGRAMMA DI AMMODERNAMENTO

La fornitura italiana all’Ucraina – oltre ai diecimila uomini e donne impegnati in attività della Nato legate al conflitto (duemila già presenti in Bulgaria e Ungheria e altri 8.000 pronti a partire, secondo il premier Draghi) – è quindi solo la più urgente e drammatica circostanza, e l’ultima in ordine di tempo, sulla quale poter riflettere anche rispetto alla nostra spesa militare tanto in termini di sostenibilità ed economicità che di competitività. Nei mesi scorsi il nostro ministero della Difesa ha dato il via al Programma di ammodernamento e rinnovamento (A/R) n. SMD 27/2021 che prevede l’acquisto del mezzo denominato, per esteso,  VTLM Lince 2 – dove  VTLM sta per Veicolo Tattico Leggero Multiruolo – idoneo secondo il Ministero stesso «ad essere impiegato nell’ambito dei più svariati contesti operativi, dalle operazioni di concorso alle forze dell’ordine (esempio: “Strade Sicure”), agli interventi concorsuali in caso di pubbliche calamità, fino alle operazioni di supporto alla pace e a quelle a più elevata intensità».  

Insomma, scenari di guerra e missioni all’estero, oltre al controllo e sicurezza nazionali. Il costo dell’operazione, o se si preferisce dell’“onere previsionale complessivo”, per 1.600 VTML Lince 2 è di circa 3,5 miliardi di euro, vale a dire 2 milioni e 200mila euro circa al pezzo. Il Programma si compone di due fasi, la prima, avviata nel 2019, che si concluderà nel 2033; la seconda dal 2021 al 2034, con sovrapposizione delle due fasi. Il prezzo del mezzo Lince 2 – prodotto  dalla Iveco Defense Vehicles – ha sollevato, com’era prevedibile, qualche perplessità sia riguardo alla quantità e finalità dei mezzi prodotti che, soprattutto, ai costi.

Costi che se vengono analizzati alla luce della spesa precedentemente sostenuta –  e necessariamente aggiornata, sempre secondo il ministero della Difesa, a fronte di tecnologie e conseguente formazione del personale del tutto nuove e più complesse – devono fare i conti con la tecnologia e soprattutto con i costi del mercato estero, di gran lunga inferiori e non per questo penalizzanti in termini di sicurezza ed efficienza, primo fra tutti quello degli Stati Uniti.

IL NODO DEI COSTI

Riguardo ai nuovi VTLM Lince 2, sempre secondo il nostro ministero della Difesa, «il costante impegno dell’Esercito italiano in operazioni e la multiforme evoluzione della minaccia a cui è soggetto il personale nazionale ivi operante impongono l’adozione di adeguate misure di sicurezza, tra le quali assume un ruolo cruciale l’utilizzo di veicoli protetti, cosiddetti “salvavita”. (…) il massivo utilizzo e l’invecchiamento dei VTLM attualmente in servizio hanno causato inevitabilmente il deterioramento del parco veicoli esistente che, quindi, necessita di un graduale rinnovamento».  

Rispetto a tale rinnovamento e alla relativa spesa, il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè, rispondendo in Commissione difesa in Senato ai rilievi del senatore Giuseppe Auddino del M5s  (contattato più volte dal Quotidiano del Sud sull’argomento, ma senza successo) proprio sul notevole aggravio dei costi, aveva risposto che «rispetto alle acquisizioni precedenti, il programma in esame prevede un ampliamento dell’assistenza logistica, prolungandone la durata a dieci anni.  Ciò determina – attesa la peculiarità degli interventi di supporto logistico su una piattaforma complessa quale il VTML Lince 2 – un previsionale aumento dei costi unitari. Inoltre nell’ottica di capitalizzare l’esperienza maturata nei diversi teatri operativi e anche al fine di perfezionare i prodotti per il mercato dell’export, la nuova piattaforma presenta significativi aggiornamenti tecnologici degli apparati di comando e di controllo, con riferimento sia alle comunicazioni radio e satellitari che al software. Il programma prevede inoltre che una percentuale maggiore di veicoli sia dotata della torretta remotizzata».

Nella stessa seduta di Commissione Difesa del Senato, nell’ottobre scorso, «interviene il senatore Auddino (M5S) che, pur rilevando il notevole aggravio dei costi, ringrazia comunque per i chiarimenti forniti». Chiarimenti che, tuttavia, dal nostro punto di vista, andavano approfonditi. In particolare nella direzione delle singole voci di spesa che concorrerebbero al considerevole aumento dei costi unitari del mezzo. In altre parole: in che parte le voci indicate da Mulè in Commissione Senato avrebbero inciso su un aumento così importante dei costi? Tenuto conto – come riportato dall’Osservatorio sulle spese militari italiane Milex – che «i primi Lince 2 ordinati nel 2020 in due versioni, una “base” e una “NEC” ovvero netcentrica e supertecnologica, costano rispettivamente quasi 1 milione e 1,6 milioni di euro, comprensivi dei costi di manutenzione e supporto logistico. Rispetto al vecchio Lince, che costava meno di 400mila euro a mezzo, stiamo parlando di un costo unitario più che raddoppiato, quasi triplicato, per la versione base e quadruplicato per la versione NEC». E che, secondo lo stesso Osservatorio,  «la Difesa aveva chiesto nel 2019 il via libera al Parlamento per comprare i primi 650 Lince 2 a un costo unitario, comprensivo di supporto logistico, “solo” raddoppiato rispetto ai vecchi Lince, sugli 860mila euro a mezzo, che corrisponde al costo della versione base al netto dei costi di supporto logistico».  

STANDARD DI SICUREZZA

A rispondere al Quotidiano del Sud è lo stesso sottosegretario: «Si tratta di matematica – precisa Mulè  –  Provo a spiegare. Il Lince  2 è l’evoluzione del Lince 1, per partire con la grammatica. Ha degli incrementi che sono standard di sicurezza, manegevolezza, capacità di carico. Dopodiché rispetto al fratello minore  sin dall’origine è dotato – cosa che il Lince 1 non aveva – di sistemi di comando e controllo che ne hanno fatto aumentare il costo. In particolare, gli 860.000 euro riguardano il costo della c.d. parte scafo, la parte sottostante il veicolo. A questi 860mila euro vanno aggiunti i costi degli apparati di comando, controllo e comunicazione, che sono circa 620.000 euro. Il totale arriva a 1.480.000 euro, circa 1 milione e mezzo di euro per singola piattaforma. Dopodiché il supporto logistico integrato decennale  incide per una percentuale pari a circa il 5% del costo di acquisto annuo. Il totale medio è 740.000 euro a veicolo in ambito decennale. Quindi il costo complessivo a piattaforma diventa 2.200.000, sommando questi 740.000 al milione e mezzo per la parte di scafo e comandi». Cosa intendiamo per supporto logistico? «Significa che in una prima fase – spiega ancora Mulè – la stessa industria fa la formazione degli autisti, dei conduttori e di coloro che devono fare la ma-nutenzione, in modo che questi militari acquisiscano il know-how necessario per operare  suc-cessivamente in totale autonomia e in ogni situazione, per essere totalmente autonomi nella gestione del veicolo. Nella seconda fase, poi, il supporto passa in capo direttamente alla Forza armata  che riceve dall’industria soltanto i componenti e i ricambi».

Tutte le voci “nuove” che hanno fatto lievitare i prezzi, secondo il Sottosegretario,  «sono certamente le integrazioni che sono state fatte dal punto di vista dell’immissione di tecnologia che prima non c’era, quindi comando, controllo, comunicazione. Lo scafo (quello che da solo arriverebbe a costare 860mila euro, quanto cioè sono costati i primi 650 Lince 2, ndr) è stato ammodernato, perché nell’uso che è stato fatto del Lince 1, abbiamo capito quali requisiti operativi dovesse avere. Ci siamo accorti che il Lince 1 era debole, vulnerabile, per esempio nella parte scafo. Abbiamo avuto anche soldati deceduti, altri che sono sulla sedia a rotelle e altri che hanno menomazioni fisiche – e abbiamo lavorato con l’industria chiedendo un veicolo che non avesse più quelle vulnerabilità. Da qui la spesa che si è incrementata. La tecnologia è aumentata e poi c’è stata l’esigenza di formare  i nostri su una cosa che prima non c’era, per questo poi il costo arriva ai 75.000 euro annui di manutenzione, perché parliamo di tecnologie assolutamente innovative che nessuno mai aveva utilizzato prima».

OPERATIVI OVUNQUE

Riguardo invece all’operatività e all’efficienza dei nuovi mezzi, Mulè spiega: «I Lince 2 per loro natura sono  veicoli che vengono utilizzati certamente in tutti i teatri operativi nelle missioni internazionali all’estero. Oggi noi abbiamo  un totale di 34 missioni all’estero, a cominciare da Libano, Lettonia e Kuwait. Questi mezzi  viaggiano intorno al mondo insieme ai contingenti. Vengono quindi certamente destinati come prima capacità ai teatri operativi, ma hanno un utilizzo anche in Italia, ad esempio per l’attività “Strade sicure”, che seppure in decremento rispetto al numero originario – quest’anno arriveremo a circa 5.000 unità, rispetto alle 7/8.000 di qualche anno fa – c’è. E poi hanno un impiego ovviamente nei reparti pronti all’uso in caso di necessità».

E circa i rilievi sulla quantità dei veicoli prodotti, il sottosegretario puntualizza: « Il Lince 2 va a sostituire in modo totale il Lince 1. I Lince 1 erano all’incirca 1.700 veicoli, forse pochi di meno, e  li abbiamo usati per quasi 20 anni, sia in Italia che all’estero, quindi in quasi tutte le missioni che hanno avuto un utilizzo terrestre. In Kosovo, in Iraq, in Afghanistan. Mezzi da questo punto di vista stressati, che era previsto andassero a esaurirsi dopo  15 anni di vita. I veicoli del programma 2721 non vanno quindi a sommarsi a quelli che oggi sono in servizio, ma li sostituiscono gradualmente.  Rispetto al quantitativo, l’acquisto autorizzato di 2.250 veicoli non è quindi un raddoppio, ma una  sostituzione: mano a mano che entrano i nuovi, escono i vecchi. Alla fine sempre circa 2.000 ne avremo».

Ebbene, il confronto con il mercato internazionale e gli scenari operativi con cui altri Paesi si mi-surano da sempre fanno però riflettere sia sull’economicità o meno di uno stanziamento tanto imponente di risorse finanziarie da parte dell’Italia, quanto della concorrenzialità e competitività di simili costi sul mercato. Army Technology, ad esempio – due  mesi prima che l’Italia autorizzasse la spesa di 3,5 miliardi di euro per 1.600 veicoli Lince 2 – documenta nel dettaglio il programma JLTV dell’esercito americano e del Corpo dei marine  degli Stati Uniti (USMC), che prevede lo sviluppo da parte di Oshkosh Defense del veicolo fuoristrada tattico da  combattimento leggero (L-ATV). Il programma «intende  sostituire parte della flotta Humvee con un nuovo veicolo leggero multiruolo, offrendo protezione e prestazioni superiori dell’equipaggio».

L’esito delle varie fasi di sviluppo del programma è stato il seguente: il L-ATV, ovvero il nuovo veicolo per il quale l’esercito degli Stati Uniti e l’USMC hanno reimpostato requisiti, programma e costi, «ha completato con successo la gara fuoristrada nel terreno estremo del deserto messicano; (…) è stato utilizzato sviluppando le tecnologie innovative sperimentate negli ultimi dieci anni in Iraq e Afghanistan e le caratteristiche  prestazionali sono state verificate attraverso test approfonditi del profilo di missione».  

PRODUZIONE ED EXPORT

Risultato: la società Oshkosh si è aggiudicata dal 2016 al 2021 diverse commesse che hanno fornito mezzi comprensivi di servizi di supporto e kit associati  dal prezzo unitario oscillante tra i 270 e 400mila dollari. Prezzi che risentono, naturalmente, di una scala di produzione ben maggiore, ma che restano comunque un parametro di confronto indicativo, proprio su un mercato sempre più attivo e globale, rispetto al quale la stessa Unione europea dovrà pensare in termini sempre meno nazionalistici e sempre più di “fronte comune” sia dal punto di vista della difesa territoriale che dell’impegno finanziario. Anche per tipologia di impiego, sicurezza  ed equipaggiamento, il L-ATV statunitense non lascerebbe margini di dubbio: «Quello di base – riporta Army Technology –  è dotato di un avanzato sistema di protezione dell’equipaggio, con un livello di protezione simile a quello dei veicoli a prova di imboscata (MRAP) resistenti alle mine. Il sistema di protezione può resistere alle esplosioni del ventre. (…) Il L-ATV è dotato di un sistema di sospensioni che offre elevati livelli di mobilità e manovrabilità del veicolo (…) è stato appositamente progettato per veicoli leggeri e a alte prestazioni, garantendo un’elevata mobilità e manovrabilità del veicolo».

Dal canto suo anche Breaking Defense, rivista di strategia, politica e tecnologia della difesa, si occupa della questione e riporta, tra i molti altri dati, quanto raccolto da Andrew Eversden circa la competitività su diversi mercati di un mezzo che al suo produttore è valso, alla fine del 2021, una contratto di 6,5 miliardi di dollari per 17.000 JLTV e 10.000 trailer (rimorchi). Ossia, dai 200mila ai 400mila dollari al pezzo. Proprio rispetto alla finalizzazione verso il mercato dell’export,  per il quale il nostro Lince 2 sarebbe stato perfezionato secondo quanto sostenuto anche in Commissione difesa,  Mulè sottolinea: «Sul costo unitario incide molte volte il quantitativo di mezzi che vengono prodotti. Se è una produzione su larga scala, i costi di ammortamento anche rispetto allo sviluppo della tecnologia e del mezzo sono inferiori rispetto a un mezzo per il quale se ne producono 1.000. Se ne produco 5.000, i costi si abbassano.

Qual è però l’esperienza che abbiamo maturato? L’esperienza ci dice che il Lince 1 è stato venduto in Brasile, in Gran Bretagna, in Spagna, in Norvegia, in Albania, quindi è un veicolo di successo. Tutto ci lascia dire che avendo imparato dai propri errori, avendo conformato un nuovo veicolo, il Lince 2, sulla base di quello che è arrivato da una utilizzazione sul terreno, certamente abbiamo l’aspettativa di attirare interesse da parte di clienti stranieri proprio perché è un ammodernamento, una evoluzione della capacità che è attagliata soprattutto agli scenari di impiego, come gli scenari desertici o di montagna. Lo abbiamo aggiustato a seconda delle esigenze, per cui l’aspettativa di export è uguale, se non maggiore, rispetto al successo che ha avuto il Lince 1».

I MERCATI ESTERI

Di fatto, le previsioni ottimistiche circa l’interesse da parte del mercato estero basate sul confronto con quanto avvenuto nel passato  – in particolare con il Lince 1, che aveva un costo iniziale di 400mila euro, tra i più cari quindi sin da subito rispetto al mercato internazionale  – dovranno fare i conti con la capacità di produzione di un mercato internazionale dai prezzi enormemente più contenuti a prestazioni del tutto simili, se non migliori, in termini di sicurezza, efficienza e affidabilità; prestazioni testate in scenari considerati tra i più critici. Ancora di più preoccupa il confronto tra la spesa pubblica complessiva e il costo di un mezzo che allo Stato costa 2 milioni e 200mila euro l’uno, di fatto quasi sei volte di più  rispetto a mercati esteri di primissimo livello.

Contro l’aggressione russa. Quali armi ha inviato l’Italia in Ucraina (e quali potrebbe inviare ancora) su L'Inkiesta il 22 aprile 2022.  

Aiutare l’Ucraina a resistere all’invasione russa non è solo una decisione politica, è un dovere di ogni Paese europeo. Non si può e non si deve accettare l’attacco deliberato e scellerato del Cremlino a Kiev, Mariupol, Karkhiv e in ogni angolo dell’Ucraina.

Dall’inizio del conflitto molti Stati hanno inviato aiuti militari all’Ucraina. Secondo i dati dell’Ukraine Support Tracker stilato dal Kiel Institute for the World Economy il maggiore sostegno è arrivato dagli Stati Uniti che hanno fornito a Kiev l’equivalente di 7,6 miliardi di euro di aiuti nelle quattro settimane successive all’inizio dell’invasione, di cui 4 miliardi e 366 milioni in aiuti militari. I dati del report riguardano il primo mese di guerra, dal 24 febbraio al 27 marzo.

Il presidente americano Joe Biden ha annunciato che gli Stati Uniti hanno approvato un altro round di aiuti militari all’Ucraina. Un funzionario della Casa Bianca ha affermato che il prossimo pacchetto di assistenza militare sarà simile a quello di 800 milioni di dollari che Biden ha annunciato la scorsa settimana, e includerà soprattutto artiglieria pesante e munizioni.

La reazione della Russia non si è fatta attendere. Se continueranno ad arrivare armi e mezzi agli ucraini «ci saranno conseguenze imprevedibili», minaccia il Cremlino. Un avvertimento inoltrato anche all’Italia, che a marzo ha inviato all’Ucraina una prima tranche di armi.

L’Italia è al sesto posto nel ranking del Kiel Institute for the World Economy per gli aiuti inviati in Ucraina – 260 milioni di euro totali – e al quarto posto considerando solo gli aiuti militari, che ammontano a circa 150 milioni.

Pochi giorni fa il premier Mario Draghi aveva detto che l’Italia ha «stanziato circa 500 milioni di euro per sostenere gli ucraini che arrivano in Italia e 110 milioni in assistenza finanziaria per il governo ucraino», a dimostrazione dell’impegno preso.

All’inizio del conflitto, il Consiglio dei ministri aveva dato il via libera all’unanimità a un decreto che prevede, tra l’altro, di cedere mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari a Kiev. Quindi l’Italia ha inviato sistemi anticarro e antiaereo, mitragliatrici leggere e pesanti e mortai dal valore stimato tra 100 e 150 milioni di euro. A cui aggiungere un contributo da 110 milioni di euro versato a fine febbraio al governo ucraino.

Nella prima tranche di aiuti, come riporta Repubblica, c’erano, tra le altre cose, le mitragliatrici pesanti MG 42/59 «ossia la versione aggiornata dell’arma del Terzo Reich, celebre per il suo volume di fuoco, che i nostri fanti hanno sfruttato negli scontri con i talebani». I voli partiti da Pratica di Mare e da Pisa hanno portato – in Polonia, poi in Ucraina – anche diversi missili terra-aria Stinger: «Sistema missilistico terra-aria impiegato contro la minaccia aerea condotta a bassissime quote», si legge sul sito dell’Esercito italiano. Poi ci sono anche i razzi anti-carro Panzerfaust, che però sono arrivati in basse quantità perché l’Italia non aveva grosse disponibilità: dalla fine della Guerra Fredda non c’è stata grande attenzione agli strumenti per affrontare conflitti tradizionali. E soltanto lo scorso ottobre si è deciso di comprare mille Panzerfaust con testata in grado di perforare le corazze dei nuovi tank russi.

Non solo: grazie a uno stanziamento di 12 milioni, sempre parte della prima tranche di aiuti, sono stati inviati a Kiev anche «equipaggiamenti per la protezione individuale e della popolazione civile», quindi elmetti e giubbotti antiproiettile, dispositivi per individuare mine e altri ordigni esplosivi.

Gli aiuti decisi all’inizio del conflitto si sono aggiunti a quelli dei giorni immediatamente precedenti, quando Palazzo Chigi aveva approvato un altro decreto che stanziava 174 milioni di euro tra il 2022 e il 2023 per il potenziamento della presenza militare in Europa orientale, con il rafforzamento delle tre missioni già in atto: in Romania, in Lettonia e nel Mediterraneo Orientale. Un provvedimento che mobilitava 1.350 militari fino al 30 settembre e altri 2mila per eventuali esigenze di rinforzi o per dare il cambio ai primi soldati.

Secondo alcune indiscrezioni la settimana prossima l’Italia potrebbe approvare e garantire un secondo pacchetto di aiuti militari sulla base delle richieste dei vertici ucraini: «Abbiamo bisogno di armi al più presto», ha detto più volte il presidente ucraino Volodymyr Zelensky nelle ultime settimane, e lo ha ribadito di nuovo nell’incontro con il presidente del Consiglio europeo Charles Michel.

Palazzo Chigi è al lavoro per un nuovo decreto che possa rinnovare il sostegno alla resistenza del popolo ucraino con nuove armi. Anche perché le risorse stanziate diverse settimane fa non sono più sufficienti.

Un nuovo provvedimento che coinvolgerebbe più ministeri (Economia, Difesa, Esteri) e non avrebbe bisogno dell’approvazione del Parlamento, che già si è espresso in maniera favorevole. Le liste dei materiali inviati saranno secretate, ma si parla di nuove armi anti carro, munizioni e mezzi blindati.

Estratto dell'articolo di Andrea Marinelli e Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 21 aprile 2022.  

C'è l'International Donors Coordination Center, «nome» dietro al quale operano numerosi ufficiali britannici. E poi c'è Eucom, lo United States European Command. Entrambi sono basati in Germania, nella regione di Stoccarda: sono le due piattaforme senza le quali l'Ucraina non potrebbe resistere alle zampate dell'orso russo. Attraverso queste strutture, infatti, sono gestiti gli aiuti militari.

[…] l'Ovest ha ampliato il piano d'assistenza con le armi «offensive». I donatori hanno prelevato nei depositi dei Paesi dell'Est, per poi mettere a disposizione materiale più moderno. Flusso tutelato in parte dalla segretezza. E nella pipeline sono finite anche le «offerte» di privati: dai Paesi baltici ad alcune contee dell'Arizona, dove polizie locali e tribù di nativi hanno fatto la loro parte con giubbotti anti-proiettile, elmetti, kit medici, dotazioni varie. […] 

La lista dei «contributi» è lunga, citiamo solo i più importanti. Stati Uniti: cannoni da 155 mm, vecchi blindati, radar per scoprire artiglierie, anti tank Javelin e d'altro tipo, missili anti-aerei Stinger, munizioni, droni kamikaze Switchblade, apparati per le comunicazioni, elicotteri Mi-17, razzi a guida laser, visori notturni. Dati di intelligence. Poi quello che non sappiamo. 

Gran Bretagna: blindati (Mastiff, Spartan, Wolfhound), sistemi antiaerei Stormer, missili Brimstone, anticarro. Si è ipotizzato anche artiglieria semovente, forse missili antinave. 

Australia: blindati Bushmaster ed equipaggiamenti. Canada e Estonia: artiglieria pesante.

Repubblica Ceca: riparazione dei mezzi, semoventi, tank T-72, blindati. Norvegia: missili antiaerei Mistral, piccoli droni), Italia (mitragliatrici e anti tank). Slovacchia: sistemi antiaerei S-300, semoventi Zuzana, corazzati. Possibile transito di mezzi consegnati dall'Ungheria. Germania: ha messo a disposizione degli anti tank Panzerfaust. Berlino si è presa del tempo sulla fornitura di blindati e ha offerto di finanziare l'acquisto di armi tedesche. Polonia: probabile invio di carri armati e di altro materiale «pesante», pezzi di ricambio, missili per i caccia. […]  

RAFFAELE GENAH per il Messaggero il 4 maggio 2022.

Più aiuti, anche militari, all'Ucraina. È questa, secondo alcune indiscrezioni di stampa, la risposta di Israele all'escalation verbale russa contro Gerusalemme. Ieri il suono delle sirene ha fermato il Paese nel ricordo dei propri caduti. Solo qualche giorno fa lo stesso sibilo aveva attraversato le piazze e le strade per il giorno della Shoah. 

E ora la difesa di quella memoria di fronte ad attacchi impensabili da parte di un governo, quello russo, verso il quale lo stato ebraico aveva cercato di mantenere una posizione di difficile equilibrio dopo l'invasione dell'Ucraina. Ma quella posizione ora è stata spazzata via dalle pesantissime offese del ministro Lavrov che a modo suo riscrive la storia della Shoah e dell'albero genealogico di Hitler. 

Alla dura reazione del governo di Israele, che aveva convocato l'ambasciatore a Tel Aviv, ora arriva anche la controreplica del Cremlino che riesce perfino a rincarare la dose. Il nuovo documento partorito dagli strateghi di Mosca accusa lo Stato ebraico di sostenere i neonazisti di Kiev prestandosi a coprire il presidente ucraino Volodimir Zelensky che, a loro dire, si nasconde dietro le origini ebraiche per far fronte comune con i neonazisti «eredi spirituali e di sangue dei boia del suo popolo».

In mattinata il ministro degli Esteri Lapid era tornato sulle dichiarazioni in tv di Lavrov, e oltre a richiedere le scuse ufficiali,ha invitato Lavrov a studiare libri di storia piuttosto che diffondere false voci antisemite . Un errore «imperdonabile e oltraggioso» ha aggiunto Lapid: «È come sostenere che gli ebrei si siano ammazzati tra di loro». 

LA ROTTURA Per tutta risposta, qualche ora più tardi è arrivata la nuova aberrante sortita di Mosca che butta altra benzina sul fuoco: «La storia conosce purtroppo altri tragici esempi di cooperazione tra ebrei e nazisti. In Polonia e in altri paesi dell'Europa orientale, i tedeschi nominarono industriali ebrei a capo di ghetti e consigli ebraici alcuni dei quali sono ricordati per atti mostruosi». Uno strappo dunque molto profondo che l'atteggiamento fin qui seguito dalla diplomazia israeliana cercava di evitare. Il premier Bennett era stato considerato anche uno degli attori più accreditati per una mediazione: aveva incontrato Putin e avuto ripetuti colloqui con Zelensky. Ma non aveva aderito alla sua richiesta di armi per mantenere una sorta di equilibrio, anche se il suo governo aveva votato all'Onu la mozione contro l'invasione russa. 

Adesso il nuovo quadro spezza questa posizione dettata anche dalla necessità di salvaguardare i buoni rapporti che erano stati stabiliti con Mosca e di proteggere dagli attacchi degli hezbollah filoiraniani il confine con la Siria, presidiato dai militari russi. Ora Israele secondo quanto rivelato da fonti giornalistiche - si appresterebbe a fornire aiuti umanitari e militari all'Ucraina, anche se non invierà gli armamenti richiesti, tra cui il sistema antimissile Iron Dome le armi avanzate di attacco, quanto piuttosto attrezzature difensive a protezione delle truppe di terra, equipaggiamento da combattimento personale e sistemi di allarme.

Ucraina, ora arriva Mistral, l'arma che fa tremare i piloti: che cosa è in grado di fare. Libero Quotidiano il 06 maggio 2022.

C'è una grande novità sul campo di battaglia. Il suo nome è "Mistral". Proprio ieri, come ricorda il Foglio, questo sistema missilistico ha fatto il suo debutto sullo scenario di guerra. L'arma, nelle mani degli ucraini, è un sistema balistico a corto raggio e a guida infrarossa che può colpire l'obiettivo in qualunque momento. L'esordio del Mistral non è un dettaglio da poco. Ideato e prodotto dai francesi, ha alcune caratteristiche precise che lo differenziano dallo Stinger.

Il Mistral infatti non viene portato a spalla sul campo di battaglia, ma necessita assolutamente di un lanciatore. Francia e Norvegia stanno dando una mano concreta agli ucraini in battaglia con l'invio dei lanciatori e di almeno 100 missili. I lanciatori sono stati posizionati su dei pick up e di fatto questo tipo di sistema missilistico ha un unico obiettivo dichiarato: gli aerei russi. Un vero e proprio incubo per i piloti dei jet dell'armata dello Zar che dovranno fare i conti con questa potenza di fuoco da terra capace di abbattere un velivolo in pochi secondi. L'invio di armi da parte dei Paesi occidentali a Kiev sta radicalmente cambiando lo scenario della guerra.

Un esempio può rendere più chiare le idee. Sempre come riporta il Foglio, fino a dieci giorni fa cadevano almeno 50-80 missili sulla città di Karkiv. Negli ultimi giorni questa potenza di fuoco si è ridotta a cinque missili. Insomma lo scenario del conflitto si declina su un equilibrio sottile: la Russia prosegue nella sua avanzata, mentre l'Ucraina è appesa al filo degli aiuti dei Paesi occidentali. E l'asse Occidente-Kiev, ma soprattutto quello tra Washington e Kiev avrebbe dato alcuni risultati. Ad esempio l'affondamento del Moskva sarebbe stato organizzato anche con l'aiuto dei servizi americani che avrebbero confermato a Kiev la posizione della nave più potente della flotta russa. Una mossa che ha cambiato le sorti della guerra sferrando un colpo durissimo alla Marina russa. Adesso l'invio dei Mistral potrebbe nuovamente stravolgere gli equilibri sul campo. La guerra durerà probabilmente a lungo, ma la differenza la farà quasi certamente la tecnologia usata per le armi. 

Quali armi sta fornendo l'Italia all'Ucraina: farsa svelata, il confronto con Lettonia e Slovacchia. Libero Quotidiano il 05 maggio 2022.

No, non siamo al centro del mondo. Se parliamo di forniture di armi all’Ucraina, il peso italiano nella partita è inferiore a quello di Estonia e Slovacchia, il che rende un po’ forzati certi discorsi sul nostro ruolo in un’eventuale escalation. Ovvio,il dibattito nasce soprattutto per una questione di principio: un po’ come quel famoso industriale napoletano che durante la Grande Guerra preferì lasciar fallire la sua conceria piuttosto che rifornire di guanti l'esercito, perché non voleva che i ragazzi morissero con la sua "roba" addosso.

Al di là dell'idea, però, c'è poco: la scelta tra burro e cannoni non è nostra. Per rendersene conto basta leggere l'ultimo report pubblicato dal Kiel Institute for World economic (uno dei più importanti think tank europei e mondiali in Economia internazionale). Il centro studi tedesco ha pubblicato un'analisi contenente alcune classifiche sui Paesi che stanno sostenendo lo sforzo bellico di Kiev, sia sul piano finanziario che su quello militare. Nei primi due ambiti, vince complessivamente l'Unione europea con quasi 13 miliardi di spesa, perché oltre al contributo dei singoli Paesi bisogna sommare quello della commissione. Gli Stati Uniti da soli superano di poco i 10 miliardi di dollari. Mentre l'Italia, come singolo paese, non fa molto (come si vede nella tabella riprodotta qui a fianco). Siamo più o meno a pari del Lussemburgo. 

SOLO DECIMI - Poi c'è la classifica delle armi (quella che pubblichiamo in prima pagina). Il nostro Paese, sulle 31 nazioni prese in esame, occupa il decimo posto, il che in parte spiega perché il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ci ha definito una delle nazioni "in prima fila" nella lotta al regime di Putin. Facciamo la nostra parte, ma con cifre che non sono neanche lontanamente paragonabili a quelle investite da Polonia, Germania e Regno Unito. Siamo dietro anche alla Lettonia, per una ragione che si comprende leggendo un'altra tabella, quella relativa agli stanziamenti in rapporto al Pil degli Stati: più ci si avvicina al confine russo, più i governi sono disposti a sacrificarsi per finanziare l'azione di Volodymyr Zelensky.

PRESTITI - Nel complesso, anche in relazione alle spese militari ci sono alcune differenze. Certi Paesi, come il Giappone, hanno spedito denaro legandolo all'acquisto di materiale bellico o hanno concesso prestiti. Altri, come il nostro, hanno invece preferito inviare direttamente una parte del proprio arsenale. Di conseguenza, bisognerebbe pure valutare come viene calcolato il valore di questi armamenti. Anche se la lista delle donazioni resta segreta, notoriamente la qualità delle armi spedite dall'talia finora non è paragonabile a quella garantita da Stati Uniti e Regno Unito. Washington e Londra hanno scaricato all'est i temuti (dai russi) anti-carro Javelin, artiglieria pesante e droni. La Polonia a sua volta ha impiegato i suoi carri. Il resto dell'Europa ha concesso solo piccoli quantitativi di materiale bellico. E i nostri missili anti-aereo e anti carro sono di vecchia generazione. In generale, si tratta di risorse che già oggi sono finite "in riserva", mentre per altre armi pesanti la discussione è ancora in corso.

I problemi sono diversi. Nello Stato maggiore - come Libero ha già segnalato nelle scorse settimane - non tutti condividono la scelta di "alleggerire" le proprie disponibilità spedendo armi all'Ucraina. L'Esercito ha già meno risorse di Aeronautica e Marina e vedere i magazzini svuotati preoccupa. Si potrebbero impiegare i famosi Lince, mezzi blindati già utilizzati in Afghanistan. Mentre per quanto riguarda l'artiglieria e i carri armati la nostra disponibilità è limitata. Detto in altri termini, se fosse solo per noi la scelta tra guerra e trattativa non si porrebbe neanche: ci saremmo già arresi da un pezzo.

Quicksink, la bomba americana che affonda e disintegra le navi nemiche: che cosa è in gradi di fare. Libero Quotidiano il 04 maggio 2022.

La Russia minaccia e gli Stati Uniti rispondono: l'ultima arma testata dagli americani si chiama "Quicksink", ossia "affondo rapido", e - come suggerisce il nome - è una bomba in grado di colpire e distruggere le navi nemiche in un solo colpo. Uno dei primi test - come spiega il Messaggero - è avvenuto lo scorso 28 aprile ad opera dello US Air Force Research Laboratory e dell'Integrated Test Team della Eglin Air Force Base al largo del golfo del Messico. La bomba è stata sganciata da un caccia F-15E Strike Eagl e ha distrutto una nave mercantile spezzandola a metà e affondandola. 

Il vantaggio di "Quicksink" rispetto ai siluri, quelli che di solito vengono utilizzati per affondare le navi, è che questa nuova bomba non si rende visibile al nemico. I siluri lanciati da sottomarini, invece, sono facilmente distinguibili e quindi più esposti a un possibile contrattacco. Quicksink viene sganciata dagli aerei, cosa che permette anche di garantire la sicurezza dei propri sottomarini, mezzi in genere molto costosi. Basti pensare che, come scrive il quotidiano romano. "un singolo aereo F-15EX costa 87,7 milioni di dollari, mentre un sottomarino statunitense può costare fino a 2,8 miliardi di dollari per unità".  

"I siluri pesanti sono efficaci ma sono costosi e impiegati da una piccola parte delle risorse navali", ha spiegato il maggiore statunitense Andrew Swanson. In ogni caso, l'amministrazione Biden crede molto in questa nuova bomba. Tanto che solo nel 2022 sono stati stanziati 1,32 miliardi di dollari per l'acquisto di 12 Eagle II e 133,5 milioni di dollari per acquisti futuri. 

Andrea Marinelli e Guido Olimpio per corriere.it il 28 aprile 2022.

«Se la Russia sarà minacciata, risponderà con mezzi che i suoi avversari non hanno ancora». Così Vladimir Putin ha lanciato il suo avvertimento all’Occidente, colpevole di fornire materiale bellico all’Ucraina e di minacciare «l’esistenza» stessa del suo Paese: una frase con cui, all’inizio del conflitto, il Cremlino aveva fatto riferimento all’uso di armi nucleari, uno spettro poi allontanato sia da Mosca che dall’intelligence occidentale.

Ora però il presidente russo è tornato a parlare di conflitto allargato ai sostenitori di Kiev. «Se qualcuno dall’esterno intende interferire negli eventi ucraini, porre una minaccia alla Russia, la nostra risposta sarà fulminea», ha avvertito in un discorso al parlamento, evocando «minacce geopolitiche» alla Russia. 

«Abbiamo strumenti che nessuno ha e li utilizzeremo, se necessario. Voglio che tutti lo sappiano». L’invio di armi in Ucraina e in altri Paesi, ha confermato il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov, costituisce «una minaccia per la sicurezza dell’Europa». Ma quali sono le armi a disposizione dell’esercito russo?

Samat

Missile intercontinentale, raggio d’azione di 18 mila chilometri, 200 tonnellate, dotato di testate multiple. Secondo i progettisti ha maggiori capacità di perforare lo scudo difensivo americano. Per questo il neo-zar afferma che i nemici ci penseranno «due volte» prima di sfidare Mosca, che lo ha anche ribattezzato Satan 2 (la classificazione ufficiale è RS28). 

Avangard

Ha incontrato — come spesso accade — problemi di sviluppo, è un ordigno strategico dotato di grande manovrabilità. Segue traiettorie diverse rispetto a quelle dei vettori intercontinentali. Ipersonico, può centrare un target a 6 mila chilometri di distanza. Porta testate nucleari o convenzionali. Dovrebbe essere entrato in servizio da oltre un anno.

Poseidon

È un super-siluro, noto anche come Status 6 e con caratteristiche simile a quelle di un drone subacqueo. Studiato per colpire formazioni navali, ma anche coste nemiche con una testata nucleare. «Viaggia» a una profondità di circa mille metri e ad una velocità di 70 nodi, ha un reattore come propulsore. Potrebbe essere difficile intercettarlo. Al momento — secondo l’esperto HI Sutton — non sarebbe ancora operativo. 

Burevestnik

Missile da crociera, sempre a propulsione nucleare, con un raggio d’azione stimato tra i 10 mila e i 20 mila chilometri, procede a bassa quota. I russi, al pari degli altri mezzi speciali, sottolineano come sia difficile da fermare. Nel 2019 c’è stato un incidente durante un test con la morte di alcuni «tecnici»: è possibile che fosse una prova del sistema. 

Khinzal

Missile ipersonico, già usato durante il conflitto in Ucraina. L’arma è lanciabile da un caccia o da un bombardiere Tu23, ha una velocità dieci volte superiore a quella del suono ed un raggio d’azione di 2 mila chilometri. Molto manovrabile, trasporta una carica nucleare o convenzionale.

Zircon

Altro ordigno ipersonico, raggio d’azione 500-1.000 chilometri. Per gli esperti può essere impiegato contro grandi bersagli terrestri, ma anche formazioni navali. Alla fine di dicembre le forze armate hanno eseguito un’esercitazione con il lancio di 10 cruise da una fregata e altri due da un sottomarino. Significativo il commento del Cremlino: «Un grande evento nella storia del Paese, un passo fondamentale per accrescere le capacità difensive». 

Fab-3000

Di progettazione sovietica, commissionata nel 1946, la Fab-3000 pesa 3 tonnellate e ha una massa esplosiva di 1.400 chili: ha un raggio di distruzione di circa 50 metri, ma i frammenti possono raggiungere i 260, ed è concepita per distruggere aree industriali, urbane e portuali. È possibile che i russi vogliano usarla per colpire il porto di Mariupol e l’acciaieria Azovstal, nei cui tunnel sotterranei resta asserragliata la resistenza. È un’arma potente ma convenzionale, anti-bunker, già usata dall’Urss in Afghanistan negli anni Ottanta.

Armi chimiche o biologiche

Sono munizioni devastanti per la loro componente di esplosivo associata ai gas o tossine in grado di diffondere il contagio. Negli ultimi anni sono state impiegate da Assad in Siria, con l’avallo del Cremlino. I servizi segreti americani e britannici temono che Putin possa farvi ricorso per piegare la resistenza ucraina: possono essere armi chimiche — agenti soffocanti come il cloro, agenti blister che colpiscono attraverso inalazione e contatto, agenti nervini — oppure biologiche, come l’antrace o il carbonchio 

Armi nucleari tattiche

Sia da Washington che da Kiev hanno chiarito che, al momento, non ci sono avvisaglie concrete di un attacco nucleare. «Per ora non vediamo segnali in questa direzione», ha affermato il direttore della Cia William Burns, però «non bisogna prendere alla leggera il possibile ricorso di Putin alle armi nucleari». 

A differenza di quelle «strategiche» della Guerra fredda, con cui Stati Uniti e Russia potevano colpirsi a vicenda sparando direttamente dal proprio territorio e che erano usate come deterrente, le armi nucleari tattiche hanno una gittata minore e colpiscono su distanze più brevi.

Sono ordigni più piccoli rispetto a quelli classici, con un raggio d’azione limitato, di circa un chilometro e mezzo, da usare in battaglia se l’Armata non dovesse riuscire a vincere con le armi convenzionali.

I russi ne hanno circa 2 mila nei depositi, non pronte all’uso, e possono usare due sistemi per lanciarle: i missili Kalibr, lunghi 6,2 metri e sparati da terra o dal mare, che hanno una gittata di 1.500/2.500 chilometri, e il sistema Iskander-M, che parte da terra e ha una gittata di 400-500 chilometri. Esistono numerosi esemplari di armi tattiche nucleari, variano molto per grandezza e potenza: la carica della più piccola può arrivare a un chilotone, ovvero l’equivalente di mille tonnellate di Tnt, la più grande anche a 100 chilotoni. Gli effetti cambiano a seconda della taglia e del luogo della detonazione: quella che uccise 146 mila persone a Hiroshima, Little Boy, aveva una carica di 15 chilotoni.

Dal missile Sarmat alle armi laser: i jolly militari di Mosca. Federico Giuliani su Inside Over il 21 giugno 2022.

Il rafforzamento dell’apparato militare, la consegna all’esercito russo impegnato in Ucraina dei nuovi sistemi anti missile S-500 ma, soprattutto, l’annuncio sul super missile intercontinentale Sarmat. Vladimir Putin ha annunciato al mondo intero tre importanti novità che potrebbero, non solo influire sul conflitto in corso sul territorio ucraino, ma anche sui rapporti tra Russia e Occidente negli anni a venire.

Andiamo con ordine partendo proprio dal Saramat, testato ad aprile e che, come ha spiegato il presidente russo, sarà operativo entro la fine dell’anno. Questo vettore secondo il ministero della Difesa, è capace di “penetrare ogni sistema di difesa missilistica esistente o futura” e lo stesso Putin aveva annunciato che darà garanzie di sicurezza alla Russia “contro le attuali minacce” e “farà riflettere coloro che ci stanno minacciando”. Incontrando al Cremlino i giovani diplomati dell’accademia militare, Putin ha quindi reso noto che le forze militari dispiegate in Ucraina hanno iniziato a ricevere in dotazione i nuovi sistemi anti missile S-500.

Il missile Saramat

“Sono stati effettuati con successo i test del missile balistico intercontinentale pesante Sarmat. Si prevede che entro la fine dell’anno il primo complesso di questo tipo sarà in servizio di combattimento”, ha dichiarato Putin. Ricordiamo che il missile Saramat ha un raggio d’azione di circa 18 mila chilometri e che è stato progettato per caricare fino a 15 testate nucleari o inserire in zona suborbitale 24 veicoli ipersonici Avangard.

L’RS-28 Sarmat, questo il nome completo, è sostanzialmente un missile balistico intercontinentale pesante di fabbricazione russa. È stato sviluppato a partire dal 2011 come sostituto del precedente R-36M. Il suo compito? In teoria nasce per eludere le difese missilistiche avversarie in virtù di una fase di salita più breve dei suoi predecessori. Se Putin ha parlato urbi et orbi del Saramat è perché il capo del Cremlino voleva lanciare un chiaro messaggio ai suoi avversari, forse intimidirli. Forse, addirittura, far capire al blocco occidentale che provocare la Russia oltre un certo limite non è una buona idea.

Gli altri jolly di Mosca

“Oltre alle nuove armi che sono già state testate sul campo di battaglia, le forze armate hanno già iniziato a ricevere sistemi per la difesa aerea S-500 e sistemi di difesa missilistica che non hanno eguali al mondo”, ha affermato Putin. E non è finita qui, perché il capo del Cremlino ha detto chiaramente che la Russia continuerà a sviluppare e rafforzare le forze armate, alla luce delle potenziali minacce e dei rischi militari.

Nei giorni scorsi Mosca aveva parlato anche di armi laser. Il vice primo ministro russo, Yury Borisov, ha dichiarato che i primi prototipi di armi laser che causano “la distruzione fisica del bersaglio” sarebbero già pronti all’uso. Il primo risponde al nome di Peresvet, e pare essere in grado di accecare i satelliti posizionati fino ad una distanza di 1.500 chilometri. “Se Peresvet acceca, la nuova generazione di armi laser porta alla distruzione fisica del bersaglio”, ha quindi dichiarato alla televisione di stato russa lo stesso Borisov alludendo ad altre armi. In particolare a Zadira, altra arma laser che si concentra sulla distruzione fisica di un oggetto collocato a una distanza massima di 5 chilometri, bruciando letteralmente un bersaglio a causa del suo impatto termico. Sono questi, dunque, i possibili nuovi jolly militari di Mosca.

Laura Aprati per rainews.it il 24 aprile 2022.

Il Satan II o Sarmat, testato dalla Russia è uno dei nuovi sistemi annunciati da Vladimir Putin nel famoso discorso del 1 marzo 2018, la fine del suo terzo mandato. 

Il missile è in fase di sviluppo da parte della “Makeyev Rocket Design Bureau” dal 2009   e dovrebbe sostituire, nell’arenale russo, l’R-36M ICBM (missile balistico intercontinentale) che nella terminologia Nato era identificato come SS-18 satan.

Il Sarmat, ha un peso di 220 tonnellate ed ha una gittata di circa 11,200 miglia (pari a circa 18mila kilometri) ed è considerato il più potente missile balistico intercontinentale della Russia. 

Lungo poco più di 35 metri e in grado di portare un carico bellico di 10 tonnellate, comprese le testate plananti ipersoniche Avangard, rappresentato da 10 testate di grosse dimensioni o da 16 più piccole. 

Dmitry Rogozin, capo dell’agenzia spaziale Roscosmos, in un’intervista alla televisione di Stato russa ha detto che il missile sarà  dislocato nella regione di Krasnoyarsk in Siberia, a circa 1860 miglia a est di Mosca. Sarà praticamente nello stesso luogo del missile Voyevoda, dell’era sovietica e così si potranno risparmiare risorse e tempo.

Rogozin ha anche detto che questo “super missile” garantirà la sicurezza per i prossimi 30/40 anni visto che il suo raggio di gittata può arrivare in Giappone e negli Stati Uniti ed ancor di più in Europa. 

Secondo Jhon Erath, direttore al Centro per il controllo delle Armi e la non Proliferazione di Washington, le ultime minacce di Putin preoccupano di più dell’arma in sé: “ Dobbiamo essere preoccupati di questa pratica di fare delle minacce uno strumento della politica russa che sta guadagnando sempre più spazio”. 

La strategia del Cremlino “ di aumentare e diminuire” la tensione include anche la minaccia di usare armi nucleari ed è iniziata nel 2000 dice Matthew Kroenig, del Centro di Strategia e Sicurezza del Consiglio Atlantico Scowcroft.

Secondo alcune fonti inoltre la Russia, nello sviluppo del missile comune del più semplice carro armato T-14 Armata, deve tener conto delle difficoltà produttive attuali risulta infatti che la Ural Vagon Zavod,la principale azienda produttrice di carri armati abbia le linee di produzione ferme per la mancanza di componenti. 

Rogozin parla di ottobre per la dislocazione di Satana II, saranno questi i tempi?

Il Pentagono smorza: "Test programmato". Sarmat, il missile intercontinentale russo che ‘buca’ ogni difesa, Putin: “Chi ci minaccia ora rifletterà”. Redazione su Il Riformista il 20 Aprile 2022. 

Da una parte la continua richiesta di armi del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che chiede all’Occidente di svuotare i depositi e inviarle a Kiev per aiutare “a salvare le vite di migliaia di ucraini”. Dall’altra la Russia testa un nuovo missile intercontinentale Sarmat, che secondo Vladimir Putin garantirà la sicurezza della Russia “contro le attuali minacce” e che “non avrà pari al mondo per lungo tempo”.

La guerra è al suo 56esimo giorno e di pace si parla ancora troppo poco. I negoziati vanno avanti senza particolari sussulti e la possibilità di un accordo è assai remota con Zelensky che si dice pronto a incontrare Putin: “Sono pronto da tre anni per dialogare con la Federazione Russa e con il suo presidente. Voglio sottolinearlo ancora una volta: loro non sono pronti per una soluzione pacifica”. Intanto il Cremlino testa il missile balistico intercontinentale Sarmat che, lanciato dalla base di Plesetsk, 800 chilometri a nord di Mosca, ha sorvolato gran parte dello sterminato territorio russo per colpire il bersaglio assegnato a Kura, nell’Estremo Oriente.

Un’arma “davvero unica” che “rafforzerà il potenziale di combattimento delle nostre Forze armate, assicurerà in modo affidabile la sicurezza della Russia dalle minacce esterne e farà riflettere coloro che, nel fervore di una retorica frenetica e aggressiva, cercano di minacciare il nostro Paese”, ha dichiarato Putin sottolineando che i Sarmat vengono assemblati solo con componenti prodotti in Russia. “Naturalmente ciò semplificherà la produzione in serie del complesso da parte delle imprese dell’industria della difesa e ne accelererà il trasferimento al arsenale delle forze missilistiche strategiche”, ha aggiunto. Il nuovo missile “ha le qualità tattiche e tecniche più elevate ed è in grado di eludere qualsiasi sistema di difesa antimissile”.

“Gli obiettivi del test di lancio sono stati pienamente raggiunti e le specifiche di performance previste sono state confermate in tutte le fasi del volo”, fa sapere il ministero della Difesa russo in una nota. “Il lancio è stato il primo di una serie programmata, una volta che il programma sarà completato, il sistema missilistico Sarmat entrerà in servizio nelle Forze Missilistiche Strategiche”.

Il Pentagono smorza gli animi e chiarisce che il test non è una “minaccia” ma un’operazione di “routine”. “Tali test sono di routine e non è stata una sorpresa”, ha detto il portavoce del Pentagono John Kirby. “Il dipartimento rimane concentrato sull’aggressione illegale e non provocata della Russia contro l’Ucraina”, ha aggiunto.

Anna Guaita per “il Messaggero” il 21 aprile 2022.  

È un messaggio che deve «fornire spunti di riflessione per coloro che cercano di minacciare il nostro paese». Vladimir Putin ha riconosciuto le sue intenzioni intimidatorie senza mezzi termini, poco dopo aver assistito al lancio del Sarmat, detto anche Satana 2, il nuovo missile balistico intercontinentale che prende il posto del vecchio Voyevoda dell'epoca sovietica.

Il lancio è avvenuto ieri, nella Russia del nord, con tragitto verso est e la penisola di Kamchatka. Le reazioni del Pentagono sono state pacate, per vari motivi, primo fra tutti il fatto che i satelliti spia hanno identificato il tragitto del missile e dedotto che non rappresentava una minaccia per gli Usa o gli alleati.

Ma c'è da notare che Mosca stessa aveva seguito la regola che vuole che quando una potenza nucleare fa simili esperimenti ne avverta gli altri Paesi nucleari, onde evitare qualche catastrofico fraintendimento. 

In forma non ufficiale, il Pentagono ha anche fatto notare che gli Usa erano al corrente da anni della preparazione di questo missile di eccezionale potenza e portata. Il lancio, si spiega, viene interpretato più come un messaggio simbolico, secondo la tradizione putiniana di creare una «ambiguità strategica» che tenga i nemici in costante allarme.

Nel frattempo però anche i partner occidentali stanno cambiando la loro strategia, e stanno inviando al fronte quegli armamenti pesanti che avevano rifiutato all'inizio dell'invasione. Zelensky ha notato il mutamento di rotta e ieri, dopo aver lamentato che se avesse avuto queste armi all'inizio gli ucraini avrebbero «già ristabilito la pace e liberato il nostro territorio dagli occupanti», ha riconosciuto che «l'Occidente ha un atteggiamento più caldo verso l'Ucraina».

A Washington intanto Joe Biden non solo ha adottato nuove sanzioni contro una banca commerciale russa, ma ha anche annunciato un altro paniere di 800 milioni di dollari di aiuti militari, che fa seguito a quello già approvato la scorsa settimana, che conteneva l'invio anche di elicotteri da combattimento. 

Invece, sulla questione dei caccia, John Kirby portavoce del Pentagono ha tagliato corto, limitandosi a spiegare che «oggi in Ucraina ci sono molti più caccia di due settimane fa», mentre sulle voci secondo cui gli ucraini avrebbero ricevuto da un aereo spia Usa le coordinate per colpire l'incrociatore russo Moskva il Pentagono oppone un totale silenzio.

Sempre ieri il Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel ha confermato che la Ue fornirà a sua volta altri aiuti militari per il valore di 1.5 miliardi di euro. Vari Paesi che mandano a Zelensky le armi che chiede con insistenza vogliono però aiutare senza esporsi, soprattutto dopo le minacce di Putin. 

E lo stesso Zelensky preferisce che non si sappia troppo, per conservare l'elemento della sorpresa che tanto gli è stato di aiuto finora. Si sa tuttavia che ogni giorno allo United States European Command, l'Eucom, a Stoccarda, in Germania arrivano fra gli 8 e i 10 voli e non solo dagli Usa.

Quelli di cui si sa per certo, ultimissimi nella lista, sono stati dal Canada, con l'invio di artiglieria pesante, dalla Gran Bretagna che ha appena trasferito missili Brimstone, dal governo ceco carri armati T-72 e veicoli corazzati BMP-1, mentre la Slovacchia ha fornito un sistema missilistico antiaereo S-300 dell'era sovietica.

La Germania si è invece appena distanziata, sostenendo di «non poter più intaccare le riserve necessarie alla difesa della Germania», e che da ora in poi, ha spiegato il ministro degli Esteri Annalena Baerbock, «mentre gli altri partner forniranno artiglieria, noi aiuteremo addestrando i soldati ucraini e facendo lavoro di mantenimento».

Valentina Errante per “il Messaggero” il 21 aprile 2022.   

«Quest' arma non avrà pari al mondo per lungo tempo», la minaccia di Vladimir Putinm, che si è complimentato con il ministero della Difesa russo, passa attraverso l'annuncio della Tass: la Russia ha testato con successo un nuovo missile balistico intercontinentale, il Sarmat o Satan 2, capace di «penetrare ogni sistema di difesa missilistica esistente o futura».

Per Putin il nuovo missile darà garanzie di sicurezza alla Russia e «farà riflettere coloro che, nel fervore di una retorica frenetica e aggressiva, cercano di minacciare il nostro Paese. Un messaggio chiaro, rivolto alla comunità internazionale ma anche all'opinione pubblica russa. 

«Naturalmente - ha detto Putin sottolineando che il vettore è interamente prodotto in Russia - ciò semplificherà la produzione in serie del complesso da parte delle imprese dell'industria della difesa e ne accelererà il trasferimento all'arsenale delle forze missilistiche strategiche». E così il Cremlino si è rivolto anche agli industriali russi preoccupati per il blocco di componenti di alta tecnologia voluto dall'Occidente.

Il lancio è stato effettuato dalla base di Plesetsk, 800 chilometri a nord di Mosca, alle 15.12 ora locale e, sempre secondo il Cremlino, «È stato il primo di una serie programmata e una volta che il piano sarà completato, il sistema missilistico Sarmat entrerà in servizio nelle Forze missilistiche strategiche».

I primi missili dovrebbero rimpiazzare i R-36M2 Voevoda della base di Krasnoyarsk, nella Siberia centrale. Ieri Satan 2 ha sorvolato gran parte dello sterminato territorio russo per colpire il poligono di Kura Missile Test Range, nella regione della Kamchatka, nell'Estremo Oriente. 

Tempo impiegato: per percorrere 5.450 chilometri, ossia l'intera Russia, 15 minuti.

Il video mostra l'enorme missile di 115 piedi lanciato da un silo sotterraneo, innescando un'enorme palla di fuoco. Putin nel famoso discorso alle Camere pronunciato il primo marzo 2018, a meno di tre settimane dalle elezioni presidenziali che lo hanno riconfermato, aveva annunciato la preparazione della nuova arma, lanciando un messaggio agli Stati Uniti: «Ora ascoltateci». E così gli Usa, adesso, non mostrano alcuna sorpresa.

Il nuovo missile balistico intercontinentale (Icbm) è dotato di armamento termonucleare. A propellente liquido, pesa 200 tonnellate e, secondo quanto riferito, è in grado di scatenare dodici grandi testate termonucleari con una resa esplosiva fino a 750 kilotoni. La bomba atomica di Hiroshima era di circa 15 kilotoni. 

Il Sarmat o Satan 2 può consegnare anche il nuovo veicolo di planata ipersonico (Hgv) Avangard. L'alta velocità, la bassa traiettoria e la manovrabilità a metà volo di Avangard potrebbe diventare immune all'intercettazione del sistema di scudi Thaad americano, semplicemente ricorrendo ad una traiettoria che passi al di sopra del polo sud terrestre, zona non coperta da alcun apparato radar di early warning o sistema missilistico difensivo.

Con una portata di oltre 18mila chilometri, il Sarmat può effettuare un volo circumterrestre e colpire obiettivi dall'altra parte del pianeta da direzioni impreviste entro un'ora. Ed è in grado di distruggere un paese intero come la Francia. La produzione in serie del missile RS-28 Sarmat sarebbe iniziata nel 2020, a due anni dall'annuncio di Putin, ma l'arma è stata sviluppata a partire dal 2011 per sostituire il precedente R-36M.

Biagio Chiariello per fanpage.it il 21 aprile 2022.

Un fumo denso e un bilancio delle vittime che è già salito a 6 persone. Questa la situazione a Tver', una città della Russia europea centrale. L’incendio – visibile alle finestre del secondo e terzo piano dell'edificio – si è scatenato in un edificio del Ministero della Difesa russo dove si trova l’amministrazione dell’Istituto di ricerca per la difesa aerospaziale del Cremlino. 

L'incendio è stato domato alle ore 16:35 locali, ha reso noto il Ministero delle Situazioni di Emergenza russo. L'agenzia di stampa russa ‘Tass' riferisce di 6 morti, ma cita anche una fonte che parla di una settima vittima. 

Sei morti e una trentina di feriti nell'incendio

Nelle immagini a cui ha avuto accesso Republic Media Network, si vedono enormi pennacchi di fumo nero che si innalzano dall'edificio in fiamme. Secondo le prime ricostruzioni, sarebbe stato un corto circuito riguardante alcuni vecchi cavi e il rivestimento di plastica infiammabile a causare l'incendio. La maggior parte delle persone presenti al momento dell'incidente è stata evacuata dal sito, ma almeno dieci sarebbero ancora intrappolate all'interno. Lo ha riferito una fonte informata all'agenzia Interfax, secondo la quale almeno 27 persone hanno richiesto assistenza medica. Sul posto sono arrivate 14 ambulanze. 

Ieri il lancio del missile Sarmat

L’Istituto è stato fondato nel 2014. Tra i progetti sviluppati dall’istituto ci sono i sistemi di invisibilità dei velivoli Su-27 e Tu-160 e la partecipazione allo sviluppo del sistema missilistico Iskander. 

L'area dell'incendio era di circa 2,5 mila metri quadrati. L'incidente arriva a distanza di 24 ore dal lancio del nuovo missile intercontinentale, Sarmat, prodotto interamente in Russia e sul quale Vladimir Putin punta moltissimo. Quest’arma "non avrà pari al mondo per lungo tempo", ha detto il presidente russo, parlando di un’arma che "può penetrare ogni sistema di difesa presente o futura e che farà riflettere coloro che stanno minacciando la Russia".

Armi nucleari tattiche e «super bomba» Fab-3000, la Russia le userà davvero? L’aggiornamento militare sulla guerra in Ucraina. Andrea Marinelli e Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 16 Aprile 2022.

Washington e Kiev mettono in allerta la comunità internazionale, ma per non ci sono avvisaglie concrete. Più probabile il ricorso all’ordigno da 3 tonnellate su Mariupol: serve a colpire bunker e aree industriali, come quelle in cui è nascosta la resistenza. 

Nella guerra ucraina è il giorno delle «bombe»: dopo quelle vere, sganciate a tonnellate dall’inizio del conflitto, aleggia ora lo spettro di quelle non convenzionali e di quelle dalla grande capacità distruttiva. Le conseguenze «imprevedibili» promesse dalla Russia nel caso gli Stati Uniti e gli alleati della Nato continuino a fornire armi all’Ucraina hanno riportato la minaccia nucleare al centro del conflitto. Venerdì, in un’intervista alla Cnn, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha messo in guardia la comunità internazionale, sostenendo che l’esercito russo potrebbe usare armi nucleari. «Non ho paura, ma intendo essere preparato», ha detto. «Questo problema però non è solo dell’Ucraina, è del mondo intero». Anche il direttore della Cia William Burns ha sostenuto che «non bisogna prendere alla leggera il possibile ricorso di Putin alle armi nucleari». Dopo aver lanciato l’allarme, tuttavia, sia da Washington che da Kiev chiariscono che, al momento, non ci sono avvisaglie concrete di un attacco nucleare. «Per ora — ha affermato Burns — non vediamo segnali in questa direzione».

All’inizio del conflitto, il 27 febbraio, Putin aveva messo in allerta il sistema difensivo nucleare russo, mentre il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov aveva detto che, «nel caso di minaccia alla sicurezza nazionale», la Russia potrebbe usare «le forze di deterrenza nucleare». Quel gesto era stato interpretato però più come una mossa a effetto che come una reale minaccia, tanto che lo stesso ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov l’aveva sminuito nei giorni successivi. Sebbene non abbia notato nessun movimento che possa rinforzare la preoccupazione, il direttore della Cia spiega che l’agenzia monitora con attenzione e che questa è la principale responsabilità dei suoi uomini: gli insuccessi militari e una «potenziale disperazione», afferma, potrebbero spingere Vladimir Putin a utilizzare in Ucraina armi nucleari tattiche, meno potenti ma comunque devastanti.

A differenza dalle armi nucleari «strategiche» della Guerra fredda, con cui Stati Uniti e Russia potevano colpirsi a vicenda sparando direttamente dal proprio territorio e che erano usate come deterrente, quelle tattiche hanno una gittata minore e colpiscono su distanze più brevi. Sono ordigni più piccoli rispetto a quelli classici, con un raggio d’azione limitato, di circa un chilometro e mezzo, da usare in battaglia se l’Armata non dovesse riuscire a vincere con le armi convenzionali. Questa opzione, molto meno distruttiva rispetto alla bomba sganciata su Hiroshima, potrebbe anche essere un modo per «convincere» l’avversario a desistere, per provocare una «de-escalation» attraverso una «escalation»: è un’opzione tipica della dottrina militare russa, come nota lo stesso Burns.

I russi ne hanno circa 2 mila nei depositi, non pronte all’uso, ma anche i Paesi europei ne hanno un centinaio, stoccate in diverse basi, comprese quelle italiane di Ghedi e di Aviano. L’esercito russo può usare due sistemi per lanciarle: i missili Kalibr, lunghi 6,2 metri e sparati da terra o dal mare, che hanno una gittata di 1.500/2.500 chilometri, e il sistema Iskander-M, che parte da terra e ha una gittata di 400-500 chilometri. Esistono numerosi esemplari di armi tattiche nucleari, variano molto per grandezza e potenza: la carica della più piccola può arrivare a un chilotone, ovvero l’equivalente di mille tonnellate di Tnt, la più grande anche a 100 chilotoni. Gli effetti cambiano a seconda della taglia e del luogo della detonazione: quella che uccise 146 mila persone a Hiroshima, Little Boy, aveva una carica di 15 chilotoni.

Più probabile, al momento, che i russi sgancino una «super bomba» Fab-3000 su Mariupol, come sembrerebbero suggerire immagini non confermate diffuse nell’ultima settimana sui social network, che mostrano alcuni ordigni vicini ai bombardieri Tu-22M russi. Di progettazione sovietica, commissionata nel 1946, la Fab-3000 pesa 3 tonnellate — 3 mila chili appunto — e ha una massa esplosiva di 1.400 chili: ha un raggio di distruzione di circa 50 metri, ma le schegge possono colpire anche a 260, ed è concepita per distruggere aree industriali, urbane e portuali. È possibile che i russi vogliano usarla per colpire il porto di Mariupol e l’acciaieria Azovstav, nei cui tunnel sotterranei resta asserragliata la resistenza che difende la città da quasi due mesi.

È un’arma potente ma convenzionale, anti-bunker, già usata dall’Urss in Afghanistan negli anni Ottanta. Da allora era rimasta nei depositi militari, dove i russi l’avrebbero recuperata proprio per l’operazione «speciale» di Putin in Ucraina. Gli americani ne avevano usata una simile — la Moab, la madre di tutte le bombe — sempre in Afghanistan, per mandare un doppio messaggio: uno ai talebani, l’altro a Iran e Corea del Nord che proteggevano nei bunker il loro materiale strategico. Di certo, il possibile ricorso alla «super bomba» da parte dei russi è un segnale di cosa dobbiamo attenderci dalla seconda fase della guerra: una pioggia di missili, di qualsiasi tipo, rovesciata sulla testa degli ucraini, senza grande distinzione fra obiettivi militari e civili. È la strategia classica dell’Armata di Putin.

Le nuove armi inviate all’Ucraina e il «mistero» degli aerei da combattimento: sono stati inviati a Kiev, e da chi? Andrea Marinelli e Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2022.

La nuova fase degli aiuti militari: all’Ucraina non più sistemi difensivi, ma anche armi per l’assalto (e l’aiuto di addestratori occidentali) 

Un elicottero Mi-17

C’è l’International Donors Coordination Center, «nome» dietro al quale operano numerosi ufficiali britannici. E poi c’è Eucom, lo United States European Command. Entrambi sono basati in Germania, nella regione di Stoccarda: sono le due piattaforme senza le quali l’Ucraina non potrebbe resistere alle zampate dell’orso russo. Attraverso queste strutture, infatti, sono gestiti gli aiuti militari.

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina

La distinzione

L’Occidente ha messo in moto la macchina con lentezza. In principio c’è stata una fase di studio e di sorpresa, in quanto erano in molti a scommettere sulle possibilità dell’Ucraina di superare la prima spallata. Si faceva persino una distinzione tra armi «difensive» e «offensive», distinzione inesistente ma che alludeva al momento della crisi. Quando è scattata l’invasione sono stati mandati a Kiev soprattutto sistemi anti-carro e anti-aereo sufficienti a ostacolare l’avanzata (ecco le presunte armi difensive). Poi, pressati dalle richieste del presidente Zelensky e incoraggiati dalle difficoltà di Mosca, l’Ovest ha ampliato il piano d’assistenza con le «offensive», con le quali affrontare la sfida nel Donbass e, se possibile, liberare territori occupati.

All’inizio i donatori hanno prelevato nei depositi dei paesi dell’Est, quindi con il crescere delle esigenze belliche alcuni sono passati al gradino superiore mettendo a disposizione materiale più moderno. Proviamo a fare un elenco — parziale — con una nota: per motivi di opportunità, segretezza e politica non tutti vogliono ammettere ciò che hanno spedito. Molti vogliono evitare possibili rappresaglie russe, altri cercano di superare improbabili ostacoli legali — Mosca ha cercato di porre il veto sulla cessione di materiale venduto anni fa —, altri ancora preferiscono schivare contrasti interni. E nella pipeline finiscono anche le «offerte» di associazioni, gruppi di privati, sponsor: dai Paesi baltici ad alcune contee dell’Arizona, dove i dipartimenti di polizia e tribù di nativi hanno fatto la loro parte con giubbotti anti-proiettile, elmetti, kit medici, dotazioni varie. E poi c’è Elon Musk, che con la sua rete satellitare ha favorito le incursioni dei droni.

La lista

Stati Uniti: cannoni da 155 mm, vecchi blindati M-113, fuoristrada Humvee, radar per scoprire artiglierie, sistemi anti-tank Javelin e d’altro tipo, missili anti-aerei Stinger, munizioni in quantità, droni kamikaze Switchblade, apparati per le comunicazioni, equipaggiamenti, droni marittimi, battelli veloci, elicotteri Mi-17, razzi a guida laser, visori notturni. Dati di intelligence e info satellitari. Poi quello che non sappiamo. 

Gran Bretagna: blindati (Mastiff, Spartan, Wolfhound), veicoli leggeri, sistemi anti-aerei Stormer, missili Brimstone, anti-carro Nlaw. Si è ipotizzato anche artiglieria semovente, forse missili anti-nave. 

Turchia: droni d’attacco TB2. 

Australia: blindati Bushmaster ed equipaggiamenti. 

Canada: artiglieria pesante. 

Repubblica Ceca: riparazione dei mezzi, semoventi, tank T-72, blindati. 

Norvegia: missili anti-aerei Mistral, piccoli droni da ricognizione Heidrun . 

Estonia: cannoni a lunga gittata, da 122 mm. 

Slovacchia: sistemi anti-aerei S-300, semoventi Zuzana, corazzati. Possibile transito di mezzi consegnati dall’Ungheria . 

Olanda, Italia, Lussemburgo, Spagna, Svezia: mitragliatrici, anti-carro AT-4, veicoli, radar per individuare i cannoni. 

Giappone: elmetti, giubbotti anti-proiettile, materiale medico. 

Germania: ha messo a disposizione degli anti-tank Panzerfaust. Berlino si è presa del tempo sulla fornitura di blindati (sono in deposito) e questo ha irritato non pochi gli ucraini. La ministra degli Esteri Annalena Baerbock ha spiegato che la Germania preferisce tuttavia non rendere pubblici gli aiuti, mentre il cancelliere Olaf Scholz si è offerto di finanziare gli ucraini per l’acquisto di armi prodotte in Germania. 

Polonia: probabile invio di carri armati e di altro materiale «pesante», pezzi di ricambio, missili per i caccia. 

Bulgaria: il governo ha annunciato che non avrebbe dato armi, ma fonti dell’opposizione lo accusano di forniture e vendite sottobanco. Del resto il Paese ha un’industria bellica molto attiva.

Gli aerei

Quello degli aerei è una sorta di «mistero». Con infinite versioni e tanti si dice. Zelensky ha invocato i caccia, ma Washington ha resistito per evitare nuovi contrasti con la Russia e perché alcuni ritenevano che non fossero sufficienti a cambiare le condizioni sul campo. Poi, come per altri apparati, il niet è diventato meno netto, pur avvolto nell’ambiguità. 

Gli ucraini avrebbero ricevuto qualche Mig-29, d’origine polacca e altri — ma è solo una voce — appartenuti alla Moldavia e finiti da anni negli Stati Uniti. Sono macchine anziane, al limite dell’operabilità — qui c’è una guerra, non una parata —, tanto che gli esperti ritengono che siano usati per i ricambi. La classica cannibalizzazione, non a caso la linea ufficiale del governo locale è che di aerei non sono arrivati. 

Piuttosto confusa la ricostruzione da parte del Pentagono. Martedì ha sostenuto che l’Ucraina aveva più aerei ora che due settimane fa e il portavoce John Kirby non ha rivelato chi è stato a fornirli: non sono stati gli Stati Uniti, che hanno solo aiutato nel trasferimento di pezzi di ricambio. Mercoledì altra precisazione statunitense: nessuno ha inviato aerei, solo componenti. Un valzer che sembra nascondere altro.

L’addestramento e la logistica

«Siamo grati per quello che stiamo ricevendo dal primo ministro britannico Boris Johnson e dagli Stati Uniti, ma è un po’ tardi», ha detto al Washington Post il comandante di un’unità ucraina impegnata al fronte nel Donbass, i cui soldati sono stati addestrati dalla Nato, partecipando a esercitazioni multinazionali: fanno parte di una nuova generazione di ufficiali ucraini che si allontano dalla tradizione militare sovietica, spiega il Post. Le forze di Kiev stanno passando infatti dalle armi di progettazione sovietica — di cui i Paesi occidentali non hanno scorte illimitate — a un arsenale occidentale, come i cannoni howitzer o i droni Switchblade, per il quale serve un addestramento di qualche giorno.

Sono sempre di più, quindi, i Paesi che cominciano ad ammettere il training degli ucraini: dopo gli Stati Uniti, è stato il turno della Gran Bretagna, che inviato membri delle forze speciali nell’area di Kiev, e poi la stessa Germania, come ha lasciato trapelare la ministra Baerbock. È uno sforzo logistico immenso, scrive Forbes: quando gli ucraini finiranno le munizioni dei sistemi russi, Kiev dovrà passare alle artiglierie di concezione occidentale. Anche perché gran parte delle munizioni fornite dalla Nato non è compatibile con i sistemi di Mosca. Zelensky ha affermato che con più armi a disposizione del suo esercito il conflitto sarebbe già finito: non abbiamo la contro-prova, ma di sicuro entra in una nuova fase.

IL PUNTO MILITARE GIORNO PER GIORNO

19 aprile - Bombardamenti, meteo, logistica: il ruolo dell’artiglieria nell’offensiva russa

18 aprile - Cosa aspettarci dalle prossime settimane di guerra?

18 aprile - Moskva, cosa ci dicono le prime foto dell’incrociatore russo affondato dai missili ucraini

17 aprile - Perché Mariupol è così importante per i russi e perché la sua caduta può cambiare gli equilibri della guerra

17 aprile - Che fine hanno fatto i marinai del Moskva: il video della Difesa russa è vecchio?

16 aprile - Armi nucleari tattiche e «super bomba» Fab-3000, la Russia le userà davvero?

15 aprile - Cosa sappiamo sul Moskva, l’incrociatore colpito e affondato da missili ucraini

15 aprile - La Russia minaccia le forniture di armi dagli Usa, che arrivano attraverso Polonia e Slovacchia

14 aprile - I tre fattori della fase due conflitto: sorpresa, forza, armi

14 aprile - Colpita la Moskva, la nave ammiraglia della flotta russa nel Mar nero

14 aprile - La battaglia delle spie: dopo le espulsioni, a Mosca restano gli 007 illegali»

13 aprile - Gli Usa con l’invio di nuove armi all’Ucraina hanno fatto un passo avanti?

12 aprile - I russi hanno davvero usato armi chimiche a Mariupol?

11 aprile - È possibile difendere il Donbass? I vantaggi russi e quelli ucraini

10 aprile - La Transnistria, il convoglio di 12 chilometri verso sud e le prossime mosse della Russia

9 aprile - Addestramento, attiche, esercito digitale: gli ucraini sono stati sottovalutati (non solo dai russi)

8 aprile - L’ultima trincea di Mariupol: i tunnel sovietici dell’acciaieria Azovstal

7 aprile - Quali sono e come arrivano le armi della Nato in Ucraina?

6 aprile - La resistenza della Prima Brigata di Kiev, l’unità che ha fermato i russi

5 aprile - Il doppio binario della Bielorussia: la retrovia dei russi e la sfida dei sabotaggi

4 aprile - I russi si muovono a sud e verso la Bielorussia, pronte le reclute

3 aprile - Così la Cia aiutò gli ucraini a difendere Kiev, sventando il piano per uccidere Zelensky

2 aprile - Quali sono le armi che Biden «trasferirà» all’Ucraina

2 aprile - Biden e i carri armati all’Ucraina: perché la decisione Usa è una svolta

1 aprile - Gli ucraini possono contrattaccare, ma hanno bisogno di altre armi

31 marzo - Putin cerca la vittoria «sporca» e intanto pensa ad armi e logistica

30 marzo - Il piano dei russi: circondare Mariupol e costringere gli ucraini alla resa

29 marzo - A Kiev i russi «riducono la presenza», ora si gioca la partita delle retrovie

28 marzo - Sistemi non criptati e cellulari rubati, tutti i problemi di comunicazione dei russi

27 marzo - Gli ucraini chiedono tank e aerei e ora la Nato considera una svolta nelle forniture

26 marzo - I russi entrano in una nuova fase, ma in una parola c’è il futuro del conflitto

26 marzo - Ombre, social network, pubblicità geolocalizzate: la guerra e la «pesca delle spie»

25 marzo - I russi dichiarano di aver raggiunto i primi obiettivi, mezza vittoria o mezzo insuccesso?

24 marzo - Adesso i russi al fronte chiedono soldati esperti

23 marzo - L’Armata della Russia è nel pantano: l’Ucraina si prepara a respingerla?

23 marzo - Armi difensive o offensive? La linea sottile delle forniture all’Ucraina

22 marzo - La «rivoluzionaria» guerra d’intelligence: così gli Usa guidano le mosse degli ucraini (con i satelliti)

21 marzo - L’assedio di Mariupol riassume il dilemma di Putin e Zelensky

20 marzo - I missili russi dal fronte del mare, a terra trincee e bombe sulle città

19 marzo - Putin manda messaggi politici con i missili

18 marzo - I russi colpiscono a Leopoli, la battaglia si combatte sui rifornimenti di armi

17 marzo - L’avanzata russa è in stallo, il peso di armi e training americani

16 marzo - Russi a corto di uomini e tattiche, Putin sta cercando una via d’uscita?

15 marzo - Quando finirà la guerra in Ucraina? Due scenari opposti

14 marzo - I russi minacciano i convogli di armi occidentali, ma non sono in grado di colpirli

13 marzo - Gli errori dei russi e gli obiettivi degli attacchi, anche a ovest

12 marzo - I russi puntano gli aeroporti militari e minacciano i convogli di armi occidentali

11 marzo - I russi si riorganizzano (ma un terzo generale è stato ucciso)

10 marzo - Russia e Stati Uniti si sfidano sulle armi biologiche

9 marzo - Perché Mosca non è riuscita a imporre la superiorità aerea?

8 marzo - L’avanzata russa e il generale Gerasimov ucciso: l’aggiornamento militare

7 marzo - Il bilancio (incerto) di vittime e mezzi distrutti

6 marzo - La mappa dell’invasione russa: esercito in pausa, bombe sui civili

2 marzo - Mosca bombarda gli edifici nelle città: l’aggiornamento militare

1 marzo - La mappa dell’avanzata russa in Ucraina: colpite le città, vittime civili

28 febbraio - Le bombe su Kharkiv sono un cambio di strategia, in Ucraina?

27 febbraio - Kiev, Kharkiv e Chernhiv resistono all’offensiva

26 febbraio - Perché l’avanzata della Russia ha rallentato, in Ucraina?

25 febbraio - La mappa dell’invasione russa e le truppe alle porte di Kiev

24 febbraio - Invasione dell’Ucraina, la mappa dell’attacco: così le truppe russe hanno invaso via terra, mare e cielo

E-commerce bellico. Come funziona la logistica dei rifornimenti di armi all’Ucraina. Linkiesta l'8 aprile 2022.

Un convoglio viaggia mediamente tra i 4 e i 6 giorni per consegnare il materiale alla resistenza al fronte. Un articolo del Corriere della Sera spiega che le armi statunitensi difficilmente si muovono dal suolo americano: l’esercito di Washington raccoglie le scorte nelle sue basi dislocate perlopiù in Europa e porta tutto il materiale in Polonia, Romania o Slovacchia. Poi vengono divise in convogli più piccoli e ci si affida all’intelligence per capire cosa spedire e in quale area.  

L’Occidente è schierato al fianco dell’Ucraina, non solo a parole. Gli Stati Uniti e gli alleati europei stanno inviando armi a Kiev per aiutare la resistenza contro un’invasione scellerata. L’amministrazione americana si è espressa a favore di equipaggiamenti pesanti, soprattutto tank e artiglieria. Al suo fianco ci sono Regno Unito e Paesi baltici; Francia, Turchia, Germania sono più prudenti.

Un articolo del Corriere della Sera firmato da Andrea Marinelli e Guido Olimpio ricorda che «ci vogliono fra i 4 e i 6 giorni per consegnare armi in Ucraina», come ha confermato mercoledì il portavoce del Pentagono John Kirby. È una filiera che funziona come se fosse la logistica di un comunissimo e-commerce, solo che trasporta missili anti-aereo Stinger e Javelin anti-carro.

Le armi statunitensi difficilmente si muovono dal suolo americano: l’esercito di Washington raccoglie le scorte nelle sue basi dislocate perlopiù in Europa e porta tutto il materiale in Polonia, Romania o Slovacchia, in una tratta che può essere lunga anche mille chilometri.

Poi bisogna attraversare il confine per arrivare nelle città ucraine vicine alle zone di combattimento: «In questo caso tutte le informazioni delle spedizioni restano riservate fin tanto che nessuno lo scopre. Questi convogli possono essere obiettivi facilmente identificabili dai russi, quindi vengono frazionati in spedizioni piccole», scrive il Corriere.

L’ultimo miglio è chiaramente il più complicato: le spedizioni, si legge nell’articolo, vengono divise in convogli ancora più piccoli che necessitano di ulteriore protezione, e ci si affida all’intelligence per capire cosa spedire e in quale area. Infine c’è la distribuzione alle singole unità, dell’esercito e della Territoriale.

Le nuove armi hanno bisogno di conoscenze, know-how e consapevolezza nell’utilizzo. Come scrivevamo il mese scorso qui a Linkiesta, gli ucraini hanno dimostrato di essere sufficientemente addestrati per adattarsi a nuovo equipaggiamento in tempi brevi. Sicuramente ha aiutato il sistema di riserve a più livelli messo in atto dopo il 2014: l’esercito è affiancato alla guardia nazionale (900mila soldati che hanno già servito nelle forze armate, di cui 400mila in Donbass) e dalla guardia territoriale, garantendo quindi che competenze e preparazione militare fossero più o meno diffuse in tutta la società alla vigilia della mobilitazione generale. L’esperienza della guerra 2014-2022 nell’est del Paese è anche stata valorizzata tramite nuovi sistemi per assorbire le lessons learned nel maggior numero possibile di unità.

Ma è anche vero che per la prima volta martedì scorso, il segretario alla Difesa Lloyd Austin ha ammesso in un’audizione alla Camera che il Pentagono addestra soldati sul territorio americano, per insegnare loro a usare lo Switchblade, il drone-kamikaze usa e getta che si schianta contro gli obiettivi nemici.

Prima di questa rivelazione di Austin, l’unica informazione pubblica circa l’addestramento di combattenti ucraini era il programma di addestramento che la Cia ha portato avanti nel Paese europeo dal 2015 fino all’invasione russa, quando ha evacuato tutto il personale americano.

«Ora – si legge sul Corriere della Sera – è arrivata la nuova indicazione sul team presente in terra statunitense. Il programma di addestramento è cominciato in autunno ed è tuttora in corso in una non meglio identificata base americana nel Sud degli Stati Uniti».

La Slovacchia fornisce a Kiev le batterie contro jet e missili. Il Corriere della Sera il 10 Aprile 2022.

La Slovacchia ha fornito all'Ucraina il suo sistema di difesa aerea S-300, di fabbricazione sovietica, ereditato dopo lo scioglimento della Cecoslovacchia nel 1993. È uno dei moduli di difesa antiaerea a lungo raggio più diffusi al mondo. Consente di abbattere aerei, missili da crociera e missili balistici e copre una distanza massima di 250 chilometri. L'S-300 è difficile da localizzare e distruggere in quanto i sistemi di lancio possono essere posti fino a 40 chilometri di distanza dalle piattaforme radar e di comando. Seppure oggi superati dagli S-400, gli S-300 costituiscono ancora un cardine della difesa antiaerea di nazioni come Cina, India, Egitto, India, Iran, Venezuela, e Siria. In Europa ne fanno uso Grecia e Bulgaria.

Bombe alla termite, ecco cosa sono: i russi le sganciano nel Lugansk, micidiali. Il Tempo il 09 aprile 2022.  

Bombe alla termite lanciate dai russi nella città di Popasna, nel Lugansk. La denuncia arriva su alcuni canali Telegram ucraini secondo cui queste bombe sono state lanciate attraverso il lanciarazzi MLRS (Multiple Launch Rocket System), il sistema più pesante, complesso e potente sviluppato dall'industria militare occidentale. Già nelle scorse settimane il capo della polizia di Popasna, Oleksi Bilochytsky, ha accusato l'esercito russo di aver bombardato la città con ordigni al fosforo: "Stanno scatenando sulle nostre città sofferenze indescrivibili e incendi", aveva detto Bilochytsky. Sia le bombe alla termite che quelle al fosforo rientrano nella definizione di armi incendiarie vietata dalla Convenzione delle Nazioni Unite firmata a Ginevra nel 1980 e sottoscritta anche dalla Russia nel 1981.

Cos’è il missile ipersonico Hawc (Hypersonic Air-breathing Weapon Concept) testato dagli Usa. Paolo Ottolina su Il Corriere della Sera l'8 aprile 2022.

Ha viaggiato oltre Mach 5 (cinque volte la velocità del suono) ma per un breve tempo. I russi sono più avanti: nel loro arsenale almeno già 3 armi ipersoniche.

Che cos’è il progetto ipersonico Hawc

È di tre giorni fa l’annuncio che Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia svilupperanno insieme nuovi missili ipersonici. Ma che cosa sono i missili ipersonici e come funziona quello testato dagli americani all’interno del progetto Hawc, Hypersonic Air-breathing Weapon Concept? La Cnn ha rivelato che è stato effettuato un secondo lancio di questa nuova arma, avvenuto a metà marzo ma non divulgato subito per evitare un’ulteriore escalation con la Russia.

Si parla di razzi ipersonici quando la velocità alla quale possono viaggiare è almeno Mach 5 (6.174 chilometri orari, cinque volte la velocità del suono). Durante l’invasione dell’Ucraina, i russi hanno già usato un’arma simile: il razzo Kinzhal che secondo il governo di Mosca ha distrutto un deposito sotterraneo ucraino (alcuni analisti hanno avanzato dubbi sul vero obiettivo).

Il progetto statunitense Hawc (acronimo che richiama la parola inglese “falco”, “hawk”) è sviluppato dalla Darpa (Defense Advanced Research Projects Agency), dall’Afrl (Air Force Research Lab) e da appaltatori privati, le aziende Lockheed Martin e Aerojet Rocketdyne. Vediamo come funziona e perché le potenze mondiali stanno investendo sempre più fondi nella ricerca di queste nuove armi.

Hawc: quanto ha volato

Il missile Hawc è stato trasportato da un bombardiere B-52 al largo della costa occidentale degli Stati Uniti e poi è partito, volando a velocità ipersoniche. Si è trattato di un test del primo prototipo costruito da Lockheed Martin e il test è stato realizzato per verificare la capacità del razzo e del sistema di propulsione (creato da Aerojet Rocketdyne) di raggiungere e mantenere per un tempo sufficiente velocità superiori a Mach 5. Secondo le informazioni il missile Hypersonic Air-breathing Weapon Concept ha raggiunto una quota superiore a 65.000 piedi (19.800 metri) e ha volato per oltre 300 miglia nautiche (555 chilometri). Parlando di velocità molto elevate il volo è stato breve, intorno ai 5 minuti.

Cos’è il motore Scramjet

Gli Stati Uniti hanno diversi progetti per sistemi missilistici ipersonici e l’Hawc è quello che più si avvicina e sfrutta tecnologie pionieristiche come quelle del mezzo aerospaziale X-30 o dell’X-51 Waverider. La tecnologia ipersonica sfrutta un sistema di propulsione che “respira l’aria” (l’«air breathing» dell’acronimo Hypersonic Air-breathing Weapon Concept): non serve trasportare l’ossidante per la combuzione, cosa che riduce il peso al lancio (e permette di aumentare l’eventuale carico che il missile può portare).

Lo statoreattore (ramjet, in inglese) è un motore a reazione semplice perché, a differenza dei turbogetti, non ha compressore e turbina. Lo Scramjet (supersonic combustion ramjet) è un motore a reazione derivato concettualmente dal ramjet. Le sfide tecnologiche per far funzionare questo sistema sono notevoli, legate alle velocità raggiunte: quando si va sopra Mach 5 i problemi di tenuta strutturale crescono moltissimo per le sollecitazioni delle forze aerodinamiche e la cosidetta “temperatura di ristagno”, misurata sulla superficie della struttura, può aumentare fino a 20 volte e toccare anche i 2.500 gradi.

I motori scramjet non sono un’idea recente: già nel 1958, uno dei primi progetti della Nasa (appena creata) fu proprio l’Hypersonic Airbreathing Propulsion Branch, rivolto allo studio della propulsione ramjet/scramjet.

Portano anche testate atomiche

A partire dell’inizio del XXI secolo, diversi Paesi hanno lavorato sullo sviluppo di scramjet affidabili ed efficienti. Come ricorda Guido Olimpio, la caratteristica principale di un missile ipersonico non sta solo nella velocità ma anche nella manovrabilità: diventa molto più difficile da intercettare. La contraerea – sempre che abbia i mezzi adeguati – ha tempi di reazione ridotti. Inoltre i sensori di cui è dotato l’ordigno assicurano una maggiore precisione. La notizia peggiore: questi strumenti di distruzione possono anche essere dotati di una carica nucleare.

Armi ipersoniche: quali Paesi le hanno già

Gli Stati Uniti e i suoi alleati sono piuttosto indietro rispetto ad altri Paesi, come la già citata Russia che ha nei suoi arsenali al momento almeno tre sistemi di armi ipersoniche. Oltre al già citato Kinzhal, un missile balistico manovrabile lanciato dall’aria, ci sono anche i missili balistici Avangard e il missile da crociera Zircon. L’Avanguard in particolare è un veicolo planante ipersonico lanciato da un missile balistico intercontinentale, la cui portata è considerata pressoché illimitata.

La Cina ha condotto una serie di test su armi ipersoniche,m come il DF-17, un missile balistico a medio raggio o come il sistema Starry Sky-2, prototipo di veicolo ipersonico con capacità nucleare, testato nell’agosto 2018 e che potrebbe essere operativo entro il 2025.

Anche altri stanno sviluppando tecnologie ipersoniche: nell’elenco ci sono Australia, Francia, Germania, Giappone, India e Corea del Nord. 

Carlo Tecce per espresso.repubblica.it il 7 aprile 2022.

Le brutte notizie sono buoni affari per l’industria delle armi. E già prima della guerra in Ucraina, lo scorso anno, l’industria italiana delle armi ha ripreso la crescita lievemente intaccata dalla pandemia. Il governo italiano ha autorizzato nel 2021 l’esportazione e l’importazione di materiale bellico per un totale di 5,340 miliardi di euro (4,821 nel 2020) di cui 4,661 miliardi in uscita (4,647 nel 2020) e 679 milioni in entrata (174 nel 2020). È il picco dal 2017.

Ogni annotazione e ogni dettaglio sono disseminati nella voluminosa relazione che il governo di Mario Draghi ha appena trasmesso alle Camere per l’approvazione e che L’Espresso ha consultato in anteprima. 

Acquistare una nave da guerra è ben diverso che acquistare un’utilitaria. I contratti si attuano con gradualità. Gli effetti si vedono nel lungo periodo. Perciò il dato più significativo lo si ricava dalle verifiche del ministero del Tesoro. «Nel corso del 2021 sono state effettuate dagli operatori bancari - si legge nel documento - 17.931 comunicazioni inerenti a transazioni bancarie per operazioni di esportazione, importazione e transito di materiali di armamento per un importo complessivamente movimentato pari a oltre 14 miliardi di euro». Nel 2020 erano 7,8 miliardi.

Circa la metà delle esportazioni – dunque il 52 per cento dei 4,666 miliardi citati in precedenza – è verso paesi aderenti all’alleanza militare Nato. Il resto va a rinforzare eserciti potenziali amici o nemici proprio della Nato. 

L’italiana Leonardo è padrona del mercato con una quota del 43,35 per cento. Quest’anno va fuori dal podio Fincantieri, altra multinazionale a controllo statale. Al secondo posto con il 23,48 per cento troviamo la Iveco Defence Vehicles che fa riferimento a Exor della famiglia Agnelli/Elkann (proprietaria anche del gruppo editoriale Gedi). 

I numeri delle importazioni sono parziali, non esaustivi, perché non contemplano i rapporti con i paesi dell’Unione europea. I 679 milioni di euro registrati nel 2021 sono una cifra molta alta, in parte composta dai 271 milioni spesi in Gran Bretagna, oggi annoverata nella lista perché ex membro Ue. Degne di menzione anche le compere militari in Svizzera per 65 milioni di euro.

Il fatturato italiano delle armi spiega come va l’industria bellica, ma anche dove va la geopolitica, difatti l’Autorità preposta alle autorizzazioni (in sigla Uama) è ubicata al ministero degli Esteri. 

Adesso il primo cliente di Roma è il Qatar con 813,5 milioni di euro. La monarchia assoluta ricca di metano e petrolio ha scalzato il regime militare dell’Egitto, precipitato in 18esima posizione dopo gli oltre 1,5 miliardi di euro investiti in Italia nell’ultimo biennio. Nella classifica del 2021, seguono Stati Uniti (762 milioni), Francia (305), Germania (262), Pakistan (203). Rilevanti le commesse di Malesia e Filippine.

Oggi il Qatar per il gas è un interlocutore necessario di Roma che ha l’esigenza di sottrarsi ai ricatti della Russia. Però la famiglia dei sovrani Al Thani ha relazioni complicate con i vicini della penisola del Golfo, con gli Emirati Arabi Uniti e soprattutto con l’Arabia Saudita. Stare con gli uni e con gli altri è opera complessa pure per l’Italia. 

In sintesi: più armi ai qatarini, meno armi ai sauditi. Lo scorso anno, dopo una risoluzione votata dai parlamentari col secondo governo di Giuseppe Conte e ritardi non più tollerabili, l’esecutivo di Draghi ha annullato l’esportazione negli Emirati Arabi e in Arabia Saudita di missili e bombe utilizzate nel conflitto civile nello Yemen.

Il nullaosta fu concesso tra il 2016 e il 2018 dai governi di Paolo Gentiloni e Matteo Renzi e riguardava la filiale sarda dell’azienda tedesca Rwm. Draghi ha cancellato forniture di Rwm per 328 milioni di euro, ma di recente emiratini e sauditi hanno sottoscritto nuovi accordi per nuove 52 licenze dal valore di oltre 100 milioni di euro nel solo 2021. Si fa sempre in tempo a rimediare. 

Armi, gran bazar Italia: flussi di denaro per oltre 14 miliardi di euro. Carlo Tecce su La Repubblica il 16 Aprile 2022.

Raddoppiano le operazioni bancarie di materiale bellico che entra, che esce e che transita. Roma si conferma uno snodo mondiale. Le esportazioni crescono utilizzando le procedure semplificate. Qatar è il primo cliente. Affari anche con la Cina e la Serbia (inviato esplosivo). E una piccola commessa finisce in Vaticano. Ecco tutti i numeri del 2021.

La palla è tonda. A volte pure la notizia lo è. L’Italia non sarà campione del mondo in Qatar, però sappiate, se vi consola, che il Qatar è campione del mondo in Italia. Il paese del golfo Persico, meno popolato di Roma e meno esteso della Calabria, è il primo cliente dell’industria bellica italiana con 813,5 milioni di euro spesi nel 2021.

Carlo Tecce per espresso.repubblica.it il 15 aprile 2022.

Ogni anno fa indignare la vendita di armi italiane a stati non democratici o addirittura coinvolti in conflitti. Però l’indignazione è soprattutto politica. 

Per esempio l’africano Ciad non scalda i sentimenti, lì otto cittadini su dieci sono sotto la soglia di povertà e uno su due non ha acqua da bere. Bisogna sapere bene come e dove collocare l’indignazione. Ci aiuta la relazione che il governo ha inviato alle Camere e che L’Espresso ha consultato in anteprima una settimana fa. 

I monarchi della penisola del Golfo fanno indignare parecchio. Di più l’Arabia Saudita per la compressione della libertà.

Il barbaro omicidio su commissione principesca del giornalista dissidente Jamal Khashoggi (2 ottobre 2018) fu un evento traumatico. Allora i partiti italiani, dopo un paio di anni di indifferenza, si indignarono per l’Arabia Saudita e i vicini Emirati Arabi Uniti che nella guerra civile in Yemen (19 marzo 2015) usavano bombe fabbricate in Sardegna dai tedeschi di Rwm. 

Dunque il 26 giugno 2019 alla Camera fu approvata una mozione che impegnava il governo Conte I a sospendere le spedizioni verso Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti.

Però chi aveva autorizzato Rwm a fornire i carichi di bombe poi utilizzate in Yemen? Ecco le licenze nel dettaglio: 28 gennaio 2016, governo Renzi, valore 411 milioni di euro per l’Arabia Saudita; 16 gennaio 2018, governo Gentiloni, valore 13,4 milioni per l’Arabia Saudita; 17 dicembre 2018, governo Conte I, 34,5 milioni per gli Emirati Arabi Uniti.

Quando la mozione stava per esaurire i suoi effetti, il 21 dicembre 2020, la Camera approvò una risoluzione per revocare (non più sospendere) la vendita di bombe a emiratini e sauditi. Il governo Conte II si adeguò. Così l’Italia, par di capire, ha smesso il 26 giugno 2019 di esportare materiale bellico in Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti? Macché. I sauditi hanno aumentato le importazioni di armi italiane proprio con i governi di Conte (giugno 2018/febbraio 2021): 13,4 milioni nel 2018, 105,4 milioni nel 2019, 144,4 milioni nel 2020. Gli emiratini sono più irregolari: 220,4 milioni di euro nel 2018, 89,9 milioni nel 2019, 117,6 milioni nel 2020.

Lo scorso anno, in gran parte da attribuire a Draghi, Arabia Saudita e Emirati Arabi hanno attivato 56 nuove licenze per oltre 100 milioni di euro (dato in calo) e di recente i reali sauditi hanno prenotato una ventina di elicotteri da Leonardo per trasporto e soccorso. Che fatica indignarsi da un lato solo.

Da Renzi a Conte fino a Draghi: l’Italia non ha mai smesso di armare l’Arabia Saudita. Carlo Tecce su La Repubblica il 15 Aprile 2022.

Dopo lo sdegno per la barbara uccisione del giornalista dissidente Khashoggi, Roma bloccò la spedizione di bombe per Arabia Saudita e Emirati Arabi coinvolti nella guerra in Yemen. Però le commesse belliche non si sono mai fermate, anzi sono aumentate con il capo dei Cinque Stelle al governo.

Ogni anno fa indignare la vendita di armi italiane a stati non democratici o addirittura coinvolti in conflitti. Però l’indignazione è soprattutto politica. Per esempio l’africano Ciad non scalda i sentimenti, lì otto cittadini su dieci sono sotto la soglia di povertà e uno su due non ha acqua da bere. Bisogna sapere bene come e dove collocare l’indignazione. Ci aiuta la relazione che il governo ha inviato alle Camere e che L’Espresso ha consultato in anteprima una settimana fa.

I monarchi della penisola del Golfo fanno indignare parecchio. Di più l’Arabia Saudita per la compressione della libertà.

Il barbaro omicidio su commissione principesca del giornalista dissidente Jamal Khashoggi (2 ottobre 2018) fu un evento traumatico. Allora i partiti italiani, dopo un paio di anni di indifferenza, si indignarono per l’Arabia Saudita e i vicini Emirati Arabi Uniti che nella guerra civile in Yemen (19 marzo 2015) usavano bombe fabbricate in Sardegna dai tedeschi di Rwm.

Dunque il 26 giugno 2019 alla Camera fu approvata una mozione che impegnava il governo Conte I a sospendere le spedizioni verso Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti.

Però chi aveva autorizzato Rwm a fornire i carichi di bombe poi utilizzate in Yemen? Ecco le licenze nel dettaglio: 28 gennaio 2016, governo Renzi, valore 411 milioni di euro per l’Arabia Saudita; 16 gennaio 2018, governo Gentiloni, valore 13,4 milioni per l’Arabia Saudita; 17 dicembre 2018, governo Conte I, 34,5 milioni per gli Emirati Arabi Uniti.

Quando la mozione stava per esaurire i suoi effetti, il 21 dicembre 2020, la Camera approvò una risoluzione per revocare (non più sospendere) la vendita di bombe a emiratini e sauditi. Il governo Conte II si adeguò. Così l’Italia, par di capire, ha smesso il 26 giugno 2019 di esportare materiale bellico in Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti? Macché. I sauditi hanno aumentato le importazioni di armi italiane proprio con i governi di Conte (giugno 2018/febbraio 2021): 13,4 milioni nel 2018, 105,4 milioni nel 2019, 144,4 milioni nel 2020. Gli emiratini sono più irregolari: 220,4 milioni di euro nel 2018, 89,9 milioni nel 2019, 117,6 milioni nel 2020.

Lo scorso anno, in gran parte da attribuire a Draghi, Arabia Saudita e Emirati Arabi hanno attivato 56 nuove licenze per oltre 100 milioni di euro (dato in calo) e di recente i reali sauditi hanno prenotato una ventina di elicotteri da Leonardo per trasporto e soccorso. Che fatica indignarsi da un lato solo.

Crescono le vendite delle armi italiane nel 2021. E il primo cliente è il Qatar. Roma ha esportato materiale bellico per 4,6 miliardi di euro l’anno scorso e sui conti bancari ci sono stati movimenti in entrate e in uscita per 14 miliardi (il doppio del 2020). Dai nuovi rapporti con l’Arabia Saudita alle commesse in Svizzera, ecco in anteprima tutti i dettagli nel documento del governo. Carlo Tecce su L'Espresso il 7 aprile 2022.

Le brutte notizie sono buoni affari per l’industria delle armi. E già prima della guerra in Ucraina, lo scorso anno, l’industria italiana delle armi ha ripreso la crescita lievemente intaccata dalla pandemia. Il governo italiano ha autorizzato nel 2021 l’esportazione e l’importazione di materiale bellico per un totale di 5,340 miliardi di euro (4,821 nel 2020) di cui 4,661 miliardi in uscita (4,647 nel 2020) e 679 milioni in entrata (174 nel 2020). È il picco dal 2017.

Ogni annotazione e ogni dettaglio sono disseminati nella voluminosa relazione che il governo di Mario Draghi ha appena trasmesso alle Camere per l’approvazione e che L’Espresso ha consultato in anteprima.

Acquistare una nave da guerra è ben diverso che acquistare un’utilitaria. I contratti si attuano con gradualità. Gli effetti si vedono nel lungo periodo. Perciò il dato più significativo lo si ricava dalle verifiche del ministero del Tesoro. «Nel corso del 2021 sono state effettuate dagli operatori bancari - si legge nel documento - 17.931 comunicazioni inerenti a transazioni bancarie per operazioni di esportazione, importazione e transito di materiali di armamento per un importo complessivamente movimentato pari a oltre 14 miliardi di euro». Nel 2020 erano 7,8 miliardi.

Circa la metà delle esportazioni – dunque il 52 per cento dei 4,666 miliardi citati in precedenza – è verso paesi aderenti all’alleanza militare Nato. Il resto va a rinforzare eserciti potenziali amici o nemici proprio della Nato.

L’italiana Leonardo è padrona del mercato con una quota del 43,35 per cento. Quest’anno va fuori dal podio Fincantieri, altra multinazionale a controllo statale. Al secondo posto con il 23,48 per cento troviamo la Iveco Defence Vehicles che fa riferimento a Exor della famiglia Agnelli/Elkann (proprietaria anche del gruppo editoriale Gedi).

I numeri delle importazioni sono parziali, non esaustivi, perché non contemplano i rapporti con i paesi dell’Unione europea. I 679 milioni di euro registrati nel 2021 sono una cifra molta alta, in parte composta dai 271 milioni spesi in Gran Bretagna, oggi annoverata nella lista perché ex membro Ue. Degne di menzione anche le compere militari in Svizzera per 65 milioni di euro.

Il fatturato italiano delle armi spiega come va l’industria bellica, ma anche dove va la geopolitica, difatti l’Autorità preposta alle autorizzazioni (in sigla Uama) è ubicata al ministero degli Esteri.

Adesso il primo cliente di Roma è il Qatar con 813,5 milioni di euro. La monarchia assoluta ricca di metano e petrolio ha scalzato il regime militare dell’Egitto, precipitato in 18esima posizione dopo gli oltre 1,5 miliardi di euro investiti in Italia nell’ultimo biennio. Nella classifica del 2021, seguono Stati Uniti (762 milioni), Francia (305), Germania (262), Pakistan (203). Rilevanti le commesse di Malesia e Filippine.

Oggi il Qatar per il gas è un interlocutore necessario di Roma che ha l’esigenza di sottrarsi ai ricatti della Russia. Però la famiglia dei sovrani Al Thani ha relazioni complicate con i vicini della penisola del Golfo, con gli Emirati Arabi Uniti e soprattutto con l’Arabia Saudita. Stare con gli uni e con gli altri è opera complessa pure per l’Italia. In sintesi: più armi ai qatarini, meno armi ai sauditi. Lo scorso anno, dopo una risoluzione votata dai parlamentari col secondo governo di Giuseppe Conte e ritardi non più tollerabili, l’esecutivo di Draghi ha annullato l’esportazione negli Emirati Arabi e in Arabia Saudita di missili e bombe utilizzate nel conflitto civile nello Yemen. Il nullaosta fu concesso tra il 2016 e il 2018 dai governi di Paolo Gentiloni e Matteo Renzi e riguardava la filiale sarda dell’azienda tedesca Rwm. Draghi ha cancellato forniture di Rwm per 328 milioni di euro, ma di recente emiratini e sauditi hanno sottoscritto nuovi accordi per nuove 52 licenze dal valore di oltre 100 milioni di euro nel solo 2021. Si fa sempre in tempo a rimediare. 

Pom-3, le "mine intelligenti" che distinguono uomini e animali: l'arma dell'orrore in mano ai russi. Libero Quotidiano l'08 aprile 2022.

Mine "intelligenti", in grado di esplodere anche senza essere direttamente calpestate: è questa la nuova pericolosa arma nelle mani dei russi in Ucraina. Queste mine, il cui nome tecnico è "Pom-3", avrebbero dei sensori che rilevano il passaggio di persone nei paraggi, riuscendo a distinguere addirittura fra esseri umani e animali. Gli artificieri ucraini le avrebbero trovate sul loro territorio per la prima volta la scorsa settimana vicino a Kharkiv. 

Si tratta insomma di congegni più sofisticati e letali. In genere, come spiega il Corriere della Sera, le Pom-3 vengono lanciati con razzi e atterrano con un paracadute, incastrandosi alla perfezione nel terreno. Poi, quando avvertono la presenza di qualcuno, "lanciano una piccola carica esplosiva che detona a mezz’aria, producendo frammenti che sono letali a una distanza di 15 metri". "Creano una minaccia per cui non abbiamo una risposta - ha spiegato al New York Times James Cowan, il presidente dell’Halo Trust, l’organizzazione che aiuta i Paesi coinvolti nei conflitti a ripulire il terreno dalle mine antiuomo -. Dovremo trovare donatori che ci procurino della robotica in grado di affrontare questi dispositivi a distanza". 

Altre mine invece sono state ritrovate sulla costa turca, 160 chilometri a est di Istanbul. Stando ad alcune indiscrezioni, potrebbe trattarsi di ordigni ucraini, in origine agganciati al fondo per proteggere Odessa e poi portati via da una tempesta che li ha spinti verso sud. Nel frattempo, la Marina italiana ha deciso di inviare due unità cacciamine in aiuto di quella romena in Mar Nero.

Ucraina: la repubblica Ceca darà a Kiev vecchi carri armati sovietici. Da globalist.it il 7 aprile 2022.  

Secondo il Wall Street Journal la Repubblica Ceca ha inviato in Ucraina dei vecchi carri armati dell’era sovietica, diventando così il primo paese a rifornire Kiev di queste armi pesanti per fronteggiare le meglio attrezzate forze russe. 

E in uno sviluppo potenzialmente ancora più importante – ha aggiunto il Wsj – sia la Repubblica Ceca che la vicina Slovacchia, che confina con l’Ucraina, stanno valutando l’ipotesi di aprire i propri siti industriali militari a Kiev, per riparare le attrezzature militari ucraine danneggiate, ma anche quelle russe finite in mano ucraina, tra cui 176 carri armati.

Il vice ministro della Difesa ceco Tomae Kopecny e un altro funzionario del ministero della Difesa hanno precisato al Wsj che sono poco più di una decina i carri armati T-72M di progettazione sovietica inviati a Kiev, insieme a obici e a veicoli corazzati da combattimento BMP-1. Armi finanziate dal governo ceco e da donatori privati che hanno partecipato a una campagna di raccolta fondi sostenuta da Praga per armare l’Ucraina.

Armi all'Ucraina, montate in un parco quelle fornite dall'Italia.  Gianluca Di Feo su La Repubblica il 5 Aprile 2022.  

I soldati di Kiev cominciano a provare le mitragliatrici spedite dal nostro governo lamentando il basso livello tecnologico degli armamenti. I nostri prodotti più apprezzati sono i mezzi antimina Lince. 

Hanno cominciato a montarle in un parco, davanti alle panchine. Con aria interessata e un po’ stupita hanno preso confidenza con il treppiede, che obbliga a una posizione di tiro molto diversa dalla tradizione sovietica dell’esercito ucraino. Sono le prime immagini dei soldati di Kiev che provano le armi fornite dall’Italia: trattandosi di un’operazione segreta, non ci sono riscontri ufficiali ma gli esperti interpellati da Repubblica confermano che si tratta proprio delle nostre mitragliatrici.

Starstreak, cos'è quel missile britannico che ha abbattuto l'elicottero russo. Alessandro Ferro su  Il Giornale il 3 aprile 2022.

Il sistema missilistico portatile più avanzato della Gran Bretagna ha abbattuto un elicottero russo nel suo primo utilizzo sul campo di battaglia ucraino. Lo dimostrebbe un video in cui si vede la fase dell'attacco mostrare le lance di tungsteno (tipologia di metallo) che rompono la coda del Mi-28N, elicottero anticarro, facendolo esplodere in due pezzi nella regione di Luhansk, la parte più orientale del Paese. Questa tipologia di missile è una delle armi più tecnologicamente avanzate in uso nel conflitto ucraino.

Cos'è il missile Starstreak

Starstreak è un proiettile ad alta velocità che distrugge obiettivi con tre proiettili simili a freccette per consentire colpi multipli su un bersaglio: come riporta l'Indepentent, viaggia a una velocità tre volte superiore a quella del suono e può essere montato a spalla, attaccato a un veicolo o sparato da un lanciatore a terra. Il sistema Starstreak è realizzato da Thales, multinazionale francese che progetta e realizza impianti elettrici e fornisce servizi per i mercati aerospaziale, della difesa, dei trasporti e della sicurezza. L'azienda descrive i missili come "progettati per fornire una difesa aerea ravvicinata contro le minacce aeree convenzionali come i caccia ad ala fissa e i bersagli degli elicotteri a smascheramento tardivo". L'esercito britannico ha affermato che Starstreak è "un'arma di difesa aerea altamente capace" particolarmente efficace contro gli elicotteri.

Il sistema missilistico ad alta velocità Starstreak è stato fornito all'Ucraina dalla Gran Bretagna nel mese di marzo insieme a un'ulteriore spedizione di armi anticarro leggere di nuova generazione. È anche il missile terra-aria a corto raggio più veloce al mondo, con una velocità superiore a Mach 3 (velocità tre volte quella del suono). A circa quattro metri dal soldato che spara con l'arma, un secondo booster spara per accelerare rapidamente il missile fino a oltre Mach 3. Il missile punta sul bersaglio con due raggi laser "dipinti" sull'aereo dall'unità di lancio. Tutto ciò che il soldato dovrà fare è tenere il bersaglio nel mirino e sparare.

Gli aiuti britannici all'Ucraina

All'Ucraina è stata inviata la varietà a spalla del missile per consentire un dispiegamento più rapido sul campo. Oltre ai missili anticarro Starstreaks, sono stati inviati più di quattromila Nlaw e ci sono state diverse segnalazioni dell'esercito ucraino che li ha usati per distruggere i carri armati russi. Si tratta di armi anticarro leggere di nuova generazione, note anche come arma da battaglia principale e arma leggera anti-corazza: conosciuta in Svezia come Robot 57, è un sistema missilistico usa e getta leggero,sparatutto e "spara-e-dimentica" progettato per l'uso da parte della fanteria. Il colonnello Graham Taylor ha dichiarato al Times che le truppe britanniche sono state dispiegate in un luogo segreto dell'Europa orientale per insegnare agli ucraini come usare le armi montate sulle spalle. "La loro capacità di acquisire quelle abilità richiedernno del tempo, ciò dipenderà dalla loro attitudine, anche se chiaramente hanno un interesse nel mettere a frutto quell'apprendimento", riporta il Messaggero.

Il grazie di Kiev per i missili

Come abbiamo visto sul Giornale.it, se c'è un leader occidentale al quale il vertice politico di Kiev guarda come al proprio migliore amico, questo è Boris Johnson. Parola di Volodymyr Zelensky, presidente assediato dell'Ucraina, che in un'intervista all'Economist non ha esitato ad assegnare al premier britannico e al suo governo la palma di alleato più leale e più coraggioso in questo momento: più del cancelliere tedesco Olaf Scholz, molto più del presidente francese Emmanuel Macron e forse persino più di quello americano Joe Biden.

(ANSA il 2 aprile 2022) - L'amministrazione Biden lavorerà con gli alleati per trasferire tank di fabbricazione sovietica allo scopo di rafforzare le difese dell'Ucraina nel Donbass. Lo scrive il New York Times, citando un ufficiale americano e sottolineando che è la prima volta che gli Usa aiutano contribuiscono a trasferire carri armati dall'inizio della guerra. La fonte ha riferito che i trasferimenti di tank inizieranno presto ma non ha voluto precisare il loro numero nè da quali Paesi arriveranno. I carri armati, richiesti espressamente dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky, consentiranno a Kiev di effettuare lanci di artiglieria a lunga gittata su obiettivi russi in Donbass.

(ANSA il 2 aprile 2022) - Missili guidati da laser, droni 'kamikaze' Switchblade (con testate esplosive) e droni leggeri di tipo Puma (da ricognizione): sono alcune delle armi dell'ultimo pacchetto di aiuti militari a Kiev da 300 milioni di dollari annunciato dal Pentagono. Nei giorni scorsi Joe Biden e il presidente ucraino Volodymr Zelensky avevano discusso al telefono per "identificare capacita' aggiuntive per aiutare l'esercito ucraino a difendere il suo Paese"

Ecco quali sono tutte le armi inviate dagli Usa all'Ucraina. Valeria Robecco il 3 Aprile 2022 su Il Giornale.

In arrivo a Kiev nuovi rifornimenti. Da Biden anche i droni kamikaze. Per i civili maschere anti-gas, tute protettive. Dall’America 300 milioni.

New York. L'Occidente cambia marcia nella guerra in Ucraina. Mentre Mosca si riorganizza segnalando che è pronta per un conflitto prolungato, per la prima volta dall'invasione russa Joe Biden ha autorizzato la sua amministrazione a lavorare con gli alleati per trasferire carri armati di fabbricazione sovietica a Kiev per rafforzare le sue difese. La decisione è arrivata in risposta a una richiesta del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, e i carri armati gli consentiranno di effettuare lanci di artiglieria a lunga gittata su obiettivi russi in Donbass: un ufficiale americano, citato dal New York Times, ha spiegato che i trasferimenti inizieranno presto, ma non ha voluto precisare il numero, né da quali Paesi arriveranno. La mossa del presidente Usa ha fatto seguito alla telefonata nei giorni scorsi con il collega ucraino per «identificare capacità aggiuntive in modo da aiutare l'esercito di Kiev a difendere il suo Paese», e secondo il Nyt potrebbe essere un altro segnale che sta iniziando una nuova fase del conflitto. Il Pentagono ha inoltre annunciato che fornirà fino a 300 milioni di dollari di ulteriori aiuti militari per l'Ucraina. «Gli Stati Uniti hanno impegnato più di 1,6 miliardi in assistenza militare a Kiev dall'invasione non provocata e premeditata da parte della Russia», ha spiegato il portavoce John Kirby. In particolare, nell'ultimo pacchetto sono compresi missili guidati da laser, droni «kamikaze» Switchblade (con testate esplosive) e droni leggeri di tipo Puma (da ricognizione). E ancora blindati Humvees, mitragliatori non convenzionali (non usati regolarmente dall'esercito Usa), oltre a visori notturni, sistemi per le immagini termiche, sistemi di comunicazione tattica sicuri, servizi satellitari, materiale medico.

Si tratta di aiuti necessari a Kiev per contenere la nuova offensiva di Mosca prevista nei prossimi giorni, come ha spiegato Zelensky. «Le forze russe si stanno ammassando nel Donbass, verso Kharkiv, e si stanno preparando per attacchi ancora più potenti. Ora si stanno ritirando dal Nord dell'Ucraina in un modo lento, ma evidente - ha sottolineato - Chiunque torni in questa zona deve stare molto attento. È ancora impossibile tornare alla vita normale, bisogna aspettare che la nostra terra venga bonificata ed essere certi che non ci saranno nuovi bombardamenti». Tra le forniture annunciate dalla Casa Bianca c'è anche materiale per proteggere i civili contro eventuali attacchi chimici russi come maschere anti-gas, tute protettive e altri equipaggiamenti.

Intanto pure dalla Gran Bretagna starebbero per arrivare nuovi soccorsi militari, una decisione sulla quale l'ambasciatore di Mosca a Londra, Andrey Kelin, ha messo in guardia, affermando che «l'artiglieria a lungo raggio e i sistemi antinave che il Regno Unito ha promesso a Kiev diventeranno obiettivi legittimi per le truppe russe se consegnati al Paese. Tutte le forniture di armi sono destabilizzanti e aggravano la situazione, rendendola ancora più sanguinosa - ha spiegato in un'intervista alla Tass - Apparentemente, quelle sono armi nuove e di alta precisione. Naturalmente, le nostre forze armate li considereranno un obiettivo legittimo se attraversano il confine ucraino». Kelin ha poi spiegato di avere «la sensazione che la percezione di Londra di ciò che è in corso in Ucraina dal punto di vista militare si sia formata attraverso rapporti eccessivamente ottimisti del ministero della Difesa e della leadership di Kiev: credono ancora che il battaglione Azov stia per liberare Mariupol e che le forze della milizia popolare non abbiano fatto alcun progresso nella regione di Lugansk».

Intanto, secondo quanto rivelato dal ministero della Difesa del Regno Unito al Times, un missile antiaereo Starstreak di fabbricazione britannica ha abbattuto un elicottero russo nel suo primo utilizzo nel campo di battaglia in Ucraina. Il sistema Starstreak è un missile ad alta velocità per abbattere jet nemici a bassa quota prodotto a Belfast dalla compagnia Thales, può essere sparato da una spalla o da un supporto e ha una portata di oltre quattro miglia, si stacca in tre dardi a mezz'aria, che vengono successivamente guidati verso il bersaglio da un operatore laser a terra. Come riferito, c'è un filmato che mostra il momento in cui l'elicottero russo Mi-28N viene colpito dal cielo nella regione di Lugansk dal Starstreak e spezzato in due.

Da “la Repubblica” l'1 aprile 2022.

Più di 35 Paesi alleati si sono impegnati a inviare veicoli corazzati e munizioni di artiglieria all'Ucraina per respingere le truppe russe. Lo ha detto il ministro della Difesa britannico, Ben Wallace, al termine di un vertice virtuale di ministri convocato da Londra. Tra i partecipanti alla conference call c'erano i ministri della Difesa dei Paesi impegnati nella fornitura di armi letali e di equipaggiamento militare alle forze ucraine, fra cui, oltre al Regno Unito, Stati Uniti, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Giappone.

Wallace ha anche sottolineato che l'esercito di Kiev ha un grande bisogno di artiglieria per contrastare quella russa, particolarmente devastante nel colpire i centri abitati.

«La migliore contromisura è rappresentata dall'artiglieria a lunga gittata», ha aggiunto, e verranno fornite principalmente munizioni per i sistemi d'arma di quel tipo: «Gli ucraini stanno anche cercando veicoli corazzati di diverse tipologie, non necessariamente carri armati, ma sicuramente veicoli protettivi e più sistemi antiaerei».

Il ministro britannico ha detto anche che l'esercito di Vladimir Putin è «esausto» e ha subito perdite significative: «La reputazione del grande esercito russo è distrutta».

Quanto a Putin, «non solo dovrà convivere con le conseguenze di quello che sta facendo all'Ucraina, ma anche con le conseguenze di quello che ha fatto al suo esercito. Non è la forza che era una volta, è un uomo che vive nella gabbia che si è costruito da solo». 

Ieri il presidente ucraino Volodymyr Zelensky - poche ore dopo aver lanciato un nuovo appello agli Stati Uniti per la fornitura di «carri armati, aerei e sistemi di artiglieria in questo difficile punto di svolta, perché la libertà non dovrebbe essere peggio armata della tirannia» - ha parlato anche al parlamento australiano, chiedendo specificamente veicoli blindati a quattro ruote motrici Bushmaster di fabbricazione australiana, e ricevendo una standing ovation all'inizio e alla fine del suo discorso. 

"Problema alle munizioni di precisione". Cosa accade davvero ai jet russi. Federico Giuliani su Il Giornale l'1 aprile 2022.

Avrebbero dovuto rivoluzionare l’aviazione e agevolare l’esercito che sarebbe stato in grado di utilizzarli al meglio. La Russia li ha sempre considerati dei jolly invidiabili, ma il conflitto ucraino ha rivelato i limiti dei Sukhoi Su-34, i famigerati jet russi da 50 milioni di dollari.

I limiti dei Su-34

Nonostante un’evidente – almeno sulla carta – superiorità militare, l’esercito russo non è ancora riuscito a blindare i cieli dell’Ucraina. Gli aerei di Mosca, per vecchi problemi mai risolti e tornati alla ribalta, hanno dimostrato di volare a quote troppo basse, esponendosi così al fuoco ucraino. Lo ha spiegato, nel dettaglio, Il Messaggero, che ha acceso i riflettori su due problemi non da poco.

Il primo riguarda la cronica mancanza russa di munizioni comandate di precisione, necessarie per trasformare i Su-34 in un’arma letale. L’altro ostacolo si rifà invece alla dottrina russa, che considera gli aerei una sorta di artiglieria volante. Unendo i due punti otteniamo uno scenario abbastanza deprimente per chi, come la Federazione Russia, vanta il secondo esercito più forte del mondo dietro agli Stati Uniti.

In ogni caso, i primi modelli dei Su-34 sono stati partoriti nel 2008. Erano inizialmente 32, poi saliti a 92 nel 2012 e a 122 nel 2021. Un balzo importante, anche perché questi jet hanno, di fatto, sostituito i vecchi Su-24. E anche perché, da qui al 2030, si prevede che Mosca possa arrivare a schierarne circa 200.

Jolly sprecati

Insomma i Su-34, dotati di una cabina di pilotaggio con due persone, e in grado di colpire obiettivi situati fino a 60 miglia di distanza trasportando 12 tonnellate di bombe e missili, promettevano fuoco e fiamme. Sulla carta stiamo parlando di un modello tecnicamente all’avanguardia. Peccato che i russi non abbiano stoccato abbastanza munizioni comandate e che abbiano smesso di acquistarle da anni, in concomitanza con le sanzioni.

Il risultato è stato ben illustrato da Justin Bronk in una recente analisi: "La maggior parte dei 300 aerei da combattimento ad ala fissa dell'aviazione russa in giro per l'Ucraina ha solo bombe e razzi non guidati a cui attingere per attacchi sulla terra". Non sono certo jet inutili, ma in questo modo perdono le loro qualità principali. Ulteriormente vanificate dalla suddetta dottrina russa secondo cui gli aerei non sarebbero nient’altro che artiglieria aviotrasportata. In altre parole, Mosca non lascia la propria aviazione libera; deve, al contrario, agire insieme alle forze di terra.

Nel frattempo ammonterebbero a 17.700 le perdite fra le fila russe dal giorno dell'attacco di Mosca all'Ucraina. Lo ha reso noto il bollettino quotidiano dello Stato Maggiore delle Forze Armate ucraine. Secondo il resoconto dei militari ucraini, a oggi le perdite russe sarebbero di circa 17.700 uomini, 625 carri armati, 1751 mezzi corazzati, 316 sistemi d'artiglieria, 96 lanciarazzi multipli, 54 sistemi di difesa antiaerea. Stando al bollettino, le forze russe avrebbero perso anche 143 aerei, 131 elicotteri, 1220 autoveicoli, 7 unità navali, 76 cisterne di carburante e 85 droni.

Le nuove armi che potrebbero cambiare le sorti della guerra. Cosa sono i missili Starstreak, le armi anti-aerei più veloci del suono: l’Ucraina li ha ricevuto contro i jet russi. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Marzo 2022.  

Il Regno Unito per la prima volta ha consegnato alle forze armate dell’Ucraina gli Starstreak, i missili antiaerei portatili molto più potenti degli americani Stinger attualmente in dotazione alle truppe di Kiev che contrastano i velivoli russi nei cieli del Paese europeo. Lo ha confermato ai media il ministro della Difesa britannico, Ben Wallace.

La fornitura era stata promessa da Londra e fa parte degli impegni presi di recente per aumentare la capacità difensiva dell’esercito ucraino. Il sistema d’arma, costruito in Gran Bretagna, ha una gittata di sette chilometri ed è dotato di un missile in grado di raggiungere una velocità di tre volte superiore a quella del suono.

Sembrerebbe questa l’ultima speranza degli ucraini per difendersi dai bombardamenti a tappeto messi in atto dai Russi. Si tratta di un’arma più potente degli Stinger forniti da americani ed europei la cui gittata non supera i 4mila metri. per evitarli, i jet russi hanno alzato la quota di azione e scaricano i loro ordigni contro le città della regione orientale da oltre quattromila metri di quota, aumentando l’imprecisione degli attacchi e i danni alla popolazione civile. Invece gli Starstreak raggiungono anche settemila metri, obbligando i piloti di Mosca a rivedere le loro tattiche.

I missili Starstreak hanno una testata più sofisticata e letale. Nelle ultime settimane spesso le armi terra-aria portatili degli ucraini non sono riuscite a colpire i bersagli o si sono limitati a danneggiarli, senza abbatterli. Ma le richieste di armi dell’Ucraina continuano soprattutto per missili terra aria a lungo raggio che possano impedire agli aerei di Mosca di continuare a colpire le città.

A preoccupare gli ucraini sono soprattutto i sistemi S-300 – apparati d’origine sovietica aggiornati negli ultimi anni – che sono sempre di meno perché sono diventati il bersaglio prioritario dei russi: almeno otto sono già stati distrutti e ne restano solo una ventina. In assenza di questi potenti scudi le città vicine al confine e anche la capitale potrebbero subire pesanti assalti mentre ora sono colpite solo da missili.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

La Germania pensa a missili di difesa israeliani (Arrow 3) contro Putin: “E’ un vicino violento”. Redazione su Il Riformista il 28 Marzo 2022. 

“Abbiamo un vicino pronto a usare la violenza”. E’ la ragione per la quale il cancelliere tedesco Olaf Scholz non esclude l’acquisto di sistemi di difesa missilistica per proteggersi da eventuali attacchi da parte della Russia di Vladimir Putin.

Dopo l’aumento delle spese militari pochi giorni dopo l’invasione in Ucraina, con l’impegno a raggiungere l’obiettivo di spesa della Nato pari al 2% del Pil, il cancelliere, in una intervista all’emittente tedesca Ard, conferma un’ipotesi sempre più concreta. “Questo è certamente uno dei temi che stiamo discutendo, e per una buona ragione”, ha detto, aggiungendo: “Dobbiamo essere consapevoli del fatto che abbiamo un vicino che è pronto ad usare la violenza per far valere i propri interessi”.

Secondo il quotidiano Bild, Scholz ha discusso con l’Ispettore generale dell’Esercito, Eberhard Zorn, la possibilità di acquistare i sistemi missilistici israeliani Arrow 3, per una cifra che dovrebbe aggirarsi intorno ai due miliardi di euro. I sistemi missilistici Arrow 3 entrerebbero in funzione per la Difesa tedesca non nell’immediato e potrebbero garantire la sicurezza anche di Polonia, Romania e dei Paesi del Baltico.

Poseidon, il drone sottomarino che provoca uno tsunami alto 100 metri: l'arma con cui Putin può radere al suolo mezza Ucraina. Libero Quotidiano il 25 marzo 2022.

Le minacce russe non arrivano solo dai cieli. L'ultima arma di Vladimir Putin per affermare la sua supremazia è un drone sottomarino nucleare. Si tratta di Poseidon, un "siluro autonomo a propulsione nucleare intercontinentale" in grado di devastare le città costiere. Il pensiero va subito a località a sud dell'Ucraina come Odessa e Mariupol. Una bomba nucleare, infatti, fatta esplodere sott'acqua provocherebbe per gli esperti uno tsunami mai visto prima alto fino a 100 metri d'altezza.

Ma cos'è questo drone sottomarino? Si tratta di un'arma di grandissime dimensioni, circa due metri di lunghezza per un peso di 100 tonnellate. Un vero e proprio gigante rispetto al Mark 48 utilizzato dalla Marina militare degli Stati Uniti, il cui peso è di 1.580 chilogrammi. Più nel dettaglio il siluro, con una testata da 2 megatoni, è equipaggiato su un drone sottomarino in grado di lanciare ordigni nucleari. Dopo le indiscrezioni su un luogo apposito in cui Poseidon verrebbe "protetto", ecco che arrivano voci circa alcuni test nell'Artico, Proprio come immortalato dalle immagini satellitari. Secondo quanto rivelato dall'agenzia di stampa russa Tass, la versione più recente del siluro potrebbe raggiungere la velocità di 200 km/h, viaggiando in acqua a una profondità di oltre un chilometro. Una caratteristica che lo renderebbe difficilmente intercettabile. 

"Un'arma nucleare ben posizionata vicino a una zona costiera - spiega il fisico Rex Richardson al Messaggero -, un ordigno con una resa compresa tra 20 megatoni e 50 megatoni, potrebbe certamente sprigionare talmente tanta energia da eguagliare lo tsunami del 2011, e forse molto di più. Sfruttando l'effetto di amplificazione del fondale marino, sono possibili onde di tsunami che raggiungono i 100 metri di altezza". 

Poseidon, cos’è il missile nucleare russo che può essere lanciato da un sottomarino. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 3 Maggio 2022.  

Secondo un conduttore russo, il missile potrebbe causare uno tsunami in grado di spazzare via le isole britanniche: attualmente, però, il sottomarino che dovrebbe fare da rampa di lancio sarebbe fermo in un cantiere navale, e la ricostruzione russa sembra contenere alcuni errori

Mosca continua ad agitare la minaccia delle super armi capaci di battere ogni difesa occidentale. E tra queste — come rilanciato da una trasmissione della tv russa — c’è il super siluro nucleare Poseidon, in grado di scatenare (è la tesi) un gigantesco tsunami. Il conduttore televisivo Dmitry Kiselyov, parlando nel programma «Vesti Nedeli» sul canale Rossiya 1, ha spiegato che le isole britanniche potrebbero essere spazzate via. Minaccia accompagnata da un’animazione al computer con l’onda che investe il Regno Unito. Tutto di grande effetto. L’esperto HI Sutton, che da anni segue questo tipo di sistemi, ha postato un’analisi del video dove ha precisato alcuni aspetti. 

1) Il drone è potenzialmente un sistema temibile. 

2) Il sottomarino che deve fare da piattaforma di lancio è corretto, si tratta del Belgorod. Solo che attualmente è fermo in un cantiere navale. 

3) Il filmato mostra il siluro uscire lateralmente mentre invece è «sparato» dalla prua del sommergibile. Un errore da attribuire all’emittente. 

4) Il siluro del video ha un «disco» nella parte posteriore, ma questo non appare nel modello ufficiale. 

5) La potenza della carica: hanno parlato di 500 megatoni, capaci di creare una massa d’acqua distruttrice sulla costa. Ma questo dato — sostiene l’analista — è semplice speculazione, un elemento emerso sui media. È molto più probabile che la testata sia di 2 megatoni.

Come funziona il kit Jdam “Quicksink” per le bombe Usa. Paolo Mauri su Inside Over il 7 maggio 2022.

Lo scorso agosto è avvenuto un test con un ordigno inerte di una nuova versione del kit Jdam (Joint Direct Attack Munition) per bombe a caduta libera. Un F-15E ha utilizzato una GBU-31, insieme a nuove tattiche, su un bersaglio navale in movimento. Il nuovo kit Jdam faceva parte di un programma per creare un nuovo sensore per ordigni in grado di prendere di mira con maggiore precisione le navi di superficie e dotato di una testata creata su misura per l’uso marittimo.

La testata da 2mila libbre (circa 900 chilogrammi), combinata con il sistema di navigazione del kit “Quicksink”, consente all’U.S. Air Force di dotarsi di una tecnologia che può sostituire la bomba Paveway III come arma antinave principale. Un precedente test era stato effettuato nel 2020, quando un bombardiere B-52H aveva sganciato il medesimo ordigno.

Lo scorso 28 aprile, invece, è stato condotto il primo utilizzo “a fuoco” da parte dell’Air Force della nuova bomba guidata che ha colpito e affondato una nave bersaglio a grandezza naturale nel Golfo del Messico. Ancora un F-15E Strike Eagle dalla base di Eglin, in Florida, ha sganciato una GBU-31 appositamente modificata col nuovo kit nato per colpire un bersaglio marittimo.

La modifica Jdam consiste nell’aggiunta alla coda di un ordigno convenzionale non guidato di una nuova sezione che contiene un sistema di navigazione inerziale e un’unità di controllo della guida di tipo Gps in grado di migliorare la precisione delle bombe generiche trasformandole in munizioni “intelligenti”. Il programma Jdam è nato da un’esigenza congiunta dell’U.S. Air Force e del Dipartimento della Marina degli Stati Uniti. Esso utilizza la testata BLU-109/MK 84 da 2mila libbre, la BLU-110/MK 83 da mille libbre (450 chilogrammi) o la testata BLU-111/MK 82 da 500 libbre (225 chilogrammi). Il kit Jdam consente l’impiego di armi aria-superficie contro obiettivi fissi e riposizionabili da parte di caccia e bombardieri.

Una volta rilasciata dall’aereo, la Jdam vola autonomamente verso le coordinate del bersaglio designate che possono essere caricate nell’aeromobile prima del decollo, modificate manualmente dall’equipaggio prima del rilascio dell’arma o inserite automaticamente tramite la designazione del bersaglio con i sensori a bordo dell’aeromobile. Nella sua modalità più accurata, il sistema Jdam garantisce un Cep (Circular Error Probable) di 5 metri o meno quando sono disponibili le coordinate Gps, mentre in caso di loro assenza il Cep diventa di circa 30 metri per tempi di volo libero fino a 100 secondi. Il pacchetto Jdam consente di sganciare bombe in quasi tutto l’inviluppo di volo: da quote molto basse o molto elevate, in picchiata, con lancio parabolico o in volo rettilineo e livellato, con sgancio in asse o fuori asse, inoltre consente di indirizzare più armi contro uno o più bersagli in un unico passaggio. Le bombe Jdam sono attualmente compatibili con i bombardieri B-1B, B-2A, B-52H, coi caccia AV-8B, F-15E, F/A-18C/D/E/F, F-16C/D ed F-22. Anche gli F-35 possono usarle e a quanto sembra anche gli Ucav (Unmanned Combat Air Vehicle) MQ-9 Reaper.

Tornando alla versione antinave “Quicksink”, o Jctd (Joint Capability Technology Demonstration), è stata finanziata dall’Ufficio del Sottosegretario alla Difesa per la ricerca e l’ingegneria, mentre il test è stato svolto grazie a uno sforzo di collaborazione tra l’Afrl (Air Force Research Laboratory), il 780esimo test Squadron del 96esimo stormo e l’85esimo squadron di test e valutazione del 53esimo stormo. “Quicksink è una risposta all’urgente necessità di neutralizzare le minacce marittime in tutto il mondo”, ha affermato il colonnello Tony Meeks, direttore della direzione per il munizionamento dell’Afrl.

L’arma, insieme al Lrasm (Long Range Anti-Ship Missile), o Agm-158C, andrà a rafforzare la capacità antinave dell’Air Force nel contesto sterminato dell’Indopacifico (ma non solo), dove la presenza cinese si fa sempre più assertiva e numericamente consistente. Pechino, infatti, da tempo ha dato il via a un programma di riarmo navale che la metterà in grado nei prossimi anni di schierare una blue water navy (dotata anche di portaerei a propulsione nucleare) che le permetterà di proiettare globalmente la sua potenza militare e contestare il dominio dei mari statunitense.

Gli scienziati e gli ingegneri dell’Afrl stanno sviluppando un’architettura software “aperta” del tipo “plug and play”, o Wosa, per il seeker del “Quicksink” per consentire il puntamento preciso dell’arma. L’implementazione di Wosa fornisce modularità attraverso la possibilità di collegare e riprodurre componenti di ricerca di diversi produttori, il che può portare a una riduzione dei costi del sistema d’arma e prestazioni migliorate.

Il nuovo kit permette di avere una soluzione per affondare il naviglio avversario a costo inferiore rispetto all’uso di siluri o dei sofisticati missili da crociera. L’Air Force ha anche affermato che il sistema di guida Gps della GBU-31 “Quicksink” rappresenta un importante passo avanti rispetto alla guida laser delle vecchie GBU-24. Se, infatti, una bomba a guida laser viene rilasciata all’indirizzo di una nave, il pilota dovrebbe restare nell’area per continuare a illuminare il bersaglio con il laser fino a quando non lo colpisce, esponendolo al fuoco nemico. Una bomba a guida Gps, invece, permette di effettuare uno sgancio del tipo “lancia e dimentica” in quanto i dati del bersaglio vengono preimpostati e, ipotizziamo, possono anche essere aggiornati durante il tempo di caduta per adeguarsi ai cambiamenti di rotta del bersaglio.

Arrow 3, il sistema anti-missile israeliano: il tentativo disperato dell'Europa per difendersi dall'atomica di Mosca. Libero Quotidiano il 04 maggio 2022.

Dopo le minacce lanciate da Vladimir Putin, a spaventare l’Europa è soprattutto il super missile ipersonico Sarmat a testata nucleare, capace di colpire a una distanza di 18mila chilometri. Il Cremlino ha affidato alla tv di Stato il compito di far vedere a tutti cosa potrebbe succedere nel caso in cui quel missile venisse lanciato: in 106 secondi potrebbe colpire Berlino, in 200 secondi spazzare via Parigi e nello stesso tempo anche Londra.

Ma l'Europa cosa sta facendo per difendersi? Non tutti si stanno muovendo allo stesso modo. La Germania, per esempio, come spiega il professore Pierluigi Barberini, responsabile sicurezza del Cesi, "sta studiando il sistema Arrow 3, Freccia 3, con capacità difensiva più alta". Si tratta di un sistema di difesa israeliano. Ecco perché Berlino avrebbe già avviato i contatti col governo israeliano per un programma più sofisticato di difesa missilistica. Secondo il generale Leonardo Tricarico, però, l'Europa in generale non ha un sistema forte dal punto di vista della difesa. "Anche in Italia è sempre stato un argomento quasi tabù. Siamo in ritardo", ha aggiunto l'esperto.

Sul fronte della difesa, Barberini si è detto d'accordo con Tricarico e sentito dal Giorno ha detto: "L’Europa non dispone di un sistema difensivo che possa intercettare con assoluta certezza un missile balistico intercontinentale. Fra l’altro un attacco di questo tipo prevede un lancio multiplo di ordigni in contemporanea. Ma attenzione, ciò vale anche per la Russia". In caso di attacco nucleare contro l'Europa, infatti, interverrebbe la Nato e quindi anche gli Stati Uniti darebbero un contributo non indifferente al contrattacco. "La Nato sta sviluppando il sistema Bmd, Balistic missile defence, nato in realtà in funzione della minaccia nucleare iraniana, ma che ora necessita di nuove prospettive", ha chiosato Barberini.

Kim Jong-un, sfregio agli Usa: prima lancia il missile e poi si fa riprendere così. Libero Quotidiano il 25 marzo 2022.  

La Corea del Nord di Kim Jong-un ha effettuato un test del suo ultimo missile balistico intercontinentale: si tratta della testata più potente dal 2017, che sarebbe in teoria in grado di raggiungere Washington. Il missile ha viaggiato per 1.100 chilometri in 71 minuti prima di cadere nel mar del Giappone, a 150 chilometri dalla costa. Per annunciare l'ennesima provocazione militare Pyongyang ha diffuso un video montato come se fosse il trailer di un film: protagonista assoluto il leader nordcoreano, con giacca in pelle e occhiali da sole. Ora, la Corea del Nord è "del tutto pronta per un confronto di lungo periodo con gli imperialisti statunitensi". Così come spiegato dal dittatore di Pyongyang secondo l'agenzia ufficiale Kcna.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 24 marzo 2022.

La Russia si è vantata di aver lanciato missili supersonici contro le forze dell’Ucraina dal suo potente sistema di difesa costiera Bastion. Il ministero della Difesa ha mostrato ieri i filmati che dimostrano la portata dell’intervento e il lancio dei missili con testate da 250 kg. 

Il ministero ha dichiarato di aver lanciato, dai sistemi di difesa costiera in Crimea, tre missili Bastion contro obiettivi appartenenti alle forze ucraine e di aver sparato otto missili da crociera Kalibr da una nave da guerra missilistica vicino al porto di Sebastopoli, nel mar Nero.

Nel pubblicare i video sulla sua pagina Facebook ufficiale, il ministero ha scritto: «Non fare mai arrabbiare una nave da guerra russa». 

I missili da crociera Kalibr, lanciati dal mare, hanno una portata fino a 2.500 chilometri e sono utilizzati dalla marina russa per prendere di mira alcune città ucraine. 

Qualche giorno fa gli Stati Uniti avevano annunciato che la Russia aveva usato missili ipersonici in «almeno un caso».

Si trasforma in un razzo missile. Il video di Kim Jong-un in stile Matrix dimostra che la globalizzazione ha già vinto. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 26 Marzo 2022.

Se persino il dittatore dello stato di polizia più repressivo al mondo ama rappresentarsi come il protagonista di un film americano, evidentemente, l’egemonia occidentale non sta messa poi così male.

Nel pieno della guerra in Ucraina, il video di Kim Jong-un che presiede al lancio di un nuovo super missile, mandato in onda dalla tv coreana, è certo motivo di ulteriore preoccupazione. Ma contiene anche, paradossalmente, un segnale di speranza, proprio per il modo in cui il dittatore della Corea del Nord e tutta la scena sono rappresentati: Kim in giubbotto di pelle e occhiali da sole, due militari in alta uniforme al suo fianco, primissimi piani in montaggio alternato tra il nostro eroe (o per meglio dire il nostro super cattivo) e il super missile, prima al rallentatore e poi in accelerazione, in una surreale via di mezzo tra Matrix e Austin Powers (più Austin Powers che Matrix, in verità), tra il film di spionaggio e la saga Marvel, o per meglio dire la loro imitazione a basso costo.

Può far sorridere, e certamente deve preoccupare per il suo contenuto, ma dovrebbe anche fare riflettere il fatto che persino un simile messaggio, lo sfoggio del proprio arsenale come guanto di sfida all’occidente, tradisca un codice estetico, un immaginario, modelli aspirazionali che più occidentali non si potrebbero concepire. La summa di quella cultura e di quell’estetica che senza farla lunga possiamo definire semplicemente hollywoodiana.

È quanto meno degno di nota il fatto che tale cultura sia penetrata persino nello stato poliziesco più repressivo al mondo, chiuso a ogni influenza esterna dalla paranoia dei suoi dirigenti e dalla sua stessa miseria, ben rappresentato, nelle riprese fatte da una stazione spaziale nel 2014, da quel buco nero che si apriva improvvisamente tra le mille luci della Corea del Sud e quelle della Cina. È ancor più notevole che tale cultura non solo sia riuscita a penetrare entro i sorvegliatissimi confini di un simile Stato concentrazionario, ma ne abbia addirittura conquistato il vertice.

Non è un caso che l’inverso non sia nemmeno lontanamente ipotizzabile, perché a nessun capo di governo della Nato oggi potrebbe venire in mente di produrre un analogo messaggio mentre parla da un palco con una fitta schiera di burocrati intronati alle sue spalle, sul modello sovietico, tra giganteschi ritratti degli illustri predecessori. A riprova che forse la storia non sarà ancora finita, ma una direzione precisa sembra averla imboccata.

La battaglia politica e ideologica sarà magari interminabile, e aperta ancora a chissà quante contaminazioni e ibridazioni, ma sul terreno dell’estetica, specchio di tutte le aspirazioni umane, che si tratti dell’ultimo influencer o del più feroce dei dittatori, la partita sembra definitivamente chiusa.

Droni, lo scoop di Striscia la Notizia: "Come violano la no-fly zone", raid nelle carceri. Libero Quotidiano il 24 marzo 2022.

In questi tempi di guerra si fa un gran parlare di droni, anche di quelli in versione “suicida” che la Russia starebbe utilizzando in Ucraina. Ma in Italia c’è da tempo chi usa dei droni modificati per superare le limitazioni imposte per legge, consentendo di conseguenza a determinati prodotti di volare anche in aree no-fly zone. Una pratica particolarmente diffusa soprattutto per fare consegne illegali ai detenuti nelle carceri.

“Sempre più spesso - ha dichiarato Luca Abete, che ha rintracciato per Striscia la Notizia una persona che dietro compenso modifica i droni per aggirare la legge - assistiamo a ritrovamenti di oggetti proibiti all’interno delle carceri italiane, tra cui addirittura droga o armi. Tra i ritrovamenti più frequenti ci sono invece i cellulari, utilizzati dai detenuti non solo per chiamare ma anche per fare video e postarli sui social. Da più parti sostengono che uno dei modi utilizzati per recapitare i cellulari all’interno delle carceri è con i droni. Eppure quest’ultimo sono dotati di un sistema che impedisce il volo su aree sensibili come aeroporti, luoghi militari e carceri”.

E allora come fanno i droni ad arrivare fino ai detenuti? “C’è chi si è specializzato nella rimozione delle limitazioni, consentendo ai droni di volare a qualsiasi altitudine e soprattutto in aree vietate”, ha spiegato Luca Abete, che ha poi mostrato una di queste persone che modifica e sblocca i droni. “in Italia non è legale - ha dichiarato l’uomo senza sapere di essere ripreso - io lo faccio ma non mi assumo responsabilità. Non ti acchiappano perché nessuno controlla nulla”.

Ucraina, il drone kamikaze dei russi: KUB-BLA in azione, le immagini che terrorizzano Kiev. Libero Quotidiano il 23 marzo 2022.

Manca ancora la verifica da parte di fonti ufficiali, ma negli ultimi giorni su Telegram e Twitter stanno circolando delle foto che mostrano il KUB-BLA, un tipo di drone letale soprannominato “suicida” perché è in grado di identificare i propri obiettivi avvalendosi dell’intelligenza artificiale e di attivare un esplosivo che pesa tre chili una volta raggiunto l’obiettivo. Le immagini diffuse sui social hanno generato una certa apprensione. 

Di certo c’è che la Russia ha aggiunto i droni al suo arsenale militare soltanto di recente: secondo Samuel Bendett, esperto delle forze armate russe, è plausibile l’impiego di droni per provare a scalfire la resistenza ucraina, rivelatasi più tenace di quello che pensava Vladimir Putin e il suo cerchio magico. Bendett sostiene che negli ultimi anni la Russia si sia dedicata allo sviluppo del settore dei droni, usandoli in Siria e acquisendone sempre di più: “Rappresentano un’alternativa straordinariamente economica alle missioni con esseri umani. Sono molto efficaci sia dal punto di vista militare che psicologico”.

Il cosiddetto drone “suicida” si presenta con un’apertura alare di 1,2 metri: è bianco e slanciato, al punto da assomigliare a un piccolo caccia, ma ovviamente senza pilota. Per metterlo in funzione deve essere fatto partire da una piattaforma di lancio portatile, dopodiché quando è in volo può mantenere una velocità di 130 chilometri orari per circa trenta minuti: poi lo schianto contro l’obiettivo prefissato.

Russia, si ferma la fabbrica dei carri armati: mancano i componenti, "colpa" delle sanzioni. Redazione Tgcom24 il 23 marzo 2022.

Uralvagonzavod, la storica fabbrica di carri armati e mezzi blindati della Russia, è stata costretta ad interrompere la produzione: a causa delle sanzioni imposte alla Russia, non riesce più a reperire componenti fondamentali che vengono realizzati all'estero. Ad affermarlo sono lo Stato maggiore delle forze armate ucraine e fonti di stampa in Ucraina.  Ovviamente, non ci sono conferme dalla Russia. 

© IPA Russia, si ferma la fabbrica dei carri armati: mancano i componenti, "colpa" delle sanzioni

Uralvagonzavod, che lo scorso anno contava 30mila dipendenti, è stata inserita nell'elenco dell'Ue delle compagnie russe soggette a sanzioni perché "i carri armati T-72B3 consegnati alle forze armate russe sono stati utilizzati dalla Russia durante l'invasione illegale dell'Ucraina nel 2022".

La storica fabbrica che rese grande l'Armata Rossa - La sua origine risale al 1931, quando fu fondata in base al secondo piano quinquennale della dirigenza sovietica. Durante la Seconda guerra mondiale divenne il principale centro di sviluppo e produzione di mezzi corazzati dell'Armata Rossa e contribuì in modo sostanziale alla produzione del carro T-34, costruendone 25.266 esemplari, il cui impiego da parte delle forze sovietiche ebbe un ruolo decisivo nella vittoria finale contro le forze naziste. 

Nella seconda metà del secolo scorso, fino alla dissoluzione dell'Unione Sovietica, ha continuato a produrre tank per l'armata rossa, nonché per le nazioni alleate del Patto di Varsavia, e poi ancora oggi per la Federazione russa.

Gli ucraini "catturano" i mezzi distrutti per bloccare i ricambi - Per l'invasione dell'Ucraina, l'esercito russo ha fatto un grande uso di blindati. Le forze ucraine sono riuscite però a neutralizzarne e distruggerne un gran numero: secondo i dati pubblicati sul sito web Oryx da un gruppo di analisti militari olandesi, almeno 1.423 veicoli corazzati, tra cui 263 carri armati, 262 veicoli per il trasporto truppe. Consapevoli della carenza di parti di ricambio, le forze ucraine tendono inoltre a recuperare tutti i veicoli blindati russi messi fuori uso, in modo che non possano essere recuperati e utilizzati per ripararne altri. Con Uralvagonzavod ferma, potrebbe essere ancora più difficile reintegrarli.

Perché gli Usa mandano armi sovietiche in ucraina. Andrea Muratore su Inside Over il 22 Marzo 2022.

Armi sovietiche in Ucraina? Non sono una novità, tutt’altro, a ben giudicare le immagini dell’arsenale dell’esercito di Kiev. Ma è quantomeno curioso vedere come parte delle forniture di armi sovietiche provengano dagli aiuti statunitensi all’Ucraina. Washington ha recentemente visto approvata al Congresso una proposta di legge bipartisan tra Democratici e Repubblicani che garantisce 13,6 miliardi di dollari di aiuti all’Ucraina e tra essi 3,5 miliardi garantiti al Pentagono per sostenere gli aiuti militari.

Ebbene, tra questi sistemi d’arma, assieme ai missili anticarro Javelin, agli Stinger antiaerei, alle armi leggere e alle munizioni, figurano anche dispositivi prodotti ai tempi dell’Unione Sovietica e acquistati negli Anni Novanta in gran segreto da Washington, come riportato da Wall Street Journal che cita fonti governative ucraine.

Nel mese appena trascorso l’amministrazione Biden ha approvato un piano di invio armi da un miliardo di dollari ed è pronta a sbloccarne altri 800 milioni. Tra i prodotti sovietici destinati a Kiev figurano due importanti tipi di batterie antiaeree: gli SA-8 e gli S-300. Il primo dispositivo è stato il primo sistema missilistico antiaereo sovietico i cui componenti fossero tutti riuniti in un unico veicolo, progettato per fornire difesa aerea alle truppe schierate sul campo di battaglia.

Operativo dal 1971, gli Stati Uniti l’hanno studiato dopo aver visto i successi operativi in  Angola (contro le forze aeree del Sudafrica) negli Anni Ottanta e i risultati ottenuti durante la Guerra del Golfo, quando gli I SA-8 dell’Iraq di Saddam Hussein riuscirono a intercettare alcuni missili Tomahawk e, pare, furono responsabili dell’abbattimento del Tornado italiano guidato dal maggiore Gianmarco Bellini (pilota) e dal capitano Maurizio Cocciolone (navigatore) abbattuto su Baghdad nella notte tra il 16 e il 17 gennaio 1991. 

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Gli S-300 sono l’altra importante arma antiaerea fornita a Kiev via Washington. E sono un componente già oggi fondamentale nella strategia di difesa dell’esercito di Volodymir Zelensky. Ben tre nazioni Nato, del resto, già posseggono queste batterie (Slovacchia, Grecia, Bulgaria) e Washington sta lavorando perché le forniscano a Kiev sostituendole con avanzate batterie Patriot costruite negli Usa e fornite da Paesi come Germania e Paesi Bassi. Ogni invio di S-300 in Ucraina deve, a questo punto, passare per il via libera degli Usa, che sino ad ora tramite il Pentagono hanno respinto l’invio di aerei da combattimento MiG-29 di fabbricazione russa che si trovano in Polonia, ma sotto altri fronti stanno incentivando la resistenza di Kiev.

Inviare armi di questo tipo significa arrivare a sostenere Kiev in forma complementare alle sue disponibilità rendendo più agile e sostenibile la difesa ucraina senza necessità di operazioni di addestramento e inserimento delle nuove armi nell’arsenale ucraino che esponga pericolosamente personale Usa o di altri Paesi Usa. Incentivare la “guerra civile” tra mezzi sovietici che si combatte in Ucraina e aumentare il tributo di sangue della Russia è una strategia precisa degli Usa e di quei Paesi maggiormente attenti a sostenere la resistenza di Kiev, con Regno Unito e Polonia in prima fila.

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Ma come hanno fatto gli Usa a impadronirsi di mezzi sovietici? Secondo The Hill, che ha studiato la questione, Washington avrebbe acquistato attrezzatura militare sovietica negli anni successivi alla dissoluzione dell’Urss e della destabilizzazione della nuova Russia per capire il livello effettivo di sviluppo della tecnologia d’oltre Cortina ai tempi della Guerra Fredda. 100 milioni di dollari sarebbero stati stanziati nel 1994 per conoscere apparecchiature costruite dai sovietici e comprenderne apertamente le capacità operative. Il fatto attirò già l’attenzione ai tempi del fatto: il New York Times vi dedicò un articolo di commento. Nel 1994 l’azienda BDM International acquistò in Bielorussia sistemi d’arma come gli S-300. BDM era tra i pochi gruppi che avevano passato gli audit del Pentagono per acquistare sistemi d’arma e alla sua guida aveva Frank Carlucci (1930-2018), segretario alla Difesa sul finire della seconda amministrazione Reagan, facendo parte del Gruppo Carlyle, di cui Carlucci era partner assieme a James A. Baker, capo di gabinetto (1981-1985) e segretario al Tesoro (1985-1988) con Reagan, Segretario di Stato (1989-1992) e nuovamente capo di gabinetto in quella di Bush senior (1992-1993), uno dei più importanti politici del Partito Repubblicano. A cavallo tra imprenditoria, Difesa e intelligence la missione aprì al Pentagono la conoscenza dei sistemi più complessi dell’esercito russo.

Mediatore dell’affare fu, secondo il New York Times, una figura nota della storia contemporanea Usa: Emmanuel Weigensberg, il mercante d’armi canadese la cui Trans World Arms Inc. mediò la spedizione di armi ai Contras del Nicaragua nel 1984. Legami risalenti alla Guerra Fredda tra apparati e mercanti d’armi, piani di studio degli Anni Novanta, visioni geopolitiche del Duemila: le armi che oggi gli Usa forniscono a Kiev hanno una lunga storia ma nessuna esperienza operativa. Oggi vedranno finalmente il battesimo del fuoco. Contrastando, sull’altro fronte, altri prodotti delle officine militari sovietiche. Impegnate in una vera e propria “guerra civile” a oltre trent’anni dalla caduta della superpotenza rossa.

In Ucraina in azione il TOS-1A, il lanciarazzi a carica termobarica. Paolo Mauri su Inside Over il 22 Marzo 2022.

Dopo qualche giorno di incertezza abbiamo avuto la conferma che in Ucraina l’esercito russo sta utilizzando sistemi missilistici a carica termobarica.

In particolare è stato mostrato un video in cui si vede un MLRS (Multiple Launch Rocket System) tipo TOS-1A, sparare una salva di razzi da una località non meglio definita, molto probabilmente nel settore orientale del fronte. Il TOS-1A è una versione migliorata del sistema “lanciafiamme” pesante TOS-1 ed stato adottato dall’esercito russo nel 2001. Il sistema è destinato al supporto di fuoco diretto della fanteria in avanzamento e delle formazioni di carri armati e si muove con essi durante i combattimenti. Risulta estremamente efficace contro il personale trincerato e viene anche utilizzato per colpire edifici, fortificazioni sul campo e bunker. È anche idoneo contro veicoli corazzati leggeri. Il TOS-1A è simile ai sistemi MLRS classici, tuttavia utilizza un tipo diverso di munizionamento e ha un raggio di tiro più breve.

L’elemento principale del sistema TOS-1A è il veicolo di lancio BM-1 montato su scafo del carro T-72B3. Nel BM-1 ci sono 24 tubi di lancio, disposti in tre file di otto tubi ciascuna, che caricano due tipi diversi di razzi a seconda della carica. Il TOS-1A ha una portata maggiore rispetto al suo predecessore pari a circa 6mila metri, mentre quella minima si ritiene sia di 400.

Dicevamo che esistono almeno due tipi di testate per i razzi del TOS-1A: incendiarie e termobariche. Questo lanciarazzi pesante è supportato da un nuovo veicolo di ricarica TZM-T, che viene utilizzato per trasportare e ricaricare l’armamento. Trasporta un set completo di razzi di ricarica in due pod da 12 razzi ciascuno, con una gru utilizzata per la loro sostituzione. Il veicolo di ricarica trasporta anche 400 litri di carburante per il veicolo di lancio BM-1. Recentemente è apparso anche un veicolo di ricarica, basato sul camion KamAZ-6350 8×8 con lo stesso principio di ricaricamento (due pod e gru). 

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Il munizionamento di tipo termobarico non è una novità sul campo di battaglia: è infatti presente in entrambi gli arsenali di Russia e Stati Uniti che possono vantare le più grandi bombe termobariche mai costruite. Si tratta della GBU-43/B “MOAB”, acronimo di Massive Ordnance Air Blast (ma soprannominata Mother of All Bombs), che è stata utilizzata per la prima volta in Afghanistan il 13 aprile del 2017, e della controparte russa, la FOAB (Father of All Bombs), che in realtà in russo prende il nome di Aviation Thermobaric Bomb of Increased Power (ATBIP). L’impiego di queste due bombe è principalmente lo stesso di un altro ordigno, ampiamente usato durante il conflitto in Vietnam: la BLU-82 “Daisy Cutter”, anch’essa a carica termobarica. Il concetto operativo è quello di ripulire una determinata area dalle mine, oppure creare una zona libera da vegetazione per l’atterraggio di elicotteri, solo successivamente è stata usata anche come arma psicologica durante il conflitto contro l’esercito iracheno.

Gli ordigni termobarici fanno parte delle cosiddette “armi volumetriche”, che includono anche esplosivi FAE (Fuel Air Explosives). Sia il termobarico sia il FAE operano su principi tecnici simili. Nel caso degli esplosivi “ad aria compressa”, quando un proiettile contenente un combustibile sotto forma di gas, liquido o polvere esplode, questo viene sparso nell’aria per formare una nuvola che viene quindi “accesa” per creare un’onda d’urto estesa che produce sovrappressione e si espande in tutte le direzioni. In un’arma termobarica, il carburante è costituito da un monopropellente e particelle energetiche. Il monopropellente esplode in modo simile al TNT mentre le particelle energetiche bruciano rapidamente nell’aria circostante dopo brevissimo tempo, provocando un’intensa palla di fuoco e un’elevata sovrappressione. Il termine “termobarico” deriva infatti dagli effetti della temperatura (che può raggiungere anche i 2500/3000 gradi) e della pressione combinati sul bersaglio. L’impiego generico che se ne fa è rivolto a un certo tipo di bersagli come tunnel o una rete di bunker per eliminare il personale grazie all’onda d’urto e al calore. La maggior parte di quelli che vengono definiti Hard and/or Deeply Buried Targets (HDBT), vale a dire i tunnel nella roccia, sono così profondi che le armi convenzionali presenti negli attuali inventari delle forze armate, non possono penetrare a profondità sufficienti per colpire direttamente i loro bersagli, siano essi personale o assetti particolari come sistemi di comunicazione, comando e controllo. Se la detonazione di un’arma termobarica avviene internamente a una struttura rinforzata (come un bunker) o semplicemente in un tunnel, il suo effetto si amplifica per questioni legate alla concentrazione dell’onda d’urto.

Un lanciarazzi come il TOS-1A caricato con munizionamento incendiario o termobarico risulta particolarmente efficace per attacchi di saturazione d’area, così come avviene con quelli di tipo tradizionale (tipo BM-21 e BM-27).

Di diverso utilizzo è invece la carica termobarica che si può montare su un sistema balistico a corto raggio (SRBM – Short Range Ballistic Missile) come l’Iskander-M. Questo sistema mobile (su ruote) trasporta e lancia due missili tipo 9M723-1 aventi una portata massima compresa tra i 400 ed i 500 chilometri che possono utilizzare una testata bellica singola da 720/800 chilogrammi del tipo ad alto potenziale, termobarica tipo FAE, con submunizioni e nucleare (potenza tra i 5 ed i 50 kiloton).

Gli Iskander-M sono stati ampiamente utilizzati nel conflitto ucraino perché rappresentano un sistema per condurre attacchi di precisione a lunga portata, permettendo quindi al veicolo di lancio di restare al di fuori del raggio d’azione delle difese ucraine. Si ritiene che il recente bombardamento del centro commerciale alla periferia di Kiev, in cui è stato colpito un edificio che nascondeva un MLRS ucraino (sembra si trattasse di un BM-21 “Grad”) sia stato effettuato proprio con un missile dell’Iskander-M, probabilmente a carica termobarica ma è anche possibile sia stata usata una ad alto potenziale.

"Abbattuti". Cosa è successo agli Uav russi di Odessa. Alessandro Ferro su Il Giornale il 20 marzo 2022.  

Un numero ancora imprecisato di aerei russi senza pilota è stato abbattuto dalla difesa ucraina. La notizia è stata comunicata dal capo dell'Amministrazione militare regionale di Odessa, Maxim Marchenko. Come si apprende, l'esercito russo ha iniziato attivamente ad inviare velivoli senza pilota in ricognizione sulla città ucraina di Odessa e tutta la sua regione. Come risposta, la difesa aerea ucraina li ha intercettati e abbattuti.

La funzione dei i droni

Quello che si annuncia un lungo conflitto, vede in campo anche aerei-droni: come abbiamo visto su InsideOver, più dei carri armati e dei missili, i protagonisti della guerra in Ucraina sono i droni. Piccoli, agili e maneggevoli, gli Unmanned Aerial Vehicle (Uav) hanno attirato su di loro diverse attenzioni non solo perché sono stati utilizzati con successo tanto dalle fila dell’esercito ucraino quanto dalla sponda russa, ma anche e soprattutto per la loro propensione ad essere impiegati in varie missioni collegate, o comunque correlate, alla vicenda ucraina. Era già successo il 15 marzo che le autorità di Kiev avevano individuato un drone di sorveglianza russo attraversare la Polonia prima di rientrare nello spazio aereo ucraino. Senza pensarci due volte, il bersaglio è stato abbattuto. Dalle prime ricostruzioni, sembra che il drone avesse il compito di sorvegliare il centro di addestramento militare ucraino recentemente colpito da un attacco missilistico russo.

Funzioni e tipologie

Chiamati Uav (Unmanned Aerial Vehicles), questi droni sono mini aerei telecomandati che restano a lungo in volo fino a quando non hanno individuato l'obiettivo da centrare. In molti casi, contengono centinaia di biglie d'acciaio per produrre gli effetti peggiori possibili: è la caratteristica dei "droni kamikaze". A quel punto scatta l'attacco: la fase chiamata "sorvolo a circuito" permette di selezionare gli obiettivi da colpire, raccogliere maggiore informazioni prima di colpire il bersaglio oppure battere in ritirata qualora non si verificassero più i presupposti per mettere fine all'attacco o se ci fossero perdite collaterali notevoli. Il grande vantaggio di questo tipo di azione consiste di avere ancora a disposizione la munizione se la prima operazione fallisce. Come scrive RaiNews24, la battaglia tra droni vede quelli di produzione turca, Bayraktar TB2, in dotazione all'esercito ucraino, e i droni Kronstadt Orion e Orlan-10 in dotazione all'esercito russo. La loro grande caratteristica è la facilità di decollo che può avvenire in spazi particolarmente ridotti. Mediamente, possono volare per 24 ore consecutive e raggiungere velocità fino 220 Km/h grazie alla struttura leggera e alla fusoliera realizzata in fibra di carbonio. Il peso trasportabile è limitato a 150 chili ma con svariati equipaggiamenti: tra le dotazioni a bordo si trovano i telemetri che misurano la distanza dagli obiettivi e i laser e i laser.

I numeri ucraini del conflitto

Secondo quanto riferito dalla Bbc che non ha, però, potuto confermare le fonti, soltanto nelle ultime ore l'Ucraina afferma di aver distrutto 12 tra velivoli e missili russi. Le forze armate ucraine le difese aeree avrebbero distrutto due aerei, tre elicotteri, tre droni e quattro missili da crociera. Colpito anche per la sesta volta l'aeroporto di Chornobaivka, nella regione del Kherson, dove la Russia ha piazzato parte della sua flotta aerea. Invece, nel bollettino quotidiano pubblicato su Twitter, il ministero della Difesa ucraino afferma di aver ucciso finora 14.400 soldati russi, abbattuto 210 velivoli militari (95 aerei e 110 elicotteri), distrutto 466 carri armati e 1.470 veicoli corazzati e blindati, 914 veicoli militari e 60 cisterne di carburante, oltre a 213 pezzi d'artiglieria e di avere affondato tre imbarcazioni. A Kiev risulta anche la neutralizzazione di 72 lanciatori multipli di razzi, 44 batterie antiaeree, 17 droni e 11 macchinari specializzati nemici.

Il primo missile ipersonico. Andrea Cuomo su Il Corriere della Sera il 20 marzo 2022.  

Sul tavolo delle trattative, Mosca cala l'asso del missile ipersonico. Si chiama Kinzhal (che in russo significa pugnale) è ha fatto il suo esordio nello scenario ucraino per «distruggere un deposito di munizioni sotterraneo nell'ovest dell'Ucraina» che in epoca sovietica conteneva armi nucleari, a Delyatin, nella regione di Ivano-Frankivs'k, a un centinaio di chilometri dal confine polacco, come fa sapere il ministero russo della Difesa, citato dalla Tass. Un gesto dall'alto valore dimostrativo, che vuole mostrare all'Ucraina e al resto del mondo come la Russia sia pronta a un'ulteriore escalation militare, qualora ce ne fosse bisogno.

© Fornito da Il Giornale

Il missile Kinzhal è una delle armi segrete russe di nuova generazione, esempio di quella tecnologia ipersonica per cui la Russia è all'avanguardia mondiale. È in grado di raggiungere velocità dieci volti superiori a quella del suono (Mach 1). La velocità stimata di Kinzhal in prossimità del bersaglio è compresa tra i 10.620 e i 12.250 chilometri all'ora (Mach 10) e una gittata compresa tra 1.500 e 2.000 chilometri. Inoltre Kinzhal è in grado di compiere manovre che gli consentono di dribblare la contraerea avversaria. Il tutto senza rinunciare a una estrema manovrabilità. Insomma, un'arma quasi perfetta o quanto meno «ideale», come la aveva definita Vladimir nel 2018: veloce, precisa grazie ai sensori di cui è dotata, di grande capacità distruttiva. I suoi obiettivi sono principalmente incrociatori e portaerei, ma come è accaduto ieri è in grado di colpire anche obiettivi terrestri. «Il suo ruolo nella deterrenza non nucleare - si legge in un recente articolo del Center for Strategic and International Studies - è nelle prime fasi di una escalation. Tutttavia è inteso primariamente come arma nucleare».

Il missile ipersonico Kinzhal è stato sviluppato nel decennio precedente, il primo lancio, sperimentale, risale al 2018. È lungo nove metri e ha diametro di un metro, un peso di lancio di 4.300 chilogrammio e può disporre di differenti tipi di testata: convenzionale, termonucleare e termobarica, quest'ultima estremamente distruttive e crudeli, visto che quando esplode disperde nell'atmosfera degli di idrocarburi che si miscelano con l'aria presente, creando una miscela altamente infiammabile, che consuma tutto l'ossigeno circostante e crea una combustione rapida e violenta che crea una spaventosa onda d'urto e può letteralmente vaporizzare i corpi umani.

Il missile può essere aviotrasportato dai MiG, gli aerei da caccia russi, che devono essere adeguatamente modificati. La prima flotta di MiG equipaggiati con missili Kinzhal è dislocata presso l'aeroporto militare di Akhtubinsk, nella Russia del Sud, nella regione di Astrakhan, a poco più di 500 chilometri dal confine orientale dell'Ucraina. E il Kinzhal lanciato ieri è stato trasportato da un MiG-31K.

Cos’è e come funziona il missile Kinzhal, l’arma ipersonica di Putin. Federico Giuliani su Inside Over il 19 marzo 2022.

Rapidi, letali e pressoché invisibili agli occhi dei sistemi di difesa antiaerei rivali. Si chiamano Kinzhal, e sono missili balistici ipersonici, con capacità nucleare o convenzionale, lanciati da un Mig-31 modificato. Ebbene, per la prima volta dall’inizio della guerra in Ucraina la Russia ha utilizzato questo tipo di missili. Lo ha affermato Igor Konashenkov, portavoce del ministero della Difesa russo, spiegando che sono stati impiegati per distruggere un deposito militare sotterraneo nell’Ucraina occidentale.

“Il 18 marzo, il sistema missilistico dell’aviazione Kinzhal con missili aerobalistici ipersonici  ha distrutto un grande magazzino sotterraneo di missili e munizioni per l’aviazione delle truppe ucraine nel villaggio di Delyatyn, nella regione di Ivano-Frankivsk”, ha fatto sapere Konashenkov in un briefing, citato da Interfax e Tass.

Stiamo parlando, ha ricordato l’Agi, di una delle sei armi di “prossima generazione” citate da Vladimir Putin nel suo discorso risalente al marzo 2018; e dunque di uno dei jolly a disposizione del Cremlino, che evidentemente ha ritenuto opportuno ricorrervi per stroncare la difesa della resistenza ucraina.

Le caratteristiche tecniche del Kinzhal

Il cosiddetto Kinzhal viene descritto come un missile balistico ipersonico aerolanciato di alta precisione – nonché, come vedremo, una versione modificata del missile 9K720 Iskander – prodotto nello stabilimento Votkinsk. Scendendo nel dettaglio, e toccando il lato più “tecnico”, i Kinzhal hanno una gittata dichiarata che va dai 1.500 ai 2.000 chilometri, con un carico utile nucleare o convenzionale fino a 480 chilogrammi. Hanno una lunghezza di otto metri, con un diametro di uno e un peso di lancio di circa 4.300 chilogrammi.

Sembra che possano fare affidamento a differenti tipi di testata: convenzionale, termonucleare, termobarica, a submunizioni e perforante/esplosiva per bersagli protetti. Può attaccare obiettivi fissi e colpire bersagli navali di grandi dimensioni, come ad esempio le portaerei della U.S. Navy, ma anche le unità navali dotate del sistema AEGIS.

Qual è il loro obiettivo

Per dimensioni sono simili al missile balistico a corto raggio 9M723 Iskander, ma hanno tuttavia alcune caratteristiche ben diverse, a cominciare da una sezione di coda ridisegnata e timoni ridotti. Generalmente, dopo il lancio, il Kinzhal accelera fino a Mach 4 e può raggiungere velocità fino a Mach 10 (12.350 km/h). Questa velocità, unita alla sua traiettoria di volo irregolare e alla sua elevata manovrabilità, può complicarne l’intercettazione da parte dei sistemi di difesa antiaerei rivali. Il missile è stato testato nel sud della Russia nel dicembre 2017.

I filmati diffusi hanno subito fatto il giro del web, mentre il ministero della Difesa di Mosca li ha definiti un successo. Alcuni esperti ipotizzano che i Kinzhal possano essere stati sviluppati per colpire più facilmente i bersagli “occidentali, come le infrastrutture cruciali europee, e per contrastare il Thaad americano, e cioè il sistema di difesa per colpire missili balistici a medio e corto raggio.

Nel dicembre 2021, il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu aveva ufficialmente annunciato la formazione del primo reggimento aereo dotato di intercettori MiG-31K equipaggiati con i suddetti missili ipersonici Kinzhal. Equipaggiato con dieci velivoli, anche per scopo sperimentale, il reggimento era stato dislocato presso l’aeroporto di Akhtubinsk, nella regione di Astrakhan, distretto militare meridionale. Il suo ruolo principale? Attacchi antinave ed il pattugliamento aereo sul Mar Nero. 

Le armi in campo, in Ucraina: i Javelin di Kiev possono battere tank e caccia russi? Andrea Nicastro su Il Corriere della Sera il 20 Marzo 2022.

Quante delle armi inviate dall’Occidente sono davvero arrivate ai reparti al fronte? Dalla risposta dipende l’esito della guerra: ecco perché. «Chiudete i cieli» dicono decine di bambini ucraini in uno spot patriottico che passa continuamente in tv. «Se solo chiudeste i cieli» sospira un gigante di soldato, alla stazione di Zaporizhya. «È dall’alto che ci massacrano». Ferito al fronte, torna a casa in licenza. «Scheggia di bomba. Aerea, naturalmente». «Chiudete i cieli» ha ripetuto per giorni il presidente Zelensky. 

I «cieli» di cui parlano gli ucraini sono i caccia bombardieri e gli elicotteri d’attacco che portano missili e bombe capaci di scavare crateri di 5 metri, abbattere edifici, gettare nel panico chi è lì sotto. 

«Cieli» vuol dire anche missili che viaggiano dalla base di Crimea o dalle navi sul Mar Nero. Li puoi vedere da Zaporizhya o da Dnipro volare sopra la testa, diretti a Kiev o a Leopoli. Se non li vedi, preoccupati. Anche pancia a terra, a mezzo chilometro di distanza dal punto d’impatto, l’onda d’urto ti ucciderebbe per emorragia interna.

Negli ultimi giorni Zelensky sembra aver rinunciato a vedere la Nato abbattere Mig e Sukhoi russi. Una battaglia tra jet significherebbe la terza Guerra Mondiale. Niente chiusura dei cieli, quindi, ma armi da guerriglia a volontà. 

L’Occidente ha stanziato il denaro, ha cominciato gli invii, un nuovo carico di Javelin e Stinger è in arrivo, ma quel che non è chiaro è quante armi occidentali siano effettivamente arrivate a reparti al fronte. E qui sta la chiave dei prossimi giorni. 

O la Russia riesce a conquistare presto posizioni chiave, oppure le armi arriveranno e per le colonne russe già falcidiate potrebbero essere problemi. Cieli o non cieli. 

Vittorie russe significative sono la presa di città come Mariupol e Kharkiv o anche l’accerchiamento delle truppe ucraine a difesa del Donbass (circa la metà dell’esercito regolare). A quel punto al tavolo delle trattative Putin avrebbe molto da scambiare. Se invece arriveranno droni maneggevoli, anticarro e antiaerea da spalla, allora l’esercito dell’Ucraina potrebbe non essere più in svantaggio. 

I russi sono 200 mila con armi pesanti, gli ucraini sarebbero 40 milioni con armi intelligenti. 

Per fermare un tank T72 da due milioni basta un razzo anticarro a spalla Javelin da 250 mila dollari ed è anche riutilizzabile. Per abbattere un Sukhoi 35 da 25 milioni basta uno Stinger antiaereo spalleggiabile da 40 mila. 

Tutto molto efficace e sostenibile nel tempo. Persa la «blitzkrieg», la guerra lampo che prevedeva poca opposizione da parte ucraina, la Russia è passata alla guerra di logoramento. Il fatto che negli ultimi giorni non stiano avanzando, non significa che i russi stiano perdendo, ma che si sono adattati a una resistenza inaspettata.

Il Cremlino non ha ordinato il bombardamento a tappeto su tutto il Paese, solo su Kharkiv, Mariupol e in parte Kiev. 

Colpisce i civili dall’alto, senza rischi, con scarsa precisione, spendendo poco. Alcune bombe per nulla intelligenti erano in magazzino da 20 o 30 anni. Quel che conta è togliere il sonno, tormentare nervi, degradare ospedali, strade, servizi prima ancora che soldati nemici. Tanta crudeltà serve a due scopi: fiacca il morale di chi combatte e drena risorse. I civili in fuga diventano un’arma nei confronti del sistema logistico e di supporto allo sforzo militare perché lo intasano di centinaia di migliaia, milioni, di fuggiaschi. 

Questa «bomba umana» creata dai missili colpisce sia la resistenza ucraina, sia la rete di alleanza europea. Ma anche questo potrebbe non bastare a Putin. 

Solo cinque mesi fa in Bielorussia poche migliaia di migranti mediorientali mandarono in tilt la solidarietà europea. Oggi l’Ue ha accolto tre milioni di profughi senza un lamento. Lo zar, probabilmente, non si aspettava neppure questa di resistenza.

La resistenza. Quali armi arrivano in Ucraina dall’Occidente (e che impatto hanno nel conflitto). Michelangelo Freyrie su L'Inkiesta il 19 Marzo 2022.

Munizioni, pezzi d’artiglieria, poi anche i fondamentali sistemi anticarro e antiaereo, oltre a droni di nuova generazione. La vera forza però è il fattore umano: i soldati si sono dimostrati sufficientemente addestrati per adattarsi a nuovo equipaggiamento in tempi brevi.

Le difese ucraine si sono rivelate più resilienti del previsto, complice un clamoroso errore di calcolo degli invasori. Aver sprecato la sorpresa dei primi giorni d’attacco sta già costando caro alle forze del Cremlino, che da un paio di settimane devono confrontarsi con un vertiginoso afflusso di armi ed equipaggiamento occidentale.

I sistemi d’arma forniti dai Paesi Nato e dagli Stati membri dell’Unione europea, con un forte contributo finanziario della European Peace Facility e del governo americano, sono essenzialmente compatibili con le esigenze di Kiev.

Questo non è ovviamente un caso: le discussioni sul possibile trasferimento di caccia di quarta generazione (prodotti cioè a partire dagli anni ‘80) e la richiesta da parte ucraina di sistemi antiaerei S-300 (in servizio dal 1978) indicano un ragionamento molto chiaro: agli ucraini servono armi che richiedono poco addestramento per essere utilizzate, o perché facili da utilizzare o perché già in uso dalle loro forze armate, e che richiedono poche risorse per il trasporto e l’operazione.

L’attuale strategia ucraina si concentra sul contestare ai russi il controllo delle strade e organizzare imboscate lungo le profonde retrovie ancora non in sicurezza, sfruttando i colli di bottiglia provocati da infrastrutture poco favorevoli al sistema logistico ferroviario russo. In più, gli ucraini sembrano favorire ripiegamenti tattici e tentativi di riconquista delle posizioni più avanzate, dimostrando una certa mobilità locale rispetto all’esperienza fatta in Donbass.

La riforma dell’esercito ucraino, che entro il 2020 avrebbe dovuto omologare la propria struttura di comando e l’organizzazione delle unità alla Nato, è rimasta incompleta. Tuttavia, è evidente che il cambio culturale avvenuto nel corpo ufficiali, oggi più libero nel compiere le proprie missioni senza doversi consultare ripetutamente con il comando centrale, rendono le forze ucraine pronte ad accogliere i materiali consegnati dall’Occidente e a gestire una difesa locale flessibile.

È possibile distinguere fra i rifornimenti provenienti dai Paesi dell’Unione e dagli Stati Uniti. Nella prima fase della guerra gli Stati membri hanno avuto un ruolo chiave nel rifornire Kiev con munizioni e pezzi d’artiglieria di ex produzione sovietica, compatibili quindi con i sistemi ereditati dall’Ucraina dopo il crollo dell’Unione sovietica. Detto questo, le consegne più importanti (assieme a small arms con standard Nato come fucili e mitragliatrici) sono stati sistemi anticarro e antiaereo portabili di produzione occidentale, in gergo chiamati Manpads (man-portable air defense systems) e Atgm (anti-tank guided missiles).

Queste armi, operabili da uno o due soldati in tandem, includono svariate migliaia di missili e sistemi di lancio di diversa produzione, fra cui il Milan franco-tedesco, il Panzerfaust tedesco, il Tow americano e le due “star” del conflitto: il Javelin (anti-carro) e Stinger (anti-aereo), entrambi di produzione statunitense.

Questi ultimi sono, per progettazione e storia operativa, la vera nemesi delle forze armate russe. Lo Stinger, già utilizzato dai Mujaheddin afghani contro i sovietici, è progettato come arma anti-elicottero e la sua maggiore limitazione è la vulnerabilità nei confronti dell’aviazione nemica: una formazione nemica ben coordinata dovrebbe essere in grado di individuare uno Stinger e richiedere un intervento immediato del supporto aereo, che lanciando un attacco a grande altitudine non può essere colpito.

Questo difetto operativo non è per ora determinante in Ucraina a causa dei problemi di command and control russe e la decisione di tenere in secondo piano il supporto aereo.

Il Javelin invece è invece l’arma anticarro più adatta per controbilanciare le forze corazzate russe. L’esperienza siriana ha dimostrato che il T-90, il carrarmato più avanzato in dotazione all’esercito russo in grande quantità, è dotato di una serie di sistemi di difesa competitivi, soprattutto contro missili anticarro teleguidati TOW. Le protezioni Shtora-1 includono delle cariche esplosive poste sulla corazza che, detonando poco prima dell’impatto del missile, ne annullano l’impatto.

In più, molti veicoli sono dotati di fumogeni progettati per interferire col laser utilizzato da molti lanciamissili per guidare la carica verso l’obiettivo.

Il Javelin è però in grado di rispondere a tutto ciò: è dotato di una doppia testata, la prima per superare eventuali contromisure e la seconda per colpire l’obiettivo; si tratta di un sistema “fire-and-forget” a ricerca termica, non necessita di essere guidato contro il carro e permette agli operatori di mettersi al riparo e cambiare posizione prima che il nemico possa reagire. È programmato per aggiustare automaticamente il volo e trovare una traiettoria con la quale possa colpire il carro dall’alto, dove la corazza è più sottile.

A questo equipaggiamento, fornito sia dall’Europa sia dagli Stati Uniti, si aggiungono ulteriori sistemi d’arma con la capacità di rafforzare le difese ucraine. I miliardi di dollari andati negli ultimi anni nell’acquisto di mezzi di trasporto, sistemi antiradar e anti-artiglieria e soprattutto nell’addestramento rappresentano un livello di commitment più raffinato rispetto a quello europeo.

È anche notevole che Washington abbia acconsentito al trasferimento di droni Switchblade, tecnicamente noti come munizioni circuitanti (loitering munitions) ma popolarizzati con l’ameno nomignolo di “droni kamikaze”. Questi sono per certi versi l’evoluzione operativa del Javelin, anche se si tratta di un sistema d’arma completamente diverso.

Lo Switchblade è un drone usa-e-getta che si schianta contro gli obiettivi nemici, che a differenza di altri sistemi può annullare le ultime fasi di volo in caso l’operatore si accorga di civili nelle vicinanze o di star semplicemente sbagliando mira.

La versione più rudimentale di Switchblade può volare per 10 chilometri e 15 minuti, e tutto il sistema (piattaforma di lancio e drone stesso) pesa solo 2,5 chili. La versione più avanzata ne quadrupla l’autonomia, ed entrambi hanno il vantaggio di rimuovere gli operatori dalla zona immediata di combattimento, permettendo anche una difesa più “profonda” e quindi meno vulnerabile.

Queste armi avanzate, ovviamente, non sono di per sé sufficienti per rafforzare la resistenza ucraina.

È sempre il fattore umano a determinare la qualità di un corpo di combattimento, e gli ucraini hanno dimostrato di essere sufficientemente addestrati per adattarsi a nuovo equipaggiamento in tempi brevi. Sicuramente ha aiutato il sistema di riserve a più livelli messo in atto dopo il 2014: l’esercito è affiancato alla guardia nazionale (900mila soldati che hanno già servito nelle forze armate, di cui 400mila in Donbass) e dalla guardia territoriale, garantendo quindi che competenze e preparazione militare fossero più o meno diffuse in tutta la società alla vigilia della mobilitazione generale.

L’esperienza della guerra 2014-2022 nell’est del Paese è anche stata valorizzata tramite nuovi sistemi per assorbire le lessons learned nel maggior numero possibile di unità.

Tutto ciò, unito alla scarsa esperienza di molti operatori russi e la reticenza di Mosca di impiegare su larga scala aviazione, guerra elettronica e missili cruise, si è dimostrato estremamente utile.

L’efficacia delle difese, come spesso in guerra, è soprattutto dovuta all’inettitudine dell’attaccante. Se i russi saranno in grado di mettere in atto operazioni più coordinate, pur con tutta la difficoltà di cambiare approccio in media res e con il rischio politico legato a una pausa di riorganizzazione, allora l’Occidente non potrà più riposarsi sugli allori delle forniture attuali.

Stinger, mortai e missili Milan: la lista (secretata) delle armi italiane inviate a Kiev. Mauro Indelicato il 18 Marzo 2022 su Il Giornale.

Governo e Copasir hanno deciso di imporre il segreto sulla lista di armi da inviare in Ucraina, ma alcune fonti di stampa hanno rivelato non pochi dettagli.

Il parlamento ha dato il suo primo via libera al decreto Ucraina, all'interno della quale ci sono tutte le disposizioni relative agli aiuti dell'Italia verso Kiev. Non solo aiuti umanitari, ma anche armi e munizioni.

Ed è su quest'ultimo aspetto che si concentra la massima attenzione politica. Capire cioè quali dispositivi stiamo inviando in Ucraina. Saperlo con certezza è impossibile. Infatti nei giorni scorsi governo e Copasir (la commissione parlamentare di controllo sulle attività dei servizi segreti) hanno imposto il segreto sulla lista degli armamenti a sostegno dell'esercito ucraino.

Ma alcuni dettagli sono comunque usciti dal palazzo. Su IlFattoQuotidiano è stato pubblicato un elenco di armi in grado di avvicinarsi molto a quello ufficiale approvato dall'esecutivo. Si parte dalle mitragliatrici. In particolare, verranno spedite in Ucraina diversi modelli di mitragliatrice MG 7.62. Sul sito dell'esercito ne vengono spiegate le caratteristiche. Si tratta di arma automatica con “reparto a corto rinculo di canna con chiusura geometrica a rulli e con una celerità di tiro pari a 750 –900 colpi al minuto”. È funzionante e funzionale, ma è in dotazione all'esercito dal 1959. Un'arma quindi, secondo alcuni esperti sentiti da IlFatto, un po' “datata e obsoleta”.

Ci saranno anche le mitragliatrici 12.7 Browning, oltre che colpi calibro 12.7. “Le caratteristiche tecniche e balistiche della Browning, unite ai più moderni tipi di munizionamento – è la descrizione che si legge nel sito dell'esercito – ne fanno un’arma versatile e pienamente rispondente alle necessità operative”.

In Ucraina anche i missili

Oltre alle mitragliatrici, in direzione di Kiev stanno per partire anche spedizioni con all'interno almeno “cento missili”, si legge nell'elenco. Ci sono poi anche gli Stinger, fondamentali per proteggere lo spazio aereo.

Il governo ucraino appare (forse) rassegnato all'idea di una no fly zone da parte della Nato, vista la pericolosità di una simile azione. Ma da parte sua l'Alleanza Atlantica ha promesso più armi per dare la possibilità a Kiev di difendersi da attacchi aerei. Gli Stinger servono proprio a questo. Sempre nel sito dell'esercito è possibile vedere una descrizione. “Si tratta – si legge – di un sistema d’arma missilistico terra-aria impiegato contro la minaccia aerea condotta alle bassissime quote”.

"Niente missione della Nato per gli aiuti umanitari". Sì ad altre armi all'Ucraina

Una vola premuto il grilletto, l'ordigno parte e va verso l'obiettivo. È facile da usare, non comporta per gli ucraini un grande addestramento, ma ha il “limite” di poter puntare solo su aerei a bassa quota. Ne sono consapevoli ovviamente i russi, i quali quindi provano sempre ad operare a quote più elevate, anche se spesso durante queste settimane di guerra gli aerei di Mosca, per via del posizionamento di alcuni obiettivi o delle condizioni meteo, questo non è stato possibile.

In arrivo i lanciarazzi e missili anticarro

Nell'elenco di armi da inviare a favore dell'Ucraina anche almeno 200 lanciarazzi. In gran parte si tratta di C-c Mk72Law, costruiti negli anni '60 negli Stati Uniti. Poi ci sono missili anticarro del modello Milan. Nulla a che fare con il riferimento alla città italiana, il nome è l'acronimo francese di “Missile d’Infanterie Léger Antichar”.

In direzione Ucraina anche elmetti e giubbotti antiproiettile. Ne verranno spediti almeno 5.000 e verranno distribuiti ai soldati dispiegati da Kiev lungo i fronti più sensibili.

Fermiamo la lobby militare che specula sulla tragedia dell’Ucraina. STEFANO FELTRI, direttore, su Il Domani il 17 marzo 2022.

La spesa militare nel mondo è aumentata anche durante il Covid, nel 2020 ha toccato la cifra record di 2.000 miliardi di dollari. In Italia il bilancio della Difesa è in costante crescita, dai 21,4 miliardi del 2019 ai 26 del 2022.

Il Parlamento ha appena approvato un ordine del giorno che chiede al governo di aumentare ancora la spesa militare, fino a 38 miliardi all’anno, per rispettare gli impegni con la Nato.

Tutto questo non c’entra nulla con l’aggressione della Russia, che bruciare altre decine di miliardi nel falò della Difesa non preparerà la pace, ma  la guerra.

STEFANO FELTRI, direttore. Nato a Modena nel 1984. Ha studiato economia alla Bocconi con l’idea di fare il giornalista. Ha lavorato per la Gazzetta di Modena, Radio24, il Foglio, il Riformista e poi dal 2009 al Fatto Quotidiano, di cui è stato prima responsabile dell’economia e poi vicedirettore. Nell’estate 2019 si è trasferito negli Stati Uniti per lavorare e studiare alla University of Chicago - Booth School of Business, dove ha curato il sito ProMarket.org dello Stigler Center diretto dal professor Luigi Zingales. Ora è direttore di Domani.

Il dossier. Le armi che inviamo a Kiev: la lista segreta. Dagli Stinger alle bombe da mortaio. Esclusivo. L’elenco secretato dal ministero della Difesa e Copasir degli armamenti spediti dal governo italiano a Zelensky: dai lanciatori Milan ai missili mk72. Di Valeria Pacelli su Il Fatto Quotidiano il 18 marzo 2022.

Alcune decine di lanciatori Stinger, e poi milioni di colpi 12.7 e svariate migliaia di bombe da mortaio 120. E ancora: mitragliatrici Browning, razioni alimentari da combattimento, migliaia di elmetti e alcune decine di lanciatori Milan. È parte dell’artiglieria che l’Italia ha deciso di spedire alla resistenza ucraina per difendersi dall’invasione russa. Ieri è arrivato […]

Guerra Russia-Ucraina, 23 Stati (20 in Unione europea) hanno scelto di inviare armi a Kiev: ecco quali sono e il materiale che forniranno. Il Fatto Quotidiano il 2 marzo 2022.  

Si tratta di 22 membri della Nato più la Svezia, che abbandona la storica neutralità e per la prima volta dal secondo conflitto mondiale invia armi a un Paese in guerra. Prima volta - dai tempi del nazismo - anche per la Germania, che contribuisce con 1.000 razzi anti-carro e 500 missili terra-aria Stinger, richiestissimi dalle armate ucraine: a inviarli anche Paesi Bassi, Polonia, Lettonia, Usa e - probabilmente - l'Italia. Da Roma anche mitragliatrici leggere e pesanti

Venti Stati sui 27 dell’Unione europea, a cui si aggiungono Regno Unito, Usa e Canada. Sono 23 i Paesi che negli ultimi giorni hanno scelto di rifornire la resistenza ucraina con materiale bellico, in una corsa contro il tempo per frenare l’avanzata della Russia. Si tratta di 22 membri della Nato più la Svezia, che abbandona la storica neutralità e per la prima volta dal secondo conflitto mondiale invia armi a un Paese in guerra (5mila armi leggere di nuova generazione anti-carro armato). Prima volta – dai tempi del nazismo – anche per la Germania, che contribuisce con 1.000 razzi anti-carro e 500 missili terra-aria Stinger per la contraerea da parte della Bundeswehr, l’aviazione tedesca. Uno scarto netto rispetto alla politica tenuta negli ultimi decenni da Berlino, che ha sempre vietato l’export di armi in zone di conflitto. “L’invasione russa è un punto di non ritorno”, ha detto sabato il cancelliere Olaf Scholz. “È nostro dovere aiutare l’Ucraina a difendersi contro l’esercito invasore di Putin”.

A inviare gli Stinger, richiestissimi dalle armate ucraine, anche Paesi Bassi (200, più 400 mappe anticarro), Polonia e Lettonia. E soprattutto gli Stati Uniti: la scorsa settimana il Segretario di Stato Anthony Blinken ha autorizzato lo stanziamento di ulteriori 350 milioni di dollari “per il supporto immediato alla difesa ucraina”, che si aggiungono ai 60 dello scorso autunno e ai 200 di dicembre, portando “il totale degli investimenti degli Usa per la sicurezza in Ucraina a più di un milione nel corso dell’ultimo anno”, si legge nella nota del Dipartimento di Stato. Il pacchetto, spiega Blinken, “includerà ulteriore assistenza difensiva letale per aiutare l’Ucraina a rispondere alle minacce terrestri e aeree che sta affrontando”. L’Unione europea, dal canto proprio, ha stanziato 450 milioni di euro in aiuti militari: anche questo un inedito nella storia comunitaria, che è stato possibile realizzare – spiega ISPI – grazie allo “Strumento europeo per la pace”, un fondo che opera fuori bilancio con i contributi di tutti gli stati membri, in modo da aggirare i Trattati che impediscono la messa a bilancio di spese con “implicazioni nel settore militare o della difesa”.

Presi singolarmente, invece, sono soltanto sette i Paesi dell’Ue che non invieranno armi in modo diretto: Ungheria, Irlanda, Austria, Spagna, Bulgaria, Malta e Cipro. La Francia, su richiesta di Kiev, ha inviato equipaggiamenti e carburante, contraerea e armi digitali. La Danimarca fornisce 2.700 razzi anticarro, mentre altri 2.000 arriveranno dalla Norvegia, che invia anche caschi e armature. Un sostanzioso contributo è arrivato anche dalla storicamente neutrale Finlandia, che fornirà 1.500 lanciarazzi, 2.500 mitragliatrici d’assalto, 150.000 proiettili e 70.000 razioni di cibo da campo. Il Belgio ha annunciato l’invio di 3.000 mitragliatrici automatiche e 200 armi anticarro, oltre a 3.800 tonnellate di carburante. Il Portogallo porta in dote visori notturni, giubbotti antiproiettile, caschi, granate, munizioni e mitragliatrici automatiche. E l’Italia? Le informazioni sul contributo di Roma sono secretate, ma a quanto pare si tratterà – anche nel nostro caso – di razzi anticarro e missili Stinger, mitragliatrici leggere e pesanti e mortai. Il numero degli anticarro e degli Stinger dovrebbe essere nell’ordine delle centinaia. Migliaia dovrebbero essere invece le mitragliatrici pesanti Browning e le più leggere Mg.

Ucraina, la "strage degli Alligator": così uno Stinger fa fuori un elicottero in un secondo. Libero Quotidiano il 31 maggio 2022

È strage di elicotteri d’assalto russi in Ucraina: molti sono stati martoriati dai razzi Stinger, perdendo così la supremazia che ha segnato un’era. Un'era che - come sottolinea Repubblica - è stata raccontata in famosi film come "Apocalypse Now" o "We were soldiers" con Mel Gibson. A confermare il fallimento di Mosca sono i numeri documentati dalle foto e censiti dal sito Oryx: i russi hanno già perso 42 elicotteri, rispetto ai sette di Kiev. 

Questo ha portato gli uomini di Putin a dover fare sempre più a meno degli elicotteri. Un duro colpo. Soprattutto se si pensa che è dall’epoca sovietica che si contava sulle “cannoniere volanti”, mezzi con cabine blindate e dotate di armi pesanti. Il problema riguarda principalmente i modernissimi Kamov Ka 52, noti anche come Alligator, presi di mira dal cosiddetto “Manpad”, sistema missilistico antiaereo a corto raggio e trasportabile a spalla. Da fine febbraio, grazie alle forniture dei Paesi occidentali, gli ucraini hanno più di mille missili di questo tipo a disposizione. E mentre gli aerei da combattimento talvolta sopravvivono al loro attacco, gli elicotteri invece diventano il bersaglio perfetto.

Il fallimento degli elicotteri è iniziato con il raid contro l’aeroporto di Hostomel, organizzato all’inizio dell’invasione. Tra gli esperti, però, c'è anche chi la pensa in maniera diversa, come Michael O’Hanlon della Brookings Institution: "Gli elicotteri russi non sono obsoleti, ma non sono il mezzo per attaccare un obiettivo prevedibile o dove il nemico è in allerta". Altri analisti, poi, ritengono sia troppo presto per parlare di strage o di fallimento degli elicotteri, anche perché mentre adesso il numero di Stinger a disposizione degli ucraini è enorme, in futuro difficilmente un altro esercito potrà contare su un armamento così forte.

L’importanza dei droni Bayraktar che distruggono l’artiglieria russa. Alessandro Ferro su Il Giornale il 31 maggio 2022.  

È uno degli "aiuti" più utilizzato dagli ucraini nel conflitto contro i russi ma la notizia è che stavolta non si tratta di un'arma "occidentale": stiamo parlando dei droni turchi Bayraktar TB2 che da fine febbraio distruggono artiglieria e diversi tipi di corazzati dell'esercito di Mosca. Sono così efficienti che adesso i clienti pronti ad acquistarli si sono moltiplicati. Creato da Selcuk Bayraktar, 42enne con una Laurea in ingegneria a Istanbul, due Master di cui uno al Massachusetts Institute of Technology (MIT). Intervistato dalla Reuters, ha affermato che il drone si sta comportando "per quello che doveva fare: eliminare alcuni dei più avanzati sistemi antiaerei" oltre a quello sopra menzionato.

Come abbiamo visto sul Giornale.it, il TB2 può volare fino a 25mila piedi (7620 metri) prima di distruggere i tank e l'artiglieria e l'artiglieria russa con bombe guidate tramite laser. Sin dall'inizio del conflitto si sono rivelati una vera spina nel fianco degli invasori mentre l'esercito di Zelensky ne è così entusiasta da aver creato il ritornello di una canzone patriottica ucraina dove viene ripetuto, appunto, "Bayraktar, Bayraktar". Questo mezzo si pilota a distanza ed è dotato di un motore da 105 cavalli che fa giriare un'elica posteriore, può volare fino a 27 ore consecutivamente ed è dotato anche di intelligenza artificiale che consente di effettuare alcune operazioni in maniera autonoma: può decollare e atterrare senza che venga impostato da remoto e può volare con tre differenti sistemi di pilota automatico. Un vero e proprio gioiello tecnologico.

L'ingegnere, che è sposato con la figlia di Erdogan, ha affermato che l'azienda Baykar, il più noto esportatore di armi della Turchia, può produrre 200 droni TB2 all'anno. Lo stesso Putin e il ministero della Difesa russo, come ricorda II Messaggero, lo hanno nominato decine di volte in pubblico a mostrare rispetto e timore. Questo tipo di mezzo finora era stato impiegato in Libia, in Siria e nel Nagorno-Karabakh dove ha ottenuto numerosi successi annientando le forze armate dell'Armenia. Questi droni, già rodati in precedenti conflitti, non hanno deluso le aspettative tant'é che c'è l'intenzione di renderli ancora più efficienti.

Baykar, come detto, sta lavorando sul successore, il TB3, dotato di ali pieghevoli e in grado di decollare e atterrare su portaerei anche a corto raggio, oltre ad un aereo da combattimento chiamato Kizilelma. "Inshallah, il primo volo di Kizilelma sarà l'anno prossimo e TB3 entro la fine di quest'anno o l'inizio del prossimo", ha affermato Bayraktar. "Se guardi all'orizzonte temporale più lungo, stiamo lavorando sui droni taxi - per questo abbiamo bisogno di sviluppare una tecnologia di autonomia di livello superiore - che è fondamentalmente l'intelligenza artificiale - ma rivoluzionerà il modo in cui le persone verranno trasportate nelle città".

Dai missili Javelin ai droni Bayraktar: le armi simbolo del conflitto. L’esperto: “Rallentano, ma non contrastano Mosca. Sono come la flebo al moribondo”  Thomas Mackinson su Il Fatto Quotidiano il 14 marzo 2022.   

L'analisi del responsabile dell'area "mondo militare" di Difesa Online. "E' ora di dire le cose come stanno: le armi che abbiamo dato possono solo rallentare l'avanzata dei sistemi russi, non fermarla e tantomeno sovvertire le sorti del conflitto. Dopo 18 giorni si profila ora ben altro scontro, roba da "grandi" di fronte alla quale l'occidente usa gli ucraini come carne da macello"

Il potenziale offensivo russo è “sovrano”. Tutti i sistemi d’arma forniti dall’occidente? “Sono solo difensivi, possono giusto rallentare l’avanzata dei sistemi russi: non possono certo fermarla, né tantomeno sovvertire le sorti del conflitto”. Tiziano Ciocchetti è responsabile dell’area “mondo militare” di Difesa Online: a lui ilfattoquotidiano.it ha chiesto un parere sulle armi “simbolo” della resistenza ucraina, quelle che si vedono nei video postati ogni giorno sui social di Kiev per mostrare al mondo l’eroica difesa che stanno tentando da soli, imbracciando le armi dell’Occidente. Che siano state efficaci finora lo dimostra il monito di ieri del Cremlino all’Occidente: colpiremo chi le porta. Ma dopo 18 giorni, con l’offensiva di Mosca si fa di ora in ora più intensa, allargandosi a Ovest e alzando il tiro su basi aeree e centri di addestramento, sono utili e sufficienti? La risposta è fulminante: “No, abbiamo fatto la flebo a un moribondo”. 

Perché con l’assedio della capitale e delle altre città-chiave come Mariupol e Mykolaiv, i russi intensificano i raid aerei e fanno entrare in campo sistemi ben più sofisticati e brutali, come i “droni kamikaze” (loitering munition) prodotti dalla Kalashnicov che sorvolano a lungo un’ara e sganciano a terra testate di esplosivo con centinaia di biglie d’acciaio che moltiplicano gli effetti letali. Come i pezzi d’artiglieria a guida laser. Come risponde la resistenza di Zelensky? Con quello che gli abbiamo dato, vale a dire un mix di sistemi anticarrro e droni, “buono per rallentare l’assedio, del tutto impari nel contrastarlo, specie senza una copertura aerea”, dice l’esperto.

IL JAVELIN

I missili come il Javelin americano e il NLAW inglese colpiscono a una lunga distanza, 3-4 mila metri, e hanno un sistema che li guida in maniera automatica contro gli obiettivi. Prima dell’attacco, i due Paesi ne hanno consegnati duemila a Kiev. Sono stati usati soprattutto nel Donbass e nelle zone di Kharkiv dove le brigate di Mosca hanno avuto i danni più grossi. “Il primo è un sistema missilistico “lancia e dimentica” di fabbricazione americana, ottimo come difesa anticarro ma non diverso, come concetto, da quelli usati dalla Nato al Varco di Fulda, il territorio pianeggiante tra l’allora Repubblica Democratica Tedesca e Francoforte sul Menp, per contrastare l’avanzata dei carri sovietici”. Si tratta di un’arma piccola, portatile, eppure micidiale. “La loro efficacia in un attacco che si fa sempre più massiccio però diventa relativa, poi c’è il problema di quanti militari ucraini presto saranno in grado di usarli, perché per quanto “basici”, quegli strumenti richiedono un minimo di addestramento”, rileva l’esperto.

GLI “STINGER”

Lo stesso vale per i missili antiaereo Stinger, determinanti in Afghanistan e assurti a vera e propria “etichetta” della resistenza ucraina. I soldati di Kiev avevano già i celebri lanciarazzi russi tipo Rpg, usati da tutti i guerriglieri per colpire blindati più piccoli e camion di rifornimenti. Sono molto utili anche nei “combattimenti urbani”, per colpire i cecchini nascosti nei palazzi. Gli ucraini ne hanno ricevuti tantissimi: la Danimarca ne ha spediti 2.700, la Norvegia 2mila M72, la Svezia 5mila Pansarskott m/86, la Germania mille. “E’ un altro sistema missilistico spalleggiabile, miete molte vittime tra gli elicotteri grazie al sistema di aggancio a infrarossi. Nei filmati dei giorni scorsi lo si è visto colpire a 450 metri un Ka-52 Alligator: ma quanti sono in grado di usarlo?”.

I DRONI TURCHI

L’arsenale di Kiev è stato rifornito anche dei potenti droni turchi Bayraktar TB2, assurti a eroe popolare nella guerriglia Air Force ucraina. Lanciato per la prima volta nel 2014, ha distrutto 796 obiettivi in cinque guerre in Siria, Ucraina ed Etiopia. La piccola flotta ha dato filo da torcere all’esercito russo colpendo batterie di missili terra-aria, convogli di carburante e altri obiettivi vitali per lo sforzo bellico della Russia. “Si sono rivelati efficaci, certo, ma queste armi con bombe a guida laser utilissime per obiettivi chirurgici non costituiscono un valore aggiunto così forte, ora che il conflitto sta diventando ad alta intensità”.

E dunque? “Dal punto di vista strettamente militare, il potenziale offensivo russo è sovrano. I sistemi d’arma che abbiamo inviato hanno il potenziale di rallentarlo, ma non fanno vincere una guerra come questa”. A volte, rileva Ciocchetti, si stenta a leggere sui giornali e nei dibattiti in tv un punto essenziale: “Questa non è la Bosnia, il Kossovo o l’Afghanistan, che spesso vengono citati: questa è “roba da grandi”. C’è la seconda potenza militare al mondo in campo, l’altra – vale a dire la Nato – non ci entra e noi possiamo solo agire con la stretta delle sanzioni e fornendo armi che sappiamo non possono reggere l’urto: sono flebo a un moribondo. La mia valutazione strettamente personale è che l’Occidente usa le parole più alte, ma manda gli ucraini al macello. E che le sanzioni arrivino laddove le armi, sulla carta, hanno già perso è un grosso azzardo. Magari prima o poi riusciranno a condizionare il Cremlino portandolo a negoziare: ma a che prezzo?”.

Guerra in Ucraina, il governo Renzi autorizzò una maxi-vendita di blindati a Mosca nel 2015: “Ma era in vigore un embargo da luglio 2014”. Il Fatto Quotidiano il 3 marzo 2022.   

Il divieto di vendita di armamenti europeo è in vigore dal 2014, ma l'anno dopo il governo di Renzi, con l’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ha autorizzato la vendita di 94 blindati, per un valore totale di oltre 25 milioni, di cui 83 sono stati consegnati nello stesso anno. Nel 2021, l'Italia conta un export di 3.118.107 di euro di armi e munizioni destinate a corpi di polizia o enti governativi russi. 

Oggi l’Italia figura tra i Paesi europei che stanno inviando armi all’Ucraina per contrastare l’avanzata dei militari russi in tutto il Paese. Ma tra i mezzi blindati in mano agli uomini di Mosca ce ne sono alcuni spediti all’esercito del Cremlino recentemente. Non si tratta, infatti, solo di vecchie commesse, spiega Giorgio Beretta di Opal Brescia su Osservatorio Diritti: quelle esportazioni sono state autorizzate nel 2015 dal governo guidato da Matteo Renzi, per un valore superiore ai 25 milioni, in pieno embargo europeo dopo l’invasione della Crimea del 2014.

A luglio 2014, infatti, il Consiglio europeo aveva deciso di mettere un embargo sulle esportazioni di armamenti alla Federazione russa, proibendo di “vendere, fornire, trasferire, esportare armi verso la Russia, incluse munizioni, veicoli ed equipaggiamenti militari completi o in parti”. Come ricorda Domani, l’esportazione delle armi dall’Italia alla Russia, iniziata dal 2003, ha raggiunto il suo picco nel 2011, durante il governo Berlusconi: vennero venduti blindati Iveco per un valore di 106 milioni di euro, ma l‘embargo in quell’occasione non era ancora in vigore. È nel 2015 che si è invece concretizzata quella che Beretta definisce una violazione dell’embargo europeo: il governo di Matteo Renzi, con l’allora ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e la ministra della Difesa Roberta Pinotti, ha autorizzato la vendita di 94 blindati, di cui 83 sono stati consegnati nello stesso anno.

La legge italiana 185 del 1990, quella che regola il commercio di armamenti, specifica infatti che le operazioni siano vietate “verso paesi nei cui confronti è stato dichiarato un embargo totale o parziale delle forniture belliche da parte delle Nazioni Unite e dell’Unione europea”. Cosa che, come già scritto, era avvenuta circa sei mesi prima delle autorizzazioni rilasciate da Roma.

Se si osservano i dati ufficiali del Parlamento europeo, si nota che c’è una grande disparità tra le esportazioni di armi all’Ucraina e alla Russia da parte del governo italiano ma anche della federazione europea. Giorgio Beretta scrive che dal 1998 al 2020 è stata autorizzata l’esportazione di materiale bellico dai Paesi Ue all’Ucraina per un valore di quasi 509 milioni di euro, mentre alla Russia ne sono stati autorizzate per 1,9 miliardi di euro.

Ma Beretta sottolinea che, nello specifico, anche l’Italia ha fatto la sua parte: le esportazioni militari dall’Italia all’Ucraina hanno registrato un costante aumento dal 2015, passando dagli 84.278 euro del 2015 ai 3.880.431 euro dell’ultimo anno. Ma i valori dell’export militare verso la Russia sono ancora maggiori: nonostante negli ultimi anni non siano state concesse licenze per le esportazioni di armamenti dall’Italia alla Russia, i dati Istat del commercio segnalano una crescita degli export per il 2021: tra i 21.942.271 di euro di “armi e munizioni” già consegnate tra gennaio e novembre del 2021, oltre ad armi comuni come fucili (13.742.231 euro), pistole (151.074 euro), munizioni (4.093.689 euro) e accessori, figurano 3.118.107 di euro di armi e munizioni destinate, nonostante embarghi e sanzioni, a corpi di polizia o enti governativi russi.

Dagotraduzione dal Sun il 18 marzo 2022.

Un’indagine di Investigate Europe ha rivelato che tra il 2015 e il 2020, Francia, Germania, Italia e altri sette stati dell’Unione europea hanno venduto armi alla Russia, nonostante l’embargo del 2014 per l’annessione della Crimea, grazie a una scappatoia che gli ha consentito di adempiere ai contratti firmati in precedenza con Mosca. 

Secondo il documento, la Francia avrebbe inviato bombe, razzi, esplosivi, termocamere per armare armare 1.000 carri armati e rilevatori a infrarossi per jet. La Germania ha venduto fucili, veicoli di “protezione speciale” e navi rompighiaccio mentre l’Italia ha fornito auto blindate. In tutto i paesi membri della Ue hanno rilasciato oltre 1.000 licenze all’espatrio.

Dopo l’embargo, per le forniture di equipaggiamento militare la Francia ha incassato 130 milioni di sterline dal Cremlino, la Germania 100 e l’Italia 19. Nel 2015 Roma ha autorizzato la vendita a Mosca dei veicoli militari Lynce, che abbiamo visto circolare in Ucraina. Nonostante l'UE abbia imposto un embargo sulla vendita di armi, il sito web investigativo Disclose riporta che tra il 2015 e il 2020 la Francia ha rilasciato 76 licenze di esportazione alla Russia per equipaggiamento militare (vedi articolo a seguire).

Secondo il rapporto di Investigate Europe, gli altri Stati membri dell'UE che hanno continuato a inviare armi alla Russia dopo l'embargo sono Austria, Bulgaria, Repubblica Ceca, Croazia, Finlandia, Slovacchia e Spagna. 

I dati del Gruppo di lavoro del Consiglio dell'UE sulle esportazioni di armi convenzionali rivelano che tra il 2015 e il 2020 i dieci stati dell'UE hanno esportato in Russia attrezzature militari per un valore totale di 291 milioni di sterline. Dei dieci, la Francia ha rappresentato il 44% delle vendite, inviando aerei, sistemi di navigazione, siluri e missili.

Nel 2015, il presidente francese François Hollande era stato costretto ad abbandonare i piani per vendere due navi d'assalto anfibie di classe Mistral in Russia, ma i successivi governi francesi hanno approfittato della scappatoia. 

Anche la Gran Bretagna ha venduto armi alla Russia dopo l'imposizione dell'embargo, ma per un valore di soli 1,7 milioni di sterline. 

Massimo A. Alberizzi per africa-express.info il 18 marzo 2022.  

In Africa cani e gatti ma, quando si tratta di affari, uniti e amici per la pelle. Francesi e russi litigano in Mali, in Centrafrica e nelle altre colonie transalpine, dove i contingenti dei legionari d’oltralpe si vedono scacciati dai mercenari della compagnia privata Wagner al soldo di Mosca.

Emmanuel Macron è l’unico leader europeo che dall’inizio della crisi ucraina poteva alzare il telefono e parlare tranquillamente con Vladimir Putin. Le cronache ci hanno parlato di conversazioni dei due uomini di Stato durate ore. Adesso un’inchiesta pubblicata del consorzio francese di giornalismo investigativo Disclose, spiega – documenti alla mano – perché: Parigi, violando l’embargo deciso dall’Unione Europea fino al 2020 ha fornito alla Russia interi arsenali di armi sofisticate.

Quelle armi ora sono adoperate dall’armata del Cremlino per compiere i cruenti massacri in Ucraina. Ma alcune le potremmo rivedere in Africa, utilizzate dei russi per combattere i francesi. La geopolitica non è una scienza esatta. Come le previsioni del tempo è soggetta a parecchie variabili alcune delle quali compaiono improvvisamente e sono difficili da individuare in anticipo.

I firmatari della inquietante inchiesta, Elie Guckert, Ariane Lavrilleux, Geoffrey Livolsi, Mathias Destal, cominciano raccontando che mercoledì 2 marzo, cioè dieci giorni dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, Emmanuel Macron si è rivolto a 21 milioni di spettatori francesi sintonizzati in diretta: «Putin ha scelto la guerra». Poi ha aggiunto: Le forze russe stanno bombardando Kiev e assediando le città più importanti del Paese. Centinaia di civili ucraini sono stati uccisi. Infine ha concluso: «Siamo al fianco dell’Ucraina». 

In questi giorni però Emmanuel Macron ha trascurato di fornire un’informazione importante: tra il 2015 e il 2020, nonostante l’escalation militare con l’Ucraina, la Francia ha discretamente dotato l’esercito di Vladimir Putin delle recenti e sofisticate tecnologie militari. Attrezzature che hanno contribuito a modernizzare le forze di terra e di aria della Russia. 

Dal 2015, 76 licenze di esportazione

Secondo documenti “confidenziali” ottenuti da Disclose e informazioni di intelligence reperibili da fonti aperte, la Francia dal 2015 ha rilasciato almeno 76 licenze di esportazione di materiale bellico alla Russia. Importo totale di questi contratti: 152 milioni di euro, come indicato nell’ultima relazione al Parlamento francese sulle esportazioni di armi, che però non specifica il tipo di attrezzature consegnate. 

Secondo l’indagine di Disclose, queste esportazioni riguardano principalmente termocamere destinate ad equipaggiare più di 1.000 carri armati russi, così come sistemi di navigazione e rilevatori a infrarossi per aerei ed elicotteri da combattimento dell’aviazione. I principali beneficiari di questi contratti sono le società Thales e Safran, di cui lo stato francese è il maggiore azionista.

Ma le vendite di armi sofisticate alla Russia violano le decisione presa dall’Unione Europea il 1° agosto 2014. A partire da quella data l’Europa ha imposto un embargo sul materiale bellico destinato alla Russia.

Annessione della Crimea

Una risoluzione seguita all’annessione unilaterale della Crimea avvenuta nel febbraio 2014, all’autoproclamazione delle repubbliche separatiste filorusse di Luhansk e Donetsk due mesi dopo, e lo schianto di un Boeing 777 della Malaysia Airlines in volo da Amsterdam a Kuala Lumpur abbattuto da un missile terra aria russo il 17 luglio 2014 (i 283 passeggeri e i 15 metri dell’equipaggio rimasero tutti uccisi). 

Nel 2015, sotto la pressione dei suoi partner europei e degli Stati Uniti, il presidente François Hollande aveva finalmente annullato la vendita di due navi Mistral alla Russia. Ciononostante sarebbero continuate altre consegne meno “visibili”.

I governi di François Hollande e Emmanuel Macron hanno approfittato di una scappatoia nell’embargo europeo: non è retroattivo. In altre parole, le consegne legate a contratti firmati prima dell’embargo possono essere mantenute. 

La Commissione europea lo ha confermato a Disclose, ma ha anche ricordato che queste esportazioni devono rispettare “la posizione comune del 2008” secondo cui gli Stati membri devono rifiutare le esportazioni di armi se possono provocare o prolungare un conflitto armato. Un rischio già da tempo presente in Ucraina. 

Tuttavia, dal 2014, né François Hollande né il suo successore hanno messo fine alle consegne di armi alla Russia. Un paradosso, scrivono i giornalisti di Disclose, se si pensa che Emmanuel Macron è attivo da anni sulla scena internazionale per favorire per l’Ucraina la via diplomatica a quella delle armi.

Telecamere termiche

Nel 2007, la società Thales ha firmato un primo contratto con la Russia per la vendita di telecamere termiche Catherine FC. Poi un secondo, nel 2012, per l’esportazione di 121 telecamere Catherine XP – un altro modello della gamma – destinato all’ “esercito russo”, come riportato in una nota del maggio 2016 dal Segretariato generale per la Difesa e Sicurezza Nazionale (SGDSN), resa pubblica da Disclose. Secondo queste informazioni, nel 2019 sono state consegnate alla Russia 55 telecamere Catherine XP.

Integrata nel sistema di puntamento di un carro armato – spiegano i quattro giornalisti di Disclose – la telecamera Catherine può rilevare obiettivi umani nel cuore della notte o individuare un veicolo in un raggio di dieci chilometri. Dà poi, a chi la possiede un vantaggio enorme, secondo la descrizione che ne dà la casa costruttrice di Thales: «Essere il primo ad aprire il fuoco». 

Le telecamere a infrarossi Catherine sono già state utilizzate in Ucraina nel 2014, durante il conflitto nella regione del Donbass, ai confini con la Russia, come testimonia il video qui sotto, girato all’epoca all’interno di un carro armato russo T-72.

Otto anni dopo, questa tecnologia francese con tutta probabilità fa parte dell’equipaggiamento dei carri armati che terrorizzano la popolazione ucraina, scrivono Elie Guckert, Ariane Lavrilleux, Geoffrey Livolsi e Mathias Destal. 

Il 4 marzo di quest’anno, i combattimenti sono infuriati nella città di Zaporija, nelle vicinanze della più grande centrale nucleare d’Europa ed è scoppiato un incendio in uno degli edifici del sito. Nessun reattore è stato colpito, ma il giorno dopo, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha accusato il Cremlino di “terrore nucleare”. Secondo lui, i carri armati russi che erano in prima linea durante i combattimenti “sanno a cosa stanno mirando”, poiché sono “dotati di telecamere termiche”. Telecamere ad alta risoluzione che potrebbero quindi portare il logo Thales o quello delle sua concorrente, la Safran.

Secondo le informazioni riservate ottenute dai giornalisti di Disclose, la nota “confidenziale-difesa” del SGDSN (Secrétariat général de la défense et de la sécurité nationale), il gruppo Safran ha firmato la vendita di telecamere termiche “Matis STD” alla Russia nel novembre 2013. Nel 2016, 211 di queste telecamere a infrarossi dovevano ancora essere consegnate. 

Le telecamere Matis STD sono utilizzate su tre tipi di carri armati russi: il T-72, il T-90 e il T-80 BVM. Tutti e tre sono attualmente presenti sul fronte ucraino, come dimostrano i video e le foto pubblicati sui social network. Come il carro armato russo che si può vedere nel video sui sotto. 

Stesso ragionamento vale per i carri armati T-72, distrutti dall’esercito ucraino, le cui fotografie sono state postate si Twitter.

Un altro video mostra un convoglio di truppe russe, distrutto dalla resistenza ucraina vicino al Chernihiv. Il carro armato che si vede potrebbe essere equipaggiato con i sofisticati visori forniti dalla Francia.

La forza aerea del Cremlino

L’industria francese delle armi ha equipaggiato con sistemi di puntamento sofisticati anche la forza aerea russa, ma il governo francese non sembra essersi mai preoccupato delle possibili conseguenze.

Sempre secondo le informazioni confidenziali pubblicate da Disclose, un contratto firmato nel 2014, con consegne effettuate fino al 2018, il gruppo Thales ha equipaggiato 60 caccia Sukhoi SU-30 con il suo sistema di navigazione TACAN, il suo display video SMD55S e il suo visore HUD sono di ultima generazione.

Questi jet, che hanno già ucciso decine di migliaia di civili in Siria, stanno bombardando l’Ucraina giorno e notte da febbraio. I SU-30 sono stati filmati mentre sorvolavano la regione di Soumy, nel nord-est dell’Ucraina, e a Mykolaïv e Chernihiv il 5 marzo, poco prima di essere stati abbattuti dalla contraerea ucraina.

Secondo il sito russo Topwar, il gigante aerospaziale ha anche consegnato il suo sistema di navigazione TACAN pronto per esser utilizzato sui caccia Mig-29. Forniti dai francesi ai russi anche un ventina di caschi Topowl con schermi infrarossi e binocoli. 

Non da ultimo i Mig-29 e SU-30 di Mosca sono anche dotati di un sistema di navigazione consegnato da Safran dal 2014: il Sigma 95N. Questa tecnologia permette ai piloti di localizzarsi senza bisogno di satelliti americani o europei.

Elicotteri da guerra

Allo scoppio della guerra, il 24 febbraio, gli elicotteri Ka-52 sono stati tra i primi a sorvolare il territorio ucraino, come dimostrano le numerose immagini pubblicate sui social network. Alcuni di loro sono stati rapidamente messi fuori combattimento e hanno potuto essere fotografati da vicino. 

La stessa agenzia di stampa governativa russa RIA Novosti ha pubblicato le immagini di uno di questi elicotteri mentre lancia missili nella campagna ucraina. 

Per rintracciare gli obiettivi nel cuore della notte, questi elicotteri militari possono anche contare su un sistema francese di imaging a infrarossi prodotto da Safran, come rivelato dal sito web investigativo EU observer nel 2015. 

Un contratto da 5,2 milioni di euro

Secondo la nota “confidenziale-difesa” del SGDSN, la società Sofradir di proprietà di Thales e Safran, non ha perso l’occasione di fare un affare con il capo del Cremlino e gli ha venduto telecamere a infrarossi. Sofradir ha firmato un contratto da 5,2 milioni di euro con la Russia nell’ottobre 2012. Quattro anni dopo, sempre secondo la nota della SGDSN, dovevano essere consegnati a una società di difesa russa “258 rivelatori infrarossi”. 

Contattato da Disclose, il gruppo Safran ha assicurato di «rispettare scrupolosamente i regolamenti francesi ed europei» e di non aver fornito «attrezzature, componenti, servizi di supporto o di manutenzione alla Russia» dall’embargo europeo del 2014. Thales invece non ha voluto rispondere alle domande dei giornalisti investigativi. Il governo francese, dal canto suo, ha reagito solo dopo la pubblicazione dell’inchiesta su Twitter.

Ammissione di Parigi

Il portavoce del ministero delle forze armate, Hervé Grandjean, ha riconosciuto che «la Francia ha permesso l’esecuzione di alcuni contratti assegnati dal 2014». Ha poi aggiunto: «Nessuna consegna è stata fatta alla Russia dall’inizio della guerra in Ucraina». 

Il reportage di Disclose si conclude così: «Decidendo di continuare queste consegne alla Russia almeno fino al 2020, la Francia ha dato un’ulteriore risorsa militare a Vladimir Putin. Un sostegno imbarazzante a colui che il ministro degli Esteri, Jean-Yves Le Drian, ha qualificato, all’inizio della guerra, come un “dittatore”».

Spesa militare Ue, mai tanti soldi. Il report che denuncia conflitti d’interesse e opacità: “Prima tra le aziende finanziate è l’italiana Leonardo”. Franz Baraggino Il Fatto Quotidiano il 18 marzo 2022.

Il nuovo rapporto dello European Network Against Arms Trade (ENAAT) e del Transnational Institute racconta quella che definisce la "terza corsa agli armamenti", alla quale l'Unione europea starebbe contribuendo con un budget che nel nuovo bilancio 2021-2027 è aumentato di 13 volte rispetto al precedente. E a farla da padrone sarebbero lobbisti e aziende, che siedono negli organi di consiglio della Commissione Ue e influenzano le procedure di controllo.  

Non ci vuole un genio a capire che più armi ci sono in giro e più aumentano le probabilità che qualcuno si faccia male. Ed è nello spirito di questa certezza che nasce il nuovo rapporto dello European Network Against Arms Trade (ENAAT) e del Transnational Institute, che punta il dito contro quella che definisce “la corsa agli armamenti dell’Unione europea“. A chi è rimasto colpito dalla tempistica con la quale alcuni Paesi europei, Germania in testa, hanno annunciato ingenti investimenti nella spesa militare, appena poche ore dopo l’inizio dell’attacco russo in Ucraina, interesserà sapere che il budget del Fondo Europeo per la Difesa (EDF) ha raggiunto un valore “senza precedenti di 8 miliardi di euro per la ricerca e lo sviluppo di sistemi militari”. Ma non solo di questo si tratta. Secondo il report, infatti, gli attuali programmi di difesa Ue da 600 milioni di euro sarebbero inficiati da conflitti d’interesse e accuse di corruzione. Con la fetta più grossa che, ovviamente, va ai principali produttori ed esportatori di armi: Francia, Germania, Italia e Spagna. Con il primato tutto italiano di Leonardo, maggiore destinatario singolo con 28,7 milioni di euro.

Il lavoro del Transnational Institute e di ENAAT, di cui fa parte anche la Rete Italiana Pace e Disarmo che ne pubblica il rapporto, viene ultimato mentre il mondo assiste allo scoppio dell’ennesima guerra. Il report ricorda che “verso la fine del 2021 i disordini nei Balcani hanno raggiunto il punto di ebollizione. Le tensioni nel Mar Cinese Meridionale continuano a ribollire e minacciano la stabilità regionale e globale. Le guerre e la violenza continuano in Afghanistan, Iraq, Sahel, Siria e Yemen“. E che nonostante il suo principio fondatore di promozione della pace, l’Unione europea “ha intrapreso un percorso per affermarsi come potenza militare globale“. E non deve stupire, dunque, che per la prima volta “l’Ue ha annunciato che avrebbe, per la prima volta, finanziato e fornito armi letali a un Paese sotto attacco nell’ambito della European Peace Facility (il cosiddetto fondo strutturale per le Pace)”. A dieci anni dal trattato di Lisbona nel 2009, che fornisce la base giuridica per creare una politica di sicurezza e difesa comune, “l’Ue ha creato linee di bilancio che avrebbero specificamente assegnato finanziamenti a progetti militari”. Una nuova fase che sembra procedere a tappe forzate. A partire dal nuovo budget dell’EDF per gli anni 2021-2027, dove il report segnala un aumento dei fondi del 1250% rispetto al bilancio precedente, per un “totale che è 13,6 volte quello dei programmi precursori“.

Per capire come l’Europa spenderà questa montagna di soldi, però, il report analizza i precedenti programmi finanziati. “L’Azione preparatoria per la ricerca sulla difesa (PADR 2017-2019), con un budget di 90 milioni di euro per finanziare la ricerca sulla difesa, e il Programma europeo di sviluppo industriale della difesa (EDIDP 2019-2020) con un budget di 500 milioni di euro per finanziare lo sviluppo di attrezzature e tecnologie di difesa”. E ancora: “L’obiettivo di queste linee di bilancio è la ricerca e lo sviluppo su nuovi armamenti, così come il miglioramento di quelli esistenti integrando tecnologie all’avanguardia come l’intelligenza artificiale, i sistemi senza pilota o autonomi“. Secondo gli analisti militari citati nel rapporto, si tratta di armi che corrispondono “a una terza evoluzione nella corsa agli armamenti in cui sistemi d’arma automatizzati vengono provati e testati e possono alla fine diventare di utilizzo normale, nonostante le serie questioni legali ed etiche irrisolte”. Il pensiero corre ai droni protagonisti di molti conflitti, ma l’immaginazione è spinta ben oltre. Ed è lecito domandarsi come potrà mai rispondere il nemico di turno se gli invii contro un esercito di robot intelligenti che non sente dolore, non deve riposare, mangiare, medicarsi.

Ma le armi sono innanzitutto una questione di affari. E il rapporto denuncia l’opacità di quelli targati Ue, dove “i rappresentanti dell’industria delle armi sono stati inseriti nel comitato consultivo dei programmi PADR e EDIDP, ma i nomi dei membri del comitato non sono stati resi noti”. E non solo: “Nove dei sedici rappresentanti nel Gruppo di Personalità per la ricerca sulla difesa istituito dalla Commissione europea nel 2015 erano affiliati a società di armi, istituti di ricerca sulle armi e un’organizzazione di lobby dell’industria delle armi. In particolare le sei aziende militari erano Airbus, BAE Systems, Indra, Leonardo, MBDA e Saab“. Basta? Nemmeno per sogno. “La proposta della Commissione europea che ha portato all’istituzione del Fondo Europeo per la Difesa era basata su un rapporto presentato dal Gruppo di Personalità, con intere sezioni letteralmente copiate dal rapporto del GdP e incollate nella proposta della Commissione”, si legge nel rapporto. I risultati? “I sette maggiori beneficiari di questa linea di finanziamento dell’Ue sono coinvolti in esportazioni di armi altamente controverse verso Paesi che stanno vivendo conflitti armati o dove sono al potere regimi autoritari che violano sistematicamente i diritti umani”.

Inoltre, gli autori hanno scoperto che cinque degli otto maggiori beneficiari “sono stati oggetto di accuse di corruzione negli ultimi anni”. Tra questi anche l’italiana Leonardo, la più grade azienda a produzione militare dell’Ue, primo beneficiario singolo della grande torta militare europea. Seguono la spagnola Indra (22,78 milioni di euro), le società francesi Safran (22,33 milioni di euro) e Thales (18,64 milioni di euro) e la società transeuropea Airbus (10,17 milioni di euro). Tra i paesi, la fetta più grossa spetta alla Francia, che da sola porta a casa un quarto dei finanziamenti erogati finora. Francesi, tedeschi, spagnoli e italiani portano a casa il 68,4% dei fondi a sostegno dell’industria militare e coordinano quasi il 70 percento di tutti i progetti finanziati. “Dall’altra parte dello spettro, quasi la metà dei paesi dell’UE ottiene ciascuno meno dell’1% dei finanziamenti”. Attenzione, però: “Queste linee di finanziamento richiedono esplicitamente che i Paesi Ue acquistino poi le armi e le relative tecnologie, le aggiungano al proprio arsenale di difesa o promuovano la loro esportazione verso paesi extraeuropei”. Come non bastasse, denunciano gli autori, “le procedure di controllo applicate per approvare il finanziamento di nuove armi letali sono molto al di sotto anche dei più basilari standard legali ed etici“. Un esempio? “La procedura di valutazione del rischio legale ed etico dell’Ue per questi fondi si basa principalmente su autovalutazioni da parte dei richiedenti (principalmente società private) che sperano di beneficiare dei finanziamenti dell’Ue”. Se tutto questo continuerà anche con il nuovo Fondo Europeo per la Difesa da 8 miliardi di euro, dice il rapporto, l’Unione contribuirà “ad aumentare le esportazioni di armi europee e alimenterà la corsa globale agli armamenti, che a sua volta porterà a più guerre, maggiore distruzione, una significativa perdita di vite umane e un aumento degli spostamenti forzati”.

Guerra Russia-Ucraina. la Circolare dell’Esercito italiano: “Meno congedi, massima efficienza dei sistemi d’arma”. Thomas Mackinson su Il Fatto Quotidiano il 15 marzo 2022.  

Valutare congedi anticipati, reparti in prontezza operativa "alimentati al 100%", addestramento "orientato al warfighting" e "massimi livelli di efficienza di tutti i mezzi". Così una circolare dello Stato maggiore dell'Esercito del 9 marzo con riferimento ai "noti eventi". Lo Stato maggiore: "Comunicazione routinaria". Ma è polemica, Rifondazione: "Siamo già in guerra e non ce lo dicono".

Stretta sui congedi anticipati, reparti in prontezza operativa “alimentati al 100%”, addestramento “orientato al warfighting” e “massimi livelli di efficienza di tutti i mezzi cingolati, gli elicotteri e i sistemi d’arma dell’artiglieria.“Con l’invio di armi l’Italia è già in guerra”, si sente ripetere da giorni. Nel dubbio, l’Italia riordina e predispone le proprie. Lo si apprende da un documento interno che lo Stato Maggiore dell’Esercito ha emanato il 9 marzo che impartisce nuove disposizioni operative a tutti i comandi (scarica il documento). La sua diffusione ha subito innescato polemiche sul fatto che si tratti di una mobilitazione taciuta agli italiani, posto che il premier Draghi, tre giorni dopo quelle direttive, ribadiva: “Non vedo il rischio di un allargamento del conflitto”. La circolare è stata inviata a tutti i comandi dall’ufficio del generale Bruno Pisciotta. Oggetto: “Evoluzione sullo scacchiere internazionale”. Due righe di premessa: “A seguito dei noti eventi in argomento, l’Autorità di Vertice ha stabilito di attuare, con effetto immediato, tutte le azioni di competenza nei settori di seguito specificati”. Poi le indicazioni operative su uomini, addestramento, impiego e sistemi d’arma.

IL PERSONALE – Sul fronte del personale richiama l’attenzione a valutare le domande di congedo, “in quanto in questo momento caratterizzato dall’intensificarsi delle tensioni geopolitiche, deve essere effettuato ogni possibile sforzo affinché le capacità pregiate possano essere disponibili”. Idem per il personale in “ferma prefissata”, che dovrà “alimentare i Reparti che esprimono unità di prontezza nei prossimi due anni”. Unità che devono “essere alimentate al 100% con personale ready to muove, senza vincoli di impiego operativo, anche ricorrendo all’istituto del “comando”.

ADDESTRAMENTO – Nuove linee anche sul fronte dell’addestramento. Tutte le attività, anche quelle dei minori livelli ordinativi, “dovranno essere orientate al warfighting”. E così viene disposto il rinvio di tutte le esercitazioni che non siano specificatamente indirizzate al mantenimento delle capacità operative. Ciascun reggimeto di artiglieria deve essere addestrato ad operare sia nel ruolo di supporto diretto che in quello di supporto generale. Il livello di “prontezza” deve essere garantito sia a livello di singoli battaglioni che dei comandi supportati.

SISEMI D’ARMA – Anche l’impiego va attentamente pianificato per lasciare omogeneità alle forze operative, “evitando per quanto possibile il frazionamento delle unità”. Tutte le richieste di concorso operativo sul territorio nazionale devono essere “indirizzate e avvallate a livello centrale”. Lo stesso vale per gli assetti sanitari. Tre righe tiguardano i “sistemi d’arma”: “provvedere – si legge nel documento – affinché siano raggiunti e mantenuti i massimi livelli di efficienza di tutti i mezzi cingolati, gli elicotteri (con focus sulle piattaforme dei sistemi di autodifesa) e i sistemi d’arma dell’artiglieria”.

LA CONFERMA CHE SMENTISCE – Lo Stato Maggiore dell’esercito ha diramato una nota nella quale spiega che il documento era “ad esclusivo uso interno, di carattere routinario, con cui il Vertice di Forza Armata adegua le priorità delle unità dell’Esercito, al fine di rispondere alle esigenze dettate dai mutamenti del contesto internazionale. Trattasi dunque di precisazioni alla luce di un cambiamento che è sotto gli occhi di tutti”.

LA POLEMICA – Ma il segretario di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo che è stato tra i primi a divulgarlo attacca sulla circolare definendola “gravissima”. “Il nostro esercito si prepara a combattere. E’ la dimostrazione lampante che il nostro Paese è già parte co-belligerante nel conflitto in corso. Cittadini/e sono tenuti all’oscuro di come il governo ci stia sciaguratamente trascinando in una guerra i cui sviluppi, se si continua su questa strada, saranno devastanti. Chi ha prestato servizio nelle forze armate negli ultimi trent’anni non ha mai visto una circolare dello stato maggiore dell’Esercito di questo tenore. A questa sciagurata mobilitazione di truppe si aggiunga che ancora non è dato sapere che tipo di armamento stiamo inviando in Ucraina. Il governo chiarisca immediatamente al Paese. Bisogna fermare questa spirale di guerra”.

Esercito italiano: “Massima efficienza” delle armi. Ma solo sulla carta: di 125 carri armati ne funziona la metà. Le altre forze stanno peggio. Thomas Mackinson su Il Fatto Quotidiano il 14 marzo 2022.   

Di due giorni fa la circolare che dispone lo stato di pre-allerta. Ma qual è lo stato delle nostro esercito? Abbiamo 95mila militari, ma solo il 20% ha fatto esercitazioni e quasi 20mila sono impegnati tra strade e Covid. In 20 anni siamo passati da 842 aerei a 500 e solo 300 hanno funzioni di combattimento. Di tre portaerei una (la Trieste) è ancora al varo. I droni? Sono disarmati.

Ha fatto molto discutere la circolare dello Stato Maggiore dell’Esercito che dispone uno stato di pre-allerta dei militari italiani in correlazione al conflitto in Ucraina. La ratio del dispositivo è chiara: la guerra è arrivata in Europa, ed è del tutto logico che i vertici delle Forze Armate si mettano in allerta e diano disposizioni simili. Peccato che l’efficienza auspicata nel documento che parla di “warfighting“, “prontezza”, ed efficienza sia solo sulla carta, perché tutte e tre le forze che compongono la Difesa italiana versano da anni in uno stato di carenza di risorse, mezzi e uomini tale da inficiare la capacità di deterrenza e protezione.

Basti pensare che abbiamo abbiamo 125 carri armati, meno della metà sono operativi: non fanno neppure una delle cento colonne corazzate scatenate da Putin contro l’Ucraina. Tra questi, i cingolati “Dardo” della fanteria pesante dell’Esercito: come indica la sigla VCC-80, dovevano entrare in servizio negli anni ’80, ma arrivarono ai reparti nel 2004 che erano già vecchi di vent’anni. Ecco, basta questo flash per capire come è messa la nostra Difesa e quanto sia poi “velleitaria” la parte della circolare che dispone sistemi d’arma “orientati alla massima efficienza“.

Nel dubbio, basta andarsi a rileggere le audizioni in commissione Difesa delle Camere dei capi di Stato maggiore degli ultimi anni. Prendiamo quella di novembre 2020 del generale Enzo Vecciarelli, insieme profetica per quanto disarmante: da un lato ammoniva che “la prossima crisi potrebbe non essere una pandemia”, facendo riferimento a quanto accadeva nei Balcani, in Medio Oriente e in Africa, dall’altra dava conto degli effetti dei tagli di spesa nel comparto, tali da intaccare la capacità operativa delle Forze Armate. Sono passati due anni ma nulla è cambiato. Giusto ieri, il generale Luca Goretti in commissione Difesa ha chiarito che “basterebbe un niente per trovarci in guerra” e ribadito la richiesta di maggiori investimenti, precisando che le riduzioni degli anni passati sono state anche dettate “dall’erronea convinzione che un maggior livello tecnologico possa compensare una sempre minore quantità”. Ecco la drastica riduzione di velivoli: in 20 anni siamo passati da 842 aerei a 500, meno di 300 hanno funzioni di combattimento.

Goretti ha parlato anche di droni, quelli che in Ucraina tanto supporto stanno dando alla resistenza: “Mi sono posto una domanda sull’opportunità di riavviare il processo autorizzativo volto ad armarli, in modo da dotarli finalmente di una componente di ingaggio al suolo”. Ha poi precisato: “Questa capacità potrà essere impiegata per ridurre il rischio di perdita di vite umane, non vogliamo utilizzarli ma averli significa avere questa capacità, mentre non averli e dover essere costretti ad impiegarli significa che non è detto che li troveremo poi sul mercato”.

L’allarme sulle nostre capacità di difesa è supportato da molti altri numeri. Parliamo di uomini. La famosa circolare dello SME cerca di razionalizzarne impiego e addestramento, limitando le domande di congedo anticipato, garantendo che gli “specialisti” siano sempre disponibili, e che siano garantite le unità “in prontezza”, vale a dire le brigate pronte a intervenire così come tutto il personale “ready to move”, cioè pronto all’azione. Consegne imperative che testimoniano la gravità del momento. Ma su quali forze di intervento può contare davvero l’Esercito? Sulla carta ha 95.511 militari, ma nel 2020 solo il 20% ha preso parte ad esercitazioni belliche. Un altro 20% circa, pari a 19.389 militari, è stato impiegato in compiti per missioni all’estero (3.393) o per operazioni come “strade sicure” (7.803), avviata nel 2008 per contrastare la criminalità: doveva durare sei mesi, di rinnovo in rinnovo si protrae ininterrottamente da 14 anni, limitando risorse e tempo per l’addestramento della capacità a operare in contesti bellici.

Parliamo di navi? La Marina, lo sottolinea l’ex capo di Stato Maggiore Giuseppe De Giorgi, è forse la forza messa peggio di tutte. In sostanza abbiamo due portaerei (Garibaldi e Cavour, la Trieste è ancora lontana dal varo). Così pochi uomini da garantirne a malapena il funzionamento. Il Cavour è operativo per i famosi F35, ma Marina e Aeronautica ne dispongono in numero irrisorio che non esprime la quantità critica per garantire una difesa. Ne arriveranno altri (30 è la cifra auspicata) ma solo tra 6/7 anni si parlerà di vera operatività.

Il conflitto scatenato dalla Russia alle porte dell’Europa ha costretto governo e Parlamento a considerare più seriamente gli appelli dei generali. Il 1 marzo è passato col decreto Ucraina un ordine del giorno che inverte la rotta, impegnando il governo ad alzare la spesa militare verso il traguardo del 2% del Pil, da tempo indicato dai vertici della Difesa come obiettivo minimo per garantire l’efficienza del sistema. In soldoni, stando all’Osservatorio Milex sulla spesa in armi, significa passare da 25 miliardi attuali a 38, vale a dire 104 milioni al giorno.

G.O. per “il Corriere della Sera” il 17 marzo 2022.  

Il drone kamikaze. Potrebbe essere la nuova arma inviata dagli Usa agli ucraini. Anzi, secondo alcuni forse è già arrivata. Lo Switchblade pesa circa 3 chilogrammi, trasportabile in uno zaino e composto da un tubo lanciatore dal quale «esce» il drone esplosivo. Il piccolo «proiettile» può restare in volo per 40 minuti, è guidato fino all'impatto sul bersaglio, con un raggio d'azione di 11 chilometri.

Ha un costo relativamente basso - circa 6 mila dollari - rispetto ad altri sistemi. Inoltre è adatto all'impiego da parte di piccole unità, quelle che in questi giorni stanno rallentando con successo l'avanzata delle forze russe con imboscate, incursioni mordi-e-fuggi, azioni dietro le linee. Un militare è in grado di attendere le mosse del nemico, si piazza in una posizione protetta e lontana dal fuoco di reazione, quindi «spara» il drone.

Il mini-velivolo trasmette le immagini dell'area, quindi viene attivato per colpire un nucleo trincerato, un cannone, un veicolo leggero, un nido di mitragliatrici o di anti-carro. L'arma è stata sviluppata in base ad una richiesta specifica delle unità speciali che volevano avere un apparato in grado di contrastare gli agguati di formazioni guerrigliere, come i talebani o i seguaci del Califfo. È stata la rete Nbc a rivelare la possibile fornitura. La Casa Bianca ha deciso di stanziare aiuti per altri 800 milioni di dollari in favore di Kiev.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 16 marzo 2022.  

Lo Stato Maggiore della Difesa italiana, dal 2017 a oggi sotto quattro diversi governi (Gentiloni, Conte I, Conte II, Draghi) e tre differenti ministri della Difesa (Pinotti, Trenta, Guerini), in sei documenti ufficiali ha scritto il falso ai giudici amministrativi pur di respingere istanze di «accesso civico generalizzato» ai tre accordi 2010-2014-2017, modificativi dell'intesa del 2006 tra Italia e Stati Uniti, che regolano l'utilizzo dei droni militari americani in decollo dalla base italiana di Sigonella (Siracusa).

E che quindi hanno regolato 550 missioni di droni Usa in Libia nel 2011-2018: compreso il 29 novembre 2018 l'attacco a «esponenti di Al Qaeda» costato invece la vita a 11 civili. Messo in mora da un terzo Tar Lazio dopo due Consigli di Stato («gli accordi sono secretati o accessibili?»), lo Stato Maggiore ora ammette che «sono di natura non classificata»: e che quindi non mai è stato vero che fossero (come scritto invece per 5 anni) «notizie classificate, non suscettibili di ostensione» se non a chi avesse il Nos-nulla osta di segretezza. 

Però per il ministero ora restano «non accessibili»: sia perché «contenenti dati sensibili, afferenti a elementi operativi» o «accessori al "Technical Arrangement" del 2006 che contempla anche informazioni classificate»; sia perché in due materie di possibili eccezioni alla legge sull'accesso agli atti, questioni militari e relazioni internazionali, va «assicurata tutela da potenziali pregiudizievoli strumentalizzazioni».

Non è motivo giuridico di diniego, obiettano gli attivisti di «European Center for Constitutional and Human Rights» di Berlino: un pezzetto di accordi sta persino sul sito del governo Usa; e le evocate eccezioni sono troppo generiche e autoasserite, tali da consentire all'autorità pubblica di sottrarsi alla verifica del bilanciamento fra trasparenza e tutela di interessi nazionali. 

Specie dopo il precedente della falsità ripetuta 5 anni sul (non) segreto, che per i legali Felice ed Ernesto Belisario dovrebbe anzi indurre il Tar a «non restare indifferente alla lesione della fiducia che la collettività ripone nella veridicità delle dichiarazioni delle istituzioni». Il paradosso è che il braccio di ferro è già invecchiato: in una riga, infatti, di passaggio lo Stato Maggiore ora rivela per la prima volta che gli accordi sui droni Usa a Sigonella sono stati intanto «sostituiti in parte e recepiti in un nuovo accordo il 7 settembre 2021». Sinora non noto.

Da globalist.it il 23 marzo 2022.

“Quando si parla di armi non riesco ad essere felice” – Matteo Salvini, marzo 2022. Facciamo un salto indietro nel tempo. Non molto tempo fa, anche se prima di una guerra in Europa e una pandemia nel mondo. Un’altra Italia, quella con Salvini Ministro dell’Interno e vicepresidente del Consiglio.

L’11 febbraio del 2018 Matteo Salvini è in visita alla fiera delle armi di Vicenza e firma un documento che lo impegna, nei confronti dei rappresentanti della lobby delle armi, a consultare il Comitato Direttiva 477 ogni volta che arrivano in discussione in Parlamento provvedimenti sulle armi. 

Cos’è questo famigerato Comitato? Il Presidente del Comitato dell’epoca, Giulio Magnani, (Oggi il Comitato si chiama UNARMI – Unione degli Armigeri Italiani), lo spiegava così a Repubblica: “Siamo un’associazione che tutela i privati cittadini che hanno armi da fuoco. In Italia rappresentiamo la Firearms United (confederazione europea dei possessori di pistole, ndr) e collaboriamo con Anpam, Conarmi e Assoarmieri”.

Cioè le più importanti sigle dei fabbricanti di armi, un settore che vale più o meno lo 0,7% del Pil (2.500 imprese, tra indotto e produzione, 92.000 occupati) e si rivolge a 1,3 milioni di titolari di licenza. Cacciatori, tiratori sportivi, appassionati di armi (anche da guerra) e gente comune in cerca di sicurezza, che riempie i poligoni, meglio se privati.

Insomma, quando parliamo di lobby delle armi parliamo di queste aziende qui. Con cui Salvini si impegnò, sul suo onore – parole sue – a nome suo e dell’intera Lega, all’assunzione pubblica di impegno a tutelare i detentori legali di armi, dei tiratori sportivi, dei cacciatori e dei collezionisti di armi.

Contestualizziamo: era l’epoca in cui una delle battaglie di Salvini era quella per la legittima difesa. Nel punto 8 del documento firmato a Vicenza, Salvini si vincolava “a tutelare prioritariamente il diritto dei cittadini vittime di reati a non essere perseguiti e danneggiati (anche economicamente) dallo Stato e dai loro stessi aggressori”.

In quello stessa periodo la Lega depositava in Commissione Giustizia al Senato una modifica all’articolo 52 del Codice penale, introducendo proprio la “presunzione di legittima difesa” a cui si può appellare “colui che compie un atto per respingere l’ingresso o l’intrusione mediante effrazione o contro la volontà del proprietario (…) con violenza o minaccia di uso di armi di una o più persone, con violazione di domicilio”. In altre parole: prima si spara, poi si chiede. La giustizia da Far West che a Salvini piace tanto, sebbene oggi si dica contrario alle armi.

ARMI & GUERRA. IL J’ACCUSE DI ALEX ZANOTELLI. Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci il 2 Marzo 2022.

Padre Alex Zanotelli – una vita spesa a fianco degli ultimi di tutto il mondo come missionario comboniano, dalle povertà più nere nel cuore dell’Africa alle marginalità estreme nel ventre di Napoli – dice la sua sulla guerra in Ucraina e critica in modo aspro, senza mezzi termini, frontalmente, la decisione appena presa dall’esecutivo Draghi di inviare armi e mezzi tecnologici a Kiev.

Ecco le sue parole: “E’ estremamente grave che il governo invii truppe e armi in Ucraina. In questo momento dovrebbe spendersi in ambito internazionale per portare Russia e Ucraina al tavolo dell’ONU e trovare soluzioni pacifiche in quella sede. Invece si sceglie di giocare col fuoco e lo si fa dimenticando che la contesa è tra potenze nucleari”.

Continua Zanotelli: “Se Putin chiede la neutralità dell’Ucraina, bisogna metterla sul tavolo. Perché oggi l’Ucraina è una polveriera, è un Paese spaccato profondamente, con un nazionalismo che fa paura. E quando si combinano nazionalismo e religione, è pericolosissimo. Putin è un autocrate, un dittatore: ma non è Hiltler. E’ un sovranista. Andrebbe condannato per quello che ha fatto. Ma è folle rispondere a una potenza nucleare con la minaccia delle armi. Bisognerebbe lavorare, invece, perché le armi tacciano. E questo lo si può fare contrastando le pretese espansionistiche della NATO. Perché l’Ucraina deve entrare nella NATO? Di questo passo rischiamo il conflitto nucleare”.

“Nella crisi ucraina, non si sente la voce del pacifismo. E’ troppo fievole. Invito tutti gli uomini e le donne di buona volontà a seguire l’invito di Papa Francesco, che è un grande profeta: ha detto che non esiste una guerra giusta. Ha ragione. E allora chiedo: perché i partiti e il governo stanno votando l’invio di armi in Ucraina?”.

“Voglio credere che LEU e Sinistra Italiana non votino questa roba. Io dico: una volta esisteva la sinistra, e il pacifismo era un perno del suo programma. Non c’erano dubbi su questo. Ora la Sinistra non può votare gli armamenti, deve lavorare per il disarmo. Enrico Letta non può parlare nel modo in cui ha fatto in Parlamento giorni fa. Come si fa a chiedere ancora più armi? E’ un atteggiamento assurdo, incomprensibile, grave”.

“Non credo alla conversione pacifista di Matteo Salvini che prega con i frati di Assisi. E’ un camaleonte perfetto, un trasformista nato, un opportunista totale. L’ho ascoltato quando ha detto che bisognava accogliere i profughi ucraini. Va benissimo. Ma la sua è la stessa posizione di Orban e della Polonia, per cui gli ucraini possono entrare ma i migranti arabi e afghani devono restare fuori dall’Europa. E allora lo dica: è un razzista e si mantiene tale”.

Continua il missionario comboniano. “Sull’urgenza della pace bisogna risvegliare un’opinione pubblica assopita. A Berlino, dove hanno la guerra vicina, è sceso in piazza mezzo milione di persone. Qui da noi non c’è quasi nulla. E’ anche responsabilità di noi pacifisti: non abbiamo lavorato abbastanza per portare questo messaggio al popolo. Papa Francesco ha detto che non c’è una guerra giusta. I cristiani si interroghino. Ci vorrebbe un’iniziativa per smuovere le coscienze, una carovana della pace come quella che fece don Tonino Bello per Sarajevo. Organizziamo una carovana di centomila auto diretta al confine ucraino. Il mondo della Pace si faccia sentire. I vescovi dei paesi europei si trovino a Kiev. C’è urgenza di gesti importanti”.

Un paio di settimane fa, per la precisione il 19 febbraio scorso, Zanotelli aveva scritto un intervento, pubblicato sul sito ‘Mosaico di Pace’.

Ecco il suo j’accuse, indirizzato soprattutto ai politici e ai produttori e ai trafficanti di armi, che si nutrono – letteralmente – di guerre. Proprio come gli Stati Uniti, il cui apparato militare ha –   letteralmente – continuo bisogno di ‘wars’.

SULL’ORLO DEL BARATRO

Viviamo un momento drammatico della storia umana. Siamo sotto la minaccia dell’ “inverno nucleare” e dell’ “ estate incandescente”! La prima provocata da una guerra nucleare e la seconda dalla paurosa crisi ambientale.

In questo momento, per la crisi Ucraina, siamo terrorizzati dalla minaccia di una guerra nucleare. Tutto questo è il frutto amaro di una folle corsa mondiale al riarmo, soprattutto atomico. Stiamo infatti militarizzando il cielo e la terra.

Il cielo è diventato anch’esso teatro di scontro. L’uomo più ricco della terra, Elon Musk, ha già inviato nello spazio 1.900 satelliti, ma ha già intenzione di spedirne altri 42.000. La Cina lo ha già accusato di spionaggio a favore degli USA e ha testato il suo razzo ipersonico che elude ogni difesa. Siamo ormai alle ‘star wars’ (le guerre stellari), come le chiamava Reagan. Ma non contenti di militarizzare il cielo, stiamo super-militarizzando il Pianeta Terra che è diventato una discarica di armi (non dimentichiamo che le armi sono, insieme allo stile di vita di pochi, la causa del disastro ambientale.)

Nel 2021 la spesa militare mondiale si aggira sui duemila miliardi di dollari (nel 2020 eravamo a 1.981 miliardi!) Quasi metà di queste assurde spese sono da attribuirsi a USA/NATO, seguiti a grande distanza da Russia e Cina. E questo riarmo è contagioso. La notevole militarizzazione della Cina, per esempio, spinge ora le nazioni del Pacifico: Giappone, Indonesia, Corea del Sud, Malesia e Taiwan a fare altrettanto. Ma anche l’Africa è sempre più militarizzata. Nel 2020 le spese per le armi hanno superato i 43 miliardi di dollari, con una crescita esponenziale nei paesi del Sahel. Ma ancora più agghiacciante è la corsa al riarmo nucleare, da parte delle grandi potenze, soprattutto USA, Russia e Cina. Gli USA, già con l’amministrazione Obama, avevano stanziato mille miliardi di dollari per modernizzare il loro armamentario atomico. Così ora abbiamo le nuove e più micidiali bombe atomiche, B61-12 che arriveranno presto anche in Italia per rimpiazzare una settantina di vecchie B61. La Cina, che ha oggi circa 200 testate nucleari, vuole entro il 2030, arrivare a circa mille. Gli USA ne hanno già pronte al lancio 3.750. Il nuovo accordo militare tra USA, Gran Bretagna e Australia (AUKS) per la difesa della zona del Pacifico, incrementerà questa corsa al riarmo nucleare. Infatti gli USA hanno già venduto all’Australia i ‘sottomarini atomici’. Lo scontro fra USA /NATO e la Russai sull’Ucraina ha già portato la Russia a siglare un’alleanza con la Cina. E siamo di ritorno ai blocchi Est-Ovest, alla Guerra Fredda e al nuovo riarmo mondiale. Infatti gli scienziati atomici hanno già posto le lancette dell’ “Orologio dell’Apocalisse” a 100 secondi dall’inverno nucleare. E il nostro paese partecipa allegramente a questa corsa al riarmo. Lo scorso anno per armare l’Italia, il governo Draghi ha investito in armi circa trenta miliardi di euro. Non solo, il Ministero della Difesa (Guerini) e dello Sviluppo Economico (Giorgetti) hanno presentato progetti per trenta miliardi presi dal Recovery Fund. Per di più le Forze Armate italiane stanno armando i droni Reaper, i sottomarini, le fregate FREMM con i missili Cruise, permettendole così di condurre missioni di attacco in qualsiasi parte del mondo. Così i nostri droni passeranno da semplici vedette a killer di precisione. (in barba alla Costituzione italiana!) Non solo, ma il Ministro Guerini ha trasformato il Ministero della Difesa nel Ministero della Guerra facendo del suo dicastero un agente di commercio dell’industria bellica nazionale. Le grandi aziende belliche, Leonardo(ex-Finmeccanica) e Fincantieri (a partecipazione statale) sono in piena attività. L’Italia vende armi a tutti: l’importante è fare affari. Sta perfino vendendo armi all’Egitto del dittatore Al-Sisi: un giro di affari del valore di 9-10 miliardi di dollari (in barba a Giulio Regeni e a Patrick Zaky!). Inoltre il governo italiano sta finanziando sempre più missioni militari con lo pseudonimo di ‘missioni di pace’. L’esempio più clamoroso è la missione in Afghanistan: vent’anni di guerra a fianco della NATO che ci è costata sette miliardi di dollari e agli alleati tremila miliardi di dollari, per produrre quella vergognosa ritirata (altro che esportare democrazia!). Non contenta, l’Italia ha accettato il comando del contingente NATO in Iraq, dopo che abbiamo distrutto quel paese, con una spaventosa guerra costruita su bugie! Ora l’Italia si sta cimentando con le missioni in Africa. In Niger sta costruendo una base militare con la presenza di oltre duecento militari ed ha inviato soldati in Mali per partecipare all’operazione anti-jihadista Takuba (mentre la Francia si ritira!). Invece di soldati e di armi, la disperata popolazione del Sahel ha bisogno di aiuto per risollevarsi, non di armi. E tutto questo sta avvenendo nell’indifferenza e nel silenzio del popolo italiano. È scandaloso il silenzio del Parlamento davanti a un governo Draghi che investe sempre più in armi e taglia i fondi alla sanità pubblica e alla scuola. In un tale contesto non dovremmo meravigliarci se la crisi Ucraina in Europa o su Taiwan in Asia, potrebbero farci precipitare in una guerra nucleare con la Russia o con la Cina. Basta un incidente ed è la fine. È questa militarizzazione mondiale che ci porterà nel baratro dell’inverno nucleare!

“La pandemia è ancora in pieno corso – ha detto recentemente Papa Francesco – la crisi sociale ed economica è ancora pesante, specialmente per i più poveri. Malgrado questo, ed è scandaloso, non cessano i conflitti armati e si rafforzano gli arsenali militari. E questo è lo scandalo”.

Ministro Guerini, come la mettiamo? Armi dall’Italia all’Ucraina “camuffate in casse di aiuti umanitari”: il giallo all’aeroporto di Pisa. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 16 Marzo 2022. 

Nel ventesimo giorno di guerra in Ucraina l’ospedale di Mariupol diventa una prigione. Secondo quanto riferito ieri dalla Bbc, pazienti e personale della struttura sono stati presi in ostaggio dalle forze armate russe. L’emittente cita Serghei Orlov, sindaco della città sotto assedio. «Abbiamo ricevuto informazioni che l’esercito russo ha catturato il nostro più grande ospedale e sta usando i nostri pazienti e medici come ostaggi», riferisce il sito del servizio pubblico britannico. Secondo le informazioni fornite da Orlov, si tratterebbe di circa 400 ostaggi. Secondo altre fonti, nell’ospedale sarebbero state portati anche dei residenti della zona.

Di ieri anche la notizia di due vittime tra gli operatori dei media dopo il bombardamento d’artiglieria nella parte nord-est del villaggio di Gorenki, nella regione di Kiev, sulla strada per Irpin. A cadere sotto i colpi di mortaio o di artiglieria, la giornalista ucraina Oleksandra Kurshinova (a riferirlo è la France Presse) e il cameraman della Fox News Pierre Zakrzewski. La conferma della morte di quest’ultimo è arrivata soltanto oggi: Zakrzewski, operatore dell’emittente americana con una lunga esperienza in teatri di guerra, è morto in seguito alle ferite causate dall’attacco russo. Fox News, che esprime il suo cordoglio per la perdita del collega e le condoglianze alla moglie e alla famiglia, spiega, inoltre, che Zakrzewski è morto nello stesso incidente in cui è rimasto ferito il corrispondente Benjamin Hall. Il cameraman, spiega ancora la Fox, era un “veterano” degli operatori di guerra ed aveva origini irlandesi. Il consigliere del ministro degli Interni ucraino, Anton Gerashchenko, ha fornito altri dettagli sull’incidente in cui Hall, il collega di Zakrzewski, è rimasto ferito: “Il giornalista Benjamin Hall, che lavora per la compagnia televisiva americana Fox News, è in gravi condizioni, privo di sensi. Ha subìto numerosi interventi chirurgici”, ha dichiarato Gerashchenko, tra cui l’amputazione di parte della gamba (si apprende da media americani).

“A giudicare dalla natura delle ferite di Ben Hall” ha poi aggiunto il funzionario ucraino “l’equipe di Fox News è stata colpita da colpi di mortaio o di artiglieria dagli occupanti russi vicino al villaggio di Gorenki”. Sale così a tre il bilancio delle vittime tra gli operatori dei media che negli ultimi giorni sono morti in Ucraina a causa della guerra; il primo è stato è stato lo statunitense Brent Renaud, ucciso domenica 13 marzo. Due giornalisti ucraini, Oleg Baturin e Serhiy Tsyhypa, risultano scomparsi a Kakhovka e Nova Kakhovka. A comunicarlo è stato il sito di news ucraino Suspilne News. Entrambi hanno coperto le notizie sullo stato della guerra nelle loro città e in altre regioni, fin dal primo giorno dell’invasione russa in Ucraina. Il canale news ha parlato con parenti e conoscenti dei dispersi per avere dettagli della loro scomparsa. La paura attanaglia Kiev. Tornano a suonare le sirene in tutte le città dell’Ucraina per annunciare l’allerta aerea, le Forze armate invitano tutti i cittadini a raggiungere urgentemente i rifugi della protezione civile.

Nel centro della capitale alcune esplosioni sono avvenute all’alba di ieri. Le deflagrazioni, almeno tre, in una zona residenziale, hanno provocato quattro morti e una trentina di feriti. A Kiev sono arrivati i tre leader europei in missione: sono i primi ministri di Polonia, Slovenia e Repubblica Ceca. Intanto, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ammette, nel suo discorso online alla Joint Expeditionary Force di Londra: “L’Ucraina si rende conto che non è nella Nato. Abbiamo sentito per anni parlare di porte aperte, ma abbiamo anche sentito dire che non possiamo entrarci, e dobbiamo riconoscerlo”. Da Pisa arriva una denuncia inquietante: “Armi verso l’Ucraina mascherate da aiuti umanitari in partenza dall’aeroporto civile di Pisa”. A sostenerlo è il sindacato Usb-Pisa sulla base di alcune rivelazioni ricevute dai lavoratori del “Galilei”. “Quando si sono presentati sotto l’aereo – affermano dall’Unione Sindacale di Base – i lavoratori addetti al carico si sono trovati di fronte casse piene di armi di vario tipo, munizioni, esplosivi […] a questo fatto gravissimo i lavoratori si sono rifiutati di caricare il cargo”. Ministro Guerini, come la mettiamo?

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Dagli Stinger agli anti-carro Javelin Tutte le armi dagli Usa all’Ucraina. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 17 marzo 2022.

Il pacchetto di aiuti militari deciso dalla Casa Bianca è modellato sulle tattiche usate dagli ucraini. Zelensky chiede aerei, ma il Pentagono preferisce fornire materiali gestibili sul piano logistico, adatti alla difesa in atto. Un programma da 800 milioni di dollari che si aggiunge a precedenti forniture.

Nella lista diffusa dagli Usa ci sono ovviamente gli anti-carro: i ben noti Javelin (2000) – molto efficaci contro i tank -, gli AT4 (6000) e un migliaio di un altro “modello”. Grazie al loro impiego la resistenza – ben addestrata e motivata - ha inflitto perdite consistenti alle colonne russe. I missili possono essere usati sia dai reparti convenzionali che dai piccoli nuclei in stile guerriglia. Un ibrido fondamentale per l’esercito di Kiev. Gli Stati Uniti hanno poi previsto l’invio di 100 Switchblade, i droni-kamikaze. Stanno in uno zaino, pesano tre chili, basta un soldato per lanciarli con un piccolo «tubo». Studiati per eliminare postazioni, veicoli leggeri, nidi di mitragliatrici.

La seconda componente è quella anti-aerea. Arriveranno altri 800 Stinger, missili che sono lanciati da un solo uomo. Serviranno per contrastare a bassa quota le incursioni dei caccia. E già hanno messo a segno numerosi centri. Quest’arma – nelle sue versioni – ha avuto un impatto nel conflitto afghano, quando gli elicotteri d’attacco russi vennero decimati dal fuoco dei mujaheddin. Nell’elenco non compaiono altri sistemi che però saranno comunque trasferiti in Ucraina, dovranno garantire uno scudo per quote più alte. Possibile la consegna di S300 (dalla Slovacchia) e di vari sistemi mobili (SA8, SA10, SA14). Due le esigenze. La prima. Pensano di rendere ancora più difficili le missioni dell’aviazione di Putin che, dopo venti giorni, non è ancora riuscita ad assicurare la supremazia nei cieli. Ciò ha concesso maggiore libertà d’azione a terra agli ucraini e non ha parato i raid dei droni di Kiev. La seconda. Colmano i vuoti, anche i difensori hanno perso molti mezzi.

A seguire equipaggiamento più leggero per la fanteria: 25 mila elmetti, altrettanti corpetti anti-proiettile, 5 mila fucili d’assalto, 400 fucili a pompa (servono negli scontri casa per casa), lanciagranate, mille pistole, 400 mitragliatrici, 20 milioni di proiettili. Per alcuni osservatori gli Stati Uniti potevano fare di più, considerano la spedizione una goccia. Magari serviva un maggior numero di radar per scoprire l’artiglieria, apparati di comunicazione protetti. È possibile che in parallelo alla lista pubblica esista altro, coperto dalla riservatezza. Infine non va sottovalutato il supporto dell’intelligence che attraverso ricognizione, intercettazioni e satelliti spia informa in modo preciso l’alleato sulle mosse dell’Armata.

(ANSA il 15 marzo 2022. ) - La Russia sta usando una misteriosa 'munizione' in Ucraina: i suoi missili balistici a corto raggio Iskander-M rilasciano dei dispositivi ingannevoli, una sorta di esche, in grado di confondere i sistemi aerei di difesa e i radar. Lo riporta il New York Times citando fonti dell'intelligence, secondo le quali i missili rilasciano le esche quando avvertono di essere nel mirino dei sistemi di difesa aerea. Le esche sono in grado di produrre segnali elettrici e radio che confondo i radar nemici, oltre a contenere fonti di calore che attraggono i missili in arrivo. L'uso dei diversivi potrebbe aiutare a spiegare il perché i sistemi ucraini incontrerebbero difficoltà nell'intercettare i missili Iskander russi.

Gianluca Di Feo per “la Repubblica” il 15 marzo 2022.  

Le parole della diplomazia sono accorte e misurate, alternando dichiarazioni ufficiose a smentite ufficiali. Ma la convinzione che Putin abbia domandato un sostegno militare al presidente Xi, unico alleato strategico, comincia a prendere sostanza. E gli analisti si chiedono quale sia la lista delle richieste presentate da Mosca. Le prime due settimane di combattimenti hanno mostrato alcune carenze nell'arsenale del Cremlino, che Pechino potrebbe aiutare a colmare.

La principale riguarda i droni armati. L'esercito russo ne ha pochissimi, perché la sua filosofia bellica pone la priorità sull'artiglieria: gli aerei teleguidati servono a individuare i bersagli, che poi vengono distrutti con cannonate e razzi sparati dai semoventi. Questa è la tattica sperimentata in Siria e applicata ora negli scontri in Ucraina. Gli invasori si sono però trovati davanti a un problema sottovalutato: le imboscate contro le loro colonne, che tormentano sia le avanguardie dei tank, sia i camion dei rifornimenti.

Le tattiche russe prevedono che questi reparti siano scortati in azione dagli elicotteri da combattimento, in grado di scoprire eventuali agguati e intervenire per sventarli. Ma i missili terra- aria Stinger forniti dall'Occidente agli ucraini infliggono perdite dure agli elicotteri, spingendo i generali a tenerli lontani ed esponendo così le loro forze terrestri agli attacchi di sorpresa. L'unica reazione che Mosca può tentare è copiare quello che fa la Nato e affidare la protezione dei convogli ai droni armati.

I Wing Loong - anche chiamati "Pterodattili" come i feroci dinosauri alati - prodotti in Cina possono restare in volo per venti ore, sorvegliando l'area intorno alle colonne con sensori all'infrarosso per individuare le squadre ucraine e poi colpirle con missili o bombe. Basterebbero poche decine di questi aerei telecomandati per ridare sicurezza alle pattuglie russe che si inoltrano nelle periferie contese o alle file di camion nelle retrovie che oggi vengono decimate dalla resistenza.

Pechino ne ha esportati più di duecento e continua ad accumulare ordini, dall'Egitto all'Algeria. Si tratta inoltre di un sistema semplice da gestire: i tecnici russi potrebbero imparare a usarlo in pochi giorni. L'altro incubo degli invasori sono i droni turchi Bayraktar TB2 che gli ucraini impiegano con sapienza per bersagliare i tank. Come era già accaduto in Libia, questi piccoli apparecchi non vengono avvistati dai radar dei semoventi contraerei russi e si stanno dimostrando praticamente invincibili.

Anche in questo caso, Mosca dovrebbe imitare la Nato e, piuttosto che cercare di abbatterli con missili e cannoni, dotarsi di strumenti per disturbare le frequenze che pilotano a distanza i droni. Se si riesce a spezzare il collegamento radio, allora il robot volante precipita o vaga fino all'esaurimento del motore.

Pechino negli ultimi anni ha investito molto su questo genere di apparecchiature, vendute in tutto il mondo: si ritiene che persino gli ucraini le stiano sfruttando con successo contro gli invasori. Mentre invece quelle progettate dagli ingegneri moscoviti non solo non fermano i micidiali Bayraktar ma non riescono neppure a spazzare via i droni commerciali che gli ucraini lanciano per spiare il nemico: un gap tecnologico, specchio del ritardo russo nella micro-elettronica. Infine i generali del Cremlino dovranno presto fare i conti con l'esaurimento delle riserve di missili a lungo raggio.

Ne sono già stati scagliati centinaia, forse più di settecento, e non possono essere rimpiazzati velocemente. L'unico Paese a cui si possono rivolgere è la Cina, anche se in questo caso ci sarebbero difficoltà di integrazione con i velivoli russi che ogni notte attaccano le città ucraine. Putin non ha alternative e per questo gli Stati Uniti cercheranno in ogni modo di sbarrare la via della Seta alle armi hi-tech.

Individuano l’obiettivo e si comportano come kamikaze. Cosa sono i droni Kalashnikov, gli aerei esplosivi usati da Mosca per colpire i palazzi di Kiev. Elena Del Mastro su Il Riformista il 14 Marzo 2022. 

Gli attacchi su Kiev da parte dei russi si intensificano e una nuova arma di ultima generazione sta scendendo in campo: si tratta di droni – kamikaze prodotti dalla Kalashnikov, la storica fabbrica di fucili mitragliatori da cui prendono il nome. Un’arma di particolare precisione tecnicamente chiamata “loitering munition”, un robot da guerra comandabile a distanza.

Si tratta di un piccolo aereo telecomandato fornito di una testata di esplosivo e biglie d’acciaio. Si muove con agilità rimanendo in volo molto tempo con il suo motore elettrico silenzioso. Sorvola la zona di interesse e la riprende con una telecamera. Una volta individuato con precisione il bersaglio, si lancia e lo distrugge. Già esistevano armi di questo tipo ma la differenza è che in passato questi piccoli aeroplani venivano usati per ricognizione o attacco e poi recuperati e riutilizzati.

Questi droni di ultima generazione invece sono destinati ad un solo uso perché esplodono come i kamikaze giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale: vengono dunque usati una sola volta. Si chiamano “loitering munition”, letteralmente “proiettili che girano intorno”. Restano in volo e poi colpiscono con precisione. Secondo quanto riportato da Repubblica, sembra che i russi vogliano usare questi sistemi per colpire i furgoni utilizzati per distribuire i razzi forniti dall’Occidente ai difensori di Kiev: attendono il momento della consegna, l’unico in cui è possibile individuare i veicoli anonimi dei corrieri.

Armi di questo tipo sono già diffuse da te anni e sono state usate nella guerra libica e nel conflitto tra Armenia e Azerbaijan. Possono essere minuscoli come insetti e guidati da smartphone oppure più grandi, elicotteri che contengono anche 50 kg di esplosivo. Restano micidiali e pericolosi allo stesso modo.

Diversi produttori offrono sistemi di intelligenza artificiale che rendono autonomo il drone, permettendogli di scoprire da solo il bersaglio indicato ed eventualmente decidere di eliminarlo senza bisogno di autorizzazione umana. I tentativi di stabilire regole internazionali per impedire la diffusione di questi robot-killer finora sono falliti e rischia di essere il primo passo verso uno scenario apocalittico fatto di macchine che autonomamente decidono di colpire senza il contributo dell’uomo.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

La situazione della guerra oggi: quali sono e come arrivano le armi occidentali in Ucraina. Andrea Marinelli e Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 13 Marzo 2022.

Per tenere viva la lotta anti-russa, gli Stati Uniti, insieme a quasi trenta Paesi, inviano materiale bellico con un grande sforzo logistico: le armi passano da Polonia e Romania, in particolare i Javelin anticarro. 

I nord vietnamiti all’epoca della guerra contro gli americani facevano passare i rifornimenti attraverso il mitico «sentiero di Ho chi Minh». E gli Usa provavano a interrompere il flusso con bombe, azioni clandestine, incursioni. Oggi la storia si ripropone con protagonisti gli ucraini. Per tenere viva la lotta anti-russa, gli Stati Uniti, insieme a quasi trenta Paesi, inviano materiale bellico con un grande sforzo logistico. Il vantaggio per i resistenti è quello di avere un punto d’appoggio cruciale a Rzeszow Jasionka, base in Polonia, diventato l’hub, il punto d’arrivo per decine di cargo. Altri potrebbero trovarsi in Romania. Una retrovia che preoccupa Mosca: infatti ha sferrato un primo attacco contro il centro per il training a Yavoriv, vicino al confine polacco. Un primo segnale, atteso, e non sorprenderebbe qualche sabotaggio da parte degli agenti di Putin

I carichi sono scortati fino al territorio ucraino, quindi sono suddivisi in modo da raggiungere il maggior numero di unità possibile ma anche per sottrarli alla caccia lanciata da Mosca. Esiste un corridoio settentrionale e uno più a sud: camion, veicoli camuffati, normali vetture, treno ove è possibile fanno parte della filiera che vede anche il coinvolgimento di civili. Molti che vivono all’estero acquistano online o attraverso intermediari. Offerte arrivano persino dall’America, grazie all’impegno di cittadini comuni. Questa grande macchina non nasce all’improvviso: Kiev sta probabilmente attuando il Resistance Operating Concept, una «cornice» creata con l’aiuto del Pentagono e della Nato fin dal 2018. Tre i pilastri: 

1) Coordinamento di civili, reparti regolari, riservisti. 

2) Tattica che include guerriglia, disobbedienza civile, metodi non violenti (visti in questi giorni). 

3) Canale per favorire il supporto di Paesi amici.

È questa struttura che si è mobilitata per ricevere sistemi anti-aerei portatili ma soprattutto gli anti-carro. I video hanno mostrato le imboscate di piccole formazioni ucraine che colpiscono tank, rallentano una colonna con gli Spike, di produzione israeliana, o il Javelin, statunitense. Per sparare quest’ultimo, l’operatore carica in spalla il tubo che contiene il missile con tutti i suoi sistemi di guida — ha un peso di circa 25 chili, sicuramente sopportabile — e punta l’obiettivo designato: quando il missile parte, riconosce l’obiettivo o per una comparazione di immagini tra quelle che ha in memoria o perché attirato dal calore del motore dell’obiettivo. Una volta arrivato in prossimità del carro, s’innalza di 150 metri e precipita in verticale sull’obiettivo: i mezzi corazzati sono infatti più protetti sui lati rispetto alla parte superiore, dunque l’insidia che arriva dall’alto ha più probabilità di mettere fuori uso il carro.

Proprio per questo si chiama Javelin, che vuol dire giavellotto. Ha una portata di circa 4 chilometri e può colpire qualsiasi veicolo che emette calore. È l’arma più sofisticata contro i mezzi corazzati — secondo gli ucraini ha già messo fuori uso 335 carri armati e oltre 1.000 blindati: numeri non confermabili — ma per gli esperti non può essere sufficiente a fermare l’avanzata dei russi, che cercano di riparare i mezzi con «tettoie» di metallo, tecnica vista in Siria: è un tentativo di far deflagrare all’esterno la carica dell’ordigno. L’Alleanza Atlantica ha inviato oltre 17 mila di questi missili anticarro nell’arco di una settimana, per lo più via terra attraverso Polonia e Romania: sono però piuttosto costosi – fra gli 80 e i 200 mila dollari a esemplare – e i produttori americani sono in grado di realizzarne circa 6.500 all’anno. Ma, come hanno osservato gli esperti, anche modelli meno sofisticati possono incidere: infatti diversi Paesi hanno spedito «pezzi» d’altro tipo, dall’AT4 al Panzerfaust.

I russi rispondono con pesanti missili balistici di precisione a corto raggio, che dal primo giorno dell’invasione hanno colpito tutte le principali città ucraine e gli obiettivi militari. Sono sparati da terra con i carri Iskander, che ne portano due alla volta: la metà di quelli sparati finiscono in un raggio di 5/7 metri. Le città ucraine sono state colpita anche da missili da crociera Kalibr con una gittata di 1.500/2.000 chilometri, che vengono lanciati dal mar Nero e sono usati per colpire con maggiore precisione. Per gli assedi vengono utilizzati invece i BM-21, un sistema di lancio che può sparare centinaia di missili non guidati e quindi meno precisi: cadono in un’area piuttosto vasta e servono a distruggere il bersaglio.

Ci sono poi i cingolati TOS-1, che lanciano missili termobarici, testate devastanti che creano effetti incendiari ed esplosivi: sono composte da gas infiammabile e particelle metalliche, quando esplodono, la sostanza utilizza l’ossigeno presente nell’aria per creare una «bolla» e subito dopo c’è una nuova deflagrazione. Le conseguenze sono temperature altissime, un’onda d’urto più lunga rispetto alle armi convenzionali e ossigeno che brucia: vengono usate per colpire bersagli in un edificio o nei bunker. I russi avrebbero usato anche bombe a grappolo, che possono essere utilizzate da aerei, elicotteri e artiglierie, pensate per contrastare concentramenti di forze: rilasciano una pioggia di sub-munizioni sull’obiettivo, che di solito esplodono con l’impatto e sono molto pericolose – oltre che vietate – per i civili.

Le armi usate nella guerra in Ucraina. Paolo Mauri su Inside Over il 12 marzo 2022.

Il conflitto in Ucraina vede fronteggiarsi due eserciti, e più in generale due forze armate, numericamente e qualitativamente molto diversi tra di loro, sebbene gran parte degli armamenti in dotazione a Kiev sia di origine sovietica o russa. Se l’Ucraina ha potuto contare su un certo numero di sistemi occidentali moderni, come ad esempio droni e ATGM (Anti Tank Ground Missile), la Russia non ha schierato le sue ultime creazioni nel campo degli armamenti, fatto salvo per qualche drone che ha effettuato operazioni sporadiche su alcuni fronti. I pochi T-14 Armata consegnati all’esercito russo sono rimasti nei depositi, allo stesso modo i nuovi caccia di quinta generazione

(Felon in codice Nato), entrati in servizio nelle Vks (Vozudushno Komsicheskie Sily) le forze aerospaziali russe, sono rimasti nelle loro basi, anche perché risulta che nel momento in cui scriviamo, solamente due esemplari siano stati consegnati ai reparti. Il nuovo AFV (Armoured Fighitng Vehicle) BMPT-72 “Terminator”, visto in cinque esemplari su un treno diretto verso il confine nei giorni precedenti l’invasione, attualmente non risulta ancora essere stato impiegato in azione.

Gli assetti aerei

Russia

Le Vks hanno impiegato, per certo, cacciabombardieri da attacco al suolo, Su-24, Su-34, Su-25 e Su-30SM. Questi hanno impiegato diverso tipo di munizionamento che è cambiato durante le varie fasi del conflitto. In una prima fase, volta al SEAD (Suppression Enemy Air Defenses) sono infatti stati utilizzati missili da crociera aviolanciati (ALCM – Air Launched Cruise Missile) tipo KH-31, successivamente i velivoli hanno ripiegato, per colpire obiettivi a copertura dell’avanzata di terra, su munizionamento a caduta libera sia di tipo guidato, sia non guidato. Si è infatti notata una riduzione dell’utilizzo delle PGM (Precision Guided Muitions) nel corso degli eventi bellici, determinata da una penuria negli arsenali per via dell’embargo stabilito nel 2014 dall’Ucraina dopo il colpo di mano in Crimea e la destabilizzazione del Donbass: i sistemi di guida erano infatti forniti da industrie ucraine che ne hanno immediatamente cessato la fornitura a partire da quell’anno. Si sono pertanto riviste le bombe a grappolo (cluster bombs) tipo RBK-500 e le classiche a caduta libera FAB-500.

Riteniamo che la Russia abbia utilizzato anche velivoli più pesanti per effettuare gli strike delle prime ore: risulta infatti che siano stati impiegati missili da crociera più grandi, i KH-101, che possono essere lanciati dai Tupolev Tu-160, e l’ampia chiusura dello spazio aereo russo a oriente dell’Ucraina, dove è situata la base di Engels sede di questi bombardieri strategici, potrebbe confermarlo. Sappiamo con certezza che la Russia ha utilizzato, forse per la prima volta in battaglia, l’UCAV (Unmanned Combat Air Vehicle) Kronstadt Orion: immagini diffuse dal Ministero della Difesa Russo lo mostrano in azione nella zona del Donbass. Risulta anche che siano stati impiegati gli UAV (Unmanned Air Vehicle) Orlan-10, di cui uno andato sicuramente perduto. A pattugliare i cieli, le Vks hanno utilizzato i Su-35S, mentre per avere un “occhio dall’alto”, in Bielorussia hanno fatto affluire almeno 3 AWACS tipo Beriev A-50. Per quanto riguarda i velivoli ad ala rotante, Mosca sta utilizzando i Mil Mi-24, Mi-35, Mi-8, Mi-28 e Kamov Ka-52.

Ucraina

L’aeronautica militare ucraina aveva in servizio prima del conflitto 43 Sukhoi Su-27, 27 MiG-29, 17 Su-25 e 12 Su-24M. Le perdite accertate di Kiev risultano in 3 Su-27, 1 MiG-29, 2 Su-25, 1 An-26 e l’unico An-225 esistente al mondo. L’Ucraina però sta facendo largo uso degli UCAV di fabbricazione turca Bayraktar TB2, che utilizza come “artiglieria volante” per colpire i corazzati russi. Per quanto riguarda l’ala rotante anche qui le proporzioni sono nettamente svantaggiose per Kiev, che può contare solamente su 35 elicotteri da attacco Mil Mi-24 e su 65 multiruolo Mi-8. 

L'esercito

Russia

Mosca sta utilizzando tutte le tipologie di MBT (Main Battle Tank) presenti nel suo arsenale , eccezion fatta per i già citati T-14. Si sono visti T-72 di vario tipo, T80 e T-90. Presenti anche diversi veicoli da combattimento per la fanteria (AIFV – Armoured Infantry Fighting Vehicle) della serie BTR e BMP nonché quelli più leggeri per le truppe aerotrasportate (le Vdv) tipo BMD insieme agli onnipresenti MT-LB. L’esercito di Mosca sta utilizzando anche veicoli più piccoli rispetto ai BTR come i ruotati Tigr e gli Iveco “Lince” di fabbricazione russa, o LMV-M65 Rys. Per quanto riguarda gli MLRS (Multiple Lauch Rocket System), a far da padrone sono ancora i BM-21 Grad, ma sono stati impiegati anche i BM-27 Uragan, più recenti e precisi insieme ai Tos-1A. Mosca ha fatto largo uso anche di sistemi di missili balistici a corto raggio (SRBM – Short Range Ballistic Missile) tipo Iskander-M e di vettori da crociera lanciati da terra (GLCM – Ground Launched Cruise Missile) tipo Iskander-K. Per la difesa aerea la Russia può contare su diversi sistemi: da quelli più a lungo raggio come gli S-400, sino ai Pantsir S1, passando per i Buk, i Tor-M1.

Ucraina

Tutti gli MBT presenti negli arsenali ucraini sono di origine sovietica/russa. Questi sono del tipo T-64, T-72 (di vari modelli) e T-80. Anche l’Ucraina dispone di veicoli AIFV della serie BTR e BMP, ma può contare anche su KrAZ Spartan, Saxon, KrAZ Shrek, Dozor-B e Kozak-2 che si vanno ad aggiungere agli altri BMD e MT LB presenti tra le fila dell’esercito. Kiev ha in servizio un certo numero di MLRS tipo Uragan e tipo Grad, ma a differenza della Russia il suo arsenale missilistico pesante si limita a qualche Tochka-U (SS-21 Scarab in codice Nato): si tratta di un missile “di teatro” di origine sovietica che è stato utilizzato almeno in un attacco su un aeroporto militare russo nella regione di Rostov sul Don. All’Ucraina, nelle settimane precedenti il conflitto e durante questi giorni di guerra, sono stati forniti tutta una serie di ATGM moderni occidentali: Javelin ed NLAW sono infatti andati ad affiancarsi a quelli di fabbricazione locale come gli Stugna-P/Skiff e a quelli di fabbricazione russa/sovietica 9K115 Metis e Metis-M, 9M113 Konkurs e 9K111 Fagot. Per quanto riguarda la difesa aerea l’Ucraina ha in servizio alcuni sistemi S-300 ma fa affidamento soprattutto su Buk, Tor-M1, Osa e Strela-10, senza considerare tutti i MANPADS di vario tipo forniti dall’occidente.

L'offesa dal mare

Alcune unità navali russe, in navigazione nel Mar Nero, hanno partecipato attivamente al conflitto lanciando i missili da crociera tipo 3M14 Kalibr. Questo è un ordigno da attacco terrestre che è in servizio su navi da guerra di diverso tipo: dalle piccole corvette Buyan-M sino alle fregate classe Gepard, senza considerare i sottomarini classe Kilo oppure i nuovi classe Yasen.

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Dagotraduzione da Al Jazeera il 9 marzo 2022.

La Russia è il secondo esportatore di armi al mondo, dopo gli Stati Uniti, e rappresenta circa il 20% delle vendite globali di armi. Tra il 2016 e il 2020, Mosca ha venduto armi a 45 paesi per 28 miliardi di dollari. 

La Russia esporta quasi il 90 percento delle sue armi in 10 paesi. Il suo principale cliente, l'India, ha acquistato il 23% delle armi russe per circa 6,5 miliardi di dollari negli ultimi cinque anni. La metà delle importazioni totali di armi dell'India, il 49,3 per cento, proviene dalla Russia. 

La Cina è il secondo acquirente di armi russe con 5,1 miliardi di dollari nello stesso periodo, seguita da Algeria (4,2 miliardi di dollari), Egitto (3,3 miliardi di dollari) e Vietnam (1,7 miliardi di dollari), secondo lo Stockholm International Peace Research Institute ( SIPRI ). 

Le armi che vende la Russia

La Russia esporta una varietà di armi tra cui aerei, motori, missili, veicoli corazzati e sistemi di difesa aerea. 

Gli aerei rappresentano quasi la metà (48,6%) delle esportazioni di armi russe. Tra il 2016 e il 2020 la Russia ha consegnato circa 400 jet da combattimento, tra cui la famiglia di jet Sukhoi e MiG, ad almeno 13 paesi. L'India ne ha comprati almeno la metà. L'India è anche uno dei soli sei paesi al mondo che gestiscono sottomarini a propulsione nucleare che ha in affitto dalla Russia. 

Sebbene molte delle armi russe siano potenziamenti del loro arsenale dell'era sovietica, sta sviluppando sempre più sistemi avanzati, incluso il sistema di difesa missilistica terra-aria S-400 che è stato venduto a Cina, India, Siria e Turchia. Diversi altri paesi hanno espresso interesse per l'acquisto di sistemi mobili a lungo raggio, che costano circa 400 milioni di dollari per unità. 

AK-47: l'arma più importante del mondo

L'arma russa più famosa è l'AK-47, o Kalashnikov. Sviluppato dal generale dell'esercito sovietico Mikhail Kalashnikov negli anni '40, il fucile d'assalto economico, durevole e facile da usare è l'arma di fanteria standard per più di 100 paesi. L'AK si riferisce a "Avtomat Kalashnikova", che in russo significa Kalashnikov automatico, e il numero "47" rappresenta l'anno in cui è stato sviluppato il fucile. 

Ci sono circa 100 milioni di AK-47, o varianti simili, in tutto il mondo, il che lo rende il fucile d'assalto più diffuso al mondo. 

I più grandi spendaccioni militari del mondo

Nel 2020, gli Stati Uniti hanno speso 778 miliardi di dollari per le loro forze armate: la più grande spesa militare al mondo e più di quanto spendo gli altri 10 paesi con la spesa più alta tutti insieme, secondo SIPRI. 

La Cina si è classificata seconda con 252 miliardi di dollari, seguita dall'India con 73 miliardi di dollari, la Russia con 62 miliardi di dollari e il Regno Unito con 59 miliardi di dollari.

La spesa militare russa

La spesa militare russa è cresciuta in modo significativo negli ultimi tre decenni. Nel 2020, Mosca ha speso circa 62 miliardi di dollari (4% del suo PIL) per le sue forze armate. 

L'industria delle armi russa è composta da circa 1.300 aziende che danno lavoro a circa due milioni di persone. La più grande di queste società è Rostec, fondata nel 2007 dal presidente Vladimir Putin. 

La Russia è stata coinvolta in numerosi conflitti da quando è diventata una federazione dopo lo scioglimento dell'Unione Sovietica nel dicembre 1991. Nel 1994, il Cremlino ha lanciato un'offensiva contro la Cecenia, una repubblica separatista al confine con la Georgia, nel tentativo di schiacciare la sua leadership separatista ma sono stati sconfitti dopo una battaglia di 20 mesi. 

Tre anni dopo, la Russia ha lanciato la seconda guerra cecena per riconquistare la repubblica. Ha posto un così duro assedio a Grozny, la capitale della Cecenia, che le Nazioni Unite hanno definito «la città più distrutta della Terra».

Nel 2014 la Russia ha invaso l'Ucraina e ha annesso la Crimea. Un mese dopo, i separatisti filo-russi hanno inziato a conquistare territori nelle regioni di Donetsk e Luhansk nell'Ucraina orientale. 

Nel 2015, la Russia è entrata formalmente nella guerra civile siriana al fianco del presidente Bashar al-Assad e le sue armi pesanti sono riuscite a cambiare le dinamiche sul campo. La guerra, che ha causato decine di milioni di sfollati e ucciso centinaia di migliaia di persone, è giunta al suo undicesimo anno.

Nel 2018, il governo della Repubblica Centrafricana – coinvolto nella guerra civile – ha invitato la Russia a inviare appaltatori militari per addestrare le sue forze armate. Esperti delle Nazioni Unite hanno ripetutamente espresso preoccupazione per le segnalazioni di «gravi abusi dei diritti umani» da parte dei mercenari. La Russia ha respinto queste affermazioni.

Così i droni (turchi) di Kiev rallentano l'invasione. Matteo Sacchi l'11 Marzo 2022 su Il Giornale.

Si chiama Bayraktar TB2, è il velivolo senza pilota che perseguita le truppe di Mosca.

All'inizio dell'invasione russa dell'Ucraina si favoleggiava di un pilota chiamato the Ghost of Kiev che avrebbe dato del gran filo da torcere ai russi abbattendoli a ripetizione.

Era mera propaganda anche se gli ucraini davvero sono riusciti a dispiegare a livello aereo dei fantasmi che per i russi sono diventati un vero incubo. Ma questi fantasmi il pilota lo hanno a terra. Sono i droni, soprattutto quelli di fabbricazione turca: i Bayraktar TB2. Questi aeromobili a pilotaggio remoto sono in questo momento uno dei massimi successi dell'export militare di Ankara e anche della famiglia del premier turco: Il genero di Recep Tayyip Erdogan, Selcuk Bayraktar, è il chief technology officer dell'azienda.

Il debutto di questo sistema d'arma non è avvenuto in questo conflitto. Finora, i droni TB2 sono stati impiegati in Libia, in Siria e nel Nagorno-Karabakh. Soprattutto in quest'ultimo conflitto, nel 2020, l'aereo senza pilota turco è accreditato di una serie di successi devastanti ai danni delle forze armene. Avrebbe colpito a ripetizione colonne di carri armati, postazioni fisse ma soprattutto neutralizzato fondamentali sistemi di difesa antiaerei, compresi i relativamente moderni sistemi missilistici 9K35 Strela-10 e 9K33 Osa.

Il Bayraktar TB2 non è il drone più moderno e stealth del mondo. Ma presenta una serie di vantaggi notevoli. È lungo 6,5 metri e ha un'apertura alare di 12 metri, per di più è facilmente smontabile. Si può nascondere ovunque e far decollare quasi da ovunque. Può rimanere in aria fino a 24 ore sebbene viaggi a una velocità massima di 220 chilometri orari. Anche la capacità di carico non è eccezionale ma è dedicata ad un arsenale che nel suo piccolo può far molto male: un carico di 150 kg su 4 piloni subalari. Può comprendere: bombe a guida laser MAM-L, missili anticarro UMTAS e razzi Cirit da 70 mm, tutti prodotti dalla turca Rocketsan. Il risultato è un mezzo che costa meno di 2milioni di dollari e fa il lavoro di un aereo d'attacco al suolo che può costare, come minimo, 15 volte tanto. Senza contare che non si perdono i piloti che sono gli specialisti più difficili da rimpiazzare. Appena arriva un altro drone il pilota semplicemente torna a combattere. Quanti sono i TB2 a disposizione degli ucraini? All'inizio si parlava di 54 velivoli di cui ne erano stati consegnati con certezza 6. Poi il ministero della Difesa ha dichiarato l'acquisto di un altro numero imprecisato di TB2, già pronti per entrare in combattimento. Di certo a prendere atto delle ripetute dichiarazioni russe sull'abbattimento di droni e dell'alto numero di filmati ucraini in cui si vedono i velivoli colpire bersagli russi risulta evidente che l'impiego è massiccio.

Può cambiare le sorti della guerra? Secondo molti esperti è l'uso che viene fatto dei droni ad essere particolarmente intelligente e probabilmente coordinato sul gran numero di informazioni che le forze armate ucraine ricevono dai civili e probabilmente dai servizi occidentali. L'Ucraina sta utilizzando i droni principalmente per colpire le linee di rifornimento russe e per interrompere le loro operazioni. Cisterne, punti di comando e controllo sono i bersagli privilegiati. Tanto che c'è chi dice i russi non rispettino i cessate il fuoco anche perché spesso non sono nemmeno in grado di comunicare. Le truppe russe vivrebbero una sorta di psicosi da drone anche quando magari quello che le centra è un colpo di mortaio. Dal lato ucraino invece il Bayraktar è finito perfino nell'inno di resistenza ucraino (sulle note di Bella Ciao) scritto dalla cantante folk Khrystyna Soloviy.

Ma non sono solo questioni di percezione: 37 esperti americani - ex alti funzionari del Pentagono e del Consiglio nazionale di sicurezza - consultati dallo Scowcroft Center for Strategy and Security - hanno suggerito la fornitura di droni come metodo più efficace di aiuto all'Ucraina senza i rischi di un vero ombrello aereo.

Andrea Nicastro per il “Corriere della Sera” il 9 marzo 2022.

Imparate questo nome. Se vi fosse più semplice potete anche memorizzarne solo la sigla: BT2. Ma, nelle guerre contemporanee, bisogna sapere cos'è, come in Vietnam il kalashnikov Ak47 o in Afghanistan lo Stinger. Il kalashnikov era il mitra che Mosca davano ai viet per combattere gli yankee, gli Stinger erano i missili che Washington dava ai mujaheddin per abbattere gli elicotteri russi.

I Bayraktar BT2 sono i droni che l'Ucraina si è comprata dalla Turchia per difendersi dall'invasione di Putin. I droni che vorrebbe qualcuno gli regalasse per continuare a difendersi. 

Se sono vere anche solo la metà delle perdite che Kiev dice di aver inflitto ai russi (12mila soldati uccisi), l'arma decisiva è stata spesso il drone turco capace di scavalcare le linee e colpire le parti meno protette del fronte nemico: i camion della logistica, i trasporta truppe, le cisterne di carburante, le comunicazioni.

Il drone turco brilla nelle guerre a basso contenuto tecnologico. Qualche analista sostiene che le continue violazioni dei cessate-il-fuoco da parte dei reparti russi durante i corridoi umanitari, dipenda dal fatto che i soldati sul terreno non hanno fatto a tempo a ricevere le indicazioni del comando che ha concordato la tregua. 

Perché? I Bayraktar distruggono i centri di comunicazione. Il BT2 è un drone bombardiere. Il suo «operatore» è al riparo, distante abbastanza dal fronte, ma comunque sempre lì, nel fango della guerra. È agile, economico e comunque sempre letale.

Un suo missile ha ucciso 53 etiopi in un unico colpo appena 4 mesi fa. Proprio perché non è tante cose, il Bayraktar è (fonte Reuters) probabilmente il drone più venduto al mondo. Il BT2 sta frenando l'avanzata russa in Ucraina. 

È lungo 6 metri e mezzo e ha un'apertura alare del doppio. Rispetto ai concorrenti statunitensi, israeliani e cinesi pesa molto meno (600 chili, armamento escluso) e soprattutto costa meno della metà: 10 milioni di dollari.

Il Bayraktar fa, in piccolo, il lavoro che farebbe un cacciabombardiere da 200 milioni, solo che si nasconde in cantina in caso di bombardamento, si trasporta con un camioncino e non ha bisogno di aeroporti. 

«Invece dei vecchi Mig sovietici, fateci avere centinaia di BT2, distruggeremo i russi» avrebbero detto gli ucraini a chi offriva loro aiuto, anche se era stato lo stesso Zelensky nei giorni scorsi a chiedere jet di fabbricazione russa. E ieri la Polonia ha messo a disposizione degli Stati Uniti 28 Mig-29, che verrebbero così trasferiti alla base americana di Ramstein in Germania (in cambio di jet più moderni) per essere poi eventualmente girati ai piloti ucraini, con il problema di evitare la reazione di Mosca.

Un annuncio, quello di Varsavia, che ha colto di sorpresa gli stessi Usa: «Che io sappia, non ci hanno consultati», ha detto ieri al Congresso americano la numero tre del Dipartimento di Stato Victoria Nuland. E più tardi il portavoce del Pentagono John Kirby ha definito «non attuabile» l'offerta. 

I droni sarebbero sicuramente più discreti. Il Bayraktar decolla da una strada, passa sopra le linee, con le sue telecamere permette all'operatore rimasto a terra di osservare il territorio, inquadrare il bersaglio e sganciare.

Il drone made in Turchia al 93% è stato messo a punto dalle industrie di Selcuk Bayraktar, genero del presidente Erdogan, nella infinita repressione di Ankara contro i curdi. Il debutto internazionale è stato contro l'Isis in Siria. 

Poi contro le forze di Assad, contro il generale Haftar in Libia nel 2019 e nel 2020 in Nagorno-Karabakh ha fatto vincere l'Azerbaijan contro l'Armenia, in Etiopia ha salvato il governo contro i ribelli tigrini. 

Nel bollettino serale di ieri, il Cremlino aggiornava il suo conto dei successi sul nemico: 84 droni. Non tutti saranno Bayraktar, ma secondo alcuni dati, gli ucraini avrebbero dovuto possederne appena 20. 

Invece, dicono fonti di intelligence, i rimpiazzi sono già arrivati. L'Ucraina avrebbe voluto impiantare una fabbrica di BT2 sfruttando la sinergia tecnologica con la sua vecchia industria spaziale sovietica. Ma la guerra è arrivata prima.

Tutto in una scatola. Dall’Italia all’Ucraina, le razioni K contengono la storia. Daniela Guaiti su L'Inkiesta il 9 Marzo 2022.

È il minimo indispensabile per sopravvivere in guerra, la “mini dispensa” dell’Esercito Italiano che permette a chi è al fronte di nutrirsi. È il condensato di quello che serve per resistere in guerra, e dal nostro Paese arriva in Ucraina, con il suo contenuto di alimenti, accessori indispensabili e memoria.  

Le scarpe, un vecchio paio di anfibi, erano lì in bella mostra nella vetrinetta di uno dei tanti musei dello sbarco. La ragazzina li osservava con attenzione. L’anziano con la camicia a scacchi le si avvicinò per dirle in inglese: «Sono le mie». E per quanto potesse sembrare incredibile, era proprio così.

Normandia metà degli anni 90. Il vecchio reduce era stato richiamato in Francia quando il suo carro armato era stato ripescato dalle acque di Port en Bessin. Il 6 giugno del 1944, il D Day, il blindato, presentato come “anfibio”, era miseramente affondato, ma lui era riuscito a salvarsi: aveva continuato la guerra e la sua vita. Fino a quel giorno, quando dall’Europa gli avevano comunicato che il carro era stato recuperato e che al suo interno c’erano ancora tutti, e intatti, i suoi effetti personali: le scarpe, il sacco con la mantellina impermeabile, le munizioni, gli occhiali da sole, la foto della sua ragazza. Con la comunicazione era arrivato anche l’invito a tornare sul mare di Normandia per collaborare all’allestimento della mostra. E così aveva fatto, ordinando sui ripiani la sua dotazione di soldato: vestiario, armi, ma anche scatolette di carne, gallette, gelatine di frutta, tavolette di cioccolato, apriscatole, pastiglie per disinfettare l’acqua, sigarette. Era l’intero contenuto della sua Razione K. Più o meno quella che in questi giorni l’Esercito Italiano sta spedendo in Ucraina.

Perché le confezioni compatte di generi di prima necessità (tre pasti, non deperibili e immediatamente pronti per il consumo, e una serie di accessori) sono state inventate in America nel 1941 dal fisiologo Ancel Keys (da cui la sigla K) e distribuite ai soldati Usa in azione in Europa e nel Pacifico: una mini-dispensa di 870 grammi con cibo per 3200 calorie e altri piccoli oggetti. Da lì le razioni si sono diffuse in tutti gli eserciti. Tutte uguali nella funzione e, più o meno, nel peso. Tutte diverse nella scelta dei prodotti e nella composizione dei pasti, modellati sulle diverse abitudini alimentari.

Oggi la Razione K in dotazione ai militari italiani offre, come nella versione Usa di ottant’anni fa, una colazione, un pranzo e una cena, ma per un totale di 4000 calorie. La colazione comprende pane o cracker, marmellata, cioccolato, caffè e tè liofilizzati, biscotti e una barretta energetica. Per pranzo sono assicurati un primo (pasta e fagioli, tortellini al ragù), un secondo (tonno e piselli, wurstel, tacchino), grissini, barrette e una bevanda energetica, oltre a una macedonia di frutta. A cena il “menù” propone un piatto unico (minestrone in scatola, insalata di riso e pollo), grissini, cereali. E, in aggiunta, una bevanda al cappuccino, gomme da masticare senza zucchero, stuzzicadenti, salviette umidificate, oltre allo spazzolino da denti e alle compresse per disinfettare l’acqua. E sono queste le confezioni che arriveranno in Ucraina: per scaldare i pasti in queste fredde giornate non c’è più in dotazione, come un tempo, il fornelletto da campo, ma una soluzione che innesca una reazione chimica e fornisce il calore necessario.

Per tornare a quel primo formato made in Usa bisogna ricordare che le Razioni K arrivarono in Italia con gli Alleati e fornirono scatole di Corned Beef, tavolette di cioccolato e sigarette ai tanti che si accalcavano per acclamare i liberatori che risalivano la penisola. E non solo. Fra lattine di carne e insaccati di maiale si potevano trovare anche fette di bacon, che, fritte con le uova strapazzate, rappresentavano un’ottima colazione all’americana, ma potevano essere usate anche per condire la pasta. Magari con l’aggiunta di un paio di uova e una spruzzata di pecorino. Vi suona familiare? È il grande mistero della nascita della carbonara: fra le tante ipotesi c’è anche questa. E forse, speriamo, anche da queste nuove razioni nascerà qualcosa di buono.

Nuove e vecchie armi. Missili cruise e marines: così si riorganizza l’esercito italiano. L'Inkiesta il 7 Marzo 2022.

Giuseppe Cavo Dragone, Capo di Stato Maggiore della Difesa, spiega a Repubblica che «il virus e la guerra indicano il bisogno di avere più militari in servizio». E dice: «Gli echi della guerra si sentono vicini, questo genera apprensione nei cittadini mentre noi abbiamo la necessità di riorientare il dispositivo militare» 

«I russi hanno commesso un doppio errore. Hanno sopravvalutato la loro forza e sottovalutato quelle degli ucraini. Per questo credo e spero che l’offensiva si fermerà presto». Su Repubblica parla l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, Capo di Stato Maggiore della Difesa. Pilota di caccia Harrier, ha partecipato come responsabile della campagna aerea ai raid contro i talebani nel 2001 ed è stato al vertice delle forze speciali impegnate nella lotta all’Isis. Poi ha guidato la Marina e da novembre è a capo delle forze armate.

«Il virus e la guerra indicano il bisogno di avere più militari in servizio», dice. Ma «mai mi sarei aspettato un conflitto tra Paesi che sono geograficamente parte dell’Europa. Ci eravamo abituati a vedere i nostri militari partire per missioni in teatri lontani, ora invece si stanno schierando in Polonia e in Romania. Gli echi della guerra si sentono vicini, questo genera apprensione nei cittadini mentre noi abbiamo la necessità di riorientare il dispositivo militare».

Certo, «in questo momento gli sforzi sono diretti al presente: come garantire la sicurezza del Paese e come dare supporto a una nazione che è stata invasa. C’è un grande cambiamento. Negli ultimi venti anni ci siamo misurati con lo scenario della guerra asimmetrica, che non scomparirà perché dovremo continuare a fare i conti con il terrorismo, mentre questa è una guerra di tipo nuovo, in cui le armi convenzionali sono accompagnate da strumenti innovativi come incursioni cyber».

Ma intanto si pensa anche a riorganizzare le forze armate italiane, mentre si parla di conflitto multidominio, perché non riguarda più solo mare, cielo e terra ma anche le reti telematiche e lo spazio. «Il ministro Lorenzo Guerini ci ha già dato linee guida chiare e valide: vuole uno strumento integrato come passo intermedio per arrivare a operazioni multidominio», spiega. «La guerra impone cambiamenti rapidi. Li stiamo facendo ad esempio nella gestione degli aerei F35B e della forza da sbarco».

Sugli F35, Dragone dice che «si tratta di sfruttare in maniera flessibile la potenzialità offerta di questi mezzi che possono decollare su piste cortissime e atterrare verticalmente. Questo significa usarli sulle portaerei ma anche su piccole basi avanzate “austere”. Noi disporremo di un numero limitato di aerei. Gli F35 dovevano essere 131, poi sono stati ridotti a 90. E solo trenta saranno della versione a decollo corto: 15 della Marina e 15 dell’Aeronautica. Bisogna mettere a fattore comune questi trenta aerei, perché insieme possono esprimere una deterrenza significativa. Poi se saranno basati a terra ci sarà un ufficiale dell’Aeronautica a guidare le operazioni, sulla nave uno della Marina; l’importante è che tutti siano pronti per ogni scenario».

E sula “forza di proiezione dal mare”, spiega che «le nostre pedine operative, i lagunari dell’Esercito e la brigata San Marco della Marina, sono al top. Quello a cui stiamo lavorando è una catena di comando snella ed esercitazioni comuni per farli agire insieme. Così ci saranno 1.500, forse 1.700 militari pronti a intervenire rapidamente dal mare. Inoltre stiamo guardando a come i britannici sperimentano operazioni anfibie di forze speciali».

Dragone parla anche dell’ipotesi di armare i nuovi sottomarini con missili cruise, protagonisti dell’attacco russo. «Quello che abbiamo visto in Ucraina mi rende ancora più convinto. Un mezzo subacqueo di cui non si conosce la posizione, ma che può colpire bersagli di alto valore strategico, ha un peso di deterrenza in una crisi, in un confronto o in una negoziazione», dice.

In questa guerra però sono tornati protagonisti i carri armati. E l’Italia oggi ne ha pochissimi: meno di 200 vecchi Ariete. «Già prima della guerra ne ho parlato con il capo di Stato maggiore dell’Esercito», spiega il militare. «Abbiamo deciso di aggiornare un certo numero di Ariete ma individuare un nuovo carro armato è in cima alla lista delle priorità».

Nel 2019 i vertici delle forze armate avevano chiesto un aumento degli organici per affrontare i nuovi scenari di crisi mondiale. Poi la pandemia ha mostrato quanto possano essere utili i militari al Paese. E adesso? «Ero di questa idea prima, ancora di più adesso. Il ministro Guerini da subito ha recepito questa necessità e c’è stato il coinvolgimento parlamentare: il virus e la guerra indicano il bisogno di avere più militari in servizio. Chiaramente confrontando le nostre esigenze con quelle complessive del Paese».

Tutto l’arsenale di Putin in Ucraina: le armi dell’invasione che alimentano la propaganda. DUILIO GIAMMARIA su Il Domani il 04 marzo 2022

L’arsenale di cui Putin oggi dispone in Ucraina è immenso: c’è la bomba termobarica che brucia l’ossigeno dell’aria circostante per produrre una diffusa esplosione ad altissima temperatura, le vietatissime bombe a grappolo, i lanciarazzi Katyusha in azione dalle prime ore dell’invasione.

In Ucraina la orrifica scenografia di guerra è quella delle lunghe file di carri e dei cortei di mezzi blindati, nel bianco della neve e nel fango. Un’ immagine che reca il messaggio propagandistico: “siamo la continuazione della guerra al nazi-fascismo”.

Dominano blindati e artiglieria, gli stessi strumenti di battaglia di più di mezzo secolo fa. 

DUILIO GIAMMARIA Dirigente Rai, scrittore.

Perché Putin non sta usando i droni in Ucraina, il parere degli esperti. Giampiero Casoni il 04/03/2022  su Notizie.it.

Mosca non utilizza l'arma di eccellenza per evitare perdite e tensioni sociali in patria: ecco perché Vladimir Putin non sta usando i droni in Ucraina.

Sul perché Vladimir Putin non stia usando i droni in Ucraina, il parere degli esperti di “Defense One” ha individuato le possibili cause di questa scelta tattica “anomala”. Dopo anni di sudditanza oggi la Russia (a togliere Usa, Turchia ed Israele che si mangiano tutti) ha probabilmente alcuni fra i migliori Uav al mondo ma non li utilizza nel conflitto con Kiev.

Mosca ha a disposizione droni molto sofisticati come gli Yacovlev Pchela-1T ed gli Okhotnik-B “Hunter”. Con quelli aveva voluto colmare, dopo i test fallimentari in Ossezia nel 2008, il gap tecnologico con gli avanzatissimi Predator e Reaper Usa. Eppure per il momento nella guerra in Ucraina non ce n’è traccia e sul perché i generali di Vladimir Putin abbiano effettuato la scelta di non usare armi che non implicano perdite umane negli attaccanti e quindi rivolte sociali in patria ci si sta interrogando.

Putin e i suoi droni che in Ucraina non ci sono

Dal canto suo l’Ucraina, che ha fatto scorta di droni soprattutto turchi, proprio con quelli (e con i lanciarazzi spellegiabili Javelin) sta rallentando di molto l’avanzata delle truppe corazzate russe. Dopo l’Ossezia dove i primi modelli avevano fallito miseramente Mosca aveva utilizzato i suoi droni in Siria, Nagorno-Karabakh e anche nel Donbass, ma in Ucraina no. Gli esperti di Defense One spiegano che l’aeronautica russa non li sta utilizzando perché le forze aeree dell’Ucraina sono ancora troppo pericolose e le reti di disturbo frequenza sono ancora attive, ma questo presupporrebbe un uso massiccio dell’aeronautica convenzionale che la Russia neanche finora ha previsto.

Una guerra di terra e mare ma con i cieli “sgombri”

Insomma, il dato è che in Ucraina Mosca ci è andata di guerra terragna ed ha lasciato i cieli “sgombri” rispetto al potenziale schierabile. La possibilità due è che i droni con la stella rossa siano invece in azione ma che non siano stati rilevati, o ancora che Putin non ritenga la guerra in Ucraina lo scenario giusto per mettere in mostra la sua tecnologia sotto gli occhi molto attenti delle intelligence occidentali, che di guardare, proprio perché sono intelligence, non smettono mai.

Razzi controcarro, cosa sono le armi che la Nato dà all’Ucraina per combattere la Russia. Debora Faravelli il 04/03/2022 su Notizie.it.

Cosa sono i razzi controcarro, una delle armi che la Nato fornirà all'Ucraina, e perché la Russia ne teme l'utilizzo. 

Tra le armi che l’Occidente consegnerà all’Ucraina vi sono anche i razzi controcarro, missili terra-aria che si dirigono automaticamente verso gli obiettivi: si tratta di mezzi che potrebbero infliggere grandi perdite alla Russia come già accaduto in questi giorni con i primi duemila consegnati dal governo britannico.

Razzi controcarro: cosa sono

Questo tipo di armi ha infatti una grande capacità distruttiva grazie al software di guida che punta sulla parte superiore degli obiettivi, quella meno blindata, e alle corazze reattive che esplodono all’impatto dei missili per vanificare l’effetto delle testate a carica.

Il problema risiede nella difficoltà di farli giungere in territorio ucraino. Se infatti i razzi britannici sono arrivati in aereo, ora non è più possibile optare per questa rotta perché la Russia controlla lo spazio.

L’unica va rimane dunque quella del trasporto stradale. Alcuni starebbero già transitando a bordo di furgoni attraverso la Polonia in quella che è un’operazione segretissima.

Razzi controcarro: come la Russia tenta di fermarli

Le carovane starebbero attraversando il fiume Dnepr per arrivare al ponte anche se sarà quasi impossibile raggiungere Kiev perché le strade sono piene di tank. Per i russi rimane comunque molto difficile bloccarli perché il confine polacco è pieno di strade e i camion si infilano in sentieri e foreste.

Mosca ha schierato squadroni di elicotteri in Bielorussia vicino al confine con la Polonia e verranno utilizzati anche i droni da ricognizione e d’attacco.

L’Ue che era nata per la pace adesso vuole diventare una «potenza militare». FRANCESCA DE BENEDETTI su Il Domani il 01 marzo 2022

Sotto la pressione del conflitto in Ucraina, l’Ue cambia profondamente la propria natura. La plenaria straordinaria dell’Europarlamento è un momento simbolo di questa svolta. L’Unione, per come la abbiamo conosciuta finora, è nata per prevenire i conflitti, e non è una nazione; spesso ci è apparsa anzi sin troppo disunita. Eppure ora si materializza il rally ‘round the flag effect: la nazione si stringe attorno alla bandiera.

L’Unione si sente in guerra, va in guerra e investe, nella guerra. «Siamo una hard power», arriva a dire Josep Borrell, che prefigura un’Ue potenza militare e scelte di bilancio che vanno in questa direzione.

Putin diventa il nemico comune di fronte al quale le divisioni interne si ricompattano: vale per la Polonia e lo stato di diritto, come per i sovranisti con le ambiguità passate verso la Russia. Anche il tema dell’accoglienza è affrontato in un’altra ottica.

FRANCESCA DE BENEDETTI. Europea per vocazione. Ha lavorato a Repubblica e a La7, ha scritto (The Independent, MicroMega), ha fatto reportage (Brexit). Ora pensa al Domani.

Domenico Quirico per “la Stampa” il 3 marzo 2022.

Le parole le pronunciamo talvolta controvoglia. Le usiamo per separarci da noi stessi, dalle conseguenze delle nostre azioni. Significano prudenza. E mancanza. Ma di fronte a quello che accade in questi giorni nelle pianure d'Ucraina bisogna pronunciarle perché non si può fare altrimenti. Eccole: l'Occidente, la Nato, l'Europa e l'Italia sono già in guerra con la Russia che ha invaso l'Ucraina e posto mano alla sua distruzione. Perché inviare armi a chi combatte è in ogni significato possibile bellico, giuridico, morale entrare in combattimento, ovvero partecipare e uccidere.

Le armi che abbiamo fornito e ora in maggiore quantità e efficacia forniremo all'esercito di Kiev non serviranno come semplice arnese di deterrenza, per convincere un nemico, ancora incerto, che pagherà un prezzo salato se attacca. Questa è la storia di ieri, seppellita sotto le bombe dell'incallito mestatore di Mosca. Adesso abbiamo liberato il terribile genio dalla lampada. Non le faranno sfilare nelle parate della festa dell'indipendenza per esibirle come una riserva, una garanzia. Poiché Putin ha già attaccato con scelta brutale e colpevole servono per uccidere i russi.

Quelle armi nostre, uscite dai nostri arsenali, vengono usate, sventrano, annientano, abbattono, eliminano il maggior numero possibile di combattenti nemici in modo più moderno tecnologico, efficace. Gli uomini che maneggiano quelle armi sofisticate, letalissime come viene precisato con scrupolo, non sarebbero in grado di farlo se non fossero stati addestrati nei mesi e negli anni scorsi da istruttori dell'Alleanza atlantica. Noi dunque non minacciamo, deprechiamo, confischiamo conti bancari o ville di lusso. Noi contribuiamo ai conti della morte, quindi siamo nella guerra.

Mosca lo ha compreso benissimo, alzando il tono della sua minaccia di ritorsione nei confronti di quelli che chiama «attori esterni», ovvero gli alleati ora sul campo di Kiev. Nelle dichiarazioni dei leader occidentali la parola, guerra, con ipocrisia ha disertato il senso che ricopre. Fornire cannoni e anticarro è presentato come una appendice un po' più forte delle sanzioni economiche, quasi fosse un gesto necessario e innocuo, asettico per chi lo compie quando qualcuno viene aggredito e i perseguitati non hanno i mezzi sufficienti per difendersi.

Questo è vero per le sanzioni. Ma non per la fornitura di armamenti quando già si combatte. Gli occidentali conoscono benissimo la differenza: nel 2011 i perseguitati erano i siriani massacrati da Bashar Assad, perfino i gas usava per annientarli. Chiesero armi: per difendersi meglio. Non assomigliavano forse agli ucraini? Obama e l'occidente non volevano far la guerra per loro, i siriani non erano importanti, erano lontani. E infatti distribuimmo loro sorrisi, incoraggiamenti, un po' di pietà, senza affannarci troppo. Ma neppure un fucile. Perché voleva dire entrare in guerra con Bashar e i suoi alleati.

Appunto. Le parole bisogna rispettarle soprattutto quando le parole sono guerra, invasione, nemico, distruzione. Non sono ombre da evocare e che si può far sparire a comando. Ognuna ha la sua terribile ragion d'essere, ognuna contiene un terribile segreto di conseguenze. Bisogna liberarle per capire cosa sta accadendo e poi tenerle salde se si è dalla parte della giustizia, se servono a difendere vittime e a punire i colpevoli. Dietro ogni parola ci sono altre parole, tutte intangibili e ancora invisibili ma cariche di attesa, di paura e di speranza anche per altri. La parola guerra è stupore e orrore.

Talvolta è necessità. Ma bisogna dirlo. Pudicamente ci rifugiamo dietro la frase: ma noi non inviamo combattenti sul terreno, non ci saranno soldati americani o tedeschi o italiani nelle trincee di Kiev o di Karchov. E con questo concludiamo un allegro armistizio con ogni sorta di interrogativo. Biden ha annunciato, come se fosse una generosa concessione, che non ordinerà e cercherà di mettere in pratica il divieto di sorvolo sul territorio ucraino per bloccare i bombardamenti russi.

Come gli americani hanno puntualmente applicato in tutti luoghi in cui si sono impegnati sul terreno dei conflitti dall'Iraq alla Libia. Ma non perché vuole tenersi fuori dalla guerra: questa volta di fronte non c'è un nemico che al massimo può schierare vecchi e innocui catenacci. La «no fly zone» equivarrebbe a affrontare duelli incerti con l'aviazione russa, certo non facile da tenere a terra senza subire perdite. Una scelta di prudenza militare. Meglio tenere in prima linea gli ucraini. Il guaio è che la guerra combattuta senza dirlo, come tutte le furbizie, regge per un tempo limitato. Saranno gli ucraini stessi a farla crollare.

Quando la potenza russa si abbatterà su di loro con tutta la violenza possibile, finora ne hanno provato solo sanguinose premesse, le armi «in leasing» non basteranno più e ci chiederanno di tener fede all'impegno che abbiamo sottoscritto inviandole: ci chiederanno di intervenire, di prenderci direttamente per il bavero con uomini in carne e ossa e non con idee pure. Accade sempre così: prima si spediscono armi e «istruttori», poi si scopre che non basta e ti sei già avvolto in quella guerra, ne sei una parte e l'unico modo per tentare di slegarti è avvolgerti sempre più sperando di ritrovare il capo della corda. Come sul tavolo prima vengono gettati i fanti, poi si passa alle regine, ai re, agli assi.

Stefano Montefiori per “il Corriere della Sera” il 5 marzo 2022. 

Il nuovo santo protettore dell'Ucraina è un giavellotto, il Javelin prodotto dall'americana Lockeed Martin. Nella nascente iconografia di questi giorni di orrore il razzo anti-anticarro è diventato uno dei simboli della resistenza ucraina, l'arma che consente a un popolo intero di continuare la lotta contro l'invasore.

 Il Javelin è fondamentale nella guerra vera, quella che si combatte nella realtà: il governo ucraino ne ha comprati per 47 milioni di dollari nel 2018, dagli Stati Uniti ne sono arrivati 180 nel 2021 e altri 300 lo scorso gennaio, e il 2 marzo le autorità hanno comunicato che grazie soprattutto al Javelin i soldati di Zelensky hanno distrutto 60 tank e 355 veicoli russi. Ma il giavellotto ha un ruolo anche nell'altra battaglia, quella della comunicazione, che vede l'Ucraina stravincere. 

Non è una questione secondaria, perché dominare i social media serve a influenzare l'opinione pubblica e a conquistare aiuti in Occidente, e poi a tenere alto, per quanto possibile, il morale dei cittadini e dei soldati ucraini. Ecco quindi il nascere di una «micro-mitologia» quasi istantanea della guerra in Ucraina, una serie di icone pop inconcepibili solo 10 giorni fa. 

Le ha messe in fila Alexis Rapin, esperto in cyberstrategia e ricercatore all'Uqam, l'università del Québec a Montréal, che ha notato come Twitter e gli altri social media si siano riempiti in pochi giorni di centinaia di messaggi con il santino del Javelin, e poi di meme in gloria dell'altro razzo anti-carro portatile anglo-svedese NLAW  (acronimo di Next generation Light Antitank Weapon): I fought the Nlaw and the Nlaw won  è la citazione dei Clash che si legge accanto all'immagine di un carro armato russo scoperchiato. 

Poi c'è «il fantasma di Kyiv», il pilota dell'aviazione ucraina che nelle prime ore dell'invasione russa a bordo del suo Mig-29 avrebbe abbattuto sei aerei nemici. Il fantasma di Kyiv è una figura leggendaria, il suo nome è sconosciuto e un video che sembrava documentare le sue gesta è in realtà tratto dal videogioco Digital Combat Simulator.

 Ma su Twitter le illustrazioni e le variazioni sul tema del Ghost of Kyiv sono ormai decine, e hanno contribuito a comunicare agli ucraini e al mondo l'idea - fondata nella realtà - che la resistenza era eroica e molto più potente di quanto Putin avesse mai potuto immaginare.  

L'artista canadese Christian Borys sta vendendo online adesivi e altro merchandising con la promessa di devolvere il ricavato agli aiuti per l'Ucraina, e tra i nuovi oggetti in vendita c'è l'immancabile T-shirt con il «vaff...» rivolto dal guardacoste alla nave da guerra russa che davanti all'Isola dei serpenti intimava ai 13 soldati ucraini di arrendersi.  

Su YouTube ci sono i video in gloria del Bayraktar TB2, il drone turco prodotto dal genero di Erdogan, Selçuk Bayraktar, un'arma relativamente a buon mercato ma molto efficace contro le colonne militari russe. L'Ucraina ne possiede una ventina ma altri dovrebbero arrivare nelle prossime settimane. 

Il Cremlino cerca di rispondere proclamando «eroe della Russia» il capitano Aleksey Pankratov che è riuscito ad abbattere due Bayraktar ma è un tentativo maldestro, in questa partita Golia non può competere con Davide. L'icona suprema è il presidente Zelensky, spesso raffigurato come un super-eroe Marvel. Piccole consolazioni, si dirà, di fronte alle bombe termobariche sganciate da Putin, ma il morale conta e la guerra per conquistare i cuori merita di essere combattuta. 

Cosa sono le armi termobariche, che la Russia sta usando in Ucraina. Guido Olimpio e Redazione online su Il Corriere della Sera il 10 marzo 2022.

Secondo il ministero della Difesa britannico, Mosca ha ammesso di aver utilizzato in Ucraina le bombe termobariche.  

Il ministero della Difesa britannico ha comunicato, nella serata del 9 marzo, che il governo russo ha «confermato l'utilizzo del lanciarazzi TOS-1A» nel corso della guerra in Ucraina, un sistema che «utilizza missili termobarici». 

Cosa sono le bombe termobariche? E il loro utilizzo è consentito? 

La testata è composta da gas infiammabile e particelle metalliche; quando esplode, la prima sostanza utilizza l'ossigeno presente nell'aria per creare una sorta di «nuvola» o bolla ad altissima temperatura. Subito dopo, c’è una nuova deflagrazione. 

Le conseguenze sono — oltre a temperature altissime — lo sprigionarsi di un’onda d’urto più lunga rispetto a quella delle armi convenzionali. 

L'impatto è devastante: il colpo non può essere contenuto da un muro, la miscela è in grado di infilarsi negli spazi, in qualsiasi ambiente. 

Viene usata per colpire bersagli asserragliati in un edificio, ma anche nascosti all’interno di bunker o grotte. 

I corpi sono annientati. 

L’impatto è bellico ma anche psicologico. Di solito i razzi sono lanciati da cingolati — i Tos 1, appunto — che possono sparare decine di «pezzi». 

I loro effetti si sono visti durante le operazioni condotte dai russi in Siria, Afghanistan e Cecenia. 

Le armi termobariche non sono illegali, ma il loro utilizzo è sottoposto a regole molto rigide. Non possono essere utilizzate contro obiettivi militari se questo

- mette a rischio la popolazione civile;

- causa «danni o distruzioni eccessive rispetto al vantaggio militare che ne deriva»;- causa «sofferenze non necessarie». 

È illegale, naturalmente, utilizzare questo tipo di armamenti contro la popolazione civile.

Nei giorni scorsi, diverse fonti hanno confermato l'utilizzo da parte dell'esercito russo di bombe a grappolo. 

In questo caso, l’ordigno rilascia sopra l’obiettivo una pioggia di sub-munizioni che di solito devono esplodere con l’impatto. In alcuni casi sono rallentate da piccoli paracadute, in altri possono diventare come mine. 

La loro dispersione le rende pericolose anche per i civili, in quanto possono non deflagrare e restare per molto tempo in aree estese. 

In teoria c’è un accordo internazionale che le proibisce: diversi Paesi — tra cui Russia, Usa, Cina, India, Iran, Pakistan, Arabia Saudita e Israele — non lo hanno però sottoscritto. 

Nelle scorse ore, la Casa Bianca ha spiegato di temere che Mosca possa utilizzare bombe chimiche in Ucraina.

Armi in Ucraina, dai missili alle razioni K: cosa riceve Kiev dai due corridoi con l’Occidente. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 6 Marzo 2022.  

Guerra in Ucraina, a fare da apripista gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, seguiti dopo l’invasione da quasi una trentina di Paesi. Dall’Ue 450 milioni di euro. 

Le vie delle armi sono infinite. Da sempre. E dovranno esserlo anche per sostenere gli ucraini. Più tengono duro e più hanno bisogno di rifornimenti dall’esterno, anzi è possibile — secondo alcune fonti — che gli aiuti debbano arrivare con rapidità. Appena pochi giorni fa si diceva che avessero scorte di munizioni per una settimana, valutazione che assumeva le caratteristiche di un appello alla mobilitazione. Che comunque c’è stata e non da ieri attraverso una filiera. Al centro la Polonia, con la stessa funzione che ebbe il Pakistan per i mujaheddin afghani. Già a febbraio c’erano molte immagini e annunci pubblici sull’arrivo di carichi di materiale bellico. Un appassionato di «voli» li ha tracciati regolarmente, fornendo punto di partenza e sbarco.

Niente di segreto. A fare da apripista gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, seguiti dopo l’invasione da quasi una trentina di paesi. L’Unione Europea ha messo a disposizione un primo stanziamento di 450 milioni di euro, estendibile. L’impegno di Washington è in linea con un programma sviluppato dopo la crisi del 2014: da allora sono stati stanziati circa 3 miliardi di dollari. Inoltre istruttori dei Berretti Verdi e della Guardia nazionale hanno addestrato circa 27 mila soldati locali. Molti di questi sono stati poi distribuiti in altri reparti per guidare i meno esperti, trasmettere il sapere, diventare punto di riferimento mentre un nucleo ha costituito la punta di lancia delle forze speciali. Sono i commandos che stanno rallentando l’avanzata dell’Armata su più fronti.

Ricostruzioni apparse sui quotidiani statunitensi hanno evidenziato come la catena di supporto incontri comunque problemi logistici. Minori di quelli russi, ma che comunque esistono. Intanto arrivano «pezzi» non simili, ogni stato offre quello che ha, dunque possono esserci difficoltà di standardizzazione e perfino residuati. Poi c’è l’ostacolo più delicato, quello del trasferimento. Deve avvenire in sicurezza, essendoci sempre il rischio che Mosca cerchi di fermarlo, magari con missioni dietro le linee degli Spetsnaz. Secondo indiscrezioni esistono due corridoi in terra ucraina: il primo a nord fino a sfiorare il confine con la Bielorussia ed uno a sud. Avviso: è strano che diano queste indicazioni, non escludo possa essere un depistaggio. Al tempo stesso devono poter contare su rotte stradali, servono molti camion, le strade che legano Leopoli alla frontiera sono percorse dai profughi, da veicoli, da operatori umanitari.

L’Alleanza, così come altri stati, ha iniziato a fornire armamento adatto alle operazioni agili e di contrasto. Non gli aerei richiesti da Kiev. Per questo hanno spedito razzi anti-carro — dai Javelin ai tradizionali RPG —, sistemi anti-aereo portatili — gli Stinger — protagonisti dell’abbattimento di alcuni caccia. Ancora: lanciagranate, proiettili, mine, apparati radio, elmetti e corpetti anti-proiettile. In una lista rivelata dal Washington Post compaiono mitragliatrici ad alta intensità di tiro: le possono piazzare su piccoli fuoristrada. Ma anche fucili a pompa, utili negli scontri casa per casa nelle cittadine assediate. Fondamentali i visori notturni, danno un vantaggio importante. Immagini sul web hanno mostrato membri dei team scelti con modelli recenti. In questo modo gli incursori possono sfruttare la notte per lanciare raid.

Non meno importanti le razioni K , cibo sottovuoto, per dare maggiore autonomia ai nuclei sul terreno. E poi i fucili di precisione. Se non è propaganda durante uno degli scontri a Gostomel un cecchino ha ucciso il generale russo Andrei Sukhovetsky, vice comandante di una divisione aerotrasportata e veterano della campagna in Siria. In prima linea a coordinare l’operazione speciale.

Tutte le armi per Kiev: rifornita in segreto per respingere i russi. Davide Bartoccini su Inside Over il 4 marzo 2022.  

Gli alleati di Kiev, che non intervengono militarmente ma non vogliono restare a guardare, stanno facendo entrare in Ucraina armi essenziali per affrontare i russi e respingere, o quanto meno rallentare, l’avanzata delle truppe di Vladimir Putin. Arrivano dal confine polacco su camion di piccole dimensioni, senza alcun tipo d’insegna. Mezzi civili che attraversano un confine sicuro e nascondono al loro interno proprio le armi che stanno dilaniando i mezzi corazzati dell’esercito russo. Missili anti-carro spalleggiatili come il sistema Javelin, quello che gli ucraini hanno santificato della loro iconografia preferita: “Santa Javelin“.

Parliamo di centinaia, forse migliaia, di missili “fire and forget”. Quelli che possono abbattere in automatico un elicottero Mil-Mi 24 Hind, o fai saltare in aria un carro armato T-80. Come quelli che vediamo nelle immagini completamente privi di torretta, saltata in aria a causa della potenza dell’esplosione del munizionamento che custodiscono. Imparare ad usarne uno è facile come imparare ad usare un telefono cellulare; e di volontari pronti ad imparare per difendere la propria terra, all’Ucraina non ne mancano. L’unico problema è farli arrivare. Come scrive giustamente Gianluca Di Feo su Repubblica, “prima della guerra bastava caricarli su un aereo cargo: con tre voli il governo britannico ha trasportato i duemila missili controcarro Nlaw“, che sommati ai Javelin forniti dagli americani, rappresentano il principale problema delle truppe russe. Ma ora che gli aerei cargo della Nato non possono più atterrare negli aeroporti ucraini, crivellati dalle bombe e in gran parte controllati dalle forze aviotrasportate russe, qualcuno si è dovuto sforzare a cercare un’altra via.

Il viaggio attraverso la Polonia

Questa via pare essere una “linea di rifornimento” che parte dalla Polonia, dove sono i contingenti americani e i cieli sono protetti dai caccia intercettori della Nato, e prosegue oltre “cortina” a bordo di camion e furgoni civili, difficili da individuare da ricognitori e satelliti, che comunque si muovono relativamente distanti dai veri teatri di scontro. L’operazione descritta come “segretissima” (lo fosse non ne staremmo scrivendo), sembra essersi rivelata efficace. E potrebbe continuare a rifornire i contingenti ucraini di queste munizioni leali e facilmente trasportabili, che partono da mete indefinite dell’Europa centrale, per arrivare fino al fiume Dnepr, e poi proseguire verso la linea del fronte; dove gli ucraini li impiegheranno per fermare l’avanzata del nemico, tendendo imboscate alle interminabili colonne di mezzi blindati che marciano su ruota e cingolo. E minando duramente il morale dei soldati russi che sembrano essersi “arrestati” nella loro avanzata.

Riferendosi ai missili killer Javelin e ai Nlaw tank buster, uno specialista di armamenti per la fanteria di Janes interpellato dal Wall Street Journal ha dichiarato: “A livello strategico, il loro impatto è trascurabile”. Le armi fornite dagli alleati della Nato, che non può intervenire e non interverrà formalmente in difesa di Kiev, stanno funzionando; e funzionano bene. Eppure non sono sufficienti: “Gli ucraini stanno perdendo meno velocemente di quanto ci aspettassimo, ma stanno ancora perdendo”, ha concluso l’analista. È notizia di poco fa che il Segretario della Nato Stolenberg ha annunciato una possibile fornitura di aerei, si parlava di MiG-29 polacchi, all’Aviazione ucraina. Il fine sarebbe quello di riconquistare potere nello spazio aereo o almeno privare i russi della supremazia appena ottenuta. Ma la decisione potrebbe portare all’escalation.

Le contromosse di Mosca

Ad ogni modo, sembra che per tagliare queste linee di rifornimento, Mosca intende schierare in Bielorussia squadriglie di elicotteri d’attacco che potrebbero individuare i convogli ed evitare che arrivino a destinazione. Il timore maggiore, tuttavia sembrerebbe quello del sabotaggio della fonte: ossia all’individuazione e alle possibili incursioni di agenti dei servizi segreti russi, o dell’attivazione delle loro reti paramilitari clandestine, che già in passato hanno condotto “azioni” di scoraggiamento nei confronti di quelle piattaforme dell’Europa dell’est che rifornivano i nazionalisti ucraini del Donbass.

A quel tempo la minaccia del grande e dormiente Orso russo non preoccupava l’Europa, che guardava alle terre contese dell’Ucraina come un problema marginale, quasi da non considerare nelle proprie agende geopolitiche. Ora la situazione è drasticamente cambiata. E sebbene droni turchi, armi anticarro americane e britanniche, missili antiaerei, armi leggere e munizioni giunte dall’Europa stiano contribuendo con successo alla causa di Kiev senza innescare alcun tipo di escalation, l’incidente diplomatico è dietro l’angolo.

Rifornimento alleato. Come arrivano le armi in Ucraina (e quali sono). Michelangelo Freyrie su L'Inkiesta il 4 Marzo 2022.

Dall’inizio dell’invasione russa, i Paesi Nato e l’Australia hanno inviato (o promesso) una grande quantità di materiale militare al governo di Kiev. Ci sono però diversi ostacoli logistici da superare, e una volta terminato il conflitto si dovrà trovare una soluzione alla diffusione di fucili e pistole tra i cittadini.

A una settimana dall’inizio dell’invasione russa il governo ucraino è riuscito a ottenere una quantità impressionante di rifornimenti militari, promessi o già in dirittura d’arrivo. Molti Paesi della Nato, più l’Australia, hanno annunciato la consegna di materiale bellico di vario tipo. I numeri riportati dalla no-profit Forum on the Arms Trade includono almeno 15mila armi anticarro, svariate migliaia di fucili d’assalto, munizioni, elmetti, giubbotti antiproiettile, sistemi di comunicazione, sacche di plasma, mezzi blindati (i Saxon britannici), granate e altro.

La European Peace Facility, un fondo al di fuori del regolare budget dell’Unione europea pensato per fornire aiuti militari agli alleati di Bruxelles, ha messo a disposizione 500 milioni di euro per l’acquisto di armamenti per Kiev, a cui si aggiungono 313 milioni aggiuntivi degli Stati Uniti. Il supporto militare di Washington, invece, da febbraio 2021 raggiunge il miliardo di dollari, con i quali oltreatlantico si è provato a rifornire le forze armate ucraine nel pieno del loro processo di riforma.

La difficoltà logistica di rifornire l’Ucraina

Ci sono però diversi ostacoli che l’Occidente dovrà superare per sostenere Kiev. Coordinare aiuti di questa natura non è cosa semplice, specialmente se il Paese destinatario è dotato di un arsenale eterogeneo.

Nonostante gli aiuti ottenuti dopo lo scoppio della guerra in Donbass, buona parte dell’esercito ucraino utilizza ancora principalmente armi e veicoli sovietici, incompatibili con le munizioni standard Nato.

Questo spiega il menù di materiale in dirittura d’arrivo: gran parte delle munizioni per small arms (fucili, pistole eccetera) degli ex Paesi d’oltrecortina serviranno per le armi già in dotazione alle forze ucraine, mentre il grosso consegnato dagli Stati dell’Europa occidentale includerà anche armi di produzione occidentale.

L’Italia è piuttosto rappresentativa in questo: oltre a equipaggiamento di protezione individuale, le forniture prevedono mitragliatrici pesanti, missili antiaereo Stinger (trasportati in spalla) e missili anticarro Spike. Questi ultimi due sistemi d’arma, come il missile anticarro americano Javelin già utilizzato dagli ucraini, rappresentano i capisaldi necessari per difendere i centri urbani dall’avanzata russa.

Pur essendo operabili da singoli soldati con poco addestramento, permettono di temperare il vantaggio russo in termini di forze corazzate e rendere pericolose le operazioni degli elicotteri di supporto alle unità di terra. Si stima che i rifornimenti iniziali delle forze armate ucraine bastino per circa dieci giorni di guerra: sarebbe quindi poco utile, almeno in questa fase, consegnare sistemi sofisticati, difficili da usare da operatori inesperti e con alti costi di mantenimento.

Ma fare arrivare le armi al confine non sarà sufficiente. Nell’attuale situazione, con il crescente rischio che i russi riescano finalmente a imporre la propria superiorità aerea, sarà piuttosto difficile rifornire le truppe sulla linea del fronte senza che il sistema logistico ucraino ceda sotto la pressione dei raid aerei.

A questo si aggiunge l’incognita delle prossime direttive d’attacco russe: le truppe provenienti dalla Crimea e attualmente impegnate nell’assedio di Mariupol sono ben posizionate per spingersi a nord, isolando così le unità ucraine che hanno per ora resistito a Kharkiv e nel Donbas non occupato.

Va poi considerata la probabile intenzione russa di aprire un nuovo fronte a ovest di Kiev, facendo partire un’offensiva dal territorio bielorusso e puntando direttamente su Leopoli (Lviv), l’ultima tappa sulla strada per la Polonia.

La città, dove sono state evacuate molte ambasciate e dove ci si aspetta che si trasferirà il governo quando Kiev cadrà, si è trasformata in un grande hub logistico per gli aiuti militari occidentali. Un assalto in questa regione potrebbe mettere un bastone fra le ruote degli aiuti militari, complice la mancanza di opzioni alternative: l’Ungheria, più a sud, rifiuta di far transitare materiali bellici verso l’Ucraina, mentre il confine rumeno è malagevole a causa dei Carpazi.

Gli effetti sul conflitto e la reazione di Mosca

È difficile prevedere le conseguenze di un trasferimento di armi così massiccio, ammesso che tutto il materiale riesca a raggiungere le truppe ucraine.

La decisione del governo di offrire fucili e altre armi a qualsiasi cittadino volenteroso è sensata nella situazione, ma introduce anche un elemento di incertezza sul campo. Dando accesso ai cittadini ad armi e munizioni, Kiev ha implicitamente deciso di sacrificare parte della propria autorità nel definire la strategia difensiva, contando sul fatto che la legittimità del governo basti per impedire il sorgere di gruppi autonomi al di fuori della sua struttura di comando (basti pensare ai battaglioni di estrema destra).

Diversi studi accademici pubblicati negli ultimi anni, d’altro canto, suggeriscono che gli aiuti militari possono contribuire a rafforzare l’autorità centrale, che essendo incaricata di smistare armi e rifornimenti ha uno strumento per far leva su alleati di comodo e attori sul campo.

La proliferazione di small arms sarà comunque un grosso problema per il dopoguerra, o nel caso l’occupazione russa dovesse implodere in una regione contesa fra governo fantoccio filorusso, partigiani filoeuropei e criminalità organizzata. È improbabile che le armi occidentali verranno utilizzate dall’invasore, se non altro per l’incompatibilità con le munizioni russe e la scarsa necessità di armi anticarro per l’occupante; è però fisiologico che trasferimenti di questa entità portino anche a un grosso mercato nero dopo la conclusione delle ostilità.

Questa conclusione è ovviamente ancora lontana, e non è chiaro se il regime russo sia disposto a negoziare un cessate il fuoco di lunga durata.

Rimane anche da vedere come Mosca reagirà agli aiuti occidentali. Alcuni temono che ciò trasformi la Nato in un “co-belligerante” de facto, nonostante i trattati internazionali non considerino questo tipo di aiuti militari una forma di intervento nella guerra.

La verità, tuttavia, è che il Cremlino già si considera in conflitto con la Nato, e in particolare con gli Stati Uniti. Le autorità militari russe hanno teorizzato una concezione della politica internazionale come guerra permanente, un “conflitto trasversale su tutto lo spettro”, ad intensità variabili e allargata al dominio economico, politico e tecnologico, proprio per catturare quella che ritengono essere una campagna decennale orchestrata da Washington ai danni del regime.

A Mosca, la consegna delle armi non dovrebbe quindi essere vista come un’apertura delle ostilità, tanto quanto una misura prevedibile nel quadro di un conflitto già avviato da tempo.

È più probabile che siano le devastanti sanzioni imposte dall’occidente a essere viste con preoccupazione, sia per i danni che arrecheranno all’economia russa, sia perché il Cremlino ha meno contromisure a disposizione sul campo economico che su quello militare. Condizione che potrebbe cambiare qualora il tentativo russo di porre il mondo di fronte al fatto compiuto, riportando il conflitto sul piano militare e vincere nel giro di due settimane, fallisse definitivamente.

A quel punto le armi si rivelerebbero molto utili per la difesa urbana e per rafforzare una linea del fronte più breve, magari attestata sul fiume Dnepr.

Operazione top secret. Quante armi ha inviato l’Italia in Ucraina e quanto ci costa: tutti i segreti di una operazione misteriosa. Claudia Fusani su Il Riformista il 4 Marzo 2022.  

Certo, come dice il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, nel momento in cui “la missione è stata approvata è diventata top secret”. Si tratta di informazioni sensibili che in alcun modo devono diventare disponibili per i russi. Dunque nessuno spiega, nessuno parla, tutti smentiscono ma molti sanno. Il Copasir, ad esempio, è stato doverosamente e immediatamente informato. È il caso quindi di fare il punto sulla “nostra” missione in Ucraina: armi e munizioni, quali e in quale quantità, dove arrivano e chi li introduce in territorio ucraino visto che le regole d’ingaggio sono chiare: nessun militare nell’ambito della Nato può mettere piede oltre confine.

La missione italiana è già partita e dovrebbe concludersi, per questa prima tranche, “entro domenica” ma è possibile anche prima. Entro quella data, cioè, le armi dovrebbero arrivare a destinazione ed essere consegnate alle milizie della resistenza ucraina. Caso vuole che il comando delle Forze speciali della Nato, nell’ambito dell’assegnazione degli incarichi a rotazione, dipenda in questo momento dallo Stato maggiore del nostro ministero della Difesa. “La semplificazione rispetto alle procedure vigenti consente – si legge nella relazione tecnica del decreto approvato lunedì in Cdm e martedì dal Parlamento – di poter sostenere tempestivamente l’Ucraina in coerenza con la rapidità operativa che una crisi internazionale come quella in atto richiede garantendo di volta in volta la valutazione degli interessi coinvolti attraverso lo strumento del decreto del ministero della Difesa di concerto con Esteri e Mef. Ai sensi del comma 2, i singoli decreti l’elenco dei mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari oggetto della cessione nonché le modalità di realizzazione della stessa quali lo scarico contabile ed eventuali procedure di consegna”.

L’elenco delle armi è quindi stato allegato al decreto: armi anticarro, missili antiaerei, mitragliatrici pesanti e fucili d’assalto. Si tratta, per lo più, di “equipaggiamenti e dotazioni personali terra-aria” di facile utilizzo (anche se serve un minimo di addestramento) da parte di una o al massimo due persone. Il “personale” non deve trarre in inganno – spiega una fonte – perché trattandosi di missili terra-aria possono distruggere un carrarmato così come abbattere un aereo. La lista è, come si diceva, top secret, ma comprende mitragliatrice Mg, carabine semiautomatiche Browning, lanciatori anti carro, missili Stinger terra-aria con testata a ricerca di calore in grado di intercettare scie di calore a terra e in aria (a bassa quota). Hanno una gittata corta ma sono molto efficaci nei centri urbani. E poi mortai, elmetti e giubbotti. Se i sistemi d’arma sono nell’ordine di qualche migliaio, le munizioni sono ovviamente centinaia di migliaia. Armi ideali per una guerriglia urbana da condurre strada per strada, palazzo per palazzo.

Grande mistero sul luogo di consegna. Che in realtà possono essere solo due: o in Polonia, dove è attiva una base Nato o in Romania dove già operano, sempre in ambito Nato, i nostri caccia Eurofighter. È probabile che la consegna avvenga lungo i confini del nord Europa dove poi saranno nuovamente presi in consegna da mezzi civili (cioè camion) con cui viaggiano anche i volontari stranieri che stanno raggiungendo le zone di guerra. Poiché la Nato non può entrare in Ucraina, è ipotizzabile che la consegna sia affidata a nuclei di intelligence già forti di risorse humint in quei paesi. Si nota, da parte del primo ministro inglese Boris Johnson, un attivismo importante. La Gran Bretagna è fuori dalla Ue ma è ben salda dentro la Nato e non c’è dubbio che la sua rete d’intelligence sia ben strutturata nel nord ed est Europa. In una ipotetica classifica dei 27 paesi Ue che più si stanno adoperando per sostenere la resistenza ucraina al primo posto ci sarebbe la Germania, Italia e Francia condividono il secondo posto. Un’inchiesta del quotidiano belga Handelsblatt ha rivelato che il Belgio ha inviato 5 mila mitragliatici e 200 armi anticarro, mentre la Danimarca ha mobilitato duemila giubbotti antiproiettile, 300 missili terra-aria Stinger e 2.700 sistemi per l’impiego contro i mezzi corazzati.

Dalla Germania sono arrivati a Kiev mille lanciarazzi anticarro Panzerfaust-3, 500 Stinger. Il governo federale consegnerà alle Forze armate ucraine 2.700 lanciamissili terra-aria Strela di produzione sovietica e già in dotazione all’esercito della Repubblica democratica tedesca. Dall’Estonia arriveranno obici e armi anticarro in quantità non nota, mentre la Finlandia fornirà 2.500 fucili d’assalto e 1.500 missili per l’impiego contro i mezzi corazzati. Il quotidiano non ha informazioni circa Italia, Francia e Polonia. Il Regno Unito ha consegnato a Kiev 2 mila missili anticarro, mentre dal Canada giungeranno 100 sistemi per lo stesso impiego. Lettonia e Lituania forniranno le medesime armi e Stinger, non è noto il numero. I Paesi Bassi hanno predisposto 200 Stinger, 50 Panzerfaust-3 e 100 fucili da tiratore scelto. Norvegia e Svezia invieranno rispettivamente 2 mila e 5 mila armi anticarro, con Stoccolma che consegnerà altrettanti giubbotti antiproiettile.

La Spagna fornirà 1.370 missili per l’impiego contro i corazzati, mentre la Repubblica Ceca spedirà a Kiev settemila fucili d’assalto, 30 mila pistole, tremila mitragliatrici e quattromila granate da artiglieria. La Turchia ha mobilitato 12 droni da guerra Bayraktar, mentre gli Stati Uniti forniranno una quantità non precisata di armi anticarro e Stinger. Ieri sera dal tavolo delle trattative in Bielorussia è uscito il via libera a corridoi umanitari per lasciare il paese in sicurezza. E’ un primo stop all’uso delle armi. Mentre Putin dichiara: “Nessuno può minacciare la Russia, neanche con le armi nucleari”.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Tra silenzi e complicità l'Italia vende armi a dittatori e paesi in guerra: Russia compresa. GIAMBATTISTA PEPI su Il Quotidiano del Sud il 3 Marzo 2022.

SONO trascorsi 32 anni dall’approvazione della legge 185 del 1990 sul commercio di armi e l’Italia resta saldamente nella top ten mondiale delle esportazioni di armamenti. Ammonta a 41 miliardi di euro il valore delle autorizzazioni all’esportazione di sistemi militari nell’ultimo quinquennio. Cinque anni vissuti alla grande (con un lieve calo nel 2020, giustificato dalla pandemia) con esportazioni destinate soprattutto a regimi autoritari e Paesi in guerra. Tra cui la Russia. Una cifra che si avvicina al valore globale  di tutte le licenze rilasciate nei 25 anni precedenti (oltre 64 miliardi).  

LA METAMORFOSI

Basterebbe questo dato per capire che qualcosa è cambiato nelle politiche di  esportazioni di armamenti del Paese. Del resto, forse non è neanche il caso di meravigliarsi, visto che l’Italia è tra le prime dieci nazioni al mondo per esportazioni di armamenti che riguardano anzitutto gli elicotteri da guerra, seguiti da bombe, cannoni, siluri, razzi, missili e accessori, aerei, navi, sottomarini, ed è al primo posto per le armi leggere.

Mentre per due decenni i governi che si sono succeduti hanno cercato di attenersi alle norme severe della legge  185 del 9 luglio 1990  (“Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento”) e, soprattutto, all’articolo 1 che stabilisce che le esportazioni di armi «devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia, la quale ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», nell’ultimo decennio, complice anche la crisi finanziaria del 2008, l’obiettivo è stato invece di promuovere e incentivare l’export militare, in particolare verso Paesi che non fanno parte né della Nato, né dell’Unione europea, ma di aree del mondo considerate molto instabili.

Questo è quanto scaturisce dalla relazione annuale al Parlamento sull’applicazione della legge 185. Diverse organizzazioni esperte, come la Rete italiana per il disarmo, sostengono, non da ora, che le informazioni contenute nella relazione siano insufficienti per farsi un’idea precisa su cosa vende l’Italia e a chi. «Rilanciare la competitività internazionale delle aziende per far ripartire il Sistema-Paese» è diventata la nuova parola d’ordine. Un motto che la Marina Militare ha promosso in passato, come avvenne tra il 2023 e il 2014, quando con la portaerei Cavour e altre tre unità navali si recò nei principali porti del Medio Oriente e dell’Africa.

Tra i prodotti in vetrina spiccavano, oltre agli elicotteri militari Agusta Westland, i cannoni Oto Melara, i siluri Wass, i missili Mbda, sistemi di controllo della Selex e le immancabili armi Beretta: insomma, tutto l’armamentario necessario per la guerra.  

SILENZI E COMPLICITÀ

La “campagna navale” non ha tardato a dare frutti. In pochi anni i principali acquirenti di sistemi militari domestici sono stati i Paesi dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente, a cui i governi guidati da  Renzi, Gentiloni e  Conte hanno autorizzato l’esportazione di materiali militari. Tra cui le monarchie assolute della penisola araba (Qatar, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Oman), Paesi del Mediterraneo settentrionale e del Medio Oriente (Egitto, Algeria, Israele, Marocco), ma anche regimi autoritari come la Russia di Putin. Esportazioni di sistemi militari che vengono spesso osannate come «rinnovata capacità del Made in Italy di penetrare nei mercati esteri», mentre si tratta solo di forniture di armamenti per sostenere regimi illiberali e governi autoritari.

Paesi ricchi di petrolio e di fonti energetiche situati in zone strategiche della geopolitica internazionale, ma i cui governi sono universalmente noti per alimentare le tensioni regionali, oltre che per le gravi violazioni dei diritti umani e la persecuzione del dissenso secondo la sharia, la legge sacra della religione islamica basata sul Corano.   La mutazione di paradigma nelle politiche di esportazione militare non è da attribuirsi all’inadeguatezza della legge, quanto a una serie di silenzi e complicità.

A cominciare dal Parlamento, che nell’ultimo decennio ha omesso il controllo dell’esportazione di armamenti, quasi che fosse materia che non riguarda direttamente la politica estera, di difesa e di sicurezza del Paese. E, soprattutto, di gran parte delle forze politiche, sempre alla ricerca del consenso immediato e attente a non contrariare le lobby dei fabbricanti d’armi, soprattutto quelle a controllo statale, come Leonardo e Finmeccanica. L’arrivo dei profughi mobilita gli uffici statali dell’assistenza. Il sistema  di Protezione civile si muove su due filiere, la prima è l’assistenza di Protezione attraverso l’attivazione del meccanismo europeo di Protezione civile. Fabrizio Curcio, capo del dipartimento Protezione civile ha parlato in un’intervista a La Presse.

“Abbiamo avuto la richiesta da Ucraina e da qualche stato membro con specifiche di materiali e attrezzature già in arrivo, entro stasera arriveranno in Polonia 200 tende e 1000 posti letto allestiti dai Vigili del Fuoco. Stiamo raccogliendo medicinali, elettromedicali, mezzi sanitari”. Poi Curcio spiega come avviene la distribuzione delle attrezzature. “In base alle richieste degli Stati, in questo caso di Polonia, Moldavia e Slovacchia noi rispondiamo”.

Mentre sono le grandi organizzazioni umanitarie a organizzare la distribuzione dei beni raccolti spontaneamente o dal volontariato. Il sistema nazionale di Protezione civile oltre alla distribuzione di materiali sanitari, si occupa dell’accoglienza. Stiamo definendo i piani che si svilupperanno a livello regionale e su quello noi implimenteremo la capacità di accoglienza. “Io illustrerò la situazione e cominceremo a ragionare sulla gestione. Le Prefetture hanno protocolli consolidati per l’accoglienza, trattandosi di persone extra-Ue. Per ora questo sistema non prevede appelli ai cittadini ad aprire le proprie case. Non ci sono scenari definiti. È un’emergenza nuova e le persone probabilmente non vogliono stare fuori dalla propria nazione, intendono rientrare. Ci sono numeri certi solo di coloro che si trovano sui confini, ma è probabile che non vogliano spostarsi da lì”.  

Renzi ci prova, Letta per il dopo Stoltenberg Che sia una proposta diplomatica, non c’è alcun dubbio. Anche perché è rimasto nella memoria collettiva quel passaggio carico di fiele quando Matteo Renzi prese il testimone da Enrico Letta per salire nella poltrona più alta di Palazzo Chigi. E’ da tempo che i rapporti tra i due sono tornati alla normalità. Anzi, molto di più visto che adesso il leader di Italia Viva è disposto ad appoggiare Enrico Letta nella carica occupata da Stoltenberg a Segretario generale della Nato. “Non so se lo vuole fare – ha esclamato il senatore di Rignano – ma sarebbe un ottimo nome. E’ stato presidente del Consiglio ed ha una riconosciuta esperienza nel settore. Noi lo appoggeremmo”. Non sembra una boutade, ma una convinzione profonda. Almeno, da provarci. Fisco, tassa sulla casa, protesta della Lega Si va verso un rinvio del voto sugli emendamenti alla delega fiscale in commissione Finanza alla Camera. Nel corso dell’ufficio di presidenza è passata la proposta di mediazione di Forza Italia sull’articolo 6. Per trovare una soluzione è stato lasciato più tempo al partito di Berlusconi, “24 ore invece di 5 minuti”. Ed a Fi è stato chiesto di individuare una proposta non più soppressiva dell’articolo 6.

Oggi, in ogni caso si procederà al voto sul catasto. Ma la cosa non è stata digerita dalla Lega. Matteo Salvini ha giudicato “gravissimo l’aut aut della sottosegretaria al Mef, Cecilia Guerra che ha minacciato la crisi di governo qualora non si approvasse, così com’è la riforma del catasto. I capigruppo della Lega nelle commissioni Bilancio, hanno protestato. “Il Parlamento ha tutto il diritto di discutere e presentare emendamenti laddove non ci sia convergenza sul provvedimento”. Tuttavia governo e maggioranza “hanno riconosciuto l’inutilità di una riforma  del catasto “se la finalità è solo quella di una mera indagine statistica per scovare gli immobili fantasma”.

A meno che, viene rilevato, dietro ci siano altre logiche, come quella di tassare la casa. Decreto Covid, con 193 sì, varo definitivo Il Senato ha dato il via libera definitivo alla conversione in legge del decreto Covid che disciplina l’obbligo vaccinale nei luoghi di lavoro e nelle scuole. Il provvedimento, su cui il governo ha posto la questione di fiducia è stato approvato con 193 sì, 35 contrari, nessun astenuto. Colao, ancora indietro per digitalizzare l’Italia Il ministro dell’Innovazione, Vittorio Colao, intervenuto al Forum dell’Ansa, ha detto che “la battaglia per avere meno contanti e più cash è una battaglia per aumentare la produttività e la competitività delle piccole imprese”. Ha riconosciuto che “siamo migliorati, ma siamo ancora indietro”.

L’Italia ha venduto armi alla Russia violando l’embargo europeo. FUTURA D'APRILE su Il Domani il 03 marzo 2022

Nel 2015 il governo guidato da Matteo Renzi ha rilasciato una autorizzazione per la vendita di 94 blindati Lince alla Russia, per un valore di oltre 25 milioni di euro.

Una disposizione europea al tempo vietava la vendita di armamenti. Ma la decisione non aveva valore sanzionatorio, e l’Italia ha approfittato della falla legale per continuare a mandare armi.

Da un’analisi dei dati Istat si scopre che fra gennaio e novembre del 2021 c’è stata un’esportazione di 3 milioni di euro di merci militari sotto embargo verso la Russia.

FUTURA D'APRILE. Freelance, scrive di esteri (principalmente medio oriente). Ha all'attivo due reportage tra Kurdistan turco e Palestina. 

Futura D'Aprile per editorialedomani.it il 3 marzo 2022.

Nel 2015 il governo guidato da Matteo Renzi ha rilasciato una autorizzazione per la vendita di 94 blindati Lince alla Russia, per un valore di oltre 25 milioni di euro.

Una disposizione europea al tempo vietava la vendita di armamenti. Ma la decisione non aveva valore sanzionatorio, e l’Italia ha approfittato della falla legale per continuare a mandare armi. 

Da un’analisi dei dati Istat si scopre che fra gennaio e novembre del 2021 c’è stata un’esportazione di 3 milioni di euro di merci militari sotto embargo verso la Russia.

Sistemi anticarro e antiaereo, mitragliatrici e mortai. Sono queste le armi che il governo italiano è pronto a cedere a Kiev per sostenere la resistenza ucraina contro la Russia.

Ma negli anni successivi all’invasione della Georgia e della Crimea, proprio dall’Italia sono partite verso Mosca armi, munizioni e blindati. 

A confermarlo non sono solo i dati, ma anche alcuni video diffusi sui social nei primissimi giorni dell’invasione: si vedono alcuni soldati ucraini impossessarsi di un blindato 4x4 Lynx di produzione Iveco, abbandonato sul campo dalle forze russe. Un mezzo la cui presenza nell’arsenale bellico di Mosca fa sorgere delle domande.

L’esportazione di armamenti verso la Federazione russa inizia nel 2003, ma il record si raggiunge solo nel 2011 con il governo guidato da Silvio Berlusconi, quando viene autorizzata la vendita di blindati Iveco noti con il nome di Lince, per un valore di 106 milioni di euro.

L’autorizzazione è stata rilasciata tre anni dopo l’invasione della Georgia da parte della Russia, ma non era ancora in vigore alcun embargo nei confronti di Mosca. Diverso è invece il caso dell’autorizzazione contenuta nella relazione per l’export di armamenti del 2015 e consegnata al parlamento l’anno seguente. 

Come già scoperto nel 2019 dal sito investigativo Bellingcat, nel 2015 il governo guidato da Matteo Renzi ha rilasciato una nuova autorizzazione per la vendita di 94 blindati Lince alla Russia, per un valore di oltre 25 milioni. In quello stesso anno sono stati esportati 83 dei 94 mezzi corazzati Iveco.

C’è però un problema. L’autorizzazione definitiva è stata data nel 2015, ma, come scrive l’analista dell’Opal Giorgio Beretta, il 31 luglio del 2014 l’Unione europea ha imposto un embargo sull’invio di armamenti verso la Russia in risposta al conflitto ucraino. 

Attraverso l’adozione da parte del Consiglio europeo della Decisione 2014/512/CFSP, viene proibito agli stati membri di vendere, fornire, trasferire o esportare armi e materiale accessorio di qualsiasi tipo verso la Russia, inclusi munizioni, veicoli ed equipaggiamenti militari completi o loro parti.

L’embargo si applica anche ai prodotti dual-use, che potrebbero avere un’applicazione bellica, e verso gli “utilizzatori finali militari”. La decisione comunitaria colpisce tutti i contratti e gli accordi raggiunti tra gli stati membri e la Russia prima del 1° agosto 2014. 

I 94 blindati Iveco sono stati venduti quando l’embargo comunitario era già in vigore. Tuttavia, il documento con cui l’Ue limita l’invio di materiale bellico verso la Russia presenta delle falle: la decisione non ha valore sanzionatorio, pertanto chi lo viola non incorre in alcun tipo di misura punitiva.

L’export di materiale bellico in Italia è regolato dalla legge 185/90. La norma stabilisce che le autorizzazioni per le esportazioni sono concesse dall’Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento (Uama), di concerto con la presidenza del Consiglio e il Comitato consultivo, composto da Agenzia delle dogane e dei monopoli, ministero degli Esteri, della Difesa, dell’Interno, dello Sviluppo economico e dell’Ambiente. L’Autorità è tenuta a fornire una valutazione di tipo tecnico-amministrativa, in conformità con la politica estera e di difesa del paese.

La 185/90, però, prevede anche una serie di condizioni da rispettare perché l’export possa essere autorizzato. Nello specifico, tali operazioni sono proibite se sono in contrasto con gli impegni internazionali presi dall’Italia e se dirette «verso paesi nei cui confronti è stato dichiarato un embargo totale o parziale delle forniture belliche da parte delle Nazioni unite o dell’Unione europea». 

Più in generale, la legge vieta anche l’export verso paesi in stato di conflitto armato o «responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni unite, dell’Ue o del Consiglio d’Europa». Nonostante un embargo europeo e le limitazioni contenute nella 185/90, il governo Renzi ha ugualmente concesso l’autorizzazione.

Gli affari con Mosca non si limitano ai blindati Iveco. Secondo i dati dell’Istat sul commercio estero, fra gennaio e novembre del 2021 sono state esportate armi e munizioni per un valore di quasi 22 milioni. Questo tipo di export si riferisce generalmente a materiali non bellici e per la cui esportazione è necessario unicamente il via libera del questore, sulla base di quanto stabilito dalla legge 110/75. 

Nei dati dell’Istat c’è però un buco. Il valore dell’esportazione per materiale di categoria SH, che ricomprende “Armi, munizioni e loro parti accessorie”, è pari a 21.942.271 di euro, così suddivisi: 13.742.231 euro per armi comuni; 151.074 euro per le pistole; 4.093.689 euro per le munizioni; 837.170 euro per accessori. Tutti prodotti regolati dalla 110/75.

Restano però fuori dal computo merci per un valore di 3.118.107 di euro che, come spiega Giorgio Beretta, potrebbero essere destinate a corpi di polizia o enti governativi russi. «Se fosse questo il caso, se ne troverà traccia nella prossima relazione al parlamento sulle autorizzazioni all’esportazione di armamenti». Nelle tabelle dell’Istat, dice Beretta, è riportato il valore totale dell’export di “armi e munizioni” diretto verso la Russia, ma dalle sottocategorie sono assenti proprio i dati relativi alle armi da guerra, in quanto informazioni secretate. Da qui, è l’ipotesi dell’analista, la mancanza di quei 3.118.107, che dovrebbero dunque riferirsi a materiale bellico per la cui esportazione è stata richiesta l’autorizzazione del governo.

Superpotenza agroalimentare. Il grano è un’insospettabile arma di riserva per la Russia. Alessandro Cappelli su Linkiesta il 2 Marzo 2022.

Mosca e Kiev insieme producono quasi un quarto del frumento mondiale e le tensioni nella regione minacciano di rallentare gli approvvigionamenti, facendo volare i prezzi. Il Cremlino può riequilibrare le perdite economiche (grazie alla Cina), a spese dei Paesi importatori. 

L’invasione russa sta avendo conseguenze di ogni tipo, in ogni settore, ora dopo ora. Si sta parlando molto dell’aumento sui mercati del prezzo del grano e dei prodotti derivati, come pane e pasta.

Negli ultimi giorni il prezzo delle materie prime agricole ha subito forti fluttuazioni, come prevedibile: le tensioni tra in Europa orientale minacciano di frenare le spedizioni di grano, mais e olio vegetale in tutto il mondo. A questo si aggiunge l’aumento del costo di carburanti e fertilizzanti, che a loro volta rientrano nelle spese dell’industria agroalimentare e gravano sui prezzi.

Per la Russia tutto questo si sta traducendo in un vantaggio economico. Anzi, forse è l’unica vittoria che emerge da questa prima settimana – o quasi – di conflitto. Il gigante eurasiatico è di gran lunga il più grande esportatore mondiale di grano, ha venduto 35 milioni di tonnellate di grano in tutto il mondo nel 2021.

Discorso simile anche per l’Ucraina, che a sua volta è una delle potenze mondiali in crescita nel settore: i dati dell’International Grain Council rivelano che le esportazioni ucraine di grano, orzo e mais sono quasi triplicate dal 2012. E l’anno scorso, per la prima volta, l’Ucraina ha superato gli Stati Uniti nelle esportazioni di grano, diventando così il terzo fornitore di grano a livello mondiale, dopo Russia e Australia.

Insomma, insieme Mosca e Kiev producono quasi un quarto del grano mondiale. «La produzione agricola, tradizionalmente un settore in cui la Russia non è mai stata fortissima a causa della scarsa qualità dei suoi terreni gelidi e inclini alla siccità, è cresciuta negli ultimi dieci anni», si legge in un articolo pubblicato su Bloomberg.

L’autore dell’articolo, David Fickling, ripercorre l’ultimo secolo di storia della Russia – e insieme dell’Unione Sovietica – per individuare il momento in cui il grano è diventato un elemento centrale nell’economia di Mosca.

«La Russia zarista – si legge nell’articolo – era il più grande esportatore mondiale di grano. Ma l’Urss ebbe grosse difficoltà. Il crollo della produzione durante la Prima Guerra Mondiale, quando più di 10 milioni di contadini vennero trasformati da produttori di cibo in consumatori, portò ad anni di rivolte per il cibo culminate nelle rivoluzioni del 1917. La collettivizzazione e la brutale carestia che uccise circa 4 milioni di ucraini negli anni ’30 portarono la produzione agricola a ristagnare, al punto che, negli anni ’70, l’Unione Sovietica importava una quantità di grano senza precedenti».

Solo negli ultimi anni lo schema si è ribaltato, di nuovo. Dall’invasione della Crimea nel 2014, la Russia è passata dallo status di importatore su larga scala a esportatore intercontinentale. Le spedizioni di grano hanno superato quelle dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e del Canada nel 2017, per riportare il Paese al suo status dell’epoca zarista.

Oggi l’influenza della Russia nell’industria del cibo è destinata ad aumentare piuttosto che a diminuire, e sarà così ancora a lungo.

Fa tutto parte dei progetti del Cremlino: negli ultimi anni le importazioni di carne sono quasi del tutto esaurite, assottigliando la quota di deficit commerciale. E anche i prodotti lattiero-caseari – un’area in cui la Russia è ancora in deficit commerciale – sono meno problematici di quanto possa sembrare.

In più, sono aumentate anche le vendite di frutti di mare, grazie al riscaldamento delle acque nel Pacifico settentrionale: questo fattore permette di esportare in mercati sempre più ricchi, come quello della Corea del Sud e della Cina.

Ridurre la dipendenza dalle importazioni era un obiettivo di lungo periodo di Vladimir Putin, un traguardo previsto dalla Dottrina sulla sicurezza alimentare del Paese del 2010 – e poi ripresentato nel 2020.

Negli ultimi anni anche il cambiamento climatico ha giocato un ruolo determinante. L’ultimo rapporto pubblicato lunedì dall’Intergovernmental Panel on Climate Change, infatti, dipinge un mondo in cui le specie vegetali e animali stanno già fuggendo da latitudini tropicali sempre più torride e turbolente, e si stanno spostando più a nord.

Anche se il riscaldamento globale si dovesse mantenere al di sotto di 1,6 gradi Celsius entro il 2100, l’8% dei terreni agricoli odierni non sarà adatto all’agricoltura entro la fine del secolo. E anche la vita oceanica sta migrando verso i poli, a una velocità di 59 chilometri al decennio, portando una quota sempre più ricca del mercato del Pacifico nelle acque russe.

La Russia, quindi, si trova in una posizione – geografica, ma anche politica – di vantaggio, che le permetterà di sfruttare a suo favore il caos portato dall’emergenza climatica.

«Questa è una ricompensa perversa per un Paese che ha contribuito ampiamente al riscaldamento climatico con il suo export mondiale di combustibili fossili», sottolinea Bloomberg.

Le conseguenze della crisi ucraina sul mercato alimentare si rifletteranno anche sulle nazioni importatrici di grano, come quelle della fascia mediorientale.

In Egitto, il pane è un elemento centrale nella dieta dei cittadini: sulle tavole degli egiziani se ne consumano enormi quantità, il doppio della media mondiale. Soprattutto in quelle forme piccole e rotonde chiamate aish, che è anche sinonimo di vita.

L’Egitto infatti è il più grande importatore al mondo di grano. Ma fa compere soprattutto in Russia e Ucraina, per l’85% delle sue importazioni.

Non a caso alla fine della scorsa settimana il primo ministro egiziano Mostafa Madbouly ha convocato una sessione speciale del suo gabinetto per fare il punto su come l’invasione russa dell’Ucraina potrebbe interrompere le forniture di farina e far salire i prezzi nel Paese più popoloso del mondo arabo (102,2 milioni di abitanti).

Il governo egiziano spende miliardi di dollari ogni anno per sovvenzionare le spese sul pane: qualsiasi shock ai prezzi globali del grano potrebbe essere un duro colpo non solo per lo stomaco degli egiziani, ma anche per il bilancio nazionale del Paese.

Ma l’Egitto non è un caso isolato. L’anno scorso il Medio Oriente ha importato più di 36 milioni di tonnellate di grano, secondo un’analisi del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti. E la maggior parte proveniva, ancora una volta, da Russia e Ucraina.

Dal Cairo a Teheran, il timore è che la guerra portata dalla Russia in Ucraina possa far salire notevolmente i prezzi del grano, portando con sé proteste popolari contro i governi in carica. Anche perché nella maggior parte dei casi si tratta di economie già gravate dalla pandemia, dalla siccità e da altri conflitti.

L’anno scorso l’Iraq ha vissuto una stagione di grandi proteste di piazza legate – anche – all’aumento dei costi del cibo. In Marocco, dove la peggiore siccità degli ultimi tre decenni ha spinto al rialzo i prezzi dei generi alimentari, la crisi ucraina ha fatto aumentare l’inflazione, provocando nuove proteste. La Tunisia aveva grosse difficoltà a pagare le sue importazioni di grano già prima dell’invasione dell’Ucraina, adesso si prospetta uno scenario tetro anche per il piccolo Paese mediterraneo.

Inoltre, i mercati delle materie prime agricole sono globali, e allora qualsiasi riduzione dell’offerta di grano potrebbe far aumentare la domanda e i prezzi del grano coltivato in altre parti del mondo, tra cui Australia, Argentina e nel Midwest americano.

Al momento, il più grande alleato della Russia – anche sul grano – potrebbe essere la Cina. Pechino importa enormi quantità di mais, orzo e sorgo per l’alimentazione animale dai mercati mondiali. Potrebbe scegliere di acquistare quei prodotti dalla Russia invece che da altri Paesi, ad esempio.

Ma non solo. Giovedì scorso la Cina ha approvato quelle importazioni di grano russo che erano bloccate da tempo a causa di preoccupazioni riguardanti funghi e altri potenziali agenti contaminanti. Preoccupazioni che però sono state facilmente accantonate per spalleggiare l’alleato in un momento così delicato.

Il commento dei due direttori del Riformista. “L’Italia si lava la coscienza e manda armi in Ucraina”, Sansonetti e Liguori contro la politica che “non ha peso diplomatico”. Serena Console su Il Riformista l'1 Marzo 2022. 

“Siamo rimasti pochissimi a non voler mandare le armi in Ucraina”, dice il direttore editoriale del Riformista Tv Paolo Liguori nella rubrica ‘Attenti a quei due’, in compagnia del direttore del Riformista Piero Sansonetti, in merito alla decisione del governo italiano di inviare armamenti agli ucraini per sostenere la resistenza contro l’assedio della Russia. “Io sono contrario a mandare le armi – aggiunge Liguori – e spero che tacciano le armi, senza mandarne altre”.

“Io ricordo quel discorso che fece Pertini, il presidente partigiano, quando disse alla Camera: ‘Svuotate gli arsenali e riempite i granai”, dice Sansonetti prendendo la parola. E poi aggiunge: “Ma noi stiamo facendo il contrario: stiamo svuotando i granai e riempiamo gli arsenali. Io sono un vecchio pacifista – afferma – e sono sempre stato contro tutte le guerre. Per me le guerre non sono mai giuste”, sostiene Sansonetti ricordando l’intervento della Nato in Serbia tra il 1998 e il 1999.

“Quando Putin invade l’Ucraina io mi indigno e grido contro Putin perché è un invasore”, dice ancora Sansonetti, chiedendo l’intervento della diplomazia. “Tutto il Parlamento, tranne una decina di deputati, ha votato compatto per mandare le armi in Ucraina: io non so la politica che fine fa di questo passo”, osserva il direttore de Il Riformista.  Riprendendo la parola, Liguori, che condivide l’opinione del collega, spinge sulla linea della diplomazia: “Ho sempre detto che bisogna trattare. Attualmente stanno trattando e spero che finisca la trattativa in modo positivo.

Tuttavia – sottolinea Liguori – non si tratta quando ci sono i bombardamenti, perché di solito si tratta quando si sospendono le ostilità. Se continua la guerra dovremmo mandare persino dei volontari per difendere l’Ucraina dall’attacco dei russi”. E riprendendo il discorso pronunciato dal Papa, Liguori aggiunge: “Chi costruisce armi e manda le armi in giro lo fa per uccidere”. Sansonetti, riallacciandosi alle parole del suo collega, afferma: “Sembra che l’Italia stia facendo un passo concreto a favore dell’Ucraina, ma non è vero: l’Italia, che non riesce ad avere un peso diplomatico, che non riesce a fare politica e non riesce a intervenire nella crisi in Ucraina e non aveva capito nemmeno cosa stesse accadendo. E per questo, cosa fa? Si lava la coscienza mandando le armi. Le armi – chiosa Sansonetti – servono solo a uccidere”. Liguori poi lancia un appello affinché ci sia un’opposizione collettiva all’invio delle armi in Ucraina. Serena Console

Il sostegno italiano. Legittimo inviare armi a Kiev, dice Giovanni Maria Flick. L'Inkiesta il 4 Marzo 2022.

Il costituzionalista spiega che l’articolo 11 della Costituzione è rispettato «perché non c’è un atto ostile contro uno Stato estero. Ci si muove nell’ambito di un trattato Nato, siamo al di fuori dell’ambito della guerra che dobbiamo ripudiare». Ma arruolarsi da volontari per combattere in Ucraina è un reato.

Non siamo in guerra, ma «stiamo aiutando un Paese a esercitare la legittima difesa. Non è un’operazione strettamente bellica. Il confine fra i due concetti è esattamente definito». Il costituzionalista Giovanni Maria Flick, già presidente della Consulta e ministro della Giustizia, su Repubblica spiega che l’articolo 11 della Costituzione è rispettato «perché non c’è un atto ostile contro uno Stato estero. Ci si muove nell’ambito di un trattato Nato, siamo al di fuori dell’ambito della guerra che dobbiamo ripudiare».

Il contributo italiano, con l’invio delle armi a Kiev annunciato dal premier Mario Draghi in Parlamento, è «un intervento effettuato nell’ambito del Trattato Nato del 1949. Non c’è nessuna dichiarazione di guerra, che deve essere pronunciata dal presidente della Repubblica su deliberazione del Parlamento, il quale a sua volta conferisce al governo i poteri necessari. In ogni caso, bene ha fatto Draghi a esplicitare la natura dell’intervento e le sue motivazioni di fronte a Camera e Senato. È stata una manifestazione di correttezza istituzionale. Per di più i relativi decreti, emessi in condizioni di straordinarie necessità e urgenza, saranno discussi ancora dal Parlamento».

E anche se a essere sotto attacco non è uno Stato membro della Nato, spiega Flick, per intervenire «è sufficiente la minaccia esterna su un Paese confinante con l’organizzazione: Polonia e Romania, membri Nato, confinano con l’Ucraina. L’Italia sta interpretando correttamente la duplice portata dell’articolo 11 della Costituzione: limitare il male della guerra alle ipotesi di difesa legittima, e adempiere ai doveri di solidarietà e coesione che caratterizzano un trattato internazionale a favore della pace. Il patto atlantico è nato con questo fine. La risposta corale del Parlamento è la testimonianza più efficace ed è un passo significativo per lo sviluppo e il consolidamento dell’Unione europea. C’è un risveglio non solo economico con il NextGenEu, ma anche su sicurezza e solidarietà europea, come provano le iniziative a favore dei profughi».

Sul segreto tenuto in merito alla natura delle armi mandate, Flick spiega che «è una prerogativa del governo trattandosi di materiale estremamente sensibile ai fini della sicurezza nazionale. Anche qui è da rimarcare un’accortezza: i decreti sono stati due, il 25 e il 28 febbraio. Nel primo si faceva un riferimento un po’ ambiguo ad “armi non letali”, dizione corretta con “armi” nel secondo: era inopportuno insistere sull’equivoco del carattere “non letale”».

Altra cosa sono invece i “freedom fighter” che partono alla ventura per l’Ucraina. Secondo il professore, commettono un reato, «a meno che non abbiano l’approvazione del governo». Flick spiega che «la materia è regolata da molte norme. Intanto l’articolo 18 della Costituzione prevede che i cittadini abbiano diritto di associarsi liberamente purché per fini non vietati dalla legge penale. Specifica che sono proibite le associazioni che perseguono scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare. E il Codice Penale prevede la punizione di chi fa arruolamenti o compie atti ostili verso uno Stato estero con pene da 6 a 18 anni, ma fino all’ergastolo se poi qualcuno attacca per ritorsione l’Italia. C’è anche la legge 210 del 1995, che attuava una convenzione dell’Onu e punisce tanto il mercenario quanto chi lo recluta con pene fino a 14 anni. L’arruolamento infine è punito dall’articolo 270 quater del Codice Penale, introdotto nel 1995 con riferimento alle finalità di terrorismo».

Diamo le armi ai massacratori, Borgonovo smaschera il gioco dell'Europa. Il Tempo l'01 marzo 2022.

L'Europa ha deciso di armare la resistenza ucraina di fronte all'invasione russa. Ma il viedirettore de La Verità sottolinea le sue perplessità su una strategia che non porterà a nulla di positivo per l'Europa e, in particolare, per l'Italia. 

"Siamo favorevoli a che gli ucraini possano stare in pace e stare tranquilli - ha detto Borgonovo in collegamento con L'Aria che tira - ma quelli a cui stiamo dando le armi sono gli stessi che hanno compiuto il massacro di Odessa nel 2014. Ci sono quelli che andavano nelle regioni del Donbass e non è che ci andavano tanto per il sottile. L'Unione europea ha fatto finta di niente per 8 anni, dagli accordi di Minsk in avanti Se noi all'improvviso cambiamo atteggiamento perché abbiamo deciso che dobbiamo andare alla guerra totale poi dobbiamo essere consapevoli che ci saranno conseguenze. La guerra non finirà domani e la popolazione continuerà a essere a rischio. E saremo a rischio anche noi perché l'escalation potrebbe essere pesantissima. E poi lo scopo qual è? Deporre Putin e sostituirlo con un fantoccio tipo Eltsin? O addirittura con uno peggiore?"

Toni Capuozzo, "perché è un errore armare l'Ucraina": la rappresaglia di Vladimir Putin, umanità in pericolo? Libero Quotidiano l'01 marzo 2022.

Toni Capuozzo dice la sua sul conflitto in Ucraina e sull'invasione della Russia. "Non sono così ottimista. Immagino che la parte ucraina cercherà di non essere sbrigativa, perché ogni giorno in più di resistenza è un giorno vinto. Dall’altra parte i russi devono ottenere qualcosa presto, per la stessa opposta ragione. Hanno incontrato una resistenza più forte del previsto, e l’Occidente si è compattato, invece di dividersi. Possono i carri armati invertire il senso di marcia?", si chiede il giornalista scrivendo sul sito di Nicola Porro.

Capuozzo è chiaro su chi ha le colpe di questa situazione: "Conta chi ha invaso, e iniziato una guerra: sono fatti. Ma conta come reagire. Mi sorprende che i leader europei, e in generale i media e i commentatori, non si siano buttati sull’arsenale della pace, che è fatto di soluzioni, di proposte, di mediazioni, di dilazioni, non di sola speranza. Non vorrei che a Washington qualcuno, ringalluzzito dalla tenuta dell’esercito e dei cittadini ucraini, pensasse che è l’occasione per far pagare l’azzardo a Putin, per farlo ritornare vinto a casa, a vedersela con un paese umiliato, con qualcuno che pensi di soppiantarlo", svela Capuozzo.

Infine Capuozzo fa capire che, "Putin può essere tentato dal tanto peggio tanto meglio. Possiamo incoraggiare gli ucraini seduti al tavolo a non cedere in niente. Che devono solo chiedere il dietrofront dei russi, e rivendicare il diritto a entrare nella Nato, come la Macedonia o il Montenegro (è molto più facile entrare nella Nato che nell’Unione Europea, sì). Possiamo pretendere che Putin si ammansisca, mandarlo a quel paese", conclude Capuozzo.

 Federico Giuliani per ilgiornale.it

L'Unione europea sarà ritenuta responsabile di tutte le possibili conseguenze collegate alla consegna di armi all'Ucraina. La Russia punta il dito contro Bruxelles, accusata sostanzialmente di soffiare sul fuoco di una guerra ormai sempre più calda.

Il comunicato di Mosca

"I cittadini e le entità dell'Unione europea coinvolti nella consegna di armi letali" all'Ucraina "saranno ritenuti responsabili per qualsiasi conseguenza di queste azioni", si legge in una nota diffusa dal Ministero degli Esteri russo. 

Secondo il quale, inoltre, coloro che hanno preso a queste iniziative "non riescono a capire quanto siano pericolose le conseguenze", ha riportato l'agenzia Interfax. Come se non bastasse, ha aggiunto ancora il Ministero, Mosca è pronta a sferrare una durissima risposta all'Ue per il suo ruolo negli eventi in Ucraina.

"La Russia continuerà a garantire il raggiungimento di interessi nazionali vitali indipendentemente dalle sanzioni o dalla loro minaccia. 

È tempo che le nazioni occidentali si rendano conto che il loro completo dominio nell'economia globale è scomparso da tempo", ha proseguito, ancora, il ministero. Detto altrimenti, il Cremlino riterrà "responsabile" chiunque sarà coinvolto nella consegna non solo di armi ma anche di carburante. Agli atti pratici l'accusa russa riguarda quasi l'intera Unione europea, almeno a giudicare dalle ultime prese di posizione dei vari governi Ue.

"Le azioni europee non rimarranno senza risposta"

Il comunicato russo termina sottolineando come la decisione di fornire armi ai "militaristi ucraini" sveli la "verità nascosta", ovvero la fine dell'integrazione europea come "progetto pacifista volto alla riconciliazione dei popoli europei dopo la seconda guerra mondiale". "L'UE si è completamente schierata con il regime di Kiev, che ha condotto una politica di genocidio contro parte della sua stessa popolazione", ha specificato il Ministero.

Il riferimento della Russia è all'ultimo via libera dato dal Consiglio dei ministri della Difesa Ue per la fornitura di armi e altro materiale bellico all'Ucraina. "Le azioni dell'Unione Europea non rimarranno senza risposta. La Russia continuerà a garantire la realizzazione dei suoi interessi nazionali vitali senza riguardo alle sanzioni e alle loro minacce. È tempo che i paesi occidentali comprendano che il loro dominio indiviso nell'economia globale appartiene da tempo al passato", ha concluso il Ministero degli Esteri russo. 

La lista dei Paesi europei che offrirà supporto all'Ucraina è lunghissima. La Norvegia, ad esempio, fornirà armi e assistenza umanitaria all'Ucraina per un valore di 226 milioni di dollari.

L'esercito tedesco invierà 1.000 armi anticarro e 500 missili terra-aria di classe Stinger; la Francia equipaggiamento per la difesa e carburante; il Regno Unito non meglio specificate armi difensive; l'Olanda 200 missili a spalla anti aerei Stinger, 50 lancia razzi anti tank con 400 razzi, 100 fucili da cecchino con 30mila munizioni e due droni sommergibili per l'individuazione di mine sottomarine; la Repubblica Ceca è già arrivata alla fornitura di un secondo treno carico di forniture ai militari ucraini. Anche l'Italia ha risposto presente, inviando mitragliatrici, missili e altro materiale bellico. L'Ucraina ringrazia e prova a resistere.

Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 3 marzo 2022.

Nel suo ufficio alla Camera Pierluigi Bersani ha l'espressione grave. Dice: «Non mi sta bene questa Unione europea solo con l'elmetto». 

Lei ha votato per l'invio delle armi all'Ucraina.

«Non c'è nessuna contraddizione. Ho votato a favore degli aiuti militari, penso che l'aggressione criminale di Putin non abbia alcuna giustificazione storica, trovo giuste le sanzioni. Ma allo stesso tempo reputo insufficiente l'operato dell'Europa». 

Cosa rimprovera a Bruxelles?

«Dovrebbe spendersi per il cessate il fuoco, spingere per il negoziato, ma questa voce non la sento». 

Perché ha votato l'invio delle armi?

«Perché è una decisione che aiuta non a parole la resistenza ad un'aggressione e che ha l'ombrello dell'Unione e del Parlamento europeo. Altrimenti non lo avrei fatto: saremmo stati ai limiti dell'articolo 11 della Costituzione». 

L'Europa ha superato un limite?

«Ha rotto un tabù. Ma la Ue non è la Nato. Siamo di fronte a un inedito. Una scelta che non esprime da sola la sua vocazione ad operare per la pace, allargandosi senza mai alzare i muri. In altre parole: rendendosi accogliente e desiderabile». 

Vede poca politica?

«Pochissima. Dire, come fanno taluni, che ci sono le bombe e quindi non può esserci la politica, farà andare ancora di più le bombe». 

Oggi l'urgenza non è la difesa di Kiev? Se cade non è tutto perduto?

«Kiev va difesa ad oltranza, naturalmente. Occorre stare con i resistenti ucraini, mettendo in campo un'azione diplomatica e un messaggio che invochi il cessate il fuoco». 

Putin le sembra uno disposto al dialogo? Macron e Scholz ci hanno provato fino all'ultimo.

«So bene che ci ha preso in giro. Ma la postura dell'Europa è di provarci incessantemente, pensando anche al dopo. Tengo sempre a mente la lezione di Metternich nel 1814». 

Qual è?

«Dopo aver sconfitto Napoleone pretese che anche la Francia sedesse al tavolo del congresso di Vienna, per decidere insieme i nuovi equilibri. Dopo l'89 non è andata così». 

Servirebbe un Metternich anche oggi?

«Sì, e non è esattamente un bersaniano». 

Lei sta dicendo che ci vorrebbe più complessità per uscire da questo conflitto?

«Più senso della storia, almeno. Perché la politica non produce più gli statisti di una volta? Siamo tutti col fiato corto». 

Quale è la sua paura?

«Se non teniamo aperta una via d'uscita e la prospettiva di una composizione alla fine rischiamo di ritrovarci con una Russia ancora più radicalizzata. E con nuovi nazionalismi. Il nazionalismo - ammonì Mitterrand nel suo lascito testamentario - vuol dire guerra». 

Ma è lo stesso Zelensky che chiede in primis aiuto militare.

«Faccio notare che Zelensky fa entrambe le cose: combatte e tratta». Anche lei pensa, come tanti a sinistra, che la Nato si sia allargata troppo ad Est? «Penso che ci sia stato un errore del 1991, quando dopo la dissoluzione del mondo sovietico non si tentò di coinvolgere la Russia nel nuovo equilibrio europeo. 

I russi hanno sempre discusso su come sentirsi europei, non se essere asiatici. Invece si lasciò Gorbaciov da solo. Accettò la sconfitta storica senza versare una goccia di sangue. Meriterebbe solo per questo sette premi Nobel per la pace». 

Putin non è come Hitler che invase la Polonia nel 1939?

«Putin è Putin. Un autocrate nazionalista che da qualche anno abbiamo scoperto imperialista. Noi dobbiamo ribadire la nostra storia, aiutare la Resistenza e promuovere la diplomazia».

Questo ragionamento ora non è un modo per giustificare Putin?

«Affatto. Non c'è alcuna giustificazione. Detto questo. Si può ancora discutere in questo Paese, affrontando criticamente una vicenda così drammatica? Sono molto colpito dal coro che sento. Non mi piace». 

Mi può fare un esempio?

«La Bicocca aveva interrotto una corso su Dostoevskij: demenziale. Si parte dagli artisti, ma di questo passo si chiederà anche alle badanti russe di dissociarsi». 

 Non si deve essere da una sola parte senza se e senza ma?

«Sì, certo, ma mantenendo la testa aperta al ragionamento. Marc Innaro, il corrispondente del Tg2, rischia il licenziamento perché ha espresso un'opinione? È questa l'idea di Occidente che abbiamo?».

Quali sono i sentimenti del popolo della sinistra?

 «Le piazze piene sono lì a dimostrare che la gente vive un'angoscia profonda e vuole che venga fatto tutto il possibile per la pace. Bisogna tendere la mano a queste persone». 

 Come valuta i discorsi di Draghi alle Camere?

«Ha espresso una posizione in linea con l'attuale Europa». 

La Germania che aumenta le spese militari è un esempio anche per noi?

«È un fatto storico. La Ue si deve dare certamente un meccanismo di difesa europeo. È giusto riconoscere anche la presenza di Paesi neutrali. L'Europa non è la Nato». 

Lei lamenta un doppio standard?

«Ci sono trenta guerre in giro per il mondo, non mi pare che l'Occidente si sia schierato sempre con i resistenti». 

Qui abbiamo la guerra a due passi da casa.

«In termini di chilometri non è che la Libia sia più lontana». 

Ha conosciuto Putin?

«Sì, quando portai l'Enel in Russia, ai tempi del governo Prodi. Era assertivo, con i tratti tipici dell'autocrate. È stata la destra a farne un idolo. Putin ha percepito questa sua fascinazione. Non va dimenticato». 

DAGONOTA il 2 marzo 2022.

Sul caso D’Alema e Colombia Bono prende indirettamente le distanze anche da Giuseppe Giordo, direttore generale Navi Militari di Fincantieri. 

E risponde, giustamente, che la società, nelle trattative commerciali internazionali, ha sempre avuto e ha interlocuzioni esclusivamente con le istituzioni preposte, sia italiane che estere".

Ergo: i rapporti tra Giordo, “baffino” e lo studio di Miami non sono i benvenuti. Perché Leonardo invece ancora tace? 

Caso COLOMBIA: Fincantieri, interlocuzioni solo con istituzioni preposte

(LaPresse il 2 marzo 2022) - "Fincantieri nelle trattative commerciali internazionali ha sempre avuto e ha interlocuzioni esclusivamente con le istituzioni preposte, sia italiane che estere". 

E' quanto fanno sapere dalla società in merito alla tentata compravendita di mezzi da guerra, mai conclusa, in tra azienda italiane e governo colombiano.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 2 marzo 2022.

È davvero interessante la parabola dell'ex premier Massimo D'Alema, noto per essere il primo capo di governo post comunista capace di convincere la sinistra italiana a bombardare uno Stato sovrano, la Serbia. Era 1999. Da allora Max ne ha fatta di strada e dopo aver installato una merchant bank dentro a Palazzo Chigi (Guido Rossi dixit), adesso lavora in proprio e si è messo a fare anche il venditore di armi. Questo grazie ai contatti privilegiati dentro a Leonardo e Fincantieri. L'ultimo affare noto riguardava 4 corvette Fcx30, due sommergibili Trachinus (2 miliardi di euro di valore) e 24 caccia M346 (2,13 di euro).

La parte di D'Alema e della sua squadra avrebbe dovuto essere di 80 milioni, circa il 2 per cento della torta, una fetta che l'ex ministro degli Esteri considerava «un risultato straordinario». O perlomeno questo era quello che aveva assicurato ai soci nell'affare, due quarantenni pugliesi, Francesco Amato e Emanuele Caruso, promotori di progetti con la loro Cooperacion America latina, un'organizzazione fondata l'anno scorso tra Italia e Colombia. L'ex premier per fare affari approfitta dei suoi canali privilegiati dentro alle aziende, dove, come vedremo, può contare sui «massimi livelli». 

Di certo il 15 dicembre Dario Marfé, della divisione aerei di Leonardo, vicepresidente senior dei servizi commerciali & clienti gli scrive: «Buonasera Presidente, scusandomi per il ritardo, Le invio in allegato alcune brochure che descrivono le soluzioni offerte da Leonardo divisione elettronica per radar aeroportuali e centri air traffic control». I dépliant riguardano le caratteristiche principali di cinque prodotti, per cui possono essere organizzate anche presentazioni dedicate.

A questo punto Marfé tira fuori l'argomento aerei da guerra che evidentemente è già sul piatto: «A presto risentirLa anche sul tema M-346» conclude. Nel carteggio mail e nei gruppi Signal aperti dal gruppo colombiano con l'ex premier c'è anche la proposta di novembre per 24 aerei da guerra per la Air force colombiana. Costano 32 milioni l'uno (768 milioni), ma il valore della commessa quasi si triplica comprendendo 800 milioni di euro di costi di manutenzione, 500 di opere civili e per l'ammodernamento delle basi aeree e 200 milioni per equipaggiamenti, simulatori e corsi di formazione.

Per questo nuovo business l'ex premier ha suggerito al gruppo di lavoro colombiano, a inizio ottobre 2021, negli uffici della fondazione Italianieuropei di Roma, di ingaggiare l'avvocato Robert Allen di Miami come interfaccia con le aziende italiane. Quest' ultimo ha uno studio specializzato in compravendite di superyacht. Il rappresentante dello studio in questa vicenda è Umberto Bonavita, nato nel 1973 negli Usa. In Italia è praticamente un fantasma. Nel 2021 è passato una sola volta dall'aeroporto di Fiumicino. 

Nel 2019 aveva visitato l'Italia insieme con la moglie, la cognata e i tre figli. Nel settembre di quell'anno è stato avvistato insieme a Gherardo Gardo, commercialista bolognese, professionista di fiducia di D'Alema. L'ex leader del Pds cita sia lui che Bonavita come partecipanti alla trattativa tra il governo colombiano e le aziende italiane. Sul sito dello studio Gardo è specificata l'attività di consulenza societaria e fiscale negli Stati uniti, in particolare a New York e Miami.

Sulla pagina online, tra i commenti favorevoli c'è anche quello di Bonavita. Gardo e Bonavita sarebbero stati a Cartagena il 14 dicembre presso la Cotemar (l'omologo di Fincantieri in Colombia) per un incontro con l'ammiraglio Rafael Callamand. Insieme con loro ci sarebbe stato anche il responsabile per l'America Latina di Fincantieri Stelio Antonio Vaccarezza. Altro soggetto appartenente al team dalemiano è Giancarlo Mazzotta, politico pugliese di Forza Italia e già sindaco di Carmiano, comune sciolto per presunte infiltrazioni mafiose.

Mazzotta è attualmente imputato in due processi (in uno è in attesa dell'udienza preliminare), accusato di diversi illeciti, dalla frode processuale all'istigazione alla corruzione ai reati fiscali.Questa è la squadretta che va in giro per il mondo a rappresentare l'ex premier. A fine gennaio Bonavita, Gardo e Mazzotta sono a Bogotà per seguire le trattative e accogliere alcuni importanti manager italiani di Fincantieri e Leonardo. 

Per l'azienda navale atterrano Giuseppe Giordo, general manager della divisione militare, Achille Fulfaro, vicepresidente vendite e direttore commerciale, Vaccarezza, e Aurora Buzzo, project e negotiation manager. Il 27 gennaio i quattro si recano presso il circolo della Marina militare per la presentazione ufficiale dell'azienda tricolore in vista della conclusione dell'affare. Il pomeriggio firmano un memorandum of understanding con due capitani di fregata, advisor per gli acquisti della Marina colombiana.

Nelle stesse ore Bonavita accompagna il rappresentante di Leonardo in Sud America, Carlo Bassani, al ministero della Difesa. Bassani aveva già avuto un contatto con il gruppo colombiano a novembre quando aveva inviato i suoi componenti all'Expodefensa di Bogotà per fare la loro conoscenza. Prima dell'incontro al ministero della Difesa del 27 gennaio, a quanto risulta alla Verità, ci sarebbe stata nella stanza di Mazzotta al Sofitel una call a cui parteciparono fisicamente Mazzotta, Gardo, Bonavita, Amato e Caruso e in video si collegarono Marfé, rimasto in Italia causa Covid, e D'Alema.

Al centro della call la firma dei contratti di Allen, indispensabili per lo sblocco dell'affare.In vista dell'appuntamento, Marfé, il 17 gennaio, aveva scritto un messaggio Whatsapp a Gardo in cui si era discusso proprio di Allen: «Credo che per fine settimana avremo ultimato il processo di due diligence». Risposta del commercialista: «Grazie dell'aggiornamento. Con la fine del processo di due diligence spero possa essere definito anche l'incarico formale. Spero di avere conferma della data in giornata, mi aggiornerò con Robert Allen Law nel pomeriggio». 

Marfé rassicura Gardo sul contratto per lo studio legale: «Assolutamente sì, su incarico formale, ne ho parlato ai massimi livelli per evitare rallentamenti». Ma a quanto ci risulta i red alert «reputazionali» su una società che dovrebbe occuparsi di compravendita di barche di lusso avrebbero fatto incagliare definitivamente l'accordo.

L'8 febbraio 2022 era prevista una videoconferenza con il ministro della Difesa Diego Andrés Molano Aponte, D'Alema e gli amministratori delle società, ma non si è svolta per questioni burocratiche.In una mail preparatoria del 3 febbraio inviata all'Ufficio di Presidenza della Repubblica della Colombia da parte del gruppo di lavoro locale si legge che alla «riunione virtuale» per «presentare la proposta di collaborazione con le forze armate colombiane» avrebbero dovuto prendere parte l'amministratore delegato di Leonardo Alessandro Profumo e il direttore generale di Fincantieri Giuseppe Giordo «insieme al presidente Massimo D'Alema [] e all'avvocato Umberto Bonavita».

Quando viene riprogrammata la videoconferenza D'Alema non avrebbe più risposto. In compenso l'8 febbraio si è tenuta una riunione tecnica via etere a cui avrebbero preso parte anche Bassani e Bonavita, gli stessi che si erano recati al ministero della Difesa.Marfé il 9 febbraio, a proposito della call del giorno precedente, scrive a Gardo per chiedere un parere sul fatto che alla Webex «non abbia partecipato nessuno dell'Aeronautica Militare della Colombia, ma bensì solo rappresentati della Marina». 

Per questo propone di potersi sentire nei giorni successivi «per fare il punto della situazione dell'iniziativa e definire/condividere i prossimi passi». Gardo, prova a tranquillizzarlo e assicura che sarà loro «cura approfondire tale argomento e capire le intenzioni a livello istituzionale» per poi «concordare i prossimi passi e definire tutte le formalità a oggi ancora sospese».

Interessantissimo quanto dice D'Alema il 10 febbraio 2022 a proposito del contratto che le aziende italiane sarebbero state sul punto di firmare prima dell'esplosione del Colombia-gate: «Per Fincantieri mancano due settimane, credo, ancora. C'è una seconda particolarità di questi contratti che voglio sottolineare. 

Normalmente i contratti di promozione commerciale hanno un tetto, un "cap", in inglese. In questo caso no. In questo caso è un contratto commerciale al 2% del business, dell'ammontare del business. Questa è una decisione straordinaria, non è stata facile da conseguire. È chiaro? Perché il valore di questo contratto è più di 80 milioni. Quindi, anche per questo, diciamo, ci vuole un po' di tempo. Però io sono in grado di ga-ran-ti-re nel modo più assoluto che i contratti si stanno facendo e saranno fatti».

Poi specifica un «altro tema» che ritiene particolarmente importante: «Noi abbiamo chiesto che i contratti prevedano, oltre al "success fee" anche un compenso come "retailer", come rimborso spese, diciamo. Su questa seconda parte non abbiamo ancora ottenuto una definizione quantitativa, però, sarà parte anche questo del contratto, o forse si farà un piccolo contratto ulteriore, diciamo». 

L'ex ministro degli Esteri cerca di allettare gli interlocutori, dopo che è saltata la riunione tra il ministro della Difesa colombiano e i rappresentanti delle aziende italiane: «Noi abbiamo preso impegno, noi e anche Robert Allen, la società americana, che tutti i compensi, a qualsiasi titolo ricevuti, saranno suddivisi al 50% con la parte colombiana. Mi riferisco a tutti i compensi che avrà Robert Allen a qualsiasi titolo, a tutti i compensi che riceverà da Fincantieri e da Leonardo, a qualsiasi titolo come success fee o come rimborso spese. Tutti questi, tutti, saranno divisi a metà con la parte colombiana».

D'Alema parla a nome di Allen con il gruppO colombiano che non lo ha ancora ingaggiato, ma che, è il consiglio, dovrebbe farlo. Perché rivolgendosi a uno studio legale americano il contratto «sarà sottoposto al controllo delle autorità degli Stati uniti d'America» e di quelle europee, cosa fondamentale per un Paese chiacchierato come la Colombia, a causa del narcotraffico e del riciclaggio, ma soprattutto perché «la legge americana protegge il rapporto tra il legale e il suo cliente, con il segreto. Se invece è un contratto puramente commerciale non c'è segreto». 

D'Alema vuole capire se il business si possa chiudere «in tempi stretti», prima delle elezioni legislative colombiane di maggio, e poi cerca rassicurazioni: «Ma davvero il Parlamento e il governo della Colombia possono fare questo acquisto senza una gara. Internazionale, senza un "tender"?». 

Dopo aver ascoltato la risposta dell'interlocutore, riattacca: «C'è un problema politico: prima o dopo le elezioni?». Poi fa sapere: «Il comandante della forza aerea colombiana verrà in Italia il 28 febbraio. Sarà ospite di Leonardo. E anche del governo italiano. Io chiederò di incontrarlo. È utile che io lo incontri. Se voi gli fate avere il messaggio che è utile che incontri anche me, tutto diventa più facile».

Il 28 febbraio sul sito Internet, Sassate, è uscito il primo articolo sulla nuova passione da venditore di armi di D'Alema. C'è stato l'incontro? Non ci risulta. Nel frattempo, ieri, l'aviazione militare colombiana ha annunciato l'avanzamento delle trattative per l'acquisto di 21 F16 della statunitense Lockheed. Anche perché i sudamericani inizialmente non volevano gli M-346, aerei da addestramento, ma gli Eurofighter (prodotti da un consorzio europeo di cui fa parte anche l'Italia con Leonardo). In questo caso, però, l'acquisto non sarebbe stato gestito da D'Alema & C.. Per questo ad Amato e Caruso in uno degli incontri con l'ex primo ministro a Roma sarebbe stato chiesto di «orientare le potenziali necessità del comparto aereo» colombiano verso gli M-346. Sembra con scarsi risultati.

Le armi di D'Alema: affare da 4 miliardi. Ecco la sua rete. Luca Fazzo il 3 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'ex premier di una chiedono sarebbe il mediatore fornitura con la Colombia Fdi e Iv chiarimenti.  

Un caso Beppe Grillo-Moby moltiplicato per mille, un signore che non è in Parlamento ma che conosce assai bene i palazzi della politica e i modi per oliare un affare. E che affare. Perché il signore in questione si chiama Massimo D'Alema, è stato segretario del Pds, ministro degli Esteri e presidente del Consiglio. E due mesi fa si è proposto al governo colombiano come mediatore di una commessa da quattro miliardi di euro per navi, sommergibili e aerei da guerra prodotti dalle aziende di Stato italiane. In particolare da Leonardo, l'ex Finmeccanica presieduta da un ex banchiere di area ulivista come Alessandro Profumo. Lo stesso che nel 2015 partecipò alla cena da mille euro a coperto per finanziare la fondazione di D'Alema. Dalla Procura di Roma si apprende che per adesso nella vicenda non si intravvedono profili di rilevanza penale. Ma la rilevanza politica è evidente, e altrettanto cospicui gli interrogativi che attendono risposta, con Fdi e Iv che già annunciano un'interrogazione al governo. Perché una trattativa tra l'Italia e il governo colombiano per la fornitura bellica era già in corso dal 2018, nell'ambito dei piani di collaborazione tra i paesi. Oggetto, tra l'altro, gli aerei prodotti da Leonardo. Che a dicembre quando sente sul collo il fiato della concorrenza coreana, chiede l'appoggio del governo, che ovviamente arriva. Incontri e trattative si susseguono. Fin quando a metà febbraio una stupefatta ambasciatrice colombiana a Roma chiama il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè e gli dice di avere ricevuto una chiamata di D'Alema che si offriva come mediatore della fornitura per incarico di Leonardo. Mulè chiede spiegazioni, Leonardo nega tutto. Il problema è che D'Alema non millantava affatto. L'ex premier quell'incarico dalla azienda del suo amico Profumo l'ha ricevuto davvero, nonostante la legge 185 vieti l'utilizzo di mediatori nelle forniture di armi. E nonostante una trattativa ufficiale fosse già in corso. Perché Leonardo si affida a D'Alema? «È una domanda dice il sottosegretario Mulè - a cui non riesco a trovare una risposta sensata. Ho chiesto a Leonardo di fornirmene una, ed è da due settimane che aspetto invano». Nel frattempo, il sito «Sassate» rende nota la vicenda. E La Verità pubblica l'audio di una riunione tra una serie di interlocutori sudamericani e italiani in cui D'Alema spiega molto chiaramente che «questo negoziato deve passare attraverso di noi, un solo canale». E l'«obiettivo alla fine è avere un premio di otto milioni di euro». Esattamente il due per cento della commessa. A registrare l'audio, uno dei partecipanti che poi - forse perché estromesso dall'affare - lo mette in circolazione. La versione ufficiale di Leonardo è di non avere dato alcun incarico a D'Alema. Versione solo formalmente vera, perché l'incarico va a uno studio americano, il Robert Allen Law di Miami, che in realtà è uno studio di copertura di D'Alema. E che i rapporti tra l'azienda di Stato e «Baffino» ci siano lo dimostra il fatto che, secondo quanto risulta al Giornale, fin dall'anno scorso una serie di accordi erano stati stretti tra Leonardo e un commercialista bolognese il cui principale pregio è essere il professionista di fiducia di D'Alema. Si chiama Gherardo Gardo, ed era presente per conto di D'Alema ad un incontro il 14 dicembre scorso a Cartagena con alcuni esponenti locali, ma già prima di quell'incontro era in contatto con la struttura operativa di Leonardo. Insomma il 17 febbraio quando Lucio Cioffi, direttore generale di Leonardo, dopo la chiamata dell'ambasciatrice colombiana a Mulè giura al sottosegretario di non sapere nulla di un ruolo di D'Alema forse non racconta tutto. E intanto aspetta risposta un'altra domanda: a chi si riferiva l'ex premier quando nella riunione garantiva che il governo italiano sapeva della sua attività?

Difesa, la mediazione di D'Alema su aerei e navi militari: "Ci dividiamo 80 milioni". Giuliano Foschini su La Repubblica l'1 marzo 2022.  

I mezzi prodotti da Leonardo e Fincantieri dovevano essere venduti alla Colombia 

Una compravendita tra aziende italiane e il governo colombiano per mezzi da guerra: nello specifico due sommergibili prodotti da Fincantieri e alcuni aerei di Leonardo. Una contrattazione portata avanti, nel ruolo di mediatore, dall’ex presidente del consiglio, Massimo D’Alema, per conto di uno studio legale di Miami. E saltata soltanto all’ultimo momento. Sul piatto, per l’intermediazione, 80 milioni di euro.

Giacomo Amadori François De Tonquédec per “la Verità” l'1 marzo 2022.  

I venti di guerra devono aver messo appetito anche a Massimo D'Alema. Il quale nei mesi scorsi ha provato a fare da intermediario per una vendita al ministero della Difesa colombiano di 4 corvette Fcx30 e due sommergibili classe Trachinus prodotti da Fincantieri e di alcuni aerei M346 di Leonardo. Un lavoro per cui lui e gli altri broker contavano di portare a casa 80 milioni di euro.

La notizia è stata anticipata ieri dal sito «Sassate» di Guido Paglia intitolato «Difesa-Leonardo-Fincantieri: ecco la passione della "terza età" di D'Alema». Dopo lo scoop è stata una corsa a smentire più o meno ufficialmente. Per esempio, da Fincantieri ci hanno fatto sapere di non aver dato nessun incarico di brokeraggio, né firmato alcun accordo con la Colombia. Stesso discorso da Leonardo. 

Ma per quanto riguarda l'azienda di costruzioni navali esiste anche un memorandum of understanding del 24 gennaio 2022 con le firme di Giuseppe Giordo e Achille Fulfaro, direttore e vice della divisione militare di Fincantieri e dei capitani di fregata German Monroy Ramirez e Francisco Joya Preito per la parte colombiana. In mezzo un «gruppo di lavoro» colombiano, guidato da due broker italiani entrambi quarantenni, impegnati in svariati settori, dall'energia agli armamenti. I rapporti con il governo di Bogotà, inizialmente sono stati tenuti da loro.

Mentre D'Alema per la sua parte si è fatto rappresentare dall'avvocato Umberto Bonavita dello studio di Robert Allen di Miami, specializzato in compravendite di superyacht. Ma evidentemente anche di navi da guerra. I contratti di consulenza, a suo dire, li avrebbe dovuti firmare lo studio statunitense. Alle riunioni con la struttura colombiana ha partecipato come rappresentante di D'Alema anche un ex sindaco pugliese, Giancarlo Mazzotta, con diversi problemi giudiziari. 

Nei giorni scorsi è stato, per esempio, rinviato a giudizio, per i reati istigazione alla corruzione, violazione dei sigilli, frode processuale, abuso edilizio e paesaggistico. Con tutti e tre i figli (uno dei quali consigliere regionale) e un fratello è stato invece richiesto il rinvio a giudizio anche per una cosiddetta frode carosello per ingannare il fisco attraverso alcune società cartiere.

La trattativa per navi e aerei sarebbe andata avanti per sei mesi, a partire dal settembre 2021, e si sarebbe incagliata quando il sottosegretario Giorgio Mulè, esponente di Forza Italia, è venuto a sapere della vicenda: «I rapporti con il governo della Colombia si sono sempre svolti, ovviamente, in totale trasparenza. In Italia, grazie a una consolidata amicizia e stima con l'ambasciatrice Gloria Isabel Ramirez Rios, ho avviato alcuni mesi fa i contatti con le autorità colombiane per approfondire eventuali collaborazioni tra le nostre industrie impegnate nella difesa, in particolare Leonardo, e le forze armate colombiane.

Si tratta di normali attività che avvengono nell'ambito dei rapporti cosiddetti gov to gov cioè tra governo e governo, in questo caso quello italiano e colombiano. Quando, di recente, l'ambasciatrice mi ha fatto presente - non senza stupore - dell'interessamento presso di lei del presidente Massimo D'Alema (che io non conosco) sulle vicende legate a Leonardo in qualità di non meglio precisato "rappresentante" dell'azienda ho rilevato l'irritualità di questo approccio e ne ho informato i vertici di Leonardo e, ovviamente, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini». Per questo gli intermediari del gruppo di lavoro colombiano hanno pensato di essere stati presi in giro e il 24 febbraio hanno inviato un approfondito report alle due aziende in cui ricostruiscono tutta la vicenda.

Per esempio si legge: «[] Tramite incontri svoltisi in Roma nel mese di ottobre con autorevoli figure del panorama politico nazionale, siamo stati eruditi sulle modalità di collaborazione con strutture complesse come Fincantieri e Leonardo in materia di presentazione e di giuste procedure di compliance». Successivamente i broker stranieri avrebbero deciso, su indicazione di D'Alema, «di conferire mandato [] allo studio Robert Allen Law di Miami []».

Una scelta che, a giudizio dell'ex premier, avrebbe garantito il mantenimento del «segreto tra il legale e il suo cliente» al contrario di un banale «contratto puramente commerciale». Ma qualcosa non sarebbe andato per il verso giusto: «Purtroppo, le interlocuzioni con lo studio legale non sono state particolarmente incisive, in quanto, ancora ad oggi, non siamo riusciti a comprendere il tenore delle comunicazioni dello studio e le società dove, nonostante siano state presentate offerte agli indirizzi istituzionali che abbiamo favorito noi stessi, effettuati incontri in Colombia, non abbiamo ricevuto alcun feedback» si legge nella mail.

Ma in tutta la faccenda la parte più interessante è l'interlocuzione del 10 febbraio scorso, tramite una call con un'interprete, di D'Alema con il capo del gruppo di lavoro colombiano. L'ex ministro degli Esteri, dopo aver saputo dell'intoppo con l'ambasciatrice colombiana, ha chiesto di rimanere l'interlocutore privilegiato nelle trattative: «Siccome c'è un dialogo tra i due governi» dice, «noi abbiamo il sottosegretario alla difesa, l'onorevole Mulè, che ha parlato con il viceministro della difesa di Colombia. Per questo è importante che anche io possa parlare con il ministro della Difesa. Io naturalmente informo il governo italiano.

Ma dobbiamo evitare che ci siano due canali paralleli. Perché tutto questo negoziato deve passare tra di noi, attraverso un solo canale. Quindi, dobbiamo dare il senso che noi abbiamo rapporti, non soltanto con i militari e i funzionari, ma anche con il governo. Anche perché l'ambasciatrice di Colombia in Italia, anche lei si sta occupando di questo problema. 

E lei sostiene che ci vuole un accordo tra i due governi, senza altri mediatori, diciamo. Io le ho spiegato che, diciamo, da una parte è lo stato colombiano, è il governo, che compra, ma in Italia non è il governo che vende. Sono due società quotate, non è il governo, quindi non ci può essere un contratto tra due governi. La questione è delicata». 

Il motivo? Semplice: «Perché noi rischiamo di avere delle interferenze in questo negoziato che non è utile che ci siano. Noi abbiamo interesse che il negoziato passi dalle società italiane, attraverso Robert Allen e dall'altra parte le autorità colombiane, senza interferenze».

Il rappresentante colombiano si lamenta per avere dovuto sostenere spese vive senza rimborsi. A questo punto D'Alema specifica: «L'avvocato Bonavita che è venuto in Colombia non ha ricevuto nessun euro, l'avvocato (inc.) non ha ricevuto un euro. Noi stiamo lavorando perché? Perché siamo stupidi? No, perché siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi 80 milioni di euro quindi si può fare un investimento perché l'obiettivo non è quello di avere 10.000 euro per pagare un viaggio adesso, ma alla fine di avere un premio di 80 milioni di euro, questa è la posta in gioco e allora creare delle difficoltà rispetto all'obiettivo perché uno non ha avuto 10.000 euro mi sembra stupido semplicemente stupido». 

Un discorso che riprende pochi minuti dopo: «Non appena noi avremo questi contratti, noi divideremo tutto, sarà diviso tutto, questo non è un problema. Però, ecco, mi sembra che non dobbiamo creare difficoltà per l'obiettivo principale, che è raggiungere il contratto tra le società italiane e il governo colombiano. Quello è il premio importante, non il rimborso spese». 

D'Alema va in pressing: «Oltretutto tra alcuni mesi ci sarà la nomina degli amministratori italiani che potrebbero cambiare io spero di no, ma potrebbero cambiare. Questo potrebbe cambiare le cose. Dobbiamo concentrare lo sforzo per concludere questo accordo entro un paio di mesi. Almeno un accordo generale, diciamo, poi si vedranno i particolari».

D'Alema si lamenta perché nei giorni precedenti sarebbe saltata una call con gli amministratori delegati di Leonardo e Fincantieri e per questo chiede «una chiamata con il ministro e con i ceo delle due imprese italiane (Alessandro Profumo e Giuseppe Bono, ndr)». 

Poi aggiunge: «Se il ministro dice che non vuole incontrare anche in modo virtuale le società, potrei organizzare una call dove ci sono io e magari il viceministro italiano, un politico, senza le aziende». Ma, come detto, in quel momento D'Alema starebbe vendendo la pelle di un orso che non ha ancora catturato. E che anzi potrebbe avergli fatto saltare l'accordo. 

Nell'audio l'ex primo ministro informa il suo interlocutore che il pagamento del team colombiano potrà avvenire solo dopo che lo studio Allen avrà chiuso gli accordi con le aziende italiane. Quindi punta ad allargarsi ad altri mercati dell'America Latina e l'interlocutore gli spiega che è possibile farlo in Argentina, Uruguay, Paraguay e Panama. Purtroppo per lui, sembra che, per ora, non sia riuscito a portare a casa neanche l'affare colombiano. Una mediazione da 80 milioni di euro.

D’Alema, polemiche e accuse sulle armi per la Colombia: soltanto incontri istituzionali. Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2022.

L’ex premier: da quell’affare io non avrei avuto un euro.  

«Barbarie…», sussurra. Poi, subissato dalle domande di amici e conoscenti rispetto alla storia per cui è tornato sui giornali, e cioè l’intermediazione per una fornitura militare di aziende italiane al governo della Colombia, Massimo D’Alema ha spiegato fino a ieri sera la sua versione dei fatti. Anche a proposito dell’audio, pubblicato dal sito del quotidiano La Verità, in cui l’ex premier parla di una provvigione di 80 milioni di euro se l’affare fosse andato in porto («Io non ho ricevuto nessun euro (…). Allora noi stiamo lavorando perché? Perché siamo stupidi? Perché siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi ottanta milioni di euro») e di provvigioni garantite («Noi abbiamo ottenuto il 2% di provvigione, senza alcun tetto. E siamo in grado di garantire la firma del contratto»). Nella vicenda, compaiono studi legali americani (Robert Allen Law), mediatori colombiani e due italiani residenti in Sudamerica (Francesco Amato ed Emanuele Caruso).

Partiamo dal principio. «Io ho una società di consulenza. Mi occupo, diciamo, anche di aiutare le società italiane all’estero. Ma non faccio il negoziatore, non faccio trattative e non incasso provvigioni. Non avrei visto neanche un euro», ha spiegato fino a tarda sera dall’Albania. Sull’opportunità che un ex presidente del Consiglio si occupi di trattative del genere, risponde che lui non lavora con aziende di Stato, anche se la legge non lo impedirebbe. La storia del suo coinvolgimento nella questione colombiana viene spiegata così: «È una storia semplice, con dei rimandi a quell’interesse nazionale di cui evidentemente a qualcuno non importa così tanto…». Comunque sia, è la sua ricostruzione per punti, tutto parte dalla decisione del governo colombiano di ammodernare il proprio sistema militare: aerei da combattimento, corvette, sottomarini. È un settore in cui ci sono eccellenze italiane, aziende del calibro di Fincantieri e Leonardo. Che però, in una prima fase, per usare un gergo calcistico, sembrano non toccare palla. In un secondo momento la situazione cambia. «Nessun incontro con faccendieri o simili. Ma incontri istituzionali a livello di cancelleria, e cioè di ministero degli Esteri», ha spiegato D’Alema in privato riferendosi al fatto che, a un certo punto, i rappresentanti delle aziende italiane sono stati ricevuti da rappresentanti degli Esteri, della Difesa e dell’esercito di Bogotà. Poi questi canali si interrompono, probabilmente per superare il livello successivo della trattativa era previsto un incontro col ministro della Difesa in persona che invece non ha luogo, la commessa sembra saltata. E qua torna in gioco D’Alema. «Con l’obiettivo di riattivare dei canali istituzionali che si erano interrotti. Canali istituzionali, ripeto. Il governo della Colombia. Non faccendieri o cose opache».

Come si muove l’ex presidente del Consiglio per rianimare i fili di un dialogo che sembrano essersi spezzati, per riattivare una trattativa che pare finita su un binario morto? Va a incontrare l’ambasciatrice colombiana in Italia, che sembra rassicurarlo. Parallelamente, si preoccupa, per interposta persona, di sollecitare l’interesse del sottosegretario alla Difesa italiano, Giorgio Mulè. Riassumendo, «non sono andato a trattare né sarei andato in Colombia, non avrei incassato alcuna provvigione. Mi sono limitato a mettere in contatto delle aziende italiane con un governo straniero, ad attivare dei canali ufficiali».

La fine della storia? Probabilmente non se ne farà nulla, la fornitura militare del governo della Colombia sarà appannaggio di qualcun altro. «L’interesse nazionale, le aziende italiane e i loro lavoratori, verosimilmente, non interessavano a tutti quelli che hanno inquinato questa storia anche utilizzando con registrazioni parziali...», è la riflessione dell’ex presidente del Consiglio. Che, sempre in privato, ha notato come le indiscrezioni uscite in Italia abbiano fatto il paio con alcuni articoli usciti in Colombia. Un amico gli ha anche chiesto se non avesse il sospetto che l’emersione della consulenza non fosse un obiettivo per colpirlo, per fargli un dispetto. «Mah — ha riflettuto — e che fastidio posso dare io? Non faccio politica, non faccio nulla. Lavoro e basta».

"No comment…". Quel silenzio a sinistra su Baffino D'Alema. Francesco Curridori il 3 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il caso 'D'Alema-Colombia' imbarazza la sinistra italiana. Se Articolo Uno si fida delle spiegazioni fornite dall'ex premier, il Pd si trincera dietro un silenzio assordante.

“Di D’Alema non parlo”. La vicenda che ha coinvolto l’ex ministro degli Esteri imbarazza non poco la sinistra italiana.

“D’Alema ha chiarito sui giornali questa vicenda. Mi fido della sua versione”, si limita a dire a ilGiornale.it Arturo Scotto, coordinatore nazionale di Articolo Uno, il partito a cui ha aderito l’ex primo ministro dopo l’uscita dal Pd nel 2017. Da Federico Fornaro, capogruppo del partito alla Camera, arriva una dichiarazione praticamente identica. “Dalle armi vendute alla Colombia non avrei preso un euro”, ha assicurato l’ex premier dalle colonne di Repubblica. Ma, al di là degli eventuali risvolti che avrà la vicenda, D’Alema è tutt’ora il primo e unico presidente del Consiglio proveniente dal mondo Pci-Pds-Ds e sorprende notare che il politico, che per tutta la Seconda Repubblica è stato considerato un punto di riferimento per la sinistra italiana, ora sia motivo di imbarazzo. “Non voglio intervenire su questo tema”, ci viene detto da un esponente di spicco del Pd. “Non ne so nulla”, dichiara il deputato Matteo Mauri. “Stavolta passo” oppure “Non parlo perché non mi va di alimentare polemiche”, sono le risposte più frequenti di quei pochi esponenti che decidono di rispondere. Il deputato Walter Verini, invece, taglia corto: “Il Pd pensa al Pd e al paese”.

Eppure D’Alema, solo pochi mesi fa, sembrava aver espresso la volontà di rientrare nel Pd. “Della vicenda dell’intermediazione per conto di Leonardo nulla posso dire, perché nulla so”, chiarisce Nicola Oddati, coordinatore delle Agorà democratiche che si sofferma, invece, sulle recenti dichiarazioni dell’ex premier sulla guerra in Ucraina. “Le opinioni di D’Alema sono sicuramente interessanti, quando si è d’accordo o quando la si pensa in modo diverso. Però oramai – sentenzia Oddati - il suo percorso e quello del Partito Democratico sono diversi, e sono storie non più destinate a fondersi”. Insomma, a Largo del Nazareno si prosegue con la linea espressa da Enrico Letta in Parlamento a sostegno della risoluzione del Governo e delle determinazioni dell’Unione Europea. “Non c’è spazio per sottigliezze geopolitiche teoriche. Putin attenta non solo all’Ucraina, ma alla sua libertà di autodeterminarsi e alla democrazia in quanto tale”, conclude Oddati.

Michele Anzaldi di Italia Viva, invece, invita a distinguere le due situazioni: “Un conto sono le opinioni politiche, un altro è il caso raccontato dalla stampa che D’Alema, in quanto ex presidente del Consiglio, deve chiarire nell’interesse delle Istituzioni. Se fosse vero, sarebbe alquanto sconveniente per un ex premier”. Dal Carroccio arrivano critiche ben più pesanti. "Sinistra imbarazzante: da una parte critica Salvini perché parla di pace e diplomazia, dall'altra tace sugli affari di D'Alema che ha tentato di vendere armi alla Colombia", fanno trapelare fonti della Lega. In Transatlantico anche il deputato forzista Andrea Ruggeri fa notare: “Certo che se fosse successo a Berlusconi, Salvini o Renzi sulla stampa sarebbe scoppiato un casino...". Con D’Alema, invece, prevale l’imbarazzo. Soprattutto a sinistra.

Bugie e amici pericolosi I buchi neri di D'Alema. Luca Fazzo il 4 Marzo 2022 su Il Giornale.

Le dichiarazioni dell'ex premier aprono dubbi sul suo ruolo nella compravendita di armi.

Qualcuno mente, nello strano affare dei quattro miliardi di aerei, sommergibili e navi da guerra che Leonardo e Fincantieri volevano vendere alla Colombia. Per essere precisi: o mente Massimo D'Alema, l'ex leader del Pds ed ex presidente del Consiglio, che mediando l'affare puntava a incassare una ottantina di milioni di provvigione; o mente Leonardo, che nega di avergli affidato alcun mandato. Di certo, chiunque abbia ragione, stupisce il giro di personaggi che ruotano intorno a D'Alema: che nelle interviste dichiara di lavorare con rispettabili colossi come Ernst&Young, ma poi si muove in questa vicenda circondato da personaggi improbabili.

Ieri Leonardo, l'ex Finmeccanica amministrata da Alessando Profumo, ha brontolato perché nelle cronache è stata presa di mira mentre Fincantieri, anch'essa coinvolta nella vicenda, è scivolata in secondo piano. La spiegazione è semplice. Fincantieri ha gestito le sue trattative con le autorità colombiane autonomamente, senza mai chiedere il sostegno del governo italiano. Invece Leonardo a metà dicembre, preoccupata dall'entrata in scena della concorrenza coreana, chiede aiuto a Palazzo Chigi. Il ministero della Difesa interviene, nella persona del sottosegretario Giorgio Mulè, che avvia i contatti con Bogotà. Ed è questo a rendere inspiegabile perché poco dopo venga avviata una trattativa parallela gestita da D'Alema e dai suoi collaboratori. A che serviva, oltre che a procurare a «Baffino» una provvigione colossale?

Per rispondere a questa domanda, servirebbe capire se e quali incarichi D'Alema abbia ricevuto da Leonardo. Ed è qui che le versioni divergono. Leonardo sostiene di essersi limitata a fornire un Nda (No-disclosure agreement, una trattativa riservata) allo studio legale di Miami Robert Allen, e di non avere poi siglato, a differenza di Fincantieri, alcun accordo definitivo; ieri sul Fatto l'azienda di Stato afferma testualmente che «se dallo studio Allan l'hanno passato a D'Alema sono problemi loro». Non ne sapevamo niente, insomma. Peccato che su Repubblica Massimo D'Alema affermi testualmente «io ho subito informato Leonardo e Fincantieri (...) ho parlato con il direttore commerciale di Leonardo». Quindi o D'Alema millanta o l'ex Finmeccanica sapeva bene che dietro lo studio di Miami c'era il nostro ex capo del governo.

Ma non è l'unica cosa che non torna. Nella sua intervista, D'Alema sostiene di avere appreso a un certo punto della faccenda che «non c'erano stati contatti a livello governativo». Non è vero, la trattativa era iniziata fin dal 2018, ma non è questo il dettaglio chiave. D'Alema aggiunge: «Ho parlato con l'ambasciatrice della Colombia. Non ne sapeva nulla. Ne sono rimasto sorpreso e ho provveduto a informare il viceministro della Difesa, Giorgio Mulè». D'Alema spiega di non avere incontrato personalmente Mulè, ma di averne ricevuto il via libera ad andare avanti. Il problema è che D'Alema non spiega perché si sia rivolto proprio a Mulè, che non conosce e che non era la figura istituzionale di riferimento. La spiegazione più ovvia è che a fare a D'Alema il nome di Mulè sia stata proprio l'ambasciatrice, che col viceministro era in contatto da tempo. Altro che «non ne sapeva niente».

E chi è il personaggio che il 17 febbraio va a incontrare Mulè per conto di D'Alema? Giancarlo Mazzotta, ex sindaco di un paese pugliese sciolto per mafia, lui stesso indagato per istigazione alla corruzione e altri reati. Lo stesso Mazzotta che, secondo la Verità, partecipa per conto di D'Alema ai vertici con gli interlocutori colombiani della fornitura. E che quando entra nell'ufficio di Mulè indica al sottosegretario proprio in D'Alema il suo mandante. Risultato: appena Mazzotta inizia a parlare di Colombia, aerei e Leonardo, Mulè lo sbatte fuori, invitandolo a tornare con un mandato ufficiale. Che non c'è, e infatti Mazzotta non si fa più vedere. Ma esisteva invece un mandato informale? In ogni caso è bene ricordare che il reato di traffico di influenze scatta anche se gli appoggi politici vengono solo millantati.

Francesco Grignetti per “La Stampa” il 3 marzo 2022.  

Uno statista che si spende per l'interesse nazionale, e fa ottenere a due società di Stato una commessa da 4 miliardi di euro, oppure un intermediario che mira alla sua fetta di una provvigione da 80 milioni di euro? Non si scappa, questo è il dilemma che investe il ruolo di Massimo D'Alema, ex presidente del Consiglio, che si muoveva dietro le quinte per «facilitare» l'acquisto da parte della Colombia di aerei, radar, corvette e sottomarini, prodotti militari di Fincantieri e Leonardo.

E già fioccano le interrogazioni parlamentari, del partito di Matteo Renzi e di Giorgia Meloni. Lui non ha dubbi: «Ho cercato di dare una mano a imprese italiane per prendere una commessa importante. Ero stato contattato da personalità colombiane. Evidentemente a qualcuno dava fastidio ed è intervenuto per impedirlo. Sia il governo sia l'ambasciata colombiana erano stati chiaramente avvertiti di tutto. Trovo incredibile come sia facile reclutare in Italia qualcuno disponibile a danneggiare il Paese». 

La storia non è così lineare, però. È proprio un esponente del governo, il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulé (Forza Italia) che s' è messo di traverso quando è stato informato dell'operazione. «A metà febbraio - dichiara - l'ambasciatrice della Colombia mi ha chiamato, parlandomi dell'interessamento del presidente D'Alema per conto di Leonardo. Ho sollevato la questione di questo intervento a mio giudizio irrituale.

Da parte mia c'è stata sorpresa nell'apprendere dell'interessamento di D'Alema, perché Leonardo stava già dialogando con il governo colombiano attraverso le normali vie istituzionali». C'è un ennesimo audio di D'Alema, una esclusiva del quotidiano La Verità, registrato dagli interlocutori colombiani di D'Alema, che getta altra luce sulla vicenda. «Noi - scandisce l'ex premier al telefono - abbiamo ottenuto il 2% di provvigione, senza alcun tetto. Un risultato importante. 

E siamo in grado di ga-ran-ti-re la firma del contratto». Ma insiste sulla necessità di tenere un solo canale di trattativa e di schermare il tutto attraverso uno studio legale americano perché «la Colombia è all'attenzione degli Stati Uniti». E se c'è di mezzo uno studio legale, si può ricorrere al segreto professionale. Risultato importantissimo, si potrebbe dire, perché era una commessa da 4 miliardi di euro (per due sottomarini, quattro corvette, ventiquattro aerei M346) da cui gli 80 milioni di provvigione che si sarebbero divisi tra la cordata dalemiana, i soci dello studio Robert Allen Law, e i «colombiani».

Tra essi, anche due improbabili mediatori, i cineasti italiani Francesco Amato ed Emanuele Caruso, residenti in Sudamerica, che per l'ex premier erano consiglieri del ministero degli Esteri della Colombia. 

«Opero da qualche tempo con un incarico delle autorità colombiane nell'ambito della cooperazione internazionale. Premetto che conosco il Presidente D'Alema, persona che stimo ma con cui non ho avuto alcun rapporto d'affari», ci scrive Caruso. È un fatto, comunque, che grazie agli intermediari di D'Alema il 27 gennaio scorso una delegazione di Fincantieri ha presentato i prodotti al ministero colombiano della Difesa, così come il rappresentante di Leonardo in Sudamerica. E un mese prima, Dario Marfé, importante manager della divisione aerei, girava a D'Alema le brochure dei loro prodotti.

Estratto dell’articolo di Camilla Conti per “il Giornale” - 30 Gennaio 2016   

«A Palazzo Chigi c'è l'unica merchant bank dove non si parla inglese». Correva l'anno '99 quando l'avvocato Guido Rossi commentava con una velenosissima battuta la benedizione dell'allora premier Massimo D'Alema alla scalata a Telecom da parte di Colaninno, della razza padana di Gnutti, con la partecipazione di Mps e delle coop rosse di Unipol. […]

Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” - 07 maggio 2006

[…] D’Alema non è il solo.

«Ma è il più attrezzato. Crede nel dialogo: lo cercò ai tempi della Bicamerale. E’ convinto della necessità di riforme costituzionali. Ha il profilo giusto per tutelare i diritti dell’opposizione. Lui stesso riconosce che il tempo della battaglia politica per lui è passato, che il suo futuro è da uomo delle istituzioni. Sarebbe meglio come capo dello Stato che come ministro degli Esteri».

[…] «Anche le battute di Berlusconi su D’Alema con la falce e il martello sul cuore rientrano nella magia delle parole. Sono espressione di una politica un po’ stracciona, di tipo televisivo. La realtà è diversa, in questo caso opposta. Ha ragione Riccardo Barenghi, quando sulla Stampa scrive che D’Alema in questi dieci anni è stato il meno comunista di tutti. Oggi lo considero un liberale. L’uomo delle privatizzazioni. Glielo dice uno che con D’Alema ha sempre avuto rapporti un po’ così...». 

Così come?

«Sempre molto schietti. Talora polemici. Io non posseggo la prudenza teologale dei chierici medievali, sono abituato a dire quel che penso, anche se sgradevole. Ma poi ci siamo parlati. D’Alema è uomo di straordinaria onestà intellettuale: sa riconoscere i propri errori, com’è accaduto dopo la scalata alla Telecom».

La cito:

«Palazzo Chigi, l’unica merchant bank in cui non si parla inglese». 

E ora, proprio lei...

«D’Alema è venuto qui, in casa mia. Pensa che io abbia un minimo di polso di quanto avviene a Milano, ha chiesto di vedermi. Gli ho detto che posso dimenticare i suoi errori, non perdonarli. E’ stato molto spiritoso: ha risposto che lui perdona, ma non dimentica; anche perché quella della merchant bank gliela ricordano tutti giorni. Un po’ come accade ame con la storia dei poteri forti... ». 

Dicono che i poteri forti non vogliano D’Alema.

«Ma quali sono i poteri forti? Io non l’ho ancora capito. Non ho altro potere che quello mio personale, e i poteri forti non fanno capo a persone. In realtà, essi non esistono. Esistono concentrazioni di interessi anche economici, che credo di aver contribuito a dipanare con la legge antitrust ».

[…] Nell’intervista a Paolo Conti del Corriere, Claudio Rinaldi sostiene che D’Alema è uomo di potere anche al di fuori della politica, che i suoi rapporti con il mondo economico lo rendono improbabile come arbitro.

«Quali rapporti? Quelli con Unipol? A parte il fatto che quella scalata anch’io ho contribuito a farla saltare, ormai è evidente che Consorte e Sacchetti non facevano affari per i Ds ma per sé. La questione semmai è rivisitare il sistema delle cooperative. D’Alema ha fama di spregiudicatezza, ma in realtà è a suo modo un moralista». 

«[…] D’Alema è molto cambiato. In meglio. E’ maturato, ha perso quella sicurezza arrogante, ha imparato a usare meglio la televisione. E poi è un borghese; l’idea del comunista straccione non esiste più. […]». […] «[…] D’Alema ha dimostrato in questi anni una grande attenzione verso Milano, la Lombardia. […]». […]

Estratto dell’intervista di Paolo Conti a Claudio Rinaldi per il “Corriere della Sera” il 3 marzo 2022.

“[…] D’Alema è sempre stato un uomo di potere nel senso più lato. Un giurista di sinistra come Guido Rossi ha potuto dire che a palazzo Chigi dirigeva una merchant bank…Ha avuto dimestichezza con personaggi come Giovanni Consorte. Con tutte le mani in pasta, si puo’ fare l’arbitro? E’ uomo molto disinvolto. […] Durante la Bicamerale, D’Alema ha mostrato di non essere molto affezionato all’attuale carta costituzionale. 

Mise in cantiere con disinvoltura cambiamenti radicali. E poi il tratto umano. Non parliamo di una persona cordiale. Tende a essere esplicitamente sprezzante verso i comuni mortali. […] La biografia di D’Alema è composta in gran parte da difese polemiche dei partiti contro la società civile”.  

Fabio Amendolara e Alessandro da Rold per “la Verità” il 3 marzo 2022.  

Quando da Fincantieri è arrivata a Sace, l'agenzia di Stato che si occupa delle garanzie dei crediti all'export, l'informazione preliminare sulla trattativa per la fornitura alla Marina colombiana di fregate e sottomarini nella quale è spuntato Massimo D'Alema, due manager della società, come ha svelato ieri la Verità, hanno risposto subito alla chiamata alle armi, facendo sapere di «non vedere l'ora di collaborare alla transazione». Ora che è scoppiata la bomba Sace sceglie il silenzio. Contattata dai cronisti, la società ha fatto sapere che la posizione ufficiale è «non commentare».

Che l'ex premier Massimo D'Alema avesse fatto di Sace uno dei suoi numerosi ministeri degli Esteri non è un segreto. A dimostrarlo fu la tornata di nomine nelle aziende partecipate statali del 2019, quando durante il governo Pd-M5s di Giuseppe Conte il compagno Max caldeggiò con una zampata la nomina di Rodolfo Errore come presidente e Pierfrancesco Latini come amministratore delegato (quest' ultimo spinto anche dall'ex amministratore delegato di Cdp Fabrizio Palermo). L'operazione non è stata difficile. 

A ratificare i desiderata di D'Alema fu l'attuale sindaco di Roma Roberto Gualtieri, all'epoca ministro dell'Economia e da sempre esponente di spicco della dalemianissima Fondazione Italiani Europei.Errore fu una delle diverse nomine dalemiane di quel periodo, cresciute intorno a Ernst & Young, network mondiale di servizi professionali di consulenza e revisore contabile dove l'ex ministro degli Esteri è presidente dell'advisory board.

Donato Iacovone, capo di Ernst & Young Italia, è così diventato il presidente Webuild-Salini Impregilo, partecipata di Cassa depositi e prestiti: Errore era un partner della società di consulenza. Negli ultimi due anni della Sace dalemiana si è sviluppato un asse di ferro con Fincantieri, un rapporto così stretto che, quando Mario Draghi arrivò a Palazzo Chigi nel 2021, ha fatto sorgere più di qualche domanda allo stesso Mef di Daniele Franco. 

A farsi qualche domanda è stata la stessa Corte di conti nella relazione del 2020 quando sottolineò come «particolarmente rilevante l'esposizione di Sace nei confronti del settore crocieristico (45,8 per cento), in aumento rispetto all'anno precedente (41,4 per cento)». I magistrati contabili chiesero anche di diversificare, vista anche «l'elevata concentrazione» nel settore crociere con Fincantieri.

Non è un caso, fanno notare nelle ultime ore, come la decisione del ministero dell'Economia di riprendersi Sace da Cassa depositi e prestiti (che con Gualtieri, pur restando nell'orbita di Cdp è passata «sotto l'indirizzo e il coordinamento» del ministero) abbia spinto alla fine Errore, il 20 gennaio scorso, a rassegnare le dimissioni. Del resto tra il 2020 e il 2022 l'esposizione dell'agenzia assicurativa statale a garanzia dei prestiti del gruppo di Trieste è arrivata a toccare la cifra di oltre 30 miliardi di euro. 

Per di più, l'incidenza del settore crocieristico sul portafoglio privato di Sace è pari al 45,8 per cento e vale 22,7 miliardi di euro. Il dato è nella relazione sulla gestione dell'ultimo bilancio disponibile di Sace. In questi anni Errore e Latini hanno lavorato sempre nella stessa direzione. E se il primo ha sempre potuto contare su D'Alema, il secondo ha invece avuto sempre un rapporto stretto con Fabio Gallia, ex numero uno di Cdp e attuale direttore generale di Fincantieri.

I due sono stati manager di banche come Capitalia e Bnl, poi nella Cdp di Claudio Costamagna (nominato presidente nel 2015) hanno lavorato insieme, Gallia da amministratore delegato, Latini a capo dei rischi di via Goito. Sul rapporto tra i due si è sviluppato l'incremento della gestione delle relazioni commerciali tra Roma e Trieste. 

E la questione ha creato più di qualche malumore negli ultimi due anni, anche perché concedere così tante garanzie al settore crocieristico durante il Covid non è stato di sicuro una mossa vincente. Senza poi ricordare il caso delle due fregate Fincantieri cedute all'Egitto durante la scorsa primavera, caso che ha creato non poche polemiche in Italia. Errore, come detto, si è dimesso il 20 gennaio. Ma quel rapporto stretto con Fincantieri e D'Alema non si è mai interrotto.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 3 marzo 2022.

Con chi parla Massimo D'Alema nell'audio che abbiamo pubblicato nei giorni scorsi e in cui l'ex premier discuteva di forniture militari da vendere in Colombia? Con un ex comandante delle Autodefensas unidas de Colombia, i sanguinari gruppi paramilitari impegnati nella guerra contro i rivoluzionari comunisti delle Farc. Si tratta di Edgar Ignacio Fierro Florez, meglio conosciuto come Don Antonio. Si era parlato di lui sui giornali colombiani nel 2006, quando gli era stato sequestrato un computer contenente informazioni su «Jorge 40», ovvero l'ex comandante delle Auc Rodrigo Tovar Pupo, condannato negli Usa per narcotraffico.

Nel 2011 anche Fierro era stato condannato da una corte colombiana a 40 anni di carcere per vari reati, compresi numerosi omicidi commessi dai paramilitari. Tre anni dopo Don Antonio, però, ha beneficiato di un «perdono pubblico». Emanuele Caruso, 42 anni, laurea in Scienze politiche, originario di Lecce, con importanti esperienze nel settore della cooperazione internazionale, insieme con il socio Francesco Amato, ha fatto conoscere Fierro a D'Alema.

Successivamente, quest' ultimo ha chiesto e ottenuto di avere un incontro a quattr' occhi (via computer) con l'ex militare, dopo una discussione con Amato: «Ho pensato che era utile che ci parlassimo noi due. Direttamente» aveva commentato l'ex ministro. «Fierro, prima di passare alle Auc, era stato un comandante dell'esercito. I gruppi paramilitari all'epoca erano emanazione del governo di destra per contrastare i rivoluzionari di estrema sinistra delle Farc» ci ha spiegato Caruso. 

«Finite le ostilità, ha ottenuto il perdono pubblico del presidente per aver deposto le armi e per il suo impegno sociale. In Colombia era comandante di un'intera Regione. Chi ha i suoi trascorsi in quel Paese gode di grande considerazione nella zona di provenienza. E apre ancora molte porte nel mondo delle forze armate».

Ma è accusato di tantissimi omicidi «Sono gli orrori della guerra civile» sospira Caruso. Ma D'Alema sapeva con chi stesse trattando? «Sapeva come si chiamava. Non so se abbia fatto delle ricerche». Certo se non lo avesse fatto, per un ex presidente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, sarebbe un errore non da poco. Ma torniamo al cuore degli affari di D'Alema con la Colombia. 

Nel faccia a faccia del 10 febbraio scorso l'ex leader del Pds ha spiegato all'ex sanguinario paramilitare: «Normalmente i contratti di promozione commerciale hanno un tetto, un "cap", in inglese. In questo caso no. In questo caso è un contratto commerciale al 2% del business, dell'ammontare del business. Questa è una decisione straordinaria, non è stata facile da conseguire. È chiaro? Perché il valore di questo contratto è più di 80 milioni».

In spagnolo ha aggiunto: «Nosotros tambien estamos trabahando sin contracto», ovvero «Noi lavoriamo anche senza contratto». Ma perché era disposto a lavorare anche senza accordi in mano? Forse perché pensava di aver trovato il modo di fare molti più soldi del previsto, come aveva spiegato lui stesso, lo scorso dicembre, in un messaggino telefonico a proposito dell'oggetto di una successiva riunione: «La questione riguarda l'esperienza fatta da Fincantieri in Indonesia con un modello contrattuale molto interessante. Un po' diverso da come avevamo immaginato, ma molto più profittevole». 

In effetti a giugno del 2021 Fincantieri si è aggiudicata una maxi gara indetta dalla Marina indonesiana. L'azienda italiana si è accaparrata la fornitura di sei Fremm e di altre due fregate (ammodernate) di classe Maestrale. Secondo le notizie di stampa il valore della commessa, non dichiarato ufficialmente da Fincantieri, sarebbe di 4 miliardi di euro.

Abbiamo chiesto a Caruso di spiegare che cosa intendesse D'Alema con «modello più profittevole». Risposta: «Il sistema applicato in Indonesia consentiva ai broker dei contratti di consulenza molto interessanti rispetto alla mediazione vera e propria che ha un "cap" molto più basso». 

Caruso e il socio Amato il 14 ottobre 2021 avevano scritto a Leonardo per informare l'azienda della loro esistenza e delle loro potenzialità in veste di «consiglieri del ministero per le Relazioni estere della Repubblica della Colombia» con cui stavano «lavorando ad un progetto per la strutturazione di un'Assemblea parlamentare che possa avere una collocazione presso le Nazioni unite federando gli eletti del parlamento di Colombia, Argentina, Uruguay e Paraguay».

Nella mail specificavano che avevano «potuto pianificare una serie di attività Istituzionali e opportunità di cooperazione» nei settori delle infrastrutture strategiche, dell'energia, della sicurezza e della formazione, delle forniture e tecnologie militari, delle miniere. Ma questa tipo di comunicazione non gli aveva dato soddisfazione: «Fincantieri neanche ci ha risposto» continua Caruso, «mentre Leonardo si è limitata a dare riscontro della ricezione della mail e successivamente a invitarci al loro padiglione dell'ExpoDefensa di Bogotà, se non ricordo male, solo dopo il primo incontro con l'ex premier».

E questo come è avvenuto? «Giancarlo Mazzotta, un politico di Forza Italia, che il mio socio già conosceva, gli ha spiegato che ci conveniva incontrare D'Alema per i nostri progetti e ci ha portato da lui. Era inizio ottobre del 2021. Gli abbiamo illustrato quali fossero i capisaldi del progetto di federazione dei paesi dalla sicurezza all'ambiente. E quindi abbiamo iniziato a parlare di armi. A questo punto lui ci ha detto di avere relazioni importanti in seno alle partecipate italiane leader di quel mercato». 

Vi ha fatto i nomi dei suoi contatti? «Ha parlato di amicizia personale con il dottor Alessandro Profumo e con il dottor Giuseppe Giordo». Ve li ha presentati personalmente? «No. Giordo lo abbiamo conosciuto in una videoconferenza e durante una visita istituzionale a Bogotà. Profumo mai» Con chi avevate interlocuzioni dentro a Leonardo? «Dirette con nessuno. Abbiamo parlato una sola volta in una videoconferenza di gruppo con Dario Marfé. Però i rapporti con le partecipate li tenevano il presidente e i suoi uomini». Ma quindi quanto sostenuto da D'Alema e cioè che il suo ruolo è stato solo quello di presentarvi ai vertici delle partecipate non è corretto? «Assolutamente no, perché tutti i documenti, tutte le proposte delle aziende le abbiamo ricevute direttamente dal presidente o dai suoi uomini, in particolare Mazzotta».

E chi sono i suoi collaboratori? «Noi parlavamo con Gherardo Gardo, un commercialista di estrema di fiducia del presidente, e con Mazzotta, che ha confidenza con il presidente (si danno del tutto), anche se ci meravigliava il fatto che fossero di due aree politiche opposte». Quindi voi i rapporti con Fincantieri e Leonardo li avete avuti sempre mediati? «Assolutamente sì, nonostante la presentazione che abbiamo inviato via mail».

E i soldi di cui parla D'Alema, più di ottanta milioni, sotto quale forma dovevano arrivare? «Mediante un contratto di consulenza allo studio di Robert Allen, professionista di riferimento del presidente D'Alema per le sue attività svolte all'estero. Come ci ha confidato l'ex premier in persona». 

Anche voi avete preparato un mandato per quello studio «Su indicazione diretta del presidente D'Alema. Lui ha giustificato la segnalazione con motivi di trasparenza e controlli. Ci ha spiegato che è uno studio legale esperto di transazioni internazionali che avrebbe superato le restrittive condizioni di compliance dettate dalla politica delle società a partecipazione pubblica». 

Nell'affare c'era "solo» il 2 per cento dei contratti o c'era anche qualcos' altro? «Oltre al 2 per cento c'era la gestione mediante società da gestirsi il loco delle opere propedeutiche all'installazione delle tecnologie militari e le opere civili presso le strutture militari in cui sarebbe avvenute le forniture, come l'allargamento delle piste aeree o l'ampliamento dei cantieri navali. Per gli aerei si parlava di altri 500 milioni. Per le navi di 200 milioni». E in questo D'Alema c'entrava qualcosa? «Ci avrebbe segnalato delle persone da inserire all'interno della società da costituire in Colombia e a cui sarebbe stata affidato il compito di realizzare le opere».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 4 marzo 2022.

Massimo D'Alema per giustificare il suo intervento nella trattativa per una commessa da 4 miliardi di euro con le forze armate colombiane ha dichiarato di essere stato contattato da «personalità politiche» dello Stato sudamericano. Ma non ha fatto i loro nomi. A quanto ci risulta i suoi interlocutori, sin dall'inizio, sono stati due italiani, Emanuele Caruso e Francesco Amato, a cui poi si è aggiunto un ex comandante dei gruppi paramilitari colombiani di estrema destra messi al bando una quindicina di anni fa.

Edgar Ignacio Fierro Florez, meglio conosciuto con il nome di battaglia di Don Antonio, è stato anche condannato a 40 anni di carcere per i suoi delitti, ma a lui D'Alema si rivolgeva con deferenza. Sapeva chi fosse? «Io lo avevo detto al suo stretto collaboratore Giancarlo Mazzotta. Anche che aveva militato nelle Autodefensas unidas» ci ha spiegato Amato. 

Fa sorridere pensare che l'ex leader comunista si sia trovato a fare affari con un estremista di destra accusato di aver ucciso gli avversari politici e di aver militato in milizie coinvolte anche nel narcotraffico, a partire dal capo supremo Salvatore Mancuso, estradato negli Usa e poi graziato.

Fierro è stato cacciato dall'esercito regolare quando era capitano per aver organizzato una perquisizione dove non c'era niente da perquisire. Si arruolò subito nelle Auc e per tre anni ebbe incarichi di comando. Il suo gruppo, nella zona che controllava, seminò il terrore, massacrando attivisti per i diritti civili, sindacalisti, professori universitari, commercianti, allevatori, ladruncoli e tossicodipendenti. 

Quindici persone vennero uccise in un solo week end. Sui siti colombiani ci sono le storie di alcuni di questi morti, in una sorta di Spoon river di persone che, per il loro impegno politico a favore dei più deboli, sarebbero state certamente applaudite a un dibattito alla festa dell'Unità. Tra i nomi più noti dei martiri di questa mattanza il sociologo Alfredo Correa de Andreis. Fierro, che nel mondo delle forze armate, apre ancora qualche porta, era appellato da D'Alema con il soprannome di «senatore», come forse gli era stato presentato, anche se era solo un pregiudicato.

D'Alema con i giornali amici ha rivendicato di essersi interessato alla vendita di aerei e navi da guerra solo per amor di Patria, non certo per mettere da parte gli oltre 80 milioni di euro che aveva promesso a Fierro si sarebbero divisi alla fine dell'affare. «È un contratto commerciale al 2% del business, dell'ammontare del business. Questa è una decisione straordinaria, non è stata facile da conseguire» ha trillato con l'ex comandante delle Autodefensas unidas de Colombia.

Ma con Repubblica si è schermito, assicurando di non avere ben chiaro che cosa «possa essere il success fee in un'operazione di questo tipo». Peccato che il premio da 80 milioni a cui ha fatto riferimento dell'audio che abbiamo pubblicato in esclusiva corrisponda esattamente al 2% delle offerte da 4,16 miliardi complessivi che Fincantieri e Leonardo hanno inviato, attraverso lo studio Robert Allen law, in Colombia. Nella proposta di Leonardo, per 24 caccia M-346 equipaggiati, manutenzione e opere civili annesse la spesa era di 2,13 miliardi di euro, mentre nel prospetto di Fincantieri 2 fregate Fxc 30 venivano offerte per 900 milioni, 2 sottomarini classe Trachinus a 730 milioni, costi a cui occorreva aggiungere 450 milioni di manutenzione e 50 per servizi logistici, per un totale di 2,03 miliardi.

Grazie a D'Alema i broker italiani e lo studio Allen sono riusciti a portare a casa un memorandum of understanding firmato a Bogotà il 27 gennaio 2022 da Giuseppe Giordo, general manager della divisione militare, e Achille Fulfaro, vicepresidente vendite e direttore commerciale.

Con Leonardo la trattativa per la vendita di 24 caccia era meno avanzata. Era iniziata dall'ufficio più importante dell'azienda di via Montegrappa, quando D'Alema si era rivolto direttamente all'ad Alessandro Profumo, che aveva trasferito la pratica al vicepresidente e capo del commerciale Dario Marfé. 

Quest' ultimo si era subito messo a disposizione del politico per informazione e invio di materiali. L'affare doveva essere sembrato migliore di quello (da 5 aerei) a cui stava lavorando un broker colombiano con la supervisione del ministero della Difesa, anche perché riguardava aerei da addestramento non particolarmente ricercati sul mercato.

A fine dicembre era stato siglato un Nda, un non disclosure agreement con l'avvocato Umberto Bonaventura dello studio Allen, accordo di riservatezza propedeutico alla due diligence e all'eventuale firma di un contratto. Il nome dello studio, come detto, è stato segnalato dall'ex premier. 

Ma a destare i primi sospetti in Leonardo sarebbe stato l'incontro organizzato per un loro manager, Carlo Bassani, al ministero della Difesa di Bogotà, a cui avrebbero partecipato ufficiali della Marina che sembravano più interessati agli elicotteri che agli aerei.

All'azienda sarebbero apparse eccessive anche le provvigioni richieste e il core business dello studio Allen, specializzato nella vendita di yacht di lusso.

L'8 febbraio viene organizzata una conference call. Che finisce in modo disastroso, come racconta Mazzotta, stretto collaboratore di D'Alema in questo business, a Caruso: «Caro Emanuele sono profondamente e amareggiato per la pessima figura di oggi. Alle ore 17 ero a Roma nello studio del presidente e, purtroppo, alle 17 e 30, si è collegata solo la parte italiana e più precisamente: il Presidente, il direttore generale di Fincantieri Spa, dottor Giuseppe Giordo, e l'amministratore delegato di Leonardo Spa dottor Alessandro Profumo.

Nessuno della parte colombiana si è collegato. Come ti ho anticipato si registra purtroppo una brutta battuta di arresto che rischia di compromettere definitivamente ogni forma di collaborazione. Mi sono speso personalmente con il Presidente, mettendoci la faccia, e francamente, nonostante i miei ottimi rapporti con lui, credo che si sia disaffezionato a proseguire». 

In realtà due giorni dopo D'Alema chiede e ottiene di avere una call a quattr'occhi con Don Antonio, il criminale della guerra civile colombiana.Il 21 febbraio l'avvocato Bonavita scrive ad Amato: «Questa settimana chiudo definitivamente con le ditte italiane. Entro giovedì devo avere in mano i due contratti». Cioè entro il 24. Ma nessuno si fa più sentire e i due broker inviano alle due aziende un report in cui ricostruiscono tutta la loro attività per arrivare al risultato, dagli incontri romani «con autorevoli figure del panorama politico nazionale» alle interlocuzioni «non particolarmente incisive con lo studio Allen».

Uno sfogo che mette definitivamente in allerta i vertici di Leonardo e manda all'aria il progetto. Ma quanto ci abbia creduto D'Alema emerge dai messaggi apparsi sul gruppo Signal aperto dai due broker italiani con «Massimo D.» a cui risulta collegato un numero di telefono riconducibile all'ex premier. Qui Massimo D. distribuiva informazioni e consigli, in italiano e spagnolo.

Negli sms fa riferimento a memorandum e accordi di riservatezza, a «informazioni relative a Fincantieri» smistate «da Giancarlo» e al «catalogo di Leonardo» che sarebbe arrivato «in giornata». 

Quindi mette in guardia Amato: «L'importante è che Fincantieri e la Marina colombiana si capiscano. Il nostro obiettivo è che dopo il 14 (dicembre, ndr) inizi una trattativa diretta. Non dimenticare che stiamo aspettando l'invito di Leonardo, invito che deve essere inviato a Robert Allen». L'obiettivo è far fuori i concorrenti: «Va tutto bene, abbiamo solo il problema dell'azienda colombiana che ha già un contratto con Leonardo, ma lo risolveremo. Ora dobbiamo mandare gli inviti a Robert Allen e alle due società».

Sui soldi tranquillizza l'interlocutore: «Devi avere pazienza e fare la tua parte, stiamo andando bene e alla fine avrai grandi vantaggi ora è importante che arrivino gli inviti». Qualcuno parla di riunione e Massimo D. lo corregge: «Non abbiamo una riunione. Abbiamo un saluto. Il Ceo di Fincantieri ringraziera il senatore (Fierro, ndr) per il suo impegno per promuovere la collaborazione tra i due Paesi. lo mi uniro. Assicureremo il nostro impegno. Se Giancarlo vuole assistere io non ho problemi. Ma in silenzio». 

In una mail inviata allo studio americano, i broker scrivono che Fincantieri è una società collegata a Leonardo. Massimo D. li corregge: «Fincantieri non è del gruppo Leonardo, ma non e un problema. Loro risponderanno che sono pronti a venire il 7 o l'8 (dicembre, ndr). Hanno concordato già tra la società e gli avvocati. Prima non ce la fanno».

La visita a Cartagena, negli uffici della Cotemar, armatore pubblico colombiano, avverrà qualche giorno dopo, il 14 dicembre. «Verranno con una proposta strutturata. Compresa la parte finanziaria» anticipa sempre Massimo D.. Esattamente quello che i colombiani troveranno nella proposta. Amato e Caruso ricevono precise istruzioni: «Tutti gli inviti e le manifestazioni di interesse dovrebbero andare allo studio americano, cioè a Umberto, quando abbiamo le carte in mano negoziamo con le aziende (Leonardo e Fincantieri). È assolutamente necessario evitare che gli inviti vadano direttamente alle aziende». Così da evitare di perdere le sontuose provvigioni.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 5 marzo 2022.

Dall'audit interno di Leonardo sta emergendo che lo studio Robert Allen law di Miami a cui l'azienda stava preparando un contratto di mediazione per un affare da 2,13 miliardi (vendita di 24 caccia da addestramento) era un accordo capestro. L'avvocato presentato da Massimo D'Alema come intermediario a 24 carati voleva essere pagato in anticipo e con provvigioni fuori mercato. L'azienda aveva deciso che sino a 350 milioni di euro di acquisti non avrebbe corrisposto nulla, perché aveva già in mano una commessa di quell'importo, per 5 aerei. 

Oltre i 350 milioni scattavano provvigioni al 2 per cento e un premio al raggiungimento dei 2 miliardi. Tutte questioni citate da D'Alema quando, discutendo con l'ex sanguinario comandante dei gruppi paramilitari colombiani Edgar Ignacio Fierro Florez, parla di «risultato straordinario». Ma Leonardo voleva pagare solo a risultato ottenuto. Per questo sarebbe saltato l'accordo.

Ma se D'Alema ha introdotto negli uffici di Leonardo e Fincantieri un avvocato quanto meno poco esperto di vendite di armamenti, la vera cosa incredibile è che un uomo che è stato presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e presidente del Copasir abbia passato ore a parlare e scrivere con due presunti broker pugliesi che più andiamo avanti con le indagini e più assomigliano ai protagonisti di Tototruffa. Emanuele Caruso e Francesco Amato sono una strana coppia che si conosce un paio di anni fa attraverso comuni amici. Entrambi sono di origine pugliese. 

Il primo, 42 anni, originario di Copertino (Lecce), su Internet è praticamente inesistente. Nel 2016 è stato eletto come consigliere comunale del Pd a San Pietro in Lama e nel 2017 ha lasciato l'incarico perché accusato da un'assessora di essere una «persona avvezza alla menzogna».

Negli ultimi anni non ha dichiarato redditi in Italia e gli ultimi incassi ufficiali risalgono al 2009, 590 euro da una banca. In questi giorni è stato avvistato presso il palazzo della Regione Puglia. L'amico trentasettenne di Lequile (Lecce), anche se da anni vive a Malaga, Francesco Amato, riteneva che il collega fosse in una qualche sede di una fantomatica «Difesa avanzata», una specie di branca dei servizi segreti. 

Ma a Caruso la fantasia non deve mancare visto che si è autonominato dirigente dell'Osservatorio per l'antiterrorismo in Medioriente e segretario generale della Camera EuroMediterranea per l'industria e le imprese che avrebbe il patrocinio dell'Assemblea parlamentare del Mediterraneo, rilasciato «mediante atto pubblico» nientemeno che da «Sua eccellenza ambasciatore Sergio Piazzi», ovvero l'ex alto funzionario dell'Onu che da otto anni ha l'incarico di segretario generale dell'organizzazione internazionale che raggruppa 34 Paesi del Mediterraneo che tramite lo strumento della diplomazia parlamentare sostengono l'integrazione e collaborazione pacifica dell'area del Mare nostrum.

Presidente della Camera EuroMediterranea risulta essere Baddredine Toukabri, cinquantaquattrenne tunisino residente anch' egli in provincia di Lecce; negli anni 80 ha lavorato per un po' di tempo presso l'Ambasciata statunitense di Roma. Ma le qualifiche di Caruso, che poi ha distribuito nomine anche al compare Amato, non sono finite. Per esempio, nei documenti che manda in giro, si definisce direttore pro tempore della Polizia mediterranea, naturalmente collegata all'Assemblea. 

Il contatto telefonico di questa presunta forza pubblica è il cellulare di Caruso e l'indirizzo della sede ufficiale di Perugia si trova in una zona non proprio ben frequentata.Nella documentazione in possesso della Verità c'è anche il verbale di una presunta «prima riunione plenaria programmatica delle attività 2021-2022» dell'Assemblea del Mediterraneo. 

È il 6 settembre 2021 e sette presunti membri dell'istituzione si sarebbero riuniti per raccogliere la proposta di costituire un'assemblea gemella in America Latina, guidata dalla Repubblica della Colombia. «La proposta presentata da strutture patrocinate come la Camera dell'Industria e delle imprese del Mediterraneo e la Polizia del Mediterraneo» prevedeva un protocollo da far gestire da una serie di personaggi colombiani, tutti coinvolti, come sorprendersi, nella trattiva per le armi di Leonardo e Fincantieri, compreso l'ex squadrista delle Auc. 

Tanto che il progetto era rivolto «principalmente per l'integrazione dei paramilitari che hanno aderito alla pace e agli accordi di disarmo e vittime degli eventi legati agli scontri degli anni passati». Così, testuale.

Nel verbale si legge che Caruso si sarebbe interfacciato sul punto con Piazzi, che da 37 anni vive all'estero e nella sua carriera è stato per esempio capo delle operazioni umanitarie in Ruanda e nel Corno d'Africa. Abbiamo chiesto al segretario generale Piazzi che cosa sappia di queste iniziative e abbiamo ricevuto una risposta sorprendente: «Noi ci occupiamo di processi di pace e di corridoi umanitari, come stiamo facendo in Ucraina, non di armi. Emanuele Caruso? Non conosco questo signore, mai sentito in vita mia». 

La Camera EuroMediterranea e la Polizia mediterranea guidate da Caruso dovrebbero avere il vostro patrocinio. «Mai avuto notizia di queste due organizzazioni. Abbiamo l'Interpol, l'Europol, ma non ho mai sentito parlare di polizia del Mediterraneo. Non hanno nessun patrocinio. Non so che cosa siano queste sigle».

Quando gli mostriamo il verbale dell'assemblea di settembre sbotta: «Il logo non è il nostro. Non so niente di quello che si è detto in quella riunione, né conosco qualcuna delle persone citate. Si sono attribuiti un patrocinio e una partnership che non esistono. Qui c'è qualcuno che non ci sta con la testa che si è inventato questo documento di sana pianta. È qualcuno che non sa neanche fare i documenti falsi. Usano un linguaggio che non è quello delle Nazioni unite, a cui fanno riferimento. 

Per di più l'Assemblea del Mediterraneo e l'Onu non hanno nessuna relazione istituzionale al contrario di quanto è scritto. È stato creato qualcosa di estremamente falso. È una cosa tutta inventata e il logo che hanno messo sul documento è un nostro vecchio simbolo in cui non è stata cambiata la precedente scritta in arabo».

Non conosce nemmeno il presidente tunisino? «Mai sentito nemmeno lui» conclude Piazzi. «E adesso se gentilmente mi manda questi documenti io passo tutto al Parlamento italiano e chiedo all'ufficio diplomatico di intervenire attraverso i canali istituzionali preposti. Ci troviamo di fronte a dei truffatori». 

Questi pataccari nel verbale di settembre avevano descritto il logo dell'Union de coperacion para America latina (Ucai), l'organizzazione in via di costituzione. Quel simbolo e quello della Cancelleria (il ministero degli Esteri) della Colombia sono gli stessi che a inizio settembre sono finiti su un altro documento questa volta inviato da Caruso e Amato a Fincantieri e Leonardo per annunciare di aver «accettato» «con grande onore e senso del dovere» «l'incarico di consiglieri del ministro degli Affari esteri della Colombia», nomina avvenuta «nell'ambito dei programmi» che puntano, «mediante il patrocino Onu», alla costituzione dell'Assemblea parlamentare sudamericana.

L'organismo progettato nella riunione fantasma dell'Assemblea del Mediterraneo che a detta di Piazzi non si sarebbe mai tenuta. Insomma un'altra clamorosa fake news. La sede dell'Ucai coincide con l'indirizzo del ministero di Bogotà. Ma uno dei due broker, Amato, che quando era in call con D'Alema faceva collegare in segreto anche il papà Oronzo («volevo che vedesse con chi parlavo»), forse rendendosi conto di aver tirato troppo la corda, ammette: «Non siamo mai stati in quegli uffici e credo che anche la nomina a consiglieri sia falsa». 

Eppure D'Alema si sarebbe bevuto tutto, così come le aziende partecipate: «La lettera di invito alle società italiane in Colombia recava l'intestazione della Cancelleria, cioè del ministero degli Esteri e non di qualche gruppo di cittadini privati» ha detto. Peccato che quelle carte le spedissero i broker pataccari.

Giacomo Amadori François De Tonquédec per “la Verità” il 6 marzo 2022.

Nella vicenda della trattativa mediata da Massimo D'Alema per vendere due fregate, due sommergibili e 24 caccia alle forze armate colombiane i brutti ceffi non finiscono mai. Nei mesi scorsi il quarantaduenne Emanuele Caruso, uno dei due broker ingaggiati in Puglia dall'entourage dell'ex premier (l'altro è il trentasettenne Francesco Amato), ha fatto circolare il resoconto di una riunione fantasma del 6-7 settembre 2021 dell'Assemblea parlamentare del Mediterraneo. 

In quella seduta sarebbe stato lanciato il patrocinio e la partnership a favore di una fantomatica Unione di cooperazione di Paesi sudamericani. Nella relazione erano citate «le persone nominate per la Cooperazione riguardo ai progetti da sviluppare in Colombia». Nell'elenco c'era il capo del «gruppo di lavoro», tale Eder Perneth Caicedo, con ogni probabilità un costruttore di Baranquilla, dove i broker, ma anche D'Alema, stavano interessandosi alla costruzione di un porto.

Nella lista anche il capitano di fregata Francisco Joya Preito che il 27 gennaio 2022 ha siglato il memorandum of understanding con i manager di Fincantieri Giuseppe Giordo e Achille Fulfaro. Infine, nel quartetto che avrebbe dovuto lavorare all'«integrazione dei paramilitari» che si erano macchiati di orribili delitti nel Paese, c'erano altri due esponenti del team coinvolto anche nella trattativa per gli armamenti prodotti da Leonardo e Fincantieri. Si tratta di due ex combattenti delle Autodefensas unidas de Colombia, le famigerate Auc che si sono distinte in operazioni di pulizia etnica e narcotraffico.Il primo è il già da noi citato comandante Edgar Ignacio Fierro Florez. 

Adesso, selezionato con scarsa prudenza dai due broker pugliesi, spunta anche Oscar José Ospino Pacheco. Classe 1966, conosciuto con il nome di battaglia di Tolemaida, è stato accusato tra le altre cose dell'omicidio di Valmore Locarno e Víctor Hugo Orcasita, entrambi assassinati nel marzo 2001, leader sindacali della Drummond, compagnia che in Colombia opera nei settori minerari, ferroviari e portuali.

Per quei delitti Pacheco è stato condannato a 27 anni di prigione. Adesso, come Fierro, dovrebbe essere tornato un uomo libero, come dimostrerebbe il documento di Caruso. Particolarmente interessante è ciò che dice Fierro a D'Alema nella video conferenza del 10 febbraio richiesta dall'ex segretario del Pds dopo un'accesa discussione con Amato. 

A seguito di quella disputa, l'ex squadrista domanda se il «presidente» abbia avuto problemi con il broker ottenendo questa risposta da D'Alema: «Innanzitutto ho pensato che era utile che ci parlassimo noi due. Direttamente. Francesco Amato è un simpatico giovane, a volte fa un po' di confusione, come succede alle persone più giovani. Quindi, qualche volta può essere utile parlarsi direttamente».

Nel medesimo colloquio l'ex paramilitare tratta D'Alema come se fosse un procacciatore d'affari delle aziende statali italiane: «Da parte colombiana abbiamo tutte le condizioni per garantire che Fincantieri e Leonardo abbiano la possibilità di vendere i prodotti offerti. Stiamo praticamente lavorando come agenti di Leonardo e Fincantieri».

L'ex premier, davanti a queste affermazioni di Fierro non batte ciglio e chiede chiarimenti sui tempi dell'operazione, essendo preoccupato per le imminenti elezioni legislative in Colombia. Fierro lo rassicura, spiegando che la politica può essere bypassata grazie ai rapporti con un alto ufficiale dell'Aeronautica: «Il generale è dentro alla nostra squadra. Può aiutarci ad accelerare il processo di acquisto dei prodotti offerti da Leonardo». 

Un eventuale cambio di governo sembra non preoccupare l'ex militare, che dice: «Le persone che abbiamo nel nostro team rimangono in posizioni chiave che possono aiutare a decidere se assumere, acquistare. Sono loro che stabiliscono se è prima o dopo le elezioni». Quindi Fierro conclude: «Il ministro della Difesa se ne andrà tra due o tre mesi, ma ci sono ancora due funzionari che fanno parte della nostra squadra, che possono gestire tutto ciò di cui abbiamo bisogno e tutto ciò per cui ci siamo impegnati con Leonardo».

Ma a rendere ancora più inquietante la storia, oltre alle trattative con spietati ex paramilitari, è la girandola di carte false che il team che collaborava con D'Alema ha esibito per rendere più credibili le proprie proposte. Documenti intestati a istituzioni dai nomi pomposi, ma in realtà praticamente inesistenti. 

Ieri abbiamo recuperato due nuove lettere di patrocinio, apparentemente firmati dall'ambasciatore Sergio Piazzi, segretario dell'Assemblea parlamentare del Mediterraneo. Documenti destinati a Caruso e che offrivano il patronage alle sue creature. In una datata 5 agosto 2021 Piazzi dava la sua benedizione alla «delegazione che andrà a effettuare (che cosa non è chiaro, ndr), mediante il responsabile per le relazioni in America latina, Francesco Amato, presso la Pregiatissima Repubblica di Colombia».

Non è specificato nemmeno da chi fosse composta la delegazione, ma quasi certamente il riferimento è ai componenti del gruppo di lavoro citato nel resoconto del 6 settembre, compresi i due ex paramilitari. Nella lettera del 5 agosto viene citato il «presidente Francesco Maria Amoroso», ex parlamentare, anche lui pugliese, di An. 

Peccato che questi sia stato al vertice dell'Assemblea nel 2013 e 2014 e il suo nome compaia in una missiva fotocopia di patrocinio «gratuito» del 2013 che la Apm avrebbe concesso alla Camera EuroMediterranea, altra creatura di Caruso. Ma pure di questo documento, Piazzi nega la paternità. L'ambasciatore, dopo averci inviato un format originale, sottolinea: «Qui si può leggere il nome corretto in arabo dell'Assemblea e c'è l'indirizzo vero a pie' di pagina. In più ho controllato che, per le rare occasioni di patrocinio, inviamo messaggi di posta elettronica e non pagine a sé stanti». 

Aggiunge: «È pericolosissimo quanto accaduto e il Parlamento italiano ha contattato la Procura di Roma. Abbiamo inviato tutti i documenti disponibili». Sembra di capire che confermi di non avere mai incontrato Caruso per i patrocini «Assolutamente no e non ho mai saputo nulla della sua Camera EuroMediterranea. Ho dubbi che esista». Quando contestiamo a Caruso i documenti del patrocinio dell'agosto del 2021 e la relazione della riunione della Apm del 6 settembre, nega di averli inviati a chicchessia: «Io non conosco questi documenti. Non so chi le abbia mandato queste carte», ci assicura. 

Successivamente ci ha inviato una richiesta di codice fiscale inoltrata all'Agenzia delle entrate un anno fa per la Polizia Mediterranea ovvero una «Polizia volontaria internazionale» con sede in via del Macello 31 F, a Perugia. «La polizia è regolarmente costituita e ha avuto la visita della Digos poco tempo fa per la verifica del patrocinio del ministero degli Affari interni (sic, ndr)» insiste.

«E mi dispiace che iniziative sulla legalità possano screditare le persone. Forse non sono così matto e cazzaro. Se poi qualcuno vorrebbe (sic, ndr) farmi passare per questo non posso starci». In realtà all'indirizzo della nuova presunta forza dell'ordine si trova solo uno studio di commercialista che fa da sede legale dell'associazione. Caruso nega anche di aver fatto il consigliere comunale del Pd a San Pietro in Lama (Lecce), e di essersi successivamente dimesso. 

In effetti si è candidato, ma è stato primo dei non eletti con una quarantina di voti in una civica spostata verso il centro-destra, ma rinforzata con tre tesserati del Pd, tra cui Caruso. Che nei mesi successivi ha polemizzato con gli ex compagni di partito insieme con un'altra candidata. Su Internet i due avevano scritto: «La reiterata sequela di eventi, comunicati e commenti, senza ottenere risposte ma, anzi, continuando a subire attacchi ed insulti, ci lascia spoetizzati». Anche noi, di fronte a questa storia, ci troviamo un po' «spoetizzati».

Giacomo Amadori per “La Verità” il 7 marzo 2022.

La vicenda della compravendita di armi gestita da una strana banda di intermediari in affari con Massimo D'Alema è finita in Procura come annunciato ieri dalla Verità. L'ufficio giudiziario prescelto dall'Assemblea parlamentare del Mediterraneo (Apm), organismo che tesse relazioni diplomatiche tra i Paesi che si affacciano sul Mare nostrum, è quello di Napoli dove la Apm ha la propria sede ufficiale. 

A far scattare la denuncia sono stati i documenti farlocchi pubblicati dal nostro giornale e utilizzati per accreditare sia presso le istituzioni colombiane che presso le aziende italiane (Leonardo e Fincantieri) due strani broker: i pugliesi Emanuele Caruso, 42 anni, e Francesco Amato, 37. 

Entrambi, a partire dal settembre scorso, hanno iniziato a lavorare a una trattativa che aveva l'obiettivo di vendere alle forze armate colombiane armamenti made in Italy del valore di oltre 4 miliardi di euro e per l'esattezza due fregate Fcx30, due sommergibili Trachinus e 24 caccia da addestramento M-360. 

Ma Caruso e Amato per raggiungere il risultato hanno iniziato a stampare nomine con il ciclostile in fantomatiche organizzazioni internazionali, tutte, sembra, partorite dalla fantasia della strana coppia. A onor del vero Amato con noi ha scaricato sul socio la responsabilità di quel fiorire di enti e incarichi, mentre ha ammesso di aver coinvolto nell'affare, grazie ai suoi ganci colombiani, i due sanguinari ex paramilitari Edgar Ignacio Fierro Florez e Oscar José Ospino Pacheco.

Amato, che dice di vivere in Spagna, sarebbe entrato in confidenza con potenti famiglie sudamericane di latifondisti da responsabile per l'acquisto di frutta esotica (avocados in particolare) di un importante marchio della grande distribuzione. La Apm di fronte alle lettere di patrocinio tarocche ad associazioni come la Polizia del Mediterraneo e la Camera EuroMediterranea per l'industria e le imprese ha deciso di rivolgersi alla magistratura, come ci aveva anticipato il segretario generale Sergio Piazzi.

Ieri è stato diramato un comunicato ufficiale: «L'Assemblea Parlamentare del Mediterraneo ha presentato sabato 5 marzo una denuncia presso la Procura di Napoli, città in cui ha sede il Segretariato dell'Apm, a carico del sedicente Emanuele Caruso e altri soggetti ignoti in relazione a quanto emerso da due articoli pubblicati dal quotidiano La Verità su presunte intermediazioni per la vendita di armi in Colombia», si legge nel comunicato. 

Che prosegue così: «In questi articoli si dava conto di presunti rapporti tra l'Apm e alcuni soggetti, da noi immediatamente denunciati all'autorità giudiziaria per tutelare la nostra organizzazione. Nella denuncia è stato chiarito che ogni informazione pubblicata risulta palesemente falsa, come correttamente riportato dal quotidiano La Verità, che ha ricevuto esaustive spiegazioni da parte del Segretario generale dell'Apm, ambasciatore Sergio Piazzi».

L'atto d'accusa contro i due broker (in particolare contro Caruso) termina così: «Inoltre, come precisato sia a mezzo stampa, che ribadito nella denuncia, non è mai esistito nessun rapporto, né abbiamo mai avuto notizia di persone, associazioni e fatti descritti nei suddetti articoli. Abbiamo quindi denunciato tali circostanze all'autorità giudiziaria al fine di punire gli autori materiali dei reati commessi, ma anche per ribadire l'immediata presa di distanza da vicende che risultano essere le più lontane possibili dalla missione dell'Assemblea Parlamentare del Mediterraneo, che agisce nel pieno rispetto delle norme legislative nazionali e internazionali per promuovere azioni di diplomazia parlamentare, volte a costruire iniziative di pace e sicurezza nell'area Euro-Mediterranea e nel Golfo». Adesso Caruso ed Amato la loro pila di carte e titoli dovranno mostrarli ai magistrati. 

Striscia la Notizia, Massimo D'Alema e le armi in Colombia? Testimonianza-bomba del sindaco: "Quella telefonata..." Libero Quotidiano il 7 marzo 2022

Striscia la Notizia è tornata a indagare sul tentativo di vendita di armi alla Colombia con Massimo D’Alema presunto intermediario. Si tratta di una vicenda piuttosto delicata e scottante, quella di cui si sta occupando Pinuccio. Stasera, lunedì 7 marzo, il tg satirico di Canale 5 ripartirà dall’audio in cui si sente l’ex premier mettere fretta ai suoi interlocutori.

A preoccuparlo sarebbe stato il possibile cambio ai vertici di Fincantieri e Leonardo, che avrebbe potuto mandare all’aria la trattativa da 4 miliardi e quindi l’eventuale commissioni da 80 milioni. L’affare sarebbe stato condotto per conto di Leonardo, l’azienda a partecipazione statale amministrata da Alessandro Profumo, che in passato ha anche sovvenzionato “Italianieuropei”, la fondazione di D’Alema. Pinuccio si chiede se Leonardo sapeva del ruolo dell’ex premier: è andato a rivolgere la domanda direttamente all’azienda attiva nel settore della difesa, ricevendo però come risposta un “no comment”.

Allora l’inviato di Striscia ha indagato sulla pista pugliese dell’inchiesta: Giancarlo Mazzotta, l’ex sindaco di Carmiano - paesino in provincia di Lecce sciolto per mafia - che avrebbe partecipato agli incontri con i colombiani. Mazzotta avrebbe dichiarato che D'Alema, Alessandro Profumo e Giuseppe Giordo (direttore generale navi militari di Fincantieri) si sarebbero incontrati a Roma per una telefonata con la Colombia.

Giacomo Amadori Fabio Amendolara per “la Verità” il 9 marzo 2022.

Il Colombia-gate approda in Senato, in commissione Difesa nell'ambito di una rapida serie di audizioni sull'esportazione di armi italiane all'estero. Lo ha annunciato ieri sera il senatore Maurizio Gasparri: «Ovviamente informazioni e chiarimenti vanno chiesti anche al governo. Ma sarà interessante sentire Profumo, e non solo, sulla questione esportazioni e sulla vicenda Colombia in particolare. Come si è letto e sentito in alcune registrazioni nella questione colombiana, che riguarda la vendita di aerei, navi e altro, sarebbe stato in qualche modo attivo e presente anche l'ex presidente del consiglio Massimo D'Alema».

A proposito della trattativa per 2 fregate, 2 sommergibili e 24 caccia da addestramento verranno sentiti con ogni probabilità l'amministratore delegato di Leonardo Alessandro Profumo, a cui si rivolse D'Alema, e l'ad di Fincantieri Giuseppe Bono. Ma a quanto risulta alla Verità verrà chiamato anche il generale Luciano Portolano, segretario generale della Difesa e direttore nazionale degli armamenti.

«Le audizioni», ha sottolineato Gasparri «ci consentiranno di capire come procede questo export in generale, regolato da chiare norme, ma anche cosa sia successo con la Colombia. Profumo ci dovrà rispondere anche su fatti e circostanze che abbiamo letto sui giornali e sentito in tv. Profumo non ha voluto rispondere alla stampa, ma non potrà non farlo in Senato dove presto lo aspettiamo».

Chissà se verrà convocato sotto gli occhi dell'ex ministro della Difesa Roberta Pinotti (Pd) anche un altro dei protagonisti della trattativa per le armi alla Colombia Giancarlo Mazzotta, ex sindaco pugliese dalle tribolate vicende giudiziarie. Sarebbe stato lui a portare nell'ottobre scorso due broker (Francesco Amato ed Emanuele Caruso) nella sede di Italianieuropei, fondazione presieduta da D'Alema. E sempre Mazzotta si sarebbe presentato nell'ufficio del sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè per capire se nel filo diretto tra il governo colombiano e quello italiano si potesse inserire anche D'Alema: «Il presidente è nei paraggi del ministero. 

Se c'è bisogno lo faccio salire» avrebbe detto al sottosegretario prima di essere messo alla porta. L'ex premier italiano in questi giorni è sotto un treno. Con le persone a lui più vicine, con la stessa difficoltà che aveva Arthur Herbert Fonzarelli, detto Fonzie, a dire «ho sbagliato», ha ammesso di aver commesso un grave errore ad affidarsi a personaggi su cui non aveva fatto fare nessun tipo di controllo e che lo hanno messo in contatto anziché con il ministro della Difesa colombiano con un ex paramilitare condannato a 40 anni di reclusione per crimini di guerra.

Ma D'Alema ha passato il cerino a Mazzotta sulla questione più scabrosa, ovvero la mediazione multimilionaria che il gruppo Leonardo avrebbe dovuto affidare allo studio legale di Robert Allen a Miami e in particolare al collaboratore Umberto Claudio Bonavita. Ebbene a fare il nome dello studio Allen a D'Alema sarebbe stato proprio Mazzotta. E l'ex segretario del Pds lo avrebbe indicato a Profumo.

Una segnalazione che avrebbe portato l'azienda a preparare un contratto che, però, non è stato firmato. Insomma a far partire la valanga che sta travolgendo l'ex primo ministro, oggi consulente di Ernst & Young e advisor con una propria società, sarebbe stato proprio Mazzotta. Che in questi giorni si è inabissato come uno di quei sommergibili che provava a far vendere con l'aiuto di D'Alema alla Marina militare colombiana. I due broker ci hanno parlato anche di un audio di Mazzotta dal contenuto controverso.

«Ha detto qualcosa come "se volete continuare a camminare con le vostre gambe dovete rispettare il presidente"» ci ha raccontato Amato, promettendoci l'invio del file. Caruso ha negato: «È un audio personale, ma non minaccioso, in cui Mazzotta parla anche dei suoi rapporti con D'Alema». Ricordiamo che Mazzotta è stato sindaco di Carmiano, un municipio sciolto per infiltrazioni mafiose. È stato primo cittadino per due mandati, il secondo dei quali interrotto dal ministero dell'Interno il 5 dicembre 2019, cosa che non gli ha impedito, un anno fa, di presentare la sua lista per concorrere per il terzo incarico risultando, però, sconfitto per un centinaio di voti. 

Era andato a casa perché avrebbe, stando alla ricostruzione degli ispettori ministeriali, «istigato un esponente di spicco della locale organizzazione criminale, suo stretto parente, affinché, con metodi mafiosi, costringesse un consigliere comunale ad assicurare il suo appoggio politico al primo cittadino, facendolo così desistere dal proposito di dimettersi». Una questione finita al centro di un'indagine giudiziaria ribattezzata «Cerchio», che proprio nel 2019 ha portato al rinvio a giudizio di Mazzotta, che ora sta affrontando un processo per estorsione aggravata dal metodo mafioso. 

Durante l'ultima udienza, il 14 febbraio scorso, è stato ascoltato in aula un pentito della Sacra corona unita che ha confermato ai giudici di aver avuto un incontro con l'ex sindaco in un bar, durante il quale gli fu chiesto appoggio per la campagna elettorale. «Ma non se ne fece nulla», ha spiegato il collaboratore di giustizia, «perché nel frattempo venni arrestato». Ma nel corso di quelle ispezioni al Municipio sarebbe emerso pure «un condizionamento criminale nel settore degli appalti di lavori e servizi pubblici».

La relazione della Prefettura inviata al ministero lo definisce un «sistema», caratterizzato «da un diffuso ricorso a procedure irregolari e da una costante frammentazione degli interventi che, in elusione della normativa di settore, hanno favorito sempre le stesse ditte». Il Prefetto di Lecce ha inserito nella black list cinque delle società riconducibili all'ex sindaco e alla sua famiglia (misura poi sospesa dal Tribunale), mentre la Guardia di finanza stava ricostruendo quella che gli investigatori hanno definito una «frode carosello» realizzata grazie a false fatture per una presunta evasione fiscale milionaria. 

Il prossimo 18 marzo ci sarà l'udienza preliminare per Mazzotta e i suoi tre figli. L'ex sindaco è stato rinviato a giudizio anche per aver violato i sigilli di un lido di cui era custode giudiziario dopo che era stato sequestrato per abusi edilizi. I magistrati gli contestano anche la frode processuale e l'istigazione alla corruzione. Un comportamento che avrebbe adottato di fronte a un comandante e a un tenente della polizia provinciale di Lecce, per fargli ritardare le operazioni in corso o fargli compiere atti contrari ai propri doveri.

E avrebbe pronunciato frasi da commedia all'italiana: «In questa struttura se volete siete i benvenuti anche con le vostre signore noi abbiamo sempre delle tessere a disposizione per i nostri clienti e comunque anche quando lo stabilimento è pieno, ci sono sempre dei posti in prima fila riservati». Ma Antonio Arnò e Alessandro Guerrieri, anziché cedere, hanno mandato alla sbarra il presunto furbacchione. Che avrebbe continuato con le sue proposte, anche dopo la stesura del verbale da parte dei due poliziotti: «Nella mia struttura c'è sempre un posto in prima fila per le personalità di spicco come prefetti e procuratori e anche per voi posso riservare lo stesso trattamento».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 10 marzo 2022.

In questi giorni è in corso un audit interno di Leonardo avviato al fine di ricostruire la trattativa per la vendita di armi alla Colombia portata avanti con la mediazione di Massimo D'Alema. Il potere di verifica è in mano al presidente dell'azienda, il generale Luciano Carta, già direttore dell'Aise, il nostro controspionaggio. 

Voci interne da tempo riferiscono di un presidente e di un amministratore delegato, Alessandro Profumo, che convivono da separati in casa e certamente questa vicenda non aiuterà a cementare i loro rapporti. Leonardo dalla primavera del 2021 aveva già un sales promoter locale, la Aviatek group, società specializzata in energia, aviazione, ingegneria, presieduta da tale Luis Zapata.

Il broker è stato contrattualizzato dopo mesi di reputation check per i suoi agganci in Colombia. Con lui in campo Leonardo inizia a trattare la vendita di 5 aerei d'addestramento M-346 con l'Aeronautica militare colombiana. Un affare da 350 milioni di euro. 

A quanto risulta alla Verità l'inizio della trattativa sarebbe stato ufficializzato anche presso l'Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento del ministero degli Esteri, anche se dalla Farnesina fanno sapere che non è chiaro quando le aziende debbano segnalare l'avvio delle contrattazioni e che le società non sono tenute a comunicare informazioni relative a intermediazioni, né tantomeno sul valore delle provvigioni.

In autunno, però, Zapata viene scavalcato. Un amico di Massimo D'Alema, il plurimputato ed ex sindaco di Carmiano Giancarlo Mazzotta, mette in campo due broker pugliesi che sembrano usciti da una di quelle classiche storie italiane in cui niente è come sembra. I due vantano curriculum e contatti che si stanno dimostrando o falsi (i primi) o compromettenti (i secondi). Mazzotta li porta da D'Alema e i quattro iniziano a parlare della possibile vendita alle forze armate colombiane di 2 fregate, 2 sommergibili e ben 24 M-346, merce con valore superiore ai 4 miliardi di euro. 

D'Alema ne parla con Profumo e questi con ogni probabilità è ingolosito dalla proposta, anche se Leonardo aveva intavolato da oltre un anno un confronto sul tema con le autorità colombiane. Non è chiaro se sia l'ex sindaco pugliese o l'ex premier, ma qualcuno indica come mediatore da contrattualizzare lo studio Robert Allen Law di Miami. Iniziano le trattative per l'accordo. Il succo è che il nuovo broker verrà pagato se il prezzo dell'affare supererà i 350 milioni di euro.

In questo caso la provvigione sarà del 2%. E forse, come ha dichiarato D'Alema, oltre al «success fee» i mediatori avrebbero incassato pure «un compenso come "retailer", come rimborso spese». Inoltre, superato il tetto dei 2 miliardi, sarebbe stato previsto un ulteriore lauto premio. Di certo D'Alema contava di portare a casa almeno 80 milioni di euro da dividere tra la parte italiana e quella colombiana. L'importante era che risultasse come consulente l'avvocato Umberto Claudio Bonavita dello studio Allen.

La preparazione del contratto è andata avanti spedita sino a fine febbraio. L'ultimo contatto tra Bonavita e Leonardo sarebbe avvenuto intorno al 22-23 febbraio ed è stato fissato in vista di un imminente contrattualizzazione. Qualche giorno prima, l'8 febbraio l'ad Profumo, il dg di Fincantieri Giuseppe Giordo e D'Alema avrebbero dovuto parlare con il ministro della Difesa, Diego Molano Aponte, ma questi non si era presentato. Ma questa brutta figura non aveva fatto arenare la trattativa. Subito dopo, però, succede qualcosa che probabilmente crea un corto circuito.

Il 10 febbraio D'Alema parla con un ex paramiliatare delle Auc, Edgar Fierro, temendo di essere stato scavalcato dal governo italiano come interlocutore privilegiato, e cerca nuovamente di agganciare Aponte: «Dobbiamo evitare che ci siano due canali paralleli» sostiene. E aggiunge: «Perché tutto questo negoziato deve passare tra di noi, attraverso un solo canale». Cioè il suo e quello dell'improvvisato circo Barnum che lo accompagna. Ma il sottosegretario Giorgio Mulè viene a sapere dalla ambasciatrice della Colombia in Italia che D'Alema si era presentato da lei dicendo di agire per conto di Leonardo.

A questo punto il politico di Forza Italia convoca il direttore generale dell'azienda Lucio Valerio Cioffi nel suo ufficio. È il 17 febbraio. Mulè ricorda al manager di essere stato coinvolto a dicembre dalla stessa azienda affinché il governo seguisse la trattativa per la vendita degli M-346, e chiede a che titolo si stia muovendo D'Alema. Il dg balbetta e se ne va. Nello stesso pomeriggio si fa sotto con Mulè anche Mazzotta il quale spiega al sottosegretario che D'Alema si trova nei paraggi e che è pronto a incontrarlo. L'esponente del governo mette alla porta l'ex sindaco.

Ma a Leonardo, nonostante la trattativa parallela sia stata scoperta, non devono sapere che pesci pigliare e inizialmente fanno finta di niente. Il 21 febbraio Bonavita scrive a uno dei due broker, Francesco Amato: «Questa settimana chiudo definitivamente con le ditte italiane. Con questo abbiamo il mandato. Entro giovedì devo avere in mano i due contratti». Cioè il 24 febbraio quando, effettivamente, ci sarebbe stato l'ultimo contatto. Sino ad allora, probabilmente, nessuno aveva avuto da ridire sul coinvolgimento, seppur non ufficiale, di Mazzotta, imputato per estorsione aggravata dal metodo mafioso, e dei due broker denunciati nei giorni scorsi per aver falsificato documentazione di un importante organismo internazionale per arricchire i propri cv.

Non era stato approntato nessun controllo approfondito nemmeno sullo studio Allen specializzato non certo nella compravendita di armi, bensì di super yacht. E D'Alema? Qualcuno aveva pensato a come ufficializzare il suo ruolo o doveva rimanere un fantasma? Forse la risposta la darà l'audit. 

Secondo una prima versione ufficiosa l'allarme rosso sulla trattativa sarebbe scattato il 28 febbraio, cioè lo stesso giorno in cui il sito Sassate dà la notizia della mediazione di D'Alema nella trattativa per la vendita di armamenti. In quel momento non si sa ancora né del ruolo dei broker, né di Mazzotta, né dei rapporti pericolosi con i paramilitari colombiani. 

Tanto meno era stato reso pubblico l'audio in cui D'Alema rivendicava un guadagno per sé e i suoi da 80 milioni di euro. Tra il 17 e il 28 febbraio Mulè e il sito Sassate (il primo direttamente, l'altro sul Web) avevano fatto sapere a Leonardo che il ruolo di D'Alema era di pubblico dominio. Il nome dell'ex premier doveva restare coperto? È difficile spiegare diversamente l'improvviso stop per la sola emersione del ruolo dell'ex segretario del Pds, di cui era informato dall'autunno lo stesso a Profumo.

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “la Verità” l'11 marzo 2022.  

Ha cinquantadue anni, amministra tre società, ha tre figli ed è coinvolto in tre processi. Giancarlo Mazzotta, ex sindaco di Carmiano (Lecce), Comune sciolto per mafia proprio per le sue relazioni pericolose, ha deciso, dopo giorni di silenzio, di rispondere alle nostre (insistenti) domande... su un altro giornale. Evitando così di essere inchiodato alle sue bugie. Questo politico pugliese dalle molte relazioni è imputato per numerosi illeciti che vanno dall'estorsione aggravata dal metodo mafioso, ai reati fiscali, all'istigazione alla corruzione ecc. ecc., e allo stesso tempo è uno dei protagonisti della vicenda sulla trattativa per la vendita di 4 miliardi di euro di armamenti alla Colombia.

Ha consegnato la sua versione alla Repubblica spiegando che a chiedere di far scendere in campo Massimo D'Alema sarebbe stato uno dei due broker coinvolti nell'affare, Francesco Amato. Il quale, con il socio Emanuele Caruso, avrebbe individuato lo studio americano a cui affidare la stipula del contratto di intermediazione con Leonardo e Fincantieri, le società che avrebbero dovuto vendere fregate, sommergibili e aerei alla Colombia e pagare per l'intermediazione oltre 80 milioni di euro agli uomini di D'Alema.

Quest' ultimo, come abbiamo già scritto, ha riferito ad alcuni amici che l'avvocato gli era stato indicato da Mazzotta e non dai broker. E lo stesso ex sindaco a Repubblica ha concesso: «Tra l'altro conoscevo quello studio». Poi ha detto di essere stato convinto a interagire con i broker dalle «carte ufficiali» (false) che gli avevano mostrato (parla addirittura di «un mandato generale ed ufficiale conferito direttamente dalla vice presidente della Colombia») e di incontri di altissimo livello in Colombia (ma mai con politici, solo con militari e imprenditori). Fa riferimento alla visita nello stabilimento della Cotecmar, la Fincantieri colombiana, senza specificare che è un'azienda, non un ministero.

Dopo aver letto le parole di Mazzotta, Amato sorride amaro: «E allora io sono babbo Natale». Non è difficile smentire Mazzotta, visto che nell'audio si sente distintamente D'Alema parlare anche a nome dello studio Allen mentre dialoga con un collaboratore dei broker: «Noi abbiamo preso impegno, noi e anche Robert Allen, la società americana che tutti i compensi, a qualsiasi titolo ricevuti, saranno suddivisi al 50% con la parte colombiana». Insiste affinché i broker si affidino ai servigi di Allen: «È molto importante che la parte colombiana sia rappresentata da una società legale, di avvocati. Dev'essere uno studio legale. Per due ragioni. Innanzitutto il contratto tra Robert Allen e la parte colombiana sarà sottoposto al controllo delle autorità degli Stati Uniti d'America. Perché Robert Allen è una società americana».

I colombiani, scegliendo uno studio americano, oltre ad avere garantita la privacy, dimostrerebbero di essere un soggetto «trasparente, accettabile». Quindi conclude: «Noi siamo pronti, la parte italiana è quasi pronta. E non appena saranno firmati gli ultimi contratti tra Robert Allen e le società italiane saremo perfettamente pronti». 

Mazzotta ha fatto riferimento anche al suo incontro con il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè, avvenuto il 17 febbraio, appuntamento in cui l'esponente del governo avrebbe ribadito l'importanza per il Paese di chiudere l'affare. L'ex sindaco ha aggiunto che dopo il colloquio con Mulè ci sarebbe stata la videochiamata tra D'Alema e l'ex paramilitare Edgar Fierro: «Inspiegabilmente Amato e Caruso insistono nell'organizzare la telefonata di cui si è tanto parlato. Dall'altra parte, a loro dire, vi era un Senatore (Fierro, ndr) rappresentante di un gruppo di parlamentari colombiani. Col senno di poi, quella telefonata, anche per il modo con cui è stata condotta aveva tutt' altro significato».

Insomma ipotizza un trappolone. Peccato che la call, a quanto risulta alla Verità, contrariamente a quanto sostenuto da Mazzotta, preceda di una settimana l'incontro con Mulè. D'Alema quel giorno dice a Fierro: «L'ambasciatrice di Colombia in Italia, anche lei si sta occupando di questo problema. E lei sostiene che ci vuole un accordo tra i due governi, senza altri mediatori».

La diplomatica, tra il 25 gennaio e il 2 febbraio, era stata messa da Mulè per due volte allo stesso tavolo con i responsabili delle relazioni internazionali di Leonardo e aveva trattato con loro il tema degli armamenti. Evidentemente D'Alema, dopo quegli appuntamenti, viene a sapere (probabilmente da fonti interne all'azienda) di quel canale di trattativa alternativo al suo e il 9 febbraio prova a contattare l'ambasciatrice. 

Il giorno successivo cerca di aggirare l'ostacolo rivolgendosi al «senatore» Fierro, che considera in grado di incidere sul governo colombiano: «Questo negoziato deve passare tra di noi, attraverso un solo canale» sostiene. In quel momento l'incontro con Mulè non c'è ancora stato e D'Alema sta provando a scavalcarlo. Il giorno successivo, l'11 febbraio, la diplomatica si reca dall'ex premier per affrontare la questione e subito dopo Baffino inaugura la linea trattativista. Quella che porta Mazzotta al ministero della Difesa.

Ma Amato conosce davvero la vicepresidente della Colombia? «Non si è mai parlato con Mazzotta di questo. Comunque ho già trovato tutte le prove che smontano le dichiarazioni di quel signore e le ho già consegnate al mio avvocato. Per esempio dimostrerò che noi non conoscevamo lo studio Allen. Ce lo segnalano il presidente e Giancarlo. Carta canta». 

Nell'intervista Mazzotta è riuscito a smentire anche un proprio messaggio Whatsapp su una call andata male: «Quando dico che c'erano anche Giordo (Giuseppe, manager Fincantieri, ndr) e Profumo (Alessandro, ad di Leonardo, ndr) esagero. Io non so chi c'era. Non ero nella stanza del presidente D'Alema».

Ma a noi risulta che, invece, i due manager fossero in collegamento. In uno screenshot di una chat del presidente di Italianieuropei con Amato spunta anche la testolina di Mazzotta e in vista di un'altra call D'Alema si raccomanda: «Non abbiamo una riunione. Abbiamo un saluto. Il Ceo di Fincantieri ringrazierà il senatore (Fierro, ndr) per il suo impegno per promuovere la collaborazione tra i due Paesi. lo mi unirò. Assicureremo il nostro impegno. Se Giancarlo vuole assistere io non ho problemi. Ma in silenzio». 

Ma se le bugie di Mazzotta rischiano di avere le gambe corte, sono molto più documentati i suoi guai giudiziari. In particolare il procedimento per estorsione aggravato dal metodo mafioso. Stiamo parlando dell'inchiesta Cerchio, che ha scoperchiato ciò che sarebbe accaduto nella Cassa rurale all'epoca amministrata dal fratello dell'ex sindaco, Dino (soprannominato, coincidenza, «il colombiano»), e poi commissariata.

Per cercare di mantenere il controllo dell'istituto di credito, alle elezioni per il rinnovo degli organi amministrativi, si sarebbe mosso un cugino dell'allora primo cittadino, tale Gianni Mazzotta, detto «Conad», appellativo con il quale è conosciuto negli ambienti della mala capeggiata dai temutissimi fratelli Tornese. Per evitare ai soci della banca di presentare una lista alternativa a quella del «colombiano», «Conad» avrebbe usato queste parole: «C'è gente fiacca (brutta in dialetto leccese, ndr) che ve lo consiglia». 

Nello stesso fascicolo c'è un altro capo d'imputazione, che riguarda le pressioni su un consigliere comunale di maggioranza che voleva dimettersi e che fu raggiunto anche questa volta da Gianni «Conad». Secondo i magistrati il consigliere alla fine fu «costretto» ad appoggiare il sindaco. E, così, è scattata l'aggravante del metodo mafioso. 

Un'accusa che si è riversata nella relazione della Prefettura che poi ha portato allo scioglimento del consiglio comunale. In quel dossier gli ispettori prefettizi hanno ricostruito che tramite un'ingombrante e chiacchierata parentela del primo cittadino anche con un boss locale, Mario Tornese, che i magistrati antimafia indicano come appartenente alla Sacra corona unita, la mala sarebbe riuscita a insinuarsi negli uffici e a condizionarli. Soprattutto nel settore più delicato: quello degli appalti.

Tanto da portare all'affidamento del servizio di raccolta e di smaltimento dei rifiuti a una società che poi è stata colpita da interdittiva antimafia, che annoverava tra i suoi dipendenti «soggetti pregiudicati, riconducibili per stretti legami parentali», è scritto nella relazione del Prefetto, «a esponenti di spicco della criminalità organizzata». Mazzotta a un certo punto deve essersi sentito come il perno attorno al quale ruotavano banca e municipio, visto che gli investigatori l'hanno intercettato mentre spiegava: «Ci teniamo le mani tra di noi, è un cerchio e diventeremo sempre più forti». Poi il Comune è stato sciolto e Mazzotta si è dato agli armamenti.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 12 marzo 2022.

Ostriche De Claire Dousset, gamberi rossi imperiali, ricci di mare, carpaccio di capesante con la zucca, tartare di tonno con le puntarelle. E di fronte a un menù costellato di tali prelibatezze che si sono accomodati, all'apice della trattativa per la vendita di 24 M-346 all'aviazione colombiana, l'ex premier Massimo D'Alema e l'amministratore delegato di Leonardo Alessandro Profumo. Si sono dati appuntamento al ristorante Pierluigi, uno dei migliori indirizzi per degustare plateau di crudo a Roma. Questo locale, con pescheria a vista, si trova in piazza de' Ricci a 300 metri a piedi da piazza Farnese dove ha il suo quartier generale la fondazione Italianieuropei, presieduta dall'ex ministro degli Esteri.

Due pranzi la cui importanza può essere apprezzata solo ricordando quanto è successo prima e dopo quegli appuntamenti conviviali. In autunno D'Alema si era rivolto a Profumo per sponsorizzare il proprio gruppo di lavoro durante la trattativa per rifornire l'esercito colombiano di nuovi armamenti, tra aerei, navi e sommergibili, per un valore di 4 miliardi di euro. D'Alema e i suoi collaboratori pensavano di poter incassare almeno 80 milioni di provvigioni.  Quando l'ex primo ministro bussa alla porta di Profumo è già in corso un'altra trattativa intermediata dalla società colombiana Aviatek di Luis Zapata.

Il vecchio leader della sinistra pensa di scavalcare il competitor indigeno, probabilmente puntando sui buoni uffici dell'amico Profumo. Che in effetti mette in contatto D'Alema con i vertici della divisione commerciale e in particolare con il vicepresidente Dario Marfé che il 15 dicembre scrive a D'Alema una mail con allegati i dépliant informativi di alcuni sistemi radar: «Le brochure sono indicative delle caratteristiche principali dei prodotti» scrive il manager, «in particolare per i radar Atcr 33S - 44S e Par sono in atto avanzamenti tecnologici e miglioramento delle prestazioni che qualora di interesse potranno essere riassunti in una presentazione dedicata». 

In calce i saluti: «Con i colleghi della divisione Elettronica resto a disposizione per eventuali chiarimenti / approfondimenti. A presto risentirLa anche sul tema M-346». Ovvero l'affare riguardante i 24 caccia del valore di 2,13 miliardi. Un prezzo che, in caso di successo, avrebbe fatto scattare un ricco premio per D'Alema e i suoi.

Ma sembra che nessuno abbia in alcun modo ritenuto necessario ufficializzare il ruolo del fondatore di Liberi e uguali nella trattativa e il contratto di intermediazione stava per essere firmato con l'avvocato Umberto C. Bonavita dello studio Robert Allen Law di Miami, nome indicato proprio da D'Alema o da uno dei suoi uomini, Giancarlo Mazzotta. 

L'8 febbraio l'ex segretario del Pds, Profumo e il direttore generale della divisione navi da guerra di Fincantieri, Giuseppe Giordo, si sono anche collegati per una videoconferenza con il ministro della Difesa colombiano Diego Molano Aponte che, però, diede buca agli illustri interlocutori italiani. La cosa mandò su tutte le furie D'Alema che ebbe una discussione con il broker Francesco Amato, il quale aveva organizzato quella call e che sino a quel giorno si era impegnato per l'affare a proprie spese.

L'ultimo battibecco con il «presidente» lo ricorda Amato: «Gli ho detto: "Mi parli di contratti da oltre sei mesi, dove cazzo stanno 'sti contratti? Io il lavoro l'ho fatto, tu mi stai prendendo per il culo". Lui mi ha risposto: "Tu non mi parli così". E io di rimando: "Io ti parlo come cazzo voglio caro presidente". E lui: "Con te non parlo più"».

Dopo il fallimento del collegamento con il ministro uno stretto collaboratore di D'Alema, Mazzotta, aveva scritto ad Amato: «Mi sono speso personalmente con il Presidente, mettendoci la faccia, e francamente, nonostante i miei ottimi rapporti con lui, credo che si sia disaffezionato a proseguire». Il 10 febbraio D'Alema si era lamentato sia della figuraccia che di Amato con l'ex paramilitare colombiano Edgar Fierro, uno dei mediatori: «[] l'altra sera, da noi era sera, quando non ci siamo collegati con il ministro, questo ha creato un problema molto serio di credibilità [] perché chiaramente ci sono delle pressioni sui vertici delle aziende, di altri, che dicono "ma no, questo canale non funziona, dovete rivolgervi a noi, perché questi non hanno rapporti con il governo colombiano". Questi saremmo noi, chiaro?».

E quanto al broker aveva aggiunto: «Amato è un simpatico giovane, a volte fa un po' di confusione, come succede alle persone più giovani». Ma mentre la trattativa sembrava complicarsi D'Alema e Profumo si sono visti ben due volte a pranzo da Pierluigi. Ancora nessuno sapeva in che business fosse coinvolto l'ex premier. Uno dei due appuntamenti risale alla prima metà di febbraio, nei giorni in cui D'Alema incontra l'ambasciatrice colombiana e, in compagnia di Profumo, non riesce a parlare con il ministro della Difesa del Paese sudamericano.

A quel primo pranzo i due, che sono (separatamente) clienti saltuari del ristorante, si presentano accompagnati da un gruppo di persone. La comitiva si accomoda nel dehor esterno riscaldato. Un po' di giorni dopo i commensali diminuiscono e a tavola si ritrovano solo in quattro. Mangiano le rinomate crudités del locale e un secondo sempre di pesce. Il tutto annaffiato da vino bianco. Il 21 febbraio l'avvocato Bonavita sembra certo e manda questo messaggio ad Amato: «Questa settimana chiudo definitivamente con le ditte italiane. Con questo abbiamo il mandato. Entro giovedì devo avere in mano i due contratti». 

Cioè il 24 febbraio, quando effettivamente, ci sarebbe stato l'ultimo contatto ufficiale con Leonardo. Nelle stesse ore, come detto, D'Alema e Profumo pranzano di nuovo insieme. Poi le fughe di notizie fanno deragliare l'affare. La possibile mediazione dell'ex premier esce come indiscrezione sul sito Sassate. Il giorno dopo La Verità pubblica l'audio in cui l'ex leader del Pds parla dei suoi futuri possibili guadagni. Scandisce: «Siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi 80 milioni di euro». Viste le aspettative immaginiamo che il conto da Pierluigi lo abbia pagato D'Alema.

D’Alema e gli aerei alla Colombia: il caso arriva in Parlamento. Terremoto per Leonardo e Fincantieri.  Giuliano Foschini, Luca Pagni su La Repubblica il 17 marzo 2022.  

Interrogazione al ministro Guerini e inchiesta interna di Leonardo: “Chi ha autorizzato la trattativa parallela?”. Trema la poltrona di Profumo.

L’incredibile storia della vendita (vera o millantata che fosse) delle navi e aerei militari italiani alla Colombia, rischia di non essere soltanto un problema per la reputazione dell’ex premier Massimo D’Alema. Che di quella trattativa è stato in qualche modo protagonista. Ma in queste ore si sta rivelando, al contrario, un terremoto soprattutto per i vertici delle due più importanti aziende di Stato italiane, Leonardo e Fincantieri: l’amministratore delegato, Alessandro Profumo, in particolare, e il manager della società di navi, Giuseppe Giordo.

D’Alema e gli aerei alla Colombia: il caso arriva in Parlamento. Terremoto per Leonardo e Fincantieri. Giuliano Foschini, Luca Pagni La Repubblica il 17 Marzo 2022. 

Interrogazione al ministro Guerini e inchiesta interna di Leonardo: “Chi ha autorizzato la trattativa parallela?”. Trema la poltrona di Profumo. 

L'incredibile storia della vendita (vera o millantata che fosse) delle navi e aerei militari italiani alla Colombia, rischia di non essere soltanto un problema per la reputazione dell'ex premier Massimo D'Alema. Che di quella trattativa è stato in qualche modo protagonista. Ma in queste ore si sta rivelando, al contrario, un terremoto soprattutto per i vertici delle due più importanti aziende di Stato italiane, Leonardo e Fincantieri: l'amministratore delegato, Alessandro Profumo, in particolare, e il manager della società di navi, Giuseppe Giordo.

Il caso, come era inevitabile che fosse (e come probabilmente voleva chi ha diffuso gli audio dell'incontro) è diventato politico. Nel governo e in Parlamento - ieri è stata depositata un'interrogazione al ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, dal segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni- c'è chi chiede risposte su come la trattativa sia stata condotta e vuole risposte sulle eventuali responsabilità dei manager. 

In un momento, questo, che non è affatto neutro. A maggio, infatti, l'esecutivo dovrà ridisegnare i vertici di Fincantieri mentre il prossimo anno tocca a Leonardo. Con l'idea, che potrebbe riprendere quota, di creare un'unica grande azienda della Difesa italiana. La questione ruota attorno a un punto, al centro anche dell'inchiesta interna che Leonardo ha aperto in queste ore.

La società italiana aveva in piedi una trattativa ufficiale per la vendita di sei velivoli M346 con un intermediario colombiano. Una trattativa di cui erano a conoscenza tutti i manager della società, a partire dell'ad Profumo. E della quale era stato interessato anche il governo italiano, che aveva preso contatti ufficiali con l'esecutivo di Bogotà. Nello specifico, da un anno esisteva un contratto con un promoter locale, la Aviatek group, scelto dopo mesi di ricerca. «Da chi - si chiede in sintesi nell'audit - e per quale motivo viene autorizzata una trattativa parallela? Chi sapeva e cosa?».

In un'intervista a Repubblica , l'ex premier D'Alema ha raccontato di essere stato contattato da due presunti emissari del governo colombiano e di averli messi in contatto con Leonardo e Fincantieri. E di averlo fatto gratuitamente, senza aver avuto alcun incarico dalle due aziende italiane. E di essersi mosso anche perché le società sono clienti importanti di Ernst&Young, la società di consulenza di cui l'ex premier è presidente dell'advisor board. 

Da parte loro, le aziende non hanno mai negato i contatti con gli intermediari che avrebbero dovuto favorire gli eventuali contratti. Anche se c'è una differenza nelle posizioni dei due colossi di Stato. Fincantieri era arrivata a firmare quello che nel gergo degli affari si chiama Mou (memorandum of understanding), un documento in cui si fissano i contorni dell'operazione ma senza entrare nei dettagli economici. 

Leonardo non era nemmeno arrivata a questo punto: secondo fonti vicine all'azienda, si stava solo valutando eventuali «opportunità di business», e per questo era stato chiesto al responsabile commerciale di verificare se fosse stato possibile ampliare la commessa e al momento era solo stato firmato un accordo di confidenzialità con lo studio americano Robert Allen Law e fornito materiale che si può ricavare anche dal sito aziendale.

Non è chiaro, però, perché viene scelto un nuovo studio quando esisteva già un riferimento. E per quale motivo viene consentito un sovrapporsi di trattative. Dall'esito dell'audit di Leonardo dipenderà il futuro immediato di Profumo. 

Fermo restando che al governo ritengono molto difficile che il prossimo anno possa restare in azienda, magari come presidente, come si era ipotizzato nei mesi scorsi. Il prossimo mese dovrebbe concludersi invece l'esperienza in Fincantieri di Giuseppe Bono, che guida il gruppo dal 2002. Non saranno le uniche nomine da fare: cambio di vertici anche in Invitalia, Snam, Italgas e Autostrade.

Guido Paglia per sassate.it il 18 marzo 2022.  

A tre settimane dallo “scoop” di Sassate sul nuovo mestiere di “broker” di sistemi d’arma di Massimo D’Alema (e della devastante inchiesta a puntate de “La Verità”, che ha definitivamente scoperchiato le sconcertanti avidità del Lider Maximo e compagnia cantante), qualcosina si muove.

I cuor di leone di Repubblica finalmente ammettono che la poltrona di Profumo traballa, Nicola Porro fa sentire in tv le tronfie conversazioni di D’Alema, Dagospia aggiunge che forse il segretario del Pd Letta l’ha scaricato e la sinistra in concorrenza con LeU si arrischia perfino a presentare un’interrogazione. Un po’ poco per uno scandalo di queste proporzioni, ma bisogna accontentarsi. Per ora.

Ma Leonardo e Fincantieri, in attesa che ci sia uno di quei pm che vedono i reati solo a destra e sia disposto a muoversi, che fanno? Ecco, questo quesito merita di essere approfondito. Perché, malgrado l’audit disposto dal presidente Carta (silenzio di tomba sui primi risultati), “Arrogance” Profumo continua a tenere strettamente sotto controllo e a “silenziare” quasi tutti i media.

Solo il tanto bistrattato Giuseppe Bono (portato in palmo di mano all’estero, ma che ora -secondo i giornaloni- dovrebbe passare la mano solo per motivi anagrafici), è andato giù duro all’interno dell’azienda. Prima ancora che si rendesse necessario l’audit del presidente Massolo sulla regolarità delle procedure, ha inciso col bisturi sull’operato del suo DG, Giordo. E grazie ai rapidi accertamenti, svolti dall’ufficio legale interno, ha già fatto chiarezza sui retroscena dell’”affaire” inviando un report dettagliato all’azionista di controllo CdP e al MEF. E cosa dice il documento?

1) che l’AD era stato informato soltanto sommariamente (e pure in ritardo) della trattativa messa in piedi con D’Alema e Profumo per i sistemi d’arma da vendere alla Colombia; 

2) che Bono, finalmente messo al corrente del coinvolgimento del Lider Maximo, mise in guardia Giordo dall’utilizzare canali non istituzionali (come quello peraltro già esistente e curato dal sottosegretario Mulè), autorizzando una mera trasferta “esplorativa” nel paese sudamericano;

3) che l’AD di Fincantieri non fu informato del fatto che sarebbe stato firmato un MoU, sottoscritto da due oscuri capitani di fregata, oltretutto in pensione; scavalcando così l’autorità ufficiale che già stava trattando con l’Italia.

E siccome Bono non ama questo genere di comportamenti e reticenze, ha comunicato al MEF (e all’azionista CdP) di aver provveduto a sospendere fino a nuovo ordine le trasferte di Giordo e contestualmente avviato un’iniziativa disciplinare nei suoi confronti.

Resta ora da accertare, da parte del governo, se in seno all’alleanza Profumo-Giordo (con o senza D’Alema) esistano altri retroscena inesplorati. Tipo possibili intese per la soluzione del problema Oto Melara-Wass. 

Una vicenda che interessa anche Rheinmetall, il cui CEO Armin Papperger ha formulato proprio nei giorni scorsi un’interessante proposta veicolata in un’intervista al Sole24Ore. E che avrebbe meritato maggiore attenzione dai distratti (ma quando si toccano temi sgraditi a Profumo, è sempre così) media italiani.

Da avionews.com il 18 marzo 2022.  

La Colombia rischia d’influenzare il futuro di Leonardo e Fincantieri. L'incredibile storia della vendita (vera o millantata) di navi ed aerei militari italiani alla Colombia, rischia addirittura di mettere a repentaglio il futuro di un manager del calibro di Alessandro Profumo, attuale ad di Leonardo. 

Anche perché lo tsunami Colombia si abbatte sul Governo in un momento delicato come questo: a maggio, infatti, l'esecutivo dovrà ridisegnare i vertici di Fincantieri mentre il prossimo anno tocca a Leonardo. Con questo affaire sul groppone, dicono i bene informati, potrebbe riprendere quota l'idea di creare un'unica grande azienda della Difesa italiana. Soprattutto, però, potrebbe essere messa in discussione la figura del manager Profumo, da tempo al centro delle cronache.

Il business, anticipato dal sito "sassate.it", era la vendita alla Colombia di quattro corvette e due sommergibili prodotte da Fincantieri e di alcuni aerei di Leonardo, entrambe partecipate dal Governo italiano. Secondo "La Repubblica" adesso la questione si sta rivelando un terremoto proprio per i vertici delle due aziende di Stato. O meglio, a rischiare, adesso è l'amministratore delegato di Leonardo, Alessandro Profumo. 

Il caso, inevitabilmente, da affaire economico è diventato politico. Il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni ha depositato un'interrogazione al ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ma sono molti di più quelli che chiedono risposte su come la trattativa sia stata condotta e sulle eventuali responsabilità dei manager.

In un'intervista a "Repubblica", l'ex-premier Massimo D'Alema ha raccontato di essere stato contattato da due presunti emissari del governo colombiano e di averli messi in contatto (gratuitamente) con Leonardo e Fincantieri. La questione ruota attorno ad un punto: Leonardo aveva in piedi una trattativa ufficiale per la vendita di sei velivoli M-346 con un intermediario colombiano. Della trattativa erano a conoscenza tutti i manager della società, a partire dall'ad Profumo, ed era stato interessato anche il Governo italiano, che aveva preso contatti ufficiali con l'esecutivo di Bogotà.

Le aziende non hanno mai negato i contatti con gli intermediari. Con una differenza: Fincantieri era arrivata a firmare un Mou, ossia un Memorandum of understanding, documento in cui si fissano i contorni dell'operazione senza entrare nei dettagli economici. Leonardo, invece, stava solo "valutando eventuali 'opportunità di business'", firmando un accordo di confidenzialità con lo studio americano Robert Allen Law. Quello che non è chiaro è perché venga scelto un nuovo studio quando esisteva già un riferimento. 

La questione è al centro di un audit interno a Leonardo. "Da chi e per quale motivo viene autorizzata una trattativa parallela? Chi sapeva e cosa?", si chiede nell'audit della società. Dall'esito dell'audit dipenderà il futuro immediato di Profumo: un futuro che, al momento, viene dato parecchio in bilico. Anzi, sono tanti, anche nel Governo, a ritenere che sia molto difficile che Profumo possa restare al timone di Leonardo anche l'anno prossimo.

DAGONOTA il 18 marzo 2022.

Che fine hanno fatto i Gabibbo “alle vongole” che al servizio dei poteri marci sul “Corriere della Sera” davano la caccia alla Casta politica evitando di inciampare sui bilanci taroccati delle loro aziende che facevano affari con le opere pubbliche pagando tangenti?

E dove sono finiti i mastini da tartufo che scodinzolavano dietro ai pubblici ministeri ai tempi di Mani pulite e venivano sfamati con le notizie (senza riscontri) degli arrestati sbattuti in prima pagina? Se la cosiddetta “rivoluzione italiana” (Mieli & Scalfari) trent’anni dopo si è rivelata una balla colossale per la stessa ammissione dei suoi protagonisti al Tribunale di Milano meglio metterci una pietra sopra.

Già, “il miracolismo mediatico” (Mario Perniola, “Miracoli e traumi della comunicazione”, Einaudi) che genera in tutti una eccitazione fuori misura “rispetto all’effettivo peso degli avvenimenti”. Ma se nel tritacarne oggi finiscono i giudici-eroi di Tangentopoli non troverete uno straccio di articolo, un commento in difesa delle ragioni e dell’onore perduto dell’ultima Casta da parte dei loro ex aedi. 

La fine, secondo il politologo Angelo Panebianco, della stessa “rivoluzione giudiziaria”. Meglio gettare nell’oblio quanto è stato narrato per anni come un avvenimento epocale. Un addio alle armi, insomma. Una ritirata vergognosa davanti ai lettori residuali dopo il grande esodo dalle edicole.

E veniamo all’oggi. 

Nelle redazioni dei giornali - “Corriere”, “Repubblica”, “la Stampa” -, non suscita curiosità, non diciamo scandalo, l’affaire della vendita delle armi alla Colombia, in tempi di guerra, da parte di Finmeccanica e Leonardo con la mediazione dell’ex capo del governo, Massimo D’Alema. E senza che arrivasse uno straccio di smentita da parte dei presunti “furbetti del quartierino” distribuiti tra il tavoliere della Puglia e le piantagioni della Colombia. 

L’inchiesta avviata in febbraio dal sito Sassate.it di Guido Paglia e da “la Verità” di Maurizio Belpietro, ben documentata con gli articoli di Giacomo Amadori e Fabio Amendolara – e corredata di agghiaccianti “audio” e scambi di mail tra i protagonisti-mediatori (D’Alema&C) e la casa madre Leonardo guidata da Alessandro Profumo -, è ribalzata sui social e soprattutto in tv con effetti assai più devastanti per Leonardo e per il governo Draghi, fermi nella loro arroganza del silenzio omertoso.

Se in via Solferino i guardiani della notizia sonnecchiavano, a Largo Fochetti si risvegliavano dal torpore il 2 marzo riportando nel titolo l’audio in cui l’ex premier avvertiva i suoi interlocutori: “Ci dividiamo 80 milioni”. Ma il giorno dopo correva ai ripari ospitando una intervista lecca-lecca a Massimo D’Alema: “Dalle armi vendute alla Colombia non avrei preso un euro”. E gli 80 milioni da spartire? Quisquiglie per Max e il suo intervistatore. 

Così, occorre aspettare giovedì 17 marzo dopo l’incalzare dell’inchiesta de “la Verità”, dei social e dei programmi tv “Striscia la notizia” e Fratelli di Crozza”, il quotidiano fondato da Scalfari tornava sull’”incredibile” (sic) storia della vendita delle armi che potrebbe costare la riconferma di Profumo in Leonardo. 

Ancora una volta a fare da cassa di risonanza sull’affaire delle armi sono stati i programmi satirici “Striscia la notizia” (Canale 5) e “Fratelli di Crozza” (Nove). Da settimane Pinuccio e la redazione di Antonio Ricci non facevano del sarcasmo su un presunto episodio di corruzione, sia pure finito nel nulla, ma quell’informazione negata dai media tradizionali. Sono cronaca senza bavagli gli interventi puntuali del conduttore di “Radio Scoglio 24” che aspettano ancora un cenno di risposta da parte di Profumo e del “governo dei migliori” di Mario Draghi. Finora sempre negato. Ah, saperlo!

E forse anche il professore al catodo sonnecchiava nelle Langhe quando “Striscia” e “Fratelli d’Italia” hanno sbeffeggiato il Tg1 di Monica Maggioni che aveva mandato in onda le immagini fasulle dei missili russi in Ucraina rubate da un video-gioco. “Il tono scherzoso, meglio del tono serioso, risolve in genere le grandi questioni con più efficacia”, sosteneva Orazio. 

È un vero peccato, allora, che il critico televisivo del “Corriere” invece di sottolineare il ruolo meritorio dei due programmi sull’affaire Leonardo-D’Alema colga l’occasione per bacchettare il comico Maurizio Crozza, reo di aver messo in onda un monologo beffardo alla Dario Fo del “Mistero buffo” giudicato “non un passaggio satirico, ma un comizio antiamericano”. 

Giacomo Amadori François De Tonquédec per “la Verità” il 22 marzo 2022.

Alla fine è spuntata anche la carta che conferma quanto fosse avanzata la trattativa per far mettere sotto contratto da parte di Leonardo i D'Alema boys nella ormai celebre vicenda. Lo ha mostrata ieri in tv Nicola Porro durante la trasmissione Quarta Repubblica. Lo scorso 5 marzo La Verità aveva svelato i punti chiave della bozza di accordo tra Leonardo e lo studio Robert Allen Law, nella persona del socio Umberto Bonavita. Professionisti ingaggiati come broker in Colombia e coinvolti nell'affare dall'ex premier Massimo D'Alema, che con i suoi interlocutori sudamericani aveva spiegato che l'obiettivo era «avere un premio da 80 milioni».

Avevamo scritto a proposito del documento collegato alla vendita di circa 24 M-346 all'aeronautica militare colombiana: «L'azienda aveva deciso che sino a 350 milioni di euro di commessa non avrebbe corrisposto nulla, perché aveva già in mano una commessa di quell'importo, per 5 aerei. Oltre i 350 milioni scattavano provvigioni al 2 per cento e un premio al raggiungimento dei 2 miliardi. Tutte questioni citate da D'Alema quando [] parla di "risultato straordinario". Ma Leonardo voleva pagare solo a risultato ottenuto. Per questo sarebbe saltato l'accordo». 

Le verifiche La bozza di accordo è stata attenzionata nell'audit che Leonardo sta conducendo sulla vicenda della compravendita di armi da 4 miliardi di euro e ieri sera, come detto, è stata mostrata in carta e inchiostro da Porro. Un documento che dimostra quanto fosse avanzata la trattativa che secondo Bonavita avrebbe dovuto concludersi entro il 24 febbraio e che invece è saltata dopo che la notizia della negoziazione è finita su siti e giornali.

L'atto, che ha in testa la dicitura «registrato/consegnato a mano» è indirizzato a Robert Allen Law, presso la sede nel Four seasons office tower al 1.441 di Brickell avenue. La missiva, che è «all'attenzione di Umberto C. Bonavita», ha come oggetto «contratto di supporto e assistenza per la promozione delle vendite», inizia così: «Cari signori, a seguito delle nostre recenti conversazioni siamo lieti di sottoporvi per la Vostra accettazione, la nostra proposta di contratto di supporto e assistenza per la promozione delle vendite», relativo alla promozione della «vendita di aeroplani M-346 Fa in Colombia».

Gli incassi All'articolo 4, denominato «termini e condizioni di pagamento», si trova la conferma del «success fee» promesso da D'Alema durante la conference call con l'ex comandante dei gruppi paramilitari colombiani di estrema destra Edgar Ignacio Fierro Florez, meglio conosciuto con il nome di battaglia di Don Antonio: «4.1 La Società corrisponderà al Promotore, per intero e come corrispettivo finale per le attività e i servizi resi dal promotore, un compenso (di seguito denominato "success fee") pari al 2% (due percento) del prezzo netto di vendita del prodotto, come di seguito definito, a condizione che il contratto venga eseguito per l'acquisizione di almeno 6 (sei) M-346 Fa aeromobile e per un importo superiore a 350.000.000 di euro (trecentocinquanta milioni di euro)». 

La call di «Baffino» E proprio D'Alema, parlando in conference call con Fierro, aveva sintetizzato il contenuto per filo e per segno: «C'è una seconda particolarità di questi contratti che voglio sottolineare. Normalmente i contratti di promozione commerciale hanno un tetto, un "cap", in inglese. In questo caso no. In questo caso è un contratto commerciale al 2% del business, dell'ammontare del business. Questa è una decisione straordinaria, non è stata facile da conseguire. È chiaro? Perché il valore di questo contratto è più di 80 milioni». 

Infatti D'Alema puntava al 2 per cento sia del contratto per gli aerei da circa 2 miliardi che per quello per 2 fregate e due sommergibili che Fincantieri era pronta a vendere alla marina colombiana, sempre con la mediazione dei suoi consulenti. Gli intrecci in Usa Il collegamento tra Bonavita e D'Alema lo abbiamo ricostruito ieri, grazie a un socio dell'ex premier, Massimo Tortorella, proprietario di una holding britannica, la Falcon, e del gruppo Consulcesi. 

Infatti ha ammesso di aver fatto conoscere a Massimo D'Alema Gherado Gardo, il commercialista coinvolto nell'affaire della fornitura di aerei e navi alla Colombia. D'Alema in un'intervista a Repubblica aveva provato a scaricare sul gruppo collegato a Fierro e agli italiani Emanuele Caruso e Francesco Amato la scelta di Robert Allen Law: «Loro hanno scelto questo studio legale americano, un business law molto attivo in America Latina». 

Ma i broker avevano smentito dicendo che era D'Alema ad appoggiarsi a Bonavita e a un commercialista di fiducia, Gardo appunto. Il giro di società In effetti i due professionisti vanno a braccetto. Per esempio Gardo e Bonavita sono entrambi nella Wey Llc, che ha due sedi a Miami, una al 1.200 di Brickell Avenue e una al 1.441, suite 1.400. La stessa sede dello studio Allen, che ne è anche il «registered agent». Nelle slide di presentazione della Wey del 2016 si trovano le foto di Bonavita, presidente della società e Gardo, amministratore delegato. Gardo è anche manager, insieme con Danielle Bonavita, stretta parente di Umberto, nella Pondarosa Llc.

Come detto, ieri Tortorella ci ha svelato gli stretti rapporti che intercorrono tra il commercialista e D'Alema da quando lo stesso imprenditore di stanza a Londra aveva inviato il professionista a fare una perizia per valutare l'effettivo valore della quota del 15 per cento che Tortorella voleva rilevare nella Madeleine, la tenuta vitivinicola di Narni dell'ex premier.

«Da là si conoscono, là hanno creato i rapporti. So che comunque sono entrati in simpatia perché me lo ha detto proprio Gherardo, anche se non so che consulenze gli abbia dato D'Alema» ci ha confessato Tortorella. Gardo e Bonavita si sarebbero interessati anche dell'accordo con Fincantieri per navi e sommergibili, altro affare miliardario. Porro ieri ha lanciato anche la notizia di un contratto siglato il 9 settembre 2019 tra il colosso della consulenza aziendale e della revisione contabile Ernst & Young e l'azienda della cantieristica navale. 

Un accordo da 560.000 euro per fornire analisi di mercato nel settore militare in Libano e Kuwait e ulteriori 400.000 euro per eventuali servizi legali. Ricordiamo che dal 2020 D'Alema è presidente dell'advisory board proprio di E&Y. C'entra qualcosa l'ex segretario del Pds con il contratto di settembre 2019? Al momento non ci elementi per affermarlo.

Di certo D'Alema, mentre discuteva di provvigioni legate alla vendita di navi da guerra, sembrava conoscere bene, come probabilmente molti altri addetti ai lavori nel settore delle consulenze, gli affari dell'azienda triestina: «La questione riguarda l'esperienza fatta da Fincantieri in Indonesia con un modello contrattuale molto interessante. Un po' diverso da come avevamo immaginato, ma molto più profittevole». Ma questa è un'altra storia.

Giacomo Amadori e François De Tonquedec per “La Verità” il 21 marzo 2022.

Abbiamo trovato dentro alla società di vino della famiglia di Massimo D'Alema il primo anello che porta attraverso un tortuoso incastro di società allo studio legale di Miami coinvolto nella trattativa per una maxi commessa da 4 miliardi di euro per navi, aerei e sottomarini  da fornire alle forze armate colombiane. 

Con alcune persone a lui vicine l'ex premier aveva spiegato che a proporre lo studio legale di Robert Allen come mediatore era stato un suo amico, Giancarlo Mazzotta, politico pugliese imputato in diversi processi con accuse gravi come l'estorsione aggravata dal metodo mafioso.Ma Mazzotta aveva scaricato la responsabilità della scelta dello studio sui broker Emanuele Caruso e Francesco Amato. Sarebbero stati loro a indicare dove far transitare gli oltre 80 milioni di provvigioni che D'Alema aveva previsto dovessero arrivare da due aziende partecipate dallo Stato, Leonardo e Fincantieri. 

Ma qualcosa non tornava in queste versioni, anche perché nell'audio pubblicato in esclusiva dalla Verità e in cui D'Alema conversava amabilmente con un ex sanguinario comandante dei paramilitari di estrema destra colombiani, si sentiva la voce dell'ex leader del Pds perorare un incarico allo studio Allen da parte degli interlocutori sudamericani, il che avrebbe garantito: «È molto importante che la parte colombiana sia rappresentata da una società legale, di avvocati. Dev'essere uno studio legale. Per due ragioni. Innanzitutto il contratto tra Robert Allen e la parte colombiana sarà sottoposto al controllo delle autorità degli Stati Uniti d'America. Perché Robert Allen è una società americana. La legge americana protegge l'attività legale, il rapporto tra il legale e il suo cliente, con il segreto».

Dunque, era già molto chiaro che la scelta dello studio fosse sponsorizzata da D'Alema. Nell'inchiesta a puntate che abbiamo pubblicato nei giorni scorsi era anche evidenziato il ruolo di Umberto Claudio Bonavita, l'avvocato dello studio Allen con cui il gruppo Leonardo stava preparando il contratto di consulenza per la vendita di 24 M-346, caccia d'addestramento destinati alla Colombia. 

Avevamo anche sottolineato come i broker Caruso e Amato avessero avuto come interlocutore dell'affare anche il commercialista bolognese Gherardo Gardo, descritto dai broker come stretto collaboratore di D'Alema. In una mail del 3 dicembre, poi, lo stesso Bonavita aveva chiesto di includere in una conference call via Signal, Zoom o Whatsapp, anche «il nostro collega italiano Gherardo Gardo».

I due si erano recati il 14 dicembre a Cartagena de Indias, amata residenza di Gabriel Garcia Marquez, per una visita allo stabilimento della Cotecmar (la Fincantieri colombiana) per un incontro con l'ammiraglio Rafael Callamand. Insieme con loro ci sarebbe stato anche il responsabile per l'America Latina di Fincantieri, Stelio Antonio Vaccarezza. 

Ma adesso ecco la nostra nuova pista. Basta seguire il filo rosso che parte dalla società, tutta italiana, che commercializza il vino di Baffino e che porta fino a Miami, al 1.441 di Brickell Avenue, suite 1.400, ovvero dentro la sede dello studio Allen. La Silk road wines, amministrata da D'Alema senior e con sede a Orvieto, è stata fondata nell'aprile 2019. Tra i soci ci sono i due figli dell'ex premier, Francesco e Giulia, che all'inizio insieme con il padre controllavano il 50 per cento delle quote.

L'altra metà è di proprietà di tre familiari di Riccardo Cotarella, l'enologo dei vip, l'uomo che ha trasformato l'ex primo ministro in un appassionato vignaiolo. Ma nel giugno 2019 i D'Alema sembrano aver perso il controllo dell'azienda trasferendo il 15 per cento del pacchetto azionario in mano all'ex ministro degli Esteri a un fondo lussemburghese, l'Amana investment glass fund, di cui parleremo tra poco.

Nei documenti della Camera di commercio risulta un valore della produzione per il 2020 di 83.000 euro, con un utile di 31.000. La Silk, come detto, distribuisce i vini della società agricola La Madeleine, di cui sono azionisti i due figli di D'Alema, la moglie Linda Giuva, che è anche amministratrice, e, di nuovo, il fondo Amana, entrato nella partita nel 2018. 

Secondo la documentazione consultata dalla Verità, il «beneficial owner» del fondo è Massimo Tortorella, romano, classe 1970, presidente del Consulcesi group, attivo nel settore della formazione e della consulenza legale destinata ai medici, che ha una filiale proprio a Miami, la Consulcesi Llc (in liquidazione), ubicata sempre su Brickell Avenue, ma al 1.200.

 Il sito internet Bisprofiles.com ci informa che è controllata da Tortorella e da una società con sede allo stesso indirizzo, la Pondarosa holdings Llc. Concentriamoci un attimo su quest' ultima: tra i manager della Pondarosa c'è il commercialista Gardo, il professionista dell'affare delle armi. Scopriamo così che uno degli intermediari del tentato business con la Colombia è collegato direttamente a un socio della famiglia D'Alema. Ma le coincidenze non sono finite. 

Il «registered agent» (una specie di domicilio legale) della Pondarosa è la Wey Llc, che nelle slide di presentazione del 2016 indica, con tanto il foto, Gardo come amministratore delegato e Umberto Bonavita in veste di presidente.La Pondarosa controlla anche un'altra società, inattiva dal 2021, la Product form Llc, sempre con sede al 1.200 di Brickell Avenue, che, possedeva il pacchetto di maggioranza del fondo lussemburghese Amana.

La Falcon limited di Tortorella ha acquistato il 100 per cento delle quote del fondo, compreso il 60 della Product, ma non c'entrerebbe nulla con quest' ultima.Quel che risulta chiaro, comunque, è che l'uomo scelto da Massimo D'Alema come socio delle due aziende di famiglia si avvale degli stessi professionisti operativi a Miami che avrebbero dovuto gestire gli 80 milioni di provvigioni dell'affare delle armi.

Chi li ha consigliati a chi? Dopo questa nostra inchiesta, ieri sera, abbiamo cercato in tutti i modi di metterci in contatto con Tortorella, dopo averci provato inutilmente con Bonavita e Gardo. Tortorella ci ha ricontattato e ci ha risposto con grande trasparenza, svelando tutto l'arcano. «Ho conosciuto D'Alema nel ristorante sotto casa mia in Fulham road. Il locale si chiama Gola e l'ex premier aveva organizzato una degustazione dei suoi vini. È nata subito una simpatia e quella stessa sera è venuto nella mia casa stupenda vicino allo stadio del Chelsea. Eravamo pure mezzi brilli.

I vini mi sono piaciuti moltissimo e per questo ho deciso di diventare socio. Mi disse che la quota valeva 2-3 milioni, non ricordo esattamente quanto, e per questo, trattandosi di un politico (ride, ndr) ho deciso di far fare una perizia a Gardo, che fa il fiscalista negli Stati uniti e in Italia. Lo avevo conosciuto nel 2013 a Miami e a lui avevo affidato la mia società americana per entrare nel mercato americano della formazione. Poi Gherardo si è proposto di fare la perizia. L'ex premier mi aveva detto: "Vale questo". Ho pensato: "Sì amore mio, tu dici che vale così, ma fammi controllare se è vero, sei un ex primo ministro, il vino è buono, ma fammi vedere"».

Quindi già nel 2018 D'Alema conosce Gardo e i due entrano in confidenza: «Insieme non li ho mai incontrati, perché io vivevo già a Londra e Gherardo è andato nella tenuta di D'Alema per fare la perizia senza di me. Da là si conoscono, là hanno creato i rapporti. So che comunque sono entrati in simpatia perché me lo ha detto proprio Gherardo, anche se non so che consulenze gli abbia dato D'Alema».

Da quando non vede Gardo? «Da circa due anni, anche perché è spesso negli Stati uniti. L'ultima volta, comunque, l'ho sentito circa un mese fa. Stava in America, ma non mi ha parlato dell'affare delle armi che mi ha pure innervosito». E Bonavita? «Non l'ho mai visto né conosciuto, non so chi sia. Probabilmente è il riferimento americano di Gardo».I destini di Tortorella e dell'ex premier si incrociano non solo nelle aziende collegate al vino, ma anche nella onlus Sanità di frontiera, di cui D'Alema è presidente e Tortorella, secondo il sito Internet della no profit, «ideatore». 

Sanità di frontiera, particolarmente sensibile al tema dell'immigrazione, vanta anche «il sostegno della Santa Sede attraverso l'Obolo di San Pietro grazie all'intervento diretto di Sua Santità papa Francesco». Stando a un verbale dell'inchiesta vaticana sul cardinale Angelo Becciu, a far ottenere il sostegno sarebbe stato Giuseppe Maria Milanese, presidente di Confcooperative Sanità. Rispondendo a una domanda dell'aggiunto Alessandro Diddi, Milanese ha infatti affermato: «Consulcesi è una società di Massimo Tortorella che io stesso ho introdotto in Sds (Segreteria di Stato, ndr) attraverso il progetto Sanità di frontiera». 

La Onlus, che ha la sede in piazza Farnese allo stesso indirizzo della fondazione Italianieuropei di D'Alema, vanta partner di prim' ordine, come Banca Intesa, Poste italiane, la Regione Lazio, Banca ifis, la Fondazione Snam e quella di Tim. Tra i sostenitori anche la Open society foundation del discusso miliardario George Soros. Tortorella è fierissimo del suo progetto: «Mi dedico alle persone che hanno bisogno, alla charity, ho aperto una scuola in Eritrea. Quando c'è stato il Covid ho comprato le mascherine e le ho distribuite».

A capo dell'advisory board c'è anche Gianni Letta, già braccio destro di Silvio Berlusconi: «La mia è un'organizzazione bipartisan, ma nonostante i grandi nomi dei politici e dei partner i soldi li ho sempre messi quasi tutti io. Mi aspettavo facessero di più. Il sostegno del Vaticano? Ho scritto personalmente una lettera al Santo Padre». Che, siamo certi, non avrà gradito la notizia della trattativa portata avanti dal presidente della Onlus per vendere armi alla Colombia.

"Riceveremo tutti 80 milioni di euro". La telefonata che inguaia D'Alema. Francesca Galici il 22 Marzo 2022 su Il Giornale.

In onda a Quarta Repubblica la telefonata intrcorsa tra Massimo D'Alema ed Edgar Fierro sulla compravendita di armamenti tra Italia e Colombia.

Il caso della compravendita di armi sull'asse Italia-Colombia si arricchisce ogni giorno di nuovi dettagli, soprattutto per quanto riguarda il ruolo di Massimo D'Alema. I contorni della vicenda non sono molto chiari, soprattutto non lo sono in relazione al ruolo dell'ex presidente del Consiglio in questa vicenda. La trattativa che si stava conducendo tra Italia e sud America, che vede come protagonisti anche Fincantieri e Leonardo, prevedeva una vendita di armamenti al governo della Colombia da parte dell'Italia per complessivi 4 miliardi di euro. A occuparsi di questa vicenda in tv è anche Nicola Porro, che nell'ultima puntata di Quarta Repubblica ha mandato in onda una telefonata intercorsa lo scorso 10 febbraio 2022 tra Massimo D'Alema ed Edgar Fierro, conosciuto in Colombia come ex sanguinario paramilitare colombiano, oggi libero, per trattare la vendita.

È importante specificare che Massimo D'Alema in tutta questa storia non ha nessun ruolo ufficiale, perché l'Italia non prevede nessuna figura di mediazione nella compravendita di armi tra governi. E questa è l'unica forma di commercio di questo tipo permesso nel nostro Paese. Ciò significa che nessun soggetto esterno agli apparati governativi può operare in questi scenari e, quindi, ambire a una percentuale economica sulla buona riuscita dello scambio. Tuttavia, l'audio mandato in onda da Quarta Repubblica, quello registrato durante una telefonata tra Edgar Fierro e Massimo D'Alema, lascerebbe intendere un'altra verità.

La trattativa che vedeva impegnato D'Alema sembra fosse ormai avanzata, anche se poi è saltato tutto poco prima della chiusura definitiva dell'affare. "Noi stiamo lavorando perché? Perché siamo stupidi? No, perché siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi 80 milioni di euro. Quindi si può fare un investimento, però non appena noi avremo questi contratti divideremo tutto, sarà diviso tutto. Questo non è un problema", dice Massimo D'Alema nella telefonata mostrata da Quarta Repubblica.

Il quotidiano Libero riporta che, sin dal 15 settembre 2021, la divisione commerciale di Leonardo, di cui il nostro ministero dell'Economia possiede circa il 30%, scriveva a Massimo D'Alema e nei saluti finali si congedava dall'ex premier con una formula particolare: "A presto e a risentirla anche sugli M-346". Gli M-346 sono una classe di aerei da caccia che anche il governo colombiano avrebbe voluto acquistare dal nostro Paese.

La commissione di 80 milioni di euro a cui fa riferimento Massima D'Alema sarebbe passata attraverso uno studio legale americano, il Robert Allen law di Miami, specializzato nel commercio di yacht e jet privati, non sottomarini e aerei da guerra. "È molto importante che la parte colombiana sia rappresentata da una società legale di avvocati. Dev'essere uno studio legale. Perché questo? Per due ragioni. Innanzitutto il contratto tra Robert Allen e la parte colombiana sarà sottoposto al controllo delle autorità degli Stati Uniti d'America, perché Robert Allen è una società americana. La legge americana protegge l'attività legale, il rapporto tra il legale e il suo cliente con il segreto", spiega ancora Massimo D'Alema nella telefonata.

Poi aggiunge: "Vorrei precisare che le autorità americane e gli Stati Uniti hanno un'attenzione particolare a tutte le attività economiche che riguardano i rapporti con la Colombia, perché la Colombia è un Paese, diciamo, sotto attenzione per quanto riguarda il narcotraffico e il riciclaggio di denaro". La figura dello studio Allen di Miami è centrale in questa vicenda. Nell'unica intervista rilasciata da Massimo D'Alema in merito a questa vicenda, concessa al quotidiano la Repubblica, l'ex premier ha dichiarato di non conoscere lo studio Allen, che è stato scelto dai colombiani. Ma in un servizio mandato in onda da Quarta Repubblica, uno dei due mediatori pugliesi coinvolti nella vicenda, riferisce che quello studio "viene individuato, proposto dal presidente D'Alema, con il placet di tutto il gruppo".

“Massimo D'Alema fuori legge”. L'ira di Hoara Borselli a Quarta Repubblica: chiaro interesse personale. su Il Tempo il 22 marzo 2022.

La vicenda del tentativo di commercio di armi con la Colombia e il ruolo di Massimo D’Alema è affrontata nel corso della puntata del 21 marzo di Quarta Repubblica, talk show del lunedì di Rete4 sotto la conduzione di Nicola Porro. A parlare è Hoara Borselli, che critica duramente l’ex presidente del Consiglio per il comportamento tenuto nella vicenda svelata negli scorsi giorni: “Non ignoriamo che quando si parla di commercio di armi, e di questo stiamo parlando, si devono interfacciare i due governi. D’Alema ha detto che ha fatto soltanto da tramite e da link, ma da quanto si evince dalle intercettazioni non sembra che lui faccia soltanto questo ruolo di tramite. Sembra che sia coinvolto in prima persona a far sì che questo affare possa andare in porto. Lo stesso D’Alema chiedeva che si concludesse in fretta, perché c’è un’intercettazione in cui dice ‘dobbiamo anche sbrigarci, perché potrebbe cambiare la situazione politica in Colombia’. Perché c’è questa premura a concludere? È fuori legge, c’è una legge che dice che non è possibile chiudere un’intermediazione dove c’è una compravendita di armi. Sentendo queste intercettazioni si capisce che - conclude la Borselli - è chiaro che c’è un interesse personale”.

Armi dall’Italia alla Colombia, D’Alema coinvolto in un’indagine della procura di Napoli. Fulvio Bufi e Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 23 Marzo 2022.

Accertamenti dopo l’esposto su un broker pugliese. Nel caso coinvolto anche l’ex premier D’Alema. 

Il caso Colombia arriva in Procura. Dopo l’esposto presentato a Napoli su un broker pugliese la Procura avvia accertamenti sull’intermediazione per la vendita alla Colombia di navi, sommergibili e aerei militari prodotti da Fincantieri e Leonardo che ha visto all’opera, come facilitatore l’ex presidente del Consiglio, Massimo D’Alema. Le verifiche partono dalla denuncia dell’Assemblea parlamentare del Mediterraneo (Apm), organizzazione che facilita i rapporti tra gli Stati, che ha sede a Napoli, contro Emanuele Caruso e altri soggetti da identificare che avrebbero cercato di accreditarsi come intermediari per la vendita delle armi, presso le istituzioni colombiane e il nostro governo, utilizzando documenti falsi. Carte che vantavano rapporti in realtà inesistenti con l’organizzazione. I documenti erano apparsi sul quotidiano La Verità. Si faceva cenno a una riunione per lanciare una partnership con una fantomatica «unione di cooperazione di Paesi sudamericani» e a progetti cui avrebbero dovuto partecipare, secondo quanto riportato dal quotidiano, un certo don Antonio (soprannome di Edgar Ignacio Fierro Florez) e Tolemaida ( Oscar Josè Ospino Pacheco accusato di omicidio). Falso per l’Apm che ha subito denunciato Caruso, che assieme a un altro sedicente broker Francesco Amato, promuove progetti per l’organizzazione Cooperation America Latina. Nell’esposto si precisa che l’Apm nulla ha a che fare con Caruso, o con intermediazioni di armi da guerra. Anzi promuove azioni di diplomazia parlamentare, volte a iniziative di pace e sicurezza. I reati adombrati sono falso, truffa e sostituzione di persona per la contraffazione della firma del segretario generale Apm, l’ambasciatore Sergio Piazzi, e per l’intestazione del documento che contiene il simbolo già sostituito da 10 anni e il nome del presidente di 10 anni fa. Inoltre nell’esposto è specificato che l’Apm non ha mai autorizzato la costituzione di una polizia del Mediterraneo, organizzazione alla quale si fa riferimento nei documenti presentati dal broker, né ha mai avuto con Caruso e gli altri contatti di alcun genere. Ora però sarà la Procura a stabilire su quale ipotesi indagare. Ma gli accertamenti non potranno che gettare uno sguardo più ampio su questa vicenda che sta suscitando clamore ed è già oggetto di interrogazioni parlamentari. Emerso il 28 gennaio sul sito Sassate.it (con un articolo dal titolo: «Difesa Leonardo Fincantieri ecco la passione della terza età di D’Alema») il caso è stato rilanciato da La Verità che ha ipotizzato una trattativa andata avanti in modo parallelo, rispetto a quella lineare tra governi, tra D’alema rappresentato dallo studio Robert Allen di Miami, un gruppo colombiano ed esponenti delle aziende finché lo ha scoperto il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè che avrebbe fatto saltare tutto. In un audio rubato nel corso della trattativa si sente la voce di D’Alema rassicurare l’interlocutore colombiano: «E stupido creare problemi. Siamo convinti che riceveremo 80 milioni, questa è la posta in gioco». L’ex premier ha assicurato: «Non avrei guadagnato un euro anche se fosse andata bene». Ma se l’indagine si estenderà a quei colloqui, il fascicolo dovrà essere trasmesso a Roma per competenza.

Giacomo Amadori Francois De Tonquedec per "la Verità" il 23 marzo 2022.

Per trovare nuovi indizi sull'affare degli armamenti che Leonardo e Fincantieri avrebbero dovuto vendere in Colombia, con l'intermediazione non ufficiale di Massimo D'Alema, bisogna seguire le tracce di Gherardo Gardo, cinquantenne ragioniere di Cento (Ferrara). Come abbiamo raccontato il suo nome è l'anello che collega l'ex premier all'avvocato Umberto Bonavita dello studio Robert Allen Law, l'ufficio di Miami a cui le aziende partecipate dallo Stato avrebbero dovuto pagare oltre 80 milioni di provvigioni in caso di vendita alle forze armate colombiane di 24 caccia M-346, due fregate e due sommergibili, un pacchetto del valore complessivo di 4 miliardi. 

Gardo aveva curato la perizia per una compravendita di quote di una società della famiglia dell'ex ministro degli Esteri e da allora, era il 2018, secondo un socio dello stesso D'Alema, i due sarebbero entrati in sintonia. Nel pieno delle trattative, avvenute a Bogotà, nel gennaio del 2022, Gardo, presente nella capitale sudamericana, gestisce gli arrivi dei manager di Fincantieri e Leonardo.

Tanto che Dario Marfé, «senior vice president commercial &customer services» gli invia all'indirizzo della società statunitense Wey llc, di cui il ragioniere è manager, il suo documento e quello di Carlo Bassani, «vicepresident commercial & customer services Latin America». «Caro Gherardo, come d'accordo, ti invio in allegato copia dei passaporti mio e del collega parteciperà con me alla riunione in Colombia» si legge nel messaggio. Marfé il 9 febbraio scrive a Gardo per chiedere un parere sul fatto che a una call tenuta il giorno prima «non abbia partecipato nessuno dell'Aeronautica militare della Colombia, ma bensì solo rappresentati della Marina».

Per questo propone di potersi sentire nei giorni successivi «per fare il punto della situazione dell'iniziativa e definire/condividere i prossimi passi». Gardo prova a tranquillizzarlo e assicura che sarà loro «cura approfondire tale argomento e capire le intenzioni a livello istituzionale» per poi «concordare i prossimi passi e definire tutte le formalità a oggi ancora sospese». 

Grazie a D'Alema i broker italiani e lo studio Allen sono riusciti a portare a casa un memorandum of understanding per la vendita delle fregate e dei sommergibili prodotti da Fincantieri e firmato a Bogotà il 27 gennaio 2022 da Giuseppe Giordo, general manager della divisione militare, e Achille Fulfaro, vicepresidente vendite e direttore commerciale. Un documento controfirmato, sembra, da due ammiragli in pensione. Ed eccoci alle sorprese. In vista del Mou, il 25 gennaio, Fincantieri, aveva predisposto una missiva, con due allegati, direttamente con l'avvocato Bonavita e non con lo studio Allen.

Si tratta di una «lettera di autorizzazione» a spendere il nome di Fincantieri per l'organizzazione di «uno o più incontri» con l'esercito colombiano e con la Contemar shipyard, la Fincantieri del Paese sudamericano, con scadenza prevista per il 31 marzo di quest' anno. È previsto che nei meeting la «Fincantieri potrà presentare i propri prodotti e capacità e discutere del proprio coinvolgimento in possibili futuri programmi navali dell'Armada de la República de Colombia».

Il permesso viene concesso personalmente al legale e lo stesso deve mantenere riservato il tutto per dieci anni. Non è prevista nessuna remunerazione, ma è probabile che questa dovesse essere determinata in un altro accordo. Lo studio Allen sarebbe eventualmente entrato in partita in una fase successiva, come si legge in un altro passaggio: «Fincantieri si impegna comunque a considerare la nomina della Robert Allen Law [] di cui Umberto Claudio Bonavita è il presidente, come supporto locale in Colombia in relazione a specifiche opportunità di business per Fincantieri in Colombia, a condizioni da discutere e concordare». 

Sia il pdf della lettera che quelli dei due allegati, relativi al conflitto di interessi, risultano creati il 26 gennaio, tra le 00.36 e le 00.37, dallo stesso autore. Indovinate di chi si tratta? È proprio Gherardo Gardo, socio di Bonavita nella Wey llc (sono cofondatori) società specializzata in consulenza per la compravendita di yacht. Non sappiamo se il ragioniere di Cento, che ha lasciato le sue impronte digitali sui documenti, li abbia proprio scritti o se, invece, li abbia solo trasformati in pdf o modificati in qualche altro modo.

Interessantissimo anche il «contratto di supporto e assistenza per la promozione delle vendite» predisposto da Leonardo, un accordo di consulenza che avrebbe dovuto legare azienda alla Robert Allen Law. In teoria uno studio legale non potrebbe adempiere all'oggetto del contratto che prevede lo svolgimento di attività commerciali e un'abilitazione da broker, ma probabilmente ci sarà stato qualche escamotage per aggirare l'ostacolo. Il documento elettronico è indirizzato all'attenzione di Bonavita e salvato, il 25 gennaio alle 23.03, da Serena Paesani, dipendente dell'azienda.

Il contratto è firmato dal direttore generale della divisione velivoli Marco Zoff, figlio dell'ex portiere della nazionale Dino. Nel file si legge: «Il presente accordo entrerà in vigore a partire dal 26 gennaio 2022 a condizione che l'accettazione da parte del promotore di tutti i termini e le condizioni qui presenti sia notificata alla società». Molto stringenti le condizioni riguardanti la riservatezza, che all'articolo 9 viene così vincolata: «Il promotore (lo studio Robert Allen Law, ndr) non utilizzerà il nome della società, né pubblicizzerà il suo rapporto con la società, il presente accordo e il suo contenuto, se non con il cliente per le finalità specifiche del presente accordo, senza il preventivo consenso scritto della società».

Dunque nulla di quanto stabilito poteva essere rivelato all'ex segretario del Pds, ai mediatori italiani Francesco Amato ed Emanuele Caruso o ai paramilitari colombiani, interlocutori nel business. Tutti soggetti che non potevano in nessun modo sostituirsi allo studio Allen senza l'autorizzazione dell'azienda. Infatti l'articolo 10 prevedeva: «Il promotore non può cedere il presente accordo, trasferire o cedere alcuno dei suoi diritti, né subappaltare o delegare in altro modo alcuno dei suoi obblighi ai sensi del presente accordo [] senza la preventiva approvazione e autorizzazione scritta della società».

Eppure il contratto, che aveva come scadenza il 23 gennaio 2023, conferma che quanto detto da D'Alema nella conference call del 10 febbraio con l'ex comandante delle Auc Edgar Ignacio Fierro rispetto ai compensi era più che fondato: «Success fee» del 2% per l'acquisizione di almeno 6 M-346 e per un importo superiore a 350 milioni di euro. Ma ecco la notizia più clamorosa: il contratto prevedeva che ci fosse una contropartita economica anche «nel caso in cui il contratto non soddisfacesse la condizione sopra descritta». 

In tal caso il corrispettivo non sarebbe stato corrisposto, ma «la società, a pieno e definitivo corrispettivo delle attività e dei servizi resi» avrebbe versato «al promotore una somma forfettaria discrezionale a compensazione della ricerca di marketing effettuata [] e al rimborso delle spese sostenute». Una cifra che non veniva specificata in nessun modo. Esattamente come aveva spiegato D'Alema nell'ormai celebre videochiamata: «Noi abbiamo chiesto che i contratti prevedano, oltre al "success fee" anche un compenso come "retailer", come rimborso spese, diciamo. Su questa seconda parte non abbiamo ancora ottenuto una definizione quantitativa, però sarà parte anche questo del contratto, o forse si farà un piccolo contratto ulteriore, diciamo».

Il pagamento della «success fee», se dovuta, sarebbe stato effettuato entro 90 giorni giorni lavorativi mediante bonifico bancario sul conto corrente bancario del promotore nel territorio in cui ha la sede legale. Dunque la quota degli 80 milioni di provvigioni ipotizzate da D'Alema sarebbe interamente finita in una banca americana. E agli altri soggetti coinvolti? Nulla, almeno stando al contratto, che impegna lo studio Allen a dichiarare di non aver «offerto, pagato, promesso di pagare o autorizzato al pagamento di qualsiasi denaro o dono, o offerto, promesso o autorizzato a dare qualsiasi cosa di valore [] o altro vantaggio» a una serie di figure.

Tra cui: «Qualsiasi funzionario o funzionario del cliente, qualsiasi partito politico o suo funzionario o qualsiasi candidato a una carica politica o qualsiasi funzionario pubblico o chiunque eserciti una funzione pubblica o qualsiasi attività di interesse pubblico, incluso, ma non limitato, a governo o funzionari o ufficiali delle forze armate». Dunque qualcosa non torna nel discorso di D'Alema che, dopo aver specificato che Bonavita e Gardo (appellato come «avvocato»), pur essendo andati in Colombia, non avevano ancora incassato neanche un euro, aveva dichiarato: «Non appena noi avremo questi contratti, noi divideremo tutto, sarà diviso tutto, questo non è un problema».

L'ex premier faceva promesse che sembrano andare contro le condizioni del contratto che era stata predisposto da Leonardo. Ricapitolando, in questo accordo capestro per l'azienda italiana e solo apparentemente pieno di lacci e lacciuoli, era previsto che il «promotore» venisse pagato anche in caso di insuccesso.

Leonardo doveva erogare un importo a sua discrezione per compensare la Robert Allen Law di un ipotetico report di marketing da loro preparato e per rimborsarli delle spese sostenute per le altre attività. Ai sensi del contratto la Robert Allen aveva comunque diritto al compenso anche in caso di rescissione dell'accordo da parte di Leonardo. Una formula che sarebbe interessante sapere se venga utilizzata dalla società di piazza Montegrappa anche in casi in cui non compaia come sponsor D'Alema. 

Infine le somme avrebbero dovuto essere pagate sul conto di Miami della Robert Allen Law che, secondo il contratto, doveva aver già fornito gli estremi del rapporto finanziario. Gli accordi, però, non sono mai stati sottoscritti e formalizzati e tra il 28 febbraio e l'1 marzo 2022 il sito Sassate e La Verità (che ha scovato l'audio di D'Alema) hanno scoperchiato l'affare, mandando a monte l'incredibile operazione che avrebbe dovuto garantire ai D'Alema boys oltre 80 milioni.

Fulvio Bufi e Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 23 marzo 2022.

Il caso Colombia arriva in Procura. Dopo l'esposto presentato a Napoli su un broker pugliese la Procura avvia accertamenti sull'intermediazione per la vendita alla Colombia di navi, sommergibili e aerei militari prodotti da Fincantieri e Leonardo che ha visto all'opera, come facilitatore l'ex presidente del Consiglio, Massimo D'Alema. Le verifiche partono dalla denuncia dell'Assemblea parlamentare del Mediterraneo (Apm), organizzazione che facilita i rapporti tra gli Stati, che ha sede a Napoli, contro Emanuele Caruso e altri soggetti da identificare che avrebbero cercato di accreditarsi come intermediari per la vendita delle armi, presso le istituzioni colombiane e il nostro governo, utilizzando documenti falsi.

Carte che vantavano rapporti in realtà inesistenti con l'organizzazione. I documenti erano apparsi sul quotidiano La Verità . Si faceva cenno a una riunione per lanciare una partnership con una fantomatica «unione di cooperazione di Paesi sudamericani» e a progetti cui avrebbero dovuto partecipare, secondo quanto riportato dal quotidiano, un certo don Antonio (soprannome di Edgar Ignacio Fierro Florez) e Tolemaida ( Oscar Josè Ospino Pacheco accusato di omicidio). 

Falso per l'Apm che ha subito denunciato Caruso, che assieme a un altro sedicente broker Francesco Amato, promuove progetti per l'organizzazione Cooperation America Latina. Nell'esposto si precisa che l'Apm nulla ha a che fare con Caruso, o con intermediazioni di armi da guerra. Anzi promuove azioni di diplomazia parlamentare, volte a iniziative di pace e sicurezza.

I reati adombrati sono falso, truffa e sostituzione di persona per la contraffazione della firma del segretario generale Apm, l'ambasciatore Sergio Piazzi, e per l'intestazione del documento che contiene il simbolo già sostituito da 10 anni e il nome del presidente di 10 anni fa. Inoltre nell'esposto è specificato che l'Apm non ha mai autorizzato la costituzione di una polizia del Mediterraneo, organizzazione alla quale si fa riferimento nei documenti presentati dal broker, né ha mai avuto con Caruso e gli altri contatti di alcun genere.

Ora però sarà la Procura a stabilire su quale ipotesi indagare. Ma gli accertamenti non potranno che gettare uno sguardo più ampio su questa vicenda che sta suscitando clamore ed è già oggetto di interrogazioni parlamentari. 

Emerso il 28 gennaio sul sito Sassate.it (con un articolo dal titolo: «Difesa Leonardo Fincantieri ecco la passione della terza età di D'Alema») il caso è stato rilanciato da La Verità che ha ipotizzato una trattativa andata avanti in modo parallelo, rispetto a quella lineare tra governi, tra D'Alema rappresentato dallo studio Robert Allen di Miami, un gruppo colombiano ed esponenti delle aziende finché lo ha scoperto il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè che avrebbe fatto saltare tutto. In un audio rubato nel corso della trattativa si sente la voce di D'Alema rassicurare l'interlocutore colombiano: «E stupido creare problemi.

Siamo convinti che riceveremo 80 milioni, questa è la posta in gioco». L'ex premier ha assicurato: «Non avrei guadagnato un euro anche se fosse andata bene». Ma se l'indagine si estenderà a quei colloqui, il fascicolo dovrà essere trasmesso a Roma per competenza.

Armi alla Colombia. Magistratura in campo. D'Alema ora trema. Luca Fazzo il 24 Marzo 2022 su Il Giornale.

La Procura di Napoli indaga sull'operazione che doveva fruttare all'ex premier 80 milioni.  

Il granello di sabbia che fa saltare il meccanismo, nell'intrigo internazionale che ha al centro Massimo D'Alema e i suoi affari in Colombia per conto di Leonardo e Fincantieri, potrebbe essere alla fine un dettaglio quasi irrilevante: un passaggio in cui uno dei compari di avventura e affari dell'ex segretario dei Ds si accreditava facendo il nome dell'Associazione parlamentare del Mediterraneo, un benemerito organismo internazionale che di tutto si occupa tranne che di traffici d'armi. Vistasi tirata in causa, il 6 marzo Apm aveva presentato denuncia per una sfilza di reati alla Procura di Napoli, la città dove ha la sua sede. Ieri il Corriere della sera rivela che la magistratura del capoluogo campano ha aperto ufficialmente una inchiesta. Truffa, sostituzione di persona, falso: reati, come si vede, un po' collaterali rispetto al cuore del business. Ma il fascicolo rischia di diventare il contenitore dove i pm potranno scavare in profondità su tutti gli aspetti della operazione che doveva portare alla squadra di D'Alema una mega-cresta da ottanta milioni.

Finora la sconcertante vicenda, venuta alla luce solo per il brusco stop imposto dal sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè, era riuscita a evitare i radar della magistratura grazie a due dettagli. Il primo: Leonardo è di fatto un colosso di Stato ma è tecnicamente un'azienda privata, i suoi manager non sono pubblici ufficiali e quindi non possono essere incriminati per traffico di influenze. Il secondo: nei numerosi documenti venuti alla luce finora, non c'è traccia di tangenti promesse a esponenti del governo o delle forze armate colombiane, che avrebbero giustificato una indagine per corruzione internazionale. Così lo scandalo di un ex presidente del Consiglio che si trasforma in piazzista di armi per conto di una azienda pubblica era rimasto finora in una sorta di limbo giudiziario.

Ora invece le acque si smuovono, e chissà fin dove arriveranno. Chiari i reati su cui indaga per ora la Procura di Napoli, nessuna conferma ufficiale su eventuali iscrizioni nel registro degli indagati: anche se nella denuncia di Apm almeno un nome si fa ed è quello di Emanuele Caruso, ex consigliere Pd in un paesino pugliese, ovvero uno dei due faccendieri che coinvolge D'Alema nella sfortunata missione colombiana. È lui a fabbricare i falsi documenti di Apm che usa per accreditarsi. Se Caruso finisse nel mirino della Procura di Napoli, difficilmente potrebbe cavarsela senza raccontare la genesi della trattativa con il governo di Bogotà. E soprattutto quali mandati avesse ricevuto D'Alema dall'interno di Leonardo.

Che qualcuno dall'interno della ex Finmeccanica abbia affidato l'incarico a «Baffino» e alla sua squadra è, peraltro, ormai pacifico. La versione di Leonardo, secondo la quale allo studio a Miami dell'avvocato Robert Allen (braccio operativo di D'Alema in questo e altri affari) sarebbe stato inviato solo un «no disclosure agreement», un patto esplorativo riservato, non seguito da intese operative, è stata smentita l'altra sera da Quarta Repubblica, la trasmissione di Nicola Porro che ha squadernato la fotocopia di un sales promotion support and agreement, un pieno mandato di mediazione inviato dalla divisione aerea di Leonardo a Umberto Bonavita, presidente dello studio Robert Allen. La prova provata che Leonardo mentiva.

AFFARI E IMBARAZZI. Leonardo ha un socio scomodo: l’azienda controllata dal colosso russo di armi. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 19 marzo 2022

«Le attività di Leonardo in Russia sono ferme, i dipendenti sono tutti rientrati e le attività riguardavano solo il mercato elicotteristico civile », dice l’ufficio stampa di Leonardo. 

Nel giugno 2016 Matteo Renzi, allora presidente del Consiglio, e il leader russo Vladimir Putin firmano a San Pietroburgo gli accordi bilaterali che sanciscono nuovi patti di cooperazione tra le aziende italiane e quelle russe.

Leonardo-Finmeccanica firma con le russe Rosneft e Russian Helicopters uno degli accordi.

Russian Helicopters fabbrica elicotteri civili e militari e fa parte di Rostec, azienda che produce armamenti.  

NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani, autore dello scoop sul carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Da iene.mediaset.it il 24 marzo 2022.  

Con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti ecco la risposta dell'ex premier Massimo D'Alema sulla pubblicazione da parte del quotidiano La Verità di quanto si sarebbe detto al telefono con Edgar Ignacio Fierro, pregiudicato colombiano condannato per più omicidi, su una vendita di armi alla Colombia e un presunto affare per i mediatori da 80 milioni di euro. Ecco anche la versione del capo della comunicazione di Leonardo, coinvolta in una operazione che poi è saltata

Dagospia il 24 marzo 2022. Riceviamo e pubblichiamo: La presente per sottoporre alla Sua cortese attenzione e a quella della redazione della trasmissione de “le Iene” formale diffida dal pubblicare in toto o parzialmente stralci della telefonata intercorsa fra il sottoscritto e il giornalista Antonino Monteleone avvenuta nella giornata di ieri intorno alle 14.

La telefonata è stata presentata dal giornalista Antonino Monteleone come richiesta di confronto sul caso seguito dallo stesso per interpretare al meglio le informazioni in suo possesso, senza alcun riferimento alla registrazione della stessa.

L’interlocuzione fra colleghi risponde ad un codice deontologico condiviso in cui la stessa - per definizione e salvo una dichiarazione esplicita – avviene off the record con lo scopo di poter aiutare il lavoro di informazione e di analisi. Al termine della stessa è stata inviata – anche in questo caso di prassi – una posizione ufficiale della società. 

Per ulteriore sicurezza ho esplicitato al giornalista Antonino Monteleone che la nostra conversazione non poteva essere riportata se non nella parte della dichiarazione ufficiale mandata per iscritto via messaggio.

A quel punto il giornalista – a precisa richiesta – si è trincerato dietro una pretesa libertà di aver registrato la telefonata senza preavviso e di poterla usare in piena libertà. Ritengo che tale comportamento viola gravemente il codice deontologico giornalistico e mina nelle fondamenta il sano rapporto fra giornalisti e uffici stampa in cui nell’off the record si possono dare dei dettagli utili a ricostruire al meglio gli eventi, evitando che si incorra in una informazione parzialmente lacunosa o imprecisa. 

Tale comportamento se messo in atto dal giornalista e dalla trasmissione stessa sarà oggetto di un ulteriore segnalazione all’Ordine dei Giornalisti, al fine di ripristinare nell’alveo della corretta informazione deontologica il lavoro giornalistico, nel rispetto delle regole in essere.

Confermo inoltre che nel caso di una richiesta esplicita, non mi sarei sottratto a rilasciare una dichiarazione ufficiale ad uso del programma. Di seguito ricordo la posizione ufficiale dell’azienda che potrà essere utilizzata. 

“Gentile redazione, l’azienda, nel far presente che è in corso da tempo una campagna commerciale avente a riferimento il cliente Colombia, conferma di non aver finalizzato alcun incarico a nessuno dei soggetti menzionati nell’ambito della vicenda in oggetto, a differenza di come ipotizzato da alcuni organi di stampa. “

Ufficio Stampa Leonardo” In attesa di un Suo cortese riscontro, porgo i miei più cordiali saluti Stefano Amoroso

LA RISPOSTA DI ANTONINO MONTELEONE. Caro Dago, Per completezza di informazione ci tengo a segnalarTi  che Stefano Amoroso dice un paio di cose che ritengo piuttosto distanti dal vero e spiego il perché. L’ho chiamato, qualificandomi compiutamente, non per avere fumosi retroscena o suggerimenti. L'ho chiamato con la richiesta esplicita di avere risposte puntuali a domande precise. Ha replicato che c’era un comunicato stampa che mi ha inviato via whatsapp almeno tre volte.

Era identico a quello inviato ad altre redazioni.

Gli dico che se quelle erano delle risposte voleva dire che erano sbagliate le domande o che non le aveva capite. Quindi ho cominciato a fare il mio mestiere: domandare a chi per titolo, funzioni e lauto compenso è titolato a rispondere. L’altra affermazione da smentire è la seguente: «Nel caso di una richiesta esplicita (di intervista nda), non mi sarei sottratto a rilasciare una dichiarazione ufficiale ad uso del programma». 

Ciò non corrisponde affatto al vero, anzi sono stato schernito quando ho insistito per incontrare qualcuno, diverso da lui, altrettanto titolato a esprimere il parere della società.

Né lui si è reso disponibile a farlo in prima persona. Un capo della comunicazione che non comunica fa un po’ sorridere.

Ha sempre ritenuto, ragionevolmente, che la telefonata fosse registrata (in un passaggio non in onda dice «siccome non so se mi stai registrando, di più non posso dire!»), quando poi lo ha chiesto esplicitamente l'ho confermato senza alcuna esitazione. Dice che intende rivolgersi all’Ordine dei Giornalisti o al Giudice. Nelle sedi che Amoroso deciderà di adire, depositeremo quello che sarà necessario per dimostrare il nostro buon diritto a riportare le sue dichiarazioni. 

Cordialmente dott. Antonino Monteleone

François de Tonquédec per “la Verità” il 24 marzo 2022.  

 Dopo un lungo silenzio mediatico Massimo D'Alema ha finalmente detto la sua in tv sulla vicenda della trattativa per vendere navi, sommergibili e aerei alla Colombia con la mediazione di un'improbabile squadretta di consulenti. L'ex primo ministro ha mostrato quanto sia in difficoltà in questo momento durante un'intervista rilasciata alle Iene.

L'inviato Antonino Monteleone inizialmente era stato respinto con perdite, ma poi è riuscito a raccogliere lo sfogo dell'ex segretario del Pds che, tra una parolaccia e l'altra, ha praticato un'incredibile arrampicata sugli specchi per negare il peso della registrazione, svelata dalla Verità, della sua videochiamata con l'ex paramilitare delle Auc Edgar Ignacio Fierro Florez. «Il problema è che tutta questa campagna muove da un materiale inquinato, perché se uno intercetta illegalmente tra l'altro perché non è un'intercettazione della magistratura» ha detto l'ex primo ministro, senza spiegare che le registrazioni tra presenti non sono illegali.

Poi ha aggiunto: «Questa roba è stata comunque lavorata con tagli e cuci, quindi è un'informazione a mio giudizio falsa». E le sartine saremmo noi della Verità. «L'Italia è il Paese delle polemiche» ha provato ad ammorbidirlo Monteleone, ricevendo questa replica un po' sboccata: «Ma la polemica non c'entra un beato cazzo. Si vogliono danneggiare le imprese italiane che hanno avuto un danno molto grande ma questo a voi non ve ne frega un cazzo».

Insomma il povero D'Alema non parlava di armi con sanguinari ex militari colombiani per incassare 80 milioni di euro da spartire con i suoi soci, ma per il bene del Paese. E per questo vorrebbe essere ringraziato: «Io non ho incontrato il governo della Colombia, non ho fatto trattative con nessuno». Quella con Fierro, che lui riteneva essere un senatore, era una semplice «attività di promozione, non una trattativa». E allora le provvigioni di cui i due parlavano? 

D'Alema continua l'arrampicata: «Eh beh ma è assolutamente normale che in operazioni di questo genere si diano incarichi professionale di assistenza legale promozione commerciale ma non è una trattativa perché il mio interlocutore non è l'acquirente». Quindi nessuna violazione della legge che regola la compravendita delle armi?

L'ex ministro degli Esteri si accende ancora una volta come un fiammifero: «Ma è una cazzata che non sta né in cielo, né in terra, io parlavo con un signore per sostenere il fatto che loro si dessero da fare a favore della proposta italiana, ma è un fatto promozionale. Non è una trattativa». 

In pratica l'ex primo ministro era una specie di ragazzo sandwich, un volantinatore. Intanto ieri, a dargli un ulteriore dispiacere ci ha pensato il suo ormai ex compagno di partito, il ministro della Difesa pd Lorenzo Guerini, che nel rispondere a un'interrogazione di Fratelli d'Italia, ha evidenziato la distanza tra il governo e la trattativa portata avanti dai D'Alema boys, sgomberando «il campo da un equivoco di fondo, rappresentato dall'associazione tra le presunte interlocuzioni avvenute tra le parti e lo strumento del G2G (Government-to-government, ndr)».

Il G2G è una modalità di vendita degli armamenti che affianca quella di mercato e che garantisce all'acquirente garanzie governative sulla gestione del contratto. In questo caso le procedure prevedono «il diretto coinvolgimento delle preposte articolazioni del governo, nell'ambito di un preventivo rapporto istituzionale tra Stati». E niente di tutto questo è accaduto. Tanto che il ministro ha ribadito: «Nessun aspetto della vicenda in questione è pertanto riconducibile all'utilizzo dello strumento del G2G tra il governo italiano e il governo della Colombia». 

Quanto alle interlocuzioni istituzionali tra l'ambasciatrice colombiana a Roma e il sottosegretario Giorgio Mulè, per Guerini non rientravano nelle procedure G2G, ma erano «configurabili come normali rapporti tra Paesi» e «nulla hanno avuto a che fare con eventuali collaborazioni tra aziende e società mediatrici, consulenti o professionisti esterni». L'ennesimo schiaffo a D'Alema. Infine il ministro ha riconosciuto il merito dei nostri scoop, definendo la vicenda «una questione oggetto di giusta attenzione mediatica e di inchieste giornalistiche».

Dagospia il 24 marzo 2022. Riceviamo e pubblichiamo da Stefano Amoroso, capo comunicazione di Leonardo: La presente per sottoporre alla Sua cortese attenzione e a quella della redazione della trasmissione de “le Iene” formale diffida dal pubblicare in toto o parzialmente stralci della telefonata intercorsa fra il sottoscritto e il giornalista Antonino Monteleone avvenuta nella giornata di ieri intorno alle 14.

La telefonata è stata presentata dal giornalista Antonino Monteleone come richiesta di confronto sul caso seguito dallo stesso per interpretare al meglio le informazioni in suo possesso, senza alcun riferimento alla registrazione della stessa. 

L’interlocuzione fra colleghi risponde ad un codice deontologico condiviso in cui la stessa - per definizione e salvo una dichiarazione esplicita – avviene off the record con lo scopo di poter aiutare il lavoro di informazione e di analisi. Al termine della stessa è stata inviata – anche in questo caso di prassi – una posizione ufficiale della società.

Per ulteriore sicurezza ho esplicitato al giornalista Antonino Monteleone che la nostra conversazione non poteva essere riportata se non nella parte della dichiarazione ufficiale mandata per iscritto via messaggio. 

A quel punto il giornalista – a precisa richiesta – si è trincerato dietro una pretesa libertà di aver registrato la telefonata senza preavviso e di poterla usare in piena libertà. Ritengo che tale comportamento viola gravemente il codice deontologico giornalistico e mina nelle fondamenta il sano rapporto fra giornalisti e uffici stampa in cui nell’off the record si possono dare dei dettagli utili a ricostruire al meglio gli eventi, evitando che si incorra in una informazione parzialmente lacunosa o imprecisa. 

Tale comportamento se messo in atto dal giornalista e dalla trasmissione stessa sarà oggetto di un ulteriore segnalazione all’Ordine dei Giornalisti, al fine di ripristinare nell’alveo della corretta informazione deontologica il lavoro giornalistico, nel rispetto delle regole in essere. 

Confermo inoltre che nel caso di una richiesta esplicita, non mi sarei sottratto a rilasciare una dichiarazione ufficiale ad uso del programma.

Di seguito ricordo la posizione ufficiale dell’azienda che potrà essere utilizzata: “Gentile redazione, l’azienda, nel far presente che è in corso da tempo una campagna commerciale avente a riferimento il cliente Colombia, conferma di non aver finalizzato alcun incarico a nessuno dei soggetti menzionati nell’ambito della vicenda in oggetto, a differenza di come ipotizzato da alcuni organi di stampa. “Ufficio Stampa Leonardo”. In attesa di un Suo cortese riscontro, porgo i miei più cordiali saluti Stefano Amoroso

D’Alema: «Il mio comportamento è stato trasparente. Ho peccato di mancanza di cautela».  Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 25 marzo 2022.

Presidente D’Alema, su Emanuele Caruso e Francesco Amato, con cui lei aveva parlato nell’ambito dei per una possibile fornitura italiana di armi e non solo. «Sì ma non c’entra nulla con la storia della Colombia. L’Assemblea del Mediterraneo ha denunciato questi due consiglieri del ministero degli Esteri di Bogotà perché avrebbero dichiarato di essere suoi membri senza esserlo».

Teme di essere indagato? «E perché? Non ho fatto nulla di illecito o poco trasparente. Sono anzi tra quelli che hanno più interesse a fare chiarezza su tutti i punti oscuri di questa storia, come la registrazione illegale…».

Della sua conversazione con Edgar Fierro, ex paramilitare condannato a 40 anni e poi graziato. «Non ho controllato il curriculum del mio interlocutore. Mi hanno detto che era un senatore».

Se avesse saputo chi era, gli avrebbe parlato? «Direi di no».

Non pensa sia stata quantomeno una leggerezza non aver controllato neanche su Internet? «Lo è stata. Non c’è dubbio che in questa vicenda ho peccato di mancanza di cautela. Le imprese italiane, invece, hanno agito in modo assolutamente corretto e prudente».

Com’è finito dentro questa storia? «Si è presentato da me un imprenditore salentino che conoscevo da anni, Giancarlo Mazzotta. Mi dice che conosce due consiglieri del ministero degli Esteri di Bogotà che potevano dare una mano a promuovere attività italiane in Colombia».

Forniture militari? «Anche, perché c’era stato un provvedimento del loro Parlamento in questo senso. Ma non solo, pure a interventi su energia e infrastrutture».

Perché Mazzotta viene da lei? «Faccio questo lavoro».

Il lobbista? «No. Faccio consulenza e assistenza a imprese italiane per investimenti all’estero, che a volte prevede l’avere rapporti con i governi. Scusi, che cosa vuol dire lobbista?».

Più o meno questo. Consulenza, assistenza… «Questo tipo di attività viene svolta nel mondo da numerosi ex esponenti politici che di solito vengono ringraziati, non fucilati alle spalle».

Come Schroeder, Renzi... «Renzi è attualmente senatore, io non sono parlamentare dal 2013. Schroeder lavora per una società russa, io per aziende del mio Paese. Non è la stessa cosa».

Il caso Colombia

Lei collabora con Ernst&Young? «Sì. Ma Ernst&Young qui non c’entra nulla».

Quando le prospettano queste opportunità, che fa? «Informo i vertici di Leonardo e Fincantieri. Le società italiane hanno poi ricevuto inviti ufficiali e fatto incontri istituzionali».

Era una mediazione? «Ho solo messo in contatto i soggetti e sono rimasto a casa. Chi è andato in Colomba ha svolto un’attività di promozione. E, una volta che la Colombia avesse deciso di procedere agli acquisti, magari si sarebbe trovato in una posizione più vantaggiosa».

Accordi di questo tipo non li fanno i governi? C’era bisogno di una trattativa doppia, onerosa? «Le ripeto che non c’è stata alcuna trattativa, né doppia né singola! Siccome vengono tutti descritti come miei emissari, le ricordo che i due protagonisti erano consiglieri del ministero degli Esteri della Colombia; e che Mazzotta non è stato “mandato” lì da me ma invitato dal ministero di cui sopra. Io l’ho solo sollecitato a informare l’ambasciatore italiano per un’ovvia ragione di trasparenza».

E il governo italiano era all’oscuro? «Normalmente gli ambasciatori informano i governi. E quando l’ambasciatrice della Colombia mi disse che la faccenda era seguita dal sottosegretario Mulè, su mia preghiera Mazzotta si recò a informarlo. E mi riportò che lui gli aveva detto “andate avanti”. Non ho ragione di dubitare di questa versione».

Lei parla al telefono di 80 milioni di provvigione. A chi sarebbero andati? «Io ho fatto una stima sommaria di quello che poteva valere — in termini di consulenza, promozione commerciale e assistenza legale — una massa di investimenti come quella di cui si parlava. Parliamo di un lavoro che può durare otto anni, non il tempo di una firma. Quindi penso che una parte sarebbe andata a Robert Allen Law, che avevo segnalato per l’assistenza legale e di promozione; mentre i colombiani sollecitavano una partnership loro, com’era giusto che fosse».

Perché Robert Allen Law? «È una società prestigiosa, con legami in America Latina, aveva già collaborato con Fincantieri».

Ha un contratto con loro? «No. Li conosco, ho collaborato con loro come con altre società americane».

Che cosa ci avrebbe guadagnato da questa storia? «La mia società avrebbe avuto dei vantaggi nel campo dell’energia, delle infrastrutture, in rapporto alle aziende private con cui collaboro. Con le aziende pubbliche, come ho detto, non ho contratti».

Con quali aziende private? «Se permette, le lascerei fuori».

Maurizio Belpietro per “La Verità” il 27 marzo 2022.

Ma quanto è tenero Massimo D'Alema quando chiede, a Tommaso Labate, che lo intervista per il Corriere della Sera, che cosa voglia dire lobbista? 

Ora, immaginate un uomo che nella sua vita può vantare un passato da segretario della Federazione giovanile comunista, direttore dell'Unità, segretario dei Democratici di sinistra, presidente della commissione bicamerale per le riforme, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri, presidente del Copasir, cioè del comitato che vigila sui servizi segreti, e pure da vicepresidente dell'Internazionale socialista, che è costretto a chiedere a un cronista parlamentare, seppur qualificato come Labate, che cosa voglia dire lobbista.

Glielo spieghiamo noi. Basta aprire il dizionario Garzanti per scoprire che il lobbista è colui che fa parte di una lobby, ovvero di qualcuno che appartiene, citiamo senza aggiungere una virgola, a un «gruppo di interesse che, esercitando pressioni anche illecite su uomini politici, ottiene provvedimenti a proprio favore».

Ecco, noi dopo aver letto l'intervista al quotidiano di via Solferino, siamo certi che l'ex premier, oggi consulente per aziende che non vuole nemmeno nominare per non metterle nei guai, non abbia esercitato alcuna pressione illecita su uomini politici. Come ammette lui stesso nel colloquio con Labate, è stato semplicemente ingenuo.

Sì è fidato di persone che si erano presentate come immacolate, senza guardare il loro curriculum e senza neppure dare un occhio a internet, dove pure avrebbe potuto scoprire che i figuri a cui si accompagnava per «aiutare le aziende italiane» non erano così titolati come sembravano. 

Sì, ha scambiato un ex paramilitare, condannato a 40 anni di carcere e poi graziato, per un senatore, ma che cosa volete che sia? Sì è fidato di un imprenditore salentino, che conosceva da anni e di cui avrebbe dovuto sapere i trascorsi non proprio intonsi, raccomandandolo all'ambasciatore in Colombia per alcune forniture militari?

Beh, ma quello gli aveva detto di essere già in ottimi rapporti con due consiglieri del ministero degli Esteri e lui ha pensato bene di aggiungere alle conoscenze del conoscente anche il nostro rappresentante a Bogotà. Teme di essere indagato? E perché? risponde il candido D'Alema: «Non ho fatto nulla di illecito o poco trasparente». 

Anzi, quasi quasi da quel che dice si capisce che si ritiene una vittima. Non è stata una leggerezza fidarsi di certi personaggi, senza controllare chi realmente fossero? Sì, forse il suo è stato un peccato di ingenuità. «In questa vicenda c'è stata una mancanza di cautela».

Ma se lui è stato poco accorto, le aziende che intendeva aiutare, ovviamente per puro spirito solidaristico nei confronti del Made in Italy, «hanno agito in modo assolutamente corretto e prudente». 

E gli 80 milioni di provvigione di cui parla al telefono? «Ho fatto una stima sommaria di quello che poteva valere - in termini di consulenza, promozione commerciale e assistenza legale - una massa di investimenti come quella di cui si parlava». Insomma, niente di concreto, solo una valutazione generica, da uomo che conosce il mondo, la politica e gli affari, sebbene scambi ex paramilitari per senatori.

Di certo gli 80 milioni non erano una richiesta. E come mai intendeva affidarsi a uno studio legale di Miami?

Semplice conoscenza e stima nei confronti di una società con cui ha già lavorato in passato. E lei che cosa ci avrebbe guadagnato in questa storia? chiede ancora Labate. Niente soldi, per favore. Solo eterna riconoscenza.

«Vantaggi nel campo dell'energia, delle infrastrutture, in rapporto alle società private con cui collaboro». Un do tu des da cui sarebbero state escluse le aziende pubbliche. Ma Fincantieri e Leonardo, le due società che con l'interessamento di D'Alema e la fattiva collaborazione di mediatori poco raccomandabili, non sono pubbliche?

Sì, ma il povero D'Alema, impegnato in un'arrampicata sugli specchi per giustificare il suo ruolo in una trattativa che preferisce chiamare promozione, dimentica questi dettagli. Alla fine, dopo l'impegnativa scalata, alla domanda se, conoscendo con chi aveva a che fare, si sarebbe infilato in questo pasticcio, l'inesperto Massimino, l'uomo che al telefono cercava di convincere i suoi interlocutori che il BU-SI-NESS (lo disse scandendo bene le parole e le S) valeva 80 milioni da dividersi equamente, risponde: «Non direi».

Luca Fazzo per “il Giornale” il 25 marzo 2022. 

«D'Alema ha smesso con la politica. Fa un altro mestiere. Io ho interessi diversi». Arrivato al ventesimo giorno dello scandalo che lo ha investito per i traffici d'armi con la Colombia, a Massimo D'Alema tocca la rasoiata da parte di uno dei suoi successori alla guida del Pds, diventato nel frattempo il Partito democratico. 

É Pierluigi Bersani, in una lunga dichiarazione a Tpi in cui ragiona sulla ipotesi di un rientro nel Pd, a rendere esplicito in modo in cui molti, dentro al principale partito della sinistra, vivono il nuovo corso del vecchio leader. Fine della politica, testa agli affari. A rendere imbarazzante quanto sta emergendo nelle trattative avviate da D'Alema per piazzare navi e aerei di Fincantieri e Leonardo al governo colombiano, aggirando la trattativa ufficiale già aperta tra i due paesi, è anche il livello non elevatissimo dei mediatori, in buona parte pugliesi, di cui l'ex premier si circonda.

Al punto che l'ipotesi che tutto vada ridotto a una sorta di millanteria non viene esclusa dagli inquirenti della Procura di Napoli, che hanno aperto per primi un fascicolo sul D'Alema-gate. Fascicolo che però potrebbe venire presto spostato per competenza territoriale alla procura di Roma. Il diretto interessato, nel frattempo, da visibili segnali di nervosismo. L'altro giorno, inseguito dalle telecamere delle Iene, «Baffino» non ha risposto alle domande. Ma poi ha accettato, per la seconda volta da quando è iniziato il caso (la prima era stata con una intervista a Repubblica dai toni decisamente più pacati) di rispondere alle domande del programma di Italia 1.

E si è lasciato andare al turpiloquio, come spesso gli accade quando è nervoso. «La polemica non c'entra un beato cazzo, si vogliono danneggiare le imprese italiane che hanno avuto un danno molto grande ma di questo a voi non ve ne frega un cazzo». In realtà a danneggiare Leonardo, la ex Fincantieri, potrebbe essere proprio quanto sta emergendo sul mandato informale che qualcuno, dall'interno dell'azienda, ha conferito all'ex presidente del Consiglio per trattare con le autorità colombiane.

D'Alema nelle sue dichiarazioni alle Iene ha provato a negare che una trattativa sia mai esistita, «è una cazzata che non sta nè in cielo nè in terra, io parlavo con un signore per sostenere il fatto che si dessero da fare a favore della proposta italiana ma è un fatto promozionale, non una trattativa». Peccato che per questo «fatto promozionale» D'Alema puntasse a incassare ottanta milioni di euro, calcolati in percentuale secca del due per cento sull'importo della trattativa.

E che nomi di esponenti di secondo piano delle autorità colombiane compaiano nelle intercettazioni pubblicate nelle settimane scorse dalla Verità. Ma se D'Alema dà vistosi segni di nervosismo, non molto più serena è la situazione all'interno di Leonardo. L'audit interno, affidato a un coriaceo ex ufficiale della Guardia di finanza di nome Massimo Di Capua, sta andando in profondità per accertare chi nell'azienda, in palese violazione delle procedure, ha deciso di accogliere la autocandidatura di D'Alema come brasseur con le autorità di Bogotà. Una candidatura che se fosse venuta da chiunque altro sarebbe stata probabilmente rispedita al mittente, e che invece è stata accettata, fino al punto di inviare una lettera di incarico allo studio legale di Miami dietro al quale si muoveva proprio «Baffino».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 25 marzo 2022. 

«Quando mi chiamano dall'Italia ho il terrore che sia La Verità». L'ambasciatore a Bogotà Gherardo Amaduzzi, dopo aver risposto al telefonino, sembra commentare con una persona al suo fianco È La Verità ambasciatore (attimi di silenzio) «Beeene, come sta?». 

Piccolo flashback. L'1 marzo abbiamo pubblicato l'audio in cui Massimo D'Alema discuteva della compravendita di armamenti del valore di 4 miliardi, un affare in cui era coinvolta un'improbabile squadretta di intermediari capitanata da Giancarlo Mazzotta, politico di Forza Italia attualmente sottoposto a tre processi per reati gravissimi come l'estorsione aggravata dal metodo mafioso, l'istigazione alla corruzione e illeciti fiscali. L'ex premier ha sempre dichiarato di aver solo cercato di «sostenere le imprese italiane all'estero».

In questo caso gratis. Ma adesso emerge in maniera clamorosa come abbia provato a utilizzare i canali istituzionali per mandare avanti la trattativa parallela a quella tra governi per la vendita di 2 sommergibili, 2 fregate e 24 caccia da addestramento prodotti da Fincantieri e Leonardo. Un negoziato apparentemente seguito dall'ex leader del Pds con l'ausilio di due professionisti a lui riconducibili (l'avvocato italo-americano Umberto Bonavita e il ragioniere Gherardo Gardo), di Mazzotta e di due broker pugliesi con addentellati tra gli ex paramilitari colombiani. Niente di ufficiale però.

Se non il nome dello studio Robert Allen Law di Miami da cui sarebbero dovuti passare 80 milioni di euro di provvigioni. Quelli di cui parla D'Alema nel file audio. Oggi, grazie alle dichiarazioni di Amaduzzi, scopriamo che l'ex primo ministro introdusse nella sede diplomatica di Bogotà proprio l'imputato Mazzotta, atterrato nella terra dell'Eldorado con l'obiettivo di rappresentare Leonardo e Fincantieri. L'incontro si è svolto il 25 gennaio e subito dopo Amaduzzi, interdetto, ha avvertito il direttore delle relazioni internazionali di Leonardo, Sem Fabrizi. Non sappiamo poi se quest' ultimo abbia informato i suoi vertici. Infatti Fabrizi non ha voluto rispondere alle nostre domande.

Ma riprendiamo con Amaduzzi. Cosa dice di questa vicenda ambasciatore?

«Io non le posso dire assolutamente nulla». 

A noi risulta che lei si sia comportato in modo corretto e istituzionale

«Sono qui da tre anni e ovviamente seguiamo Leonardo in quanto è una realtà imprenditoriale importante con anche buone prospettive di sviluppo nel Paese». 

In Colombia aveva già un altro broker

«A fine 2021 qui c'è stata la ExpoDefensa. Ovviamente c'era Leonardo con un suo stand e sono andato a trovarli [] fa parte del mestiere del diplomatico quello di tenere». 

A me hanno detto che lei rimase un po' stupito quando venne a bussare da lei Mazzotta

«Uhmmm, non mi sta citando, né intervistando».

Ma noi queste cose le abbiamo già scoperte da altre fonti, le stiamo solo chiedendo conferma

«Lei può immaginare la persona che mi ha anticipato la venuta di questo signore a Bogotà persona che io non avevo mai incontrato». 

Sappiamo che a telefonarle è stato D'Alema, l'ex primo ministro

«Eh, che fai? Dice: "Puoi ricevere". Ok. Lei sa anche la data dell'incontro e la mia immediata reazione aggiungo che, avendo io tratto una tale cattiva impressione, dopo averlo accompagnato fuori, ho chiuso la porta e mi sono attaccato al telefono con i vertici istituzionali di Leonardo preposti a curare i rapporti internazionali».

Fabrizi e Augusto Rubei?

«No, solo Fabrizi. Con Rubei parlai mesi fa, ma non di questo caso specifico. Ho informato Fabrizi e poi non ho saputo più nulla sino a un mese dopo quando sono incominciati a uscire gli articoli». 

È rimasto stupito?

«Allibito. Sinceramente io, con tutta la buona volontà, poi con la telefonata dell'ex presidente del Consiglio, ex ministro degli Esteri e quant' altro, quello che è emerso dopo, al momento in cui lo ho incontrato il 25 gennaio questo signore, per me era pura fantascienza». 

Le hanno fatto incontrare un pluri imputato

«È emerso dopo, lì per lì non è che l'ho ricevuto e basta io a questo signore ho detto: "Io mi occupo istituzionalmente sempre di Leonardo; lei chi è? Cosa rappresenta?"». 

Che cosa voleva dall'ambasciata?

«Non si capisce, perché io ho messo subito le mani avanti, perché Leonardo ha il problema di avere troppa gente che gira con i bigliettini con il simbolo rosso e ne ho visti tanti ed è un problema che ho sollevato varie volte con l'azienda, anche quando sono venuti per ExpoDefensa. C'è una certa confusione, troppe persone si occupano non solo della Colombia, ma immagino in generale, per cui con Mazzotta ho parlato del clima, del contesto del Paese»

Il politico pugliese inseguiva una sponsorizzazione con il governo colombiano?

«No, nulla di specifico, però, siccome l'ho messo a posto subito, dicendo che un mese prima c'era stata una delegazione di venti persone di Leonardo a ExpoDefensa, gli ho chiesto: "Lei chi rappresenta?". È rimasto molto sul vago, senza dire nulla di specifico. Gli ho parlato io del mercato degli armamenti che è falsato anche per le donazioni continue da parte del governo americano» 

Si è definito rappresentante di Leonardo?

«Rappresentante di Leonardo e di Fincantieri. Dopo di che gli ho detto: "A proposito di Fincantieri sono tre anni che sono qua e non ho mai sentito volare mosca, in Leonardo ho rapporti istituzionali con chi di dovere, costanti, ma lei chi è?" ho ridomandato».

Quanto è durato l'incontro?

«Boh, mezz' ora tra l'altro ho un testimone se dovesse servire» 

I due broker sono venuti da lei?

«Mai visti» 

E l'avvocato Bonavita e il ragionier Gardo?

«Mai mai mai» 

Mazzotta era da solo o con qualcuno?

«Da solissimo» 

Lei ha scritto a Fabrizi?

«Per la precisione gli ho telefonato. Ma non so che seguiti sono stati dati. Quando ho messo giù il telefono non ne ho più saputo nulla fino a quando sono incominciate a uscire le cose sul giornale. Non ho idea di che cosa abbia fatto Leonardo al suo interno» 

Il pluri imputato Mazzotta si è presentato come rappresentante di Leonardo e Fincantieri?

«Sì rappresentante tra virgolette e infatti la mia prima domanda è stata sul suo ruolo» 

E lui che cosa ha replicato?

«Cose evasive, cioè non ha risposto». 

Come ha introdotto il discorso su Fincantieri e Leonardo?

«Beh, le ha menzionate lui sostenendo che cercava di rappresentare gli interessi di queste aziende. Dopo di che non mi ha detto nulla, [] nulla di concreto». 

D'Alema quando l'ha chiamata?

«Se non ricordo male il 19 gennaio». 

Con che scusa le ha annunciato la visita di Mazzotta?

«Mi ha detto: "Adesso mi occupo di promuovere gli interessi delle aziende italiane all'estero". Primo: non avevo motivo di immaginare quello che poi è successo. Secondo: io sono istituzionale, mi chiama l'ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri» 

Quando D'Alema le ha comunicato di rappresentare le aziende italiane all'estero le ha fatto anche i nomi di Leonardo e Fincantieri?

«Sì, ha fatto riferimento alle due aziende, è chiaro. Non rappresentante il "sostenere", no? "gli interessi", una cosa così, non mi ricordo il termine esatto, ma non rappresentante»

Le ha detto che lo faceva per qualche società?

«No, nessun dettaglio di questo tipo si è limitato a "viene un mio amico", capito?» 

Tutti e due hanno fatto i nomi di entrambe le aziende?

«Questo mi sembra di sì (breve interruzione) sì, sììì. Altrimenti non lo avrei ricevuto». 

Di scritto non le hanno lasciato nulla?

«Nulla» 

Ambasciatore sembra di capire che le abbiano teso una specie di imboscata

«Al presidente non tanto a me» 

A quale presidente mi scusi?

«Al presidente D'Alema»

Ma è lui che ha tirato in mezzo lei a questa storia.

«Sì, però, la cosa si riduce a un colloquio di meno di mezz' ora di cui ho immediatamente informato Leonardo. Quello che succede dopo era inimmaginabile per me, veramente un film di bassa categoria». 

Nessuno le ha detto che stavano facendo un lavoro di intermediazione per un affare da 4 miliardi?

«Ma no questo Mazzotta non è molto articolato»

Le viene in mente altro?

«No, perché non c'è altro abbia la cortesia, ho solo risposto a una chiamata dall'Italia non sono mai stato informato di nulla in nessuna fase» 

Da lider Maximo a "incauto", la fragile difesa di D'Alema. Pasquale Napolitano il 27 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'ex presidente ds, mediatore in una vendita di armi: non sapevo di parlare con un condannato a 40 anni.  

Alla veneranda età di 72 anni Massimo D'Alema si riscopre ingenuo. Sorpresa. La storia della trattativa per la vendita di armi alla Colombia (sommergibili, navi e aerei prodotti dalle aziende italiane Leonardo e Fincantieri e destinate alla Colombia) rivela un lato inedito, sconosciuto, quasi fanciullesco, del lider maximo: l'ingenuità. Anche un freddo leader politico, capace di guidare prima il partito erede della tradizione comunista e poi l'Italia da Palazzo Chigi, scivola sulla buccia dell'ingenuità. I giornali lo dipingono ingiustamente come un faccendiere spregiudicato, un lobbista affamato, che tratta una fornitura di armi dall'Italia alla Colombia, che potrebbe fruttare (per i mediatori) una provvigione di 80 milioni di euro. Nulla di più falso. È un racconto distante dalla verità. Nulla di più infamante.

D'Alema, l'ultimo moicano della stagione comunista, in questa trattativa ci è finito per un eccesso di leggerezza. Ha peccato di superficialità. Chiede perdono. Capita a tutti. Capita agli sprovveduti. Figuriamoci se non possa capitare anche a un ex presidente del Consiglio (D'Alema). A chi (D'Alema) ha guidato il comitato parlamentare di controllo sui Servizi segreti (Copasir). A un ex ministro degli Esteri (D'Alema). Capita, eccome, a chi (D'Alema) per anni si è costruito la fama di politico scaltro e astuto. Sì, proprio D'Alema, il miglior erede del cinismo togliattiano, ha commesso un errore di ingenuità. I suoi detrattori non crederanno mai al peccato di ingenuità. E continueranno il martellamento. Ma D'Alema non ha dubbi: è andata proprio così. Una semplice leggerezza. In una lunga intervista concessa a Tommaso Labate per il Corriere della Sera - l'ex presidente del Consiglio ammette il passo falso. Gli accusatori vorrebbero inchiodarlo su un punto: la conversione avuta con Edgar Fierro, ex paramilitare condannato a 40 anni per omicidi vari, per discutere della compravendita di armi. Il lider maximo scende dalle nuvole. Che ne poteva sapere del passato criminale del suo interlocutore? La spiegazione è semplice. Quanto banale. D'Alema non ha avuto il tempo di controllare (nemmeno su internet dove c'è materiale in abbondanza) il curriculum del suo interlocutore: «Non ho controllato il curriculum del mio interlocutore. Mi hanno detto che era un senatore. Non c'è dubbio che in questa vicenda ho peccato di mancanza di cautela. Le imprese italiane, invece, hanno agito in modo assolutamente corretto e prudente».

Ecco, puntuale, arriva la difesa che smonta la narrazione infamante: la mancanza di cautela. Potrebbe capitare a tutti gli ex presidenti del Consiglio confondere un ex terrorista del calibro di Cesare Battisti con il senatore Vito Crimi. È capitato anche a D'Alema. Non c'è nulla di male. Perché crocifiggerlo? Il leader "accusato" dei più famosi complotti politici della storia italiana, dalla caduta di Prodi alla congiura contro Renzi, è stato semplicemente uno sprovveduto. D'Alema dopo settimane di accuse, si difende: «Non ho fatto nulla di illecito o poco trasparente. Sono anzi tra quelli che hanno più interesse a fare chiarezza su tutti i punti oscuri di questa storia, come la registrazione illegale». L'ex leader dei Ds spiega come è finito dentro la trattativa: «Si è presentato da me un imprenditore salentino che conoscevo da anni, Giancarlo Mazzotta. Mi dice che conosce due consiglieri del ministero degli Esteri di Bogotà che potevano dare una mano a promuovere attività italiane in Colombia». Forniture militari? «Anche». Ora liberato il campo dall'accusa (contro D'Alema) di essere uno spregiudicato faccendiere, c'è la Procura di Napoli che indaga. D'Alema non è indagato. Ci mancherebbe: la superficialità non è punita dal codice penale.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 26 marzo 2022. 

Come abbiamo rivelato ieri l'ex ministro degli Esteri Massimo D'Alema il 19 gennaio 2022 contattò l'ambasciatore italiano a Bogotà, invitandolo a dare udienza all'«amico» plurimputato Giancarlo Mazzotta, impegnato nel «rappresentare», apparentemente senza alcun mandato, Leonardo e Fincantieri in un affare da 4 miliardi di euro con 80 milioni di possibili provvigioni. 

Ma l'ex rappresentante politico delle feluche italiche non ha bussato solo alla porta di Amaduzzi per portare avanti la sua trattativa parallela per gli armamenti da esportare in Colombia.

E ha tentato la via della diplomazia per tagliare fuori come interlocutore dell'affare il governo italiano.

Per esempio, come vedremo, ha cercato di portare dalla sua parte Gloria Isabel Ramirez Rios, ambasciatrice colombiana in Italia. 

Il 10 febbraio l'ex primo ministro confida al paramilitare pentito Edgar Ignacio Fierro Florez: «Anche lei si sta occupando di questo problema. E lei sostiene che ci vuole un accordo tra i due governi, senza altri mediatori».

Una visione opposta a quella di D'Alema. Che il 9 febbraio aveva provato a contattare l'ambasciatrice, senza fortuna, per cercare una sponda.

Il giorno successivo aveva provato a convincere Fierro, che considerava in grado di incidere sul governo colombiano: «Questo negoziato deve passare tra di noi, attraverso un solo canale» aveva sostenuto. 

Cioè saltando il ministro della Difesa. L'11 febbraio, finalmente, la diplomatica aveva incontrato l'ex premier per affrontare la questione.

Nei giorni scorsi il sottosegretario Giorgio Mulè aveva ricostruito quell'incontro con noi: «A metà febbraio l'ambasciatrice della Colombia mi informa della visita ricevuta da D'Alema nella veste di rappresentante di Leonardo». 

Dunque, anche con la diplomatica, l'ex premier aveva speso il nome dell'azienda italiana. Una versione che la Ramirez Rios non ha mai smentito.

Dopo l'incontro dell'11 febbraio D'Alema invia il suo uomo di fiducia, il plurimputato Mazzotta, nell'ufficio di Mulé, per fargli sapere di essere pronto a un incontro pure con lui. Ottanta milioni di euro possono rendere meno indigesto qualche rospo da ingoiare. In sintesi l'ex ministro degli Esteri ha ritenuto, in considerazione del suo curriculum, di spendere le sue doti di mediatore con le feluche, prima in Colombia e poi a Roma, e persino con Mulè al solo scopo di non essere escluso dalla trattativa per gli armamenti.

Il motivo lo aveva spiegato sempre a Fierro: «Perché tutto questo negoziato deve passare tra di noi, attraverso un solo canale. Quindi, dobbiamo dare il senso che noi abbiamo rapporti, non soltanto con i militari e i funzionari, ma anche con il governo». 

Nella telefonata intercontinentale D'Alema scopre gli assi che si era giocato con l'ambasciatrice: «Io le ho spiegato che, diciamo, da una parte è lo Stato colombiano, è il governo, che compra, ma in Italia non è il governo che vende. 

Sono due società quotate, non è il governo, quindi non ci può essere un contratto tra due governi». Quindi niente governo-governo (g2g), una procedura che lo avrebbe tagliato fuori dall'affare.

A questo punto D'Alema definisce la questione «delicata». Con questa giustificazione: «Noi rischiamo di avere delle interferenze in questo negoziato che non è utile che ci siano. Noi abbiamo interesse che il negoziato passi dalle società italiane, attraverso Robert Allen e dall'altra parte le autorità colombiane, senza interferenze». 

Insomma la diplomazia parallela dell'ex segretario del Pds puntava a escludere il governo dalla contrattazione. Ma se D'Alema si è sparato le sue cartucce da ex ministro, le persone che sono state da lui contattate hanno avvertito i loro superiori di quell'incauta intromissione? 

L'ambasciatore Amaduzzi ha rivelato di aver allertato Leonardo e ha aggiunto che «non ci sono state reazioni ufficiali». Poi ha provato a indovinare quali fossero le nostre fonti: «Io penso di sapere benissimo con chi lei ha parlato [.] intendo al ministero degli Esteri». E perché Amaduzzi sospettava che avessimo tratto la notizia dentro alla Farnesina?

Forse aveva comunicato anche al suo dicastero di riferimento, oltre che al collega ambasciatore Sem Fabrizi, direttore delle relazioni internazionali di Leonardo, la notizia della chiamata dell'ex capo del Copasir? 

Ma ieri dalla segreteria della Direzione generale per la diplomazia pubblica e culturale ci hanno inviato questa risposta: «L'ambasciatore Amaduzzi non ha informato la Farnesina né della telefonata del 19 gennaio con il presidente D'Alema, né dell'incontro del 25 gennaio con Giancarlo Mazzotta.

Da quanto risulta alla Farnesina, ha avuto unicamente un contatto telefonico con Leonardo, il 25 gennaio stesso, al termine dell'incontro con Mazzotta». 

Ma a proposito di mancate comunicazioni, anche il ministro plenipotenziario Fabrizi, pur avvertito da Amaduzzi, non avrebbe fiatato con nessuno. Neppure quando ha pranzato con Mulè, con l'ambasciatrice colombiana e rispettivi staff il 2 febbraio scorso: «I nuovi particolari di questa storia che somiglia sempre più a un'operetta li apprendo da La Verità», dichiara sconsolato l'uomo che con il suo intervento ha mandato gambe all'aria la trattativa di D'Alema & C..

E, a domanda del nostro giornale, aggiunge: «Non so che cosa si siano detti l'ambasciatore Amaduzzi e Sem Fabrizi, direttore delle relazioni Internazionali di Leonardo. 

Di sicuro, quando il 2 febbraio ci troviamo a Roma a una colazione di lavoro con Fabrizi e l'ambasciatrice di Colombia in Italia per pianificare le azioni da intraprendere con il governo colombiano non accenna a nulla». 

Vuol dire che Fabrizi non le disse alcunché a proposito di questa iniziativa di Mazzotta o comunque di quanto gli avrebbe riferito l'ambasciatore Amaduzzi dopo l'incontro del 25 gennaio a Bogotà? «Nulla di nulla. Glielo ripeto: nessun dirigente di Leonardo mi riferì mai di questa trattativa parallela. Fui io a metà febbraio a chiederne conto al direttore generale di Leonardo (Luca Valerio Cioffi, ndr) dopo il colloquio di D'Alema con l'ambasciatrice colombiana a Roma».

In quel momento Mulè e l'ambasciatrice non avevano nemmeno il sentore della trattativa in corso portata avanti dai D'Alema boys, ma stavano preparando una call con il viceministro colombiano alla Difesa per favorire la buona riuscita di una vendita di caccia M-346 all'aviazione del Paese sudamericano. Un dialogo g2g (quello che Baffino voleva affossare) per portare a casa un importante appalto per un'azienda strategica per l'Italia.

Emergono intanto nuove indiscrezioni sui motivi che avrebbero portato all'aborto dell'accordo tra Leonardo e la società Robert Allen Law (una partnership statunitense), lo studio legale individuato dagli uomini di D'Alema per l'incasso delle provvigioni. Dopo la firma del «non disclosure agreement», un accordo di riservatezza, sono iniziati tutti gli accertamenti per verificare che il fornitore avesse le caratteristiche idonee per firmare un «contratto di supporto e assistenza per la promozione delle vendite».

La valutazione è andata avanti di pari passo alla stesura della bozza di accordo per le provvigioni che si è arenata sulle clausole di pagamento. I primi contrasti sono nati sulle condizioni di pagamento delle fee: i mediatori avrebbero incassato le provvigioni solo di fronte a una commessa non inferiore ai 350 milioni di euro. 

Diversità di vedute anche sul saldo a 90 giorni e l'importo del forfait garantito anche in caso di mancato superamento del cap da 350 milioni. La cifra proposta era di 400.000 euro, considerati dai broker insufficienti. 

Per questo, anche se l'ufficio legale aveva già approntato il contratto il 25 gennaio, non è stato possibile firmarlo prima degli scoop della Verità sulla vicenda che hanno mandato in fumo l'accordo. Insomma per gli americani l'accordo avrebbe avuto clausole troppo restrittive.

Ma torniamo da dove siamo partiti. Alla Farnesina. Per giorni abbiamo provato a sapere se, come prevede la legge, i negoziati con le forze armate colombiane da parte di Leonardo e Fincantieri fossero stati ufficializzati con la comunicazione delle trattative da parte delle aziende all'Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (Uama), che si trova presso il ministero degli Esteri. 

La risposta che abbiamo ricevuto è stata molto fumosa: «La legge 185/1990 prevede che le aziende comunichino l'inizio delle trattative per la vendita di materiale d'armamento senza indicare con precisione il momento in cui debbono farlo. La Uama richiede comunque che ciò avvenga prima dell'eventuale firma del contratto». 

Quindi è possibile avvertire la Uama dell'avvio di una concertazione quando praticamente è già conclusa? Dall'Unità ci hanno inviato un elenco con le comunicazioni di inizio trattative con la Colombia tra il 2017 e il 2020. Di quelle del 2021, però, non c'è traccia. In tutto sono state autorizzate 13 operazioni per la vendita di armi leggere, munizioni e apparecchiature elettroniche per un valore di 1,1 milioni.

Ma nessuno pare abbia avvertito il ministero che Leonardo e Fincantieri avevano messo in campo, più o meno ufficialmente, i D'Alema boys per tentare di portare a casa 4 miliardi di euro di contratti.

Giacomo Amadori e François de Tonquédec per “La Verità” il 27 marzo 2022.

C'è un nuovo interessante filone nei rapporti tra lo studio Robert Allen Law, e in particolare il presidente dell'omonima partnership Umberto Bonavita, e i broker pugliesi coinvolti sull'asse Lecce-Miami-Bogotà nella trattativa per la cessione di armamenti per 4 miliardi di euro alla Colombia, negoziato che ha visto protagonista anche l'ex premier Massimo D'Alema. 

Bisogna partire da Francesco Amato, l'italiano che vive in Spagna e che ha aperto i canali con il Paese sudamericano grazie ai suoi contatti con i grandi latifondisti dello Stato dell'Eldorado: «Compravo avocados per un colosso europeo nel settore della grande distribuzione» ci ha detto. 

Da lì ha iniziato a sedersi a tavola con chi contava e anche con qualche paramilitare. Ecco spiegato il discorso delle armi. Successivamente grazie a D'Alema conosce Bonavita. Il quale a gennaio prova a proporgli un nuovo business, legato alla pandemia: «Si trattava di mascherine, respiratori, guanti, proposti con la mediazione di Allen. Prodotti cinesi che sarebbero stati offerti anche al governo italiano. Mi dissero che erano scorte avanzate di una partita venduta in Europa. Poi quei dispositivi sono stati segnalati a me per proporli in Colombia». 

La trattativa in Italia

Nei giorni successivi, dopo un giro di telefonate, Amato ci ha riferito: «Mi hanno confermato che c'è stato in una trattativa in Italia». Secondo il broker Allen avrebbe proposto anche dei respiratori. Quando abbiamo chiesto ulteriori dettagli, le comunicazioni con Amato si sono diradate e infine è sparito del tutto. Ma non prima di averci inviato un paio di chat e le foto di alcuni dei prodotti che avrebbe dovuto smerciare in Colombia per conto della Robert Allen Law pa. 

Dunque, quasi a seguire le orme di Mario Benotti, il giornalista diventato mediatore della maxi commessa da 800 milioni di mascherine acquistate per 1,2 miliardi di euro dall'allora commissario per l'emergenza Domenico Arcuri, anche la squadretta di intermediari che cercava di vendere alla Colombia navi e aerei prodotti in Italia, era pronto a entrare nel business legato all'emergenza Covid. 

La conferma si trova in una chat tra Bonavita e Amato. Su Whatsapp l'avvocato propone test antigenici per il coronavirus da fare a casa, con tanto di foto. I tamponi si chiamano Flowflex e il prezzo indicato nella chat è 6,8 dollari l'uno per 500.000 pezzi, con uno sconticino in caso di acquisto triplicato, che avrebbe portato il prezzo a 6,3 dollari.

Nei messaggi viene proposto anche un diverso tipo di tampone, lo Zekmed, ma è con i FlowFlex che la trattativa sembra aver raggiunto un livello più avanzato. La Verità ha infatti avuto modo di visionare l'offerta di una società americana, la Aeg medical supply Llc, relativa a test rapidi per uso casalingo, disponibili, secondo il documento, in grandi quantità, fino a 5 milioni di pezzi alla settimana.

Il preventivo Il 17 gennaio, nel pieno delle attività per l'affaire Colombia, il Ceo della Aeg, Michael Zarkovacki, invia un preventivo su carta intestata che riporta anche il logo della Pointward con sede a Minneapolis, indirizzato proprio ad Amato, ma spedito presso l'ufficio di Bonavita. 

I tamponi sono descritti come «autorizzati Eua (per uso di emergenza, quindi con una certificazione non definitiva, ndr)» dalla Fda, l'ente governativo che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici negli Stati uniti. I test, fabbricati dalla Acon, che commercializza con il brand FlowFlex, sono venduti anche nel nostro Paese, ma con l'indispensabile marcatura Ce assente sulle confezioni destinate al mercato nordamericano.

Negli Usa vengono offerti online da importanti catene della grande distribuzione come Target, a 7,99 dollari, poco più dei 5.96 dollari proposti all'ingrosso dalla Pointward, lo stesso prezzo che a un certo punto era spuntato nella trattativa via Whatsapp. Non proprio un affare, visto che si parla di acquisti all'ingrosso. 

Il pagamento avrebbe dovuto essere «depositato» prima della consegna «presso l'avvocato transazionale, Robert Allen Law tramite il signor Umberto Bonavita». Forse i tamponi erano un business parallelo rispetto a quello delle fregate e degli aerei italiani, visto che nel paragrafo dedicato ai termini di consegna, oltre agli aeroporti statunitensi, veniva citato solo il Paese dell'America latina: «In caso di spedizione in Colombia o altro mercato internazionale, destinazione da fornire» si leggeva.

Sul sito che riepiloga gli acquisti della struttura commissariale non c'è nessuna evidenza di acquisti di tamponi provenienti da Oltreoceano. Ma a differenza di quanto avvenuto nella prima fase dell'emergenza, affidata alla Protezione civile, la gestione degli approvvigionamenti da parte della struttura commissariale non ha mai brillato per trasparenza.

Il caso dei ventilatori

Gli uomini del dipartimento allora guidato da Angelo Borrelli pubblicavano infatti tutta la documentazione dei singoli acquisti, dai preventivi al contratto definitivo. E proprio tra quelle carte, circa un anno fa, avevamo scoperto il carteggio che dimostrava che a interessarsi a una partita di ventilatori polmonari cinesi era stato D'Alema. 

La società cinese Silk Road Global Information limited aveva, infatti, venduto al governo italiano 140 ventilatori polmonari per terapia intensiva poi risultati «non conformi ai requisiti di sicurezza previsti dalla normativa vigente». 

La Global information è controllata interamente dalla Silk road cities alliance il cui cda è presieduto proprio D'Alema, che fa parte anche del comitato direttivo insieme con numerosi ex politici cinesi e l'ex primo ministro ucraino Viktor Yushchenko. In una mail il fornitore scriveva: «Ho appena ricevuto informazioni dall'onorevole Massimo D'Alema che il vostro governo acquisterà tutti i ventilatori nella lista che ho allegato a questa e-mail []». 

Con l'arrivo di Arcuri la musica è cambiata e sul sito dedicato agli acquisti sono scomparsi i contratti con tutte le caratteristiche della merce acquistata, compresa la marca. Il nuovo commissario, il generale Francesco Paolo Figliulo, che ha acquistato test Covid per 77,3 milioni di euro, ha lasciato la situazione invariata.

Giacomo Amadori e François De Tonquédec per "La Verità" il 27 marzo 2022.  

La lunga marcia verso la Verità di Massimo D'Alema prosegue. Dopo il nostro scoop dell'1 marzo quando abbiamo pubblicato l'audio della trattativa dell'ex premier con l'ex comandante dei gruppi paramilitari colombiani delle Auc, Edgar Fierro, Baffino ha dato versioni sempre diverse sulla vicenda. 

In particolare è clamorosa la differenza tra quanto affermato in un'intervista alla Repubblica del 3 marzo rispetto a ciò che ha detto al Corriere della sera ieri.

La discrepanza più eclatante riguarda il ruolo dello studio americano Robert Allen Law, quello con cui Leonardo stava firmando un «contratto di supporto e assistenza per la promozione delle vendite». A inizio marzo D'Alema aveva dichiarato: «Ho parlato con il direttore commerciale di Leonardo. E ho detto a questi signori colombiani che era necessario trovare una società seria per iniziare la discussione.

Loro hanno scelto questo studio legale americano, un business law molto attivo in America Latina». Dello studio aveva parlato, sempre alla Repubblica, il 10 marzo, anche un collaboratore di D'Alema, Giancarlo Mazzotta. 

Quando il giornalista chiede chi abbia fatto il nome dello studio, l'intervistato è lapidario nell'escludere che sia stato D'Alema: «Lo fanno loro (i "colombiani", ndr). E io tra l'altro conoscevo questo studio».

Nei giorni successivi La Verità scopre il collegamento tra lo studio, attraverso l'avvocato Umberto Bonavita e il ragionier Gherardo Gardo, e un socio di D'Alema, l'imprenditore Massimo Tortorella. Ma a far scricchiolare la versione dell'ex premier ci aveva già pensato l'audio pubblicato sul sito del nostro giornale in cui il politico pugliese insisteva sull'importanza per i colombiani di rivolgersi allo studio americano.

D'Alema sul punto ieri ha fatto un'inversione a «U»: «Penso che una parte (delle provvigioni, ndr) sarebbe andata a Robert Allen Law, che avevo segnalato per l'assistenza legale e di promozione; mentre i colombiani sollecitavano una partnership loro, com' era giusto che fosse». In pratica conferma il dialogo contenuto nel file, in cui è chiaro il tentativo di D'Alema di convincere Fierro e i suoi a scegliere i professionisti di Miami.

L'intervistatore allora domanda: «Perché Robert Allen Law?». Risposta: «È una società prestigiosa, con legami in America Latina, aveva già collaborato con Fincantieri». Ieri dall'azienda triestina non ci hanno confermato questa precedente collaborazione. 

L'ex segretario del Pds non specifica in quale occasione e nega di avere un contratto con la squadra di legali: «Li conosco, ho collaborato con loro come con altre società americane». Fuochino insomma. 

Ci è voluto quasi un mese di lavoro ai fianchi, ma alla fine D'Alema sta rendendo la sua versione sempre più compatibile con la nostra. 

Il possibile guadagno

Ma lui che cosa doveva guadagnarci? Nell'audio non usa giri di parole: «Siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi 80 milioni di euro». Nelle interviste ammette di «aiutare le società italiane all'estero», ma rimarca che in questo caso non avrebbe «visto neanche un euro». E allora perché parla di 80 milioni? Semplice: «Dovevo convincere un interlocutore riluttante [] a fare una scelta nell'interesse dell'Italia e non della mia persona».

Anche se «far conseguire un risultato a Leonardo e Fincantieri [] accresce la credibilità di chi fa lavoro di consulenza». Ma non definitelo lobbista, potrebbe offendersi: «Scusi, che cosa vuol dire lobbista?» ha chiesto infastidito ieri, pur ammettendo di assistere «le imprese italiane per investimenti all'estero», magari attraverso i «rapporti con i governi».

Poi, rendendosi conto che nessuno avrebbe creduto alla favoletta dello statista al servizio gratuito del Paese, parlando del caso colombiano, ha concesso: «La mia società avrebbe avuto dei vantaggi nel campo dell'energia, delle infrastrutture, in rapporto alle aziende private con cui collaboro». 

Ricapitolando: parlava di 80 milioni per vincere le resistenze del socio in affari, ma non ha rapporti di lavoro con aziende pubbliche, con cui, sembra di capire, collabora «sotto copertura». Anche perché all'ambasciatore italiano i nomi di Fincantieri e di Leonardo, di cui promuoveva «gli interessi», li avrebbe fatti eccome.

Alla Repubblica aveva detto di essere stato «contattato da personalità politiche colombiane, con incarichi istituzionali» che gli avrebbero riferito che il Parlamento colombiano aveva stanziato molti fondi per ammodernare le forze armate. E lui? Avrebbe «informato subito Leonardo e Fincantieri, che sono importanti clienti di Ernst&Young». 

Un mese dopo la storia è cambiata radicalmente. Intanto perché Ernst&Young, di cui dirige l'advisory board, «qui non c'entra nulla». Qualche capataz londinese gli ha chiesto di non citarli più? Chissà.

La retromarcia

La retromarcia prosegue: a coinvolgerlo non sarebbero state personalità politiche d'Oltreoceano, ma un meno esotico ex sindaco pugliese, il solito Mazzotta («un imprenditore salentino che conoscevo da anni») che gli dice di conoscere «due consiglieri del ministero degli Esteri di Bogotà che potevano dare una mano a promuovere attività italiane in Colombia». 

Nelle varie interviste D'Alema insiste sul ruolo della Cancelleria di Bogotà. Peccato che i documenti con il simbolo del ministero degli Esteri del Paese sudamericano siano stati approntati da Emanuele Caruso, uno dei due «consiglieri», oggi sospettato di taroccare documenti con timbri e loghi falsi. Un filone su cui stanno indagando la Procura di Napoli e la Digos. 

E D'Alema chi informa dell'opportunità prospettata da Mazzotta dentro Fincantieri e Leonardo? A inizio marzo l'ex europarlamentare cita solo il direttore commerciale di Leonardo (c'è traccia di questo rapporto nelle mail pubblicate dalla Verità), mentre ieri ha coinvolto direttamente «i vertici di Leonardo e Fincantieri». Anche questo è un link di cui avevamo già informato i nostri lettori. I canali diplomatici E gli interventi presso le ambasciate? Pure quelli passaggi istituzionali.

Con La Repubblica cita solo l'ambasciatrice colombiana in Italia, forse perché citata nell'audio. Nell'intervista di ieri, invece, chiama in causa anche Gherardo Amaduzzi che come abbiamo svelato venerdì era stato contattato da D'Alema il 19 gennaio. In quella telefonata l'ex primo ministro aveva annunciato una visita di Mazzotta. 

Oggi l'ex capo del governo dà una diversa lettura di quella chiamata: «Mazzotta non è stato "mandato" lì da me, ma invitato dal ministero (della Difesa colombiano, ndr) di cui sopra. Io l'ho solo sollecitato a informare l'ambasciatore italiano per un'ovvia ragione di trasparenza». 

In realtà nessun rappresentante ufficiale del ministero si è mai materializzato durante le trattative, né ha cercato i D'Alema boys. E se il governo italiano era all'oscuro di questa trattativa parallela, l'ex segretario del Pds sembra imputarlo al diplomatico: «Normalmente gli ambasciatori informano i governi» taglia corto. 

L'ex guerrigliero

Nei giorni scorsi l'ex ministro degli Esteri aveva anche rivendicato di aver riattivato «canali istituzionali che si erano interrotti» e di non essersi servito per la sua trattativa parallela di «faccendieri o cose opache». Peccato che abbia conversato amabilmente con due broker dal curriculum poco chiaro accusati oggi di falso e con l'ex paramilitare di estrema destra Fierro, condannato a 40 anni di galera. 

Noi avevamo scritto il 9 marzo che l'ex premier, con il suo inner circle, aveva «ammesso di aver commesso un grave errore ad affidarsi a personaggi su cui non aveva fatto fare nessun tipo di controllo». Venti giorni dopo anche i lettori degli altri giornali hanno ricevuto la notizia e cioè che l'ex premier considera il non aver controllato il curriculum del suo interlocutore «una leggerezza».

Tanto da concludere: «Non c'è dubbio che in questa vicenda ho peccato di mancanza di cautela. Le imprese italiane, invece, hanno agito in modo assolutamente corretto e prudente». Il broker Francesco Amato di fronte a questa dichiarazione scuote la testa: «Avevo spiegato a D'Alema e Mazzotta chi fosse Fierro e l'ex premier, sorridendo, mi aveva risposto: "Sinistra e destra che si uniscono"». 

Gli altri business

D'Alema ha ammesso di essersi occupato in Colombia, come svelato dalla Verità, oltre che di armi, anche di altri temi come «l'energia e le infrastrutture», tra cui un progetto per il fotovoltaico, da gestire attraverso un fondo, Alleans renewables capital limited con sede a Londra. Alleans è presieduto da un italiano, Roberto Scognamiglio, quarantanovenne laureato in ingegneria aeronautica.

Il fondo nel gennaio scorso, ha proposto a un'azienda con sede a Medellin, la Ayc solutions, una partnership da 13,2 milioni, per un progetto fotovoltaico da 110 Mwp denominato «Las Marias». Dalle carte che abbiamo visionato risulta che la holding di cui fa parte il fondo è legato da una joint venture industriale con la China national machineries imp. & exp. Co., che fa parte del gruppo Genertec, una società statale cinese.

D'Alema, nelle interviste, ha pure parlato più volte della sua società di consulenza. Visti i bilanci e soprattutto gli utili, Baffino ha buoni motivi per essere soddisfatto. Fondata a gennaio del 2019, la D&M advisor Srl, controllata al 100% dall'ex segretario del Pds ha la sede legale a Roma nello studio di Domizia Sorrentino, moglie dell'ex ministro Pd della Cultura Massimo Bray, e ha già messo a bilancio discrete entrate. Nel primo anno di attività, la società ha fatturato 172.425 euro, con un piccolo utile di 27.594. Ma nel 2020, anno a cui si riferisce l'ultimo bilancio disponibile, le entrate della D&M, nonostante la scelta, rivendicata pubblicamente, di non lavorare per aziende pubbliche, sono letteralmente esplose, passando a 426.816 euro, con un utile di 202.333. D'Alema, come detto, attendeva ulteriori «vantaggi» dalla trattativa colombiana. Che, purtroppo per lui, è saltata.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 28 marzo 2022. 

Nel Colombia-gate adesso spunta anche il cabernet-gate. Stiamo parlando della tenuta agricola che si estende per sette ettari tra Narni e Otricoli (Terni), la Madeleine della famiglia di Massimo D'Alema, che nella società agisce, fin dal 2010, come procuratore dei figli, «con ogni più ampia e necessaria facoltà».

La settimana scorsa l'imprenditore romano Massimo Tortorella, socio dell'ex premier nella produzione di vino, ci aveva raccontato di aver conosciuto nel 2017 a Miami il ragionier Gherardo Gardo, uno dei protagonisti della trattativa per la vendita delle armi in Sud America. E a lui si era affidato, poiché una sua società americana, la Consulcesi Llc, non aveva ingranato e andava messa in liquidazione.  

Nello stesso periodo Tortorella aveva conosciuto D'Alema in un ristorante londinese e in poco tempo avevano deciso di diventare soci: «Il vino era buono e me lo ha fatto pagare.Chiesi a questo Gherardo una perizia e da lì nasce il rapporto tra D'Alema e Gardo. Evidentemente sono entrati in grande simpatia e amicizia». Quando abbiamo chiesto a Tortorella quanto abbia investito, lui ci ha risposto un po' vago: «Mi sembra che l'operazione fosse intorno ai due milioni, tra i due e i tre milioni di euro». Dagli atti, però, emergono cifre molto più modeste.

Nel luglio del 2018 un amico della famiglia D'Alema, Francesco Nittis, che deteneva il 30% delle quote, esce dalla compagine societaria in cambio di 30.000 euro. Il capitale scende così da 5.000 a 3.500 euro. 

Il 13 dicembre 2018, nello studio del notaio Salvatore Mariconda, professionista di fiducia di D'Alema, la lussemburghese Amana investment management, società riconducibile a Tortorella, rappresentata dal direttore Giulio Prevosti, residente a Lugano, realizza un aumento di capitale, che passa da 3.500 a 3.888 euro. I 388 euro in più (pari al 10 per cento delle azioni) costano a Tortorella un «sovrapprezzo» di 100.000 euro. Il 30% delle azioni a luglio valeva 30.000 euro, a dicembre il 10 costa 100.000. 

Il 13 febbraio 2019 la Amana investment management cede la propria partecipazione alla Amana investment glass fund. Nell'aprile del 2019 la Madeleine decide di «dotarsi di nuovi mezzi finanziari» e per questo il valore nominale del capitale sociale torna a 5.000 euro e per quel nuovo 20% di aumento il fondo Amana versa mezzo milione. 

Quindi Tortorella, alla fine, sembra aver sborsato «solo» 600.000 euro per il 30% dell'azienda anziché 2-3 milioni. Peccato che per la stessa quota i D'Alema avessero pagato venti volte di meno: 30.000 euro. 

Nei giorni scorsi Tortorella non ha voluto più riprendere il discorso, spiegandoci di essere concentrato «in cose più utili» (gli aiuti all'Ucraina). Ha solo specificato di aver «investito molto meno» di quanto ci avesse detto inizialmente. Ma non ha aggiunto altro.

Gli abbiamo domandato anche lumi su un'inchiesta che lo aveva coinvolto come indagato per omessa dichiarazione di 70 milioni di euro di ricavi e di 11,5 milioni di euro di Iva da parte di tre associazioni culturali riconducibili alla sua società Consulcesi. La Procura di Roma aveva ordinato il sequestro di 26,5 milioni di euro.

«Non sono più indagato. Ho fatto un accordo e ho pagato 20 milioni di euro» ci ha spiegato l'imprenditore. Ma torniamo agli atti. Il 15 aprile 2019 viene costituita dalla famiglia D'Alema e dai figli dell'enologo Riccardo Cotarella la Silk road (un marchio che piace molto a D'Alema) wines e, già a giugno, l'ex premier cede sempre a Tortorella la sua quota del 15% al prezzo del valore nominale, ovvero 1.500 euro. 

Questa volta all'accordo non presenzia Prevosti in rappresentanza dell'Amana glass fund, ma viene incaricato come «procuratore speciale» direttamente Gardo «affinché abbia ad acquistare dal signore Massimo D'Alema [] la quota di partecipazione dal medesimo detenuta nella società Silk road wine». 

Un documento che conferma la conoscenza di Gardo con D'Alema. Una conferma alle parole dei broker del Colombia-gate che hanno inserito il ragioniere tra i protagonisti della trattativa per vendere armamenti in Sud America. Per questo abbiamo deciso di andare a fare qualche domanda in Emilia, dove il professionista vive e lavora.

Siamo partiti dal suo luogo di nascita, Pieve di Cento, che per i suoi 2 chilometri di portici è detta la piccola Bologna. In piazza Andrea Costa gli anziani bevono all'enoteca di Tiziano e parlano anche dell'affare delle armi di D'Alema. Il «compagno» D'Alema. 

Nessuno difende il vecchio segretario del Pds. Al massimo c'è chi afferma che i politici sono tutti uguali oppure chi ricorda le imprese di Silvio Berlusconi. Un ex consigliere comunale del Pd, Valter, rivendica di aver sempre votato «il meno peggio» e preferisce segnalare al cronista i quadri della gloria locale, il Guercino.

Tiziano, il proprietario del bar, ricorda di aver frequentato le scuole medie con il coetaneo Gherardo. Qualche volta Gardo va ancora da lui a cenare, nelle sere d'estate, con la moglie Cristina. Anche Sauro ha fatto le scuole con il futuro ragioniere, ma non ha ricordi vividi. Forse una gita ad Aosta. L'uomo dei misteri da ragazzo era piuttosto chiuso e timido. Un cliente ci informa che Gherardo recentemente avrebbe fatto un sondaggio per l'acquisto di un terreno edificabile pronto per una speculazione immobiliare. Nient' altro. In zona i Gardo sono quasi degli sconosciuti. «Non è un cognome di qui» ripetono a pappagallo sulla piazza.

«Forse il papà era un bancario» azzarda uno. Noi a un certo punto lo incrociamo il ragionier Gianpaolo, 76 anni, con la moglie Giorgia Lazzari, questa volta un cognome autoctono. Entrambi rivendicano di essere nati a Pieve e dintorni. «Se mio figlio non vi parla avrà le sue ragioni. La trattativa delle armi? Gherardo è andato a Bogotà? Lo avrà fatto per lavoro, ma io non mi occupo assolutamente delle sue cose». 

Ci inoltriamo nella campagna di Castello d'Argile e prendiamo un sentiero sterrato con qualche villetta mescolata a cascine. In fondo c'è una grande casa bianca, stile moderno con tettoia verde.

Sarà stata costruita negli anni Ottanta. Sbirciando nel cortile si vedono l'auto del ragioniere, un'Audi Q5, e un'utilitaria di proprietà della suocera, Silvana. Suoniamo. È l'ora di pranzo. Ci risponde proprio Gherardo. 

Non è a Miami o in un'altra parte del mondo. È qui nella Bassa. Ci presentiamo: «No grazie» è la risposta. Come se fossimo Testimoni di Geova o venditori di aspirapolvere porta a porta. Allora attraversiamo il ponte vecchio che separa la provincia di Bologna da quella di Ferrara e arriviamo a Cento. 

A due passi dalla Rocca, la fortificazione medioevale, c'è via del Guercino. Sulla facciata di una palazzina di due piani color giallo Parma c'è una targa con scritto: «Studio commerciale tributario Rag. G. Gardo, commercialista». L'ufficio si trova al piano terra, di fianco a una profumeria e a un'agenzia di viaggi. Niente di lussuoso, perfetto per non dare nell'occhio. Il giovedì, giorno di mercato, per entrare bisogna aggirare un banco di frutta e verdura piazzato proprio all'ingresso: «Fava super» a 3,5 euro, «cimata extra» a 2,5, bietola a 0,8. Entriamo.

Le due cassette della posta hanno ancora gli aloni degli adesivi delle ditte che avevano domicilio fiscale da Gardo. A quell'indirizzo restano sette società e il nome della quarantottenne «Dott.ssa C. Alberghini», dipendente da quasi vent' anni dello studio e consorte del ragioniere. La donna possiede due piccoli appartamenti e un garage nel piano seminterrato dell'edificio. Ci accoglie (si fa per dire) così: «Mio marito? Non è intenzionato a rilasciare dichiarazioni, quindi le chiediamo di non tornare». Avremmo voluto fare tante domande, ma non è stato possibile.

Di Gardo sappiamo che il suo reddito ufficiale, nonostante lo studio da ragioniere di campagna, oscilla tra i 200 e 300.000 euro annui. Ha intestati i 5 vani dell'ufficio di via Guercino e un posto auto, ma non la casa dove vive. Molto esperto di fiscalità anglosassone, dal 1999 ha rapporti con società del Regno unito ed è stato, per esempio, rappresentante legale dell'Historical houses foundation trust. 

A Miami ha fondato con l'avvocato Umberto Bonavita (pure lui coinvolto nel Colombia-gate) la Wey Lcc, di cui è amministratore, società specializzata in compravendita di yacht. Sul sito dello studio è specificata l'attività di consulenza societaria e fiscale negli Usa, in particolare a Miami e New York. Tra i commenti favorevoli ce n'è uno di Bonavita. Il 24 febbraio scorso, alla vigilia dell'inizio della guerra in Ucraina, il ragioniere ha aperto nel suo studio la Kib holding Srl, ancora inattiva e nata per fare acquisizioni. Presidente e azionista unica è Karina Boguslavskaya, trentunenne cittadina russa residente nell'esclusivo quartiere di Kensington a Londra. Consiglieri di amministrazione lo stesso Gardo e Massimo Bonori, ingegnere bolognese con importanti interessi in Russia. A Gardo-land, Bogotà e Miami, Londra e Mosca non sono mete turistiche, ma piazze per affari. Magari con la copertura di un banco di verdure.

L'altra Colombia di D'Alema: affari anche sull'energia. Lodovica Bulian il 29 Marzo 2022 su Il Giornale.

La frase: "L'intermediario di Leonardo è un problema, lo risolveremo". Il progetto milionario nel fotovoltaico.

Emergono altri dettagli dell'affare colombiano in cui Massimo D'Alema è stato registrato a sua insaputa mentre parlava al telefono con un interlocutore di Bogotà di come vendere navi e aerei militari di Fincantieri e Leonardo alla Colombia. L'ex premier non aveva alcun mandato ufficiale a negoziare per conto delle partecipate dallo Stato. Del resto Leonardo per vendere aerei M-346 in Colombia aveva già un intermediario ufficiale, la società colombiana Aviatek di Luis Zapata. E questo sarebbe stato visto come un problema da risolvere agli occhi D'Alema che invece, stando alle sue stesse parole, avrebbe avuto interesse a che il negoziato passasse dallo studio Robert Allen di Miami. È lui stesso a scriverlo ai suoi interlocutori con cui stava lavorando all'affare via chat: «Abbiamo un problema con la società colombiana che ha un contratto con Leonardo, ma lo risolveremo». Sembra riferirsi proprio ad Aviatek. E il problema si stava davvero risolvendo, visto che Leonardo è arrivata a scrivere una bozza di contratto con lo studio Allen, anche se mai perfezionata, nonostante la presenza di un altro intermediario ufficiale.

Ma non c'è solo la trattativa per vendere alla Colombia navi e aerei militari delle aziende partecipate. D'Alema si sarebbe dato da fare per concludere un'altra operazione nel Paese sudamericano, questa volta nel campo dell'energia rinnovabile, per conto di una società d'investimento di cui D'Alema, almeno stando ai messaggi inviati ai suoi interlocutori, si è presentato come «Advisor». Del resto era stato lo stesso ex premier a dichiarare pochi giorni fa in un'intervista al Corriere, alla domanda su cosa ci avrebbe guadagnato da questa storia, che «la mia società avrebbe avuto dei vantaggi nel campo dell'energia, delle infrastrutture, in rapporto alle aziende private con cui collaboro». D'Alema, contestualmente alla possibile vendita di navi e aerei avrebbe lavorato con gli stessi mediatori in Colombia su un progetto parallelo: Las Marias. Un fondo con sede a Londra, Alliance renewables capital limited, di cui D'Alema si presenta da solo come advisor, doveva investire nell'acquisto di quote di una società, la Ayc solutions, con sede a Medellin, per 13,2 milioni, nell'ambito di un progetto fotovoltaico. Ancora una volta l'interlocuzione passa attraverso i pugliesi del business Fincantieri e Leonardo e dal potente Edgar Ignacio Fierro, l'ex paramilitare delle Auc ora riabitato da un «perdono pubblico» con cui D'Alema discuteva dei prodotti delle partecipate. Lo stesso Fierro compare in copia in una mail nelle fasi iniziali del negoziato su Las Marias, in cui avrebbe favorito i contatti. Il 16 dicembre D'Alema scrive: «Sto aspettando la copia del contratto per l'acquisto di energia per Las Marias». Due giorni dopo: «Non hanno mandato la copia, se arriva chiudiamo l'operazione». Ancora il 19 dicembre D'Alema sollecita: «Io posso inviate un impegno di no disclosure, se è necessario Lo faccio firmare al Ceo di Alliance Renewables e lo firmo anche io come Advisor». Ancora: «Se ci saranno risposte positive c'è sicuramente interesse all'acquisto. Non appena la verifica sarà completata, faranno un'offerta». E in effetti l'offerta non vincolante, firmata dal direttore del fondo Roberto Scognamiglio, arriva il 27 gennaio. Anche questo affare però poi si blocca.

Guido Paglia per sassate.it il 29 marzo 2022.

Non ci saranno reati, ma irregolarità nelle procedure evidentemente sì. E se in Leonardo non succede niente, a dimostrazione che il management ha soltanto obbedito alle disposizioni dell’AD Profumo, in Fincantieri il “pugno di ferro” di Bono ha fatto la prima vittima “eccellente”: dopo i provvedimenti cautelativi, Giuseppe Giordo è stato sospeso dall’incarico e la responsabilità della Divisione Navi Militari è stata assunta direttamente dall’AD.

Massimo D’Alema potrà continuare a nascondersi dietro le interviste “in ginocchio”, approfittando delle amnesie di giornalisti compiacenti, ma ormai lo scandalo è esploso e non può farci niente. La speranza di riuscire a nascondere la polvere sotto il tappeto, si è dissolta e prima o poi dovrà ammettere che alla base del Colombiagate non ci può essere solo la sua mancanza di cautela.  

D’altra parte, la coraggiosa e implacabile inchiesta a puntate de La Verità, sforna ogni giorno particolari sempre più inquietanti e in una nazione normale i comportamenti del Lider Maximo, Profumo e Giordo avrebbero già provocato la nascita di una Commissione Parlamentare d’inchiesta. Senza aspettare gli audit e le indagini interne di Leonardo e Fincantieri.

C’è ora molta attesa per vedere come influirà questo “giubilamento” di Giordo sul futuro del rinnovo dei vertici di Fincantieri. Perché intanto l’azionista Cdp -su richiesta del MEF- ha deciso di rinviare ogni decisione sulle liste al 14 Aprile.

A chi toccherà la “Malapasqua”?

Le frizioni di D'Alema coi suoi sulla trattativa per le armi. Lodovica Bulian il 31 Marzo 2022 su Il Giornale.

"Basta inutili litigi, lavoriamo insieme per l'obiettivo". L'ira dell'ex premier alle "Iene": intercettato illegalmente.

Ci sono stati anche momenti di tensione tra i mediatori dell'affare colombiano che coinvolge Massimo D'Alema. L'ex premier però via sms richiamava tutti all'ordine: «Vorrei che si lavorasse tutti insieme per l'obiettivo». Del resto l'affare da 4 miliardi - stando alle offerte preliminari - per la vendita di aerei e navi militari di Leonardo e Fincantieri alla Colombia valeva 80 milioni di euro di premio. Ovvero il 2 per cento del business, stando alle parole dello stesso D'Alema, registrato - o come sostiene lui alle Iene, «intercettato», illegalmente - mentre parlava con l'ex paramilitare colombiano Edgar Fierro. Condizioni contrattuali considerate «straordinarie» dall'ex premier, perché «normalmente i contratti di promozione commerciale hanno un tetto, in questo caso no».

Prima che l'affare saltasse con la fuga di notizie, D'Alema assicurava al suo «team» che i contratti di Leonardo e Fincantieri allo studio legale di Miami Robert Allen Law - indicato da lui come soggetto da cui far passare l'operazione - erano in dirittura d'arrivo. Ma il lavoro sul business era in corso da mesi, gli altri mediatori si lamentavano per le spese già sostenute di tasca propria, e a volte c'erano tensioni di vario genere tra il team. Il 31 gennaio, dopo alcune frizioni, D'Alema scrive: «Vorrei che si smettesse di fare inutili litigi e che si lavorasse tutti insieme per l'obiettivo. Ci possono essere risultati molto importanti». In particolare Francesco Amato, uno dei due consulenti pugliesi che avevano proposto l'affare a D'Alema per le sue conoscenze con i vertici delle aziende, aveva confronti aspri con l'ex premier, che lo descriveva come «un giovane che fa confusione». Intervistato dalle Iene, Amato sostiene di aver sborsato 88mila euro per l'operazione poi saltata. Ma lascia intendere altro: «Io sono andato sei volte in Colombia. Però c'è tutto un lavoro dietro, fatto con persone in Colombia per muovere la cosa. Per vedere di muovere l'affare, di aprire le porte». Avete dovuto - gli chiedono - come si dice, oliare i meccanismi? «Chiamateli come volete - dice - Però è un lavoro che si è fatto».

E le partecipate? Da quando è scoppiato il caso, Fincantieri e Leonardo negano di aver affidato incarichi ai soggetti di questa storia. Ed è così, sebbene si sia arrivati a un passo dall'affidarli prima che andasse tutto all'aria. Fincantieri si era spinta a firmare una dichiarazione di intenti preliminare con la Colombia, supervisionata dall'avvocato dello studio Allen segnalato da D'Alema. Ora ha sospeso le deleghe a Giuseppe Giordo, il direttore della divisone Navi Militari che interloquiva con l'ex premier. Il 12 dicembre però un altro manager di Fincantieri - e non era presente Giordo - era a Cartagena per un'interlocuzione preliminare sull'affare, accompagnato da Bonavita. Amato riferiva a D'Alema: «L'uomo di Fincantieri è con i nostri in Colombia per informazioni riservate sul piano di sicurezza e sui concorrenti (altre società interessate a fornire navi, ndr)». E lui: «Lo so».

Quanto a Leonardo, aveva addirittura scritto una bozza di contratto per lo studio Allen. E sono diversi i messaggi in cui l'ex premier tira in ballo l'ad Alessandro Profumo nella trattativa. Per esempio nelle call che si stavano organizzando con i rappresentanti dello Stato colombiano. D'Alema si raccomandava così in chat: «Naturalmente il diritto a parlare è limitato a me, Profumo e Giordo. Gli altri ascoltano».

Salta il dg di Fincantieri per le armi alla Colombia del «caso D’Alema». di Andrea Ducci ed Enrico Marro su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.

Giuseppe Giordo sollevato dagli incarichi operativi. A pesare sul suo destino il coinvolgimento che avrebbe dovuto portare a un contratto da 4 miliardi.

Per ora Giuseppe Giordo è stato sollevato da ogni incarico operativo. A pesare sul destino del direttore generale della divisione navi militari di Fincantieri è il suo coinvolgimento nell’operazione che avrebbe dovuto portare alla sigla di un contratto da 4 miliardi di euro per la vendita di aerei e navi prodotte, oltre che da Fincantieri, anche da Leonardo, alla Colombia. Una partita con in veste di negoziatore l'ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema che, tuttavia, si è svolta attraverso un canale parallelo a quello ufficiale tra il governo italiano e quello di Bogotá. Tant’è che, una volta emerso il ruolo di D’Alema, la trattativa è saltata e la procura di Napoli ha aperto un’inchiesta. Ma a cercare di fare luce è anche un audit interno attivato dalla stessa Fincantieri, un’indagine sull’operato di Giordo arrivata alla prime risultanze, che, evidentemente, hanno suggerito a Giuseppe Bono, amministratore delegato del gruppo cantieristico, di sospendere il direttore generale coinvolto nell’affaire Colombia.

Una mossa che assume rilevanza, anche perché nelle prossime settimane il governo dovrà procedere al rinnovo del vertice di Fincantieri e tra i possibili candidati per l’incarico di amministratore delegato figurava proprio il nome di Giordo. Un’ipotesi ormai tramontata. In pista, invece, resta l’opzione che Bono ottenga una riconferma come amministratore delegato o, eventualmente, come presidente di Fincantieri, sebbene ne sia alla guida dal 2002. Tra le possibilità anche la nomina del direttore generale, Fabio Gallia, al posto di Bono. In ogni caso la trattativa per la vendita di armi alla Colombia e il ruolo di intermediario di D’Alema tra il governo di Bogotá, interessato all’acquisto di aerei, corvette e sommergibili, e le aziende pubbliche Fincantieri e Leonardo, pone degli interrogativi sui vertici delle società.

Il sottosegretario alla Difesa, Giorgio Mulè (Forza Italia) ha raccontato di essere stato informato del ruolo dell’ex premier dall’ambasciatrice colombiana a Roma e di aver chiesto chiarimenti a Leonardo. D’Alema ha replicato dicendo che, venuto a conoscenza da politici colombiani dell’interesse di Bogotá per le armi italiane, si è limitato a informare le due aziende. In Fincantieri aveva contattato proprio Giordo. Ma in un incontro con emissari del governo colombiano, il cui audio è stato diffuso dai media, D’Alema parla di una possibile provvigione da 80 milioni se l’affare fosse andato in porto. «Dovevo convincere un interlocutore riluttante», si è giustificato l’ex premier, «nell’interesse dell’Italia e non della mia persona».

In Parlamento sono state presentate interrogazioni al governo per chiarire i contorni della vicenda da Lega, Forza Italia, Leu, Italia viva e da Fratelli d’Italia. Una settimana fa ha risposto alla Camera il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, annunciando che Leonardo e Fincantieri avevano avviato «indagini interne per chiarire le questioni aperte, i cui risultati saranno oggetto di approfondimento e valutazione degli organi societari e delle istituzioni». E ieri è caduta la prima testa, anche se i due audit non sono ancora conclusi. «Il governo aspetta gli audit e poi il ministero dell’Economia, che vigila sui due gruppi, valuterà il da farsi», dice Mulè. Il 5 aprile, intanto, il numero uno di Leonardo, Alessandro Profumo, è atteso in audizione alla commissione Difesa del Senato.

Giacomo Amadori per la Verità il 30 marzo 2022.

Nella trattativa svolta in Colombia per la vendita di armamenti da parte del gruppo di lavoro collegato a Massimo D'Alema sono state aperte delle porte attraverso il pagamento di denaro? Sulla vicenda aleggia lo spettro della corruzione internazionale, oltre ad altre possibili ipotesi di reato, come il riciclaggio, l'autoriciclaggio ed eventuali reati fiscali. 

In un documento, avente come oggetto «stato attività Repubblica di Colombia Fincantieri-Leonardo report 2021» risalente 7 gennaio 2022, redatto su carta intestata del ministero degli Esteri colombiano e della Unión de Cooperación para América Latina (loghi verosimilmente manipolati), i due broker italiani, Emanuele Caruso e Francesco Amato, che si presentano come «consiglieri del ministero degli Affari Esteri» colombiano, spediscono un resoconto a D'Alema: «Si è provveduto all'individuazione dei membri della Commissione parlamentare per gli acquisti in materia militare. 

La Commissione è composta da 8 membri - senatori provenienti da diverse aree politiche. In Cartagena de India è stato effettuato un incontro con i membri individuati a cui, il gruppo di lavoro di supporto all'operazione costituito, ha evidenziato la qualità dei prodotti e la valenza politica dell'operazione che potrebbe maturare una delocalizzazione delle attività italiane di produzione con annessi benefici in termini di ricaduta occupazionale, in Colombia».

Sul sito del Senato della Colombia non c'è traccia di una commissione monocamerale composta da otto senatori. I due si preoccupano della presenza di un broker che agisce ufficialmente in Colombia per conto di Leonardo: «Effettuate una serie di riunioni con le autorità di Colombia, abbiamo suggerito di procedere con maggiore rapidità con Fincantieri, considerando che Leonardo è già presente in Sudamerica e ha nominato una società colombiana come proprio rappresentante in loco, ma non ha svolto attività di rilievo». Un ostacolo che cercano di aggirare: «Per quanto riguarda Leonardo, consapevoli della criticità derivata dalla presenza di un mandatario in territorio colombiano, si sta lavorando per un incontro conoscitivo teso alla formalizzazione dell'offerta consegnata al ministero della Difesa di Colombia».

La società è la Aviatek dell'imprenditore Luis Zapata, che aveva spuntato nell'aprile del 2021 un contratto di promozione per la vendita di 5 M-346 del 4% (D'Alema e i suoi si erano accordati per il 2), ma con un tetto massimo di dieci milioni di euro, mentre l'ex premier contava di non avere questo limite e parlava di 80 milioni di euro di provvigioni sui 4 miliardi previsti per la vendita. Stando al documento dei broker i due avrebbero assistito alle «concertazioni» che hanno portato alla nomina del «responsabile dell'ufficio approvvigionamenti militari dell'esercito», «una persona con cui collaboriamo stabilmente» 

Una frase che riporta alla conference call tra D'Alema e l'ex comandante dei gruppi paramilitari colombiani delle Auc, Edgar Fierro. Che aveva detto all'ex leader del Pds: «Qui in Colombia stiamo gestendo con un generale della Repubblica che ha il potere di decidere di cosa ha bisogno l'Aeronautica colombiana». E sembrava che potesse agire indipendentemente dal Senato.

Fierro aveva aggiunto: «Il generale è dentro alla nostra squadra. Può aiutarci ad accelerare il processo di acquisto dei prodotti offerti da Leonardo». Probabilmente si riferiva alla nomina citata nel documento dai due broker. E di fronte ai timori di D'Alema per le imminenti elezioni legislative e un possibile cambio di maggioranza e di governo, Fierro lo aveva tranquillizzato: «Il ministro della Difesa se ne andrà tra due o tre mesi, ma ci sono ancora due funzionari che fanno parte della nostra squadra, che possono gestire tutto ciò di cui abbiamo bisogno e tutto ciò per cui ci siamo impegnati con Leonardo».

Il broker Amato si è lamentato con noi di aver versato di tasca propria per la sua attività di promozione, per voli aerei e soggiorni tra la Spagna e Colombia circa 80.000 euro, ma ha negato mazzette. Quando gli abbiamo chiesto di rivelarci il nome del generale s' è chiuso a riccio, spiegandoci che non vuole perdere il contatto: «Il generale è ancora attivo. L'incarico gli è stato affidato recentemente. Non ha commesso illegalità. Ha fatto solo dei piaceri. Se un appuntamento normalmente si ottiene in sei mesi, se interviene il generale me lo danno dopo due settimane. Ma ribadisco, questa non è corruzione, ma un favore. Per questo il suo nome è l'unica cosa che mi piacerebbe rimanesse riservata. Ha cercato solo di agevolare le aziende italiane». 

Sarebbe stato lui a consentire alla squadretta di portare i manager di Fincantieri a un incontro con l'ammiraglio Rafael Callamand a Cartagena dentro ai cantieri di Cotemar il 14 dicembre scorso. Avrebbe facilitato un incontro avvenuto il 27 gennaio al ministero della Difesa di Bogotà per il manager di Leonardo Carlo Bassani e l'avvocato Umberto Bonavita. Ieri Striscia la Notizia ha pubblicato due messaggi inediti di D'Alema con Amato dello scorso novembre. Il broker scrive: «Abbiamo email pronte di Uruguay e Paraguay per Leonardo e Fincantieri.

Che facciamo le mandiamo a Umberto e apriamo la strada pure li ???». D'Alema risponde: «A Umberto. Certamente». 

Poi aggiunge un messaggio già pubblicato dalla Verità: «Tutti gli inviti e le manifestazioni di interesse dovrebbero andare allo studio americano, cioè a Umberto, quando abbiamo le carte in mano negoziamo con le aziende (Leonardo e Fincantieri).

È assolutamente necessario evitare che gli inviti vadano direttamente alle aziende». Uruguay e Paraguay avevano deciso di ammodernare i propri armamenti esattamente come la Colombia e avevano annunciato importanti investimenti. Amato aveva iniziato a sondare il terreno. Ma la pratica era alle battute iniziali. Ecco che cosa ci ha detto il broker: «Ho parlato due volte con D'Alema di questa cosa. Stavo aspettando una comunicazione di Bonavita che non mi ha mai detto niente. Io ho riferito a D'Alema che c'era l'opportunità di aprire delle trattative in Uruguay e Paraguay. Gli ho detto: «Dì a Bonavita che se Fincantieri e Leonardo vogliono aprire anche questo mercato devono presentare le lettere di presentazione. Così dico a Umberto dove mandarle. Risposta: "Gliene parlerò", ma non mi hanno fatto più sapere niente». Al contrario della trattativa colombiana le altre si sarebbero, però, fermate alle battute iniziali.

Da “il Giornale” il 30 marzo 2022.  

Per quelli di Liberi e Uguali, costola sinistra del centrosinistra che ha accolto molti profughi del Pd, la spesa militare attuale dell'Italia basta e avanza: «In una situazione che mette la popolazione a rischio di dover affrontare di nuovo una crisi molto pesante spiegano quelli di Leu -, le risorse devono essere concentrate sulle emergenze economica, sociale ed energetica, non adoperate per le armi». 

La sinistra pensa al popolo, non certo alle armi. Oddio, qualcuno sì. Prendete Massimo D'Alema, ex candidato (non eletto) come senatore di Leu, appunto.

In Colombia, si è dato un gran daffare per piazzare un grosso ordinativo di armi, roba da 80 milioni di euro. La armi in Ucraina non vanno bene, in Colombia invece sì.

Giacomo Amadori per “la Verità”  l'1 aprile 2022.

Massimo D'Alema sta provando a buttarla in caciara e mercoledì ha cercato di distogliere l'attenzione dei media dalla trattativa sugli armamenti da vendere in Colombia, spostandola sulle fonti del nostro scoop. Purtroppo c'è chi gli ha dato corda andando alla ricerca di misteri che non esistono. In principio ci ha provato Piero Sansonetti a Quarta Repubblica, ma mercoledì ci si sono messe pure Le Iene, che, come hanno dimostrato con il caso Valter Tozzi, a volte vanno a caccia di inesistenti spy story. 

E così l'ex premier, in tv, ha approfittato del clima favorevole per alzare cortine fumogene: «Alla base di tutto questo affare c'è un'intercettazione illegale di una conversazione privata. In più è stata tagliata e ricucita, quindi è un'informazione a mio giudizio falsa» ha sentenziato. Nel video, l'inviato Antonino Monteleone commenta: «L'ex premier è fermamente convinto che la sua telefonata sia stata intercettata illegalmente e che non sia stata divulgata per caso».

D'Alema solletica il giornalista: «Questa è un'operazione professionale, parliamoci chiaro, non è una cosa così, da dilettanti di passaggio, diciamo». Anche i broker Emanuele Caruso e Francesco Amato giocano al gatto con il topo con il malcapitato cronista e gli fanno immaginare chissà che. 

Da parte sua D'Alema insiste, diffamando il nostro giornale: «Questa è una cosa che è stata costruita, confezionata, gli altri giornali non l'hanno cagata. L'hanno considerato com'era, diciamo una merda e l'hanno buttata via. Un solo giornale ha pubblicato La Verità perché evidentemente più avvezza alla monnezza diciamo». 

Poi l'ex premier in evidente difficoltà lancia uno sconclusionato attacco al nostro direttore: «Belpietro ha scritto che è stata registrata da uno dei partecipanti era una conversazione tra due persone, non è che c'era una folla di partecipanti. Quindi questa affermazione è palesemente falsa». 

L'ex premier, in versione Jacques Clouseau, esclude che il file audio con la sua voce possa avercelo inviato il suo interlocutore, l'esimio Edgar Fierro, già condannato a 40 anni di galera per i delitti commessi quando era un comandante dei gruppi paramilitari colombiani di estrema destra: «[] C'ha l'indirizzo della Verità? Ma non diciamo sciocchezze Fierro, ma che ne sa, questa è una cosa italica, diciamo, voi fate i giornalisti, non fatevi raccontare favole».

Monteleone obietta poco convinto: «Intercettare una conversazione privata su una piattaforma è molto sofisticata come attività. Non è una cosa che si fa». E D'Alema lo stuzzica: «E appunto, lo so, sarebbe interessante capire proprio perché fatevi delle domande. È il vostro mestiere». 

Dopo aver ascoltato questo sproloquio, perplessi ci domandiamo quali sarebbero i giornali che avendo un tale scoop nel cassetto si sarebbero dati il buco da soli, per poi essere costretti a venire a rimorchio del nostro giornale. Questi cronisti, sempre che esistano, e tendiamo a escluderlo, andrebbero candidati al Pulitzer. quel che non torna Il servizio delle Iene ci costringe, però, a smentire ogni strumentale ricostruzione da parte di chi è in palese difficoltà e cerca di sviare l'attenzione da sé approfittando dell'ingenuità o della complicità di questo o quel giornalista (basti ricordare un paio di interviste anche quelle da Pulitzer).

Partiamo dall'inizio: il 28 febbraio 2022 abbiamo letto con sorpresa sul sito Sassate.it un articolo che svelava il nuovo presunto mestiere dell'ex premier, quello di «facilitatore» di business nel settore militare in America Latina, anche se non veniva esclusa «l'ipotesi di trovarsi di fronte a retroscena da cui potrebbe spuntare il millantato credito». 

A quel punto abbiamo deciso di approfondire la notizia e dopo qualche ricerca abbiamo ottenuto le prime conferme e siamo riusciti ad avere nome e contatto telefonico di Francesco Amato, uno dei due broker che stavano dando assistenza all'ex presidente del Consiglio. Il trentottenne pugliese, dopo un iniziale stupore e una certa diffidenza, ha accettato di raccontarci la sua versione.

Riteneva di essere stato scavalcato nell'affare da D'Alema, dal momento che da alcuni giorni non aveva più notizie della trattativa con Leonardo e Fincantieri. Inoltre aveva avuto una discussione con D'Alema dopo la mancata call con il ministro della Difesa colombiano a cui era stati invitati anche l'ad di Leonardo Alessandro Profumo e il manager di Fincantieri Giuseppe Giordo. 

Con Amato abbiamo sondato anche «l'ipotesi del millantato credito», facendolo accendere come un fiammifero: «[] Non sto parlando dei soldi io devo capire l'umiliazione che ho sofferto e adesso in più che mi stai dicendo (inc) un lavoro di otto mesi fatto da parte mia non di Robert Allen, né del presidente, né della madre che mi pariò Francesco Amato ha fatto un cazzo di lavoro viaggi a spese sue».

A quel punto gli abbiamo domandato quante volte avesse incontrato il presidente e allora Amato ha alzato le cateratte: «Tre volte e ti dico di più c'è una riunione tra il presidente e un'istituzione pubblica colombiana la riunione sta registrata dove il presidente spiega tutto per filo e per segno le partecipate, gli accordi con le partecipate come sarà il modus operandi e tutto quanto quindi che non mi dicano che non c'entra un cazzo perché so io a chi cazzo mando la registrazione». 

Colpiti da questo sfogo improvviso, arrivato dopo quasi un'ora di chiacchierata (tutta registrata), capiamo di essere a un passo da uno scoop e azzardiamo: «Dovresti mandarla a me». Amato tentenna: «Prima vediamo come finiamo io sto parlando perché sto dalla parte della ragione». 

Insistiamo per qualche minuto, spieghiamo che non abbiamo mai creduto al millantato credito e che siamo interessati a questo audio. Lui, capendo di essere preso sul serio, ci offre i dettagli: «(D'Alema, ndr) parlava in italiano, aveva il traduttore e ce l'ho dove spiega 50 per cento a me 50 per cento a te, si muoveranno così, faranno colà, io non voglio fare casini io te lo posso mandare ma non voglio fare casino». Poi, dopo aver scambiato ancora qualche battuta, decide che quell'audio potrebbe servire a una ricostruzione fedele di quanto accaduto: «Mi hanno preso per il culo, io te lo posso mandare l'audio». E dopo poco, via Whatsapp, ce lo invia.

La genesi della registrazione, nella ricostruzione di Amato, è molto lineare. E per questo ci ha spedito gli screenshot dei messaggi di Fierro propedeutici alla conversazione avuta con D'Alema l'11 febbraio. 

I protagonisti del dialogo sono l'ex paramilitare e una presunta «segretaria/interprete» dell'ex leader del Pds che possiede un telefonino con numero spagnolo che ieri ha squillato a vuoto tutto il pomeriggio. Il 10 febbraio, nel primo pomeriggio, Fierro scrive: «Abbiamo inviato i documenti ufficiali della presidenza. Può confermare se sono arrivati? Inoltre, confermo la partecipazione all'incontro previsto per domani e chiedo di informarmi su chi parteciperà. Grazie».

Risposta: «Confermo che il presidente ha ricevuto la mail. Preciso che la teleconferenza avrà luogo solo tra lei e il presidente Massimo D'Alema. Sarò presente solo io per tradurre la conversazione tra il Presidente e vostra Grazia». 

Fierro replica: «Da questa parte saremo presenti io e il signor Francesco Amato, poiché è la persona che, a mio nome, ha svolto tutto il lavoro istituzionale e privato con i miei contatti e che ha mantenuto le interlocuzioni per l'intera operazione, se questo non crea inconvenienti».

Inizialmente sembra che da parte di D'Alema non ci siano obiezioni: «Va bene nessun problema, molte grazie» conclude l'interprete. Che il mattino successivo manda questo nuovo messaggio: «Salve, scusi ho avuto un contrattempo e sarò sostituita da un altro collaboratore del presidente. Il presidente mi ha chiesto se fosse possibile che all'incontro di oggi non ci fosse nessuno presente, solo lei. Grazie».

L'ex comandante ribatte: «Per favore chieda al presidente qual è il motivo per cui il signor Francesco Amato non sarà presente alla riunione, per me è importante che possa partecipare poiché è stato l'interlocutore in tutto ciò che è accaduto durante il procedimento, oltre a godere di grande fiducia e approvazione da parte di tutti». Lo stesso pomeriggio Fierro scrive ad Amato: «Mi stanno già chiamando». Il broker risponde: «Ok. Se del caso mi aggiungi». 

Alla fine del colloquio, durato 65 minuti, l'ex paramilitare pone la domanda cruciale: «Infine, Presidente, vorrei chiederle, con tutto il rispetto, se lei ha avuto un problema con il signor Francesco Amato []». 

L'ex premier svicola: «[] È un simpatico giovane, a volte fa un po' di confusione, come succede alle persone più giovani». Dopo circa un'ora e mezza dall'ultimo messaggio ad Amato e precisamente alle 17 e 12 dell'11 febbraio Fierro invia l'audio del colloquio della durata di 1 ora e 5 minuti all'amico broker, un file Mp3 pesante 94,2 megabyte. Lo stesso che abbiamo ricevuto noi il 28 febbraio. Quindi sembra proprio che a registrare sia stato uno dei tre partecipanti alla videochiamata. Se così fosse, e non abbiamo motivo di dubitarne, ci troveremmo di fronte a un'«intercettazione» perfettamente legale.

Il Colombia-gate si allarga. D'Alema nel mirino dei pm. Lodovica Bulian l'1 Giugno 2022 su Il Giornale.

Uno degli indagati parla, i pm di Napoli indagano sulle provvigioni per la mediazione.

Sarebbe più ampio di quanto emerso nelle prime battute dell'inchiesta, il faro acceso dalla Procura di Napoli sul Colombia gate. Cioè sull'affare, poi saltato, nel quale Massimo D'Alema - non indagato - si sarebbe adoperato per la vendita di armamenti di Leonardo e Fincantieri al governo di Bogotà. Un business da 4 miliardi di euro, 80 milioni sarebbero stati il prezzo delle mediazioni, almeno stando alle parole dello stesso ex premier, registrato tre mesi fa a sua insaputa mentre parlava con un mediatore colombiano.

Ieri nella sede della polizia postale di Napoli sono iniziate le fasi preliminari dell'incidente probatorio sul sequestro di telefonini e dispositivi disposto a carico dei pugliesi Emanuele Caruso e Francesco Amato, indagati per sostituzione di persona e truffa, e a carico di Giancarlo Mazzotta e suo figlio Paride, non indagati. Erano stati i primi due a fiutare il business colombiano, grazie ai contatti di Amato, e a portarlo all'attenzione di D'Alema per il tramite di Giancarlo Mazzotta, un ex sindaco pugliese che aveva il contatto con l'ex premier.

I pm contestano a Caruso e ad Amato la sostituzione di persona perché al fine di «accreditarsi» più facilmente in ambiti istituzionali avrebbero «attribuito falsamente il patrocinio dell'Assemblea Parlamentare del Mediterraneo (organizzazione con sede a Napoli ndr)», all'associazione della Camera mediterranea per l'industria, di cui si qualificavano come «segretario generale e responsabile per l'America Latina».

Ieri nell'ambito dell'avvio dell'incidente probatorio - assente Amato, irreperibile anche alla perquisizione perché all'estero - Caruso, che ha sempre ribadito la correttezza del patrocinio, ha voluto rilasciare dichiarazioni spontanee ai magistrati e ha consegnato loro una memoria. Da un lato la difesa dal presunto falso, dall'altro anche una dettagliata ricostruzione della vicenda, dalla sua genesi fino ai soggetti che ne hanno preso parte, compresi i rapporti di D'Alema con Fincantieri e Leonardo. Dettagli sono stati forniti anche sul ruolo di uno studio legale americano che era stato segnalato da D'Alema.

Insomma, l'indagine - partita da un esposto di Gennaro Migliore e dell'Ambasciatore Sergio Piazzi in qualità di presidente e di segretario generale dell'Assemblea del Mediterraneo sul patrocinio a Caruso - potrebbe essere più ampia delle contestazioni di truffa ai due pugliesi Amato e Caruso.

Particolare attenzione, tra le dichiarazioni di Causo, sarebbe stata prestata dai pm alle percentuali dei contratti di mediazione - mai perfezionati - che D'Alema avrebbe voluto strappare a Leonardo e Fincantieri. Gli 80 milioni di provvigione infatti sarebbero stati il 2% di un business da 4 miliardi. Condizioni «straordinarie», aveva rivendicato lo stesso D'Alema nella telefonata registrata: «Normalmente i contratti di promozione commerciale hanno un tetto, un cap, in questo caso no. In questo caso è un contratto commerciale del 2% dell'ammontare del business». L'ex premier, che non aveva alcun mandato ufficiale a negoziare per conto delle partecipate, e aveva indicato nello studio legale Robert Allen di Miami il soggetto attraverso cui far passare le mediazioni: «Tutti i compensi che Allen riceverà da Fincantieri e Leonardo saranno suddivisi al 50% con la parte colombiana». La bozza di contratto che Leonardo era arrivata a scrivere per Allen, seppur mai perfezionata, prevedeva proprio il 2% del business senza tetto. I pm potrebbero volerne saperne di più.

Camilla Conti per “la Verità” l'8 giugno 2022.

Il Colombia-gate potrebbe avere fatto la sua prima vittima dentro Leonardo, dopo che in Fincantieri il dossier aveva causato l'allontanamento dell'ex direttore generale Navi militari Giuseppe Giordo, ma forse anche dell'ad Giuseppe Bono. In una mail inviata lunedì scorso ai dirigenti di Leonardo, l'ad Alessandro Profumo, ha infatti informato i colleghi che «in virtù di una recente richiesta ricevuta dal ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale relativa a nuove prospettive professionali per Sem Fabrizi, abbiamo condiviso di favorire il suo rientro presso il ministero, concludendo anticipatamente il suo rapporto lavorativo» con il gruppo.

In attesa di nuove comunicazioni organizzative «che seguiranno a breve», l'ad ha poi ringraziato Sem «per il lavoro svolto» e gli ha formulato «i migliori auguri per gli incarichi futuri». Al netto delle liturgie istituzionali, c'è chi ha visto nell'uscita di Fabrizi una sorta di promoveatur ut amoveatur. 

Il motivo? Facciamo un passo indietro. Il capo delle relazioni istituzionali Sem Fabrizi è il diplomatico che nel gennaio scorso sarebbe stato avvertito dall'ambasciatore a Bogotà Gherardo Amaduzzi della strana attività di mediatore di Massimo D'Alema. L'ex ministro degli Esteri il 19 gennaio 2022 contattò Amaduzzi, invitandolo a dare udienza all'«amico» pluri imputato Giancarlo Mazzotta, impegnato nel «rappresentare», apparentemente senza alcun mandato, Leonardo e Fincantieri in un affare da 4 miliardi di euro con 80 milioni di possibili provvigioni.

Ma l'ex rappresentante politico delle feluche italiche non ha bussato solo alla porta di Amaduzzi per portare avanti la sua trattativa parallela per gli armamenti da esportare in Colombia. E ha tentato la via della diplomazia per tagliare fuori come interlocutore dell'affare il governo italiano. Grazie alle dichiarazioni di Amaduzzi, La Verità ha scoperto che l'ex primo ministro introdusse nella sede diplomatica di Bogotà proprio l'imputato Mazzotta, atterrato nella terra dell'Eldorado con l'obiettivo di rappresentare Leonardo e Fincantieri. L'incontro si è svolto il 25 gennaio e subito dopo Amaduzzi, interdetto, ha avvertito Fabrizi. Ma quest' ultimo non avrebbe fiatato con nessuno.

Neppure quando ha pranzato con il sottosegretario Giorgio Mulè, l'ambasciatrice colombiana e i rispettivi staff il 2 febbraio scorso: «Non so che cosa si siano detti l'ambasciatore Amaduzzi e Sem Fabrizi, direttore delle relazioni Internazionali di Leonardo. Di sicuro, quando il 2 febbraio ci troviamo a Roma a una colazione di lavoro con Fabrizi e l'ambasciatrice di Colombia in Italia per pianificare le azioni da intraprendere con il governo colombiano non accenna a nulla», aveva detto Mulè al nostro giornale a fine marzo. «Nessun dirigente di Leonardo mi riferì mai di questa trattativa parallela. Fui io a metà febbraio a chiederne conto al direttore generale di Leonardo dopo il colloquio di D'Alema con l'ambasciatrice colombiana a Roma», ci aveva risposto.

I vertici del colosso della Difesa partecipato dallo Stato, hanno intanto consegnato alla Procura di Napoli - che ha aperto un fascicolo dopo alcuni articoli della Verità - e alla Digos, a cui sono state delegate le indagini, l'audit interno di Leonardo che era stato inviato anche al ministero dell'Economia, socio di maggioranza dell'azienda (una copia sarebbe arrivata anche al ministero della Difesa). 

Le conclusioni sono state già in parte anticipate da questo giornale: all'esito dell'indagine promossa dal presidente Luciano Carta sono stati mossi rilievi all'ufficio commerciale dell'azienda che nell'ottobre dello scorso anno inviò una brochure con prezzario degli aerei da addestramento M-346 a D'Alema, che, però, non aveva nessun titolo per ricevere quel materiale di interesse anche militare.

Ma nel documento sarebbe biasimato anche il comportamento di Fabrizi. Che ora non viene licenziato ma richiamato alla Farnesina, dopo solo un anno in Leonardo, «per nuove prospettive professionali». Meno soft la soluzione individuata in Fincantieri, altra azienda coinvolta nell'affaire colombiano, dove, come detto, Bono non è stato confermato e Giordo è stato licenziato. 

Nel frattempo, nella banca dati della Camera di commercio è stato depositato in questi giorni il bilancio della DL & M Advisor, la srl fondata nel 2019 e controllata al 100% da D'Alema che si occupa soprattutto di consulenza strategica. Ebbene, la società ha archiviato il 2021 con 581.697 euro di utile, quasi il triplo dei profitti registrati nel 2020 (202.333 euro). 

A crescere è stato anche il valore della produzione balzato dai 426.816 euro del 2020 a 1.031.589 euro del 2021. I conti dell'anno scorso sono stati approvati dall'assemblea riunita nel pomeriggio del 30 aprile scorso presso la sede romana della società, in via delle Milizie. Con il presidente e amministratore unico, D'Alema, che ha deciso di destinare a riserva l'intero utile frutto delle consulenze - recita l'oggetto sociale dell'srl - «nell'ambito dei processi di internalizzazione dei mercati africani, asiatici, Far East, Middle East e Balcani per la ricerca e l'attrazione di investimenti di aziende private verso detti mercati». 

DAGO FLASH! l'8 giugno 2022.  - C’ERA UN PAPOCCHIO E SERVIVA UN CAPRONE ESPIATORIO PER IL “COLOMBIA-GATE” E LA TENTATA INTERMEDIAZIONE DI D’ALEMA & FRIENDS PER LA VENDITA AI COLOMBIANI DI FORNITURE DI ARMI. GLI “ADDETTI AI LIVORI” COSÌ LEGGONO IL SILURAMENTO DI SEM FABRIZI DAL RUOLO DI CONSIGLIERE DIPLOMATICO E DIRETTORE DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI DI LEONARDO - FABRIZI, CHE TORNERÀ ALLA FARNESINA, SCONTA UNA RESPONSABILITÀ NON TOTALMENTE SUA. NON ERA FORSE LA DIREZIONE COMMERCIALE A DOVER INFORMARE L’AZIENDA DEL RUOLO DI D’ALEMA?

Striscia la Notizia, "quell'inchiesta su D'Alema...": armi e soldi sporchi, ora è tutto chiaro.  Libero Quotidiano il 10 giugno 2022.

La 34esima stagione di Striscia la Notizia sta volgendo al termine. Sabato 11 giugno andrà in onda l’ultima puntata prima della pausa estiva. È quindi tempo di bilanci per Antonio Ricci: “Dopo le speranze nella scienza sembra che ora prevalga l’inscienza”. Come avviene da oltre 30 anni, il tg satirico di Canale 5 rivendica di aver assolto ancora una volta alla sua missione, ovvero quella di svelare truffe e manipolazioni attraverso inchieste, ma anche satira e parodie.

Giancarlo Scheri, direttore di Canale 5, ci ha tenuto a lodare Striscia e il suo fondatore: “Quando nell’orario di punta della programmazione televisiva, sei giorni su sette, da settembre a giugno, da ben 34 stagioni, un programma diverte e tiene pure sveglie le coscienze si può parlare di record senza timore di sentire. Solo Antonio Ricci può riuscire in un simile intento. Un intellettuale prestato alla tv, dove propone le sue impareggiabili idee da lontano 1979 e Striscia dal 1988. Numeri da capogiro, che regalano all’ammiraglia Mediaset un prodotto unico e ineguagliabile”. 

Tra i tanti servizi e inchieste che hanno fatto scalpore nel corso di questa stagione, l’affaire D’Alema-Colombia è stato particolarmente interessante. Pinuccio si è occupato del tentativo di vendita di armi alla Colombia con D’Alema come presunto intermediario: un affare da 4 miliardi con una commissione di 80 milioni di euro per i mediatori. Striscia ha svelato nel corso dei servizi documenti clamorosi sull’operazione con protagonisti Fincantieri, Leonardo e il governo colombiano, con tramite l’ex premier.

L'affare D'Alema in Parlamento. "Per lui mediazioni senza tetto". Lodovica Bulian l'1 Aprile 2022 su Il Giornale.

Gasparri interroga. Il manager Giordo fatto fuori via Dagospia.

Massimo D'Alema avrebbe strappato nell'affare colombiano, poi saltato, condizioni più vantaggiose di quelle di altri partner commerciali di Leonardo. È quanto emerge da un'interrogazione parlamentare a firma Maurizio Gasparri, che contiene alcuni termini contrattuali di Aviatek, la società con cui Leonardo avrebbe già un contratto per la vendita di aerei M-346 alla Colombia firmato nell'aprile 2021, cioè da prima che l'ex premier si inserisse nel business poi andato in fumo.

Quando D'Alema grazie alle sue conoscenze dirette interessa Leonardo, l'azienda, come avevamo dato conto nei giorni scorsi, aveva - oltre che un canale già aperto a livello istituzionale col ministero della Difesa italiano - anche un contratto di promozione commerciale con la colombiana Aviatek di Zapata. Società che lo stesso D'Alema in chat con gli altri consulenti definiva un «problema che risolveremo». Come fosse un ostacolo da superare. Del resto D'Alema non aveva alcun mandato ufficiale a negoziare aerei e navi militari per conto delle partecipate dallo Stato, e aveva indicato nello studio legale Robert Allen Law di Miami il soggetto attraverso cui far passare l'operazione e le mediazioni. Nei suoi piani Leonardo e Fincantieri avrebbero dovuto firmare un contratto con Allen, e poi questo ne avrebbe firmato a sua volta uno con i mediatori colombiani: «Tutti i compensi che Allen riceverà da Fincantieri e Leonardo saranno suddivisi al 50% con la parte colombiana». E rassicurava: «Divideremo tutto». In ballo c'erano 80 milioni di euro di mediazioni, il 2% di un business da 4 miliardi. Ed erano condizioni «straordinarie», rivendicava D'Alema nell'audio registrato a sua insaputa: «Normalmente i contratti di promozione commerciale hanno in tetto, un cap, in questo caso no. In questo caso è un contratto commerciale del 2% dell'ammontare del business». E infatti, la bozza di contratto che Leonardo era arrivata a scrivere per Allen, poi non perfezionata, prevedeva proprio quello di cui parlava D'Alema: il 2%, senza tetto. Aviatek invece avrebbe avuto condizioni meno vantaggiose, secondo l'interrogazione di Fi, che parla di un accordo tra Aviatek e Leonardo per la vendita di cinque aerei M-346 con un premio del «4% del venduto e con un cap, un tetto massimo di 10 milioni di euro». Proprio il tetto che invece D'Alema rivendicava non ci sarebbe stato nel contratto per Allen. Non solo. Quello con Aviatek non prevederebbe alcun rimborso spese. Un altro punto che invece stava a cuore a D'Alema: «Noi abbiamo chiesto che i contratti prevedano anche un compenso come rimborso spese. Non abbiamo ancora ottenuto una definizione quantitativa ma farà parte anche questa del contratto o forse si farà un piccolo contratto ulteriore».

Intanto il primo a saltare sull'affare colombiano, senza che nemmeno fosse finito l'audit interno, è stato Giuseppe Giordo, direttore generale Navi Militari di Fincantieri. La società partecipata dallo Stato e quotata in borsa, ha sospeso le deleghe operative al manager - che era in corsa per diventare amministratore delegato - senza una comunicazione ufficiale e dunque senza una comunicazione al mercato. La decisone è trapelata via Dagospia, sito che per primo ha pubblicato l'indiscrezione. E questo nonostante la Divisione militare guidata da Giordo rappresenti il 35% del fatturato del Gruppo. A Giordo è arrivata una lettera di sospensione generica che citava indiscrezioni di stampa. Non c'è stata però un'audizione da parte degli organismi competenti. Una procedura quantomeno anomala per un'azienda strategica quotata in borsa.

Lodovica Bulian per “il Giornale” il 2 aprile 2022.  

Spunta anche un ex agente speciale della Dea l'agenzia federale antidroga degli Stati Uniti - nell'intreccio di personaggi dell'affare colombiano, quello in cui Massimo D'Alema si dava da fare per la vendita di navi e aerei militari delle partecipate Fincantieri e Leonardo. Per arrivarci però bisogna partire dalle relazioni di un uomo chiave dell'operazione: Umberto Bonavita, l'avvocato dello studio legale Robert Allen Law di Miami, studio segnalato da D'Alema per gestire il business colombiano.

Nei piani dell'ex premier, era proprio da questo studio americano che sarebbero dovuti passare i contratti di Leonardo e Fincantieri e le relative mediazioni dei consulenti, il 2 per cento di un business da 4 miliardi: «Tutti i compensi che Robert Allen riceverà da Fincantieri e Leonardo saranno suddivisi al 50 per cento con la parte colombiana», diceva D'Alema nell'audio registrato a sua insaputa.

Bonavita infatti è stato in prima linea nella gestione dell'operazione colombiana.

E, come già emerso, non è esattamente uno sconosciuto per l'entourage di D'Alema. Anzi, l'avvocato dello studio Allen studio che l'ex premier inizialmente aveva addirittura negato di aver segnalato - è vicinissimo a un altro uomo di fiducia di D'Alema, il commercialista bolognese Gherardo Gardo, che in questo potenziale affare lavorava fianco a fianco con l'ex premier e interloquiva direttamente con un dirigente di Leonardo.

Del resto Gardo e Bonavita si conoscono da tempo, tanto che hanno fondato insieme una società di consulenza con sede a Miami, la Wey Llc che ha il suo domicilio fiscale proprio nello studio Allen. È in questo intreccio e soprattutto nelle relazioni dell'avvocato Bonavita dello studio di Miami che spunta l'ex agente della Dea: è John Costanzo, padre della moglie di Bonavita, Danielle Bonavita. Insomma, il suocero. Costanzo, che sul web viene definito un «agente speciale» dell'agenzia antidroga di Miami, è anche presidente della Ebco International, una «società internazionale di investigazione specializzata nella raccolta di informazioni per le aziende».

Compare anche nel board di un'altra società, la Costa Group International Llc, che ha sede ancora nello studio Allen e di cui risulta agente di riferimento proprio Bonavita. Ma gli affari di Costanzo sembrano allungarsi anche in Italia. 

Sul suo profilo LinkedIn si dichiara anche vice presidente esecutivo dell'italiana Austech srl, società che, secondo la descrizione che ne fa l'agente speciale sul suo profilo, collaborerebbe anche col ministero dell'Interno italiano: «È una joint venture italo-americana con sede a Roma, con rappresentanza a Miami, che fornisce soluzioni di sicurezza a enti pubblici e privati, tra cui il Ministero dell'Interno italiano, le autorità portuali e i servizi di intelligence in Italia e altri nazioni europee».

Sul sito della società, che ha sede nel cuore di Roma, compare tra la squadra manageriale proprio il curriculum di Costanzo: «Agente speciale per la Us Drug enforcement administration, ha culminato la sua carriera alla Dea di Miami, come responsabile della divisione che dirige le attività di 300 agenti speciali e personale di supporto». Secondo un articolo dell'AP del marzo 2020, l'uomo sarebbe anche stato coinvolto in un'indagine interna alla Dea sulla presunta divulgazione di informazioni sensibili ad alcuni avvocati di uomini sospettati di traffico di droga in Colombia. Per questo, in quell'occasione, secondo quanto riportato dall'Ap, gli sarebbe stato perquisito il telefono.

Giacomo Amadori e François De Tonquédec per “La Verità” il 4 aprile 2022.

Massimo D'Alema in queste ore sta cercando di convincere i media che la vicenda della trattativa per la vendita di armamenti in Colombia sia il dito, mentre la Luna sarebbe il complotto ordito da chissà quali forze oscure ai suoi danni. In effetti in questa storia qualche passaggio poco chiaro c'è, che però più che da una spy story sembra uscito da un B-movie. 

Per capirlo basta rileggere le dichiarazioni che uno dei due broker, a cui lo stesso ex premier si era affidato per l'affare da 4 miliardi, ci ha rilasciato. 

Stiamo parlando del quarantaduenne salentino Emanuele Caruso, il quale, a suo dire, avrebbe fatto parte di una fantomatica «Difesa avanzata», una sorta di braccio operativo dei nostri 007. Ci aveva detto: «Io provengo dall'ambiente dell'area riservata italiana».

Bum! A quel punto avevamo domandato se fosse alle dipendenze dei nostri servizi e lui ci aveva spiegato: «Non lo sono più perché io per varie vicissitudini, quando Costantino viene posto a riposo, io passo come esterno alla difesa avanzata interna». Quasi uno scioglilingua. Quindi domandiamo: Costantino chi? «L'ex comandante della Brigata Folgore che poi fu vice direttore Aise». 

In realtà Pietro Costantino non è mai stato vicedirettore dell'Aise, il nostro controspionaggio, ma capo reparto per circa 2 anni. Il racconto era proseguito: «Io a un certo punto vengo messo a fare le analisi alla Difesa avanzata questa sorta di lista italiana all'interno, all'Aisi». Altra informazione a cui non abbiamo trovato riscontro.

A questo punto il discorso di Caruso si è fatto un po' più circostanziato: «Io facevo praticamente il collaboratore Aise mediante la struttura Stam (società che si occupa di sicurezza, ndr), con il diploma al Criss (Consortium for research on intelligence and security services) con Elisabetta Trenta (ex ministro della Difesa, ndr), perché Enzo Scotti faceva il sottosegretario agli Interni (in realtà agli Esteri, ndr) e aveva lanciato questo progetto era un progetto pubblico-privato. Vado in Marocco inviato da loro».

Le smentite Ieri Scotti non ci ha risposto, mentre la Trenta è stata netta nell'escludere di aver mai conosciuto Caruso, di cui ha prima visionato un video in Rete. Il broker ha anche affermato di aver avuto problemi a causa della «faccenda con la Sudgestaid, la questione libica, che seguivo personalmente». 

Qui la vicenda si fa ancora più interessante. Sudgestaid è una società consortile italiana, senza scopo di lucro, a controllo pubblico, che si occupa di progetti di sviluppo in Italia e nel mondo. Nel 2012 la Sudgestaid, di cui la Trenta era presidente, ingaggiò per una pericolosa missione in Libia (recupero di missili terra-aria e addestramento di ex miliziani) la Stam di Gianpiero Spinelli, il contractor noto alle cronache per aver arruolato, «legalmente» come ha stabilito una sentenza, Umberto Cupertino e Maurizio Agliana, rapiti in Iraq nel 2004 insieme con Fabrizio Quattrocchi. 

Con noi l'ex paracadutista non si nasconde e ammette di aver conosciuto Caruso. Ma dà alla storia tutt' altro taglio. 

La versione di Spinelli «L'ho conosciuto tanti anni fa, saranno più di 10. Se ha collaborato con me? È una parola grossa l'ho conosciuto perché facevo delle consulenze per un'azienda e mi pare che anche lui facesse la stessa cosa, ma è stata una conoscenza, come dire (ride, ndr) anche perché io non faccio il broker, faccio altro nella vita [] mi occupo di sicurezza a un certo livello». 

E come si chiamava questa azienda? «Sma Spa (Spinelli ce la descrive come un general contractor, ndr), una società pugliese molto grande. Caruso l'ho conosciuto lì, ci saremo visti due o tre volte, come capita all'interno di una grande azienda. Io avevo un'attività di partnership con Sma, non con lui, non so neanche di cosa si occupasse, forse di sinergie».

Non è venuto in Libia con lei? «Sono andato in Libia con un contratto che il ministero degli Affari esteri italiano aveva affidato a un'altra azienda italiana in cui all'epoca c'era anche l'ex ministra Trenta. Le persone che sono venute con me sono la stessa Trenta, un suo collaboratore e due della sicurezza. I nostri sono registrati all'ambasciata di Tripoli. È facile verificare chi ci fosse e lui non c'era. Anche perché in Libia si muore. Lì porto chi deve garantirmi di poter tornare a casa. Noi siamo ex paracadutisti, io ho fatto 5 anni di America Latina, la Libia, sono stato in Israele. 

Figuriamoci se mi porto dietro un broker per fare sicurezza, al massimo posso scortarlo. Di che stiamo parlando?». Caruso ha conosciuto il generale Costantino? «Forse si sono visti in questa azienda, ma escludo che Pietro abbia avuto a che fare con lui. Il generale alla Sma sarà venuto una o due volte, ma non ha mai avuto un contratto». Per Spinelli le dichiarazioni di Caruso sono delle «cazzate»: «Lui non è mai stato un nostro collaboratore in Stam (la società inglese di Spinelli, ndr), non è mai stato in Aise. Mai.

Anche se noi non siamo dell'Aise, per il lavoro che facciamo, di battitori liberi, in quel mondo conosciamo tutti. Non ha mai fatto parte del consorzio Criss, non ha mai fatto parte di Sudgestaid, non è mai stato con noi in nessuna missione, la nostra conoscenza è legata solo a quell'azienda». 

Giochi di spie Ma a margine del Colombia-gate, emerge un'altra piccola piccola spy story che vede coinvolto un familiare di uno dei mediatori, l'avvocato di Miami Umberto Bonavita, dello studio Robert Allen Law, segnalato da D'Alema per la gestione ufficiale dell'affare. La moglie di Bonavita, Danielle, è infatti la figlia di John Costanzo, formalmente agente della Dea, l'antidroga statunitense.

Una carriera lunga a livello internazionale, macchiata due anni fa da un contrattempo giudiziario, mentre era già fuori servizio. Secondo notizie riportate a inizio 2020 dai media statunitensi Costanzo risulterebbe coinvolto in un'inchiesta sulla presunta divulgazione di informazioni sensibili ad alcuni avvocati di sospetti narcos in affari con la Colombia. A mettere nei guai l'italo americano sarebbe stato un suo ex collega anche lui in pensione dal 2018, di cui su Internet viene citato solo il cognome, Recio. A Costanzo sarebbe stato controllato il contenuto del cellulare. 

il curriculum Il suocero di Bonavita risulta aver prestato servizio nel nostro paese per anni, dove ha evidentemente messo radici. Costanzo infatti è socio, attraverso la Ebco di Miami (di cui Bonavita risulta «agent») della Austech Srl, attiva nel settore dei sistemi di sicurezza, con sede a Roma a pochi passi da viale Trastevere. Costanzo non ricopre più cariche societarie da circa un decennio, ma sul sito aziendale nella pagina del «management team» si descrive come un ex «agente speciale» dell'antidroga americana. 

Un ruolo che, però, secondo alcune informative del Ros depositate nell'inchiesta sulla strage di piazza Fontana sarebbe stato una mezza copertura. Nella sentenza/ordinanza del giudice istruttore Guido Salvini, una delle figure coinvolte nell'indagine «risultava in contatto, in Italia, con John Costanzo» definito «agente speciale della Dea americana», ma anche, grazie «a tale copertura», «funzionario della Cia in Italia». 

Secondo un'annotazione del Reparto eversione Ros «le attività investigative avevano effettivamente fatto notare alcune anomalie comportamentali del Costanzo suscettibili di essere sfruttate come copertura per attività di intelligence». I presunti contatti di Bonavita in Colombia sono riconducibili ai contatti del suocero con istituzioni o ex fonti del suocero? Il collega di Caruso, Francesco Amato, lo esclude totalmente: «Bonavita a Bogotá non conosceva nessuno». 

(ANSA il 6 aprile 2022) - "Ci riteniamo insoddisfatti delle risposte che Alessandro Profumo, amministratore delegato di Leonardo Spa, ha riservato alle domande, chiare e circostanziate, che gli abbiamo posto stamattina durante la sua audizione in commissione Difesa.

Se sul ruolo dello studio legale Robert Allen Law e di Aviatec, sales promoters a vario titolo dell'affare, Profumo ha risposto in maniera scolastica, è sul ruolo di Massimo D'Alema, sul suo raggio di azione e sui relativi limiti, che nessuna risposta è stata fornita ai commissari. Perché si coinvolse l'ex premier nell'affare, avendo già due realtà incaricate di seguire la vicenda?

Come fu individuato lo studio legale di Miami? Domande lecite, che la Lega non pone per una volontà persecutoria, ma perché convinta che il Parlamento sia l'unico luogo deputato a fornire risposte chiare ai cittadini. La Lega vuole la verità, continuerà a cercarla e non si fermerà davvero davanti a chi fa la figura dello smemorato, rendendo un pessimo servizio alla verità ed alla democrazia". Così i senatori della Lega in commissione Difesa a Palazzo Madama dopo l'audizione di Alessandro Profumo sul "caso Colombia" oggi in Senato.

Dal ruolo di D'Alema ai contratti miliardari: i buchi neri di Profumo. Lodovica Bulian il 7 Aprile 2022 su Il Giornale.

L'ad di Leonardo al Senato resta evasivo. "Gli affari in Colombia? Un'opportunità". 

«Sono certo che emergerà la totale correttezza dei nostri comportamenti». L'amministratore delegato di Leonardo Alessandro Profumo parla per la prima volta del caso Colombia. In commissione Difesa al Senato prova a dare conto del perché Massimo D'Alema trattasse la vendita di aerei militari M-346 della società partecipata dallo Stato. Prova, appunto. Perché l'audizione flash lascia aperti quasi tutti gli interrogativi di questa storia. A partire dal perché D'Alema, se non aveva «alcun mandato formale o informale», come ha ammesso lo stesso Profumo, si dava da fare per vendere aerei di Leonardo, oltre che le navi di Fincantieri. Due affari da 4 miliardi, 80 milioni il premio delle mediazioni.

L'ex premier, «in relazione alla sua storia istituzionale ha prospettato a Leonardo le opportunità - ha detto Profumo - ma ha fin da subito ha chiarito che sarebbe rimasto del tutto estraneo alle future eventuali attività di intermediazione nei nostri confronti. E solo sulla base di questa assunzione l'azienda ha avviato le previste attività di verifica delle fattibilità di queste opportunità». Eppure D'Alema, registrato a sua insaputa in una telefonata con un colombiano, mostrava un forte interesse rispetto al possibile premio: «Noi stiamo lavorando perché siamo stupidi? No, perché siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi 80 milioni di euro». E rivendicava di aver ottenuto «condizioni straordinarie» per l'intermediazione, «il 2% del business senza un tetto». Senza cioè una soglia massima che di solito c'è in questo tipo di contratti. Aveva anche indicato il soggetto a cui Leonardo avrebbe dovuto affidare la promozione commerciale, lo studio legale Robert Allen Law di Miami: «Tutti i compensi che Allen riceverà... saranno suddivisi al 50 per cento con la parte colombiana ... divideremo tutto». E in effetti Leonardo era arrivata a un passo da formalizzare quel contratto con Allen, proprio alle condizioni di cui parlava D'Alema, 2% senza tetto. Per Profumo quelle condizioni erano compatibili con il prestigio dell'affare: «Quel mercato per noi rappresentava un'opportunità assolutamente nuova, ha un valore oggettivo che va opportunamente valutato e remunerato».

L'ad spiega anche perché non si è passati dalla società Aviatek, che era già partner di Leonardo per la vendita degli M-346 alla Colombia a condizioni meno vantaggiose rispetto a quelle di Allen, a partire da un tetto massimo di 10 milioni: «Era un'opportunità di un livello» inferiore, dice. Cioè meno aerei da vendere. In ogni caso tutto è stato valutato »dalla direzione commerciale Leonardo senza il coinvolgimento dell'ad», dunque il suo. Profumo prende le distanze dai passaggi operativi della vicenda, ma ammette di aver partecipato alla nota video call che doveva tenersi con D'Alema e con il ministro della Difesa colombiano che poi non si è presentato: «Ero però nel mio ufficio non in quello del presidente». Quanto allo studio Allen, «abbiamo effettuato una valutazione a cui io sono estraneo. È stata avviata un'interlocuzione per verificare tutti gli elementi, ma non siamo arrivati a sottoscrizione contratto». Del resto il caso mediatico era ormai scoppiato. Non solo. Profumo precisa che non c'era un canale istituzionale per l'affare, il cosiddetto «governo-governo». Eppure Leonardo aveva coinvolto da tempo il ministero della Difesa. Per l'azzurro Maurizio Gasparri «le risposte sono state fumose ed evasive, tutte le circostanze rese note in modo incontrovertibile sulla stampa non hanno ricevuto i chiarimenti necessari. I balbettii odierni ci convincono sempre più sulla necessità di andare fino in fondo».

Chiara Rossi per startmag.it il 6 aprile 2022.

Per Leonardo la trattativa con la Colombia non rappresentava un accordo G2G. “La procedura è stata avviata nel 2019, in tempi ampiamente antecedenti queste vicende, ed eravamo ancora nella fase in cui si cerca di capire come trasformare una potenziale opportunità in una realtà”. 

Lo ha detto Alessandro Profumo, amministratore delegato di Leonardo, durante la sua audizione di questa mattina al Senato sull’export dei materiali di difesa. 

In particolare, al centro dell’audizione la posizione di Leonardo riguardo il Colombiagate. Ovvero il caso che vede protagonista l’ex premier Massimo D’Alema in qualità di mediatore nella vendita da 4 miliardi di euro di mezzi militari alla Colombia da parte di Fincantieri e Leonardo, con 80 milioni di euro di possibili provvigioni per i mediatori.

Sulla questione, si attendono i risultati degli audit interni avviati dalle due aziende partecipate dal ministero dell’Economia. Come ha annunciato il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, in Aula alla Camera rispondendo a un’interrogazione Fdi nel corso del question time il 23 marzo. “I risultati saranno oggetto di approfondimento e valutazione dagli organi societari e dalla istituzioni preposte” aveva fatto sapere il ministro.

Intanto oggi, sul caso, la Commissione Difesa del Senato ha ascoltato il numero uno di Leonardo e la prossima settimana sarà ascoltato l’ad di Fincantieri Giuseppe Bono. 

Alla fine, i senatori della Lega hanno diramato una nota in cui si dicono “insoddisfatti” dalle risposte di Profumo. 

Tutti i dettagli sull’audizione dell’ad di Leonardo, Alessandro Profumo, al Senato.

“Lo voglio sottolineare in maniera forte, D’Alema non aveva nessun mandato, formale o informale, a trattare per conto di Leonardo”. Lo ha detto l’ad di Profumo presso la Commissione Difesa del Senato rispondendo a una domanda sulla vicenda riguardante l’intermediazione per la vendita alla Colombia di armi. 

Nel caso specifico, “il presidente D’Alema, anche in relazione alla sua storia istituzionale, ha prospettato a Leonardo che queste opportunità possono essere maggiormente concreti ma fin da subito ha chiarito che sarebbe rimasto del tutto estraneo alle future attività di intermediazione. Sulla base di questa soluzione l’azienda ha avviato le attività di verifica della fattibilità di queste ulteriori opportunità” ha evidenziato l’ad di Leonardo.

“Siamo molto attenti alla compliance di quanto facciamo tant’è che siamo leader globale per trasparenza leader internazionale e globale per la sostenibilità del Dow Jones. Sono certo che anche nel caso del quale si parla in questi giorni verrà vista la totale correttezza dei nostri comportamenti”, ha sottolineato Alessandro Profumo.

Nel caso delle trattative con la Colombia che ha coinvolto l’ex premier Massimo D’Alema, “non siamo arrivati alla richiesta del contratto”, ha rimarcato Profumo. 

Inoltre, il numero uno di Leonardo ha chiarito che “sul tema delle soglie, delle percentuali”, legato alle trattative per le commesse, possono variare anche in base a elementi come le opportunità di entrare nei nuovi mercati. E sarebbe il caso dell’eventuale vendita di ‘caccia leggeri’ M346 in Colombia.

“Si tratta di ‘success fee’ – spiega Profumo – che vengono pagate esclusivamente quando il contratto si è concluso ed è stato erogato il pagamento, quando la società ha incassato”. E “nel caso specifico non è stato sottoscritto alcun contratto quindi non si è verificata la condizione necessaria”.

Infine, “ci tengo a sottolineare che laddove dovessimo riuscire, perché l’ipotesi non è tramontata, ad entrare nel mercato della Colombia, entreremmo per la prima volta nel mercato sudamericano con una versione light attack battendo il competitore coreano, che è il più grosso competitore che noi abbiamo nella versione ligh attack in particolare in America Latina”. 

“Un competitore coreano che ricordo commercializzato da Lockheed Martin, che come noto è un competitore particolarmente forte. Da qua anche l’interesse per noi del mercato colombiano”, ha evidenziato l’ad di Leonardo. 

Dunque “non è tramontata” l’ipotesi di una vendita di aerei M-346 Fighter Attack alla Colombia, versione ‘light combat’ dell’aereo addestratore avanzato M-346 di Leonardo.

“Per noi la strategicità d’ingresso in quel mercato — ha rilevato per ultimo Profumo — sarebbe estremamente rilevante. Vedremo come proseguirà questa potenziale opportunità”.

“Ci riteniamo insoddisfatti” delle risposte di Alessandro Profumo. Così i senatori della Lega in commissione Difesa a Palazzo Madama dopo l’audizione di Alessandro Profumo sul “caso Colombia” oggi in Senato.

“Se sul ruolo dello studio legale Robert Allen Law — proseguono i senatori leghisti — e di Aviatec, sales promoters a vario titolo dell’affare, Profumo ha risposto in maniera scolastica, è sul ruolo di Massimo D’Alema, sul suo raggio di azione e sui relativi limiti, che nessuna risposta è stata fornita ai commissari. Perché si coinvolse l’ex premier nell’affare, avendo già due realtà incaricate di seguire la vicenda? Come fu individuato lo studio legale di Miami? Domande lecite, che la Lega non pone per una volontà persecutoria, ma perché convinta che il Parlamento sia l’unico luogo deputato a fornire risposte chiare ai cittadini”.

Pertanto, concludono i senatori “La Lega vuole la verità, continuerà a cercarla e non si fermerà davvero davanti a chi fa la figura dello smemorato, rendendo un pessimo servizio alla verità ed alla democrazia”.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 6 aprile 2022.

Nella trattativa per la vendita delle armi in Colombia portata avanti dai D'Alema boys gli accordi con Fincantieri erano in uno stadio molto avanzato. A confermarlo non c'è solo il Memorandum of understanding mostrato in esclusiva da questo giornale e firmato il 27 gennaio a Bogotà dal direttore generale della Divisione navi militari Giuseppe Giordo. Infatti esiste un documento inedito ancora più significativo veicolato da Fincantieri tramite l'ex sindaco pugliese Giancarlo Mazzotta, uno dei soggetti vicini all'ex premier più attivo nella vicenda nonostante i tre processi in cui si trova alla sbarra.

Si tratta della road map che avrebbe dovuto portare alla firma del contratto per 1 o 2 fregate e 2 sommergibili entro il 31 marzo. Con la garanzia della copertura finanziaria da parte dello Stato italiano, attraverso la Sace (acronimo di Servizi assicurativi del commercio estero), la società controllata al cento per cento da Cassa depositi e prestiti che garantisce i rischi di insolvenza delle imprese, trasferendoli sui conti del ministero dell'Economia, dove è istituito il Fondo Sace. 

Ma come si è arrivati alla road map? Il 17 novembre il cinquantenne italo-americano Umberto Bonavita, avvocato d'affari segnalato da D'Alema come interlocutore di Fincantieri nella trattativa, invia una prima proposta di Fincantieri di collaborazione come partner strategico con il governo colombiano attraverso una brochure dei cantieri italiani con tanto di listino prezzi. «In allegato troverete una descrizione generale di Fincantieri e dei suoi prodotti, compresi sottomarini e navi» avvertiva Bonavita, il quale evidenziava anche come l'allegato contenesse «opzioni di finanziamento».

E infatti nel depliant si leggeva che Fincantieri può «contribuire a fornire finanziamenti molto competitivi al governo» proprio tramite Sace. Quindi, attraverso uno scambio di mail, viene organizzato un primo incontro con i cantieri navali colombiani Cotecmar per il 14 dicembre, a cui partecipano anche il responsabile per l'America Latina di Fincantieri Stelio Antonio Vaccarezza e il ragioniere di fiducia di D'Alema, Gherardo Gardo, presentato da Bonavita come «un rappresentante di Fincantieri».

Dopo l'incontro con l'ammiraglio Rafael Leonardo Callamand, vicepresidente operazioni e tecnologia di Cotecmar, l'avvocato di Miami scrive un'altra mail significativa: «A seguito della riunione tenutasi il 14 dicembre 2021 a Cartagena e dei successivi sviluppi emersi dopo l'incontro, confermo che un alto dirigente di Fincantieri Spa ha dato la propria disponibilità a partecipare a un incontro a Bogotá il 26 gennaio 2022 presso il Ministero della Difesa (o altra istituzione indicata)».

Quell'alto dirigente è con ogni probabilità Giordo. La mail prosegue, riportando il presunto «punto di vista di Fincantieri»: «Lo scopo dell'incontro sarebbe quello di definire meglio il perimetro del progetto» per il quale l'azienda «ha già presentato una descrizione generale» e anche quello di «fornire ulteriori dettagli e opzioni sulla possibilità di fornire finanziamenti per l'acquisto delle navi militari». E così a Bogotà, a fine gennaio, atterrano Giordo, il direttore commerciale Achille Fulfaro, Vaccarezza e Aurora Buzzo, project e negotiation manager.

I quattro soggiornano all'hotel Sofitel, così come Mazzotta, i figli Paride (consigliere regionale pugliese) ed Hermes, Gardo e Bonavita. Nelle stesse ore a Bogotà c'è anche un rappresentante di Leonardo, Carlo Bassani, il quale, sembra su espressa richiesta di D'Alema, non incrocerà mai i colleghi di Fincantieri.

I rappresentanti del colosso triestino, il 27 gennaio, vengono accompagnati dalla famiglia Mazzotta al gran completo e da Gardo (Bonavita li raggiungerà più tardi, essendo in giro con Bassani) in un circolo della Marina militare a discutere del progetto e alla fine dell'incontro viene stilato un Memorandum of understanding molto frettoloso (per esempio Cotecmar è chiamata Cotemar) firmato da due capitani di fregata, German Monroy Ramirez e Francisco Joya Prieto, incaricati di spiegare agli ospiti italiani la strada da seguire per concludere l'affare. I due ufficiali nel documento sono indicati come delegati della seconda commissione del Senato.

In realtà i due militari, a quanto risulta alla Verità, in quel momento non rappresentavano nessuna istituzione colombiana, ma erano lì come advisor indipendenti e, probabilmente, come possibili consulenti di Fincantieri. 

Ma i D'Alema boys e i manager italiani non devono aver badato a queste sottigliezze, sebbene non sia irrilevante conoscere l'esatto ruolo di chi si ha davanti quando si firma un accordo. 

La sera del Mou, a fine lavoro, Mazzotta, nel ristorante del Sofitel, si concede una foto di gruppo con i broker italiani Emanuele Caruso e Francesco Amato, i due capitani, due ex paramilitari chiacchierati, Edgar Fierro e José Ospino Pacheco, e Jaime Arturo Fonseca, candidato alla presidenza per il partito repubblicano patrioti della Colombia (conservatore, trumpiano e filo-Usa).

A tavola con loro non ci sono i manager di Fincantieri e neppure Bonavita e Gardo, che fanno da ciceroni ai dirigenti italiani. Il giorno dopo, tramite Mazzotta, sarebbe stata inviata da Fincantieri una sorta di road map per la rapida conclusione dell'accordo che in qualche modo tradisce i primi sospetti degli italiani. 

La road map Infatti viene chiesto di interloquire con soggetti con mail istituzionali e si chiede di conoscere la catena decisionale, tutte informazioni da trasmettere «direttamente a Giordo». Viene richiesta una comunicazione di «carattere ufficiale» su «carta intestata, firmata da un referente istituzionale di alto livello» e che «deve fare riferimento all'accordo siglato ieri, 27 gennaio 2022». Il tutto perché «la formalizzazione dell'accordo sarà un ulteriore punto di forza per velocizzare/comprimere i tempi delle procedure (come precisato dal dottor Giordo e dal dottor Fulfaro all'incontro di ieri)».

A questo punto vengono elencati «gli obiettivi realistici per Fincantieri» che lasciano intendere come fosse vicina la conclusione della trattativa: «Chiusura formale della convenzione entro il 31 marzo 2022» e «approvazione finanziamento (inizio maggio)». Nel documento viene specificato che la «reale possibilità di rispettare queste scadenze dipenderà dalle procedure formali e dai tempi richiesti per l'approvazione istituzionale in Colombia (procedure formali in Parlamento)». 

Per questo da Fincantieri chiedono di precisare i passi istituzionali da compiere e i tempi di approvazione, essendo questa informazione molto importante per consentire all'azienda, «che e partecipata al 70% dal governo italiano», di rispettare la «normativa anticorruzione imposta dal governo italiano». Viene anche puntualizzato che sia Fincantieri che Leonardo, per non violare la normativa sulla trasparenza, «devono fornire evidenza dei contatti instaurati» ovvero delle «persone conosciute» e dei «documenti firmati», anche perché la chiusura degli accordi andrà annunciata ai mercati.

A fronte del rispetto di queste condizioni Fincantieri promette di fornire «la lettera di preautorizzazione rilasciata da Sace a favore del governo della Colombia quale soggetto finanziabile (circa 10 giorni)» e di preparare «un'offerta più dettagliata come concordato durante la presentazione (tempo indicativo di 2/3 settimane)». In conclusione «Fincantieri e in grado di rispettare le scadenze del 31/03/2022 (firma del contratto) e l'inizio del finanziamento di maggio 2022 purché il governo colombiano riesca a seguire tutti i tempi dell'iter».

Sembra proprio che la trattativa fosse alle battute finali, almeno a volere credere a questo documento. E in effetti il 3 febbraio la Sace risponde a Fincantieri, esplicitando di «non vedere l'ora di collaborare a questa transazione». Il documento è a doppia firma: Daniela Cataudella, managing director, e Cristina Morelli, a capo della export finance. L'oggetto del documento è proprio la potenziale fornitura di fregate e sottomarini alla Marina colombiana. Le due manager nella loro comunicazione, indicata come «privata e confidenziale», confermano che l'acquirente può «finanziare parzialmente la fornitura tramite un credito all'esportazione coperto da Sace, con il ministero delle Finanze colombiano che agisce come mutuario o garante dell'operazione».

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per la Verità il 10 aprile 2022.

Uno dei broker della trattativa per la vendita di armamenti alla Colombia, avvenuta con la supervisione di Massimo D'Alema, coinvolge ora altri due ex ministri nei suoi racconti di business legati alla sicurezza. Per la precisione, Emanuele Caruso fa i nomi di Elisabetta Trenta e Vincenzo Scotti. E anche in questo caso mostra documenti interessanti. 

Questa volta, però, lo scenario non è quello sudamericano, bensì quello frantumato dell'Africa post Gheddafi. Occorre fare prima un rapido riassunto delle puntate precedenti: con noi Caruso aveva detto di aver fatto «il collaboratore Aise mediante la struttura Stam» ovvero la società di sicurezza di Gianpiero Spinelli, ex paracadutista della Folgore ed esperto di aree di crisi. 

Aveva aggiunto di aver collaborato col Criss (Consortium for research on intelligence and security un consorzio con sede alla Link university di cui facevano parte una ventina di aziende tra cui la Stam e la Sudgestaid (altra creatura della galassia Link), tutte impegnate nel settore della sicurezza e dell'informatica. All'epoca il Criss era presieduto dalla Trenta e aveva avviato un progetto in Libia, con fondi del governo, quando il presidente della Link university Vincenzo Scotti era sottosegretario agli Esteri. 

Caruso ci aveva assicurato anche di essere stato coinvolto nell'operazione libica del Criss e che Spinelli gli avrebbe fatto incontrare l'ex comandante della Folgore e dirigente dell'Aise, il generale Piero Costantino.

Spinelli e la Trenta hanno inizialmente smentito interamente questa ricostruzione. In particolare la partecipazione di Caruso alla missione libica. Allora il broker e il suo avvocato Raffaele Lorenzo ci hanno messo a disposizione delle mail che sembrano smentire, almeno in parte, le smentite e che offrono un quadro molto simile a quello colombiano. In pratica già dieci anni fa il giovane Caruso avrebbe proposto collaborazioni in ambito militare con governi stranieri e in particolare con quelli del Mali e del Senegal alla Stam di Spinelli e alla Sudgestaid di cui la Trenta è stata quadro come programme manager dal 1998 al 2019 e responsabile delle attività di sviluppo. Il progetto affidato alla Stam inizialmente riguardava la ricerca di 20.000 missili terra-aria spariti dagli arsenali di Gheddafi, ma dopo alcune polemiche l'attività di Spinelli & C. era stata circoscritta alla formazione di alcuni miliziani. 

La Trenta lo citava nel suo curriculum, facendo riferimento a un programma «per la riduzione degli armamenti illegali in un quadro di consenso, cooperazione e sviluppo» da svolgere in Libia e finanziato con 523.450 euro dal ministero degli Affari esteri. Ma nello stesso cv specificava che l'operazione era «sospesa». Nel dettaglio veniva spiegato che si trattava del «reintegro di ex combattenti come agenti di sicurezza per le aree archeologiche di Cirene, Sabratha e Lepis Magna».

Per quell'iniziativa la Trenta e Spinelli volarono in Libia con i loro più stretti collaboratori. Nel settembre del 2011 l'ex militare mette a disposizione di Caruso, che si qualifica come project manager Africa della Stam, un indirizzo di posta elettronica: «Ti ringrazio per la tua disponibilità. Ho registrato una mail aziendale su Stam per te in modo che se comunichi con noi o con un cliente puoi tranquillamente usarla». Poi gli domanda che cosa gli serva per il Marocco. Quindi elenca ciò di cui ha bisogno per lavorare in Senegal e negli altri Paesi con cui si aspettava di «chiudere progetti» grazie a Caruso: licenza di porto d'armi, riconoscimento come advisor e consigliere militare e della sicurezza da parte del governo, accompagnamento da parte di un alto ufficiale. 

Spinelli è molto fiducioso: «Inoltre sarebbe opportuno aprire una filiale di Stam in Senegal o nei Paesi che tu riterrai opportuno». Un po' come D'Alema con la Colombia, anche Spinelli, grazie a Caruso, è convinto di riuscire ad aprire canali con alcuni governi africani sul tema della sicurezza. 

spunta la trenta Nel dicembre del 2011 l'ex paracadutista riferisce al broker che il Mali temeva che Al Qaeda potesse appropriarsi dei missili spariti in Libia e far cadere il governo. Per questo gli riferisce, evidentemente contando su presunti contatti di alto livello del broker, che «l'esercito del Mali è stato messo in massima all'allerta» e offre la sua mercanzia: «Potremmo proporre loro addestramento, mentoring e soluzioni tecnologiche per il controllo dei confini. 

Dobbiamo fare una proposta al governo al più presto» ribadisce.

Il 31 marzo 2012, in una mail, viene citata direttamente la Trenta: «Ciao Emanuele» esordisce Spinelli, «riguardo all'interesse del consorzio e in particolar modo a noi e Sudgestaid, come ben sai, non ci sono problemi. 

Sviluppiamo un piano industriale chiaro con delle finalità ben definite da condividere anche con i senegalesi e i maliani, capendo chiaramente quali sono le necessità e su dove operare. [] essendo oggi il consorzio molto impegnato sarebbe importante organizzare il tutto con Elisabetta Trenta (presidente del consorzio) che ti legge in copia». L'ex ministro ha presieduto il Criss dal novembre 2011 al giugno 2013; poi è rimasta nel board fino al gennaio 2016. 

Caruso ci ha spiegato di aver interrotto lui i rapporti con Spinelli per «l'inconcludenza» dell'ex militare che, a suo dire, «non aveva i mezzi per presenziare alle riunioni che venivano fissate in territorio estero». Il broker ha anche specificato di aver incontrato personalmente la Trenta, nonostante le smentite della donna: «Spinelli mi presentò l'ex ministro con cui strutturammo, presso il Link campus di Roma, un percorso con il Criss che lei stessa presiedeva». Quindi evidenzia come, nelle mail che ci ha inviato, «si acclari il supporto tanto del Criss che di Sudgest» alla sua persona.

I missili volatilizzati Non è finita. Ribadisce di essere stato coinvolto anche nel progetto finanziato dal governo per la ricerca dei missili, di cui Spinelli fa cenno con riferimento alla situazione maliana: «In merito alla questione delle operazioni riservate della Libia riferite ai missili trasportabili trafugati, fui interessato personalmente dallo stesso Spinelli e in differenti occasioni e con svariati testimoni, fu speso il nome di uno stimatissimo generale, dirigente Aise, e mi furono date tutte le rassicurazioni che si operasse legalmente e in supporto agli apparati di intelligence. In altre occasioni, con Spinelli abbiamo incontrato personale di apparati di sicurezza provenienti dall'estero per varie collaborazioni nell'ambito della formazione e della sicurezza».

Parla il contractor Spinelli, che la settimana scorsa aveva ammesso solo di aver incontrato un paio di volte Caruso presso la Sma Spa di cui era consulente, offre le sue spiegazioni: «Ho detto il vero. Infatti Caruso non è mai stato un mio collaboratore retribuito. Lo sfido a portare ricevute di pagamenti o contratti di qualsiasi tipo. Non ho rimborsato trasferte, richiesto visti o intestato a lui assicurazioni del rischio. Mi fece delle proposte, così come fanno altre centinaia di persone in Italia e all'estero, e gli diedi un indirizzo mail perché i governi non possono rispondere a mail di piattaforme come Google e Yahoo. 

Anche io le cestino. Non è mai venuto con me da nessuna parte, in particolare in Libia, né io sono mai stato in vita mia in Mali, Senegal e Marocco. Le sue proposte non hanno portato a nulla e dopo pochi mesi ho chiuso ogni rapporto con lui». Facciamo a Spinelli le ultime domande.

Caruso incontrò la Trenta insieme con lei? «Forse a Roma, in un paio di riunioni al Criss, un consorzio che doveva servire a fare business e dove le persone si proponevano per questo, ma anche in quel caso non abbiamo realizzato insieme nulla di concreto». Presentò a Caruso agenti dei servizi segreti? «Non penso proprio. Lui agiva per i fatti suoi come broker». 

È che gli accordi non si conclusero perché lei non aveva fondi per andare in Africa? «La mia è una piccola azienda che non butta via denaro se non per qualcosa di concreto. Non spendo soldi per viaggi se non ho documenti che attestino un interesse reale della controparte. Altrimenti sono vacanze inutili. Non capisco perché Caruso abbia bisogno di menzionare esperienze passate per accreditarsi. Esperienze che non hanno portato a niente anche se io sarei stato contentissimo di chiudere affari in quei Paesi. Gli è andata male anche con la Colombia, ma non mi deve tirare in mezzo, visto che in quella vicenda non c'entro nulla. A essere sincero un po' capisco la sua frustrazione perché chiudere certi tipi di affari è difficilissimo e su 100 proposte ne può andare bene una».

(Adnkronos il 13 aprile 2022) - "Ora mi rimproverano che sto là da troppo tempo...". A dirlo è l'amministratore delegato di Fincantieri, Giuseppe Bono, nel corso di un'audizione in Senato. Una battuta a cui  si lascia andare parlando in particolare dello sviluppo registrato dalla crocieristica arrivata, nel corso degli anni, a una posizione di  leadership sui mercati internazionali: "quando sono arrivato  Fincantieri aveva un solo cliente, ora ha clienti in tutto il mondo",  sottolinea Bono arrivato al timone del gruppo nel 2002. Fincantieri è una delle aziende più importanti e strategiche interessata dalla  tornata di rinnovi dei consigli di amministrazione. 

Sulla decisione di sospendere Giuseppe Giordo, direttore generale della divisione navi militari di Fincantieri, "sono state seguite tutte le prassi aziendali" e "un  audit è ancora in corso", rispondendo a una domanda sulla vicenda delle armi alla Colombia. "Gli avevo chiesto, anche a tutela sua e  dell'azienda, una sospensione che non è avvenuta. Sono quindi state  seguite tutte le prassi aziendali informando il presidente, il comitato di controllo e rischi e lo stesso cda stesso. Qui, siamo nell'ambito dei comportamenti e noi abbiamo nella nostra azienda un  codice etico".

Lodovica Bulian per “il Giornale” il 13 aprile 2022.

In audizione in Senato sul caso D'Alema-Colombia, l'ad di Fincantieri Giuseppe Bono scarica tutti. Nega di essere stato a conoscenza di quanto facesse il direttore della divisone militare, Giuseppe Giordo - già sospeso dalle deleghe- e parla del canale aperto dall'ex premier con la Colombia come di «millanterie».Ma molte incognite restano, a partire dal perché sia davvero saltato l'affare: «Non è andato avanti perché è stato bloccato tutto e perché è esploso il caso», ha detto. 

Facciamo però un passo indietro.

Prima della fuga di notizie, Massimo D'Alema si stava dando da fare per la vendita di navi e aerei militari di Fincantieri e Leonardo alla Colombia. Un affare da 80 milioni di euro di premio per la mediazione. D'Alema però non aveva alcun mandato ufficiale, per questo nei suoi piani i contratti sarebbero dovuti passare attraverso lo studio legale Robert Allen Law di Miami, specializzato nella compravendita non di armamenti ma di yacht. 

A questo studio Fincantieri - così come Leonardo - avrebbe dovuto fare un contratto di promozione commerciale al 2% del business. E le cose stavano andando avanti tanto che Giordo il 27 gennaio era addirittura volato a Bogotà per una presentazione organizzata dal team che lavorava con D'Alema, e dove ha firmato anche un memorandum of understanding.  

«Io fino al giorno prima della partenza per la Colombia non sapevo niente - ha detto - hanno pensato che la potessero gestire da soli». Bono ammette di aver saputo in quel momento della presenza di D'Alema nell'affare: «A me è stato detto che andavano in Colombia per incontrare il ministro della Difesa, e che il contatto lo aveva procurato D'Alema attraverso i suoi precedenti contatti politici istituzionali. È stato ministro degli Esteri, è stato premier, niente di strano voglio dire, tutto aiuta». 

E aggiunge: «Se volete che esprima la mia opinione, era una cosa più millantata da parte di questi signori, e non è la prima volta che qualcuno ci casca». Questi «signori» sarebbero i consulenti di cui si avvaleva D'Alema. E il suo dirigente ci sarebbe «cascato».

Bono dunque sapeva dell'ex premier, ma fa intendere di non essere stato messo al corrente di tutto, altrimenti, «se me l'avessero detto, per l'esperienza delle persone che a volte si propongono di fare cose che sono più millantate che altro...». 

Quanto allo studio Allen l'ad spiega che è stata la compliance (la struttura che verifica la conformità dei contratti alle regole) di Fincantieri a fermare il contratto: «Dalla divisione militare (Giordo ndr) volevano far dare un mandato a questo studio Allen, ma la piattaforma dove vengono indicate le aziende e le società che hanno reputazione e credibilità sul mercato per lo studio Allen non ha dato informazioni. Si sono fermati senza che io intervenissi perché questa era la procedura». 

Insomma lo studio di Miami segnalato da D'Alema non aveva le referenze adeguate. Una consapevolezza che però, da quanto risulta al Giornale, sarebbe emersa già prima della partenza di Giordo per la Colombia. 

Eppure le cose sono andate avanti fino a quando non è scoppiato il caso sui giornali.

Quanto al memorandum firmato da Giordo a Bogotà, Bono spiega: «Quando ho saputo dai giornali che era stato firmato e ho visto che per i colombiani c'erano le firme di due capitani di fregata ho detto vabbè che siamo... ma almeno, dico, il capo della Marina. 

Insomma e che ca***. Allora ho bloccato subito tutto: basta non si va più avanti». Affermazioni che lasciano aperti interrogativi.

Qual è il vero motivo per cui è saltato l'affare? La presenza di D'Alema, - di cui Bono ha ammesso di esserne stato al corrente -, le presunte millanterie, o il caso mediatico?

Giacomo Amadori per “La Verità” il 13 aprile 2022.

Nella vicenda degli armamenti da vendere alla Colombia, Leonardo, che stava provando a piazzare più di 20 caccia M-346 all'aeronautica militare di Bogotà, avrebbe provato a tirare per la divisa anche il generale Luciano Portolano, segretario generale della Difesa e direttore nazionale degli armamenti, cioè il responsabile della politiche per la commercializzazione di materiali militari. 

Lo ha riferito lo stesso alto ufficiale durante l'audizione di ieri di fronte alla commissione Difesa del Senato: «Leonardo ha appreso dell'interesse della autorità colombiane per una piattaforma in grado di sostituire vecchi velivoli A37 in dotazione all'aeronautica colombiana e ha chiesto il supporto istituzionale del Segretariato in due occasioni».

Quindi, l'azienda, da una parte riforniva di brochure Massimo D'Alema e il suo «gruppo di lavoro», fatto di soggetti senza incarichi ufficiali e di ex paramilitari colombiani, dall'altra cercava una sponda ufficiale al ministero. Ma i due canali, scopriamo ora, procedevano parallelamente.

Portolano ha svelato: «In un primo momento, a seguito di una specifica richiesta da parte di Leonardo, e mi riferisco al periodo 22-26 novembre del 2021, una delegazione colombiana guidata dal generale Sanchez, capo della commissione selezionatrice per il Light combat aircraft, ha visitato il 61° stormo dell'aeronautica militare e le strutture della scuola di volo International flight training school di Galatina conducendo attività dimostrative con simulatori di volo e volo reale su velivolo m346 di Leonardo».

Insomma l'Aeronautica sarebbe stata utilizzata per mettere in vetrina i caccia sulla cui vendita D'Alema contava di portare a casa decine di milioni di provvigioni. Ma le nostre fonti aggiungono particolari molto interessanti su quella trasferta: a Galatina il generale colombiano sarebbe stato accompagnato da Giovanni Basile, direttore della joint-venture Leonardo-Cae (Canadian aviation electronics) che si occupa della formazione dei piloti di jet. 

Ma insieme con Basile, dentro all'aeroporto militare, ci rivelano le nostre fonti, sarebbero entrati anche il plurimputato Giancarlo Mazzotta e il discusso broker Emanuele Caruso, i collaboratori pugliesi di D'Alema in questo affare. A che titolo, se la notizia sarà confermata, abbiano potuto prendere parte a una visita ufficiale di una delegazione militare straniera non è chiaro, anche perché nell'area l'ingresso dei civili è severamente controllato.

Comunque è la seconda richiesta di aiuto che Portolano ha giudicato irricevibile: «Successivamente, e siamo al 20 dicembre 2021, Leonardo ha chiesto al Segretariato di valutare l'opportunità di organizzare una visita urgente in Colombia ad alto livello in considerazione che la decisione finale da parte dell'autorità colombiana per la scelta della piattaforma del programma Light combat aircraft sarebbe avvenuta entro la fine di febbraio 2022». 

Anche se Leonardo sperava di concludere l'accordo con le forze armate colombiane in tempi molto rapidi, addirittura entro due mesi, Portolano scelse di non intromettersi, forse sentendo puzza di bruciato: «Al riguardo, il Segretariato ha ritenuto opportuno di non dare seguito a tale richiesta nella consapevolezza che ogni azione intrapresa nell'imminenza della scelta da parte delle autorità colombiane avrebbe potuto interferire con il delicato processo di selezione in corso». Una valutazione che sarebbe stata presa dopo alcune interlocuzioni con l'addetto militare italiano in Colombia.

Quindi Leonardo, oltre ad aver ingaggiato in modo non ufficiale l'ex ministro degli Esteri, contemporaneamente ha prima cercato di coinvolgere Portolano e successivamente il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè. Canali attivati separatamente e senza informare il governo del ruolo di D'Alema, di cui Mulè è venuto solo casualmente a conoscenza.

Situazione altrettanto pasticciata quella descritta dall'amministratore delegato di Fincantieri Giuseppe Bono, il quale ha dovuto rispondere a domande riguardanti la Colombia e la trattativa, sponsorizzata dallo stesso D'Alema, per la vendita di due fregate e due sommergibili.

L'ad ha sostenuto di essere stato informato del ruolo dell'ex premier poco prima della partenza per Bogotà dei suoi manager, i quali sono andati a fine gennaio a firmare un memorandum of understanding a sua insaputa («L'ho appreso dalla Verità» ha detto), documento che, tra l'altro, non erano autorizzati a siglare: «Mi è stato detto che andavano in Colombia per incontrare il ministro della Difesa e mi hanno riferito che il contatto lo aveva procurato D'Alema attraverso i suoi precedenti contatti politici istituzionali è stato ministro degli Esteri è stato presidente del Consiglio, voglio dire niente di strano tutto aiuta nel Paese». 

Quindi una spintarella dell'ex leader del Pds non era sgradita. Anche se il giudizio sulla sua squadretta non è dei più lusinghieri: «Se volete che esprima una mia opinione era più un millantare da parte di questi signori». In realtà nessun ministro dello Stato sudamericano ha firmato il Mou e questo Bono l'ha considerato anomalo: «Ho visto le firme e per i colombiani ho visto due capitani di fregata. Vabbe' che siamo un Paese però almeno il Capo della Marina, allora ho bloccato subito tutto. Basta, non si va più avanti».

Nella sua audizione Bono ha fatto riferimento solo al viaggio a Bogotà e non a quello del mese precedente dei suoi uomini a Cartagena, di cui il direttore generale della divisione Navi militari Giuseppe Giordo sostiene di averlo informato, facendo anche il nome di D'Alema. 

Bono non ha fatto cenno nemmeno al pranzo del 21 dicembre con l'ex primo ministro e con il lobbista Luigi Bisignani, occasione in cui il politico lo avrebbe informato personalmente di «attività in Sud America». 

Ma a far insospettire Fincantieri sarebbe stato anche il mancato completamento della due diligence sullo studio «segnalato» da D'Alema per l'attività di promozione, il Robert Allen law. Infatti gli addetti ai controlli avrebbero consultato «una piattaforma dove in campo internazionale vengono indicate le aziende, le società che hanno una reputazione che hanno una capacità di essere credibili sul mercato». Ma lo studio non avrebbe dato notizie di sé: «Non abbiamo avuto da parte dello studio Robert Allen nessuna informazione. Quindi da quel momento lì abbiamo detto "niente"».

Quanto ai pregressi rapporti di Fincantieri con D'Alema in Libano, Bono ha scaricato la colpa sul governo giallo-verde, che nel 2019, attraverso l'ambasciata e l'allora sottosegretario leghista Raffaele Volpi, avrebbe «sollecitato» l'azienda a cogliere un'occasione commerciale nel Paese dei cedri. Ha spiegato l'ad: «Allora per tutelarci, non sapevamo nemmeno la legislazione del Paese, le bande, le cose, abbiamo fatto questo contratto con una delle principali aziende del mondo, non con pizza e fichi». Ovvero con Ernst&Young, società che gli avrebbe fatto trovare a Beirut D'Alema. Con noi da Fincantieri confermano: «Noi siamo andati in Libano su sollecitazione del governo in modo ufficiale e il nostro rappresentante incontrò l'ambasciatore e altre istituzioni locali. Ci siamo resi conto che seguire un programma in Libano da soli era di fatto impossibile.

Per questo ci siamo affidati a una primaria società di consulenza che ha una sede lì come E&Y. Che D'Alema conoscesse bene il Libano e fosse consulente di E&Y non è un mistero, né c'è nulla di male. Bono è stato sollecitato a esplorare opportunità in Libano dal governo e non da D'Alema».

Lodovica Bulian per “il Giornale” il 14 aprile 2022.

«Come Parlamento abbiamo svolto un'azione di supplenza, visto che finora non c'è stata alcuna volontà rispondere alle richieste di chiarimenti da parte della stampa. Abbiamo rotto un muro di silenzio. 

Eventuali iniziative giudiziarie le valuterà la magistratura, non è compito nostro, ma volevamo capire come questa vicenda "colombiana-dalemiana" si sia insinuata nelle pieghe di due aziende partecipate dallo Stato che trattano questioni delicatissime come navi e aerei militari», spiega Maurizio Gasparri, l'azzurro che ha chiesto e ottenuto che la commissione Difesa del Senato accendesse un faro sulle procedure di import-export di armi e anche sul coinvolgimento di Massimo D'Alema in una potenziale vendita di navi e aerei militari di Fincantieri e Leonardo in Colombia.

Cosa è emerso dalle audizioni sul ruolo avuto dall'ex premier nel caso della Colombia?

«Si sono rafforzati i nostri dubbi sulla trasparenza e sulla qualità di questo ruolo, si è avuta la certezza della capacità di D'Alema di insinuarsi nelle aziende pubbliche, forte della sua storia, del suo percorso, dei suoi rapporti di consuetudine che evidentemente aveva». 

D'Alema si è difeso rivendicando di non essere più un politico ma un privato cittadino, ha solo ammesso di aver forse peccato di leggerezza.

«Dalle audizioni è emerso che D'Alema, come altri, utilizza i ruoli che ha avuto per questa sua attività. Nulla di illegale. Si avvaleva però anche di personaggi inadeguati. E che ci sia stata una consuetudine di D'Alema con queste società è un dato di fatto. 

È vietato? No, ma proprio per i suoi trascorsi quando in questa storia in ambiti internazionali qualcuno lo sentiva parlare di Fincantieri e di Leonardo, può essere stato indotto a pensare che per i ruoli politici e istituzionali che ha avuto avesse anche un mandato ufficiale che in realtà non ha mai avuto».

Le partecipate però hanno interloquito direttamente con D'Alema nella vicenda, come confermato in audizione dagli ad di Leonardo e Fincantieri.

«Sì, e per quanto riguarda l'ad di Leonardo, Profumo, le sue risposte sono state insoddisfacenti. Ha ammesso di aver avuto a che fare con questa improvvida iniziativa facente capo a D'Alema, ed è emerso che in Leonardo ha prevalso il rapporto consuetudinario di conoscenza con D'Alema su un'attenta verifica di cosa stesse succedendo.

Evidentemente Profumo riteneva l'ex premier autorevole e affidabile. Del resto può darsi che lo stesso D'Alema a sua volta si sia affidato a personaggi che si sono rivelati improvvisati. Comunque è chiara un'inadeguatezza di Profumo a svolgere il ruolo che continua a ricoprire, credo che dovrebbe trarne le conseguenze».

Anche Fincantieri era andata molto avanti nell'interlocuzione con l'ex premier.

«Sì, ma l'ad di Fincantieri, Giuseppe Bono, è stato molto più cauto, ha avviato delle verifiche interne e ha preso provvedimenti per la condotta dei suoi dirigenti.

In ogni caso c'è materia per riflettere e andremo avanti, come parlamentari vigileremo affinché vi sia trasparenza.

Chiederò che si prosegua con i lavori della commissione sentendo le autorità di governo, anche il ministro della Difesa, visto che il sottosegretario Giorgio Mulé che per primo aveva rilevato anomalie nelle procedure, e che ne aveva chiesto conto a Leonardo, non ha ancora ottenuto spiegazioni dall'azienda partecipata dallo Stato. E questo mi sembra molto grave». 

"Troppi dubbi sul ruolo di D'Alema. Si è insinuato in aziende statali". Lodovica Bulian il 14 Aprile 2022 su Il Giornale.

Il senatore di Fi ha ottenuto che il "caso Colombia" arrivasse in Aula.

«Come Parlamento abbiamo svolto un'azione di supplenza, visto che finora non c'è stata alcuna volontà rispondere alle richieste di chiarimenti da parte della stampa. Abbiamo rotto un muro di silenzio. Eventuali iniziative giudiziarie le valuterà la magistratura, non è compito nostro, ma volevamo capire come questa vicenda colombiana-dalemiana si sia insinuata nelle pieghe di due aziende partecipate dallo Stato che trattano questioni delicatissime come navi e aerei militari», spiega Maurizio Gasparri, l'azzurro che ha chiesto e ottenuto che la commissione Difesa del Senato accendesse un faro sulle procedure di import-export di armi e anche sul coinvolgimento di Massimo D'Alema in una potenziale vendita di navi e aerei militari di Fincantieri e Leonardo in Colombia.

Cosa è emerso dalle audizioni sul ruolo avuto dall'ex premier nel caso della Colombia?

«Si sono rafforzati i nostri dubbi sulla trasparenza e sulla qualità di questo ruolo, si è avuta la certezza della capacità di D'Alema di insinuarsi nelle aziende pubbliche, forte della sua storia, del suo percorso, dei suoi rapporti di consuetudine che evidentemente aveva».

D'Alema si è difeso rivendicando di non essere più un politico ma un privato cittadino, ha solo ammesso di aver forse peccato di leggerezza.

«Dalle audizioni è emerso che D'Alema, come altri, utilizza i ruoli che ha avuto per questa sua attività. Nulla di illegale. Si avvaleva però anche di personaggi inadeguati. E che ci sia stata una consuetudine di D'Alema con queste società è un dato di fatto. È vietato? No, ma proprio per i suoi trascorsi quando in questa storia in ambiti internazionali qualcuno lo sentiva parlare di Fincantieri e di Leonardo, può essere stato indotto a pensare che per i ruoli politici e istituzionali che ha avuto avesse anche un mandato ufficiale che in realtà non ha mai avuto».

Le partecipate però hanno interloquito direttamente con D'Alema nella vicenda, come confermato in audizione dagli ad di Leonardo e Fincantieri.

«Sì, e per quanto riguarda l'ad di Leonardo, Profumo, le sue risposte sono state insoddisfacenti. Ha ammesso di aver avuto a che fare con questa improvvida iniziativa facente capo a D'Alema, ed è emerso che in Leonardo ha prevalso il rapporto consuetudinario di conoscenza con D'Alema su un'attenta verifica di cosa stesse succedendo. Evidentemente Profumo riteneva l'ex premier autorevole e affidabile. Del resto può darsi che lo stesso D'Alema a sua volta si sia affidato a personaggi che si sono rivelati improvvisati. Comunque è chiara un'inadeguatezza di Profumo a svolgere il ruolo che continua a ricoprire, credo che dovrebbe trarne le conseguenze».

Anche Fincantieri era andata molto avanti nell'interlocuzione con l'ex premier.

«Sì, ma l'ad di Fincantieri, Giuseppe Bono, è stato molto più cauto, ha avviato delle verifiche interne e ha preso provvedimenti per la condotta dei suoi dirigenti. In ogni caso c'è materia per riflettere e andremo avanti, come parlamentari vigileremo affinché vi sia trasparenza. Chiederò che si prosegua con i lavori della commissione sentendo le autorità di governo, anche il ministro della Difesa, visto che il sottosegretario Giorgio Mulé che per primo aveva rilevato anomalie nelle procedure, e che ne aveva chiesto conto a Leonardo, non ha ancora ottenuto spiegazioni dall'azienda partecipata dallo Stato. E questo mi sembra molto grave».

Da D'Alema a Minniti, quanto è bello per il Pd fare la guerra: il mix tra ideologia e denaro. Gianluca Mazzini su Libero Quotidiano il 19 aprile 2022.

Se si dovesse pensare a un remake del celebre film del 1974 Finché c'è guerra c'è speranza, il casting per gli attori potrebbe essere tenuto all'interno del Pd. Il ruolo dell'attore protagonista, al posto di Alberto Sordi (nelle vesti di un mercante d'armi senza scrupoli per soddisfare le pressanti richieste di denaro di una famiglia ipocrita) potrebbe essere affidato a un dirigente del Pd. La vocazione guerresca del partito erede del Pci è un dato di fatto ma le guerre sostenute non sono per la liberazione del proletariato ma per la Nato. Un'evoluzione iniziata fin dai tempi "miglioristi" di Napolitano e che ha avuto uno dei suoi più noti esponenti in Massimo D'Alema. Tralasciamo l'ultima vicenda che lo vede nelle vesti di "lobbista" per piazzare sottomarini e navi (prodotti da Leonardo) alla Colombia. L'attrazione fatale per le armi della nostra sinistra americanizzata scatta con la guerra alla Serbia del 1999.

L'allora governo D'Alema partecipa all'Operazione chiamata "Allied Force". Per 74 giorni Belgrado è martellata dall'aeronautica Nato che sul nostro territorio disloca un migliaio di velivoli. In azione anche un centinaio di aerei italiani. La guerra si conclude con l'indipendenza del Kosovo e almeno 3000 morti.

Da allora la passione degli esponenti del Pd per guerra e armi non è mai venuta meno. Oggi il Partito di Letta esprime il Ministro della Difesa (Lorenzo Guerini) e nella maggioranza è il più determinato nel sostenere l'opzione militare per l'Ucraina, con il conseguente aumento delle spese militari. Ma qui non sono in gioco solo principi morali, c'è anche un aspetto più pratico. Basta guardare gli attuali assetti dirigenziali della nostra industria bellica. Un comparto strategico con il quale l'Italia ha guadagnato 100 miliardi negli ultimi 30 anni. Qualche esempio. Leader del settore è la Leonardo Finmeccanica: l'amministratore delegato è l'ex banchiere (Unicredit e Paschi di Siena) Alessandro Profumo, area Pd. La collegata Fondazione Leonardo (nata per «rafforzare i legami tra azienda e Paese») ha come presidente l'ex magistrato Luciano Violante, già Pci.

Sempre Leonardo ha creato la Fondazione Med-Or (per sviluppare «il trasferimento di tecnologie nei paesi del Mediterraneo e in Oriente»). Alla guida l'ex ministro degli Interni Marco Minniti, già dalemiano. Il Gruppo Difesa Servizi ha «l'obiettivo di reperire fondi per finanziare attività del ministero della Difesa». Amministratore delegato è Fausto Recchia, ex parlamentare del Pd. Direttore dell'Agenzia Industrie Difesa («ente di diritto pubblico») è Nicola Latorre, ex senatore vicino a D'Alema. Dati alla mano, oggi in Italia è il Pd ad aver abbracciato l'ideologia dei neo-con americani, che al tempo della presidenza George W. Bush teorizzarono le guerre per «esportare la democrazia». Una perfetta miscela di ideologia e business che ha affascinato i dirigenti di via del Nazareno passati in pochi anni da pacifismo e neutralismo al bellicismo più convinto. 

Colombia-gate, sostituito l'ad di Fincantieri Giuseppe Bono: il ruolo di Cassa depositi e prestiti nell'affare. Striscia La Notizia il 21 aprile 2022. 

Prosegue l’inchiesta di Striscia la notizia, che da oltre un mese si occupa  del caso della vendita di armi alla Colombia con presunto intermediario Massimo D’Alema: un affare da 4 miliardi per Leonardo e Fincantieri, con 80 milioni di euro di possibili provvigioni per i mediatori. 

Ieri, a pochi giorni dall’audizione in Commissione Difesa del Senato, è stato sostituito l’amministratore delegato di Fincantieri Giuseppe Bono, dopo 20 anni alla guida dell’azienda a partecipazione statale. Al suo posto, Cassa Depositi e Prestiti - la società, controllata dal Ministero dell'economia e delle finanze, che detiene circa il 70% di Fincantieri - ha indicato come nuovo ad Pierroberto Folgiero. «Vuoi vedere che Cdp si è arrabbiata con Bono e l’hanno sostituito?», si chiede Pinuccio, ricordando che però anche Cdp è coinvolta nell’affare italo-colombiano. Lo stesso D’Alema al telefono aveva garantito agli interlocutori colombiani di aver ottenuto la copertura assicurativa per il piano finanziario, «che prevede il pagamento del 15% da parte della Colombia e il resto viene pagato da un consorzio di banche con la garanzia dello Stato italiano». E sempre Cdp, attraverso la Sace, aveva dato disponibilità a una copertura finanziaria nel caso in cui fosse andato in porto l'affare italo-colombiano. 

All’inviato del Tg satirico non resta che domandarsi: «E Alessandro Profumo, ad di Leonardo, quando lo sostituiscono?».

La resa dell'ultimo boiardo, Bono senza poltrona dopo 59 anni. Massimo Minella per repubblica.it il 21 aprile 2022.  

L’anno prossimo sarebbero stati 60. E invece Giuseppe Bono si dovrà fermare a 59. 59 anni nelle aziende pubbliche, da operaio diciottenne alla Omeca (joint venture fra Finmeccanica e Fiat) alla ventennale guida di Fincantieri. Il suo ultimo tentativo di restare in sella, chiedendo alla politica di difenderlo e di mantenergli il posto di amministratore delegato, è naufragato contro la scelta di discontinuità del governo Draghi.

Esce così di scena un manager settantottenne che da parecchi anni si era conquistato l’appellativo di “ultimo boiardo di Stato”, termine che Bono ha sempre accolto quasi con soddisfazione, condividendone lo spirito. Se infatti i boiardi erano i servitori dello zar, lui è stato tutta la vita un servitore dello Stato.

Lo ha ripetuto anche ieri a Roma ai suoi collaboratori, quando la notizia dei nuovi vertici di Fincantieri è diventata pubblica. «Sono sereno — ha spiegato — per me parlano i risultati». La politica ieri lo ha ringraziato in maniera trasversale, dalla Serracchiani (Pd) a Leu (Fassina), fino alla Lega (Salvini). D’altra parte, per uno che è passato indenne dalla Prima alla Seconda Repubblica, dialogare con i partiti è stata un’esigenza. Dal Psi di Craxi alla Lega di Bossi, a quella di Salvini, dal Pd ai 5 Stelle, non c’è stata forza politica con cui non si sia confrontato. 

Questa volta però non è servito a restare in pista per un altro giro di valzer e ottenere il settimo rinnovo da amministratore delegato. Con l’assemblea di maggio si chiuderà così un lungo capitolo iniziato addirittura nel 1963 quando Giuseppe Bono, “Peppino”, lascia la Calabria e si trasferisce al Nord, a Torino.

È un emigrante che, tentato dalla strada del seminario, con una fede profonda che gli è compagna da tutta la vita, lascia invece gli studi e si mette a lavorare come operaio. Un appartamento diviso con altri, la fabbrica, ma presto anche la ripresa degli studi. Dopo il diploma alle serali, Bono si iscrive a Economia, laureandosi nel 1970. Fino al ’71 resta in Omeca, poi passa in Efim, impiegato, dirigente, direttore. Le offerte dei privati non gli interessano. È il pubblico il suo mondo. L’apice della sua carriera sembra arrivare nel 2000, quando gli affidano Finmeccanica. Ma l’incarico dura due anni e Bono viene sostituito. 

Per lui si apre la porta di Fincantieri, gemella povera di Finmeccanica, che nelle crociere sta dietro al colosso coreano Stx e ai cantieri finlandesi di Turku. Succede però che Finmeccanica restringe il suo perimetro (via l’energia, i trasporti, i sistemi industriali), mentre Fincantieri allarga i mercati, rileva aziende e diversifica le attività. 

Arrivano così l’acquisto di tre cantieri negli Usa, che aprono le porte del mercato della difesa navale americana, la quotazione in Borsa e gli accordi con i francesi, per creare il colosso europeo della difesa. Il manager punta ai cantieri di Saint Nazaire, che Stx aveva rilevato, ma si trova l’ostruzione dello Stato francese e viene stoppato. 

Con la Francia però Bono firma la nascita di Naviris, cantieristica militare, e inizia il dialogo con i tedeschi di ThyssenKrupp. Vita pubblica frenetica, ma nessuna mondanità. Bono non frequenta i salotti, trascorre qualche giorno di vacanza a Tropea e ama soprattutto la sua villetta a schiera di Tagliacozzo, in Abruzzo, dove si ritira con la famiglia e si dedica alle sue passioni, la lettura di libri e giornali e la Juventus, che segue fin da ragazzo.

Sul tavolo di Fincantieri, Bono lascia una strategia di alleanze internazionali e una crescita nei settori diversificati, a cominciare dalle Infrastrutture che hanno portato il gruppo a costruire ponti (come il viadotto nato dopo il crollo del Morandi a Genova), ma anche ospedali e stadi.

Il D'Alema che vende armi imbarazza i pacifisti di Leu. Paolo Bracalini il 23 Aprile 2022 su Il Giornale.

I malumori per la presenza del "mediatore colombiano" al congresso del partito di Speranza.

Congresso in stile Pcus di Articolo Uno, il partitino del ministro lucano Roberto Speranza. In sostanza Speranza sfiderà se stesso, nelle vesti di candidato unico, forte come minimo del 91% dei voti all'interno del partito, la percentuale registrata dalla sua mozione, l'unica al congresso (nei sondaggi invece Art. 1 fatica a superare il 2%). Quindi la domanda su chi sarà il successore dell'attuale leader ha già una risposta.

Il fatto invece politicamente più interessante è che domani alla kermesse degli ex piddini ci sarà anche Massimo D'Alema, che formalmente non ha più alcun ruolo in Articolo Uno (presente in Parlamento sotto la sigla Leu), avendo ormai altre e più prestigiose occupazioni nella vita, dalla produzione di vini di classe in Umbria alle consulenze in affari milionari. Con la sua proverbiale modestia l'ex premier ha fatto però sapere che ci sarà, perché «caldamente invitato» a parlare dai suoi ex compagni di partito. La presenza di D'Alema, dopo la vicenda della maxi-commessa di armi al governo della Colombia in cui si è presentato come mediatore (provocando un terremoto ai vertici di Leonardo e di Fincantieri, dove ha già fatto saltare la testa del direttore generale Giuseppe Giordo) crea però imbarazzi nel partitino di Speranza. Un sentimento che finora è sempre rimasto occultato dietro frasi di circostanza («D'Alema ha chiarito sui giornali questa vicenda. Mi fido della sua versione» si è limitato a dire Arturo Scotto, coordinatore nazionale di Articolo Uno e tesserato Anpi «da quando avevo i calzoni corti»), ma che traspare qui e là, come nelle parole di Pierluigi Bersani in una recente intervista («D'Alema? Ha ripetuto mille volte che ha smesso di fare politica, ora fa un altro mestiere. Io ho interessi diversi...»).

In Articolo 1 vige l'omertà su D'Alema, figura che ha ancora il suo pubblico a quelle latitudini politiche. Però, racconta Il Domani, sotto giuramento di anonimato qualche dirigente tira fuori il malessere per la storia delle armi in Colombia. Sia perché di mezzo c'è appunto la Colombia, un paese retto da un governo considerato reazionario (diverse le interrogazioni parlamentari, proprio da sinistra, sulla morte del cooperante Mario Paciolla in Colombia). Sia perché di mezzo ci sono le armi, mentre il partito di Speranza, Bersani (e D'Alema) è pacifista e contro «il riarmo internazionale», l'invio delle armi all'Ucraina è stato approvato controvoglia giusto per non fare uno sgarbo alla maggioranza di governo di cui Articolo Uno fa parte, il tesoriere-deputato Nico Stumpo ha votato contro l'aumento delle spese militari, e Speranza nella sua mozione unica scrive che la soluzione per uscire dal conflitto non è aiutare la resistenza ucraina ma la diplomazia. Non a caso il coordinatore Scotto ha partecipato alla manifestazione pacifista a Roma (contro Putin ma anche contro le armi agli ucraini), e a Pasqua sui social ha postato questa frase: «Disarmare la mano che uccide il fratello». Scatenando subito i commenti di chi gli ha rinfacciato di aver votato per l'aiuto militare a Kiev insieme al Pd, a differenza di Sinistra Italiana. Per questo l'arrivo di D'Alema, fresco di polemica sulle armi in Colombia, provoca sussulti nel partito di Speranza, ma tutti rigorosamente a bocce cucite. Per l'ex segretario Ds, comunque, è tutta una manipolazione a suoi danni, «non vedo il nesso con il congresso di Art.1: interverrò, come ho sempre fatto. Ho ricevuto un caldo invito a parlare» dice. Nessun imbarazzo, diciamo.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 26 aprile 2022.  

Altro che affare sfumato. Con una clamorosa lettera, di cui La Verità è venuta a conoscenza, i vertici delle forze armate colombiane hanno informato l'azienda aerospaziale Leonardo di essere pronti ad acquistare almeno otto M-346, i caccia che Massimo D'Alema e i suoi broker di fiducia avevano provato a vendere a Bogotà nei mesi scorsi, sino all'interruzione della trattativa avvenuta dopo i nostri scoop.

L'aviazione militare nella missiva esclude la presenza di intermediari e fa sapere che intende percorrere affidabili canali ufficiali, da governo a governo. La partita si deciderà in questi giorni, ma, come vedremo, è in una fase molto avanzata. Dunque le bugie dell'ex premier Massimo D'Alema mostrano di avere lo stacco di coscia di un lillipuziano. L'ex primo ministro ci aveva accusato di aver fatto perdere al sistema Paese miliardi di euro svelando la trattativa.

Come se fossimo le quinte colonne di qualche potenza straniera. E come argomento aveva usato l'audio diffuso dal sito della Verità in cui conversava amabilmente con un ex sanguinario paramilitare colombiano. Tema: la vendita di aerei, corvette e sommergibili da parte di Leonardo e Fincantieri alla Colombia. 

Immediatamente l'ex premier aveva denunciato su un quotidiano a lui allineato: «Qualcuno ha reso pubblica la telefonata che aveva registrato in maniera illegittima per danneggiare le società italiane. Non a caso in questi giorni in Colombia sono usciti articoli sulla possibilità di acquistare le navi e gli aerei dalle imprese di altri Paesi, in particolare statunitensi».

Il Nostro, a suo dire, stava lavorando gratis per amor di Patria: «In questa vicenda, ripeto, non ho contratti con nessuno» aveva spiegato. «Per me era già importante far conseguire un risultato a Leonardo e Fincantieri, che hanno un rilevante peso nel sistema economico italiano []. Temo che tutto questo clamore avrà l'unico effetto di far perdere alle imprese italiane una commessa da 5 miliardi». Insomma non era lui che aveva tentato di portare a casa una montagna di soldi vendendo armi («Alla fine tutti noi riceveremo 80 milioni di euro», assicurava nella telefonata), ma eravamo noi che avevamo privato l'Italia di qualche decimo di percentuale di Pil.

Con l'aggravante di aver sporcato il buon nome di chi agiva per il bene del Paese da privato cittadino, non essendo più parlamentare dal 2013. «Questo tipo di attività viene svolta nel mondo da numerosi ex esponenti politici che di solito vengono ringraziati, non fucilati alle spalle», aveva rimarcato.

E noi, ingrati, invece di fargli avere una medaglia, lo avevamo criticato. Solo perché, chiacchierando con un ex militare condannato a 40 anni per diversi crimini di guerra, aveva cercato di scavalcare il «dialogo tra i due governi», avviato ufficialmente da una telefonata tra il sottosegretario alla Difesa, Giorgio Mulé, e l'omologo colombiano.

Nell'audio D'Alema dice: «Dobbiamo evitare che ci siano due canali paralleli», cioè il suo e quello del governo. Per poi aggiungere: «Anche perché l'ambasciatrice di Colombia in Italia, pure lei si sta occupando di questo problema. E sostiene che ci vuole un accordo tra i due governi, senza altri mediatori. Io le ho spiegato che da una parte è lo Stato colombiano, è il governo, che compra, ma in Italia non è il governo che vende. Sono due società quotate, non è il governo, quindi non ci può essere un contratto tra due governi».

In queste ore tale assioma è smentito totalmente dal contenuto della lettera inviata a Leonardo dal maggiore generale Carlos Fernando Silva Rueda, comandante delle operazioni aeree e spaziali dell'esercito colombiano, promosso a dicembre al prestigioso ruolo dal presidente della Repubblica, Iván Duque Márquez.

Quindi, questa volta, a presentarsi come interlocutore delle nostre aziende è uno dei militari più alti in grado delle forze armate di Bogotà e non, come era successo a gennaio con Fincantieri, due oscuri capitani di fregata. Rueda non ha nulla a che spartire neppure con i paramilitari messi in campo dai D'Alema boys. 

Nel documento l'alto ufficiale fa sapere che l'aviazione colombiana (Colaf) prevede di sostituire la sua flotta di jet da attacco leggero e per questo sta valutando «un contratto da governo a governo», proprio quello che D'Alema con i suoi interlocutori escludeva che si potesse fare. Ora, invece, le trattative, seguite direttamente da Mulé, sarebbero a buon punto per la vendita di 8 velivoli, dopo che l'anno scorso Leonardo aveva iniziato a sondare la possibilità di entrare in quel mercato con 5 caccia.

Nella sua lettera Rueda invita Leonardo a presentare la migliore e ultima offerta, in gergo Bafo, per gli M-346. Una proposta che verrà confrontata con quella dei competitor coreani di cui abbiamo parlato nelle scorse settimane. Per il maggiore generale è molto importante che la «final offer proposal» arrivi quanto prima per poter procedere con la fase successiva del programma di acquisti. E anche se la missiva non è da considerarsi vincolante, la Colaf sottolinea di voler discutere tutti gli aspetti del progetto con un team di Leonardo entro fine aprile per ricevere un P&A (prezzo e disponibilità) degli 8 aerei il prima possibile.

A ottobre, attraverso D'Alema, Leonardo aveva già inviato una «main proposal» non ufficiale per 24 aerei. Nel menù i caccia venivano offerti a 32 milioni l'uno, ma il prezzo saliva a quasi 90 considerando costi per equipaggiamento, simulatori, corsi di formazione, manutenzione, opere civili e ammodernamento delle basi aeree. 

Nel documento spedito in Italia, Rueda chiede che il capo delegazione di Leonardo abbia il potere necessario per prendere decisioni che portino alla firma di un eventuale contratto. In sostanza non vuole avere a che fare con alcun mediatore.

La lettera è scritta su carta intestata, con numero di protocollo e i loghi del ministero della Difesa, del Comando generale delle forze militari e della Forza aerea colombiana. Sono indicati anche tre indirizzi mail ufficiali. 

Dunque l'affare questa volta potrebbe andare davvero in porto. E senza D'Alema come facilitatore. Domenica l'ex ministro degli Esteri, durante il congresso romano di Articolo 1, si è ben guardato dal citare la scivolosa trattativa di cui era stato protagonista. E nessuno nell'auditorium sembra gliel'abbia rinfacciata. Anzi il segretario Roberto Speranza ha parlato di «ignobile fango» sparso sul suo mentore.

Quando è salito sul podio per arringare i (pochi) compagni presenti, l'ex primo ministro si è esibito in una lectio magistralis di geopolitica in cui non ha mai affrontato la questione della nuova carriera di aspirante mercante di armi. Ma ha fatto una rivendicazione assai coerente: «Io non ho mai condiviso il riferimento al pacifismo che è una cosa nobile, ma non è la nostra tradizione», quella comunista. 

Certamente non è la sua che è passato alla storia come il primo premier di sinistra bombardiere. E anche se per l'ex leader del Pds è giusto «sostenere» la resistenza ucraina, «pensare che la democrazia superi la sua crisi mettendo l'elmetto è una visione semplicistica che può essere totalmente disastrosa per le forze democratiche della sinistra».

L'elmetto, al massimo lo può indossare Baffino in tempo di pace. Il quale, pur considerandosi un businessman ormai fuori dalla politica, si è preso la briga di indicare al campo largo che verrà della sinistra niente meno che la strada del «nuovo ordine mondiale». Un sistema dove democrazie e autocrazie dovrebbero coesistere senza combattersi. D'Alema ha citato come pilastro di questo nuovo equilibrio planetario la regina di tutte le autocrazie, la Cina, con cui da tempo, percorrendo la via della Seta, ha anche rapporti di affari. Guardando a Pechino, D'Alema probabilmente vuole lasciarsi alle spalle i dispiaceri che gli stanno dando le democrazie, dove, come è successo con il Colombia-gate, le notizie rischiano di finire sui giornali. 

Dagospia il 6 maggio 2022.Chiusa l'inchiesta interna di Leonardo sulla trattativa mediata da D'Alema, finisce nel mirino il manager che ignorò l'allarme della Farnesina. Il governo colombiano alle battute finali per la scelta tra le offerte.  

Giacomo Amadori per “La Verità” il 6 maggio 2022.

Il Colombia-gate, dopo aver influito sul tetris delle nomine di aprile all'interno delle partecipate, potrebbe presto offrire altri colpi di scena in svariati settori: politico, giudiziario e commerciale. Dopo Pasqua è stato completato l'audit interno di Leonardo, le cui conclusioni sono state in parte anticipate da questo giornale. 

All'esito dell'indagine promossa dal presidente Luciano Carta sono stati mossi rilievi all'ufficio commerciale dell'azienda che nell'ottobre dello scorso anno inviò una brochure con prezzario degli aerei da addestramento M-346 a Massimo D'Alema, che, però, non aveva nessun titolo per ricevere quel materiale di interesse anche militare. 

Ma nel documento sarebbe biasimato anche il comportamento del capo delle relazioni istituzionali Sem Fabrizi, il diplomatico che nel gennaio scorso sarebbe stato avvertito dall'ambasciatore a Bogotà Gherardo Amaduzzi della strana attività di mediatore di D'Alema, il quale aveva inviato presso la rappresentanza diplomatica come suo emissario il pluriimputato Mazzotta.

L'audit una decina di giorni fa è stato inviato al ministero dell'Economia, socio di maggioranza dell'azienda, e una copia sarebbe arrivata anche al ministero della Difesa. Ma, secondo alcuni, si tratterebbe di un documento classificato e per questo al momento resta nel cassetto del presidente Carta e di pochi altri manager. 

Ma può la vicenda del Colombia-gate ridursi a una tiratina di orecchi di questo o quel dirigente? La soluzione individuata per Leonardo sarebbe considerata in alcuni settori governativi troppo soft, anche perché in Fincantieri, altra azienda coinvolta nell'affaire, l'ad Giuseppe Bono non è stato confermato e il direttore generale Giuseppe Giordo è stato sospeso.

Ma se la politica sembra essersi lasciata alle spalle il pasticcio della trattativa che D'Alema, grazie ai suoi agganci nelle aziende partecipate, aveva provato a intavolare con il governo colombiano, la Procura di Napoli, che ha aperto un fascicolo dopo alcuni articoli della Verità, starebbe provando a fare chiarezza sui punti più oscuri. L'occasione per iniziare le indagini è stata un'inchiesta di questo giornale su alcuni patrocini concessi dall'Assemblea parlamentare del Mediterraneo e giudicati dal suo segretario generale falsi. 

Queste carte sarebbero state utilizzate dai broker pugliesi ingaggiati da D'Alema per accreditarsi presso le istituzioni colombiane, ma anche presso Leonardo. In particolare tale documentazione sarebbe stata presentata da Emanuele Caruso, il quale avrebbe ottenuto il patrocinio per la Camera EuroMediterranea per l'industria e l'impresa, l'associazione tunisina di cui è segretario generale, direttamente dall'ex presidente dell'Apm Francesco Maria Caruso e dall'ex vicepresidente della Confindustria di Lecce Vito Ruggieri Fazzi.

Ma questi ultimi, con noi, un mese fa, avevano assicurato di aver concesso il patrocinio per una singola manifestazione tenutasi a Lecce. Il broker, però, ci ha mostrato una mail del 5 agosto 2013 con cui un funzionario della Apm, tale Martin Micallef, informava Ruggieri Fazzi («All'epoca vicepresidente della Camera euromediterranea e mio socio in due ditte di Dakar» puntualizza Caruso) che, dando «seguito alla nota del presidente Amoruso», l'Apm aveva «concesso il proprio patrocinio gratuito alla Camera EuroMediterranea per l'Industria e l'Impresa».

Una missiva che si concludeva così: «Le saremo grati se vorrà comunicarci le prossime attività della Camera per poterle iscrivere nel nostro calendario». Da allora, però, Caruso avrebbe fatto di quel patrocinio un uso piuttosto disinvolto. Almeno stando alla denuncia della stessa Apm. Del resto anche la Colombia avrebbe chiesto chiarimenti su un presunto verbale del 2021 dell'Apm utilizzato da Caruso per accreditarsi come consigliere del ministero degli Esteri.

Per la Procura di Napoli, guidata da Giovanni Melillo, appena nominato capo della Direzione nazionale antimafia, e per la Digos, a cui sono state delegate le indagini, la verifica dell'autenticità dei documenti non può prescindere da un'analisi più ampia della vicenda e dai doverosi controlli sul variopinto team che, da dietro le quinte, si stava occupando di promuovere l'affare milionario utilizzando canali che definire underground è eufemistico. 

Gli approfondimenti investigativi sono in corso e gli inquirenti sarebbero in attesa di acquisire l'audit di Leonardo.

Nel frattempo siamo alle battute finali della corsa tra Leonardo e i coreani della Kai per aggiudicarsi la commessa per la fornitura di alcuni velivoli da addestramento. A entrambe le aziende la forza aerea colombiana ha chiesto la migliore e ultima offerta, in gergo Bafo, per la fornitura specificando di essere propensa ad andare al momento della definizione del contratto verso un accordo istituzionale governo-governo.

Come ha rivelato La Verità la richiesta è stata inviata all'azienda italiana il 20 aprile dal maggiore generale Carlos Fernando Silva Rueda, comandante delle operazioni aeree e spaziali dell'esercito colombiano. In queste ore, concluso il deposito delle offerte con le specifiche delle singole voci legate anche alla manutenzione, le due proposte sarebbero attentamente soppesate sia dalla forza aerea colombiana che dal ministero della Difesa. Secondo alcuni rumors la decisione sarebbe, in realtà, già stata presa, ma non è chiaro se gli articoli pubblicati dalla stampa specializzata che segnalano una possibile vittoria coreana, siano veri scoop o vadano, invece, letti come un tentativo di spostare l'ago della bilancia verso l'Estremo Oriente.

Infodefensa.com, organo di informazione di settore in lingua spagnola, il 26 aprile ha scritto che «la Colombia ha selezionato il velivolo di tipo Ta/Fa-50 della Korean aerospace industries come futuro velivolo da addestramento avanzato con il quale intende sostituire la sua attuale flotta di velivoli Cessna A-37B, che stanno per essere definitivamente ritirati dal servizio». Un velivolo realizzato in cooperazione con la statunitense Lockheed Martin. Il contratto riguarderebbe 20 velivoli e varrebbe 600 milioni di dollari. Il 4 maggio la Rivista italiana difesa (Rid) si è domandata se la notizia, «trapelata da numerose fonti della Difesa colombiana», fosse vera.

E ha dato questa risposta: «La notizia non è tuttavia confermata, anzi sembrerebbe smentita dalla stessa aviazione colombiana, tanto è vero che il M-346, il candidato di Leonardo sarebbe ancora in corsa». Sempre mercoledì il ministro della Difesa colombiano Diego Molano avrebbe dichiarato che il processo di valutazione sarebbe ancora in corso, anche se secondo un altro sito, Defence news, la trattativa con l'Italia servirebbe a far spuntare alla Colombia il miglior prezzo con la Corea, già partner della marina militare del Paese sudamericano (che ha acquisito da Seul missili antinave e due corvette di seconda mano). Si tratterebbe, dunque, di una gara di facciata.

Mentre scriviamo, tra l'azienda aerospaziale italiana e l'aeronautica di Bogotà, sarebbero in corso frenetiche interlocuzioni e approfondimenti tecnici sull'offerta per evitare il temuto sorpasso. Più di un manager di Leonardo è convinto che nulla sarebbe ancora deciso e che solo nelle prossime ore si saprà chi arriverà per primo al traguardo, al termine di un'estenuante guerra di nervi. Al ministero della Difesa italiano non abbiamo trovato nessuno disponibile a commentare ciò che sta avvenendo in ambito commerciale, anche se viene sottolineato come la scelta della trasparenza abbia rimesso in corsa Leonardo, che, purtroppo, era stata penalizzata dall'opacità della trattativa parallela rivelata dalla Verità.

Fabio Amendolara per laverità.info il 20 maggio 2022.  

Come anticipato nei giorni scorsi dalla Verità la vicenda della trattativa per fornire armi alla Colombia portata avanti da Massimo D'Alema ha avuto ieri una svolta giudiziaria.  Verso l'alba una decina di agenti della Digos di Napoli, su delega del procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, si sono presentati a casa dei due broker incaricati di fare da intermediari nel Paese sudamericano, Emanuele Caruso e Francesco Amato.

Ai familiari di Amato, che vive in Spagna, è stato chiesto di informare il giovane pugliese della necessità di mettersi in contatto con la polizia giudiziaria. A Caruso sono stati sequestrati documenti e gli apparati elettronici. 

L'avvocato di quest'ultimo, Raffaelle Lorenzo, dice alla Verità: «Si è trattato di una perquisizione in cui il mio assistito ha offerto la massima collaborazione. Adesso finalmente abbiamo scoperto che è indagato e possiamo difenderci pienamente. Per questo siamo ancora più sereni e dimostreremo nelle sedi opportune l'estraneità ai fatti contestati».

Infatti, l'avvocato Lorenzo aveva già provato a verificare in Procura se il suo assistito fosse sotto indagine. Ma per la doverosa segretezza delle indagini preliminari non aveva avuto conferma dell'iscrizione sul registro degli indagati del suo cliente. Nel decreto di perquisizione i reati contestati, a detta del legale, sono il falso e la sostituzione di persona, un'accusa collegata al fatto che i due si erano presentati come consiglieri del Ministero degli Esteri colombiano e rappresentanti di organizzazioni collegate all'Apro. 

Gli investigatori, infatti, sono alla ricerca di elementi utili a dimostrare che i due «si siano accreditati» presso «istituzioni internazionali», è scritto nel decreto di perquisizione, allo scopo di fare affari. 

Sono inoltre stati perquisiti (pur non essendo iscritti nel registro degli indagati) Giancarlo e Paride Mazzotta. Il primo è l'ex sindaco di Carmiano e collaboratore di D'Alema. Il secondo è suo figlio, consigliere regionale pugliese di Forza Italia. Ieri abbiamo provato a contattare entrambi, ma senza fortuna. I telefoni sono risultati spenti fino a sera.

Entrambi i Mazzotta, nel gennaio scorso, hanno preso parte alla trasferta a Bogotà insieme con i dirigenti di Fincantieri e Leonardo per alcuni incontri finalizzati alla trattativa per la vendita di due fregate, due sommergibili e 24 caccia M-346. 

I briefing sono avvenuti non con figure istituzionali del governo colombiano e delle forze armate, ma con consulenti non accreditati. Il 6 maggio avevamo ricordato che la Procura di Napoli, ha aperto un fascicolo dopo alcuni articoli della Verità e che in quel momento stava provando a fare chiarezza sui punti più oscuri.

L'occasione per iniziare le indagini è stata un filone dell'inchiesta di questo giornale sull'affaire Colombia, relativo ad alcuni patrocini concessi dall'Assemblea parlamentare del Mediterraneo e giudicati dall'ambasciatore Sergio Piazzi, segretario generale dell'organizzazione, falsi. 

Tanto che dopo averli visionati sul nostro giornale l'Apm aveva deciso di presentare denuncia. Sta di fatto che queste carte sarebbero state utilizzate dai broker pugliesi ingaggiati da D'Alema per accreditarsi con le istituzioni colombiane, ma anche presso Leonardo.

In particolare tale documentazione sarebbe stata presentata da Emanuele Caruso, il quale avrebbe ottenuto il patrocinio per la Camera EuroMediterranea per l'industria e l'impresa, l'associazione tunisina di cui è segretario generale, direttamente dall'ex presidente dell'Apm Francesco Maria Caruso e dall'ex vicepresidente della Confindustria di Lecce Vito Ruggieri Fazzi.

Ma questi ultimi, con noi, un mese fa, avevano assicurato di aver concesso il patrocinio per una singola manifestazione tenutasi a Lecce. Il broker, però, ci ha mostrato una mail del 5 agosto 2013 con cui un funzionario della Apm, tale Martin Micallef, informava Ruggieri Fazzi («All'epoca vicepresidente della Camera euromediterranea e mio socio in due ditte di Dakar» puntualizza Caruso) che, dando «seguito alla nota del presidente Amoruso», I'Apm aveva «concesso il proprio patrocinio gratuito alla Camera EuroMediterranea per l'Industria e l'Impresa».

Una missiva che si concludeva così: «Le saremo grati se vorrà comunicarci le prossime attività della Camera per poterle iscrivere nel nostro calendario». Da allora, però, Caruso avrebbe fatto di quel patrocinio un uso piuttosto disinvolto. Almeno stando alla denuncia della stessa Apm. Del resto anche la Colombia avrebbe chiesto chiarimenti su un presunto verbale del 2021 dell'Apm utilizzato da Caruso per accreditarsi come consigliere del ministero degli Esteri.

Per la Procura di Napoli, guidata da Giovanni Melillo, appena nominato capo della Direzione nazionale antimafia, e per la Digos, a cui sono state delegate le indagini, la verifica dell'autenticità dei documenti non può prescindere da un'analisi più ampia della vicenda e dai doverosi controlli sul variopinto team che, da dietro le quinte, si stava occupando di promuovere l'affare milionario utilizzando canali che definire underground è eufemistico. 

Gli inquirenti sarebbero in attesa di acquisire I'audit di Leonardo. È Mazzotta senior a portare da D'Alema i broker: i quattro iniziano a parlare della possibile vendita alle forze armate colombiane, un affare da 4 miliardi di euro.

D'Alema ne parla con l'ad di Leonardo Alessandro Profumo. Non è chiaro se sia stato l'ex sindaco pugliese o l'ex premier, ma qualcuno indica come mediatore da contrattualizzare lo studio Allen di Miami. 

Iniziano le trattative. Il succo è che il nuovo broker verrà pagato se il prezzo supererà i 350 milioni di euro. La provvigione sarebbe stata del 2 per cento. E forse, i mediatori avrebbero incassato pure «un compenso come "retailer"». Inoltre, superato il tetto dei 2 miliardi sarebbe stato previsto un ulteriore lauto premio. 

Vendita armi in Colombia, perquisite le abitazioni di Paride e Giancarlo Mazzotta nel Leccese. In azione gli agenti della Digos della Questura di Napoli. Ma non sono indagati padre e figlio, rispettivamente ex sindaco di Carmiano e consigliere regionale di Forza Italia. Linda Cappello su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Maggio 2022.

L'ex sindaco di Carmiano, Giancarlo Mazzotta, ed il figlio Paride, consigliere regionale di Forza Italia, hanno ricevuto una perquisizione domiciliare dagli agenti della Digos della Questura di Napoli, nell'ambito dell'inchiesta sulla vendita - poi saltata - di armi e navi da guerra da Fincantieri e Leonardo alla Colombia, operazione in cui sarebbe coinvolto Massimo D'Alema. Padre e figlio non sono indagati. Gli investigatori si sono presentati questa mattina nelle rispettive abitazioni: ricordiamo che Giancarlo Mazzotta sarebbe stato coinvolto nella trattativa in quanto vicino a D'Alema. Gli investigatori erano incaricati di cercare eventuale materiale probatorio su supporti informatici.

«Il mio assistito ha spontaneamente consegnato i telefoni cellulari», precisa l'avvocato Paolo Spalluto. «Non sono indagato - dichiara Mazzotta alla Gazzetta - sono coinvolto come persona informata dei fatti». Domani l’ imprenditore salentino sarà sentito dagli investigatori.

Stando alle indagini, il 43enne Emanuele Caruso di San Pietro in Lama, e il 38enne Francesco Amato di Lequile, si sarebbero spacciati per soggetti legati al governo colombiano per intavolare una trattativa finalizzata alla compravendita di armamenti del valore di oltre quattro miliardi di euro. In una lettera - hanno riportato indiscrezioni giornalistiche - si sarebbero presentati a Fincantieri e Leonardo come consiglieri del Ministero Affari Esteri della Colombia. «Dagli accertamenti della Digos - si legge nel decreto - è emerso che Caruso sarebbe entrato in contatto con l'ex premier Massimo D'Alema mediante Giancarlo Mazzotta, ex sindaco di Carmiano e conoscente del suo socio Amato, e di aver illustrato i loro progetti imprenditoriali al D'Alema, il quale aveva manifestato la propria disponibilità ad avviare un dialogo con le partecipate italiane verso cui vantava importanti relazioni e conoscenze». 

Perquisiti i due broker coinvolti nella tentata mediazione di D’Alema per le armi alla Colombia. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Maggio 2022.  

Su delega del procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, la Digos della Questura del capoluogo campano ha perquisito gli uffici ed abitazioni di Amato e Caruso alla ricerca di elementi che possano dimostrare come i due «si siano accreditati» presso «istituzioni internazionali», come riportato nel decreto di perquisizione, allo scopo di fare affari. 

La vendita, sfumata, di navi e aerei militari italiani alla Colombia è finita in tribunale. La procura di Napoli ha iscritto nel registro degli indagati Francesco Amato e Emanuele Caruso,, 38 e 43 anni, i due broker pugliesi ora accusati di sostituzione di persona e truffa. Il fascicolo è stato aperto dalla Procura di Napoli lo scorso 5 marzo, quando il deputato di Italia Viva Gennaro Migliore e l’ambasciatore rispettivamente presidente e segretario generale dell’Assemblea parlamentare del Mediterraneo, un’organizzazione internazionale con sede a Napoli che riunisce delegati di 30 Paesi delle due sponde del “Mare Nostrum”, hanno denunciato l’uso abusivo da parte dei due brokers pugliesi di documenti falsi con contrassegno e logo simili a quelli della Amp. 

I brokers Caruso e Amato si qualificavano rispettivamente come segretario generale responsabile per le relazioni in America Latina di associazioni internazionali come l’Associazione Polizia mediterranea e la Camera mediterranea per l’industria e l’impresa.

Su delega del procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, la Digos della Questura del capoluogo campano ha perquisito gli uffici ed abitazioni di Amato e Caruso alla ricerca di elementi che possano dimostrare come i due «si siano accreditati» presso «istituzioni internazionali», come riportato nel decreto di perquisizione, allo scopo di fare affari.  Si indaga anche su un’altra circostanza emersa da fonti giornalistiche, vale a dire la lettera di presentazione che sarebbe stata inviata a ottobre 2021 a Fincantieri e Leonardo nella quale i due si presentavano come “consiglieri del ministero Affari Esteri della Colombia”.

«Utilizzo di credenziali false per proporsi come negoziatori nella compravendita di armamenti alle forze armate colombiane del valore di 4 miliardi di euro» con le società pubbliche italiane Fincantieri e Leonardo. Operazione nella quale era coinvolto ed interessato anche l’ex presidente del consiglio Massimo D’Alema. Le associazioni Associazione Polizia mediterranea e la Camera mediterranea per l’industria e l’impresa, create da Francesco Amato ed Emanuele Caruso, millantavano il patrocinio, mai realmente concesso, della Amp, utilizzandone i simboli in più di un’occasione. 

Per portare a buon fine l’affare, Emanuele Caruso era entrato in contatto, attraverso un conoscente di Francesco Amato, anche con l’ex premier Massimo D’Alema il quale Intervistato da Repubblica, ha raccontato di essersi limitato a mettere in contatto i due con Leonardo e Fincantieri, di averlo fatto gratuitamente, senza aver avuto alcun incarico dalle due aziende italiane e di essersi mosso anche perché entrambe le società sono clienti importanti di Ernst&Young, il network di consulenza di cui l’ex leader politico è presidente dell’advisor board. Purtroppo per D’ Alema le registrazioni audio trasmesse dal programma “Striscia la Notizia” contenenti la sua voce sembrerebbero dire ben altro.

Dopo giorni di polemiche mediatiche, la Procura di Napoli ha deciso di accelerare le indagini e dall’analisi della memoria informatica, gli investigatori confidano di scovare nuove tracce e indizi su questa trattativa miliardaria portata avanti con carte false.

La mediazione di D'Alema per le armi alla Colombia. Perquisiti i due broker. Dario del Porto,  Giuliano Foschini su La Repubblica il 20 Maggio 2022.  

Sotto la lente della Procura di Napoli la trattativa per la vendita di navi e aerei militari: Amato e Caruso indagati per truffa e sostituzione di persona.

«Utilizzo di credenziali false» per proporsi come «negoziatori nella compravendita di armamenti alle forze armate colombiane del valore di 4 miliardi di euro» con Fincantieri e Leonardo. Per il tramite dell’ex presidente del consiglio Massimo D’Alema. La vendita, sfumata, di navi e aerei militari italiani alla Colombia finisce in tribunale. La procura di Napoli ha iscritto nel registro degli indagati Francesco Amato ed Emanuele Caruso, 38 e 43 anni, i due broker pugliesi ora accusati di sostituzione di persona e truffa.

S'allarga il caso D'Alema. Perquisito il fedelissimo per le armi alla Colombia. Lodovica Bulian il 21 Maggio 2022 su Il Giornale.

Oltre ai due indagati, nel mirino anche l'ex sindaco di Carmiano: avrebbe fatto da tramite.

Scattano i sequestri e le perquisizioni della Procura di Napoli ad alcuni degli uomini che lavoravano all'affare colombiano, poi saltato, nel quale Massimo D'Alema si sarebbe adoperato per la vendita di armamenti di Leonardo e Fincantieri al governo della Colombia. Un business da 4 miliardi di euro, 80 milioni sarebbero stati il prezzo delle mediazioni, almeno stando alle parole dello stesso ex premier, registrato tre mesi fa a sua insaputa mentre parlava con un mediatore colombiano dei possibili risultati del lavoro: «Noi stiamo lavorando perché? - diceva D'Alema - Perché siamo stupidi? No, perché siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi 80 milioni di euro». D'Alema non aveva alcun mandato ufficiale a negoziare per conto delle aziende di Stato che, nonostante le rigide norme interne sugli intermediari, hanno interloquito con l'ex premier e con il suo team per portare avanti l'affare.

Ora su delega della Procura di Napoli, la Digos ha bussato alle porte degli uomini con cui si sarebbe relazionato l'ex premier. Perquisite le abitazioni e sequestrati i telefoni e altri dispositivi dei pugliesi Francesco Amato ed Emanuele Caruso, 38 e 43 anni, indagati per sostituzione di persona e truffa. Di fatto coloro che avevano fiutato l'affare colombiano, grazie ai contatti di uno dei due nel Paese, e lo avevano portato all'attenzione dell'ex premier per il tramite di un ex sindaco, anche lui pugliese, Giancarlo Mazzotta. Sarebbe stato lui a creare il contatto con D'Alema. Anche Mazzotta, con il figlio Paride, è stato raggiunto da un decreto di perquisizione, ma i due non sono indagati. I rapporti però, scrivono i pm, sono chiari: «È emerso che Caruso sarebbe entrato in contatto con D'Alema mediante Mazzotta, ex sindaco di Carmiano e conoscente del socio Amato, e avrebbe illustrato i loro progetti imprenditoriali a D'Alema, il quale aveva manifestato la propria disponibilità ad avviare un dialogo con le partecipate italiane, verso cui vantava importanti relazione e conoscenze». Insomma, per arrivare alle società pubbliche i due avevano chiesto a Mazzotta di intercedere con D'Alema. Mazzotta poi sarebbe stato vicinissimo all'ex premier anche nella gestione della trattativa. Non solo lui, ma anche il figlio, scrivono i magistrati: «Ai negoziati per la vendita di armamenti al governo colombiano avrebbe partecipato anche Paride Mazzotta, figlio di Giancarlo, che tra l'altro ha postato in rete le foto che documentano il soggiorno in Colombia». I magistrati si riferiscono a un soggiorno a Bogotà, in occasione dell'arrivo di alcuni dirigenti di Fincantieri e Leonardo nell'ambito del potenziale affare. I Mazzotta non sono indagati, i pm contestano invece a Caruso e Amato la sostituzione di persona «al fine di accreditarsi» presso «istituzioni internazionali» attraverso organizzazioni quali l'associazione Polizia Mediterranea e la Camera mediterranea per l'industria e l'impresa, di cui Caruso si qualificava «come segretario generale e Amato responsabile per le relazioni in America Latina. Hanno attribuito falsamente a tali enti - scrivono i pm - il patrocinio dell'Assemblea Parlamentare del Mediterraneo (un'organizzazione internazionale con sede a Napoli ndr) al fine di accreditarsi più facilmente e con maggiori credenziali presso soggetti pubblici e privati esteri creando una situazione di sicuro affidamento dell'interlocutore estero. Appare evidente la finalità truffaldina e volta alla ricerca di ingenti profitti». Erano stati il 5 marzo Gennaro Migliore e l'Ambasciatore Sergio Piazzi in qualità di presidente e di segretario generale dell'Assemblea, a presentare un esposto a Napoli. Caruso si è sempre difeso dalle accuse di falso, sostenendo la correttezza dei documenti. Ora il suo avvocato Raffaele Lorenzo ribadisce «massima collaborazione. Siamo ancora più sereni nel poter dimostrare l'estraneità ai fatto contestati».

"D'Alema ebbe un incarico? Da chi? Quella fornitura di armi va chiarita". Luca Fazzo il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il senatore di Fi Gasparri chiede di sentire in Commissione l'ad di Leonardo.  

«La faccenda non finisce qui», dice Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia e membro della commissione Difesa. Che davanti alla incredibile storia della fornitura di mezzi da guerra per quattro miliardi di euro da Fincantieri e Leonardo alla Colombia, dove un mese fa è apparso come mediatore l'ex segretario del Pds Massimo D'Alema, va dritto al nocciolo della questione: «Io voglio capire cosa è diventata in questi anni Leonardo. Se siamo davanti ad una azienda strategica di Stato o a una sezione staccata del Pds o come si chiama adesso del Pd. Perché a volte l'impressione è quella. Non c'è solo l'amministratore delegato Alessandro Profumo che si vantava di partecipare alle primarie del Partito democratico. Ci sono una serie di intrecci, una familiarità con la sinistra italiana in cui a questo punto bisogna vedere chiaro».

E questo, scusi, cosa c'entra con la fornitura alla Colombia?

«C'entra parecchio. Perché voglio capire se e in che modo Massimo D'Alema si è fatto forte di questi intrecci, di questa contiguità, nei suoi rapporti con gli interlocutori colombiani. Vede, D'Alema oggi è un privato cittadino che ha il diritto di scegliersi il suo mestiere. Se nella sua nuova vita mette a frutto i rapporti che ha allacciato e la fama acquisita in Italia e all'estero nella sua carriera politica, è libero di farlo. Gerard Schroeder, che è stato il cancelliere tedesco, oggi lavora per Gazprom: la cosa in Germania fa discutere, ma nessuno può impedire a Schroeder di essere a libro paga dei russi. Lo stesso vale per D'Alema. A condizione che si operi con trasparenza, sia da parte di D'Alema che da parte di Leonardo».

Leonardo dice di non avere mai dato alcun incarico a D'Alema.

«Io cosa abbia fatto esattamente Leonardo ancora non l'ho capito, e non l'ha capito neppure il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè, grazie al quale questa vicenda è venuta alla luce. Per questo ho già chiesto alla presidente della commissione Difesa del Senato, Roberta Pinotti, di convocare per una audizione il dottor Profumo, e mercoledì formalizzerò questa richiesta in commissione. E assicuro che non sarà una audizione-vetrina come quelle che sono state fatte in passato».

Leonardo è una azienda strategica per il paese, è normale che si muova sugli scenari internazionali. E lì la concorrenza è spietata.

«Non è assolutamente questo a essere in discussione. Ma qua è successo qualcosa di strano, di cui oltre alle dichiarazioni di Mulè sappiamo solo quanto sta uscendo sui giornali. Non possiamo fare finta di niente. Perché Leonardo ha diritto di fare business ma esistono anche delle regole da rispettare. Chi ha dato incarico a chi, nell'affare colombiano? Tutto è possibile, in giro il mondo è pieno di millantatori, c'è gente che dice di agire per conto di tizio e caio che invece non ne sanno niente. Non credo che possiamo convocare per una audizione D'Alema o i militari colombiani, ma altre audizioni, oltre a quella di Profumo, le possiamo e le dobbiamo fare. Bisogna assolutamente capire chi ha parlato e a nome di chi. Ho sentito a Striscia la notizia l'audio di D'Alema che parla di ottanta milioni in ballo. Possiamo girarci dall'altra parte?»

Ieri, peraltro, la Verità ha rivelato che l'8 febbraio si è tenuta una call cui erano presenti D'Alema, Profumo e il direttore di Fincantieri Giuseppe Giordo, dovevano esserci anche i colombiani ma non si sono presentati. Come fa Leonardo a continuare a dire di non sapere nulla delle manovre di D'Alema?

«Sono risposte che può darci solo Profumo, e per questo credo che la audizione vada disposta con urgenza. Cosa ha fatto e detto D'Alema, quali contatti e aderenze ha vantato? Ci sono stati intrecci impropri? Alessandro Profumo ne sa qualcosa? A questo punto io voglio davvero capire se una azienda strategica è diventata una sezione di partito».

Mattia Feltri per “la Stampa” il 4 marzo 2022.  

La scoperta che Massimo D'Alema si sia industriato da intermediario per una vendita di armi alla Colombia, roba da ottanta milioni di euro, fra studi legali di Miami e faccendieri sudamericani, ha risollecitato la solita, vecchia, bolsa domanda: ma può un ex comunista eccetera? Una domanda da cui D'Alema è perseguitato da decenni. Ma può un ex comunista mettere su a Palazzo Chigi l'unica merchant bank in cui non si parla inglese?

Ma può un ex comunista solcare i mari su Ikarus e altre sfarzose barche a vela? Ma può un ex comunista diventare presidente dell'Advisory Board di Ernst&Young? Ma può un ex comunista puntare alla scalata di Bnl attraverso Unipol, essere affaccendato nei viluppi del Monte dei Paschi, stringere politici sensi con Vincenzo De Bustis e la sua Banca 121, come un Sindona del terzo millennio? Ma può un ex comunista andarsene in giro con scarpe di pelle umana? 

Ma può un ex comunista produrre vino in Umbria e vendersene carrettate a Pechino? Ma può un ex comunista ritrovarsi dentro a incastri fra politica e affari per portare il metano su Ischia? Ma può un ex comunista diventare presidente onorario della Silk Road Global Information, che poi all'alba della pandemia importa in Italia ventilatori tarocchi?

Può un ex comunista offrire consulenze strategiche con la DL&M Advisors? Ma insomma, può un ex comunista essere sempre in mezzo a capitani coraggiosi, trame internazionali, trafficanti, fiumi di quattrini? Ma può? Può, certo che può, soprattutto se è uno avanti come D'Alema, che non è un ex comunista, ma è da molto tempo un modernissimo comunista di stampo cinese.

Mirko Molteni per “Libero quotidiano” l'1 marzo 2022.

La Russia spende ogni giorno centinaia di milioni di dollari per le operazioni belliche. Spesa notevole perchè il Cremlino impiega grandi quantità di uomini e armi. E ciò nonostante la Russia abbia spese militari annue pari solo a un decimo di quelle degli Stati Uniti, se si parifica tutto in dollari. 

Se Washington stanzia ogni anno per la Difesa 700 miliardi di dollari, a Mosca basta investire 70 miliardi di dollari per mantenere una forza totale che non è un decimo di quella americana, ma poco inferiore a essa. Ciò perchè i russi si fabbricano tutte le armi in casa e se le pagano in rubli, senza contare che preferiscono spesso sistemi meno sofisticati e costosi, fabbricabili in gran serie e meno esigenti di manutenzione. 

Una stima precisa della spesa quotidiana di guerra è impossibile per la gran varietà di armi utilizzate. Abbiamo tuttavia cercato d'ipotizzare una sorta di "lista delle spese quotidiane" delle forze russe. Stimiamo che ognuno dei 150.000 soldati russi consumi ogni giorno due caricatori da 30 colpi del fucile d'assalto, facendo una media fra chi, in prima linea, ne svuota 4 o 5 e chi, in logistica, genio e trasmissioni, non spara.

Quanto al consumo di carburante dei carri armati, ovviamente non tutti i carri russi fanno il pieno di gasolio una volta al giorno, anche perchè con un pieno fanno oltre 400 km. La consideriamo una spesa simbolica che dà l'idea dei costi di gestione dei mezzi terrestri. Emerge la grande differenza di costi fra sistemi terrestri e aerei. 

Un singolo carro armato di medio tonnellaggio come il T-72 costa 2 milioni di dollari e se ammettiamo che nei combattimenti ne vengano distrutti 20 al giorno, intesi come "carri simbolici" che possono rappresentare anche blindati, camion e altri veicoli, una perdita di 40 milioni di dollari spalmata su una ventina di veicoli terrestri è pari, più o meno, al costo di un singolo caccia supersonico Sukhoi Su-35.

Tutto ciò che vola costa molto di più di mezzi che marciano al suolo, ed ecco spiegato perchè, se i russi perdono, poniamo, anche solo tre caccia come il Su-35, il danno economico è da solo pari a circa la metà di tutte le spese quotidiane che abbiamo stimato. Gli elicotteri sono più a buon mercato dei caccia, ma un Mil Mi-8 da trasporto truppe costa pur sempre come 4 carri. Quanto ai missili, che sono stati lanciati a decine in questi giorni, hanno un costo unitario fra 1 e 2 milioni di dollari.

La somma totale si aggira sui 235 milioni di dollari ogni 24 ore, stima comunque per difetto, poiché non abbiamo tenuto conto di mille altre cose. Per quanto tempo il Cremlino possa seguitare a spendere simili cifre, non è dato sapere. Sappiamo che la Russia ha, prima dell'offensiva, accumulato enormi riserve monetarie da 630 miliardi di dollari, in valuta estera e oro. Se solo un terzo di tale somma fosse usato per finanziare lo sforzo bellico, cioè 200 miliardi di dollari, ce ne sarebbe abbastanza per sostenere uno o due annidi guerra, a seconda della dimensione dello scontro. 

Da fanpage.it il 7 marzo 2022.

I ginnasti russi hanno gareggiato per l'ultimo weekend prima del divieto imposto dalla FIG dal 7 marzo 2022. La Federazione Internazionale ha accolto la richiesta del CIO di sospendere l’attività agonistica per gli atleti russi in seguito all'invasione nei confronti dell’Ucraina e al conflitto che ne è scaturito: in occasione delle ultime gare non potevano indossare colori e simboli che rimandassero alla loro nazione come sanzione prima dello stop delle attività. Tutti la  pensavano così fino alla premiazione durate la finale di Coppa del Mondo di ginnastica artistica che si è svolta a Doha, in Qatar. 

In questa occasione un atleta ha deciso di uscire di scena, almeno per il momento, in maniera piuttosto clamorosa. Ivan Kuliak, che ha partecipato alla finale delle parallele, ha indossato la lettera "Z" sul body durante la gara e la premiazione: questo era il suo modo, molto ‘creativo' e piuttosto intimidatorio, di coprire lo stemma della Russia ma di omaggiare al tempo stesso la scelta di Vladimir Putin di scatenare un conflitto sul territorio ucraino.

Quella lettera viene utilizzata da politici, attivisti e influencer a favore del presidente russo per mostrare il loro sostegno alla guerra: esiste anche un merchandising con la lettera "Z" che viene venduto da Russia Today, il canale televisivo finanziato dal Cremlino. Il ricavato delle vendite dovrebbe essere devoluto a un ente di beneficenza che sostiene i "figli della guerra". La lettera è dipinta sui carri armati russi, sui veicoli corazzati che partecipano all'invasione del territorio ucraino, ed è diventata il simbolo di questa guerra per i russi. 

Viene condiviso sui social media da coloro che sostengono l'invasione e la lettera dovrebbe avere come significato le parole russe "za pobedu" (‘per la vittoria'). Il ministero della Difesa di Mosca ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che con quella lettera si intende soltanto vittoria e null'altro ma basta riavvolgere un po' il nastro dei giorni scorsi con un po' di informazioni per capire che si tratta di una spiegazione assolutamente parziale. 

Il 20enne ha ricevuto l'addestramento militare lo scorso anno e il suo abbigliamento non è passata inosservato. Come se non bastasse questa specifica provocazione, dobbiamo prendere atto che Kuliak ha condiviso il podio con Illia Kovtun, ginnasta ucraino che si è aggiudicato il primo posto nella gara. Il diciottenne ha lasciato il suo paese alla fine di febbraio per partecipare alla tappa della Coppa del Mondo a Cottbus e il 24 febbraio si è svegliato apprendendo che il suo paese era stato invaso dalla Russia e Kiyv, la sua città, era sotto attacco.

In questi dieci giorni Kovtun e gli altri membri delle delegazioni ucraine hanno vissuto da lontano le vicende della loro terra e hanno sempre cercato di restare in contatto con i loro cari: il comportamento di Kuliak è un vero e proprio atto di intimidazione nei confronti di questi atleti e una violazione del Codice di condotta della FIG (Fédération Internationale de Gymnastique). Non è detto che non possano arrivare sanzioni per il giovane atleta russo.

Da corrieredellosport.it il 2 marzo 2022.

I carri armati, l'artiglieria e i veicoli militari russi che da giorni attraversano i confini dell'Ucraina vengono identificati con una serie di simboli, disegnati con della vernice bianca. Finora ne abbiamo visto di diversi tipi: dalle lettere alle figure geometriche e persino combinazioni di entrambi. 

Sono state notate più di dieci combinazioni sulle carrozzerie e sulle fiancate dei veicoli militari. Tuttavia, ce n’è una che appare più di altre: una lettera Z racchiusa tra rettangoli o triangoli. Tali simboli servono perlopiù a evitare di essere colpiti dal fuoco amico. Del resto i carri armati russi e ucraini sono molto simili. Pertanto tale simbologia è usata per distinguersi dal nemico.

Lettera Z: le ipotesi avanzate

Tali lettere potrebbero essere anche correlate ai luoghi in cui sono destinate le unità militari. Michael Clarke, ex direttore generale del Royal United Services Institute (RUSI) think tank a Londra, ha dichiarato a Sky. "Spesso questi simboli sono basati sulla posizione: comunicano dove sta andando l'unità", osserva. 

"Probabilmente sono segnali che indicano quali unità sono dirette a nord-est o nord-ovest di un distretto, per esempio", spiega. Questa simbologia segreta è molto comune nelle guerre. Un'altra ipotesi mette in relazione le cifre con la missione di ciascun veicolo. "La maggior parte dei segni Z visti finora erano all'interno di un quadrato, ma questo camion Ural con un obice Msta-B ne ha uno all'interno di un triangolo", ha scritto su Twitter Rob Lee, studente di dottorato e osservatore della politica di difesa degli Stati Uniti in Russia. "Forse indica diversi gruppi di lavoro all'interno di una formazione”.

Stefano Montefiori per corriere.it il 7 marzo 2022.

Una «Z» tracciata sui blindati e sui furgoni russi in Ucraina è stata notata sin dalle prime ore dell’invasione, e se molti in Occidente la considerano il segno sinistro del massacro del popolo ucraino, in Russia è diventata il simbolo dell’«operazione militare» che secondo Putin e i suoi seguaci ha l’obiettivo di «de-nazificare» l’Ucraina. 

Esibire la «Z» è un gesto patriottico di sostegno ai soldati e alle decisioni di Putin. Non ci sono solo i coraggiosi russi che a migliaia, da San Pietroburgo a Mosca a Novosibirsk, scendono in piazza e rischiano anni di carcere per dire «no alla guerra».

L’opinione pubblica russa è anche composta di cittadini che credono alla propaganda di Putin, e che in queste ore esibiscono la «Z» sul lunotto posteriore dell’automobile, la dipingono sul furgone, oppure la mostrano fieramente sulla tuta da ginnastica al momento della premiazione (come ha fatto l’atleta russo Ivan Kuliak, che alla Coppa del mondo di ginnastica in Qatar ha conquistato la medaglia di bronzo ed è salito sul podio esibendo la «Z» dei carri armati, proprio accanto all’ucraino Illia Kovtun con la medaglia d’oro).

Nei primi giorni dell’invasione, gli esperti militari hanno suggerito che le «Z» e anche le «V» sui mezzi militari russi in Ucraina erano segni di riconoscimento dei battaglioni che avevano partecipato poche settimane prima alle esercitazioni in Bielorussia: «Z» sta per Zapad (ovest) e «V» per Vostok (est).

Le più comuni sono le «Z», e in Russia ormai quella lettera è il segno del sostegno alle truppe e al regime di Putin. Molti la mettono in maiuscolo all’interno delle parole, in modo che sia ben visibile e cominciano a vendersi le magliette con la «Z». Il ricercatore russo Kamil Galeev, finito in carcere durante le proteste del 2020 e oggi al Wilson Center di Washington, ha messo in fila su Twitter alcune immagini della «Z» in Russia: un gruppo di minacciosi militanti con le bandiere russe e la maglietta nera con «Z» bianca; auto con l’adesivo «Z», furgone con due enormi «Z» sulle fiancate; una grande «Z» formata con le mostrine strappate ai soldati ucraini uccisi; e persino la foto presa dall’alto di bambini e adulti di un ospedale pediatrico, disposti a formare una grande «Z».

Da Zorro alla Russia, quando la «Z» diventa un simbolo. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera l'8 Marzo 2022.  

Da segno di riconoscimento, la «Z» è diventata un simbolo patriottico di sostegno ai soldati e alle decisioni del tiranno.  

Zeta come… Cosa significa quella «Z» tracciata sui blindati e sui furgoni russi in Ucraina e che non è neppure una lettera dell’alfabeto cirillico? L’ha spiegato molto bene Stefano Montefiori : «Z» sta per Zapad (ovest, la direttrice principale dell’invasione). È caduta l’ipotesi che fosse una sorta di beffa nei confronti del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, un po’ come quando si scriveva il nome del nemico sui missili destinati ai bombardamenti. Da segno di riconoscimento, la «Z» è diventata un simbolo patriottico di sostegno ai soldati e alle decisioni del tiranno. Non è la prima volta che la «Zeta» diventa emblema. La «Z» più famosa è quella di Zorro (volpe), alias Don Diego de La Vega, nato dalla penna geniale di Johnston McCulley che lo ha tratteggiato, dipinto e trasformato nell’eroe mascherato più famoso fra i personaggi avventurosi. La storia del cinema è piena di Zorro: Douglas Fairbanks, Tyrone Power, Alain Delon, Antonio Banderas (con Catherine Zeta Jones), Franco Franchi.

Grande dilemma: Zorro fa la zeta perché si chiama Zorro, o si chiama Zorro perché fa la zeta di Zorro? Una cosa è certa: le mascherine anti-Covid ci hanno dimostrato definitivamente come Don Diego de La Vega fosse riconoscibilissimo anche coprendosi gli occhi. Ci sarebbe anche «Z. L’orgia del potere» (1969), un film di denuncia del greco Costa Gravas sulla prepotenza di un regime autoritario: la lettera «?» in greco antico significa «è vivo». C’era anche un talk show di Gad Lerner che si chiamava «Zeta» (omaggio al «cinema democratico»), una sorta di monologo mascherato da discussione. Per non parlare del film di animazione «Z la formica» (1998), storia dell’emancipazione operaia e del trionfo dell’amore, una sorta di «favola morale». La lettera Z è l’ultima dell’alfabeto latino, sesta dell’alfabeto ellenico, deriva dal segno fenicio «zain» che significa arma (anche in ebraico). E qui torniamo ai blindati e il cerchio si chiude.

Z, Bandiere Rosse, omini verdi: la guerra in Ucraina al tempo dei social. Andrea Lombardi su Cultura Identità il  12 Marzo 2022 su Il Giornale.

Se in guerra la prima vittima è la verità dell’informazione, questo adagio trova una profonda conferma nella prima guerra europea di una superpotenza nel secolo della post verità e della comunicazione social. Vediamo qui di seguito di approfondire alcuni aspetti controversi del conflitto, messi in risalto da molti media più ansiosi di scoop e di generare polemiche tra gli utenti, foriere di click e di visibilità, che di informare il proprio pubblico.

Le Z bianche sui mezzi militari russi: al di là delle congetture più o meno esoteriche, le varie vistose lettere bianche dipinte in grandi dimensioni sui corazzati e veicoli di supporto delle forze armate russe impiegati nell’invasione dell’Ucraina rispondono alla doppia esigenza di distinguere i propri mezzi da quelli ucraini, il cui esercito impiega un gran numero di carri armati e veicoli portat ruppe e da combattimento dello stesso tipo di quelli russi, minimizzando pertanto il rischio di fuoco amico, metodo già usato dall’Armata rossa sui propri carri armati T-34 e JS-2 Stalin impiegati negli accaniti combattimenti nelle città delle province orientali della Germania nel 1944-1945, dove le ben visibili bande orizzontali bianche dipinte sulle torrette servivano a distinguerli subito tra la polvere degli edifici colpiti dall’artiglieria e il fumo degli incendi negli scontri strada per strada. Un’altra teoria è che le lettere possano distinguere i gruppi strategici d’appartenenza dei reparti, come le “K” e “G” bianche denotanti i Panzer delle armate corazzate dei famosi comandanti tedeschi von Kleist e Guderian durante l’operazione Barbarossa del 1941.

Anche le bandiere rosse esibite su diversi MBT e AFV russi in questi giorni e rilanciate polemicamente sui Social non rispondono tanto come sottolineato da diversi media e utenti a una revanche putiniana dell’Armata rossa e del Bolscevismo – Putin si ispira più che altro a una sorta di neo zarismo autoritario cristiano ortodosso, più che all’URSS –, quanto allo spirito di corpo delle unità carriste russe, mostrato appunto con la bandiera che ricorda i sanguinosi combattimenti dei carri russi contro quelli tedeschi, e un supporto morale legato all’“Avanti verso ovest!” di questi reparti nelle fasi finali della seconda guerra mondiale.

Al contrario, i media e commentatori più faziosi e acritici strumentalizzano il Battaglione (poi Reggimento) Azov per fare – letteralmente – di tutta l’erba un fascio accusando Kiev e il suo esercito di “nazismo”, come da pseudo motivazione dell’invasione da parte di Putin, peraltro. Ebbene, se il Battaglione sicuramente ha delle radici nella destra radicale o quantomeno nazionalista, esso si è negli ultimi anni trasformato in una unità d’élite tout court incorporata nell’esercito ucraino e sottoposto formalmente alla sua catena di comando, compresi gli addestramenti da parte NATO, in seguito revocati a causa delle polemiche sulla nomea del reparto, mentre i suoi membri più politicizzati si sono dedicati alla politica locale. In ogni caso, la forza dell’unità variava attorno ai 1.000-2.000 effettivi, quindi il dipingere le intere forze armate e paramilitari ucraine di 200.000-400.000 uomini come “naziste”, o financo un’intera nazione, sulla base di un percentuale marginale dei loro membri ci sembra un esercizio di disonestà intellettuale raramente superato.

Riguardo agli “omini verdi” russi, assurti all’onore dei mass media dalla crisi russo-ucraina del 2014, ossia i militari di diverse unità speciali russe, pesantemente armati e senza contrassegni e fregi, apparsi in Crimea a presidio di infrastrutture strategiche, anche qui nessuna novità: diverse nazioni hanno usato forze non convenzionali senza contrassegni di nazionalità per operazioni speciali nel corso dei tempi, talvolta avendo però l’accortezza di impiegare uniformi e armamenti non immediatamente riconducibili a quelli in quel momento in uso nelle proprie forze armate: fu questo il caso di una delle uniformi mimetiche più famose, la tenuta “Tiger Stripe” immortalata nel film “Apocalypse Now” usata dalle forze speciali americane e dai combattenti delle minoranze etniche Nung e Montagnard durante la guerra del Vietnam.

L'industria della Z: il merchandise col simbolo dei tank russi spopola sui social. Daniele Dell'Orco il 13 Marzo 2022 su Il Giornale.

Nei primi giorni di guerra in Ucraina persino Amazon vendeva t-shirt e felpe con quella che in Occidente è già stata ribattezzata "la svastica di Putin". Una parte del ricavato finanzia l'esercito di Mosca.

In Occidente è già stata rinominata "la svastica di Putin". La lettera Z, comparsa già ad inizio febbraio sui carri armati e sui mezzi militari dell'esercito russo lasciando presagire un imminente uso in battaglia, è diventata in breve tempo un segno di appartenenza, una bandiera del nazionalismo russo.

Dal punto di vista comunicativo, al Cremlino hanno ideato una gigantesca operazione di marketing derivante dallo straordinario tam tam generato in mezzo mondo, nel tentativo di "decifrare" il suo significato sotteso. Coprendo con l'alone di mistero che nello storytelling, letterario, cinematografico, storico, rappresenta sempre un valore aggiunto, la Russia ha ben presto mitizzato quella lettera e ciò che sta a rappresentare.

Gli stessi russi, all'inizio, erano molto restii ad aiutare gli occidentali a risolvere l'enigma, e una circolare del Ministero della Difesa è stata diffusa solo il 3 marzo, oltre una settimana dopo l'inizio di quella che in Russia deve, per forza, essere chiamata "operazione militare speciale".

È pressoché certo, ed è stato già ricostruito, che le lettere sui mezzi militari, Z e V, siano state apposte per indicare geograficamente le coordinate di attacco ("Zapod" significa Ovest, "Vostok" significa Est), ma pure per differenziare l'esercito russo da quello ucraino che in parte dispone di dotazioni uguali.

Ma nella sua circolare il Ministero ha spiegato che la Z è stata scelta perché sarebbe l'iniziale di "Za pobedy", espressione russa che vuol dire "per la vittoria". La V, invece, si riferisce alle espressioni "forza della verità" ("V Pravde") e "la missione sarà compiuta" ("vypolnena"). In effetti, in molte città russe, da Samara a Vladivostok, da Sochi a Irkutsk, nei mega cartelloni pubblicitari di strade, piazze ed edifici oltre all'onnipresente Z (accompagnata dall'hashtag "non lasciamoli soli") compare talvolta direttamente la sillaba "Za".

Un'altra interpretazione molto popolare in Russia e pressoché inedita rispetto alle altre è che la Z stia per "zashchita", parola che significa "difesa", conformemente alla narrazione russa secondo cui il popolo del Donbass debba essere protetto, ma per estensione sia il popolo russo che quello ucraino debbano essere difesi dall'Occidente.

Di sicuro c'è che la Z è ormai un simbolo di putinismo. A Mosca ma anche nelle altre regioni della Federazione Russa è stata sfoggiata da politici, star e atleti. Qualcuno l'ha già ostentata anche fuori dai confini nazionali, come il ginnasta ventenne Ivan Kuliak, che nella Coppa del Mondo in Qatar si è presentato sul podio delle parallele (è arrivato terzo) indossando un body con una la Z in bella mostra sul petto. Ma se alcuni Paesi europei stanno già ragionando modi per bandirne l'utilizzo nazionalista (come Repubblica Ceca e Slovacchia), in Russia è d'ufficio dappertutto: su auto, furgoni, mezzi pubblici come i treni, con i direttori dei depositi che hanno ricevuto una circolare speciale che li obbliga a dipingere la Z e la V su tutte le locomotive e inviare prova fotografica.

Oltre a un fenomeno comunicativo virale sui social russi, la Z ha inaugurato un intero settore di merchandise. Compare su t-shirt, felpe, cappellini e accessori vari, capaci di creare un giro d'affari milionario non solo nella stessa Russia ma anche nei Paesi in cui non manca tra la gente il sostegno al Cremlino, come Serbia, Montenegro e Siria. Per un periodo, specie nei primi giorni della campagna militare, addirittura su Amazon si moltiplicavano le inserzioni con la vendita di maggliette (da 15 a 30 euro circa), col sito di e-commerce costretto in fretta e furia a rimuovere gli articoli dopo una sollevazione prima da parte degli utenti che l'avevano segnalato e poi per via delle policy di contrasto al sentimento filoputiniano messo in campo dai colossi, anche commerciali, occidentali.

Ma il fatto che non siano su Amazon cambia poco, perché su Telegram, per non parlare del social russo VKontacte, le inserzioni circolano ancora numerose, accompagnate da messaggi di sostegno all'esercito russo e anche di contributo economico derivante dalla vendita dei prodotti.

Altro che oro alla patria, oggi la guerra si finanzia anche così.

Hockeisti russi formano in campo la lettera «Z». La reazione internazionale: «Sospendeteli a vita». Lorenzo Nicolao Il Corriere della Sera il 14 Marzo 2022.

I giocatori di bandy della SKA Neftyanik della Dinamo Mosca, del Vodnik e del Kuzbas si sono messi prima della partita a formare la lettera che contraddistingue i mezzi militari russi che hanno invaso l'Ucraina.  

Sono scesi in campo per disputare quella che poteva essere una delle tante partite del campionato nazionale di bandy, una versione dell’hockey, ma sul ghiaccio i giocatori di alcune squadre russe hanno prima deciso di disporsi per formare una Z. La lettera è ormai il simbolo che manifesta il sostegno all’invasione dell’Ucraina, apparso per la prima volta sui carri armati russi dell’operazione militare, per invocare il motto «Za pobedu» (che in italiano si traduce con «Per la vittoria»). Come il ginnasta Ivan Kuliak prima di loro (con la Z mostrata sul petto al momento della premiazione a Doha), anche gli hockeisti hanno deciso di manifestare in questo modo il sostegno all’iniziativa bellica unilaterale del loro presidente.

Le reazioni

Protagonisti dell’episodio i giocatori di quattro club: l’Ska Neftyanik, la Dinamo Mosca, il Vodnik e il Kuzbas, che hanno generato un vero e proprio scandalo per la loro scelta di formare con i loro corpi la lettera che viene ormai associata ai sostenitori del Cremlino. Una scelta di fatto premeditata, con l’iniziativa coordinata degli atleti che avrebbero giocato due partite differenti di campionato. Le squadre coinvolte sono da sempre quelle tradizionalmente più vicine al governo, avendo una storia molto legata all’Unione sovietica, dal momento che l’Ska Neftyanik, per esempio, è stato perfino frutto dell’unione tra il club dell’allora esercito sovietico l’Ska e il Neftyanik, la rappresentativa delle principali compagnie petrolifere del Paese. La Dinamo Mosca, il club più antico, ha invece avuto in passato una relazione molto stretta con il Ministero degli Affari interni dell’Urss e il Kgb, i servizi segreti sovietici. Lo sport, molto seguito nel Nord Europa e «Oltrecortina» era già stato escluso da ogni competizione internazionale, ma per le federazioni di Russia e Bielorussia i giocatori non rinunciano a dare un’ulteriore testimonianza di sostegno al proprio Paese, protestando anche per le sanzioni adottate dalla Federazione internazionale della disciplina. Di fronte a questo provvedimento, le nazioni interessate avevano perfino creato tornei alternativi, per rispondere all’ostracismo subito. 

I protagonisti

Non sono mancate immediate reazioni di sdegno, rabbia e sconcerto, non solo nell’ambiente sportivo. Molti messaggi sono apparsi sui social network, tra i quali chi chiede una sospensione a vita per i giocatori che hanno agito in questo modo, con la federazione internazionale di bandy ora chiamata a prendere provvedimenti. Il quotidiano svedese «Aftonbladet» specifica però che non tutti gli atleti che sono scesi in campo hanno manifestato e formato la Z. Simon Jansson, giocatore del Kuzbas, ha subito preso le distanze dal gesto, raccontando poi negli spogliatoi quanto fosse scioccato per l’accaduto. Alla fine di marzo nella città russa di Syktyvkar avrebbero dovuto svolgersi anche i campionati del mondo di bandy, prima femminili e poi maschili. Di fronte ai boicottaggi da parte delle altre nazionali, Svezia, Finlandia e ovviamente Ucraina in primis, la stessa federazione internazionale aveva però comunicato il rinvio, secondo quanto suggerito agli organi sportivi di ogni disciplina dallo stesso Comitato olimpico internazionale. 

Chi è Ivan Kuliak, il ginnasta della Z: un anno fa il servizio militare. «Se mi capitasse l’occasione, lo rifarei di nuovo». Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera l'8 Marzo 2022.

Il ginnasta che ha mostrato la Z sulla tuta: «Ho coperto la bandiera, gli ucraini hanno cantato Gloria all’Ucraina». L’allenatrice: «Un’iniziativa personale e voluta, tutti gli atleti sono patriottici. Una reazione alle sanzioni inflitte agli atleti russi». 

«Eravamo noi a essere trattati male dagli ucraini, non il contrario». Dopo il caso scoppiato intorno alla «Z» sul petto mostrata con orgoglio sul podio della Coppa del mondo a Doha, il ginnasta russo Ivan Kuliak ha provato a manifestare le sue ragioni. Il 20enne si sarebbe difeso su Telegram subito dopo essere finito sotto indagine da parte della federazione. «Ho coperto la bandiera come mi è stato chiesto di fare, ma volevo far capire chi fossi. Per me la Z rappresenta “la vittoria e la pace”. Sono rimasto in silenzio quando, avvolti nella loro bandiera, i nostri rivali hanno cantato “Gloria all’Ucraina”. Secondo le regole di gara non sarebbe consentito, ma nessuno li ha richiamati. Hanno anche chiesto che fossimo espulsi, ma noi atleti russi non abbiamo fatto male a nessuno».

Poi però, intervistato da Russia Today ha rincarato la dose: «Se ci fosse una seconda possibilità e potessi scegliere se far vedere la lettera “Z” sul mio petto o no, lo rifarei».

L’analisi

Le sue parole si sono aggiunte a quelle dell’allenatrice Valentina Rodionenko. «Sicuramente è stata un’iniziativa personale e voluta. Tutti i nostri ragazzi sono patrioti, sempre pronti a difendere e onorare la patria», così al canale russo Match Tv, difendendo il suo ginnasta. La lettera era stata subito ricondotta a quella utilizzata dai carri armati russi che hanno invaso l’Ucraina, con l’acronimo si riferisce all’espressione «Za pobedu», ovvero «per la vittoria». Secondo tutti gli osservatori una provocazione che in questa occasione il 20enne, classificatosi come terzo, ha voluto indirizzare a Illia Kovtun, vincitore ucraino della medaglia d’oro. «Non si era consultato con noi prima di farlo», continua l’allenatrice della federazione russa, senza condannare ma giustificando il gesto. «Non ci sembra altro che una dichiarazione di patriottismo, una reazione all’accerchiamento, all’ostracismo e alle sanzioni che tutte le Federazioni hanno inflitto agli atleti russi delle differenti discipline, dal calcio alla Formula 1. Quindi è stata solo una manifestazione del suo senso di appartenenza». 

Il servizio militare

Il comportamento sconsiderato di Kuliak mostra la fierezza con la quale credeva di rappresentare «l’operazione militare speciale della sua Russia»: solo un anno fa stava concludendo il percorso di leva miliare a Balashikha, sito di una grande base militare nel Paese, come anche testimoniato da una foto postata sul suo account Instagram. Nonostante qualche tempo fa lo stesso Vladimir Putin avesse detto di volerla abolire, l’obbligatorietà della leva in Russia è ancora vigente per tutti i maschi tra i 18 e i 27 anni, per la durata di 12 mesi. L’atleta deve quindi averla conclusa subito, in modo da potersi concentrare solo sulla sua carriera agonistica, che ora rischia però di accusare l’azzardato gesto di Doha.

Le reazioni

La federazione internazionale di ginnastica, di fronte dell’intenzionalità del gesto, è quindi pronta a squalificare e sanzionare Kuliak, un provvedimento al quale anche la ginnastica italiana è completamente favorevole. Il presidente della Federginnastica Gherardo Tecchi ha definito il gesto «fuori luogo», complimentandosi anche con il rivale ucraino che non ha reagito in alcun modo alla provocazione. Ancora più duro l’olimpionico Jury Chechi, che ha definito quello del ginnasta russo «il deplorevole gesto di un imbecille». Ma non solo. «Lo sport è esattamente il contrario di quello che voleva mostrare questo ragazzo», ha detto il campione italiano che ha vinto in carriera una medaglia d’oro e cinque Mondiali. «In un contesto tanto difficile è una voce fuori dal coro, perché tutti i miei amici ucraini e russi, indipendentemente dalla loro nazionalità, stanno soffrendo moltissimo per questa guerra».

Le armi della resistenza. di Gianluca Di Feo su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2022.

JAVELIN

È lo strumento più sofisticato e potente. Si tratta di un missile “fire and forget” – spara e dimentica – perché dirige automaticamente sul calore del motore. Con una particolarità: le ultime versioni sono programmate non per colpire la fiancata dei tank – dove la corazza è più spessa - ma per attaccare per la parte alta della torretta, ossia la zona meno protetta del veicolo. Per difendersi, i russi hanno installato “tettoie” di tubi d’acciaio sopra le torrette: una soluzione che non pare funzionare. I Javelin sono di produzione statunitense e sono stati forniti a Kiev dagli Usa: ciascuno pesa 22 chili ed è lungo 120 centimetri.

NLAW

Un’arma ancora più evoluta, progettata dagli svedesi in collaborazione con i britannici. Pesa meno dei tredici chili ed è facilissima da utilizzare: Boris Johnson ne ha fatti arrivare duemila all’esercito ucraino. È studiato per accendere il motore principale solo dopo alcuni secondi in modo da non svelare la posizione di chi lo ha lanciato: un elemento fondamentale nelle imboscate. Pesa solo 12 chili e mezzo ed è letale fino a 600 metri. Anche il Nlaw ha un sistema di guida che dirige il lancio contro la parte superiore dei mezzi corazzati.

PANZERFAUST 3

Sono ordigni più semplici, senza un sistema di guida, che pesano solo 3.300 grammi: verranno forniti all’Ucraina da Germania e Italia. Per questo possono venire utilizzate anche da civili senza addestramento. Sono di produzione tedesca e hanno mantenuto il nome dei piccoli razzi costruiti dal Terzo Reich nell’ultima fase della seconda guerra mondiale, destinati anche ai bambini della milizia popolare mandata al massacro nella difesa di Berlino. I Panzerfaut 3 sono stati adottati pure dall’Italia: i nostri soldati li hanno usati nei combattimenti in Afghanistan. La distanza utile è di trecento metri e perfora blindature spesse 7 centimetri.

RPG

L’icona mondiale della guerriglia negli ultimi sessant’anni, dall’Angola al Vietnam, dall’Afghanistan all’Iraq. La sigla significa “lanciagranate portatile anticarro” - granata propulsa da un razzo - e ne descrive il funzionamento elementare: una granata sparata da un fucilone. Rpg ha la fama di un guastarsi mai e garantire sempre un’arma contro i mezzi blindati. Le versioni più vecchie non sono in grado di penetrare le corazza dei carri armati, ma gli ucraini dispongono anche di versioni più potenti. Esistono anche modelli di granate esplosive progettate per colpire i rifugi della fanteria.  

LA DIFESA DEGLI IRON DOME. Invasione Ucraina, la scelta di Israele che poteva cambiare gli equilibri della guerra. DAVIDE LERNER su Il Domani il 26 febbraio 2022.

L’Iron Dome dal 2011 è il pilastro centrale della strategia di difesa israeliana: permette di intercettare in aria i missili in arrivo, e da tempo faceva gola a Kiev.

Secondo quanto siamo riusciti a ricostruire, Volodymyr Zelensky ha insistito con l’omologo israeliano per avere il sistema durante una visita ad ottobre, ma senza successo. Mosca è decisiva per lo Stato ebraico soprattutto in Siria.

Un esperto del think tank inglese Rusi dice che il sistema avrebbe colmato le gravi lacune dell’esercito ucraino in fatto di difese anti aeree, ma difficilmente sarebbe stato decisivo.

DAVIDE LERNER. Giornalista. Ha lavorato per tre anni a Tel Aviv presso il quotidiano Haaretz e scritto per Repubblica da Israele, Cisgiordania e Gaza. Collabora con vari think-tank fra cui l’ISPI e ha lavorato per le agenzie AP e AFP. 

L'esercito ucraino impreparato. La guerra impari Mosca-Kiev tra missili, aerei e carri armati. Gian Micalessin il 25 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Per comprendere la disparità delle forze in campo sullo scacchiere ucraino bisogna tornare alla precedente invasione comandata da Putin per arginare l'espansione della Nato.

Mosca. Per comprendere la disparità delle forze in campo sullo scacchiere ucraino bisogna tornare alla precedente invasione comandata da Putin per arginare l'espansione della Nato. Era l'agosto del 2008 e la macchina militare russa si mobilitò per punire la Georgia colpevole di aver flirtato con Usa e Alleanza Atlantica. Ma non fu un successo. L'avanzata delle truppe di Mosca venne rallentata da guasti, carenze tecniche e totale mancanza di coordinamento. Dietro quei problemi c'era l'obsolescenza di un’armata ereditata dall'Unione Sovietica. La sofferta vittoria convinse Vladimir Putin a voltare pagina sostituendo uomini e mezzi.

Alla Difesa arrivò l'ex governatore della regione di Mosca Sergey Shoigu. Il comando delle forze armate passò, invece, nelle mani del generale Valery Gerasimov. Insieme i due avviarono una radicale riforma delle forze armate garantita da un bilancio più che raddoppiato. Grazie a una spesa che oscilla tra 135 e i 160 miliardi di euro all'anno i due hanno sostituito con modelli di nuova generazione un quarto dei mezzi e delle attrezzature militari. Grazie a quella pioggia di miliardi è stata completamente innovata la flotta aerea che oggi dispone di oltre 2.300 aerei da combattimento e 1.500 elicotteri. Tra gli aerei spicca l'Su 35, un caccia multiruolo arrivato al battesimo del fuoco in Siria a fine 2015. Tra gli elicotteri d'assalto l'Mi 28 rappresenta l'equivalente degli Apache americani e dei nostri Mangusta ed è stato ampiamente utilizzato nelle manovre di assistenza tattica ai carri armati entrati in Ucraina. Per quanto riguarda le unità corazzate i ritardi nella progettazione hanno ritardato l'entrata in esercizio del T14 Armata, un tank di prossima generazione studiato appositamente per garantire quelle piena integrazione tra guerra convenzionale, elettronica e ibrida di cui il generale Gerasimov è un vero cultore. L'esercito entrato in Ucraina può comunque contare su 20mila carri di combattimento. Tra questi il modello di punta resta ancora quel T 90 che, nonostante i venti anni di servizio e la discendenza dal vecchio T72 sovietico ha dato buona prova sul fronte siriano.

Ma il vero capolavoro di Gerasimov e Shoigu è stata la realizzazione dei progetti di «ricognizione e attacco» basati sulla trasmissione in tempo reale alle forze d'assalto dei dati raccolti da droni, satelliti e incursori incaricati di osservare movimenti e spostamenti del nemico. Seppur inferiore tecnologicamente al modello americano lo stretto coordinamento elettronico tra campo di battaglia, comandi e mezzi di ricognizione ha trasformato la mastodontica macchina militare dell'era sovietica in una struttura agile. I cosiddetti battaglioni d'assalto, costituiti mettendo assieme carri, elicotteri fanteria meccanizzata, droni e sistemi di contraerea mobili come il Pantsir S 1, rappresentano dei mini-eserciti praticamente autonomi sul campo di battaglia.

Altri investimenti chiave sono stati i missili Iskander, Kalibr e Kh 101 capaci di colpire con precisione obbiettivi distanti centinaia di chilometri. Sperimentati anch'essi in Siria si sono rivelati decisivi per l'eliminazione dei radar e dei centri di comunicazione delle forze ucraine. E a far la differenza contribuisce l'esperienza di almeno 70mila reduci dei campi di battaglia siriani. Un numero minimo rispetto a un esercito di un milione di soldati reclutati, almeno per il 30%, con il vecchio sistema della leva. Ma comunque una punta di diamante capace di far la differenza rispetto al neonato, impreparato e male armato esercito ucraino.

Mirko Molteni per "Libero Quotidiano" il 14 febbraio 2022.

La sfida fra Russia e America si gioca non solo coi missili più sofisticati, ma anche sul terreno, col potenziale scontro tra fanterie nelle pianure boscose dell'Europa Orientale. E il buon vecchio fucile, lungi dall'essere un'arma desueta, si riconferma invece la base di quel sistema da combattimento semplice e insieme irrinunciabile che è il soldato, colui che fisicamente occupa un territorio e lotta per tenerlo.

Gli americani sembravano aver un po' tralasciato i progressi nel settore, a dispetto dei russi, ma stanno riguadagnando il terreno perduto anche grazie all'aiuto italiano. Già, perché da gennaio 2022 è stato confermato che la celebre Beretta, la più famosa fabbrica italiana di armi da fuoco, che opera da secoli a Gardone Val Trompia, in provincia di Brescia, partecipa insieme alle americane True Velocity e General Dynamics al progetto del nuovo fucile d'assalto RM277 in gara con l'industria svizzera SIG Sauer, che propone il suo fucile d'assalto MCX.

La gara d'appalto dovrebbe concludersi quest' anno e portare nel 2023 ai primi ordinativi, che potrebbero fruttare alla Beretta 5 miliardi di dollari.

È stata indetta dall'US Army per sostituire, gradualmente, le attuali armi individuali in calibro 5,56 mm e 7,62 mm per passare a un nuovo calibro standard, per gli americani e in prospettiva anche per la Nato, cioè il 6,8 mm. 

È il programma Next Generation Squad Weapon (NGSW), in base al quale è già stata la nuova cartuccia, che assicura potenza e gittata superiori a quelle precedenti e inoltre, avendo il bossolo in materiali compositi, risulta più leggera del 30% di quelle tradizionali.

L'idea è frutto delle esperienze in Iraq e Afghanistan, dove i soldati americani si sono spesso trovati a malpartito con i loro fucili M16 (che debuttarono nel 1964 nella guerra del Vietnam) e ai loro derivati moderni M4 (operativi dal 1994) dato che le munizioni da 5,56 mm si rivelavano troppo leggere. 

Parimenti, si vuole anche eliminare il vecchio calibro 7,62 e perciò il programma NGSW prevede anche la sostituzione delle mitragliatrici di squadra con armi in 6,8 mm, considerato il nuovo calibro intermedio che dovrebbe essere adatto sia ai fucili d'assalto, sia alle mitragliatrici da bipiede.

Fra gli scopi, non solo consentire ai soldati di portare più munizioni, ma anche di garantire un tiro letale utile su distanze di oltre 600 metri. Certo, la rivoluzione del calibro non sarà breve, dato che le immense scorte di armi e munizioni accumulate, faranno sì che per molti anni vecchi e nuovi fucili conviveranno nelle caserme e sui campi di battaglia. 

Ma è degno di nota come la maggior "rivoluzione" nel campo della fanteria occidentale degli ultimi decenni. In Russia, invece, già fra il 2017 e il 2018 sono entrate in servizio nuove armi per la fanteria che si sono affiancate alle precedenti.

Rispetto all'originario AK-47 Kalashnikov apparso nel 1948 e camerato per proiettili da 7,62 mm, nonché proverbialmente più robusto e affidabile dell'M16 americano, i russi passarono anch'essi a un calibro inferiore, il 5,45 mm, già in epoca sovietica con l'AK-74 del 1974, ma non rinunciano al 7,62 mm che assicura sempre una notevole potenza d'urto. 

Così, quattro anni fa sono iniziate le consegne del nuovo Kalashnikov AK-12, da 5,45 mm, ma anche di una sua versione, l'AK-15, che mantiene il formato 7,62 mm. Calibrata 5,45 è anche una nuova versione, A-545, del fucile AEK-971 fabbricato non dalla Kalashnikov, ma dal conglomerato Degtyaryov, e destinato soprattutto alle forze speciali.

Il bello è che i russi, dal 2014 hanno anche sviluppato concretamente un loro programma di dotazioni avanzate per la fanteria, denominato "Ratnik" ("Guerriero") che è composto da un set di nuovi elmetto e protezioni antiproiettile integrati a occhiali a visione notturna e infrarossa e apparati di comunicazioni e posizionamento GPS o Glonass (il corrispettivo russo del GPS) per migliorare l'efficienza del soldato in battaglia.

Il complesso Ratnik appare meno sofisticato e meno ambizioso dei vari progetti "Future Soldier" che gli Stati Uniti hanno più volte strombazzato negli ultimi vent'anni, pubblicando idee ben corredate da disegni che mostravano soldati in tuta quasi spaziale, come gli imperiali dei film di fantascienza di "Guerre Stellari", farciti di elettronica e di materiali avveniristici (e perciò costosissimi).

Ma i progetti americani, troppo costosi e poco pratici, sono stati via via annullati. Per citarne solo due, il programma Soldier 2025, lanciato nel 2004, fu in pratica abortito nel 2007, mentre il Future Soldier 2030, pure visse solo dal 2009 al 2015 nei laboratori dei progettisti senza sbocco pratico. 

Gli americani hanno più volte sognato elmetti e corazze fantascientifiche con nanotecnologie e sensori integrati, che si sono rivelati sono fole del complesso militar-industriale statunitense nella speranza di fare cassa, ma senza utilità tattica.

I russi, invece, più orientati a sistemi meno sofisticati, ma più fattibili e dall'utilità più schietta, hanno realizzato, col Ratnik, un set da combattimento alla portata anche di fanterie numerose. 

Lo hanno dispiegato sul campo per la prima volta nel 2014, all'annessione della Crimea, producendolo finora in oltre 300.000 esemplari, che potrebbero vendere anche a Cina, Serbia, Bielorussia ed Egitto.

L’orrore delle bombe termobariche: cosa possono distruggere. Paolo Mauri l'1 Marzo 2022 su Il Giornale.

In Ucraina si sono visti, sin dai primi giorni di guerra, lanciarazzi che possono utilizzare esplosivo termobarico. Si tratta di ordigni che sfruttano l'elevato calore e pressione per poter penetrare in profondità all'interno di tunnel e fortificazioni.

La guerra in Ucraina ha portato alla ribalta il munizionamento termobarico: sul fronte, e nelle fasi preparatorie del conflitto, si sono visti i mezzi russi TOS-1A, dei veicoli lanciarazzi su scafo di un carro T-72, in grado di sparare una salva di razzi – sul modello “Katyusha” - che possono avere nella loro testata bellica questo tipo particolare di esplosivo.

Fanno parte delle cosiddette “armi volumetriche”, che includono anche esplosivi FAE (Fuel Air Explosives). Sia il termobarico che il FAE operano su principi tecnici simili. Nel caso degli esplosivi “ad aria compressa”, quando un proiettile contenente un combustibile sotto forma di gas, liquido o polvere esplode, questo viene sparso nell'aria per formare una nuvola che viene quindi “accesa” per creare un'onda d'urto estesa che produce sovrappressione e si espande in tutte le direzioni. In un'arma termobarica, il carburante è costituito da un monopropellente e particelle energetiche. Il monopropellente esplode in modo simile al TNT mentre le particelle energetiche bruciano rapidamente nell'aria circostante dopo brevissimo tempo, provocando un'intensa palla di fuoco e un'elevata sovrappressione. Il termine “termobarico” deriva infatti dagli effetti della temperatura e della pressione combinati sul bersaglio.

Il munizionamento termobarico è stato utilizzato da molte nazioni del mondo e la loro proliferazione è un'indicazione di quanto efficacemente queste armi possano essere impiegate in terreni urbani e complessi. Infatti la particolare capacità delle armi termobariche di fornire elevati calore e pressione in un singolo momento non può essere riprodotta dagli esplosivi convenzionali senza una massiccia distruzione collaterale.

Le armi termobariche hanno anche un particolare utilizzo dato proprio dalle elevate temperature che possono raggiungere a seconda dei componenti utilizzati (polvere di alluminio o magnesio in qualità di particolato energetico): si prestano infatti per la neutralizzazione di esplosivi con carica chimica anche del tipo nervina.

L'impiego generico che se ne fa, però, è rivolto a un certo tipo di bersagli come tunnel o una rete di bunker per eliminare il personale grazie all'onda d'urto e al calore. La maggior parte di quelli che vengono definiti Hard and/or Deeply Buried Targets (HDBT), vale a dire i tunnel nella roccia, sono così profondi che le armi convenzionali presenti negli attuali inventari delle forze armate, non possono penetrare a profondità sufficienti per colpire direttamente i loro bersagli, siano essi personale o assetti particolari come sistemi di comunicazione, comando e controllo. Se la detonazione di un'arma termobarica avviene internamente a una struttura rinforzata (come un bunker) o semplicemente in un tunnel, il suo effetto si amplifica per questioni legate alla concentrazione dell'onda d'urto. La maggior parte dell'energia si sviluppa sotto forma di calore, che può raggiungere, al centro dell'esplosione, anche i 2500/3000 gradi centigradi.

Le armi termobariche sono presenti in entrambi gli arsenali di Russia e Stati Uniti: le più grandi e potenti in assoluto sono la GBU-43/B “MOAB”, acronimo di Massive Ordnance Air Blast (ma soprannominata Mother of All Bombs), che è stata utilizzata per la prima volta in Afghanistan il 13 aprile del 2017, e la controparte russa, la FOAB (Father of All Bombs), che in realtà in russo prende il nome di Aviation Thermobaric Bomb of Increased Power (ATBIP).

Queste due bombe vengono però usate principalmente allo stesso modo di un altro ordigno, ampiamente usato durante il conflitto in Vietnam: la BLU-82 “Daisy Cutter”, anch'essa a carica termobarica. Il concetto operativo è quello di ripulire una determinata area dalle mine, oppure creare una zona libera da vegetazione per l'atterraggio di elicotteri, solo successivamente è stata usata anche come arma psicologica durante il conflitto contro l'esercito iracheno.