Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

ANNO 2022

L’ACCOGLIENZA

SETTIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI EUROPEI

I Muri.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i finlandesi.

Quei razzisti come i belgi.

razzisti come i francesi.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli inglesi.

Quei razzisti come i cechi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i serbi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AFRO-ASIATICI

 

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come i libici.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come gli ugandesi.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come i sudafricani.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come gli arabi sauditi. 

Quei razzisti come i qatarioti.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli iracheni.

Quei razzisti come gli afghani.

Quei razzisti come gli indiani.

 Quei razzisti come i singalesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come i kazaki.

Quei razzisti come i russi.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i filippini.

Quei razzisti come i giapponesi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AMERICANI

 

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i peruviani.

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i colombiani.

Quei razzisti come i brasiliani.

Quei razzisti come gli argentini.

Quei razzisti come gli australiani.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.

I LADRI DI NAZIONI.

CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.

I SIMBOLI.

LE PROFEZIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. PRIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SECONDO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. TERZO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUARTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUINTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SESTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SETTIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. OTTAVO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. NONO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. DECIMO MESE.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE MOTIVAZIONI.

NAZISTA…A CHI?

IL DONBASS DELI ALTRI.

L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.

TUTTE LE COLPE DI…

LE TRATTATIVE.

ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.

LA RUSSIFICAZIONE.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.

IL FREDDO ED IL PANTANO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE VITTIME.

I PATRIOTI.

LE DONNE.

LE FEMMINISTE.

GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.

LE SPIE.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.

LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.

LA GUERRA ENERGETICA.

LA GUERRA DEL LUSSO.

LA GUERRA FINANZIARIA.

LA GUERRA CIBERNETICA.

LE ARMI.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA DETERRENZA NUCLEARE.

DICHIARAZIONI DI STATO.

LE REAZIONI.

MINACCE ALL’ITALIA.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

IL COSTO.

L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.

PSICOSI E SPECULAZIONI.

I CORRIDOI UMANITARI.

I PROFUGHI.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

I PACIFISTI.

I GUERRAFONDAI.

RESA O CARNEFICINA? 

LO SPORT.

LA MODA.

L’ARTE.

 

INDICE DODICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

PATRIA MOLDAVIA.

PATRIA BIELORUSSIA.

PATRIA GEORGIA.

PATRIA UCRAINA.

VOLODYMYR ZELENSKY.

 

INDICE TREDICESIMA PARTE

 

La Guerra Calda.

L’ODIO.

I FIGLI DI PUTIN.

 

INDICE QUATTORDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’INFORMAZIONE.

TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA. 

 

INDICE QUINDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA PROPAGANDA.

LA CENSURA.

LE FAKE NEWS.

 

INDICE SEDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.

LA RUSSOFOBIA.

LA PATRIA RUSSIA.

IL NAZIONALISMO.

GLI OLIGARCHI.

LE GUERRE RUSSE.

 

INDICE DICIASSETTESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CHI E’ PUTIN.

 

INDICE DICIOTTESIMA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…le Foibe.

Lo sterminio comunista degli Ucraini.

L’Olocausto.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Il Caso dei Marò.

Che succede in Africa?

Che succede in Libia?

Che succede in Tunisia?

Cosa succede in Siria?

 

 

L’ACCOGLIENZA

SETTIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Guerra Calda.

LE VITTIME.

(ANSA il 17 giugno 2022) - L'Ufficio dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) ha reso noto che dall'inizio dell'invasione russa sono stati uccisi 4.481 civili. I feriti sono invece 5.565. Lo scrive Ukrinform. Secondo l'ultimo aggiornamento, le vittime includono 1.739 uomini, 1.159 donne, 119 ragazze e 125 ragazzi, oltre a 40 bambini e 1.299 adulti il cui sesso è ancora sconosciuto. La maggior parte dei civili uccisi è rimasta vittima di bombardamenti, missili e attacchi aerei.

Andrea Marinelli e Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 10 Giugno 2022.

Quello messo in atto dalla Russia è un «urbanicidio», la distruzione sistematica di infrastrutture, ferrovie, aree abitate, siti industriali, ospedali. Aaron Clements-Hunt su Newsline Magazine fa un drammatico elenco dei danni che peseranno sul futuro dell'Ucraina, chiunque sarà il vincitore. Le devastazioni sono una conseguenza della tattica «storica» dei russi: terra bruciata, livellamento di qualsiasi ostacolo, punizione per tutti.

Mosca ha sparato oltre 2 mila missili a lungo raggio contro target militari e civili, messi insieme sotto un martello pesante. Al tempo stesso la resistenza ha scelto di trasformare alcune delle sue città in roccaforti, per un'esigenza bellica ma anche politica: lasciarle in mano all'invasore sarebbe un premio all'aggressione. 

Secondo l'esperto Tom Cooper, il generale Alexandr Dvornikov mantiene un ruolo primario, ma c'è anche - forse in posizione subordinata nonostante sia vice ministro - il generale Gennady Zhidko, con compiti di riorganizzatore/coordinatore. Il sentiero di guerra è consueto: ricognizione di droni, tiro di sbarramento non importa quanto preciso, progressione modesta di Battaglioni a ranghi incompleti una volta che l'area designata è stata indebolita (o si pensa che lo sia).

Ciò spiega i tempi lenti sui quali incide la capacità del nemico, tosto però fiaccato. I racconti dalle trincee ucraine danno il senso della sofferenza. Parlano di un alto numero di militari uccisi o feriti, della necessità di ruotare ogni tre giorni i fanti per impedire che abbiano un tracollo psico-fisico, della mancanza di sostituzioni adeguate. Nei primi 100 giorni la battaglia si è portata via chi era più addestrato, ora - spiegano - sono mobilitate le seconde schiere, civili che coraggiosamente devono indossare una divisa. Alcune unità sono state spazzate via, anche fra gli invasori.

Il comando di Zelensky deve mantenere l'equilibrio di un dispositivo impegnato sui quattro punti cardinali: a sud/sud est, dove c'è il cuore del confronto; a nord c'è una vigilanza attiva al confine bielorusso, anche se Lukashenko non sembra pronto a intervenire direttamente; la tutela della capitale Kiev e la difesa di Odessa; le retrovie, con la gestione degli aiuti Nato. Il neo-zar ha invece la possibilità di scegliere dove applicare la massima potenza, scelta che attenua parzialmente i guai logistici e la carenza di truppe. I mezzi, poi, alla Russia non mancano.

Ucraina, le vittime invisibili. Antonio Scurati su Il Corriere della Sera il 10 Giugno 2022.

«Oltre 31.000 militari russi sono già morti in Ucraina. , la Russia paga ogni giorno quasi 300 vite dei suoi soldati per una guerra completamente insensata contro l’Ucraina. E comunque verrà il giorno in cui il numero delle perdite, anche per la Russia, supererà il limite consentito». Lo ha affermato Volodymyr Zelensky lo scorso 7 giugno via Telegram. E io oggi mi chiedo e vi chiedo: quando verrà il giorno in cui il numero delle vittime di questa guerra supererà per noi che la stiamo a guardare il limite consentito dalle nostre coscienze? Soprattutto: quel giorno verrà mai?

A prima vista si direbbe che quel giorno dovrebbe essere già venuto. Raggiunto e sorpassato il centesimo giorno di guerra il numero complessivo di morti e feriti, sebbene incerto e controverso, è gia enorme. Se fosse vero ciò che il presidente ucraino sostiene riguardo alle perdite russe — una cifra verosimilmente gonfiata dall’intento propagandistico — l’Armata russa avrebbe perso in cento giorni di guerra in Ucraina più soldati di quanti l’Armata Rossa ne perdette in sette anni di combattimento in Afghanistan. Se poi passiamo al conteggio dei caduti dalla parte degli aggrediti i numeri diventano addirittura abnormi. Le forze armate della resistenza ucraina ammettono ora che i caduti sono da 100 a 200 al giorno (il numero dei feriti assomma ad almeno il triplo), ma la cifra che dovrebbe precipitarci verso l’intollerabile non è ancora nella lista: l’Ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani conferma la morte di oltre 4.300 vittime civili di cui almeno 274 bambini, aggiungendo che potrebbero essere migliaia in più se si tiene conto della ecatombe di Mariupol, definita «un grande buco nero». Al macabro conteggio andrebbero sommati decine di migliaia di dispersi, centinaia di migliaia di sfollati, deportati, traumatizzati, milioni di profughi. 

Ucraina: 3.381 vittime civili. Ma secondo l'Onu sono migliaia di più

Qui, però, mi fermo perché credo che il problema sia proprio questo: il conteggio. Temo, infatti, che la nostra coscienza collettiva — la prima persona plurale si riferisce al «noi» di quelli che stanno a guardare — stia pericolosamente scivolando nel baratro della disumanizzazione delle vittime, uno dei tanti che l’atrocità della guerra rischia di aprire sotto i nostri piedi. Mi riferisco a quell’abisso morale al fondo del quale diventa vero il vecchio adagio cinico che recita: la perdita di una vita umana è una tragedia, un milione sono statistica. Temo proprio che noi spettatori più o meno sinceramente commossi dalle tragedie altrui siamo giunti al punto in cui le vittime della guerra che da tre mesi si ripete uguale a se stessa sui nostri comodi schermi siano diventati statistica. Ne è triste indizio il fatto che le vittime, e in particolare i civili, vittime per eccellenza, abbiano smesso di occupare la scena mediatica.

Se ricordate, in principio furono loro, le vittime civili, i protagonisti del racconto televisivo — nel senso di «visto da lontano» — del conflitto narrato come tragedia umana. Su di loro, sulle loro inermi vite spezzate, sui loro poveri oggetti insanguinati, sui loro corpi massacrati dalla malvagità, attirarono la nostra attenzione i coraggiosi inviati sul campo, luogotenenti della nostra inveterata inesperienza. Scortati dai racconti di chi era giunto fin laggiù, oltre i confini del mondo a noi conosciuto, scossi dalle immagini dello strazio, in principio ci emozionammo per quelle vite non nostre. Trepidazione per loro, palpitammo, perfino, di sdegno e d’orrore. L’emozione, però, lo si sa, dura il volgere di un istante. Solo i sentimenti sfidano il tempo, solo i ragionamenti, le idee radicate, i valori consolidati durano a lungo. Le emozioni no, quelle si consumano in fretta, al pari di ogni altro prodotto dell’intrattenimento di massa.

Non a caso, al centesimo giorno di guerra le vittime civili della madornale, epocale, fatidica carneficina ucraina hanno presto finito per occupare sulle home page dei nostri quotidiani online lo stesso posto accordato dallo spietato conteggio dei click al macabro ma isolato delitto di cronaca oppure al gossip sull’ennesimo idiota di successo. Il focus informativo sulla guerra in Ucraina si è spostato, intanto, dalla tragedia delle vittime civili ai costi crescenti degli idrocarburi, alla tipologia di armamenti inviati e da inviare, alla fin troppo presunta malattia del dittatore. «Che ci vuoi fare? Così va il mondo», commenterà qualcuno. La gente dopo un po’ si annoia, la gente cambia canale in fretta, per la gente alla fine l’unico conto che conti davvero è quello che tocca pagare.

Permettetemi di obiettare: così va questo mondo qui, polarizzato tra lo sciocchezzaio degli influencer e l’orrore inconcepibile di massacri mediatici. E non va affatto bene. In questo mondo, al tempo stesso torpido e sovraeccitato, il giorno in cui le tragedie della guerra supereranno il limite consentito dalla nostra coscienza non è ancora venuto per la semplice ragione che non verrà mai. In questo mondo qui, nel reame dischiuso da decenni di apprendistato alla nostra quotidiana irrealtà mediatica, la morte di un bambino dilaniato dalle bombe è già scaduta a dato statistico 

(ANSA il 24 maggio 2022) - L'Ufficio dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) ha reso noto che 3.942 civili sono morti e 4.591 sono rimasti feriti in Ucraina dall'inizio dell'invasione russa. Lo riporta Ukrinform sottolineando che tra le vittime ci sono quasi 260 bambini.

Il bilancio, secondo lo stesso Ohchr, sarebbe comunque ancora più drammatico, considerando che "le informazioni provenienti da alcuni luoghi di intensi combattimenti sono in ritardo e molti rapporti sono ancora in attesa di conferma", scrive Ukrinform.

(ANSA il 23 maggio 2022) - Il bilancio delle vittime tra le truppe russe in Ucraina nei primi tre mesi dell'invasione del Paese è simile a quello registrato dall'allora Unione Sovietica durante i suoi nove anni di guerra in Afghanistan: lo scrive l'intelligence britannica nel suo aggiornamento sulla situazione in Ucraina nel rapporto pubblicato oggi dal ministero della Difesa su Twitter.

Londra non fa una stima dei soldati morti ma evidenza che "l'elevato tasso di vittime" è dovuto a una serie di fattori, tra cui una copertura aerea limitata, una mancanza di flessibilità e un approccio di comando che rafforza i fallimenti e induce a ripetere gli errori. E le perdite, sottolinea, continuano ad aumentare nell'offensiva del Donbass. 

Questo continuo amento dei morti tra le file dell'esercito, conclude l'intelligence, potrebbe portare ad una crescente insoddisfazione da parte della popolazione russa, oltre alla sua volontà di esprimerla in pubblico.

La disumanizzazione del conflitto. La guerra in Ucraina è diventata un videogame tra droni, dirette e like: ma i morti non si contano. Astolfo Di Amato su Il Riformista il 10 Maggio 2022. 

Dura solo 47 secondi e il filmato è presente su tutte le testate di informazione on line. È in bianco e nero, con una messa a fuoco non perfetta e sembra un videogioco di qualità mediocre. Il titolo, con cui in genere è presentato è “Mar Nero, il drone ucraino distrugge la nave da sbarco russa all’isola dei serpenti”. Si vede la sagoma di una imbarcazione e, poi, d’improvviso una fiammata che avvolge tutta la scena. Quando le fiamme si dissolvono, la scena torna quasi identica a prima e l’imbarcazione sembra allontanarsi lentamente dal molo al quale era ormeggiata.

Si tratta di immagini, che fanno seguito ad altre immagini simili di mezzi militari russi colpiti: carri armati, mezzi corazzati per il trasporto di truppe, la nave ammiraglia Moskva. Ma nel filmato relativo alla distruzione del mezzo da sbarco vi è qualcosa in più. Prima della fiammata si vedono dei puntini neri che si muovono: due a prua, due a poppa ed uno sulla banchina. Dopo la fiammata, vi sono delle sagome stese: sono cinque cadaveri. Offerti alla curiosità di tutti senza nessuna pietà. Un elemento accessorio della scena. Il miglior commento sembrano essere le parole, con cui ha chiesto aiuto tramite un post su Facebook, il maggiore Serhiy Volyna, della 36esima Brigata Marina Separata in Ucraina, attualmente bloccato nell’acciaieria Azovstal di Mariupol, con le truppe del reggimento Azov: «È come se ci trovassimo in un reality show infernale, dove noi siamo i militari, combattiamo per le nostre vite, tentiamo ogni possibilità per salvarci, e il mondo intero sta solo a guardare una storia interessante. L’unica differenza è che questo non è un film e noi non siamo personaggi di fantasia».

Nel racconto della guerra, che viene quotidianamente proposto dai maggiori organi di informazione, è come se vi fossero due facce appartenenti a storie completamente diverse: da un lato gli orrori delle violenze inferte ai civili, soprattutto vecchi, donne e bambini (si pensi a Bucha, ma non solo); dall’altro la dimensione asettica, da videogioco, della lotta tra gli eserciti. La prima faccia è quella destinata a raccogliere l’indignazione e la commozione di tutti. L’altra è materia di tifo, nella quale si calcola il numero dei mezzi distrutti e quello dei morti allo stesso modo nel quale si calcolano i punti nei videogiochi. Come se quelle dei militari non fossero vite di persone. Quasi che la guerra in Ucraina, come qualsiasi altra guerra, fosse una cosa brutta solo per le conseguenze sui civili, mentre sarebbe uno spettacolo interessante e, anzi, coinvolgente ed emozionante lo scontro tra i militari, condotto con le moderne tecnologie, che consentono di ridurre la contrapposizione fisica diretta. E non si tiene conto della circostanza che anche i militari sono persone, ciascuna di esse al centro di un micromondo affettivo e sociale.

La circostanza che anche i militari siano persone, poi, è tanto più rilevante in una guerra come questa, combattuta da individui che nessuna volontà avevano di combatterla. Gli Ucraini sono stati aggrediti e perciò costretti a difendersi, e quindi non può essere certamente addebitato a loro il conflitto. Ma, anche tra gli aggressori, molte prove raccolte sul campo (dichiarazioni di militari presi prigionieri, intercettazioni di telefonate) dicono che troppo spesso si tratta di giovani coscritti, mandati alla guerra addirittura a loro insaputa e minacciati di essere trattati da traditori se avessero esitato, quando hanno realizzato quale fosse il loro destino. Ecco, allora, che, se si tengono presenti questi aspetti, nella visione del filmato sulla distruzione della nave da sbarco russa, il sentimento prevalente, almeno per chi non partecipa direttamente alla guerra, non può essere la compiaciuta ammirazione per l’efficienza del drone Bayraktar, di fabbricazione turca, che a distanza e senza sporcarsi le mani consente la distruzione del mezzo nemico.

Ci sono quei cinque cadaveri, che non possono essere ignorati, che impongono pietà e che ricordano che non è né uno spettacolo né un videogioco. La tecnologia applicata alla guerra, per quanto evoluta, non può e non deve far dimenticare i sentimenti di umanità. La guerra, dunque, è una tragedia per tutti. Certamente lo è per i civili. Ma lo è anche per i militari degli eserciti in campo. Se si è consapevoli di questo non si può non essere anche consapevoli del fatto che la pace è una urgenza assoluta, quale che sia la prospettiva nella quale si guarda al conflitto. Né le sofisticate tecnologie utilizzate sul campo possono occultare che la posta in gioco è, innanzitutto, la vita di migliaia di persone. Tale urgenza coinvolge la responsabilità dei leader. E, perciò, non solo di Putin, ma anche di Biden e di Xi Jinping. Putin è l’aggressore, e non serve altro per delinearne le responsabilità.

Biden sta mostrando, in tutti i modi, la volontà di usare la guerra in Ucraina per indebolire o, addirittura, eliminare Putin. E, perciò, sta partecipando attivamente ad essa, mostrando così di non lavorare per la pace. Ma anche Xi Jinping sembra osservare sornione cosa accade per trarne i maggiori benefici possibili per il suo paese e per la sua leadership. E certamente, almeno sinora, non si è attivato per conseguire la pace. In definitiva, occorre, con tristezza, prendere atto che l’unico Leader, consapevole fino in fondo che questa guerra non è un videogioco, e che realmente vuole, con tutte le sue forze, la pace è Francesco. Astolfo Di Amato

Da blitzquotidiano.it il 10 maggio 2022.

Migliaia di corpi di soldati russi sono stati ammucchiati in dei sacchi sui treni frigorifero a Kiev, in Ucraina. Tutto questo mentre la Russia sfila sulla piazza Rossa. Lo scrive su Twitter Anton Gerashchenko, braccio destro del ministro degli Interni ucraino.

“Mentre la Russia sfila sulla Piazza Rossa, migliaia di suoi soldati morti sono ammucchiati in sacchi su treni frigorifero”. 

Lo scrive su Twitter Anton Gerashchenko, consigliere del ministro degli Interni ucraino, citando il servizio di Al Jazeera English.

“I russi si rifiutano di prenderli, così l’Ucraina potrebbe anche doverli seppellire a spese proprie”, aggiunge. 

Guerra in Ucraina, cadaveri soldati russi lasciati da Mosca in vagoni freezer a Kiev

Decine di cadaveri di soldati russi dentro grandi sacchi bianchi ammassati in un vagone refrigerato di un treno nella regione di Kiev. 

Sono i soldati russi morti al fronte che le truppe di Mosca non hanno però portato con sé quando se ne sono andate. A mostrarli è il canale televisivo del Qatar Al Jazeera English, che dedica al ritrovamento un servizio per raccontare “il costo umano della guerra”.

Uno di loro “era di un’elite di paracadutisti”, si spiega nel servizio, in cui si vedono le immagini delle ‘mostrine’ attaccate sulle divise. In un sacco sono stati trovati anche dei gioielli, probabilmente rubati ai civili ucraini, spiega l’emittente qatarina, spiegando di avere avuto accesso all’area nella regione di Kiev dopo che è stata liberata dall’occupazione russa.

“Gli ucraini hanno trattato i morti dei nemici meglio di come hanno loro hanno trattato i civili. Saranno tenuti finché sarà necessario. Deciderà il governo perché la Russia si rifiuta di prenderli. Non li vuole.

Ogni corpo è una prova di un crimine di guerra. Così se rifiutano di prenderli, l’Ucraina li seppellirà a proprie spese”, spiega il colonnello dell’esercito ucraino Volodymyr Liamzin.

(ANSA il 25 aprile 2022) -  "La nostra stima è che siano circa 15.000 gli effettivi russi uccisi" finora dall'inizio dell'offensiva di Mosca in Ucraina. Lo ha affermato Ben Wallace, ministro della Difesa del governo di Boris Johnson, nel suo aggiornamento settimanale sulla guerra ai deputati della Camera dei Comuni britannica.

Wallace ha aggiunto che stime di fonte varia indicano inoltre in circa 2.000 i veicoli blindati russi distrutti e in 60 gli elicotteri o aerei perduti. L'invasione, che secondo il ministro britannico nei piani di Mosca sarebbe dovuta durare "al massimo una settimana", sta ora richiedendo "molte settimane", ha concluso Wallace.

"Mio figlio è morto?": le chat choc delle famiglie dei soldati russi. Federico Garau il 17 Aprile 2022 su Il Giornale.

Secondo le autorità ucraine, in molte occasioni i russi non recupererebbero i loro caduti sul campo né accetterebbero la restituzione dei corpi.

Mentre il conflitto fra Russia e Ucraina si fa sempre più acceso, arriva la pesante accusa mossa contro il ministero della Difesa russo, reo, secondo alcune versioni, di non curarsi dei propri caduti sul campo. A tal proposito, secondo quanto affermato da alcuni giornalisti ucraini, ci sarebbero addirittura delle chat sui social russi in cui i genitori dei soldati starebbero disperatamente cercando notizie dei propri figli dispersi.

I messaggi su VKontakte

I giornalisti, come riportato da Repubblica, sarebbero riusciti ad infiltrarsi in alcuni gruppi aperti su VKontakte (una sorta di Facebook) e qui avrebbero recuperato alcune chat. "Salve. Sono il padre di Dmitry Krasoktin. Era con l'unità 64044 a Pskov. Abbiamo perso i contatti con lui dal 22 febbraio. L'ultima volta ci aveva detto che la sua unità sarebbe arrivata a Kharkiv il 23 febbraio. Il 26 febbraio abbiamo ricevuto una telefonata dal comandante che ci ha detto che nostro figlio è disperso", questo uno dei tanti messaggi riferiti dai reporter ucraini. La conversazione prosegue. Al padre di Dmitry viene consigliato di continuare a chiamare il comandante, ma l'uomo afferma di stare chiamando ogni settimana senza ricevere risposte.

Sempre nelle chat sarebbero molti i genitori ad affermare che il proprio figlio viene dato come "disperso", senza sapere come interpretare realmente questo termine.

Le accuse di Kiev

Stando a quanto dichiarato dalle autorità ucraine, le vittime fra i soldati russi sarebbero oltre ventimila, e l'esercito non starebbe facendo nulla per recuperare i morti, neppure quando le autorità di Kiev propongono di restituire i corpi. Corpi che, dunque, non verrebbero mai restituiti alle famiglie.

Sempre secondo quanto affermato dagli ucraini, a seguito della battaglia per la città di Voznesensk, sarebbe stato addirittura riempito il vagone refrigerato di un treno con i corpi dei russi caduti rimasti abbandonati dai propri compagni per le strade e i campi. I cadaveri sono stati poi portati a Kiev, e li si troverebbero ancora, perché il ministero della Difesa russo non avrebbe mai risposto alle sollecitazioni delle autorità ucraine. Insomma, a pari del conflitto in atto, proseguono anche le accuse e gli attacchi.

Ecco quanto può davvero durare la guerra in Ucraina

In una recente intervista, l'ex comico ed attuale presidente dell'Ucraina Volodymyr Zelensky ha parlato proprio del problema dei corpi rimasti a seguito dei combattimenti, ed ha chiesto di trovare una soluzione.

Il programma ClearView

In Ucraina sta ora operando un gruppo informatico che ha il compito di dare un nome ai soldati russi deceduti tramite riconoscimento facciale reso possibile grazie all'intelligenza artificiale. Il volto viene messo a confronto con un database contenente numerose immagini ottenute dal social VKontakte e da internet ed in questo modo in molti casi è possibile risalire all'identità del soldato deceduto. Sarebbe stata l'azienda americana ClearView a dare in dotazione all'esercito ucraino tale programma.

Gli ucraini affermano di stare agendo in totale buona fede, ma il sospetto di molti, anche di un'esperta intervistata dal Washington Post, è che in realtà si tratterebbe di una vera e propria forma di guerra psicologica. C'è chi pensa che l'identificazione dei corpi serva per poi mandare le foto dei soldati uccisi alle famiglie che ancora li aspettano in Russia.

Toni Capuozzo, "ecco il numero di militari russi uccisi": le cifre sconvolgenti. Libero Quotidiano il 16 aprile 2022.

Nessuno vuole la pace. Per Toni Capuozzo il cessate il fuoco in Ucraina è ormai "un'illusione". Il problema sarà solo capire "fino a quando e se resterà una guerra confinata lì". I continui botta e risposta tra Washington e Mosca fanno pensare che il conflitto oramai sia già combattuto "al di fuori del campo di battaglia vero e proprio". L’Ucraina ha dimostrato di saper resistere, mentre la Russia si è rivelata più debole rispetto a 50 anni fa. Una situazione che potrebbe ingolosire molti. "La Nato - sottolinea l'ex vicedirettore del Tg5 - va forte: c’è la coda per entrare a farvi parte. Gli Stati Uniti vanno alla grande: hanno l’Europa raccolta attorno alla Nato, stanno cercando di trasformare l’Ucraina in una trappola per l’incauto Putin. I negoziati stanno a zero, virgola. Il pacifismo anche".  

Anche l'Unione europea secondo Capuozzo sarebbe a un passo da un'eventuale escalation. "'Vincere', è la parola d’ordine, ormai, dell’Unione europea, che non si accontenta di respingere l’invasione. Per bene che vada ci siamo infilati in una guerra civile di confine, senza sapere come e dove uscirne. Per male che vada, meglio non pensarci". 

Le uniche certezze, arrivati a questo punto, sono i numeri. Capuozzo riporta sul blog di Nicola Porro, quelli ufficiali: "Militari russi uccisi 19.900 (fonte Esercito ucraino); civili uccisi 1932 (fonte Nazioni Unite); crimini di guerra russi sotto investigazione 6482 (fonte Procura di Kiev); profughi in Italia 92716 di cui 34223 minori e 10566 uomini". Un vero e proprio sterminio che vede ancora lontanissime eventuali trattative.

“Militari russi e civili uccisi”. Capuozzo svela i numeri della guerra. L’inviato di guerra elenca le perdite sui due fronti e le difficoltà per i negoziati. Toni Capuozzo il 16 Aprile 2022 su Il Giornale.

La pace è un’illusione, ormai. C’è solo da capire fino a quando e se resterà una guerra confinata lì, anche se ormai è combattuta molto al di fuori del campo di battaglia vero e proprio. L’Ucraina ha dimostrato di saper resistere, e dunque appare un po’ più forte (coraggio, ma anche l’appoggio di intelligence e di armamenti Nato). La Russia appare più debole, o meno forte di quanto apparisse 50 giorni fa. La Nato va forte: c’è la coda per entrare a farvi parte. Gli Stati Uniti vanno alla grande: hanno l’Europa raccolta attorno alla Nato, stanno cercando di trasformare l’Ucraina in una trappola per l’incauto Putin. I negoziati stanno a zero, virgola. Il pacifismo anche.

L’opinione pubblica – e l’informazione – europea appaiono pronte a una possibile escalation. “Vincere”, è la parola d’ordine, ormai, dell’Unione europea, che non si accontenta di respingere l’invasione, ma cosa vuol dire? Riprendere Crimea e repubblichette del Donbass? Per bene che vada ci siamo infilati in una guerra civile di confine, senza sapere come e dove uscirne. Per male che vada, meglio non pensarci. Quanto a certezze, restano i numeri, al cinquantesimo giorno:

1. Militari russi uccisi 19.900 (fonte Esercito ucraino);

2. Civili uccisi 1932 (fonte Nazioni Unite);

3. Crimini di guerra russi sotto investigazione 6482 (fonte Procura di Kiev);

4. Profughi in Italia 92716 di cui 34223 minori e 10566 uomini.

Il “Corriere della Sera” online l’altro ieri pubblica un articolo sui “fazzoletti bianchi”: «Un segno di riconoscimento dell’esercito russo portato sia dai militari che dai civili ucraini nei territori liberati dalla Russia che non hanno paura di essere accusati di collaborare con la Russia». Segue poi la spiegazione del perché (secondo la propaganda russa ndr) occorra imitarli: «È un modo semplice per dichiarare pubblicamente il sostegno per i nostri ragazzi e esprimere solidarietà con i civili ucraini che hanno subìto il fuoco indiscriminato delle forze armate ucraine e dai battaglioni nazionalisti».

Nella stessa edizione, c’era una foto da Bucha. Il fazzoletto blu ucraino al braccio del militare. Un altro fazzoletto al braccio della vittima. 

Da avvenire.it il 15 aprile 2022.

I soldati russi che bussano alla sua porta. “Vai in cantina, vecchia”. E lei che sfida le armate con la Z. “Uccidetemi pure, ma non ci andrò”. L'ottanduenne Zinaida Makishaiva ha deciso di rimanere nella sua Borodyanka, città a nord-ovest di Kiev, sfidando la breve ma brutale occupazione delle truppe russe. “Ora che i miei sogni sono più felici posso dirlo: non ce l’avrei fatta a sopravvivere senza le mie galline, devo ringraziare loro”, racconta la donna all'agenzia Reuters. 

I carri armati russi si presentano la prima volta all’inizio di marzo. “Non ero molto spaventata, ho vissuto il secondo conflitto mondiale e il crollo dell’Unione sovietica”, racconta Makishaiva. 

Poi però i razzi iniziano a scandire il ritmo brutale della guerra. Alcuni missili Grad colpiscono la sua casa distruggendo il pollaio e un vicino di casa muore in un bombardamento. “Non potevo più andare nei campi a lavorare, a prendere cibo, niente. La paura non mi consente di descrive cosa provassi. Mi sentivo come morta, insensata”, racconta Makishaiva.

Intorno a lei solo cumuli di macerie, case dissestate, morte. “Le porte delle abitazioni erano state spazzate via. Non c’era più acqua, gas e cibo: niente di niente”. Salvo il coraggio dell’anziana donna che rimane in piedi tra le rovine: “Da mangiare mi erano rimaste solo un po’ di patate. Ho deciso quindi di portare dentro le galline e le ho fatto deporre le uova”. 

Trenta giorni di resistenza, con i russi che entrano nelle case e saccheggiano: “Le truppe sono venute in tre diverse ondate, ma la prima è stata la più brutale. Sono entrati e mi hanno ordinato di rimanermene in cantina”.

Ma Makishaiva disobbedisce, sfidando il fuoco incrociato per andare a prendere secchi d’acqua nel vicino pozzo. “Dovevo cavarmela da sola, perché mio figlio e i miei nipoti sono lontani in altre parti del Paese”, dice la donna. 

Non ci sono solo i cannoni, la fame e i fucili puntati alla tempia. Per trenta giorni Makishaiva non ha parlato con nessuno, divorata dall’insonnia. “Mi sentivo come sorda. Non c'era segnale per la radio e per un mese mi sono trovata a conversare solo con il mio cane e con il mio gatto”. 

Un incubo ad occhi aperti terminato solo una settimana fa, quando le truppe ucraine hanno riconquistato Borodyanka e Makishaiva è tornata alla vita. “Adesso esco, cammino più di tre ore al giorno e vado a prendere gli aiuti alimentari nella chiesa della città ”. 

Zinaida è anche tornata a dormire. Merito della radio che annuncia la mezzanotte e di una pasticca di valeriana che la consegna tra le braccia di Morfeo fino alle cinque del mattino. 

Ma l’anziana donna non dimentica la ferocia quando ad ogni passo vede un edificio in macerie o un carro armato distrutto. E si rivolge a Dio: “Prego che tutto questo sia passato e che i combattimenti non tornino più”.

Ucraina, il ritorno tra le macerie di Makariv. Per contare i sopravvissuti. Padre Bogdan, Oleva Parhomenko, Kateryna Skororvan, Vasili Antonyk. Sono in tanti ad essere fuggiti dall’hinterland di Kyiv quando hanno cominciato a sparare. E ora rientrano, cercando le loro case, che non ci sono più. Federica Bianchi (da Makariv) su L'Espresso l'11 aprile 2022.

È il momento del rientro nell'hinterland di Kyiv. Di contare i sopravvissuti. Di constatare che i risparmi di una vita sono andati in fumo insieme alla propria casa. Padre Bogdan pesta i vetri a terra, quello che resta della finestra della sua chiesa cristiana ortodossa della cittadina di Makariv, dedicata al vescovo ortodosso Rastovski. Alexsei, un parrocchiano che abita poco distante, sta prendendo le misure per rifarli. «L'ultima messa l'ho celebrata il 27 febbraio», dice in questa domenica prima di Pasqua: «Il 28 sono arrivati gli aerei russi, poi i carri armati e il mio villaggio, Makaverich, è finito sotto occupazione russa. Il giorno in cui hanno sparato al mio vicino mentre fumava in giardino ho deciso di andare via insieme a mia moglie».

La Chiesa si trova a pochi metri dal ponte di accesso al paese. Le auto in entrata fanno lo slalom tra i due crateri creati dalle bombe alla fine di febbraio: ma tutta l'area impone un duro esercizio di sopravvivenza. «Siamo fuggite quando ancora i russi non ci sparavano contro», dice Oleva Parhomenko, 32 anni: «Mi sono rifugiata nella campagna a ovest, dove per trenta giorni ho dormito vestita, pronta a scappare ancora. I russi non volevano che ce ne andassimo, volevano tenerci tutti ostaggi quando hanno cominciato a subire perdite. Oggi sono tornata a Makariv e ho trovato il mio appartamento completamente distrutto».

In questo villaggio e nelle sue frazioni a 40 chilometri da Kyiv, vivevano 15mila persone prima della guerra ma la maggior parte di loro è fuggita. Poco più di mille ha vissuto l'orrore del passaggio delle truppe russe in marcia verso Kyiv e dell'occupazione dei paesini di Andriivka e Lipyivka. Un'occupazione diventata sempre più cruenta man mano che l'ingresso a Kyiv stava fallendo, arrestato dall'esercito ucraino, dai partigiani e dai suoi propri errori nelle campagne intorno a Irpin. Secondo il sindaco Vadym Tokar il 40 per cento del villaggio di Makariv è distrutto e 132 persone sono state ritrovate cadaveri, civili o membri della resistenza.

Anche a Kateryna Skororvan e alla sua mamma l'artiglieria russa ha trasformato in rovine la villetta in campagna: «Sopravvive solo la cucina estiva e il garage», dice lei indicando la porta in metallo dipinta di verde. «Siamo diventate a tutti gli effetti delle senza fissa dimora», dice mentre versa le crocchette al pastore tedesco. Il cane è l'unico che continua a vivere a casa, in giardino.

Decine di cani senza padrone vagano alla ricerca di cibo per i villaggi e le campagne ucraine intorno a Kyiv: e non solo cani, anche gatti, polli, maiali, perfino cavalli. I padroni sono partiti, alcuni morti, le recinzioni distrutte. Skororvan offre un pasto a tutti. È il suo modo di aiutare. «Almeno io posso lavorare online e guadagnare un po' perché mi occupo di marketing digitale e parlo inglese», sospira. Internet non funziona nel villaggio ma è in piedi in gran parte della regione. Segno dei tempi, di questa guerra incastrata tra il secolo di ieri e quello di domani. «Mia madre, invece, era la maestra del Paese e ora nessuno va più a scuola», aggiunge: «Ricostruire la nostra casa non sarà facile».

Vasili Antonyk, un viso tondo avvolto da una pelliccia bianca intrecciata da capelli e barba, da Makarov non si è mai mosso. «Non ho soldi, non ho più mia moglie e mio figlio è un chirurgo a Kyiv», dice: «Dove dovevo andare?». Ha passato un mese seduto sul divano in velluto marrone del suo salotto, due centrini in uncinetto posati sulla spalliera, le medicine appoggiate con ordine su un tavolino accanto, insieme alle forbicine per le unghie, la bottiglietta d'acqua e un orologio da polso col cinturino in pelle nera. «Ascoltavo i bombardamenti, pensavo, dormivo. Ho provato ad andare nello scantinato ma faceva troppo freddo». Il giorno che i russi sono entrati in casa sua ha detto loro che nell'epoca dell'Unione sovietica anche lui era autista di carri armati. Che poi è diventato psichiatra e che il figlio è un chirurgo a Kyiv. «Sono stati gentili con me», dice accanto al buco nella parete frontale della casa colpita da un razzo, a pochi metri la lapide per al sua tomba che è già pronta in giardino: «È Putin che è uno psicopatico, non i russi». La voce trema.

Nel villaggio non tutti sono convinti che i russi si siano ritirati definitivamente. Temono il ritorno e la vendetta. Sempre spietata. Quando ha messo piede fuori di casa, il 1 aprile, Antonyk ha riconosciuto subito il cadavere del suo vicino Viktor, 50 anni, colpito lungo la strada principale che fiancheggia il cimitero mentre tornava a casa dal lavoro in bicicletta. Colpito e ucciso da un cecchino. Senza che nessuno abbia ancora capito perché. Antonyk ha sentito lo sparo. Lo ricorda bene perché «è stato un colpo distinto, davanti casa». Il corpo di Viktor, autista di autobus, è rimasto a terra, incastrato nella bicicletta, poi ricoperto da una coperta di lana a scacchi rossi e gialli per tre settimane. I russi ne avevano minato il cadavere. Come quando in Afghanistan minavano i giocattoli. Per fare male. Per terrorizzare gli innocenti e ridurli in sottomissione. Nel cimitero non si può ancora entrare. Ci sono mine anche tra le tombe. I morti devono aspettare, e i vivi pure.

Mine e munizioni sono sparse un po' ovunque nell'area. Quando i russi si sono ritirati il 31 marzo hanno dato fuoco alle polveri, dopo averle ammassate nelle case dei cittadini. Ma nei cortili, nelle aie, tra i cespugli ci sono ancora munizioni di ogni tipo, mortai, proiettili, ordigni inesplosi. I campi di grano, ancora solo distese di fango, sono puntellati dalle casse verdi delle munizioni militari russe. E dalle trincee. Scavate fin dentro le case degli abitanti. Un cerchio dipinto di giallo sul cancello d'ingresso vuol dire che sono passati gli sminatori dell'esercito, che la famiglia può rientrare a casa. I militari sono a decine nelle strade, come i poliziotti. A bonificare il territorio e a valutare i danni.

Poco fuori il villaggio, nella frazione di Lipivka, Marina e Sergei raccolgono legna per riscaldarsi. In tutta la regione ancora non c'è acqua corrente, non c'è elettricità e nemmeno riscaldamento. Da sei settimane si vive col cappotto sempre addosso, tra neve e pioggia battente, con una temperatura intorno allo zero. L'umidità penetra nelle ossa e arriva al cervello. «Un nostro vicino aveva tirato una molotov contro i carro armati russi», dice lei: «Lo sono venuti a cercare in casa e l'hanno giustiziato». Nessuno ha più osato uscire di casa. «È molto fortunato il nostro amico Volodomyr di Kharkiv. Ci ha appena fatto sapere di essere in Sicilia, con i figli a scuola. È contento». Ha 65 anni. È potuto uscire dal Paese, a differenza di tutti gli uomini tra i 18 e i 60.

Uccisi per una sigaretta mancata, perché donavano cibo, o per una domanda. Nello Scavo su Il Corriere della Sera il 12 aprile 2022.

Un padre è stato finito perché non aveva sigarette da offrire agli occupanti. Per eliminare Valeryi e la moglie Nataliya hanno impiegato sette colpi: sei per lui, uno per lei. Erano andati in strada a dare un’occhiata. Non sono più tornati nella cantina dove li attendeva la figlia di 18 anni. A Hostomel il sindaco è stato centrato dai cecchini perché distribuiva cibo e farmaci nei rifugi sotterranei.

A mano a mano che le forze d’occupazione russa arretrano, è possibile raccogliere le prove dei brutali crimini di guerra. «Nelle ultime settimane, abbiamo raccolto prove che le forze russe hanno commesso esecuzioni extragiudiziali e altri omicidi illegali, che devono essere indagati come probabili crimini di guerra», ha affermato Agnès Callamard, segretario generale di Amnesty International. «Le testimonianze mostrano che civili disarmati in Ucraina vengono uccisi nelle loro case e lungo le strade in atti di indicibile crudeltà e scioccante brutalità».

«Mio padre aveva sei grandi buchi nella schiena». Lo ha raccontato Kateryna Tkachova, 18 anni. Il 3 marzo era a casa nel villaggio di Vorzel insieme ai suoi genitori, quando diversi carri armati contrassegnati con la lettera "Z" hanno occupato le strade. I suoi genitori, Nataliya e Valeryi, hanno lasciato la cantina dove si nascondevano per andare in strada. Prima però hanno detto a Katerina di non muoversi. Da li sotto ha sentito degli spari. «Una volta che i carri armati sono passati, sono saltata oltre la recinzione fino alla casa del vicino. Volevo controllare se erano vivi. Ho guardato oltre il recinto e ho visto mia madre sdraiata supina su un lato della strada, e mio padre era a faccia in giù dall’altro. Ho visto grandi buchi nel suo cappotto». L’occupazione armata gli ha impedito di avvicinarsi. «Il giorno sono tornata: mio padre aveva sei grossi buchi sulla schiena, mia madre un foro più piccolo nel petto». L’uccisione intenzionale di civili disarmati «è una violazione dei diritti umani e un crimine di guerra. Queste morti – insiste Amnesty – devono essere indagate a fondo e i responsabili devono essere perseguiti, compresa la catena di comando».

La geografia dei crimini segue a ritroso il tracciato dell’iniziale avanzata russa. Sono state ottenute prove di uccisioni indiscriminate anche a Charkiv e nell’oblast (regione) di Sumy. Fra l’altro è stato documentato un attacco aereo che ha ucciso persone in fila per ricevere del cibo a Chernihiv, mentre si moltiplicano i riscontri sui massacri a Izyum e Mariupol.

«Mio marito non è morto subito. Dalle 21,30 alle 4 del mattino respirava ancora, anche se non era cosciente. L’ho implorato: “Se puoi sentirmi, per favore muovi il dito”. Non lo ha mosso, ma ho messo la sua mano sul mio ginocchio e l’ho stretto. Il sangue scorreva. Quando ha esalato l’ultimo respiro, mi sono rivolta a mia figlia e gli ho detto: "Sembra che papà sia morto"». Trucidato per aver rifiutato un pacchetto di sigarette che non aveva. La moglie, 46 anni, ha raccontato che le forze russe hanno assediato il villaggio di Bohdanivka a partire dalla notte tra il 7 e l’8 marzo. Il giorno dopo, la famiglia – marito, moglie, suocera, e la figlia di 10 anni – ha sentito sparare dalle finestre del piano di sotto. Lei e il marito hanno gridato in russo: “Siamo civili, siamo disarmati”. A quel punto due militari hanno rinchiuso tutti al piano di sotto, nel vano caldaia: “Ci hanno costretto a entrare e hanno sbattuto la porta. Dopo appena un minuto hanno riaperto la porta – ha raccontato la donna ad Amnesty International –, e hanno chiesto a mio marito se avesse delle sigarette. Ha detto di no, non fumava da un paio di settimane». Non era la risposta che la soldataglia voleva sentire. Prima gli hanno sparato al braccio destro. Poi l’altro soldato ha ordinato: «Finiscilo». E gli hanno sparato alla testa. Quella notte un vicino di casa ha assistito all’irruzione e ha confermato di aver visto il corpo dell’uomo accasciato in un angolo del locale caldaia. La donna e il bambino di 10 anni sono fuggiti dal villaggio quello stesso giorno.

Durante i primi giorni dell’occupazione russa di Hostomel, devastata per la vicinanza con l’aeroporto militare di Kiev, Taras Kuzmak consegnava in auto cibo e medicinali nei rifugi antiaerei dove nascondevano i civili. Li hanno bersagliati per questo. Alle 13.30 del 3 marzo, Taras era con il sindaco Yuryi Prylypko e altri due uomini, quando la loro auto è stata colpita da colpi di arma da fuoco sparati con precisione da un grande complesso residenziale che era stato sequestrato dalle forze russe. Hanno cercato di saltare fuori dall’auto, ma uno di loro, Ivan Zorya, è stato ucciso immediatamente, mentre il sindaco Yuryi Prylypko è caduto a terra ferito. Taras Kuzmak e l’altro sopravvissuto si sono nascosti dietro un escavatore per ore mentre il tiro dei cecchini continuava. «Ci hanno notato e hanno immediatamente aperto il fuoco, non c’è stato alcun avvertimento», ha raccontato Tara. «Potevo solo sentire il sindaco Prylypko. Sapevo che era ferito, ma non riuscivo a vederlo e non sapevo se il colpo sarebbe stato fatale o meno. Gli ho solo detto di rimanere immobile, di non fare alcuna mossa». Sono rimasti accucciati per quasi due ore. Intorno alle 15 hanno sparato di nuovo nella loro direzione «e circa mezz’ora dopo ho capito che il sindaco era morto». La testa di Ivan Zorya è stata spazzata via dai proiettili, «penso che stessero usando qualcosa di grosso calibro». 

L'orrore nel villaggio vicino Kiev. Un mese nel bunker tra i cadaveri: “Persone morivano d’infarto o asfissia, si dormiva legati per non calpestare gli altri”. Giovanni Pisano su Il Riformista l'11 Aprile 2022. 

Un mese vissuto nello stesso bunker, al riparo dai bombardamenti e dagli attacchi dell’esercito russo. Trenta giorni vissuti nel seminterrato di 60 metri quadri di una scuola dove su oltre 300 persone presenti, 11 sono morte per infarto o asfissia, altre, almeno 8 civili, sono state uccise dalle truppe di Mosca e tenute lì, insieme ai vivi. E’ da brividi il racconto, riferito all’inviato dell’Ansa, di diversi abitanti di Yagydne, uno dei villaggi vicino a Lukashivka e Chernihiv, a nord della regione di Kiev. Il villaggio è stato distrutto dall’esercito russo che “hanno ucciso otto civili”.

A morire, per infarto o asfissia, anche 11 persone che per oltre un mese sono state nel rifugio di una scuola che ospitava in totale 380 civili. “Siamo stati per oltre un mese in 380 nel rifugio di una scuola, ma undici persone sono morte per infarto o perché non riuscivano a respirare. I soldati russi, tenendoci il fucile puntato, ci hanno permesso mano mano di seppellirli. Erano loro a darci il cibo dalle loro scatolette, mentre nelle nostre case hanno fatto razzie delle nostre cose: indumenti e roba da mangiare” spiegano.

Sull’argomento arriva anche il commento dell’arcivescovo di Kiev Sviatoslav Shevchuk che nel suo videomessaggio quotidiano racconta l’orrore della guerra che in Ucraina è arrivata al 47esimo giorno. “Mi ha colpito molto la storia di Lukashivka della regione di Chernihiv, che descrive come gli invasori trattavano soprattutto gli anziani. L’anziano Mykola, che ha più di 70 anni, testimone oculare, dice che quando i russi sono arrivati nel villaggio, hanno portato 140 persone nel seminterrato della scuola, il seminterrato di 60 metri quadrati. Non era permesso loro di uscire in cortile, e i morti erano tenuti lì insieme ai vivi. C’erano 50 bambini con loro, e così lui si legava con una sciarpa alla spalliera svedese quando dormiva, sospeso, per non calpestare nessuno accanto”. “Questo tipo di comportamento – aggiunge l’arcivescovo – non ha un futuro, e coloro che non onorano il padre e la madre, che non si prendono cura degli anziani, non possono avere la benedizione di Dio e non vivono su questa terra a lungo”.

L’arcivescovo ricorda poi il bollettino dei morti tenuto dalle Nazioni Unite: “Secondo gli ultimi dati dell’Onu, solo ufficialmente in Ucraina sono state uccise 1800 persone, ma la cifra reale – dice Sviatoslav Shevchuk- potrebbe essere molte volte di più, forse 10 volte, o anche maggiore, perché stanno cominciando solo ora a trovare i morti nelle città e nei villaggi liberati. Quasi 1500 persone sono ufficialmente scomparse, e non abbiamo notizie di loro. Potrebbero essere morti anche loro”.

Secondo infatti i dati diffusi dall’Onu, ad oggi le vittime civili del conflitto in Ucraina sarebbero almeno 1.842, tra cui 148 bambini. Lo rende noto nel suo ultimo bollettino l’ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr), aggiungendo che i feriti sono almeno 2.493, di cui 233 minori. Le cifre, sottolinea l’agenzia Onu, sono sottostimate, viste le difficoltà negli accertamenti sul terreno.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

La civiltà contadina salva dal nulla delle fosse comuni. Ferdinando Camon su Avvenire il 12 aprile 2022.

Tornano le fosse comuni. Si vedono sempre più spesso sui giornali. Mentre scrivo questo articolo, ne sto guardando una, in una città dell’Ucraina, che era occupata ed è stata liberata. I liberatori vedono la terra smossa di recente e scavano: ed ecco apparire i morti. A volte son coperti da un telo, più spesso sono a contatto con la terra. Buttare i morti in una fossa comune significa sbarazzarsene, è il modo più spiccio per toglierli dalla vista, non è un modo per onorarli, ma per impedire che vengano onorati. Chi ha gettato quei morti in una fossa comune li odiava.

Chi scava e li tira fuori e li separa uno dall’altro per riconoscerli li ama. Chi li ha buttati nella fossa comune ha chiuso i conti con loro per sempre. Chi vuol tirarli fuori e seppellirli individualmente e nominativamente avrà conti aperti con loro per sempre. La vita continua all’infinito, e con la vita l’amore. Potrei anche dirlo all’inverso: l’amore continua all’infinito, e con l’amore la vita. Ho appena visto la foto del bambino che ha portato un succo di frutta sulla tomba della madre. Il succo si vede, è nel lungo bicchiere di plastica posato al centro della tomba. Il bambino è voltato verso di noi e ci guarda sorridendo, si vede che è contento. Lui e sua madre, con tanti altri, erano chiusi nel sotterraneo di un palazzo assediato, gli assedianti gl’impedivano di uscire, dovevano restare lì anche se lì morivano di fame e di sete. Sua madre è morta di sete. Adesso lui le porta da bere una raffinatezza: non banale acqua, ma un succo di frutta. È fiero di questo. E pensa che la madre sia fiera di lui.

È la morte come dialogo, tu e tua madre parlavate in vita e continuate a parlarvi dopo la morte. Perché questo sia possibile occorre che siate in due, tu e lei. La tomba permette questo dualismo. La fossa comune lo distrugge. Chi usa le fosse comuni vuole impedire i dialoghi dopo la morte. Ma sono quelli i veri dialoghi dell’uomo, i dialoghi in cui l’uomo dice la verità. In un certo senso, chi butta i morti in una fossa comune ci butta la loro verità. Ci sono fosse comuni tonde, come pozzi, e altre lunghe, come trincee. Questa che sto guardando è una trincea. Mentre vedo racchiuso in una foto questo sprezzo della civiltà, questo odio verso i nemici anche dopo che sono morti, vedo anche un’altra foto che mi commuove e mi riempie di orgoglio.

Vedo cioè dieci prigionieri russi in fila, inginocchiati, con le mani dietro la nuca. Li controllano dei soldati ucraini, col mitra in mano. Sono i vincitori. Uno dei vinti è appena morto, e i vincitori gli han fatto il funerale e l’han sepolto. Questi vinti, allineati e inginocchiati, ricevono controlli sanitari, cibo e acqua. Farebbero lo stesso loro, se fossero i vincitori? Spero di sì. Ma i vincitori di adesso sono contadini, e dicono di provare per i prigionieri un sentimento proibito in guerra: compassione. Ci voleva la civiltà contadina per riportare un po’ di umanità. Sono figlio di contadini, e non me ne vergogno.

Scarpe infangate. I russi hanno calpestato anche i nostri ricordi. Yaryna Grusha Possamai su L'Inkiesta il 30 Marzo 2022.

Nella mente restano solo immagini, il mondo che c’era prima che cerchiamo di riconquistare è stato distrutto dalle bombe, dai tank e dagli stivali sozzi dei soldati russi.

Cerchi di riconoscere i tuoi cari posti tra le mappe, le foto, le notizie sui paesi liberati dall’esercito ucraino. Se quella chiesa sul video era la chiesa dove sei stata battezzata a 6 anni, perché sei nata in Unione Sovietica dove Dio non esisteva, dove battezzare i bambini era un reato e quindi poteva succedere solo nell’Ucraina indipendente, due settimane prima di cominciare la prima elementare. No, non era la tua chiesa. Ma è una speranza di chiesa, magari in uno di questi giorni verrà liberata anche la tua.

Raccogli i brandelli dì notizie, attaccate alle linee telefoniche distrutte, che arrivano tra interferenze, scricchiolii da lontano, con quelle parole che ormai contengono tutto: siamo vivi, quello che segue dopo è irrilevante. Sono zone dove le luci sono spente e i ripetitori abbattuti.

Prima di voi, soldati russi, sono arrivate le vostre bombe a distruggere e a spaventare. Dietro le bombe siete arrivati voi con le scarpe sporche di fango delle vostre paludi, vi siete insediati lì nelle nostre case, avete ammazzato i nostri animali per sfamarvi, perché nessuno vi manda più i rifornimenti, avete portato fuori i nostri tavoli, dove noi ci sedevamo in famiglia a festeggiare le piccole feste. Ci avete bevuto sopra, poi avete cavalcato i vostri carri armati alla ricerca dei corpi fragili e spaventati femminili, per fare il giro dei vincitori su quei corpi e per le strade, nostre strade, dove in tanti abbiamo fatto i primi passi, dove andavamo a scuola con le cartelle piene di libri e di sogni, dove i nostri nomi sono rimasti scritti con la vernice sull’asfalto davanti alla scuola: classe 2003, l’anno in cui ci siamo diplomati.

Poi tanti di noi, come me, sono andati via, altri sono rimasti a fare i custodi del nostro passato vissuto insieme. Ci incontravamo per le cene di coscrizione per condividere le nostre vite pacifiche, per far conoscere le nostre famiglie ormai allargate con mariti, mogli e figli per poi essere pestati dalle vostre scarpe infangate.

Non ci sono i cellulari a testimoniare questo, li avete sequestrati, ci sono solo i vecchi cellulari gsm che grazie a qualche tacca una volta ogni tanto servono a comunicare dì essere vivi, per condividere paure e dolore. Oltre quelle chiamate, cade il silenzio.

Provi ad arrivarci con la memoria. A salire le scale dell’ingresso della scuola, a girare il tornante verso la via la più lunga del paese, dove abita tua cugina, dove conosci ogni buca nell’asfalto. Voli verso l’ufficio postale e verso il comune, prosegui fino alla fine della strada, dove la via diventa un campo di fiori. Adesso lì in quelle strade e in quei campi ci sono le vostre mine e le vostre scarpe fangose, arrivate a calpestare non solo il presente, ma anche tutti i nostri ricordi.

Non ci sono più civili, chi è morto, chi è scappato nei paesi vicini per sopravvivere. Perché quella non è vita, è sopravvivenza. Correre piegati da casa fino alla cantina che funge da rifugio, mentre il cielo si spezza in due. Contare per quanto basterà il cibo, sprofondare nei silenzi e nel buio di quelle cantine tra vicini di casa e le provviste. Di cosa parlate tra di voi? Sapete che giorno è oggi? Cantate le canzoni ai vostri figli? Gli fate fare un po’ di compiti per non perdere per sempre il programma di studio? Pensate agli orti? Pensate a seminare questa primavera con i missili che vi volano sopra le teste in direzione della capitale? Chi arerà le terre, se i cavalli sono già stati uccisi? Cosa germoglierà nei vostri campi minati? Avete seppellito i vostri cari, morti nei primi giorni sotto le bombe, quelle che dovevano solo spaventare, ma le bombe sono cieche e le loro traiettorie si incrociano sempre con le vite umane una volta lanciate.

Guardi i tuoi cari in quelle foto in bianco e nero, recuperati l’estate scorsa a casa. Hanno quei bordi ondulati, le scritte dietro con la penna blu: 1954, 1984, 1988. Gli occhi divorano ogni centimetro di quelle foto, ogni ruga sul viso e ogni piega sulle camicie e vestiti. Perché le traiettorie delle bombe sono imprevedibili, una volta lanciate possono far sì che quelle foto rimarranno l’unica memoria concessa, se non ripiegherete le vostre scarpe fangose dalle nostre terre del sole.

Come piume sull’asfalto dopo un colpo di mortaio, ma erano persone. Uniche. Barbara Stefanelli su Il Corriere della Sera il 19 Marzo 2022.

Tetiana Perebyinis aveva 43 anni ed era in mezzo ai suoi due ragazzi. Il primogenito Mykyta, 18, chiudeva la fila, Alisa, 9, la apriva. Sono morti a Kiev, uccisi da un copo di mortaio sparato sui civili.  

Nello scatto di Linsey Addario, mamma Tetiana (43 anni), tra i due figli Alisa (9) e Mykyta (18) e, in primo piano, il volontario Anatoly (26): tutti e 4 uccisi a Irpin.

I loro corpi in fila sull’asfalto, il trolley grigio rimasto assurdamente in piedi. L’abbaiare disperato di un cane a tagliare la polvere dopo l’esplosione. La fotografia di Lynsey Addario e il video di Andriy Dubchak resteranno nella memoria di questa guerra. La guerra scatenata da Vladimir Putin alle 5 di mattina di Kiev del 24 febbraio. Una guerra arcaica contro un Paese moderno, l’Ucraina, consapevole e forte di una giovane identità europea temprata in piazza Maidan pochi inverni fa. Tetiana Perebyinis aveva 43 anni ed era in mezzo ai suoi due ragazzi. Il primogenito Mykyta, 18, chiudeva la fila, Alisa, 9, la apriva.

PERCHÉ TANTA ATTENZIONE A UNA FOTO, A UNA FAMIGLIA, TRA LE TANTE SPEZZATE IN GUERRA? PERCHÉ SONO LE PERSONE A RESTARE SOTTO LE MACERIE DEI CONFLITTI, COME FOSSERO PIUME

Li guidava Anatoly, un giovane volontario che stava aiutando gli sfollati a scappare, morto poco dopo in ospedale. Sono caduti in sequenza, con le braccia stese nello stesso identico modo ai bordi del marciapiede, i polsi sovrapposti quasi dolcemente. Il padre, Serhiy, non era con loro: si era spostato a est per raggiungere la madre, malata, e portarla con sé. «Ci eravamo sentiti la sera prima», ha raccontato in un’intervista al New York Times. «Le chiedevo di perdonarmi perché non ero lì con loro, perché non c’ero io a proteggerli. Mi ha risposto: non preoccuparti, ce la faremo».

A fermarli - mentre cercavano di passare dall’altra parte del ponte - è stato un colpo di mortaio planato dritto tra loro. Perché tanta attenzione a una foto, a una famiglia, tra le tante spezzate - come sempre accade - in guerra? Perché sono le persone a restare sotto le macerie dei conflitti, come fossero piume. Persone e storie esclusive. Sono e siamo quello che siamo, direbbe la poetessa Wislawa Szymborska: casi inconcepibili, come tutti. Colpire deliberatamente i civili è un crimine di guerra, bombardare l’ospedale pediatrico di Mariupol è un crimine di guerra.

In Bielorussia gli ospedali sono pieni di soldati russi feriti in condizioni gravi. Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 19 Marzo 2022.

Sono giovanissimi e riempiono le strutture sanitarie e gli obitori delle città vicine al confine con l’Ucraina. Un medico: «Dopo che la gente ha cercato di filmare i corpi caricati sui treni hanno iniziato ad effettuare queste operazioni solo di notte». 

Feriti e morti russi, spesso giovanissimi soldati di leva stanno riempiendo gli ospedali e gli obitori delle cittadine russe e bielorusse a ridosso del confine. Molti camion e ambulanze si recano in particolare verso i centri della Bielorussia come Narovlya, sul bordo della zona radioattiva di Chernobyl. E questo per due motivi: perché queste località sono le più vicine al fronte nord, quello attorno a Kiev, e perché così si evita di far vedere in Russia i risultati dell’Operazione militare speciale , come viene definita dal Cremlino.

Secondo Deutsche Welle, tantissimi feriti sarebbero stati vittime di esplosioni e incendi e arriverebbero nei nosocomi in condizioni molto gravi . Alcune testimonianze hanno parlato anche di obitori oramai stracolmi di corpi. Nella città di Mozyr, a ridosso del confine, l’obitorio non era già più in grado di ricevere morti il 3 marzo. Un abitante ha raccontato a Radio Krym.Realii, una sezione di Radio Liberty per Ucraina e Crimea, di aver visto molti sacchi neri che venivano scaricati da automezzi militari e messi su vagoni ferroviari russi. I passanti hanno iniziato a filmare quello che accadeva ma sono stati subito bloccati da militari che hanno imposto loro di cancellare ogni cosa dai cellulari.

Un medico dell’ospedale centrale ha detto che ora il controllo della struttura è in mano a polizia e servizi segreti. «Ci mancano i chirurghi. Dopo che la gente ha cercato di filmare i corpi caricati sui treni hanno iniziato ad effettuare queste operazioni solo di notte». I sanitari sono stati subito avvertiti: chiunque parlasse con fonti esterne, verrebbe subito licenziato.

Nell’ospedale numero 4 a Gomel già il primo marzo hanno iniziato a dimettere i pazienti ordinari allo scopo di liberare posti per i russi feriti, hanno raccontato parenti di malati. «Ci sono tantissimi russi e molti sono mutilati orribilmente», ha detto uno di loro alla stessa radio. Anche nelle cittadine russe a ridosso del confine arrivano comunque tantissimi feriti. Il giornale delle Forze Armate Stella Rossa ha parlato qualche giorno fa di 1.400 militari curati e mandati nei centri di riabilitazione.

In Crimea alcune scuole sarebbero state trasformate in ospedali da campo, secondo Refat Chubarov, presidente del Parlamento dei tartari di Crimea che si trova in esilio in Ucraina. «Il crematorio del villaggio Gvardeyskoye, vicino Simferopoli lavora giorno e notte», ha aggiunto.

Ucraina: in 24 giorni morti 847 civili. Denuncia da Mariupol: “Migliaia di deportati in Russia”. Penelope Corrado sabato 19 Marzo 2022 su Il Secolo d'Italia.  

La guerra in Ucraina è entrata nel giorno 24, mentre proseguono feroci i combattimenti per le strade di Mariupol: il sindaco della città assediata, riferisce di intense battaglie di strada nel centro della città , che ostacolano gli sforzi per salvare le centinaia di persone ancora intrappolate nei sotterranei del teatro bombardato. Le forze russe hanno circondato il porto meridionale, che ha dovuto affrontare giorni di pesanti bombardamenti.

Migliaia di residenti di Mariupol sono stati portati in remote città della Russia, “deportati come fecero i nazisti durante la seconda guerra mondiale”. La denuncia è del sindaco della città martoriata dalla guerra Vadym Boichenko, che ha postato su Telegram un comunicato, riferisce Ukrinform.

Guerra in Ucraina, i dati Onu: almeno 847 vittime civili

Sempre più drammatico il numero delle vittime civili secondo l’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Si conterebbero al momento 847 civili, inclusi 64 bambini, dall’inizio dell’invasione. La maggior parte dei morti è stata causata da bombardamenti e attacchi aerei. Ma i funzionari dell’Onu ritengono probabile che il totale reale sia molto più alto. Proprio i missili, in particolare quelli ipersonici sono stati impiegati dalla Russia per la prima volta in assoluto dall’inizio della guerra, distruggendo un deposito di armi nell’Ucraina occidentale. I missili ipersonici viaggiano molto più velocemente della velocità del suono, rendendoli difficili da intercettare.

La guerra in Ucraina si combatte anche sul piano economico e finanziario. Non a caso, oggi la Polonia ha chiesto il blocco commerciale: il primo ministro Mateusz Morawiecki ha esortato l’Ue a imporre un divieto totale del commercio alla Russia “il prima possibile”. Secondo il premier polacco, un blocco alle navi e alle merci russe costringerebbe Mosca a “fermare questa guerra crudele”.

Pechino definisce scandalose le sanzioni contro Mosca

Pechino ha invece ribadito la sua netta contrarietà alle sanzioni contro Mosca. “Stanno diventando sempre più scandalose”, ha dichiarato il vice ministro degli Esteri Le Yucheng, dopo che già ieri il presidente cinese Xi Jinping le aveva condannate nella videoconferenza con il presidente americano Joe Biden. Secondo Li, i cittadini russi vengono privati dei loro beni all’estero “senza alcuna ragione”. “La storia ha dimostrato più volte che le sanzioni non possono risolvere i problemi”, ha continuato il vice ministro, ricordando che “colpiscono solo la gente comune, hanno un impatto sul sistema economico e finanziario e danneggiano l’economia globale”. Pare quindi caduto nel vuoto l’appello di Kiev a Pechino. “La Cina può essere l’elemento importante del sistema di sicurezza globale se prende la decisione giusta sostenendo la coalizione dei Paesi civili e se condanna le barbarie della Russia“. Lo aveva affermato, in un post sul suo canale Telegram Mykhailo Podolyak, capo negoziatore dell’Ucraina e consigliere del presidente Zelensky. “E’ una chance per sedere al tavolo come pari: l’Occidente deve spiegare a Pechino come 1,6 trilioni di dollari differiscano da 150 miliardi di dollari”.

L’Onu stima almeno 816 morti ma potrebbero essere molti di più. Guerra Ucraina, quanti sono i morti tra adulti e bambini: il mistero del numero delle vittime. Rossella Grasso su Il Riformista il 19 Marzo 2022.

Dall’inizio della guerra in Ucraina sono almeno 112 i bambini che hanno perso la vita nel conflitto. Lo hanno reso noto le autorità di Kiev aggiungendo che 140 bambini sono rimasti feriti in seguito all’aggressione militare russa. Ieri pomeriggio a Leopoli si è svolta una manifestazione pacifica durante la quale sono stati portati in piazza 130 passeggini vuoti a simboleggiare i bambini morti in guerra.

Numeri spaventosi a cui si aggiungono quelli che riguardano gli adulti. Ma ricostruire il numero esatto di vittime che ha fatto questa guerra in 23 giorni è impossibile. Tra notizie di propaganda, fake news e l’impossibilità di comunicazioni esatte da parte degli ospedali e dei presidi militari il caos è totale.

Secondo il numero ufficiale diffuso dalle Nazioni Unite sono 816 i civili uccisi di cui 58 minori. Ma l’Alto Commissario per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha voluto sottolineare come il bilancio dei morti sia probabilmente molto più alto. D’altro canto, per le autorità di Kiev, nella sola città di Mariupol, 1.300 persone sono ancora sotto le macerie e almeno altre 3.000 sono rimaste ferite. Numeri che non corrispondono a quelli forniti dalle autorità comunali che parlano di zero morti e un ferito grave. Ancora giovedì si ipotizzava un bilancio di 20mila vittime.

Anche dalla parte russa è difficile risalire a un bilancio esatto delle vittime. “Molte parole sono state ascoltate oggi a Mosca in relazione all’anniversario dell’annessione della Crimea, c’è stata una grande manifestazione. È stato riferito che un totale di circa 200.000 persone sono state coinvolte nella manifestazione. Circa lo stesso numero di truppe russe è stato coinvolto nell’invasione dell’Ucraina. Immaginate solo che ci sono 14.000 corpi e altre decine di migliaia di feriti e mutilati in quello stadio. Ci sono già così tante vittime russe dall’inizio di questa invasione”. Lo ha detto il presidente ucraino il presidente ucraino Volodymyr Zelensky nel suo discorso video notturno. “Questo è il prezzo della guerra. Poco più di tre settimane. La guerra deve finire”, ha aggiunto. Secondo Mosca, le vittime tra i soldati russi sarebbero 498.

Capire esattamente quante siano le vittime è davvero impossibile. L’Onu sta verificando le informazioni su 1.252 feriti. In molte zone colpite dai raid russi le comunicazioni sono controllate o tagliate. Sul tema c’è una fitta nebbia che aleggia che rende impossibile conoscere la verità. Non sempre i dati vengono infatti trasmessi da ospedali e obitori visto il caos che l’Ucraina sta vivendo.

Secondo quanto spiegato dal Corriere della Sera, la missione di monitoraggio dei diritti umani in Ucraina (Hrmmu) è attiva dal 2014. Dal 24 febbraio, buona parte del personale ora è stato dislocato e non è in grado di visitare i luoghi degli incidenti e di interrogare vittime e testimoni. Ciò significa utilizzare altre fonti di informazione, inclusi contatti e partner sul campo. Seguendo il principio che questo conteggio va fatto perché i dati sulle vittime non sono solo una raccolta di numeri astratti ma rappresentano singoli esseri umani. Contarli è cruciale per cercare poi responsabilità e dare dignità a ciascuna delle vittime.

A testimoniare la carneficina in Ucraina ci sono anche le ore di video che circolano sui social. Fosse comuni, bombardamenti continui e colpi di artiglieria pesante che continuano incessanti sulle città ucraine testimoniano la grande quantità di vittime che questa guerra sta facendo.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival. 

NON SOLO PROPAGANDA. Le perdite russe sono reali: 1.500 veicoli distrutti e 7mila soldati uccisi.  DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 17 marzo 2022

Gli ucraini celebrano sui social i sorprendenti successi delle loro forze armate. Molta è propaganda, ma c’è più di un fondo di verità: in tre settimane di combattimento l’esercito russo ha subito perdite pesanti.

Secondo analisi di ricercatori indipendenti, quasi 1.500 veicoli sono stati distrutti o catturati. Molti sono mezzi moderni e costosi, non facili da rimpiazzare rapidamente.

L’esercito russo ha ancora una notevole superiorità su quello ucraino e può trasferire nuove risorse da altri settori. Ma mobilitare ulteriormente le forze armate, per Putin può essere un’arma a doppio taglio.

DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.

 L'intelligence Usa: in Ucraina le perdite russe hanno superato quelle americane a Iwo Jima. La Repubblica il 17 Marzo 2022. I calcoli riportati dal New York Times. I soldati morti sarebbero più di settemila, i feriti tra i 14 e i 21mila.

Peggio che Iraq e Afghanistan messi insieme, peggio perfino di Iwo Jima. Secondo le stime dell'intelligence americana, riportate dal New York Times, il numero di militari russi morti in 20 giorni di invasione dell'Ucraina avrebbe già superato quota 7.000. Più, dunque, delle perdite accumulate dagli Stati Uniti in vent'anni di guerre mediorientali, e più del numero di marines caduti nella sanguinosa presa di Iwo Jima, durata 36 giorni tra il febbraio e il marzo del 1945.

Sono numeri che, se confermati, metterebbero a repentaglio la stessa capacità russa di proseguire nell'offensiva. Il ragionamento del Pentagono, infatti, è che la piena operatività di ciascuna unità di combattimento sarebbe compromessa con perdite che superano il 10 per cento degli effettivi. E sommando i morti ai feriti, che secondo le stesse stime sarebbero compresi tra i 14 e i 21 mila, quella soglia sarebbe stata ampiamente raggiunta, considerando che l'Armata russa ha mobilitato fin qui circa 150 mila militari. 

Sempre secondo il Pentagono, i cui rapporti sull'andamento della guerra finiscono quotidianamente sulla scrivania di Joe Biden, un tasso così alto di perdite starebbe provocando una grave crisi del "morale delle truppe", riducendo significativamente la loro disponibilità a combattere. Uno di questi dispacci ha addirittura citato casi di soldati che avrebbero abbandonato i propri mezzi e si sarebbero dispersi nei boschi.

Le stesse fonti dell'intelligence americana, che hanno parlato al New York Times a condizione di restare anonime, riconoscono tuttavia che per quanto ben calibrate, le loro sono pur sempre delle stime: basate incrociando le notizie diffuse sia dai russi che dagli ucraini, l'analisi delle immagini satellitari, e dati abbastanza standard come il numero di persone che di norma compongono l'equipaggio dei carri armati e di altri mezzi militari andati distrutti.

Mio marito è morto in guerra »: ecco chi era l’ex marine ucciso in Ucraina mentre combatteva contro i russi. Paolo Foschi su Il Corriere della Sera il 30 Aprile 2022.

Aveva 22 anni e lascia un figlio di 7 mesi. E’ stato inviato al fronte da una società privata di contractor, era impegnato in supporto alle truppe di Kiev contro i russi.

«Mio marito è morto in Ucraina. Era partito con il desiderio di aiutare le persone, aveva sempre sentito che quella era la sua missione principale nella vita. Sognava di fare il poliziotto o il p ompiere»: Brittany Cancel è la vedova di Willy Joseph Cancel, 22 anni, morto in combattimento il 26 aprile in Ucraina, arruolato da una società di contractor per supportare le forze di Kiev contro l’offensiva russa. La storia di questo ragazzo, che lascia un figlio di 7 mesi e una moglie giovanissima, ha commosso l’America ed è stata raccontata in un ampio servizio dell’agenzia Ap, firmato dal giornalista Jonathan Drew. La notizia della sua morte è stata riferita ai media dai parenti più stretti e confermata dalla madre Rebecca Cabrera.

Willy Joseph Cancel negli ultimi tempi aveva prima prestato servizio volontario per alcuni mesi nel corpo dei vigili del fuoco di New York, poi da maggio 2021 fino allo scorso gennaio aveva lavorato come ufficiale di correzione in una prigione privata nel Tennesse, il Trousdale Turner Correctional Center, una struttura di media sicurezza, nei pressi Nashville. Nella sua giovane vita, l’esperienza che lui stesso considerava più significativa era però un’altra, quella militare, finita in malo modo. Nel 2017 , appena conseguito il diploma alla Newburgh Free Academy di New York , si era arruolato nei marines, dove era rimasto fino al 2021 in un reparto di fucilieri in North Carolina (senza mai essere schierato in scenari di guerra all’estero). La sua carriera militare si era conclusa con il congedo dopo una condanna per “cattiva condotta” per non aver eseguito un ordine dei superiori (il corpo dei marines non ha fornito ulteriori dettagli).

Poco prima dell’invasione russa in Ucraina, era stato assunto da una società di contractor con appalti per la sicurezza in vari scenari “caldi” in tutto il mondo ed è stato poi selezionato per il fronte contro la Russia. «Credeva in ciò per cui l’Ucraina stava combattendo, e voleva farne parte per evitare che la guerra non arrivasse qui» ha dichiarato la madre alla Cnn. «E’ una notizia molto triste» ha commentato il presidente americano Joe Biden, anche se la Casa Bianca, pur avendo letto dei rapporti sulla morte del giovane, non ha ancora avuto conferme ufficiali. «Sappiamo che le persone vogliono aiutare, ma incoraggiamo gli americani a trovare altri modi per farlo piuttosto che recarsi in Ucraina per combattere lì» ha aggiunto Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca.

Secondo quanto raccontato da Rebecca Cabrera,Willy Joseph Cancel era partito per la Polonia il 12 marzo e pochi giorni dopo è entrato in Ucraina. «Voleva andare a combattere, si sentiva obbligato perché la guerra era sbagliata e voleva aiutare, è stato molto coraggioso» è invece il ricordo di Triston Mannahan, 21 anni, ex coinquilino del ragazzo. Willy Joseph Cancel, secondo le notizie a disposizione, è il primo americano morto in combattimento in Ucraina dall’inizio della guerra.

Da iltempo.it il 30 aprile 2022.

Un americano e un britannico caduti in battaglia. Due vittime in armi per l'Ucraina rischiano di far innalzare ancora di più la tensione tra la Russia  e le forze occidentali. La vittima inglese è Scott Sibley, era con un connazionale di cui non si hanno al momento notizie. Fonti diplomatiche riportate dalla BBC hanno affermato che molto probabilmente i due erano volontari stranieri in servizio con le forze armate ucraine a Mariupol o comunque nel Donbas. 

Il cittadino americano ucciso in Ucraina si chiamava invece Willy Joseph Cancel. Ex marine, lavorava a tempo pieno nella polizia penitenziaria del Tennessee prima della guerra. Poi è stato assunto come contractor da una società militare privata. Aveva attraversato il confine con la Polonia il 12 marzo scorso e si era unito con le forze armate ucraine. 

"È la notizia del giorno" commenta l'analista geopolitico Dario Fabbri intervenendo allo Speciale Tg La7 condotto dal direttore Enrico Mentana. "È interessante notare come le istituzioni americane che l'hanno confermata non l'hanno magnificata in nessun modo come ci si poteva aspettare. Dietro potrebbe esserci la volontà di dire che si stratta di decisioni isolate" di singoli contractor, "scelte arbitrarie di soggetti che sono andati a combattere per motivi di soldi, ideologici, sentimentali". I "mercenari americani agiscono sempre al fianco" delle truppe Usa, ricorda Fabbri, ma "con ci sono prove" che ci siano dispiegamento americani in Ucraina. "È una notizia che è impossibile sottovalutare" ribadisce il direttore di Domino. 

Poi c'è il caso di Paul Urey e Dylan Healy, due volontari britannici catturati nei giorni scorsi dai russi in Ucraina. A rivelarlo, citata dalla Bbc, l’organizzazione non governativa Presidium Network, che sul posto opera con le organizzazioni umanitarie locali e le famiglie di sfollati, fornendo anche assistenza medica. I due, che erano in contatto con la stessa ong, secondo le stesse fonti sarebbero stati catturati a un posto di blocco dell’esercito russo vicino a Zaporizhzhia, mentre erano impegnati nella "consegna di aiuti umanitari" e in operazioni di evacuazione di "una famiglia ucraina". Secondo fonti di Mosca, invece, sarebbero delle "spie": i russi, dopo averli interrogati, li avrebbero condotti in un posto di detenzione ignoto.

Gli Italiani. (ANSA il 25 aprile 2022) - Da ieri non si hanno più notizie di Ivan Luca Vavassori, il 29enne ex portiere di Pro Patria, Legnano e Bra, che si era arruolato nell'esercito ucraino come volontario nelle brigate internazionali. 

L'allarme su Instagram e Facebook. "Ci dispiace informarvi - scrivono i gestori delle pagine social - che la scorsa notte durante la ritirata di alcuni feriti in un attacco a Mariupol, due convogli sono stati distrutti dall'esercito russo. 

In uno di questi c'era forse anche Ivan, insieme col 4° Reggimento. Stiamo provando a capire se ci sono sopravvissuti". Vavassori è nato in Russia ed è stato adottato da una famiglia piemontese. 

Partendo per l'Ucraina, Vavassori aveva ricordato l'estrema difficoltà nella quale si sarebbe trovato ad operare. "La nostra - aveva scritto - sarà una missione suicida perché abbiamo pochissime unità contro un intero esercito, ma preferiamo provare. Quel che importa è morire bene, soltanto allora inizia la vita". 

Ivan Luca è il figlio adottivo di Pietro Vavassori, titolare dell'Italsempione, azienda della logistica, e di Alessandra Sgarella, sequestrata dalla 'ndrangheta nel 1997 e morta nel 2011 di malattia. 

Dopo il benestare dell'ambasciata di Kiev in Italia, l'ex calciatore è entrato a far parte della "Legione di difesa internazionale Ucraina", diventando il 'comandante Rome'.

Da ansa.it il 26 aprile 2022.

"Sono vivo, ho solo febbre molto alta, alcune ferite in varie parti del corpo. Per fortuna nulla di rotto". 

Lo ha scritto sul suo profilo Istagram. Ivan Luca Vavassori, l'ex calciatore di 29 anni andato a combattere in Ucraina nelle brigate internazionali, a fianco dell'esercito di Kiev. Il giovane ha, inoltre, ringraziato i suoi followers per i "messaggi di supporto che mi avete mandato".

Il pool antiterrorismo della Procura di Milano, guidato da Alberto Nobili, ha aperto un'inchiesta conoscitiva, quindi senza titolo di reato né indagati, sulla vicenda di Ivan Luca Vavassori, l'ex calciatore di 29 anni andato a combattere in Ucraina nelle brigate internazionali, a fianco dell'esercito di Kiev.

Dopo che per un giorno non si sono avute notizie del giovane, e si era temuto per la sua morte, ieri sera è arrivato sui social un aggiornamento con sui si rassicurava che è sopravvissuto con tutta il suo gruppo all'attacco russo a Mariupol. L'indagine, al momento esplorativa, punta a capire se c'è un eventuale giro di arruolamento illegale o di mercenari. 

Il pm Alberto Nobili ha delegato la Digos ad effettuare tutti gli accertamenti opportuni per chiarire i contorni della vicenda e quindi, si suppone, anche per sentire l'ex calciatore e i componenti del suo gruppo.

Da quel che si sa, Vavassori è partito per l'Ucraina per una sua personale decisione e a sue spese. A far scattare l'allarme, poi rientrato, era stato un messaggio apparso sul suo profilo social e da lui affidato per la gestione a una persona di fiducia.

Ivan Luca Vavassori, l'ex calciatore che combatte accanto all'esercito ucraino, "è vivo. E' in ospedale", dove è stato ricoverato con la febbre alta. 

Lo ha affermato al Tg1 il padre, l'imprenditore Pietro Vavassori, confermando quanto anticipato ieri sera sul suo profilo social. Vavassori, nato in Russia, è stato adottato da Pietro Vavassori, titolare dell'Italsempione, azienda nel ramo della logistica, e Alessandra Sgarella, sequestrata dalla 'ndrangheta nel 1997 e morta nel 2011 per una malattia. 

Ha giocato a calcio in serie C per il Legnano, la Pro Patria e il Bra, facendo anche un'esperienza anche in Bolivia, nella squadra del Real Santa Cruz. Per tutta la giornata di ieri si è temuto che il giovane fosse rimasto coinvolto in un attacco a Mariupol. In serata l'aggiornamento social e il sospiro di sollievo: "il team di Ivan è ancora vivo", notizia confermata questa mattina dal padre.

Per l'intera giornata si è creduto fosse morto ma in serata è stato pubblicato, sempre sul suo profilo, che "la squadra di Ivan è sopravvissuta. 

Stanno provando a tornare, il problema è che sono circondati da forze russe così non sappiamo quando e quanto tempo dovranno impiegarci". Nell'attacco, conclude il messaggio serale, "ci sono 5 persone morte e 4 ferite, ma non sappiamo i loro nomi". 

Vavassori, quando è iniziato il conflitto in Ucraina, ha mollato il pallone per andare a combattere al fianco degli ucraini, arruolandosi nelle brigate internazionali. Nella 'Legione di difesa internazionale Ucraina' è diventato il 'comandante Rome' o 'Aquila nera' per quel suo vezzo, come ha raccontato su Tik Tok, di mettere un nastro nero intorno al caricatore del suo mitra.

Vavassori sostiene di avere maturato altre esperienze militari, nella Legione Straniera: "Avevo firmato per cinque anni ma sono uscito dopo tre. Ero distaccato ad Aubagne e Castelnodary", in Francia. Nel suo ultimo post, una settimana fa, appariva in mimetica e a volto coperto e scriveva: "Il soldato prega più di tutti gli altri per la pace, perché è lui che deve patire e portare le ferite e le cicatrici più profonde della guerra. Grazie mio Signore per essere ogni giorno al mio fianco, ti amo". 

Secondo le ultime informative, i 'foreign fighter' italiani che combattono in Ucraina sarebbero meno di venti, probabilmente diciassette: otto con i separatisti filo russi nel Donbass e nove con gli ucraini.

Tra le vittime filo russe c'era anche Edy Ongaro, detto 'Bonzambo, ultrà del Venezia e attivista dei centri sociali del Nord Est, ucciso a fine marzo. Invece per la Russia gli italiani in armi sarebbero 60, di cui dieci già tornati in patria e 11 morti in battaglia, una notizia che però "non risulta" all'intelligence italiana. 

All'inizio del conflitto Vavassori, al pari di molti altri italiani, aveva raccolto informazioni in ambasciata per unirsi agli ucraini. Ma proprio per le sue origini russe aveva avuto alcuni problemi poco dopo essere entrato tra i combattenti. 

Alla trasmissione 'Le Iene' aveva raccontato che qualcuno sospettava che fosse una spia, il cellulare gli era stato sequestrato ed era stato interrogato per alcuni giorni. Poi era tornato a combattere. E a raccontare la sua guerra: "Morire vent'anni prima o vent'anni dopo poco importa", aveva spiegato.  

Da tgcom24.mediaset.it il 2 maggio 2022.

Ivan Luca Vavassori, l'ex calciatore di 29 anni partito per l'Ucraina dove si è arruolato come volontario nelle brigate internazionali per combattere al fianco dell'esercito di Kiev, vuole rientrare in Italia. 

E' lui stesso ad annunciarlo in una storia pubblicata in lingua spagnola sul suo profilo Instagram. "Sono stufo - scrive - per me è abbastanza cosi'. E' ora di tornare a casa, non ho più la testa per andare avanti. Ho fatto tutto il possibile per aiutare. 

Ho messo tempo e vita a disposizione del popolo ucraino, però ora è tempo di riprendermi la mia vita" 

Quello combattente italiano, figlio di Alessandra Sgarella, sembra un crollo emotivo: pochi giorni fa aveva fatto sapere di essere rimasto ferito negli scontri, e poche ore fa aveva annunciato di essersi rimesso e di avere l'intenzione di andare fino in fondo.

Poi su Instagram lo sfogo: "Torno dove sono felice e torno per riprendermi tutto ciò che è mio - scrive -  Le cose sono cambiate molto da quando me ne sono andato, ma sono sicuro che con l'aiuto di Dio raggiungerò i miei obiettivi. E lei è al primo posto in questi", conclude con un evidente riferimento a una donna.

Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 25 aprile 2022.  

A un paio di giorni di distanza dall'annuncio di una visita del premier Draghi a Kiev, arriva la riposta indiretta della Russia: Mosca ha avvisato Roma che undici «combattenti di professione» italiani sarebbero caduti in territorio ucraino mentre «partecipavano a operazioni militari» contro le Forze armate della Federazione russa. 

I foreign fighters avrebbero fatto parte di un'unità di sessanta «mercenari» connazionali che si sarebbero schierati a fianco della resistenza di Kiev nel corso del confitto: dieci di loro sarebbero rientrati in patria, mentre gli altri sarebbero ancora in Ucraina insieme a «diverse migliaia di cittadini stranieri» in armi.

Di chi si tratti e in che situazione siano stati uccisi non è noto. E, al momento, fonti di intelligence non confermano le morti. «Allo stato non risulta che 11 foreign fighters di nazionalità italiana - spiegano - siano rimasti uccisi sul campo di battaglia in Ucraina in operazioni contro le forze russe. Sono in corso verifiche».

L'unico mercenario italiano morto di cui si è a conoscenza è Edy Ongaro, il 46enne veneziano ucciso il 30 marzo da una bomba mentre combatteva con le milizie separatiste del Donbass. 

L'informazione degli 11 combattenti uccisi è arrivata all'Italia dal ministero della Difesa russo attraverso i canali diplomatici, ed è stata comunicata a Palazzo Chigi. Sin dall'inizio della guerra, l'Antiterrorismo ha ripreso a contare chi stava scegliendo di recarsi in Ucraina per combattere. E sarebbero circa sessanta, uno di questi è Giuseppe Donnini, 52enne ravennate che nel novembre 2016 s' è fatto riprendere nel Donbass occupato dai russi insieme al commilitone Valter Nebiolo.

Arruolata con la resistenza ucraina è anche una 23enne di Mira, in Veneto: Giulia Schiff. «Io non sono un mercenaria - motiva la sua scelta -, non so se mi pagheranno e non mi interessa. Sono qui come volontaria non per fare soldi». Occhi celesti, capelli biondi, viso da ragazzina, Giulia è un ex allieva dell'Aeronautica cacciata dall'Accademia di Pozzuoli per «insufficiente attitudine militare», anche se lei ha sempre parlato di una ritorsione per aver denunciato gli atti di nonnismo che era stata costretta a subire.

All'indomani dello scoppio della guerra, è partita per l'Ucraina arruolandosi come foreign fighter nelle fila di chi combatte contro gli invasori russi. Nelle scorse settimane si trovava a Leopoli, ma aveva intenzione di tornare nella Capitale e, poi, di spostarsi verso il sud del Paese.

Nel conflitto dei russi contro gli ucraini c'è anche chi ha scelto di combattere dalla parte di Mosca. A cominciare da il generalissimo, Andrea Palmeri, 42 anni, ex capo ultrà della Lucchese, espatriato nel 2014, latitante condannato in primo grado a 5 anni di carcere per aver arruolato mercenari. 

La Polizia di prevenzione sta monitorando i combattenti partiti dall'Italia o quelli intenzionati a farlo. Attualmente ne sono stati censiti 17 in Ucraina: una goccia nel mare rispetto ai ventimila mercenari stranieri che si trovano in quelle zone di guerra. Molti sono stati militanti o simpatizzanti dell'estrema destra nostrana, equamente distribuiti tra le due fazioni in conflitto: 9 dalla parte degli ucraini contro i russi, nel Battaglione Azov o altrove, e 8 schierati con le truppe di Mosca.

Tra i primi ci sono anche 5 stranieri: 4 ucraini (fra cui il ristoratore Volodymyr Borovyk, 38enne che dal 2004 vive a Roma dove ha messo su famiglia e ha aperto un ristorante, partito due giorni prima che iniziasse l'invasione. Mosca avverte che chiunque verrà preso prigioniero essendo un mercenario non avrà diritto all'applicazione delle norme del diritto umanitario internazionale». Mentre al rientro in Italia rischia una condanna da tre a sei anni di carcere.

Andrea Pistore per corriere.it l'1 aprile 2022.

Dal Donbass arriva notizia della morte di Edy Ongaro, 46enne di Portogruaro, che dal 2015 combatteva nella regione dell’Ucraina insieme ai separatisti filorussi: la notizia della sua morte a causa di una bomba è iniziata a circolare nella tarda serata di giovedì 31 marzo ed è stata confermata anche da amici stretti del foreign fighter. Attivisti antifascisti che lo conoscevano hanno raccontato di aver avvisato la famiglia.

Chi era Edy Ongaro

«Verrà un tempo nel quale sapremo ascoltarci mutualmente; edificheremo una società equa e senza distinzioni; dove tutto è di tutti; basata sul lavoro e sorretta dalle mani callose dei proletari; che comparte e programma; che non lascerà nessuno per strada; che non sfrutta le masse per il profitto di qualche inutile avido egoista», scriveva così su Facebook il veneto sotto le bombe nel Donbass. 

Edy Ongaro, veneziano di Portogruaro, 46 anni, nome di battaglia «Bozambo», per la giustizia italiana era un latitante. Le forze dell’ordine lo cercavano dal 2015. Motivo? Dovevano ammanettarlo per aver aggredito una barista a cui aveva tirato un calcio all’addome perché si era rifiutata di versargli ancora da bere. 

Poi, in preda ai fumi dell’alcol, se l’era presa anche con i carabinieri, picchiando anche loro. Da quel giorno Ongaro era fuggito nell’Est Europa, arruolandosi nelle milizie comuniste filorusse che strizzano l’occhio a Putin, a combattere per l’indipendenza dall’Ucraina. 

«Mi sento vicino ai poveri»

Ongaro si trovava nel territorio diventato motivo di disputa tra Russia e Ucraina, dove il presidente russo ha ordinato l’ingresso delle truppe nelle regioni separatiste. Il «foreign fighter» nel 2015 aveva rilasciato un’intervista alla tv dei combattenti, poco dopo essere diventato parte integrante della brigata Prizrak: «Vengo da Giussago- rivendicava orgoglioso- un paesino tra Venezia e la Slovenia. Il mio nome di battaglia? Quello usato da un partigiano durante la seconda guerra mondiale, suona esotico e mi piace».

Il combattente poi raccontava: «Ho scelto questa brigata per il carattere internazionalista. Se ricevo una ricompensa? Sì, una colazione, un pranzo e una cena oltre a un kalashnikov che si chiama Anita, come la moglie di Garibaldi. Mi sento vicino ai poveri, ovunque nel mondo c’è un popolo che viene calpestato. 

Questa sana ribellione ci è stata insegnata dai nostri nonni contro il fascismo razzista. Finché ci sarà aria e sangue nel mio corpo credo che resterò qui in Ucraina». Su Youtube si trovano diversi servizi sul veneziano che raccontava anche la storia della sua famiglia e le vessazioni subite sotto il fascismo, da cui ha tratto ispirazione per emigrare nella zona diventata teatro di una delle più gravi crisi internazionali dell’età moderna. 

L’ultimo post e la rivendicazione dell’occupazione russa

Il «combattente straniero», che ha vissuto anche in Spagna per tre anni in cui ha «studiato» la guerra civile iberica, è sempre stato attivo sui social network (anche se per un periodo il suo profilo è rimasto chiuso) e il 20 febbraio ha ribadito la sua posizione «elogiando» l’invasione russa: «Quel giorno verrà, ma prima dobbiamo fare tutto ciò che è nelle nostre possibilità umane per rendere questo unico pianeta a disposizione un posto più vivibile- scrive- sta a noi combattere senza tregua il mostro, stanarlo da ogni tombino. 

Massacrare i civili novorussi non ha mai portato fortuna a chi arrivava da ovest, subumani bastardi nazisti strumento imperialista da sempre». Il post è stato corredato dai commenti di amici e conoscenti, molti dei quali preoccupati dal silenzio di «Bombazo» che non dava notizie da una decina di giorni.

Toni Capuozzo su Edy Ongarlo: "Lo conoscevo, chi era davvero". L'inconfessabile verità sull'italiano ucciso in Donbass. Libero Quotidiano  l'01 aprile 2022.

Tra le vittime della guerra in Ucraina anche un italiano: Edy Ongaro. Il 46enne era nel Donbass dal 2015 e ha perso la vita proprio a fianco delle milizie separatiste, ucciso da una bomba a mano. A ricordarlo Toni Capuozzo. A lui il giornalista ex vicedirettore del Tg5 dedica un lungo post, definendo quanto accaduto "la notizia che più mi ha colpito". Edy, da Portogruaro - si legge sul profilo Facebook di Capuozzo -, "era inquadrato in una brigata internazionale a fianco dei secessionisti del Donbass. Seguivo il suo profilo, qui su FB, anche se da tempo era chiaro che avesse altre cose da fare".

Ma chi era davvero l'uomo definito dai più come "ricercato" in Italia? "Era un comunista vecchio stampo - lo descrive -, che non negava le foibe, e piuttosto ne faceva una gloria della giustizia proletaria. Riposi in pace, lui e la sua coerenza, che rivelano la grande confusione tra i cuori generosi e smarriti delle destre e delle sinistre più eccitabili". 

Ongaro era stato implicato in una rissa in un bar di Venezia, dove aveva colpito l'esercente con un calcio all'addome, scagliandosi alla fine anche contro un carabiniere. Rimesso in libertà il 46enne era sparito. Da qui quelle che il giornalista definisce "accuse taglienti tra camerati e tra compagni", che paiono "spasimi moribondi delle ideologie del ‘900". La domanda infatti è: "Cosa ha a che fare l’autoritarismo di Putin, e la sua politica di potenza con il vecchio comunismo ? Poco: solo l’assenza di libertà e la repressione del dissenso". Da qui la conclusione: "Il mondo, visto da queste mongolfiere ideologiche sembra un sanguinoso scherzo da primo aprile. Meglio restare con i piedi per terra". 

Originario di Venezia, era lì dal 2015. Edy Ongaro ‘Bozambo’, miliziano italiano ucciso in Donbass: combatteva con i separatisti, “lì era rinato”. Redazione su Il Riformista il 31 Marzo 2022. 

Edy Ongaro, miliziano italiano di 46 anni combattente dal 2015 per le forze separatiste (e filorusse) del Donbass, è rimasto ucciso mercoledì 30 marzo in battaglia, in un villaggio a nord di Donetsk, colpito da una bomba a mano. A diffondere la notizia il Collettivo Stella Rossa Nordest in un post sui social pubblicato poco dopo le 21 di giovedì 31 marzo.

“Con immenso dolore comunichiamo che Edy Ongaro, nome di battaglia Bozambo, è caduto da combattente per difendere il popolo libero di Novorossia dal regime fascista di Kiev.

Dalle prime informazioni ricevute sappiamo che si trovava in trincea con altri soldati quando è caduta una bomba a mano lanciata dal nemico. Edy si è gettato sull’ordigno facendo una barriera con il suo corpo. Si è immolato eroicamente per salvare la vita ai suoi compagni”.

“Edy era nato 46 anni fa a Portogruaro, Venezia, raggiunto il Donbass nel 2015 non lo aveva più lasciato. Era un Compagno puro e coraggioso ma fragile ed in Italia aveva commesso degli errori. In Donbass ha trovato il suo riscatto, dedicando tutta la sua vita alla difesa dei deboli e alla lotta contro gli oppressori. Ha servito per anni nelle fila di diversi corpi delle milizie popolari del Donbass fino alla fine dei suoi giorni”.

La notizia è stata poi confermata all’agenzia Ansa anche da Massimo Pin, amico di Ongaro, in contatto con esponenti della ‘carovana antifascista’ che si trova nell’Oblast. “Purtroppo è vero – dice Pin – I compagni in Donbass sono stati informati della morte di Edy da ufficiali della milizia popolare di cui faceva parte. Prima di comunicarlo abbiano informato il padre e il fratello”.

Lo sfogo del reporter italiano: “Nel Donbass l’Ucraina bombarda da 8 anni, dove eravate?”

A meno di una settimana dall’invasione russa in Ucraina, arrivò lo sfogo del reporter italiano Vittorio Rangeloni che dal 2015 vive nel Donbass.“Questo è il centro di Donetsk che in questo momento viene bombardato e non dalla Russia, non da Putin ma dall’esercito ucraino. In questi giorni sono tante le persone che scendono nelle piazze d’Italia e non solo nel mondo e invocano la pace, condannano la Russia, manifestano contro la guerra. Tutto questo è fantastico, è giusto, la guerra è qualcosa di sbagliato, di ingiusto ma è altrettanto sbagliata l’ipocrisia di chi se ne fotte del fatto che…”.

Originario di Lecco, Rangeloni attacca: “Non è una cosa che accade in questi giorni ma sono 8 anni che tutti i giorni sparano contro queste città e a voi non ve n’è fregato assolutamente niente, solo oggi siete pacifisti e ipocriti e questa cosa è ancora peggiore. Scusate lo sfogo…“.

Dal 2015 si era arruolato nella brigata Prizrak. Chi era Edy Ongaro ‘Bozambo’ , combattente veneto in Ucraina ucciso in Donbass: “Mi sento vicino ai poveri”. Elena Del Mastro su Il Riformista l'1 Aprile 2022. 

Dal 2015 combatteva in Ucraina insieme ai separatisti filo russi. Una bomba a mano lo ha stroncato mentre era nel Donbass. Edy Ongaro, 46 anni, meglio conosciuto come “Mozambo” era partito dalla sua Portogruaro per diventare parte integrante della brigata Prizrak.

Ongaro per lo stato italiano era un latitante dal 2015. Aveva aggredito una barista perché si era rifiutata di versargli da bere. Poi se l’era presa anche con i carabinieri in preda a qualche bicchiere di troppo. Era riuscito a scappare e si è diretto verso il Donbass arruolandosi nelle milizie comuniste combattendo per l’indipendenza dall’Ucraina. A diffondere la notizia il Collettivo Stella Rossa Nordest in un post sui social pubblicato poco dopo le 21 di giovedì 31 marzo.

“Con immenso dolore comunichiamo che Edy Ongaro, nome di battaglia Bozambo, è caduto da combattente per difendere il popolo libero di Novorossia dal regime fascista di Kiev. Dalle prime informazioni ricevute sappiamo che si trovava in trincea con altri soldati quando è caduta una bomba a mano lanciata dal nemico. Edy si è gettato sull’ordigno facendo una barriera con il suo corpo. Si è immolato eroicamente per salvare la vita ai suoi compagni”.

“Edy era nato 46 anni fa a Portogruaro, Venezia, raggiunto il Donbass nel 2015 non lo aveva più lasciato. Era un Compagno puro e coraggioso ma fragile ed in Italia aveva commesso degli errori. In Donbass ha trovato il suo riscatto, dedicando tutta la sua vita alla difesa dei deboli e alla lotta contro gli oppressori. Ha servito per anni nelle fila di diversi corpi delle milizie popolari del Donbass fino alla fine dei suoi giorni”.

“Vengo da Portogruaro – rivendicava orgoglioso in un’intervista alla Tv dei combattenti, come riportato dal Corriere della Sera- un paesino tra Venezia e la Slovenia. Il mio nome di battaglia? Quello usato da un partigiano durante la seconda guerra mondiale, suona esotico e mi piace”. Il combattente poi raccontava: “Ho scelto questa brigata per il carattere internazionalista. Se ricevo una ricompensa? Sì, una colazione, un pranzo e una cena oltre a un kalashnikov che si chiama Anita, come la moglie di Garibaldi. Mi sento vicino ai poveri, ovunque nel mondo c’è un popolo che viene calpestato. Questa sana ribellione ci è stata insegnata dai nostri nonni contro il fascismo razzista. Finché ci sarà aria e sangue nel mio corpo credo che resterò qui in Ucraina”.

Su Youtube, in diversi servizi, aveva raccontato la storia della sua famiglia che aveva subito vessazioni durante il fascismo. Era questo il motivo che lo aveva spinto a partire per dare il suo contributo in quel conflitto iniziato nel 2014.

Nell’ultimo post su Facebook del 20 febbraio aveva ribadito la sua posizione nel conflitto: “Verrà un tempo nel quale sapremo ascoltarci mutualmente – scriveva – edificheremo una Società equa e senza distinzioni; dove tutto è di Tutti; basata sul Lavoro e sorretta dalle mani callose dei Proletari; che comparte e programma; che non lascerà nessuno per strada; che non sfrutta le masse per il profitto di qualche inutile avido egoista. Quel giorno verrà, ma prima dobbiamo fare tutto ciò che è nelle nostre possibilità umane per rendere questo unico pianeta a disposizione un posto più vivibile; sta a Noi combattere senza tregua il mostro, stanarlo da ogni tombino. Massacrare i civili novorussi non ha mai portato fortuna a chi arrivava da ovest, subumani bastardi nazisti strumento imperialista da sempre”. Molti i commenti al post anche di conoscenti italiani preoccupati dal suo insolito silenzio sui social. Poi la conferma della sua morte.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

(ANSA  l'1 aprile 2022) - "Speriamo che la salma possa rientrare in Italia e che i funerali si possano svolgere qui in paese". Sono le parole di Rino Ongaro, zio paterno di Edy, il 46enne veneziano rimasto ucciso da una bomba a mano mentre combatteva con le milizie separatiste del Donbass. 

"Non abbiamo avuto altre notizie - ha fatto sapere all'ANSA l'anziano parente - ho sentito mio fratello Sergio questa mattina e anche lui sta attendendo qualche informazione ulteriore. Ci hanno soltanto confermato le tragiche circostanze in cui mio nipote ha trovato la morte.

Non sentivamo Edy da parecchio tempo, ma le sue condizioni ci venivano puntualmente riferite dal fratello Mirko, che manteneva un costante contatto telefonico. Non ho giudizi da esprimere su questa sua scelta: si trovava lì da sette anni - ha concluso - e dunque aveva maturato sue convinzioni sulle quali non entro".

(ANSA  l'1 aprile 2022) - "Non so darmi una spiegazione vera su cosa l'abbia portato lì. Sono frastornato, non so a cosa pensare". Sono le parole con cui Sergio Ongaro, sentito dai giornalisti sotto casa, ha commentato la morte in Donbass del figlio Edy, miliziano ucciso nelle forze separatiste, rimasto ucciso da una bomba a mano.

"Mi sto facendo tante domande - ha ribadito, ancora molto scosso - sul perché è successo, e come sia avvenuta la tragedia. Penso agli episodi che possono averlo spinto a quella scelta. Ma la risposta non la troverò". "Aspettiamo che qualcuno, e non so nemmeno chi, ce lo riporti a casa - l'auspicio del genitore -: vorrei fosse seppellito assieme a sua mamma, a Fossalta di Portogruaro".

Da lastampa.it  l'1 aprile 2022.

Un miliziano italiano di 46 anni, Edy Ongaro, combattente con le forze separatiste del Donbass, è rimasto ucciso ieri in battaglia, nel villaggio di Adveedka, a nord di Donetsk, colpito da una bomba a mano. La notizia è stata diffusa con un post dal Collettivo Stella Rossa Nordest con un post sul proprio Profilo Facebook, poi è stato confermato da Massimo Pin, amico fraterno di Edy, al quale è toccato il compito di avvisare la famiglia. 

«Il martirio di Edy Ongaro serva a rompere il castello di bugie di questa guerra, ma soprattutto a rilanciare la lotta antifascista e internazionalista. Il sacrificio di Edy mostri la forza del proletariato che saprà portare al trionfo del comunismo – scrivono i compagni di battaglia su Facebook –. Ti salutiamo Compagno Partigiano con il motto che ti era tanto caro: 'Morte al fascismo, libertà al Popolo».

Chi era Edy Ongaro

Edy Ongaro, 46 anni compiuti a febbraio, da 7 anni si trovava in Donbass, Bozambo il suo nome di battaglia, a combattere con le brigate comuniste che appoggiano Putin in ottica anti–ucraina.

Ongaro, prima della partenza per il Donbass, aveva avuto una vita complicata: disoccupato, ultrà del Venezia, nel 2015 venne coinvolto nell'aggressione di una barista e divenne latitante. I militari portogruaresi lo dovevano arrestare per l’aggressione a una barista de La Stretta, in pieno cento storico a Portogruaro. Le rifilò un calcio all’addome perché, in stato di ebbrezza, voleva un’altra consumazione e l’esercente si rifiutò.

Poi un periodo di permanenza in Spagna lungo tre anni dove, racconterà, ha «imparato molto sulla sulla guerra civile spagnola». 

Una vita complicata confermata anche dallo stesso Collettivo Stella Rossa che lo definisce come «un Compagno puro e coraggioso ma fragile» che «in Italia aveva commesso degli errori». 

Poi la scelta del Donbass, dove entra nella temuta brigata Prizrak, un battaglione di militari da ogni parte d'Europa che combatte contro l'esercito ucraino a favore della causa indipendentista filo-russa. In un'intervista poco dopo il suo arrivo si mostrava sicuro: «Non mi sento patriota, sono internazionalista e vicino agli esseri umani, i poveri, chi è uguale a me. Io liberamente non avendo nessuno peso sulle spalle penso che finché il sangue scorrerà da qui non uscirò mai. La mia scelta è di restare qui».

E ancora: «Verrà un tempo nel quale sapremo ascoltarci mutualmente; edificheremo una società equa e senza distinzioni; dove tutto è di tutti; basata sul lavoro e sorretta dalle mani callose dei proletari; che non lascerà nessuno per strada; che non sfrutta le masse per il profitto di qualche inutile avido egoista». 

Con l'approssimarsi della guerra, sui social sottolinea la decisione di Putin, convinto di lanciare ancora contro «le forze nazifasciste» di Kiev. Fino all'ultima battaglia.

Francesco Moscatelli per “la Stampa” il 2 aprile 2022.  

«Quando ho visto Massimo e mio figlio Mirko insieme davanti a casa ho capito subito. Mi sono detto: "Edy è andato via per sempre". Sapevo che rischiava grosso: quando tieni la mano vicino all'acqua bollente prima o poi ti scotti». Sergio Ongaro, 74 anni, non incontrava né sentiva il figlio Edy da sei anni. Ma appena comincia a parlarne, nella cucina al piano terra della loro casa di Giussago, una frazione di Portogruaro circondata dai campi, gli occhi di questo omone che ha trascorso la vita lavorando come muratore fra l'Italia e l'America Latina, si velano subito di lacrime.  

Non ha nemmeno una foto di suo figlio ma di sicuro, più che al miliziano filo-russo di 46 anni che aveva scelto come nome di battaglia Bozambo in omaggio a un partigiano, sta pensando al bambino a cui non poteva comprare i giocattoli «perché i soldi non erano mai abbastanza» e al ragazzino che accompagnava a giocare a pallone «anche se non era proprio portato». Gli hanno raccontato che è caduto in una trincea nel villaggio di Adveedka, a Nord di Donetsk, mentre combatteva contro l'esercito di Kiev. 

Edy, un ex militante di Rifondazione comunista affascinato dalle gesta di Gino Donè Paro ("El Italiano" che partecipò allo sbarco del Granma a Cuba), finito a scrivere sui social messaggi pieni d'odio contro i nazisti ucraini e contemporaneamente a sparare dalla stessa parte dei militanti neofascisti pro-Cremlino, in uno strano calderone dove ideologia e destini personali si mischiano così tanto da essere difficilmente decifrabili dall'esterno. Gli hanno spiegato che sarebbe morto nel tentativo di proteggere i suoi compagni della Brigata Prizrak da una granata.

E che ad avvisare Massimo Pin, l'amico comune che faceva da tramite fra lui e il figlio, è stato un altro combattente italiano a cui Edy aveva lasciato un foglietto con un numero «da chiamare se mi succede qualcosa». 

Ma al signor Sergio questi dettagli importano poco. Così come non gli interessano più nemmeno gli errori che Edy avrebbe commesso prima di lasciare l'Italia nel 2015: era accusato di aggressione e resistenza a pubblico ufficiale dopo un violento litigio con una barista nel corso principale di Portogruaro.

 Sarebbe stato questo uno dei motivi per cui aveva scelto di andare in Ucraina. «La guerra è sempre sbagliata e mio figlio ha fatto un errore a prescindere dalla parte per cui combatteva - ragiona Sergio -. Per me quelli che i soldati chiamano nemici sono solo altri uomini».  

Accanto a lui c'è la seconda moglie, una signora colombiana. «L'ultima volta che abbiamo discusso è stato nel 2016 - prosegue - . Lui era già nel Donbass. Io non ero d'accordo e gliel'ho detto. Quale padre può volere che il proprio figlio si metta in una situazione di pericolo? Mentre da quella volta con me non ha più parlato, con suo fratello si sono telefonati fino a poche settimane fa. Spesso le chiamate finivano con Edy che appendeva bruscamente. Mio figlio era fatto così: aveva una gran parlantina e cercava sempre di convincere gli altri delle sue idee. Ma era un buono, sempre pronto ad aiutare tutti».

Nella camera accanto alla cucina tutto è rimasto come lo aveva lasciato Edy, che in questa casa aveva vissuto prima con la madre, morta di Parkinson anni fa, e poi con la nonna paterna e Alexandra, la badante ucraina che assisteva l'anziana. Ci sono una rete di metallo con sopra un materasso, un armadio e una cassettiera.  

«I suoi libri sono in cantina. - continua il papà - Non ha mai studiato ma leggeva tantissimo. Aveva imparato da solo anche le lingue: spagnolo, russo, cecoslovacco. Siamo sempre stati di sinistra. Mio padre Antonio è stato il primo comunista del paese. Si era salvato dai nazi-fascisti e ci ha cresciuto insegnandoci il valore del lavoro e del sacrificio. Edy per un po' mi ha seguito nei cantieri ma crescendo è diventato sempre più ribelle». 

Fino a sei anni fa la vita di Edy Ongaro era scandita da impieghi saltuari, dalle serate nei centri sociali veneti, dalle partite con gli ultras del Venezia e dalle uscite con gli amici della squadra di calcetto "Stella Rossa". E poi i viaggi all'estero, sempre più frequenti: tre anni a Barcellona «per approfondire la guerra civile spagnola», l'Est Europa. «Aveva una fidanzata francese ma si sono lasciati. Poi abbiamo sentito che aveva una donna anche in Ucraina» aggiunge la moglie del papà, quasi scusandosi per non sapere molto di più.

 Domenica nella chiesetta bianca di Giussago ci sarà una messa di suffragio, in attesa che le ceneri di Edy-Bozambo possano rientrare in Italia per riposare nella stessa tomba della madre. «Né io né mio figlio siamo mai andati in chiesa - conclude il signor Sergio -. Ma volevamo dare la possibilità a tutti i suoi amici di salutarlo. Ancora non ci credo. Mi sembra ieri che sua mamma mi rimproverava per avergli scelto un nome che poteva sembrare femminile».

Edy Ongaro, l'italiano ucciso in Donbass: "Leghisti subumani da pestare. Europa, cagnetta col collare". Brunella Bolloli su Libero Quotidiano il 02 aprile 2022.

Il suo kalashnikov si chiamava Anita, «come la moglie di Garibaldi», in Donbass era arrivato nel 2015 oltrepassando il confine sloveno, dopo un periodo di latitanza in Spagna; in Italia lo aspettavano ancora il padre Sergio, lo zio Rino, il fratello Mirko, oltre all'amico Massimo Pin e i compagni del Collettivo Stella Rossa nordest, che ora lo piangono da eroe. Ma Edy Ongaro, 46 anni, non tornerà da vivo. Forse alla famiglia sarà restituita la salma, «lo vogliamo seppellire vicino a sua madre, nel cimitero di Fossalta di Portogruaro», ha detto il padre sconsolato, incapace di darsi una risposta sulla fine tragica di quel figlio che non vedeva da troppo tempo. «Non so cosa pensare, mi domando il perché e il per come fosse là e non so darmi una risposta.

Spero solo che lo riportino qui», prega. «Mio figlio era un idealista ma quando si spara, quando si fa la guerra, non sono mai ideali buoni».

Lo zio Rino prova a spiegare ai cronisti che suo nipote non era contro Kiev: «È cresciuto qui nella casa accanto. Era un ragazzo molto intelligente, leggeva tanto, libri e giornali. Lui filo-russo? Non mi risulta. Non parlavamo di politica, ma non era contro l'Ucraina. Mia madre, sua nonna, aveva una badante ucraina che spesso preparava da mangiare anche per lui. Edy non ha mai fatto commenti a riguardo. Per me era andato là per la pace». 

«MOSTRO FASCISTA»

Eppure, basta farsi un giro in Rete per sentire cosa diceva di sé il 46enne vittima di una bomba a mano nel villaggio di Adveedka, nel nord di Donetsk: «Sì, sono un combattente comunista. Sono un internazionalista. La mia scelta è di rimanere qui, combattere per la libertà di questo popolo. Dobbiamo sconfiggere il mostro fascista. Starò qui fino alla fine dei miei giorni, finché il sangue mi scorrerà nel corpo. Dobbiamo fare tutto quello che è nelle nostre possibilità per rendere questo pianeta un posto più vivibile; sta a noi combattere senza tregua il mostro, stanarlo da ogni tombino». Ongaro non aveva il fisico nerboruto dei foreign fighter più allenati, era smilzo e attaccato alla sigaretta, la mimetica perennemente addosso, il berretto storto e il pizzetto sale e pepe che lo invecchiava di qualche anno. Si era scelto "Bozambo" come nome di battaglia «in onore di un partigiano della Seconda Guerra Mondiale», nelle interviste sui canali della Resistenza citava Gaber perché «la libertà è democrazia, la liberta è partecipazione», ecco perché dopo essere stato arrestato per avere preso a calci una cameriera colpevole di non avergli versato altro vino (era ubriaco) era scappato dall'Italia. I familiari pensa vano che avesse raggiunto la Russia per turismo, invece lui si era unito agli indipendentisti con il mitra.

Del resto, da che parte stava Bozambo è evidente. Lo spiega bene Stefano Orsi, esperto di geopolitica, analista presso letteradamosca.eu, ilsudest.it e The Saker, in contatto con il miliziano fin dall'inizio della vicenda del Donbass. «Edy ed io ci scrivevamo», racconta Orsi a Libero, «credeva in quello che faceva, infatti è rimasto al fianco di un popolo di cui aveva sposato la causa, sino all'ultimo. Era anche una persona fragile, che credeva in un mondo di eguali e solidali e la sua scelta di arruolarsi nella brigata Prizrak, a 39 anni, non è stata casuale. Nel gennaio 2015 c'è stata la battaglia di Debaltsevo», per il controllo dello snodo ferroviario tra Donetsk e Lugansk, i due capoluoghi delle province ribelli. Lo ricorda anche Toni Capuozzo, grande inviato di guerra: «Edy Ongaro era un comunista vecchio stampo, che non negava le foibe, e piuttosto ne faceva una gloria della giustizia proletaria». 

EUROPA INUTILE

Nella sua vita precedente, prima di rimanere disoccupato, Ongaro era ultrà del Venezia, faceva il muratore e l'idea di costruire qualcosa torna sempre nelle sue parole e nei video trasmessi sui social. Ma aveva un nemico: l'Occidente, gli Stati Uniti, il fascismo e il leghismo che considerava un po' la stessa cosa. Disprezzava l'Europa definita «un cagnetto con il collare con le dodici stelle blu, la giri e c'è scritto "Made in Usa"». Per lui il Donbass «è come in Yugoslavia, è mettere i popoli fratelli sulla stessa terra gli uni contro gli altri», mentre «la Nazione è una, quella umana, poi volendo c'è l'altra, quella subumana, i razzisti, i fascisti, la Lega Nord, il Ku Klux Klan, il White Power, gente come Borghezio, gente che non dovrebbe avere la scorta ma essere picchiata dalla polizia». Ora per centri sociali e comunisti è «un martire», «un eroe», un esempio di coraggio e di coerenza. «Addio partigiano», scrivono su Facebook, «sei caduto contro le forze naziste ucraine. Ma chi ha compagni non muore mai!». Ci sarà una messa in suo onore.

Hanno tutti ragione. Ecco perché il Donbass è la patria dei rossobruni, i nazional-comunisti che tifano Putin. Stefano Cappellini su La Repubblica l'1 Aprile 2022. 

La vicenda del Donbass è stata in questi anni il più grande laboratorio del fenomeno rossobruno, cioè la convergenza ideologica di pezzi d'estrema destra ed estrema sinistra o, talvolta, la fusione delle due tendenze in un unico soggetto: formazioni nazional-comuniste o sovraniste, gruppi piccoli ma anche rapporti e contaminazioni con la politica che qualcuno definirebbe mainstream, in particolare Lega e M5S, e pezzi di Fratelli d’Italia, che oggi condividono il tifo per il Donbass russo e l’apologia della invasione russa, dopo aver sperimentato le prime convergenze sulla Siria e il sostegno ad Assad.

Ultrà di destra e sinistra. I 20 volontari italiani in guerra nel Donbass. Fausto Biloslavo su Il Giornale il 2 aprile 2022.  

Kharkiv. «Bozambo», al secolo Edy Ongaro, 46 anni, è caduto in battaglia su uno dei fronti più duri, davanti all'aeroporto di Donetsk. Il volontario di Portogruaro al fianco dei separatisti russi dal 2015 sarebbe stato ucciso da una bomba a mano ovvero in combattimento ravvicinato. Non è l'unico italiano che ha scelto di arruolarsi in Ucraina da una parte e dall'altra della barricata. Negli otto anni di guerra nel Donbass sfociata nell'invasione russa sono una cinquantina i connazionali che hanno imbracciato le armi. Adesso, secondo l'intelligence, meno di 20: al fianco dei filo russi sarebbero rimasti in 7 e gli altri sono con gli ucraini.

«Bozambo» era uno dei più noti sul fronte separatista. In una video testimonianza del 2015 con lo stemma del battaglione «fantasma» sulla mimetica parlava «di sana ribellione insegnata dai nostri nonni durante la resistenza». Ex muratore, a Barcellona è stato influenzato dalla leggenda della guerra civile spagnola. Nemico giurato dei governi tecnici in Italia bollava come «subumani i fascisti, i razzisti e Borghezio (esponente della Lega, nda) che dovrebbe venire picchiato ogni giorno dalla polizia». Per Bozambo «l'Europa è un cagnetto con il collare dello Zio Sam». E concludeva giurando «nessun passo indietro». La Rete dei comunisti lo ricorda con enfasi di altri tempi: «Un partigiano antifascista internazionalista. Bandiere Rosse al vento! Ciao Bozambo».

I nostalgici della falce e martello sono stati attratti dalle repubbliche ribelli a tal punto che è sorto un Comitato per il Donbass «gruppo italiano a sostegno delle forze che combattono per una Novorossiya libera, socialista, antifascista». La Novorossiya è l'antica mappa dell'influenza russa che si espandeva fino ad Odessa. Un altro «compagno» di Bozambo è Alberto Fazolo rientrato in patria, che si era arruolato nello stesso battaglione del veneto ucciso giovedì sotto il comandante Nemo, commissario politico dell'unità internazionale. Nel Donbass ci sono anche italiani di estrema destra, che vedono Putin come un nuovo idolo. Il più noto è Andrea Palmieri, soprannominato «Generalissimo». Quarantadue anni di Lucca, militante di Forza nuova, era il leader dei Bulldog, gli ultrà della squadra di casa. Latitante per una condanna sul reclutamento di combattenti è stato ferito durante un addestramento e non sarebbe più in prima linea. Al suo fianco c'è Riccardo Emilio Cocco. Sul fronte filo russo hanno fatto perdere le tracce l'ex portiere Ivan Vavassori e Massimiliano Cavalleri, 42 anni di Palazzolo, in provincia di Brescia, nome di battaglia Spartaco. Altro filo russo è Gabriele Carugati, alias Arcangelo, di Cairate, in provincia di Varese, figlio dell'ex segretaria cittadina della Lega. Di lui non si hanno più notizie da tempo.

La parte ucraina, ben prima del 24 febbraio, ha attirato militanti di destra legati a Casa Pound e non solo. Giuseppe Donini, 52enne di Ravenna si era arruolato nel battaglione Azov. Un altro camerata era Valter Nebiolo rientrato in Italia, come Francesco Saverio Fontana, con un passato in Avanguardia Nazionale che aveva combattuto con Azov strappando proprio la città di Mariupol ai filo russi. In arrivo ci sarebbe un ex legionario italiano che si è presentato al consolato ucraino a Milano. La Legione georgiana, uno dei reparti che recluta stranieri, era stata contattata nei giorni precedenti l'invasione da cinque italiani, ex militari pronti a combattere per Kiev. L'unica donna è Giulia Schiff, 23 anni, ex pilota dell'aeronautica che ha denunciato atti di nonnismo. Seguita dalle Iene nella sua avventura ucraina sostiene di voler combattere «per fermare la guerra prima che arrivi a casa mia». 

Chiamata alle armi. Chi sono i sessanta italiani che combattono in Ucraina. Michelangelo Freyrie su Linkiesta il 5 Aprile 2022.

Volontari mossi dalle motivazioni più disparate: la ricerca di status sociale, la definizione della propria identità, a volte la vendetta. Per loro, che pure non si considerano mercenari, potrebbero essere previste pene al rientro in Italia. 

In questa guerra si è parlato molto del reclutamento di cittadini stranieri nelle forze armate russe e ucraine, un fenomeno ormai ben radicato nella guerra contemporanea. La globalizzazione dell’informazione, la commercializzazione dei conflitti e l’estrema mobilità hanno abbassato di molto il costo che i singoli individui provenienti da paesi terzi devono pagare per partecipare alle guerre altrui.

La folla di cittadini italiani andata ad ingrossare le fila dell’esercito ucraino da un lato e delle forze separatiste dall’altro è un microcosmo che ben rappresenta questa tendenza. Secondo Francesco Marone dell’ISPI, all’indomani dell’invasione russa c’erano fra i cinquanta e i sessanta italiani impegnati nei combattimenti, ed è difficile quantificare il numero di nuovi volontari affluiti da febbraio.

Le storie personali di queste reclute sono le più svariate, ma è prima di tutto importante distinguere i combattenti italiani da gruppi armati apparentemente reclutati in Siria e inquadrati dal contractor Wagner nell’apparato militare russo. La distinzione è necessaria sia da un punto di vista militare che sociologico. Nell’ancora ipotetico caso siriano si tratta infatti di uno schieramento di brigate più o meno coese, unite se non dalla stessa storia operativa allora almeno da una simile esperienza nei combattimenti a fianco dei russi in Siria. Questi combattenti stranieri (il termine foreign fighter è per lo più osteggiato dagli analisti perché evoca l’esperienza specifica del meccanismo di reclutamento dell’ISIS, un unicum della storia recente) sono più assimilabili a mercenari, mobilitati per sfuggire alla povertà e in parte per fedeltà ai leader delle fazioni siriane che nelle ultime settimane hanno diffuso la chiamata alle armi.

I volontari italiani hanno poco da spartire con i loro omologhi soprattutto perché il loro reclutamento sembra essere marcatamente meno deliberato, rispondendo più alle loro esigenze individuali e a quelle delle repubbliche separatiste. È altamente sconsigliabile provare a fare psicologia spiccia dei singoli italiani arruolatisi in Ucraina; nonostante ciò, è possibile dare un’occhiata alla letteratura scientifica esistente sul tema dei combattenti stranieri (non mercenari), rimanendo però consapevoli anche dell’unicità dei diversi casi.

Secondi gli studiosi Randy Borum e Robert Fein, i volontari stranieri sono nella maggior parte dei casi mossi da un senso di vendetta nei confronti del nemico che andranno a combattere, o ciò che essi credono egli rappresenti, che esso sia il capitalismo consumistico occidentale, il materialismo o una società pluralistica. La ricerca di status sociale e il desiderio di definire una propria identità sono altre motivazioni estremamente importanti.

Tramite questa lente, e con tutte le precauzioni del caso, è possibile comprendere meglio anche i volontari italiani in Ucraina. Ciò che colpisce è infatti la diversità di motivazioni che hanno portato molti di loro a combattere e come questi moventi ideologici vengano utilizzati politicamente dalle fazioni in campo.

È istruttivo l’esempio di Edy Ongaro, comunista caduto in Donbass dove combatteva dal 2015. I media riportano che Ongaro combatteva nella brigata Prizrak (Fantasma”), una delle milizie più efficaci della “Repubblica popolare” di Lugansk (DNL). La brigata, almeno nelle fasi iniziali del conflitto, non è stata integrata nella struttura di comando dell’esercito della “Repubblica Popolare”, e come le altre milizie del Donbass andrebbe più che altro concepita come un gruppo autonomo unito solo nominalmente alle altre forze dell’esercito separatista.

L’Unità 404, formazione comunista di cui faceva parte Ongaro, era particolarmente vicina al comandante dell’unità Alexei Markov, uno dei pochissimi leader del Donbass a essere morto in un incidente e non essere stato assassinato in seguito a un conflitto di potere fra i capibastone della DNL e gli handler che per conto di Mosca cercano di mantenere una sembianza di controllo sulle milizie. Anche se è difficile navigare gli affari interni delle opache repubbliche separatiste (spesso più simili a cosche che organizzazioni politiche), è probabile che i soldati stranieri siano più dipendenti dai loro comandanti e servano quindi da correttivo ai piccoli criminali russofoni e aspiranti mafiosi stabilitasi nel Donbass dopo lo scoppio della guerra.

Ongaro era fuggito in Ucraina a seguito di seri problemi giudiziari in Italia, come del resto il militante neofascista Andrea Palmieri, anche lui combattente per la DNL. In generale, gli estremisti di destra hanno attirato il grosso dell’attenzione occidentale anche a causa dello stretto rapporto che molti di loro intrattengono con organizzazioni di supremazia bianca in Europa e negli Stati Uniti (uno fra tutti Matthew Heimbach, neonazista organizzatore della famigerata protesta “Unite the Right” di Charlotteville del 2017). L’impatto di queste reti transnazionali sembra in ogni caso più forte che per i sistemi di reclutamento a sinistra.

Secondo un report del Soufan Center, più di una trentina di white supremacist italiani avrebbero ad esempio partecipato ai combattimenti in Ucraina nello schieramento governativo, almeno fino al 2019. Il battaglione Azov è ovviamente l’esempio più noto, e già nel 2014 una fonte del Corriere della Sera indicava addirittura la presenza di soldati italiani in servizio attivo nella formazione di estrema destra.

Rispetto alla prima fase della guerra, tuttavia, la situazione per chi combatte dal lato ucraino è però molto diversa. Negli ultimi anni Kiev ha fatto molto per incorporare le milizie autonome presenti sul suo territorio nella Guardia Nazionale, il corpo di gendarmeria paramilitare del ministero degli Interni ucraino. Ciò è stato fatto per rafforzare il controllo delle autorità ucraine su queste unità autonome, la stessa motivazione che ha portato il governo di Zelensky a organizzare fin da subito una Legione Internazionale integrata all’interno delle Forze di Difesa Territoriale, la riserva ausiliare dell’esercito ucraino.

È qui che si è arruolata anche Giulia Schiff, pilota dell’Aeronautica Militare italiana espulsa nel 2018. L’ex sottufficiale, nota per le denunce di nonnismo e mobbing da lei mosse contro i commilitoni, non sembrerebbe essersi arruolata per motivi marcatamente ideologici.

Come gli altri italiani potrebbe comunque essere perseguibile dalla legge al suo rientro in Italia, dove l’articolo 288 del Codice penale stabilisce che «chiunque nel territorio dello Stato e senza approvazione del Governo arruola o arma cittadini, perché militino al servizio o a favore dello straniero, è punito con la reclusione da quattro a quindici anni. La pena è aumentata se fra gli arruolati sono militari in servizio, o persone tuttora soggette agli obblighi del servizio militare». Schiff ha protestato indicando di non «essere un mercenario» – dimostrando ancora una volta quanto queste distinzioni facciano fatica a stare al passo con il cambiamento nella sociologia della guerra.

Le Città martiri. Ucraina: l'assedio delle Azot e la cattura di due soldati Usa. Piccole Note il 21 giugno 2022 su Il Giornale.

Resistono gli ucraini assediati nell’impianto di Azot, a Severodonetsk,  dove si sta ripetendo il copione già visto alle Azovstal di Mariupol, con miliziani e soldati ucraini assediati nell’impianto industriale insieme a un numero imprecisato di civili (che è davvero arduo pensare che vi si siano barricati volontariamente, ma tant’è).

I russi stanno tentando di chiudere la morsa sui resistenti, sia a Severodonesk che nella attigua Lysychansk, separata dall’altra cittadina da un fiume, ma le operazioni militari proseguono con estrema lentezza: per i russi si tratta di risparmiare vite al proprio esercito; per gli ucraini di resistere in attesa delle nuove armi Nato.

Nel frattempo, ha avuto grande rilievo la notizia della cattura di due soldati americani, anche perché negli Usa hanno paura che possano subire la stessa sorte dei due britannici catturati dai russi di recente insieme a un marocchino, i quali sono stati condannati a morte da un tribunale di Donetsk.

La Russia aveva dichiarato fin dall’inizio della guerra che i combattenti stranieri catturati non sarebbero stati trattati da prigionieri di guerra e la condanna dei due “volontari” segue quella dichiarazione.

Detto questo, a seguito delle proteste britanniche, Mosca ha invitato Londra a contattare la Repubblica di Donetsk per avviare negoziati per la loro liberazione (BBC), cosa che Londra non vuol fare per una ragione di principio: teme di esser costretta in tal modo a riconoscere de facto la Repubblica indipendente. Per questo, ha contattato il ministro degli Esteri ucraino Dmitry Kuleba, incaricandolo di risolvere la cosa.

In realtà, trattando con Donestk non riconoscerebbe affatto la Repubblica in questione, riconosciuta finora da Mosca e pochi dei suoi alleati, ché il riconoscimento di un’entità politica come statuale è tutt’altro da un negoziato con un nemico.

La verità è che Londra teme di perdere di prestigio, abbassandosi a chiedere la liberazione dei propri prigionieri, da qui l’incarico all’Ucraina, anche se, sottotraccia, le trattative le sta facendo, eccome (si spera anche per il marocchino…).

Così, la storia dei due soldati britannici – ufficialmente volontari, di fatto forze speciali incognite in servizio attivo – insegna che anche per i due americani non ci sarà una condanna a morte, che avrebbe solo l’effetto di dare nuovi argomenti alla propaganda avversa, ma si avvierà un negoziato.

Interessante notare la storia di uno dei due americani catturati. Sul New York Post, un’intervista drammatica della madre del soldato, che spiega che il figlio si era arruolato come volontario per “salvare vite ucraine e non solo ucraine” (?) ed era pronto a morire (non sembra: certe cose si dicono, poi…).

La mamma, che è sempre la mamma, racconta che non era andato per combattere, ma solo “per addestrare i soldati ucraini'”. Fin qui la donna, che siamo alquanto certi che prima o poi rivedrà l proprio ragazzo, al contrario di tanti altri che stanno morendo in questa stupida guerra.

C’è un passaggio obbligatorio da fare, cioè il ragazzo deve dichiarare alle telecamere russe che è contro la guerra e che ha sbagliato ad andare in Ucraina, come hanno fatto i due britannici e come ha fatto anche lui.

Come si legge su Oda Tv, appena catturati, i soldati stranieri che combattono in Ucraina “in un solo giorno si trasformano in ‘figli dei fiori’, dichiarandosi contro la guerra”. Se citiamo questa Tv turca non è tanto per questa ironia, cinica eppur vera, quanto perché ci ha colpito una rivelazione di tale emittente.

In un articolo, infatti, Oda Tv spiega che il simbolo che campeggia sull’uniforme di uno dei due soldati americani catturati, Alexander John-Robert Drueke, lo rivela come membro dell’US Armed Forces Chemical Warfare Corps, cioè la forza militare Usa dedicata alle armi chimiche.

Infatti, il distintivo dorato, all’interno del quale si distinguono un tronco d’albero e un drago, è inequivocabile, Non avremmo creduto alla notizia, se non fosse che la stessa foto, e lo stesso distintivo, illustra il servizio dell’articolo del Nyp succitato. 

Se si ingrandisce la fotografia in questione, si vede perfettamente che il distintivo è quello indicato, come si riscontra anche su un sito specializzato delle forze armate Usa.

Nel presentare il militare, il Nyp spiega che Drueke era andato due volte in missione in Iraq, forse alla ricerca delle famose armi di distruzione di massa di Saddam. Ma che ci è andato a fare in Ucraina? Non ha competenze in fatto di addestramento per una battaglia di terra, dato che le sue competenze sono le armi chimiche.

Oda Tv ricorda che solo alcuni giorni fa il Pentagono ha rivelato di aver supportato 46 biolaboratori sparsi sul territorio ucraino, ma questo non spiega granché, dal momento che il ragazzo è partito da poco per la guerra. Così resta la domanda: che diavolo ci è andato a fare? Resterà inevasa.

La denuncia degli orrori di Kherson: "Nelle camere di tortura 600 civili".  Corrado Zunino su La Repubblica il 7 giugno 2022.

Nel territorio occupato di Kherson, Ucraina meridionale, immediatamente sopra la Penisola della Crimea, sono in corso - è la denuncia del governo ucraino - nuovi crimini di guerra. Violazioni collettive. La rappresentante permanente della presidenza ucraina in Crimea, Tamila Tacheva, ha detto, illustrando le sue parole con un rapporto, che a Kherson, la prima grande città presa dall'Armata russa, e nella sua regione seicento persone considerate ostili al nuovo regime sono state portate dalle truppe russe "in camere di tortura". 

Letizia Tortello per “La Stampa” il 5 luglio 2022.

Sa che è vivo, «di sicuro è ferito». Vedere i suoi compagni arrivare mutilati, al più grande scambio di prigionieri della guerra, l'ha fatta piombare in un incubo: quello di non poter riabbracciare mai più suo fratello, il sergente Sergei Volyna. 

Tetiana Kharko è una delle due persone che hanno assistito alla liberazione dei difensori dell'Azovstal: 144 per parte ucraina, lo stesso numero per parte russa. È la rappresentante dell'Associazione dei parenti dei combattenti di Mariupol. Li ha accolti a Zaporizhzha, pochi minuti dopo la scarcerazione, la scorsa settimana. 

Ma dal 20 maggio, questa 30enne vive settimane di angoscia, nel silenzio totale che avvolge il destino del comandante della 36a Brigata dei marines, forse l'eroe più umanizzato della lunga e dolorosissima battaglia dell'acciaieria. 

Quel volto con la barba, suo fratello, che tutto il mondo ha imparato a conoscere nei tanti appelli video dai social, in cui chiedeva aiuto. Per i comandanti Azov, i russi potrebbero prevedere la pena di morte, e quella scure potrebbe capitare anche al sergente Volyna. La stessa sorte la teme Katerina, la moglie del comandante del Reggimento Denis Prokopenko.

Signora Kharko, ci racconta lo scambio dei prigionieri?

«Quasi ogni soldato che era dentro l'Azovstal era ferito. Loro chiamavano "feriti" quelli che non riuscivano ad alzarsi e non potevano prendere il fucile. Gli altri continuavano a combattere. Delle 144 persone liberate, 95 erano combattenti Azov e il 90 per cento di loro è arrivato mutilato: senza gambe, braccia, tanti di loro sono sordi o hanno perso la vista. Io ero presente all'accoglienza a Zaporizhzha, a mezz'ora dal luogo della trattativa, un lungo ponte su cui hanno scambiati i prigionieri. È stato molto pesante».

Come sono stati trasportati?

«Sono arrivati sulle ambulanze, una per ciascun prigioniero liberato. Allo scambio era presente solo la Croce Rossa ucraina e i rappresentanti delle due parti. Li hanno liberati nella zona grigia, ma non posso dire il nome della località per ragioni di sicurezza. Abbiamo avuto dieci minuti per salutarli. Non abbiamo chiesto loro se erano stati torturati, piangevamo tutti, anche se loro provavano a trattenere le lacrime».

Erano dimagriti, segnati? Quali sono state le prime frasi che hanno pronunciato?

«È molto difficile trovare le parole per raccontare cosa ho visto. Forse non le hanno ancora inventate. Oltre alla menomazione fisica, erano grigi come se non fossero appartenuti a questo mondo. Sembravano dei fantasmi. Credo siano stati trattati molto male, nei giorni di permanenza in prigione. Era doloroso guardarli». 

Ha parlato con loro?

«Sì. Uno mi ha riconosciuto e ha detto che mio fratello gli aveva salvato la vita. Poi è venuto fuori che le amputazioni risalgono al periodo dentro l'acciaieria. Ai feriti tagliavano gli arti senza anestesia, questo ci hanno raccontato». 

Quand'è l'ultima volta che ha sentito suo fratello, il sergente Volyna?

«Il 20 maggio. Ci ha informato dell'evacuazione. Ci ha detto che da quel momento non avrebbe più comunicato perché si consegnavano ai russi».

Comunicavate, mentre lui era nelle viscere dell'Azovstal?

«Scriveva più che altro a sua moglie. Per alcune settimane non si faceva vivo. Scriveva sempre le stesse parole: "normale", oppure "sono intero". Niente di più. Ma a noi bastava». 

Quanti prigionieri dell'Azovstal mancano all'appello? Le trattative sono in piedi?

«Il presidente Zelensky aveva annunciato che erano 2000-2500 i soldati che si erano consegnati. Faremo di tutto per liberarli, le trattative sono appese a un filo, ma io sono fiduciosa che mio fratello tornerà. I russi stanno violando ogni giorno la Convenzione di Ginevra, non ci permettono di comunicare con loro. Non sappiamo neppure dove siano. Dicono a Olenivka, Rostov sul Don, Lufortovo, ma non abbiamo certezze. Non possono ucciderli o non rimandarli a casa. Però prego, perché ho molta paura».

Chi era il sergente Volyna?

«Un viso sempre sorridente. Un padre e un marito modello. Aveva studiato all'Accademia nazionale delle forze di terra Hetman Petro Sahaidachnyi, era andato in Cimea, poi era tornato subito per difendere il Donbass, nel 2014. Prima della guerra, da settimane era a Mariupol. Viaggiava tanto, faceva sei mesi in Donbass e sei mesi a casa a Kiev. Sergei ama suo figlio, chissà quanto soffre a non vederlo». 

Se ci fossero pressioni per trattare, voi di Azov accettereste di perdere il Donbass, che tanto avete difeso?

«Vi faccio un esempio per capire cosa ci sta capitando: questa guerra, per noi, è come se nella vostra casa entrasse una persona e prendesse una stanza e dicesse "è mia, se non me la dai uccido la tua famiglia". È una cosa assurda, ingiusta, inaccettabile. Per come la vedo io, la situazione si potrebbe definire con un referendum, dove la gente potesse decidere se vuole restare nella parte ucraina o diventare Russia. Ma senza armi, senza pressione. Con le armi non si può risolvere niente».

"Mio marito seviziato dai russi", la prova nel certificato di morte. Tonia Mastrobuoni su La Repubblica il 12 Giugno 2022. 

Il racconto di Ksenia Myronova. Il suo Denys torturato nelle carceri segrete di Kherson 

 "Un giorno Denys è uscito di casa e mi ha detto che doveva comprare un po' di benzina. Non è mai più tornato". Ksenia Myronova ci racconta l'atroce destino di suo marito lottando con le lacrime. Ogni volta che il dolore ha il sopravvento si ferma, vuole restare lucida, ha bisogno di ricordare ogni dettaglio. Denys è stato massacrato nelle camere di tortura di Kherson dagli sgherri russi, da un manipolo di sadici in passamontagna che lo hanno seviziato per settimane. È morto per le conseguenze di quelle torture. E il suo assassinio è l'ennesima prova dei crimini di guerra di Putin.

Il 23 marzo Denys Myronov è stato sbattuto nelle carceri segrete al civico 4 di Kirova, a Kherson, nella città occupata da marzo dalle truppe russe. Il 26 maggio, la polizia di Mykolaiv ha chiamato Ksenia per il riconoscimento del suo cadavere. In mezzo, due lunghi mesi di disperata ricerca di informazioni e di silenzio delle autorità russe. Soltanto grazie a tre compagni di prigionia, Ksenia è riuscita a ricostruire le torture inflitte al marito: i pestaggi continui, gli elettroshock, le buste di plastica infilate in testa per soffocarlo, i ricatti psicologici. "Denys è morto perché non ha mai parlato. E stato sepolto come un eroe. Ma io non mi do pace. E neanche nostro figlio".

Ksenia Myronova, cos'è successo il 23 marzo? E perché Denys è stato arrestato dagli occupanti russi?

"Mio marito faceva il commerciante di frutta e verdura. Dopo l'invasione russa si è unito alla resistenza. Il 23 marzo è uscito di casa per comprare un po' di benzina. Almeno, è quello che mi ha raccontato per non farmi preoccupare. In realtà avevano convocato lui e altre decine di partigiani per una riunione. Com'è emerso più tardi, era la trappola di un traditore. Denys è scomparso. Nei primi giorni, dal suo cellulare mi arrivavano ancora dei messaggi, ma ho capito subito che non era lui. Erano i suoi aguzzini sadici che mi prendevano in giro. Scrivevano "sono un po' in ritardo", "arrivo tra tre giorni", cose così. Ho cominciato a cercare i suoi amici. Nessuno lo aveva più visto. Poi ho iniziato ad avere paura: ho saputo che anche la moglie e i figli di un suo amico erano stati portati via dai russi. Ho preso mio figlio e il 6 aprile siamo scappati da Kherson a Novomoskovsk".

Quando ha avuto le prime notizie di suo marito?

"Quando mi ha chiamato un vicino e mi ha detto che un uomo e una donna erano venuti a cercarmi a casa. Lui si chiamava Aleksiy e aveva con sé l'orologio di mio marito (Ksenia ce lo mostra durante la videointervista, ndr) ed era stato liberato per uno scambio di prigionieri. Poi sono stati altri due compagni di cella ad aiutarmi a ricostruire cosa gli era successo: Anton e Igor. Entrambi hanno ceduto alle pressioni dei russi e hanno parlato. Perciò sono ancora vivi. Ma io sarò per sempre grata e entrambi per quello che hanno fatto per Denys".

Cos'è successo a Denys?

"Nei primi giorni avevano infilato un sacco in testa e messo le manette a tutti. E i pestaggi brutali sono cominciati subito. Denys è stato trattato con una tale violenza che dopo poco non riusciva a stare né in piedi né sdraiato. Gli hanno tolto i pantaloni e lo hanno picchiato con un bastone finché le gambe non sono diventate nere. Nel frattempo gli hanno sfondato il petto e spezzato le costole, perforandogli un polmone. Lo sappiamo dal certificato di morte, perché in due mesi non ha mai potuto vedere un medico. È morto per le conseguenze di quelle sevizie. I russi gli dicevano "se vuoi un medico devi parlare e devi confessare che sei un nazista"".

E lui?

"Non ha mai detto nulla. Quando non riusciva più a muoversi, i suoi compagni di cella hanno chiesto una sedia, e Denys ha dormito su quella sediolina per 22 giorni, imboccato da loro perché non riusciva a muovere bene neanche le braccia. Eppure i russi hanno continuato a picchiarlo, a divertirsi con delle buste di plastica che gli infilavano in testa per dargli la sensazione che soffocasse, a fargli degli elettroshock. Il 18 aprile lo hanno trasferito a Sebastopoli".

Nel carcere che serve di solito per gli scambi di prigionieri?

"Esatto. Ma invece è morto poco dopo, il 23 aprile. E la polizia di Mykolaiv mi ha chiamato oltre un mese dopo, il 26 maggio, per il riconoscimento del cadavere. Mio marito è solo il primo di un enorme gruppo di civili detenuto e torturato nelle camere delle torture di Kherson. È stato sepolto qui vicino a me, nell'Ucraina libera, con tutti gli onori militari. Perché è morto da eroe".

Quarta Repubblica, Toni Capuozzo: "Perché non usate la parola resa?", una amara verità. Libero Quotidiano l'

08 giugno 2022

Toni Capuozzo non le manda a dire. Come sempre l'inviato di guerra del Tg5 è molto diretto nelle sue analisi e di fatto a Quarta Repubblica torna su episodio di questa guerra che ha fatto parecchio discutere. Qualche giorno fa, come è noto, circa 2500 militari ucraini hanno lasciato l'acciaieria Azovstal dopo aver resistito per più di 80 giorni ai bombardamenti dei russi. I militari, come abbiamo visto nelle immagini che hanno fatto il giro del mondo, si sono consegnati nelle mani dei comandanti russi.

Da lì è iniziato un viaggio verso il carcere. La scelta di arrendersi è arrivata dopo un ordine diretto dall'alto comando militare di Kiev per volere dello stesso Zelensky. E Capuozzo su questo punto fa una riflessione non da poco: "Quando i militari ucraini dell'Azovstal si sono consegnati, abbiamo visto tutti le immagini, qualcuno sui giornali italiani, ad esempio il Corriere, ha parlato di 'evacuazione'. Quella era una resa, la parola giusta da usare è resa non evacuazione. Allora mi chiedo, anche la nostra, in Italia, è propaganda?".

Parole che hanno innescato il dibattito in studio tra gli ospiti presenti. Di certo la riflessione di Capuozzo apre anche interrogativi sul linguaggio usato da una parte del giornalismo di casa nostra per spiegare i fatti d'Ucraina. Ma una cosa è certa, la fine della battaglia della Azovstal è una resa a tutti gli effetti come avviene in tutte le guerre.  

Domenico Quirico per “la Stampa” il 10 Giugno 2022.

I santoni della scienza bellica, i gran marabutti delle discipline militari raccomandano sempre di imparare dai propri errori e di non ripetere mai la battaglia che si è appena perduta. Eresie come "difesa eroica fino all'ultimo uomo", "non cedere un centimetro di terreno", "sacrificarsi per infliggere le maggiori perdite al nemico" sono sobillazioni che invece si orientano, stuzzicanti, verso retori, politicanti e parolai come il ferro con la calamità. Sono intrugli che funzionano benissimo, ma per quelli che parlano della guerra standosene alla larga per strappare un applauso, e dopo un urrah! agli eroici difensori hanno già un piede in osteria.

La cosa più pericolosa non è fare propaganda; in guerra è sempre legittimo, talora necessario visto che l'unico scopo è vincere. A ogni costo. È semmai cominciare a credere nel lessico fantasioso della propria propaganda. 

Aggrediti da un prepotente più grosso e più forte è opportuno raccontarsi come eroici fino all'estremo, disposti a qualsiasi sacrificio umano, implacabili nel resistere, di essere tutti spartani alle termopili. È un ruolo che solo la vittima può recitare legittimamente, l'aggressore non può. Gli tocca la parte di chi imbraccia la minaccia annientatrice, del feroce senza tentennamenti. La parte dei russi e di Putin.

Il più grave errore commesso dagli ucraini in questa guerra sciagurata è stata l'epopea, finita in resa disastrosa, della acciaieria Azovstal a Mariupol. Mesi di efficace propaganda con gli squilli quotidiani sull'arditismo dei difensori sepolti nelle viscere dello stabilimento, e degli sventurati civili intrappolati con loro, e tutti egualmente decisi a resistere fino alla morte, si sono esauriti nella perdita di soldati molto determinati e addestrati che sarebbero stati risolutivi in altre battaglie. Con l'aggiunta del disastro filmato della resa ai soldati russi, che ha certamente piagato l'orgoglio di civili e combattenti ucraini.

Ora un altro stabilimento, questa volta chimico, l'Azot e un'altra città martire dirupata dalle cannonate, Severodonetsk. Una mischia strada per strada da giorni. Alcune centinaia di soldati e civili si sono barricati nella zona industriale, un quadrato di rovine, l'ultima ancora non sotto controllo dei russi. 

Secondo le indicazioni, confuse e contraddittorie che arrivano dal fronte, esisterebbe ancora quella che in linguaggio militare si chiama la linea della vita, ovvero un ponte e una strada su cui fuggire prima che la morsa russa si chiuda interamente. Si può dunque completare, senza troppa palpitante confusione, la ritirata. Infliggere ai russi l'impressione di un lavoro malfatto. Altrimenti potrebbe essere un'altra resa dolorosa.

C'è una decisione urgente da prendere a Kiev. E non pare che ci sia accordo. Bisogna scegliere tra l'epica difesa per continuare a affermare che «i russi non controllano Severodonetsk» luogo chiave della battaglia del Donbass, ma immolando inutilmente altri soldati. 

O cominciare a preparare l'opinione pubblica con timidi accenni alla necessità di doversi ritirare, la decisione militarmente sensata, ma precipitando le retrovie nel pessimismo e nella rassegnazione.

A opporsi sembra non siano i generali preoccupati da alcuni segni di sbandamento tra le file sfibrate dal martellamento russo. I politici invece pensano sia necessario insistere sull'immagine dell'eroismo a oltranza. Solo così, dicono, gli alleati si convinceranno che occorre rinforzare sempre di più i difensori. 

Nelle ultime ore infatti si moltiplicano gli appelli a inviare subito l'artiglieria pesante promessa da inglesi e americani: in tre giorni si garantisce, spazzeremmo via i russi da Severodonetsk. Fingendo di ignorare che queste armi bisogna prima imparare ad usarle. 

Ecco: i cannoni. Severodonetsk e la sua odissea sventurata confermano che il simbolo di questa guerra, all'inizio descritta come futuristica tutta droni missili e forze speciali, invece è lui, il vecchio, terribile, implacabile cannone. 

L'ordigno che ha creato, ormai sono cent' anni, nelle trincee della guerra che fu detta Grande, l'incubo della distruzione industriale dell'uomo. Nel Donbass è suo il fracasso della guerra. Non l'aereo o il carro armato. I cannoni russi che distruggono, pigiano uomini e cose, scavano trincee di assoluto indiscriminato annientamento. 

Il cannone che picchia risoluto, come se ogni volta avesse individuato la sua vittima, il suo bersaglio particolare e su quello si accanisse. Il rombo delle batterie dei pezzi campali sono ormai come il segno naturale dello scorrere delle ore del giorno, una polifonia che squarcia e assorda. 

E ogni colpo sembra che picchi un essere vivo, e affondi cercando un suo passaggio sotterraneo in una materia cedevole e morbida, la materia umana. Per i soldati e i civili ucraini che sopravvivono a Severodonetsk (pare siano ancora diecimila) e nei villaggi sulla linea della avanzata russa l'angoscia nasce dal silenzio che dalle loro linee risponde al rombo dell'altra parte. 

Non ci sono cannoni per ribattere. C'è solo una bestemmia di boati nemici che somiglia a una voragine e che nella sua implacabile continuità diventa a sua volta un terribile silenzio. 

Non ci sono dei che vegliano su di te, sei solo carne e ossa. Edifici e trincee, strade e ripari sprizzano in schegge fumanti, il maelstrom di fuoco smonta in bagliori vacillanti il mondo di un minuto prima, ti getta nel vuoto, manda in pezzi perfino il timore e la speranza. 

Anche i più coraggiosi diventano fatalisti, rassegnati: quando il destino cieco fatto di esplosivo e di acciaio deve colpire, lo farà senza che tu possa fare nulla. Ci si sente chiusi in una disperata eternità, come dei sepolti vivi in una miniera povere creature umane inghiottite in una solitudine inenarrabile da un caos minerale, meccanico. Nello spazio tra il lancio e l'esplosione il film dei ricordi ti passa davanti agli occhi in quell'unico orribile secondo. E la guerra diventa ciò che è, lo scorrere in fiumi monotoni dell'inumano.

Dal 2014 al 2022: il valore simbolico di Mariupol. Andrea Muratore su Inside Over il 16 maggio 2022.

A Mariupol infuria la battaglia finale per l’acciaieria Azovstal. Vera e proprio “Stalingrado d’Ucraina”, la città sul Mar d’Azov è stata pressoché interamente rasa al suolo dall’esercito russo nei primi ottanta giorni di conflitto e ora l’armata di Vladimir Putin mira a stanare i residui combattenti del Reggimento Azov. L’unità erede del celebre battaglione ultra-nazionalista e neo-nazista al centro della narrazione di Vladimir Putin sulla “de-nazificazione” del Paese limitrofo.

Per la Russia gli Azov asserragliati all’Azovstal non sono combattenti, ma criminali, nonostante l’Ucraina li abbia inquadrati della Guardia Nazionale sin dal 2015. E la ragione dell’asserragliamento degli ultra-nazionalisti a Mariupol e della martellante offensiva russa è legata tanto al valore strategico della città-martire quanto al suo peso simbolico.

Nel 2014 come nel 2022 Mariupol è il centro del contrasto tra Russia e Ucraina. E proprio la riconquista di Mariupol nel 2014, in cui l’esercito ucraino cooperò per la prima volta a tutto campo con gli ultra-nazionalisti di Azov, frenò sul nascere l’estensione della secessione filorussa a tutto il Donbass, aprendo la strada al lungo conflitto congelato e a bassa intensità degenerato otto anni dopo nella guerra d’Ucraina. L’espansione del Ruskij Mir fu frenata dal notevole apporto militare dato dagli Azov, che sul campo si guadagnarono l’integrazione nelle forze regolari ucraine, ma che iniziarono in quell’occasione a conquistarsi la triste fama che li ha accompagnati fino al 2022. Anno in cui sono diventati, da assedianti, loro stessi assediati proprio a Mariupol. A lungo capitale de facto del Donbass rimasto in mani ucraine, antemurale contro i secessionisti, base operativa per l’esercito ucraino a Est e le milizie nazionaliste. Città identificata per questo dai russi e dai russofili del Donbass come la capitale nemica per eccellenza. Specie dopo che sono emerse le violazioni dei diritti umani e gli omicidi compiuti dai membri del battaglione Azov, denunciate anche da Human Rights Watch, contro i civili russofoni.

Tutto questo mentre, incorporandolo nelle forze regolari, il governo ucraino ha cercato di rimettere i nazionalisti sotto il suo controllo depoliticizzando l’Azov. Operazione che, secondo il sito di open source intelligence Bellingcat, non è affatto riuscita nel suo intento, almeno non nella portata che si mirava a ottenere. Tirando le somme sullo stato del Reggimento Azov, a inizio invasione russa il Washington Post ha riportato il quadro di un gruppo consapevole delle sue origini, e ancora con un comandante aderente di estrema destra come Denys Prokopenko, ma in parte cambiato rispetto alle sue origini. Molte reclute che si uniscono al battaglione sono ben consapevoli del suo richiamo nazista, ma si uniscono nonostante la sua storia per vari motivi, inclusa la reputazione positiva di Azov per l’addestramento di nuove reclute. Il Post ha anche aggiunto che il battaglione è un vero e proprio “faro per gli anti-putinisti” di tutto il mondo, ma questo dettaglio non può far altro che accentuare le tendenze che hanno spinto i russi a insistere su Mariupol.

Negli occhi della propaganda russa Azov potrebbe anche riformarsi come corpo esterno a ogni forza armata ma rimarrebbe quello delle indelebili immagini del 2014-2015, anni di odii incrociati tra filorussi e antirussi. Anni costellati da roghi di icone ortodosse, torture e violenze ad opera degli Azov, accusati dall’Osce anche di esecuzione di prigionieri in forma continua e di creazione di fosse comuni. Anni in cui si è, soprattutto, sedimentata l’equiparazione tra il governo dell’Ucraina post-Maidan e il nazismo ad opera della narrazione russa.

E si torna a Mariupol, messa sotto assedio con una ferocia che non ha eguali nelle altre città ucraine e in cui gli stessi Azov contendono ai ceceni e agli altri militari russi il terreno strada per strada fino a ritirarsi nell’ultima ridotta dell’Azovstal. Consci che, come velatamente fatto intendere dai diplomatici e politci russi, per loro non esiste alcuna alternativa tra la resistenza e la morte. Mentre la Russia accanendosi su Mariupol pare voler colpire con durezza la capitale dell’anti-secessionismo e, soprattutto, far espiare ai suoi ultimi difensori le colpe di cui li accusa. Gli Azov devono, secondo l’esercito russo, essere presi sulla scia dell’esaurimento e della fame.

Bombe in superficie, blocco degli accessi nel sottosuolo, assedio attraverso la fame: le truppe di Putin vogliono rendere lunga e sofferente la strada verso il Valhalla dei nazionalisti neo-pagani dell’Azov. Forzarli all’irreversibile: al crollo della disciplina, alla diserzione, alla ribellione contro la fame, alla rappresaglia contro i loro stessi membri. Per mostrare un trofeo in una campagna che sta riservando poche soddisfazioni belliche all’esercito di Putin, nella città in cui tutto è iniziato e tutto prosegue. Nella città-martire presa d’infilata tra il nazionalismo etnico di Azov e l’invasione brutale della Russia, che ha prodotto un numero imprecisato di morti civili (pare 21mila nella città da febbraio a oggi) e la riapertura di vecchie ferite.

Otto anni fa la difesa di Mariupol da parte degli Azov e dell’esercito ucraino impedì ai secessionisti una vittoria strategica. Otto anni fa iniziò la lunga fase di incertezza culminata con l’aggressione russa che ha oggi nel Donbass conteso il suo epicentro. Otto anni fa, infine, iniziava il complesso rapporto tra le frange nazionaliste ucraine e il rispetto dei diritti umani addotto da Putin come movente per l’invasione. Mariupol, oggi come nel 2014, è strategica e simbolica. E lo sarà sempre di più negli anni a venire. Ammesso che ne resti ancora qualcosa dopo il “Crepuscolo degli Dei” del reggimento Azov che sta andando in scena nell’acciaieria sotto assedio.

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 3 giugno 2022. 

Quando il 24 febbraio Vladimir Putin diede l'ordine ai suoi generali di attaccare l'Ucraina, la piccola Kira era appena nata. Figlia di una giornalista ventisettenne di Odessa, una città che in fondo non è neppure tra le più sfigurate di questa feroce guerra, morì insieme alla madre durante un attacco missilistico che colpì, il 23 aprile, il palazzo in cui abitava. 

Kira aveva appena tre mesi e la sua è solo una delle tante tragedie che ci consegnano questi primi cento giorni di guerra. La sua foto, con la madre che le dà il latte, è struggente, ma purtroppo non è l'unica: ci sono le immagini del teatro di Mariupol, usato come rifugio, dove sotto le macerie sono rimaste almeno 600 persone; le donne incinte in fuga dall'ospedale della stessa città bombardata; le foto sconvolgenti dei cadaveri per strada a Bucha, alle porte di Kiev: civili uccisi dall'esercito russo come confermato anche dalle immagini satellitari. 

Certo, anche i numeri parlano: 4.000 sono i morti ufficiali tra i civili, ma quelli reali sono molti di più, visto che nella sola Mariupol si ipotizzano almeno 22.000 vittime.

Secondo quanto dice Zelensky, 100 soldati ucraini muoiono ogni giorno nel Donbass e circa il 20 per cento del territorio è stato preso dai soldati di Mosca (o delle due repubbliche autoproclamate fedeli al Cremlino). E Stoltenberg, segretario Nato, avverte: «La guerra durerà ancora a lungo». 

Restano città sventrate dopo cento giorni di guerra: a Mariupol è danneggiato il 90 per cento degli edifici, nella non lontana Severodonetsk il 60 (in questo centro del Donbass 800 persone si sono rifugiate nei bunker antiaerei dei sotterranei della fabbrica chimica Azot). Sfigurate le vite di chi ci abitava e che, nella migliore delle ipotesi, è riuscito a fuggire. Si calcola siano stati 5,3 milioni gli ucraini che hanno raggiunto Paesi dell'Unione europea.

Oggi sta succedendo qualcosa di straordinario: sono più gli ucraini che tornano in Patria di quelli che scappano. Lo dice l'ultimo bollettino di Frontex, l'agenzia europea per il controllo delle frontiere: tra il 25 e il 31 maggio quasi 260.000 ucraini hanno lasciato l'Ue per rientrare a casa. «In totale, 2,3 milioni di ucraini sono tornati nel loro Paese dall'inizio della guerra». Nel bilancio di questi cento giorni vanno anche considerate le perdite dei russi, a partire dai 31mila soldati morti (dati dello Stato maggiore ucraino). Era il 24 febbraio quando le truppe russe entrarono in Ucraina.

Per mesi il Cremlino aveva smentito ciò che la Casa Bianca aveva ampiamente preannunciato, ma la realtà, purtroppo, diede ragione a Biden. Da quella notte inizia anche una danza linguistica dei russi che non parlano di guerra, invasione e aggressione, ma di «operazione militare speciale» e «smilitarizzazione e denazificazione». Il 24 febbraio il Cremlino e l'opinione pubblica russa pensano che l'Ucraina si arrenderà rapidamente. Vengono diffuse fake news (le prime tra le tante): Zelensky è in fuga a Leopoli.

Non è vero. Mosca vuole insediare un governo collaborazionista. I feroci mercenari della Wagner puntano su Kiev per uccidere il presidente ucraino. L'esercito si avvicina con una lunga colonna alla Capitale. Più a Sud cade Kherson, le truppe sbarcano a Mariupol. Ma gli ucraini si difendono, Zelensky vieta agli uomini che hanno meno di 60 anni di lasciare il Paese. 

La difesa regge, anche con l'aiuto delle armi e delle informazioni dell'intelligence americana. Comincia a costruirsi l'epopea e la propaganda ucraina: Zelensky che registra video dai bunker, ma anche dalle strade di Kiev, nonostante i bombardamenti; i soldati ucraini, che difendono la base della Snake Island, sul Mar Nero, rispondono ai russi che intimano la resa con un «andate a quel paese» (la frase è più colorita e finirà su un francobollo).

Si trascina la fase dell'impantanamento. Putin, insoddisfatto, inizia a rimuovere i generali. Il 29 marzo la lunga colonna militare russa alle porte di Kiev torna indietro, il Cremlino cambia strategia e concentra le forze a Est. Il 4 aprile, sul Mar Nero, i missili ucraini affondano la Moskva, l'ammiraglia della flotta di Putin: i russi sembrano in affanno eppure nei giorni successivi infliggono perdite dolorose nel Donbass agli ucraini.

Il 17 maggio c'è la resa degli ultimi soldati ucraini, in gran parte del battaglione Azov, che si erano asserragliati nelle acciaierie di Mariupol. Più a Nord, a Severodonetsk, l'esercito russo prende buona parte della città e prova a isolare una parte delle forze nemiche. Stallo. Dai porti bloccati non parte più il grano, c'è il rischio di un'emergenza alimentare planetaria. La strada dei negoziati appare ancora irta di ostacoli. Sarà una lunga guerra, annuncia la Nato. Ci stiamo abituando e stiamo dimenticando chi, ogni giorno da cento giorni, muore in Ucraina.

Letizia Tortello per La Stampa il 25 maggio 2022. 

Li hanno scoperti mentre rimuovevano le macerie di un grattacielo nella «città nera», simbolo della distruzione e dell'accanimento della guerra di Mosca, Mariupol. Erano 200 corpi morti, in avanzato stato di decomposizione. «Il loro odore ha invaso un intero quartiere, man mano che venivano tirati fuori», ha spiegato il consigliere del sindaco, Petro Andriushchenko. Si affida come sempre a Telegram. Denuncia che non hanno avuto sepoltura e non si sa semmai l'avranno: i residenti si sono rifiutati di portare i loro corpi all'obitorio, secondo una procedura ritenuta umiliante imposta dai soldati filorussi.

È il nuovo orrore scoperto nel porto del Sudest, dopo il massacro delle bombe che per tre mesi non hanno dato tregua. Dei duecento non si sa nulla, se non che sono rimasti intrappolati nel rifugio di un palazzo in via Myru (pace). Dissotterrati dai detriti che li ricoprivano e ammassati in un cimitero improvvisato per strada, rinchiusi in sacchi neri e abbandonati lì.

Per la tumulazione ufficiale, secondo le nuove regole dei filorussi, infatti, è necessario portare da sé i morti all'obitorio, oppure registrare un video in cui si dichiara che il defunto è stato eliminato dalle forze ucraine, secondo quanto trapela dalle cronache di Kiev. Molti residenti si sono opposti, e allora il seppellimento è toccato ai russi. Questa carneficina è sono solo l'ultimo atto, in ordine di tempo, di uno sterminato elenco di vittime dei pesanti bombardamenti su Mariupol. Che avrebbero causato fino a 20 mila morti in novanta giorni di guerra, spiegano le autorità locali ucraine. Almeno 4 mila per le Nazioni Unite.

La caduta dell'acciaieria Azovstal ha segnato la svolta. Quello che una volta era un ricco centro produttivo sul mare, è oggi un fantasma di edifici anneriti, distrutti e rasi al suolo che i russi stanno iniziando a trasformare. 

Il ministero della Difesa di Mosca ha annunciato di aver completato lo sminamento del porto, con il disinnesco di 12 mila esplosivi. «I canali di avvicinamento e le acque interne sono state liberate dalle navi affondate e da altri ostacoli alla navigazione», fa sapere in una nota. Da stamane alle 8, la Russia aprirà un «corridoio umanitario» lungo 115 miglia e largo 2 miglia in direzione del Mar Nero, per consentire alle navi straniere di lasciare lo scalo portuale. In città, invece, è iniziata la «russificazione» dell'informazione: maxi schermi mobili trasmettono i telegiornali di Mosca in tutti i quartieri, spiega l'ucraina Ukrinform.

Su Telegram corrono anche le immagini. Gli ucraini la chiamano «Zombie Tv», e contestano l'iniziativa. Denunciano quella che vivono come l'estrema offesa: «Non si può dare in pasto alla nostra gente questa propaganda», sono i commenti sotto i post ufficiali ucraini sul social.

E poi c'è il processo ai combattenti della Brigata Azov, costretti ad arrendersi e catturati. Per loro, «nazisti nemici numero uno», Mosca deve preparare una punizione esemplare, da mostrare ai suoi e al mondo. Si terrà in più fasi, una delle prime sarà proprio simbolicamente a Mariupol, come tiene a precisare il capo dell'autoproclamata Repubblica di Donetsk (Dpr), Denis Pushilin.

 «Penso che non dovremmo ritardare con il processo - dice trionfale in un video -, e un certo numero di quelli (combattenti, ndr) intermedi dovrebbe comparire davanti al tribunale principale, come è stato dopo la Grande Guerra Patriottica. Prima di Norimberga, c'erano i tribunali di Kiev e Kharkov e un certo numero di altri. Apparentemente, uno dei primi sarà il Tribunale di Mariupol». È prevista anche la presenza di rappresentanti di Paesi stranieri, «compresi quelli occidentali», per assistere in diretta alla caduta degli Azovstal.

Il porto del Sud deve diventare, nella narrazione russa, un'appendice ucraina del Cremlino: è per questo che ieri circolavano informazioni secondo cui il governatore di San Pietroburgo, Oleksandr Beglov, sognerebbe per Mariupol un grande gemellaggio. E ne avrebbe già discusso al telefono con Pushilin, oltre che con l'autoproclamato sindaco della nuova Mariupol russa, Kostyantyn Ivashchenko. «Oggi Mariupol sta attraversando una fase difficile e noi siamo pronti a contribuire alla sua seconda vita», ha spiegato Beglov.

 Tutto pronto per la «rinascita»: «Dobbiamo stabilire legami industriali, nei settori dell'edilizia, della sanità, dell'istruzione, della cultura. L'assedio di Leningrado e l'occupazione di Mariupol, con la sua eroica liberazione dagli invasori fascisti durante la Grande Guerra Patriottica, hanno lasciato un segno profondo nel destino delle persone». Come dire, il passato sono solo macerie di cui Mosca vorrebbe cancellare la memoria.

 Mariupol, il saccheggio (segreto) del tesoro di Azovstal. Federico Fubini su Il Corriere della Sera il 30 Maggio 2022.

Il grande furto del tesoro di Mariupol è iniziato. E rischia di portare con sé una cascata di complicazioni, che potrebbero spingere molti Paesi anche lontani dalla Russia e dall’Ucraina a decidere una volta per tutte con chi stare: con la nazione aggredita e derubata dei suoi prodotti o dalla parte dell’aggressore, che presto potrebbe mettere in vendita quei beni.

Nella notte fra sabato e domenica — come anticipato ieri dal Corriere — sono emersi i primi dettagli di quella che sembra un’operazione di saccheggio del metallo prodotto a Mariupol. Da giorni la città è ormai in mano all’esercito di Mosca e almeno una nave è già entrata in porto per prelevare — secondo la parte ucraina — 2.700 tonnellate di prodotti in metallo da trasportare 160 chilometri più a oriente nel porto russo di Rostov. L’agenzia di Mosca Tass ha confermato l’arrivo del mercantile a Mariupol, mentre un portavoce del porto ha detto a Reuters che il carico sarebbe destinato alla città russa sul Mare di Azov. La reazione di Kiev non si è fatta attendere. «Il saccheggio dei territori occupati continua — ha denunciato via Telegram la responsabile per i diritti umani dell’Ucraina Lyudmila Denisova —. Dopo il grano, gli occupanti si stanno dando a esportare prodotti in metallo».

Nelle stesse ore Metinvest, la compagnia ucraina proprietaria degli impianti di Azovstal e Ilych a Mariupol, avvertiva che l’operazione potrebbe essere più vasta. Prima dell’invasione erano ormeggiati in rada sei mercantili con un carico di 28 mila tonnellate di acciaio grezzo destinato all’export in Italia, Spagna, Belgio, Grecia, Portogallo e Turchia (per un valore di circa 20 milioni di dollari). Ora, secondo un comunicato del gruppo industriale ucraino, ci sarebbe un «alto rischio di furto e contrabbando» di Stato verso i porti russi di Rostov, Novorossiysk e altri. Per Metinvest è partita un’operazione «che ha tutti i segni di un atto di pirateria». Del resto a Mariupol si troverebbero già 200 mila tonnellate di acciaio, ghisa e altri metalli per centinaia di milioni di dollari.

Per il Cremlino, far trasportare questo tesoro degli impianti di Azovstal e Ilych in Russia potrebbe essere un atto di riciclaggio di Stato. Da Rostov e dagli altri centri i metalli potrebbero poi essere esportati — ufficialmente come prodotti russi — verso Paesi africani o asiatici che non applicano le sanzioni occidentali. Per questo Yuriy Ryzhenkov, amministratore delegato di Metinvest, mette in guardia governi e imprese che dovessero comprare dalla Russia metallo di dubbia provenienza. «Chiediamo con forza ai compratori europei e di altre aree del mondo di non comprare beni degli impianti di Mariupol finché la nostra impresa non abbia recuperato il pieno controllo», ha detto Ryzhenkov al Corriere giorni fa. In altri termini, sarebbe ricettazione su scala globale. Ma quanti nel mondo daranno la precedenza al diritto, rispetto alla possibilità di comprare materie prime a basso costo, resta ancora tutto da vedere.

Da notizie.virgilio.it il 31 maggio 2022.

Svolta nelle acque di Mariupol. Dopo due mesi di blocco a causa della guerra, la prima nave cargo ha lasciato il porto della città ucraina, con a bordo un carico di metallo. La notizia è stata diffusa dal Distretto militare meridionale russo, citato dall’agenzia Tass. 

Dove è diretta la nave

La prima nave cargo partita dal porto ucraino di Mariupol è diretta in Russia, precisamente a Rostov, sul Don.

Si chiama ‘Slavutich‘ ed è uscita dal porto scortato dall’artiglieria della Flotta del Mar Nero e da unità di pattugliamento navali antisabotaggio. 

Si tratta dello stesso cargo entrato a Mariupol il 27 maggio: la prima nave a farlo dopo la fine dell’assedio, una decina di giorni fa. 

Il canale televisivo Rossiya-24, citato dall’agenzia russa Interfax, nella giornata di lunedì 30 maggio aveva sottolineato che “le autorità sono in difficoltà, poiché i combattenti dei battaglioni nazionalisti in ritirata hanno praticamente raso al suolo l’infrastruttura con il fuoco dei lanciagranate. Il ripristino di tutte le infrastrutture portuali è l’obiettivo primario per ora”.

L’annuncio dei filorussi: “Prese le navi di Mariupol”

“Oggi 2.500 tonnellate di bobine di acciaio hanno lasciato il porto di Mariupol. La nave è diretta a Rostov sul Don”, le parole di Denis Pushilin, capo dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk, riprese dall’agenzia russa Interfax. 

Pushilin ha aggiunto che alcune navi del porto di Mariupol entreranno a far parte della flotta commerciale della Repubblica Popolare di Donetsk: “La decisione è già stata presa, saranno rinominate. Così, la Repubblica potrà formare una propria flotta commerciale”.

L’importanza del porto di Mariupol

Prima della guerra, quello di Mariupol era il più grande porto ucraino sul Mare di Azov. 

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La città, di circa 400 mila abitanti, era il centro dell’industria per la produzione di acciaio. 

Il sindaco di Mariupol, Vadym Boychenko, ha reso noto il bilancio degli attacchi russi su Telegram: “Da metà aprile, gli occupanti hanno seppellito almeno 16 mila residenti in fosse comuni vicino ai villaggi di Stary Krym, Mangush e Vynohradne. Inoltre, più di 5 mila persone sono state sepolte dai servizi di pubblica utilità nella prima metà di marzo”. 

Nei giorni scorsi, invece, sono state scoperte nuove fosse comuni a Mariupol.

Mariupol, cadaveri ammassati al supermarket. E i russi rubano 3mila tonnellate di metallo. Andrea Cuomo il 30 Maggio 2022 su Il Giornale.

La denuncia del consigliere del sindaco: "Corpi come fossero immondizia" Una nave ormeggiata al porto riempita di materiale prelevato in Ucraina.

Mariupol capitale dell'inferno. La città sulle rive del Mar d'Azov, da qualche settimana nelle mani dei russi, continua a non trovare pace. È di ieri la notizia che i russi starebbe ammonticchiando i cadaveri degli ucraini da loro stessi uccisi in un supermercato: ad affermarlo è Petro Andriushenko, consigliere del sindaco, su Telegram: «Nei locali del Schyryi Kum supermarket sul viale Svobody, i russi hanno creato una discarica di corpi dei caduti ucraini riemersi dalle tombe quando hanno cercato di aggiustare le condotte d'acqua e anche cadaveri esumati. Li stanno accumulando come se fossero immondizia». Andriushenko posta anche una foto diffusa dal canale Telegram «Mariupol Now».

Lo stesso Andriushenko racconta anche dei continui saccheggi di metallo da parte dei russi. Una nave, la «Slavutych», registrata a Rostov sul Don, in Russia, avrebbe gettato l'ancora nel porto di Mariupol scortata dai militari russi, e da due giorni starebbe caricando il metallo rubato nelle varie località ucraine e destinato probabilmente a essere portato proprio a Rostov. Il «bottino» ammonterebbe a 2.700 tonnellate di metallo. La denuncia era partita sabato da Lyudmilla Denisova, commissaria parlamentare ucraina per i diritti umani, attraverso la sua pagina Telegram: «Dopo il grano, ora i russi portano via il metallo dai territori ucraini», aveva scritto, spiegando in tal modo il fatto che i russi si fossero dati da fare per sminare una parte del porto della città. «Inoltre, per una più conveniente rimozione del bottino, gli occupanti hanno iniziato a ripristinare i collegamenti ferroviari a Mariupol e Volnovakha», ha aggiunto la commissaria, secondo cui prima dell'invasione Mariupol ospitava circa 200mila tonnellate di metallo per un valore di 170 milioni di dollari. Mariupol ospita alla sua periferia meridionale una delle più grandi acciaierie d'Europa, Azovstal, che per settimane e fino alla resa è stata il cuore della resistenza delle milizie ucraine nell'assedio della città.

Mariupol è certamente uno dei luoghi in cui è avvenuto il maggior numero di crimini di guerra. Dei quali parla diffusamente, in un'intervista all'Adnkronos, Arsen Avakov, ex ministro dell'Interno ucraino dimessosi dopo oltre sette anni di governo meno di un anno prima dell'inizio dell'invasione russa. «La Russia - assicura Avakov - sta effettuando un'invasione militare dell'Ucraina sovrana. Il regime di Putin sta conducendo il genocidio del popolo ucraino, bombardando le nostre città e villaggi, uccidendo, stuprando e rapinando la popolazione civile, mandando le persone nei campi di concentramento. Ma perderà, senza dubbio, e subirà le meritate conseguenze della guerra di aggressione, il collasso dell'economia, il pagamento di enormi riparazioni». Secondo l'ex ministro «i criminali di guerra, il governo, i militari che stanno commettendo crimini efferati nelle città occupate, i propagandisti dovranno affrontare un Tribunale internazionale, un nuovo grande processo di Norimberga le cui udienze, a mio avviso, dovrebbero tenersi a Kharkiv e a Mariupol vittime di violenti bombardamenti. Se qualcuno riuscisse a sfuggire al banco degli imputati, sono sicuro che lo troveremo: puniremo chiunque abbia le mani sporche del sangue ucraino, chiunque abbia impartito ordini criminali, chiunque li abbia eseguiti, chiunque si sia occupato della propaganda del nuovo fascismo russo e della guerra contro l'Ucraina».

Da “La Stampa” il 30 maggio 2022. 

Una nave russa contenente grano, probabilmente rubato in Ucraina, è attraccata nel porto siriano di Latakia. Lo riporta la Cnn partendo da nuove immagini satellitari che mostrano un mercantile russo pieno di grano arrivato nel porto siriano di Latakia. 

Le immagini via satellite sono state fornite da Maxar Technologies, azienda privata che ha appalti con il governo Usa. Il mercantile coinvolto è la Matros Pozynich, una delle tre navi che caricano grano nel porto di Sebastopoli in Crimea dall'inizio dell'invasione russa dell'Ucraina. Si tratta del suo secondo viaggio in quattro settimane.

Il cargo è stato visto l'ultima volta a Sebastopoli il 19 maggio (dov' è stato visto attraccare in territorio ucraino accanto a quelli che sembravano essere silos per il grano con il cereale che fuoriusciva dal nastro in una stiva aperta) e successivamente è stato rintracciato mentre transitava nello stretto del Bosforo e lungo la costa turca. Si stima che la nave possa trasportare circa 30 mila tonnellate di grano.

Federico Fubini per il “Corriere della Sera” il 30 maggio 2022.

Il grande furto del tesoro di Mariupol è iniziato. E rischia di portare con sé una cascata di complicazioni, che potrebbero spingere molti Paesi anche lontani dalla Russia e dall'Ucraina a decidere una volta per tutte con chi stare: con la nazione aggredita e derubata dei suoi prodotti o dalla parte dell'aggressore, che presto potrebbe mettere in vendita quei beni. 

Nella notte fra sabato e domenica - come anticipato dal Corriere - sono emersi i primi dettagli di quella che sembra un'operazione di saccheggio del metallo prodotto a Mariupol. Da giorni la città è ormai in mano all'esercito di Mosca e almeno una nave è già entrata in porto per prelevare, secondo la parte ucraina, 2.700 tonnellate di prodotti in metallo da trasportare 160 chilometri più a oriente nel porto russo di Rostov.

L'agenzia di Mosca Tass ha confermato l'arrivo del mercantile a Mariupol, mentre un portavoce del porto ha detto a Reuters che il carico sarebbe destinato alla città russa sul Mare di Azov. La reazione di Kiev non si è fatta attendere. 

«Il saccheggio dei territori occupati continua - ha denunciato via Telegram la responsabile per i diritti umani dell'Ucraina Lyudmila Denisova -. Dopo il grano, i russi si stanno dando a esportare prodotti in metallo». 

Nelle stesse ore Metinvest, la compagnia ucraina proprietaria degli impianti di Azovstal e Ilych a Mariupol, avvertiva che l'operazione potrebbe essere più vasta. Prima dell'invasione erano ormeggiati in rada sei mercantili con un carico di 28 mila tonnellate di acciaio grezzo destinato all'export in Italia, Spagna, Belgio, Grecia, Portogallo e Turchia (per un valore di circa 20 milioni di dollari).

Ora, secondo un comunicato del gruppo industriale ucraino, ci sarebbe un «alto rischio di furto e contrabbando» di Stato verso i porti russi di Rostov, Novorossiysk e altri. Per Metinvest è partita un'operazione «che ha tutti i segni di un atto di pirateria». Del resto a Mariupol si troverebbero già 200 mila tonnellate di acciaio, ghisa e altri metalli per centinaia di milioni di dollari. 

L'impianto di Azovstal, tra l'altro, era strategico per le catene internazionali del valore, dato che da lì proveniva quasi metà del gas neon (legato alla lavorazione dell'acciaio) necessario alla produzione di chip. La paralisi dell'impianto rallenterà ulteriormente le forniture di semiconduttori.

Per il Cremlino, far trasportare questo tesoro degli impianti di Azovstal e Ilych in Russia potrebbe essere un atto di riciclaggio di Stato. Da Rostov e dagli altri centri i metalli potrebbero poi essere esportati - ufficialmente come prodotti russi - verso Paesi africani o asiatici che non applicano le sanzioni occidentali. 

Per questo Yuriy Ryzhenkov, amministratore delegato di Metinvest, mette in guardia governi e imprese che dovessero comprare dalla Russia metallo di dubbia provenienza. «Chiediamo con forza ai compratori europei e di altre aree del mondo di non comprare beni degli impianti di Mariupol finché la nostra impresa non abbia recuperato il pieno controllo», ha detto Ryzhenkov al Corriere giorni fa. 

In altri termini, sarebbe ricettazione su scala globale. Ma quanti nel mondo daranno la precedenza al diritto, rispetto alla possibilità di comprare materie prime a basso costo, resta ancora tutto da vedere.  

Domenico Quirico per “la Stampa” il 30 maggio 2022.

I supermercati raccolgono sotto il loro tetto molte persone come un tempo facevano solo le chiese. Occupano, se volete, il centro della vita collettiva contemporanea. Per secoli la chiesa ha occupato questo posto. Non a caso li si definisce i templi del consumo. Sarà per questo che i russi, come ha denunciato Petro Andriushenko, consigliere del sindaco di Mariupol, hanno gettato i cadaveri degli ucraini raccolti in città o esumati dalle tombe improvvisate in un supermercato abbandonato e semidistrutto. 

Ci crocifigge una immagine: corpi in decomposizione ammucchiati come un pavimento in mezzo agli scaffali devastati e vuoti, alle casse desolate, alle immondizie delle cose saccheggiate. 

In questa guerra abbiamo visto una quantità di scene orribili, stragi con i missili, e civili eliminati frettolosamente per strada come inciampi umani. La guerra in sé come crimine. Ogni guerra non inventa il mistero del male, ne rende ogni volta il suo linguaggio più lancinante. Ma la barbarie sui cadaveri mina le condizioni stesse della esistenza umana. La civiltà, ciò che siamo, corre lungo una cresta esigua di cui uno dei versanti è proprio una uscita come questa fuori dalla umanità. 

Il culto dei morti, il rispetto dei morti è un segno di umanità, dice un luogo comune filosofico. La tomba è un punto di partenza della umanità. Tutto in fondo inizia dalla fine. La morte e il suo culto rendono immortali.

La morte, se rispettata, coperta degnamente, celebrata anche con il più umile ritorno alla terra, rende immortali. Oggi, nel terzo millennio, assistiamo con angoscia alla profanazione della morte, celebrata in un osceno funerale al contrario, in un rito blasfemo, sui cadaveri di Mariupol, atrocemente abbandonati, in vista, in un supermercato come se fossero merce guasta di cui non si sa cosa fare perché la guerra, vincere è una occupazione più importate. Non è purtroppo una eccezione. Intravedo la stessa empietà disinvolta in altre terribili storie, come l'assalto alla bara durante il funerale della giornalista uccisa in Palestina. 

La negazione della tomba significa negare che ciò che si trova nel seno della terra, sotto un tumulo, una semplice lastra di pietra o al centro della fastosa piramide di un re, sia degno di rimanere. Anche se a poco a poco non ne resteranno che ossa e cenere e polvere. Una dignità è concessa anche ai resti materiali dal momento che non sono cose, scarti, ma resti umani.

Il rifiuto dell'autocrate Creonte di concedere questa distinzione a uno dei suoi fratelli è la ragione della rivolta politica di Antigone. Nella Città una certezza deve accomunare tutti, obbedienti e ribelli, la mancanza di rispetto per i resti dei mortali porta direttamente allo stato di natura, spalanca al Male le porte per l'invasione del mondo. 

In questi oltre novanta giorni dall'aggressione russa, talora anche con fatica, ho evitato di usare parole come genocidio, olocausto e sono convinto che coloro che l'hanno fatto hanno sbagliato.

Ma di fronte alla umiliazione dei morti, allo sfregio dei cadaveri uso per coloro che lo hanno compiuto questo sacrilegio, che hanno portato quei poveri resti nel supermercato e li hanno gettati lì, non la parola uomini ma contro uomini. Il silenzio dei morti ci appartiene come le grida d'aiuto delle vittime squartate dalle guerre e dei profughi, in quel silenzio riconosciamo la nostra voce. 

Per questi civili eliminati durante la feroce battaglia urbana non è certo stata una buona morte. Penso che non esista una buona morte, che sia un dolce nascondiglio, una pietosa bugia medievale e cristiana. Al massimo esiste una morte decente, civilizzata. E certo loro non hanno avuto diritto neppure a questa. Ma nel supermercato del viale Svobody siamo oltre.

A questi cadaveri abbandonati, ammucchiati si adatta la terribile definizione di Bossuet per i corpi in decomposizione: «Un non so che che non ha nome in nessuna lingua». E' così: sono morti indicibili. Sono la morte tutta nuda, che non ha soltanto giustificazione ma neppure nome. Riportati brutalmente al principio universale di distruzione. Stiamo lì davanti a quel fotogramma umiliati e spogliati, come persone che non hanno neppure più diritto al dolore perché la vergogna è diventata universale. Il morto che viene pianto, sepolto, indicato con una lapide, una croce, un semplice sasso fa ancora parte della umanità, non è un cadavere. Perché non lo si è abbandonato, lasciato cadere nel Nulla. 

Lo diventa quando come i morti del supermercato è lasciato a sé stesso. A Mariupol non si combatte più da giorni. Non esiste neppure la fragile, inaccettabile scusa del dire che chi sta combattendo strada per strada e lotta per non essere a sua volta ucciso non ha tempo per un gesto di pietà verso i vinti.

Questi cadaveri raccattati tra le rovine o addirittura esumati per mostrali sono abbandonati in quel luogo perché così si è voluto. Sono il contrario della pietà della cremazione, che è l'oblio dei corpi, la eliminazione della vita organica che contiene il messaggio: il morto non sarà che una astrazione, un ricordo astratto, un vuoto che coloro che lo hanno amato devono colmare. I cadaveri lasciati apertamente a disfarsi nel lento degrado fisico della materia, significano che non si vuole affatto sbarazzarsi di quei morti. Non si vuole con la tomba rubare pietosamente la morte alla natura, il sacro e i cimiteri sono un furto che umanizza, rubano la morte, la fanno nostra, la umanizzano. 

E' la profanazione totalitaria che afferra perfino il nemico ucciso. E' lo stesso meccanismo che portò nel 1793, l'anno del Terrore spinse la rabbia rivoluzionaria a profanare le tombe della cattedrale di Saint Denis sfasciandole con mazza e piccone, a compiere un regicidio anche contro i morti, scoperchiandone la polvere, decrasalizzandola e poi gettandola nella Senna.

I russi che hanno violato la morte dei morti ucraini esibendola con questa profanazione sfrenata al tempo della decomposizione appartengono alla stessa canaglia che vuole abolire la Storia, ai fanatici della tabula rasa, anche dei corpi dei nemici uccisi. I loro morti non hanno neppure il diritto di morire.

I prigionieri delle acciaierie di Mariupol “vengono torturati con le pinze, con l’elettroshock e con pratiche di strangolamento” dopo essere stati catturati dalle forze russe. Dagotraduzione da Daily Mail il 30 maggio 2022.

Il presidente francese Emmanuel Macron e il suo omologo tedesco Olaf Sholz hanno chiesto la restituzione dei 2.500 combattenti dell'Azovstal prigionieri dei russi, dopo la notizie emerse sulle terribili torture a cui sarebbero sottoposti nei campi di prigionia di Putin. 

Gli appelli dei leader europei arrivano dopo che i soldati ucraini scambiati con i prigionieri russi sono rientrati in patria e hanno denunciato in un report il trattamento particolarmente  brutale riservato ai difensori di Mariupol. 

I combattenti di Azov sarebbero stati picchiati, torturati con le pinze, sottoposti a pratiche di strangolamento e all’elettroschok. Ad altri soldati ucraini sarebbero state iniettate droghe per indurli a confessare presunti crimini.

In particolare sarebbero stati filmati durante presunte confessioni in cui erano costretti a cantare l'inno nazionale russo e a chiedere perdono. 

In alcuni filmati i prigionieri erano anche costretti a “confessare” di aver indottrinato la popolazione locale. 

Intanto, mentre gli sforzidi Putin si concentrano sulla presa di Severodonetsk, dove l'Ucraina sta subendo "gravi perdite", il think tank dell'Institute for the Study of War (ISW) ha affermato che la presa della città è un'operazione militare strategicamente insignificante e non merita lo sforzo bellico sostenuto.

Secondo l’ISW Putin starebbe "sprecando incautamente le sue risorse militari".  

Guerra Russia-Ucraina, per i prigionieri dell’Azovstal processo farsa stile Norimberga. Anna Zafesova per “la Stampa”  il 30 maggio 2022.

Botte sulle dita e sulle ferite aperte, con il calcio del fucile. Pinze. Elettroshock. Strangolamenti. 

«Le donne militari catturate prigioniere vengono costrette a compiere atti sessuali», denuncia asciutto il report della commissaria per i diritti umani di Kyiv Lyudmyla Denisova sui prigionieri ucraini detenuti nelle carceri di Donetsk, Taganrog e Voronezh.

Un accanimento particolare viene riservato ai membri del battaglione Azov, che si sono consegnati dopo due mesi e mezzo di resistenza a Mariupol. Ma anche militari di altri reparti vengono sottoposti a torture fisiche e psicologiche: molti prigionieri hanno riferito alla missione umanitaria venuta a verificare le loro condizioni che vengono stipati in venti in celle da 2-3 posti, ricevono pochissimo cibo e acqua, non hanno la possibilità di lavarsi e sono privati di assistenza medica. 

Alcuni denunciano di essere stati sottoposti a somministrazione di farmaci psicotropici, e di essere stati costretti a recitare la poesia «Perdonateci, cari russi», a imparare l’inno russo e la storia della bandiera e dello stemma della Federazione Russa: chi si rifiutava veniva picchiato e torturato.

Mentre Emmanuel Macron e Olaf Scholz nelle loro telefonate al Cremlino chiedono di liberare i quasi 2500 militari ucraini finiti dai bunker di Azovstal nelle prigioni russe, a Mosca sta maturando il piano non soltanto di non scambiarli con le centinaia di soldati russi caduti prigionieri degli ucraini, ma di organizzare un processo esemplare. 

Subito dopo la caduta di Mariupol, mentre Volodymyr Zelenzky rivelava che Putin aveva dato garanzie per l’incolumità dei combattenti, e il loro successivo scambio, molti parlamentari della Duma sono insorti per non riconsegnarli all’Ucraina, processandoli invece in Russia, addirittura di reintrodurre la pena di morte per i «criminali nazisti», come li definisce la propaganda russa.

Invece di trattarli come prigionieri di guerra tutelati da accordi internazionali, la Russia avrebbe intenzione di processare i militari ucraini in un «tribunale internazionale» per una punizione esemplare, sostiene Denis Pushilin, il «presidente» della enclave separatista di Donetsk, che vorrebbe ispirarsi al processo di Kharkiv, dove nel 1943 i sovietici condannarono all’impiccaggione tre tedeschi e un ucraino. 

E il capo della Crimea annessa Igor Aksyonov ha invocato la pena di morte, «una lezione per chi si è dimenticato Norimberga». Sarebbe un «processo politico per sostenere la narrativa sulla “denazificazione” promossa da Putin», ha dichiarato al Guardian Francine Hirsch, storica americana che ha scritto un libro sul processo di Norimberga e il ruolo dei sovietici.

Un processo-spettacolo, sul modello di quelli lanciati da Stalin contro le presunte congiure «trozkiste», parte di quella ricostruzione dell’Unione Sovietica che il Cremlino sta ormai portando all’ossessione. 

La guerra in Ucraina viene presentata da Putin come la prosecuzione diretta della Seconda guerra mondiale, con le copie della «bandiera rossa della vittoria» issata sul Reichstag affisse ai municipi del paesi ucraini occupati dai russi nel Donbass. I fake sul «governo neonazista» di Kiev da combattere come erede diretto dei seguaci di Hitler servono sia a motivare i russi, sia – almeno nell’immaginario del Cremlino – a spiazzare l’Occidente, accusandolo di «sostenere i nazisti».

Un processo dove almeno qualcuno dei reduci di Mariupol venisse costretto – con i farmaci, con le torture, con il ricatto – a «confessare» davanti alle telecamere, verrebbe presentato da Mosca come una «prova» della fondatezza della sua aggressione contro l’Ucraina. 

Curiosamente, dopo due settimane la risoluzione che proibisce lo scambio dei militari di Azov non è stata ancora messa ai voti, e fonti della Duma hanno rivelato al quotidiano Kommersant che in questo momento sarebbe «inopportuno».

Lo stesso giornale cita però informatori del Cremlino che sostengono che l’idea di una «Norimberga 2.0» non sia stata affatto accantonata, e che piace molto anche al ministero degli Esteri – ormai un ente di propaganda più che di diplomazia – come qualcosa da opporre alle accuse di crimini contro l’umanità rivolte ai russi dopo le stragi di civili a Bucha e in altre città ucraine. 

I parlamenti di sei Paesi hanno già riconosciuto la guerra lanciata dalla Russia come «genocidio del popolo ucraino», e mentre non è chiaro cosa i magistrati russi potrebbero incriminare ai militari di Azov, team di periti e legali internazionali stanno documentando le decine di migliaia di casi di bombardamenti, esecuzioni e stupri commessi in Ucraina dai russi. 

Per ironia della sorte, a voler lanciare una Norimberga è proprio quel Cremlino che rischia di finire al tribunale internazionale all’Aja.

Alessandro D'Amato per Open.online il 25 maggio 2022. 

Un accordo tra la Russia, l’Ucraina, la Croce Rossa Internazionale e l’Onu ha portato alla resa del Battaglione Azov e degli altri militari di Kiev che si trovavano nell’acciaieria Azovstal a Mariupol’. A raccontarlo oggi è Kateryna Prokopenko, moglie di Denis. Ovvero il comandante del reggimento che si è consegnato ai russi soltanto il 20 maggio. Nell’occasione, secondo il generale maggiore russo Konashenkov, Prokopenko sarebbe stato portato via «con un veicolo blindato speciale» verso aree sotto il controllo dell’esercito russo. Un trasferimento particolare che sarebbe stato giustificato dal fatto che «i residenti lo odiavano e volevano ucciderlo per le numerose atrocità commesse». 

Il patto segreto per il Reggimento

In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera Kateryna sostiene che Kiev, Mosca, la Cri e l’Onu avrebbero un patto segreto per salvaguardare la vita dei soldati. Lei e Yulia, la moglie del soldato Arseniy Fedorov, dicono che i dettagli non si possono svelare: «Siamo in contatto con i negoziatori ma non possiamo divulgare informazioni su questo. Quello che possiamo dire è che è prevista la possibilità per i reclusi di fare telefonate periodiche ai familiari, probabilmente i graduati stanno avendo la priorità». I soldati di Mariupol si rifiutavano di consegnarsi ai russi perché questo avrebbe significato “morte sicura”. Ora gli arrestati si trovano tutti a Olenivka, paese della regione di Donetsk.

Tutti sarebbero reclusi nella colonia penale numero 52, capace di ospitare fino a tremila persone. Kateryna ha parlato anche con il Guardian. Al quale ha raccontato della telefonata con Denis durata trenta secondi prima che cadesse la linea. Il comandante le ha raccontato di stare bene: «Gli hanno dato acqua e cibo. Le condizioni soddisfano i requisiti degli accordi e non hanno subito violenze in questo periodo. Cosa accadrà dopo non lo sappiamo ma al momento ci sono terze parti come l’Onu e la Croce Rossa che tengono sotto controllo la situazione». Il capo dei separatisti filorussi di Donetsk Denis Pushilin ha detto ieri che gli occidentali potranno assistere ai processi a cui saranno sottoposti i soldati di Azovstal. I giudici dell’amministrazione di Donetsk e le autorità russe, ha aggiunto, stanno preparando i dossier per la corte marziale.

L’organizzazione dei combattenti

Intanto, riferisce sempre il Guardian, Kateryna e Yulia vogliono fondare un’organizzazione indipendente per sostenere i combattenti dell’Azovstal. «Lo scopo è organizzare chiamate settimanali con i detenuti, per sfatare le bugie dei russi sui nostri ragazzi, per garantire che le loro condizioni rimangano soddisfacenti – letto, medicine, acqua e cibo, e fare campagna per il loro rapido rilascio», spiegano. Secondo la Russia sono quasi 2 mila gli ucraini arresisi tra le rovine di Mariupol, dove hanno resistito per settimane nei bunker e nei tunnel dell’acciaieria. La difesa dell’Azovstal era guidata dal reggimento Azov, considerato “nazista” dai russi e con forti legami con l’estrema destra.

Pushilin, scrive l’agenzia di stampa Reuters, ha detto che i «criminali nazisti» dovrebbero essere processati da un tribunale. Prima si svolgeranno i cosiddetti processi “intermedi”, tra cui uno a Mariupol. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa ha dichiarato di aver registrato nomi e generalità di chi ha lasciato l’acciaieria. Il Cremlino ha annunciato che i prigionieri saranno trattati secondo gli standard internazionali. Ieri Taras Chmut, direttore della Ong Povernys Zhyvym, ovvero “Torna a casa vivo”, ha fatto sapere di aver effettuato missioni con elicotteri durante l’assedio. «Fornivamo il materiale su specifica richiesta degli assediati, che comunicavano con noi online. Era trasportato via elicottero dall’aviazione militare. 

Piccoli droni, sistemi di sorveglianza, visori termici, radio – è il tipo di rifornimenti nel quale siamo specializzati ed è quello che i combattenti ci chiedevano. Purtroppo alcuni elicotteri sono stati abbattuti e i piloti sono morti. A volte al ritorno riuscivano a evacuare i feriti che erano dentro l’acciaieria», ha spiegato Chmut.

Domenico Quirico per “La Stampa” il 22 maggio 2022.  

Mescolo immagini, le sovrappongo e le confondo, ciò che importa non è contare le carcasse dei carri armati distrutti, i villaggi presi e perduti, le dichiarazioni dei politici, quello che conta è cogliere il senso segreto di questa guerra, mettere in luce il suo particolare inconfondibile carattere. Scelgo le immagini della resa ucraina a Azovstal e quelle di un villaggio a due passi del fronte dove sono rimasti donne vecchi e bambini che non sanno dove andare.

Allora tutto mi sembra più chiaro: questa è l'ennesima guerra della povera gente, in divisa e non, l'unica guerra vera nel mare delle bugie, la guerra e il dolore. Quelli di Azovstal, i vinti di Azovstal, terribile nome di ferro e di sangue. Adesso che è finita senza gloria ma soltanto con immenso, inutile sacrificio mi appare davvero una Giarabub ucraina: migliaia di uomini tagliati fuori dalla battaglia che conta, ma usati come propaganda, gli irriducibili...quelli che non si arrendono...che impediscono ai russi di avanzare.

Propaganda per nascondere errori strategici e sconfitta come quando ci inventammo, in Africa settentrionale, travolti dagli inglesi, la epica resistenza di una remota, inutile oasi libica che il nemico trascurava perché non valeva neppure la fatica di attraversare il deserto.

Adesso escono in lunghe file, si rovesciano fuori dalle macerie dei loro rifugi nella catacombe della acciaieria in gruppi stanchi, urtandosi disordinatamente prima di incamminarsi verso il nemico che li attende. C'è un immenso silenzio intorno, interrotto solo dai comandi dei soldati russi che ordinano di deporre gli zaini e di mostrare i tatuaggi alla ricerca di quelli del reggimento «fascista», e dal rumore del vento. Le raffiche passano su quegli uomini esausti, feriti, umiliati come un'onda. I vinti come naufraghi gettati a riva dalla tempesta, gettati a riva dalla dolce onda del vento.

In quel sibilo che sembra poter piegare non solo i fili d'erba ma anche i ruderi e rottami sparsi nella strada dove si svolge il rito della resa, il respiro, le parole rauche di vincitori e vinti assumono un suono grave. Ora che hanno perso la battaglia e sono lisi dalla fame e dalla fatica, avvolti in uniforme sporche e lacere li guardo: fronti dure, ostinate, sì sono una razza nuova, una razza dura, modellata già da otto anni di guerra.

Marciano poi ordinati, in doppia fila verso gli autobus che li porteranno via verso un destino molto incerto, marciano per fame, per stanchezza, per restare vicini ai loro compagni di ottanta giorni di agonia. Ieri, i russi hanno ipotizzato uno scambio di alcuni di loro con l'oligarca filorusso arrestato dagli ucraini Viktor Medvedchuk.

Con il passare dei giorni si dirada, tra quelli che si consegnano, il numero dei feriti che si appoggiano a stampelle di fortuna o sono trasportati dai compagni sulle barelle. Si direbbe che non soffrano, forse il dolore non può nulla su quegli animi distratti dallo strazio della sconfitta, su quegli animi assenti, segretamente assenti. Passano volti pallidi dalle grandi occhiaie di aizzati dalla fame, di una tristezza dura. Hanno l'aria più di meccanici al termine del pesante turno di lavoro che di soldati.

Ai russi alcuni volgono un sorriso così strano, così umiliato che quasi vorresti li guardassero con odio. Pensano alla loro solitaria, triste, disperata lotta sottoterra. Certo qualcuno a scuola ha letto la ritirata di «Guerra e pace», la ritirata nel bagliore degli incendi, sulle vie ingombre di fuggiaschi, di feriti, di armi abbandonate. Non questo è toccato loro.

Non c'è nel loro campo di battaglia nessun Andrea Wolkonski disteso nel grano, come nella motte fatale di Austerlitz. I loro morti immagino siano rimasti sepolti nelle catacombe: anonimi, segreti, invisibili. Mi sembra che le rovine dell'acciaieria dovrebbero mettersi a gridare, che da tutte le ferraglie e le strade e i raccordi ferroviari dovrebbe alzarsi un urlo. Invece c'è solo il sibilo del vento.

È questa una resa che lascia nell'aria la vuota, fredda, deserta atmosfera dei cortili delle fabbriche dopo uno sciopero fallito. Qualche indumento, qualche zaino abbandonato, qualche carcassa di binari o di capannoni. È logico sia così: in questa mischia di Mariupol la fabbrica, i suoi macchinari e recessi hanno agito come corpi vivi, quasi come persone e soldati. Un urto meccanico, industriale, acciaio contro acciaio, e la loro morte di uomini è così un fatto illogico, un assurdo.

I soldati di Azovstal fissano con uno sguardo pieno di stupore e di rimprovero i nemici che gettano fuori dai loro zaini stracci e oggetti che sull'asfalto cadono con leggeri rumori di metallo. Come se venissero a carpire un loro segreto, a profanare, toccando e gettando quelle povere cose, l'orrendo e sacro mistero della battaglia e della morte. 

Quando si sfilano, a un ordine, le magliette e compaiono i tatuaggi, ecco: solo allora con l'uniforme sembrano aver perduto ogni sicurezza di sé. Quel silenzio perfetto sembra per la prima volta stupirli, allarmali. Non è lo stesso delle interminabili settimane sotto terra quando si attendeva l'inevitabile rombo del bombardamento. È un silenzio che sta per tradirli, che riserva terribili sorprese.

I russi, che devono aver ricevuto istruzioni severe, di interpretare bene questa straordinaria occasione di propaganda, si muovono, alcuni, interminabilmente pazienti e annoiati, altri svogliati e torbidi come a un noioso posto di blocco. Come se facessero un banale lavoro della guerra. Eppure si sente fischiare l'odio come l'acqua su un focolare rovente. 

Azovstal è stato un grave errore degli ucraini. Aver sacrificato i combattenti più pugnaci in una difesa inutile e senza speranza, innanzitutto, invece di farli fuggire quando era possibile. Ma è in primo luogo una disfatta nella comunicazione, loro che finora l'hanno utilizzata con perizia, a cominciare dal presidente. 

Le sequenze di questi soldati vinti, esaltati per ottanta giorni come impavidi, invincibili eroi, la falsa metafora della «operazione umanitaria» con cui si è cercato di nascondere il disastro, pesano molto di più che le immagini delle carcasse dei carri armati o dei mezzi russi distrutti. Questi sono uomini vivi, i loro volti i loro corpi, i gesti parlano dolorosamente.

Un rottame di ferro non dice nulla, un uomo che si arrende è già un simbolo. Metto accanto le immagini degli abitanti di un villaggio del fronte, la telecamera gira tra le isbe di una povertà che sembra più antica e irrimediabile di qualsiasi guerra, anche di questa, c'è quasi visibile un odore di antica consunzione, bambini e donne e vecchi ci sbarrano gli occhi addosso, alcuni così magri che a toccarli verrebbe il timore di romperli. La guerra si è trasferita in loro.

Una nera, appassita mano di vecchio apre la porta della sua casa. I vetri fracassati, i buchi aperti dalle bombe nel tetto sembrano lì da sempre. Si sovrappongono immagini del 1941. Tolgo da quelle di oggi solo le ciabatte di plastica, i mitra dei soldati. Ecco i cinegiornali con le truppe italiane che avanzano nel bacino carbonifero del Donbass: gli stessi luoghi, le stesse isbe, la stessa paziente disperazione. Hanno creduto di aver pagato il loro debito con la storia una volta per sempre. Si sono ingannati. Una donna che ha figli piccoli ma è già vecchia, consunta, piangendo grida: restiamo qui perché non abbiamo altro luogo dove andare.

Francesco Battistini per il “Corriere della Sera” il 22 maggio 2022.

«Proviamo coi turchi». Schiacciato dall’incubo dell’acciaieria, pressato dall’eroismo obbligatorio, raccontano che Volodymyr Zelensky non ha dormito notti intere. A Chernihiv avevano stampato i cartelloni, «aspettiamo a casa i nostri eroi». 

Su Change.org era partita la petizione dalle mogli dei soldati di Azov, un milione di firme, perché «una figura internazionale» intervenisse a mediare. Ma da settimane non si vedeva proprio una luce, in quei sotterranei: «Era impossibile sbloccare la situazione per via militare — spiega Zelensky —, ci siamo dovuti affidare alla diplomazia».

Quale? Il primo spiraglio, spiega una fonte diplomatica europea, è arrivato con una telefonata la mattina dell’8 maggio. I russi avevano finalmente detto sì al corridoio d’Onu e Croce rossa, per far uscire dall’Azovstal almeno le donne, i bambini e gli anziani. 

Ora si trattava di salvare la pelle dei militari: non solo Azov, anche la 12esima brigata della Guardia nazionale, la 36esima dei marines, l’antiterrorismo, gli agenti dei servizi Sbu, i poliziotti, le guardie di frontiera, i volontari, tutti quelli che erano rimasti intrappolati a combattere là sotto. Quando suona il cellulare, quella mattina, è la chiamata che Zelensky aspettava.

Dall’altra parte c’è lo storico leader dei tatari di Crimea, Mustafa Dzhemilen, che siede alla Rada di Kiev. È un buon amico di Erdogan, da giorni chiede al presidente turco di trovare una via di fuga: una nave che porti gli assediati fuori da quell’inferno. Dzhemilen ha un messaggio del Cremlino per gli ucraini, fatto filtrare attraverso Ankara: dev’essere Zelensky a dare l’ordine ad Azov d’arrendersi, dicono i russi, solo così la situazione può sbloccarsi. «Non abbiamo ore — avverte Dzhemilen —, abbiamo secondi».

Manca poco al 9 maggio, però. Alle celebrazioni di Putin sulla Piazza Rossa. Al fatidico anniversario della vittoria sovietica sul nazismo. Alla giornata in cui tutto il mondo guarda a Mosca. E non si può, pensa Zelensky, regalare ai russi un simile annuncio: il presidente ucraino domanda che dentro l’acciaieria resistano ancora. Solo un pochino. Poi, si potrà fare: lo darà personalmente lui, l’ordine d’arrendersi.

I mediatori

Il ruolo dei turchi. Le pressioni d’israeliani e francesi. L’intervento degli svizzeri, che hanno appena riaperto l’ambasciata a Kiev e vogliono ospitare in luglio una specie di conferenza di pace. E probabilmente, una decisiva telefonata degli americani.

«Lo sblocco è stato concordato coi partner occidentali», dice Zelensky, per evitare la morte sicura di «centinaia» (dicono gli ucraini) o «migliaia» (2.439, precisano i russi) di militari chiusi per 82 giorni negli 11 km quadrati della più grande acciaieria d’Europa. Ora che è finita, le tv del Cremlino mostrano le svastiche tatuate e le aquile hitleriane di Azov, per minimizzare lo stallo militare cui diciassette brigate di Putin sono state costrette dalla resistenza d’un manipolo. E anche la retorica di Kiev trasforma la resa in un’evacuazione — «sono le nostre Termopili» —, facendo passare la definitiva conquista russa di Mariupol per «una vittoria di Pirro».

Le pressioni

Ma la domanda resta: che cos’ha spinto Zelensky a cedere? E in cambio di che? L’8 maggio, s’era ancora appesi alle richieste al segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. E solo il 10 maggio, una settimana prima della soluzione, i russi avevano bombardato l’acciaieria 38 volte in un giorno. Il 12, l’ambasciatore ucraino all’Onu s’era appellato disperato al diritto umanitario internazionale. 

Il 13, c’era stata l’implorazione pubblica di tre ex presidenti ucraini, Petro Poroshenko, Viktor Yushchenko e perfino dell’impopolarissimo Leonid Kuchma, «l’amico di Mosca». Il 14, la ministra Iryna Vereshchuk aveva detto che solo una sessantina d’intrappolati sarebbero stati evacuati. 

Di colpo, quattro giorni fa, Zelensky ha mollato: «Gli eroi ci servono vivi», ha detto. Non poteva più tenere le pressioni d’alcuni suoi militari, spiega la fonte diplomatica, che erano disposti perfino a un’offensiva «clamorosa e altamente simbolica» sull’Azovstal.

Il presidente ha considerato Mariupol ormai persa — «è morto il 90 per cento dei nostri elicotteristi che hanno provato a portare aiuti all’acciaieria» — e non se l’è sentita di continuare il braccio di ferro. Quanto l’abbia digerita chi sosteneva gli eroi, non si sa. L’ala di chi non accetta cedimenti, e neppure negoziati, è predominante: «Non conosco altri confini che quelli dell’indipendenza del 1991», chiarisce il capo dell’intelligence militare, Kyrylo Budanov, casomai tornasse l’idea di rinunciare a qualcos’altro.

Gli Azov se ne vanno al loro destino nelle prigioni russe, Zelensky dice «li riporteremo a casa». Uno scambio con Viktor Medvedchuk, magari, l’oligarca ucraino amico di Putin che «Ze» fece arrestare più d’un anno fa, scatenando l’ira dello Zar. O uno scambio di prigionieri di guerra: in otto anni di Donbass, è l’unica cosa su cui Mosca e Kiev hanno sempre trovato un accordo. 

Marta Serafini per il “Corriere della Sera” il 22 maggio 2022.  

«Lui ora lo stanno torturando e gli stanno strappando le unghie. Lui invece è morto. Lui è tornato come me. Di lui invece ne ho perso traccia da un mese. A lui invece hanno sparato cinque proiettili nella gamba».

Robert K. ha meno di trent’anni. E’ un militare del battaglione d’Azov. Apre il telefono, mostra un’immagine. Un gruppo di sei ragazzi in divisa. Sono i suoi compagni. Erano i suoi compagni. «È l’ultima foto che ci siamo fatti tutti insieme».

Robert ha gli occhi azzurri, i capelli ricci, meno di 30 anni. «Dopo aver combattuto in Donbass ho lasciato la mia città, facevo sicurezza privata. Poi a febbraio sono tornato con il battaglione». Seduto in un bar di Zaporizhzhia racconta la sua storia. Ma prima di iniziare chiede: «Sono ancora in servizio, quindi non pubblicate il mio nome per intero».

Quando ha lasciato Mariupol?

«E’ stato il 15 di marzo. Il comandante ci ha detto: avete due opzioni, o restate e combattete fino alla fine. O andatevene vestiti da civili, se volete salvarvi. Io avevo la mia famiglia dentro. Erano chiusi in uno scantinato da settimane senz’acqua e senza cibo. Dovevo metterli in salvo. E dovevo salvare me stesso».

Cosa era successo nelle settimane precedenti?

«I russi hanno mandato in avanti gli ucraini che erano riusciti ad arruolare. Li hanno usati per individuare le nostre posizioni, come carne da macello. Poi hanno iniziato a bombardare. Artiglieria e aerei. Ogni mezz’ora. Colpivano di tutto, obiettivi civili, militari, non importava». 

Quale era il vostro compito?

«Avevamo l’ordine di proteggere la popolazione. E evacuare il più alto numero di civili possibile. Erano tutti terrorizzati. Dalle bombe ma anche dalla voce che in città stessero arrivando gli uomini di Kadyrov. Inoltre c’erano tre navi russe piazzate nella baia. Dal 10 marzo sono iniziati i corridoi ma i russi bombardavano anche quelli».

Quando avete capito che le cose si stavano mettendo davvero male?

«Quando i russi sono entrati dentro il distretto 17. Ci siamo asserragliati dentro l’ospedale numero 2 per proteggere i civili. I chirurghi operavano sotto i bombardamenti. C’erano anche dei giornalisti e dei fotografi che abbiamo aiutato a scappare. Un deputato ucraino della città anziano è venuto da noi. Lo mandavano i russi. “Arrendetevi”, ci ha detto”. Poi hanno fatto irruzione nell’ospedale e hanno sparato ai militari feriti nei loro letti»

Quando ha deciso che era il momento di lasciare?

«Mentre eravamo diretti alla base, i russi con i droni hanno individuato il punto esatto e l’hanno bombardata. Solo per un caso non c’era dentro nessuno. Ma hanno distrutto tutti i nostri rifornimenti, non avevamo più niente. Armi, cibo. Poi hanno bombardato l’obitorio. Era pieno di cadaveri fino al soffitto. Te lo immagini? Fino al soffitto. I pezzi dei corpi sono finiti ovunque. Mariupol, la mia città, era diventato l’inferno».

Come ha fatto a mettere in salvo la sua famiglia?

«Quando il comando ci ha lasciato liberi di scegliere sono corso da loro. Erano stravolti, non dormivano da giorni. Ho detto: abbiamo un’ora di tempo. Mi sono tolto la divisa e siamo partiti con un convoglio di auto. Lungo la strada verso Zaporizhzhia abbiamo passato 14 checkpoint russi. Ci hanno fermato 20 volte». 

Non aveva paura di essere riconosciuto?

«Sì, è stata solo fortuna. Controllavano i tatuaggi. Ne ho uno sulla spalla destra. Ma non l’hanno visto perché guardavano solo il petto e le braccia. Una volta mi hanno portato fuori dalla macchina e mi hanno messo con la faccia al muro. Pensavo fosse finita. Invece no, mi hanno preso il telefono, ma avevo tolto tutto. Foto, numeri di telefono».

Dove si trova ora la sua famiglia?

«Prima siamo stati a Leopoli ospiti di un amico. Ora loro sono all’estero. Ma io sono tornato per combattere due settimane fa». 

Cosa prova di fronte alle immagini dei suoi compagni che si sono arresi ai russi dopo l’assedio dell’Azovstal? Pensa che torneranno indietro?

«Ho parlato con molti di loro fino a cinque giorni fa. Alcuni, per me, sono come fratelli. Hanno vissuto l’inferno e ora è anche peggio probabilmente. Ma sono sicuro che torneranno indietro. Il bene deve vincere sul male».

Robert distoglie lo sguardo. Un suo compagno si avvicina al tavolo. E’ ora di andare. Si è pentito di aver lasciato Mariupol?

«No, perché ho messo in salvo i miei cari. E ora posso tornare a combattere e vendicare i miei compagni».

Un piccolo elemento di umanità in una guerra feroce. Ad Azovstal è vera resa, ora è il momento della verità: ci sono laboratori chimici sotto l’acciaieria? Toni Capuozzo su Il Riformista il 17 Maggio 2022. 

Le parole hanno un senso. Quello che succedendo all’Azovstal non è una generica evacuazione come ci racconta la grande informazione. Quello che sta succedendo all’interno dell’acciaieria di Mariupol è una resa. Una resa dignitosa. Non c’è nessuna immagine che racconti una sfilata di chi si arrende sotto le forche caudine dei trionfatori, non è una resa umiliante e non è neppure una resa ‘con l’onore delle armi’ – come si dice nel linguaggio militare – perché le armi vengono abbandonate e consegnate.

Quello che sta succedendo all’Azovstal è frutto di un accordo tra Ucraini e Russi, al quale hanno collaborato anche Nazioni Unite e Croce Rossa, che introduce un piccolo elemento di umanità in una guerra feroce, senza spazi di pietà e di rispetto del nemico. Che fine faranno i feriti? Attualmente sono in un ospedale nelle repubblichette secessioniste e verranno probabilmente passati all’Ucraina in uno scambio di prigionieri. Per quanto riguarda quelli che non sono feriti, è facile che per alcuni di loro possano esserci dei processi perché il battaglione Azov è quello che si è reso protagonista di tante scorrerie nelle repubbliche secessioniste in questi otto anni di guerra che hanno preceduto questo grande scontro che stiamo provando a raccontare.

Un elemento quindi di umanità dentro la guerra mentre per il resto tutto sembra essere molto più irrazionale. Difficile sostenere che un allargamento della Nato sia una misura destinata a far calare la tensione. Per tornare all’Azovstal resta un punto di domanda: cosa c’era sotto quei laboratori? Vedremo se le denunce della propaganda russa sull’esistenza dei laboratori chimici hanno un fondamento e soprattutto vedremo se ha fondamento la tesi che sosterrebbe la presenza di esperti occidentali al fianco degli ucraini e del battaglione Azov.

Il Daily Mail Express ha confirmatio la presenza di almeno tre britannici tra coloro che si sono arresi all’Azovstal. Vedremo se ci sono altre persone. Questo è il momento della verità per la propaganda russa. Vedremo se sono fatti oppure solo illazioni destinate ad essere smentite dalla realtà. Toni Capuozzo

"Missione completata". Da Kiev l'ordine di lasciare l'Azovstal. Federico Giuliani il 17 Maggio 2022 su Il Giornale.

Kiev ha confermato di aver ordinato l'evacuazione di tutti i combattenti di Azovstal: si continua a lavorare sull'uscita degli ultimi militari dall'impianto. Nella notte massiccio attacco missilistico nella regione di Leopoli

Sono in corso le ultime operazioni per completare l'evacuazione dei combattenti rimasti asserragliati nell'acciaieria Azovstal di Mariupol. Nel corso della notte il governo ucraino ha confermato l'uscita dallo stabilimento di 264 militari. Si tratterebbe di 53 soldati feriti, condotti a Novoazovsk, e di altri 211 uomini portati a Olenivka, nel territorio controllato dai filorussi a Donetsk.

Evuacuazione quasi terminata

Kiev ha confermato di aver ordinato l'evacuazione di tutti i combattenti di Azovstal, cedendo di fatto il controllo della città alla Russia dopo un assedio durato mesi. "Il presidio di Mariupol ha completato la sua missione di combattimento", afferma un comunicato dello stato maggiore delle forze armate ucraine. "Il comando militare supremo ha ordinato ai comandanti delle unità di stanza all'Azovstal di salvare le vite dei loro uomini", aggiunge la nota.

"Si continua a lavorare sull'evacuazione di altri militari dall'impianto. Tutti i militari dovranno essere riportati sul territorio controllato dall'Ucraina seguendo la procedura di scambio", ha spiegato Hanna Mailar, viceministro della Difesa dell'Ucraina. "Speriamo di poter salvare i nostri ragazzi", perché l'Ucraina "ha bisogno di eroi vivi, e penso che ogni persona giudiziosa capirà queste parole", ha dichiarato Volodymyr Zelensky, citato dall'agenzia Ukrinform. All'operazione, ha aggiunto il presidente ucraino, partecipano l'esercito ucraino e l'Intelligence in collaborazione con la Croce rossa e l'Onu.

Il trasferimento dei soldati

Nella notte sono arrivate le prime immagini di decine di bus carichi di militari. Secondo quanto riportato da Reuters, i veicoli hanno regolarmente lasciato lo stabilimento. In precedenza, il comandante del battaglione Azov, Denis Prokopenko, aveva annunciato in un video la decisione di obbedire agli ordini del Comando supremo di evacuare il sito, in seguito a un accordo per l'evacuazione dei feriti.

Le ultime stime dei militari ancora presenti nell'Azovstal parlavano di 600 soldati, di cui molti feriti anche gravemente. Su twitter, in tarda serata, è apparso anche il filmato di un militare ferito su una barella. "Eseguiamo l'ordine di evacuazione del comando supremo", ha fatto sapere Prokopenko. Dopo aver resistito 82 giorni, ha dichiarato il comandante del battaglione Azov, respingendo "le forze soverchianti del nemico", ora "per salvare vite umane", la guarnigione sta attuando la decisione approvata dal comando supremo, "sperando nel sostegno del popolo ucraino".

Leopoli sotto attacco

Mentre erano in fase di svolgimento le operazioni per evacuare i soldati dall'acciaieria, la città di Leopoli, nell'Ucraina occidentale, a circa 70 km dal confine con la Polonia, è sottoposta al più massiccio attacco missilistico dall'inizio dell'invasione russa. Il sindaco di Leopoli, Andriy Sadovy, ha affermato che non ci sono notizie confermate su missili che hanno colpito la città ma invita tutti gli abitanti a stare al riparo. "Ringraziamo chi mantiene i nostri cieli al sicuro! Al mattino daremo informazioni più accurate. Abbiate cura di voi e non ignorate gli allarmi antiaerei", ha detto ai suoi concittadini in un messaggio diffuso sui social.

In seguito le autorità ucraine hanno spiegato che si sono verificate anche esplosioni a Novoyavorivsk. Maksym Kozytsky, capo dell'amministrazione militare regionale di Leopoli, ha in seguito reso noto che un massiccio attacco missilistico aveva preso di mira una base militare ucraina a circa 15 chilometri dal confine con la Polonia. Una fonte della Cnn ha riferito di aver visto le difese aeree illuminarsi in direzione della struttura militare di Yavoriv, a una quarantina di chilometri di distanza dalla città da cui erano state sentite esplosioni.

Fonderia Azovstal, "un odore terribile": in sala operatoria... la terrificante testimonianza. Libero Quotidiano il 15 maggio 2022

La morsa dell’esercito russo continua a farsi sentire sui resistenti ucraini che si trovano all’interno dell’acciaieria Azovstal. Gli invasori continuano a lanciare attacchi dal cielo e con l’artiglieria, rendendo sempre più critiche le condizioni di chi vive in quei sotterranei da settimane. Non è chiaro quante persone ci siano lì sotto, forse un migliaio, ma di certo quelle in grado di combattere sono di meno: molti sono mutilati o comunque fanno fatica a reggersi in piedi.

Le testimonianze riportate dal Corriere della Sera sono a dir poco drammatiche: “La situazione è pessima - ha dichiarato un ufficiale di polizia - deprimente. Ci sono circa 600 persone in condizioni spaventose. Sono sistemati come in una enorme palestra. Qualche decina di letti a castello e per il resto tutti per terra. C’è un odore terribile, ci sono mosche e lamenti”. Inoltre i medici sono costretti a fare il loro lavoro in condizioni disperate: “Non ci sono strumenti. La sala operatoria ormai è un tavolo vicino al muro, non ci sono medicine e le operazioni si fanno senza anestesia”. 

In pratica non serve neanche riportare ferite gravi per rischiare la vita: bastano le condizioni igieniche e sanitarie disperate per trasformare ogni ferita in un pericolo mortale. Nonostante gli attacchi russi e i tentativi di trattative da parte dell’Ucraina, la situazione è ancora in stallo e per ora non si vede una soluzione all’orizzonte. “Non si tratta neanche più di mancanza di acqua, cibo, luce, medicine - ha sottolineato Lyudmila Denisova, la commissaria per i diritti umani dell’Ucraina - si tratta di mancanza di qualunque condizione che assomigli alla vita”.

I resistenti di Azovstal e l'ultima battaglia. "Pronti anche alla fine". Andrea Cuomo il 16 Maggio 2022 su Il Giornale.

Dai russi bombe al fosforo sull'acciaieria. Il diktat di Mosca: "No ai negoziati per Azov".

Mariupol, Europa. Non passa giorno senza che la città martire dell'Ucraina faccia notizia, senza che le bombe la colpiscano, senza che la desolazione e la fame si accrescano di un po'. Non sono solo gli ordigni russi ad ammazzare. «I residenti - dice il consigliere del sindaco di Mariupol Petro Andryushchenko - riferiscono di un tasso di mortalità atipico. Molte persone di mezza età stanno morendo. Esaurimenti nervosi, mancanza di servizio medico, condizioni antigieniche e la fame sono i quattro protagonisti dell'Apocalisse a Mariupol».

Solo una completa evacuazione può salvare la città sul Mar d'Azov, che prima della guerra contava quasi mezzo milione di abitanti e ora è la prigione per decine di migliaia di fantasmi terrorizzati e affamati. Qualcuno riesce ad andarsene ma è lento stillicidio. Ieri un convoglio composto da 500-1.000 auto di civili evacuati da Mariupol è riuscito a entrare, dopo tre giorni di attesa, a Zaporizhzhia. E a poco serve l'ottimismo del presidente Volodymyr Zelensky, che spera di ospitare l'anno prossimo proprio a Mariupol l'edizione dell'Eurovision Song Contest che spetta all'Ucraina che sabato sera ha vinto l'edizione italiana con il gruppo Kalush. «Faremo tutto il possibile».

Certo al momento immaginare cantanti, appassionati e giornalisti da tutta Europa animare una città che è un enorme rovina appare il sogno di un'idealista. Di certo nel caso tutto andasse come ora appare difficile immaginare sarebbe bellissimo che la location fosse l'acciaieria Azovstal, che è ancora sotto attacco. I russi sono certi di farla cadere e di poter quindi prendere il controllo totale di Mariupol, strategico per saldare le conquiste nel Sud e nell'Est dell'Ucraina. L'esercito di Putin continua a lanciare attacchi di artiglieria pesante sull'acciaieria, impedendo al migliaio di soldati e miliziani asserragliati di andarsene. I russi, secondo il consigliere del sindaco Andryushchenko, avrebbero utilizzato per la prima volta anche bombe incendiare o al fosforo contro l'acciaieria. «Gli stessi occupanti affermano che sono stati usati proiettili incendiari 9M22C con strati di termite. La temperatura di combustione è di circa 2-2,5mila gradi Celsius. È quasi impossibile fermare la combustione. L'inferno è sceso sulla terra alla Azovstal». Questo è il danno. La beffa è che i russi avrebbero scritto su alcune bombe destinate a essere lanciate su Azovstal le parole pronunciate dalla band ucraina Kalush dopo la vittoria all'Eurovision per sensibilizzare l'Europa a salvare l'acciaieria. «Questa è la reazione dell'esercito russo alla nostra vittoria all'Eurovision 2022. In alcune fotografie in possesso degli Ucraini, la cui autenticità è però non dimostrabile, si vedono le bombe, non ancora sganciate, con delle scritte in inglese e in russo con un pennarello nero. In una si legge: «Aiutate Mariupol, aiutate l'Azovstal, ora», come detto dal frontman dei Kalush Oleh Psjuk sul palco di Torino. In un'altra «Kalush, come avere chiesto». In una terza le parole «Eurovision 2022» e «Azov». Inoltre figura la data di ieri: «14.05».

Vanno avanti anche i negoziati per evacuare l'acciaieria, che sono però una giungla quasi impenetrabile. Un'ulteriore ostacolo è rappresentato dai combattenti del battaglione Azov, che come precisa Vladimir Medinsky, capo della delegazione si Mosca ai colloqui con Kiev, «non potranno essere oggetto di negoziati politici». Per Medinsky si tratta infatti di «criminali di guerra». E che per gli Azov le cose si mettano decisamente male è confermato dai parenti dei miliziani, che ieri sono andati a Istanbul a ringraziare il presidente turco Recep Tayyip Erdogan per l'appoggio ricevuto. Kateryna, moglie di un miliziano, ieri in una conferenza stampa ha detto che gli uomini asserragliati nell'acciaieria «hanno perso le speranze e si preparano alla battaglia finale, perché non credono in una soluzione diplomatica».

Quei martiri destinati alla fine. Paolo Guzzanti il 15 maggio 2022 su Il Giornale.  

Penso a quel migliaio di giovani che stanno per morire come topi nelle gallerie dell'acciaieria di Mariupol. Le loro giovani mogli belle e composte e non piangono in pubblico. Parlano dei mariti con orgoglio ma a voce bassa e vorrebbero vederli tornare vivi dal momento che la loro morte non è necessaria alla guerra. Ma i russi hanno deciso che devono morire e sigillano e spendono milioni di rubli pur di ammazzarli tutti non perché siano soldati nemici - del Paese che hanno illegalmente invaso e che quei soldati hanno difeso.

Abbiamo visto mille volte sugli schermi i loro comandanti emaciati e feriti vacillanti affamati e malati di tutte le malattie che si possono prendere in un cimitero sotterraneo. Gli invasori vogliono che restino morti nella loro necropoli. Hanno supplicato in nome delle leggi di guerra di poter uscire ed essere trattati come prigionieri, ma da Mosca è arrivato un fortissimo «njet»: non se ne parla nemmeno perché per Mosca quelli non sono uomini ma bersagli da tirassegno. Sono il battaglione Azov e dichiarati nazisti, loro che sono nati trent'anni fa mentre il nazismo è morto quasi da ottanta.

Il loro sacrificio barbarico rievoca la strage degli ufficiali polacchi nella foresta di Katyn con le mani legate e un colpo alla nuca. Le ultime ombre di questo battaglione che non ha più aria, cibo, munizioni, medicine cadono e le giovani mogli composte sono davanti allo scenario apocalittico di un crimine che nessuno è in grado di fermare. 

I 600 feriti a terra, le operazioni senza anestesia. L’inferno Azovstal. Giusi Fasano il 15 maggio 2022 su Corriere della Sera.

L’ufficiale di polizia dice che «la situazione è pessima, deprimente. Ce ne sono circa 600 in condizioni spaventose». Parla dei feriti nella pancia dell’acciaieria Azovstal. Spiega anche come sono sistemati, quei 600: «Come in una enorme palestra. Qualche decina di letti a castello e per il resto tutti per terra. C’è un odore terribile, ci sono mosche e lamenti». I medici fanno quel che possono ma ogni bombardamento va sempre peggio, si perdono pezzi, spazi, vite. «Non ci sono strumenti medici», conferma il tizio che si fa chiamare «Police». «La sala operatoria ormai è un tavolo vicino al muro, non ci sono medicine e le operazioni si fanno senza anestesia». Mentre il medico rovista in una ferita gli anestetici sono una cintura da stringere forte fra i denti e la forza della disperazione. 

È il racconto da un luogo alla fine dell’umanità. Arriva nelle case degli ucraini dal «National Telemarathon», programma messo assieme da più televisioni, ciascuna focalizzata su un argomento preciso. Il canale governativo «Rada» aveva fatto avere a «Police» la domanda sui feriti dell’impianto siderurgico sotto attacco. E ai telespettatori sono state lette le sue parole. Azovstal è un buco più nero della mezzanotte. Nei suoi sotterranei giganteschi si muore di guerra e di infezioni. E non serve avere ferite gravissime per giocarsi la vita, perché in quelle condizioni igieniche e sanitarie ogni ferita può diventare mortale.

Nessuno sa quanti soldati si nascondano nelle sue viscere. Forse mille, dicono le fonti più attendibili. Ma molti di loro, appunto, non sono nemmeno in condizioni di stare in piedi e sono tanti anche i mutilati. «Stiamo cercando di accordarci per uno scambio di 38 prigionieri russi per i 38 feriti più gravi» aveva annunciato due giorni fa la numero due del governo, Iryna Vereshcuk. Ma dopo giorni e giorni di trattative sfinenti, i numeri non sono ancora definiti e la situazione è in stallo o, per dirla con il presidente Volodymyr Zelensky, sono in corso «negoziati molto complessi» per liberare da Azovstal feriti e medici. «Stiamo facendo tutto il possibile per evacuare anche tutti gli altri, ciascuno dei nostri difensori».

Aveva visto giusto Lyudmila Denisova, la Commissaria per i diritti umani dell’Ucraina, che già una settimana fa diceva che «non si tratta neanche più di mancanza di acqua, cibo, luce, medicine. Si tratta di mancanza di qualunque condizione che assomigli alla vita». Tutto questo mentre i russi raggruppano nei pressi dell’impianto un gran numero di soldati di fanteria per tentare l’assalto finale e mentre si fanno sentire le voci del reggimento Azov, che difende Azovstal. Raccontano via Telegram che ogni santo giorno piovono sull’acciaieria sempre più bombe e colpi di artiglieria pesante, «ma anche se la situazione è estremamente critica i difensori fanno sforzi sovrumani e stanno respingendo i tentativi di sfondare le loro posizioni».

Di fatto la situazione è disperata, come sanno bene le mogli e la madri dei combattenti asserragliati lì dentro che chiedono aiuto al presidente cinese Xi Jinping per salvarli. Un appello che ha le voci di cinque mogli e un padre di militari accerchiati nella fabbrica. «È rimasto un solo uomo al mondo a cui possiamo rivolgerci ed è il leader cinese», parla per tutti Stavr Vychniak, «poiché ha una grande influenza sulla Russia e sul presidente Vladimir».

Per portare fuori da lì i feriti la vicepremier Vereshuck ha rivelato in un’intervista al Corriere di pretendere stavolta «un accordo firmato dalle parti», e cioè la Russia, l’Ucraina, la Croce Rossa che dovrebbe fisicamente andare a prenderli, e un Paese terzo come mediatore. Il Paese dovrebbe essere la Turchia. E non è un caso se Ankara proprio ieri si è detta pronta a inviare una sua nave per consentire l’evacuazione dei soldati feriti da Azovstal. Lo ha fatto sapere il portavoce del presidente Recep Tayyip Erdogan parlando con la Reuters. «Il nostro piano — ha detto — prevede che le persone evacuate dall’acciaieria siano portate via terra al porto di Berdiansk, sul Mar D’Azov, e che la nave turca, poi, li conduca a Istanbul. Se si può fare in questo modo la nostra nave è pronta». Sono tutti pronti: la Turchia, l’Ucraina, la Croce Rossa. Ma sono pronti i russi?

Quale destino per i combattenti di Azov nell’acciaieria di Mariupol? Alessandra Muglia su Il Corriere della Sera il 5 Maggio 2022.

Hanno scelto di non arrendersi perché sicuri che Mosca non rispetterebbe il diritto internazionale sui prigionieri di guerra. Per la Convenzione di Ginevra possono anche essere inviati in altri Paesi .. E’ quello che chiedono le loro compagne arrivate a Roma. 

Solo i civili sono coinvolti nell’accordo tra Mosca e Kiev che ha portato alle recenti evacuazioni dall’acciaieria Azovstal. Il destino di diverse centinaia di combattenti ucraini, da settimane l’ultima resistenza di Mariupol, appare plumbeo. Ancora di più ora, che è in corso l’assalto via terra, con i russi che hanno fatto irruzione all’interno del dedalo di tunnel sotterranei in cui gli ucraini sono trincerati.

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina

In punta di diritto possono scegliere se combattere fino alla morte o arrendersi nella speranza di essere risparmiati. I comandanti della resistenza ucraina nello stabilimento-fortezza hanno ripetutamente respinto le richieste di resa avanzate da Mosca per il timore – quasi una certezza – che la Russia non rispetti i termini della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra, date le precedenti violazioni delle regole che disciplinano la condotta bellica.

Tanto più che gran parte di loro sono uomini del reggimento Azov, il target (e pretesto) della missione di «denazificazione» dell’Ucraina voluta da Putin. «Se si arrendono alla Russia possono essere detenuti», ha precisato Marco Sassoli, professore di diritto internazionale all’Università di Ginevra. Ma non torturati, massacrati, come loro temono succederebbe se deponessero le armi. 

Il Comitato internazionale della Croce Rossa svolge un ruolo cruciale nei conflitti in tutto il mondo, mediando tra i combattenti su questioni come l’organizzazione degli scambi di prigionieri e il monitoraggio delle condizioni dei detenuti. Eppure la Croce Rossa non ha detto se ha incontrato prigionieri di guerra in custodia russa dall’inizio della guerra il 24 febbraio, un silenzio che secondo Sassoli potrebbe essere un «cattivo segno». 

Secondo la Convenzione di Ginevra, i prigionieri di guerra «devono sempre essere trattati con umanità» e non possono essere «sottoposti a mutilazioni fisiche o a esperimenti medici o scientifici» che non siano giustificati da motivi di salute. Mentre i membri delle forze armate che sono feriti o malati, nel frattempo, «devono essere rispettati e protetti in ogni circostanza». 

Il punto del diritto umanitario internazionale che potrebbe aprire una terza via è questo: a differenza dei civili, i prigionieri di guerra possono essere inviati con la forza in altri Paesi per impedire loro di tornare dal campo di battaglia. E proprio richiamandosi a questo principio che le compagne dei combattenti arrivate Roma lanciano un appello alla comunità internazionale: «Non vogliamo che i nostri uomini muoiano. Stiamo aspettando che i Paesi più coraggiosi li evacuino. Non permetteremo questa tragedia».

Sulla fattibilità di questo percorso c’è più di un dubbio. Pascal Hundt, capo del Comitato Internazionale della Croce Rossa in Ucraina, ha ricordato che solo i civili sono coinvolti nell’accordo russo-ucraino che ha portato alle recenti evacuazioni da Azovstal. E si è detto incerto sulle prossime uscite: «Il Cicr ha poca influenza quando si tratta di raggiungere un accordo di cessate il fuoco, e spetta alle parti trovare un accordo e far uscire queste persone. Continueremo a fare pressione anche se la speranza è vicina allo zero».

Zelensky stroncato dalle mogli del Battaglione Azov: "Siamo disperate, come cancella i nostri uomini". Libero Quotidiano il 06 maggio 2022.

"Stanno cercando di tapparci la bocca": le mogli dei soldati del battaglione Azov attaccano il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il suo governo. Secondo loro, non si starebbe facendo abbastanza per aiutare i militari intrappolati da settimane nell'acciaieria Azovstal di Mariupol. Per esprime il proprio disappunto e la propria rabbia, le donne sono addirittura scese in piazza. Ed è paradossale che abbiano scelto come luogo di protesta la piazza dell’Indipendenza a Kiev, la celebre Maidan, dove si tennero le rivolte del 2014 contro la presidenza filo-russa di Viktor Yanukovich.

Nel corso delle manifestazioni, mogli, madri e sorelle dei soldati Azov si sono lamentate del fatto che il governo non starebbe facendo nulla per risolvere l’assedio dell’impianto siderurgico, che è sotto bombardamento russo da giorni. Non sono mancati nemmeno momenti di tensione, che hanno reso necessario l'intervento delle forze dell’ordine. Queste ultime hanno ricordato che il Paese è “sotto legge marziale” e che quindi “le manifestazioni sono proibite”.

"Siamo disperate, forse il nostro governo non vuole parlare di Azov e Mariupol - ha raccontato la sorella di un soldato Azov a Repubblica -. Stanno cercando di chiudere l’argomento Mariupol in modo che la gente non parli e si dimentichi della guarnigione militare. Non ci supportano". Le proteste, come spiega il Riformista, sarebbero nate sul gruppo Instagram “Save Mariupol”, che poi però sarebbe stato oscurato. 

Azov, i parenti dei soldati chiusi nell'acciaieria: "Il governo ci tappa la bocca". Paolo Brera su La Repubblica il 6 Maggio 2022.

I familiari alzano la voce, accusando Zelensky di non fare abbastanza per risolvere l’assedio che minaccia di ucciderli tutti: "Stanno cercando di chiudere l'argomento Mariupol in modo che la gente non parli e si dimentichi del battaglione".

“Basta chiacchiere, è ora di fare qualcosa per salvarli”. Le mogli e le fidanzate, le madri e i fratelli dei soldati del battaglione Azov chiusi nell’acciaieria dell’Azovstal a Mariupol alzano la voce contro il governo Zelensky, accusandolo di non fare abbastanza per risolvere l’assedio che minaccia di ucciderli tutti.

“Siamo disperate, forse il nostro governo non vuole parlare di Azov e Mariupol… Stanno cercando di tapparci la bocca e di chiudere l'argomento Mariupol in modo che la gente non parli e si dimentichi della guarnigione militare. Non ci supportano”, dice a Repubblica la sorella di un soldato del battaglione Azov chiuso nell’acciaieria.

Giovedì pomeriggio, per il secondo giorno consecutivo, un gruppo di parenti e amici dei soldati del battaglione Azov ha attraversato le vie del centro di Kiev diretto a piazza Majdan, per protestare e chiedere di salvare i soldati intrappolati nell’acciaieria. Ma se mercoledì la manifestazione si era conclusa pacificamente a Majdan, giovedì le cose sono andate molto peggio. I manifestanti si sono trovati davanti la polizia che li ha dispersi, “prendendo i documenti degli uomini” e fermando alcuni degli organizzatori. La manifestazione non era stata autorizzata, e gli organizzatori si sono difesi dicendo che alcuni non erano stati avvertiti ed erano scesi in piazza comunque.

La motivazione ufficiale per la negata autorizzazione e la successiva repressione è l’esistenza della legge marziale, che rende automaticamente impossibile organizzare qualsiasi protesta. Ma la mossa resta singolare, perché il battaglione Azov in questo momento in Ucraina è al massimo della sua popolarità: la strenua resistenza per la difesa di Mariupol ha trasformato tutti i soldati del più discusso tra i reggimenti della guardia nazionale ucraina in un manipolo di eroi. E allora cosa sta succedendo?

Gli organizzatori della manifestazione vanno oltre: dicono che le loro pagine social e i post in cui parlano di Azov e in sostegno dei soldati del reggimento sono stati cancellati, sono letteralmente “spariti” dalla rete. E la disperazione per non vedere alcuna plausibile soluzione che possa portarli in salvo - al contrario dei civili per i quali almeno un’ipotesi tramite i corridoi verdi è tuttora in piedi - monta in rabbia.

I rapporti difficili tra il governo e il reggimento - figlio del battaglione che ci conquistò pessima fama di crudeltà nella guerra del Donbass, venendo formalmente accusato di crimini contro l’umanità da diverse istituzioni internazionali - sono ben noti. Nei precedenti governi Azov aveva potuto contare su una forte spalla nel governo, e in particolare nel ministero degli Interni. Ma i tempi sono cambiati. Lo stesso presidente Zelensky, che nel 2019 aveva conferito un onore militare al comandante del reggimento Denys Prokopenko, si era visto negare il saluto militare in un segno di spregio che non ha certo dimenticato; neppure quando di fronte alla pressione popolare gli ha conferito, il 19 marzo, il titolo ufficiale di “Eroe ucraino” con l’Ordine della Croce d’Oro.

Un mese fa - mentre andavano avanti complesse trattative sui massimi sistemi con i negoziatori russi fino all’appuntamento decisivo di Istanbul, e intanto Mariupol si sgretolava tra migliaia di civili morti - il vicecomandante del reggimento Sviatoslav Palamar aveva rotto il silenzio con un messaggio video fortemente polemico: “I politici dicono costantemente che ‘li sosteniamo, siamo in costante contatto con loro’, ma per più di due settimane nessuno risponde al telefono e nessuno comunica con noi”.

C’era volta molta diplomazia per rientrare nei ranghi. La protesta sollevava dubbi sulle reali intenzioni del governo di Kiev sulla difesa a oltranza di Mariupol, praticamente impossibile e molto costosa per il numero di vittime che avrebbe comportato. Davvero, ci si domandava, il governo pensava di fare qualcosa per smorzare il dramma che si stava profilando nell’acciaieria? Un contrattacco, come chiedevano i soldati asserragliati? Una trattativa efficace?

La difesa di Mariupol serviva a Kiev per tenere occupati contingenti importanti di soldati russi che si sarebbero riversati altrove, ma era anche un grosso problema negoziale perché non poteva essere militarmente difesa. E una tragedia di proporzioni epocali avrebbe reso impossibile qualsiasi ipotesi di trattativa. Come avrebbe potuto, il governo, accettare qualsiasi minimo compromesso di fronte all’eccidio di una comunità e al sacrificio dei “patrioti” del reggimento Azov e degli altri reduci superstiti, come il 36esimo di marina?

Il giorno successivo la risposta non era venuta dal governo né direttamente dal presidente Zelensky. Era arrivata dal generale Valeriy Zaluzhnyi, il capo delle forze armate che gode di grande fiducia tra i militari e di una notevole autonomia rispetto alla politica: in una dichiarazione su Facebook aveva sostenuto che "le comunicazioni con le unità delle forze di difesa che eroicamente resistono nella città sono mantenute stabili, facciamo il possibile e l'impossibile per la vittoria e la protezione delle vite dei militari e dei civili. Abbiate fede nelle forze armate dell'Ucraina". Ora, però, la fede dei familiari è decisamente svanita.

Le storie dei sopravvissuti alla notte di Mariupol. Daniele Raineri su La Repubblica il 3 Maggio 2022.  

Dopo settimane di trattative, 156 donne, anziani e bambini evacuati dai sotterranei dell’acciaieria e portati a Zaporizhzhia. I russi fermano parte del convoglio. Missili su Leopoli e nell’Ovest

ZAPORIZHZHIA - Centocinquantasei donne, anziani e bambini sopravvissuti per due mesi ai bombardamenti russi contro l'acciaieria Azovstal di Mariupol sono arrivati ieri pomeriggio nell'Ucraina non occupata dopo un viaggio di quaranta ore - grazie a un'evacuazione negoziata con molte difficoltà dalle Nazioni Unite. Sono testimoni diretti dell'operazione militare più brutale ordinata dal presidente russo Vladimir Putin nel contesto dell'invasione ucraina e forse del suo ventennato al potere: quella che aveva per obiettivo la conquista di Mariupol, una città piazzata in una posizione strategica sulla costa ucraina.

Diario della resistenza. L’orrore di Mariupol raccontato dalla moglie di un soldato ucraino. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 30 Aprile 2022.

Yuliia Fedosiuk ha 29 anni ed è sposata con Arseniy, militare del battaglione Azov che proprio in questi giorni sta lottando nella città del sud-est del Paese: «Il loro appello è rivolto ai Paesi dell’Unione europea, chiedono di tirarli fuori da quell’inferno, a partire dai cittadini feriti e indifesi a cui le armate russe non consentono di scappare».

«Gli ucraini non perderanno la speranza nemmeno davanti a tutto l’orrore e la distruzione di Mariupol, la resistenza non si fermerà». Yuliia Fedosiuk ha 29 anni ed è sposata con Arseniy, anche lui 29enne, soldato del battaglione Azov che proprio in questi giorni sta lottando a Mariupol in un teatro di guerra fatto di macerie e sangue.

Yuliia risponde al telefono da Roma. Dice che da otre due mesi vive un misto di paura e speranza: gli attacchi russi sul territorio della sua Ucraina sono terribili, ma non smette di pensare nemmeno per un minuto che gli ucraini possano avere il futuro che vogliono e che meritano.

Il battaglione Azov in cui combatte suo marito in questo momento rappresenta l’ultima resistenza all’offensiva russa a Mariupol. Il porto del sud-est del Paese è stato definito la «Aleppo europea» dall’Alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Unione europea, Josep Borrell. Una città rasa al suolo, che però ancora può essere salvata. Della simbolica acciaieria Azovstal costruita nel 1933, all’inizio dell’epoca sovietica, è rimasto ormai poco più che la carcassa, ma al suo interno trovano riparo circa 600 soldati feriti e mille civili, protetti dal labirinto delle camere sotterranee. In tutta la città, invece, si stima che rimangano circa 100mila persone. Ma per tutti le condizioni di vita sono critiche: giovedì le autorità locali hanno dichiarato Mariupol vulnerabile alle epidemie, a causa delle spaventose condizioni sanitarie in gran parte della città e dal fatto che ci sono ancora migliaia di cadaveri ai bordi delle strade.

«L’appello di Arseniy e degli altri soldati che sono con lui è rivolto ai Paesi dell’Unione europea, chiedono di tirarli fuori da quell’inferno, a partire dai cittadini feriti e indifesi a cui le armate russe non consentono di scappare», dice Yuliia, che tutti i giorni dialoga con il marito.

Possono tenersi in contatto con discreta frequenza grazie ai modem di Starlink, il servizio di internet satellitare della SpaceX di Elon Musk. «Possiamo chattare, ma non possiamo parlare, non sento la sua voce perché la qualità della connessione non ce lo consente». Non è sempre stato così: «A inizio mese – aggiunge – non l’ho sentito per una settimana, ed è stato terribile perché non c’era modo di avere informazioni, e in generale tutte le notizie che arrivavano dal fronte non erano di prima mano quindi non sempre ci si poteva fidare. Pregavo tutti i giorni perché fosse ancora vivo».

Mercoledì mattina alcune decine di persone, soprattutto mogli, sorelle e madri dei soldati del battaglione Azov hanno manifestato a Kiev per chiedere corridoi umanitari a Mariupol, per evacuare i civili e i militari feriti. Si sono dipinte il viso di rosso, come il sangue dei loro compatrioti e familiari. Hanno intonato l’inno nazionale e scandito slogan rivolti al governo di Kiev, all’Onu, alla Croce Rossa: «Salvate Mariupol», «Salvate i bambini», «Salvate i nostri soldati», «Salvate Azovstal».

Il timore di molti ucraini come Yuliia che hanno contatti diretti con chi sta al fronte è che l’orrore di Mariupol possa ripetersi anche altrove, in altre città.

«Arseniy e gli altri soldati del battaglione Azov sanno che le forze russe non si fermeranno: l’armata russa, dicono, è disposta a proseguire questa strage in tutto il Donbass e tutta la parte orientale dell’Ucraina», dice Yuliia.

Yuliia è originaria di Leopoli, città dell’Ovest dell’Ucraina, ma si è trasferita a Kiev una decina d’anni fa per finire l’università e per muovere i primi passi nel mondo del lavoro. Nella capitale ha conosciuto Arseniy, ma nel 2014 lui ha seguito il battaglione Azov nel Donbass. «Per molti anni l’ho visto appena 4 o 5 volte l’anno, non di più», spiega Yuliia.

Sul ruolo del battaglione Azov in Donbass negli ultimi otto anni si è parlato molto. Si è parlato dell’estremismo di destra, delle aggressioni ai cittadini filorussi, dei metodi brutali e violenti. Ma spesso sono generalizzazioni, spesso i racconti sono esagerati, spiega Yuliia.

Dopotutto, in ogni situazione di conflitto l’entropia dell’informazione schizza alle stelle. Come è accaduto dall’inizio dell’invasione russa del 24 febbraio. E tra fake news, propaganda russa e altre negligenze dei media, per un cittadino comune è difficile farsi strada nell’enorme rumore di informazioni che circolano. «C’è una parte dei media e dei giornalisti che sta facendo buon lavoro, raccontano la guerra dal fronte o con equilibrio – dice Yuliia – ma in troppe testate ci sono infiltrazioni della propaganda russa, si sentono finti esperti che parlano a sproposito di neonazismo dell’Azov, tutto questo inquina il dibattito e non aiuta a capire la realtà».

Ora che è in Italia, Yuliia vive a Roma in un appartamento insieme ad altre tre donne, tutte mogli di soldati del battaglione Azov arrivate nella capitale italiana grazie ad alcuni amici che vivono qui da tempo.

Dall’Italia spera di aiutare a diffondere meglio il messaggio di aiuto che ogni giorno arriva da suo marito: «Vogliamo dire a tutta l’Italia e all’Europa che Putin non si fermerà con l’Ucraina, è un nemico della civilizzazione e dei valori occidentali. Noi ucraini ora vogliamo combattere, vogliamo vincere la nostra guerra, ma abbiamo bisogno dell’aiuto degli Stati europei. E speriamo che arrivi presto l’embargo alle fonti energetiche russe, che ancora finanziano lo spargimento del nostro sangue».

Flavia Amabile per “la Stampa” l'1 maggio 2022.

È quasi distrutta l'acciaieria Azovstal di Mariupol dove da due mesi gli uomini del reggimento Azov vivono nascosti nei cunicoli sotterranei insieme a centinaia di civili. Sanno di non poter resistere a lungo e sono pronti ad arrendersi e a smettere di combattere, assicura Yulya Fedosiuk, 29 anni, moglie di Arseniy, parlamentare del partito di Zelensky e uno dei combattenti del battaglione. Yulya da cinque giorni è a Roma insieme ad altre tre mogli di combattenti del battaglione.

Perché?

«Volevamo incontrare i giornalisti, i politici e i diplomatici italiani per chiedere aiuto per i nostri mariti». 

Ci siete riuscite?

«Abbiamo incontrato i giornalisti non solo italiani, anche stranieri».

E i politici e i diplomatici?

«Ancora nessuno. Speriamo che ci chiamino». 

Che cosa gli direste se vi chiamassero?

«Che i nostri mariti chiedono aiuto. Hanno bisogno del loro intervento per garantire un'uscita sicura da Mariupol. E siamo qui per dire che i nostri mariti e i soldati del battaglione Azov si impegnano a firmare un accordo in cui, se avranno la possibilità di lasciare la città in modo sicuro, non prenderanno più parte a questa guerra. Andranno a vivere in un Paese terzo. Potrebbe essere l'Italia, la Turchia o un altro Paese, quello che conta è che non sia la Russia o la Bielorussia». 

Quindi i soldati presenti nell'acciaieria sono pronti ad arrendersi?

«Sì. E ad andare via attraverso un corridoio. Ma non ci si può fidare dei russi, lo si è visto.

Hanno sparato più volte sui corridoi umanitari. Quindi i soldati chiedono un intervento della diplomazia e della politica per garantire che l'uscita avvenga in modo sicuro». 

Come mai avete scelto Roma e non, per esempio, Parigi o Berlino?

«Abbiamo amici all'ambasciata ucraina presso la Santa Sede, era più facile organizzare un viaggio e una permanenza. E poi in Italia la propaganda russa è molto forte, ci è sembrato necessario venire e condividere con chi aveva voglia di ascoltare le informazioni su quello che sta accadendo a Mariupol».

Che ruolo ha l'attivista e portavoce delle Pussy Riot, Pyotr Verzilov, in questo viaggio?

«Nessuno. È solo un mio amico e voleva realizzare un film sulla nostra missione. L'idea e l'organizzazione del viaggio sono nostre». 

Di chi?

«Mia. Mi sono resa conto che era necessario parlare con gli Stati stranieri, di condividere all'estero le informazioni su Mariupol. Ho chiamato l'ambasciatore ucraino presso la Santa Sede e gli ho spiegato che cosa volevo fare. Lui mi ha risposto che gli sembrava una buona idea e mi ha detto di venire a Roma. E, una volta qui, ci ha fornito i contatti dei giornalisti con cui parlare».  

Tornerete in Ucraina?

 «Dipende dalla situazione. Bisogna vedere se ci lasciano tornare. Se non dovessero lasciarci pensiamo di andare in Germania o negli Stati Uniti, ma ora ancora non lo sappiamo». 

Che notizie ha da Mariupol? 

«Orrende. La situazione peggiora di giorno in giorno».  

Riesce a comunicare con suo marito?

 «Sì, comunichiamo via Telegram. Mi manda foto, video. Ha perso 15 chili in due mesi, ho una foto, è orribile».  

Che cosa le ha detto suo marito quando ha saputo che sarebbe venuta a Roma? 

«Che spera che io possa aiutarlo a mettersi in salvo».  

Ha paura? 

«Hanno tutti paura per la loro vita e per quella dei civili che sono con loro. Soltanto una soluzione politica e diplomatica potrà salvarli».  

Vi aspettavate una guerra? 

«Sì, sapevamo che c'era questa possibilità. Sapevamo che Putin non si sarebbe accontentato del Donbass e che avrebbe provato a prendere tutta l'Ucraina».  

Come vi siete preparati ad affrontarla? 

«Mio marito dal 2014 si è arruolato come soldato. E abbiamo imparato quello che potevamo nel campo medico per essere in grado di aiutare i feriti, i malati, chiunque ne avesse bisogno». 

In Italia c'è chi sostiene che il battaglione Azov sia un covo di neonazisti e che sia la causa della guerra scatenata da Putin. Che cosa risponde? 

«Questa è una delle informazioni veicolate dalla propaganda russa. Il battaglione Azov fa parte dell'esercito ucraino, è composto da persone che arrivano dall'Armenia, dalla Crimea, dalla Grecia. Ci sono ebrei e persone di tantissime nazioni. A Mariupol gli unici nazisti sono i soldati russi che uccidono civili, attaccano ospedali, commettono crimini inauditi».

Alessandra Muglia per il “Corriere della Sera” il 29 aprile 2022.

«Siamo venute a Roma per raccontare la verità su Mariupol, i nostri mariti non sono dei neonazisti, stanno resistendo nell'acciaieria ma il tempo stringe». Parla con un filo di voce Kateryna Prokopenko, illustratrice 27enne e moglie di Denis Prokopenko, l'uomo che guida la resistenza di Mariupol, il comandante del reggimento Azov. Additato da Putin come vertice di quelle forze «neo-naziste» da cui l'Ucraina deve essere «liberata» e decorato da Zelensky come «eroe» del Paese. «Sono orgogliosa di mio marito, per districarsi dalla propaganda occorre guardare ai fatti: lui e i suoi uomini stanno difendendo tutti noi» scandisce. Il pericolo di perdere per sempre il suo compagno è reale: «So che potrei non rivederlo mai più, se succederà non sarà per niente, si saranno sacrificati per il loro Paese. Questa sarà l'unica consolazione».

Le mogli dell'Azov Con Kateryna sono arrivate in Italia altre tre compagne di combattenti intrappolati nell'acciaieria. C'è Yulya Fedosiuk, 29enne, ex assistente di un parlamentare del partito di Zelensky, che non vede il suo Arseniy da «due lunghissimi mesi». «Lo sento al telefono - dice - ho saputo che dieci giorni fa è riuscito a raggiungere gli altri nell'acciaieria nuotando da una sponda all'altra del fiume». C'è Anya Naumenko, 25 anni, di Kharkiv, manager, che sta con Dmytro Danilov dal 2014: «Avremmo dovuto sposarci a maggio, chissà», sospira. «Ci parliamo ogni due giorni, di solito gli racconto del nostro cane e di altre amenità». C'è anche Andrianova Olha, 31enne, titolare di un asilo nido a Leopoli, moglie di Petrenko Serhiy, ex canoista olimpionico ora nel reggimento.

Ad accompagnare le signore dei combattenti a Roma è Pyotr Verzilov, fondatore delle Pussy Riot ed editore di Mediazone , «l'unico sito di notizie in Russia assieme a Meduza a raccontare la guerra in Ucraina. È stato bloccato, ma i nostri lettori sono aumentati», spiega questo dissidente diventato noto quando nel 2018, per protestare contro le persecuzioni politiche, osò interrompere la finale dei Mondiali di calcio sotto gli occhi esterrefatti di Putin. Poche settimane dopo, l'avvelenamento: si riprese a Berlino, nello stesso ospedale dov' è stato poi curato Navalny. 

«Dopo il suo arresto, con le proteste e la dura repressione che ne è seguita, mi sono convinto che sarei stato più utile fuori di prigione, quindi fuori dalla Russia». In Ucraina sta girando un film sul conflitto con l'amico Beau Willimon, il creatore della serie House of cards : «Abbiamo incontrato Zelensky e parlato con lui anche di amore, perché il documentario indaga su come le relazioni nascano, restino vive e muoiano in tempi di guerra», anticipa Verzilov al Corriere in videochiamata da Roma insieme alle quattro donne, tra le protagoniste del film. 

La storia d'amore di Kateryna è nata a distanza: «Ho conosciuto Denis nel 2015 sui social: io ero a Kiev, lui combatteva nel Donbass. Abbiamo iniziato a fare del trekking insieme. Fino a una vacanza nel 2018, tra le cascate norvegesi. Una mattina Denis mi indicò un pacchetto, l'hanno portato i troll , ha detto: dentro c'era un anello con incisa una montagna». Poi le nozze.

A ricordarle che suo marito è un personaggio controverso, accusato di essere alla guida di un reggimento neo-nazista, perde la sua flemma pacata: «È propaganda. Se difendere il proprio Paese da aggressioni esterne significa essere nazionalisti, allora sì, Denis è un nazionalista: come puoi dirti ucraino se non sei disposto a salvare il tuo Paese fino alla morte? Ma nazista no. Nel reggimento ci sono anche ebrei. Nazista è l'espansionismo di Putin». Concorda l'amica Yulya Fedosiuk: «Batterti per il tuo Paese vuole dire difendere la gente dai crimini degli aggressori. Non è la lingua a identificare una nazione ma i valori condivisi. La cultura della resistenza ai soprusi è nel nostro dna. Il movimento di dissenso russo invece è ancora agli albori».

Arrendersi? Mai Rispetto alle incerte possibilità della diplomazia, una cosa non si deve chiedere, osserva Katerina: «Come possiamo accettare una resa imposta dagli aggressori, dopo i massacri di civili?». Rispetto a quanti anche in Italia invocano una resa, Yulia è perentoria: «Anche da voi circola molta propaganda. Ieri passeggiando per Roma abbiamo visto un manifesto contro il reggimento Azov. Ci sono ancora alcuni politici qui che si fanno portavoce degli interessi di Mosca, anche un gruppo di intellettuali ha scritto una lettera per invitarci ad arrenderci e porre fine alla guerra, senza dire però che è stata la Russia a iniziarla». Lo scorso 21 aprile Putin ha ordinato di sospendere il previsto assalto finale all'acciaieria. «I russi continuano a sganciare centinaia di bombe al giorno.

Mio marito - subentra Anya - è stato ferito la scorsa settimana». Storie di resistenza quotidiana. «Mangiano una volta al giorno, hanno perso almeno 10 chili», racconta. Preparano zuppe di patate e pane, mescolando acqua con pane raffermo. Il loro umore dipende dal momento: l'altro giorno Dmytro era affranto per la morte di due suoi amici. Un altro era sollevato perché era riuscito a lavarsi i capelli, non faceva una doccia dal 23 febbraio! Ha esultato anche quando è riuscito a prendere dell'acqua fresca fuori dall'acciaieria. Un lusso. Di solito bevono "acqua tecnica", quella per il funzionamento dei macchinari».

 Battaglione Azov, chi ha portato le mogli dei "nazisti ucraini" in Italia. "E' la prova della propaganda". Libero Quotidiano il 29 aprile 2022.

Kateryna Prokopenko, 27 anni, illustratrice e moglie di Denis Prokopenko, l'uomo che guida la resistenza di Mariupol, il comandante del reggimento Azov, e Yulya Fedosiuk (nella foto), 29 anni, ex assistente di un parlamentare del partito di Zelensky, che non vede il suo Arseniy da "due lunghissimi mesi" sono arrivate in Italia per "raccontare la verità su Mariupol. I nostri mariti non sono dei neonazisti", raccontano al Corriere della Sera, "stanno resistendo nell'acciaieria ma il tempo stringe". 

I loro mariti sono i "neonazisti" dai quali secondo Vladimir Putin l'Ucraina deve essere "liberata". "Sono orgogliosa di mio marito, per districarsi dalla propaganda occorre guardare ai fatti: lui e i suoi uomini stanno difendendo tutti noi", dice Kateryna. "So che potrei non rivederlo mai più, se succederà non sarà per niente, si saranno sacrificati per il loro Paese. Questa sarà l'unica consolazione".

Le mogli dei combattenti dell'Azov sono state accompagnate a Roma da Pyotr Verzilov, fondatore delle Pussy Riot ed editore di Mediazone , "l'unico sito di notizie in Russia assieme a Meduza a raccontare la guerra in Ucraina. È stato bloccato, ma i nostri lettori sono aumentati", annuncia il dissidente diventato famoso nel 2018 quando, per protestare contro le persecuzioni politiche, osò interrompere la finale dei Mondiali di calcio sotto gli occhi esterrefatti di Putin.Pyotr fu avvelenato poche settimane dopo, ma fu curato e si riprese nello stesso ospedale di Berlino dove è stato poi curato Navalny. Ma sui social si scatenano: "È la prova della propaganda ucraina in Occidente". 

"Qual è la verità": la moglie del comandante del battaglione Azov a Roma. Alessandro Ferro su Il Giornale il 28 aprile 2022.

A Mariupol e nell'acciaieria Azovstal il conflitto è tutt'altro che terminato: da quelle parti, decine di uomini del battaglione Azov si trovano ancora all'interno del bunker dell'acciaieria cercando di resistere all'esercito russo che, nonostante lo stop imposto da Putin, continua a bombardare tutta l'area. Molti combattenti si trovano asserragliati dentro con le forze ridotte ai minimi termini e la vita che non riesce a tornare alla normalità. Kateryna, moglie del comandante Denis Prokopenko a capo del reggimento Azov, si trova a Roma assieme alle compagne e mogli di altri tre combattenti agli ordini del marito e nella serata di giovedì 28 aprile saranno anche ospiti del programma "Porta a Porta" di Bruno Vespa per raccontare l'orrore e lanciare un appello per salvare i loro compagni.

"Qual è la verità"

"Siamo venute a Roma per raccontare alla gente la verità su Mariupol, i nostri mariti stanno ancora resistendo nell’acciaieria ma il tempo stringe", racconta al Corriere della Sera. Con l'ansia per le sorti di suo marito, si dice "orgogliosa" perché lui e i suoi uomini "stanno difendendo tutti noi". Nella vita prima della guerra era una disegnatrice di fumetti, adesso non può esercitare la sua professione perchè è più importante raccontare dal vivo quanto succede nel suo Paese. Nel suo viaggio in Italia l'hanno seguita, come detto, anche altre tre compagne di uomini che combattono ad Azovstal: tra queste c'è Yulya Fedosiuk, ex addetto stampa di un assistente parlamentare di Zelensky, che non vede il marito da più di due mesi. "Vogliamo raccontare la verità su Mariupol, in Italia circola molta propaganda. Anche ieri passeggiando per Roma abbiamo visto un manifesto contro il reggimento Azov". A suo dire, alcuni esponenti politici del nostro Paese avrebbero "legami con la Russia e si fanno portavoce degli interessi di Mosca, anche un gruppo di intellettuali hanno scritto una lettera in cui ci invitano ad arrenderci per porre fine alla guerra senza dire che è stata la Russia ad iniziarla…."

Chi è il dissidente Verzilov

Nel loro viaggio italiano, le quattro donne sono state accompagnate da Pyotr Verzilov, dissidente russo e fondatore di un sito indipendente con il quale racconta la vera verità della guerra in Ucraina. Il suo giornale si chiama Mediazone e, assime a Meduza, sono gli unici che sono andati controcorrente al regime rischando grosso tant'é che hanno cercato di avvelenarlo già prima di quanto accaduto con Alexei Navalny. Divenne soprattutto famoso per aver interrotto la finale dei Mondiali russi sotto gli occhi dello Zar per protesta nei confronti delle persecuzioni politiche e richiedere che i prigionieri venissero rilasciati. Eccoli, tutti e 5 per far aprire gli occhi (come se ce ne fosse bisogno), su quanto accade in Ucraina. "I russi stanno continuando a sganciare centinaia di bombe sull’acciaieria ogni giorno, ogni giorno ci sono vittime", sottolinea Yulya. Accanto a lei c'è anche la 25enne Anya Naumenko, fidanzata con il soldato Dmytro Danilov con il quale dovrebbe sposarsi a luglio ma per adesso è impossibile programmare una cosa del genere.

Come stanno i combattenti

L'amore tra Kateryna e il comandante del battaglione d'Azov è nato sui social grazie anche alla passione in comune per musica e trekking. "È una miscela unica di coraggio, integrità morale, disciplina. Sempre pronto ad aiutare, non si tira mai indietro", racconta al quotidiano italiano. Nonostante il coraggio, molti affermano che sia un neo-nazista ma la compagna risponde con fermezza che "se difendere il proprio Paese da aggressioni esterne significa essere nazionalisti, allora Denis sì, è un nazionalista: come puoi dirti ucraino se non sei disposto a salvare il tuo Paese fino alla morte? Ma nazista no - sottolinea - Nazista è l’espansionismo russo di Putin". L'amica Anya racconta che i combattenti sono allo stremo, tanti chili persi, un solo pasto al giorno e il pane raffermo che, se non viene immerso in qualche zuppa, diventa immangiabile. L'acqua, poi, è tutt'altro che fresca ma "tecnica, cioé "quella che era destinata al funzionamento dei macchinari".

L'orrore nell'ospedale dell'acciaieria Azovstal di Mariupol. Orlando Sacchelli il 27 Aprile 2022 su Il Giornale.

Il Comune di Mariupol ha diffuso immagini raccapriccianti dall’ospedale allestito in uno dei rifugi dell’acciaieria Azovstal, dove vengono curati feriti militari e civili. Le condizioni sono disumane.

Sono sconvolgenti le immagini che mostrano un ospedale improvvisato in uno dei rifugi dell’acciaieria Azovstal di Mariupol. Le ha condivise, sui propri canali social, il consiglio comunale della città. Foto molto crude, come possono essere crude le immagini di una sala operatoria, con le mostruose ferite della guerra e le pessime condizioni dovute alle estreme difficoltà in cui sono costretti a lavorare i medici, a peggiorare le cose. I feriti, colpiti dalle schegge e dai proiettili, sono sottoposti a interventi in locali dove "sterile" è solo una parola astratta, con pochissima luce, lettini sporchi di sangue e condizioni igieniche disumane. Un'altra faccia, brutale, della guerra scatenata dalla Russia contro il "popolo fratello" dell'Ucraina. Medici e infermieri fanno quello che possono ma sono alle stremo: non hanno quasi più medicinali e lavorano alla meno peggio, come se fossimo tornati indietro di due o tre secoli, se non di più. Salvare più vite possibile è l'unica cosa che conta. Ma spesso diventa utopia. 

"Ecco come appare l’ospedale di Azovstal - si legge sul sito del Comune -. Foto terribili. Ma il mondo ha bisogno di sapere cosa sta succedendo. Sono 24 ore su 24 sotto il fuoco dell’esercito russo. Continuamente. E non solo i militari. La maggior parte sono civili. Ci sono almeno 2.000 civili nello stabilimento metallurgico. Donne, bambini e anziani. Molti feriti. In condizioni antigieniche e condizioni terribili. Senza farmaci. La situazione è catastrofica, mancano acqua potabile e cibo. Queste persone devono essere salvate immediatamente".

La diplomazia va avanti. Ieri Putin ha incontrato Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite. Sembrava esserci uno spiraglio, quantomeno per i soccorsi e i corridoi umanitari. Ma non è risultato così facile e scontato. "Oggi non ci sarà un corridoio umanitario per evacuare i civili da Mariupol", ha detto il consigliere del sindaco, Petro Andryushchenko, secondo quanto riferisce il quotidiano britannico Guardian. Andryushchenko ha poi aggiunto che i russi stanno di nuovo attaccando l’acciaieria. La guerra va avanti, non si ferma. Neanche di fronte al disastro umanitario e ai corpi straziati dei feriti.

(ANSA il 21 aprile 2022) - "I nostri cittadini hanno riferito che oggi a Mangush, vicino Mariupol, i soldati russi hanno scavato una fossa comune di 30 metri e portato dei corpi con i camion". Lo rende noto il sindaco di Mariupol Vadim Boychenko, citato dall'Agenzia Unian.

(ANSA il 21 aprile 2022) - A Mariupol gli ucraini hanno minato alcune infrastrutture e anche delle imbarcazioni straniere ormeggiate nel porto. Lo ha detto il ministro della difesa russo Sergey Shoigu nel colloquio col presidente russo Vladimir Putin, secondo quanto riporta l'agenzia russa Interfax. "I principali complessi infrastrutturali cittadini, incluso il porto e i canali di navigazione, sono stati minati. Non solo sono stati minati, ma sono anche stati bloccati da gru per imbarcazioni", ha detto Shoigu. "Le imbarcazioni che si trovavano là erano per lo più straniere", ha aggiunto.

(ANSA il 21 aprile 2022) - Kiev ha offerto a Mosca uno scambio di prigionieri russi e di inviare alti funzionari a Mariupol per negoziare l'evacuazione di quasi 1.000 civili e 500 soldati feriti, ma "finora" la Russia ha respinto la proposta: lo ha detto il presidente ucraino Vlodomyr Zelensky, secondo quanto riporta il Washington Post.

(ANSA il 21 aprile 2022) - I militari ucraini possono deporre le armi e lasciare Mariupol attraverso i corridoi umanitari. Lo ha detto il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. "I militari ucraini hanno avuto e hanno ancora la possibilità di deporre le armi e lasciare la città attraverso i corridoi designati", ha detto Peskov in conferenza stampa commentando la proposta del presidente ucraino Volodymyr Zelensky che le truppe russe catturate siano scambiate con la fornitura di un passaggio umanitario sicuro per i militari ucraini. "Questa possibilità esisteva anche prima che il presidente Zelensky facesse la sua dichiarazione", ha detto.

Dorella Cianci per “Avvenire” il 21 aprile 2022.  

Il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, arrivando a Kiev, ha dichiarato: «La storia non dimenticherà questi crimini». Crimini più volte denunciati da Andriy Nebitov, capo della polizia della regione e figura centrale anche nella sicurezza dello stesso presidente Zelensky. 

Oltre al noto massacro di Bucha, ci sono ulteriori fatti di uguale gravità, da segnalare?

Gli eventi di Bucha, purtroppo, ci riserveranno nel tempo dettagli ulteriormente raccapriccianti. Non tutto è noto. 

A nord di Kiev, nel giorno della ritirata russa, sono stati trovati più di 900 cadaveri (ad oggi ben più di mille), uccisi con colpi di pistola alla testa, segno di un ordine giunto all'ultimo o di una ferocia esibita non tanto nei confronti della popolazione locale, ma del mondo, che invece, a sua volta, in quelle ore, notava il pantano in cui la Russia si è infilata.

Nella sola Bucha sono stati scoperti 420 corpi, ma altrettanti ne sono stati segnalati nei giorni seguenti in aree limitrofe e, in particolare, negli scantinati della cittadina, dove anziani, donne e bambini avevano cercato rifugio. Sono stati massacrati lì, a freddo. Brutali inoltre le scene dei corpi delle donne abusate trovate nell'area di Chernihiv, dove intorno sorgeva un poliambulatorio d'emergenza. Ulteriori dati in tal senso sono ancora in arrivo da Borodyanka. 

Sembra quasi che Cherniv sia stata la cittadina che più si è sacrificata, proprio per proteggere Kiev e la sua storia, sbarrando la strada verso la capitale alle truppe russe È esattamente così. La piccola Cherniv ha resistito e ha fatto quasi da barriera per evitare il peggio alla capitale. 

L'invasore di Mosca avrebbe voluto umiliare Kiev e non è accaduto; però, in quelle zone più periferiche, hanno perso la vita in tanti: ricordo i genitori di Danilo, di 12 anni, rimasto solo col suo gatto e con la casa distrutta; Darina, ferita alle gambe e ora in Israele.

Non solo: la bella biblioteca cittadina è stata totalmente rasa al suolo e, anche chi resta, è lì senza elettricità. Ci sono ancora diversi aspetti da chiarire: avete visto le terribili immagini del drone su Cherniv? La situazione, come stiamo capendo ora, era preoccupante già a inizi marzo e restano da chiarire le responsabilità, nei crimini, delle truppe provenienti dalla Bielorussia. 

La situazione è più tesa nel sud costiero, ma come state riuscendo a garantire la sicurezza nei territori intorno a Kiev, in particolare con l'arrivo di alte cariche istituzionali?

La situazione è drammatica lì, ma l'allerta è rossa in tutto il Paese e il livello di sicurezza, a Kiev, è coordinato col ministro della Difesa. Non basta soltanto l'organizzazione della polizia, in particolare quando avvengono queste visite eccezionali, che, però, hanno necessariamente bisogno di alcune ore di preavviso, non divulgato ai media. 

Non posso scendere nei dettagli, ma ovviamente questa sfasatura di comunicazione, di poche ore, garantisce la sicurezza degli ospiti e del nostro stesso governo. Con questo monitoraggio, coordinato col ministro, si è resa possibile l'uscita all'esterno di Zelensky per accogliere le altre autorità in visita. È un buon segnale.

Putin, la liberazione di Mariupol è un successo.

(ANSA-AFP il 21 aprile 2022) - Il presidente russo Vladimir Putin ha detto che "la liberazione di Mariupol è un successo". 

Mosca, 142.000 civili evacuati da Mariupol.

(ANSA il 21 aprile 2022) - Oltre 142.000 civili sono stati evacuati da Mariupol: lo ha detto il ministro della Difesa russo, Sergej Shoigu, nel corso di un incontro con il presidente Vladimir Putin. Lo riporta l'Interfax. 

Mosca, 2 mila soldati ucraini assediati nell'acciaieria

Circa 2 mila soldati ucraini sono assediati nell'acciaieria Azovstal di Mariupol e restano asserragliati dentro il centro siderurgico. Lo ha detto il ministro della Difesa russo Sergej Shoigu, citato da Interfax. 

Putin annulla assalto ad acciaieria Azovstal a Mariupol

Il presidente russo Vladimir Putin ha annullato l'operazione per prendere d'assalto l'acciaieria di Azovstal a Mariupol, indicando la necessità di salvare le vite delle truppe. Lo riporta l'agenzia russa Tass.

Putin, chi si arrende avrà la vita risparmiata

Il presidente russo Vladimir Putin afferma che tutti coloro che si arrendono ai soldati russi a Mariupol hanno la garanzia che la loro vita sarà risparmiata. Lo riferisce l'Interfax. 

Mosca, 3-4 giorni per fine operazioni acciaieria Mariupol

Serviranno ancora 3-4 giorni per completare le operazioni nell'acciaieria di Azovstal di Mariupol, dove si trovano le rimanenti truppe ucraine: lo ha detto il ministro della Difesa russo, Sergej Shoigu, nel corso di un incontro con il presidente Vladimir Putin. Lo riporta l'Interfax.  

Le ultime ore dei difensori di Mariupol. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 20 aprile 2022

Gli ucraini sono asserragliati nell’immensa acciaieria Azovstal, non ha cibo, acqua e stanno finendo le munizioni. In città, intanto, ci sarebbero ancora centomila civili che cercano di sopravvivere in scantinati e rifugi improvvisati

Asserragliati nell’acciaieria Azovstal, un labirinto di dieci chilometri quadrati nella parte meridionale della città, gli ucraini dicono di avere ancora «pochi giorni o poche ore».

Mariupol è sotto assedio da quasi due mesi ed è diventata il simbolo delle distruzioni che l’invasione russa ha inflitto al paese.

In città ci sono ancora centomila civili, secondo il sindaco, e molti di loro potrebbero trovarsi dentro l’acciaieria.

Ieri mattina è scaduto il termine del nuovo ultimatum offerto dalla Russia alle truppe ucraine che difendono Mariupol, la città diventata simbolo della distruzione inflitta all’Ucraina dall’invasione russa.

I difensori della città, circondati e senza rifornimenti fin dai primi giorni dell’invasione, hanno respinto l’offerta. Ma nel pomeriggio, il presidente ucraino Zelensky ha offerto di scambiare prigionieri di guerra russi con gli ultimi ucraini che difendono la città.

«Possiamo resistere ancora qualche giorno, forse qualche altra ora soltanto», aveva detto ieri mattina il maggiore Serhiy Volyna, comandante della 36esima brigata di fanteria di marina. «Questo potrebbe essere il nostro ultimo messaggio, il nostro ultimo messaggio di sempre».

AZOVSTAL

Volyna insieme agli ultimi difensori ucraini si trova nell’enorme acciaieria Azovstal, un impianto che occupa un’area di dieci chilometri quadrati accanto al porto di Mariupol. Sotto l’intrico di edifici e capannoni che si trova in superficie, si estende un ancora più fitto labirinto di tunnel e depositi sotterranei, una «seconda città», come l’ha definita Yan Gagin, funzionario della cosiddetta repubblica separatista di Donetsk, i cui soldati sono impegnati in città accanto alle truppe della federazione russa.

Si tratta di un terreno difficile in cui combattere e che avvantaggia i difensori. Secondo gli ucraini, i russi stanno utilizzando bombe anti bunker: ordigni pesantissimi che penetrano a fondo nel terreno prima di esplodere. Alcune di queste bombe avrebbero colpito un ospedale vicino all’acciaieria.

Ma anche senza i bombardamenti, gli ucraini stanno finendo munizioni, acqua e cibo e sono senza medicine per prendersi cura dei circa 500 soldati feriti. 

I CIVILI

Accanto alle vicende militari, prosegue l’ordalia dei civili di Mariupol, una città che prima della guerra aveva oltre 400mila abitanti. Oggi, secondo il sindaco Vadym Boichenko, circa centomila persone vivono ancora tra le rovine, negli scantinati e nei rifugi improvvisati. Ieri, un accordo parziale era stato raggiunto per evacuare oltre 6mila persone con novanta bus, ma sia il sindaco che il suo vice hanno detto che è impossibile verificare se l’evacuazione è avvenuta con successo o è stata bloccata, come è avvenuto diverse altre volte nelle scorse settimane.

Probabilmente ci sono civili anche nei sotterranei dell’Azovstal. Secondo testimoni sentiti dal New York Times, all’inizio di marzo c’erano almeno 4mila persone nascoste nei circa 90 rifugi creati dentro l’acciaieria. 

GLI UOMINI DI AZOV

All’Azovstal sono rifugiati anche gli ultimi soldati del reggimento Azov, una controversa formazione ultranazionalista legata all’estrema destra ucraina. Il loro comandante, Denis Prokopenko, ha pubblicato due giorni fa un video che mostrerebbe famiglie con donne e bambini nei sotterranei dell’acciaieria. Mariupol è una città simbolica per il reggimento, che qui combatte i cosiddetti separatisti da oltre otto anni. Ma non è l’unica base del reggimento, che ha il suo quartier generale a Kiev e distaccamenti a Kharkiv e Dnipro.

DAVIDE MARIA DE LUCA

Marco Ventura per “il Messaggero” il 21 aprile 2022.

«Esaurite le capacità operative, è giusto e anche onorevole abbandonare il combattimento. Non ha senso tenere dei soldati a combattere a Mariupol, che ormai è nel controllo dei russi. Zelensky dovrebbe ordinare la resa. È possibile una sortita dalle acciaierie per riconquistare la città? No, allora un capo deve saper dire basta, arrendetevi».

Nessun dubbio su che cosa dovrebbe fare il presidente ucraino. Per il generale Marco Bertolini, già comandante del Coi (Centro operativo interforze), della Brigata Folgore e del Col Moschin, sul campo in Libano, Somalia, Kosovo, Afghanistan, «i combattenti del Reggimento d'Azov hanno dimostrato di essere forti e determinati, hanno conteso il territorio in maniera dura, valorosa. Questo era il loro compito, far perdere ai russi molto tempo e molti uomini. Che cos' altro devono fare operativamente?» 

Rimane questa ridotta nell'acciaieria

«Sì, là questa resistenza ha buon gioco a tenere duro perché un'acciaieria è un ambiente compartimentato, che consente a chi si difende di organizzarsi bene, poi ci sono ampie zone sotterranee per cui è difficile venirne a capo. Ma è una ridotta destinata a essere sopraffatta, queste forze non possono ricevere rinforzi, rifornimenti, né essere portate fuori». 

Un loro comandante ha chiesto l'estrazione

«Un'operazione di estrazione la puoi condurre in un ambiente semi-permissivo o permissivo, ma a Mariupol è impossibile che arrivi un elicottero a portare via chi c'è, ci hanno già provato e lo hanno abbattuto. I combattenti ucraini a Mariupol non hanno alternative alla resa, insistere nel farli restare sino alla fine non avrebbe un significato militare, ma propagandistico. Non cambia la situazione che resistano qualche giorno o una settimana in più. Dovrebbero arrendersi, questo è quanto». 

I russi avrebbero difficoltà a spazzar via le sacche di resistenza?

«Prendere Mariupol è stata un'impresa difficile, ha richiesto l'impiego e la perdita di molte forze. Ora, essendo l'acciaieria un obiettivo puntiforme, non ci sarebbe bisogno di grandi manovre, basterebbe un forte intervento aereo. Ma non vogliono farlo per non pagare il prezzo politico delle vite umane, di civili e militari insieme. Ai russi basta aspettare: nessuno può recuperare quei soldati e alla fine dovranno uscire».

Ci sono i corridoi umanitari

«Servono per i civili. I militari hanno solo un modo per uscire: combattere aprendosi la strada con le armi, o arrendersi. I corridoi umanitari hanno poi lo svantaggio che se vanno via tutti i civili, a quel punto arriva sul serio il missile sgombra-pensieri che uccide tutti quelli che sono rimasti».

C'è bisogno di martiri?

«Zelensky potrebbe ritenere che la resa incrini un po' l'aura dei combattenti ucraini disposti a tutto; inoltre se a Mariupol morissero tutti combattendo sarebbe un'altra cosa da imputare ai russi. A prescindere da ogni dietrologia, è una situazione che è successa anche a noi: Mussolini diede l'ordine a Pantelleria di arrendersi perché aveva avuto informazioni sbagliate sul fatto che ormai dovesse capitolare, secondo lui era inutile perdere vite umane per niente, in realtà era un'isola fortezza, difficile da conquistare. A Mariupol a maggior ragione. La distruzione di una città è già un prezzo molto alto, l'uccisione di molti civili è orribile, e la perdita di combattenti valorosi, per niente, non ha senso. Il responsabile ultimo delle decisioni è sempre politico»

Conquistare tutto il Donbass non sarà facile

«Le truppe ucraine che fronteggiano le due repubbliche separatiste sono lì da otto anni, in posizione fortificata e interrata. Non si tratta di operare contro truppe allo scoperto, ma di avere la meglio su unità predisposte alla difesa. Probabilmente non si tenderà a spazzarle via con un'offensiva, ma a tagliarle fuori dal resto del paese, prendendole alle spalle». 

A Mariupol non si faranno prigionieri?

«La resa dà garanzie al soldato negli eserciti moderni e regolari, è un istituto previsto e normato dal diritto internazionale bellico. E i russi hanno interesse a non creare situazioni da ritorcere contro di loro. Non vorranno passare per orchi. Diverso il caso delle formazioni irregolari, che operano fuori dal diritto internazionale e non rispondono a catene gerarchiche precise».  

Il senso dimenticato dell'eroismo. Vittorio Macioce il 21 Aprile 2022 su Il Giornale.

I rintocchi di mezzogiorno non hanno avuto risposta. A Mariupol lo sanno per chi sta suonando la campana. Non serve chiederselo. I russi sono stati chiari. «Avete due ore per lasciare la città». Si chiama ultimatum e serve a chi semina morte per lavarsi la coscienza. È come dire: abbiamo dato loro una possibilità. È la vita in cambio della resa. Chi non lo farebbe? E invece niente, silenzio. Tutto questo mentre Putin si atteggia a bullo globale. Prima annuncia e prepara una sfilata celebrativa della vittoria per il 9 maggio, tra le strade morte della città-simbolo distrutta. Poi mette in mostra - come un Kim Jong-un qualunque - il suo «missile impareggiabile». Lo ha battezzato Sarmat e punta il muso verso Occidente. Ma può spaventare gli spettatori dei tg europei, non la gente di Mariupol.

Le macerie sono l'ultimo riparo, ma quel «basta» non arriva. Non lo dicono i soldati ucraini e non lo dice la città. I bus umanitari attraversano a fatica la linea del fronte e si dirigono verso via Taganrogskaya, la fermata della speranza, e poi faranno tappa alle acciaierie Azovstal, per correre poi verso Zaporizhzhia. È la via della sopravvivenza per bambini, donne e anziani. Solo che non è una fuga. Non c'è ressa. Non ci sono code e gli autobus non sono pieni. Si arriva a piccoli gruppi, con il cuore devastato, perché non più in grado di resistere. Chi può invece ha scelto di restare e questo per noi che stiamo qui è qualcosa di indecifrabile, quasi impossibile da comprendere. Non ci appartiene più. È fuori dall'orizzonte delle nostre vite. Davvero qualcuno è disposto a morire per un'idea? Non sai neppure darle un nome. Che roba è? La puoi chiamare patria o libertà, ma non la senti, non la vedi, non la vivi. È troppo astratta. Ma queste per la gente di Mariupol non sono soltanto parole. Non sono chiacchiere da bar o da salotto televisivo. È la realtà. È il dramma della vita e ti costringe a scegliere. È qualcosa di radicale, al di là del qui e adesso. Non vogliono vivere come vuole Putin. Non vogliono svendere il futuro di chi verrà dopo. Non vogliono sottomettersi.

Allora te lo chiedi: tu lo faresti? Forse no, probabilmente no. Non lo sai, perché ti ci devi trovare, ma dire sì sarebbe disonesto. È come giurare adesso che nel '43 saresti andato in montagna. È come prendersi una patente da antifascista sotto gli applausi del 25 Aprile. Chi lo ha fatto davvero avrebbe capito lo sguardo di chi adesso sta a Mariupol. Solo che non ci sono più. Non c'è più nemmeno quel poeta giovane e illuso che nel 1849 andò a combattere sotto il Gianicolo per una vaga idea di Italia. Anche quello era un sogno impossibile. Cosa ti porta a combattere per la Repubblica romana di Mazzini quando di fronte hai l'esercito francese? Nulla che oggi si possa capire. Un proiettile gli frantumò la gamba e dopo quattro giorni, alle sette del mattino, morì di cancrena. Aveva 21 anni e si chiamava Goffredo Mameli.

La tragedia di Vanda, morta dopo 80 anni nei rifugi che la salvarono dai nazisti. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 20 Aprile 2022.

Aveva solo 10 anni quando nell’ottobre del 1941, rifugiandosi in una cantina di Mariupol, riuscì a salvarsi dai nazisti. Ottant’anni dopo, è morta in quegli stessi sotterranei: il luogo in cui, questa volta, si era rifugiata per nascondersi dagli invasori russi. Vanda Semyonovna Obiedkova, 91 anni, è deceduta il 4 aprile dopo settimane senza luce e acqua, tra il freddo e la mancanza di cure mediche, nella città simbolo della resistenza del popolo ucraino. 

A raccontare la sua storia è la figlia Larissa su Chabad.org. “Perché sta succedendo tutto questo?” chiedeva con un filo di voce Vanda, superstite dell’Olocausto che, nella sola area di Mariupol, causò tra i 9.000 e i 16.000 morti. 

Il racconto della figlia Larissa

Nelle ultime due settimane l’anziana donna non riusciva neanche a muoversi. “Dopo tutto l’orrore che aveva vissuto durante la persecuzione nazista non meritava di morire così“ ha raccontato tra le lacrime la figlia Larissa. Lei, insieme alla sua famiglia, ha potuto lasciare la città rasa al suolo dai russi solo all’inizio di questa settimana, grazie a uno dei pochi e fragili corridoi umanitari, aiutata della locale comunità ebraica guidata dal rabbino Mendel Cohen. 

“Quando sono iniziati i bombardamenti massicci, ci siamo trasferiti in cantina, ma non c’erano riscaldamento, acqua, elettricità.” Larissa ha cercato di prendersi cura della madre immobile a letto, “ma non c’era niente che potessimo fare per lei– ricorda- Abbiamo vissuto come animali”. Andare a prendere l’acqua era rischioso: due cecchini si erano piazzati vicino alla fonte più facilmente raggiungibile. “Eravamo bersagliati dalle bombe e la casa tremava. Mia madre mi diceva che non ricordava nulla di simile dalla seconda guerra mondiale”. 

Nata nel 1930, Vanda era una bambina di 10 anni quando nell’ottobre del 1941 i nazisti occuparono Mariupol e iniziarono a rastrellare e deportare gli ebrei. Quando le SS arrivarono a casa sua, uccisero sua madre Mindel. Lei, nascosta nella cantina di casa, non riusciva a parlare per la paura: “Quel silenzio la salvò”, spiega Larissa. Il padre di Vanda non era ebreo: convinse i tedeschi che la bimba fosse greca e la portò in un ospedale, dove rimase fino alla liberazione della città nel 1943. Vanda si sposò nel 1954, quando Mariupol era stata ribattezzata dai sovietici Zhdanov. 

Vanda amava la sua città, che non aveva mai voluto lasciare, neanche con la guerra. Ed è lì che la figlia ha voluto almeno darle una degna sepoltura, sfidando i bombardamenti insieme al marito. Ora sua madre riposa in un parco pubblico, non lontano dal mare d’Azov.

“Mariupol è un cimitero”

La testimonianza di Larissa descrive l’inferno e l’orrore della guerra in Ucraina, dove i civili continuano a morire. Lei, che ora è lontana dalle sue atrocità, dice che non tornerà a Mariupol. “Non c’è più una città, non ci sono case, non c’è nulla. È tutto perso, perché  ritornare?” afferma.

Mariupol è una città fantasma, completamente distrutta dai russi. Come sottolinea il rabbino Mendel Cohen, ormai è “un immenso cimitero”. Mariangela Celiberti

L. Cr. Per “il Corriere della Sera” il 18 Aprile 2022.

«Resa? Non ne abbiamo mai neppure parlato. I russi possono tranquillamente fare a meno dei loro ultimatum. Gli eroi combattenti di Mariupol si batteranno sino all'ultimo uomo, non cercano il martirio ma sono pronti a morire. Ma i rinforzi arriveranno prima».

Resta quasi interdetto il comandante Michail Pirog quando gli si chiede dell'eventualità che gli ucraini accerchiati da quasi due mesi scelgano di arrendersi per avere salva la vita: «Non è un'opzione contemplata», spiega calmo. A 55 anni, Pirog guida il quarto Battaglione dei volontari della formazione nazionalista Azov, circa mille uomini nel distretto di Zaporizhzhia, la città del Centro-Sud più prossima a Mariupol. 

Quanti sono gli ucraini accerchiati che ancora combattono?

«Sono dati riservati. Posso dirle che ci sono Marine della 36esima e 503esima Brigata, soldati della Guardia nazionale e tanti volontari della Azov. Sono unità ancora operative, siamo riusciti a inviare loro rinforzi di armi e munizioni sino a poche settimane fa.

Possono ancora resistere per settimane, ma gli mancano cibo e acqua come ai civili». 

Qui negli ambienti militari si parla di circa mille soldati ucraini accerchiati contro 10.000 russi. Ha senso?

«Sì, direi che la proporzione è quella. Non so però dire con precisione quali quartieri siano ancora nelle loro mani oltre alla zona delle acciaierie Azovstal, anche perché le posizioni cambiano di continuo: stiamo parlando di una battaglia tra le vie di una grande zona urbana. I posti di resistenza sono parecchi e rendono complicata l'avanzata russa». 

Una classica guerriglia urbana con bombe molotov e cecchini?

«Direi più di così. I nostri posseggono ancora razzi, armi anticarro, mortai leggeri.

Sono soldati di un esercito, non guerriglieri urbani».

Cosa risponde a chi, anche tra i Paesi europei alleati dell'Ucraina, accusa la Azov di essere una formazione neonazista e razzista?

«Noi siamo patrioti che combattono per la libertà e la democrazia. La propaganda russa falsifica la realtà e ci accusa di nazismo, mentre sono proprio i soldati russi a uccidere civili, a rubare e violentare. Sono loro i nuovi hitleriani. Noi ci battiamo anche per difendere le democrazie europee contro il fascismo espansionista di Putin». 

E le vostre origini cosacche? Siete figli delle stesse unità che stavano a fianco delle SS durante la Seconda guerra mondiale.

«Lo sa che c'erano un mucchio di russi collaborazionisti tra le guardie dei lager nazisti? Ma l'Armata Rossa era un'altra cosa. Per noi l'anima cosacca è oggi sinonimo di libertà contro la dittatura oppressiva di Putin. Altro che razzisti! Con noi ci sono ebrei, azeri, tartari di Crimea, armeni, cattolici, musulmani». 

Chi vi critica menziona la svastica sulle vostre uniformi e bandiere.

«La svastica è un antico simbolo slavo, pan-europeo, persino indiano. Per noi non ha alcun rapporto col nazismo. Accusereste mai gli indiani per le svastiche antiche millenni? Ma sono discorsi che davvero oggi non hanno senso. La realtà è che ci stiamo difendendo da un'aggressione violenta e fanatica. Abbiamo bisogno di tutto il vostro aiuto».

Oltre 100mila le persone in città senza acque e cibo. La battaglia di Mariupol, cittadini costretti a indossare fasce bianche come i soldati russi: “Li mandano a recuperare i morti”. Redazione su Il Riformista il 18 Aprile 2022. 

Donne, anziani e bambini costretti a indossare una fascia bianca sia sulla gamba destra che sul braccio sinistro. Fascia bianche uguale a quella che usano i soldati russi e i separatisti del Donbass. E’ la denuncia che arriva da Mariupol da parte del capo della polizia locale Mykhailo Vershinin secondo cui la popolazione rimasta – circa 100mila persone – viene utilizzata dall’esercito invasore per scavare tra le macerie e recuperare i cadaveri perché – secondo Vershinin – l’esercito russo sta cercando di cancellare le tracce dei suoi crimini.

Costringere i civili a indossare fasce bianche sulla gamba destra e sul braccio sinistro, le stesse utilizzate dai soldati, significa – secondo il capo della polizia – “portare la popolazione locale al rango di combattenti. Quindi mandano la gente nelle zone che possono essere attaccate, dove potrebbero morire”.

Intanto nella città portuale a sud dell’Ucraina, l’esercito russo continua ad avanzare e a controllare sempre più zone. Gli ucraini hanno rifiutato la resa e si avvicinano ora dopo ora alla battaglia finale. Nonostante gli appelli per far evacuare i cittadini, ad oggi sarebbero presenti ancora 100mila persone a Mariupol. Persone che devono fare i conti non solo con le bombe e con gli attacchi e le violenze dell’esercito invasore, ma anche con la totale assenza di aiuti umanitari. Da settimane la città è isolata e molte persone si sono rifugiate nell’acciaieria Azovstal di Mariupol ancora controllata dal battaglione nazionalista Azov. “Ci sono anche neonati. Queste persone si sono nascoste dai bombardamenti nei depositi dell’impianto”, ha detto.

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In città, così come sottolineato dal vicesindaco Sergi Orlov, “la situazione è la stessa rispetto agli ultimi giorni, la città è completamente isolata e non arrivano aiuti umanitari. Abbiamo bisogno di acqua e derrate alimentari. Continuano i bombardamenti, la città è rasa al suolo e i russi hanno occupato gran parte della città, ma l’esercito ucraino continua la battaglia”.

Secondo il consigliere del sindaco di Mariupol, Petro Andriushchenko, le forze russe hanno chiuso l’ingresso e l’uscita dalla città ed è possibile muoversi solo con un pass. “Centinaia di cittadini devono fare la fila per ottenere un pass, senza il quale sarà impossibile non solo spostarsi tra i quartieri della città, ma anche uscire in strada a partire da oggi”, ha affermato.

Guerra a Mariupol, uccisi 50 militari ucraini: c’è anche il comandante Baranyuk. Lo ha annunciato il vice capo delle milizie separatiste filorusse del Donetsk, Eduard Basurin. Lo scontro armato risalirebbe al 12 aprile scorso. Il Dubbio il 17 aprile 2022.

Volodymyr Baranyuk, comandante della trentaseiesima brigata di fanteria marina delle forze armate ucraine, è stato trovato morto a Mariupol. Lo ha annunciato il vice capo delle milizie separatiste filorusse del Donetsk, Eduard Basurin. Secondo Basurin, Baranyuk potrebbe essere stato ucciso durante il tentativo di fuga dalla città assediata di un centinaio di militari ucraini, lo scorso 12 aprile. «Nella notte tra l’11 e il 12 aprile, un gruppo di militari della trentaseiesima brigata marina, separata delle forze armate ucraine, ha tentato di sfondare dall’impianto Ilyich assediato», ha spiegato Basurin, «la fuga è stata impedita dalle forze speciali della Repubblica Popolare del Donetsk.

Durante l’ispezione del luogo dello scontro, sono stati trovati il corpo del comandante della brigata, il colonnello Baranyuk Vladimir Anatolyevich, i suoi effetti personali e le armi». Secondo Mosca, durante il tentativo di fuga dello scorso 12 aprile, 50 militari ucraini furono uccisi dalle forze russe e altri 42 si arresero.

Ucraina, nell’orrore di Mariupol: “Noi fuggiti, senza cibo e bianchi come spettri”. Brunella Giovara La Repubblica il 18 Aprile 2022.

I racconti dei sopravvissuti tra stenti, tentativi di fuga ed evacuazioni in Russia.

Erano “bianchissimi in faccia. E anche le loro mani, erano così bianche. Poi non stavano in piedi, immagino per la mancanza di zuccheri nel sangue. Sono scesi dalla macchina a fatica, e io ho pensato che erano veramente come gli zombie”. Così appaiono i sopravvissuti di Mariupol, a chi li aiuta a fuggire dai campi di detenzione russi. Basta un’occhiata, sono quelli che si trascinano e sono davvero esangui, denutriti, così senza colore. Sopravvissuti nella città bombardata, nelle cantine e nei rifugi, per salvarsi dalle bombe e dai rastrellamenti, ora hanno paura del buio, dei rumori violenti, di cosa altro potrebbe succedergli. Molti sono stati evacuati dai russi, portati nei campi del Donetsk prima, e dopo nei campi di “filtraggio” in Russia, dove vengono interrogati e controllati (i telefoni, gli eventuali tatuaggi nazionalistici, il rilievo delle impronte digitali).

Ma qualcuno riesce a fuggire, grazie a una rete di autisti, volontari (anche russi) e rifugiati ucraini, che parte dalla Repubblica della Georgia. Il gruppo Volunteers Tbilisi sta organizzando viaggi pericolosi – soprattutto nel tratto russo - per portare definitivamente in salvo queste persone. Da Taganrog, ad esempio, alcuni russi senza nome hanno portato i fuggitivi in macchina fino a Rostov, altri li hanno presi in carico e accompagnati in treno a Vladikavkaz, la capitale dell’Ossezia del Nord. Alla stazione, ecco l’autista georgiano, che gli fa attraversare il confine e li sistema in un primo rifugio nella parte sud del Paese, dove possono ricevere la prima assistenza, un letto, il cibo. E una concreta libertà.

La notte del 31 marzo uno di questi trasporti ha trasferito a Akhaltsikhe una famiglia di 8 persone di Mariupol, in stato pietoso, così come le ha viste Masha Belkina, una ragazza di vent’anni che coordina le attività di Volunteers Tbilisi. Masha è russa di nascita, ma quattro anni fa la famiglia si è trasferita nella capitale della Georgia e ha aperto un piccolo albergo. Bisogna spiegare che i georgiani temono di fare la stessa fine degli ucraini, così come i polacchi, e molti uomini sono partiti volontari per combattere i russi a fianco dell’esercito ucraino. E giusto nei giorni del viaggio di questa famiglia di Mariupol verso la Georgia, due volontari tornavano in patria in una bara. Caduti sul campo, si chiamavano Gia Beriashvili e Davit Ratiani, uccisi durante un combattimento a Irpin. Il corpo del terzo caduto, Bakhava Chickbava, non è ancora stato rimpatriato. Si sa che è morto durante uno scontro a Mariupol. Ad accogliere le prime bare all’aeroporto, la presidentessa della Georgia, Salome Zourabichvili, tanto per spiegare l’importanza e il significato della presenza di questo Paese sulla scena del conflitto. 

Ma tornando alla famiglia di Mariupol, erano otto e tutti malconci. Con due feriti seri, una donna di 52 anni ferita da schegge in tre punti del corpo, e una profonda altra ferita in una gamba, e il figlio , anche lui colpito da una scheggia alla scapola sinistra. Nel campo russo di Bezymennoye dove erano finiti, i medici avevano proposto un intervento chirurgico, ma lei aveva rifiutato, non fidandosi dei medici “nemici”. Sono stati poi operati in Georgia, e stanno meglio. Nel trasporto c’era anche una donna molto anziana, e un figlio, che si portava dietro un piccolo sgabello di legno. Masha gli ha detto che in macchina non ci stava, di lasciarlo lì. E lui prima ha detto che gli serviva per fare sedere sua madre, per non stancarla troppo. Poi ha confessato che era l’unica cosa che si era salvata dalla loro casa, “della nostra vita”. 

Volunteers Tbilisi ha finora traghettato in Georgia 2mila ucraini. Da lì, se vogliono, vengono aiutati a raggiungere la Polonia, la Francia, la Germania. Molti restano, perché sperano di tornare presto alle loro case. Alena Dergachova, giornalista della testata indipendente online The Village (invisibile in Russia, perché oscurata) ha visitato questa famiglia e non è riuscita a parlare con loro perché “sono in uno stato psicologico molto grave”.

Ucraina, Ong denuncia: 150 bimbi portati via da Mariupol con la forza. Redazione Tgcom24 il 18 aprile 2022.  

Un gruppo per i diritti umani della Crimea ha denunciato che i russi avrebbero portato via con la forza da Mariupol circa 150 bambini, 100 dei quali ricoverati in ospedale, la maggior parte strappata ai genitori. "L'esercito di Mosca li ha trasferiti nella direzione di Donetsk occupata e del Taganrog russo", ha affermato Olha Skrypnyk, capo del gruppo per i diritti umani della Crimea, riferisce Ukrinform.

I russi avrebbero portato via anche 16 bambini da un centro benessere a Mariupol. Secondo Andriushchenko, i bambini rapiti non sono orfani. "Gli orfani, insieme al personale dell'orfanotrofio - ha ricordato - sono stati evacuati da Mariupol il 24 e 25 febbraio", ha affermato il funzionario del Gruppo per i diritti umani della Crimea.

Come ha osservato un consigliere del sindaco di Mariupol, citato da Ukrinform, alcuni dei "bambini rapiti hanno perso i genitori a causa dei crimini di guerra della Russia", ma "o hanno tutori nei territori non occupati o sono sotto la protezione dello Stato". Nella Mariupol assediata - secondo le ultime informazioni - restano circa 120.000 civili.

Domenico Quirico per "La Stampa" il 17 aprile 2022.

Tutti i bambini russi, da generazioni, crescono sillabando questi nomi: la fonderia "Ottobre rosso", la fabbrica di cannoni "Barricata rossa", lo stabilimento chimico "Lazul''. A ripeterle quelle parole si gonfiano di epopea, di storia, di gloria.

Anche se oggi il luogo dove sorgevano ha cambiato nome, Volgograd, per loro per sempre sarà Stalingrado, la città del mito russo, della grande guerra patriottica.

Tra dieci, venti anni tutti i bambini in Ucraina impareranno a memoria un altro nome: la fonderia Azovstal, lo scriveranno nei compiti a scuola, la ripeteranno riempiendola di gloria, di eroismo, di sacrificio patriottico.

Forse su Mariupol dove sorge lo stabilimento sventolerà un'altra bandiera, quella russa, ma per loro sarà sempre la città della gloria dove un pugno di soldati ucraini preferirono morire tra le rovine che arrendersi. Così nascono le leggende. E le guerre senza fine. Ottobre rosso, Azovstal restano nella memoria tutta la vita, si radicano, si infiltrano, incominciano a crescere e germogliare, fino a trasformarsi in qualcosa di grande, raccolgono tutta l'essenza di ciò che è avvenuto.

La storia riserva strane combinazioni, capovolge i destini, li fa specchiare l'uno nell'altro come per prendersi gioco degli uomini e della loro illusione di esserne i padroni, di tenerli saldamente in pugno. Nell'agosto del 1942 i soldati russi, e ucraini, con alle spalle il Volga, barricati in una fonderia trasformata in fortezza, cambiarono il corso della Seconda guerra mondiale fermando la sesta armata nazista. Ottanta anni dopo le parti sono rovesciate. Sono i soldati russi gli invasori che devono, metro dopo metro, strappare i ruderi della più grande fonderia d'Europa ai fanti di marina e ai miliziani del battaglione Azov che rifiutano la resa. Per i russi i discutibili ultra nazionalisti dell'Azov sono «i nazisti».

Aggrediti e invasori, vittime e aggressori: lo scambio delle parti nell'atroce gioco delle guerre.

Stalingrado era una bella città nel 1942, come Mariupol 50 giorni fa. Con una università, grandi spazi aperti, ombre fresche e lunghe, parchi e blocchi di appartamenti bianchi con certe figure di donna sulle facciate a sorreggere niente, palazzi dall'aspetto immacolato che riflettevano il grande fiume e la abbagliante luce estiva. Portava il nome del Padrone, era simbolo e vetrina del mondo nuovo.

Quando i tedeschi attaccarono il 23 agosto, seicento aerei, a turno, volando basso, la schiantarono pezzo a pezzo. Da settimane i civili fuggivano verso il Volga portandosi dietro fagotti, carrette, spronando il bestiame.

Come a Mariupol avevano dato loro pale, carriole e ciocchi di legno per costruire all'ultimo momento trappole per carri armati e trincee. Ma avevano capito che sarebbero servite a poco. Sapevano che la armata del generale Ciukov, un tipo ambizioso, ostinato, sopravvissuto nei tempi di ferro di Stalin, aveva l'ordine di morire nella stretta lingua di terra che correva lungo il fiume, come se dall'altra sponda del Volga non ci fosse terra.

Molti non ebbero il tempo di fuggire, nel primo giorno e nella prima notte di bombardamenti morirono in quarantamila.

Anche a Mariupol i russi sono arrivati troppo presto, il 13 marzo. E pare che, dice Mosca, ormai le aree urbane sono state "ripulite" dalle forze ucraine.

Accade sempre così, si spera, si ritarda, forse il fronte si sposterà. Non lo sanno ma gli Stati maggiori hanno già tirato un segno rosso sulla carta geografica: qui vietata la resa, obbligatorio morire.

Oltre diecimila civili sono già morti. I soldati rimasti si battono nella immensa acciaieria. Davanti a loro ad ogni lato ci sono i russi che si aprono la strada con l'apocalisse dei "Solntsepeck", che 80 anni fa si chiamavano "gli organi di Stalin", alle loro spalle il mare da cui non verrà alcun aiuto.

Guardiamo Stalingrado dopo pochi giorni di battaglia: le case e le strade erano morte, sugli alberi non c'era più un ramo verde, tutto era stato distrutto dal fuoco, i palazzi erano una enorme discarica di frontoni in pezzi, nei pochi edifici ancora in piedi la gente si affollava cercando di portar via quello che non era stato distrutto.

Uomini si davano la caccia per uccidersi, con mitra, bombe a mano, baionette. Il Volga fumava per il calore delle granate tedesche.

E ora guardate le fotografie di Mariupol con i suoi campanili amputati e le file interminabili di edifici distrutti i cui fregi neoclassici riposano le loro volute sui marciapiedi, il teatro, cupo, annerito e solitario si innalza tra un cumulo di macerie con una ferita di mattoni che sembra sanguinare al crepuscolo. Se volete vedere un paesaggio di rovine più desolato di un deserto, più selvaggio di una montagna e fantastico come un incubo angoscioso, allora avete due città a cui pensare ora, Stalingrado e Mariupol. Sono le città senza più luci come se cercassero di negare la propria esistenza, solo chilometri di edifici che sembrano aver spento gli occhi. I russi nella città sul Volga avevano ammassato mezzo milione di soldati, ne morirono più di trecentomila. A Mariupol i difensori ucraini sono ridotti a qualche migliaio, gli altri che difendevano la città, e molti di coloro che cercano di conquistarla da un mese, sono morti.

Anche ottanta anni fa il cuore dell'epopea e della tragedia furono, nella parte Nord della città, gli indefinibili resti della fonderia Ottobre rosso: resti ancora alti, scolpiti arditamente dalle bombe come monumenti alla guerra, oppure piccoli come pietre tombali, travi contorte spuntavano dalle macerie come ruote di prua di navi affondate da tempo, e poi le sei ciminiere rimaste in piedi che un destino dotato di senso artistico aveva reciso dai capannoni distrutti si alzavano su mucchi grigi di calcinacci che sembravano eterne pietre messe lì dall'origine del mondo e apparecchiature fuse dal calore.

La leggenda racconta che quando già i tedeschi erano nel sobborgo di Spartakovka e gli Stuka scendevano in picchiata gli ultimi carri armati uscirono senza verniciatura, appena montati, dalle catene di montaggio per gettarsi nella battaglia.

Nei sotterranei di Azovstal e allora in quelli di Ottobre rosso immaginate solo bombardamenti, rumore incessante, polvere, fuoco, freddo e buio. Il fetore di carne putrefatta si mischia con quello del metallo rovente e del sudore. In luoghi simili dieci giorni è il massimo che chiunque può sopportare, si diventa un po' meno che umani, si impara che esiste qualcosa peggiore della morte, restare mutilati o cadere in mano al nemico.

Si comincia a provare una sorta di estasi durante l'azione che arriva al suicidio. E questo spinge anche a rifiutare la resa. Accadono cose eroiche e altre che sono la spietatezza e pura crudeltà. Bisogna diventare esseri di ferro. Agli uomini di Ottobre rosso fu detto che dovevano resistere perché dietro il Volga non c'era più niente. Non era vero: tre armate preparavano la trappola gigantesca per i tedeschi. Dietro Azovstal non c'è davvero più niente.

Il racconto di Tatiana rifugiata nell’acciaieria Azovstal: «Nel buio e senza acqua, tra le urla dei bambini». La giovane era tra i 156 civili rimasti per due mesi nel bunker di Mariupol, tratti in salvo dalle Nazioni Unite. «Ci lavavamo con l'antisettico per tenere a bada le infezioni». Federica Bianchi su L'Espresso il 4 maggio 2022.

Il bus verso l'ostello è arrivato. Tatiana Trotzok, 25 anni, afferra di corsa la coscia di pollo che sta mangiando nel campo di raccolta rifugiati a Zaporizhia e la infila nella tazza di caffè ormai vuota per portarla con se insieme a Daisy, la cagnolina yorkshire di cinque anni. Accanto a lei la madre e il marito. Sono due mesi che mangia solo zuppa in scatola e biscotti, al freddo su un tavolo di fortuna costruito con le assi di legno trovate nell'acciaieria dove si era nascosta. Trotzok fa parte dei 156 rifugiati della fabbrica Azovstal a Mariupol che sono stati tratti in salvo dalle Nazioni Unite, durante un viaggio in territorio occupato dai russi durato due giorni.

«Ci siamo rifugiati in Azovstal all'inizio della guerra perché mia madre lavorava lì ed era certa che sarebbe stato un posto molto sicuro», inizia a raccontare lei. «Per quattro giorni ci eravamo accucciati nel corridoio di casa, un’ appartamento al terzo piano di una palazzina periferica, sperando che i bombardamenti finissero presto. Poi nella notte tra il primo e il secondo giorno di marzo abbiamo sentito missili volare sul tetto. Quattro sibili lunghissimi seguiti da quattro esplosioni. Con la quinta la lampada notturna a forma di luna è uscita dalla presa e ha preso fuoco. In pochi minuti abbiamo deciso di lasciare casa».

Una decisione tempestiva. Pochi giorni dopo l'edificio è stato distrutto.

«Quando siamo entrati in uno dei bunker dell'acciaieria non c'era nessuno dentro. I soldati sono arrivati il 4 marzo. Abbiamo tentato di lasciare l'acciaieria il 3 marzo per cercare la nonna con cui avevamo perso ogni comunicazione». Il telefono non funzionava. Sono bastate poche ore sotto i colpi continui dell'artiglieria per capire che non saremmo mai riusciti a raggiungere la sua casa in centro. Così siamo rientrati nel bunker di Azovstal, dove siamo rimasti insieme agli altri, 43 persone in tutto, fino a tre giorni fa quando hanno aperto i corridoi umanitari». Prima di uscire dalla fabbrica hanno lasciato un biglietto con i numeri di telefono della nonna, l'indirizzo, i loro contatti, nella speranza ancora viva che qualcuno la trovi nei prossimi giorni. O l'abbia già trovata. 

Daisy annusa il bicchiere di latte che porta la volontaria, poi beve senza sosta. Trotzok mostra le braccia sporche, nere fino alle spalle, giù oltre le caviglie: «Sono tutta nera, non mi lavo da un mese. Perdonate il cattivo odore». L'unica acqua all'interno dell’acciaieria era quella usata dalle macchine refrigeranti per gli altiforni. Ce n'era in abbondanza per bere ma senza elettricità non arrivava nei bagni. Le quattro toilette devono essere svuotate manualmente fuori dal bunker nei piani superiori dell'acciaieria quando i bombardamenti conoscevano una pausa. «Ci lavavamo con l'antisettico per tenere a bada le infezioni».

Dentro il bunker la vita era lenta, scandita dalla cura dei bisogni primari: il tè la mattina, gli abbracci di chi ha paura, l'evacuazione della toilette, gli strilli di terrore dei bambini quando i bombardamenti diventano più intensi e le porte del bunker erano aperte per fare entrare un po' d'aria dai piani superiori; la zuppa cucinata per il pranzo; i pianti di chi non ce la fa più; le notizie che arrivano dalla radio. E che fanno discutere, che fanno passare le ore e danno o tolgono speranza a seconda dei giorni. Poi i latrati acuti dei cani, dei dieci piccoli cani portati nel bunker insieme ai bambini da un popolo che impazzisce per gli yorkshire e gli spitz. Ogni tanto i soldati portavano farina e burro, le caramelle per i bambini e il borotalco per i neonati, qualche medicina. «Sono stati fantastici con noi».

Ma era il buio il tratto dominante della vita nelle viscere della terra. Un buio che «inizialmente fa paura e poi ti obbliga ad arrenderti, a non pensare, a pregare magari», dice Tatiana. «Sono una leader di natura», continua lei che tre anni fa ha lasciato il posto da ingegnere elettrico in Azovstal per cercare un lavoro migliore in una multinazionale dell'high-tech nella regione del Donetsk. «Non sono come gli altri a Mariupol, non mi accontento», sorride sicura: «Durante tutte queste settimane ho cercato di tenere sempre lo spirito alto per tutti, anche quando abbiamo creduto che da lì non saremmo mai usciti, che saremmo morti di fame, pentendoci di non avere tentato la fuga prima, insieme a quei dodici che alla fine di marzo hanno preso coraggio e sono usciti. Non ce la facevano più. Mi guarda. Improvvisamente ha un'idea. «Ho il numero di Olga con me: la chiamiamo per vedere se è ancora viva?» La riunione telefonica è il trionfo della vita. «Olga mi aspetta a occidente dove è più sicuro», dice Tatiana: «È lei che sottoterra aveva disegnato questi tattoo che conservo nella cartellina insieme ai miei diplomi. Ora è il momento di farsene fare uno, qui su queste braccia che stasera saranno finalmente pulite». Per festeggiare la salvezza. Non ancora la vittoria.

I sommersi e i salvati di Mariupol. Report Rai. PUNTATA DEL 02/05/2022 di Manuele Bonaccorsi

Collaborazione di Giulia Sabella

É in questa area che stanno arrivando migliaia di profughi della guerra in Ucraina. E da lì hanno seguito le truppe occupanti a Mariupol, la città martire del conflitto, fino alla prima linea, a poche centinaia di metri dagli stabilimenti dell'Azovstal, dove sono asserragliati gli ultimi uomini del battaglione nazionalista ucraino Azov.

I SOMMERSI E I SALVATI di Manuele Bonaccorsi Collaborazione di Giulia Sabella Immagini di Manuele Bonaccorsi Montaggio di Riccardo Zoffoli

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E ora una esclusiva di Report, dal nostro inviato, Manuele Bonaccorsi, che è riuscito ad entrare nella Mariupol occupata, a poche centinaia di metri dall’acciaieria, simbolo della resistenza Ucraina.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Siamo andati dall’altro lato del fronte, finora rimasto in un cono d’ombra. Qui dove le auto e i mezzi militari, sono marchiati con la Z di Zavad, ovest in russo. Questa è Mariupol, o ciò che ne resta. Le persone vanno a prendere l’acqua e raccolgono il legno tra le macerie, servirà a fare il fuoco per cucinare o a mettere in sicurezza le proprie case danneggiate. Questo era il teatro di Mariupol. Colpito il 16 marzo nonostante fosse pieno di civili. Davanti a noi un ufficiale militare della Repubblica di Donetsk interroga un presunto testimone, un abitante di Mariupol che si trovava vicino al teatro durante il bombardamento. La scena si consuma davanti a una troupe della televisione russa.

TESTIMONE RUSSO C’è stato un boato ed è crollato tutto. Ma secondo me l’esplosione è avvenuta dall’interno, per una bomba, perché i muri sono caduti verso l’esterno. Inoltre, quando abbiamo cominciato a portare fuori la gente ferita e uccisa, ho visto che una signora anziana aveva numerose ferite causate dalle schegge di una bomba.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Secondo questa ricostruzione, filmata a beneficio dei telespettatori russi, la strage sarebbe stata causata da un attentato, proprio come affermato dalle autorità di Mosca, che hanno incolpato il battaglione nazionalista Azov. Le autorità cittadine e numerose fonti internazionali affermano che a bombardare il teatro sia stato un aereo russo. Nella strage del teatro sono morte oltre 130 persone. Ma è un dato parziale. Fonti ucraine parlano di 300 vittime. I corpi, quando arriviamo noi, a distanza di oltre un mese, sono ancora sotto le macerie. In questo quartiere di Mariupol vive Nina, una anziana signora che ha una figlia in Svizzera. Vuole raggiungerla, mettersi in salvo, e noi le daremo un passaggio a Donetsk. La incontriamo nell’appartamento dove vive con la sua famiglia, sono tutti miracolosamente scampati dalle bombe.

ANZIANO Senza luce, senza acqua, senza cibo. Abbiamo vissuto come i ratti.

GIOVANE I militari ucraini mettevano davanti ai portoni dei barattoli rossi: segnalavano alle truppe dove mettere i punti di fuoco. Noi li abbiamo fatti sparire, e così abbiamo salvato la nostra casa. Altrimenti probabilmente saremmo già morti. Quelli del palazzo vicino non l’hanno fatto, e lì hanno messo un obice sul tetto, da cui sparavano a ripetizione. Ora di quel palazzo non resta niente. È stato completamente distrutto. Il 24 febbraio, Mariupol è stata chiusa, eravamo in gabbia. Non c’è mai stato un corridoio verde per portare via bambini e anziani.

ANZIANA Hanno fatto saltare in aria le rotaie. Era impossibile lasciare Mariupol.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Donetsk, capitale della Repubblica popolare del Donbass russo. Sono le 16 del 19 aprile. Un fiume di persone si dirige verso una struttura della protezione civile locale che ha il compito di fornire documenti e accoglienza ai rifugiati.

PROFUGO Vengo da Mariupol. Siamo stati portati con gli autobus del Ministero delle emergenze della Repubblica di Donetsk.

MANUELE BONACCORSI Ma fanno partire chiunque?

PROFUGO Sì, ma ci sono pochi autobus.

MANUELE BONACCORSI E dove è diretto?

PROFUGO A Rostov, in Russia. E poi raggiungerò mia figlia, a Zurigo.

ANZIANA Ci nascondevamo negli scantinati, dormivamo sul pavimento, nella polvere. Ho 76 anni. Per 50 anni io e mio marito abbiamo risparmiato per arredare l'appartamento. E ora c’è solo cenere ovunque!

DONNA Il battaglione Azov coi carri armati ha sparato su casa mia, potete immaginare?

MANUELE BONACCORSI Siete sicuri che fosse il battaglione Azov? Potrebbero essere state le truppe russe?

DONNA No, no, avevano la bandiera ucraina sulla divisa. Stiamo dicendo la verità.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Da Mariupol a Donetsk sono arrivate finora alcune decine di migliaia di persone. Fonti ucraine hanno parlato di deportazioni. Noi, che ci siamo mossi spesso insieme ai militari, oggi siamo soli. La nostra interprete Kristina spiega a tutti che lavoriamo per la tv pubblica italiana.

DONNA DUE Possediamo solo i vestiti che abbiamo addosso.

MANUELE BONACCORSI L’Ucraina ha affermato che la Russia sta deportando le persone da Mariupol.

DONNA TRE Ma smettetela!

DONNA DUE Nessuno ci ha deportato. Stiamo solo lasciando l'inferno. Abbiamo persone sepolte sotto ogni casa, ci sono croci in tutte le strade. Hanno messo l’artiglieria tra gli edifici residenziali anche se c'era scritto “bambini” sui muri. Ci hanno usato come uno scudo umano.

DONNA QUATTRO C'era un carro armato ucraino, ha sparato sulla casa e poi si è spostato. A quel punto è arrivato un colpo dai russi. La mia casa è stata colpita tre volte, tremava tutto. Ci siamo seduti in una stanzetta senza finestre. Ho messo una coperta sulla testa di mia figlia per attutire il rumore delle esplosioni. Al mattino le case vicine erano completamente bruciate.

GIOVANE Ho due bambini piccoli e una nonna di 90 anni, e ci siamo rifugiati in un locale tecnico, alto un metro e 20. Bevevamo l’acqua che cadeva dai tubi, e quando tutti i negozi sono stati chiusi, andavo a rubare, per mangiare.

MANUELE BONACCORSI Perché non siete scappati subito, prima dell’inizio delle ostilità?

GIOVANE Fin dai primi giorni di guerra, quando ancora avremmo potuto raggiungere l’Ucraina, i militari avevano messo i carri armati in mezzo alla strada. C’era chi offriva loro denaro per passare, ma era inutile. “I ponti sono stati minati”, dicevano. E questo ha messo a rischio la popolazione perché poi è diventato troppo tardi per andarsene. E solo quando la Russia ha conquistato tutta la costa siamo riusciti a fuggire.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Denis ci chiede un passaggio verso casa di sua nonna, che vive proprio a Donetsk. Lungo la strada ci racconta la storia di Bella, una sua amica di Mariupol. È stata portata in città dai militari della Repubblica separatista per essere operata, rischiava di perdere l’uso delle gambe. La scheggia di un proiettile è arrivata a pochi millimetri dalla sua colonna vertebrale.

BELLA I militari ucraini avevano sfondato la porta di casa mia, avevano fatto la loro base lì. Fuggire era impossibile. Io, mio marito e la bambina abbiamo vissuto in un seminterrato dal primo marzo senza mai uscire. Solo il 17 marzo, nel tardo pomeriggio, sono andata dai vicini perché avevo bisogno di tamponi di cotone per mia figlia. Quando stavo tornando ho sentito un'esplosione molto forte e ho visto l'onda d'urto con i miei occhi. Mi sono aggrappata al muro, ma sono scivolata a terra, non sentivo più le mie gambe.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Alcuni giorni dopo torniamo a Mariupol. Seguiamo un convoglio di militari della Repubblica di Donetsk che si reca nei quartieri più colpiti portando ai cittadini pane, carne in scatola e dolci pasquali. Dopo averla conquistata con le armi, i militari mostrano ora la faccia buona, sono qui per restare. Gli abitanti di Mariupol sono in grande maggioranza di lingua russa e nel quartiere in cui veniamo portati, gli occupanti li chiamano liberatori.

UOMO ANZIANO Venite, vi faccio vedere come vive. Siamo stati qui sotto per nove giorni. Facciamo bollire l'acqua sul combustibile secco. Così abbiamo dato da mangiare ai bambini. E preparavamo del tè per gli adulti.

DONNA Il bombardamento è stato spaventoso. Sparavano dall’incrocio.

UOMO ANZIANO Era un carrarmato ucraino a sparare.

DONNA Hanno bruciato l'intero quartiere, bruciato tutto, distrutto tutto.

UOMO ANZIANO Un colpo è arrivato qui, in questo punto, proprio nel seminterrato.

MANUELE BONACCORSI C’è gente che ha perso la vita? Quanti?

UOMO Un ragazzo che era uscito per prendere un bollitore, colpito da un grad. Un altro uomo era al secondo piano ed è rimasto ferito. Aveva una gamba incastrata, non poteva muoversi, è bruciato vivo sul proprio balcone.

MANUELE BONACCORSI Ma voi vi sentite russi o ucraini?

UOMO Russi.

MANUELE BONACCORSI Ma scusate, voi volete stare con il Paese che vi ha bombardato, che ha bombardato le vostre case, la vostra città?

UOMO ANZIANO È stata l’Ucraina ci ha bombardato! L’Ucraina! La Russia non ci ha bombardato!

UOMO Tutto questo l’hanno fatto i neonazisti ucraini dell’Azov. Lavoravamo e vivevamo tranquillamente fino al 2014. Poi ci hanno vietato di parlare in russo, anche la nostra regione è di lingua russa, lo è sempre stato. Siamo sempre stati vicini alla Russia.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il convoglio della Repubblica di Donetsk si sposta in prima linea, in un quartiere che si affaccia sul mare. Sullo sfondo si vedono le ciminiere dell’Azovstal, dove sono asserragliati gli ultimi militari ucraini.

MANUELE BONACCORSI A che distanza stanno gli ucraini asserragliati?

MILITARE DNR Sono a meno di un chilometro da qui. Hai visto quei ragazzi dietro l'angolo? Stanno andando proprio in quella direzione. C’è ancora il rischio che i militari ucraini escano di notte, per attaccarci.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Questo è uno dei quartieri dove i combattimenti sono stati più duri. Si è sparato e ucciso casa per casa. Eppure, qualcuno vive ancora qui. E la felicità, quando hai perso tutto, può essere anche il profumo del cibo.

MANUELE BONACCORSI Siete sempre stati qui?

DONNA Sì, dal primo minuto della guerra. Non avevamo nessun posto dove andare. Mia figlia ha provato a scappare, non ho sue notizie da allora. Mia nipote è rimasta con me.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Un ufficiale dell’esercito della Repubblica di Donetsk decide di fornirci la sua versione.

MANUELE BONACCORSI La battaglia di Mariupol è finita o continua ancora?

UFFICIALE DNR La città è completamente sotto il nostro controllo. Le ultime forze nemiche, che sono rimaste qui, si trovano nello stabilimento di Azovstal e sono completamente bloccate.

MANUELE BONACCORSI Da dove provengono allora questi colpi?

UFFICIALE DNR È il fuoco della nostra artiglieria. Sopprimiamo i singoli punti di tiro che si trovano nell'impianto Azovstal.

MANUELE BONACCORSI Quante persone ci sono dentro Azovstal? UFFICIALE DNR È abbastanza difficile saperlo. Centinaia di militari, immagino. Ma l'intera area dell'impianto è bloccata. Da lì non usciranno più, almeno non con le armi in mano. Per quanto riguarda i civili, non ho informazioni precise. È probabile che ce ne siano anche se non dovrebbero essere lì. Per questo apriamo corridoi umanitari abbastanza spesso, cessiamo completamente il fuoco da tutti i tipi di arma e in un posto preannunciato, le persone hanno la possibilità di uscire, e partire verso i punti di incontro e alloggi temporanei. Ma poiché nessuna persona ne è ancora uscita, Azov secondo me le trattiene con la forza, capiscono che questa è la loro unica possibilità di sopravvivere. In caso di assalto, la presenza dei civili ci complicherebbe notevolmente il lavoro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, alla fine i corridoi sono stati aperti e le donne, i bambini e le persone più fragili sono riusciti ad uscire dall’acciaieria. Quello che però c’è ancora là dentro è difficile da capire perché nessuno è riuscito ad entrare, in quello che è stato sino ad oggi una sorta di buco nero di questa guerra. Quello che è certo è che comunque è al centro di una catastrofe umanitaria.

Fuga da Mariupol. Report Rai PUNTATA DEL 25/04/2022 di Luca Bertazzoni e Carlos Dias

Collaborazione di Giulia Sabella  

Gli inviati di Report in Ucraina sono arrivati a Zaporizhzhia, a 200km da Mariupol, la città martire della guerra in Ucraina.

Qui hanno incontrato le persone che sono riuscite a scappare dal centro abitato da mesi assediato e bombardato, ormai nelle mani dei russi. Un audio della Croce Rossa Internazionale e le testimonianze dei profughi raccontano le drammatiche condizioni di quel che resta della città che affaccia sul Mar d’Azov.

IN FUGA DA MARIUPOL Di Luca Bertazzoni Collaborazione Giulia Sabella Immagini Carlos Dias Montaggio Igor Ceselli

LUCA BERTAZZONI Stiamo seguendo questi soldati che ci stanno portando verso Malaya Rohan, un piccolo paesino appena liberato dall’occupazione dei russi. Siamo a soli 20 km da Kharkiv e qui si è combattuto per giorni. Tra i resti dei carri armati e blindati ci sono i corpi abbandonati e quasi mummificati dei soldati russi.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La strada principale di Malaya Rohan fa impressione, è deserta. Ma quando ci addentriamo nel paese, oltre ai cadaveri dei civili uccisi mentre provavano a scappare, troviamo queste donne che rivedono la luce del sole dopo settimane passate nel buio degli scantinati. E fanno i conti con quel che resta delle loro vite.

DONNA UNO Questi sono pezzi delle bombe russe, li abbiamo trovati ovunque: solo intorno a casa nostra ne sono cadute tre. Venite, vi faccio vedere dove è caduta la prima bomba. Perché hanno colpito proprio qui? In questo paese non c’erano soldati ucraini, c’eravamo solo noi.

DONNA DUE Ci hanno bombardato per settimane, in continuazione. La mia casa non esiste più, è solo un ammasso di macerie e vetri rotti. Una mattina sono entrati nel nostro rifugio e hanno portato via una ragazza, solo Dio sa cosa le hanno fatto. Non sono esseri umani, sono barbari.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Mentre alcuni paesi nei dintorni di Kharkiv vengono liberati dall’esercito ucraino, la città martire di questa guerra si chiama Mariupol, da mesi assediata e bombardata, ormai quasi completamente rasa al suolo e ora in mano ai russi. In questo audio Sasha Volkov del Comitato Internazionale della Croce Rossa racconta quali sono le condizioni dentro la città di Mariupol.

SASHA VOLKOV – COMITATO INTERNAZIONALE CROCE ROSSA Non ci sono né elettricità né gas. Non c’è modo di riscaldarsi e alcuni sono completamente senza acqua. Molte persone non hanno il cibo per i bambini. Tanti hanno urgente bisogno di medicine, specialmente per curare il cancro ed il diabete: ma non c’è più alcun modo di trovarle in città. Le persone hanno iniziato ad attaccarsi l’un l’altro per il cibo. Noi abbiamo viveri soltanto per pochi giorni.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Centomila abitanti sono ancora intrappolati in quel che resta della città. Oggi la Russia ha annunciato un cessate il fuoco e l’apertura di un corridoio umanitario per i civili bloccati nell’acciaieria. Ma fino ad oggi la Croce Rossa è riuscita con fatica ad entrare in città per recuperare i civili. Le persone che riescono a fuggire da Mariupol lo fanno con le proprie macchine o con i pochi autobus che l’esercito russo fa partire dalla città. E dopo 200 km arrivano a Zaporizhzhia.

LUCA BERTAZZONI Questi sono solo alcuni dei 45 autobus fermi qui a Zaporizhzhia, autobus che dovevano andare a Mariupol però non ci sono ancora le condizioni per andare a prendere i rifugiati lì a Mariupol. Non ci sono le condizioni di sicurezza. VOLONTARIA Io lavoravo per l’amministrazione comunale di Mariupol, per fortuna sono riuscita a scappare appena è scoppiata la guerra. Ora faccio la volontaria qui, voglio aiutare queste persone perché so cosa hanno passato.

RAGAZZA Ci abbiamo messo un giorno e mezzo per arrivare qui perché i russi non volevano farci passare. Ci hanno fermato in un villaggio e abbiamo trascorso la notte sul pullman: è stato molto difficile, i miei fratelli piangevano anche perché nostro padre non è riuscito a scappare con noi, è rimasto a Mariupol.

LUCA BERTAZZONI Stiamo entrando in un centro commerciale qui nella periferia di Zaporizhzhia e qui dentro adesso invece registrano i rifugiati che sono arrivati da Mariupol: questa è la situazione.

RESPONSABILE CENTRO ACCOGLIENZA In media accogliamo duemila persone al giorno. Arrivano qui in condizioni molto preoccupanti, hanno bisogno di cibo, di assistenza medica, ma soprattutto di un aiuto psicologico.

LUCA BERTAZZONI Perché ci sono tanti autobus fermi qua fuori?

RESPONSABILE CENTRO ACCOGLIENZA Noi siamo pronti ad andarli a prendere a Mariupol, ma spesso i russi bloccano i corridoi umanitari e i nostri autobus tornano vuoti.

LUCA BERTAZZONI Cosa hai visto in questo mese di guerra? DONNA TRE Noi siamo rimasti chiusi in cantina tutto il tempo, non vedevamo neanche la luce. A un certo punto abbiamo finito le scorte di cibo e di acqua. I russi hanno raso completamente al suolo il nostro quartiere, dopo molti tentativi sono riuscita a scappare con le mie bambine Angelina e Mariana. Ma ho altri quattro figli che sono rimasti bloccati lì, non ho più loro notizie. Spero che i soldati riusciranno a portarli da me.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Dopo l’arrivo al primo centro di accoglienza di Zaporizhzhia, le persone che scappano da Mariupol vengono accompagnate dai volontari nelle scuole della città, dove passeranno qualche notte prima di partire per l’Europa. La guerra è a soli 200 km, ancora troppo vicina per fermarsi. Fuori da una scuola di Zaporizhzhia incontriamo quest’uomo. È appena scappato da Mariupol e le ferite di quel che ha visto fanno ancora troppo male.

UOMO Non voglio essere filmato, i miei fratelli sono ancora dentro quell’inferno e ho paura che avranno ripercussioni. I russi non risparmiano nessuno, sono spietati.

LUCA BERTAZZONI Come sei scappato da Mariupol?

UOMO Sono rimasto intrappolato dentro la cantina per più di un mese, ho provato più volte a scappare ma i bombardamenti erano incessanti, non riuscivo a fare più di cento metri che dovevo tornare indietro. Quando abbiamo finito il cibo e l’acqua, mi sono fatto forza e ho rischiato perché ho capito che sarei comunque morto dentro la cantina. Sono arrivato ad un check point dell’esercito ucraino e ho supplicato i soldati di portarmi via di lì.

LUCA BERTAZZONI Come si comportavano i soldati russi con voi?

UOMO I primi russi che sono arrivati in città erano i cosiddetti gruppi di ricognizione, le truppe speciali, si comportavano da soldati veri. Poi però hanno lasciato a presidiare il territorio i volontari delle Repubbliche separatiste del Donbass e da quel momento è cambiato tutto. Se la prendevano con i civili, loro non sono veri soldati, sono animali. C’era un ragazzino di neanche 18 anni che stava riparando una finestra danneggiata dalle esplosioni, i russi hanno iniziato a sparargli contro, lui si è girato verso di loro chiedendogli perché si accanivano contro di lui. E loro lo hanno ucciso.

LUCA BERTAZZONI Quante persone hai visto morire?

UOMO Tante, troppe per poterle contare. Anche quando sono riuscito a scappare, sono stato costretto a fare zig-zag con la macchina fra corpi e macerie sparpagliati per la strada. Non so descriverti cosa ho provato in quel momento, Mariupol era la mia città, ora è un cumulo di macerie e morti.

ANZIANA Veniamo tutti da Mariupol. Abbiamo lasciato la nostra città distrutta e in fiamme. Ora prendo questo treno per Kiev, poi non so dove andrò, credo in Europa, il più lontano possibile da questo inferno.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Alla stazione di Zaporizhzhia risuona stancamente l’inno ucraino, ma nessuno fra chi parte e chi rimane sembra farci caso. Negli occhi delle persone fuggite dalle bombe di Mariupol c’è solo voglia di andar via.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Immaginiamo che sarà difficile per chi è riuscito a fuggire, tornare a Mariupol. Il 98% degli edifici è distrutto. I satelliti immortalano foto con le immagini tristi delle fosse comuni. Da qualche giorno Mariupol è in mano ai russi. La neo-vicesindaca appena eletta dai russi, nominata dai russi, ha annunciato per il 9 maggio una grande parata militare per celebrare l’anniversario della vittoria della Russia nella Seconda guerra mondiale contro i nazisti.

Gli ultimi di Kiev. Report Rai. PUNTATA DEL 04/04/2022 di Luca Bertazzoni

Collaborazione di Giulia Sabella 

Gli inviati di Report a Kiev, in Ucraina, per raccontare la guerra in corso, con gli sfollati che vivono sottoterra, negli scantinati dei palazzi della capitale.

Gli inviati di Report sono arrivati a Kiev, in Ucraina, per raccontare la guerra in corso. Nel loro viaggio hanno parlato con gli sfollati che vivono sottoterra, negli scantinati dei palazzi della capitale, per scampare ai bombardamenti, e con coloro che hanno visto le loro case distrutte. Mentre molti scappano, altri arrivano: sono circa 20mila le persone provenienti da 50 Paesi che si sono arruolate tra le fila dell'esercito ucraino per combattere contro i russi. Uno di questi soldati ha deciso di parlare con il nostro giornalista sul campo, per spiegare cosa lo ha spinto a prendere parte a una guerra così geograficamente distante dalla sua terra. 

GLI ULTIMI DI KIEV di Luca Bertazzoni Collaborazione di Giulia Sabella Immagini di Carlos Dias

LUCA BERTAZZONI Siamo nella periferia di Kiev e questo centro commerciale qualche giorno fa è stato bombardato e ridotto in queste condizioni, per fortuna ovviamente non c’era nessuno perché è tutto chiuso a Kiev e lì in fondo, vedete il fumo, si continua a combattere.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A Irpin, cittadina di 70 mila abitanti a nord ovest di Kiev la battaglia è stata casa per casa. Gli ucraini sono riusciti a respingere le forze russe che ritirandosi hanno compiuto un massacro fra i civili nella vicina Bucha.

LUCA BERTAZZONI Siamo a pochi chilometri da Irpin, e qui nel punto dove c’è la Croce Rossa, continuano ad arrivare persone che sono scappate perché il corridoio umanitario non c’è più e scappando hanno trovato i volontari che li hanno soccorsi e portati qui.

DONNA Grazie, grazie per averci portati via da quell’inferno. La nostra casa è stata completamente distrutta dalle bombe dei russi. Abbiamo vissuto un mese intero nella cantina, io, mia figlia e i miei due nipoti piccoli, senza acqua, senza elettricità. Abbiamo trovato la forza di scappare solo perché a un certo punto abbiamo capito che saremmo tutti morti di fame. Avevamo finito il cibo, erano giorni ormai che non mangiavamo niente. Quando siamo usciti dalla cantina, ho visto la mia città rasa al suolo. Non c’è più niente, non c’è più niente.

 UOMO Qui siamo nel pieno centro della città vecchia di Kiev, mi fa impressione vederla così. A quest’ora di solito non si riesce a camminare per strada, invece dopo poco più di un mese ci stiamo abituando a questo continuo suono delle sirene: ormai fa parte delle nostre vite. Tantissima gente è andata via da Kiev per paura di questa guerra atroce, il centro si è svuotato quasi completamente. E guarda le poche persone rimaste dove vivono.

LUCA BERTAZZONI Questi sono gli scantinati dove tantissime persone qui a Kiev si sono trasferite dall’inizio dei bombardamenti.

DONNA DUE Abito in un paese a 40 km da Kiev, ma sono scappata con i miei figli e con le mie sorelle appena i russi hanno iniziato a bombardare. E da ormai un mese questa cantina è diventata la mia casa. Guarda, ti faccio vedere la stanza.

LUCA BERTAZZONI In quante persone dormite qui?

DONNA DUE Siamo in dieci, la notte non si respira qui dentro. Ieri mi hanno chiamata per dirmi che i russi hanno completamente distrutto il mio appartamento. Mi sembra di vivere un incubo. Putin sta facendo soffrire un intero popolo, lo odio.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Di notte il centro di Kiev è spettrale ma non solo per il coprifuoco. Nei palazzi attorno a piazza Maidan non c’è una luce accesa. Chi se lo è potuto permettere è scappato dalla città ma se ci si allontana dal centro storico e si arriva nelle periferie la scena cambia completamente. La vita per gli ultimi di Kiev continua a scorrere accompagnata dal suono delle bombe.

LUCA BERTAZZONI Siamo a pochi chilometri da Irpin, dove c’è il fronte più caldo della battaglia, in questo quartiere residenziale alla periferia di Kiev hanno bombardato, vedete, questo è il cratere e hanno distrutto qui, queste macchine e i primi piani di questo palazzo. UOMO DUE Per fortuna quando hanno bombardato stavo cucinando in un’altra stanza, sono vivo per miracolo. Dopo l’esplosione non si vedeva più niente, c’era fumo ovunque, mi mancava l’aria e non riuscivo a respirare. Ho preso mia figlia e sono scappato via. Guarda, ti faccio vedere in che condizioni era ridotta casa mia quando siamo tornati il giorno dopo.

ANZIANO Mi hanno distrutto la casa che ho tirato su con anni di duro lavoro. Vogliono conquistare l’Ucraina? Vengano pure qui con i carri armati, ma devono sapere che noi lotteremo fino alla fine per il nostro paese.

LUCA BERTAZZONI Anche lei è pronto a combattere?

ANZIANO Sono vecchio, ma se i russi vengono qui io li ammazzo uno ad uno.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A combattere questa guerra non ci sono soltanto gli ucraini. Riusciamo ad entrare in un centro di reclutamento di volontari. Fra civili e soldati in un mese ne sono arrivati più di 20mila da oltre 50 Paesi.

CAPO SOLDATI VOLONTARI Questa è la stanza dove si presentano le persone che vogliono arruolarsi. Quei ragazzi stanno compilando la domanda di assunzione, se passano il colloquio entrano a far parte dell’esercito, chi come volontario, chi come combattente, a seconda delle caratteristiche. Io sono un insegnante, ma quando è scoppiata la guerra ho sentito il bisogno di riprendere le armi in mano. Ma come vedi non sono solo: questo ragazzo è arrivato dagli Stati Uniti.

VOLONTARIO AMERICANO Quando ho visto le prime immagini della guerra in Tv ho fatto lo zaino e sono partito con il primo volo. Non conoscevo nessuno, sono arrivato alla frontiera e ho usato il traduttore del cellulare per dire che mi volevo arruolare: mi hanno preso subito perché sono un ex marines.

LUCA BERTAZZONI Perché ha deciso di venire in Ucraina?

VOLONTARIO AMERICANO Questa aggressione mina la libertà non solo degli ucraini, ma di tutto il mondo. Se i governi non fanno nulla per fermare questa guerra, non significa che la gente non sia unita, i confini non sono altro che linee immaginarie.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Lasciamo Kiev e proviamo ad avvicinarci a Stoyanka, uno dei fronti più caldi della battaglia alle porte della città, ma ci troviamo in una terra di nessuno. Anche l’autostrada è stata colpita. Arriviamo in questo quartiere residenziale deserto perché in questa guerra le bombe non risparmiano i civili. Qui incontriamo un gruppo di soldati ucraini: vanno verso il fronte russo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Le guerre sono fatte da persone che si uccidono ma non si conoscono tra di loro per tutelare gli interessi di persone che si conoscono ma non si uccidono. Alla fine di questo conflitto ci chiederemo chi ha vinto? Probabilmente non avrà vinto nessuno. E chi ha perso? Ha perso sicuramente un popolo, hanno perso i più poveri, ha perso un territorio che rimarrà inquinato forse se va bene per decenni e che sarà comunque distrutto. A oggi si parla di 600 miliardi di dollari di danni, chi ricostruirà l’Ucraina e con quali soldi? Insomma, un conflitto che, come molti altri, non serve a nulla, se non a provocare migliaia di vittime innocenti, e alcune anche giovani creature dell’età di 18 anni che si son trovati a combattere tra di loro senza sapere il perché. Il conflitto è servito anche a provocare un esodo che non ha precedenti nella storia di Europa, se non dalla Seconda guerra mondiale, quattro milioni di profughi si sono rifugiati. Cercheremo, nella nostra serie, in questa serie di Report, di spiegare i motivi di questa guerra, che al di là delle dichiarazioni di facciata non è altro che un conflitto tra un progetto atlantico e uno euroasiatico. E partiremo nel nostro racconto dal confine, quello polacco, dove prima del nostro Danilo Procaccianti, si è recato anche un politico che sperava di trovare solidarietà in un sindaco di una città, un sindaco di un partito di destra, che prima della guerra la pensava come lui sui profughi. E oggi invece…

I resilienti di Mykolaiv. Report Rai PUNTATA DEL 18/04/2022 di Luca Bertazzoni

Collaborazione di Giulia Sabella

Gli inviati di Report in Ucraina sono arrivati Mykolaiv, città nel sud del Paese che ha subìto pesanti attacchi dai russi. ​​​​​​

Qui hanno incontrato gli abitanti del posto: persone che vivono grazie agli aiuti offerti dalla Croce Rossa, italiani che vi si sono trasferiti parecchi anni fa e ucraini che abitavano in Italia ma che sono tornati nella loro terra di origine per accudire i propri cari che non possono scappare. I nostri inviati hanno anche intervistato il sindaco della città, che ha raccontato loro cosa sta accadendo da quando è iniziata la guerra.

I RESILIENTI DI MYKOLAIV Di Luca Bertazzoni – Carlos Dias Immagini di Carlos Dias Collaborazione Giulia Sabella Montaggio Igor Ceselli

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Mentre l’esercito russo sta lentamente mollando la presa nel nord dell’Ucraina, i combattimenti continuano nel sud del Paese. Una delle città più colpite dalle bombe è Mykolaiv, che per la sua posizione strategica è considerata dai russi la porta principale per entrare a Odessa e occupare la costa che affaccia sul Mar Nero. Qui i bombardamenti hanno colpito solo obiettivi civili, come questo centro commerciale centrato poche ore prima del nostro arrivo in città. O come l’ospedale principale di Mykolaiv, ora evacuato dopo le bombe.

LUCA BERTAZZONI Le persone sono qui in fila al freddo e al gelo dalle 6 del mattino, hanno bisogno di cibo e di medicine.

DONNA Io tornata. Arrivata in Ucraina il 30 gennaio perché sapevo che deve già iniziare guerra. Io devo stare con i miei genitori, salvare miei genitori perché sono vecchi e pesante, non possono lasciare sua casa.

LUCA BERTAZZONI È difficile per lei?

DONNA È difficile, io sto adesso, mi è molto difficile di parlare, però Europa deve sapere che qua bisogna un aiuto, che qua guerra. Quando arrivati i russi nel paese dei miei genitori hanno rubato nelle case, hanno preso i vestiti, stanno violenze nelle donne e bambini.

LUCA BERTAZZONI Lei pensa che tornerà in Italia?

DONNA Certo che torno Italia. I miei amici italiani piangono, chiamano ogni giorno: “perché, perché non prendi i genitori”? Come posso io prendere, 86 anni? Loro hanno testa dura perché qua terra nostra.

LUCA BERTAZZONI E vogliono stare nella loro casa.

DONNA Vogliono stare qua. Ai miei amici, chi mi conosce: dovete sapere che io adesso sto, ho portati miei genitori, che mi bombardavano dietro la schiena, due volte andare a prendere, papà e mamma. Pregate per me, pregate per me, per i miei genitori. Vi prego.

 LUCA BERTAZZONI Forza

DONNA È molto difficile. Lo sai che è molto difficile.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Entriamo nella periferia quasi deserta di Mykolaiv. La Croce Rossa ha organizzato un servizio di consegna casa per casa per chi non può raggiungere il punto di distribuzione degli aiuti alimentari.

ANZIANA I soldati russi sono animali perché bombardano giorno e notte noi civili. Ci sono tante persone come me che non potrebbero sopravvivere senza questi aiuti che ci portano ogni giorno i volontari. Grazie, grazie, grazie veramente.

MAX VOLONTARIO Io avevo una società di informatica, ma da quando è scoppiata la guerra ho mollato tutto e sono diventato un volontario.

LUCA BERTAZZONI Perché hai fatto questa scelta?

MAX VOLONTARIO Per me vivere sotto i russi non è un’opzione, lì c’è un imperatore che ha deciso di combattere contro una nazione libera che aveva scelto come casa l’Europa. Noi e i russi non siamo la stessa cosa come dice Putin: noi possiamo andare dove vogliamo e dire quello che pensiamo, in Russia tutti i cittadini sono controllati. Noi siamo un popolo libero, loro no.

LUCA BERTAZZONI Che effetto ti fa vedere la tua città ridotta così?

MAX VOLONTARIO È frustrante, era una città verde, piena di gente e di colori. Ora è grigia, vuota, ferita: fa paura. Ma so che vinceremo e torneremo ad essere felici e liberi.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO E invece a Mykolaiv non si salvano nemmeno gli ospedali pediatrici. Un missile ha colpito un’ambulanza e un altro è caduto vicino a questa struttura, che nonostante tutto continua a funzionare.

LUCA BERTAZZONI Luca, piacere.

SALVATORE BARONE Le bombe sono arrivate là di fronte, dietro questa casa qua, la settimana scorsa. Io ero in terrazza. Ti faccio vedere giù dove andiamo noi, vedete. Andiamo sotto.

LUCA BERTAZZONI Quando ci sono le sirene?

SALVATORE BARONE Noi ci mettiamo qua sì, che dobbiamo fare? Le sirene ci sono due o tre volte al giorno e noi ci mettiamo qua sotto.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Salvatore Barone è un poliziotto in pensione che vive in Ucraina da quasi vent’anni.

SALVATORE BARONE E quando le bombe sono troppo forti noi andiamo di qua.

LUCA BERTAZZONI Perché non ha le finestre.

SALVATORE BARONE Qua è tutto, tutto cementato, noi ci mettiamo qua, ci mettiamo, qua vedi che mura che ci sono? Qua il muro è 80 centimetri. Ci sentiamo invasi perché la storia…

LUCA BERTAZZONI Lei parla come un ucraino ormai. Si sente ucraino più che italiano ormai?

SALVATORE BARONE Sì, dopo 17 anni siamo più ucraini che italiani. Questa è una vendetta di Putin, noi siamo russi per lui, ma noi neghiamo di essere russi: noi siamo ucraini. Questo fatto di essere additati come fratelli, questo, penso ora non avverrà più.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Come in tutto il Paese, anche a Mykolaiv i negozi sono chiusi. I pochi supermercati aperti sono continuamente presi di mira dalle bombe dell’esercito russo.

LUCA BERTAZZONI Siamo nel pieno centro di Mykolaiv e poche ore fa c’è stato un attacco dei russi che ha colpito questa pizzeria, questi negozi, una gioielleria, un alimentari e anche una farmacia.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO In questo bombardamento sono rimaste uccise quattro persone che si trovavano davanti alla fermata dell’autobus vicino ai negozi colpiti.

UOMO Guarda cosa mi hanno combinato. Questo è il regalo che ci hanno fatto i russi, hanno bombardato alle cinque del mattino, eravamo tutti in casa, ma per fortuna nessuno dormiva qui sopra.

LUCA BERTAZZONI La sua famiglia è ancora qui?

UOMO No, per fortuna sono riusciti ad andare in Polonia. Voglio ringraziare voi europei che state accogliendo il nostro popolo.

LUCA BERTAZZONI Perché non è andato via anche lei?

UOMO Perché questa è casa mia, anche se è ridotta in queste condizioni non mi sento di abbandonarla.

LUCA BERTAZZONI Siamo nel pieno centro di Mykolaiv, questo è quel che resta del palazzo del governo dove qualche giorno fa i russi hanno bombardato e sono morte 36 persone, più di 20 sono i feriti. Si è salvato per miracolo il governatore Kim ché è arrivato in ritardo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Da quando è scoppiata la guerra Olekandr Senkevych, il sindaco di Mykolaiv, va in giro con il suo kalashnikov.

OLEKANDR SENKEVYCH - SINDACO DI MYKOLAIV I russi stanno cercando noi sindaci per ucciderci o per rapirci, cerco solo di proteggermi.

LUCA BERTAZZONI È pronto ad usarlo?

OLEKANDR SENKEVYCH - SINDACO DI MYKOLAIV Certo, mi sto addestrando con il kalashnikov già dal 2014. I russi ci bombardano ogni giorno, solo ieri hanno ucciso dieci persone e parliamo solo di civili perché nelle aree dove bombardano non c’è nessuna installazione militare. In un paese qui vicino sono entrati all’interno di una scuola, volevano prendere uno scuolabus, il custode si è opposto e loro lo hanno ucciso. Poi hanno colpito una macchina della Croce Rossa: dentro c’erano donne che andavano ad occuparsi dei bambini di un orfanatrofio. Ne hanno uccise tre.

LUCA BERTAZZONI Che tipo di armi stanno usando i russi?

OLEKANDR SENKEVYCH - SINDACO DI MYKOLAIV Quando erano vicini alla città ci sparavano con l’artiglieria. Siamo riusciti a spingerli più lontani e ora sparano missili dalla regione di Kherson. Usano le munizioni a grappolo che sono vietate nelle zone urbane perché il missile che esplode in aria lascia ricadere a terra una serie di bombe, sono fatte apposta per uccidere il maggior numero di persone possibile.

LUCA BERTAZZONI Lei ritiene che quello dei russi sia un genocidio?

OLEKANDR SENKEVYCH - SINDACO DI MYKOLAIV Sì, senza alcun dubbio è in corso un genocidio del popolo ucraino. Quando Putin parla di combattere il nazismo intende dire che lui utilizzerà metodi nazisti. I suoi soldati entrano nelle case delle zone occupate e rubano telefonini, computer portatili, ma anche sneakers. C’è una telefonata di un soldato russo che chiama tutto contento la moglie a casa dicendole: “ho trovato la tua taglia di sneakers! È incredibile, qui in Ucraina ci sono delle cose pazzesche, sono veramente ricchi”. Loro invece sono barbari.

LUCA BERTAZZONI Che idea si è fatto di questa guerra?

OLEKANDR SENKEVYCH - SINDACO DI MYKOLAIV Ci sono solo tre modi per finire questa guerra: il primo è che Putin si uccida; il secondo è che qualcuno attorno a lui lo ammazzi e il terzo è che noi eliminiamo tutti i suoi soldati qui in Ucraina e allora lo costringiamo a fermarsi. Ma in quest’ultimo caso sono sicuro che Putin scatenerebbe una guerra nucleare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il problema di oggi, lo scriveva 70 anni fa Albert Einstein. E non è certo l’energia nucleare, ma il cuore dell'uomo. Mai come stasera vale la pena citare il fisico tedesco che riconosceva alla conoscenza delle qualità, tuttavia anche delle limitazioni e auspicava la liberazione dell’immaginazione perché grazie all’immaginazione che c’è il progresso, l’evoluzione dell’uomo.

I sopravvissuti di Kharkiv. Report Rai PUNTATA DEL 11/04/2022 di Luca Bertazzoni

Collaborazione di Giulia Sabella  

Gli inviati di Report in Ucraina sono arrivati a Kharkiv, la seconda città del paese.

Ad appena 40km dal confine, le bombe dei russi non hanno risparmiato niente e nessuno. Il mercato più grande della città è stato distrutto, così come molti altri obiettivi civili. Le telecamere di Report sono entrate nell'ospedale dove vengono curati i feriti di questa guerra. I nostri inviati hanno poi raggiunto la prima linea di combattimento, raccogliendo un video esclusivo che documenta lo scambio di artiglieria tra i militari ucraini e le batterie russe.

I SOPRAVVISSUTI DI KHARKIV di Luca Bertazzoni Collaborazione di Giulia Sabella Immagini di Carlos Dias

LUCA BERTAZZONI Siamo nella periferia di Kharkiv, la seconda città più importante dell’Ucraina e una delle più colpite perché siamo soltanto a 40 chilometri dalla Russia e ci stanno portando verso la frontline perché qui tantissimi paesini fuori dalla città sono stati presi dai russi. È lì che si combatte la battaglia.

SOLDATO UNO È da più di un mese che tentano di entrare in città ma non riescono a sfondare. Se riescono a prendere un paese, combattiamo per un po’ e poi li spingiamo indietro. Le nostre linee difensive stanno tenendo bene, sono sicuro che prima o poi molleranno la presa e torneranno in Russia.

SOLDATO DUE Putin deve capire che noi non li lasceremo mai entrare a Kharkiv, è la nostra città, la terra in cui siamo nati e in cui siamo disposti a morire combattendo contro il nemico invasore.

SOLDATO TRE Attenzione! Stanno arrivando i russi, si sono mossi i tank... I tank! Andate via subito!

SOLDATO QUATTRO Saliamo in macchina e allontaniamoci da qui, è troppo pericoloso!

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A Kharkiv le bombe dei russi non hanno risparmiato niente e nessuno. È stato completamente distrutto il mercato più grande della città. Sono stati colpiti negozi e supermercati. Tutti obiettivi civili. Questa scuola è stata occupata dai russi prima di essere teatro di uno scontro a fuoco durato giorni. Il centro storico è pieno di macerie. Kharkiv è una città da ricostruire completamente.

LUCA BERTAZZONI Qui siamo all’interno del palazzo del governo di Kharkiv che è stato colpito all’inizio del conflitto ed è in queste condizioni. Siamo nella periferia est di Kharkiv e abbiamo sentito due fortissime esplosioni e ci stiamo avvicinando verso quel fumo, lì in fondo.

ANZIANO Hanno distrutto tutto, bombardano ogni giorno!

LUCA BERTAZZONI Con l’aereo?

ANZIANO Sì. LUCA BERTAZZONI Stiamo camminando in una zona piena di palazzi bombardati dai russi e qui, come vedete, l’esercito ucraino ha piazzato i carri armati sia perché i russi sono vicini sia perché in questo quadrato ci si possono nascondere bene. Hanno colpito questo palazzo qui, ci sono ancora le fiamme, e anche laggiù c’è il fumo, c’è un’altra postazione degli ucraini.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Riusciamo a entrare nell’ospedale civile di Kharkiv. Quello militare è inaccessibile per i giornalisti: gli ucraini non vogliono far vedere alla stampa le loro perdite.

PAZIENTE UNO Stavo camminando per strada e ho incrociato un gruppo di soldati russi. Mi sono fermato immediatamente, ero come impietrito, non sapevo cosa fare. Senza dirmi niente mi hanno sparato tre colpi qui, nello stomaco. PAZIENTE DUE Ero in casa con mia moglie. A un certo punto ho sentito un’esplosione fortissima e poi non ricordo più nulla. Mi hanno detto che una bomba ha colpito l’appartamento accanto al mio.

PAZIENTE QUATTRO Ero per strada in bicicletta quando è esplosa una bomba a pochi metri da me. Sono caduto in terra e poi ho visto da lontano dei soldati russi che si avvicinavano, hanno iniziato a sparare. Io sono vivo grazie a quest’ascia. Sono un operaio, la portavo nello zaino e il proiettile si è conficcato qui.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Kirill Parkhomenko è il direttore generale del Kharkiv Regional Hospital. Da quando è iniziata la guerra non è mai tornato a casa. Dorme qui, nella sua stanza all’interno dell’ospedale.

LUCA BERTAZZONI C’è un dettaglio, un’immagine che lei ancora non riesce ancora a levarsi dalla testa?

KIRILL PARKHOMENKO – DIRETTORE GENERALE KHARKIV REGIONAL HOSPITAL Ecco, queste sono le schegge che ogni giorno leviamo dai corpi dei nostri pazienti. Le conservo un po’, poi le butto perché fa male vederle. L’ospedale è pieno, io stesso intervengo con le mie mani per aiutare i miei colleghi nelle operazioni. Ma a volte questo non basta a salvarli, muoiono sotto i nostri occhi e una parte di noi muore assieme a loro.

 LUCA BERTAZZONI Stiamo entrando nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale civile di Kharkiv.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Arriviamo a Pyatykhatky, un piccolo paese fantasma a ridosso della prima linea. L’atmosfera è spettrale. Sembra un posto completamente abbandonato e deserto ma a un certo punto vediamo un uomo entrare dentro un palazzo. Lo seguiamo e scopriamo che qui dentro c’è ancora vita.  

VALENTINE Guarda cosa hanno combinato i russi, ho perso tutto quello che avevo!

LUCA BERTAZZONI Perché non scappa da qui?

VALENTINE Perché questa è la mia casa, sono nato qui e morirò qui. Non ho più paura di niente.

LUCA BERTAZZONI Siamo proprio sottoterra. È assurdo in che condizioni sono.

SOLDATO Tutti pensano che il lavoro del soldato sia sempre sparare, combattere, tirare granate. Ma guarda qual è il vero impiego del soldato. Vedi quella collina in fondo? Lì ci sono i russi, è da tre settimane che combattiamo. Quello laggiù prima degli alberi è un tank russo, in linea d’aria siamo a un chilometro di distanza. Ogni giorno ci bombardano ma ogni tre missili che arrivano qui, ce ne sono sei o sette che colpiscono il villaggio qui sotto. Tutti devono sapere che i russi non sono guerrieri, sono animali che sparano ai civili.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Poco dopo essere andati via, il soldato ucraino Aleg ci invia i video di quello che sta succedendo al fronte. Finiamo poi in un’autostrada alle porte di Kharkiv, un’altra terra di nessuno dove si è combattuto ferocemente. Fra le macchine e i camion incendiati i soldati ucraini mostrano con orgoglio un carro armato preso all’esercito russo.

LUCA BERTAZZONI Si sentono ancora le bombe in lontananza, hanno colpito le macchine e lì ci sono cadaveri.

(ANSA il 3 aprile 2022) - "Manteniamo ancora Mariupol, ma il nemico ha preso piede in città. Siamo assediati, nessuna risorsa arriva qui ma possiamo resistere a lungo grazie alla nostra motivazione. I problemi principali sono le risorse umane e le armi anticarro". Lo ha dichiarato in un'intervista alla televisione polacca il capo di stato maggiore del reggimento Azov, Bogdan Krotevich, in merito all'assedio della città del sud dell'Ucraina.

Andrea Nicastro per il “Corriere della Sera” il 3 aprile 2022.  

La ragazza si muove veloce, precisa. Riempie il bicchierone di plastica con il brodo, lo mette con gli altri per non lasciare spazi vuoti. Intanto controlla che dal tavolo non manchino mai 5 piattini di riso e gulasch. Ha l'atteggiamento zelante di chi è alla sua prima ora di lavoro e invece è qui da una settimana. Ieri aveva una maglia nera con le braccia scoperte e i jeans grigi.

Chi stava servendo invece indossava minimo tre maglie più cappelli e giacconi. Loro sono i fuggiaschi da Mariupol, i dimenticati dal mondo, gli assediati, i bombardati, gli affamati col freddo nelle ossa. La ragazza si chiama Olga e si è caricata sulle spalle il senso di colpa di tutti noi. Se li guardasse negli occhi scoppierebbe a piangere e allora li serve. Veloce per schivare il magone. Da una settimana. 

Roxana Bogdanova, invece, è pediatra. Sta a pochi metri dalle minestre di Olga in una sorta di minuscolo ambulatorio. È lì per chi vuole una pastiglia, un consiglio. «Il loro corpo non riesce a produrre abbastanza calore. Hanno bronchiti e polmoniti. 

Un'enorme quantità di malattie della pelle. Un mese senza lavarsi lascia il segno. Di denutriti ne ho visti pochi, disidratati di più, ma io posso controllare solo l'involucro.

Hanno bevuto l'acqua dalle pozzanghere o, quando andava bene, dal fiume. Non so cos' è finito nei reni. E gli esplosivi che hanno respirato per settimane? Cosa faranno ai polmoni? E poi, li ha visti? Cos' hanno vissuto? Qui non serve lo psicologo, prima devono realizzare che sono vivi». 

I fuggiaschi di Mariupol sono le «ombre dolenti» di cui scriveva Irène Némirovsky.

Arrivano a Zaporizhzhia con il contagocce. Venerdì ne sono filtrati dal Mare d'Azov 6.200, di cui 3.071 da Mariupol. Sabato forse altrettanti. La Turchia sta proponendo di inviare una nave. Il porto di Mariupol sarebbe agibile ed è molto vicino all'area controllata dagli ucraini. Basterebbe un cessate il fuoco e, senza controlli, chiunque potrebbe imbarcarsi. 

Via terra, invece, il «corridoio umanitario» che la Croce Rossa sta cercando di aprire, per il momento, è solo una crepa nell'assedio russo. Visto che i pullman non arrivano, visto che le automobili funzionanti sono quasi finite, la gente scappa a piedi. «Abbiamo resistito 30 giorni. Nascosti nella botola della cantina, con la casa senza tetto. I vicini morti come la cagna colpita dalle schegge. Avevamo scorte per restare ancora - dice Ivan, padre di Ilona, 15 anni, e Milan 10 -, ma non ce la facevamo più mentalmente. Capivamo dal rumore dove sarebbero cadute le bombe. Mentre cucinavamo all'aperto, avevamo 6 secondi per nasconderci prima dell'esplosione».

Troppo. E allora via, a piedi, in mezzo alla battaglia. Per superare il fiume hanno strisciato sulle condutture del riscaldamento, per passare tra i cecchini hanno solo pregato. «Russi, ucraini, non so». Sulla strada i cadaveri di chi ha avuto un trattamento diverso. Da Mariupol a Berdnyansk sono 40 chilometri con decine di check point russi. Ogni volta Ivan è stato fatto spogliare e, ogni volta, senza tatuaggi sospetti, è sopravvissuto. Nella zona della città già sotto controllo russo, invece, ci sono bus che partono regolarmente verso la Russia. Basta iscriversi e si sale. Cosa succeda a destinazione non è chiaro. Kiev usa la parola «deportazione» e sostiene che agli sfollati vengano sottratti i documenti.

(ANSA il 2 aprile 2022) - Almeno 5.000 persone sono state uccise a Mariupol, città assediata dalle forze armate russe. Lo ha detto in un videomessaggio il presidente dell'Ucraina, Volodymyr Zelensky, citando le autorità locali come riporta il Guardian. Sono in corso trattative per la rimozione dei corpi dalle strade. 

Si stima - ha aggiunto - che "circa 170.000 persone stiano ancora lì ad affrontare la carenza di cibo, acqua e elettricità: la Croce Rossa ha affermato che una squadra diretta in città per un'evacuazione ha dovuto tornare indietro venerdì in quanto le condizioni hanno reso impossibile procedere, un altro tentativo verrà effettuato sabato".

Letizia Tortello per “la Stampa” il 2 aprile 2022.  

«Affinché l'operazione abbia successo, è fondamentale che le parti rispettino gli accordi e forniscano le condizioni e le garanzie di sicurezza necessarie». La Croce Rossa l'ha spiegato così, chiamando all'appello entrambe le parti in conflitto, indistintamente.

Non ci si può schierare a favore di nessuno, quando un corridoio umanitario fallisce. Doveva portare in salvo 2 mila civili dal martirio di Mariupol. Quarantacinque bus, più tre auto e nove membri del personale erano partiti da Berdyansk per svuotare col cucchiaino la città in cenere del Sudest, simbolo del più grande massacro della guerra. Decine di altre auto private dei cittadini avrebbero dovuto seguire il convoglio fuori dal centro portuale, con tutti i rischi di passare i check-point e diventare bersaglio della rappresaglia russa.  

La destinazione sarebbe dovuta essere Zaporizhzhia. I civili si erano radunati prima delle 10 del mattino, le regole erano state fatte filtrare da Mosca, in attesa del treno della salvezza. Una delle ultime opportunità di scappare da un luogo ancora popolato da 100 mila persone, in condizioni disumane: niente acqua, luce, riscaldamento, con le bombe e i colpi di mortaio che danno tregua solo qualche ora.

Ma l'operazione non è mai avvenuta. L'appello personale per un cessate il fuoco temporaneo l'avevano fatto i leader di Francia e Germania al presidente Putin. Non è servito a niente. Da qualche parte, e non ha importanza sapere chi sono stati i responsabili, si sparava. «Per gli abitanti di Mariupol il tempo sta scadendo - ha implorato Ewan Watson, portavoce del Croce Rossa a Ginevra -. Non esiste un piano B. Stiamo finendo gli aggettivi per descrivere gli orrori che hanno subito i residenti. La situazione è orrenda, si sta deteriorando». 

L'imperativo era anche di far arrivare gli aiuti per chi ancora resta. Nulla di fatto. Mancavano le condizioni di sicurezza, senza le quali la Cicr, che aveva avuto l'ok dai massimi livelli di entrambe gli schieramenti ma non sufficienti garanzie sui dettagli, ha preferito indietreggiare. Mentre tremila persone, secondo fonti ucraine, sono riuscite a scappare con bus e auto private.  

«Noi siamo dovuti tornare a Zaporizhzhia - dicono i vertici Cicr -, era impossibile procedere». Da settimane i corridoi umanitari vengono bloccati: annunciati e poi interrotti da minacce o spari, con reciproci scambi di responsabilità tra russi e ucraini. I civili restano ammassati con il fiato sospeso alle porte della città. La paura, il freddo e la fame li tengono in ostaggio da un tempo che sembra infinito. 

Ci si dovrà riprovare oggi, in quello che sembra uno stillicidio. Il governatore ucraino di Donetsk, Pavlo Kyrylenko ha incolpato la Russia di aver infranto le promesse. Ma c'è di più. «Le forze russe hanno confiscato 14 tonnellate di aiuti umanitari, cibo e medicine, dagli autobus diretti a Melitopol», a due ore da Mariupol. A sostenerlo è stata la ministra ucraina Iryna Vereshchuk.

Ha funzionato, invece, la fuga da Melitopol verso Zaporizhzhia, come ha scritto su Facebook il sindaco Ivan Fedorov. 

Cinquecento persone sono riuscite a uscire. Una goccia nel mare, ma la missione è andata in porto. Per Mariupol, per contro, ieri sono stati ancora un giorno e una notte di terrore e disperazione. La città è per il 90% distrutta. Sette ospedali, praticamente tutti, sono stati danneggiati, tre irrimediabilmente. A questi si aggiungono tre strutture sanitarie infantili, sette istituti superiori, 57 scuole e 70 asili nido. E ancora, numerose fabbriche e il porto. Per rimetterla in piedi, «serviranno almeno 10 miliardi di dollari», sentenzia il primo cittadino Vadym Boychenko. 

E assicura: «Una volta finita questa guerra, sarà la Russia a dover pagare. Non solo per la ricostruzione della città, ma per le enormi sofferenze inflitte ai nostri cittadini». «Lasciate uscire la gente! Prima che sia troppo tardi», è la preghiera della Croce Rossa, per oggi e per le prossime settimane. Circa 140.000 persone sono scappate da Mariupol prima che fosse circondata, 150.000 sono riuscite ad andarsene quando i russi stavano entrando, tra 30 mila e 45 mila (secondo Kiev) sono state deportate in Russia. Per chi resta, le speranze di sopravvivere sono sempre più flebili.  

(ANSA l'1 aprile 2022) - Un convoglio della Croce Rossa che trasportava aiuti umanitari e medici a Mariupol è bloccato a Zaporizhzhia perché le garanzie di sicurezza richieste per la squadra non sono ancora state ricevute. 

Lo sostiene l'inviato della Bbc. Altri autobus, più di 40, hanno viaggiato giovedì ma, secondo fonti ucraine, sono stati fermati nella città di Berdyansk, in territorio controllato dai russi. Secondo i rapporti, sostiene ancora Bbc, alcuni degli autobus sono stati depredati dai soldati russi di parte degli aiuti che trasportavano. Un piccolo numero di autobus è stato in grado di tornare autonomamente a Zaporizhzhia con civili a bordo.

(ANSA l'1 aprile 2022) - Ancora più di 100.000 civili intrappolati a Mariupol senza forniture mediche che non si riescono a consegnare da 36 giorni. 

Lo afferma Oleksii Iaremenko, vice ministro del governo ucraino, in un'intervista a Sky News, riportata dal Guardian. "In alcune regione i corridoi umanitari non funzionano. Apprezziamo tutto il sostegno internazionale dei paesi e delle organizzazioni che stanno portando aiuti umanitari. Ma abbiamo bisogno di più a causa del numero di attacchi", afferma.

(ANSA l'1 aprile 2022) - Quattordici tonnellate di cibo e medicinali destinati ai civili di Melitopol, a metà fra Mariupol e la Crimea, sono stati confiscati dalle forze russe. Lo afferma la vice premier ucraina, Iryna Vereshchuk, citata dal Kyiv Independent su Twitter e ripresa anche dalla Cnn. Gli aiuti, scrive Vereshchuck, erano stati trasportati da pullman, messi a disposizione per evacuare i civili verso Zaporizhzhia.

(ANSA l'1 aprile 2022) - Le forze russe si stanno ammassando nei pressi di Mariupol, secondo quanto ha dichiarato stanotte in un nuovo video il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, che ha parlato di situazione "estremamente difficile".

"Ci saranno battaglie e noi dobbiamo ancora percorrere un sentiero molto difficile per ottenere tutto ciò che vogliamo", ha commentato Zelensky, citato dalla Bbc. La Russia in serata ha dichiarato che domani sarà aperto un corridoio umanitario dalle 10 locali (le 9 italiane) per evacuare i civili dalla città martire.

Letizia Tortello per “La Stampa” l'1 aprile 2022.  

«Mariupol ha un governo, è pronta per l'istituzione di una nuova amministrazione locale». Il messaggio diramato ieri dal presidente dell'autoproclamata repubblica separatista del Donetsk e rimbalzato sull'agenzia russa Tass risuona come l'ultimo sadico colpo di grazia. 

Come la più malvagia delle offese alle migliaia di morti, «almeno 5000 i seppelliti» dicono le autorità, nella città più massacrata dalla guerra. Un cumulo di macerie, cadaveri, rovine e crateri causati dalle bombe avrà un nuovo sindaco. Che sovrintenderà su non si sa bene cosa. 

E chi. Visto che ieri dovevano finalmente partire le operazioni della Croce Rossa per l'evacuazione di altri civili (ne restano circa 100 mila intrappolati) con 45 bus. Mosca aveva annunciato un cessate il fuoco. 

E allora, i mezzi della salvezza sono partiti dalla città di Zaporizhzhia, a 220 chilometri, altri erano in attesa di autorizzazione al check-point russo di Vasylivka, ma sono stati bloccati dai soldati di Putin. La fuga sembrava sbarrata, poi Mosca ha concesso un alito di speranza per oggi. E intanto la Croce Rossa tenta anche di portare rifornimenti minimi - cibo, acqua, medicinali - a chi non se ne è ancora andato. 

«Decine di migliaia», spiega un'addetta dell'organizzazione internazionale in un video su Twitter, mentre su un convoglio cerca di raggiungere Mariupol. «Non condividiamo il numero esatto di volontari che stanno operando nella zona per motivi di sicurezza della squadra», spiegano ancora. Le strutture della Croce Rossa «sono state parzialmente danneggiate e i colleghi sono stati costretti a far uscire la popolazione che le occupava in autonomia».

Donne, bambini e anziani, per lo più. Mentre ieri un'altra informazione è stata diffusa alla Cnn dalla vicepremier ucraina e ministro dei Territori occupati e degli sfollati interni, Iryna Vereschuk, e cioè che «45 mila persone di Mariupol sono state deportate con la forza in Russia», anche se il media americano non ha potuto verificare la cifra.

Oggi si capirà se 1500-2000 persone riusciranno a lasciare il porto sul Mar d'Azov. Ma come, se ieri i bus hanno fatto così fatica a superare i check-point e la situazione si è sbloccata solo in serata. 

Il corridoio umanitario sembrava l'ennesima beffa. Nelle intenzioni del Cremlino, la comunicazione che sta per insediarsi una nuova amministrazione è un modo per rilanciare con spirito positivo l'operazione militare che in molte altre aree è impantanata.

Come dire: Mariupol è nostra. 

È il chiaro segnale della volontà di «russificare» un'area abitata dai russofoni da sempre. La morsa sul centro più massacrato di tutti non verrà, probabilmente, mai allentata finché il Battaglione Azov non dichiarerà la resa. Mariupol continuerà a morire di fame, disidratazione e sfinimento, sotto le bombe. 

Il vicecomandante dei nazionalisti ucraini, soprannome «Kalina», sarebbe stato ucciso ieri dai soldati di Putin mentre viaggiava su un elicottero abbattuto, almeno così riferiscono gli indipendentisti. Kiev non conferma. 

In città si continua a combattere senza sosta. La sponda sinistra del fiume Kalmius è la più devastata, anche in termini di perdite civili. «Mamma, per favore mamma! Voglio vivere! Non voglio morire!», diceva Cyril, il figlio di Nadiia Sukhorukova, giornalista 50enne sfollata il 18 marzo. 

Non aveva più un posto dove dormire e stare al sicuro. «Avevo visto una donna con braccia, gambe e testa dilaniate - racconta al Guardian -. Ero sicura che sarei morta presto. Era questione di giorni. In città, tutti aspettano costantemente la morte. Volevo solo che non fosse così spaventosa». 

I suoi bambini erano così spaventati «che non mangiavano quasi più nulla. Solo dolci e biscotti, regalati un giorno da un passante li hanno convinti a nutrirsi, come se avessero trovato un tesoro. «Continuo a ripetermi che non sono più all'inferno - spiega, ora che è in salvo -, ma sento ancora gli aerei rombare, sussulto a qualsiasi suono forte e chiudo la testa nelle spalle come reazione incondizionata». 

 È la distruzione della gente di Mariupol, che resterà dentro per sempre. Negli adulti, che sono in grado di rendersene conto, come nei bambini. Tra gli ucraini scappati, ci sono i bimbi che sono stati trasportati in un centro divertimenti di Dnipro. 

Li ha intervistati la Cnn, i loro sguardi sono persi nel vuoto, gli occhi spalancati e funerei come se avessero fotografato la morte e la paura della morte ad ogni istante: «La nostra era una città bellissima, con tanti fiori, erba e cascate», dichiara Veronika, 7 anni. Dasha le fa eco: «Voglio dire che un bimbo piccolo capisce tutto». Comprese le bombe in testa. «Anche se non può parlare - conclude la piccola, rannicchiata sulla sedia come se fosse ancora nascosta nel bunker - perché è troppo piccolo». 

Il sindaco di Mariupol Vadym Boichenko: «Resisteremo fino all’ultima goccia di sangue». Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 2 Aprile 2022.

Parla il primo cittadino da un luogo segreto: «Le deportazioni? Ci sono: di notte i russi entrano nei rifugi, promettono l’evacuazione, poi ti trasportano in campi speciali e separano i figli dai genitori». 

Ogni parola è seguita da una piccola eco, segno che Vadym Boichenko, 44 anni, sindaco di Mariupol , è nascosto in un luogo sotterraneo. Dallo schermo vediamo solo una parete color crema con appuntata una bandiera blu e gialla. «Non sono più a Mariupol — racconta — sono a qualche chilometro da lì». È tornato in città un paio di volte ma l’esercito gli ha consigliato di stare lontano: «Dicono che servo più da vivo che da morto». Dal suo bunker segue l’evacuazione degli ultimi 130 mila abitanti rimasti intrappolati nella città simbolo della devastazione russa. Per tutta la giornata si è detto che le operazioni erano già cominciate, ma lui smentisce: «È un gioco molto cinico quello di Putin».

Cioè?

«Nessun autobus ha raggiunto Mariupol. Ci promettono il cessate il fuoco per creare corridoi umanitari ma poi non lo rispettano. Chi ce la fa raggiunge come può Zaporizhzhia, che è a tre ore di macchina. Ma è una scelta pericolosa». 

Chi è rimasto a Mariupol?

«Ci sono ancora molti anziani in trappola ed evacuare la popolazione è la cosa più importante. Spero che la comunità internazionale ci aiuti. La mia gente vive da più di un mese senza corrente, cibo, acqua e medicine. Non ci sono linee telefoniche, non c’è Internet. Mariupol è una gabbia a cielo aperto, bombardata ogni giorno».

Dal Donbass c’è stato l’annuncio che a Mariupol si è insediata una nuova amministrazione filorussa.

«Solo propaganda. Oggi la città è 50% in mano ai russi e 50% sotto il nostro controllo. Noi abbiamo il centro e la zona est». Per quanto tempo riuscirete a resistere? «Resisteremo fino all’ultima goccia di sangue». 

Abbiamo letto che alcuni cittadini di Mariupol sono stati deportati in Russia. Come? «Succede così: di notte i militari vanno nei rifugi e dicono che c’è un’evacuazione. Le persone, stremate, ci credono, salgono sugli autobus e vengono portate nelle zone sotto il loro controllo e in alcuni casi in Russia». 

E poi?

«Prendono le impronte digitali e sequestrano i documenti. Separano le famiglie, portano via i bambini. Sono criminali». 

Quante persone sono morte a Mariupol?

«Le statistiche ufficiali al 21 marzo dicono 5 mila, ma sono molte di più». Che ne è stato della gente nel teatro bombardato? «Trecento i morti, gli altri sono scappati. Tra loro c’erano anche mia madre e mio fratello con la sua famiglia che per fortuna si sono salvati. Non potremo mai perdonare quello che ci hanno fatto». 

I russi considerano Mariupol la base del battaglione Azov, accusato di simpatie naziste.

«Questa è propaganda». 

Però non si possono negare le simbologie naziste e la presenza di esponenti vicini all’estrema destra.

«Non è vero, Azov è solo una delle unità della Guardia nazionale, ed è anche grazie a loro che Mariupol sta resistendo. Il comandante del reggimento ha persino ricevuto un premio dal presidente». 

Parla con Zelensky?

«Poco, è molto impegnato. Parlo con gli altri sindaci». 

Alcuni sono stati rapiti. Teme per la sua incolumità?

«No. I russi mi chiamano “patetico criminale”, mi accusano di aver fatto saltare in aria un asilo nido, due scuole, un teatro e un ospedale dove nascono bambini. Assurdo, avrei distrutto tutto ciò che ho costruito nei miei anni di mandato». 

C’è chi vi chiama eroi, ma davvero lei non ha mai paura?

«Resisto. Ma di notte non dormo e a volte piango. Quando ricevi notizie che i tuoi vicini di casa sono morti, è impossibile chiudere occhio». 

Quanti russofoni vivevano in città?

«A Mariupol il 50 percento ha origini russe. Anche mia nonna lo è. Oggi, l’esercito le ha bombardato casa, lei non si spiega come sia possibile. Molti di loro hanno cambiato idea su Putin». 

Ossia?

«Hanno capito che la sua operazione speciale per liberare il Donbass coincide con la distruzione dell’Ucraina e il genocidio del nostro popolo. Putin ha fatto una cosa buona: con la presa della Crimea ci ha reso una nazione unita». 

Che cosa è rimasto di Mariupol?

«Quasi niente. Il 90 per cento della città è distrutto, e il 40 non potrà più essere ricostruito. Ci vorranno decenni per ricominciare». 

Che città era?

«Sono sindaco dal 2015. Era diventata una moderna città europea, nel 2021 abbiamo anche ricevuto un importante premio nazionale». 

Dove si trova la sua famiglia?

«Mia moglie e mia figlia sono in una località segreta in Ucraina. Mio figlio combatte nel Donbass». 

Che cosa le dicono?

«Mia moglie ha paura per noi. È molto triste perché casa nostra è stata bombardata: non abbiamo più niente».

Francesco Battistini per il “Corriere della Sera” il 27 marzo 2022.

Non bastano gli scantinati. E nemmeno le fogne. Appena fuori Soledar, in via Oktyabrskaya 11, c'è un corridoio stretto scavato nella roccia che va molto più giù. «La miniera di sale è sempre stata la nostra salvezza», racconta il sindaco del villaggio. 

Salvava dagli anni nazisti, ha salvato in quest'ottennio di guerra del Donbass e anche adesso, quando cominciano i mortai russi, i 10 mila abitanti di Soledar sanno il daffarsi: buttarsi nelle viscere della vecchia miniera, 300 metri sotto, dove nessuna termobarica di Putin può arrivare.

Benedetta miniera: sull'ingresso c'è anche uno gnomo portafortuna, fatto di sale, e ai tempi belli della pace gli si dava una leccatina, prima di calarsi giù. Non c'è molto altro per proteggersi, nel Donbass. Più che al «controllo» e alla sua «completa liberazione», come hanno ripetuto sabato, i russi si stanno dedicando con cura alla sua distruzione. 

Spostano dalla Siria e dalla Libia i mercenari Wagner. Deportano più di 400 mila persone: perché se ne andassero, l'autunno scorso Putin aveva donato 700 mila passaporti ai «fratelli» del Donbass, praticamente uno per famiglia, ma evidentemente s' è dovuto convincerli in altro modo.

Il corridoio

L'avanzata sembra procedere e gli stessi ucraini ammettono che il nemico è riuscito a crearsi un piccolo corridoio fra Donetsk e la Crimea. Su Kharkiv si sono contati in un solo giorno 44 tiri d'artiglieria pesante e 140 razzi, fa i conti il sindaco Ihor Terekhov.

I palazzi distrutti sono 1.143: per miracolo, è rimasto in piedi il grattacielo sovietico Derjprom, un pezzo di nostalgia che i generali putiniani non si son sentiti di colpire. Pare non ci sia stato lo stesso riguardo per Ploshcha Krasna, la Piazza Rossa di Chernihiv, che non si chiama così in omaggio al cuore di Mosca (in slavo antico, il significato era Piazza Bella) e ora, dice il governo ucraino, «sta al centro d'una città completamente distrutta». 

Anche Izyum, la dolce cittadina dell'uva passa e delle fragole, raccontano sia rasa al suolo: i suoi 50 mila abitanti, che una volta aprivano la porta del Donbass sulla strada verso Donetsk e Lugansk, sono in gran parte scappati senza il tempo di chiudere l'uscio.

Le mine

Chi rompe, dovrà pagare. E carissimo. Solo nel 2019, praticamente un secolo fa, l'ong inglese Halo trust certificava che poche zone al mondo fossero infestate di mine e residuati bellici come il Donbass: bisognerà aspettare fino al 2080, dissero allora, per bonificare tutto. 

Un gruppo d'economisti austriaci calcolò anche i costi della distruzione: per ricostruire la regione, sarebbero serviti quasi 22 miliardi di dollari, il 16% del pil ucraino prima dell’invasione.

L'uomo più ricco

Oggi? Tutto il bacino del Donec è un concentrato di fumanti colossi industriali e di miniere sotto casa. Ma nessuno sa che fumo s'alzerà, dopo la guerra. L'uomo più ricco della regione e dell'Ucraina, Rinat Ahkmetov, patron calcistico dello Shaktar, in un mese s'è visto dimezzare il patrimonio personale: Donetsk era la sua città, e Ahkmetov ne finanziava i gioielli, la Donbass Arena e la splendente, nuovissima stazione ferroviaria in stile russo…

Altra domanda: che ne sarà della grande risorsa, il carbone? A Donetsk il minerale nero è sempre stato un orgoglio e la furia bellica ha spazzato via perfino i terikony, semplici e romantiche montagnole di scorie in mezzo alla città, attrazione turistica che cambiava colore a seconda dell'ora e della stagione. 

L'industria è in crisi: già prima dell'invasione, il carbone veniva estratto con percentuali troppo alte di zolfo e doveva essere mischiato con quello russo, finendo per esserne un sottoprodotto. 

La culla

Il Donbass che Putin vuole, fortissimamente vuole, non è solo il tesoro delle acciaierie e degli oligarchi legati a Mosca. È anche la culla d'una Chiesa ortodossa fedele alla Russia, dalla quale s' è staccata la Chiesa ucraina. È dove la secessione armata s'è giocata anche sulla lingua, perché qui nessuno ha mai voluto rinunciare al russo (anche se nessuno ora vuole più stare sotto Putin).

Non c'è più tempo e forza d'indignarsi, visitando il museo di Poltava, se le didascalie che parlano di Pietro il Grande evitano, accuratamente, di citare la Russia. Il frigorifero È sempre stato un rapporto complicato, quello con la Grande Madre. 

A 50 chilometri dal confine, sull'immensa piazza di Kharkiv che dicono sia seconda solo alla Tienanmen, gli amici di Mosca s'esaltavano per il gigantesco monumento in granito dei cinque eroi sovietici, raffigurati mentre andavano a combattere con un cesto d'armi? I kharkivi ci ridevano sopra, lo chiamavano «i cinque uomini che trasportano un frigorifero». Ma erano altri tempi e s'usavano ancora altre armi, allora: quelle dell'ironia.

Da rainews.it il 25 marzo 2022.

"Alcuni testimoni hanno informazioni secondo le quali circa 300 persone sono morte nel teatro di prosa di Mariupol in seguito al bombardamento dell'aviazione russa" dello scorso 16 marzo. Lo scrive su Telegram il sindaco Vadym Boichenko. "Fino alla fine, non vogliamo credere a questo orrore. Fino alla fine vogliamo credere che tutti siano salvi, Ma le testimonianze di quelli che si trovano all'interno dell'edificio nel momento in cui c'è stato questo atto terroristico dicono il contrario", aggiunge. 

La città portuale sul Mare d'Azov è sotto assedio dai primi giorni di guerra ed è ormai pressoché ridotta in macerie. Migliaia di civili sono ancora intrappolati nelle cantine degli edifici, a corto di cibo, acqua, energia elettrica. “Sempre più morti per fame. Sempre più persone rimangono senza scorte di cibo”, affermano le autorità cittadine. Nella giornata di oggi è previsto un corridoio umanitario verso la città di Zaporizhia, controllata dal governo ucraino: nella maggior parte dei casi tuttavia, finora, i tentativi di evacuazione non sono andati a buon fine.

I combattimenti vedono impiegati sui fronti opposti il battaglione Azov delle forze armate Ucraine, pervaso di ideologia di estrema destra, e la Guardia nazionale cecena: le une e le altre sono probabilmente le unità con maggiore preparazione militare e motivazione attive nel conflitto. Ieri il presidente della Repubblica russa di Cecenia Ramzan Kadyrov ha annunciato la presa del municipio di Mariupol, ma non ci sono conferme, mentre oggi sarebbe stata aperta una sede del partito Russia Unita: "Secondo i residenti di Mariupol che rimangono in città, il quartier generale distribuisce giornali di partito, fa campagna per la Russia ed emette carte dell'operatore mobile Phoenix, che opera nella Donetsk occupata dal 2014", fa sapere il consiglio comunale filo-Kiev. 

Ieri la televisione di Stato russa ha mostrato per la prima volta le immagini della città distrutta, ma ha accusato le “forze nazionaliste ucraine” di aver “cercato di radere tutto al suolo” durante “la loro ritirata”. L'ambasciatore russo in Italia Sergey Razov oggi ha affermato che a Mariupol sarebbero stati colpiti solo obiettivi militari e invitato a “sentire le due parti e non solo i messaggi propagandistici” ucraini.

Il vuoto che lasciano le bombe. Paolo Di Paolo su La Repubblica il 24 marzo 2022.  

Un aspetto dell’ultima guerra mondiale che colpì lo scrittore tedesco W.G. Sebald ha a che fare con le rare e sporadiche testimonianze sui bombardamenti. Una sorta di imprevedibile rimosso, un imbarazzo profondo, quasi un senso di vergogna ha occultato la devastazione delle città europee, e in particolare le oltre cento città tedesche attaccate (con la conseguenza spaventosa di seicentomila morti fra i civili e sette milioni di senzatetto). Sebald la chiama "storia naturale della distruzione", e ne cerca tracce anche in romanzi meno conosciuti. Resta qualcosa come una "malinconia insanabile" di fronte non solo alle storie delle vittime, ma anche alla lacerazione dei luoghi. Stravolti, irriconoscibili, destinati a non tornare mai più come erano. Le rovine restano in qualche modo rovine. L’esistenza urbana - nel modo in cui si è radicata, consolidata, cristallizzata - in questa o quella città è sostanzialmente cancellata. In questa immagine, la carcassa dell’auto in primo piano, i detriti, le lamiere, le pareti sventrate dicono di una distruzione in atto, ma anche della cicatrice immane che sarà visibile nello spazio. Quando si parlerà di ricostruzione, si saprà di partire da un vuoto.

Michela Allegri per il Messaggero il 23 marzo 2022.

Le bombe continuano a cadere, anche se praticamente Mariupol non c'è più. L'ottanta per cento della città è distrutto: palazzi e scuole, ospedali, teatri, piazze. Restano solo macerie incandescenti mentre i carri armati continuano a sparare nelle strade deserte. La conquista è fondamentale per l'avanzata di Mosca, che punta ad avere il controllo della costa del Mar d'Azov e a creare un ponte tra la Crimea e la Russia.

Venti giorni di bombe non hanno piegato chi tra quelle strade raccoglie i ricordi di una vita. In tanti sono fuggiti, ma più di 200mila persone sono intrappolate in quello che descrivono come «un inferno gelido». Non c'è cibo, non c'è elettricità, non c'è il riscaldamento, comunicare con l'esterno è diventato quasi impossibile. I morti sono stati ammassati nelle fosse comuni, oppure sepolti in quello che resta dei giardini, sfidando i missili e le bombe.

«Dima, mamma è caduta il 9 marzo. Veloce, quasi senza accorgersene», si legge in un bigliettino indirizzato a Dimitry e scritto dal fratello, che ha indicato nome e cognome numero di telefono, indirizzo, numero di appartamento. Stava fuggendo dalla città e voleva essere sicuro che le sue parole arrivassero a destinazione: «La casa è stata distrutta, bruciata. Dima, scusami per non aver salvato la mamma! L'ho sepolta nel cortile dell'asilo». Per farlo, ha rischiato, scavando nel terreno gelato - «profondità due metri» - mentre i proiettili attraversavano l'aria. Nel bigliettino è disegnata anche una mappa.

A Mariupol ogni cosa è cambiata, ogni famiglia è distrutta. «Qui c'è la casa dove sono nato, quello che ne rimane. La normalità non tornerà più. Non sento i miei genitori da due settimane e nessuno sa cosa stia succedendo - racconta Oleg Klimenko, che abita vicino a Kharkiv - Mariupol verrà completamente distrutta». Chi è rimasto, è intrappolato «in un Hunger Game», un gioco al massacro, prosegue Klimenko.

Anche la casa di Alevtina Scevtsova, poco distante dal teatro bombardato dai russi, non esiste più. L'intero centro della città portuale sul Mar Nero si è sgretolato sotto le esplosioni. Alevtina è riuscita a scappare e con la sua bambina di 8 anni. Si trova a Kryvyi Rig, non lontano da Dnipro. «Quando è iniziato l'assedio, era il compleanno di mio fratello - racconta - volevamo festeggiare, mio marito ha detto che la Russia aveva attaccato». L'escalation è stata terrificante, «l'8 marzo sono saltate le finestre. Dormivamo nel corridoio, vestiti».

 Poi sono arrivati i razzi, i missili, le bombe sull'ospedale pediatrico, l'attacco aereo al teatro, le esplosioni che hanno distrutto la scuola d'arte dove erano nascosti in 400. Anche Natalia Hayetska è riuscita a fuggire insieme ai genitori, anziani. «Eravamo senza acqua ed elettricità. Le persone coprivano i cadaveri con coperte. Altri scavavano fosse nei cortili, sapendo che nessuno sarebbe andato a dare a quei corpi una vera sepoltura», ricorda.

La madre Halyna Zhelezniak, 84 anni, è sconvolta: «È la prima volta nella mia vita che provo tanto orrore». E il marito Ihor aggiunge: «Non credo riuscirò a rivedere Mariupol com' era. Non vivrò abbastanza». I loro racconti sono simili a quelli di molti altri testimoni scappati dalla guerra, che hanno ancora negli occhi case, strade e palazzi rasi al suolo. Ieri 5.926 persone hanno lasciato la città con i propri mezzi e hanno raggiunto Zaporizhzhia.

«Mariupol non esiste più - commenta Victoria, 27 anni - Tre bambini che conoscevo sono morti per disidratazione. Nella mia città. Nel XXI secolo. La gente sta morendo di fame». Di atrocità in atrocità, i racconti si susseguono. Memorie di roghi in strada, scontri a fuoco, cadaveri esposti nelle vie. Perfino interventi chirurgici eseguiti con coltelli da cucina e oggetti trovati in casa. Viktoria Totsen, 39 anni, fuggita in Polonia, ricorda: «Gli aerei volavano sopra le nostre teste ogni cinque secondi e lanciavano bombe ovunque».

 Il marito Oleksii Kazantsev racconta: «Quando eravamo nel nostro palazzo, nello scantinato, ci sembrava che ci colpissero continuamente e cercavamo di capire perché la nostra casa fosse un obiettivo. Quando siamo usciti, ci siamo resi conto che la stessa cosa era successa in tutta la città. Avevano lanciato bombe su ogni palazzo, senza distinzione».

Domenica il colonnello generale Mikhail Mizintsev, direttore del centro di gestione della difesa nazionale di Mosca, aveva invitato gli abitanti della città portuale ad arrendersi in cambio dell'incolumità. Un'offerta che è stata rifiutata. «Il colonnello Mizintsev, che in precedenza aveva guidato l'operazione militare russa in Siria, è personalmente responsabile dell'assedio», ha detto su Twitter il portavoce dell'amministrazione militare regionale di Odessa, Sergey Bratchuk.

Marta Serafini per il “Corriere della Sera” il 23 marzo 2022.

«Non ci parliamo dal 24 di febbraio. Siete il nemico, mi ha detto, nell'ultimo messaggio». Soffre Odessa e non solo per i colpi che arrivano dal mare. «Che qui sorga una città e un porto», recita la scritta sotto la statua della zarina Caterina II che indica con la mano sinistra verso lo specchio blu del Mar Nero, ora ricoperta dai sacchi di sabbia. 

Correva l'anno 1794 e i russi avanzavano verso occidente. Embrione di quella «grande Russia» che sarebbe stata l'Unione Sovietica. Pochi passi più in là celebre scalinata immortalata da Ejzenstejn ne La corazzata Potemkin è deserta mentre suonano le sirene.

Ha sempre parlato russo Odessa, otto abitanti su dieci. «Oggi però vorrei strapparmi i denti dalla bocca per non doverlo più fare», dice Sergej, davanti all'edicola. Ora è Odesa, con una «s» sola, come la chiamano gli ucraini. 

Tatiana e Piotr camminano vicino all'Opera. Pensionati, si tengono per mano mentre il sole del mattino scalda il metallo dei cavalli di Frisia. «Mia cugina vive a Rostov. Dopo che Putin ci ha invaso ha deciso di interrompere ogni rapporto con noi. Ma non importa. Che siano maledetti tutti quanti loro». Strappi, odi.

La casa dei Sindacati

Ora è tutto tranquillo vicino a quella che fu la Casa dei Sindacati, data alle fiamme nel maggio 2014 dai nazionalisti ucraini. Ma quelle mura che rimasero lì annerite a ricordare il massacro sono una ferita che ancora sanguina in una città solitamente pacifica e dove, fino ad allora, avevano convissuto tutti: russi, ucraini, ebrei, armeni, bulgari, italiani. 

Poi, quando il governo filorusso venne sostituito con uno filoeuropeo, militanti comunisti, filo Putin, e separatisti vari si accamparono nell'edificio per protesta: in 48 trovarono la morte, carbonizzati mentre i gruppi neo-nazisti impedivano l'arrivo dei soccorsi.

Il vento che cambia

Cambia il vento a Odessa. Il sindaco Gennadiy Trukhanov fino al 2017 aveva un passaporto russo ed era visto con sospetto dai filo-ucraini. Nelle scorse settimane i suoi video su Facebook hanno espresso lo sgomento di una città intera. «Odessa è sempre stata una città di pace. Un porto dove fare affari, non un luogo in cui morire».

Barats, 73 anni, è uno dei custodi dell'Odessa World Wide Club. Un circolo culturale fondato nel 1990 che riunisce gli abitanti della città sparsi in tutto il mondo: Mosca, San Pietroburgo, New York, Parigi e giù fino all'Australia, come indica la cartina appesa nella sala conferenze del centro. 

«Mio figlio vive in Russia, è un attore famoso. E in un discorso pubblico ha supplicato i russi, non ammazzate la mia gente. Quando si è trasferito all'estero per studiare ero felice ma chissà ora, forse non potrò vederlo ma più». 

Si spegne il sorriso degli occhi azzurri di Barats mentre racconta. Famiglie divise, dilaniate da una guerra che qui nessuno si aspettava. La tv ora trasmette per lo più in ucraino. Un affronto per i russofoni di Odessa. «Volete entrare nell'Unione Europea e non tutelate noi che siamo la minoranza più forte?», dicevano fino a qualche settimana fa.

Ma ora per le strade della regina del Mar Nero nessuno osa più affrontare l'argomento. Ora è maledetta Russia. «I russi sono sempre venuti a Odessa. Hanno sempre sentito solo calore a Odessa. Solo sincerità. E adesso? Bombe contro Odessa? Artiglieria contro Odessa? Missili contro Odessa?». 

La contraerea romba in cielo mentre dalle navi russe salpate da Sebastopoli partono i colpi. «Lo senti questo rumore? È Putin che si vuole vendicare, dice che ci vuole denazificare, è a noi che si riferisce. Ma sta commettendo un crimine. Qui i russi ci sono sempre venuti. Ma in vacanza».

Le mine in spiaggia

In realtà per lo Zar prendere Odessa vorrebbe dire garantire la contiguità territoriale con la Crimea. Ma il tempo è dalla parte della perla del Mar Nero: in questo mese la resistenza di Mariupol e Mykolayiv, a est, ha permesso alla città di mettere da parte armi, cibo, medicine e di diventare «una fortezza inespugnabile».

Giù alla spiaggia il vento soffia forte e solleva la sabbia delle trincee. Ivan, tenente di Marina, si avvicina alle fortificazioni. Poco più in là, le cabine di legno di quello che era uno stabilimento balneare. «Ora qui ci sono le mine, state attenti dove mettete i piedi». 

La settimana scorsa proprio vicino alle fortificazioni hanno arrestato 12 sabotatori filo russi. «Gente che vive qua, due erano ubriachi, uno lo abbiamo ammazzato perché non aveva risposto all'altolà. Ma gli altri li abbiamo portati al fresco», racconta.

Poi tira fuori il telefono. Mostra delle vecchie foto. «Ho combattuto in Cecenia, io. Ho visto l'orrore. Non dimenticherò. E non servirò mai più al loro fianco. Ora li aspetto qui sulla spiaggia».

Cristiana Mangani per “Il Messaggero” il 22 marzo 2022.

I cadaveri sui balconi, i palazzi anneriti e distrutti, le vie di uscita bloccate. Tutto sa di morte a Mariupol, come Guernica, Aleppo, Leningrado. Nadezda Sukhorukova è riuscita a fuggire dalla città martire, ma nei giorni di bombardamenti e dolore ha scritto il suo diario di guerra, il racconto tragico del suo paese e di una popolazione annientati.

La storia di questa giovane donna ucraina pubblicata sulla sua pagina Facebook, è stata rilanciata su Twitter da Anastasiia Lapatina, giornalista del Kiev Indipendent. Nessuna speranza di salvezza nelle sue parole. «In questa città - scrive - tutti aspettano la morte. Sono sicura che morirò presto, è questione di giorni, ma vorrei solo che la morte non fosse così spaventosa».

Non c'è scampo nella città del sud che ha rifiutato la resa. «Alla polizia - è ancora il racconto di Sukhorukova - abbiamo chiesto cosa fare del corpo senza vita della nonna del nostro amico e ci hanno consigliato di metterlo sul balcone. Quanti cadaveri ci saranno sui balconi di Mariupol?». Nadezda ricorda anche come al papà del piccolo Sasha, Vitya, sia andata peggio, se c'è un peggio all'inferno. 

Il cadavere di Vitya, morto nel bombardamento della sua casa, «giaceva con la testa fracassata sul pavimento del suo appartamento al nono piano, era impossibile recuperarlo: la casa è stata colpita ancora e ancora ed è bruciata assieme a quel corpo». Russia e Ucraina avevano approvato un percorso ad hoc per l'evacuazione dei cittadini da Mariupol verso un territorio controllato da Kiev.

Ma Mosca, due sere fa, ha lanciato un ultimatum alle forze ucraine nella zona: potranno andarsene senza scontri a fuoco, abbandonando però armi e munizioni. Ultimatum rifiutato dal governo ucraino: «Non se ne parla - ha detto il vice primo ministro Iryna Vereshchuk - Non si parla di resa o deposizione delle armi. Ne abbiamo già informato la parte russa».

Con il risultato che degli otto corridoi umanitari concordati per la giornata di ieri, nemmeno uno è potuto partire da Mariupol. E anzi - ha denunciato il governatore della regione di Zaporizhzhia, Olexandr Starukh, «alcuni autobus che stavano evacuando bambini sono stati presi di mira dalle forze russe e alcuni di loro sono stati feriti in modo grave: quattro sono stati portati in ospedale» e due sarebbero in «condizioni gravi». I russi parlano invece di 243 persone che sarebbero riuscite ad allontanarsi dall'assedio.

Ma la conferma di quanto sia ormai impossibile lasciare quell'inferno arriva anche dal presidente della Croce rossa italiana e della Federazione internazionale della società di Croce rossa e della Mezzaluna rossa, Francesco Rocca, che si è recato in Romania e in Ucraina.

«A Mariupol - spiega - non c'è più accesso sia in uscita che in entrata. E chi è ancora lì non ha cibo, acqua, gasolio ed elettricità». Rocca fa anche un appello alla solidarietà internazionale: «I bisogni dell'Ucraina stanno aumentando» e quindi, pur ringraziando tutti, voglio avvisare che «non si tratta di uno sprint ma di una maratona» di solidarietà.

Intanto, cresce il bilancio delle vittime tra i civili e raggiunge oltre 3.000 persone. Ad affermarlo è il comandante del distaccamento di Azov, il maggiore Denys Prokopenko in un commento alla Cnn.

«Il bilancio aumenta ogni giorno - dichiara - ma nessuno può dire il numero esatto dei morti, poiché le persone vengono sepolte in fosse comuni, senza nome. Molti cadaveri restano per le strade. Alcune persone rimangono intrappolate sotto le macerie, sepolte vive».

Per la deputata Solomiya Bobrovska, membro della commissione Affari Esteri del Parlamento ucraino, «le navi da guerra russe hanno iniziato a colpire gli edifici che sono sulla riva» e usano «artiglieria pesante, missili ed aerei per attaccare dal cielo». Lei afferma che sono circa 5mila i morti.

«Sappiamo - aggiunge - che la battaglia si è spostata nel centro per il secondo giorno consecutivo». Ovunque è distruzione. «Spero che nessuno veda mai quello a cui ho assistito io - sono i ricordi drammatici del console greco a Mariupol, Manolis Androulakis, l'ultimo diplomatico europeo a lasciare la città assediata -. Mariupol entrerà a far parte delle città che sono state totalmente distrutte dalla guerra: Guernica, Coventry, Aleppo, Grozny, Leningrado».

La loro resistenza passerà alla storia. Negli ultimi giorni anche i media internazionali hanno lasciato la città. «C'è un silenzio da cimitero - ricorda ancora Nadezda che, solo due giorni fa, è riuscita a uscire attraverso un corridoio umanitario e ora si trova a Mangush -, non ci sono voci, non ci sono bambini e nonne sulle panchine. Anche il vento è morto. E nel giro tra i rifugi per sfuggire alle bombe, la domanda è sempre la stessa: Kiev è ancora ucraina?».

Ucraina, spuntano le foto satellitari del teatro di Mariupol. Mentana: sono la prova che è un crimine di guerra. Il Tempo il 17 marzo 2022.

Una indicazione esplicita ignorata dai russi che hanno bombardato lo stesso. L’azienda statunitense Maxar Technologies ha diffuso nuove immagini satellitari che mostrano come nel cortile del teatro di Mariupol colpito dall'esercito russo ci fosse la scritta "bambini". Il consiglio comunale della città ucraina ha affermato che le forze russe hanno "intenzionalmente e cinicamente distrutto il teatro drammatico nel cuore di Mariupol. L’aereo ha sganciato una bomba su un edificio dove si nascondevano centinaia di pacifici residenti di Mariupol".

A diffondere la foto su Instagram è il direttore del Tg La7, Enrico Mentana. Sui due lati dell'edificio si distinguono le scritte in caratteri cirillici. "È l'immagine che prova un crimine contro l'umanità. Questo era il teatro di Mariupol, fotografato dal cielo poche ore prima del bombardamento che ha provocato la strage. Due evidenze: l'edificio era isolato, e non poteva essere colpito per sbaglio; e soprattutto agli estremi era scritta sull'asfalto e chiaramente leggibile da aerei e droni una parola, "deti". Vuol dire bambini", commenta Mentana. 

Nel teatro obiettivo dell’attacco russo denunciato dalle autorità ucraine, si erano rifugiate più di 1.000 persone. Queste le notizie diffuse su Telegram dal sindaco, Vadim Boichenko, che denuncia "un’altra tragedia". Human Rights Watch ha parlato di "centinaia di civili" che avevano trovato riparo nel teatro mentre la Russia ha negato ogni responsabilità puntando il dito contro il battaglione Azov. 

Da corriere.it il 17 marzo 2022.

L’azienda statunitense di satelliti Maxar Technologies ha distribuito delle immagini satellitari — realizzate il 14 marzo scorso — che mostrano come nel cortile del teatro di Mariupol, bombardato oggi (16 marzo, ndr), fosse stata dipinta la scritta «bambini», con i caratteri in cirillico («????», «deti»). 

La parola di quattro lettere, in maiuscolo e on grandi caratteri di colore bianco, è ben visibile davanti e dietro il teatro. Per far sì che gli eventuali attacchi non prendessero di mira un obiettivo dove c’erano anche bambini e dove oltre mille persone avevano trovato rifugio. 

Eppure nel pomeriggio l’edificio è stato bombardato con ogni probabilità da forze russe (che però hanno negato di essere i responsabili). Il consiglio comunale ha affermato che le forze russe hanno, quindi, «intenzionalmente e cinicamente distrutto il teatro nel cuore di Mariupol». 

L’azienda satellitare ha annunciato la distribuzione di nuove immagini, non appena queste saranno disponibili. Secondo le autorità cittadine di Mariupol, il teatro è stato colpito da una bomba lanciata da un caccia russo.

Mauro Evangelisti per il Messaggero il 17 marzo 2022.

«Un aereo ha sganciato una bomba su un edificio dove si nascondevano centinaia di pacifici residenti di Mariupol» denuncia nel tardo pomeriggio il consiglio comunale della città. Poco dopo cominciano a rimbalzare su Telegram delle immagini terribili, il Teatro Drammatico distrutto, piegato su se stesso, con il fumo che ancora si alza dalle macerie, «dentro c'erano centinaia di civili, non riusciremo a salvare tutti». Sui due lati dell'edificio c'era scritto in grande la parola «bambini». 

Secondo Nexta Tv, un'altra bomba è stata lanciata contro un centro sportivo con una piscina, il Neptun, sempre a Mariupol, dove erano nascosti donne e bimbi. Il capo dell'amministrazione militare regionale, Pavlo Kyrylenko, scrive: «Stanno cercando di distruggere fisicamente i residenti di Mariupol, che sono stati a lungo un simbolo della nostra resistenza. Hanno lanciato un attacco aereo sulla piscina Neptun. 

Donne incinte e donne con bambini sono ora sotto le macerie». La lista delle tragedie e degli attacchi purtroppo è molto più lunga. Ci sono i razzi contro un convoglio di civili che stava fuggendo da Zaporizhzhya, tra i feriti anche un bambino. E ieri si è parlato degli spari sulle persone in fila per il pane, a Chernihiv, a nord di Kiev, dieci i morti, secondo una notizia diffusa dall'Ambasciata americana a Kiev. 

 Il ministero della Difesa russo ha smentito. Non solo: in serata è emerso che sempre a Chernihiv il servizio per le emergenze, dopo aver sgomberato le macerie, di un dormitorio bombardato, ha rinvenuto i corpi di 5 persone tra cui 3 bambini. Segnalati nuovi bombardamenti sui palazzi della periferia di Kiev, mentre di nuovo a Mariupol, città martire a sud-est dell'Ucraina, i militari dell'esercito di Putin continuano a tenere in ostaggio 500 tra infermieri, medici e pazienti. 

TRAPPOLA In totale sono 300mila i cittadini intrappolati in una città assediata dai russi, con bombardamenti costanti, dove non c'è acqua corrente, mancano cibo e riscaldamento, non vengono lasciati passare neppure gli aiuti umanitari. Altro fronte caldo a sud: lancio di missili, nella notte tra martedì e mercoledì, dalle navi della flotta russa contro Odessa, nel tratto che divide la città dal confine romeno: «Ha il sapore quasi una minaccia, un avvertimento per dire alla Romania di non inviare aiuti» osserva Ugo Poletti, editore dell'Odessa Journal. L'esercito di Putin sembra agire con ancora più spietatezza, incurante delle trattative dai tavoli della diplomazia, e ieri sono state numerose le segnalazioni di nuovi attacchi, anche contro i civili, anche contro le colonne di auto che tentavano di fuggire da Mariupol.

Sono proseguiti anche i rapimenti degli amministratori locali delle varie cittadine a Est che i russi stanno tentando di occupare. Secondo il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, ieri sono stati sequestrati sindaco e vicesindaco di Skadosk, non lontano da Kherson. Ieri però il capo dell'ufficio presidenziale ucraino Tymoshenko ha annunciato che grazie a un'operazione speciale è stato liberato il sindaco di Melitopol, Ivan Fedorov, rapito nei giorni scorsi e sostituito dai russi con una collaborazionista.

Ma l'attenzione di ieri pomeriggio si è spostata sul bombardamento del teatro di Mariupol. Costruito nel 1960, si trovava nel centro della città, circondato da un bel prato verde, in rete ci sono molte immagini che mostrano la normalità delle feste natalizie, con gli addobbi e la gente che passeggia. Da ieri pomeriggio la sua facciata bianca, i quattro pilastri con capitelli sormontati da una trabeazione e timpano sul modello di un tempi classico, non ci sono più. 

I russi hanno bombardato la struttura, distrutto il cuore pulsante della cultura della cittadina ucraina. Come in altre occasioni, negano o affermano che che dentro vi fossero militari. Ma tutte le testimonianze concordano: all'interno del teatro c'erano i rifugiati, persone che avevano trovato riparo, visto che Mariupol è sempre più una città fantasma, con palazzi distrutti, carenza di cibo, gas ed elettricità. Il vicesindaco Sergei Orlov ha spiegato alla Bbc: «Pensiamo che all'interno vi fossero tra le 1.000 e le 1.200 persone». 

Sempre su Twitter il profilo del parlamento ucraino nel tardo pomeriggio denunciava: «Non si sa quante persone siano morte sotto le macerie. Ci sono feroci battaglie. Nessuno può raggiungere i blocchi, non sappiamo se ci sono sopravvissuti». Oleksandra Matviichuk, responsabile del Centro per le libertà civili dell'Ucraina: «I russi hanno lanciato una bomba sul teatro drammatico di Mariupol, designato come luogo di ritrovo per le persone che hanno perso la casa e i mezzi di sussistenza. Tra coloro che erano in teatro, c'erano molti bambini e pazienti che necessitavano di attenzioni speciali». Secondo il consiglio comunale cittadino «le forze russe hanno intenzionalmente e cinicamente distrutto il Teatro Drammatico, l'aereo ha sganciato una bomba su un edificio dove si nascondevano centinaia di pacifici residenti». Che senso ha colpire un teatro con dei civili dentro?

La spiegazione iniziale dell'esercito invasore è che riteneva che all'interno vi fossero militari del battaglione Azov (formazione di estrema destra ucraina). L'esercito russo ha anche confezionato un'altra spiegazione: «Non abbiamo bombardato noi il teatro», il battaglione Azov avrebbe fatto esplodere il teatro con dentro i civili per fare ricadere la colpa su Mosca. 

Si tratta di una ricostruzione usata già in molti altri episodi, tanto che qualcuno dall'Ucraina ha fatto ironia amara: per i russi quelli dell'Azov sono milioni e ogni luogo che colpiscono. La strategia è collaudata: negare sempre, anche ciò che è evidente (il governo russo continua a sostenere che non c'è stata alcuna invasione). Era stata usata anche dopo il bombardamento dell'ospedale: si erano avvelenati i pozzi, sostenendo, che le donne ferite (purtroppo una è morta) erano attrici. 

REPLICA Dice il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba: «Un altro crimine orrendo a Mariupol. Un massiccio attacco russo sul Drama Theatre, dove si nascondevano centinaia di civili. L'edificio adesso è completamente distrutto, i russi non potevano non sapere che era un rifugio per i civili». D'altra parte, ciò che appare indiscutibile è che l'esercito russo da 21 giorni è entrato in Ucraina, lancia missili e bombarda anche palazzi e obiettivi civili, Mariupol è allo stremo, senza cibo e acqua. Questi sono fatti e non c'è propaganda che possa smentirlo. Sempre nei dintorni Mariupol, secondo gli ucraini, ieri è stato ucciso il quarto generale russo, si chiamava Oleg Mityaev.

La città-martire della Guerra in Ucraina. Le scritte “bambini” sul Teatro bombardato a Mariupol: “Distrutto, c’erano 500 civili”. Vito Califano su Il Riformista il 17 Marzo 2022. 

Il sindaco di Mariupol ha affermato che non perdoneranno mai il bombardamento del Teatro Drammatico: “Oggi c’è stata una terribile tragedia per la nostra Mariupol, di cui non è rimasto praticamente nulla. Il Teatro Drammatico, dove si nascondevano le persone, è stato distrutto da un bombardamento. Un luogo dove hanno trovato rifugio più di mille persone. Questa è una terribile tragedia, non lo perdoneremo mai. Ma non ci arrenderemo”. Vadym Boychenko commenta così, in un video sul canale Telegram del consiglio comunale. Per le autorità locali i russi erano a conoscenza del fatto che nel teatro c’erano civili, soprattutto donne e bambini. E a confermarlo sembrano le immagini scattate dai satelliti Maxar Technologies: sul cortile del teatro si vedono le scritte – due, avanti e indietro – dipinte in alfabeto cirillico che recitano “bambini”.

L’edificio è stato bombardato ieri pomeriggio. Si trova nel cuore di Mariupol, la città da settimane al centro di un assedio senza scampo da parte delle forze russe. La conquista del centro di circa 500mila abitanti (prima della guerra, dei morti e delle evacuazioni) permetterebbe alla Russia di collegare il territorio della penisola della Crimea annesso da Mosca nel 2014 e quelli delle regioni del Donbass dove nello stesso anno separatisti filo-russi hanno auto-proclamato due Repubbliche autonome – in otto anni di guerra circa 14mila morti. Mariupol è la città-martire del conflitto, rappresenta uno snodo cruciale nella guerra. La gente ha usato la neve per bere, per scaldarsi i resti delle macerie in legno. Un “assedio medievale”, come l’avevano definito le autorità locali.

Le stesse avevano affermato già ieri che le forze russe hanno “intenzionalmente e cinicamente distrutto il teatro nel cuore di Mariupol. L’aereo ha lanciato una bomba su un edificio dove centinaia di pacifici residenti di Mariupol si stavano nascondendo”, ha spiegato in una nota il Consiglio comunale. “Si sa che dopo la bomba, la parte centrale del teatro Drama era distrutta e l’ingresso al rifugio anti-bombe nel palazzo era distrutto. È impossibile trovare parole che possano descrivere il livello di crudeltà e cinismo con cui gli occupanti russi stanno distruggendo la popolazione civile della città ucraina dal mare. Donne, bambini e anziani restano nel mirino del nemico. Sono persone del tutto disarmate e pacifiche”. Si parlava ieri di mille persone, morti e feriti, della difficoltà di scavare tra le macerie per portare soccorsi a causa dei continui attacchi.

Il Cremlino ha parlato di nuovo del Battaglione Azov, la brigata neonazista che dopo aver combattuto in Donbass contro i separatisti è entrata a far parte della Guardia Nazionale. Il pretesto per la “denazificazione” propagandata da Vladimir Putin. Ebbene, come con il caso dell’ospedale bombardato, anche dietro l’attacco al teatro, secondo il ministero della Difesa di Mosca, c’è la famigerata brigata. “Il 16 marzo l’aviazione russa non ha colpito nessun obiettivo dentro il perimetro della città”, si legge in una nota del ministero citata dalla Tass. “Secondo dati certi del ministero i militanti del battaglione nazionalista ucraino ‘Azov’ hanno messo in atto un’altra provocazione, facendo saltare in aria il teatro che avevano minato in precedenza. Recentemente gli abitanti di Mariupol in fuga hanno rivelato che nel teatro gli estremisti di Azov avrebbero preso in ostaggio i civili utilizzando i piani superiori come postazioni di fuoco. In questo contesto, visto il pericolo per i civili, il teatro nel centro della città non è mai stato considerato un obiettivo da colpire”.

Secondo le autorità cittadine il Teatro è stato distrutto da una bomba sganciata dall’esercito russo. “Finché non ne sapremo di più, non possiamo escludere la possibilità di un obiettivo militare ucraino nell’area del teatro, ma sappiamo che il teatro ospitava almeno 500 civili“, ha dichiarato invece Belkis Wille, referente di Human Rights Watch. “Ci sono serie preoccupazioni su quale fosse l’obiettivo in una città sotto assedio da giorni e in cui telecomunicazioni, elettricità, acqua e riscaldamento sono stati quasi completamente interrotti”. Il Presidente ucraino Zelensky ha paragonato la situazione di Mariupol all’assedio di Leningrado dei nazisti ai danni dei russi durante la Seconda Guerra Mondiale.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Gli Anziani. Bombe sull'ospizio, 56 anziani morti. Uccisi 115 bambini. 10 milioni di sfollati. Andrea Cuomo su Il Giornale il 21 marzo 2022.  

Un altro orrore compiuto dall'esercito di Putin è stato l'attacco, denunciato in un posto su Telegram rilanciato dalla Bbc dal governatore della regione di Lugansk Serhiy Hayday, contro un ospizio della città di Kreminna, nell'Ucraina orientale. Lo scorso 11 marzo un carro armato avrebbe aperto al fuoco contro la struttura in modo «cinico e deliberato», provocando la morte di 56 persone e rapendo gli altri 15 ospiti scampati al massacro per trasferirli in un'altra struttura geriatrica nella stessa regione, a Svatove. Naturalmente le circostanze e i numeri dell'assalto non possono essere verificati in modo indipendente, anche perché secondo le forze di polizia è ancora impossibile raggiungere il luogo della tragedia, quindi bisogna dar fede alla denuncia del governatore. 

Quelle contro gli anziani sono tra le infamie peggiori compiute dall'esercito russo in Ucraina. Come denuncia Natalia, trasferitasi da Kiev a Leopoli per dare una mano ai volontari di Mediterranea Saving Humans che assistono chi resta e chi fugge, le persone più vecchie sono le più fragili e le meno protette: «Un signore di 86 anni era rimasto solo al sesto piano di un palazzo senza corrente né acqua. Molti anziani sono rimasti senza niente».

Come gli anziani anche i bambini sono particolarmente colpiti dal conflitto. Secondo l'Ukrainska Pravda, che a sua volta cita l'ufficio del procuratore generalei, in oltre tre settimane sono stati uccisi 115 bambini mentre altri 140 sono rimasti feriti. Il maggior numero si registra nella regione di Kiev dove hanno perso la vita 58 bimbi. Numeri perfino sottostimati secondo quanto riferisce l'Unicef, l'agenzia per l'infanzia delle Nazioni Unite, che parla di 150 bambini uccisi dall'inizio dell'invasione e di 160 feriti. Poi ci sono i numeri spaventosi degli sfollati: «Almeno 1,5 milioni di bambini - dice il portavoce dell'Unicef Joe English - sono stati resi rifugiati dall'invasione non provocata dell'Ucraina da parte della Russia e altri 3,3 milioni di minori sono attualmente sfollati all'interno del Paese. Ognuno di questi è un singolo bambini la cui vita è stata fatta a pezzi, il cui mondo è stato capovolto». Spaventoso queso calcolo: «In media, ogni giorno negli ultimi 20 giorni in Ucraina, più di 70mila bambini sono diventati rifugiati. E ciò equivale a circa 55 ogni minuto, quindi quasi uno al secondo».

La strage dei bambini che nei giorni scorsi ha spinto gli abitanti di Leopoli a inscenare una suggestiva protesta, con centonove passeggini vuoti (corrispondente al numero di bambini uccisi a venerdì scorso) distribuiti su sei file nella centralissima piazza del mercato della città, di fronte al media center che accoglie, nella città dell'Ovest, giornalisti da tutto il mondo.

Secondo l'ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani dell'Onu (Ohchr) dall'inizio del conflitto sono stati uccisi 902 civili e 1.459 sono stati feriti, per lo più vittime dei bombardamenti e degli attacchi missilistici. 

I Bambini. Responsabilità collettiva. I bambini sono le prime vittime di ogni tragedia umanitaria. Vincenzo Genovese su L'Inkiesta il 16 Luglio 2022.

A Venezia esperti del settore ed europarlamentari discutono le violazioni ai diritti dell’infanzia in tutto il mondo, dall’Ucraina ai conflitti dimenticati. Tra i relatori anche Makeiev Oleksii, vice-ministro degli Affari Esteri ucraino, che ha portato alla conferenza uno spaccato di vita quotidiana nel suo Paese

Il Monastero di San Nicolò al Lido di Venezia come sfondo, le parole sui diritti negati ai bambini in tanti luoghi del pianeta, al centro. La conferenza di alto livello sullo stato globale dei diritti umani, alla sua seconda edizione, ha affrontato un tema di per sé sempre attuale e reso ancora più chiaro dalla guerra in Ucraina. Violenza, abusi, povertà, malnutrizione, lavoro e spostamenti forzati, depressione e matrimoni forzati sono le piaghe principali che affliggono i più piccoli in tutto il mondo, come ha ricordato nel suo discorso d’apertura la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola.

Le sofferenze dei bambini

Al convegno sono intervenuti personaggi di spicco nella lotta per i diritti dell’infanzia: Veronica Gomez, presidente del Global Campus of Human Rights, associazione organizzatrice dell’evento, Ole von Uexküll, direttore esecutivo della Right Livelihood Foundation e Denis Mukwege, medico congolese vincitore del premio Nobel per la pace nel 2018.

Tanti gli esperti, provenienti dalle agenzie delle Nazioni Unite e dal mondo delle Ong: alcune delle loro testimonianze dirette mettono i brividi. Quella di Seif Sanaa, attivista egiziana che riporta la storia incredibile di una ragazza rapita da un membro dell’Isis, riuscita a scappare mentre era incinta e poi intrappolata per mesi nel quartier generale delle forze di sicurezza al Cairo, dove ha dato alla luce un bambino mai registrato ufficialmente dalle autorità.

O quella di Ibrahima Lo, autore del libro autobiografico “Pane e acqua”, che da ragazzo è arrivato in Italia partendo dal Senegal, sopravvivendo ai campi di detenzione libici e a un naufragio nel Mar Mediterraneo. «Non conoscevo il mare, perché nella mia città il mare non c’è», ha spiegato parlando del suo lungo e pericoloso viaggio.

Oppure i racconti strazianti di Essam Daod, psichiatra infantile specializzato in trattare i traumi delle persone migranti: la donna che a Lesbo cercava un modo di abortire per non partorire il frutto di uno stupro, o la ragazza che in Polonia gli parlava del padre, il suo «supereroe» che correva velocissimo inseguito da uomini armati.

Nei due giorni della conferenza sono previste tre sessioni tematiche: «Bambini dietro le sbarre», «Bambini vittime di conflitti armati e violenza» e «I giovani come motori del cambiamento». Il secondo di questi panel si è aperto con un video emozionale realizzato da Alessandro Ienzi, attore teatrale molto impegnato nella rappresentazione di «storie scomode, quelle che ci fanno vergognare»: racconta la vita di un bambino vittima di una guerra troppo difficile per lui da comprendere.

Il fenomeno è diffuso a ogni latitudine e ha assunto dimensioni allarmanti: 450 milioni di bambini nel mondo vivono in zone di conflitto, praticamente uno su sei. Più di 35 milioni sono gli sfollati, sradicati da casa propria, e in questi contesti sono avvenute circa 24mila gravi violazioni solo nel 2021, secondo i dati delle Nazioni Unite.

Violazioni in tutto il mondo

A un quadro dalle tinte fosche si è aggiunto nel 2022 un nuovo epicentro di violenza, proprio alle porte dell’Unione europea, come ha ricordato fra gli altri Benedetto della Vedova, trattenuto a Roma dalla crisi di governo e per questo intervenuto da remoto.

L’aggressione russa dell’Ucraina contribuisce infatti in maniera significativa a mettere a rischio vite e diritti dei minori. Una circostanza confermata anche da Benoit Van Keirsbilck, uno dei 18 membri della commissione dei diritti dell’infanzia delle Nazioni Unite, secondo cui la situazione nel Paese è molto difficile ancora di più per quei bambini che necessitano di attenzioni speciali.

Ma soprattutto da uno dei relatori più attesi: Makeiev Oleksii, vice-ministro degli Affari Esteri ucraino, che ha portato alla conferenza uno spaccato di vita quotidiana nel suo Paese. «Il giorno dell’attacco, mia figlia mi ha svegliato dicendomi: papà, i russi ci stanno bombardando. E questo è ciò che dicono tutte le notti dei bambini ucraini ai loro genitori».

Suggerendo ai partecipanti di guardare la guerra attraverso i loro occhi, Oleksii ha menzionato la paura, le privazioni, la necessità di correre al riparo al suono di una sirena e l’impossibilità di frequentare la scuola per i figli degli ucraini. Al momento, dice, 215 minori sono morti, 600 sono rimasti feriti e milioni sono dovuti espatriare, lontano dai propri genitori e accolti da famiglie europee a causa del conflitto.

Purtroppo, si tratta solo di uno dei tanti teatri in cui queste ingiustizie avvengono. Secondo l’Onu nel 2021 i Paesi più colpiti da gravi violazioni sono stati Afghanistan, Repubblica democratica del Congo, Palestina, Somalia, Siria e Yemen.

In molti casi i governi e le istituzioni dell’Unione europea non sono esenti da colpe, ha sottolineato la deputata belga Maria Arena, presidente della sottocommissione per i Diritti dell’uomo dell’Eurocamera. Ad esempio quando ai figli dei militanti dell’Isis non viene concessa la protezione che meritano nei nostri Paesi, quando armi europee vengono vendute all’M23, un gruppo militare ribelle autore di stupri di massa nel nord-est del Congo, o quando l’Italia prende accordi con le autorità della Libia, dove anche i bambini vengono imprigionati. «Non dobbiamo fuggire dalle nostre responsabilità né mantenere alcuna complicità con chi viola i diritti umani, altrimenti perderemo ogni credibilità», ha detto.

Di fronte a tanta e così diffusa sofferenza, sono emersi impegni, idee, speranze per il futuro. Ma anche avvertimenti per quello che l’Europa e le organizzazioni internazionali devono e non devono fare. In uno degli ultimi interventi della giornata, l’europarlamentare del Partito democratico Pierfrancesco Majorino ha ribadito la necessità di una «maggiore assunzione di responsabilità collettiva»: gli strumenti per fermare questi orrori ci sono, ma hanno bisogno di una maggiore connessione, una regia condivisa che amplifichi il risultato di ogni sforzo.

E non si deve abbandonare il campo quando una tragedia perde l’attenzione dell’opinione pubblica: un rischio che vale anche per l’Ucraina, visto che si è già concretizzato in altri luoghi del mondo, alle prese con emergenze inizialmente oggetto di grande ascolto da parte della comunità internazionale e poi presto più o meno dimenticate. Ma anche quando telecamere si spengono, le notizie si diradano e l’interesse si affievolisce, la sofferenza dei bambini non scompare.

Oleksandr, il 14enne eroe di Bucha che ha salvato 30 persone. Rosa Scognamiglio il 12 Aprile 2022 su Il Giornale.

Oleksandr Hutsal ha sfamato per un mese intero 30 persone oltrepassando i check point russi. "Avevo paura", ha raccontato.

Oleksandr Hutsal ha solo 14 anni ed è già un eroe. Mentre le bombe cadevano su Bucha, a pochi metri dalla Capitale ucraina, ha salvato la vita a 30 persone. Lo ha fatto da solo, sfidando i check point russi per procurare acqua e cibo ai rifugiati. "Ero spaventato", ha raccontato. Ma il coraggio e l'altruismo hanno vinto la paura.

La storia

Se la speranza avesse un volto sarebbe quello del giovane Oleksandr: due grandi occhi blu e uno sguardo schietto, genuino. Ma soprattutto un cuore immenso e una impareggiabile generosità d'animo. Sì, perché nonostante la giovane età Oleksandr è già un eroe. Per più di un mese ha sfamato la sua famiglia e altre trenta persone che si erano riparate in un seminterrato alle porte di Bucha durante i giorni del terribile massacro. Lo ha fatto con la consapevolezza di un piccolo, grande uomo e la spontaneità di un bambino. Per 30 giorni la sua unica preoccupazione è stata quella di fare scorte di cibo, acqua e legna. Questo ha significato dover attraversare i check point russi, camminare sulle macerie e schivare gli spari. "Ho avuto paura", ha ammesso.

Il coraggio

Una cantina buia e senza elettricità in cui, di notte, la temperatura scendeva a -8 gradi. Un bugigattolo angusto, gelido che Oleksandr ha cercato di rendere confortevole per la sua famiglia e gli altri rifugiati. Mentre di giorno il papà provvedeva a mettere in sicurezza il rifugio, Oleksandr cercava di fare provviste raccattando qua e là le rimanenze dei supermercati saccheggiati dai russi. Tutte le mattine raccoglieva l'acqua da un pozzo cittadino, l'unica fonte potabile rimasta a Bucha dopo il massacro. Lo ha fatto mentre i missiili cadevano sulla piccola cittadina ucraina, sfidando il pericolo, la paura e la morte.

Le testimonianze

Poco distante dal rifiugio, c'era un presidio di soldati russi. Chi era nascosto nel seminterrato col 14enne considera un miracolo che tutti siano riusciti a sopravvivere. La paura più grande era quella di essere colpiti dalle bombe. Alcuni testimoni ha raccontato a Il Messaggero che "quando un attacco aereo ha distrutto una casa vicina, le finestre del seminterrato sono crollate, ma fortunatamente nessuno è rimasto ferito". Alla sopravvivenza, invece, ci ha pensato il coraggiosissimo Oleksandr. Quando ha saputo che la sua storia era stata raccontata dai media di tutto il mondo ha provato un grande imbarazzo. Lui non si sente un eroe, ha spiegato, ma lo è. Un piccolo, grande eroe.

Anna Zafesova per “La Stampa” l'11 aprile 2022.

«Bambini, perdonateci per il disordine, vivete in pace e studiate bene, dio vi protegga». Firmato «Russi». Il messaggio lasciato sulla lavagna della scuola di Katyuzhanka, nella regione di Kiev, è scritto in una bella calligrafia, senza errori, a differenza di altre scritte sgrammaticate lasciate dagli invasori in molte case saccheggiate delle città ucraine. 

Sembra essere fatto apposta per illustrare le buone intenzioni dei soldati russi, e infatti viene diffuso da Margarita Symonian, capa della propaganda del Cremlino, nello stesso giorno in cui alla stazione di Kramatorsk è stata provocata una strage da un missile russo sulla fiancata del quale c'era scritto «Per i bambini».

La difesa dei più piccoli sembra la nuova linea d'attacco dell'ideologia del Cremlino, riesumando un classico della propaganda sovietica, il cui simbolo è la statua del soldato dell'Armata Rossa che tiene in braccio una bambina, a Berlino. 

Che le scuole ucraine vengono saccheggiate e devastate, distrutte e imbrattate di scritte insultanti verso gli ucraini, non viene mostrato, così come non si parla delle fosse per seppellire civili uccisi, scavate a poche decine di metri.

I telespettatori russi non vedono nemmeno la bambina ucraina alla giacca della quale la mamma ha cucito un'etichetta plastificata, di quelle che si appendono alle valigie, per poterla identificare nel caso finissero sotto un bombardamento.

I bambini sono vittime della guerra: ieri la commissaria per i diritti umani del parlamento ucraino Lyudmila Denisova ha raccontato che 176 minori sono stati uccisi e 324 feriti, in 44 giorni di guerra. 

Ma stanno diventando anche un'arma: almeno 1.937 ragazzini ospitati negli orfanotrofi ucraini sono stati portati in Russia dall'inizio della guerra, e alla Duma circola la proposta di approvare un regolamento di adozione semplificato per i piccoli ucraini.

Secondo Denisova, sono già state avviate 289 pratiche di adozioni: «Sono i nostri figli. Restituiteceli», ha detto alla televisione ucraina. E Maryna Lypovizkaya, della Ong Magnolia, che si dedica ai bambini scomparsi, ha raccontato alla Cnn che dall'inizio della guerra sono almeno due mila i minori che mancano all'appello: alcuni sono forse rimasti uccisi nei bombardamenti, altri si sono persi nella fuga dalle città assediate, ma altri probabilmente sono finiti dall'altra parte.

Allo stato attuale, sono 131 mila i minori ucraini che sono stati portati in Russia, su un totale di 674 mila cittadini sfollati verso il territorio del Paese nemico. Denisova denuncia una «deportazione forzata», e numerosi ucraini fuggiti da Mariupol hanno raccontato ai giornalisti occidentali che i militari russi non gli avevano lasciato alcuna scelta: «Siamo stati recuperati dalle cantine dove ci nascondevamo dalle bombe e caricati su dei pullman». 

Una volta trasferiti nel Sud della Russia, sono stati collocati in tende e palestre, fotografati e schedati con rilevazione delle impronte digitali: «Mi hanno trattato come fossi stata una criminale, una proprietà della Russia», ha raccontato una donna sotto anonimato alla Cnn.

Gli ufficiali dell'Fsb guardano il contenuto dei telefoni dei profughi, li interrogano sulle loro idee politiche, sulle attività svolte dai parenti rimasti in Ucraina e dagli eventuali conoscenti in Russia, li sequestrano i cellulari e i passaporti. 

«Dobbiamo impedire che in Russia si infiltrino i nazisti ucraini», spiegano queste procedure le autorità russe e, secondo molti testimoni, chi non supera i test, soprattutto gli uomini, sparisce. 

Gli altri ricevono 100 euro in rubli, una sim card russa e dei documenti provvisori, e vengono caricati su treni e pullman diretti verso varie regioni della Russia, soprattutto remote e disagiate. Denisova ha denunciato ieri la presenza di centinaia di ucraini - soprattutto donne, ma anche 147 bambini, tra cui diversi neonati - chiusi in un campo recintato a Penza: «Non sanno dove si trovano, né se verranno spostati, non possono uscire e vengono sorvegliati».

Una deportazione che però sembra per ora proseguire in una maniera non sistematica: mentre alcuni gruppi di cittadini ucraini vengono trasferiti in modalità che ricordano un confino, altri sono riusciti a scappare e a raggiungere la frontiera russa, per tornare in Ucraina. 

Una donna di Mariupol ha raccontato di essere riuscita a viaggiare fino a Pietroburgo e a passare il confine con l'Estonia, nonostante l'assenza del passaporto, sequestrato dai russi proprio per impedire l'espatrio dei profughi forzati: «Vogliono deportarci e assimilarci, come avevano fatto ai tempi di Stalin con altri popoli».

A Irpin affiorano i corpi dei bimbi violentati. La superstite: "Stuprata di fianco a mia madre agonizzante".  Brunella Giovara su La Repubblica il 6 Aprile 2022.

Nelle zone liberate intorno a Kiev i corpi delle vittime marchiati da svastiche e "Z". Qualcuno ha urlato? No, perché il più delle volte li hanno imbavagliati. Possiamo immaginare il terrore, e il dolore, sofferto dai bambini di Irpin. Di alcuni si sanno anche i nomi, perché man mano che i loro cadaveri vengono ritrovati e in qualche modo ricomposti, i parenti possono riconoscerli, sempre che siano ancora vivi.

Nuove immagini girate da un drone delle forze ucraine mostrano le forze russe sparare su un ciclista a Bucha, in via Yablunska alle coordinate GPS 50.54148, 30.228898, dove sono stati filmati e fotografati più cadaveri. La veridicità del video è stato confermato da 'Bellingcat', gruppo di giornalismo investigativo con sede nei Paesi Bassi specializzato in verifica dei fatti e intelligence open source, e da VoxCheck, progetto di fact-checking ucraino.

Bambini come scudi umani: l'atrocità della guerra e il triste bollettino dei morti. Il Tempo il 03 aprile 2022.

L’Ucraina accusa le truppe russe di usare i bambini come «scudi umani» per evitare di finire sotto tiro nel corso della loro ritirata da Kiev e dalle zone limitrofe. Questa tecnica - viene spiegato - sarebbe stata usata nella città di Bucha ora nuovamente in mano alle forze militari ucraine. Dall’inizio della guerra in Ucraina 158 bambini sarebbero rimasti uccisi e circa 258 feriti dalle forze russe secondo il procuratore generale ucraino, che lo ha riferito su Telegram. La maggioranza delle vittime sono attribuite alla regione di Kiev (75). Seguono la regione di Donetsk (73), Kharkiv (56), Chernihiv (47), Mykolaiv (32), Luhansk (31), Zaporizhzhia (22), Kherson (29), Sumy (16), Zhytomyr (15), Kiev città (16). I dati relativi ai bambini uccisi e feriti a Mariupol, e in alcune aree di Kiev, Chernihiv e la regione del Luhansk sono in fase di ulteriore aggiornamento.

La strage degli innocenti: "Uccisi da Mosca 128 bimbi". Maria Sorbi su Il Giornale il 25 marzo 2022.

Giocavano. Semplicemente. Ma quello che hanno preso a calci come un pallone era un ordigno rimasto a terra. Ora tre ragazzini di 15, 13 e 12 anni sono ricoverati in gravi condizioni nel villaggio di Obilne, vicino a Zaporizhzhia. Lo riferisce il Servizio di emergenza ucraino. I militari ricordano che i russi usano mine antiuomo, anche quelle cosiddette «a farfalle» che possono essere di vari colori. Un altro pericolo, avvertono sempre i militari, sono gli ordigni inesplosi che «possono sembrare un giocattolo, un telefono cellulare, una penna a sfera: qualsiasi oggetto può essere riempito di esplosivo».

Dopo un mese dall'inizio della guerra, anche giocare è diventato un lusso. I bambini ucraini il 24 febbraio hanno lasciato le loro stanzette dalla sera alla mattina, avevano i vestiti pronti sulla sedia per andare a scuola e invece li hanno indossati in fretta e furia per scappare. Non hanno portato con sè giocattoli. Nelle pause tra una sirena e l'altra, si divertono con niente, con quello che trovano, scivolano sulle scale dei sotterranei come fossero al parco. E si tuffano a curiosare fra tutto ciò che vedono a terra, soprattutto se è colorato. Come possono pensare che un giocattolo sia una trappola studiata apposta per uccidere? Eppure.

Quando la guerra va a colpire l'infanzia sembra ancora più atroce, perchè oltre all'innocenza c'è l'ingenuità, c'è quella semplicità che spinge un qualsiasi ragazzino a toccare un oggetto che luccica. Finora sono 128 i bambini uccisi dal conflitto. Di alcuni conosciamo il volto e il nome, di altri no. Altri ancora sono rimasti o resteranno orfani. E tanti, tantissimi sono in fuga: in base al primo rapporto dell'Unicef, uno su due ha lasciato la sua casa. La priorità del Paese è stata: salvare i bambini, anche a costo di dividere in due la famiglia e lasciare il papà al fronte, anche a costo di metterli su un pullman da soli con in tasca un indirizzo scritto su un foglietto di carta.

A Medyka o a Dorohusk, in qualsiasi città di frontiera tra Polonia e Ucraina, non c'è donna che non attraversi il confine tenendo per mano un bambino o una bambina. Non c'è nonna che non cerchi di tranquillizzare il nipotino.

Una situazione «mai vista prima - ammette il portavoce Unicef James Elder - quasi impossibile da affrontare».

Secondo l'Unicef, 4,3 milioni di bambini (sui 7,5 milioni totali) hanno lasciato le loro case in Ucraina. Più di 1,8 milioni di loro sono diventati rifugiati, mentre altri 2,5 milioni sono sfollati all'interno del loro Paese devastato dalle bombe.

I bambini arrivano alla frontiera spesso senza documenti, spesso senza genitori. «Lì il controllo è poco efficace, e gli autisti dei mezzi diventano in qualche modo i loro tutori» spiega Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro che, insieme con l'Intergruppo del Parlamento europeo sui diritti dell'infanzia, ha fatto parte di un viaggio al confine tra Polonia e Ucraina. Se fuori dai confini la solidarietà è tanta, non si può dire che, una volta lasciata l'Ucraina, i bambini siano in salvo. Il rischio che finiscano in cattive mani è altissimo. «I bambini sono a rischio tratta - è l'allarme dell'Unicef - La guerra sta portando ad una massiccia ondata di rifugiati, condizione che porta ad un picco significativo nella tratta di esseri umani». «C'è una grande volontà di fare bene - conclude Caffo -, ma manca un coordinamento reale. Bisogna capire come affrontare il problema in maniera organica e confrontarsi con esperienze in episodi simili, come quello dell'uragano Katrina negli Stati Uniti». Nel frattempo, ovunque, le famiglie italiane aprono la porta di casa e ospitano.

Ucraina, come è complicato spiegare la guerra ai nostri bimbi: le paure e gli assurdi consigli degli "esperti". Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 19 marzo 2022.

Boris è un bimbo biondo come un campo di mais carezzato da aliti di primavera. Vanta un cognome impronunciabile, un fisico da corazziere e un tocco di palla alle pendici dell'area di rigore che, a tratti, lo fa assomigliare a Oleg Blochin, indimenticato centravanti della Dinamo Kiev anni 80. Gioca a calcio nella Nuova Trezzano con mio figlio Tancredi, sette anni, che l'osserva dalla sua porta, lo applaude incrociando i guanti troppo grandi e mi chiede: «Papà, Boris è russo o ucraino?». Non so, amore, ma non è importante. Invece forse un po' lo è. Perché mio figlio è uno dei tanti bambini che sente la guerra, inspiegabilmente rimbombargli dentro. Ha il terrore che ci piovino le bombe addosso, e non ha ancora le idee chiare su chi siano davvero i buoni. Oggi ricorre la Festa del Papà più difficile della mia generazione: siamo qui a dover spiegare ai nostri piccoli l'enormità del conflitto ucraino come fosse un cartone di Peppa Pig. E questo dopo esserci, rotti la testa, ancora prima, a spiegar loro il Covid, mentre a scuola li obbligavano a sorridere dietro la mascherina, inchiodati sui banchi anche durante la ricreazione, tanti piccoli San Sebastiani trafitti dai colori a pastello, distanziati in sala mensa ad aspettare il turno della Cayenna. Se, dopo tutto quello che hanno passato, non avranno un'adolescenza traumatizzante sarà un miracolo.

VADEMECUM CONFUSO

Ora Tancredi mi afferra la gamba all'improvviso, come fa col pallone sulla linea di porta e mi dice: «Papà io ho paura...». E allora eccomi a compulsare libri e smanettare nel web per cercare una metodologia di comunicazione che non me lo faccia diventare né un hippy peace&love né un piccolo oligarca. E inciampo sulle raccomandazioni di Save The Children: «Trova il tempo di ascoltare tuo figlio quando vuole parlare»; «adatta la conversazione al bambino» (ma poi dice «non entrare nei dettagli» e «non fare paralleli con la vita comune», Pompieri ucraini in azione a Kiev dopo un bombardamento russo. La città è sotto i colpi dell'Armata rossa ormai da giorni, anche se l'avanzata dei tank di Putin sembra essersi ormai arrestata. Le immagini delle devastazioni, tuttavia, continuano a fare il giro del mondo. In attesa di una tregua. qualunque cosa significhi); «rassicurali che noi adulti di tutto il mondo stiamo lavorando duramente per risolvere questo problema», ma questa è una balla clamorosa e il ragazzino è tutt' altro che stupido. Infine Save The Children si raccomanda: «Offri un modo pratico per aiutarli», indicando, tra gli altri modi, una raccolta fondi (e qui m' insospettisco). Però, non funziona. Non funziona neanche il consiglio dello psicoterapeuta di turno: «non esponete il minore a immagini di distruzione e morte» (ma per farlo dovrei togliergli Internet e tv), e «spingete la scuola a diffondere il messaggio della Costituzione che vieta la guerra», neanche il mio piccolo fosse Sabino Cassese. Sono ancora più confuso. L'altro figlio, Gregorio Indro, anni dieci, mi preoccupa meno. Ha imparato a leggere sulla biografia di Jimi Hendrix e, ossessionato dal rock, commenta i bombardamenti suonando alla chitarra elettrica Zombies dei Cranberries, Civil War dei Guns 'N Roses e Gimme Shelter dei Rolling Stones allestendo un repertorio antibellico più potente di ogni discorso di Di Maio; si lascia invadere dalla musica, e l'angoscia gli passa subito. Il grande non mi preoccupa. Ma il piccolo è visibilmente agitato.

RAID INCOMPRENSIBILI

Non capisce proprio perché Putin abbia invaso un'altra nazione, né perché i papà degli amichetti ucraini siano costretti a partire perla guerra invece di accompagnarli ai tornei domenicali. Non comprende i raid sugli ospedali e sulla scuole, né perché alla tv -quella poca che guarda di straforo, zampettando tra i talk- ci siano dei signori che danno ragione a chi quegli stessi raid continua a farli indicandoli come un'«operazione speciale». Il problema è che non lo comprendo nemmeno io, che per mestiere dovrei cercare di spiegare bene quello che non so. Finchè il piccolo mi sfodera un sorprendente concetto di fraternità e uguaglianza uscito dall'ora di religione. Mi salva dall'imbarazzo il grande che s' avvicina e mi rassicura «Papi, ora, mentre stiamo così parliamo di Dio». Bene, Greg, questa tua profondità mi commuove. «No, Papi, intendevo Ronnie James Dio, la voce dei Black Sabbath». E attacca con Rainbow In The Dark. Mi hanno fatto intendere che Boris entrerà nella loro band... 

Domenico Quirico per “la Stampa” il 18 marzo 2022.

Quando vedo bambini e adolescenti che impugnano le armi nasce in me un senso di pietà, di compassione, e un sordo rancore verso il mondo per il modo in cui si compiono i destini umani. Anche una buona causa non giustifica usare quelle giovani vite, accostarle all'uccidere, loro che sono così inermi di fronte al tempo e alla storia. Scorro foto di ragazzini che a Leopoli si addestrano nei boschi con armi vere. Solo ieri, nei giorni che hanno preceduto l'aggressione russa, impugnavano buffi kalashnikov di legno per mimare con espressioni serissime i gesti dell'appostarsi, del mirare, dello sparare.

Solo pochi giorni e la finzione è già passata a utilizzare armi vere. Un segno, un altro, del progredire inesorabile della guerra. E poi c'è chi sciaguratamente, per ricordo, fotografa i figli con in mano fucili più grandi di loro. Se la guerra si prolunga il buio inghiottirà un'altra generazione e nel cuore di quella che era, un tempo, l'Europa della pace. È questa una delle eredità più terribili che semina dietro di sé: i ragazzi, i bambini che si abituano alla guerra, la respirano e ne sono intossicati. Che attorno alle armi aggrappano il faticoso percorso della loro condizione umana.

La guerra non li abbandonerà più, li terrà di riserva, pronti ad arruolarli per quella successiva. Che ci sarà perché si alimenterà di loro, perché non avranno masticato il pane soffice della pace. Si stenta a credere fino a che punto, a quell'età, la guerra aderisca alla carne, le resti incollata, ne sia quasi indistinta. Mi angustia il buio che avvolge queste esistenze impossibili da immaginare.

Provo a tirare qualche filo della memoria, in altri luoghi. Il Congo del confuso assalto al potere del dittatore Mobutu: eserciti che assomigliano a feroci bande di briganti e a compagnie di ventura si inseguono nelle foreste risalgono il grande fiume, si trascinano dietro reclute bambine. Incrocio un gruppo di ribelli dell'ambiguo Kabila, contrabbandiere di diamanti e guerrigliero che ha appena catturato un soldato: laidezza, terrore, sangue che scorre, un odio così indifferente, automatico da sembrare banale. 

Convocano un ragazzino, forse 13, 14 anni. Indossa una divisa verde, ma quello che colpisce sono gli stivali di gomma con cui cammina a fatica: perché sono di un numero troppo grande, lo costringono a passi lunghi, goffi per non inciampare. Tiene con le due mani un mitra, lo stringe disperatamente come se fosse la sua cosa più preziosa. E certo lo è. Il prigioniero è a terra, sfigurato dalle botte, dal naso fracassato e dalla bocca da cui cerca di assorbire disperatamente ossigeno esce a fiotti sangue che lo fanno tossire. Il capo dei guerriglieri ridendo ordina al ragazzino di ucciderlo. Lui si concentra.

Toglie la sicura, prende la mira divaricando le gambe per essere ben saldo. Spara una raffica breve. L'uomo si accerta con un calcio che il prigioniero sia morto. Soddisfatto accarezza il capo della piccola recluta con un gesto assurdamente affettuoso, dolce come se volesse premiarlo per un compito svolto bene. A volte mi chiedo quale è stato il destino di quel ragazzino che ormai, se è ancora vivo, è un uomo adulto. Se è ancora vivo... La risposta più probabile è che abbia continuato a combattere, avvolto dalla guerra che in quei luoghi non è mai finita.

Forse quel mitra con cui ha scoperto come si uccide lo ha sostituito con un altro più moderno, più micidiale. Non credo possa mai aver posseduto oggetti più moderni di quella canna di acciaio e di legno con i suoi lucidi proiettili dai bagliori di argento e d'oro. Chi ha assaggiato la guerra da ragazzo, a cui è stato detto che l'importante è non morire così, per niente, senza portarsi dietro un nemico, che ogni mattino ha imparato a dimenticare se stesso e tornare a ieri, che non può confrontare il suo presente con il sogno di giorni che scorrano nella pace e nell'abbondanza, rischia di non abituarsi a un mondo senza violenza data e subita, morti, dolore.

È una espropriazione originaria di sé, non si appartiene più a nessun mondo. In quanti luoghi abbiamo lasciato, disinteressandoci a guerre che consideravamo secondarie e troppo primitive per noi, che venissero educate queste generazioni della guerra? E quante di queste guerre infinite senza tregue e paci possibili sono la conseguenza di queste generazioni guerriere? Il male, ben più intraprendente del bene, ha la tendenza a diffondersi perché ha il privilegio di essere fascinatore e contagioso.

Dalla guerra non ritorna nessuno, nemmeno i vivi, nemmeno i ragazzi. Chi ha vissuto le rovine, i bombardamenti, imbracciato un fucile anche solo per finta, appartiene alla guerra, la sua anima resta là. Lo abbiamo visto in Siria: i ragazzi della rivoluzione, spesso studenti che avevano lasciato i banchi e le aule per imparare a sparare, hanno scelto poi di arruolarsi nei battaglioni jihadisti, nelle katibe di Al Qaida e poi del califfato. Perché quelli erano i guerrieri senza dubbi, i meglio armati, quelli che sapevano fare la guerra e uccidere i nemici con micidiale efficacia. 

È l'attrazione fatale dell'estremo che in guerra funziona sempre. Anche in questa nel centro dell'Europa che è una guerra laica, i miliziani della destra nazionalista che inneggiano al collaborazionista e nazista Bandera, largamente minoritari nella società ucraina quando era in pace, a poco a poco diventeranno i più ammirati, i più ascoltati, quelli con più reclute. In Ucraina per fortuna nessuno ancora arruola bambini. Ma nei due campi la guerra rischia di partorire una generazione fanatica della forza, della violenza, dell'estremo.

Se non la fermiamo subito questo sarebbe il nostro delitto maggiore. Quando finirà aspetteranno che qualcuno spieghi, che qualcuno si avvicini loro e dica: so che hai combattuto, so perché lo hai fatto. Sapere perché sono morti i compagni, perché si è sparato contro il bene, la giustizia, perché le città sono crollate e le donne e i bambini poco più giovani di loro sono stati bombardati. Perché? Nessuno saprà loro rispondere. Bisogna rispondere ora. Impedendo che la guerra li deformi per sempre.

Quei bambini spariti nel nulla sotto le bombe dell'Ucraina: le storie, i volti e le voci dalla guerra. Corrado Zunino La Repubblica il 18 Marzo 2022. 

I casi di quattro bimbi dei quali si sono perse le tracce nel corso del conflitto. Sono 900 quelli scomparsi secondo le Ong. Ci sono 900 bambini e ragazzi ucraini spariti. Lo hanno denunciato le loro madri, i loro padri. Sono svaniti in un bosco, sotto le bombe, durante il viaggio per la salvezza. E anche alla frontiera. Le Ong Magnolia e Telefono azzurro stanno facendo emergere la nuova tragedia del conflitto. Ecco le loro storie.

Dagotraduzione dal Times il 16 marzo 2022.

A Kiev 21 neonati, nati da madri surrogate, sono bloccati in una clinica improvvisata in un seminterrato e accuditi da un gruppo di infermiere perché la guerra ha reso impossibile per i loro genitori raggiungerli. Il personale ha raccontato di non sapere quando potranno venirli a prendere. 

«Non è colpa loro se è successo», ha detto Oksana Martynenko, una delle infermiere. «Non è colpa loro se i genitori non possono venire a prenderli. Quindi rimaniamo qui, li stiamo aiutando con quello che possiamo».

Anche Martynenko ha dei figli, ma sono intrappolati a Sumy, una città a 320 chilometri dalla capitale, che è stata oggetto di pesanti bombardamenti da parte delle forze russe. «Dal 24 febbraio non sono in grado di tornare a casa», ha detto ieri a Reuters.

«Vengo dalla regione di Sumy, ma non posso andarci. Ho dei bambini a casa. . . [I russi] hanno iniziato a bombardare la nostra città ieri. Attendiamo notizie ogni giorno su ciò che sta accadendo lì… Ma non possiamo lasciare questi bambini».

L'Ucraina è un centro internazionale di maternità surrogata, e secondo alcune stime vi nascono ogni anno, da madri surrogate, migliaia di bambini. Il personale della clinica ha raccontato che due coppie, una tedesca e una argentina, sono arrivate a Kiev. 

I bambini della clinica di Kiev sono nati in vari reparti maternità della capitale e sono stati portati lì per la loro sicurezza. Antonina Yefymovych, un'altra infermiera, ha detto che il personale era intrappolato e lavorava 24 ore su 24 per prendersi cura dei bambini. «Non abbiamo tempo per riposarci ora0…. Cerchiamo di fare dei sonnellini, di scambiarci. È dura, dura», ha detto.

Irene Soave per il corriere.it il 12 marzo 2022.

Dalla bambina Kim Phuc colpita dal napalm al ribelle in piazza Tienanmen, fino a Mariana, la blogger incinta di Mariupol: ogni guerra ha le sue foto simbolo, e nell’era dei social ha una sua foto simbolo quasi ogni giorno di questa guerra in Ucraina. Oggi è il giorno della figlia, 9 anni, del fotografo amatoriale Oleksii Kyrychenko: un fucile in braccio, un lecca lecca in bocca, è seduta sul davanzale di una casa dalle pareti annerite dal fumo. 

Il titolo della foto è «Girl with Candy» e in queste ore è molto ripresa sui social; l’ha twittata anche l’ex presidente del Consiglio Europeo, il polacco Donald Tusk, scrivendo: «Ora dite a lei che sanzioni più pesanti sarebbero troppo costose per l’Europa».

La piccola Kyrychenko, con il suo lecca lecca e il fucile (scarico) in braccio, è diventata un simbolo del lato più inaccettabile della guerra, quello contro i bambini. Dal bombardamento dell’ospedale pediatrico a Mariupol, ai primi colpi su un asilo nel Donbass, fino all’arresto di cinque bambini a Mosca, la guerra ha colpito più volte i più piccoli: sarebbe minorenne, peraltro, uno dei due milioni di rifugiati che hanno già lasciato l’Ucraina dall’inizio del conflitto. 

Il padre della bambina, Oleksii Kyrychenko, spiega la storia della foto sulla sua pagina Facebook. La bambina ha 9 anni ed è stata messa in posa proprio dal papà; il fucile che ha in mano, «naturalmente scarico, è il mio», spiega Kyrychenko nei commenti, dove si moltiplicano le richieste di condividere la foto.

«Prendetela pure, serve a richiamare l’attenzione sull’aggressione della Russia in Ucraina». Non è il solo scatto di questa serie: un’altra foto della bambina, questa volta in piedi, condivide lo stesso titolo, «Girl with Candy», di fronte a un murale con la scritta «Putin khuylo», più o meno «fottuto Putin». Sotto, un account anonimo scrive: «questa foto è falsa, è del 2018». Risponde l’autore: «I russi mentono sempre». La guerra è anche questa.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 15 marzo 2022.

I chirurghi di Kiev hanno dovuto amputare il braccio di una bambina di 9 anni per salvarle la vita. La piccola, di cui si conosce solo il nome, Sasha, è rimasta ferita mentre fuggiva insieme al padre, alla madre e alla sorella dai combattimenti nel sobborgo di Hostomel la scorsa settimana. 

La famiglia stava scappando in auto quando il mezzo è stato colpito da una raffica di proiettili che ha ucciso il padre. La piccola, insieme alla mamma e alla sorella, sono riuscite a mettersi in salvo scappando in strada e poi rifugiandosi in una cantina. 

Per due giorni Sasha è rimasta priva di conoscenza, finché non è stata portata su una barella improvvisata in un vicino ospedale che sventolava bandiera bianca. Parlando dal suo letto in ospedale, la piccola ha detto: «Non so perché i russi mi hanno sparato. Spero sia stato un incidente e che non intendessero farmi del male».

«Mi hanno sparato al braccio. Sono corsa dietro a mia sorella. Mia madre è caduta. Ho pensato che fosse la fine. Ma non era morta, si stava solo riparando dagli spari. Si stava nascondendo. Poi ho perso conoscenza. Qualcuno mi ha portato in cantina. Mi hanno curato come potevano. E poi alcune persone mi hanno portato in ospedale su un asciugamano». 

Al Central Irpin Hospital a Bucha il chirurgo vascolare Vladislav Gorbocev ha scoperto che il braccio della piccola stava andando in cancrena e ha deciso di amputarle il braccio sinistro sopra il gomito, altrimenti sarebbe morta. 

Il dottor Gennadiy Druzenko, del First Volunteer Mobile Hospital, ha detto che Sasha è uno dei tanti bambini che hanno subito terribili ferite nella battaglia per Kiev. «Questa ragazza è stata portata al Central Irpin Hospital con ferite terribili. Le avevano sparato mentre stava evacuando da Hostomel con i suoi genitori. Suo padre è stato ucciso a colpi di arma da fuoco mentre li allontanava dai combattimenti nella sua macchina».

«È stata gravemente ferita, ha perso conoscenza ed ha iniziato a delirare. I soldati russi hanno cercato di entrare nella cantina in cui aveva trovato rifugio. Hanno sparato alla porta e hanno urlato alla gente di uscire. Finalmente la ragazza è stata portata in ospedale da civili che sventolavano una bandiera bianca mentre correvano attraverso la zona di battaglia». 

I sobborghi nord-occidentali di Gostomel, Irpin e Bucha sono in prima linea nella battaglia per Kiev. Lì l’esercito russo ha lanciato un massiccio assalto alle città satellite della capitale, nella speranza di sfondare la difesa ucraina e catturare Kiev. 

LA STORIA. In fuga a soli 12 anni arriva a piedi in Romania: secondo l’Unicef oltre un milione di bambini ha lasciato l’Ucraina. I genitori di Bogdan hanno invece deciso di restare a combattere. Dorella Cianci su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Marzo 2022.  

Quando una guerra finisce – e tutte finiscono perdenti – c’è un Paese intero da ricostruire, un tessuto sociale da riorganizzare, morti da seppellire oltre le fosse comuni, idee politiche da scegliere, ospedali da rimettere in piedi…Ma non è tutto. Ci sono i bambini. I bambini da riportare in patria, insieme a occhi da ripulire. È un film già visto e soprattutto è un film che si vede in molte zone del pianeta. Tutto questo l’abbiamo già raccontato anche a Est.

A distanza di oltre un secolo dalla Prima Guerra Mondiale, il pedagogista Canevaro realizzò un progetto di cooperazione internazionale in contesti di guerra. Nel difficile passaggio dal regime comunista della Jugoslavia alla nascita della Bosnia-Erzegovina, l’azione pedagogica, partendo dall’emergenza immediata, definì, in quei contesti così fragili, un modello formativo finalizzato all’inclusione  dei bambini con difficoltà di apprendimento a causa della guerra. Tuttavia, qui, non siamo certamente a quella fase né possiamo cantare, coi Baustelle, «La guerra è finita», ma c’è anche chi ha deciso di farla finire a prescindere dalla geopolitica o dalla storia.  Bogdan ha 12 anni. I suoi genitori sono di Sumy ed entrambi hanno deciso di organizzarsi per la resistenza. Hanno fatto questa scelta per loro stessi e per l’Ucraina – condivisibile o meno non è il tema che ci compete - ma non per il loro bambino. Così gli hanno messo addosso un giaccone pesante, guanti e berretto di lana, scarponcini da montagna, come quelli dei tempi in cui andavano a sciare, e l’hanno fatto salire su un bus diretto a Dnipro. Qualcosa però è andato storto, perché dalla città arrivavano terribili notizie, e i punti di controllo russi erano fin troppo pericolosi, nonostante la possibilità di transito lasciata alla Croce Rossa.

Non si riescono a interpretare bene i fatti accaduti a Bogdan. Non si sa se gli è stato consigliato di fuggire o se è scappato da quel bus troppo lento per la salvezza: è stanco e spaventato per raccontarlo, ma intanto è giunto – oseremmo dire miracolosamente – al confine con la Romania, questo pezzo di terra oggi accogliente, ma anche in una posizione complicata. È il secondo bambino, di cui si ha notizia, che eroicamente raggiunge i confini a piedi! Non c’è da aspettarsi sorrisi e foto d’occasione, ma soprattutto l’accoglienza dei volontari, essi stessi increduli dinanzi a tanto cammino.

Secondo le fonti ufficiali dell’UNICEF, oltre 1 milione di bambini ha lasciato l’Ucraina. Molti sono scappati soprattutto con le loro madri in Polonia, Ungheria, Slovacchia, Moldavia e Romania.  «Il numero di bambini che si stanno spostando è impressionante, un’indicazione di quanto disperata sia diventata la loro situazione», ha dichiarato  Afshan Khan, direttore regionale UNICEF per l’Europa e l’Asia Centrale.  «I bambini si stanno lasciando dietro tutto ciò che conoscono alla ricerca della sicurezza. È straziante». Finora sono arrivati circa 70 tonnellate di aiuti, che comprendono dispositivi di protezione individuale e kit medici, chirurgici e ostetrici. Lavorando con i partner,  i team dell’UNICEF stanno distribuendo aiuti a 22 ospedali in cinque aree differenti dell’Ucraina, a supporto di 20mila bambini e madri. 

Questo non basterà per dimenticare l’orrore dei racconti dell’ospedale di Mariupol, ma è certamente un segnale importante. L’UNICEF, in queste ore, sta rinnovando il suo appello per un accesso umanitario sicuro, rapido e senza impedimenti per raggiungere davvero le popolazioni che hanno bisogno di aiuto e di un passaggio sicuro. Tre camion sono partiti dal magazzino di Copenaghen  - il più grande hub umanitario al mondo - per trasportare, lungo i diversi confini, aiuti di base, come kit per lo sviluppo della prima infanzia, ma anche materiale ricreativo, per cercare di ridare un po’ di fantasia nella desolazione.  Come disse il fisico e Nobel per la pace, Andrej Sacharov: «La strategia della coesistenza pacifica e della collaborazione deve essere approfondita in tutti i modi». Era un uomo russo.

Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera” l'8 marzo 2022.

L'esplosione avviene di fronte alla chiesa, domenica alle nove di mattina. Sul selciato quattro corpi. Due fratelli, Alisa di 9 anni e Miketa di 18, assieme alla mamma, Tatiana di 43 anni. Poco distante quello di un giovane uomo, Anatoly di 27 anni. Così in un secondo è stata spazzata via un'intera famiglia da un mortaio russo. 

A riprendere per primo la scena è Andriy Dubchak, fotografo ucraino che collabora con il New York Times . Ed è lui a raccontare: «Stavo camminando per le vie di Irpin, il villaggio attaccato dai russi a nord-ovest di Kiev. C'erano profughi che cercavano di scappare. Stavo facendo foto e film. Poco prima avevo sentito colpi di mitragliatrice, stavo muovendomi con altri colleghi. 

Ad un certo punto è stato chiaro che i russi da distanza avevano visto i profughi che tentavano di scappare. Gli sfollati erano centinaia: donne, bambini, anziani, malati erano aiutati dai volontari. Allora è arrivata la bomba». 

Dal suo video si vede lo scoppio. Per caso lui stava filmando e lui stesso è rimasto leggermente ferito ad una caviglia da una scheggia. C'è la polvere, le schegge, un volontario rimane colpito. Appena la polvere si dirada Andriy riprende la scena, ruota la telecamera ed è allora che si odono grida, richieste di aiuto. I corpi sono sull'asfalto. «I due fratelli sono morti subito.

Quando sono corso sul posto già non respiravano più. La mamma era incosciente, ma aveva il polso. È deceduta poco dopo». Vittime tra le vittime. Secondo i profughi, le strade di Irpin e del vicino villaggio di Bucha sono insanguinate di cadaveri abbandonati. I civili si muovono piano, intimoriti dagli scoppi, spaventati dalle fiamme, procedere tra i detriti con i bagagli si rivela difficile. 

 Molti sono a loro volta fuggiti da altre zone, non conoscono le strade, spesso non sanno neppure dove andare per raggiungere le zone protette di Kiev. «I russi giocano come il gatto col topo. A lunghi momenti di calma seguono secondi di fuoco», dicono i testimoni. Andriy non è riuscito sul posto a capire chi fossero i morti. Nessuno li conosceva e nel caos tutti cercavano di scappare.

Racconta ancora: «Ho postato le immagini delle vittime sui social locali e dopo poche ore la madrina dei bambini mi ha contattato. Ho scoperto che sono una famiglia di Donetsk venuta a vivere a Irpin al tempo dell'invasione russa nel 2014. 

Lei ha chiesto come sono morti. Voleva sapere se avessero sofferto, piangeva molto. Tutti loro sono chiusi nei bunker. Tatiana e i due figli avrebbero dovuto raggiungerla. Ora la madrina dovrà recuperare i corpi che si trovano nell'obitorio centrale di Kiev. Tra loro faranno il funerale. A Kiev adesso risiede una comunità di sfollati da Donetsk».

Lui ha impressa l'immagine dei due fratelli. Miketa aveva il viso insanguinato. Entrambi erano molto coperti, fa freddo e la gente si muove con i vestiti pesanti. Anche l'uomo che era con loro è morto velocemente, aveva le arterie inguinali recise. Dai racconti raccolti sul posto sappiamo che ci sono ancora tanti feriti abbandonati nelle strade dei villaggi colpiti. Molti muoiono di freddo, senza alcuna assistenza. Non sappiamo se i profughi vengono curati dai russi.

«La gente fa di tutto per scappare dai russi. E nessuno ci dice che le truppe russe aiutano o curano i feriti. Al meglio lasciano che la gente fugga», dice Andriy. Tra i profughi gira voce che i soldati russi a Bucha siano d'origine cecena, famosi per la loro crudeltà. Un dato che contribuisce a fomentare la paura. Lui stesso parla di quella quarantina di minuti come un vero inferno. «Dopo il mortaio i colpi sono continuati a cadere fitti. Tornando ho dovuto gettarmi a terra almeno sette volte e mi sono riparato due volte nelle case abbandonate».

"Per la prima volta dai tempi della seconda guerra mondiale, un piccolo è morto disidratato". Bimbo muore di sete a Mariupol, il dramma della guerra: “Torture russe, hanno tagliato rifornimenti”. Redazione su Il Riformista l'8 Marzo 2022.

Un bambino è morto di sete a Mariupol dopo che i russi hanno “deliberatamente tagliato i rifornimenti di acqua e cibo oltre all’elettricità“. E’ l’accusa pesantissima rivolta dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky in un video pubblicato sul canale Telegram in cui denuncia le “torture” delle truppe militari di Mosca nonostante la tregua annunciata per “scopi umanitari”.

“Per la prima volta dai tempi della seconda guerra mondiale, un bambino è morto disidratato” a Mariupol – che conta circa 300mila abitanti – dove la popolazione “è stata circondata e bloccata” dalle forze armate russe sottolinea Zelensky.  Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba ha accusato l’esercito russo di aver violato il cessate il fuoco a Mariupol, bombardando il corridoio umanitario di Zaporizhzhia che dovrebbe permettere ai civili di lasciare in sicurezza la città meridionale che affaccia sul mar Nero. Bombardamenti, prima della tregua annunciata, anche a Sumy con un bilancio di 21 civili, tra cui 2 bambini, secondo quanto riporta il Kyiv Independent.

Dall’inizio del conflitto sarebbero almeno 41 i minori che hanno perso la vita, stando a quanto riferisce il governo di Kiev.  E’ il dramma della guerra e delle vittime civili, il cui numero aumenta giorno dopo giorno anche se il dato ufficiale, riportato dall’Onu, è assai approssimativo. Secondo le Nazioni Unite infatti le vittime collaterali del conflitto provocato dall’invasione russa il 24 febbraio scorso sono almeno 474, tra cui 29 bambini. I civili feriti sono 861 civili. Secondo l’Onu, tuttavia, le cifre reali potrebbero essere molto piu’ alte, in particolare nei territori controllati dal governo in cui il numero delle vittime non è stato ancora confermato ufficialmente.

“Questo – si legge in una nota dell’Onu- riguarda per esempio le città di Volnovakha, Volnovakha e Izium, dove vi sono notizie che parlano di centinaia di civili uccisi non sono stati inclusi nelle statistiche ufficiali”. Nelle regioni separatiste filo-russe di Donetsk e Luhansk le Nazioni Unite hanno registrato finora 96 persone uccise e 449 ferite. “La maggior parte delle vittime civili sono state provocate dall’uso di armi esplosive, in particolare da bombardamenti con artiglieria pesante, razzi, missili e attacchi aerei”, conclude il comunicato.

In Ucraina ci sono circa 100mila bambini orfani che vivono in 600 istituti sparsi in tutto il paese. Sono rimasti senza mamma e senza papà, perché magari sono morti in un paese dove già da 8 anni in alcune regioni c’è la guerra, o sono stati abbandonati perché magari erano troppo poveri per poterli mantenere. Un dramma nel dramma.

Piazzapulita, lo studio del prof Orsini (Luiss): "L'unica sanzione che ferma le bombe in Ucraina". Giada Oricchio su Il Tempo il 10 marzo 2022.

Alessandro Orsini, professore di sociologia internazionale alla Luiss di Roma, è finito nell’occhio del ciclone e ha sfiorato la censura da parte dell’Università per aver sì condannato l'invasione dell'Ucraina da parte di Putin, ma specificando che la responsabilità politica, a suo dire, è dell’Unione Europea.

Di nuovo ospite di “Piazza Pulita”, l’approfondimento politico condotto da Corrado Formigli su LA7, giovedì 10 marzo, Orsini ha toccato un altro tema caldo: le sanzioni contro la Russia. “Basandomi sui miei studi della guerra civile in Yemen, dico che noi stiamo usando male le sanzioni, dovremmo vincolarle a un dato preciso: i bambini morti. Nel 2016 l’Arabia Saudita ha fatto morire tantissimi bambini sotto le bombe e l’Onu ha sanzionato il Paese inserendolo in una lista nera e dicendo che se ne avesse uccisi altri avrebbe inasprito le sanzioni. L’Arabia Saudita ha costituito un comitato e sottoposto a provvedimenti disciplinari i piloti che nei bombardamenti colpiscono i bambini. La conseguenza è stata che nel 2020 l’Onu ha tolto il Paese dalla lista nera perché il numero è drasticamente diminuito”.

Ed ecco l’errore che secondo il professore stanno commettendo i leader europei: “Stanno facendo morire più persone perché hanno legato le sanzioni al conflitto complessivo, più sanzioni non lo fermeranno, ma se cerchiamo di perseguire un solo obiettivo che è salvare i bambini, forse possiamo avere un’attenuazione di tutto il conflitto. Se Putin vorrà uccidere meno bambini inevitabilmente colpirà meno civili perché sono sempre in famiglia. Siccome questa è una guerra di lungo periodo, dobbiamo prendere in considerazione un uso strategico delle sanzioni”.

Quel business che va avanti anche sotto le bombe: il bunker delle surrogate a Kiev. Alessandra Benignetti l'11 Marzo 2022 su Il Giornale.

Decine di bimbi nati da madri surrogate parcheggiati in un bunker a Kiev in attesa di essere consegnati ai genitori: è il business dell'utero in affitto che va avanti nonostante la guerra.

A Kiev ci sono donne e bambini di serie "B", che non possono mettersi in viaggio sui treni in partenza per l’Ovest, presi d’assalto da centinaia di migliaia di profughi in cerca di salvezza. Sono le madri surrogate costrette a restare in Ucraina per portare a termine la gravidanza su commissione. Una settantina, al momento, soltanto quelle contrattualizzate dalla Biotexcom, secondo quanto rivela all’Huffington Post Irina Isaenko, manager della stessa clinica, una delle più rinomate nel campo dell’utero in affitto.

Portare mamme e bambini al sicuro fuori dal Paese è sembrata sin dall'inizio un'ipotesi fuori discussione. La pratica, infatti, è vietata nella maggior parte degli Stati europei e si andrebbe incontro ad una serie di problemi dal punto di vista legale. In poche parole, al momento del parto, la surrogata verrebbe considerata per quello che è, e cioè la madre naturale del bambino che porta in grembo. Così la clinica, già prima che piovessero i primi missili russi in territorio ucraino, ha allestito un bunker sotterraneo poco distante da Kiev per ospitare i neonati e i genitori acquisiti attesi nella capitale per prelevare il proprio bebè.

Le immagini pubblicate sul sito web della Biotexcom fanno impressione. I neonati vengono presi dall’ospedale e scortati da uomini armati all’interno di un sotterraneo, dove saranno accuditi da alcune infermiere. Il rifugio, viene spiegato in un secondo filmato da una delle addette della clinica, può contenere oltre duecento persone. All’interno c’è tutto il necessario per sopravvivere anche diversi giorni in caso di attacco. Dalle maschere antigas alle scorte di pannolini, salviettine e latte in polvere, fino ai kit di primo soccorso. "La clinica internazionale Biotexcom non ferma il suo lavoro e assicura la sicurezza dei bimbi nati durante la guerra", assicura la società.

"Il capo dei medici della clinica – spiegano ancora dall’azienda - preleva personalmente i bambini dai reparti di maternità degli ospedali di Kiev e assieme ai colleghi, accompagnati dai volontari del battaglione Karpatska Sich, li porta in un luogo sicuro". "I bambini nati in questi giorni non hanno nessun bisogno e sono al sicuro, di loro si prendono cura le baby sitter e sono in attesa che migliori la situazione e finalmente potranno stare con i loro genitori", assicura all’Huffington Post la manager. La procedura è la stessa per tutti: le mamme vengono trasferite a Kiev una volta raggiunto il settimo mese di gravidanza e dopo il parto i bimbi vengono spostati nel bunker. Isaenko rivela al sito di informazione che tra gli ultimi nati ci sarebbero anche due bimbi commissionati da coppie italiane.

Insomma, neppure la guerra riesce a fermare il business che in Ucraina coinvolge una trentina di cliniche private e cinque statali. Nessuno, evidentemente, ha intenzione di rinunciare ai soldi che i clienti hanno già versato. I pacchetti vanno dai 39mila ai 65mila euro. Alle surrogate ne spettano circa 10mila. Secondo quanto si legge sul settimanale Tempi, nei prossimi tre mesi soltanto dalle madri surrogate assunte dalla Biotexcom dovranno nascere circa 200 bambini.

Piccoli con un futuro incerto, perché se è vero che per ora nessuno ha rinunciato al proprio bebè, anche correndo il rischio di avventurarsi in un Paese in guerra, sono ancora vive nella memoria le immagini delle decine di bebè parcheggiati per mesi nell’Hotel Venezia di Kiev durante il lockdown della primavera del 2020, o la vicenda della bimba di 16 mesi abbandonata a Kiev dai genitori che non la volevano più. Solo che adesso fuori dal bunker ci sono i carri armati, una città assediata e una battaglia che si preannuncia senza quartiere.

Parla il Garante per l’Infanzia e l’adolescenza della Campania. Bambini ucraini in Italia, come funziona l’accoglienza e l’affido temporaneo: “Vigiliamo con massima attenzione”. Rossella Grasso su Il Riformista il 10 Marzo 2022. 

Il conflitto in Ucraina continua a creare drammi e traumi soprattutto tra i più piccoli. Oltre un milione di bambini ha già lasciato l’Ucraina in 14 giorni di conflitto e sono 100mila gli orfani costretti a trovare riparo in altri paesi. Tutti minori costretti a lasciare tutto ciò che conoscono e che amano alla ricerca di sicurezza. Alcuni viaggiano con le loro mamme, altri sono affidati a conoscenti e altri ancora sono completamente soli. Una tragedia umanitaria enorme.

“In Italia sono già arrivati 6mila bambini e altri ancora arriveranno nei prossimi giorni. Per la loro tutela, accoglienza e protezione la nostra attenzione è altissima”, spiega Giuseppe Scialla, Garante per l’infanzia e l’adolescenza della Regione Campania. Il garante spiega che tutti i bambini che arrivano in Italia, siano essi accompagnati o soli, vengono accolti dalle istituzioni, registrati e vaccinati. “Tutto avviene nell’assoluto rispetto dei loro diritti ed esigenze, sono bambini, non pacchi. Stanno vivendo una situazione particolarmente difficile e a loro è dovuta tutta l’attenzione e l’assistenza speciale possibile”.

Nel caso dei minori non accompagnati poi l’attenzione è ancora più grande. Una volta arrivati in Italia, con il contributo istituzionale della Protezione Civile, delle prefetture e delle questure vengono divisi in centri di prima accoglienza e case famiglia. “Il mio massimo impegno insieme alle istituzioni è quello di vigilare affinchè a questi bambini sia dato sostegno e affetto per una crescita sana. Bisogna stare attenti anche alle situazioni in cui i bambini sono ‘affidati’ ad amici o parenti per arrivare in Italia. Non devono finire assolutamente in situazioni sommerse. Per questo registrarli è fondamentale: se non lo sono rischiano di diventare invisibili e possono essere reclutati facilmente in brutte situazioni. Ma la macchina dello Stato è attiva e vigile”.

La tremenda situazione che stanno subendo i bambini ucraini ha scosso tanti cittadini italiani che subito si sono chiesti come fare a mettersi a disposizione per ospitare a casa bambini in fuga dall’orrore. Il garante spiega che soprattutto trattandosi di bambini è importante seguire le procedure con grande attenzione. Nessun bambino sarà ospitato a casa di volontari senza il vaglio del tribunale dei minorenni, assistenti sociali e dalle istituzioni preposte. E le procedure per l’affidamento non hanno tempi brevi. “Il rischio che un bambino possa finire in mani sbagliate è troppo grande, per questo parlare di affido temporaneo dei bambini in fuga dall’Ucraina è troppo presto”.

Il Garante spiega infatti che l’affido temporaneo è previsto dall’ stato d’emergenza e consiste nell’avere in affidamento un minore anche solo per un certo periodo di tempo. “Questo è previsto in caso di emergenza e in questi giorni stiamo elaborando un piano d’azione compatto insieme a prefetture, questure e servizi sociali su come gestirlo nel futuro. Per il momento i prefetti stanno facendo un’attenta ricognizione di strutture già preposte all’accoglienza dei bambini su tutto il territorio nazionale e su strutture offerte da privati per questo scopo. Lo stato c’è, non lasceremo mai soli i bambini”.

Dunque i cittadini possono proporre la loro disponibilità all’affido temporaneo ai servizi sociali, prefetture e questure. Il Garante spiega che ci sono anche alcune Onlus che hanno avviato la raccolta di disponibilità “ma deve essere chiaro che tutto passa per le istituzioni che passo passo vigileranno sulle procedure di affidamento e nel garantire al bambino che la famiglia affidataria sia davvero all’altezza di potergli offrire tutto il meglio. Ho invitato i prefetti a vigilare anche sulle onlus”. L’immagine dell’offrire la disponibilità e avere a casa un bambino poco dopo è molto lontana dalla realtà. La procedura non è immediata proprio per tutelare tutti i diritti del bambino. Non basta segnalare la propria disponibilità: bisogna che le famiglie affidatarie siano valutate, conosciute e soprattutto formate per questo grande compito che decidono volontariamente di assumersi.

La legge 47/2017 stabilisce infatti che per i minori stranieri non accompagnati ci sia la figura del tutore: un cittadino che volontariamente si offre per dare voce al bambino che magari è accolto in casa famiglia e per firmare il consenso informato e altre attività e tutelarne i diritti e la persona. “Per svolgere questa funzione è necessario essere nominati dal Tribunale per i minorenni e svolgere corsi di formazione gestiti dal Garante dell’infanzia. Sono bambini, vanno maneggiati con grandissima cura, questo non bisogna dimenticarlo mai”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

L’allarme umanitario di Save the Children: "troppi bimbi soli". Ucraina, un milione di bambini in fuga dalla guerra: “Negli occhi l’orrore, nei disegni solo bombe e razzi”. Elena Del Mastro su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

L’intera popolazione ucraina è stremata dalla guerra. Al tredicesimo giorno dall’inizio dell’invasione russa si stima che dall’Ucraina siano riuscite a scappare circa 2 milioni di persone. Tra queste si stima che i bambini siano tra gli 800mila e un milione circa. Una cifra che non ha precedenti nella storia delle crisi umanitarie.

Un numero sempre più alto di bambini arriva alla frontiera da solo, senza il sostegno della famiglia: è una vera e propria emergenza per la loro protezione. È il grave allarme lanciato da Save the Children, che sottolinea come i suoi operatori impegnati al confine riportino dell’arrivo di alcuni bambini soli, mandati verso altri paesi da familiari costretti a rimanere in Ucraina, che hanno cercato di metterli al sicuro da attacchi e bombardamenti. Altri hanno perso le loro famiglie nella concitazione della fuga dalle loro case, molti hanno meno di 14 anni e manifestano segni di disagio psicologico.

Come riportato dall’Ansa due studentesse fotografe hanno messo su un progetto realizzato alla stazione di Varsavia, una delle stazioni in cui in questi giorni si stanno riversando centinaia di profughi ucraini. Paulina Byczek e Klaudia Kopczynska hanno fotografato i bambini in arrivo e chiesto loro di disegnare quello che provavano. Il progetto si chiama “Piccoli soli”. Molti dei bambini che hanno coinvolto nel progetto viaggiavano con le loro mamme, altri magari con parenti.

Le due fotografe hanno chiesto ai piccoli di esprimere le loro emozioni con dei disegni. Sono venuti fuori cuoricini, arcobaleni, bandiere ucraine. Ma pure carri armati e bombe. Poi ci sono i commenti. Quelli di ogni bambino: “Voglio diventare un medico”; “voglio avere una Lamborghini”. E quelli che invece i bambini non dovrebbero conoscere: “Voglio che mio papà sia accanto a me”; “voglio la pace”. Umid, 6 anni, ha disegnato la casa e la scuola. Poi ha scritto: “Voglio diventare un soldato. Non mi uccidere. Io non voglio morire”.

Paulina ha detto che l’ha colpita soprattutto il disegno di Evelina, 8 anni. “Ha disegnato due smile che sarebbero il viso di Putin e la bandiera Ucraina: poi è andata a sostenere la mamma che piangeva tantissimo. È stata lei ad abbracciarla e ad asciugarle le lacrime”. Ogni bambino ha reagito in maniera diversa. “Molti sembravano chiaramente traumatizzati, altri solo timidi, altri ancora si tenevano la testa tra le mani come se cercassero di non sentire, altri correvano come se niente fosse”. Su Instragram Paulina ha messo i disegni e scritto una cosa molto vera. In questo momento “possono essere quelli che ci indicano la strada. I bambini mettono la luce dove noi non guardiamo, perché abbiamo paura o ci dimentichiamo. Allora lasciamoli parlare”. E soprattutto, portiamoli lontano dalla guerra.

Save the Children “sta lavorando senza sosta con altre organizzazioni, per stabilire procedure per rintracciare i parenti dei bambini arrivati soli e facilitare il ricongiungimento familiare o per mettere in bambini in contatto con la famiglia allargata e i conoscenti in Polonia o nei paesi limitrofi. Inoltre, l’organizzazione è attiva per stabilire sistemi di protezione e meccanismi di segnalazione per i minori”, fa sapere.

“I genitori stanno ricorrendo alle misure più disperate e dolorose per proteggere i propri figli, incluso l’allontanarli da sé e mandarli via con vicini e amici, per cercare sicurezza fuori dall’Ucraina, mentre loro rimangono in patria per proteggere le loro case”, ha dichiarato Irina Saghoyan, direttrice di Save the Children per l’Europa orientale. “Per i bambini, la separazione dai propri cari può tradursi in un profondo stress psicologico dovuto all’insicurezza, alla paura per le sorti dei membri della propria famiglia e all’ansia da separazione.

Aumentano anche i rischi di violenza, sfruttamento, tratta e abusi. Molti di loro viaggiano con i loro fratelli maggiori o con famiglie allargate, vicini o altri adulti di riferimento. Hanno bisogno di protezione e supporto e sono ancora incredibilmente vulnerabili”, ha proseguito Saghoyan.

Devono essere compiuti tutti gli sforzi per prevenire la separazione dei bambini dai loro caregiver e per garantire il tracciamento immediato della famiglia e il ricongiungimento laddove si verifichi la separazione. Sappiamo che più velocemente agiamo, più è probabile riuscire a riunire con successo i bambini ai loro caregiver. Continueremo a rispondere dove c’è più bisogno e dove i bambini necessita si urgente protezione”, ha concluso. L’organizzazione chiede alle autorità “di frontiera e alle organizzazioni umanitarie di mettere in atto misure per cercare di far rimanere i bambini con i loro caregiver di riferimento, di fornire supporto psicosociale incentrato sui bambini e attuare programmi per prevenire la separazione dalle famiglie. Questi servizi devono includere spazi e informazioni a misura di bambino, ricerca e ricongiungimento familiare e supporto alla salute materno-infantile”.

Save the Children opera in Ucraina dal 2014, fornendo aiuti umanitari essenziali ai bambini e alle loro famiglie, sostenendo il loro accesso all’istruzione, supportandoli a livello psicosociale, distribuendo kit invernali e kit per l’igiene, e fornendo denaro alle famiglie in modo che possano soddisfare le esigenze di base come il cibo, l’affitto e le medicine, o in modo che possano investire in nuove attività.

Il personale e i volontari di Save the Children stanno distribuendo cibo, acqua e prodotti igienici ai rifugiati che arrivano al confine tra Romania e Ucraina e nei centri di accoglienza, afferma l’organizzazione; in Polonia e Romania, stanno fornendo servizi di protezione dell’infanzia, come il supporto mirato per i minori non accompagnati e separati, il supporto psicosociale e l’accesso ai servizi legali. Anche in Italia l’organizzazione è attiva al valico Fernetti dove, in collaborazione con Unicef, distribuisce bene di prima necessità, informazioni e dispositivi sanitari ai bambini profughi in arrivo nel nostro Paese.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 4 marzo 2022.

Le affermazioni di Putin, che ha sostenuto di non prendere di mira i civili, sono state messe a nudo definitivamente la scorsa notte quando è stato pubblicato il video qui sopra: un’auto familiare viene mitragliata dai carri armati su una tranquilla strada di campagna fuori Kiev. 

Il presidente russo ieri ha pronunciato un discorso dichiarando che erano i leader ucraini «gangster» ad usare i civili come «scudi umani» e questa era la ragione dell’alto numero di vittime. 

Ma nel giro di poche ore è emerso questo filmato che mostra un padre e suo figlio fermati da un convoglio russo e crivellati di colpi. A filmare la scena è stato il figlio, che accompagnava il padre a Kiev per mettere in salvo i loro tre cani. La loro auto viene costretta ad accostare sul ciglio della strada da un convoglio russo. A quel punto, mentre i russi sono a notevole distanza, l’auto viene martoriati di proiettili. «Esci e sdraiati» grida il figlio al padre, «riesci a sentimi? Torna indietro e abbassati a destra».

Pochi secondi dopo altri colpi si schiantano contro l'auto e si sentono i cani gemere per la paura e il dolore. 

Il figlio riesce a mettersi in salvo uscendo dall’auto e rifugiandosi nel sottobosco, ma il padre è costretto a uscire in strada. Altre dozzine di spari risuonano prima che il figlio, strisciando dietro l'auto, riesca a raggiungere il padre sdraiato in strada. 

«Papà! Papà!» grida angosciato. «Sei ancora lì? Tieni duro!». Poi gli dice di stare giù mentre l'uomo cerca di sedersi per guardare le sue ferite.  «Papà, cazzo! Come mai?» chiede lamentosamente il figlio. Quando la sparatoria si placa, il figlio striscia di nuovo dal retro dell'auto.

«Mi è stato strappato il piede» ringhia il padre agonizzante mentre giace in una pozza di sangue. Il figlio a quel punto trascina il padre nel sottobosco. «Per favore, non morire, ti sto implorando» gli dice disperato. Ma l’uomo non ce la fa e spira nel fosso dove l’ha portato il figlio. 

Si ritiene che il filmato, scoperto e verificato da Radio Free Europe, sia stato girato venerdì scorso. La famiglia era fuggita dalla propria casa a Ivankiv, nella regione di Kiev, dopo gli attacchi iniziali della Russia, ma è tornata per prendere i propri animali domestici. I giornalisti locali hanno sostenuto che nessuna truppa ucraina si trovava nell'area dell'attacco, e secondo testimoni si trattava di veicoli militari russi. 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 4 marzo 2022.

Iliya stava giocando a calcio per le strade di Mariupol con i suoi due amici. Pochi secondi dopo, era morto. A sedici anni. L’immagine del padre Serhii piegato sul cadavere del figlio, nascosto sotto a un lenzuolo macchiato di sangue, sta facendo il giro del mondo. L’uomo ha a lungo cullato il corpo, singhiozzando ininterrottamente e gridando «figlio mio». 

È solo l'ultima di una serie di immagini scioccanti emerse dalla sanguinosa zona di guerra in Ucraina, dove la selvaggia invasione di Vladimir Putin è costata la vita a centinaia di civili innocenti.

Iliya è stato colpito giovedì mentre giocava su un campo da calcio vicino alla sua scuola nella città di Mariupol, sul Mar d'Azov. I suoi due compagni sono stati trovati con le gambe crivellate di schegge e ora affrontano la prospettiva di amputazioni. Il trio è stato portato d'urgenza all'ospedale più vicino nel retro dell'auto, ma Iliya è stato dichiarato morto all'arrivo. 

Evgeniy Maloletka, il fotografo dell'Associated Press che ha scattato la tragica immagine, ha dichiarato al Telegraph: «L'auto si è fermata in ospedale. Hanno aperto il retro e c'erano due adolescenti. Uno aveva le gambe crivellate di proiettili, sembravano carne cruda. Era Iliya. Era già morto. Artyom era seduto dietro di lui. Era cosciente. Sono stati portati d'urgenza in terapia intensiva. Iliya era già morto all'arrivo». 

Ha aggiunto: «Artyom e David avevano le gambe crivellate di proiettili. Alle persone con quelle ferite vengono amputate le gambe. Non sono sicuro di cosa accadrà loro».

«L'ospedale in cui sono stati portati è stato bombardato da un sistema multi-razzo Grad. Le case vicine sono state bombardate. Le persone in quell'ospedale spesso devono sdraiarsi per terra».

Orrore in Russia, bambini arrestati e portati in cella per una notte. In Russia la polizia ha arrestato anche i bambini accusati di aver manifestato in favore dell'Ucraina. Portati in cella, ci sono rimasti per una notte. Il Dubbio il 3 marzo 2022.

«Putin è in guerra con i bambini. In Ucraina, dove i suoi missili hanno colpito asili e orfanotrofi, e anche in Russia». Lo ha scritto in un tweet il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba. «David e Sofia, di sette anni, Matvey di nove, Gosha e Liza di 11 hanno passato la notte dietro le sbarre a Mosca per i loro slogan “No ALLA GUERRA” (NO TO WAR) – ha aggiunto con alcune foto – Ecco quanto è spaventato».

Secondo quanto ricostruito, la notizia sarebbe stata diffusa dalla ricercatrice Alexandra Arkhipova, la quale aveva postato le foto su Facebook. I bambini arrestati in Russia avevano lasciato dei fiori davanti all’ambasciata ucraina. Poi sono stati portati insieme ai loro genitori all’OVD di Presnenskoye, rimanendo in stato di fermo per una notte. 

Ucraina, «cento bambini uccisi a Kharkiv», mentre Kiev resiste. Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.  

L’attacco russo è ormai talmente diffuso e profondo che nessuno può dirsi al sicuro. Non c’è città o villaggio che ne sarà risparmiato, nulla lascia credere che Putin intenda fermarsi

 Quanto tempo potranno resistere? 

Uno dei beni più venduto adesso in tutta l’Ucraina è il nastro adesivo da attaccare alle finestre per evitare che le schegge dei vetri infranti causati dagli spostamenti d’aria delle bombe, divengano proiettili letali. L’attacco russo è ormai talmente diffuso e profondo che nessuno può dirsi al sicuro. Non c’è città o villaggio che ne sarà risparmiato. Lo sanno bene anche il presidente Zelensky e i suoi consiglieri: invitano i cittadini ad avere fiducia nei militari — «noi resistiamo, combattiamo, vinceremo», dicono — ma intanto invitano tutti a ripararsi nei bunker e organizzarsi in luoghi protetti. 

Kiev guarda con preoccupazione in particolare alla regione di Kharkiv, la seconda città del Paese situata proprio a ridosso del Donbass occupato dai filorussi sin dal 2014. Le colonne di profughi, che da là sono fortunosamente riuscite a raggiungere le pensiline della stazione ferroviaria della capitale e adesso attendono ansiose di saltare sul primo treno diretto a Ovest, sono trattate con particolare riguardo. 

Tanti tra loro hanno storie d’orrore da raccontare. «I russi bombardavano senza alcun rispetto per nessuno e senza fare alcuna differenza tra civili e militari. Hanno colpito il Palazzo dell’Opera in Piazza della Libertà, devastato i begli edifici antichi della municipalità», ci raccontava ieri Caterina, una maestra di scuola, che con l’anziana madre cerca di arrivare dal resto della famiglia già rifugiata a Varsavia.

I combattenti

Difficile avere idee precise sul numero delle vittime. Le colonne blindate russe ormai controllano le regioni circostanti. Sappiamo che nel centro alcune cellule combattenti ancora sparano, ma sono pochi nidi di resistenza. 

Ieri Sergey Chernov, che è presidente del Consiglio regionale di Kharkiv, collegandosi via telefonica durante i lavori del Summit europeo delle regioni riunito a Marsiglia, ha dichiarato che le vittime civili ucraine «sono ormai migliaia» e che in particolare nel distretto di Kharkiv, «i morti civili sono oltre duemila, tra loro oltre cento bambini». 

A suo dire, la tecnica russa della «terra bruciata» qui sta funzionando al massimo: «Tirano su scuole, centri culturali e università». Oggi a Roma si tiene una manifestazione di protesta per denunciare i massacri a cui parteciperà anche l’Organizzazione umanitaria Save the Children. 

Ma nulla lascia credere che Putin intenda fermarsi . «Le nostre operazioni militari proseguono come programmato», continua a ripetere. E infatti, a guardare le mappe del conflitto, si evince l’intenzione di occupare tutto il Paese stringendo Kiev nella tenaglia di tre armate, che avanzano progressivamente da sud, da est e dal nord. Con l’emergere dei dettagli dell’offensiva sin dalle prime ore la mattina dello scorso 24 febbraio, appare adesso evidente che in un primo momento i generali russi avevano ideato una sorta di guerra lampo per catturare subito la capitale. 

Le truppe speciali a bordo di una trentina di elicotteri, restando a bassa quota per non essere identificate dai radar, erano arrivate sul cielo dell’aeroporto di Hostomel, situato 26 chilometri a nord di Kiev. Il piano russo era di conquistare la piazza e da qui lanciare l’attacco finale sulla capitale: presa la testa, sarebbe stato più semplice sbaragliare il resto del corpo del Paese. Ma la reazione rabbiosa degli ucraini ha bloccato l’azione e Putin ha allora puntato sulla gigantesca colonna di uomini e mezzi (in realtà un vero corpo d’armata), che sta lentamente avanzando dal confine russo verso sud e da tre giorni è ferma a circa una ventina di chilometri dai quartieri settentrionali di Kiev.

La sorpresa dei russi

Molto lascia credere che la resistenza ucraina iniziale abbia sorpreso i russi. Però Putin ha ancora molte carte da giocare: è lui che decide i tempi dell’offensiva e sceglie le strategie adattandole alla situazione sul terreno. Chiunque abbia per esempio seguito da vicino la battaglia di Debaltsevo, nel Donbass tra il gennaio e febbraio 2015, sa bene che le sue truppe speciali e specialmente i battaglioni di teste di cuoio cecene e delle province asiatiche russe sono tra i più efficienti e determinati al mondo. I loro uomini hanno pochi scrupoli umanitari, uccidono e rischiano senza problema, tra loro ci sono cecchini scelti e sono splendidamente addestrati. Furono loro a chiudere l’accesso all’aeroporto di Donetsk e ad allargare i confini della zona russa verso Lugansk.

La fortezza zarista

I difensori di Kiev ne sono consapevoli e cercano di adeguarsi. Ogni giorno che passa la città si fortifica. Ancora ieri abbiamo potuto osservare nuove barricate rispetto al giorno prima. Nel bunker della scuola numero 281 nelle zone meridionali circa 200 tra donne e bambini stavano accumulando riserve d’acqua e cibo. Poco lontano, presso l’ospedale militare, una trentina di volontari accovacciati nel cortile di una vecchia fortezza zarista stavano preparando migliaia di bottiglie molotov da distribuire ai volontari. E le sirene hanno suonato più volte durante la giornata. Almeno quattro forti esplosioni hanno scosso il centro. La guerra è sempre più vicina.

La sorella di 13 anni Sofia ricoverata in gravi condizioni. Polina e Semyon, i fratellini di 10 e 5 anni uccisi in Ucraina mentre fuggivano dalla guerra. Vito Califano su Il Riformista il 4 Marzo 2022. 

Polina e Semyon avevano 10 e 5 anni. Erano fratelli. Sono morti entrambi nella guerra in Ucraina, con la madre e il padre, mentre tentavano di scappare con la famiglia dal Paese invaso dalla Russia. Il piccolo era stato ricoverato insieme con l’altra sorella Sofia, 13 anni, ancora in ospedale in gravi condizioni. La notizia della sua morte è stata confermata ieri sera dal quotidiano britannico Telegraph.

L’auto sulla quale viaggia la famiglia era stata bersagliata dal fuoco di un “gruppo di sabotatori russi” secondo quanto reso noto dal vice sindaco di Kiev Volodymyr Bondarenko. I genitori Anton Kudrin e Svetlana Zapadynskaya erano morti in quell’attacco. Il veicolo si sarebbe ritrovato con la loro automobile nel mezzo di uno dei tanti blitz delle forze speciali russe nella capitale ucraina. La fotografia di Polina, la bimba dalla ciocca di capelli rosa che frequentava l’ultimo anno della scuola elementare, con le pepite turchesi in mano aveva fatto il giro del mondo. Era stata pubblicata sui social da Bondarenko.

La notizia della sua morte era stata data sabato scorso, a poche ore dall’inizio dell’operazione per “smilitarizzare” e “denazificare” l’Ucraina annunciata in televisione dal Presidente russo Vladimir Putin. Il fratellino Semyon era stato ricoverato nella terapia intensiva dell’ospedale pediatrico di Okhmatdyt. È sopravvissuto solo pochi giorni. Le prime notizie avevano parlato di un bombardamento poi smentito dalla ong italiana Soleterre. La famiglia è stata colpita nei combattimenti in strada.

La guerra colpisce anche i bambini. Lunedì scorso. Il Presidente Volodymyr Zelensky aveva parlato di 16 bambini rimasti vittime del conflitto – i bollettini del conflitto di Kiev e Mosca non combaciano, in questa fase caotica del conflitto i dati sono parziali e alterati dalla propaganda. L’ospedale Okhmatdyt, nel centro di Kiev – dove arrivavano pazienti da tutta l’Ucraina -, aveva trasferito tutti i pazienti negli scantinati. E proprio nei sotterranei sono nati dei bambini. “I nostri medici sono incredibilmente orgogliosi! Nessun ospedale ha chiuso, tutti lavorano e forniscono assistenza medica. Nessuno aveva paura e tutti guardiamo coraggiosamente negli occhi del nemico. Siamo sulla nostra terra! Proteggiamo le nostre famiglie. Ognuno è al suo posto come meglio può”, aveva dichiarato il ministro della sanità ucraino, Viktor Lyashko al canale telegram Ukrain Now.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Morto anche il fratellino di Polina: aveva solo 5 anni. Il dramma dei bambini in Ucraina, vittime innocenti della guerra e nati nei bunker sotto le bombe. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 3 Marzo 2022.  

Polina aveva solo 11 anni. La sua immagine, capelli biondi e una mèche rosa, ha fatto il giro del mondo. Alisa invece di anni ne aveva 7, ne avrebbe compiuti 8 tra tre mesi, e viveva nel Donbass. Sono morte entrambe: due giovanissime vite spezzate dalla guerra, che sta facendo pagare ai più piccoli un prezzo terribile.

Sarebbero almeno 17 i bambini e gli adolescenti morti in 8 giorni di conflitto: ma queste sono solo le segnalazioni che le Nazioni Unite hanno potuto verificare, il vero numero delle vittime è probabilmente molto più alto. Mentre gli appelli di Save The Children si moltiplicano: secondo l’organizzazione sarebbero ‘decine’ le vittime tra i bambini e già 400mila quelli che hanno lasciato il Paese in cerca di salvezza, molti dei quali non hanno nulla se non i vestiti che indossano.

L’ultimo, tremendo bilancio parla di circa 2mila morti tra i civili.

Polina, morta insieme ai suoi genitori

Polina frequentava l’ultimo anno della scuola primaria. Nella foto che la ritrae sorride mostrando delle pietre, probabilmente per lei preziosissime. Lunedì scorso era in auto con i genitori, il fratello e la sorella in una strada a nord-ovest di Kiev, dove si è verificato uno scontro tra le forze speciali russe e l’esercito ucraino. Lei è morta insieme alla mamma e al papà. Oggi, secondo il Telegraph, è deceduto anche il fratellino Semyon di 5 anni mentre la sorella maggiore Sofia, di 13, è ancora ricoverata in gravi condizioni, senza sapere che il resto della sua famiglia non c’è più.

Sofia e Ivan avevano rispettivamente sei anni e poche settimane: sono morti in un attacco a Cherson, a Sud del Paese, stando a quanto riportato da Yevhen Zhukov, capo della polizia di pattuglia ucraina. La famiglia stava provando a fuggire in automobile: con loro colpiti anche i nonni.

Alisa e gli altri di cui non conosciamo il nome

Alisa si era rifugiata con la mamma in un asilo di Ochtyrka durante un bombardamento russo, nel secondo giorno di guerra. È stata raggiunta da una scheggia ed è morta il giorno dopo in ospedale, come ha denunciato la procuratrice generale Irina Venediktova. Un secondo bambino è stato invece ricoverato in terapia intensiva. 

A Mariupol, città sul Mare d’Azov, la bambina dal pigiamino con gli unicorni e i capelli castani è morta in sala operatoria: i medici non sono riusciti a salvarle la vita. Il palazzo in cui viveva è stato sventrato, racconta Repubblica. La madre l’ha attesa invano fuori dall’ospedale, con in mano le sue pantofole rosa e la sua sciarpa con un pon pon.

Appena tre giorni prima un altro bambino di 6 anni era rimasto vittima del bombardamento nel suo condominio di Chuhuiv, cittadina alle porte di Kharkiv.

Via dall’Ucraina i bimbi malati di cancro

Bimbi che muoiono, altri che rischiano di morire senza le cure adeguate. Sono atterrati a Linate oggi 3 marzo i primi 12 piccoli pazienti oncologici, insieme ai loro familiari: in Italia potranno continuare le terapie salvavita. Il volo umanitario è stato organizzato dalla Regione Lombardia a supporto del lavoro che Soleterre, Ong che opera da oltre 20 anni in Ucraina, porta avanti per garantire i trattamenti ai bimbi malati di tumore.  “Questi piccoli pazienti – ha raccontato il presidente di Fondazione Soleterre, Damiano Rizzi – hanno percorso 2.255 chilometri. Abbiamo creato un corridoio umanitario per farli uscire dalla capitale Ucraina e toglierli dalle bombe. Tutti i pazienti sono stati evacuati con il personale sanitario e i loro genitori. Un viaggio stremante, in treno, bus e persino a piedi, durante il quale sono state sempre garantite le cure.”

Una vera e propria ‘operazione lampo’. Ora tutti i pazienti provenienti dai centri oncologici di Kiev si trovano presso l’Ospedale pediatrico di Leopoli: “Da lì verranno afferiti alle diverse strutture europee che hanno offerto disponibilità all’accoglienza, in primis la Polonia” ha sottolineato Rizzi.

I bimbi che nascono nei bunker

E poi c’è la vita. Quella che continua nonostante la guerra e rappresenta la speranza, nelle cantine e nei rifugi sotterranei dove i civili che non possono o non riescono a fuggire dal Paese trovano riparo. Ed è proprio qui che i bimbi ora nascono.

L’immagine di Mia, la bambina nata in rifugio antiaereo a Kiev, ha commosso il mondo. La sua storia è stata raccontata dalla presidente della conferenza ‘Democracy in Action’ Hannah Hopko: “Mia è nata in un rifugio questa notte in un ambiente stressante, durante il bombardamento di Kiev. Sua madre è felice dopo questo parto difficile. Difendiamo la vita e l’umanità”. Ma non è stata l’unica a venire al mondo nei giorni più difficili e cupi dell’Ucraina.

Un altro bimbo, di cui non si conosce il nome, è nato sempre il 25 febbraio nel seminterrato di un ospedale della capitale, dato che la sala parto era stata distrutta dalle bombe. Come loro Fedor, che sua madre Viktoria ha partorito in bunker freddo e fatiscente, nel secondo giorno di conflitto, mentre fuori si sentivano le sirene e le bombe russe. “Mentre lo tenevo stretto nel bunker, gli ho detto: sei fortunato, sei unico, sei nato in Ucraina, sei la nuova Ucraina” ha raccontato la donna al Guardian. Mariangela Celiberti 

"Sembrava un incubo e volevamo svegliarci". Guida per 27 ore per salvare donne e bambini ucraini, la storia di Alina: “Appena superato il confine abbiamo pianto”. Rossella Grasso su Il Riformista il 3 Marzo 2022. 

È partita da Leopoli venerdì, a poche ore dallo scoppio della guerra, ha guidato per 27 ore di seguito a bordo di un furgone carico di donne e bambini. Alina, ucraina, vive a Napoli da 22 anni. Era andata a trovare la sua famiglia a Leopoli quando la Russia ha iniziato a invadere l’Ucraina. Un rapido giro di telefonate e in poche ore era in partenza di ritorno verso Napoli insieme a un gruppo di donne e bambini.

“Abbiamo passato 18 ore alla frontiera – racconta Alina – Ci abbiamo messo tre giorni per arrivare in Italia. Ho guidato da sola per 27 ore, la paura era tanta. I bambini hanno paura delle sirene. Quando siamo entrati in Europa i bambini hanno sentito un aereo che passava sulle nostre teste sono scoppiati a piangere perché avevano paura che potessero cadere delle bombe. Noi gli abbiamo detto: ‘guardate, qui non c’è la guerra’. Ma è una cosa difficile per i bambini da capire. Come mai a soli 2mila chilometri c’è la guerra e qui no?”.

“Eravamo tutti disorientati, sembrava che stavamo vivendo un incubo e volevamo svegliarci da quell’incubo. Non conoscevo i miei compagni di viaggio. Erano amici di amici che mi hanno chiamata, chi mi ha chiesto come poteva fare ad attraversare la frontiera, donne spaventate che volevano venire con me perché gli uomini non possono uscire dall’Ucraina. E così ci siamo organizzati per partire insieme”.

Una volta partiti il viaggio è durato 3 giorni. “Alla frontiera c’erano decine e decine di chilometri di coda. Avevamo con noi una bambina piccola che ha solo il certificato di nascita ucraino. Ma ci hanno fatti passare. Sono riuscita a rimanere sveglia per 27 ore, guidando da sola. Poi siamo arrivati a Budapest e le donne e i bambini sono scesi un po’ dal camion perché non ce la facevano più. Arrivati a Udine ci stava aspettando un ragazzo che ci avrebbe aiutati a scendere a Napoli e così sono riuscita a riposare un po’”.

“Ero a casa mia in Ucraina per le feste, mai mi sarei aspettata di trovare la guerra – continua il racconto Alina –  Per fortuna però che ero lì così sono riuscita a portare con me alcune persone. A casa mia si sono rifugiate persone da Kiev, dal centro dell’Ucraina. La situazione lì era tragica già prima che partissimo. Avevamo paura perché anche nelle città all’ovest hanno bombardato i militari e tu non lo sai. Puoi vivere vicino ai militari e la bomba può finire chissà dove”.

Alina racconta che i camion e gli autobus vanno e vengono da Napoli all’Ucraina. “Ieri sono arrivati qui altri 15 persone, un’altra macchina è partita per l’ucraina poche ore fa, abbiamo già caricato alcuni tir con i beni di prima necessità da mandare in Ucraina. Stiamo raccogliendo medicine, vestiti, alimenti a lunga conservazione da mandare ai nostri concittadini. In primis mandiamo medicine e cibo, poi vestiti, torce, batterie e tutto quello che può essere utile anche a chi vive nelle campagne, per guardarsi intorno di notte e difendersi”.

I primi camion sono partiti, Alina vigila su consegne e smistamento nei pacchi nel punto di raccolta di via pagano 33, nel cuore del Rione Sanità di Napoli. Insieme a un gruppo di connazionali sta raccogliendo tutto ciò che può servire in Ucraina a chi sta combattendo. “Per ora sta andando tutto bene – ha concluso Alina – Ma ci hanno detto che stanno sparando e quindi chi porta i beni ha paura di entrare là nei posti dove ci sono i russi. C’è chi non ha paura e va lo stesso e rischia la propria vita per portare da mangiare a questi bambini che sono rimasti negli scantinati”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

L’impresa di Zazo: l’ambasciatore italiano in Ucraina ha salvato 20 minori. Il Quotidiano del Sud il 2 Marzo 2022.

Nel trasferimento dell’ambasciata d’Italia da Kiev a Leopoli l’ambasciatore Pierfrancesco Zazo è riuscito a portare in salvo anche circa 20 minori, tra cui 6 neonati, che aveva accolto in ambasciata in questi giorni perché privi di un posto sicuro dove stare.

L’ambasciatore Zazo è stato l’ultimo rappresentante diplomatico europeo, in ordine di tempo, a trasferire l’ambasciata a Leopoli, una decisione dettata dalla necessità di assicurare la piena operatività della sede diplomatica a sostegno dei connazionali.

“Sono ore drammatiche, abbiamo vissuto momenti difficilissimi, in cui abbiamo avuto paura anche di perdere la vita – racconta uno degli italiani rientrato da Kiev insieme alla famiglia nelle scorse ore –. Vorrei ringraziare l’Ambasciatore Zazo e tutto il suo staff per l’aiuto che ha dato agli italiani bloccati in Ucraina. Ci ha aperto le porte dell’Ambasciata, insieme a decine di altre persone, fra cui moltissimi bambini. Siamo stati accolti nell’abitazione dell’Ambasciatore che ci ha messo a disposizione cibo e un rifugio. Ora sono al sicuro in Italia, ma sento dagli amici ucraini che la situazione a Kiev è molto peggiorata e i rischi di un attacco sulla città sono concreti. Spero davvero riescano a mettersi in salvo, e che questa guerra disumana e senza senso finisca al più presto”.

“È stata una brutta avventura: ero a Kiev, l’attacco delle 5.02 della notte mi ha svegliato, avevo paura. I missili avevano colpito l’aeroporto di Boryspil. Ho provato a scappare in Polonia ma dopo dieci chilometri il traffico era paralizzato, così sono andato all’ambasciata. E lì ho trovato una persona che mi ha salvato, l’ambasciatore italiano a Kiev Pier Francesco Zazo: ha messo a disposizione la sua residenza, tre piani, a 105 persone”. È pieno di emozione il racconto di Luciano Luci, 72 anni, ex arbitro di calcio (con 100 presenze in serie A) che era a Kiev come designatore per la serie A e B ucraina.

Luci è atterrato oggi alle 13.40 all’aeroporto fiorentino di Peretola, con un volo diretto da Francoforte dopo essere partito con un pullman da Kiev verso la Moldavia. “Abbiamo vissuto notti con continui allarmi. Alla fine ce l’abbiamo fatta”, racconta ancora Luci che aveva aperto il suo racconto precisando: “La prima cosa che voglio dire è gloria all’Ucraina, gloria agli eroi ucraini”.

All’arrivo a Firenze Luci è stato accolto dalla moglie Gianna e da uno dei figli, Stefano. Raggiungerà la sua abitazione a Barberino di Mugello (Firenze) dove sarà accolto, con una piccola festa, dai suoi concittadini.

“Grande orgoglio l’ambasciatore italiano in Ucraina Pier Francesco Zazo, che nel trasferimento dell’ambasciata da Kiev a Leopoli ha portato in salvo un gruppo di minori e neonati. L’ennesima riprova del lavoro straordinario del corpo diplomatico e delle forze armate. Grazie”. Lo scrive in un tweet il sottosegretario agli Affari europei Enzo Amendola.

Il ministro della difesa ucraino: "Nostre città avamposti dell'Europa". Civili uccisi, esercito russo “codardo e terrorista”. Reznikov: “Sangue e lacrime, 168 ore di resistenza”. Redazione su Il Riformista il 3 Marzo 2022. 

Non sono soldati ma “codardi e terroristi” perché “stanno bombardando ospedali, uccidendo donne e bambini”. Parole del ministro della Difesa ucraino Oleksiy Reznikov secondo il quale gli invasori, temendo la sconfitta, avrebbero cominciato a commettere crimini contro l’umanità.

“Non sono più un esercito, sono comuni codardi e terroristi. Ci sono ancora molte prove da affrontare. Ci saranno sangue, lacrime, dolore. Ma ora più che mai abbiamo tutte le ragioni avere fiducia” perché “le capacità delle nostre forze armate stanno crescendo, gli aiuti stanno arrivando” ha sottolineato Reznikov, attraverso i propri canali social.

“Prima che tutto questo accadesse, in pochi avrebbero immaginato che avremmo potuto resistere alla Russia per 168 ore. Per un’intera settimana. Ma è così: l’Ucraina – chiosa – ha respinto gli occupanti russi. Ma nessuno, lo ripeto, né la Russia né l’Occidente credeva che saremmo durati una settimana. Gli unici che lo credevano eravamo noi” ovvero la maggioranza degli ucraini.

Il ministro della Difesa che “Chernihiv, Sumy, Konotop, Kharkiv, Mariupol, Kherson, Mykolayiv sono gli avamposti dell’Europa” e lancia un ulteriore invito alla “resistenza totale” contro le truppe russe: “E’ arrivato il momento di aumentare la pressione sul nemico, che ha perso l’iniziativa. E’ il momento di passare alla resistenza totale”. Reznikov si è rivolto soprattutto ai cittadini dei territori temporaneamente occupati dalle truppe russe. Con il vostro aiuto il nostro esercito vincerà e scaccerà più velocemente gli occupanti. Le truppe russe devono essere private del supporto della retroguardia”, ha sottolineato.

Poi l’invito ad attaccare le colonne di rifornimento che seguono le quelle corazzate. “Se il nemico rimane senza carburante, rifornimenti, cibo, supporto tecnico, non sarà in grado di fare nulla”.

I Feriti. Chiara Bruschi per “il Messaggero” il 23 maggio 2022.

C'è un'altra emergenza nei territori dell'Ucraina orientale, già martoriata dal conflitto iniziato il 24 febbraio con l'invasione della Russia. E riguarda gli ospedali, dove mancano medici, infermieri, medicinali e attrezzature per curare i feriti e salvare chi arriva in pericolo di vita. Molti hanno abbandonato il Donbass già allo scoppio dei primi missili, altri se ne sono andati dopo, incapaci di reggere una situazione insostenibile. Non è quello che ha fatto Yaroslav Bohak, chirurgo cardiovascolare che ha ricevuto una telefonata la notte dell'invasione.

Come racconta in un reportage il New York Times, si trovava a casa sua, al sicuro, nell'ucraina occidentale, quando un collega lo ha chiamato rivolgendogli un appello disperato: a Kramatorsk c'era bisogno di aiuto, i chirurghi rimasti erano costretti ad amputare gli arti invece che tentare di salvarli. «Mi ha telefonato ha raccontato e mi ha detto che non riusciva più a tagliare le braccia a ragazzi così giovani».

E così il dottor Bohak ha deciso di partire e ancora oggi continua a operare tra le bombe e i missili chiunque varchi la soglia dell'ospedale, siano questi civili, militari o nemici. Come quando a richiedere assistenza è stato un soldato russo, trasportato d'urgenza e curato «con umanità», mentre degli addetti alla sicurezza piantonavano la sua stanza per evitare ritorsioni.

L'ospedale più vicino in grado di trattare i casi più disperati è a Dnipro e dista a 280 chilometri e arrivarci per la maggior parte dei feriti è un'impresa troppo pericolosa. «Questo è il motivo per cui il mio arrivo è stato così importante», ha spiegato. Da quando è arrivato in corsia come volontario le amputazioni sono state ridotte quasi a zero.

Dei dieci medici ne sono rimasti solo due e i sei infermieri lavorano a turni di 24 ore, senza sosta.

Sono quasi tutti volontari perché le persone, ha raccontato la caposala, «hanno paura» e qui restano solo «gli stoici». E lo stesso sta accadendo nelle altre cittadine che si trovano loro malgrado in prima linea. Ad Avdiivka l'unico chirurgo in corsia ha trascorso mesi nelle sale del pronto soccorso, uscendo solo per qualche corsa veloce al supermercato, tra i bombardamenti. A Sloviansk è rimasto un terzo dello staff.

Non è solo il personale a scarseggiare: un altro chirurgo, Pavlo Baiul, ha lanciato un appello all'American Society of Plastic Surgeons di cui è membro affinché inviino forniture mediche. «Anche se molto ci viene inviato ha raccontato - non tutto arriva a destinazione, c'è bisogno di molto altro». «Nessuno ti prepara per la guerra», ha aggiunto Svitlana Druzenko, che coordina l'evacuazione dei feriti dalle zone di combattimento. A maggior ragione in una zona così densamente popolata che non era abituata a dover gestire un numero così elevato di feriti.

Nonostante gli avvertimenti dell'Occidente e in particolare dalla Casa Bianca sulle intenzioni belliche della Russia, in molti in Ucraina si erano rifiutati di credere che un'invasione potesse avvenire davvero. E quando l'attacco è cominciato gli ospedali non erano pronti ad affrontare una simile emergenza, con un aumento vertiginoso di pazienti e soprattutto di ferite da guerra.

 Come ha testimoniato un altro chirurgo volontario nell'ospedale militare di Zaporizhzhia, Maksim Kozhemyaka, gli ospedali si sono ritrovati all'improvviso «inondati da 30 o 40 pazienti al giorno» e non avevano «abbastanza materiale per curare ferite inflitte da arma da fuoco o altre ancora più gravi». «Non credevamo potesse accadere», ha concluso.

I Prigionieri. Lo scambio che umilia Mosca. Liberati i "nazisti" dell'Azov. L'accordo: tornano a Kiev 205 soldati del battaglione. In Russia l'oligarca Medvedchuk, amico di Putin e Trump. Angelo Allegri il 23 Settembre 2022 su Il Giornale.  

Per il presidente della Duma Vyacheslav Volodin gli uomini del battaglione ucraino Azov erano semplici «criminali nazisti» che meritavano un processo immediato ed esemplare. E ai tempi della loro cattura, alla caduta di Mariupol, i politici russi avevano fatto a gara nel chiedere pene severe fino alla morte. Sono passati pochi mesi e i «nazisti» dell'Azov sono già tutti casa. Tutti salvo cinque, i capi, che in base all'accordo mediato dal presidente Recep Tayyp Erdogan, dovranno rimanere in Turchia (in libertà e con ogni possibilità di frequentare le famiglie) fino alla fine della guerra. Tra loro due nomi ormai leggendari in Ucraina, il comandante Denys Prokopenko (nome di battaglia Redis) e il vice Svaytoslav Palamar (Kalyna).

È il frutto dello scambio di prigionieri più clamoroso mai avvenuto tra Mosca e Kiev. Da una parte 215 soldati di reparti ucraini (ci sono anche 10 foreign fighters, tra cui 5 britannici e 2 americani); dall'altra 55 militari russi, anche loro già arrivati in patria. Questi almeno sono i termini dello scambio secondo il comunicato ufficiale del Ministero della difesa russo. Che ha dimenticato di citare solo un nome (reso noto nella notte di ieri dal governo di Kiev), quello, però più importante, il perno intorno a cui ha girato tutta la trattativa: Viktor Medvedchuk, oligarca ucraino, amico personale di Vladimir Putin, arrestato dal governo di Volodymyr Zelensky poche settimane dopo l'inizio della guerra.

La dimenticanza è il segnale dell'imbarazzo con cui le autorità di Mosca hanno dovuto gestire un accordo che agli occhi dei nazionalisti russi è impresentabile. Ieri i canali Telegram locali ribollivano di indignazione. «Che cosa ci avevano detto due mesi fa? Che non li avrebbero mai liberati» scriveva Grey Zone, considerato vicino al Gruppo di mercenari Wagner. Igor Girkin, ex colonnello del Fsb ed ex capo delle milizie del Donbass era ancora più chiaro: «È peggio di un crimine e di un errore, è stupidità pura». Altri blogger parlavano di sabotaggio, mentre Denis Pushilin, leader della Repubblica di Donetsk, ha detto di capire chi considerava l'intesa «ambigua».

Liberare i «nazisti», contro i quali la guerra è iniziata, appare già difficilmente giustificabile agli occhi dell'opinione pubblica. Se poi la liberazione avviene in cambio del miliardario amico di Putin si rischia davvero il corto-circuito propagandistico. Ma con tuta evidenza, almeno a giudicare dal prezzo pagato per liberarlo Medvedchuck è una pedina per Putin troppo importante. Non solo per i rapporti personali (il leader russo è stato padrino di sua figlia) ma soprattutto per i suoi legami politici e affaristici. Per anni è stato il pro-console del Cremlino in terra ucraina, ma soprattutto ha accumulato una fortuna facendo da mediatore in campo energetico nelle compravendite di gas verso l'Ucraina e l'Europa, uno dei pilastri dell'economia clientelare su cui Putin ha costruoto il suo potere. Non solo. L'oligarca è stato coinvolto anche nelle inchieste americane sulle ingerenze del Cremlino nelle elezioni del 2016. Il businessman era tra i clienti di Paul Manafort, che aveva fatto da consulente ad alcuni politici locali, prima di diventare responsabile della campagna elettorale di Donald Trump. Negli atti dell'Fbi, segnala la stampa Usa, figurano molte telefonate tra uomini vicini a Trump e lo stesso Medvedchuck.

Insomma, il miliardario è con tutta probabilità depositario di molte verità e di molti segreti. E anche per questo Andrij Yermack , uno degli uomni più vicini a Zelensky, ha sentito il bisogno di giustificarsi: «Era uno scambio che valeva la pena fare». E Medvedchuck «ha già detto tutto quello che sapeva».

Chi è Medvedchuk l'alleato di Putin scambiato per 200 prigionieri ucraini. Enrico Franceschini su La Repubblica il 22 settembre 2022.

L’uomo scambiato con duecento militari di Kiev è il più stretto alleato di Putin all’interno dell’Ucraina. Secondo fonti dell’intelligence americana, Viktor Medvedchuk sarebbe stato messo dal Cremlino a capo di un governo fantoccio a Kiev, se l’invasione russa lanciata il 24 febbraio scorso si fosse conclusa rapidamente come sperava Putin rovesciando il governo legittimamente eletto di Volodymyr Zelensky. Le cose per il 67enne oligarca ucraino sono andate diversamente, ma alla fine ha potuto ricongiungersi con il suo padrino politico russo. Se Putin è stato pronto a consegnare all’Ucraina più di duecento prigionieri, inclusi cinque volontari britannici, in cambio della sua liberazione, significa che Medvedchuk è molto caro al leader supremo di Mosca. Non è escluso che sappia cose che Putin preferisce tenere nascoste e anche per questo ha fatto di tutto per averlo in Russia, piuttosto di lasciarlo in mano all’Ucraina e, potenzialmente, all’Occidente che la sostiene.

Di professione avvocato, Viktor Medvedchuk si è rapidamente arricchito durante la privatizzazione selvaggia dell’economia che ha fatto seguito anche in Ucraina al crollo dell’Unione Sovietica. Capo dello staff del presidente ucraino Leonid Kuchma dal 2002 al 2005, è poi stato eletto deputato alla guida del principale partito filo-russo dell’Ucraina. Putin lo ha definito un suo “amico personale”. I due sono stati fotografati spesso insieme a eventi sportivi e manifestazioni. Il presidente russo è addirittura il padrino della figlia di Medvedchuk. Come molti alti esponenti della nomenklatura di Mosca, quest’ultimo ha abilmente mescolato affari e politica, mettendosi al servizio degli interessi del Cremlino.

Nel 2021 è stato arrestato dalle autorità di Kiev con l’accusa di terrorismo e attività contro gli interessi nazionali ucraini. Nel febbraio 2022 è riuscito a evadere dagli arresti domiciliari. Ma due mesi dopo è stato catturato e arrestato dalle forze ucraine. Indossava un’uniforme mimetica ucraina, non è chiaro a quale scopo. Ieri è stato liberato, insieme a 55 soldati russi, in cambio di 215 prigionieri di guerra ucraini catturati dalle forze di Mosca principalmente durante l’assedio di Mariupol. Medvedchuk aveva ospitato di frequente Putin nella sua villa in Crimea. Il suo yacht è stato sequestrato in Croazia dopo che gli Stati Uniti e l’Unione Europea lo hanno messo nella lista di individui legati al Cremlino colpiti dalle sanzioni.  

Mykhailo Dianov, il combattente dell’Azovstal dopo 4 mesi di prigionia russa. Alessandra Muglia su Il Corriere della Sera il 23 Settembre 2022.

«Guardate come lo hanno ridotto» dice al Corriere Katherina Prokopenko, moglie del comandante dell’Azov. «Felice che mio marito sia ora in Turchia ma sono preoccupata per le migliaia di difensori ancora in mano russa». 

Mykhailo Dianov è uno dei combattenti ucraini liberati nello scambio i prigionieri di mercoledì. Aveva fatto il giro del mondo la foto di lui che regge una tazza con un braccio ferito appeso al collo e l’altra mano che fa la «V» in segno di vittoria, un sorriso accennato nel buio dell’Azovstal della Mariupol accerchiata dai russi. Uno scatto di Dmytro «Orest» Kozatsky, fotografo di Azovstal, pure lui ora libero. 

Una delle immagini simbolo della resistenza di questi combattenti piegati da mesi di assedio dentro l’acciaieria ma indomiti. A guardarlo ora, però, questo marine è irriconoscibile. A guardare come lo hanno ridotto quattro mesi di prigionia russa, l’entusiasmo per il suo rilascio, a dir poco, si smorza. L’immagine diffusa sui social da una giornalista ucraina mostra le sue costole in evidenza, il braccio deformato come se fosse stato compresso a lungo, le borse enormi sotto gli occhi, di uno deprivato del sonno. Segni di cicatrici fisiche e morali che non hanno comunque spento del tutto il suo sorriso, anche qui, accennato.

«Guardate come lo hanno ridotto, questa foto è un pugno nello stomaco, penso a quello che stanno vivendo ancora gli altri difensori ucraini finiti in mano russa» dice al «Corriere» Katherina Prokopenko, moglie del super comandante del reggimento Azov. 

«Provo emozioni contrastanti: sono felicissima che Dennis sia vivo, che sia stato estradato in Turchia, ma sono molto preoccupata per gli altri prigionieri, sono migliaia, la nostra battaglia non è finita» dice da Washington dove si trova da giorni per sensibilizzare alla causa anche senatori e deputati del Congresso. «Non vedo l’ora di poter riabbracciare Dennis, ma non mi hanno comunicato ancora dove e quando posso raggiungerlo. Mi ha chiamato dalla Turchia, una telefonata brevissima, di nemmeno un minuto: mi ha detto che si trova in un posto sicuro, che sta facendo dei controlli medici, che mi ama».

Azovstal, le foto che hanno colpito il mondo in un libro rivelazione. Foto crude e verità da raccontare. Gli scatti del fotografo di guerra del Battaglione Azov Dmitry Kozatsky - caduto prigioniero dei russi - vincono il prestigioso concorso fotografico francese e diventano libro rivelazione Italia. Davide Bartoccini il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.

Le ormai note foto di Dmitry “Orest” Kozatsky, il fotografo di guerra del Battaglione “Azov” che è rimasto asserragliato con i suoi compagni nell’acciaieria Azovstal posta d’assedio da russi, hanno colpito non solo il mondo, ma la giuria del prestigioso concorso fotografico Px3 che ha scelto di premiarle nella categoria “Stampa”.

Mentre il reporter di guerra autore degli scatti che hanno raccontato al mondo cosa è stato vivere asserragliati nelle viscere di cemento della fabbrica di Mariupol era prigioniero degli stessi russi che hanno espugnato la fortezza scelta dal Battaglione Azov come la propria “Fort Alamo”, a Parigi le foto dei feriti, sporchi e sorridenti tra le macerie dell’ex acciaieria d’epoca sovietica raccoglievano un plauso unanime. In Italia uscirà un libro per celebrarlo e parte del ricavato sarà donato per la riabilitazione dei feriti e mutilati ucraini. Contenente tutti gli scatti che Kozatsky - poco prima di consegnarsi ai russi come ordinato ai difensori di Azovstal dal Governo ucraino - è riuscito a caricare su Twitter. Insieme a due contenuti "inediti" per l'America e l'Europa. Le foto, una ventina su almeno un centinaio di scatti immortalati nel corso dei combattimenti per difendere la città di Mariupol, seguirono questo ultimo messaggio: "Beh, questo è tutto. Grazie per il rifugio, Azovstal è stato il luogo della mia morte e della mia vita. Mentre sono prigioniero vi lascio le mie foto in alta qualità, mandatele a tutti i premi giornalistici e concorsi fotografici. Sarà molto bello se vinco qualcosa, dopo essere uscito. Grazie a tutti per il vostro sostegno, ci vediamo”.

Un messaggio che è stato raccolto, e contiene un certo timore per la propria incolumità che il proseguire degli eventi sembra aver scongiurato. Ce ne ha parlato Andrea Lombardi, direttore di Italia Storica: "Dopo aver pubblicato per la prima volta in Italia il libro Valhalla Express. La storia di un nazionalista, rivoluzionario e volontario ucraino nel Battaglione “Azov”, una testimonianza scomoda - sfatante numerosi miti sia degli “atlantisti” che dei “filo russi” italiani - e in presa diretta degli scontri di Maidan e dell’inizio della guerra in Donbass nel 2014, abbiamo deciso di portare all’attenzione dei nostri lettori e del pubblico italiano le eccezionali fotografie di Dmitry Kozatsky, di grandissimo valore artistico e di documentazione storica" spiega Lombardi, che come editore ha sempre improntato il suo lavoro minuzioso nella pubblicazione di testi che vanno a colmare diverse "lacune", rispolverando inediti di mostri sacri come Céline, Limonov, e dell'ex Ss De la Mazière (del quale ha pubblicato per la prima volta in Italia "Il Sognatore con l'elmetto") .

Gli scatti del fotografo-combattente del temuto e controverso Battaglione Azov - molti dei quali completamente inediti - si concentrano sui momenti di combattimento e sull'attesa, vissuta dai combattenti come dai molti civili ucraini, che sono rimasti asserragliati nei sotterranei dell'acciaieria. Tutte le fotografie sono accompagnate dalle "trascrizioni dei comunicati del Comando dei difensori ucraini di Azovstal", spiega Lombardi, che tiene a precisare come grazie al contributo di Monica Mainardi il testo sia integrato di una "necessaria" cronologia dei combattimenti. Un vademecum contro la disinformazione che si è diffusa e est ed ovest del fronte e di quella che era diventata l'ultima sacca di resistenza dell'importante città portuale del Mar d'Azov.

La volontà di fare chiarezza

Non solo spirito di divulgazione, che attraverso le immagini raccogliere l'appello del fotografo già premiato il Polonia e Francia, ma anche la necessità, come voce esperta nel settore storico-militare, di fare chiarezza quando se ne presenta l'occasione. Facendo una ricostruzione doverosa di cosa è stato l'inferno dell'Azovstal, e di tutto ciò di cui invece non è stata trovata traccia sebbene se ne sia a lungo scritto e discusso: "necessaria perché, tra le tante imprecisioni di più o meno disinformati o disinformanti commentatori italiani filorussi o acriticamente antiamericani - una su tutte quella dei pretesi “laboratori biologici e ufficiali Nato sotto Azovstal” - questa fase del conflitto è ridotta alla sola difesa del complesso di Azovstal, mentre le aliquote del Reggimento “Azov”, la Fanteria di Marina e gli altri reparti ucraini sono riusciti a difendere prima i confini e poi la città di Mariupol per mesi, impegnando forze corazzate e di fanteria russe e milizie separatiste di gran lunga superiori in numero".

Questa resistenza estrema, che non può essere paragonata alla fantasioso stoicismo dei "Leoni Morti" di Saint-Paulien, ma che in qualche modo trovo nell'immaginario comune di molti un facile paragone con le SS della Charlemagne, ha impedito all'alto comando russo di di concentrare forze e mezzi su altri fronti. Smentendo più volte le aspettative di Mosca, come quelle dei molti analisti militari occidentali.

Un epilogo diverso da raccontare

"Anche la resa dei superstiti e dei civili ucraini è stata oggetto di accuse tanto infamanti quanto disinformate, mentre è invece avvenuta dietro un preciso ordine superiore delle massime autorità politiche e militari ucraine, e quando ormai da un punto di vista operazionale militare il proseguire quel sacrificio di militari e civili – dopo ben tre mesi di resistenza – aveva un impatto ormai marginale sul corso delle operazioni offensive russe", spiega Lombardi. Che torna a concentrasi sul paragone fatto più e più volte - in virtù delle fascinazioni e para-ideologie neonaziste nutrite dal battaglione Azov - e cerca di fare un po' di chiarezza nell'epilogo delle "difesa a tutti i costi" dal passato recente, e non meno di quello remoto ormai entrato nell'immaginario comune.

"Basti pensare che nella Battaglia di Berlino, la più citata a sproposito a paragone, a parte alcuni singoli casi, le unità della Wehrmacht e Waffen-SS assieme alle ben più numerose forze raccogliticce paramilitari della Volkssturm e Hitlerjugend... esaurite le possibilità di difesa e raggiunti i propri limiti di umana resistenza, una volta ricevuta notizia della morte di Hitler e della fine dei combattimenti, cercarono in massa di sfondare verso ovest per raggiungere gli Alleati, o si arresero all’Armata Rossa, al contrario della pretesa “resistenza sino all’ultimo uomo” di una certa vulgata, comprensibile sulla base di un certo immaginario, ma quantomeno discutibile dal punto di vista storico-militare". Questa realtà oggettiva sfata quindi il mito della resistenza fino all'estremo sacrifico da mito dell'Assedio di Masada (73 d.c.). Solo una cosa può a dire il vero tornare come consuetudine: l'attenta diesamina che i soldati di Mosca hanno effettuato sugli arresi, per separare in base ad interrogatori e addirittura cercandone i tatuaggi, i soldati del battaglione Azov dai fanti di marina ucraini e dagli sbandati degli altri reggimenti che erano rimasti intrappolati nella due "sacche di resistenza" di Mariupol. Allora si pensava per riservare loro un trattamento inumano, o peggio per abbandonarsi alla vendetta. Ma l'epilogo sembra essere stato diverso.

Fino a pochi giorni fa Dmitry Kozatsky si trovava in una “in una prigione nel territorio occupato di Donetsk” sotto il controllo di personale militare filo-russo. Questo era lo stato delle cose, quando il 2 agosto ha ricevuto il permesso di telefonare ai suoi parenti e rassicurarli di essere rimasto in vita dopo la cattura. A riportarlo fu la sorella Daria Yurchenko.

Completamente inattesa la notizia di uno scambio di prigionieri andato a buon fine tra tra Mosca e Kiev. Scambio che ha visto nel "pacchetto" anche il fotografo-reporter Kozatsky. Il capo della Sbu (servizio segreto ucraino, ndr) Vasyl Malyuk ha rivelato i dettagli di questo delicato scambio mediato dalla Turchia, rivelando che 215 soldati catturati nell'Azovstal - di cui 108 inquadrati nel battaglione Azov, compreso il comandante Denys "Redis" Prokopenko - sono stati restituiti a Kiev in cambio della libertà di Viktor Medvedchuk, l’oligarca ucraino amico di Putin, e di altri 51 prigionieri. Un'opzione che era stata definita inaccettabile in precedenza. Adesso Kozatsky scoprirà quanto i suoi scatti abbiano inciso nell'epica di questa battaglia moderna.

Anna Zafesova per “La Stampa” il 24 agosto 2022.

«Tenere un uomo la cui colpa non è ancora stata dimostrata in gabbia di fronte al giudice è assolutamente inammissibile». Mentre nella sala della filarmonica di Mariupol operai inviati da Pietroburgo stanno saldando le gabbie che dovranno ospitare gli imputati del maxi processo ai militari ucraini, un esponente importante del potere di Mosca, il senatore Andrey Klishas, chiede al parlamento di abolire la pratica delle gabbie nelle aule dei tribunali. 

Il senatore è un membro importante dell'establishment putiniano, autore di alcune delle più repressive iniziative legislative del Cremlino, molto vicino secondo alcuni esperti alle fazioni più dure del regime putiniano. La sua svolta "garantista", anche se non lo dice chiaramente, è molto probabilmente il segnale di uno scontro in atto nelle ultime settimane a Mosca, non più tra falchi e colombe (il Cremlino ultimamente non è un habitat favorevole ai messaggeri di pace), ma tra i fautori della linea dura e i pragmatici.

E una delle linee di scontro, soprattutto dopo l'attentato che ha ucciso la figlia dell'ideologo degli oltranzisti Aleksandr Dughin, passa sulla necessità o meno di processare i prigionieri di guerra ucraini. Una linea rossa che Volodymyr Zelensky ha tracciato senza mezzi termini: «Se la Russia terrà il processo potrà scordarsi qualunque negoziato». Una minaccia che il presidente della Duma Vyacheslav Volodin ieri ha respinto, invocando un «processo pubblico che tutti aspettano».

Il "premier" dei separatisti di Donetsk Denis Pushilin ha annunciato che «tutti i criminali di guerra, soprattutto i neonazisti di Azov, devono venire puniti», e che il tribunale si aprirà a settembre con i primi 80 imputati. Nelle "repubbliche popolari" di Donetsk e Luhansk non vige il diritto russo, e quindi i prigionieri ucraini rischiano la pena di morte. Donetsk ha già condannato alla fucilazione tre volontari stranieri che combattevano per l'Ucraina, e il giornalista russo in esilio Aleksandr Nevzorov non dubita che le sentenze ai membri di Azov saranno capitali: «Ma prima di ucciderli si godranno la loro umiliazione».

Almeno duemila militari del battaglione Azov si sono arresi a Mariupol dopo aver difeso per più di due mesi la città martoriata dai russi. La resa era stata negoziata tra Kyiv e Mosca con le garanzie dell'Onu e della Croce Rossa, ma 50 prigionieri sono morti un mese fa nel carcere di Olenivka, vicino a Donetsk, in quello che i russi sostengono essere stato un bombardamento ucraino e che Kyiv denuncia essere stata una strage per occultare le torture e le uccisioni dei detenuti. 

I militari di Azov liberati in seguito agli scambi di prigionieri raccontano di essere stati spogliati e umiliati dai carcerieri: «Ci infilavano aghi nelle ferite aperte, ci facevano la tortura dell'acqua», ha raccontato in una conferenza stampa a Kyiv Vladislav Zhaivoronok, che è finito nelle mani dei russi dopo aver perso una gamba e dice che gli avevano negato gli antibiotici per costringerlo a testimoniare contro i suoi comandanti e «confessare uccisioni di civili».

I falchi di Mosca vogliono un "processo di Norimberga" che dovrebbe confermare la narrazione russa di una "guerra contro il nazismo", e legittimare l'invasione, almeno agli occhi dell'opinione pubblica interna. Quella internazionale difficilmente potrà credere a un processo-spettacolo con "confessioni" di imputati torturati, sul modello dei grandi tribunali contro i "nemici del popolo" voluti da Stalin negli anni Trenta, e l'Alto commissariato dell'Onu per i diritti umani ha dichiarato ieri che un processo ai prigionieri tutelati dalla convenzione di Ginevra sarebbe «un crimine di guerra commesso dalla Russia».

 Secondo Mosca però il battaglione Azov è una "organizzazione terrorista", e non a caso i servizi segreti Fsb hanno accusato dell'omicidio di Darya Dugina una agente ucraina che ne farebbe parte. Un crimine «barbaro, i cui autori non meritano alcuna pietà», ha dichiarato ieri il ministro degli Esteri Sergey Lavrov. 

Allo schieramento di quelli che bramano il sangue si è aggiunto anche il capo del Comitato per la cooperazione estera Evgeny Primakov, che ha dichiarato in pubblico di sognare l'ex deputato russo Ilya Ponomaryov, fuggito a Kyiv, che «striscia sulle gambe rotte sputando i denti».

Un ideale estetico e politico che perfino gli estimatori del Gulag staliniano finora hanno esitato a elogiare in pubblico. Ieri, mentre molti propagandisti televisivi invocavano bombardamenti del centro di Kyiv per vendicare Daria Dugina, il presidente del comitato Esteri della Duma Leonid Slutsky ha lanciato ai suoi funerali un nuovo slogan: «Un Paese, un presidente, una vittoria». 

Un parallelo imbarazzante con il culto di Hitler, e la frase è stata censurata dalle tv. Nessuno dei rappresentanti altolocati del governo si è presentato al funerale, animato soprattutto da esponenti dell'estrema destra nazionalista, in un altro segnale di una lotta interna al Cremlino: qualcuno nella cerchia di Putin spera ancora di fermare il montaggio delle gabbie a Mariupol.

Domenico Quirico per "La Stampa" il 27 agosto 2022.

Nella lenta agonia di questa guerra ecco avanzare un'altra danza macabra. Niente che abbia a che fare con la strategia o la tattica. Semplicemente una mossa psicologica, propaganda cinica e volgare. Se non fosse che uomini rischiano la pena di morte non avrebbe neppure la densità o lo splendore del dramma, solo l'aria sudicia dell'impostura.

Nel teatro di Mariupol sono in corso lavori di bassa lega, si montano gabbie di ferro dove troveranno posto gli imputati, i falegnami allestiscono panche per il pubblico e scranni per i giudici. Perchè qui andrà in scena il processo pubblico imbandito dai secessionisti del Donbass ai "nazisti" dell'Azovstal, i combattenti ucraini che dopo un lungo assedio si sono arresi ai russi. Nelle foto le gabbie appaiono enormi come se dovessero ospitare non uomini ma lo zoo per esseri giganteschi e pericolosi di qualche razza perduta.

Inutile attendere i capi di accusa, le risultanze della istruttoria, l'elenco dei testimoni a carico. Parlar di codici, leggi internazionali e leggi nazionali (materia ancor più viscida in una repubblica che è riconosciuta solo dai russi che la tengono in piedi a furia di cannonate). Questo è un processo che assomiglia ai lugubri riti del castello di Verona, quando la Repubblica sociale mussoliniana saldò i conti con i traditori del Gran Consiglio e del 25 luglio. 

Qui siamo nel territorio oscuro e violento non del diritto ma della vendetta. Questo processo, che immagino della volontà di coloro che lo hanno organizzato vuole essere la risposta alla condanna a Kiev di un giovane soldato russo accusato di aver ucciso un civile, esattamente come l'altro sul piano assoluto della giustizia non ha fondamento. Appartiene a un altro territorio inaccettabile, ovvero quello dell'uso strumentale del diritto continuamente smentito per segnare linee di sangue nella storia e per proporre feroci catarsi collettive.

È fin troppo facile enumerare le ragioni per cui come nel caso dei frettolosi ucraini non può essere un processo regolare. La impossibilità visto che si svolge mentre la guerra infuria per gli accusati di citare liberamente testimoni a difesa. Nessuno avrebbe il coraggio di venire a portare prove a discarico degli accusati rischiando a sua volta vendette.

E poi il diritto alla difesa: impossibile per i soldati della Azovstal scegliere difensori che dovrebbero attraversare la linea del fronte per assistere al processo. Ci saranno come nel caso ucraino reticenti avvocati d'ufficio evidentemente di parte.

Senza dimenticare il problema del clima in cui si svolgerà il processo che viene immaginato come una gigantesca operazione di propaganda: addirittura una Norimberga ucraina che dovrebbe portare elementi a sostegno della tesi russa secondo cui i difensori della acciaieria e le milizie a cui appartengono sono nazisti impegnati nella pulizia etnica di tutto ciò che era russofilo nelle province dell'Est del Paese.

In una guerra come quella ucraina si concepisce un odio furioso, un odio che raggiunge proporzioni puniche ed è questo, se volete, a essere la sua unica grandezza. Un odio selvaggio per il nemico, una esecrazione endemica e disperata che affila i coltelli, avvelena il passato, aggredisce i civili e i combattenti per poi ammucchiarli ai bordi di tutti i sentieri della ragione e della storia umana. 

Si somministrano da una parte e dall'altra terribili veleni. Si giudicano dunque in base a questo odio anche gli eroi ambigui e sfruttati dell'Azovstal. La propaganda ha bisogno di un nuovo spettacolo tragico e lo reclama con possente e unanime clamore. La condanna scontata, lo sanno gli stessi organizzatori, sarà ben poca cosa e non cambierà il corso della guerra. In fondo tutte le possibilità propagandistiche di quel gruppo di soldati maceri e stracciati sono già state efficacemente raschiate nelle sequenze della resa, della spogliazione, della esibizione dei tatuaggi.

Riutilizzarli per un processo per crimini di guerra appartiene solo al sibaritismo della vendetta. 

Ai soldati dell'Azovstal toccherà comunque il tragico destino, un'altra volta, essere usati per scopi che forse non hanno scelto consapevolmente. Dopo aver recitato l'eroismo sono incastrati nel ruolo degli assassini, dei sanguinari responsabili con i loro capi di Kiev di aver scatenato la tragedia; che appartiene semmai ai disegni imperialisti e totalitari di Putin e dei suoi squisling donbassiani.

A meno che non abbiano il coraggio, con vindice stoicismo, di rovesciare il copione, la recita da quattro soldi, che gli accusatori e i giudici hanno imbastito per loro, non sappiano cioè costruire lo scenario, difficile e doppiamente e pericoloso per chi sa di rischiare la pena di morte, del processo rivoluzionario. In questo caso la operazione propagandistica si ritorcerebbe contro coloro che l'hanno immaginata. Offrirebbe agli ucraini, che negli ultimi tempi per arroganza e sicumera nella vittoria sembrano aver smarrito il talento e la fantasia della comunicazione, uno straordinario palcoscenico per mettere sotto accusa i veri colpevoli della guerra.

Per questo occorre che gli imputati di Azovstal rifiutino alla radice la logica processuale scelta dai loro inquisitori e quindi di difendersi all'interno dell'artificiale sistema giuridico che viene loro imposto: ad esempio contestando le testimonianze o negando i delitti che vengono loro imputati.

Facciano cioè scivolare il processo su un altro piano: voi non avete il diritto di giudicarci perché non esistete, siete una finzione statuale, territoriale, giuridica! Dovrebbero così rompere le reni al pedantismo giuridico della vendetta e, con improvvisazione sacrilega, demolire il diritto stesso dei finti giudici dell'autoproclamato Donbass libero. Che sanguinosa presa in giro sarebbe per i trasibulo filorussi se le loro vittime designate dichiarassero subito davanti al pubblico e alle telecamere: le vostre toghe da ciarlatani non rappresentano nulla, non siete che assassini su commissione, offrite la più incontrovertibile prova antropologica che le ragioni di questa guerra accampate dai vostri padroni di Mosca non sono che bugie. Potete giustiziarci ma solo in nome del potere che nasce dall'averci sconfitto, non in nome di un diritto che non esiste.

La moglie del capo di Azov: «A Olenivka strage pianificata, dov’erano i garanti internazionali?» Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 31 luglio 2022 

«Guardi queste foto». Katerina Prokopenko mostra immagini scaricate sul suo cellulare. «Sono scatti aerei della Maxar tecnology ed è l’ultimo aggiornamento che abbiamo sul massacro dei prigionieri di guerra a Olenivka». Dalle foto si vedono due cose. Delle buche vicino alla struttura, scavate fra il 18 e il 21 luglio, e il capannone dov’erano i 53 prigionieri uccisi e gli oltre 70 feriti: è distrutto senza che nient’altro attorno sia danneggiato. «È la conferma che questa strage era stata pianificata», è convinta lei, che parla a nome di tutte le mogli dei soldati dell’acciaieria Azovstal e che è la moglie del comandante del reggimento Azov, il prigioniero di guerra più simbolico nelle mani dei russi.

Ha notizie recenti di suo marito? «No. L’ultima volta che l’ho visto è stato 10 giorni prima che la guerra cominciasse e l’ultima che ho sentito la sua voce - soltanto qualche parola - è stato il 23 di maggio. I russi dicono che è a Mosca ma non so se è vero».

Che cosa sapete della «Non sappiamo niente sulle identità dei morti e dei feriti, se è questo che vuole sapere. Abbiamo raccolto immagini e testimonianze dai canali telegram dei soldati e della propaganda russa, abbiamo mostrato le foto a medici legali esperti in questo genere di indagini e loro ci confermano: alcuni dei prigionieri di guerra erano stati torturati e uccisi prima del massacro. Il tipo di ferite che hanno, le condizioni dei loro corpi non sembrano compatibili con le esplosioni».

I russi ora invitano le Nazioni Unite e la Croce Rossa a visitare la prigione. «Io vorrei chiedere: dove sono stati finora la Croce Rossa e L’Onu? Un giorno prima i nostri soldati sono stati spostati in quel posto che è diventato la loro tomba. Perché la Croce Rossa e l’Onu non erano lì a monitorare queste operazioni? Noi credevamo che loro fossero istituzioni garanti della sicurezza. Se fossero stati lì avrebbero visto quantomeno le buche appena scavate, per esempio...Che la Russia voglia disfarsi dei nostri soldati, del resto, non è un segreto. Basta leggere cosa scrive la loro ambasciata nel Regno Unito...». 

Si riferisce al tweet sui militari di Azov che “meritano l’esecuzione per impiccagione”, perché “non sono veri soldati e quella è una morte umiliante?" «Esatto. Quel tweet per me è una conferma in più della responsabilità russa a Olenivka. Non ha nessun senso l’ipotesi che siano stati gli ucraini, come dicono loro, per non far testimoniare i soldati sui crimini di guerra commessi. Se l’Ucraina avesse voluto morti i soldati di Azov li avrebbe lasciati morire nelle viscere di Azovstal».

Qual è l’appello che vorrebbe fare al mondo? «Vorrei che il mondo non si voltasse dall’altra parte perché le dirò la verità: siamo delusi. La situazione è tragica, non soltanto per noi mogli dei prigionieri di guerra ma per tutti. E più passa il tempo più vediamo scomparire le notizie e l’attenzione. È frustrante. Noi ci sentiamo sole, nessuno si preoccupa di noi e ci sentiamo sole con il nostro dolore, la nostra tragedia,la nostra guerra. Questo ci spaventa».

«Azovstal è caduta»: i soldati sfilano davanti ai russi. Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022.

Il Cremlino: «Il complesso è sotto il nostro controllo, il leader Prokopenko portato via con un veicolo blindato speciale». Gli ucraini perquisiti a uno a uno, controllati anche i tatuaggi.

Azovstal è caduta. L’acciaieria simbolo della resistenza del battaglione d’Azov e della città martire di Mariupol è «totalmente sotto il controllo delle forze armate russe», ha annunciato in serata la Difesa di Mosca, dopo che il ministro Sergej Shoigu ha comunicato al presidente Vladimir Putin «la fine dell’operazione e la completa liberazione» della fonderia. L’evacuazione — come hanno fin qui preferito chiamarla a Kiev — è durata quattro giorni, durante i quali 2.439 militari — il dato però è ancora una volta russo e non confermato dagli ucraini — si sono arresi, come ordinato dallo Stato maggiore di Kiev.

Le immagini video diffuse da Mosca ieri sera mostrano i militari russi mentre, fascia bianca al braccio e volto coperto, conducono accurate perquisizioni degli effetti personali degli ucraini in divisa disarmati, disposti in fila in un luogo aperto mentre vengono fatti sfilare e spogliare anche per controllare i loro tatuaggi. «Sono le Termopili del XXI secolo» aveva detto già nei giorni scorsi il capo delegazione dei negoziati Mykhailo Podolyak. Una soluzione cui si è arrivati visto che era «impossibile sbloccare» lo stallo «con mezzi militari», ha spiegato ieri ai media ucraini il presidente Volodymyr Zelensky. E una resa che evidentemente i comandanti dell’Azov hanno cercato di rimandare fino all’ultimo. «Il comando militare superiore ha dato l’ordine di salvare la vita dei soldati e di smettere di difendere la città di Mariupol», aveva detto nel suo ultimo video il comandante di Azov, Denis Prokopenko. Poi anche lui e gli altri comandanti, in testa il suo vice Sviatoslav Kalina Palamar e il comandante della 36esima brigata dei marines, il maggiore Serhiy Volyna, hanno dovuto deporre le armi.

Mosca, in serata, ha comunicato come lo stesso Prokopenko sia stato portato via «con un veicolo blindato speciale» verso i territori controllati dalla Russia. Adesso, per Kiev sarà l’ora delle trattative per tentare uno scambio di prigionieri, da condurre anche con la mediazione internazionale. Possibilità che però fin qui non ha trovato alcuna conferma, dopo che da Mosca nei giorni scorsi è arrivata la minaccia di un processo ai militari del battaglione come criminali di guerra. E che Zelensky ha spiegato con queste parole: «Quando abbiamo visto che era impossibile sbloccare la situazione con mezzi militari, ho negoziato con Turchia, Svizzera, Israele, e prima con la Francia per via dei rapporti dei suoi leader con la Federazione Russa». Trattative che però lo stesso Podolyak ha definito «molto difficili e molto fragili». In questo quadro di incertezza sulla sorte dei prigionieri aumenta dunque l’angoscia dei familiari e dei sostenitori dei militari. «L’ultimo messaggio che mi ha mandato su Telegram era di due giorni fa. Mio marito è sulla strada da un inferno all’altro, dall’acciaieria Azovstal verso la prigione», ha spiegato ieri a Istanbul Natalia Zarytska, moglie di un combattente dell’Azovstal. Migliaia di commenti sono arrivati poi al post di addio di Dmytro Kozatskiy, alias Orest che ieri, in un messaggio su Twitter, ha scritto: «È fatta. Grazie di tutto dal rifugio di Azovstal. Luogo della mia morte, e della mia vita». Militare e fotografo, noto per le sue idee di estrema destra, ha documentato la resistenza del reggimento. Poi dopo essersi consegnato ai russi ha concluso: «Vi lascio le mie foto. Inviatele a tutti i premi giornalistici e concorsi fotografici». Allegato, un link per scaricare le immagini di tre mesi nei tunnel.

Mariupol che soffre ancora e non resiste più. Fuori dall’acciaieria, e dai suoi 11 mila metri quadrati fatti di cunicoli costruiti nel 1930, i russi avrebbero sgomberato le macerie del teatro di Mariupol rimuovendo i corpi. «E ora — ha denunciato il consigliere del sindaco Petro Andryushchenko — non sapremo mai quanti civili di Mariupol siano stati effettivamente uccisi dai russi». 

Colonia 52, un lager nel cuore dell'Europa: "Cosa stanno subendo quelli del Battaglione Azov". Libero Quotidiano il 21 maggio 2022.

Ecco spiegato dove vanno a finire i combattenti evacuati dall'acciaieria Azovstal. Chi in questi giorni si è arreso ai russi dopo estenuanti giorni è stato portato direttamente a Olenivka, un villaggio a pochi chilometri da Donetsk. Qui c'è, tra le altre prigioni, la Colonia penale numero 52. Il vecchio istituto correttivo è per gli ucraini un vero e proprio "lager nel cuore dell'Europa". A denunciare la grave situazione contro chi già deve subire i bombardamenti è Lyudmila Denisova, la commissaria per i diritti umani del Parlamento ucraino: "Ci sono almeno tremila civili in ostaggio nella colonia, tra cui poliziotti, attivisti e trenta volontari che sono stati rapiti mentre portavano aiuti a Mariupol".

La stessa Colonia, le foto confermano, per la Denisova deve essere considerata un crimine di guerra: "I civili vengono interrogati per ore, sono torturati con scariche elettriche. Sono atti di terrorismo, secondo la convenzione del Consiglio d'Europa". A farle eco il sindaco di Mariupol Vadym Boychenko. Stando ai suoi racconti nell'istituto tengono dieci persone in celle due metri per tre, senza possibilità di sdraiarsi, con poca acqua e cibo, e con il permesso di usare il bagno una volta al giorno.

Quanto basta a Petro Andriushchenko, consigliere del primo cittadino a definirlo "un vero campo di concentramento costruito dalla Russia nel cuore dell'Europa". Eppure su quel che accade all'interno della Colonia si sa ben poco. Girano giusto alcuni video e il silenzio imposto da Volodymyr Zelensky sulla "resa" degli ucraini non aiuta. A informare ci pensa il Cremlino che rivendica il successo, a detta dei russi, contro i combattenti.  

Battaglione Azov, che fine ha fatto il comandante Prokopenko: umiliato con un blindato. Libero Quotidiano il 21 maggio 2022

Che fine ha fatto il comandante del battaglione Azov? Dopo l'evacuazione e la resa dall'acciaieria Azovstal, Denis Prokopenko sarebbe stato portato via dalla fonderia con un veicolo "blindato speciale". Il comandante, finito nelle mani dei russi, sarebbe stato condotto via verso i territori controllati dalla Russia. Il motivo del trasporto su un blindato speciale sarebbe dovuto, secondo quanto riportano i russi, alle proteste e alla rivolta innescata dai russofoni presnti a Mariupol. Secondo quanto dichiarato dal portavoce del ministero della Difesa russo, il generale maggiore Igor Konashenkov alla Tass, "i residenti odiavano Prokopenko e volevano ucciderlo per le numerose atrocità commesse".

Nella gerarchia dei "wanted" da parte di Mosca, il comandante del battaglione Azov è in cima alla lista. Il suo destino comunque al momento non è chiaro. In Russia crescono le voci per riconoscere l'Azov come una organizzazione terroristica e di fatto viene chiesto un processo (con probabile condanna a morte) per tutti coloro che sono stati catturati nella fonderia. Intanto l'esercito ucraino deve fare i conti con il fatto che Mariupol ormai è persa. 

L'ordine di resa è arrivato direttamente dall'alto comando militare ucraino per volere di Zelensky. Insomma la guerra entra nella sua fase più atroce dove si fanno prigionieri e i militari vengono di fatto abbandonati al loro destino. Una atrocità in una guerra senza quartiere che va avanti da più di due mesi. 

Il soldato-fotografo dell'Azovstal è stato catturato dai russi (e ha lasciato tutte le sue foto in Rete). Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022.

Dmytro Kozatskiy, conosciuto come Orest, si congeda con due tweet dalle acciaierie di Mariupol dopo quasi tre mesi di resistenza: «Questo è tutto, Azovstal è il luogo della mia morte e della mia vita». E lascia su Google tutti i suoi scatti. 

Su Twitter: «È fatta. Grazie di tutto dal rifugio di Azovstal. Luogo della mia morte, e della mia vita». Mentre da Zelensky arriva l’ordine di deporre le armi e mettere fine alla resistenza di Mariupol, il soldato-fotografo Dmytro Kozatskiy, che si fa chiamare Orest e che fuori dai bui sotterranei delle acciaierie viene già soprannominato «gli occhi di Azovstal», usa Twitter per congedarsi dal mondo. 

Parole, quelle di Kozatskiy, condivise da migliaia di utenti. Il fotografo in passato aveva postato immagini che testimoniano la sua vicinanza ad ambienti della destra estrema, una tra tutte quella di una pizza con una svastica. Negli ultimi tre mesi ha documentato la resistenza del reggimento Azov nei tunnel più bombardati d’Ucraina.

Questa volta, sotto il suo post di addio, scrive: «A proposito, mentre sono prigioniero, vi lascio le mie foto in alta qualità. Inviatele a tutti i premi giornalistici e concorsi fotografici. Sarà molto bello se vinco qualcosa, dopo l’uscita . Grazie a tutti per il vostro sostegno. Ci vediamo». Poi il link al suo drive dove tutti possono scaricare le immagini. 

A stupire — oltre al fatto che ad Azovstal ci sia ancora una connessione internet così potente — è il gesto di Kozatskiy di lasciare il suo bene più prezioso, i suoi scatti. 

Non ci sono ancora informazioni precise su quanti siano i soldati rimasti sotto i tunnel delle acciaierie. 

Il 15 maggio, Orest aveva postato un video in cui cantava la canzone della Kalush Orchestra, vincitrice dell’Eurovision di Torino. 

Era solo qualche giorno prima che da combattente-fotografo diventasse un prigioniero dei russi.

Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 7 aprile 2022.

Ci vuole la migliore mano ferma del chirurgo per operare un paziente che è venuto a casa tua per ammazzarti. E che, dal letto della degenza, farnetica frasi del tipo «vi dobbiamo uccidere», «siete tutti nazisti», «i vostri figli e le vostre donne meritano la morte». Ma tra Putin e Zelensky vince comunque Ippocrate, e un dottore è sempre un dottore. Ha giurato di salvare ogni essere umano, qualsiasi sia il lato del fronte da cui spara. All'ospedale militare di Zaporizhzhia curano i soldati russi insieme ai soldati ucraini. E ci sono giorni che ne arrivano talmente tanti che gli infermieri sono costretti a scrivergli il nome sulla fronte per non confonderli nella concitazione del momento.

Dal 24 febbraio ad oggi, nella clinica sulla riva sinistra del Dnepr sono stati portati 600 feriti. Quando sono più di venti alla volta, prendono il pennarello nero e usano la pelle della fronte come bozza di cartella clinica. La guerra costringe ad arrangiarsi, fanno così sia con gli ucraini (il 90 per cento dei ricoverati) che coi russi. 

I pazienti sono reduci della linea del sud. Combattevano a Mariupol, nei villaggi nella regione di Zaporizhzhia, a Cherson, a Mykolaiv, poi sono stati fermati da una granata, un mortaio, una fucilata o uno degli altri mille modi in cui si può morire da queste parti. Il tenente colonnello Viktor Pysanko, 38 anni, scorre sul telefonino le foto di corpi aperti, arti mozzati e membra carbonizzate.

«Arrivano così, è orribile». Pysanko, direttore sanitario e traumatologo, ha già visto l'orrore, era in missione in Kosovo e in Congo. Non è uno che si impressiona facilmente. Tuttavia, ancora non si è abituato a ciò che i militari russi più giovani, appena ricuciti e rammendati, ripetono con cieca convinzione sul letto della degenza. «Non provano rimorso, non sanno cosa sia la pietà. Solo un ufficiale quarantenne era dispiaciuto e a disagio per essere stato mandato da Mosca a invadere un Paese senza sapere neanche il motivo. Gli altri, invece, duri e impassibili» I feriti dell'armata di Putin li tengono tutti in un reparto protetto, che chiamano "la stanza dei russi". 

Le finestre non hanno le inferriate, ma ci sono delle guardie che li controllano. «Ci occupiamo di curarli e stabilizzarli, poi li affidiamo al ministero della Difesa e ai servizi segreti».

Sono già prigionieri di guerra a tutti gli effetti, però, appena estratti dal campo di battaglia, ricoverati e non ancora sottoposti a interrogatori, carcere e quel che di altro può capitare a un nemico catturato, si trovano in uno stato emotivo di sincerità assoluta che di lì a poco perderanno. Dicono quello che pensano. E pensano cose terribili. 

Lipatov è un diciottenne russo trasportato su una barella dalla zona di Huljajpole. È un coscritto, aveva la gamba sinistra squarciata. La volontaria Oksana Korchynska, che prima faceva l'amministratrice delegata di una società di produzione, lo ha seguito durante la convalescenza post-operatoria. «Dove stava combattendo lui, alcune donne coi figli che stavano cercando di fuggire sono state colpite a morte. Mi ha detto, con sufficienza: "E allora? Qual è il problema?". Ho chiesto a quell'uomo così giovane di spiegarmi perché avessero sparato a civili inermi.

Ha risposto: "Anche i bambini sono nazisti. Siamo venuti qui perché siete il male e vi dobbiamo eliminare tutti". Ho insistito, volevo sapere che cosa è per lui il nazismo e quali caratteristiche definiscono un nazista. È stato zitto. Il nostro chirurgo gli aveva salvato la gamba e lui balbettava concetti atroci come uno zombie. Ho pensato che era sotto l'effetto di droghe, non riuscivo a credere a ciò che stavo sentendo». Le analisi del sangue non hanno rilevato tracce di droghe né di alcool. 

Il sottotenente Pysanko si è confrontato con un ventiduenne proveniente dalla Russia orientale che pensava di aver trovato l'America in Ucraina. «Mi ha spiegato che l'obiettivo datogli dai suoi superiori è distruggere gli Stati Uniti. Al che sono sbottato e gli ho chiesto: "Dove lì hai visti i militari americani in Ucraina?". Risposta: "Sono qui per annientare gli Stati Uniti". Poi me l'ha fatta lui una domanda: "Sono sorpreso, perché mi avete salvato?"». La maggior parte dei chirurghi e degli anestesisti dell'ospedale militare di Zaporizhzhia ha un parente o un amico morto in guerra. «Nessuno ha mai esitato a curare un soldato russo », sostiene con orgoglio il tenente colonnello Viktor Pysanko. «Ma se avessero dubitato, avrei compreso».

Da ansa.it il 7 aprile 2022.  

Il governo ucraino ha promesso una "inchiesta immediata" su un video in cui soldati ucraini sparano ai prigionieri russi, colpendoli alle ginocchia, durante un'operazione nella regione di Kharkiv: lo riporta la Cnn. 

Nel video di quasi sei minuti, che l'emittente Usa non pubblica limitandosi a descriverlo, i soldati ucraini affermano di aver catturato un gruppo di ricognizione russo basato a Olkhovka, una cittadina a una trentina di chilometri dal confine russo. 

"Il governo sta prendendo (questo video, ndr) molto seriamente e ci sarà un'indagine immediata. Siamo un esercito europeo e non prendiamo in giro i nostri prigionieri. Se questo fosse vero, sarebbe un comportamento assolutamente inaccettabile", ha detto un alto consigliere del presidente ucraino, Oleksiy Arestovych. 

Sarebbe tutta una montatura però secondo il capo delle forze armate ucraine Valerii Zaluzhnyi: "Al fine di screditare le forze di difesa - afferma -, il nemico filma e distribuisce video di scena che mostrano il trattamento disumano da parte di presunti 'soldati ucraini' nei confronti dei 'prigionieri russi'. Sottolineo che i militari delle forze armate ucraine e di altre legittime formazioni militari aderiscono rigorosamente alle norme del diritto umanitario internazionale".

I 4 soldati russi giustiziati a terra. Un nuovo video mostra l'orrore di questa guerra. Gian Micalessin l'8 Aprile 2022 su Il Giornale.

Il filmato è stato girato a Dmytrivka a pochi km da Bucha il 30 marzo. La lezione: non basta stare dalla parte giusta per agire da "buoni".

«L'orrore... l'orrore ha un volto... e bisogna essere amici dell'orrore. L'orrore e il terrore morale ci sono amici. In caso contrario diventano nemici da temere». Marlon Brando, protagonista nelle vesti del colonnello Kurtz del monologo finale di Apocalypse Now, spiega così la terribile e nefasta comunanza che ogni conflitto crea tra i combattenti e l'orrore. Le stragi di My Lai in Vietnam, di Sabra e Chatila in Libano, ma anche quelle attribuite alle forze speciali statunitensi in Siria e Irak da un'inchiesta del New York Times dello scorso dicembre, avrebbero dovuto farci comprendere da tempo la brutalità nascosta in ogni conflitto. Una brutalità che non sta mai da una parte sola. Perché la guerra, a differenza di quanto raccontano i film, non prevede buoni sentimenti. E a dimostrarcelo, a pochi giorni dalla scoperta dei morti di Bucha, arriva un altro film dell'orrore.

Un film andato in scena a Dmytrivka, un villaggio distante solo dodici chilometri in direzione Sud dalla stessa Bucha. Con una differenza. Qui le vittime sono i russi mentre gli spietati aguzzini sono i soldati ucraini. Il video è così crudele e sanguinario da rendere difficile la pubblicazione di foto o spezzoni capaci di restituirne la disumana ferocia. Al lato di una strada si vede un Bmd-2 , un blindato usato dalle truppe aviotrasportate russe. Il mezzo, intatto, ci fa capire che l'equipaggio si è arreso senza combattere. Anche perché, duecento metri più avanti, vi sono le carcasse di altri mezzi appena colpiti e distrutti. Sull'asfalto, invece, ci sono quattro corpi. Vestono le divise dell'esercito russo e non hanno accanto alcuna arma. Giacciono tra lunghe scie di sangue. Uno ha le mani legate dietro la schiena e la gola tagliata. Quello che gli sta accanto è disteso a braccia aperte freddato da una raffica al ventre. Altri due corpi sono sul lato opposto della strada. Uno è stato ucciso con un colpo alla nuca. L'altro, con il volto nascosto da una giacca militare tirata su fino a coprirgli il volto, è scosso dai tremiti dell'agonia. Sussulta, muove un braccio, mormora versi incomprensibili. Tutt'intorno si sentono delle voci in ucraino.

«Filma questi bastardi. Guarda questo... è ancora vivo... sta rantolando» ulula una voce senza volto. Poi s'intravvede la canna di una pistola. Apre il fuoco due volte. Il soldato in agonia sussulta, si muove ancora. Un terzo colpo lo finisce. Ora tutt'intorno compaiono soldati ucraini riconoscibili da uniformi e distintivi. Quello che ha sparato mostra il suo volto. Ha il volto incorniciato da una fitta barba. Grida: «Gloria all'Ucraina». Un altro si fa fotografare accanto ai corpi. «Questi - sbraita una voce fuori campo - non sono neanche esseri umani». A confermare il tutto ci pensa un tweet del ministero della difesa ucraino che definisce un «lavoro preciso» l'imboscata ai danni di un convoglio russo in ritirata da Kiev messa a segno il 30 marzo scorso. Segnalazione confermata dal video-reporter Oz Katerji che il 2 aprile gira le immagini dei blindati distrutti e, citando i soldati ucraini, parla di una battaglia svoltasi 48 ore prima.

Ma quella battaglia e la brutale eliminazione di quei quattro prigionieri dovrebbero insegnarci un paio di cose. La prima è che in guerra non basta stare dalla parte giusta per comportarsi da «buoni». La seconda è che la guerra è sempre abietta, crudele e feroce. E l'unico modo per sconfiggerne mostri e perversioni è uscirne in fretta.

DAGONEWS il 7 aprile 2022.

Un video che sta circolando in rete mostra un gruppo di soldati ucraini che uccide militari russi dopo averli legati con le mani dietro la schiena. Una scena horror che ricorda quella dei civili massacrati a Bucha.  

Il filmato, verificato mercoledì dal “New York Times”, mostra le truppe ucraine che commettono gli omicidi dopo un’imboscata su una strada appena a nord di Dmytrivka, a circa 11 chilometri a sud-ovest di Bucha. 

«È ancora vivo – dice uno degli ucraini - Filma questi predoni. Guarda, è ancora vivo. Sta ansimando».  Uno dei soldati ucraini a quel punto spara tre colpi di pistola: dopo il secondo il russo continua a muoversi, ma poi smette di respirare dopo il terzo colpo. Sembra che almeno altri tre soldati russi siano stati uccisi nella stessa imboscata.

Da fanpage.it il 7 aprile 2022.

Non ci sono solo i crimini di guerra commessi dalle forze armate russe. Sempre più spesso, infatti, stanno emergendo episodi inquietanti imputabili anche all'esercito ucraino, come quello documentato con un video risalente molto probabilmente al 30 marzo. 

Nel filmato, che sta circolando su Telegram ed è stato verificato in modo indipendente anche dal New York Times, si possono vedere degli uomini agli ordini di Kiev uccidere dei prigionieri russi in un villaggio a ovest della capitale. 

Le telecamere indugiano sui due soldati a terra e una voce dice: «Quello è ancora vivo. Guarda, è ancora vivo. Sta ansimando». Altri replicano: «Questi non sono nemmeno umani». Sull'asfalto si vede un militare russo con una giacca tirata sulla testa, apparentemente ferito; pochi secondi dopo l'ucraino gli spara ripetutamente, uccidendolo.

Accanto all'uomo giustiziato il video mostra almeno altri tre soldati russi morti, uno dei quali con una ferita alla testa e le mani legate dietro alla schiena con dei bracciali bianchi comunemente indossati dalle truppe russe. 

Il video sarebbe stato girato lungo una strada nei pressi del villaggio di Dmytrivka, a una quindicina di chilometri a sud-ovest di Bucha, teatro di una mattanza attribuita alle truppe di Mosca. Stando a quanto riferisce il NYT i soldati russi viaggiavano a bordo di un BMD-2, un mezzo da combattimento impiegato dalle truppe aviotrasportate. La colonna sarebbe caduta in un'imboscata intorno al 30 marzo, mentre i militari si stavano ritirando dalle piccole città a ovest di Kiev.

Il filmato con le atroci esecuzioni è stato pubblicato su Twitter il 2 aprile dal giornalista freelance Oz Katerji, specificando che fonti dell'esercito gli avevano riferito che i russi erano caduti in una trappola 48 ore prima nell'ambito di un'operazione lodata dal Ministero della Difesa ucraino: «Un lavoro preciso». 

Quello di Dmytrivka è uno degli episodi che, sempre più spesso, dimostrano come presunti crimini di guerra vengano commessi non solo dai russi, ma anche dagli ucraini.

“Legati e picchiati come bestie”: i racconti dell’orrore dell’occupazione russa. Fausto Biloslavo su Inside Over il 6 aprile 2022.

Il piazzale davanti alla stazione ferroviaria non esiste più. Devastato e trasformato in un campo di battaglia dove le carcasse dei mezzi russi si mescolano alle casse ancora intatte dei missili Grad. Sasha è nervoso, ma ci fa strada nel fango passando davanti ad un carro armato fuori combattimento che non sembra neanche scalfito dai combattimenti. L’ingresso della stazione è stato trasformato dai russi in una postazione trincerata con casse di munizioni vuote usate come barricata e sacchetti di sabbia. Trostianets è stata liberata da pochi giorni. Le ultime truppe di Mosca nella regione nord orientale di Sumy si sono ritirate il 3 aprile.

Sasha è un sopravvissuto. “Non sono un militare, ma tre soldati russi sono venuti a prendermi a casa. Mi hanno tenuto prigioniero per 12 giorni”, racconta con un velo di tristezza negli occhi. L’ucraino con baffetti e pizzetto è stato subito bendato e gli hanno legato le mani con un cappio d’acciaio flessibile usato per le costruzioni. “È insopportabile perché ti sega i polsi – racconta mostrando la brutale manetta -. E poi giù botte. Mi hanno anche frustato e sottoposto a finte fucilazioni”. I russi lo portavano all’aperto e gli sparavano vicino alla testa con il kalashnikov. “Venite. Vi porto a vedere dove ci tenevano come bestie assieme ad altri prigionieri, sia civili che soldati. È stato un incubo”, sottolinea Sasha superando i resti di una porta sfondata dell’edificio all’ingresso della stazione.

A sinistra si infila verso una scala che ci porta sottoterra. Alla fine si apre un’angusta stanzetta senza luce. Dentro ci sono ancora le buste delle razioni di combattimento russe che i prigionieri usavano per i bisogni. E degli stracci per terra utilizzati come giacigli. “In questa cella con gli altri prigionieri c’era anche un mio amico, Micola – racconta -. I russi lo hanno riempito di calci perché protestava fino a quando non è morto”. Poi gira la luce del telefonino e illumina l’orrore: le strisce rosse di sangue sulla parete più larga della cella. “Sbattevano contro il muro la testa dei prigionieri – denuncia Sasha -. Sono stato più fortunato. Mi facevano inginocchiare legandomi mani e piedi per picchiarmi”. Almeno sei prigionieri sono stati uccisi dalle forze di occupazione. Gli altri sono riusciti a fuggire quando è scoppiata la battaglia che ha espugnato i russi dalla stazione ferroviaria. Le sbarre nere dell’ingresso della cella sono ancora intatte. Sasha non si stacca mai dal cappio d’acciaio usato come manette. E non resiste a lungo nel buio e nel tanfo della cella sotterranea. Gli manca l’aria e gli sale un groppo alla gola. 

“La città è stata occupata per 28 giorni – spiega Miroslav Shylo, giovane capo dei volontari -. All’inizio non ci sono stati grossi problemi con le truppe regolari russe. Poi hanno mandato soldati dal Daghestan ed i separatisti di Donetsk. Sono cominciati i saccheggi, le detenzioni arbitrarie, torture e sparavano senza problemi per strada se qualcuno non gli andava a genio”. Gli invasori hanno dipinto la Z, rossa, anche su un’ambulanza che ha il parabrezza sforacchiato dai proiettili. Un cannone semovente russo, diventato bianco per il calore delle esplosioni che lo hanno messo fuori uso, è il monumento alla sconfitta davanti alla stazione ferroviaria.

Per arrivare a Trostianets i genieri hanno messo in piedi un passaggio di fortuna a fianco del ponte accartocciato su se stesso. All’entrata della cittadina di 17mila abitanti c’è un cimitero di mezzi russi inceneriti. Il responsabile dei volontari lancia accuse di stupri ed esecuzioni, ma senza alcuna prova concreta. Dmytro Zhyvytskyi, capo dell’amministrazione militare di Sumy, rivela su Telegram che “tre civili torturati sono stati trovati nel distretto di Konotop, nelle aree appena lasciate dalle truppe russe”.

A Trostianets, il prigioniero sopravvissuto, fuma nervosamente una sigaretta davanti a tre vagoni carbonizzati di un treno. E tira fuori dal giaccone il cappio d’acciaio che gli stringeva i polsi in cella. “Maledetti russi – sbotta – non uscirà più da quest’incubo”.

Torture e privazioni nelle carceri illegali dei separatisti filorussi del Donbass. Ai funzionari Onu sono state negate le visite e nel documento redatto nel 2021 hanno riportato solo le testimonianze delle vittime delle violenze. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 6 aprile 2022.

Percosse, scosse elettriche, asfissia, violenza sessuale, rimozione di parti del corpo (unghie e denti), privazione di acqua, cibo, sonno o accesso a servizi igienici. Sono alcuni metodi di tortura che avvengono nelle carceri illegali create dalle autoproclamate repubbliche popolari filorusse di Donetsk e Luhansk, nella regione ucraina del Donbass.

Nelle carceri del Donbass modalità simili al sistema penitenziario russo

Non parliamo della propaganda della Nato o degli Usa, ma è un documento ufficiale dell’Onu redatto nel 2021. Le modalità sono del tutto simili al sistema penitenziario della federazione Russa. Una violazione sistematica dei diritti umani compiuta sotto la supervisione occulta di Mosca, che fornisce anche denaro e armi attraverso gruppi privati russi come il Wagner, il vero braccio armato del ministero della Difesa russo.

In Ucraina hanno consentito ai funzionari Onu di visitare le carceri

Premettiamo che l’Onu ha potuto monitorare anche le carceri controllate dal governo ucraino e ha potuto riscontrare alcuni maltrattamenti e abusi, tanto che – ad esempio – l’ufficio del procuratore regionale di Kharkiv ha avviato le indagini. Ma, ed è questo il punto cruciale, a differenza delle autoproclamate repubbliche popolari, il governo ucraino ha permesso ai funzionari dell’Onu di visitare le carceri così come avviene in tutti i Paesi democratici, compreso il nostro dove non di rado vengono riscontrate delle violazioni.

Nel Donbass le torture verificate attraverso l’ascolto delle vittime

L’Onu ha potuto verificare le torture avvenute nelle carceri del territorio separatista esclusivamente attraverso l’ascolto delle vittime, visto che gli è stato negato l’accesso alle strutture. Le persone sentite erano state arrestate da uomini armati in passamontagna e senza nessun segno distintivo. Nella maggior parte dei casi, non è stato detto loro il motivo della detenzione. All’arresto o durante il trasporto al loro primo luogo di detenzione, molti sono stati bendati.

Tenuti in isolamento senza avere la possibilità di avere un colloquio con un avvocato

Alcuni, nel momento dell’arresto, sono stati picchiati o minacciati di violenza. Il primo luogo di detenzione erano solitamente i locali del “ministero della Sicurezza dello Stato” (a Donetsk o Luhansk) o la struttura di detenzione “Izolyatsia” (a Donetsk). Sempre dal documento dell’Onu si apprende che la maggior parte di loro sono stati inizialmente detenuti in “arresto amministrativo” (nella “Repubblica popolare di Donetsk”) o “arresto preventivo” (nella “Repubblica popolare di Luhansk”) e tenuti in isolamento senza avere la possibilità di avere un colloquio con un avvocato.

Alcuni non sono stati informati dei motivi della detenzione o delle “accuse” a loro carico per un periodo prolungato. Ai parenti non è stata fornita alcuna informazione, oltre alla conferma, in alcuni casi, che la persona fosse effettivamente detenuta. Nella maggior parte dei casi, le “azioni investigative” sono iniziate immediatamente dopo l’arresto, con poche eccezioni quando i detenuti hanno trascorso giorni o settimane in custodia prima che venisse intrapresa qualsiasi azione.

Secondo alcuni testimoni i servizi segreti russi hanno preso parte agli interrogatori

Le “azioni investigative” comprendevano principalmente interrogatori presso il “ministero della sicurezza dello Stato” o nel centro di detenzione ” Izolyatsia” oppure presso il “ministero della sicurezza dello Stato” (a Luhansk) da parte di individui che nella maggior parte dei casi nemmeno si sono identificati. Diversi detenuti testimoniano che i servizi segreti russi hanno preso parte agli interrogatori dando la percezione che fossero in una posizione di autorità. L’Onu ha riscontrato che la tortura e i maltrattamenti dei detenuti erano sistematici durante la fase iniziale della detenzione (che poteva durare fino a un anno), per poi diminuirli dopo la “confessione” e soprattutto dopo il completamento delle “indagini preliminari”.

Gli interrogatori iniziati con violenze e stupri

Nella maggior parte dei casi documentati, gli interrogatori sono iniziati con violenze o stupri e minacciando anche le loro famiglie se si fossero rifiutati di confessare o di collaborare con le “indagini”. La maggior parte delle persone sentite dai funzionari dell’Onu hanno riferito di essere state sottoposte a tortura o maltrattamenti, a volte anche a violenza sessuale, per lo più durante gli interrogatori, al fine di estorcere confessioni o informazioni, nella maggior parte dei casi, sul lavoro riguardante il servizio di sicurezza ucraino (Sbu).

Le torture continuavano fino a quando un detenuto non accettava di confessare

La frequenza, l’intensità e la durata delle torture e dei maltrattamenti variavano considerevolmente, tuttavia di solito continuavano fino a quando un detenuto non accettava di confessare (oralmente, per iscritto o in video) o di fornire informazioni. I metodi di tortura e maltrattamenti – come detto – includevano percosse, scosse elettriche, asfissia (bagnata e secca), violenza sessuale, tortura posizionale, rimozione di parti del corpo (unghie e denti), privazione di acqua, cibo, sonno o accesso a servizi igienici. Non solo. Le torture eseguite dai separatisti filorussi includevano anche simulazioni di esecuzioni, minacce di violenza o di morte e di danni alla famiglia.

Una delle famigerate prigioni dei separatisti filorussi è quella di Izolyatsia

Per l’Onu, le testimonianze dei detenuti rilasciati indicano che torture e maltrattamenti sono stati effettuati non solo per fini punitivi, ma anche per umiliare e intimidire. Una delle famigerate prigioni dei separatisti filorussi è quello di Izolyatsia, nella autoproclamata repubblica popolare di Donetsk. Prima della rivolta del Donbass finanziata da Putin, quel carcere era una ex fabbrica diventata un centro artistico. L’associazione che si occupava del centro si è spostata a Kiev. Izolyatsia, dal 2014 è stata trasformata in una prigione, tra le più dure della regione.

Il giornalista Stanislav Asseyev in prigione per avere scritto “Repubblica popolare di Donetsk” tra virgolette

Stanislav Asseyev è un giornalista ucraino che fu imprigionato in quel carcere, reo di aver scritto in un articolo “Repubblica popolare di Donetsk” tra virgolette. Come ha riportato Il Foglio nel 2021, grazie alla penna di Micol Flammini, il giornalista ucraino ha testimoniato con il suo libro “Donbass”, che durante la detenzione riusciva oramai a distinguere il tipo della tortura dalle urla dei detenuti: quando si trattava di percosse, si sentiva una successione di urla, ma quando venivano torturate con l’elettricità, era un grido costante. Durante le torture era sempre presente un medico, perché dovevano fermarsi prima dell’irreparabile.

Il giornalista racconta di Izolyatsia trasformata in un luogo di tortura e anche in manicomio

Asseyev descrive anche il capo della prigione, detto Palych: un alcolizzato, un sadico che costringeva i detenuti a cantare a squarciagola canzoni sovietiche per non sentire le urla di chi veniva torturato e a violentarsi a vicenda. Il giornalista racconta di Izolyatsia trasformata in un luogo di tortura e anche in manicomio. Dopo la sua scarcerazione – avvenuta grazie a uno scambio di prigionieri -, Asseyev ha iniziato a raccontare di Izolyatsia. Dopo di lui sono state interrogate altre vittime, identificati alcuni responsabili e arrestato Palych mentre era a Kiev.

Già nel 2021 per l’Onu rileva queste violazioni sono sistematiche e possono costituire crimini di guerra

Ritornando al documento dell’Onu, si evince che le carceri dei separatisti filorussi rispecchiano fedelmente le modalità dei penitenziari della federazione russa. Il carcere, si sa, è un indicatore fedele del grado di civiltà di un Paese. Oltre a ciò, l’Onu ha potuto verificare l’inesistenza di garanzie per un giusto processo. Sia il sistema penale che giudiziario è completamente privo di qualsiasi garanzie basilare nel territorio controllato dalle autoproclamate “repubbliche”. L’Onu rileva che queste violazioni, assieme a quelle registrate dal conflitto, sono sistematiche e possono costituire crimini di guerra. Ma parliamo del 2021. A tutto ciò, oggi, si aggiunge come aggravante anche la guerra scaturita dall’invasione russa. Le atrocità, quindi, si sommano a quelle già preesistenti.

Domenico Quirico per “la Stampa” il 29 marzo 2022.

Ho visto troppe morti violente. Ho conosciuto molto bene il sapore che ha la crudeltà. Ho ricordi dolorosi che cerco di non tenere sepolti perché sentirli solo come una assenza immobile e irrimediabile impedisce di ascoltare il grido dei morti. Per questo non mi stupisco quando vedo scorrere le sequenze di quello che viene indicato già come lo scandalo della crudeltà anche dei buoni, delle vittime, di chi si difende. 

Sono le immagini di alcuni soldati indicati come ucraini che sparano alle gambe di prigionieri russi, li azzoppano, li sciancano. E quelle del soldato che chiama la moglie di un russo ucciso con il telefonino che ha trovato frugando nel cadavere e le racconta sghignazzando come è ridotto per i colpi che ha subito.

Kiev «indaga», garantisce una inchiesta pur smentendo che i propri combattenti violino le norme, ed è già un merito, perché sarebbe più semplice negare tutto, annegandolo nelle ovvie bugie del nemico. Se fossero confermate come autentiche non sarebbe per me che la conferma della malvagità perversa della guerra che non risparmia nessuno, mitizza i guerrieri e giustifica i loro eccessi anche con il pretesto della autodifesa. 

La guerra è una divinità crudele e piena di pretese, per farsi adorare e assicurare forse la vittoria esige sacrifici umani, di più: pretende che i giovani che mandiamo a combattere trasformino le stragi e gli atti che devono compiere in un rito di iniziazione. La guerra fatta secondo le regole non esiste.

Che cosa vi aspettavate? La pianificazione dell'assassinio e della violenza è organizzata con la massima efficienza da tutti gli eserciti, quelli che aggrediscono e quelli che difendono. Ma coloro che nel fragore della battaglia emergono, quelli che hanno più potere dalle due parti sono coloro che hanno una vera propensione alla crudeltà, che non si fanno scrupoli. In ogni esercito ci sono sempre tanti piccoli criminali che diventano improvvisamente eroi. Quando si ha bisogno di uomini, di carne da cannone non si può andare tanto per il sottile. Arrivano i volontari, i mercenari, i «foreign fighters»: idealisti? Fanatici? Esteti della bella morte? Imbecilli? Accomodatevi. Abbiamo bisogno di gente che voglia morire.

Tra loro è gente violenta da prima, che crede nella ragione della forza, che esalta la forza, talvolta sono davvero piccoli criminali. Scoppia la guerra e continuano a fare quello che facevano prima. 

Solo che adesso è tutto vero, hanno un fucile in mano, rubano, saccheggiano, torturano, uccidono. Alcuni eserciti li arruolano astutamente i criminali, sono ottimi soldati.

Le brigare Azov ci sono sempre, da tutte le parti, filmano le proprie imprese fosche ne conservano la testimonianza sul telefonino si vantano e le condividono con parenti e amici rimasti a casa: guarda cosa so fare... qui è pazzesco!

I prepotenti che vengono emarginati in tempo di pace diventano i salvatori della patria, i modelli, il simbolo degli ideali più nobili. Il giudizio sui loro vizi viene sospeso, le regole non contano più, c'è la guerra bisogna vincere prima di tutto, a qualsiasi prezzo. L'abdicazione pregiudiziale alla pietà e al diritto offre una sicurezza estrema. Si può fare tutto perché si è protetti da tutti i lati dal senso di colpa, dal provare rimorso. E questo accade anche nelle guerre delle democrazie, dal Vietnam all'Iraq. Il dato terribile è che non è un problema di ideologia.

Chiunque si arruola nella crociata della guerra, ogni volta che crediamo di essere dalla parte della luce, del bene (e tutti pensano di esserlo) in realtà stiamo solo scegliendo i modi in cui compieremo le esecuzioni. In guerra le torture, le distruzioni trasmettono messaggi: chi viola le regole, le convenzioni internazionali che in taluni casi non hanno nemmeno firmato (ma non sono forse una astrazione, un diritto che esiste solo per chi è in pace?), fa ricorso a una violenza sproporzionata sui civili inermi, su una città crocefissa, su prigionieri che si sono arresi, in realtà fa una dichiarazione. Lascia un biglietto da visita, «ci avete attaccato, non tornerete a casa con le vostre gambe...». Oppure «ci avete traditi, vi faremo pagare il conto...».

La guerra mette a nudo il potenziale di malvagità che si annida appena sotto la superficie in ciascuno di noi. Non illudetevi. In guerra anche le persone miti ne vengono modellate. Quando ne assumono la droga anche quelli che ne sono costretti dalla violenza dell'altro, quelli che resistono, prima o poi provano esattamente ciò che provano i loro nemici compresi quelli che definiscono barbari e incivili. 

È un meccanismo davvero infernale. Il nemico rappresenta sempre il Male assoluto. E quali regole volete che si debbano rispettare quando si ha a che fare con il Male? Il patriottismo spesso è una forma appena velata di esaltazione collettiva, serve a maledire la perfidia di chi ci odia e attacca, non certo a rafforzare la necessità della nostra clemenza e umanità.

E se fosse vero che i confini della personalità umana in guerra diventano così fluidi da impedirci di sapere chi siamo in realtà? Ma allora dove è la differenza, l'abisso indispensabile che deve separare le guerre delle democrazie da quelle delle tirannidi? In quello che accade dopo: aver fiducia nella giustizia che è il nostro privilegio di uomini liberi, giustizia che è stata annichilita e resa incerta dalla guerra. Le dittature premiano chi si è abbandonato alla malvagità della guerra perché vi riconoscono il suddito perfetto e coprono i suoi delitti sotto il panno della vittoria che dovrebbe cancellare tutto. 

Le democrazie non dimenticano, indagano, accusano, puniscono i colpevoli. Molti hanno presentato questa guerra tra nazioni, l'eterno duello tra prepotenti e aggrediti, come una sfida tra le democrazie e l'autoritarismo. Ecco: anche dall'investigare e punire, se vere, le violenze dei propri soldati sapremo giudicare in quale delle due parti Ucraina e Russia militavano. 

Gli orrori senza bandiera del conflitto. Soldati russi gambizzati dagli ucraini. Gian Micalessin il 29 Marzo 2022 su Il Giornale.

«Le rivoluzioni - ricordava sempre Mao Tze Tung - non sono mai un pranzo di gala». E le guerre tantomeno. Per capirlo basta guardare il video, pubblicato in Europa dal quotidiano tedesco Bild. In quel filmato si vedono prima una decina di soldati russi a terra sanguinanti e doloranti e poi gli spari di kalashnikov alle gambe di tre loro compagni appena tirati giù da un pullmino. Insomma una gambizzazione di gruppo intesa come punizione sommaria di un'unità di ricognizione russa catturata sul campo di battaglia e sospettata di volersi infiltrare dietro le linee.

Il video, girato nei dintorni di Kharkiv, la città a soli 30 chilometri dal confine russo assediata da oltre un mese, è un vero pugno nello stomaco. Ma quel video terribile ha, seppure nella sua brutalità, un aspetto istruttivo. Aiuta infatti a comprendere l'orrore della guerra. E, soprattutto, gli orrori di un conflitto come quello dell'Ucraina su cui aleggia una vasta nebbia propagandistica capace di coprire, confondere o cancellare i comportamenti dell'una o dell'altra parte. Ridimensiona soprattutto le convinzioni o le illusioni di chi è convinto che in quella guerra i cattivi siano sempre e solo i soldati russi contrapposti ad una forza militare ucraina rappresentata come un'esemplare forza del bene. In termini politici forse è così, ma sul campo di battaglia la verità non è mai cosi lineare. La guerra, come insegnano i terribili bombardamenti di Dresda della Seconda Guerra Mondiale, si vincono anche incutendo paura e terrore negli avversari. E questo in Ucraina avviene probabilmente da entrambe le parti. Ovviamente la massiccia dose di propaganda, generata anche con l'appoggio degli esperti di «psy ops» (operazioni psicologiche) della Nato, spinge a percepire il governo di Volodymyr Zelensky come la parte più debole trasformandolo, nell'immaginario collettivo, in una sorta di piccolo Davide in lotta contro un cattivo e prepotente Golia. Ma queste certezze hanno ben poco a vedere con gli orrori di un conflitto che contrappone due popoli convissuti, fino al 1991, nello spazio comune dell'Unione Sovietica. E non ci fanno percepire l'odio reciproco creatosi dopo il 2014 quando la popolazione di origine ucraina e quella di lingua russa hanno incominciato a immaginarsi come fazioni contrapposte e nemiche. Ma la realtà del campo di battaglia contrasta anche con l'abitudine, diffusasi nell'ultimo mese, di contrapporre all'autoritarismo di Vladimir Putin un regime di Kiev descritto come esempio di democrazia e libertà. In questo corretto, ma assai euforico, sostegno al più debole molti ignorano, o sottovalutano, le restrizioni alla libertà di espressione imposte da Kiev dopo l'inizio della guerra. Il 20 marzo scorso, ad esempio, il «Consiglio nazionale per la sicurezza e la difesa dell'Ucraina» ha inasprito le regole già stringenti della legge marziale in vigore vietando qualsiasi attività ad 11 partiti politici accusati di sostenere la minoranza russofona. E ad annunciare la decisione ci ha pensato lo stesso Zelensky spiegando che «le attività di chi punta alla divisione o alla collusione» riceveranno «una dura risposta». «Oggi a Kiev e nelle altre città la nostra gente vive nel terrore o in prigionia - dichiara a il Giornale Mikola Azarov, ultimo premier filo russo dell'Ucraina durante il mandato di Viktor Yanukovych». «La legge marziale viene usata per sbattere in galera giornalisti, rappresentanti dei diritti umani e chiunque si opponga a Zelensky - continua Azarov - Elena Berezhnaya, una nostra storica rappresentante dei diritti umani accreditata presso Onu e Osce è in carcere dal 16 marzo senza neppure il diritto ad un avvocato di fiducia. E lo stesso succede a giornalisti come Dmitry Dzhangirov e Anna German. In Europa vi siete scordati che la giustizia non sta mai da una parte sola».

Soldato russo prigioniero in Ucraina, lo sfogo: «Perdonatemi, qui da voi ho avuto cibo buono e umanità». Irene Soave Il Corriere della Sera il 14 Marzo 2022.

In una conferenza stampa indetta dall’esercito di Kiev il soldato racconta: «Pensavamo fosse un’esercitazione, fino all’ultimo». Sempre più soldati russi sono portati in conferenza stampa dagli ucraini. 

«Vi chiedo perdono: a tutta l’Ucraina. Perdonatemi per essere venuto qui, mi vergogno profondamente». Il soldato russo china il capo. «Putin», continua, «ha detto solo menzogne, ci hanno costretto a venire qui. Voglio chiedere perdono a tutta l’Ucraina per essere venuto qui».

La richiesta di perdono del soldato russo prigioniero in Ucraina è avvenuta, ieri, in una conferenza stampa organizzata dall’esercito di Kiev a Sumy, città nel Nordest che è crocevia per chi lascia il Paese, cosa che il soldato russo, al momento dell’arresto, stava tentando di fare: il prigioniero di guerra, portato di fronte ai giornalisti, ha ripetuto più volte «mi vergogno» e «scusatemi», e aggiunto che «i soldati ucraini hanno trattato bene me e i miei commilitoni, ci hanno dato da mangiare cose buone... il nostro esercito russo ci dava cibo scaduto da tempo». E ancora: «Mi sono arruolato il 23 giugno 2021, il 24 febbraio 2022 abbiamo invaso l’Ucraina. Fino all’ultimo ci dicevano che era solo un’esercitazione sul territorio russo».

La testimonianza del soldato — rimasto anonimo — ha fatto il giro dei media internazionali. Si aggiunge a una serie di testimonianze simili, rese nella maniera più pubblica possibile e usate dall’esercito ucraino per comunicare, soprattutto agli alleati occidentali, quelli che sembrano inquietanti «retroscena» della preparazione militare dei soldati nemici, a cui viene tolto il cellulare «perché non cerchiamo su internet notizie del conflitto» e che — così emerge in gran parte delle testimonianze di prigionieri russi nei giorni scorsi — spesso sono arrivati in Ucraina credendo di fare parte di un’esercitazione, e di essere su suolo russo.

Così emerge, ad esempio, dal discorso di un anonimo carrista, giovedì, a Kiev: ancora in una conferenza stampa dell’esercito ucraino la sua testimonianza è stata «esibita» come documento. «In Russia ci considerano già morti», ha detto il soldato. «Ho potuto chiamare i miei genitori, non a tutti lo permettono. I miei dicono che mi hanno già organizzato il funerale. Se rientriamo come prigionieri scambiati, a spararci saranno i nostri connazionali, per la vergogna».

Con lui, giovedì, in conferenza stampa, c’erano altri dieci commilitoni. Uno di loro ha parlato di «compagni uccisi dal nostro fuoco, perché scambiati per civili, sotto i miei occhi».

In una conferenza stampa venerdì, trasmessa in diretta dall’agenzia russa Interfax, un tenente colonnello dell’aeronautica militare, 47esimo reggimento, si è identificato come Maxim Krishtop e ha raccontato degli ordini ricevuti — ed eseguiti — di «bombardare consapevolmente obiettivi civili. Riconosco l’enormità dei crimini che ho commesso e chiedo perdono a tutta l’Ucraina», ha concluso. Krishtop è stato fatto prigioniero il 6 marzo.

Le conferenze stampa di soldati catturati sono sempre più numerose, e mirano a mostrare l’impreparazione dei russi. Ma anche la malafede dei loro capi. Un anonimo comandante catturato il 10 marzo ha detto in video che «L’ordine di prendere Kharkiv in tre giorni è venuto direttamente da Putin» e che per eseguirlo «ci era stato ordinato di bombardare civili».

I Malati. Antonello Guerrera per repubblica.it il 18 maggio 2022.

“Ho ricevuto continue minacce di morte: 'Ti verremo a prendere', 'ti uccideremo', 'faremo a pezzi il tuo bambino'". Su Internet il governo di Mosca e i filorussi l’hanno insultata, infangata, accusata di essere un’attricetta “comprata dai nazisti di Kiev”. 

Mentre lei, Marianna Vyshemirsky, scappava dall’ospedale di Mariupol bombardato da Putin, incinta del suo bambino. Un’altra mamma come lei, anche lei ritratta in quelle tragiche e storiche foto in barella, purtroppo non ce l’ha fatta ed è morta pochi giorni dopo quel drammatico 9 marzo 2022. 

Ma ora silenzio: parla proprio lei, Marianna Vyshemirsky o Podgurskaya (cognome da nubile), alla Bbc, nella sua prima intervista a un media occidentale dopo quelle immagini virali di lei incinta in fuga dalle macerie dell’ospedale pediatrico. “La mia bambina Veronika è nata - rivela la donna - ha deciso di venire alla luce in giorni molto complicati, ma meglio così, no?”. Ventinove anni, influencer di prodotti di bellezza prima della guerra in Ucraina, marito operaio Yuri proprio nella campale acciaieria Azvostal di Mariupol, ora si trova in un’area del Donbass occupata dai russi e accetta di parlare con a fianco un blogger separatista.

Vyshemirsky ricorda ovviamente quel 9 marzo: “Eravamo nell’ospedale e a un certo punto abbiamo udito un forte botto, poi una seconda esplosione, è volato di tutto nell’ospedale”. 

La donna viene lievemente ferita, poi si rifugia negli scantinati della struttura con altri civili. Infine, chiede ai soccorritori di tornare a prendere la sua roba nell’ospedale bombardato: “Lì avevo tutto per la mia bambina”.

Poi un tweet dell’ambasciata russa nel Regno Unito l’accusa di essere un fake al soldo degli ucraini e di millantare tutto, messaggio poi rimosso da Twitter. Subito dopo le minacce, una valanga di tremende minacce di utenti e troll filorussi, soprattutto sul suo profilo Instagram. “È stato davvero offensivo per me, dopo tutto quello che avevo passato. La mia immagine è stata usata per diffondere bugie sulla guerra in Ucraina”. Marianna ha poi partorito Veronika in un altro ospedale, diversi giorni dopo il bombardamento. 

La donna però, come racconta la Bbc, si rifiuta di accusare direttamente le autorità russe. Piuttosto, è irritata con il giornalista della Associated Press che per primo, sul posto, ha riportato la notizia: “Mi sono sentita offesa da quei reporter che hanno postato le mie foto sui social media ma che non hanno intervistato altre donne incinte che erano con me quel giorno e che avrebbero potuto confermare come quell’attacco fosse avvenuto davvero. Così, invece, a qualcuno è sembrato che fosse una messinscena”.

Secondo il resoconto della tv pubblica britannica, Marianna e Yuri hanno provato a scappare da Mariupol. Poi, dopo settimane di silenzio, sono ricomparsi in una imprecisata città del Donbass occupato dai russi. La prima intervista concessa è stata qualche settimana fa a un blogger separatista filorusso, Denis Seleznev, che ha organizzato anche questa intervista con la Bbc, cui lui stesso ha presenziato “pur senza interrompere mai la conversazione”.  In ogni caso, familiari e amici di Marianna hanno assicurato che ora starebbe “bene ed è al sicuro”.

Caterina Bonvicini per “La Stampa” il 15 marzo 2022.

Una grande scritta rossa FAKE, incorniciata da rettangoli e un paio di scarabocchi che aggiungono una certa aria d'urgenza, copre due foto del bombardamento del 9 marzo all'Ospedale numero 2 di Mariupol, l'ospedale pediatrico. Sono scatti del famoso fotografo di AP, Evgeniy Maloletka. 

In una fotografia si vede una donna incinta con un pigiama bianco a pois e il viso insanguinato che si allontana dal reparto sventrato e nell'altra una donna incinta distesa su una barella coperta da un telo, sempre a pois, trasportata fra le macerie da cinque uomini, il fumo nero che ancora si alza sullo sfondo. Fake, tutta una sceneggiata, annuncia in un tweet del 10 marzo l'ambasciata russa in Gran Bretagna.

Il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov, da Antalya, sostiene che l'ospedale pediatrico non era operativo da un pezzo, era usato come base dal battaglione Azov, il reparto dell'esercito ucraino di estrema destra nazionalista. Va tutto bene, quindi. Non sono scene di guerra, è solo un'operazione militare molto speciale. E nel caso del battaglione Azov, chi può negarlo, si tratta di denazificazione doc.

A riprova che gli ucraini sono tutti dei commedianti come il loro presidente Volodymyr Zelensky e che il massacro dell'ospedale pediatrico è soltanto una nuova puntata della sua fortunata serie tivù, il Cremlino si accanisce su Marianna Podgurska, la donna con il pigiama a pois e il viso insanguinato. Di professione attrice, secondo loro, in realtà beauty blogger.

Vedete? Anche in piena economia di guerra (ops, operazione speciale) si trova un po' di trucco. Mariupol assediata è senza acqua, senza medicinali, senza elettricità, la gente fa chilometri sotto i bombardamenti per bere da terra, come raccontano gli operatori di Medici Senza Frontiere, che confermano l'attacco, e qualunque giornalista sul posto. Completamente isolati, tirano fuori vecchie radioline a pile per sapere quello che succede in città. 

Ma una nuova puntata non si nega a nessuno (solo i russi sono rimasti senza Netflix). Il Cremlino però non si ferma qui: riconosce anche nell'altra donna, quella in barella, il viso di Marianna. Si tratta della stessa attrice, chiaramente. Si è cambiata in fretta dietro un albero carbonizzato? Gli aiuti occidentali non sono abbastanza, come lamenta Zelensky, e a Marianna Podgurska, per risparmiare sui costi di produzione, è toccato interpretare una strage intera da sola?

Peccato che Marianna Podgurska non fosse lì per lavoro. Era solo una partoriente come tante. Il giorno dopo, il 10 marzo è nata sua figlia Veronika. Fra le tante immagini di quel bombardamento mi ha colpita quella di una bambina di pochi mesi con una mascherina chirurgica sugli occhi, usata come una mascherina da aereo, di quelle che ci mettiamo per dormire durante un volo. Torna utile persino la pandemia per non fare vedere ai propri figli la guerra. Se riescono a sopravvivere, naturalmente.

Che regista raffinata, la realtà. L'altra donna incinta, quella trasportata in barella, invece non ce l'ha fatta. Non era un personaggio di Marianna Podgurska, era solo una ragazza che, fino a un mese prima, probabilmente pensava a cosa mettere nella valigia da portarsi in ospedale. Nemmeno in uno di quei trolley stipati che vediamo alla frontiera. Una valigia normale, da partoriente. Ieri le hanno fatto un cesareo d'urgenza, ma il bambino non dava segni di vita. Quando lei (vorrei tanto sapere come si chiamava) se ne è resa conto, ha urlato: uccidetemi subito. Desiderio avverato, anche se i medici hanno fatto di tutto per salvarla. Trenta minuti dopo, ha smesso di respirare. Quei tweet sono stati rimossi, ma rimane, e brucia, l'oltraggio alla verità. Può essere considerato un crimine di guerra?

Ucraina, la madre simbolo di Mariupol ora accusa Kiev. “Un falso, è stata rapita dai russi”. Brunella Giovara su La Repubblica il 2 Aprile 2022.

Al centro della famosa foto nell’ospedale colpito da Mosca è riapparsa in una video-intervista usata dal Cremlino e dai complottisti.

Vi ricordate Marianna, la ragazza incinta fotografata stravolta a Mariupol, erano proprio i primi giorni di guerra. Scappava dall'ospedale appena bombardato dai russi, nessuno potrà dimenticare il suo sguardo. Una vittima, anche della grande recita che è la propaganda, lei ci è rimasta impigliata come in una ragnatela. Subito dopo quella foto famosa si era scoperto che era una influencer, una modella e blogger.

Andrea Nicastro per il “Corriere della Sera” il 4 aprile 2022.

La nuova intervista video della ragazza del reparto maternità di Mariupol ha già milioni di visualizzazioni. I siti russi titolano: «menzogna svelata» oppure «smontato il grande fake ucraino». Ma a guardare le immagini non si capisce che cosa smentisca la neomamma o cosa riveli che già non si sapesse. L'interesse mediatico pare fondarsi più sulla superficialità dei titoli e delle interpretazioni che non sulle affermazioni della ragazza. Anche la reazione ucraina al nuovo video appare eccessiva. Parlare di «rapimento» o «ricatto» sembra esagerato. 

La puerpera, ancora convalescente dal suo taglio cesareo, avrebbe potuto facilmente essere obbligata a dire cose gradite a Mosca. I 28 tagli, le tante frasi lasciate senza senso compiuto, in 6,45 minuti di intervista dicono che chi ha ripreso le sue dichiarazioni non è riuscito ad ottenere ciò che forse sperava. Mariana Vyscemyrska era finita sui giornali di tutto il mondo come una delle vittime del bombardamento dell'ospedale di Mariupol del 9 marzo.

La si vedeva col pancione di nove mesi camminare tra le macerie dell'edifico deturpato. In poche ore Mariana divenne la «ragazza dal pigiama a pois» che con un'altra gestante in barella rappresentavano le vittime di uno dei crimini di guerra più odiosi. Eppure, la propaganda russa non ha esitato. «La ragazza in pigiama è una beauty blogger», quindi un'attrice pagata per inscenare un falso. Ad accusare è la stessa ambasciata russa a Londra. Si semina l'idea che lo stesso bombardamento dell'ospedale sia un fake orchestrato dai «neonazisti del battaglione Azov» proprio per accusare Mosca.

Dicono anche che Mariana abbia interpretato due parti in commedia: prima in piedi con qualche finta ferita sul volto, poi sdraiata in barella. La realtà emerge in poche ore: le donne ferite sono due, quella in barella muore con il bimbo che aveva in grembo, Mariana invece dà alla luce una bimba. Sembrava un caso da manuale di cattiva propaganda, ma la nuova intervista peggiora la reputazione russa. 

Mariana è seduta su un divanetto d'ospedale. Dice di essere a Donetsk, capitale filorussa del Donbass. I tagli all'intervista riescono ad eliminare dal discorso della ragazza la parola «guerra» (vietata in Russia). Il video, presentato come prova del complotto, paradossalmente smentisce più le tesi russe che quelle ucraine. Mariana, ad esempio, spiega tra le lacrime di aver letto su Internet delle accuse a lei rivolte.

«Nessuno mi ha truccata o fatto cambiare pigiama. La donna in barella non sono io. Era un'altra ragazza in pieno travaglio che non ce l'ha fatta. È morta lei e il suo bambino». Mariana dice però anche che nel reparto di maternità si aggiravano dei soldati e che ai pazienti era stato chiesto di trasferirsi in un altro ospedale. Sostiene anche di non aver sentito aerei e parla sempre di due bombe d'artiglieria. Questi particolari danno la possibilità di sostenere che il disastro sia stato compiuto dal Battaglione Azov ucraino che non ha aerei, ma cannoni sì. Esattamente la tesi russa.

I tagli non permettono di ricostruire un ragionamento pienamente coerente, ma è possibile che le bombe siano state sganciate ad alta quota. Mariana parla di colpi d'artiglieria, ma sarebbe fenomenale un proiettile capace di creare un'onda d'urto di tale violenza. Mariana racconta di soldati in ospedale e poi li confonde con i giornalisti dell'Ap che documentarono lo scempio. In compenso Mariana smentisce molte delle congetture russe. Piange quando nega di essersi travestita e, soprattutto, la giovane mamma è lì con la sua vita sradicata, la casa distrutta, il trauma delle bombe a provare che (senza poterla chiamare guerra) c'è qualcosa in Ucraina che sta seminando dolore e vittime ogni giorno.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 3 aprile 2022.

Lo scatto della sua fuga disperata con il pigiama a pois e il pancione del nono mese di gravidanza, durante i bombardamenti sull'ospedale di Mariupol, era diventato il simbolo dell'atroce aggressione russa. Mosca aveva sostenuto che l'immagine fosse falsa e che la donna, un'attrice, avesse un cuscino sotto la maglia per sostenere la campagna di disinformazione ucraina, ma adesso Marianna Vyscemyrskaya, che ha partorito una bambina dopo l'attacco, è diventata strumento della propaganda di Putin. 

Secondo il giornale online ucraino Obozrevatel, la donna sarebbe stata rapita dai soldati di Mosca, portata nella Repubblica popolare di Donetsk e costretta a girare un video, in cui nega anche il raid aereo, facendo riferimento solo esplosioni di natura non precisata. Non ci sono conferme che la ragazza sia stata costretta a parlare dai propagandisti russi, ma la sua storia Telegram, dove racconta cosa è accaduto a Mariupol, nella quale non nomina mai i russi ma dice «loro» e dice che i militari ucraini erano affamati, è stata condivisa, con sottotitoli in inglese, da numerosi account che sostengono l'operazione speciale. Sei minuti degli oltre 24 girati, diffusi invece su Youtube.

Nell'integrale è un uomo a intervistarla e la donna, in lacrime fa un appello al presidente Zelensky, dicendo che aveva assicurato che avrebbe protetto il suo popolo. I volontari hanno riferito che inizialmente i parenti di Marianna avevano chiesto di portarla sul territorio controllato dall'Ucraina perché i russi l'avrebbero utilizzata per i loro scopi propagandistici. E la previsione sembra essere stata confermata.

Marianna esordisce dicendo nome e cognome, racconta gli ultimi anni, viveva nel Donetsk, dove ha conosciuto il marito, quindi il trasferimento, prima della pandemia. Poi si definisce apolitica e dice che non era d'accordo con la foto, che ha suscitato così tanto entusiasmo. «Il 9 marzo si è verificata un'esplosione nell'ospedale di maternità - ricorda Marianna - i militari hanno preso il cibo che i mariti preparavano per le loro compagne in attesa di partorire, dicevano che non mangiavano nulla da cinque giorni». 

Poi aggiunge di non aver autorizzato il fotografo dell'Associated Press a scattare la foto diventata un simbolo. Marianne era ancora incinta, il suo reparto era al secondo piano: «È successo il 9 marzo nell'ospedale di Mariupol. Eravamo sdraiati nei reparti, abbiamo visto volare finestre e telai. Non sappiamo come sia successo. Eravamo seduti nei nostri reparti. Alcuni sono riusciti a coprirsi e alcuni no.

Dopo l'evento - ricorda - siamo stati portati nel seminterrato, prima i feriti, poi le donne in travaglio con i bambini». Dopo cinque minuti siamo stati portati tutti via. «Sono stata una delle ultime, non ho riportato ferite gravi, solo qualche taglio». Allo stesso tempo, Marianne assicura di non aver sentito il suono degli aerei, quindi crede che il bombardamento dell'ospedale di maternità non potesse provenire dal cielo.

«Sono venuti l'11 marzo - racconta riferendosi alla foto - e hanno chiesto di rilasciare un'intervista, a cui ho risposto che ero apolitica e non volevo rilasciare interviste. Mi è stato detto che erano anche apolitici, ma hanno pubblicato la mia foto su Internet e ora è iniziato una guerra di notizie», ha detto. Parlando ancora di quell'immagine, Mariana ha ribadito di aver chiesto più volte di non essere fotografata e di non aver dato il permesso di pubblicare lo scatto. Tuttavia, un video dell'Associated Press, diffuso poco dopo l'attentato a Mariupol, la donna non protestava apertamente contro le riprese.

Utilizzata per la propaganda del Cremlino. Marianna, il giallo della influencer incinta di Mariupol: in mano ai russi, nega il bombardamento dell’ospedale. Carmine Di Niro su Il Riformista il 2 Aprile 2022. 

Marianna Vishegirskaya, la giovanissima influencer ucraina diventata il ‘simbolo’ del bombardamento russo sull’ospedale pediatrico di Mariupol, con la sua foto virale in cui scappa in un pigiama dalla struttura sanitaria devastata, è in mano ai russi.

A denunciarlo è stato in primo luogo il giornale ucraino online Obozrevatel, ma la storia è stata confermata anche dal sito investigativo Bellingcat. Marianna Vyscemyrska, la fashion blogger che due giorni dopo il raid ha partorito la sua bambina, è stata ‘rapita’ e scortata nella Repubblica popolare di Donetsk.

Si tratta in questo caso di una violazione dell’accordo di evacuazione, che prevedeva che i rifugiati di Mariupol potessero recarsi nel territorio dall’Ucraina, non in Russia o nelle cosiddette Repubbliche popolari.

L’influencer compare in un video, poi rilanciato su Twitter dagli apparati russi, in cui nega che vi sia stato un attacco aereo ai danni dell’ospedale Mariupol, parlando di generiche e non precisate esplosioni.

Nel video, pesantemente tagliato e sottotitolato in inglese, Marianna racconta inoltre che l’ospedale fosse occupato da soldati e milizie ucraine, che si presentavano per ‘rubare’ il cibo che i mariti preparavano per le loro compagne e moglie in attesa di partorire, inoltre spiega di non aver autorizzato il fotografo dell’Associated Press a scattare le foto in ospedale. 

Un racconto che combacia perfettamente con la versione ufficiale della Russia, che ancora oggi nega il bombardamento e spiega che la struttura sanitaria fosse utilizzata come base militare.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

 «La donna simbolo dell’ospedale di Mariuopol è stata rapita dai russi». Fabio Postiglione su Il Corriere della Sera il 2 Aprile 2022.

La donna scampata all’attacco del 9 marzo all’ospedale pediatrico di Mariupol è stata rapita dai russi. «Costretta a fare un video» nel quale «salva» i russi. 

Marianna Vishegirskaya era ricoverata. Incinta al nono mese doveva partorire quando i russi bombardarono l’ospedale pediatrico di Mariupol. Il 9 marzo la sua foto fece il giro del mondo ed è diventata la foto simbolo di una guerra che ogni giorno, da oltre un mese, conta vittime innocenti. In pigiama bianco a pois. La faccia tumefatta e sanguinante si faceva strada tra le macerie con una busta tra le mani. Era in fuga per le scale. Adesso la fashion blogger ucraina che due giorni dopo i bombardamenti aveva partorito, è stata rapita. Secondo il giornale ucraino online Obozrevatel, notizia poi confermata dal sito investigativo Bellingcat, Marianna sarebbe stata portata da russi nella Repubblica popolare di Donetsk. Poi è comparsa in un video diffuso sui social controllati dalla Russia, tradotto in inglese, in cui racconta che non c’è stato un attacco aereo dell’ospedale ma solo esplosioni di natura non precisata. 

Un filmato, però, più volte tagliato. Racconta ancora che i soldati russi erano in ospedale per chiedere cibo che i mariti stavano preparando per le loro mogli e compagne ricoverate in attesa di partorire. E infine dice di non aver autorizzato il fotografo dell’Associated Press a riprenderla mentre scendeva le scale. Un video dal tono propagandistico che probabilmente è stato commissionato dai russi, usato per confermare la notizia che loro stessi hanno diffuso dopo il bombardamento. Ovvero che l’edificio non era più usato come struttura sanitaria e che addirittura il bombardamento era stato voluto dagli ucraini.

"Ostaggio dei russi": giallo sulla donna simbolo di Mariupol. Francesca Galici il 2 Aprile 2022 su Il Giornale.

Con il suo pigiama a pois è diventata uno dei volti simbolo dell'attacco russo all'ospedale di Mariupol ma ora è giallo su un video in rete.

Le immagini dell'evacuazione dell'ospedale di Mariupol dopo l'attacco russo dello scorso 9 marzo sono ancora negli occhi di tutti. La tragedia e l'orrore delle donne incinte e dei bambini feriti che scappano da quell'inferno è uno dei simboli del conflitto in Ucraina. Tra tutti i volti terrorizzati ripresi dai reporter accorsi sul posto, quello di una donna ha attirato maggiormente l'attenzione dell'opinione pubblica. Era a fine gravidanza e indossava un pigiama tenue mentre scendeva le scale di quel che rimaneva dell'ospedale di Mariupol, mentre i soldati cercavano di accelerare le operazioni di sgombero per il rischio di nuovi attacchi.

Era sporca di sangue e portava con sé le poche cose che, qualche giorno prima, aveva preparato per il ricovero in vista dell'imminente nascita. Marianna Vishemirskaya, questo il suo nome, è diventata suo malgrado un simbolo ed è anche stata al centro delle polemiche da parte dei filorussi, visto che è una nota influencer ucraina che, secondo la propaganda putiniana, sarebbe stata assoldata come comparsa di una messa in scena. Ora, Marianna pare sia stata rapita proprio dai russi.

La donna partorì pochi giorni dopo quell'orrendo episodio e la sua storia fece il giro del mondo ma ora alcuni media ucraini scrivono che sarebbe "ostaggio" dei russi, che non la lascerebbero tornare dalla famiglia. La denuncia pare sia arrivata proprio dai parenti della donna, secondo i quali la ragazza e la neonata non possono rientrare nel territorio dell'Ucraina. Dall'Ucraina si moltiplicano le voci sulla sua sorte, che finora è tinta di giallo. Qualcuno azzarda l'ipotesi che la donna possa far parte del presunto gruppo di deportati in Russia, mentre il sito ucraino Obozrevatel riferisce che i russi starebbero cercando di manipolare Marianna nel tentativo di ribaltare la versione sull'attacco all'ospedale. Nessuna di queste versioni ha finora trovato conferma.

Questa seconda ipotesi in particolare, però, secondo le fonti ucraine, sarebbe avvalorata da un video controverso, rilanciato da alcuni siti legati moscoviti, in cui Marianna racconterebbe una versione diversa, in base alla quale l'ospedale era stato trasformato in una caserma per i soldati ucraini e invitando a non fare confusione con l'ospedale centrale di Mariupol, dove erano stati trasferiti i civili e le donne incinte. Una versione che dalla ragazza viene raccontata senza mai citare le parole "bombe" o "attacco", tanto che molti sospettano possa essere stata dettata dai russi.

Carlo Freccero choc: il bombardamento dell'ospedale pediatrico a Mariupol è finto, solo propaganda.

Il Tempo il 02 aprile 2022.

Dopo essersi occupata a lungo del Covid, la commissione Dubbio e precauzione, guidata da Carlo Freccero, Massimo Cacciari, Giorgio Agamben e Ugo Mattei, ha organizzato un nuovo incontro stavolta dal titolo “Dal coprifuoco pandemico al coprifuoco della ragione”. Con lo stato di emergenza che è volto a termine adesso Freccero, ed direttore di Rai2 e componente del consiglio d’amministrazione dell’azienda televisiva di Viale Mazzini, si concentra sul conflitto tra Ucraina e Russia. “Sappiamo che esiste materiale prodotto a scopo propagandistico, e un buon esempio è il bombardamento dell’ospedale pediatrico a Mariupol con la sua influencer incinta” un estratto delle sue parole alla Commissione Dupre. Freccero fa riferimento alle foto scattate dopo che alcuni razzi sono stati lanciati su un ospedale, che secondo i russi ospitava gli uomini del Battaglione Azov: alcune donne incinte sono state immortalate sulle barelle con le pance scoperte e le magliette fatte a pezzi dalle macerie.

Carlo Freccero, "cos'è successo davvero all'ospedale di Mariupol": una vicenda inquietante. Libero Quotidiano il 02 aprile 2022.

Finito lo stato di emergenza per il Covid, Carlo Freccero e i suoi illustri compagni della commissione “Dubbio e precauzione” hanno dovuto ricalibrarsi. Da no-green pass a filo-russi il passo è breve ed è stato compiuto da molti, non solo dagli esaltati dei social ma anche da intellettuali, o presunti tali.

E ovviamente cosa ci si poteva aspettare dall’ex direttore di Rai2 nonché componente del consiglio di amministrazione dell’azienda televisiva di viale Mazzini? Un commento così becero e falso da chiedersi se Freccero ci è o ci fa: gli auguriamo la prima, perché se fosse la seconda, allora sarebbe davvero dura dormire la notte con la coscienza sporca. Mariupol è stata praticamente rasa al suolo dai bombardamenti russi, ma a lungo si è dibattuto sul raid che ha distrutto un ospedale pediatrico: sotto le macerie sono rimaste bloccate più di 500 persone, ma per fortuna molte sono state tratte in salvo, con il bilancio dei morti rimasto basso.

Siccome non c’è stata la strage che purtroppo lasciava presagire la vicenda nelle ore immediatamente successive ai bombardamenti, Freccero e i suoi simili hanno pensato bene di bollare come “fake news” la distruzione dell’ospedale pediatrico. In particolare l’ex direttore di Rai2 ha dichiarato quanto segue: “Sappiamo che esiste materiale prodotto a scopo propagandistico, e un buon esempio è il bombardamento dell’ospedale pediatrico a Mariupol con la sua influencer incinta”. Influencer, come la chiama Freccero senza alcuna vergogna, che è morta a causa dei bombardamenti, e con lei il bimbo che portava in grembo.

Mariupol, strage continua. Un ospedale in ostaggio. Luigi Guelpa il 16 Marzo 2022 su Il Giornale.

Le immagini di Mariupol sono come un virus di cui faremo fatica a liberarci.

Le immagini di Mariupol sono come un virus di cui faremo fatica a liberarci. All'orrore, dopo 15 giorni di assedio, se ne aggiunge altro e non sembra esserci limite nella discesa agli inferi. Ieri ancora una volta la città portuale ucraina è stata sfregiata. Le truppe russe hanno preso in ostaggio il personale e i pazienti dell'ospedale regionale di terapia intensiva. I soldati considerano la struttura bottino di guerra, ma anche fortino per rispondere al fuoco delle truppe ucraine. Alcune persone che hanno tentato di fuggire sono state ferite. Le case intorno sono in fiamme. I russi hanno costretto oltre 400 persone che erano nelle vicinanze a entrare nel nosocomio per diventare scudi umani dell'ennesimo vile attacco.

A Mariupol le forze ucraine sarebbero riuscite a respingere l'avanzata russa. Lo riferisce lo Stato maggiore di Kiev, rivelando che sono stati uccisi circa 150 militari della 22a brigata speciale e distrutti tre carri armati e diversi mezzi corazzati. L'artiglieria e il fuoco aereo ucraino avrebbe anche colpito una colonna in avvicinamento sulla città. Le truppe del comandante Valery Zaluzhny celebrano le loro vittorie, ma sono 2.357 i civili rimasti uccisi nella città sudorientale. Il consigliere del sindaco, Petro Andriushchenko, definisce la situazione «disumana. Non c'è cibo, acqua, luce e riscaldamento. Se qualcuno non ci tira fuori da questo inferno arriveremo in pochi giorni a 20mila morti». Mariupol conta 540mila residenti, 170mila sono state evacuati, ieri hanno lasciato la città altre 20mila persone. Gli altri sono bloccati negli scantinati e nei rifugi in condizioni disumane. A far paura non sono soltanto le bombe russe, ma l'assenza di viveri e di medicinali. Le poche cose che riescono ad arrivare tramite i fragili corridoi umanitari, stoppati a Berdyansk, diventano motivo di un contenzioso spesso violento tra gli stessi rifugiati.

Si soffre e si combatte anche in altre aree del Paese. I due missili che a Rivne (Nord Ovest) avevano distrutto domenica la torre della tv hanno provocato 20 morti e 9 feriti. A Dnipro, nell'Est, un bombardamento che è andato avanti per tutta la notte ha distrutto l'aeroporto. Sempre a Est 4 persone sono rimaste uccise durante il lancio di missili a Rubezhnoye, nella regione del Lugansk. I russi hanno distrutto un collegio per non vedenti, un ospedale cittadino, tre scuole e altre strutture militari. E siccome anche tra le macerie può nascere un fiore, nelle stesse ore, nel seminterrato, è venuta alla luce Vasiliska. La sua foto sta facendo il giro dei social.

Il portavoce del ministero della Difesa russo Igor Konashenkov ha affermato che Mosca ha preso il pieno controllo di tutto il territorio nella regione meridionale di Kherson. I soldati hanno abbattuto sei droni Bayraktar TB-2 nelle ultime 24 ore. In Polissia non sono riusciti però a sfondare la difesa ucraina verso la città di Makarov. Nella Severshchyna, gli invasori stanno progettando di riprendere l'attacco a Chernihiv, ma a preoccupare è Odessa: 14 navi nemiche, guidate dall'incrociatore Glory Moscow, si sono avvicinate pericolosamente alle coste. Tra loro due navi da sbarco classe Alligator e una potente imbarcazione dotata di equipaggiamento missilistico.

La calma è invece spettrale a Leopoli e in tutta la regione di Volinia, sul confine con la Polonia. Secondo quanto affermato dal capo dei servizi di sicurezza Kiev, Ivan Bakanov, truppe russe e bielorusse si starebbero organizzando per un'avanzata o un attacco missilistico che verrebbe compiuto già nella giornata odierna.

Le Donne. Alina Peregudova, campionessa di 14 anni, uccisa dalle bombe russe a Mariupol. Redazione Internet su Avvenire  il 29 aprile 2022.

Aveva 14 anni Alina Peregudova e, dopo aver vinto diverse medaglie d'oro ai campionati nazionali di sollevamento pesi, era candidata a entrare nella squadra nazionale e rappresentare l'Ucraina ai massimi livelli sportivi.

Ma la sua carriera sportiva si è spezzata insieme alla sua giovane vita. Peregudova è stata uccisa, insieme alla madre, in un bombardamento russo a Mariupol, come ha reso noto il capo del consiglio cittadino.

"È arrivata la 'pace russa' che l'ha liberata da questo futuro" di successi d'atleta, ha scritto il consiglio comunale di Mariupol su Telegram. "La promettente sportiva della regione di Donetsk è morta sotto le bombe dei nemici".

Il ministero della Cultura e dello Sport dell'Ucraina ha dichiarato in una nota che "è difficile trovare le parole per esprimere le mie più sentite condoglianze a tutti coloro che l'hanno conosciuta".

Era sergente maggiore e medico della Guardia nazionale ucraina. Olena Kushnir, le ultime parole della combattente uccisa a Mariupol: “Non compatitemi, faccio il mio dovere”. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 19 Aprile 2022

Era una delle cento combattenti rimaste nell’inferno di Mariupol, la città ‘martire’ dell’Ucraina. Olena Kushnir, sergente maggiore e medico della Guardia nazionale ucraina, è morta nel giorno di Pasqua.

La notizia del suo decesso, diffusa su Telegram, è stata poi confermata su Twitter da Oleksandra Matviichuk, avvocato per i diritti umani. “Olena Kusnir, un medico, è morta a Mariupol. All’inizio di marzo aveva registrato un video in cui chiedeva al mondo di non girare film e scrivere libri su questa lotta eroica in futuro, ma piuttosto di aiutare i civili a sopravvivere oggi. Non ha ricevuto alcun aiuto” si legge sul tweet.

“Non compatitemi, faccio il mio dovere”

La sergente Olena Kushnir aveva scelto di continuare a combattere nella città assediata dalle forze russe, insieme ad altre donne coraggiose, nonostante la situazione fosse diventata sempre più difficile. “Sono un pugno di cento soldatesse rimaste a Mariupol senza acqua, cibo e la garanzia di un’igiene di base e sopravvivenza“, ormai negata a tutti in città, ha sottolineato la la giornalista ucraina Tetyana Danylenko secondo quanto riportato dall’Ansa. Molte di loro sono anche medici e quindi curano i feriti, soldati e civili, operando in condizioni a dir poco disastrose, spesso con figli piccoli al seguito.

Anche Olena ha combattuto e medicato feriti fino alla fine. Aveva messo in salvo suo figlio tramite uno dei pochissimi corridoi umanitari di Mariupol, quando la battaglia era diventata troppo feroce, ma era tornata indietro. Aveva già perso suo marito nei primi giorni dell’invasione russa, eppure diceva a un’amica, qualche giorno prima di morire: “Non compatitemi, sono un medico, una combattente, sono ucraina, faccio il mio dovere”. 

In un video, girato in un rifugio segreto e diffuso dai media locali Olena Kushnir, indossando la divisa militare, chiedeva con insistenza che fosse permessa l’evacuazione di Mariupol, “dando l’opportunità di portare medicine alla popolazione, allontanare i tanti feriti e permettere una degna sepoltura ai morti“. Descriveva la città rasa al suolo e la catastrofe umanitaria di chi non poteva più contare su cibo, acqua, alcuna possibilità di sostentamento. “A Mariupol ci sono ancora persone, sono nelle cantine, sono sotto terra, hanno bisogno di tutto. Se non volete salvare Mariupol, salvate i suoi cittadini vi prego!!! Non vogliamo essere eroi e martiri, non potrete dire che non sapevate perché sapevate e potevate agire“, uno dei suoi accorati appelli al mondo. 

La vita prima della guerra

Scorrere il profilo Facebook del soldato Kushnir significa comprendere come la sua esistenza, così come quella di ogni cittadino ucraino, sia cambiata improvvisamente in pochi istanti. Le foto in posa felice, le istantanee scattate con le amiche, i viaggi e i post spensierati insieme al figlio e al marito, le canzoni condivise da YouTube hanno lasciato il posto, dal 24 febbraio in poi, a immagini di disperazione e distruzione.

“Sono all’inferno ma va bene così'”, scriveva i primi di marzo. L’ultimo post del sergente maggiore Olena Kushnir è datato 10 aprile. “La mia città è morta. Sempre e per sempre”. A Mariupol, distrutta dai soldati russi, ha purtroppo trovato la morte anche lei. Mariangela Celiberti

Da blitzquotidiano.it il 5 aprile 2022.

In Ucraina alcune soldatesse rapite dai russi sono state rasate a zero come gesto di umiliazione. 

Tra gli 86 prigionieri ucraini rilasciati dai russi il primo aprile nell’ambito di uno scambio ci sono 15 soldatesse che sono state rasate a zero «in segno di umiliazione, arroganza, disprezzo»: lo denuncia su Facebook il presidente della Commissione diritti umani del parlamento ucraino Dmytro Lubinets postando una foto delle soldatesse. 

«Atrocità di questo tipo furono commesse dai fascisti nei campi di concentramento», scrive Lubinets sottolineando di essere sicuro che «scopriremo ancora di più sui crimini contro militari e civili ucraini. Tutto questo diventerà la base per il Tribunale dell’Aia». 

«In che modo le azioni degli occupanti russi sono diverse dai fascisti? In niente! Sono anche peggio», scrive ancora Lubinets. 

Dalle ore 4 del 24 febbraio 2022, quando cioè è iniziato l’attacco armato della Federazione Russa contro l’Ucraina, alla mezzanotte del 2 aprile 2022 (ora locale), l’Ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) ha registrato 1.417 morti e 2.038 feriti. 

Tra i morti si contano 293 uomini, 201 donne, 22 ragazze e 40 ragazzi, oltre a 59 bambini e 802 adulti il cui sesso è ancora sconosciuto. Tra i feriti si contano anche 92 bambini.  

La Russia starebbe mobilitando altri 60.000 soldati. Lo afferma l’esercito ucraino, stando a quanto scrive il Guardian. 

Le forze di Kiev hanno pubblicato il loro rapporto operativo alle 6 di stamattina, affermando che Mosca ha lanciato una “mobilitazione nascosta” di circa 60.000 soldati per ricostituire le unità perse in Ucraina.

«Le forze armate della Federazione Russa prevedono dunque di coinvolgere circa 60.000 persone durante la mobilitazione», ha affermato lo stato maggiore dell’esercito ucraino. 

I funzionari hanno aggiunto che le forze di Kiev hanno sventato sette attacchi nel territorio di Donetsk e Luhansk nelle ultime 24 ore. 

L’Onu rivela: “Denunce di stupri commessi da soldati ucraini”. Le Nazioni Unite indagano sui crimini di guerra commessi in Ucraina. Accuse a Mosca e Kiev. Redazione su Nicolaporro.it il 6 Aprile 2022.

C’è una notizia, passata in sordina o quasi del nulla riportata dai media, che ieri ha plasticamente disegnato l’orrore della guerra in tutta la sua crudeltà. Rosemary DiCarlo, sottosegretario generale delle Nazioni Unite, parlando al Consiglio di Sicurezza nello stesso giorno in cui Zelensky chiedeva un “tribunale di Norimberga” per i russi, ha spiegato che la missione di monitoraggio dell’Onu in Ucraina sta verificando anche altre accuse, oltre a quelle ascritte ai militari russi a Bucha: “Ci sono denunce di violenza sessuale da parte delle forze ucraine – ha detto – e da parte delle milizie della protezione civile di Kiev”.

Le accuse ai soldati di Zelensky

Esatto: soldati ucraini che commettono abusi sessuali. Possibile? Credibile? Sì, allo stesso modo in cui sono credibili le accuse rivolte ai militari di Putin che ritirandosi fanno una strage o compiono “stupri di gruppo di fronte a bambini“, sevizie e altri orrori. Il motivo è semplice: la guerra è guerra. E dall’alba dei secoli tira fuori il peggio dell’uomo, sia che si tratti di un aggredito che di un aggressore. Sono pochi gli eserciti al mondo che possono vantare di non aver mai avuto tra le loro fila uomini in armi che si sono macchiati di simili crimini.

La situazione sul campo

Non è ovviamente una gara a chi ha la coscienza meno sporca. A tutti è evidente chi ha iniziato la guerra e chi l’ha subita. Ci penserà l’Onu, o una qualche corte internazionale, a stabilire cosa è successo in questo abbondante mese di scontri. Sempre che il conflitto si chiuda nel breve periodo. Epilogo non scontato, visto come stanno andando le manovre sul campo. La Russia si è ritirata dalla regione di Kiev, ha lasciato Irpin e arretra sul fronte Nord. Batte in ritirata? Non è detto: la storia insegna che le offensive si possono sempre riprendere, magari riorganizzando la logistica. È a Sud ed Est che però si concentrano adesso gli sforzi militari di Putin: lo Zar vuole la caduta di Mariupol, si stanno intensificando i bombardamenti su Odessa, gli scontri nella regione del Donbass sono sempre più aspri.

Lo stallo dei negoziati

Sul fronte diplomatico, invece, dopo giorni di trattative, adesso i negoziati sembrano in stallo. Le parti avrebbero raggiunto un accordo sulla neutralità dell’Ucraina, sulla sua demilitarizzazione e l’assenza di basi straniere nel Paese: più o meno lo stesso accordo proposto da Scholz a Zelensky cinque giorni prima dell’invasione, proposta che il presidente ucraino ha respinto. Ritrovandosi ugualmente a rinunciare al sogno Nato dopo oltre 1.500 civili uccisi.

“Crimini di guerra”

La partita adesso si gioca a livello internazionale. Il conflitto pare ormai diventato uno scontro tra l’Alleanza Atlantica e Putin, combattuto per interposto ucraino. Biden insiste nell’inviare aiuti umanitari e nell’innalzare il livello dello scontro, con la ricerca di un difficile (e rischioso) regime change in Russia. L’Europa è divisa, ma in maggioranza si adegua ormai alla linea americana anche grazie alle immagini arrivate da Bucha. Non è un caso se ieri Zelensky, intervenendo all’Onu, ha calcato la mano sul fatto che “i russi vogliono ridurci in schiavitù”, ha evocato una “nuova Norimberga” per i crimini di guerra, ha chiesto di rimuovere la Russia dal Consiglio di Sicurezza e di toglierle il diritto di veto.

Gli alleati occidentali concordano. Antony Blinken è convinto che quanto accaduto a Bucha “non sia un atto isolato ma parte di una campagna deliberata per uccidere, torturare e stuprare civili”. Mezza Europa, Italia compresa, espelle i diplomatici russi, allontanando la possibilità di un accordo. L’Ue è pronta a varare un nuovo pacchetto di sanzioni, che dopo il petrolio potrebbero includere di nuovo il settore energetico (gas escluso). E la pace sembra sempre più lontana.

Intanto, sul campo, restano le atrocità. Da entrambi i lati dello schieramento. Rosemary DiCarlo ha riferito di “accuse credibili” sull’uso della Russia di “munizioni a grappolo in aree popolate”, bombe vietate dalle convenzioni internazionali se fatte cadere in aree civili. Tuttavia l’Onu ha precisato che “anche le forze ucraine hanno usato tali armi” e “sono oggetto di indagine”.

L’orrore sul corpo delle donne ucraine. Mauro Indelicato su Inside Over il 5 aprile 2022.

Quando, nel mezzo di un conflitto, si cerca di far evacuare la popolazione civile, la priorità viene sempre lasciata a donne e bambini. Sono loro i soggetti più vulnerabili in una guerra. E di certo in Ucraina non c’è alcuna eccezione a questa regola. Da una parte e dall’altra, con il passare dei giorni stanno venendo fuori diverse storie che parlano di stupri, sevizie oppure di precisa volontà di umiliazione delle donne. Più il conflitto aumenta di intensità e più sono soprattutto le donne a dover avere paura di uscire per strada.

I racconti dall’Ucraina

Anche in Italia ne sappiamo qualcosa degli stupri di guerra. Nel film La Ciociara del 1960 si raccontano le sofferenze e le umiliazioni che molte donne hanno dovuto subire nell’Italia centrale nel 1944, a causa della violenza di una parte della legione straniera francese entrata nel nostro Paese. In ogni guerra, quando il peso del conflitto è tale da far perdere ogni brandello di umanità, le parti in lotta si accaniscono sui civili usando lo stupro come arma. Marta Serafini sul Corriere della Sera ha provato a raccogliere qualche testimonianza, ma “per il momento sono ancora poche”, ha scritto nel suo articolo. Ma da quanto emerso, si capisce che crimini e abusi sulle donne sono stati perpetuati da una parte e dall’altra. A Kharkiv ad esempio una donna, intervistata dai volontari di Human Rights Watch, ha raccontata di essere stata violentata da un soldato russo in una scuola vicino la seconda città ucraina. Lì si era rifugiata assieme alla sua famiglia, ma nulla ha potuto di fronte alla violenza cieca del militare. Pochi giorni fa invece il fotografo Mikhail Palinchak ha scattato le immagini che immortalano i corpi di un uomo e di tre donne nude riversi sulla carreggiata di un’autostrada verso Kiev.

Denunce in tal senso arrivano anche dal fronte russo. Ha fatto il giro del mondo la foto scattata dall’italiano Maurizio Vezzosi in un edificio di Mariupol adesso in mano russa ma in precedenza usato dal Battaglione Azov come propria base. Nelle immagini si vede il cadavere di una donna seminuda, con una svastica marcata all’altezza del proprio ventre. Segno inequivocabile di tortura, di pesanti sevizie, di un orrore che testimonia la perdita di ogni briciolo di umanità e dignità da parte di chi l’ha commesso. “L’edificio in questione – ha dichiarato su Non è L’Arena il fotografo italiano – è la scuola n.25 di Mariupol, nella parte di città in mano ai russi”. I soldati di Mosca hanno accusato membri del Battaglione Azov del crimine. In Ucraina i problemi per le donne sono anche dove al momento non si combatte. A Odessa, è la testimonianza di una poliziotta intervistata da Marta Serafini, non si mandano più in giro ragazze da sole. Il coprifuoco e lo spettro di una battaglia starebbe infatti innervosendo gli animi: “Il coprifuoco – si legge ancora nella testimonianza – ha peggiorato le cose. Uomini della guardia civile girano armati e con il volto coperto dal passamontagna”. E le autorità locali, per prevenire abusi e incidenti, hanno anche proibito da qualche giorno il consumo di alcool.

Gli orrori sulle donne umiliate

C’è poi la violenza psicologica, non meno devastante per chi ne è vittima. Una violenza subita anche con una semplice telefonata. A marzo, in alcuni canali Telegram ucraini, sono stati diffusi video in cui si notano soldati ucraini usare il cellulare di un militare russo ucciso per chiamare la madre e la fidanzata. Quando le donne hanno risposto, i soldati in modo beffardo hanno schernito le donne, ridendo mentre annunciavano la morte del loro congiunto. Una crudeltà condannata anche da tanti utenti ucraini.

Anche dall’altro lato non sono mancati episodi di umiliazione. Come nel caso delle 15 soldatesse ucraine liberate nell’ambito di uno scambio di prigioniere, trovate con la testa rasata. Le loro immagini hanno fatto il giro dei media internazionali. A diffonderle è stato il parlamentare ucraino Dmytro Lubinets: “Hanno fatto tutto questo in segno di arroganza – ha scritto sui social – umiliazione e disprezzo”.

Stupri, violenze e rapimenti: in Ucraina le donne trattate come trofei di guerra. Marta Serafini su  Il Corriere della Sera il 4 Aprile 2022.

«Sono scappata qui a Odessa dal Donetsk dopo il 2014. Io lo so cosa significa. E io, a quelle donne che arrivano da Kherson, non glielo chiedo cosa è successo, è troppo presto ancora». Si spezza la voce di Olga, volontaria del centro aiuti per sfollati della città, che chiede di non pubblicare il suo nome per esteso. Tre minuti di silenzio. Poi, il respiro si calma. «Qui stiamo formando gli psicologi che dovranno supportarle, so bene di cosa hanno bisogno. E ora vanno lasciate in pace». Dal centro di accoglienza, una stanza con un paio di materassi in uno scantinato umido, passano decine di donne ogni giorno. « Dormono qua una notte al massimo, poi troviamo loro una sistemazione migliore. Hanno bisogno di silenzio. Solo dopo verrà il momento di parlare. Ma, adesso no. È troppo presto», dice.

I corpi bruciati

Quando domenica il fotografo Mikhail Palinchak su un’autostrada a 20 chilometri dalla capitale, Kiev, ha immortalato il corpo di un uomo e tre donne nude, tutti parzialmente bruciati, l’orrore degli stupri di guerra è tornato di nuovo all’orizzonte. Quello in Ucraina, purtroppo, non è certo il primo conflitto in cui le donne sono vittime di stupro. Balcani, Iraq, Siria, Afghanistan, Sudan. Gli abusi, oltre ad essere statisticamente più frequenti che in tempo di pace, in guerra diventano un’arma. E l’Ucraina non fa eccezione. Anche se le testimonianze ancora sono poche.

«Sono in tanti a raccontare di donne portate via, ma con i miei occhi questo non l’ho visto. Io sono riuscito a mettere in salvo mia moglie e una figlia, mentre i miei genitori sono rimasti a Kherson con l’altra perché non c’era modo di far uscire anche loro. Non potete immaginare quanto stia soffrendo per questo: non poter fare nulla per loro senza avere nemmeno notizie», racconta Roslan fuggito a Kherson da Odessa.

Human Rights Watch ha intervistato dieci persone, inclusi testimoni, vittime e residenti locali dei territori occupati dalla Russia, di persona o per telefono. Alcuni di loro hanno chiesto di essere identificati solo con il loro nome o con pseudonimi. Il 4 marzo, le forze russe a Bucha, a circa 30 chilometri a nordovest di Kiev, hanno radunato cinque uomini e giustiziato sommariamente uno di loro. Un testimone racconta che li hanno costretti a inginocchiarsi sul ciglio della strada, hanno tirato loro le magliette sopra la testa e hanno sparato a uno di loro alla nuca. «È caduto», ha detto il testimone, «e le donne hanno urlato».

La violenza sessuale

Una donna identificata con il nome di fantasia Olha racconta sempre a Human Rights Watch che un soldato russo l’ha violentata ripetutamente in una scuola nella regione di Kharkiv dove lei e la sua famiglia si erano rifugiati il 13 marzo. Spiega che il militare l’ha stuprata, picchiata e le ha tagliato la faccia, il collo e i capelli con un coltello. Il giorno successivo la donna è fuggita a Kharkiv, dove ha potuto ricevere cure mediche e assistenza. Human Rights Watch ha esaminato due fotografie, che la donna ha condiviso, che mostrano le sue ferite facciali.

Guerra in Ucraina: le ultime notizie e gli approfondimenti

Lo stupro e l’aggressione sessuale sono considerati crimini di guerra e una violazione del diritto umanitario internazionale, e sia il procuratore generale dell’Ucraina che la Corte penale internazionale hanno annunciato indagini. Ma questo serve poco a calmare la paura delle donne ucraine. A 15 soldate liberate in uno scambio di prigionieri tra Kiev e Mosca il 1 aprile è stata rasata la testa. Come alle donne tedesche dopo la fine della Seconda Guerra mondiale. Come alle donne ebree dei campi di concentramento. A darne notizia il presidente della Commissione diritti umani del parlamento ucraino, Dmytro Lubinets, che ha diffuso alcune immagini su Facebook. «Lo hanno fatto in segno di umiliazione, arroganza e disprezzo». Dati e prove che il deputato ha intenzione di aggiungere a quelli finora raccolti per presentare il caso all’Aia.

Ma non sono solo i soldati russi da cui le donne ucraine si devono proteggere. «Qui a Odessa la tensione con il coprifuoco è aumentata», spiega Natalia, poliziotta della città. Uomini della guardia civile girano armati e con il volto coperto dal passamontagna. E da qualche giorno il bando sull’alcol è stato abolito. «Le denunce di violenze domestiche sono diminuite. Ma io a mia figlia di 14 anni, in questi giorni, ho proibito di uscire da sola».

Ucraine prese come "schiave dai soldati russi", l'ultimo orrore di Bucha. Zelensky sul luogo del massacro. Il Tempo il 04 aprile 2022.

Nuove terrificanti accuse arrivano da Bucha, centro situato a una trentina di chilometri dalla capitale Kiev da cui le forze armate russe si sono ritirate nei giorni scorsi e in cui sono stati scoperti cumuli di cadaveri e fosse comuni. "In questo mese di occupazione i russi hanno preso alcune donne, sui trent'anni, e le hanno portate nel loro quartier generale qui a Bucha, facendole schiave. A loro serviva che cucinassero e facessero tutto ciò che veniva loro ordinato", ha detto una testimone, Alina, all'inviato dell'Ansa, come riporta il sito dell'agenzia. Un'altra donna, che si chiama Tamara, ha spiegato invece che "l'orrore nel nostro villaggio è cominciato il pomeriggio del 4 marzo, quando una ventina di tank russi hanno attraversato questa strada incolonnati e hanno cominciato a sparare con i kalashnikov all'impazzata sulle nostre case e sulle macchine che incrociavano, schiacciandole. Non evacuavano, sparavano. E con alcuni tank hanno sfondato le case".

Il prete della chiesa ortodossa del villaggio ha parlato di 68 corpi senza vita portati nel luogo di culto: "Donne, uomini, bambini, molti non identificabili per i colpi inferti ai loro corpi martoriati".

Mentre Mosca respinge le accuse di crimini di guerra parlando di messinscena,  il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky si è recato oggi in visita a  Bucha. Stando alle denunce del governo ucraino, centinaia di persone sono state uccise dall’esercito di Mosca nei giorni di occupazione della zona. Video che mostrano cadaveri ai margini delle strade sono stati rilanciati dai media locali e poi da quelli internazionali. Stando a quanto riferito dal quotidiano Ukrainska Pravda il capo dello Stato, scortato dai militari, ha ispezionato i mezzi militari russi distrutti e ha parlato con alcuni residenti. Zelensky ha detto che le forze di Mosca hanno commesso crimini di guerra e di genocidio. Sollecitato sui negoziati col governo del presidente russo Vladimir Putin, Zelensky ha affermato che l’Ucraina continuerà a parteciparvi "perché deve ottenere la pace", e ha inoltre sottolineato che Kiev "continuerà i suoi sforzi diplomatici e militari".

"Ucraina, stupro come arma da guerra". Ma nella clamorosa fake il Messaggero non nota un piccolissimo particolare...Francesco Santoianni su L'Antidiplomatico. 

Insomma, nulla di diverso dai “soldati tedeschi che mozzano le mani ai bambini in Belgio”, fake news con la quale i giornali padronali riuscirono a trascinare l’Italia nella Prima guerra Mondiale. Ma davanti a questo articolo de Il Messaggero sorge impellente una domanda: perché mai la bara della “donna stuprata e uccisa” è stata ricoperta con la bandiera della Russia? 

Con questa guerra viene uccisa la verità (e l’ipotesi di pace). Il Fatto Quotidiano il 30 marzo 2022.

Mosca, 22 febbraio 2017, in una stanza del ministero della Difesa prende la parola il generale Yuri Balyevsky, ex capo di Stato maggiore. “Dobbiamo smettere di giustificarci”, afferma, ripreso dall’agenzia di Stato Novosti. È in atto “una lotta per il controllo della mente e della coscienza di massa. La vittoria nella lotta dell’informazione, nel mondo attuale, acquisisce più significato di una vittoria militare”. Il ministro della Difesa, Sergey Shoigu, è sulla stessa lunghezza d’onda: “La propaganda deve essere intelligente, competente ed efficace”. Segue una riunione in cui si discutono i metodi da seguire: post sui social in diverse lingue, siti Internet, articoli su Sputnik, servizi su Russia Today e molto altro.

In questi giorni di guerra vera ho ripensato spesso a quell’incontro moscovita. E mi sono chiesto se sapere da anni come Vladimir Putin si sia scientificamente mosso per inquinare i pozzi dell’informazione, spingendo un numero sempre maggiore di cittadini a considerare il suo modello sociale un’alternativa credibile al nostro, non ci fa sbagliare qualcosa nel modo in cui noi, come giornalisti, seguiamo l’aggressione russa all’Ucraina.

Sul campo i media occidentali hanno schierato centinaia di coraggiosi inviati. Nella maggioranza dei casi si tratta di colleghi che guardano bombardamenti, massacri, battaglie dalle retrovie del fronte ucraino. I loro articoli e reportage ci restituiscono fedelmente quello che accade. Ma, giocoforza, ci fanno vedere solo un pezzo della guerra. Quello che succede oltre le linee, e tra le linee, ci è invece quasi ignoto. Dall’altra parte del fronte ci sono invece i soldati russi e giornalisti di Russia Today. Ma quella tv, proprio perché fa parte della dichiarata macchina putiniana della propaganda, non arriva più nelle nostre case.

L’Unione europea, con una decisione discutibile in democrazia, l’ha bandita dai bouquet satellitari. E così chi segue per lavoro la guerra vede fotografie e video pubblicati dai canali Telegram russi, ucraini, ceceni. Alcuni contengono presunte sconvolgenti atrocità commesse da chi si difende: una donna stuprata con una svastica scritta col sangue sul corpo; un soldato ucraino che chiama col telefonino (appena trovato in una tasca di un russo) la fidanzata del morto e gli spiega ridendo come lo ha scannato; dieci prigionieri delle forze di Mosca gambizzati dopo la cattura con colpi sparati al ginocchio, in modo che restino zoppi per sempre; un combattente vivo a terra a cui viene ficcato nell’occhio un pugnale.

Stabilire se siano veri o falsi è difficile. Spesso impossibile. E così, salvo nel caso in cui sugli accadimenti sia stata aperta un’indagine (i prigionieri gambizzati), di questi presunti orrori i media ufficiali occidentali non mostrano nulla. Il pericolo che i video e le foto facciano parte “della guerra per il controllo delle menti” è troppo alto.

Ma, se siamo onesti, dobbiamo ammettere, come ci ha magistralmente raccontato Domenico Quirico su La Stampa, che al di là del dibattito sul singolo video, la guerra, anzi le guerre, sono questo. Atrocità indicibili da entrambe le parti. Che si moltiplicano se, come accade in Ucraina, sul campo di battaglia ci sono mercenari, milizie, squadroni nazisti e combattenti stranieri. Così, in fondo, il dubbio che quelle immagini siano fake e che quindi non vadano giustamente pubblicate, fa comodo a molti. Perché non poter raccontare a generazioni di cittadini che non l’hanno mai vissuta, cosa sia davvero una guerra, rende più facile per chi decide continuare a ripetere: armiamoci e partite.

La denuncia su Twitter del Ministero della difesa ucraino. Soldati russi la violentano per giorni davanti al figlioletto, donna muore a causa delle ferite: “Questo è Putin…” Roberta Davi su Il Riformista il 30 Marzo 2022. 

“Un orrore di guerra compiuto dai russi” lo definisce il governo di Kiev. L’ennesimo stupro ai danni di una donna ucraina, violentata per giorni davanti agli occhi del figlio di appena sei anni.

Una vicenda accaduta nella città di Mariupol, devastata dal conflitto, e denunciata dal Ministero della Difesa tramite Twitter.

“La donna è morta”

 “A Mariupol gli occupanti hanno violentato una donna per diversi giorni di fronte al figlio di sei anni” ha reso noto il Ministero della difesa ucraino. La donna stuprata “è morta in seguito alla ferite”, mentre al piccolo sono diventati i capelli grigi a causa dello shock. “Questo non è un film dell’orrore. Stupro, violenza, omicidio: questo è ciò che significa ‘il mondo russo’” aggiunge il ministero sul profilo Twitter.

Nei giorni scorsi anche il Times ha raccontato l’incubo di una donna violentata dai soldati russi mentre il figlio piangeva terrorizzato in un’altra stanza. Il marito era stato giustiziato poco prima perché definito ‘nazista’.

La testimonianza di Natalya

La storia di Natalya, riportata dal quotidiano britannico, ha fatto il giro del mondo. Una vicenda accaduta a Shevchenkove, fuori Kiev, lo scorso 9 marzo. La donna ha raccontato che alcuni  soldati russi hanno ucciso prima il cane di famiglia, poi hanno sparato al marito. Una volta in casa, l’hanno violentata a turno, mentre il figlio di soli 4 anni si trovava nella stanza accanto.

“Mi hanno detto di togliermi i vestiti. Mi hanno violentata uno dopo l’altro. Non gli importava che mio figlio fosse nel locale caldaia a piangere. Mi hanno detto di farlo tacere e di tornare. Tutto il tempo mi hanno tenuto la pistola puntata alla testa.” I militari russi la deridevano, la minacciavano di morte. “Faresti meglio a tacere o prenderò tuo figlio e gli mostrerò il cervello di sua madre sparso per casa” le ha intimato uno di loro, aggiungendo: “​​La uccidiamo o la teniamo in vita?”

Dopo le violenze, Natalya è riuscita a fuggire con il figlio, lasciando la casa che il marito aveva costruito per la sua famiglia. “Non possiamo seppellirlo, non possiamo raggiungere il villaggio, perché è ancora occupato” ha poi dichiarato la donna al Times.

Soldati belve, l’orrore di Natalya: “Mio marito giustiziato, io violentata con la pistola puntata alla testa”

La denuncia degli stupri in Ucraina

Già nei primi giorni di conflitto il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba aveva denunciato i diversi casi di stupro che si stavano verificando in Ucraina. “Purtroppo abbiamo numerosi casi di donne stuprate dai soldati russi nelle città ucraine” aveva dichiarato il ministro in videoconferenza durante un briefing a Londra. “Quando le bombe piovono sulle vostre città, i soldati violentano le donne, e purtroppo vi sono numerosi casi di soldati russi, è evidentemente difficile parlare dell’efficacia del diritto internazionale”.

Violenze di cui ha parlato anche la deputata ucraina Lesia Vasylenko. “Abbiamo notizie di donne che sono state stuprate in gruppo. Queste donne di solito sono quelle che non riescono a scappare. Alcune sono persone anziane” ha sottolineato al Guardian. “Molte di queste donne sono state giustiziate dopo lo stupro oppure si sono suicidate”. Roberta Davi

La testimonianza. Soldati belve, l’orrore di Natalya: “Mio marito giustiziato, io violentata con la pistola puntata alla testa”. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 29 Marzo 2022. 

Hanno prima ucciso suo marito. Poi l’hanno violentata, più volte, mentre suo figlio di appena 4 anni piangeva terrorizzato in un’altra stanza.

Natalya (nome di fantasia) ha raccontato, in un’intervista al Times, l’orrore vissuto quando alcuni soldati russi hanno fatto irruzione nella sua casa a Shevchenkove, fuori Kiev, lo scorso 9 marzo. Il suo caso è il primo su cui è stata aperta un’indagine ufficiale da parte delle autorità ucraine.

La testimonianza

Secondo la testimonianza della 33enne al quotidiano britannico, i soldati russi hanno prima ucciso il cane di famiglia, poi si sono allontanati in cerca di benzina. Una volta calato il buio, lei e il marito hanno sentito un rumore all’esterno della casa, così  l’uomo è uscito per andare a controllare cosa fosse successo. “Ho sentito uno sparo, il rumore del cancello che si apriva e poi il rumore dei passi in casa” ha raccontato. Si è trovata di fronte alcuni soldati russi. “Ho gridato: ‘Dov’è mio marito?’ Poi ho guardato fuori e l’ho visto a terra vicino al cancello. Il più giovane mi ha puntato la pistola alla testa e ha detto: ‘Ho sparato a tuo marito perché è un nazista’”. 

Natalya ha così detto al figlio di nascondersi in un’altra stanza e, mentre lui piangeva terrorizzato, lei è stata stuprata ripetutamente. “Mi hanno detto di togliermi i vestiti. Mi hanno violentata uno dopo l’altro. Non gli importava che mio figlio fosse nel locale caldaia a piangere. Mi hanno detto di farlo tacere e di tornare. Tutto il tempo mi hanno tenuto la pistola puntata alla testa.” Un vero e proprio incubo, con i soldati russi che la minacciavano di morte. “Faresti meglio a tacere o prenderò tuo figlio e gli mostrerò il cervello di sua madre sparso per casa‘” gli avrebbe detto uno dei militari, aggiungendo: “​​La uccidiamo o la teniamo in vita?”

Dopo lo stupro Natalya è riuscita a scappare insieme a suo figlio, lasciando la casa che il marito aveva costruito per la sua famiglia. Il piccolo non sa ancora che il padre non c’è più. “Non possiamo seppellirlo, non possiamo raggiungere il villaggio, perché è ancora occupato” ha detto la donna al Times.

La denuncia degli stupri in Ucraina

Già nei primi giorni di conflitto il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba aveva denunciato i diversi casi di stupro che si stavano verificando in Ucraina. “Purtroppo abbiamo numerosi casi di donne stuprate dai soldati russi nelle città ucraine” aveva dichiarato il ministro in videoconferenza durante un briefing a Londra. “Quando le bombe piovono sulle vostre città, i soldati violentano le donne, e purtroppo vi sono numerosi casi di soldati russi, è evidentemente difficile parlare dell’efficacia del diritto internazionale”.

Violenze di cui ha parlato anche la deputata ucraina Lesia Vasylenko. “Abbiamo notizie di donne che sono state stuprate in gruppo. Queste donne di solito sono quelle che non riescono a scappare. Alcune sono persone anziane” ha sottolineato al Guardian. “Molte di queste donne sono state giustiziate dopo lo stupro oppure si sono suicidate”. Mariangela Celiberti

Ucraina, "scomparso un numero enorme di ragazze single": ingannate da finti volontari, dramma nel dramma. Libero Quotidiano l'11 marzo 2022.

Come se la guerra non fosse abbastanza, in Ucraina adesso si sta diffondendo anche un altro tipo di allarme. Alcune ragazze sarebbero scomparse dopo essere state avvicinate da alcuni finti volontari. Un'eccezione che, se confermata, macchierebbe in parte la campagna di solidarietà scattata subito dopo l'invasione da ogni parte del mondo. Ovunque, anche in Italia, moltissime persone si sono mobilitate per dare un aiuto concreto alle persone coinvolte nel conflitto. Sui social sono nati diversi gruppi proprio per raccogliere gli aiuti. Da qualche ora, però, su questi gruppi circola un appello choc.

"Durante i giorni della guerra in Europa è scomparso un numero enorme di ragazze single ucraine - si legge nell'appello -. Alla stazione le persone si avvicinano alle ragazze, si definiscono volontari, chiedono loro di mostrare i passaporti e li ritirano, dopodiché le ragazze scompaiono". Il messaggio, poi, va avanti con una serie di consigli proprio per le giovani ucraine.

"Chiedo gentilmente, se vuoi salvarti la vita, ascolta ciò che ti chiedo di fare - continua l'appello - 1. Non dare il passaporto in mano a nessuno, puoi mostrarlo, consegnare in nessun caso. Se cercano di prenderti il ​​passaporto con la forza, grida, chiama aiuto. 2. Cercate di restare uniti agli altri rifugiati fino all'arrivo stesso al punto di assistenza. Non viaggiate da sole in Europa e non scendete inutilmente dal treno o dall'autobus fino all'arrivo a destinazione. 3. Fidati solo di volontari fidati, e non di tutti coloro che si definiscono tali. Se non sai dove andare e cosa fare dopo, contatta solo agenti di polizia o altri funzionari e non passanti casuali". Non si sa ancora con certezza quanto ci sia di vero in questo appello choc. Ma se tali parole venissero confermate, si tratterebbe di un altro dramma all'interno della tragedia della guerra. 

Michela Marzano per “La Stampa” il 19 marzo 2022.

Ci sono momenti in cui il destino sembra accanirsi. E non serve a nulla essersi lasciati alle spalle le bombe, le macerie, gli incendi, le lacrime, il sangue, gli affetti. La morte arriva lo stesso. Il corpo cede, e ci butta in faccia la nostra fragilità. Il cuore smette di battere, e sembra quasi una beffa della sorte. Qual è stata l'ultima cosa che ha attraversato la mente di Natalia Kretova, la donna ucraina di 45 anni che, fuggita dal proprio Paese insieme ai due figli piccoli e arrivata ieri mattina a Roma, si è accasciata al suolo non appena scesa dall'autobus?

Cos' hanno visto i suoi occhi prima di chiudersi? Quale voce le è risuonata nelle orecchie? Da ormai tre settimane, sono tantissime le donne che stanno abbandonando l'Ucraina. Partono all'estero e lasciano tutto. Provano a reagire chiudendo a chiave la paura della guerra e il dolore. Inghiottiscono le lacrime, obbligandosi a immaginare un futuro diverso. Se non per sé stesse, almeno per i propri figli. È per loro che lo fanno. È per loro che devono farlo.

Anche se è terribile racchiudere tutta una vita all'interno di una valigia, dimenticare in fretta e furia la propria lingua e impararne un'altra, approdare senza nulla in un Paese straniero e non aver la minima idea di ciò che le attende. Sono tantissime, ormai, a essere partite. Anche quando magari avrebbero voluto restare accanto ai propri genitori anziani o ai propri mariti che combattono. Anche quando la semplice idea di ritrovarsi in un Paese sconosciuto le terrorizza.

«Ma se non sono io che penso ai miei bambini, chi mai potrebbe farlo?», si sarà detta senz' altro qualcuna di loro per darsi forza. «Non è questo che avrebbe fatto mia madre se si fosse trovata al posto mio?, avrà pensato qualcun'altra, incerta fino alla fine se restare o andarsene via. Subito prima di inginocchiarsi a terra e baciare la propria terra e salire su un autobus o una macchina. Ci sono momento, però, in cui il destino si accanisce.

Come con Natalia Kretova, appunto. Questa madre di 45 anni che non ce l'ha fatta. E che arrivata a Roma, dopo oltre trenta ore di viaggio, si è accasciata al suolo. Il suo cuore non ha retto. Era scappata dall'Ucraina insieme ai suoi due figli, uno di 12 e uno di 10 anni. Si era separata dal marito e si era trascinata fino alla frontiera con la Polonia. Poi era riuscita a salire su un autobus. «Ce l'abbiamo fatta», avrà detto ai bambini scendendo dal pulmino.

«Non vi preoccupate, ora si aggiusta tutto!», avrà ripetuto stringendo loro la mano. Come fanno sempre le mamme con i propri figli, quel «si aggiusta tutto» che consola e salva anche quando non ci si crede fino in fondo, anche quando non si ha nemmeno più la forza di restare in piedi, schiarirsi le idee e trovare altre parole per inventare il futuro. Pare che si sia trattato di un infarto. Pare che la donna soffrisse di pressione alta. Pare che avesse nei bagagli alcune pillole contro l'ipertensione.

Ma il punto non è questo. Il punto non è tanto (o solo) chiarire la causa esatta del decesso, cosa che chiarirà senz' altro l'autopsia. Il punto è l'accumulo: il "troppo dolore", la "troppa nostalgia", la "troppa fatica", il "troppo stress", la "troppa incertezza". Tutto ciò che dipende dalla guerra, e che il cuore non regge. Perché siamo fragili, nonostante tutti gli sforzi che possiamo fare; siamo vulnerabili, nonostante il tentativo di nasconderlo; siamo pieni di paure e di incertezze, nonostante quando si è madri ci si senta forti e ci si immagini invulnerabili.

Questa guerra ci sta costringendo a ripensare l'intero quadro concettuale all'interno del quale ci muoviamo. E dopo la pandemia, che già ci aveva fiaccato, sembra davvero che tutto ciò in cui credevamo si stia sbriciolando. Non bastano gli sforzi. Non basta la buona volontà. Non bastano nemmeno i sacrifici.

Quando si è di fronte alla violenza assassina e feroce di una guerra, forse solo la pietà e la compassione possono aiutarci. E poi l'amore, quello di cui si ha sempre tanto bisogno, soprattutto quando si è piccoli, orfani, stranieri. E di fronte alla perdita di una madre che ha fatto di tutto per proteggerci, nemmeno nella propria madre lingua si riescano a trovare le parole giuste per nominare il vuoto, lo sconforto, la solitudine e l'angoscia.

Aveva trovato rifugio nel teatro bombardato. Oksana Shvets, l’attrice ucraina uccisa dalle bombe russe: “È morta nella sua casa, non c’è perdono per il nemico”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 18 Marzo 2022. 

L’attrice ucraina Oksana Shvets, 67 anni, è morta in seguito ai bombardamenti russi al teatro di Kiev. Lì si era riparata e quel palcoscenico che tanto aveva amato è diventato anche la sua tomba. Nota per il suo lavoro sul grande schermo e nel teatro, è rimasta uccisa in un attacco missilistico russo a Kiev. Lo rende noto il teatro locale, riferiscono i media internazionali.

“Durante il bombardamento di un edificio residenziale a Kiev, una premiata artista ucraina, Oksana Shvets è stata uccisa”, si legge su Facebook in una dichiarazione dello Young Theatre. “Brillante ricordo per l’attrice di talento! Non c’è perdono per il nemico che è arrivato nella nostra terra!”, prosegue il comunicato del teatro.

Veterana del palcoscenico e dello schermo da decenni, all’attrice era stato conferito uno dei più alti riconoscimenti artistici nel suo Paese per il suo costante impegno a teatro. Molti fan stanno già piangendo l’attrice sui social. “Prego per lei e la sua famiglia”, ha scritto un utente su Twitter. Prima di entrare a far parte dello Young Theatre, la Shvets aveva lavorato anche alla Ternopil Music e al Kiev Satira Theatre. Era nota per i suoi ruoli ne “I segreti di San Patrizio”, “La casa del giglio” e “Il ritorno di Mukhtar”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Da ilmessaggero.it il 17 marzo 2022.

Eroina lo era già. Perché l'Ucraina l'aveva premiata per aver adottato sei bambini da un orfanotrofio dopo averne partoriti già sei. Dodici figli che però non potrà più rivedere. Era un medico dell'esercito, sempre in prima linea. Aveva prestato servizio anche durante le ostilità in Donbass nel 2014. 

Ma da questa guerra non tornerà a casa dai suoi 12 bambini che l'aspettavano: Olga Semidyanova, 48 anni, è morta sul campo, al confine tra le regioni di Donetsk e Zaporizhzhya e ora i suoi figli, sei dei quali adottati da un orfanotrofio, chiedono disperatamente di poter riavere almeno il corpo della mamma. Una donna, che proprio per la sua dedizione e il numero dei figli che aveva voluto, era stata insignita del titolo di "mamma eroina". 

Una delle figlie, Oleksandra, la ricorda: «È diventata così forte che dopo la nascita di 6 figli è riuscita anche a crescere bambini di altri come se fossero i suoi. E quando il suo Paese aveva bisogno di persone, non poteva farsi da parte. Difendeva l'Ucraina, è stata una sua scelta, nessuno l'ha costretta», aggiunge secondo quanto riporta il sito del giornale Ukraisnka Pravda. Secondo i media locali, avrebbe dovuto allontanarsi dal fronte una volta che i comandanti avevano chiesto la ritirata dei soldati. Ma lei ha insistito per rimanere e occuparsi dei compagni.

Olga, che viveva a Marhanets, nella regione di Zaporizhzhya, sarebbe stata uccisa in combattimento all'inizio dell'invasione russa, probabilmente il 3 marzo. Ma ancora i figli non hanno potuto riavere il corpo. «Sappiamo dove è stata uccisa, tra quali villaggi, ma non sappiamo a quali persone rivolgerci per poter portare a casa la salma, non sappiamo nemmeno in che condizioni, se è già sepolta da qualche parte», racconta un'altra figlia, Anna, lanciando un appello a chiunque possa darle informazioni. 

Olga aveva anche ricevuto l'Ordine d'Onore e Gloria «di cui era molto orgogliosa», perché ha sempre cercato di aiutare gli altri, riportano i siti ucraini ripercorrendo la sua storia. E la sua dedizione per il prossimo e la famiglia: Anna, in un'intervista a Fakt, ricorda che la mamma era figlia unica. «Si è sposata a 19 anni e dopo aver dato alla luce cinque figli (tre femmine e due maschi), l'intera famiglia si trasferì in una grande casa vicino a Marhanet. La nostra sorella minore è nata lì nel 2008. Mentre era ancora incinta, Olga ha ha deciso di voler salvare altri bambini dall'orfanotrofio e ha accolto altri sei maschietti, tutti bambini con problemi, ognuno con un trauma psicologico del passato».

Nel 2015, il marito della donna si è offerto volontario per combattere in un battaglione DUK. Olga lo raggiunse presto come medico militare, per combattere e aiutare il suo Paese. Fino all'ultima guerra, quella voluta dall'invasore russo, da cui non è più tornata.

(ANSA il 14 marzo 2022) - La donna incinta che era stata fotografata mentre veniva evacuata da un ospedale pediatrico bombardato nella città ucraina di Mariupol è morta insieme al suo bambino. Lo riferiscono i media internazionali. La donna era stata trasportata d'urgenza in un altro ospedale dopo l'attacco russo la scorsa settimana ed era stata fotografata, distesa su una barella, mentre si teneva con le mani il grembo insanguinato. La foto fece il giro del mondo in pochi minuti. Nonostante il rapido intervento, i medici non sono riusciti a salvare né lei, né il bimbo.

È morta la donna incinta dell’ospedale di Mariupol, aveva perso il bambino dopo il bombardamento. Antonio Lamorte su Il Riformista il 14 Marzo 2022. 

Era stata fotografata in barella, trasportata da quattro uomini, all’esterno dell’ospedale n.3 di Mariupol bombardato e distrutto dall’esercito russo. È morta, la donna incinta che si teneva il ventre con le mani tra le macerie. La sua fotografia aveva fatto il giro del mondo, simbolo della guerra in Ucraina e dell’assedio di Mariupol. Dopo l’attacco il figlio era morto, e lei ai dottori aveva chiesto: “Uccidetemi ora!”. Non si conosce il suo nome.

La notizia della morte della donna è stata data da Associated Press, la stessa agenzia che aveva diffuso le immagini della donna scattate dal fotografo Evgeniy Maloletka, lo stesso fotografo che aveva scattato le foto di Marianna Podgurskaya, anche lei incinta e anche lei nell’ospedale della città assediata da giorni dai russi. Mosca aveva parlato di propaganda, di quest’ultima soprattutto, l’influencer, truccata e utilizzata per creare una messinscena. Le ambasciate russe di Regno Unito e Italia avevano avvallato la tesi, anche sostenendo che le due donne fossero la stessa persona. E invece la donna trasportata in barella è morta, Podgursakya è viva è ha dato alla luce una bambina. Twitter aveva rimosso, per violazione delle policy dei social network, i post delle ambasciate.

L’ambasciatore russo alle Nazioni Unite aveva insistito a definire quelle immagini fake news. La propaganda si è più volte contraddetta parlando prima di esercito e poi di terroristi: il ministro degli Esteri Sergej Lavrov aveva parlato dell’ospedale occupato dal battaglione Azov. L’attacco al nosocomio mercoledì 9 marzo. Le condizioni della donna erano apparse subito molto gravi: ferita all’anca e con una frattura al bacino. Il chirurgo che l’ha operata, Timur Marin, ha detto che dopo il taglio cesareo il bambino non mostrava più “segni di vita”.

Per 30 minuti i medici hanno provato a salvare la donna ma “senza risultati”. Il corpo è stato ritirato dal marito e dal padre: non finirà nelle fosse comuni scavate nella città affacciata sul mare d’Azov, dove manca l’elettricità, il cibo, l’acqua e il riscaldamento. Secondo le autorità locali sarebbero almeno 2.187 le persone morte dall’inizio dell’invasione russa. La città è un punto strategico: permetterebbe di collegare la Crimea occupata dalla Russia e le autoproclamate Repubbliche sedicenti del Donbass, riconosciute dal presidente russo Putin due giorni prima dell’invasione.

Gli amministratori locali avevano parlato la settimana scorsa di condizioni di assedio medievale: la neve usata per bere pur di sopravvivere e strutture civili distrutte. Fallite più volte le tregue per evacuare i civili tramite i corridoi umanitari. Kiev ha accusato Mosca di aprire il fuoco sulle persone in fuga. “Lo scenario peggiore – ha detto il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) – attende le centinaia di migliaia di civili intrappolati da pesanti combattimenti a Mariupol, a meno che le parti non raggiungano urgentemente un accordo umanitario concreto”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Kiev, "incontri con ragazze ucraine": annunci a luci rosse, l'orrore sulla pelle di chi fugge dalla guerra. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 19 marzo 2022

Ci deve pur essere una qualche forma di etica nella volontà di far marketing e soldi. Ci deve essere un minimo senso di rispetto dell'essere umano, che prescinda dall'esigenza di business. È la prima obiezione che ti viene da fare quando vedi apparire sulla home di Facebook, tra i contenuti sponsorizzati, la pagina del sito di appuntamenti UkraineDate, con tanto di lanci acchiappa-clic del tipo «Incontra le donne ucraine», «Trova la tua bellezza ucraina» e foto di avvenenti figliuole di Kiev e dintorni. Incuriosito e indignato vai sulla pagina con 20mila follower e scopri che questo servizio ti permette di conoscere «single di qualità», «in Ucraina e in tutto il mondo». Sul sito poi, che vanta 800mila membri, leggi che «se stai cercando single ucraine, puoi trovare il tuo perfetto abbinamento», in quanto «UkraineDate ha connesso migliaia di single con donne ucraine ovunque».

Ora, che ci siano migliaia di donne ucraine sole nel mondo è un fatto drammaticamente vero, e non perché siano "disponibili" per incontri galanti o erotici, ma per la contingenza, non irrilevante, che hanno dovuto lasciare la loro terra e i loro uomini per cercare salvezza altrove. Lanciare quell'invito a incontrare donne ucraine «di qualità» in tutto il mondo proprio ora suona quanto meno di cattivo gusto. Per carità, nel libero mercato ognuno promuove come vuole il proprio servizio. Ma era il caso di sponsorizzare questo sito di incontri in questa fase storica? Ed era il caso per Facebook lucrare su di esso, visto che ogni contenuto sponsorizzato vale al social un bel po' di quattrini? La società di Mark Zuckerberg fa tanto la moralista su presunti contenuti offensivi della sensibilità degli utenti. Ebbene, stavolta lui e i suoi dipendenti non hanno pensato che certi contenuti potrebbero suscitare lo sdegno di ucraini, ucraine e non solo? Infatti gli utenti non l'hanno presa benissimo: sotto i post di UkraineDate trovavi commenti del tipo «Ma vi sembra il caso?», «Siete malati, ma che avete in testa!», «Trovo tutto ciò molto offensivo», «Basta avvoltoi».

Almeno un'altra pagina Facebook chiamata "Ragazze russe e ucraine" ha avuto il buon gusto di sospendere il 20 febbraio, all'alba dello scoppio della guerra, i post con cui si invitavano a «incontrare molte ragazze belle e interessanti dell'ex Urss». Per dimenticare l'invasione dell'Ucraina e cercare l'evasione, pare più di buon gusto affidarsi ad altri canali. Come i tanti che consentono conoscenze, senza riferimento a nazionalità. E che hanno fatto registrare un'esponenziale crescita nell'ultimo periodo. Incontri-ExtraConiugali.com, ad esempio, fa sapere che dal 24 febbraio, giorno di scoppio della guerra, le iscrizioni sono aumentate del 180% con una media di 920 iscrizioni quotidiane. Da un sondaggio realizzato dallo stesso sito si scopre che vi si iscrivono molti che perseguono il tradimento come valvola di sfogo in tempi di scontro bellico e incertezza economica. La maggior parte dei fedifraghi (il 73%) dice infatti di cercare una distrazione in attesa di recuperare l'equilibrio personale. In tempo di guerra tutto diventa precario, pure l'amore. E ci si cornifica anche di più. Sta bene, purché non si sfrutti l'immagine di creature già martoriate. Che di tutto hanno bisogno tranne che di essere presentate come donne disponibili...

Gli stupri di guerra in Ucraina: «Violentate per una foto». Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera il 20 Marzo 2022.  

La denuncia del sindaco di Brovary: «Lo raccontano tanti che scappano dalle zone occupate». Sui media pubblicato anche il nome di un aggressore, un ufficiale. 

«I soldati russi violentano le donne ucraine. Sappiamo che avviene, lo raccontano sottovoce tanti tra coloro che scappano dalle zone occupate. È un problema grave, ancora non capiamo quanto sia diffuso. Ma siamo già a conoscenza di casi specifici». La denuncia arriva precisa da Ihor Sapozhko, 45enne sindaco di Brovary, la città di circa 140.000 abitanti situata a una ventina di chilometri dai quartieri orientali della capitale.

Uccise dopo lo stupro

Le pattuglie avanzate russe sono qui, appena dietro la zona industriale, dall’ospedale locale si odono i rombi delle bombe, le nubi degli incendi oscurano l’orizzonte. «Dai racconti dei testimoni risulta che alcuni comandanti russi aizzano i loro soldati ad aggredire le mogli e le figlie dei nostri militari o dei volontari civili combattenti che trovano nelle case. In altri frangenti sappiamo però che hanno punito i violentatori. Ci hanno detto da più fonti che almeno in una circostanza hanno violato le nostre soldatesse catturate durante la battaglia all’aeroporto di Hostomel, nei primi giorni della guerra. Non sappiamo il loro numero, laggiù si continua a combattere. Ma le vittime non possono testimoniarlo, dopo la violenza le hanno uccise, forse impiccate o tagliate e pezzi per nascondere le prove», aggiunge.

Un’arma di guerra

Il tema è antico quanto antica è la guerra tra gli uomini. Nelle fasi finali del secondo conflitto mondiale l’Armata Rossa fece della violenza contro le donne tedesche una politica sistematica. Negli ultimi decenni lo stupro come arma della «pulizia etnica» caratterizzò il conflitto nella ex Jugoslavia, avvenne in Cecenia, in Siria i soldati di Bashar Assad (alleati di Mosca) lo adottarono metodicamente come forma di tortura nelle carceri per fiaccare le rivolte civili scoppiate nel 2011. Isis in Iraq nel 2014 rapì oltre 5.000 donne yazide per trasformarle in «schiave sessuali». In altri conflitti, come quello in Libia, l’argomento viene spesso utilizzato come propaganda per criminalizzare l’avversario, ma in realtà gli stupri confermati sono stati molto pochi. Qui in Ucraina se ne parla ancora poco, ma con l’allargarsi delle zone sotto controllo russo il tema degli abusi contro la popolazione civile sta diventando sempre più importante. «Tanti tra i feriti e i loro famigliari che arrivano qui al nostro ospedale parlano degli stupri. Siamo abbastanza certi che avvengano. Però ancora non abbiamo evidenze mediche per il fatto che i testimoni diretti e le vittime sono chiusi nelle zone occupate dall’esercito russo in avanzata. Tanti uccisi vengono seppelliti tra le case in tombe di fortuna», dice Volodymyr Andriiets, medico dell’ospedale locale.

L’orrore

Ma il sindaco Sapozhko alcune storie le può raccontare. Una riguarda un suo vecchio amico, il 36enne Oleskiy Zdorovts ex segretario della municipalità, e la giovane moglie Maryna. Come testimoniava il 10 marzo anche il sito web locale, Kyiv.tsn.ua, i soldati russi hanno fatto irruzione nella loro abitazione nel villaggio di Nova Bohdanivka e assassinato a sangue freddo Oleskiy. Pare lo stessero cercando, come del resto danno la caccia a tutti i leader politici locali. «I vicini di casa mi hanno telefonato poi per raccontare dello stupro di Maryna. L’hanno trovata nuda e confusa vicino al figlio piccolo. Ma ancora non siamo riusciti a portarla in salvo», racconta il sindaco. Sui social locali è pubblicato anche il nome dello stupratore, l’ufficiale russo Michail Romanov, che si era scagliato contro altre prigioniere e sarebbe già stato ucciso dai soldati ucraini. 

Un’altra donna sarebbe stata stuprata nel villaggio vicino, Baryshivka. «I soldati hanno trovato sul suo cellulare le foto del marito volontario con il fucile in mano. Pare sia stata attaccata da una ventina di uomini. Una storia terribile», aggiunge ancora il sindaco, che segnala una vicenda molto simile nel villaggio di Valyka Dymerka. «Noi oggi consigliamo ai parenti dei nostri combattenti di nascondere o distruggere cellulari, foto, articoli militari e computer. È ormai evidente che l’intelligence russa lavora con l’esercito per colpire la nostra resistenza».

Ucraine stuprate e poi impiccate. La vicepremier: "Pagherete tutto". Andrea Cuomo il 21 Marzo 2022 su Il Giornale.

"Ogni singolo soldato che abbia commesso questo crimine di guerra verrà chiamato a risponderne".

«Ogni singolo soldato che abbia commesso questo crimine di guerra verrà chiamato a risponderne». Parole durissime quelle della vicepremier ucraina Olha Stefanishyna (nella foto), che è tornata ad accusare la Russia non solo di genocidio ma anche degli stupri (spesso seguiti dall'uccisione) di molte donne ucraine da parte di soldati russi. Al canale televisivo Sky News la Stefanishyna ha riferito di «storie orribili». «Ci hanno detto, da più fonti, che almeno in una circostanza i soldati russi hanno violato le nostre soldatesse catturate durante la battaglia all'aeroporto di Hostomel, nei primi giorni della guerra. Non sappiamo il loro numero, laggiù si continua a combattere. Ma le vittime non possono testimoniarlo, dopo la violenza le hanno uccise, forse impiccandole e tagliate e pezzi per nascondere le prove», ha detto la vice di Volodymyr Zelenski, che ha però invitato le donne ucraine a resistere tutte insieme: «Noi rimarremo unite e prevarremo».

Le aggressioni sessuali sono state denunciate anche dalle parlamentari Lesya Vasilenko, Olena Khomenko, Maria Mezentseva e Alona Shkrum, che nei giorni scorsi sono state accolte dalla House of Commons a Londra. Secondo le tre deputate ucraine gli episodi più efferati sono avvenuti soprattutto a Kiev e a Bucha e Irpin, cittadine alle porte della capitale. «La gran parte di loro sono state impiccate dopo essere state stuprate oppure si sono tolte la vita», ha detto la Vasilenko, citata dal Mirror. «Il problema principale è che le vittime e le famiglie non hanno la forza e la capacità di farsi avanti e denunciare - ha aggiunto la Mezentseva -. Alcune delle donne stuprate sono anche state impiccate. E questi sono fatti che stiamo raccogliendo come prove di crimini di guerra».

Terribile anche la testimonianza di Ihor Saposhko, sindaco di Brovary, cittadina ucraina da 140mila abitanti in procinto di essere evacuata. In un video pubblicato sul sito del Corriere della Sera Saposhko racconta che sarebbero centinaia le donne sottoposte a violenze da parte dei soldati russi, i cui stupri vengono avvallati e promossi dai loro superiori: «Dai racconti dei testimoni risulta che alcuni comandanti russi aizzano i loro soldati ad aggredire le mogli e le figlie dei nostri militari o dei volontari civili combattenti che trovano nelle case».

Qualche giorno fa i due premi Nobel per la pace del 2018, l'attivista irachena Nadia Murad e il medico congolese Denis Mukwege, avevano avvertito l'opinione pubblica mondiale sul fatto che «in ogni conflitto, le donne sono vittime di violenza sessuale. Nei massicci movimenti di popolazione, le ragazze e le donne sono le prime vittime, poiché lo sfollamento forzato le porta alla miseria, alla disperazione, all'insicurezza e le espone alla violenza sessuale». I due Nobel avevano lanciato un appello perché le donne ucraine fossero protette dalla violenza sessuale proponendo azioni preventive come la sensibilizzazione sul fenomeno tra rifugiati, operatori umanitari e Paesi ospitanti.

Gli stupri etnici, il marcio della guerra. Vittorio Macioce il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.

Questa guerra fuori dal tempo sta chiamando nelle sue viscere il marcio di tutte le guerre. 

Questa guerra fuori dal tempo sta chiamando nelle sue viscere il marcio di tutte le guerre. È una guerra post moderna e balla sull'apocalisse, con i missili che tracciano il cielo e piombano ovunque ci sia un segno di vita, dalle case abbandonate ai reattori nucleari, con i droni, i satelliti, le macchine e la tecnologia, propaganda e controinformazione e tutti i demoni di questo nuovo secolo. E poi va a ritroso, con la fila dei carri armati e gli aerei da abbattere, le sirene e le fughe al coperto, la resistenza dei civili e la guerriglia, le parole della paura, gli assedi di città affamate, il sangue che chiama sangue delle eterne guerre civili, stessa faccia e stessa schiatta che non si riconoscono, fino al non lasciare quartiere a chi viene conquistato, sottomesso e vinto, senza pietà come nella notte dei tempi per le donne. L'eco degli stupri è una voce che arriva da Kiev. Le parole sono di Dmytro Kuleba, ministro degli Esteri ucraino, che le butta lì per sostenere che il diritto è fuggito dall'Europa, che di fronte a tutto questo diventa ogni giorno più difficile sperare nella pace. «Quando le bombe cadono sulle vostre città, quando i soldati violentano le donne nelle città occupate e purtroppo abbiamo numerosi casi di quando soldati russi violentano le donne nelle città ucraine è difficile, ovviamente, parlare dell'efficienza del diritto internazionale». Non ci sono regole non c'è umanità. Non c'è mai stata. È tutto come sempre, come ogni volta e solo alla fine si sveleranno pezzo a pezzo i particolari dell'orrore. Per ora ci sono le parole di Kuleba, che rievocano gli stupri in Bosnia, così tanti che è ancora difficile contarli, venti o venticinquemila. Buona parte sulla linea di confine con la Serbia, a Prijedor o nel quartiere di Grbavica a Sarajevo. L'infamia delle truppe paramilitari serbe, ma anche della polizia. A Visegrad, nell'albergo Vilina Vlas (capelli di fata) le ragazze venivano chiuse nelle stanze e legate ai letti e violentate per ore. È stato l'atto di addio di un disilluso Novecento. È successo nel Darfour e prima ancora in Ruanda, in Sry Lanka, in Bangladesh, in Somalia e con i francesi in Algeria. È successo sempre, con un mondo che ogni volta fatica a ricordarsene. È successo anche qui e ancora adesso se ne parla quasi sottovoce. È il 14 maggio 1944 e le truppe alleate superano la linea Gustav, con Montecassino in macerie, aggirano la valle del Liri e si dirigono verso Roma. Il generale francese Alphonse Juin lascia alle truppe nordafricane cinquanta ore di libertà. Non avranno pietà. Alla storie resteranno come le «marocchinate». Alberto Moravia scriverà la Ciociara. Vittorio De Sica, ciociaro, le racconterà al cinema con il volto di Sophia Loren. Il ricordo è nel sangue di una terra.

Ucraina, "donne stuprate dai soldati russi". I racconti horror dalle città occupate. Libero Quotidiano il 05 marzo 2022.

«Soldati russi hanno stuprato donne nelle città ucraine occupate». Di ora in ora si inseguono le testimonianze di donne che denunciano di essere stateviolentate dai militari russi, così come i racconti di chi ha visto i propri familiari o i propri amici essere portati via dall'esercito di Putin, sequestrati e rinchiusi chissà dove. Sono le solite tecniche della puizia etnica, messe in atto per costringere la gente alla fuga. È lo stesso ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, a parlare degli abusi in diretta televisiva. «Quando i soldati stuprano le donne nei territori occupati, e abbiamo diversi casi - le sue parole al canale televisivo N1-, quando i soldati russi abusano delle donne nelle città ucraine, è chiaramente difficile parlare dell'efficacia della legge internazionale». Dichiarazioni drammatiche che seguono di qualche ora quelle di una ragazza di Kherson, città portuale non distante da Odessa finita nelle mani dell'esercito russo. «Abbiamo paura dice Svetlana in un'intervista alla Cnn -. Hanno cominciato a violentare le nostre donne. Persone che conosco mi hanno raccontato di una 17enne stuprata e uccisa. Siamo terrorizzati ma non ci arrenderemo mai». Ma sono tante le denunce di ragazze abusate, o addirittura, uccise che rimbalzano sui principali social network. Notizie che hanno portato gli stessi esperti dell'Alto commissario dei diritti umani delle Nazioni Unite a lanciare un appello per «assicurare la protezione delle donne». «La storia ha ripetutamente mostrato che conflitti e guerre incrementano l'esposizione delle donne e delle ragazze ai crimini di guerra, come uccisioni, stupri e traffico di esseri umani», si legge in una nota in cui si ricorda che sia la Russia che l'Ucraina hanno sottoscritto la Convenzione per l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne.

"Non lasciate che Putin trasformi il Paese in Siria". “Donne ucraine stuprate dai soldati”, la denuncia alla Russia: “Subito un tribunale speciale per Putin”. Vito Califano su Il Riformista il 4 Marzo 2022. 

Il ministro degli Esteri Dmytro Kuleba ha scagliato una grave accusa alla Russia mentre infuria la guerra in Ucraina. “Purtroppo abbiamo numerosi casi di donne stuprate dai soldati russi nelle città ucraine”, ha detto il ministro del governo guidato da Volodymyr Zelensky in videoconferenza durante un briefing a Londra nella sede del think-tank Chatham House. “Quando le bombe piovono sulle vostre città, i soldati violentano le donne, e purtroppo vi sono numerosi casi di soldati russi, è evidentemente difficile parlare dell’efficacia del diritto internazionale”, ha aggiunto il ministro.

Kuleba si è detto anche favorevole alla proposta di creare un tribunale speciale, per punire il Presidente russo Vladimir Putin del suo “crimine di aggressione”, avanzata dall’ex premier britannico Gordon Brown. “L’obiettivo di questa iniziativa non è quello di sostituire la Corte penale internazionale o qualsiasi altra giurisdizione, ma di colmare il vuoto che esiste nel diritto internazionale e di utilizzare l’esperienza della comunità internazionale e del diritto internazionale a beneficio del popolo e dell’ordine mondiale”.

Kuleba ha anche riconosciuto che l’esercito ucraino e la popolazione civile che ha imbracciato le armi stanno “lottando contro un nemico che è molto più forte di noi”. Il ministro ha incitato l’Occidente e la Nato a intervenire prima che “Putin trasformi l’Ucraina in una nuova Siria” – dove la Russia è intervenuta a favore di Bashar Al Assad difatti salvando il regime di Damasco dalla capitolazione in seguito all’esplosione delle rivolte scoppiate nell’ambito delle cosiddette Primavere Arabe – “Siamo pronti a combattere. Continueremo a combattere. Ma abbiamo bisogno che i partner ci aiutino ora con azioni concrete, risolute e tempestive”.

Svetlana Zorina, una ragazza che si prende cura della nonna a Kherson, città occupata dai Russi da due giorni, ha raccontato alla CNN che i russi “hanno iniziato a violentare le nostre donne. C’erano informazioni da persone che conosco personalmente, come una ragazza di 17 anni che è stata violentata e poi l’hanno uccisa”. L’accusa sugli stupri di guerra arriva in un momento in cui la disinformazione e la strumentalizzazione delle notizie e sui dati sul conflitto viaggia a pieno regime.

Soltanto oggi era trapelata da fonti di Mosca la notizia che Zelensky fosse fuggito in Polonia. Notizia smentita dalla Rada, il Parlamento ucraino, come fake news. Il Presidente ha invocato sanzioni più dure contro Mosca e invitato i russi a scendere in piazza, dopo il bombardamento della centrale nucleare di Zaporizhzhia, un’azione che “sarebbe potuta essere la fine della storia dell’Ucraina e dell’Europa”. Il New York Post ha riportato che Zelensky sarebbe scampato ad almeno tre tentati omicidi messi in atto dal Gruppo Wagner, contractor paramilitari sostenuti dal Cremlino, e da un altro da parte di un commando ceceno. Gli appelli del Presidente all’Occidente di creare una No Fly Zone sul Paese e a Putin di colloqui per arrivare alla pace sono al momento lettera morta. 

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Maks Levin, morto per fotografare la guerra: «Esecuzione dei russi, due colpi da vicino». Andrea Nicastro su Il Corriere della Sera il 2 Aprile 2022.

Il fotoreporter ucraino è stato trovato in un villaggio vicino a Kiev. Era scomparso il 13 marzo mentre documentava gli scontri: lascia la moglie e quattro figli. Aveva lavorato per Bbc, Ap e Reuters.

L’hanno ucciso con due colpi di piccolo calibro, mentre aveva ancora indosso il suo giubbino antiproiettile con la scritta «Press» in evidenza. Se ha ragione il procuratore ucraino, che ha aperto un’inchiesta, la morte del fotoreporter e documentarista ucraino Maksim Levin non è stata un incidente di guerra, ma una esecuzione.

La polizia di Kiev ha ritrovato il suo corpo venerdì dopo due settimane che era stato dato per disperso. Era nelle aree attorno alla capitale abbandonate nei giorni scorsi dalle truppe di Putin per la «drastica riduzione delle attività militari» annunciata al tavolo negoziale di Istanbul. Il 13 marzo Levin era andato nel villaggio di Huta Mezhyhirska, distretto di Vyshhorod, a nord di Kiev. E rano i giorni del massimo sforzo russo per rompere le difese della città e conquistare i palazzi del potere. I bombardamenti erano intensi e continui per cui quando Levin ha smesso di inviare foto alle redazioni, si è subito pensato potesse essere caduto vittima di una scheggia.

Il fotoreporter lavorava assieme a Oleksiy Chernyshov, militare e, a sua volta, fotografo. Di lui al momento ancora nessuna traccia. I due formavano una coppia estremamente esperta, ma neanche questo li ha tenuti al riparo. L’ex militare Chernyshov, come Levin, non ha dato più segni di sé dal 13 Marzo. L’associazione Reporter Senza Frontiere ha scritto che Levin era disarmato e indossava il giubbino antiproiettile. Levin era tra i fotografi più conosciuti dell’Ucraina, lavorava anche per Reuters, Ap, Bbc e altre testate internazionali. Pensando alla bimba vietnamita ritratta da Huynh Cong «Nick» Ut mentre corre nuda in fuga dal napalm americano, Levin diceva «ogni fotografo ucraino vuole scattare l’immagine che fermerà la guerra». Per lui «guerra» significava Donbass: non immaginava che lo scontro potesse allargarsi tanto.

Innumerevoli i suoi servizi e i documentari dal fronte meridionale dove le forze regolari ucraine hanno continuato a scontrarsi in questi ultimi 8 anni con i ribelli indipendentisti filorussi che ora Mosca adopera come giustificazione per l’invasione. La Procura Generale Di Kiev ha rilasciato una prima dichiarazione molto chiara. «Il fotoreporter e stato ucciso da soldati delle forze armate russe con due proiettili esplosi da armi di piccolo calibro». Non sono ancora note le prove a sostegno dell’accusa.

«Prendere di mira i giornalisti è un crimine di guerra» ha ricordato Reporter senza frontiere da Parigi eppure, sono già sei i cronisti uccisi dal 24 febbraio. Uno a settimana. Anche altri erano stati colpiti a nord di Kiev. Alcuni da schegge, altri da cecchini, ma il caso di Levin, eliminato a freddo, appare unico. Livin aveva 40 anni ed era padre di quattro bambini. «Maks ha offerto sin dal 2013 all’agenzia Reuters foto e video di grande qualità — ha dichiarato John Pullman, visual global editor dell’agenzia —. La sua morte è un’enorme perdita per il mondo del giornalismo».

I Giornalisti. Ucciso a sangue freddo e forse torturato: così il fotoreporter Maks Levin è stato ammazzato dai russi in Ucraina. Il fotografo è morto il 13 marzo nella regione di Kiev, dove stava lavorando usando il suo drone. Ora un’indagine di Reporter senza frontiere prova a fare luce sull’accaduto. Erika Antonelli su L'Espresso il 22 Giugno 2022.

Due spari a sangue freddo, mentre cercava la sua macchina fotografica. È morto così Maks Levin, 40 anni, il fotoreporter ucraino scomparso il 13 marzo e ritrovato cadavere lo scorso primo aprile, in una foresta poco distante da Kiev. Si era spinto lì accompagnato da un suo amico, il soldato Oleksiy Chernyshov, per cercare il drone che aveva perso qualche giorno prima. I due non troveranno quello ma la morte. Ora, un’indagine sul campo del fotografo di guerra Patrick Chauvel e dal Capo dell’unità di indagine di Reporter senza frontiere, Arnaud Froger, prova a fare luce sull’accaduto. Sollevando il sospetto che le due vittime sarebbero anche state torturate.

Levin lavorava in prima linea, a fianco dell’esercito ucraino per raccontare l’assedio russo a Kiev, documentandolo con il suo drone. Le immagini che raccoglieva erano anche servite all’esercito per individuare le posizioni russe e forse anche per questo motivo il 13 marzo si è spinto di nuovo nella foresta vicina al villaggio di Huta-Mezhyhirs'ka, dove tre giorni prima di essere ucciso aveva perso il suo fedele strumento di lavoro.

È il 10 marzo quando insieme a Chernyshov e a un altro soldato si reca in questa parte di territorio incastonata tra due fiumi, Irpin a ovest e Dnipro a est, per fare delle foto. Levin fa partire il suo drone verso una zona occupata dai russi, ma questo si scarica e cade prima che il giornalista possa recuperarlo. Non appena attiva il gps per identificare dove sia, i tre vengono raggiunti dagli spari. Fuggono, senza aver recuperato il drone. Così, tre giorni dopo Levin e l’amico tornano a cercarlo. È il 13 marzo, il giorno della scomparsa. L’ultimo segnale di vita del fotogiornalista è alle 11:23, un messaggio alla sua ragazza. Poi più nulla.

Le ricerche iniziano a rilento perché la zona in cui si perdono le tracce dei due è diventata terreno di combattimento ed è inavvicinabile per quasi tre settimane. Il primo aprile vengono identificati l’auto di Levin, il suo cadavere e quello del soldato suo amico, in parte bruciato. «Dalle foto è possibile vedere che il corpo del giornalista, disteso sulla schiena, presenta tre fori di proiettile, uno sul busto e due sulla testa. Quello di Oleksiy Chernyshov giace a faccia in giù accanto al veicolo sul lato con la portiera aperta. All'interno dell'abitacolo sono stati trovati due proiettili. Uno di piccolo calibro, tipico dei Kalashnikov usati dall'esercito russo; l'altro di calibro maggiore, attribuito alle forze speciali russe da una fonte militare esperta», spiega Rsf. Che conferma la presenza dei russi nella zona anche per via di alcuni oggetti ritrovati nelle vicinanze: involucri di cibo, posate di plastica, pacchetti di sigarette, un elenco di istruzioni per l'uso di razzi. «Le immagini e i reperti della scena del crimine indicano che i due uomini sono stati probabilmente giustiziati a freddo o addirittura torturati in precedenza. Ci sono indicazioni che il corpo di Oleksiy Chernyshov possa essere stato bruciato vivo, un sospetto alimentato in particolare dalla posizione in cui è stato trovato», dice l’Ong. Mentre le fotografie del cadavere di Levin e il ritrovamento di un proiettile conficcato nel terreno nel punto esatto in cui è stato rinvenuto il cadavere «indicherebbero che è stato colpito da uno o addirittura due proiettili sparati a distanza ravvicinata mentre era già a terra».

L’Ong avanza due ipotesi. Secondo la prima Levin e Chernyshov sarebbero stati colpiti perché entrati in una zona controllata dalle forze russe, senza accorgersi che queste erano nascoste in alcune trincee. Così, mente Levin ignaro scende dalla sua auto e inizia a cercare il drone e Chernyshov lo aspetta alla macchina, i russi si avvicinano. Notano la fascia blu al braccio del giornalista, segno di amicizia verso le truppe ucraine e accessorio necessario per i giornalisti che, come Levin, lavorano sul fronte a fianco dell’esercito di Kiev. Gli sparano, al volto e al busto. E colpiscono Chernyshov alla testa. I due sono a terra, Levin potrebbe essere ancora vivo. Gli sparano altre due volte e gli rubano telefono e documenti. Prima di allontanarsi bruciano sommariamente il veicolo e il corpo di Chernyshov. A Levin non tocca la stessa sorte, forse perché la benzina non basta o perché sentono avvicinarsi i soldati ucraini, richiamati dagli spari nel bosco. Nella seconda versione che spiegherebbe l’accaduto, Rsf ipotizza invece un’esecuzione dopo un interrogatorio. I russi bloccano la macchina, disarmano Chernyshov, salgono a bordo e li costringono ad addentrarsi nella boscaglia. Interrogano poi i due separatamente, probabilmente chiedono informazioni sulle posizioni ucraine vicine. Cercano di indurli a parlare sparando contro il veicolo. Poi il soldato viene cosparso di benzina, minacciato e bruciato vivo. Levin invece viene colpito dai proiettili.

Che l’intera zona fosse controllata dai russi è confermato anche da alcuni abitanti di Moshchun, un piccolo villaggio nelle vicinanze. A Rsf i pochi rimasti hanno raccontato che le loro case fungevano da scudi civili per impedire all’esercito ucraino di fare fuoco. Secondo l’Ong, ad aver sparato al giornalista e al suo amico potrebbero essere stati i paracadutisti della 106ª Divisione aviotrasportata della Guardia russa. O i soldati "Buryat", di origine mongola. Gli stessi sospettati di aver compiuto i crimini di Bucha.

Per aiutare le indagini condotte dalle autorità ucraine, Rsf ha condiviso con gli investigatori le informazioni ottenute durante la sua missione e ha consegnato le prove raccolte sul campo, tra cui diversi proiettili, i documenti di identità di Oleksiy Chernyshov e le tracce dei russi nelle trincee vicine. «Contiamo anche sul ministero della Difesa ucraino e sui servizi di intelligence per fornire informazioni sulla presenza di soldati russi in questa foresta e nel villaggio di Moshchun nel mese di marzo. Perché se i colpevoli verranno arrestati, è essenziale che vengano identificati rapidamente, ascoltati e chiamati a rispondere dei loro omicidi». È essenziale per Mask, per Chernyshov e per tutte le vittime di questa guerra.

Da ilmessaggero.it il 30 maggio 2022.

Dramma in Ucraina. Un giornalista francese è stato ucciso dopo che un'auto è stata colpita vicino a Severodonetsk. Lo ha dichiarato il governatore regionale di Lugansk, Serhiy Gaidai, come riporta il Guardian. Si chiamava Frédéric Leclerc-Imhoff. 

«Oggi il nostro veicolo blindato di evacuazione - ha detto Gaidai - stava andando a prelevare 10 persone dalla zona ed è finito sotto il fuoco nemico. Le schegge delle granate hanno perforato la corazza dell'auto, una ferita mortale al collo è stata ricevuta da un giornalista francese accreditato che stava realizzando un servizio sull'evacuazione, un poliziotto di pattuglia è stato salvato da un elmetto».

Il giornalista francese Frédéric Leclerc-Imhoff ucciso in Donbass: “Seguiva evacuazione civili a Severodonetsk”. Roberta Davi su Il Riformista il 30 Maggio 2022.

Lavorava come videoreporter per la rete francese BFMTV: è stato ucciso dalle forze armate russe nei pressi di Severodonetsk. Lo ha reso noto Serhiy Haidai, governatore dell’oblast di Lugansk, come riporta il Guardian. Il giornalista francese è stato ferito al collo mentre stava seguendo le operazioni di evacuazione dei civili della regione. Secondo un tweet di Ukrainska Pravda, si tratterebbe di Frédéric Leclerc Imhoff.

L’annuncio

“Oggi il nostro veicolo blindato per l’evacuazione stava per prelevare dieci persone dalla zona ed è finito sotto il fuoco nemico. Le schegge dei proiettili hanno trafitto l’auto, un giornalista francese accreditato è stato ferito mortalmente al collo. Stava raccogliendo materiale sull’evacuazione” ha scritto Haidai su Telegram, aggiungendo che “un poliziotto di pattuglia si è salvato perché indossava un elmetto”. Le operazioni di evacuazione sono state sospese.

La foto dell’accredito stampa di Frédéric Leclerc-Imhoff, rilasciato dal ministero della Difesa ucraino, è stata pubblicata da Ukrainska Pravda, ma non ci sono al momento conferme ufficiali. Oggi è a Kiev la ministra degli Esteri francese Catherine Colonna.

Stefano Ciardi per “La Stampa” il 31 maggio 2022.  

A terra senza vita, colpito al collo da una scheggia mentre seguiva delle evacuazioni di civili presso Severodonetsk, la città dove si concentra l'offensiva russa nel Donbass. È morto così Frédéric Leclerc, giornalista francese dell'emittente Bfm-Tv che voleva documentare cosa succede in una città martellata giorno e notte da bombardamenti. Viaggiava insieme a due colleghi su un camion dove c'era scritto Humanitarian aid, aiuti umanitari.

Ma neanche questo ha impedito che fosse colpito dall'artiglieria russa per poi morire dissanguato davanti agli occhi dei suoi compagni. L'attacco è avvenuto all'improvviso in un luogo dove le bombe cadono ogni pochi secondi e colpiscono qualsiasi cosa si muova. Chiunque percorra le vie di Severodonetsk e della vicina Lysychansk ha l'impressione che un colpo di mortaio possa arrivare da qualsiasi direzione: girare un angolo blocca il respiro e appena si sente un rumore ci si butta a terra. 

«State giù, state giù!» urlano i volontari che guidano i mezzi per le evacuazioni appena si sentono gli spari. Eppure, anche se stai viaggiando nel buio di un camioncino con altre dieci persone, un secondo dopo che senti un'esplosione rialzi la testa con il cuore in gola per vedere dove stai andando. Appena metti a fuoco la strada, ti rendi conto che è disseminata di auto e veicoli militari distrutti; mentre dalle case si alzano colonne di fumo nero. 

Quando più mezzi per le evacuazioni viaggiano uno dietro l'altro, le comunicazioni sono solo via radio: «La strada è sbarrata, bisogna girare!». Urlano i guidatori quando in lontananza si vedono corazzati in fiamme che bloccano la via di fuga.

Prendere la strada sbagliata o fermarsi è come giocare alla roulette russa: se un missile centrerà l'auto su cui viaggi è questione di fortuna, non esiste una logica. Appena un furgone pieno di profughi riesce a passare oltre Lysychansk a ovest, non si smette di guardare indietro, verso chi è ancora lì. 

Ogni viaggio trasporta al massimo una dozzina di persone e i mezzi a disposizione sono pochi: bucare una gomma o finire la benzina può voler dire mettere al repentaglio la vita di chi è rimasto dentro le città sotto assedio. Lo sanno i volontari e lo sa chi è riuscito a fuggire. 

A Severodonetsk, ovunque si possa respirare aria pulita, il pericolo di essere colpiti da un proiettile o una scheggia è altissimo. Il problema è che più di diecimila civili nascosti nei bunker devono uscire per forza di casa per cercare acqua e cibo. Escono a piedi o in bicicletta, ma senza sapere se sarà l'ultima volta che potranno fare scorte. Nell'ultima immagine che ritrae Leclerc, si vede il corpo del giornalista con ancora addosso il giubbotto antiproiettile e un kit medico attaccato con un gancio, il sangue gli impregna i vestiti e le braccia sono distese lungo il corpo.

Qualcuno l'ha tirato fuori dal furgone e forse ha provato a fermare l'emorragia. Probabilmente una persona che non ha le competenze per assistere un ferito grave. A Severodonetsk infatti mancano i medici e anche una scheggia grande come un chiodo può ucciderti. Non c'è modo di fuggire: appena senti i colpi vibrare nell'aria devi abbassarti e sperare che al massimo si conficchino nelle lamine del giubbotto. 

Vivere o morire è una questione di fortuna: nel furgone dove viaggiava Frederic è stato ferito anche un poliziotto di scorta, che però si è salvato grazie all'utilizzo dell'elmetto, lo stesso elmetto che non ha protetto Leclerc.

Nell'ultimo fine settimana i volontari del centro per gli aiuti umanitari di Severodonetsk hanno lamentato un aumento dei feriti, ma ora le comunicazioni sono difficili ed è impossibile sapere fino a che punto si siano spinte le truppe russe dentro la città. I bombardamenti, però, non si sono fermati e hanno danneggiato anche un rifugio utilizzato come infermeria dagli stessi volontari che si occupano delle evacuazioni. 

Nel frattempo, il governo russo si è affrettato a far trapelare la notizia secondo cui i droni del Cremlino avrebbero colpito una postazione di artiglieria ucraina dotata di obici di fabbricazione italiana. Purtroppo per Frederic, gli stessi droni non sono stati usati per impedire che venisse colpito un furgone dove viaggiava un giornalista che faceva il suo lavoro.

Ucraina: 29 giornalisti uccisi dall'inizio della guerra. ANSA il 25 maggio 2022.  In Ucraina sono 29 i giornalisti rimasti uccisi in tre mesi di guerra, sette mentre erano in servizio. E in totale, sono stati commessi 280 crimini contro i media. Lo riporta l'agenzia Ukrinform, citando un monitoraggio dell'Istituto dei Mass Media ucraino.

Al 24 maggio, i giornalisti rimasti feriti sono nove e almeno 15 quelli scomparsi. Tra questi c'è anche Dmytro Khilyuk, scomparso nella regione di Kiev durante l'occupazione russa. "Nonostante questa zona sia stata liberata da marzo, l'Istituto dei mass media non è ancora riuscito a trovarlo", si legge nel comunicato.

Durante l'invasione i russi hanno posto sotto sequestro numerose redazioni: sono infatti almeno 113 i media costretti a bloccare le rotative.

Cresce anche il numero di minacce e attacchi informatici contro giornalisti e media: sono 50. "Se all'inizio i russi minacciavano fisicamente (andavano a casa dai giornalisti o dai loro parenti), ora preferiscono farlo su internet", si legge nel comunicato. "Dall'inizio di marzo, - prosegue la nota - c'è stata una costante tendenza all'intimidazione dei giornalisti con minacce di reclusione in Siberia, torture e interrogatori. Perfino la minaccia dell'utilizzo di una bomba atomica, come accaduto alla redazione del Center for Journalistic Investigations 'Force of Truth' ".

Inoltre, i siti dei media ucraini subiscono spesso attacchi informatici da parte dei russi. In questi tre mesi, ne sono stati registrati 32. (ANSA).

Marta Serafini per il Corriere della Sera il 10 aprile 2022.

«Non ha mai avuto paura di niente. Andava sempre dove sentiva di dover andare, e ora l'abbiamo perso». Quando scoppia la guerra, il regista lituano Mantas Kvedaravicius, 45 anni, si trova in Uganda. 

Ma non può restare lontano da Mariupol. Lì ha girato Mariupolis , documentario del 2016, nel quale ha raccontato la vita degli ucraini dopo il conflitto del 2014 tra giornate apparentemente tranquille con la minaccia perenne e costante del conflitto tra separatisti filorussi e nazionalisti. E lì, nella città che ancora non era martire, aveva incontrato persone che, come spesso capita a chi fa il suo lavoro, gli erano rimaste care. 

Così il 24 di febbraio Kvedaravicius si attacca al computer. Trovare un modo per arrivare in Ucraina non è facile, i voli cancellati, i cieli chiusi. Ma lui ce la fa. «Era molto tenace. È andato prima a Copenaghen, poi a Francoforte e a Kiev. Il mistero più grande è come sia entrato a Mariupol attraverso tutti quei cordoni russi», ha raccontato il suo mentore e collega Audrius Stonys, ricordando come Kvedaravicius lo avesse contattato all'inizio della sua carriera di regista, per consigli sul materiale che aveva girato in Cecenia. Ma non solo.

Kvedaravius ha vissuto nel Caucaso settentrionale dal 2007 al 2009, documentando sotto copertura l'impatto della cultura dei rapimenti sostenuti dal Cremlino durante la cosiddetta operazione antiterrorismo russa. In questo periodo, tra i suoi contatti più stretti, la giornalista russa Natalia Estemirova, rapita davanti al suo appartamento di Grozny nell'estate del 2009 e poi uccisa a colpi di arma da fuoco. Sa bene dunque come passare un blocco e come aggirare un ostacolo. 

Avanti veloce di 13 anni. Il 3 aprile scorso arriva la notizia che Kvedaravicius è stato ucciso il giorno prima a Mariupol. A confermarla, su Twitter, l'ambasciatrice della Lituania negli Usa, Audra Plepyte. «Ucciso da un missile che ha colpito la sua auto. È morto prima dell'arrivo in ospedale, dicono le prime agenzie».

Poi ieri i nuovi orribili dettagli diffusi dalla commissaria per i diritti umani del Parlamento ucraino Lyudmyla Denisova su Telegram. «È stato fatto prigioniero dai razzisti, che poi gli hanno sparato. Gli occupanti russi hanno gettato il corpo del regista nella strada. La moglie, rischiando la vita, ha portato il corpo fuori dalla città bloccata e poi in Lituania. La vera causa della morte non è stata annunciata prima che lei si fosse messa in sicurezza», ha spiegato Denisova. Storie, drammi, e lotte per dare una voce a chi voce non ha, che hanno portato a 7 i giornalisti uccisi in Ucraina dall'inizio del conflitto e a 11 i feriti. 

La commissaria ha citato anche Eugene Ball giornalista, scrittore, volontario e membro dell'Unione nazionale dei giornalisti dell'Ucraina Yevhen Bal «morto per le azioni degli occupanti russi»: l'uomo di 78 anni il 18 marzo «è stato sequestrato dall'esercito russo nella sua casa a Melekino vicino a Mariupol. Il motivo della detenzione è il presunto possesso di foto "compromettenti" con l'esercito ucraino. È stato rilasciato tre giorni dopo con gravi percosse. Il 2 aprile è morto». «La sua morte - scrive ancora Denisova - è il risultato delle torture sul giornalista da parte degli occupanti russi».

Parla il reporter di Fox News. Benjamin Hall, il giornalista sopravvissuto all’attacco russo a Kiev: “Perso una gamba e un occhio, ma sono fortunato a essere qui”. Redazione su Il Riformista l'8 Aprile 2022. 

Era il 14 marzo quando, assieme al collega cameraman irlandese Pierre Zakrzewski e alla giornalista-fixer ucraina Oleksandra “Sasha” Kuvshynova, l’auto su cui viaggiava veniva crivellata da colpi esplosi da soldati russi alla periferia della capitale Kiev.

Benjamin Hall, il giornalista 39enne di Fox News unico sopravvissuto a quell’attacco, torna a dare sue notizie a quasi un mese da quell’attacco. Un post sui social del giornalista volto della rete americana, poi rimosso, mostra gli effetti subiti in quei momenti drammatici.

Hall pubblica una foto in cui è steso su una barella, un occhio con una benda nera, e un messaggio di poche righe in cui descrive le sue condizioni di salute: “In sintesi, ho perso mezza gamba, un piede dell’altra. Una mano è tenuta insieme, un occhio non funziona più e il mio udito è piuttosto rovinato”.

Ma la perdita più grande per Hall è quella dei suoi colleghi, morti nell’attacco russo alla periferia di Kiev: “Tutto sommato mi sento dannatamente fortunato ad essere qui – e sono le persone che mi hanno portato qui che sono fantastiche”. 

Il post è poi stato rimosso dai social, ma Fox News ha riportato le sue parole. Stando all’emittente, il reporter ha anche ricordato i colleghi scomparsi. “Devo rendere omaggio a Pierre e Sasha, che quel giorno non ce l’hanno fatta. Pierre e io abbiamo viaggiato insieme in tutto il mondo, lavorare era la sua gioia e la sua gioia era contagiosa. RIP“, ha scritto il 39enne.

Maks Levin, fotoreporter e documentarista, trovato morto vicino a Kiev: "Ucciso da due colpi sparati dai russi". La Repubblica il 2 Aprile 2022. 

Aveva 41 anni e quattro figli piccoli. Da sempre documentava i conflitti e aveva lavorato anche con diverse ong.  

Il fotoreporter e documentarista ucraino Maks Levin è stato ritrovato morto vicino alla capitale Kiev dopo essere scomparso oltre due settimane fa. Lo ha riferito su Telegram il consigliere presidenziale ucraino Andriy Yermak. Levin era disperso dal 13 marzo scorso e il suo cadavere è stato rinvenuto nei pressi del villaggio di Huta Mezhyirska. "Secondo le prime informazioni, Maks Levin è stato assassinato da soldati delle forze armate russe" ha affermato l'Istituto per i mezzi di comunicazione dell'Ucraina, citando la Procura generale dello Stato.

Levin, nato nel 1981, collaborava con testate nazionali e internazionali tra cui Reuters, Bbc e Ap. Lascia moglie e quattro figli minori. Nessuna notizia ancora del collega che lo accompagnava nel servizio giornalistico del 13 marzo scorso, Oleksiy Chernyshov.

"Il primo aprile, dopo approfondite ricerche intorno al villaggio di Huta Mezhyhirska nella regione di Kiev, la polizia ha trovato il corpo senza vita di Maks Levin", scrive Ukrinform citando la testata ucraina per cui Levin lavorava, la LB.ua. Accompagnato da Oleksiy Chernyshov, militare ed ex fotografo, Levin era arrivato a Huta Mezhyhirska il 13 marzo per documentare le conseguenze dell'aggressione russa. I due avevano lasciato l'auto su cui viaggiavano e si erano diretti verso il villaggio di Moshchun. A quel punto però le comunicazioni si erano interrotte. Al momento non si hanno ancora notizie di Oleksiy Chernyshov.

Maks Levin era nato nella regione di Kiev, aveva collaborato con un gran numero di testate internazionali oltre che ucraine, e la gran parte dei suoi progetti erano dedicati alla guerra in Ucraina. "Ogni fotografo ucraino vuole scattare la foto che fermerà la guerra", usava dire. Levin si era però dedicato a diversi progetti a scopo umanitario, legati a organizzazioni internazionali come Oms, Unicef e Osce.

"Il fotoreporter Maks Levin, scomparso dal 13 marzo, è stato trovato morto nella regione di Kiev, stando a quanto riportano i suoi colleghi. Stava documentando l'occupazione russa nel villaggio di Huta Mezhyhirska. Levin era uno dei migliori fotoreporter ucraini, aveva quattro figli. Riposa in pace". Così in un tweet la giornalista ucraina Olga Tokariuk.

Giallo sul cadavere del reporter ucraino: "Morte casuale", "Colpito a bruciapelo". Nino Materi il 3 Aprile 2022 su Il Giornale.

Il giornalista, 40 anni, lascia la moglie e 4 figli piccoli. Il suo ultimo post: "Ogni fotografo vuole scattare la foto che fermerà la guerra".

L'ultimo post risaliva al 13 marzo. Da allora più nulla. Ieri il cadavere è stato trovato fra le macerie. Lì c'era il corpo del fotoreporter Maks Levin, 40 anni, ucraino (ma la nazionalità non è importante, perché il martirio di Maks rappresenta ogni giornalista del mondo). Con Maks salgono a 7 i cronisti caduti dall'inizio del conflitto. Speriamo che la Spoon River di quanti hanno sacrificato la vita per informarci, finisca qui.

Sulle cause della morte di Levin, le versioni divergono. C'è chi dice che è rimasto «vittima casuale dei bombardamenti»; altri sostengono che «è stato ucciso con due colpi di arma da fuoco sparati a bruciapelo dai soldati russi».

La procura penale ucraina ha aperto un procedimento per omicidio e indaga sulla scomparsa di Oleksiy Chernyshov, l'uomo che scortava Maks durante i suoi servizi giornalistici.

A comunicare il ritrovamento del cadavere di Levin è stato su Telegram il consigliere presidenziale ucraino, Andriy Yermak. Levin che lavorava per la testata indipendente LB.ua era conosciuto all'estero e collaborava con Reuters, Bbc e Ap; in passato aveva partecipato a diversi progetti umanitari per organizzazioni internazionali come Oms, Unicef e Osce. L'agenzia Reuters lo ricorda così: «Maks ci ha fornito foto e video avvincenti dall'Ucraina dal 2013. La sua morte è un'enorme perdita per il mondo del giornalismo. I nostri pensieri sono con la sua famiglia». La giornalista ucraina Olga Tokariuk ha twittato: «Levin era uno dei migliori fotoreporter ucraini, aveva quattro figli piccoli. Riposa in pace».

I suoi quattro bimbi - da oggi quattro orfani - possono essere orgogliosi di avere un padre così. Maks era uno bravo, davvero. Pure lui aveva la scritta PRESS sul giubbotto antiproiettile e dall'elmetto militare. Ma, a differenza di vari suoi colleghi (o presunti tali), non ne faceva uno sfoggio compiaciuto ai limiti del grottesco. Tanto ormai la qualifica di «inviato di guerra» non si nega più a nessuno. Levin era su un altro piano: apparteneva a quella categoria di reporter che con i loro servizi (l'opposto di quelli preconfezionati a favore di telecamera) fanno rimbombare l'eco delle granate fin nei tinelli di casa dove noi, «combattenti» da salotto, ci esibiamo nel Risiko delle opinioni trasformandoci in strateghi militari alla von Clausewitz. Nei talk show o nei cosiddetti «programmi di approfondimento» avviene lo stesso, con in più l'aggravante dell'inviato in versione contractor esibito più che altro per dimostrare che non si vive solo di bla bla e litigi da studio, ma anche di «servizi sul campo». Un'ipocrisia da infotainment belligerante cui Maks non aveva mai ceduto, rifiutandosi di fare la foglia di fico per telegiornali a caccia di effetti speciali e pseudo scoop.

Della stessa pasta erano gli altri colleghi di Levin, caduti proprio quando le notizie di cui erano testimoni stavano diventano pagine di Storia. Inevitabile che pure i mass media piangano le loro vittime, soprattutto in tempi di guerra. Ma ancora più grande è il dolore dei familiari. Come sanno bene i parenti dei giornalisti Oksana Baulina; Brent Renaud; Pierre Zakrzewski; Oleksandra Kuvshynova; Viktor Dedov; Yevheniy Sakun, tutti morti descrivendo le fasi cruente dell'invasione russa in Ucraina. Il suo ultimo reportage Levin lo aveva realizzato dal distretto di Vyshhorod per documentare ciò che restava del villaggio di Moshchub, uno dei tanti polverizzati dai missili russi.

Maks è morto come un autentico inviato di guerra sogna di morire: sul campo di battaglia. In una guerra che Levin stava, a modo suo, combattendo per sé, per il suo popolo, ma anche per tutti noi.

La sua ultima frase sui social era stata: «Ogni fotografo ucraino vuole scattare la foto che fermerà la guerra».

Andy Rocchelli, i genitori: “Da 8 anni aspettiamo giustizia da Kiev per la sua uccisione”. IL FOTOREPORTER MORTO IN DONBASS - "Sono coinvolti 3 ex senatori, 2 eroi nazionali e un ex ministro. Le autorità hanno mostrato un’attitudine dilatoria e di depistaggio". MICHELA A.G. IACCARINO su Il Fatto Quotidiano il 30 marzo 2022.

Era il 24 maggio 2014. Era una primavera di boati di obice e crateri di missili a Slovjansk, la città dove verranno colpiti a morte Andy Rocchelli e Andrej Mironov. Si svegliavano quasi sempre prima degli altri per andare a fotografare la guerra del Donbass che oggi è diventata un conflitto su larga scala. “Siamo […]

Giornalisti di guerra, vittime collaterali. Davide Lessi su La Stampa il 30 marzo 2022.  

«Volevo fermare questi volti. Dare loro dignità. Più di quanta già ne avessero nelle foto dei tesserini». C’è Gianluca Costantini, cinquantenne fumettista ravennate, dietro questi ritratti dei giornalisti uccisi e scomparsi in Ucraina. Una matita già nota al pubblico italiano per il disegno simbolo della campagna di Amnesty per Patrick Zaki, l’attivista e studente ancora sotto processo in Egitto. «Il progetto sui reporter uccisi nel mondo è partito anni fa con l’organizzazione non governativa Committee to Protect Journalists. Il primo che ho disegnato era un giornalista filippino nel 2004, poi c’è stato il Messico. Non ho più smesso, ne ho fatti a centinaia». Gli ultimi cinque sono geolocalizzati in Ucraina. «Temo che non saranno gli ultimi e questa tragica lista sarà aggiornata», aggiunge Costantini. Il suo obiettivo, attraverso una sorta di “mappatura”, è creare «un racconto collettivo e parallelo alle cronaca di guerra quotidiana». Basta guardarli questi volti. E leggere le mini-biografie pubblicate a corredo sul sito (channeldraw.org/) per capire meglio cosa sta dicendo. L’ultima è Oksana Baoulina, la giornalista russa del sito di inchiesta The Insider uccisa a Kiev otto giorni fa «da un drone kamikaze», come denuncia Reporters sans frontières. Colpita, in maniera chirurgica, mentre stava documentando l’attacco missilistico di qualche ora prima a un centro commerciale. Ci sono anche due veterani di guerra della Fox News: il cameraman Pierre Zakrzewski, 55 anni, e la giornalista ucraina Alexandra Kuvshynova, detta Sasha, appena 24 anni. Il veicolo in cui viaggiavano alle porte di Kiev è stato bersagliato da colpi di armi da fuoco. E poi il giornalista statunitense Brent Renaud, ucciso a Irpin («Lui lo conoscevo - racconta Costantini -. Era stato anche in Libia e avevo visto dei suoi filmati per documentarmi per un mio libro sul Paese nordafricano»). Senza dimenticare Viktor Dedov, morto tra le macerie della sua casa nella città martire di Mariupol. E infine, quello che forse è il primo reporter caduto di questa guerra: Evgueni Sakoun ucciso nell’attacco missilistico alla torre della stazione televisiva (Kyiv Live Tv) dove lavorava. Non è finita. Nonostante il conto ufficiale parli di cinque reporter morti, la procuratrice generale ucraina Iryna Venediktova ha specificato che «dall’inizio della guerra almeno 12 giornalisti sono stati uccisi, almeno sei rapiti e altri 10 sono rimasti feriti». Vittime collaterali. Poco importa se la Convenzione di Ginevra del 1949 spiega che i «giornalisti che svolgono missioni professionali nelle zone di guerra vengono considerati come civili e protetti in quanto tali». C’è chi preferisce considerarli bersagli, obiettivi da eliminare. «Non è un caso che si colpisca chi vuole testimoniare cosa sta accadendo», commenta Costantini. «In una guerra a fare la differenza sono proprio i reporter che rischiano la loro vita sul terreno». Una storia non nuova, anche in Ucraina. A pensarci bene una dei primi reporter uccisi in questa guerra è stato un italiano: si chiamava Andy Rocchelli e il 24 maggio 2014, nei pressi di Sloviansk (regione del Donbass) fu ucciso con l’attivista russo Andrej Mironov da granate di mortaio. Da otto anni i suoi genitori – Elisa Signori e Rino Rocchelli – chiedono invano giustizia: «Non è solo una questione privata: bisogna punire chi usa violenza contro i giornalisti che rappresentano una spina nel fianco di chi perpetua persecuzioni e discriminazioni». E non è un caso che a finire nel mirino siano quelli che, per dirla con lo scrittore Jonathan Littel, sanno «leggere i conflitti».

È stato liberato il 20 marzo. “Minacciato e picchiato per 8 giorni”: il dramma del giornalista Oleh Baturyn, sequestrato dai russi in Ucraina. Redazione su Il Riformista il 29 Marzo 2022. 

Non è morto sotto le bombe o i colpi di artiglieria russi, ma dalle truppe di Mosca è stato sequestrato, picchiato e minacciato di morte per otto giorni. 

È la storia di Oleh Baturyn, cronista ucraina del quotidiano Novyi Den, che ha raccontato a Repubblica del rapimento, del tempo trascorso in mano alle forze armate russe e della sua liberazione, avvenuta lo scorso 20 marzo. 

Otto giorni in cui Baturyn è stato picchiato e minacciato di morte: “In tutto quel tempo – racconta a Repubblica – mi hanno dato raramente da mangiare o da bere, dormivo su una branda dura come la pietra, faceva un freddo pungente e non mi sono mai potuto lavare”.

Oggi Baturyn è tornato a casa a Kakhovka, nella regione occupata intorno a Kherson. Proprio a Kharkova il giornalista era stato sequestrato il 12 marzo dopo aver ‘abboccato’ ad un appuntamento che celava in realtà una trappola: alle cinque del pomeriggio doveva incontrare alla stazione degli autobus di Kakhovka un blogger locale, Serhij, che gli chiedeva di vederlo di persona. 

“Appena arrivai lì mi resi conto che in quel parcheggio così ampio non c’era alcuna possibilità di scappare. E notai subito uno strano minivan con targa ucraina. Poco dopo cinque uomini scesero dal minivan e corsero verso di me urlando ‘figlio di puttana’. Mi raggiunsero e mi cominciarono a picchiare selvaggiamente. Mi buttarono a terra, mi schiacciarono la faccia sull’asfalto continuando a prendermi a pugni e a calci. Dopo un po’ mi chiesero dove avessi il cellulare e i documenti e ripresero a pestarmi, infuriati che non li avessi con me”, racconta Oleh.

Quindi, con un sacco in testa, inizia lo spostamento: “Quando il minivan si fermò, mi legarono le braccia dietro alla schiena. Volevano sapere i nomi dei giornalisti, degli attivisti pro-ucraini, i luoghi dove ci incontravamo, le identità vere dietro ad alcuni indirizzi Telegram, gli indirizzi di casa”.

Oleh spiega di non aver mai proferito parola con i suoi rapitori, nonostante le minaccia di sterminare la sua famiglia o di sparargli. “Mi davano 350 grammi di una poltiglia disgustosa per una o due volte al giorno”, racconta il giornalista ucraino, mentre col passare dei giorni gli interrogatori si diradarono e non vengono più ‘accompagnati’ da violenze fisiche. 

All’ottavo giorno, senza alcuna spiegazione, Oleh viene rilasciato dai russi. A distanza di due settimane dal rapimento, per Oleh è chiaro che “i russi rapiscono i giornalisti per terrorizzarli, per costringerli a fare da delatori – a me hanno offerto più volte di collaborare con loro – a chinare la testa all’occupante. Ma per quanto mi riguarda, non succederà mai“.

Altri due morti tra gli operatori dell'informazione. La strage dei giornalisti in Ucraina, Pierre e Alexandra come Brent: la tragedia di chi racconta il fronte. Vito Califano su Il Riformista il 15 Marzo 2022. 

Altre due morti sul fronte ucraino, altri due operatori dell’informazione: di quelli vituperati per anni, raccontati come media venduti e prezzolati, e oggi gli occhi e la voce della tragedia in corso in Ucraina, assediata e bombardata dall’invasione della Russia raccontata dal Presidente Vladimir Putin come un'”operazione speciale” di “smilitarizzazione” e “denazificazione”. Due giorni fa, domenica scorsa, era stato ucciso il giornalista americano Brent Renaud. Oggi è toccato ad altri due colleghi che raccontavano la guerra sul campo. Al terzo, coinvolto nell’esplosione fatale, è stata amputata una gamba.

Pierre Zakrzewski e Alexandra Kurshinova sono stati uccisi da un proiettile di mortaio o da una granata dell’artiglieria russa. La dinamica è ancora da chiarire. Erano il primo cameraman di Fox News, la seconda una produttrice e giornalista ucraina. A dare la notizia della morte la stessa Fox News. “Pierre era un fotografo di guerra che ha coperto praticamente tutte le principali storie internazionali per Fox — dall’Afghanistan alla Siria”, ha scritto l’amministratrice delegata di Fox News Media Suzanne Scott. “Aveva ampie competenze e non c’è un compito – da fotografo a tecnico, da editor a produttore – che non abbia ricoperto”. Zakrzewski era in Ucraina da febbraio. La sua base era Londra.

L’anno scorso era stato decisivo nelle operazioni per riportare indietro da Kabul i collaboratori afghani della Fox. E per quell’impegno era stato premiato come “the unsung hero”. Non è chiaro se Kurshinova stesse lavorando anche lei per Fox News o fosse una fixer o in qualche modo una lavoratrice. Benjamin Hall, corrispondente della stessa Fox News, è rimasto coinvolto nell’esplosione fatale. Gli è stata amputata una gamba. Anton Gerashchenko, consigliere del ministro degli Interni ucraino ha fatto sapere che i tre si trovavano nei pressi del villaggio Gorenki, regione di Kiev.

Le Nazioni Unite hanno annunciato l’apertura di un’inchiesta sull’attacco costato la vita ai due reporter. La situazione sta diventando altamente pericolosa anche per i giornalisti ormai in Ucraina: le città sono sempre più assediate, a Mariupol (città martire del conflitto, sotto i bombardamenti da giorni) sono rimasti pochissimi reporter.

Renaud era stato ucciso a Irpin, sobborgo di Kiev. Stava filmando i profughi in fuga dal Paese in guerra quando un colpo lo ha raggiunto al collo. Non c’è stato niente da fare per lui. Altri due colleghi, feriti nell’attacco, erano stati portati in ospedale. In passato Renaud aveva lavorato per il New York Times. Prima di questi era morto il cameraman ucraino Yevhenii Sakun, in un bombardamento alla torre televisiva di Kiev, mentre una troupe di Sky News Uk era stata bersaglio di un agguato.

È stato scritto in questi giorni di quanto sia importante, e anche difficile ma soprattutto necessario, il lavoro degli inviati di guerra. Di occhi e fonti sul campo, quelli puntualmente tagliati dalle spending review dei giornali negli ultimi anni. Serviva una guerra in Europa – anche più vicina, rispetto ad altri conflitti, a noi – per ricordarlo. Adesso li chiamano eroi. Domani potranno tornare a essere giornalisti venduti e prezzolati.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Brent Renaud, 51 anni, il giornalista americano ucciso a Irpin. Redazione online su Il Corriere della Sera il 13 Marzo 2022.

Il cronista stava filmando la fuga dei civili da Irpin quando è stato colpito al collo. Un altro è rimasto ferito e trasportato in ospedale.

Il reporter americano e filmmaker Brent Renaud è stato ucciso a Irpin, vicino a Kiev, nel primo pomeriggio di domenica. Un altro giornalista, Juan Arredondo, che si trovava insieme a lui è rimasto ferito.

Secondo le prime ricostruzioni dell’accaduto, Renaud e il collega stavano filmando i profughi in fuga da Irpin quando sono stati raggiunti da colpi di arma da fuoco ad un checkpoint. Renaud è stato colpito al collo ed è morto all’istante mentre il collega è stato trasferito in ospedale.

«Stavamo attraversando il primo ponte a Irpin con altri colleghi, per filmare i rifugiati in fuga - ha raccontato Arredondo (in un video girato dalla giornalista di «Internazionale» Annalisa Camilli) - Si è avvicinata un’auto che ci ha chiesto se volevamo andare con loro per passare il secondo ponte, abbiamo superato il checkpoint e ci hanno sparato contro. Brent è stato ferito e lo abbiamo dovuto lasciare indietro per fuggire. Sono stato portato qui da un’ambulanza. Ho visto che gli hanno sparato al collo».

— Tutte le notizie dall’Ucraina in tempo reale

Le prime notizie della morte di Renaud (51 anni) sono state diffuse sui social dal capo della Polizia locale, Andrei Nebitov, insieme ai documenti del cronista.

In un primo momento si è quindi diffusa la notizia che Renaud fosse un reporter del «New York Times» perché indossava il badge della testata. È stato poi lo stesso quotidiano americano a smentire che il cronista avesse un incarico da parte del giornale per i servizi in Ucraina, sebbene avesse collaborato con il Times in passato (nel 2015).

«Siamo profondamente addolorati di sentire della morte di Brent Renaud - ha scritto il Nyt in una nota -Brent era un fotografo e videomaker di talento che per anni ha collaborato con noi, ma non era in missione in Ucraina per il New York Times».

Il giornalista Brent Renaud, dal New York Times al reportage sui profughi, ucciso a Irpin: "Colpito al collo". Paolo Brera La Repubblica il 13 Marzo 2022.

Gli ucraini accusano i russi di aver sparato all'auto su cui viaggiava il reporter e videomaker con un collega. Che racconta: "Avevamo passato un check point e hanno iniziato a spararci. Siamo rimasti separati, l'ho visto colpito al collo ma è rimasto indietro". Il Nyt: "Aveva un nostro vecchio badge, ma non era lì per noi. Siamo addolorati". 

Qualche giorno fa era andata molto bene a una troupe britannica di Sky News, salvata dal giubbotto anti proiettile; ma nella follia della guerra la buona sorte non dura per sempre: un giornalista americano, il video e film maker Brent Renaud, 51 anni, è stato ucciso mentre cercava di testimoniare l’orrore dei corridoi umanitari violati, delle vite che sfilano con i bimbi per mano e il terrore negli occhi mentre cercano di lasciare Irpin, il paese alle porte di Kiev su cui da giorni i russi fanno piovere piombo e correre sangue.

Il tentativo di aggirare la capitale ucraina passa da lì, e Brent lo sapeva bene: come altre centinaia di giornalisti, fotografi e video maker aveva varcato i ponti per provare a raccontare quanto sia orribile “l’operazione speciale” che sta martoriando un popolo. Non c’è nulla di più pericoloso che essere lì, oggi, ma Brent non era uno che si tira indietro di fronte al pericolo, quando serve a mostrare al mondo cosa ci sia dietro e dentro le parole.

Insieme al fratello Craig, Brent Renaud aveva vinto decine di premi per i film e i programmi realizzati ovunque i civili paghino il conto, nel mondo, di guerre dichiarate e di scelte scellerate: in Iraq e in Afghanistan, in Libia e in Egitto, nel terremoto di Haiti, nelle violenze terrificanti in Messico… Ha vinto un Peabody, due Columbia DuPont, due Overseas Press Club, un Edward R. Murrow e un IDA, senza contare un’infinità di nominations e gli applausi del pubblico e della critica.

I suoi lavori restano, lui non più. Lo hanno colpito al collo, mentre fuggiva a un’imboscata subito dopo aver passato un check point diretto verso il cuore di Irpin. Di quello che resta, di Irpin: la gente nei rifugi, la fame e la sete, il terrore a mettere un piede fuori ma la consapevolezza che non si può restare oltre. Eppure “l’operazione speciale” di Mosca non riesce nemmeno a rispettare quel briciolo di umanità. Si spara, si bombarda, si colpisce.

Brent non era solo, su quell’auto. Gli altri se la sono cavata, il suo collega Juan Arredondo è stato ricoverato in ospedale, ferito ma vivo: "Avevamo passato un ponte a Irpin, volevamo filmare la fuga dei rifugiati, abbiamo trovato un'auto che si è offerta di portarci al secondo ponte, abbiamo passato un check point e poi hanno iniziato a sparare all’auto. Siamo scesi, lui era dietro di me, è stato colpito al collo, ci siamo divisi, è rimasto a terra", ha detto a una collega che ha raccolto la sua testimonianza in ospedale.

La morsa che si stringe intorno a Kiev - per cingerla d’assedio come i russi hanno fatto con Kharkiv, Kerson e Mariupol - è una presa mortale, un incubo che l’esercito ucraino e le forze territoriali tentano di scongiurare con ogni mezzo. Sulla linea di attrito, i civili languono e muoiono. E muoiono anche i giornalisti che raccontano questa infamia. Brent, che in passato aveva lavorato anche per il New York Times, aveva al collo una press card del quotidiano americano: era una chiave con cui aprire porte, ma non era a Kiev su incarico del Times, che spiega in un comunicato: "Aveva un nostro vecchio badge, ma non era lì per noi. Siamo addolorati".

Stava filmando i profughi ucraini. Chi era Brent Renaud, il giornalista ucciso in Ucraina: dai reportage per il New York Times all’agguato a Irpin. Redazione Libero Quotidiano il 13 Marzo 2022. 

La guerra in Ucraina fa vittime anche tra i giornalisti che in prima linea raccontano il conflitto scatenato dall’invasione Russia. Il giornalista e videomaker statunitense Brent Renaud è morto oggi ad Irpin, vittima di un agguato di truppe russe mentre era in compagnia di un collega, Juan Arredondo, ferito e ricoverato in ospedale.

Proprio Arredondo ha descritto quanto accaduto: “Avevamo passato un ponte a Irpin, volevamo filmare la fuga dei rifugiati, abbiamo trovato un’auto che si è offerta di portarci al secondo ponte, abbiamo passato un check point e poi hanno iniziato a sparare all’auto. Lui è stato colpito al collo, ci siamo divisi, lui è stato lasciato indietro”.

A dare la notizia della morte di Renaud era stato il capo della polizia della King Region, Andrei Nebitov: il giornalista statunitense e il collega stavano filmando i profughi in fuga quando sono stati sorpresi da colpi di arma da fuoco a un checkpoint. Renaud è stato colpito al collo ed è morto all’istante.

Il decesso è stato commentato dal New York Times, il celebre quotidiano della ‘ Grande Mela’ per cui Renaud aveva collaborato in passato. Il NYT si è detto “profondamente rattristato” per la morte di Renaud, “videomaker di grande talento”, che però non era in missione in Ucraina per conto della testata. L’ultima collaborazione infatti risale al 2015. “E’ stato identificato come un nostro giornalista perché aveva un badge che gli era stato dato per un lavoro molti anni fa“, spiegano dal quotidiano.

Renaud aveva compiuto da un mese 51 anni e assieme al fratello Craig ha firmato “Surviving Haitìs Earthquake: Children”, vincitore del duPont-Columbia Award 2012, premiato insieme al progetto multimediale del New York Times “A Year at War” come un esempio di narrazione artistica e interattiva vissuta online.

Ma nella lunga carriera Renaud era stato in prima linea nel raccontare le guerre in Afghanistan e Iraq, i disordini politici in Egitto e in Libia e il terremoto ad Haiti.

Il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha definito “orribile e scioccante” la notizia della morte di Renaud. “Noi seguiremo chiaramente quest’ultimo sviluppo con molta attenzione e risponderemo di conseguenza”, ha spiegato Sullivan.

Chi era Brent Renaud, il reporter ucciso nei sobborghi di Kiev. Meloni: dolore e sgomento. Redazione domenica 13 Marzo 2022 su Il Secolo d'Italia.  

Un video-reporter americano, il 51enne Brent Renaud, è stato ucciso dalle forze russe e due suoi colleghi sono rimasti feriti a Irpin, nei sobborghi di Kiev. Lo hanno annunciato le forze di sicurezza ucraine. I giornalisti stavano filmando i profughi in fuga quando sono stati sorpresi da colpi di arma da fuoco a un checkpoint. Renaud, colpito al collo, è morto sul colpo, mentre i suoi due colleghi sono stati portati in ospedale.

Renaud era un videoreporter apprezzato che collaborava col Nyt

Renaud aveva compiuto 51 anni un mese fa. Insieme al fratello Craig, anche lui regista indipendente, produsse tra gli altri “Surviving Haiti’s Earthquake: Children”, vincitore del duPont-Columbia Award 2012, premiato insieme al progetto multimediale del New York Times “A Year at War” come un esempio di narrazione artistica e interattiva vissuta online.

Raccontava storie di umanità nei punti caldi del mondo

Brent ha passato gli ultimi venti anni a produrre film e programmi televisivi con il fratello. Erano noti per aver raccontato storie di umanità nei punti caldi del mondo: non solo il terremoto di Haiti, anche Iraq, Afghanistan, i disordini politici in Egitto e in Libia, la lotta per Mosul, l’estremismo in Africa, la violenza dei cartelli in Messico e la crisi dei giovani rifugiati in America Centrale.

Il giornalista aveva un badge del Nyt ma non era in missione per quel giornale

Brent Renaud, il giornalista ucciso alle porte di Kiev, non era in missione in Ucraina per il New York Times, scrive Cliff Levy, vice ‘managing editor’ del quotidiano americano, nonché ex capo dell’ufficio di corrispondenza di Mosca. “Brent era un fotografo e videomaker di talento che per anni ha collaborato con noi, ma non era in missione in Ucraina per il New York Times. Il Nyt è profondamente rattristato nell’apprendere della morte di un giornalista americano in Ucraina, Brent Renaud”, aggiunge Levy, in un tweet. L’ultima collaborazione di Renaud con il Nyt risale al 2015, si precisa. “Aveva oggi con se un badge del New York Times che gli era stato dato per un lavoro molti anni fa”.

Irpin è la zona più calda nei pressi di Kiev

“Una zona di conflitto è sempre pericolosa. E Irpin, dove sono stato ieri, è la zona più calda nei pressi di Kiev“, racconta all’Adnkronos il fotoreporter Fabio Bucciarelli, che dalla capitale ucraina sta raccontando il conflitto per Rai 3, Il Fatto Quotidiano, La Repubblica e il giornale tedesco Zeit. Bucciarelli in passato ha collaborato con il New York Times, come aveva fatto Brent Renaud.

Il sindaco di Irpin: da oggi vietiamo ai giornalisti di entrare

“Da oggi vietiamo ai giornalisti di entrare a Irpin – ha detto il sindaco Oleksandr Mrkuscyn – In questo modo vogliamo salvare la vita sia a loro che ai nostri difensori. Esorto tutti i rappresentanti dei media, così come tutti gli ucraini, a non pubblicare sui social network i nostri militari, le loro attrezzature o qualsiasi cosa che indichi la loro posizione! È molto importante”.

Meloni: dolore e sgomento per un giornalista morto sul campo

“Dolore e sgomento per la morte di Brent Renaud, giornalista del New York Times – ha commentato Giorgia Meloni – Un cronista coraggioso, morto sul campo, raccontando l’atrocità di una guerra assurda. Brent è l’ennesima vittima di un conflitto incomprensibile. Cordoglio alla famiglia e un pensiero ai tanti giornalisti inviati che rischiano la loro vita per informarci su quanto sta a accadendo in Ucraina”.

Brent Renaud, dall'11 settembre ai reportage di guerra: chi era il giornalista ucciso in Ucraina. Il Tempo il 13 marzo 2022.

Brent Renaud, 51 anni, era con il collega Juan Arredondo quando è stato ucciso vicino Kiev mentre filmava un gruppo di profughi in fuga da Irpin, in Ucraina. È il primo giornalista ucciso nell'invasione russa del Paese, mentre Arredondo è stato ferito al collo. I due sono stati raggiunti da colpi di arma da fuoco a un checkpoint e Renaud, anche lui colpito al collo, è morto all'istante mentre il collega è stato trasferito in ospedale. 

Renaud, nato il 2 ottobre 1971 nel Tennessee, era un documentarista, fotografo e producer tv vincitore di numerosi premi. Aveva iniziato la sua carriera da reporter con gli attacchi terroristici dell'11 settembre a New York, poi era partito per l'Afghanistan per coprire la guerra. Non era in Ucraina per il New York Times, ma per il quotidiano americano aveva seguito  il terremoto di Haiti, la guerra ai narcos in Messico e la serie tv "Off to War" sulla guerra in Iraq. 

Spesso ha lavorato insieme al fratello Craig, che pare fosse insieme a lui in Ucraina. Insieme avevano prodotto documentari e programmi tv sui disordini politici in Egitto e in Libia, sulla lotta per Mosul, sull'estremismo in Africa, sulla crisi dei giovani rifugiati in America Centrale.

In passato aveva lavorato per HBO, NBC e come detto The New York Times. Il quotidiano newyorkese nell'articolo online che ha dedicato alla morte di Renauld ha spiegato che in realtà le circostanze della morte non sono del tutto chiare e ha riportato le parole di Anton Gerashchenko, consigliere del ministro degli interni ucraino, che ha fatto sapere che il giornalista "ha pagato con la vita" il fatto di voler mostrare "la crudeltà e la spietatezza" dell'esercito russo. 

Renaud aveva collaborato al Nyt anni fa, l'ultimo nel 2015, e non era in missione in Ucraina per il giornale, si legge nell'articolo. La notizia dei rapporti con il New York Times si è diffusa perché sul corpo del giornalista è stato trovato con un badge per la stampa del Nyt relativo a un incarico di anni fa.

Giornalisti nel mirino: reporter britannico in fin di vita. Redazione il 15 Marzo 2022 su Il Giornale.

Un altro giornalista straniero è rimasto "gravemente ferito" mentre seguiva la guerra in Ucraina.

Un altro giornalista straniero è rimasto «gravemente ferito» mentre seguiva la guerra in Ucraina. Si tratta di Benjamin Hall, 39 anni, inviato di Fox News. È stata la stessa emittente americana in un post sui social a precisarne l'identità spiegando che al momento «si hanno pochi dettagli» sull'accaduto. Secondo le prime informazioni Hall stava «raccogliendo informazioni vicino Kiev» e ha riportato fratture da schegge ad entrambe le gambe durante un attacco delle forze militari russe. Secondo le notizie rese note dal procuratore generale Irina Venediktov su Facebook, il giornalista è in terapia intensiva sotto osservazione medica. «Quest'uomo - ha scritto la procuratrice - non era presso qualche struttura militare, che i funzionari russi prendono costantemente di mira. Non trovandosi presso una struttura militare è stato gravemente ferito. Il crimine accaduto l'abbiamo segnalato nell'apposito registro». La Venediktova ha detto di voler fare il punto, in particolare, «sui crimini di guerra che hanno colpito i cittadini dei nostri paesi partner». «Capisco che la questione è delicata, ma conto che i leader del mondo civile si decidano il prima possibile a chiudere i cieli», ha detto il riferimento alla no-fly zone, finora esclusa dalla Nato. La notizia del ferimento del giornalista inglese arriva all'indomani dell'uccisione del reporter statunitense Brent Renaud, ex collaboratore del New York Times. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha presentato ieri le sue condoglianze alla famiglia del giornalista ucciso da un cecchino russo «mentre documentava la spietatezza e il male inflitti alle persone dalla Russia». «Possano la vita e il sacrificio di Brent ispirare il mondo ad alzarsi in piedi nella lotta per le forze della luce contro le forze dell'oscurità», ha scritto su Twitter.

Esplosione di ordigno russo alle porte di Kiev. Il giornalista Benjamin Hall di Fox News ferito gravemente in Ucraina. Giovanni Pisano su Il Riformista il 14 Marzo 2022.  

Dopo l’uccisione del giornalista freelance americano Brent Renaud, 51 anni, un altro reporter è rimasto gravemente ferito in Ucraina in seguito a un attacco russo ed è attualmente ricoverato in terapia intensiva dopo che i medici gli hanno diagnosticato una frattura ad entrambe le gambe. Si tratta di un giornalista britannico secondo quanto ha fatto sapere Iryna Venediktova, consulente legale del premier ucraino Volodymyr Zelensky.

Il ferimento è avvenuto nel pomeriggio del 14 marzo nell’oblast’ di Kiev. Si tratta di Benjamin Hall, 39enne giornalista dell’emittente Fox News Ad annunciarlo anche la stessa emittente con il giornalista John Roberts che ha spiegato: “Al momento abbiamo pochissimi dettagli, ma le squadre sul campo stanno lavorando il più duramente possibile per cercare di raccogliere più informazioni”. Secondo Roberts il giornalista britannico è stato ferito mentre “stava raccogliendo informazioni fuori Kiev”.

Il reporter sarebbe rimasto ferito in seguito all’esplosione di un ordigno ma al momento non ci sono ulteriori dettagli.

Poi l’appello di Iryna Venediktova ai Paese europei: “Capisco che la questione è delicata, ma conto che i leader del mondo civile si decidano il prima possibile per la No Fly Zone. Ancora una volta, vorrei rivolgermi ai nostri partner: un cittadino del vostro paese si trovava sul territorio dell’Ucraina, svolgendo un compito editoriale. Quest’uomo non era presso la struttura militare, che, secondo i funzionari russi, prendono costantemente di mira. È stato gravemente ferito mentre non si trovava nella struttura militare”.

Intanto la Russia respinge le accuse per la morte del giornalista statunitense, Brent Renaud, a Irpin, in Ucraina. “La regione di Irpin era sotto il controllo delle forze armate ucraine”, ha riferito l’ambasciatore russo alle Nazioni Unite, Vasily Nebenzya. Lo riporta Tass. Ovviamente abbiamo perso il conto della quantità di fake news lanciate in queste tre settimane di guerra dalla propaganda del Cremlino.

Giovanni Pisano.  

Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Gli animali. Anna Zafesova per "La Stampa" il 15 maggio 2022.

L'incontro tra i due maschi più popolari dell'Ucraina è stato molto cordiale: il primo ha applaudito, il secondo ha scodinzolato. Il cane Patron è stato decorato da Volodymyr Zelensky con una medaglia per il «servizio fedele», e i fotografi si sono accovacciati sul parquet intarsiato del palazzo presidenziale di Kyiv, ignorando un altro ospite famoso che di solito attira tutti gli obiettivi, Justin Trudeau. 

Forse un po' geloso, il premier canadese non si è aggiunto alla coda di Vip internazionali ansiosi di farsi un selfie con in braccio il cagnetto sminatore - la ministra dell'Interno lettone Marija Golubeva ha addirittura scritto su Twitter che era il sogno della sua vita - ma la fama del Jack Russel di Chernihiv gli ha comunque portato un record di cuoricini sui social.

Patron è l'arma irresistibile dell'offensiva mediatica ucraina. Ha due anni, e il suo padrone Mykahilo Iliev, sminatore della protezione civile, ha fatto leva sul suo amore per il formaggio per insegnargli a fiutare mine: ha già scovato più di 200 ordigni russi. Con la sua pettorina con le insegne dell'esercito e il suo nome (che vuol dire «cartuccia»), il cane-soldato è diventato un simbolo della resistenza, l'incarnazione del mito di Davide contro Golia, piccolo, coraggioso, bravo e «impossibly cute», «irresistibilmente carino», come lo ha definito il New York Times. 

Patrocina raccolte fondi che si chiudono in poche ore, visita bambini negli ospedali e gira video in cui spiega di stare alla larga dai boschi pieni di mine. In pochi giorni si è fatto 260 mila follower su Instagram, spunta da cuscini e tazze, murales e fumetti, sticker e magliette, i bambini di mezzo mondo gli mandano disegni commuoventi, e ora punta a finire sul prossimo francobollo delle poste ucraine, dopo quello andato a ruba della ormai leggendaria nave russa mandata «a quel paese» dai marinai dell'isola dei Serpenti. 

Il Paese che ha eletto presidente un comico sta vincendo la guerra anche nell'immaginario, scrivendo una nuova pagina di storytelling, trasformato in un'arma strategica quanto i cannoni. Ogni episodio, ogni personaggio, ogni frase diventano virali, dalla ormai mitica «buonasera, veniamo dall'Ucraina» del governatore di Mykolaiv Vitaliy Kim, che alterna sul suo canale Telegram annunci di allarmi aerei e meme caustici sui soldati russi, al rap sui droni turchi Bayraktar, scritto dal militare Taras Borovok nei primissimi giorni della guerra. 

Ci sono eroi e icone per ogni categoria di pubblico: Patron commuove grandi e piccini, gli eroi di acciaio di Azovstal contribuiscono al lato epico della resistenza, il tenebroso consigliere della presidenza Oleksiy Arestovich incanta gli intellettuali con i suoi ragionamenti strategici colti. Le intercettazioni delle telefonate dei soldati russi, rilasciate dallo spionaggio di Kyiv per ridicolizzarli come sorta di Sturmtruppen avidi e feroci, sono ormai un genere a parte, e la loro autenticità non ha più nessuna importanza.

Dietro, c'è un ottimo lavoro di professionisti dell'immagine - che mandano all'Eurovosione una canzone pensata apposta per venire cantata in coro dagli spalti - ma anche una creatività diffusa e una comicità naturale, che spinge i kyiviani a tenere spettacoli di cabaret nei rifugi antibomba, come racconta Nika Melkozerova su The Atlantic. 

Non c'è una centrale che produce propaganda, come in Russia, ciascuno può ottenere i suoi 15 minuti di gloria con uno slogan azzeccato, una vignetta divertente o un video al vetriolo, come quelli dei soldati russi che legano ai carri armati lavatrici e frullatori rubati. Ogni giorno porta un eroe nuovo, dal gallo Tosha scappato dai russi insieme alla sua padrona, alla anziana signora che ha abbattuto un drone nemico lanciando un barattolo di conserve di pomodori, al professore universitario che tiene lezioni in Dad dalla trincea, e gli anonimi soldati che lasciano nelle case occupate biglietti come «scusate il disordine, abbiamo dato da mangiare ai gatti». I felini sono un tormentone a parte - anche Patron convive con il serafico persiano Tom - e le foto dei soldati che coccolano gattini salvati dalle macerie fanno concorrenza ai post del micio Stepan, star di Instagram ora rifugiato in Francia. 

Tra i vari registri, dal toccante al drammatico, è l'umorismo a prevalere: combatte l'angoscia, e sdrammatizza la serietà pomposa e intimidatoria della retorica russa. Gli ucraini, dice Melkozerova, «hanno un senso dell'umorismo speciale», e a postare battute, spesso azzeccate, sono perfino generali e ministri (con la visibile eccezione di Zelensky). «Oggi, l'Ucraina è il posto migliore dove scherzare», dice a The Atlantic il comico Anton Tymoshenko: «Se sei bravo, in America al massimo fai uno spettacolo in seconda serata, in Ucraina puoi fare una carriera fantastica: distruggere la Russia».

Fulvio Cerutti e Chiara Grasso per “La Stampa” il 15 aprile 2022.

Reeny è rimasta sulla porta di casa sua. Accucciata in attesa che la sua famiglia torni. Un po' dorme, ma poi si rialza e scruta l'orizzonte. Questo cane, una femmina di Akita Inu, come l'Hachiko della celebre storia giapponese, non sa ancora di essere rimasta "orfana". La sua proprietaria, Tetyana Zadorozhnyak, è stata vittima delle violenze dell'esercito ceceno al soldo di Putin: la donna, rimasta vedova del marito morto per Covid, è stata violentata e poi uccisa a Makariv, un piccolo villaggio in Ucraina.

Reeny è scappata, ma poi è tornata sulla porta di casa sua. Qualcuno ha tentato di portarla via, ma lei ha avuto delle crisi epilettiche tanto era lo stress per non voler essere allontanata da quel luogo chiamato "famiglia". Ora sono stati trovati i parenti di Tetyana che presto se ne prenderanno cura. Lei è scampata alla violenza dei militari, ma non è stato così per tanti altri: in strada non sono stati trovati solo i cadaveri dei civili inermi, ma anche molti cani uccisi dalle truppe russe.

Spesso vittime di violenze che diventano quasi un "gioco", una forma di intrattenimento per giovani soldati che vedono in loro delle vittime ideali: i cani non solo non sono consapevoli di trovarsi di fronte ai loro carnefici, ma, come i civili, sono totalmente indifesi. E così i cani, come gli animali da fattoria o degli zoo, sono stati uccisi dai bombardamenti, dalle granate o dai colpi dei fucili.

E poi ancora altro orrore che si diffonde sui social: alcuni giorni fa Anton Geraschenko, consigliere del ministero dell'Interno di Kiev, ha diffuso le agghiaccianti immagini provenienti dalla zona di Vorzel: su una scala improvvisata con delle assi di legno c'erano le zampe inchiodate di un cane. Accanto una borsa con i resti dell'animale: mangiato, dicono le fonti locali, dai soldati russi ormai privi di razioni militari con cui sfamarsi. Non un episodio isolato: in alcune intercettazioni audio si sente un soldato russo che racconta a un incredulo interlocutore, forse un parente, di essersi nutrito mangiando un cane.

L'uccisione dei cani da parte dei russi rappresenta un attacco al Paese perché, come per i monumenti storici e i beni culturali, sono qualcosa di prezioso per l'identità valoriale delle persone che lo abitano: uccidere quell'animale, che non rappresenta una reale minaccia, diventa un modo per distruggere un simbolo di una quotidianità felice.

Quella quotidianità che migliaia di profughi, in fuga dalla guerra, hanno voluto portare al sicuro con loro. E così le immagini dell'esodo degli ucraini con i cani al guinzaglio, con i gatti nei trasportini, hanno fatto il giro del mondo: persone che hanno preferito non abbandonarli rinunciando ad altri beni materiali che sarebbero stati utili, ma meno importanti di quegli animali domestici che sono parte importante della loro famiglia: da un lato la paura che l'animale possa non farcela da solo e l'ansia di non sapere che fine farà, dall'altro il bisogno affettivo di averlo al proprio fianco per la necessità emotiva di condividere la vita con loro.

Queste tragedie umanitarie ci permettono di comprendere l'importanza degli animali domestici per le nostre vite: sono circa 20 mila anni che il cane cammina al nostro fianco. Le nostre storie evolutive si sono incrociate e da quel momento mai più divise. Questo è quello che in scienza si chiama co-evoluzione: in poche parole l'uomo non sarebbe quel che è senza il cane ed il cane non sarebbe quel che è senza l'uomo.

E dall'animale l'uomo può imparare molto, come dalle immagini che in queste ultime ore sono arrivate da Bucha, città tristemente nota per il massacro di civili in strada da parte delle truppe russe in ritirata. Lì, in un cortile di una casa, tre residenti e un cane sono stati uccisi, mentre un altro quattrozampe è riuscito a fuggire. E proprio quel cane, qualche giorno dopo, è tornato in quel cortile e non ha voluto abbandonare il corpo senza vita dal suo amico animale deposto in una carriola. Lealtà, fedeltà e amicizia come valori simbolo che si contrappongono alla distruzione dell'uomo.

Cani in salvo dall’Ucraina: 82 Golden Retriever, Corgi e Mastiff a Perugia. L’appello: «Portateci scatolette». Rosanna Scardi su Il Corriere della Sera il 21 marzo 2022.

Lontane dalle bombe e con i loro 82 amici a quattro zampe, che hanno dai tre mesi ai sei anni, in salvo. Storia a lieto fine per le sorelle ucraine Tanya e Lyuba, allevatrici di Golden Retriever e altri cani di razza come Corgi e Mastiff. La loro casa a Zaporizhzhia è stata bombardata e il marito di Lyuba è rimasto per combattere contro i russi.

Tanya è arrivata in Italia per prima grazie a una gara di solidarietà messa in moto dal gruppo Amici del Golden Retriever, una comunità on line di cui la stessa allevatrice ucraina fa parte. Il merito è anche dei due autisti campani Giuseppe Perrotti e il figlio Raul che l’hanno recuperata entrando per otto chilometri all’interno dell’Ucraina con il loro furgone che si chiama “In viaggio con Elpis”, come la dea della speranza. La consegna è avvenuta a Užhorod.

Gli animali sono stati portati a Perugia, al Rifugio per cani Agrilia, che ha dato disponibilità per accoglierli. Non tutti, però, erano potuti partire subito: il carico era, infatti, troppo pesante e Lyuba è rimasta in Ucraina con 19 cani. Il ricongiungimento è stato reso possibile grazie ai volontari dell’Enpa che hanno portato in salvo l’allevatrice con i suoi amici.

L’appello di Lia Campriani, proprietaria del rifugio, è di portare scatolette e crocchette.

Choc nel canile di Borodyanka: durante l'occupazione russa morti di fame e di sete oltre 300 esemplari. Alessandro Vinci su Il Corriere della Sera il 5 Aprile 2022.

Erano 485, ne sono sopravvissuti 150. Chiesta la sostituzione dei responsabili della struttura per non aver liberato gli animali prima di fuggire. 

Non solo la popolazione civile è rimasta vittima dell'occupazione russa di Borodyanka, cittadina della regione di Kiev dalla quale le truppe di Mosca si sono ritirate lo scorso primo aprile. Nelle stesse ore in cui il presidente Zelensky informa che sul posto «il numero dei morti potrebbe essere ancora maggiore» di quello di Bucha, rimbalza anche la notizia della drammatica sorte toccata agli animali intrappolati nel canile del luogo: 485 esemplari rimasti senza cibo né acqua dall’inizio della guerra – dunque da fine febbraio – a seguito della fuga dei volontari che se ne prendevano cura. Come riferisce l’associazione UAnimals, ne sono infatti sopravvissuti non più di 150, molti dei quali fortemente debilitati. In 27 sono stati sottoposti a cure mediche urgenti, gli altri dovrebbero (miracolosamente) cavarsela senza ulteriori difficoltà.

Immagini da incubo

Latrati, sporcizia, cani privi di vita pressoché in ogni gabbia. Così tanti da essere portati via gli uni sopra gli altri sulle carriole. Sono immagini da incubo quelle condivise su Instagram dalla stessa UAnimals, i cui attivisti sono stati i primi a rientrare nel canile per verificare la situazione. Altrettanto crudo un video condiviso domenica su Twitter dalla presidente del Center for Civil Liberties Oleksandra Matviichuk, che ha confermato che «questi cani sono morti in maniera dolorosa di fame e di sete durante l'occupazione russa».

La denuncia

Visto l'accaduto viene da chiedersi come mai i volontari, prima di fuggire, non abbiano liberato i cani. Forse contavano di riuscire a tornare già dopo pochi giorni, ma così non è stato. Di conseguenza martedì UAnimals ha reso noto, sempre sui social, di aver denunciato i responsabili della struttura per maltrattamento di animali, chiedendone al contempo alle autorità l'immediata sostituzione. «Tutti i colpevoli della fine di oltre trecento vite dovrebbero essere puniti – ha scritto l'associazione –. Dobbiamo chiedere il conto a tutti coloro i quali hanno pianificato e contribuito alla tragedia del canile di Borodyanka!».

Cani e gatti in guerra: simboli di vita normale che ci aiutano a restare umani. Il primo conflitto in cui gli anche animali domestici sono protagonisti. Quando gli uomini si ammazzano l’un l’altro, l’umanità è affidata al muso impaurito di un gatto, allo scodinzolio incerto di un cane. Fabrizio Rondolino su Il Corriere della Sera il 12 marzo 2022.

Migliaia di persone lasciano il Paese sotto le bombe portando con sé cani e gatti. L’esempio del Fvg: non applicare ai profughi i costi previsti per le procedure di regolarizzazione della posizione amministrativa degli animali

Nelle immagini che arrivano dall’Ucraina e dai suoi confini, insieme ai profughi compaiono cani e gatti. In braccio o nei trasportini, con il collare o al guinzaglio, i pet fuggono dalla guerra, accompagnati dai loro umani. Li si vede spuntare tra i bagagli o in braccio ai ragazzini, meno spaventati dei quanto si potrebbe immaginare. L’ennesima conferma che questi animali fanno parte della famiglia, come si dice spesso, anche in situazioni molto drammatiche. 

Qualcuno li avrà anche abbandonati, non lo si può escludere, ma in molti casi sono stati portati alla ricerca della salvezza. Se ne occupano, in Italia, anche l’Oipa, Organizzazione internazionale per la protezione degli animali, e la Lav, Lega antivivisezione, lav.it, che chiede ufficialmente alle istituzioni — Regioni, Comuni, Protezione civile — di accogliere nelle strutture di accoglienza gli animali insieme ai loro proprietari, senza separarli. E di effettuare la regolarizzazione del passaporto europeo, della vaccinazione antirabbica e del microchip. Pratiche che sono obbligatorie, a spese dei servizi veterinari regionali, come è già stato fatto in Friuli-Venezia Giulia, dato che molti dei profughi sono senza soldi e probabilmente non riescono a effettuare tutte le procedure burocratiche. «Sarebbero inaccettabili discriminazioni di non accesso in hotel, conventi, camping, per chi non si è voluto separare dai propri affetti non abbandonando il proprio quattrozampe», ha dichiarato Gianluca Felicetti, presidente della Lav. L’associazione ha anche organizzato viaggi con un’autoambulanza veterinaria e un furgone con cibo per cani e gatti, in fuga con i loro umani o rimasti nei rifugi ucraini.

Nove cagnolini rimasti nel canile di Beregszasz sono stati invece portati in Italia. Questa attenzione, questa solidarietà oltre la specie, potrebbe sembrare un progresso, una recente conquista «animalista», ma non è del tutto così. Ne dà un’appassionata testimonianza Elsa Morante, grande donna e dunque gattara, nel suo La storia (uscito per la prima volta nel 1974 e poi spesso ripubblicato), ambientato durante la Seconda guerra mondiale, dove gli animali — cani e gatti, ovviamente, presenti persino nei rifugi antiaerei, ma anche canarini, muli, cavalli, passeri, rondini, e molti altri — compaiono quasi in ogni pagina, in carne e ossa o come metafore, e quasi sempre fanno la parte degli ultimi, delle vittime, schiacciati dal peso della Storia che passa come un carro armato. Al tempo della prima pubblicazione questo libro suscitò molte polemiche, appunto perché quasi ignorava le luminose sorti dell’umanità, il progresso, le vittorie, ma descriveva, e Morante se ne fece testimone empatica, la sofferenza muta dei derelitti, di chi non conta, i bambini, gli animali, in molti casi le donne.

Miriam Romano per “Libero quotidiano” il 29 marzo 2022.

Il suo nome, Patron, in ucraino vuol dire pallottola. Indossa il giubbotto antiproiettile dell'esercito e il collare azzurro. Gli occhi piccoli e vispi e le orecchie che si drizzano anche al minimo soffio del vento. Con la coda eretta sta sull'attenti. Un vero soldato. Anzi, uno dei migliori. Dall'inizio della guerra ha trovato e fatto disinnescare quasi 90 ordigni, mine o bombe.

Un record per chiunque, tanto più per un cane di due anni come lui. Un Jack Russell, bianco e fulvo, alto meno di mezzo metro. Nella squadra di artificieri fa il suo compito e riceve in cambio un pezzo di formaggio. Una nota colorata in mezzo agli spari e alle bombe.

In Ucraina c'è la guerra anche per gli animali. Quattro zampe morti, animali soldato e animali profughi. Cani e gatti diventati di colpo randagi, tremano allo scoppio dei fucili.

Mici che si riparano tra le macerie. Cani che fiutano i marciapiedi e si abbeverano nelle pozze d'acqua. Sfilano i carri armati, i soldati imbracciano le armi e gli animali osservano spauriti il mondo che cambia. Schivano colpi, scappano, i loro ululati al cielo chiedono una tregua. E i soldati russi, per non avere noie, spesso sparano. 

Di questo conflitto, ricorderemo per la prima volta, in mezzo agli orrori, anche le foto dei bambini stretti nelle stazioni insieme ai propri cani. Un ragazzo siede sulla banchina della metropolitana di Kiev, con le borse che ha riempito in fretta e furia e in braccio stringe il suo cane. In mezzo a una coppia, seduto, c'è un barboncino. 

Un uomo scavalca un nastro di protezione, in una mano ha un trasportino con un gatto, nell'altra una boccia di vetro con dentro un pesce.

In Ucraina l'attenzione per i quattro zampe è un amore ritrovato. Non è sempre stato così. Nel 2012, quando l'Ucraina insieme alla Polonia si preparava ad ospitare l'Europeo di calcio, era stata fatta una strage di cani randagi per liberare le strade e prepararle a ospitare l'evento. Presi a bastoni e fucilate, uccisi sommariamente con veleni, solo per permettere qualche partita di pallone. Più di 10mila vittime in pochi mesi. 

Oggi, invece, salvare gli animali dalle bombe russe è una missione. Domenica, otto canguri del bioparco di Kharkiv sono stati fatti evacuare, dopo che le bombe hanno colpito la struttura. Le immagini del loro viaggio in un furgone, pieno di fieno e paglia, parlano da sole: gli sguardi incuriositi e uno di loro che, con la testa fuori dal finestrino, fissa la strada. 

L'Oipa International, pochi giorni fa, è entrata in Ucraina e ha consegnato tre tonnellate di cibo e materiali per gli animali con un camion partito dalla cittadina di Gdynia, in Polonia.

Tre giorni di viaggio per arrivare a Leopoli. «Noi non ce ne andiamo, non c'è modo di spostare gli animali in sicurezza». È la risposta unanime che giunge dai rifugi in Ucraina. Scarseggiano cibo, acqua ed elettricità. Ma la resistenza dei volontari non si piega.

L'associazione "Leidaa" di Michela Vittoria Brambilla è riuscita a portare in salvo decine di cani e gatti randagi, vaganti tra le macerie, nascosti in rifugi di fortuna. Superato lo stress delle 50 ore di viaggio, sarebbero pronti per l'adozione, ma l'arrivo degli animali profughi in Italia, al momento è davvero complesso.

Il Direttore generale della veterinaria del Ministero della Salute, Pierdavide Lecchini, ha trasmesso una nota a Regioni e Province autonome che vieta l'introduzione in Italia di cani e gatti liberi sul territorio provenienti dell'Ucraina, per evitare la possibilità di diffusione della rabbia. Una decisione che le associazioni animaliste hanno definito «discriminatoria» e si preparano a dar battaglia. «Il Ministro Speranza dica di sì ai randagi», è il messaggio univoco.

Migliaia di animali dello zoo Mykolaiv di Kiev, il più grande di tutta l'Ucraina, sono intrappolati e rischiano la vita sotto le bombe russe. Quattro sono già cadute sul sito, alcuni animali sono morti, altri rimasti feriti. Il timore che accada di nuovo fa sussultare a ogni rumore. Le gabbie tremano, gli acquari traballano. Ma non c'è alcuna possibilità di evacuazione, lo zoo si trova proprio sul fronte e il freddo complica le cose.

E infine, ci sono storie come quella di Andrea Cisternino, un italiano di grande coraggio. Da anni è in Ucraina a curare il rifugio Kj2, vicino a Kiev, e nonostante gli orrori della guerra non ha fatto le valige. Resiste, insieme a 453 animali delle specie più diverse. I vicini gli portano acqua e cipolle, beve l'acqua del pozzo, bollita, e si prepara alla nascita di un puledro, aspettando un convoglio di aiuti dall'Italia. A lieto fine è di certo la storia dell'orso Vova, che con lo scoppio della guerra si è salvato da una prigionia ventennale. 

Viveva in mostra come intrattenimento fuori da un ristorante nella regione di Khmelnytskyi, nell'Ucraina occidentale, chiuso in un box di cemento. C'è voluta una petizione nazionale per far approvare la legge che ha dichiarato illegale la detenzione di orsi e grandi felini per intrattenimento. Vova è stato liberato e portato nel santuario per animali di Domazhyr.

Irpin, gli abitanti restano per prendersi cura degli animali: "Non possiamo lasciarli soli". La Repubblica il 14 Marzo 2022.

Nella città fantasma di Irpin, un sobborgo vicino a Kiev - teatro dei combattimenti più feroci da quando la Russia ha invaso l'Ucraina – alcuni abitanti hanno deciso di rimanere per prendersi cura degli animali. "Qui non è rimasto niente, stiamo accogliendo i cani randagi perché la gente li ha abbandonati e si è trasferita", ha detto Irina Moprezova, che ha deciso di rimanere nella sua città.

Il popolo ucraino non dimentica gli amici a 4 zampe. In fuga dall’Ucraina con cani e gatti: chilometri a piedi per salvarli, in Italia la solidarietà dell’adozione. Elena Del Mastro su Il Riformista il 14 Marzo 2022. 

L’immagine della famiglia di Irpin trucidata mentre cercava di fuggire in un luogo sicuro ha fatto il giro del mondo diventando una delle foto simbolo del conflitto. Nell’immagine il corpo di mamma e due figli adolescenti riversi sull’asfalto coperti solo da una tovaglia a fiori e accanto un trolley grigio e un trasportino vede con dentro il loro cane.

Alisa di 9 anni e Miketa di 18, assieme alla mamma, Tatiana di 43 anni, volevano scappare e non avrebbero mai lasciato il loro cane, lo stavano portando con loro, era un pezzo della loro famiglia, e con loro ha trovato la morte. E così tantissimi altri ucraini in fuga. Il papà di quella famiglia sterminata a Irpin, affranto dal dolore, ha voluto personalmente dare sepoltura anche al cagnolino morto. Nella sua gabbietta la moglie aveva nascosto i gioielli di famiglia.

C’è chi non avrebbe mai lasciato i suoi cani ed è rimasto con loro sotto le macerie di quel che resta della propria casa. “In settimana partiremo per l’Ucraina per andare a prendere 19 cani. La loro proprietaria non ha voluto lasciarli, nonostante la guerra”, ha raccontato a LaPresse Giusy D’Angelo, esperto cinofilo e membro della Giunta nazionale Enpa. “Andremo a prendere lei e i suoi animali e li porteremo in Italia, al sicuro”.

Poi c’è chi ha tardato la fuga perché non sapeva come trasportare il cane o il gatto. Tante le immagini dai ricoveri sotterranei dove trovano rifugio anche gli amici a quattro zampe. Le stazioni pullulano di bambini che tengono al guinzaglio i loro cagnolini. Poi c’è l’immagine di una bimba che nasconde il gattino nel cappotto: lui gli sta aggrappato al collo con gli occhi sbarrati di paura. 

Un altro uomo ha camminato a piedi per chilometri per raggiungere il confine polacco. Sulle spalle aveva il suo cane che a 12 anni era troppo vecchio per farcela sulle sue zampe. Ma il suo padrone non lo avrebbe mai lasciato lì. Il popolo ucraino non ha dimenticato nessuno di loro. 

“Vedere le immagini dei profughi dell’Ucraina fuggire dal loro Paese con in braccio cani e gatti è un grande segnale di umanità, nonostante la disgrazia”. Lo dice a LaPresse Carla Rocchi, Presidente nazionale Enpa. “Nessuno di loro, sebbene stia vivendo una tragedia, è disposto a lasciare indietro un pezzo di sé, della propria famiglia”, prosegue. “Inoltre è un sentimento condiviso: sia da chi compie quel gesto sia da chi osserva. Nessuno, tra chi ha visto quelle immagini, ha osato criticare, insinuando che sarebbe stato meglio aiutare un essere umano piuttosto che un animale”, sottolinea Rocchi. “Credo anche che il fatto che tutto questo sia avvenuto mentre in Italia i diritti degli animali entravano per la prima volta nella Costituzione sia un messaggio molto importante”, conclude. 

Decine di cani e gatti vengono evacuati in Germania dal canile di Odessa. Lo ha riferito l’ente di beneficenza ‘Rifugio per la protezione e l’assistenza degli animali randagi’, secondo quanto riportano i media ucraini. Il canile si trova vicino all’aeroporto internazionale ‘Odesa’ ed è diventato un luogo ad alto rischio per le operazioni belliche in corso. 

“Sono tantissime le richieste di adozioni di animali provenienti dall’Ucraina. Ma voglio fare un appello ad una adozione consapevole: si tratta, infatti, di animali traumatizzati. Spesso, per colpa delle bombe, sono intolleranti ai rumori”. Lo spiega a LaPresse Giusy D’Angelo, esperto cinofilo e membro della Giunta nazionale Enpa. “Nella migliore delle ipotesi – sottolinea – sono cani e gatti stressati, per il lungo viaggio fino in Italia. Potrebbero quindi aver bisogno d’aiuto dal punto di vista comportamentale, e motivo e veterinario. Bisogna valutare bene se si è pronti ad adottare un animale, perché attraversare l’inferno dell’Ucraina per poi finire abbandonato in Italia sarebbe davvero un’assurdità”, conclude.

“Non ci risultano animali abbandonati al confine con la Slovenia e la Polonia”. Lo dice a LaPresse Giusy D’Angelo, esperto cinofilo e membro della Giunta nazionale Enpa. “Tuttavia, ci sono stati casi in cui i profughi ucraini che hanno portato con sè il proprio animale domestico, una volta arrivati in Italia, si sono visti rifiutare l’accoglienza perché cani e gatti non venivano accettati dalla struttura. Ma piuttosto che abbandonarli li hanno lasciati in un rifugio, mentre cercavano una nuova sistemazione”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Ucraina, anche gli animali sono in fuga dalla guerra. Anna Mannucci Il Corriere della Sera il 12 Marzo 2022.

Migliaia di persone lasciano il Paese sotto le bombe portando con sé cani e gatti. L’esempio del Fvg: non applicare ai profughi i costi previsti per le procedure di regolarizzazione della posizione amministrativa degli animali

Nelle immagini che arrivano dall’Ucraina e dai suoi confini, insieme ai profughi compaiono cani e gatti. In braccio o nei trasportini, con il collare o al guinzaglio, i pet fuggono dalla guerra, accompagnati dai loro umani. Li si vede spuntare tra i bagagli o in braccio ai ragazzini, meno spaventati dei quanto si potrebbe immaginare. L’ennesima conferma che questi animali fanno parte della famiglia, come si dice spesso, anche in situazioni molto drammatiche.

Qualcuno li avrà anche abbandonati, non lo si può escludere, ma in molti casi sono stati portati alla ricerca della salvezza. Se ne occupano, in Italia, anche l’Oipa, Organizzazione internazionale per la protezione degli animali, e la Lav, Lega antivivisezione, lav.it, che chiede ufficialmente alle istituzioni — Regioni, Comuni, Protezione civile — di accogliere nelle strutture di accoglienza gli animali insieme ai loro proprietari, senza separarli. E di effettuare la regolarizzazione del passaporto europeo, della vaccinazione antirabbica e del microchip. Pratiche che sono obbligatorie, a spese dei servizi veterinari regionali, come è già stato fatto in Friuli-Venezia Giulia, dato che molti dei profughi sono senza soldi e probabilmente non riescono a effettuare tutte le procedure burocratiche. «Sarebbero inaccettabili discriminazioni di non accesso in hotel, conventi, camping, per chi non si è voluto separare dai propri affetti non abbandonando il proprio quattrozampe», ha dichiarato Gianluca Felicetti, presidente della Lav. L’associazione ha anche organizzato viaggi con un’autoambulanza veterinaria e un furgone con cibo per cani e gatti, in fuga con i loro umani o rimasti nei rifugi ucraini. 

Nove cagnolini rimasti nel canile di Beregszasz sono stati invece portati in Italia. Questa attenzione, questa solidarietà oltre la specie, potrebbe sembrare un progresso, una recente conquista «animalista», ma non è del tutto così. Ne dà un’appassionata testimonianza Elsa Morante, grande donna e dunque gattara, nel suo La storia (uscito per la prima volta nel 1974 e poi spesso ripubblicato), ambientato durante la Seconda guerra mondiale, dove gli animali — cani e gatti, ovviamente, presenti persino nei rifugi antiaerei, ma anche canarini, muli, cavalli, passeri, rondini, e molti altri — compaiono quasi in ogni pagina, in carne e ossa o come metafore, e quasi sempre fanno la parte degli ultimi, delle vittime, schiacciati dal peso della Storia che passa come un carro armato. Al tempo della prima pubblicazione questo libro suscitò molte polemiche, appunto perché quasi ignorava le luminose sorti dell’umanità, il progresso, le vittorie, ma descriveva, e Morante se ne fece testimone empatica, la sofferenza muta dei derelitti, di chi non conta, i bambini, gli animali, in molti casi le donne.

Una ragazza in fuga dall’Ucraina insieme al suo cucciolo al centro di accoglienza allestito tra Grecia e Bulgaria (Afp/Sakis Mitrolidis)

Rambo, il cucciolo di cane da guardia salvato e adottato dai soldati ucraini in trincea. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 14 Marzo 2022

Questa è la storia di Rambo, così lo hanno chiamato i militari che stanno difendendo il loro Paese dall’invasione russa. «È il nostro protettore, vero Rambo? – dice un militare a FreedomNews.tv – . Ci dispiaceva per lui. Fuori faceva freddo. Lo abbiamo preso nel nostro posto ed è rimasto con noi».

Vagava solo. Infreddolito e in cerca di quell’umanità che in un conflitto non sempre è facile trovare. Ma quel cucciolo di cane quel gesto gentile, quelle attenzioni le ha trovate in un plotone di soldati ucraini. Intanto il cucciolo, davvero piccolo, saltella felice come se fosse in un luogo qualunque. E invece si trova in una trincea, dove la sua presenza e la sua dolcezza sembrano illuminare un luogo dove l’attesa per l’attacco rende il clima ancora più freddo e buio. 

“Lui è la nostra sicurezza. Questo è il suo lavoro –  dice un soldato sottolineando che Rambo è il loro cane da guardia che non ama gli sconosciuti e abbaia ogni volta che qualcosa lo infastidisce – . Può sentire molto bene se c’è uno sconosciuto nelle vicinanze“. 

In realtà lui non è l’unico cane da guardia: nelle trincee ci sono anche altri cani più adulti come Muha, Babai e Malish. “I cani fanno la guardia, ci aiutano. Loro reagiscono ai rumori. Alcune cose che gli uomini non riescono a sentire, il cane lo sente. Loro vivevano qui, alcuni sono nati proprio qui” spiega un altro soldato sottolineando la bravura del cucciolo: “Rambo sta facendo un ottimo lavoro! Il miglior cane”. Redazione CdG 1947

I PATRIOTI.

Aldo Cazzullo. CorriereTv su Il Corriere della Sera il 205 Marzo 2022.

La Resistenza fu una guerra civile, italiani contro italiani. Una delle cose importanti è che non fu soltanto un fatto del nord, ma molti ragazzi del sud che dopo l’8 settembre scelsero di restare nell’Italia settentrionale per battersi contro i nazifascisti. Uno di loro si chiamava Antonio Brancati, siciliano 23enne, membro del comitato militare della Resistenza di Grosseto. Il 22 marzo 1944 venne fatto prigioniero e poi venne fucilato con altri dieci compagni. La sua ultima lettera ai genitori coglie il sentimento di libertà che anima chi combatte contro ogni dittatura.

Aldo Cazzullo racconta i giovani che, in epoche diverse, hanno deciso di andare a combattere per difendere le libertà e i diritti altrui. Aldo Cazzullo CorriereTv su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2022.

«L'appello di Zelensky, l'arrivo di giovani da tutto il mondo che vanno a combattere per la libertà del popolo ucraino, non è un fenomeno senza precedenti: è accaduto altre volte nella storia, e anche nella storia italiana». 

Comincia così il racconto di Aldo Cazzullo sui «Patrioti per un'altra patria»: e comincia con il racconto dell'uomo che, nell'800, era forse il più famoso del pianeta, quello che veniva invocato ovunque ci fossero popoli oppressi, Giuseppe Garibaldi. 

La sua è una vita da romanzo, «i manifestanti chiamavano il suo nome nei cortei», aveva combattuto in Uruguay, di lui hanno scritto Marx, Hengels, Dumas, Hugo: «Ma quando nel 1848 scoppia la rivoluzione in Europa, Garibaldi torna a casa». E lo fa con le camicie rosse — una mossa casuale, divenuta poi altamente simbolica.

Polacchi e ungheresi per Roma - «Patrioti per un’altra patria», la seconda puntata di Aldo Cazzullo. Aldo Cazzullo CorriereTv su Il Corriere della Sera il 16 Marzo 2022.

Garibaldi torna in patria con 62 legionari: Roma è diventata Repubblica e per difenderla arrivano patrioti da tutta Europa e da tutta Italia. La guerra contro i francesi sotto le mura di Roma: gli italiani si battono ma la lotta è impari. Muore a 20 anni Goffredo Mameli. «Chi combatte per la difesa dei diritti degli altri popoli può farlo anche senza l’autorizzazione». Ma la Repubblica cade, Garibaldi vuole ancora battersi: cerca di raggiungere Venezia, muore la moglie Anita, lui riesce a fuggire e va esule a New York dove cercherà un imbarco per una nave. Gli verrà detto di no: è troppo vecchio. Ma Garibaldi e i garibaldini avranno ancora un grande ruolo per l’Italia

Francesco Nullo contro i Russi - «Patrioti per un’altra patria». Aldo Cazzullo CorriereTv su Il Corriere della Sera il 19 Marzo 2022.

Garibaldi e i Garibaldini liberano il Sud e tentano di liberare Roma, ma vengono fermati in Aspromonte dall’Esercito Italiano. Cioé, soldati italiani sparano su Garibaldi che viene ferito a una gamba. Lo scandalo è enorme. Cade il governo Rattazzi e il nuovo governo per rifarsi una verginità, chiede ai Garibaldini di andare a combattere in Polonia per gli amici polacchi contro l’impero Russo. Un po’ come adesso.

Il capo della spedizione è Francesco Nullo, bergamasco, garibaldino, uno degli eroi della spedizione dei Mille. Con lui ci sono 600 volontari cui si aggiungono soldati polacchi e anche i francesi, gli zuavi della morte comandati dal tenente Rocherbrune.

La Legione garibaldina arriva in Polonia il 3 maggio 1863 e c’è subito il battesimo del fuoco. Due giorni dopo, il 5 maggio, c’è una battaglia durissima e Nullo viene trafitto al cuore da un proiettile cosacco. Ha appena il tempo di mormorare: «Son morto». Oggi Francesco Nullo è sepolto in Polonia a Olkusz dove è considerato un eroe nazionale.

In Spagna nel nome di Matteotti - «Patrioti per un’altra patria». Aldo Cazzullo CorriereTv su Il Corriere della Sera il 18 Marzo 2022.

Nel 1936 scoppia la guerra civile spagnola. In Andalusia l’alzamiento di Franco fallì, i padroni delle fattorie scapparono e i contadini si ritrovarono padroni. La prima cosa che fecero fu macellare i tori da combattimento, orgoglio dei proprietari, perché non avevano mai mangiato carne in vita loro. Poi Franco vinse, i proprietari tornarono e i contadini che avevano macellato i tori vennero fucilati.

Arrivarono giovani e volontari da tutta Europa per combattere, alcuni con Franco e molti contro di lui. Tanti erano italiani antifascisti e così nacquero così le Brigate Garibaldi e le Brigate Matteotti.

C’erano socialisti liberali come Carlo Rosselli, repubblicani come Randoflo Pacciardi, comunisti come Guido Picelli e molti altri. Fu una guerra sotto certi aspetti eroica, ma fu anche crudele e vergognosa. Ma di quella guerra va salvato il motto di Carlo Rosselli: «Oggi in Spagna, domani in Italia». Un motto che costerà a Rosselli la vita - verrà assassinato da sicari fascisti in Francia - ma l’embrione della resistenza antifascista era già nato.

Italiani per la Grecia - «Patrioti per un’altra patria». Aldo Cazzullo CorriereTv su Il Corriere della Sera il 18 Marzo 2022.

Generazioni di italiani sono andati a combattere per la libertà della Grecia. Il primo fu il conte Santorre di Santa Rosa, un nome da sussidiario delle elementari. Il conte piemontese che si era battuto per l’Italia e che cade battendosi per i greci l’8 maggio 1825 sull’isolotto di Sfacteria.

Nel 1866, dopo la Terza guerra d’indipendenza una legione di volontari garibaldini va in Grecia a battersi per Creta contro i turchi. Li comanda Luciano Mereu e duemila garibaldini sconfiggono dodicimila turchi: Creta è libera. Nel 1897, trentun anni dopo, di nuovo Luciano Mereu guida i garibaldini in Grecia contro i turchi. Tra loro c’è anche uno dei figli di Garibaldi, Ricciotti Garibaldi. Fu una spedizione sfortunata ma l’unica vittoria greca fu colta dai volontari italiani che sconfissero diecimila turchi. Ma di nuovo Ricciotti Garibaldi tornò nei Balcani per combattere i turchi, stavolta dalla parte degli albanesi. Nel 1912 i volontari italiani sconfissero i turchi a Drisko in una battaglia durata 27 ore, tra il 9 e il 10 dicembre 1912. 

Patrioti, quanti abusi di quella parola. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 6 luglio 2021.  

Sono trascorsi trent’anni esatti dalla nascita, a fine giugno del 1991, del confine tra Slovenia e Croazia, in un’area dove molti hanno sofferto a causa di prepotenze spacciate per amor di patria

«Mio papà era un italiano nato sotto l’Austria-Ungheria, io sono un italiano nato sotto l’Italia, e mi son via via ritrovato jugoslavo e poi sloveno e infine croato, senza mai muovermi da questa casa a due passi dal Dragogna. Maledetta la volta che rinunciai ad andare anch’io in Italia, come la massa degli italiani dell’esodo. Lo feci per non dare un dispiacere a mio papà, convinto che il comunismo prima o poi sarebbe passato ma la nostra terra sarebbe rimasta al suo posto. Mai pentito tanto».

Trent’anni esatti dopo la nascita a fine giugno del 1991 del confine tra Slovenia e Croazia, tirato su lungo il fiume che sfocia a Pirano (prima spaccatura netta nella storia dell’Istria), pochi hanno ricordato l’erezione di quella frontiera che spezzò il cuore a Virgilio Babic stravolgendo la sua vita anche sulle cose più banali: «La casa ce l’ho da una parte, i campi dall’altra», avrebbe raccontato qualche tempo dopo, «La bolletta della luce mi arriva da Buie che è in Croazia e l’acqua da Capodistria, in Slovenia, l’ufficio tavolare è a Pirano, il catasto ancora a Capodistria... Un casino». Quanto all’ospedale, che per gli abitanti dei dintorni era sempre stato quello di Isola di Capodistria, adesso non andava più bene. E i giornali narravano episodi come quello accaduto a Duilio Visentin che, colpito da una emorragia, era stato portato da Portole, ora croata, verso Isola, ora in Slovenia: «Mio marito sta morendo». «Documenti!». «Muore!». «Documenti!».

Il giorno che le ruspe travolsero l’orto e il frutteto di Anna Del Bello Budak a Sicciole di Portorose, il direttore del cantiere, lo sloveno Matia Potocar, rideva in faccia alla contadina sconvolta: «Frontiera? No frontiera! Solo area di sosta. Solo cestna. Capito? Ristrutturazione cestna: strada». Pochi anni e lungo il confine sarebbero state posate enormi matasse di filo spinato. Fu un disastro per la Dieta Istriana, il movimento delle Tre Caprette istriane che pareva in forte crescita e teorizzava una regione europea e autonoma a trilinguismo integrale.

Tutti «patrioti» si definivano, quanti schiacciarono sotto diverse bandiere quella speranza. E ascoltare ancora oggi l’abuso partitico e bellicoso della parola «patrioti», per chi ha conosciuto quella storia di prepotenze spacciate per amor di patria, fa venire l’orticaria.

LE DONNE.

Lugansk, 15enne ferita guida un'auto sotto i bombardamenti e porta in salvo 4 persone: l'intervista. La Repubblica il 6 Maggio 2022.

"Mi sono trovata sotto un bombardamento a Popasna, nella regione di Lugansk. Eravamo in macchina quando all'improvviso i russi hanno iniziato a sparare". Liza, 15 anni, si trovava in compagnia di quattro persone in quel momento, tutti suoi compagni di viaggio. Il guidatore è stato ferito da alcune scheggie così la ragazza ha preso la situazione in mano e ha portato tutti in salvo a Bakhmut, città dell'Ucraina orientale. A raccontare la sua storia è stato il canale "Ucraina-24", che ha raccolto la testimonianza della ragazza mentre questa veniva trasferita in ospedale in ambulanza. L'intervista è stata rilanciata anche dall'ex ambasciatore ucraino in Italia, Dimitri Volovnykiv.

Estratto dell'articolo di Paolo Brera per “la Repubblica” il 30 aprile 2022.

«Fuoco!», urla Tatyana rossetto e obice, le mani nere di grasso, le dita laccate di rosso. È già una star. A tutto rock, a tutto gas: artiglieria su un carro ucraino al fronte, tiktoker con 41mila follower , mammina di due bimbi che la disegnano su un carrarmato verde: «Ecco, questa è la macchina di mamma». Ha 23 anni, i capelli biondi come il grano. Mai senza trucco, mai senza un tocco di charme. È diventata famosa per un video ad alta adrenalina, lì dentro il carro della 58esima brigata di fanteria motorizzata "Hetman Ivan Vyhovsky". […]  

In pochi giorni il video girato da un commilitone è stato visto da milioni di persone. È diventato l'orgoglio del 58esimo: «Tutti lo hanno visto - scrive la Brigata sulla sua pagina Facebook - ma non tutti sanno che si tratta della nostra Tatyana, che in tempo di pace faceva la pasticcera. Voleva studiare da comandante, ma serviva per fermare il nemico. Beh, lo sta facendo alla grande, come potete vedere». 

[…] Ha due bambini a casa ma rischia di morire al fronte, e lo fa con la stessa grinta inflessibile con cui potrebbe partecipare a una finale olimpica. Gloria e bandiera, dedizione e coraggio. Su TikTok è "__Princeska_13_", la Principessa dei garofani. Gvozdika, garofano, è il nome dell'obice semovente di produzione sovietica su cui dà la caccia ai russi.  

Si è conquistata la fama di killer: quindici obiettivi russi distrutti, da quando è al cannone. «Abbiamo combattuto nella zona di Chernihiv», ha raccontato durante una licenza a Nv , un giornale indipendente ucraino. «Gli orchi (gli ucraini chiamano così gli invasori russi, ndr ) stavano procedendo lungo la stessa strada, cercando di arrivare a Kiev. Li abbiamo incontrati... con i fiori, diciamo, con i nostri "garofani", sulla strada maestra». Tatyana è già stata proposta per la medaglia da "difensore della patria", il suo video è stato rilanciato persino dalle pagine social ufficiali del Parlamento ucraino.[…] 

O partigiane. Le donne ucraine che non sono andate via, ma sono rimaste a combattere gli invasori. Riccardo Romani su L'Inkiesta il 12 aprile 2022.

Anastasya, Rosa, Stefania sono tra quelle che hanno scelto di imbracciare il fucile o dare una mano alle truppe. L’obiettivo è uno solo: resistere a un nemico terribile e spietato e riprendersi la libertà. Bucha, spiegano, ha stabilito un muro invalicabile tra “prima” e dopo”. 

Anastasya Merkushina ha capito subito che il 2022 sarebbe stato il suo anno fortunato. È successo quando le hanno telefonato per dirle di fare valigie: «Devi partire per Pechino».

Anastasya, quattro medaglie mondiali nel Biathlon, in verità non si era qualificata per l’Olimpiade, ma quando una compagna di squadra si è presa il Covid, il posto è andato a lei. Quel regalo inatteso del destino le era sembrato un bel modo di iniziare l’anno. Con la pancia appiattita sulla neve, Anastasya ha sparato il suo ultimo colpo di carabina nella gara dei Giochi del 18 febbraio. Due giorni dopo era nella sua casa Sumy, il vivace centro nel nord est ucraino, fondato nel 1650 dai cosacchi in fuga dalle persecuzioni polacche. Ascoltava i notiziari tv con preoccupazione, come tutti, ma se le avessero detto che una settimana dopo qualcuno le avrebbe consegnato una carabina per sparare proiettili veri, gli avrebbe dato del pazzo. Neppure nel peggiore degli incubi si sarebbe immaginata sulla linea del fronte a prendere di mira i soldati russi che hanno invaso il suo Paese.

Adesso è lì che si trova Anastasya, concede frugali interviste via Skype, pubblica brevi video su Instagram. Come quello che mostra la sua città devastata dagli attacchi dell’esercito di Putin.

«Quando penso alle mie preoccupazioni di appena qualche settimana fa, mi sento ridicola. Per capire cosa stiamo vivendo, dovreste svegliarvi terrorizzati alle quattro di mattina per correre in un rifugio. Dovreste sentire dentro il dolore che proviamo nell’osservare le immagini bestiali che provengono da Bucha. Si può morire in quella maniera? Perché i russi sono venuti a ucciderci? Non è vero che sono stati ingannati, sanno esattamente quel che fanno. Ho amici sia in Bielorussia che Russia, nessuno mi ha chiesto come stavo. È questa ancora una guerra?»

La guerra genera domande che cadono a terra facendo un rumore assordante. Le risposte si mescolano alla contabilità ridondante di morti, cannoneggiamenti, orrori e macerie. I luoghi comuni vanno in fumo. Le donne ucraine, nell’immaginario popolare, sono quelle che cercano riparo verso il confine, madri che raccattano l’essenziale per spingerlo dentro a miseri trolley assieme alla loro dignità. Poi attraversi il Paese per quanto sia ancora possibile e incontri le donne che hanno rifiutato l’esilio. Come Anastasya.

Si tratta di un esercito animato da un’intraprendenza febbrile. Studentesse, atlete, imprenditrici o semplici impiegate riconvertite in combattenti, addette alla logistica di guerra, infermiere, operatrici umanitarie. Ogni giorno che passa sotto le bombe, il loro compito si fa più essenziale, le loro voci misurano la temperatura.

Rosa aveva un negozio di fiori in centro a Odessa, si era specializzata in matrimoni e celebrazioni per famiglie: «Con le mie creazioni mi piaceva portare gioia tra le persone». Adesso indossa un’uniforme militare, ha imparato a maneggiare un fucile e porta il cibo ai soldati impegnati sul fronte.

Quello che è successo a Bucha e a Borodyanka ha stabilito un muro invalicabile tra “prima” e dopo”. «Abbiamo visto tutti quelle immagini – racconta Rosa – abbiamo parlato con le persone che sono state sul luogo. Siamo certi che non saranno gli ultimi casi del genere. Parliamo tra di noi di quello che è successo, ci facciamo forza, ma soprattutto ora sappiamo bene con chi abbiamo a che fare. Il nostro è un nemico diabolico e senza regole né pietà. Nei primi giorni di guerra prevaleva in noi un senso di rispetto per le convenzioni, parlavamo col nemico per lo scambio di prigionieri, questioni normali in battaglia. Ma dopo Bucha gli ordini sono cambiati. Non faremo prigionieri. Se i soldati russi vorranno avanzare devono sapere che qui troveranno la loro tomba».

Rosa ha lineamenti garbati, un’espressione mite che deflagra contro l’immagine di lei che imbraccia un’arma. Eppure.

«In questo momento sono la responsabile degli approvvigionamenti per le truppe. Cerco di diffondere buon umore, mi sforzo di sorridere molto con i soldati, ci facciamo un sacco di scherzi per tenere alto l’umore. Ma so anche che se le cose dovessero mettersi male sarei chiamata a sparare. E ti assicuro che sono pronta».

In Ucraina Google cancella dalle sue mappe villaggi e cittadine per non consentire ai russi di avere riferimenti geografici, la sfera del virtuale è stata rimpiazzata – non solo per le indicazioni stradali – da quella delle relazioni autentiche, è il gps dell’empatia che funziona sempre in circostanze straordinarie. Le persone che comunicano dal vivo, nei rifugi come per strada, si toccano, si abbracciano. Le strette di mano che soppiantano i “like”. La tecnologia, con le sue chat criptate, è semplice strumento di sopravvivenza. La resistenza è affidata alle relazioni di cui le donne tirano le fila.

Stefania Sahaidak era un’insegnante fino a due mesi fa, aveva in tasca i biglietti per una vacanza in Spagna. Poi su Odessa è caduto il primo missile. Ha un passato da attivista, ha lavorato per il partito di Poroshenko, avversario di Zelensky. Oggi ha preso in mano un piccolo centro commerciale nel cuore di Odessa e lo ha trasformato in un hub per aiuti umanitari: «Zelensky non mi è mai andato a genio, ma il suo comportamento dall’inizio della guerra ha convinto tutti. Siamo pronti a seguirlo, incarna alla perfezione il sentimento del nostro popolo».

Un sentimento che trasuda orgoglio nazionale, un collante che sta tenendo unite persone di estrazione e culture diverse. «Abbiamo un solo obiettivo, sconfiggere l’invasore russo e riprenderci la nostra libertà. Ognuno ha un suo ruolo preciso, per piccolo o grande che sia, nessuno si tira indietro. All’inizio ho pensato a questa operazione in chiave umanitaria. Oggi il nostro lavoro ci permette di rifornire anche le truppe impegnate nei combattimenti. Collaboriamo con organizzazioni di tutta Europa. All’inizio della guerra ci sostenevano persino un paio di ONG gestite da russi».

Stefania fa una pausa, La voce si fa incerta.

«Quello che è successo a Bucha ha cambiato tutto. Sono entrata in questa guerra prima con incredulità, quindi con sgomento. Credo che ci abbiano aiutato i due anni di Covid, aver vissuto nell’emergenza ci ha permesso di adattarci rapidamente alla nuova situazione. A livello personale ho creduto che fosse giusto mantenere buone relazioni con i russi opposti al regime di Putin, gli amici con cui comunicavamo prima del conflitto. Ma ora è diverso. Ho lasciato posto a una rabbia incontrollabile. Abbiamo interrotto ogni rapporto con tutti i russi che ci sostenevano. Quel che succede non è responsabilità di un esercito soltanto, si tratta di colpe di cui si macchia un popolo intero. Posso solo augurarmi che gli ucraini infliggano ai russi le stesse sofferenze che stiamo subendo noi».

Nei pacchi che stanno per partire alla volta di Cherson, il fronte a sud della guerra contro i russi, le ragazze dell’organizzazione di Stefania, fanno scivolare biglietti di incoraggiamento magari con sopra indicato un indirizzo di mail, nel caso un soldato volesse scrivere per distrarsi. Qualcuna lascia cadere anche una preghiera scritta a caratteri cubitali: «Uccideteli per noi».

Niccolò Celesti per “La Verità” il 4 aprile 2022.

Dopo 38 giorni di guerra ci siamo chiesti come vivono le loro vite sessuali questi soldati e questi volontari, d'altronde si sa da sempre che il sesso è una attività della quale non si può fare a meno neanche in guerra. 

Kiev è una grande metropoli e qui la prostituzione è accettata come in tutti i Paesi dell'Est, passando per il centro si possono vedere alcuni locali di striptease, club privé dalle insegne rosse e le silhouette dalle sinuose forme femminili.

Così veniamo a sapere da un giovane coppia di volontari che il loro primo appuntamento è stato in un ristorante sadomaso a Kiev e parlando con altri ragazzi e ragazze capiamo che qui l'argomento sesso è molto meno tabù che in Italia. 

Nelle trincee da quasi 40 giorni, per i giovani del 206° battaglione, molti dei quali lontani da casa e fidanzate, l'unico svago e sfogo è il cellulare. Alcuni affermano seccamente che il sesso in questo momento non interessa, altri sghignazzano. Si avvicina Vlad e con unA pacca sulla spalla ben assestata ci dice «relax, man!» («rilassati, ragazzo!»).

Non capiamo e lui ride: «Yes, relaxkiev.com». Ci mostra sul cellulare un sito di escort nel quale puoi inserire la città e addirittura il filtro per scegliere che tipo di ragazza, che fascia di prezzo, che servizi e che misure. Sembra di essere sulla schermata dei prodotti di Amazon ma ci sono decine di immagini di belle ragazze in lingerie con il numero di telefono sotto. 

Ce ne sono tante di ragazze, certo molte sono andate via ma se hai la giornata libera non c'è problema. Ride ancora: «Il problema ce l'hanno i miei amici che combattono nei villaggi e nelle campagne, ma credo che loro davvero abbiano altro a cui pensare».

Così ci mettiamo alla ricerca di qualche ragazza con cui cercare di parlare almeno per messaggio, e scriviamo a una decina di profili fino a quando non riceviamo risposta. 

Si fa chiamare Nat. Quando gli spieghiamo che siamo giornalisti italiani in cerca di informazioni, e che siamo vicino a Hostomel con i ragazzi del 206° battaglione, ci risponde in italiano: «Magari un altro giorno, ma mi piace parlare italiano, non faccio mai pratica».

La conversazione va avanti tra un messaggio e un altro. 

Scopriamo una frizzante donna che ci racconta spontaneamente di avere 42 anni, di essere tornata dalla Svizzera due anni fa per la pandemia perché il lavoro si era bloccato e di aver imparato l'italiano a Lugano perché ha lavorato tanti anni nei bordelli vicino all'Italia, dove è venuta tante volte in vacanza. Nelle foto si vede una ragazzona molto alta dal seno rifatto e grandi tatuaggi su cosce e natiche, capelli corti a spazzola, ossigenati, in un completo oro.

Le chiediamo perché ancora non abbia lasciato la città: «Perché dovrei? Ancora i russi non sono arrivati in città e io ho fiducia nel nostro esercito, i russi non entreranno, piano piano stanno tornando in città molti uomini. Non ho intenzione di andarmene». 

Più tardi su un altro sito incontriamo Masha, parla solo inglese ed è sbrigativa, si insospettisce di tutte le nostre domande. Le spieghiamo che vogliamo capire perché non è ancora scappata, se lavora o se fa parte della resistenza. 

È molto sospettosa, così dobbiamo inviarle le fotografie di alcuni reportage, praticamente affrontiamo la stessa procedura che con i permessi militari. Le inviamo le foto, chiede di vedere i soldati russi morti, le chiediamo perché: «Perché sono invasori bastardi».

Masha nelle foto che ci mostra è bionda, giovanissima, e sembra - da come parla - assai spregiudicata. Ci rifiutiamo di mandarle le foto dei soldati russi, non vogliamo alimentare l'odio che in questo Paese è già a livelli altissimi. Le chiediamo un'intervista e risponde chiedendo denaro per un'ora di chiacchiera: 3.500 grivnie (un po' più di 100 euro). 

A uno dei nostri messaggi risponde anche Julia, ci manda subito delle fotografie con il messaggio: «This is me!». Anche a lei facciamo le stesse domande, ma è lei a farcene di più quindi ci dichiariamo subito e sembra accettare la nostra richiesta così ci dice di avere 26 anni e di essere arrivata da Erkasy, una cittadina nel sud dell'Ucraina dove lavorava come venditrice di prodotti estetici in un call center.

«Era un lavoro terribile, pagato malissimo, come gli altri del resto. Non c'è cosa più dolorosa che un lavoro pagato male. La mia famiglia era ultra tradizionale: mia madre non mi ha fatto incontrare ragazzi fino a quando avevo 23 anni, non potevo uscire se non con amiche e solo in determinati posti. Poi me li sono trovata da sola e ho capito presto che forse è meglio ricevere soldi, tanto per la maggior parte i ragazzi non ci sanno fare». 

I messaggi continuano ad arrivare veloci sullo schermo del cellulare, Julia continua a raccontarci che dopo aver lasciato il lavoro e la sua cittadina ha trovato un contatto a Kiev, una di quelle conoscenze che ti trova un posto sicuro dove poter lavorare: «Sono arrivata in un bordello abusivo, un residence con molte stanze e molte ragazze. Lavorava principalmente con uomini d'affari, ricchi stranieri».

Ma lei non andava d'accordo con le altre ragazze e una sera ha conosciuto la sua attuale manager che ora le gestisce gli appuntamenti e l'account sul sito. 

«Dopo che è scoppiata la guerra i clienti sono spariti, per i primi quindici giorni sembra che tutti si fossero scordati del sesso, invece poi il flusso è ricominciato ma principalmente con militari e con quelli che tornano in città dopo aver portato le famiglie verso ovest». 

Ora va spesso a lavorare fuori città vicino ai posti dove ci sono più militari, ma deve sempre stare fuori tutta la notte perché c'è il coprifuoco e sembra molto contenta di questo perché per 12 ore si guadagna molto bene e i ragazzi a volte hanno la notte libera, trovano delle case vicino agli accampamenti e le usano come posto per rilassarsi. Molti invece sono di Kiev e hanno casa in città. 

Le chiediamo in che maniera contribuisce alla resistenza, se pensa che il suo lavoro sia utile al morale delle truppe e se fa sconti per i ragazzi più giovani, come aveva confidato Nat. 

«Non faccio sconti a nessuno, io sono una delle poche ragazze rimasta in città, tutte le altre se ne fregano, sono già andate a guadagnare un sacco di soldi in Ungheria o in Polonia, una è anche arrivata in Italia». 

Mentre parliamo con lei sentiamo alcuni ragazzi dietro di noi che sghignazzano guardando il cellulare e ci avviciniamo; stanno sfogliando anche loro quei siti in cerca di qualche ragazza e cercano di convincere l'unico del gruppo che è di Kiev a prestare la casa per la notte agli altri che hanno libera uscita. Abbiamo risvegliato gli animi e li lasciamo a sognare sugli schermi dei loro cellulari.

Michela Proietti per il “Corriere della Sera” il 27 marzo 2022.

Maria Kozij ha 33 anni, è ucraina e di professione fa la modella. Fino a poco tempo fa il suo lavoro l'ha portata dappertutto: Parigi, Milano, il mondo, come scrive nel suo profilo Instagram, che racconta di un passato recente fatto di passerelle e servizi fotografici. 

Ora vive a Leopoli, a 70 chilometri dalla Polonia: a differenza di altri lei ha deciso di rimanere e di non fuggire. «Molte donne con i bambini piccoli lo fanno e credo che sia una decisione saggia. Ma io voglio aiutare le persone che hanno bisogno di me», dice al telefono, nel tragitto da casa sua alla scuola, che oggi è diventata un rifugio e allo stesso tempo un campo di addestramento per i cittadini che vogliono resistere e combattere.

La paura, e non solo delle bombe, è comunque la sua nuova compagna di vita. «Ogni giorno qui imparo a usare il kalashnikov, un allenatore mi dice come fare», racconta. Il suo «trainer» è un ex militare finlandese arrivato in Ucraina per aiutare la resistenza: dal 24 febbraio, il giorno in cui Maria ha scelto di diventare un'attivista, le insegna a usare la mitragliatrice, per potersi difendere in caso di attacco.

«Sono una persona pacifica, non mangio neppure cibo che provenga da organismi uccisi. Ma se qualcuno attacca me, la mia famiglia e i miei amici, sono pronta a difendermi», spiega Maria. 

A marzo avrebbe dovuto essere alla Fashion Week di Parigi, ma per lei c'era un appuntamento più importante: «Difendere la mia gente». Quando imbraccia il kalashnikov c'è un pensiero di sottofondo: non doverlo usare mai, non averne bisogno. «Significherebbe che devo difendere me o qualcuno vicino a me. Non mi fa paura usare un'arma, ho paura dei russi e di quello che può accadere a una donna in un paese in guerra».

La sua carriera di modella è iniziata a 14 anni, in Ucraina: dopo gli studi in arte e giornalismo ha iniziato a viaggiare il mondo. «Dall'età di 24 anni ho cominciato a calcare le passerelle milanesi e quelle di Parigi e voglio tornare a farlo, ho parecchi appuntamenti in calendario: ma lo farò solo quando avremo vinto, saremo liberi e avrò dato il mio contributo per far ripartire la cultura, l'economia, l'arte e la musica. Prima della guerra ho fatto parte del comitato organizzativo del LvivMozart organizzato da Oksana Lyniv».

Racconta che sono sempre di più le donne che ogni giorno vanno alla scuola per imparare a difendersi e, proprio come lei, a prendere confidenza con le armi. «L'altro ieri abbiamo accolto una donna che è arrivata con un bimbo di appena 5 mesi e anche mia sorella, che ha 20 anni, ha iniziato l'addestramento. Siamo entusiaste di poter imparare a difenderci: ci sono molte donne che oggi combattono in modo ugualmente coraggioso a quello degli uomini». 

La sua vita, fatta di appuntamenti mondani e showroom, oggi è cambiata radicalmente: prima c'erano gli shooting per Charme de la Mode, la sua agenzia parigina, e quelli per Industria Models, quella milanese.

Oggi ci sono l'addestramento, la ricerca continua di un luogo sicuro dove rifugiarsi e il timore di poter essere colpiti. Nessuna delle persone a lei vicine è stata uccisa, ma le arriva l'eco di bambini, donne incinte e persone indifese rimaste travolte dal conflitto. 

«Eppure non ho mai pensato nemmeno una volta che sarei morta: ho troppe cose da fare, voglio aiutare a ricostruire il mio Paese che i russi hanno distrutto con le bombe e le bugie. Quello che abbiamo imparato è che dobbiamo essere forti non solo a resistere a questa guerra, ma a far sì che la guerra non esista mai più. Possiamo farlo solo ricostruendo le nostre scuole e diffondendo la cultura della pace nelle nuove generazioni».

Julia la cecchina ucraina: «I soldati russi sono tantissimi, come gli orchi dei videogiochi». Andrea Nicastro su Il Corriere della Sera il 22 Marzo 2022.

La più famosa tiratrice ucraina: «Quando abbiamo la possibilità di contrattaccare ci fermano dal cielo. Dateci gli aerei». Due giorni prima dell’inizio della guerra, la più famosa tiratrice scelta dell’Ucraina diceva al Corriere che «no, è impossibile». Era convinta che un’invasione su larga scala sarebbe stata ridicola. «A Kiev? Ma va. I russi non sono stati capaci di controllare un Paese piccolo come la Cecenia fino a che non l’hanno venduto ai Kadyrov, figurarsi l’Ucraina che è gigantesca. Però qui in Donbass, sì. Qui potrebbero provarci». E tu Julia, combatterai? Anche adesso che sei diventata mamma per la terza volta? Prenderai il tuo Savash calibro 300 e andrai ad ammazzare i soldati a tre chilometri di distanza? Ad un mese esatto da quella prima telefonata, il cellulare di Julia, detta «Bilka», scoiattolo, torna a squillare. È la prima volta da tre giorni. Prima era sempre staccato. «Cerchiamo di fare più missioni possibile, ma dobbiamo anche riposare. Ho preso servizio il secondo giorno di bombardamento. Ho sbagliato previsione, è vero. Ma resta una cosa incredibile, assurda»

Dove sono i figli? Dov’è tuo marito?

«Lui è con me, in prima linea. Combattiamo assieme. I ragazzi sono con mia madre e il bancomat. Li sento, hanno paura, ma sanno che lo stiamo facendo per loro. Sono orgogliosi».

Che guerra è, Bilka?

«Rispetto al 2014, all’epoca dell’invasione del Donbass, è proprio diversa. Non per le armi o cosa, ma per la quantità di scontri. Loro hanno tantissimi soldati. Più ne eliminiamo e più ne arrivano. Sono come gli orchi nei videogiochi dei miei figli».

E c’è anche l’aviazione.

«Già. Perché l’Europa non si rende conto? Perché non chiude i cieli? Dopo di noi, toccherà a voi. Ci sono state tantissime occasioni nelle quali avremmo avuto la possibilità di contrattaccare e invece ci fermavano dal cielo. A Mariupol, poi. Per quanto siano coraggiosi, come fanno a resistere?».

Non siete mai riusciti a rompere l’accerchiamento? Portare rifornimenti, munizioni?

«Impossibile, i russi sono troppi. Anche il sindaco è qua da noi, ormai quelli laggiù devono fare tutto da soli».

Sicura? Il sindaco di Mariupol, Vadym Boichenko, non è più in città?

«Da un bel po’, quello che scrive lo sa da altri».

E i russi? Come combattono?

«Hai presente un gran signore dopo che è stato rapinato? Ha il cappotto, ma è strappato. Il portafoglio, ma è vuoto. Il cappello ammaccato. Ecco l’armata russa mi dà l’impressione di essere stata appena rapinata. Non hanno neanche le uniformi in ordine. Non riescono nemmeno a riparare una ruota bucata perché gli manca il camion officina e quando c’è non ha i pezzi di ricambio. Dev’esserci stato un mangia-mangia colossale. Il risultato è che i soldatini in prima linea sono demoralizzati, impauriti. Appena possono disertano. Scappano o si danno prigionieri».

Ci sono storie di carri armati consegnati a voi ucraini.

«Spesso i soldati russi usano sim ucraine rubate per chiamare a casa e la nostra intelligence li inonda di sms. Arrenditi, telefona a questo numero e organizzeremo il passaggio tra le nostre linee. Non ti verrà fatto nulla. Roba così. A volte funziona. Fanno pena poveretti. Vengono da lontano, sono tutti meravigliati delle nostre belle strade, belle case. Qualcuno credeva di doverci venire a salvare, altri non sapevano neanche di dover venire qui. Ci toccherà dare la cittadinanza a tutti loro. In Russia non possono di certo tornare».

Se sono così disastrosi perché non avete già vinto?

«Perché sono tantissimi e perché noi non abbiamo aerei. I loro movimenti sono abbastanza ripetitivi. Si mettono in colonna, con i tank e la logistica. Una coda lunga chilometri. Se li attacchi da terra mentre sono in formazione sei morto. Quando invece passano all’attacco, allora si dividono in unità più piccole e a quel punto sono più aggredibili».

Non avete armi occidentali? I Javelin anticarro farebbero strage. Anche in colonna.

«Sì, li abbiamo, ma sono utili in un combattimento ravvicinato. Quando con una squadra riesci a neutralizzare quasi tutti i mezzi prima che ti individuino e ti annientino. Quando invece hai davanti una colonna lunga chilometri devi stare al riparo. Lontano chilometri e chilometri. Sono tank, mica giocattoli. Ti servirebbe l’artiglieria, ma loro hanno gli aerei e ce la distruggono. E voi occidentali, l’aviazione, non ce la date».

Allora?

«Ci arrangiamo con i droni turchi, i Bayraktar TB2. Una meraviglia. Più volte mi è capitato di vederne uno nostro in cielo assieme a un loro caccia e dal jet non vedevano quel moscerino. Però quando sgancia il suo missile il tank è andato».

Attraversando i check point russi non si ha la sensazione di quell’armata allo sbando che descrivi.

«Ci sono due tipi di soldati tra loro. Quelli in prima linea, che sono anche di leva, e quelli delle retrovie che sono i “karivovzy” i ceceni del presidente Kadyrov. Quelli non vengono avanti, ma sono sempre ben vestiti, con le barbe pettinate. Loro formano i zagrad otriad (plotoni di tamponamento). Sparano se qualcuno retrocede. E uccidono anche i feriti. Il colpo di grazia, dicono, ma non sono sicura che qualcuno avrebbe potuto salvarsi. In sostanza i ceceni fanno da argine alle spalle dei soldati russi, con l’autorizzazione a sparare».

Mai affrontato un kadirovky?

«No. Sono ancora più indietro rispetto al nostro raggio d’azione. Noi abbiamo piani d’incursione dietro la loro prima linea per tagliare i rifornimenti. Attacchiamo le cisterne, i camion logistici, obbiettivi con una reazione meno potente. Per i carri armati ci vorrebbero proprio i jet. Voi europei siete proprio sicuri di non voler chiudere i cieli?».

Dagospia il 23 marzo 2022.

Giulia Schiff, ex pilota dell’aeronautica militare, dall’inizio della guerra è a Kiev per combattere come volontaria nelle Forze Speciali della Legione Internazionale in Ucraina. Ed è l’unica donna del gruppo.

“Le Iene” stanno realizzando con la giovane pilota veneziana un reportage che durerà finché sarà in missione. La prima parte andrà in onda domani sera, mercoledì 23 marzo, in prima serata su Italia 1. L’allieva dell’Accademia di Pozzuoli che aveva denunciato più volte, anche ai microfoni della trasmissione, di essere stata vittima di mobbing e nonnismo, durante il suo “battesimo del volo”, non ha rinunciato al sogno di poter aiutare il prossimo, decidendo di partire per unirsi ai soldati giunti da tutto il mondo nelle terre del conflitto. Nonostante sia stata espulsa dall’Aeronautica Militare, dopo una lunga battaglia legale arrivata a conclusione pochi mesi fa quando il Consiglio di Stato respinse il suo ricorso mettendo fine alla sua carriera di pilota, la 23enne non si è mai arresa.

Giulia Schiff, cacciata dall’Aeronautica ora fa la legionaria contro la Russia.

La 23enne di Mira è ex allieva dell’Accademia Aeronautica di Pozzuoli da cui fu espulsa nel 2018 dopo aver denunciato le violenze subite dai commilitoni durante il rito del «battesimo del volo»: «Agire è un dovere». Stefano Bensa su Il Corriere della Sera il 22 Marzo 2022.

«Non vedo da parte dell’Europa la reazione che meriterebbe lo scempio che sta subendo l’Ucraina da parte di Putin. Non ci sono giustificazioni per non reagire. Bisogna soccorrere un Paese che non si può difendere da solo invaso da una delle potenze del mondo tra l’altro con motivazioni ridicole... a maggior ragione che è nostro vicino di casa». Era il 25 febbraio, il giorno dopo lo scoppio della guerra avviata dalla Russia, quando Giulia Jasmine Schiff manifestava su Facebook la propria indignazione per quanto stava avvenendo nel cuore dell’Europa. Un post che passò quasi inosservato, e che nessuno avrebbe immaginato celasse le vere intenzioni della giovane di Mira, 23 anni, ex allieva dell’Accademia Aeronautica di Pozzuoli da cui fu espulsa nel 2018 dopo aver denunciato le violenze subite dai commilitoni durante il rito del «battesimo del volo»: andare a combattere al fronte.

La partenza in gran segreto

Perché pochi giorni dopo, in gran segreto, Giulia è partita - da sola - per l’Ucraina. Con lei, giusto uno zaino. Ed oggi, a quasi un mese dall’esplosione delle ostilità, la 23enne si trova al fronte, arruolata come volontaria nella «International Legion of Territorial Defense of Ukraine», unità militare creata sotto la guida del presidente Volodymyr Zelenskyy per unirsi alla difesa dell’Ucraina contro l’invasione russa. È stata lei stessa a comunicare la decisione a Roberta Rei, l’inviata delle «Iene» — il programma di Italia 1 — alla quale ha appena consegnato una serie di «reportage» sul campo che saranno trasmessi da questa sera. «Mi ha telefonato dicendomi: “domani parto”. Sono rimasta impietrita», spiega la giornalista di Mediaset.

Si tratta dell’unica donna della legione

Il viaggio di Giulia Jasmine Schiff si è svolto in varie tappe, coperte perlopiù dal segreto. Finché, grazie ad alcuni contatti sul posto, è riuscita ad entrare nel gruppo militare. Si tratta dell’unica donna della legione, di cui sarebbe già divenuta una sorta di mascotte. Dopo alcuni giorni di addestramento (che, però, non hanno previsto il volo) la giovane veneziana sarebbe stata impegnata nelle prime missioni, fucile in mano, attorno a Kiev. Ma dove si trovi esattamente è impossibile saperlo: questioni di sicurezza. Anche il suo cellulare, ieri sera, risultava irraggiungibile. Nelle uniche finestre concesse per comunicare Giulia ha inviato i primi video a Roberta Rei, con la quale strinse un rapporto d’amicizia ai tempi dell’espulsione e della relativa causa giudiziaria (che perse di fronte al Tar) per il reintegro nell’Accademia Aeronautica. «L’ho fatto — avrebbe confessato Giulia Schiff a proposito dell’arruolamento fra i legionari — perché sono nata per questo, per aiutare i nostri fratelli ucraini e per evitare che la guerra giunga fino a noi». «Sono controcorrente — avrebbe aggiunto —: mentre tanti fuggono io mi dirigo verso le zone dei combattimenti». Alcune tracce dell’avventura in guerra sono visibili su Instagram, dove la giovane si definisce «legionaria» mostrandosi in divisa (con la dicitura «somewhere on earth», da qualche parte sulla terra), accanto ad un fucile da combattimento e condividendo pochi secondi di un video girato fra le strade di quella che si presume essere la capitale ucraina.

Non è intenzionata a rientrare fino alla fine del conflitto

Secondo quanto rivelato a Rei, il soldato Giulia non avrebbe intenzione di rientrare in Italia fino al termine del conflitto, impegnandosi con i compagni per tentare di respingere l’avanzata russa. Del resto, come scrisse sempre su Facebook, a suo avviso era necessario agire in qualche modo: «Quante parole inutili, ma quali sanzioni? Perché potremo veramente aiutare e invece stiamo a guardare? Veramente — disse sulla sua pagina social — si stanno preoccupando del prezzo del gas e dei profughi che emigreranno? Tutta questa ipocrisia avrà delle conseguenze. Vergogna».

Cacciata "inattitudine militare e professionale", i suoi video dal fronte a "Le Iene". Giulia Schiff, la pilota espulsa dall’Aeronautica ora combatte in Ucraina: “Presa a schiaffi e frustate durante battesimo di volo”. Redazione su Il Riformista il 23 Marzo 2022. 

“Bisogna soccorrere un Paese che non si può difendere da solo, ma quali sanzioni?“. Così è partita in segreto per l’Ucraina per combattere come volontaria e adesso fa parte delle Forze Speciali della Legione Internazionale, creata dal presidente Volodymyr Zelensky per supportare l’esercito ucraino contro l’invasione russa avvenuto lo scorso 24 febbraio. Giulia Schiff, 23 anni lo scorso 2 gennaio, è un’ex pilota dell’areonautica militare, dalla quale è stata espulsa dopo una vicenda giudiziaria partita da una sua denuncia per mobbing e violenze, che avrebbe subito durante il suo ‘battesimo del volo‘ dopo il percorso di formazione all’Accademia aeronautica di Pozzuoli (Napoli).

Originaria di Mira, comune in provincia di Venezia, Giulia Schiff è l’unica donna presente nelle Forze Speciali della Legione Internazionale in Ucraina. Da giorni è nei pressi di Kiev per combattere come volontaria. Il suo viaggio e l’esperienza in un territorio di guerra verranno raccontati in un reportage che verrà trasmesso da “Le Iene“, a partire dalla puntata di mercoledì 23 marzo su Italia 1. La 23enne “non ha rinunciato al sogno di poter aiutare il prossimo, decidendo di partire per unirsi ai soldati giunti da tutto il mondo nelle terre del conflitto” spiega in una nota la trasmissione Mediaset.

Lo scorso 25 febbraio, il giorno dopo l’invasione dell’esercito di Vladimir Putin, Giulia così commentava sui social: “Non ci sono giustificazioni per non reagire. Bisogna soccorrere un Paese che non si può difendere da solo invaso da una delle potenze del mondo tra l’altro con motivazioni ridicole… a maggior ragione che è nostro vicino di casa. Quante parole inutili, ma quali sanzioni? Perché potremo veramente aiutare e invece stiamo a guardare? Veramente si stanno preoccupando del rincaro del gas e dei profughi che emigreranno? Tutta questa ipocrisia avrà delle conseguenze. Vergogna“.

La 23enne ha inviato i primi video della sua esperienza nella Legione Internazionale all’inviata delle Iene Roberta Rei. Nelle sue storie su Instagram la si vede poggiata a un tavolo in divisa militare e con un fucile accanto. In un altro breve video Giulia è in un’auto, presumibilmente nella zona di Kiev, e mostra i danni del conflitto che ha raggiunto quasi il suo primo drammatico mese. 

Giulia Schiff nel giugno 2018 è stata espulsa dall’Aeronautica per “inattitudine militare e professionale” dopo aver denunciato presunte violenze durante il battesimo del volo avvenuto il 7 aprile 2018 a Latina. Decisione confermata circa un anno fa anche dal Consiglio di Stato che ha respinto il ricorso presentato dai legali della 23enne.

L’ex allieva, che ritiene l’espulsione come una ritorsione, ha diffuso anche un video in cui viene colpita con schiaffi e frustate dai colleghi adesso imputati nel processo in corso a Latina. Otto sergenti del 70esimo Stormo accusati di violenze che si difendono sostenendo che le azioni commesse non vanno inquadrate come atti di nonnismo bensì come tradizione goliardica che avviene durante il battesimo del volo.

La difesa dei sergenti punta anche sul ritardo della denuncia presentata dall’ex allieva che non avrebbe “prodotto alcuna prova documentale a conforto della rappresentata tesi”, Inoltre non sarebbero stati allegati referti medici delle presunte violenze subite.

Da Kiev a Kabul, la resistenza delle donne assediate dai conflitti. C’è chi si rifugia in Italia e chi dall’Italia aiuta i parenti in fuga. Il dolore e la testimonianza delle donne ucraine colpite dalla guerra. Francesca Spasiano su Il Dubbio l'8 marzo 2022.

L’8 marzo quest’anno ha il volto di Olga. E di chi come lei, con il cuore in Ucraina e un tetto in Italia, non condivide la Festa perché le donne sono in guerra. «In casa siamo in lutto. Io e le mie figlie ci sentiamo in colpa: non possiamo permetterci di ridere e scherzare», racconta quando la raggiungiamo al telefono.

Olga ha 41 anni, e da quindici vive e lavora a Reggio Calabria, come assistente in uno studio di commercialista. Da appena una settimana l’ha raggiunta sua madre: lunedì scorso ha lasciato l’Ucraina con uno di quegli autobus colmi di donne, anziani e bambini che dal centro di raccolta di Leopoli partono verso l’Italia. Per arrivare in Calabria ci sono voluti tre giorni. Sua madre aveva con sé un po’ di cibo, racconta, da condividere con chi scappa sprovvisto di tutto. Ma dietro di sé ha lasciato un’intera famiglia. Come la sorella di Olga e i suoi figli, o i suoi cugini che, giovanissimi, si sono uniti ai combattimenti. «Non facciamo che piangere tutto il giorno, mentre viviamo questo incubo improvviso e inaspettato…», spiega ancora Olga. Non immaginava che il conflitto esplodesse davvero. Non immaginava di ritrovarsi con il cuore in gola mentre sua madre, anziana, si precipitava in Calabria. E continua a ritenersi fortunata, una privilegiata. Impotente di fronte ai racconti di sua madre, che dopo aver vissuto un viaggio straziante, le ha parlato di donne e bambini che non hanno nessuno qui ad aspettarli.

La testimonianza delle donne ucraine: guarda il video

Nelle sue parole si legge la frustrazione e la rabbia di un’intera comunità, la più grande d’Europa, di oltre 240mila ucraini residenti in Italia. Di cui 190mila sono donne, lavoratrici, protagoniste in questi giorni di una straordinaria mobilitazione. Parliamo di una rete di accoglienza che garantisce sicurezza a migliaia di persone in fuga — 17.286 i cittadini ucraini entrati in Italia dall’inizio del conflitto, secondo le stime del Viminale, di cui 8.608 donne, 1.682 uomini e 6.996 minori — grazie a un movimento di solidarietà spontanea senza precedenti. Come è forse senza precedenti l’effetto di questa guerra che spezza e disgrega le famiglie di civili al confine, dove padri e mariti accompagnano figli e mogli per poi tornare indietro e unirsi alla resistenza. Secondo le stime dell’Unhcr, l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati, sono oltre 1 milione e 700mila le persone che hanno lasciato l’Ucraina dall’inizio del conflitto per cercare riparo nei paesi vicini o ricongiungersi con i parenti in Europa. Un esodo destinato a crescere — il più significativo movimento di migranti forzati registrato in Europa dalla Seconda Guerra mondiale — sorretto dalla solidarietà: di chi accoglie e di chi torna indietro, in Ucraina, per difendere il fronte. «Molti vogliono combattere — ci racconta un avvocato dell’Unhcr — e ogni giorno li vediamo con i nostri occhi separarsi dai propri affetti alla frontiera».

Gli uomini certo, ma anche le donne: quelle arruolate rappresentano circa il 15% delle forze armate. Molte altre in questi giorni imbracciano un’arma e si improvvisano combattenti, oppure sostengono la resistenza con ogni mezzo possibile. Altre ancora sfidano i bombardamenti per salire sul primo autobus e portare in salvo i figli. In Italia, quando possibile, o in Ucraina, nelle città dove le bombe non sono ancora arrivate. Come nel caso di Irina, che insieme ai suoi bimbi piccolissimi — uno di sei, l’altro di un anno e un mese — ha lasciato Kiev non appena è esploso il conflitto. «Sono partita all’alba — racconta — portando con me solo i documenti e qualche pannolino. Ho lasciato Kiev per raggiungere i miei genitori in macchina, fuori dalla città, ma poi la guerra è arrivata anche lì». Il 28 febbraio, quattro giorni dopo l’inizio dell’invasione russa. «Ora siamo senza luce, né acqua. Possiamo usare un generatore per un’ora al giorno. Lavo i bambini con l’acqua piovana… e non posso credere che stia succedendo. Perché sta succedendo?», continua a ripetere Irina. La sua testimonianza dà la misura della disperazione che si nasconde nelle cose più semplici: il ristorante dove era solita cenare con i suoi parenti è interamente distrutto, il mondo che conosceva si sta sgretolando. Non sa come farsi bastare i pannolini, non sa che rispondere alla bambina più grande che vorrebbe tornare nella sua cameretta. È la guerra che cambia ogni prospettiva, che ribalta ogni paradigma, e ci fa interrogare su quanto riteniamo scontato.

L’altro dramma, in Afghanistan

«Le donne in Afghanistan si scontrano con molti ostacoli per via delle restrizioni di genere imposte dai talebani, che hanno intaccato la capacità delle donne di godere dei loro diritti fondamentali», racconta al Dubbio Angiza Nasiree, giurista afgana rifugiata in Canada. Dopo che lo scorso agosto i talebani hanno ripreso il potere, spiega, «soltanto una minima parte di donne, in alcuni settori specifici che sono quello sanitario e dell’istruzione, hanno avuto il permesso di andare a lavorare, ma purtroppo non è una situazione generalizzata in tutto il paese. Altre donne che sono dipendenti statali, incluse le mie colleghe al ministero degli Esteri, non hanno il permesso di andare in ufficio. È aumentata la violenza nei loro confronti e questo ha un impatto sulla loro libertà di circolazione, espressione, informazione, protezione, istruzione e occupazione», spiega ancora Angiza. Che per l’8 marzo vuole condividere un messaggio di speranza e solidarietà: «Non dimenticatevi di noi — dice —. Abbiamo ancora bisogno di aiuto. Vorrei che le amiche e gli amici italiani possano essere la nostra voce, la voce che è ancora negata alle donne afghane».

Le donne soldato dell’Ucraina: dure, tante e pronte a minacciare i russi. Giampiero Casoni l'08/03/2022 su Notizie.it.

“Abbiamo messo in sicurezza i nostri figli e adesso prendiamo le armi", sono le donne soldato dell’Ucraina che nei filmati minacciano le truppe russe. 

Le donne soldato dell’Ucraina sono dure, tante e pronte a minacciare i russi e il ministero di Kiev lo ha voluto far sapere proprio nella iconica ricorrenza dell’8 marzo. Fra video social, effettiva presenza negli organici in divisa e militanza in formazioni partigiane non ufficiali le combattenti ucraine sfidano Mosca a viso aperto.

Secondo il ministero degli Esteri il 15% dei soldati ucraini che combatte l’invasione russa è di sesso femminile, una percentuale altissima a contare che si tratta per lo più di truppe combattenti e da ingaggio, non di ruoli amministrativi o da retrovia.

Le donne soldato dell’Ucraina e il video di sfida

Sui social, dopo essere stato lanciato da Twitter, circola un video pubblicato dalle Forze Armate di Kiev. Quel frame bellicoso mostra alcune donne soldato mentre rivolgono un appello a combattere: “Siamo le donne dell’Ucraina, abbiamo visto i nostri uomini feriti per proteggere la nostra terra”.

E ancora: “Abbiamo messo in sicurezza i nostri figli e adesso prendiamo le armi. Distruggeremo il nemico in ogni zona della nostra terra, in ogni città, ogni villaggio e ogni foresta. Vi uccideremo come cani rabbiosi, gloria all’Ucraina!”.

Combattenti regolari ma anche partigiane in armi

E proprio in occasione dell’8 marzo l’account Twitter del ministero degli Esteri di Kiev ha voluto celebrare le donne che resistono all’invasione russa. Attenzione, in mezzo alle combattenti regolarmente inquadrate nei ruoli matricolari delle forze armate di Kiev non figurano le migliaia di donne che hanno imbracciato il mitra o le motolov di fortuna per difendere loro stesse e il loro paese seguendo solo il patriottismo e i protocolli di formazioni paramilitari non ufficiali.

Sarebbero centinaia di migliaia secondo una stima fatta da Kiev e almeno 25mila inquadrate in formazioni vere e proprie secondo alcune intelligence occidentali, prima fra le quali quella britannica che studia molto da vicino il fenomeno.

A interpretarla la popolare cantante folk Khrystyna Soloviy. ‘Bella ciao’ in versione ucraina diventa l’inno della resistenza: “Dedicata ai nostri eroi”. Redazione su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

La versione ucraina di ‘Bella ciao’ diventa l’inno della Resistenza del Paese sconvolto dalla guerra.

La cantante folk ucraina Khrystyna Soloviy ha infatti riadattato il popolare canto partigiano al contesto del conflitto contro la Russia dedicandolo, come ha spiegato sui social, “a tutte le forze armate, ai nostri eroi e a tutti coloro che in questo momento combattono per la propria terra” .

‘L’ira ucraina’

Nella nuova versione, intitolata ‘L’ira ucraina’, la prima strofa recita: “Una mattina, in più all’alba/La terra tremò e il nostro sangue cominciò a bollire/I razzi dal cielo, le colonne dei carri armati/E il vecchio Dnipro urlò”. 

La bellissima voce di Soloviy, accompagnata dalla chitarra di Olexii Morosov, continua a cantare: “Nessuno ci pensava, nessuno sapeva/Quale fosse l’ira ucraina/Uccideremo i boia maledetti senza pietà/Coloro che stanno invadendo la nostra terra”. 

“Nella Difesa territoriale ci sono dei ragazzi migliori/Nelle nostre forze armate combattono veri eroi/E i javelin e i bayraktar/Uccidono i russi per l’Ucraina/E il nostro popolo, gli ucraini/Hanno già unito il mondo intero contro i russi/E molto presto li sconfiggeremo/E ci sarà la pace su tutta la Terra” è la conclusione della ‘cover’ ucraina di ‘Bella ciao’.

Un video da migliaia di visualizzazioni

Khrystyna Soloviy ha pubblicato il video della sua interpretazione del brano sui social, dove è diventato virale. Su Instagram ha superato le 540mila visualizzazioni mentre su YouTube, in poco più di 24 ore, ha raggiunto le 82mila visualizzazioni. 

Il famoso (e amato) canto partigiano italiano era stato già usato con riferimento al conflitto ucraino nei giorni scorsi.  A 48 ore dall’invasione russa, l’ex première dame Carla Bruni aveva pubblicato una sua personale cover su Instagram. E nei giorni successivi le note di ‘Bella ciao’ non sono mancate nei cortei italiani contro la guerra.

Mamme polacche lasciano passeggini per le donne ucraine in fuga dalla guerra. Debora Faravelli l'08/03/2022 su Notizie.it.

In una stazione della Polonia è presente una fila di passeggini che le mamme polacche hanno lasciato per le donne ucraine in fuga dalla guerra. 

Sta facendo il giro del web l’immagine che mostra una fila di passeggini che le mamme polacche hanno lasciato a disposizione in una stazione per le madri ucraine che arrivano in Polonia con i bambini: un’immagine che dà speranza, un profondo gesto d’amore e uno dei tanti segni di solidarietà che la popolazione di Varsavia sta mostrando verso i profughi in fuga dalle zone di guerra.

Mamme polacche lasciano passeggini per le donne ucraine

La fotografia è stata scattata dal reporter Francesco Malavolta ed è stata diffusa anche dalla poetessa e manager ucraina Julia Musakovska. “Le mamme polacche hanno lasciato i passeggini in stazione per le mamme ucraine che potrebbero averne bisogno quando arriveranno in Polonia con i bambini“, si legge nei loro post.

Sono infatti migliaia le persone che ogni giorno attraversano il confine tra Ucraina e Polonia per mettersi in salvo dagli attacchi russi e si tratta per lo più di donne, bambini e anziani (gli uomini dai 18 ai 60 anni hanno l’obbligo di rimanere sul suolo ucraino), spesso fuggiti all’improvviso lasciando tutti gli averi nella loro terra.

Grazie a questo gesto di solidarietà delle famiglia polacche, le donne con i figli al loro seguito potranno così disporre di passeggini per sistemare i loro piccoli.

Gli aiuti della Polonia per i profughi ucraini

Ciò si va ad aggiungere agli aiuti messi in campo nei punti di accoglienza approntati dalle autorità vicino ai valichi di frontiera. Qui i profughi possono trovare sia di giorno che di notte una sistemazione temporanea, un pasto caldo, cure mediche e indicazioni per il da farsi nel prossimo futuro.

La Polonia ha inoltre predisposto un treno speciale adibito al trasporto di feriti che, dal confine, li trasporti fino a Varsavia dove verranno sistemati in un ospedale allestito presso lo stadio comunale. Molti polacchi, inoltre, hanno accolto decine di ucraini trasferendoli nelle proprie case con mezzi privati.

LE FEMMINISTE.

Vittorio Feltri, "perché solo chi è dotato di pisello?", lo schiaffo a Zelensky e femministe. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 28 marzo 2022.

La disgustosa guerra divampante in Ucraina, tra le tante cose orrende che ci ha insegnato, ne offre una invece abbastanza curiosa che corregge una convinzione diffusa, ma errata. Mi riferisco alla parità di genere. Io stesso ero arciconvinto che le donne ormai non avessero nulla da invidiare agli uomini: in effetti esse nelle professioni, incluse le più impegnative, eccellono. Penso in particolare al ramo medico e a quello giuridico, nei quali sono addirittura più numerose rispetto ai maschi, il che è normale visto che il numero delle studentesse universitarie supera quello degli studenti. Tra l'altro infuriano polemiche quotidiane promosse dalle femministe più scatenate molte delle quali si battono affinché perfino il linguaggio si adegui ai tempi (non deve distinguere più tra ragazzi e ragazze) e sostengono anche giustamente che esistono le persone ma il loro sesso va dimenticato. A me personalmente non va a genio discutere di queste tematiche un po' bizzarre, mi limito a correggere chi dice che le signore guadagnino meno dei loro compagni. Non è vero. Infatti i contratti di lavoro sono collettivi: gli stipendi sono uguali per tutti, la paga di un giudice o di un insegnante è la stessa per lui come per lei.

Su Libero e altrove ho scritto spesso che pure nei giornali le redattrici sono spesso più abili e complete dei redattori. Pertanto non posso essere accusato di misoginia. Ciò detto, mi sono tardivamente accorto che in guerra ci vanno obbligatoriamente i maschi dai 18 ai 60 anni, succede in Ucraina e in Russia, ed è sempre successo nel mondo intero: le regole non sono ancora cambiate. Se c'è da combattere e da rischiare la pelle lo Stato recluta solo chi è dotato del pisello, mentre le nostre mogli o sorelle sono esentate da entrare nelle battaglie dove ci si scanna e si muore. Si dirà che le consorti debbono stare a casa ad accudire i figli, i quali però hanno anche un papà, che tuttavia può morire ed è pregato di sacrificarsi per la patria, come se questa fosse solo loro e non delle spose.

Ciò dimostra che la parità di genere non esiste o, meglio, esiste in tempo di pace e non in tempo di guerra, quando solo gli uomini sono comandati a farsi massacrare. Ecco perché le femministe militanti davanti ad esigenze belliche se ne guardano bene dal protestare per il diverso trattamento riservato ai maschi e alle loro dolci metà. Quando bisogna andare in ufficio siamo tutti uguali, sia che indossiamo i pantaloni sia che indossiamo la minigonna, quando c'è da recarsi in battaglia ci vadano per forza quei coglioni degli uomini. Se questa è la parità che pretendono le guerriere coi tacchi a spillo non mi garba. L'uguaglianza non può essere parziale e non si può pretendere solo quando fa comodo. 

Scuola, caos in piazza a Roma: gli studenti non vogliono l'alternanza scuola lavoro...

Da “la Repubblica” il 14 marzo 2022.

«Io non ho opinioni che non siano copiate dalle opinioni degli altri. Non so nulla dell'Ucraina. Quello che so me lo ha raccontato la mia badante, ma è limitato. E poi ho letto in tempi passati qualche libro di quando l'Ucraina faceva parte dell'Unione Sovietica». 

Natalia Aspesi, storica firma di Repubblica , non rinuncia al suo spirito tagliente anche in questa occasione. Ma in realtà ha opinioni chiarissime e sogna un'iniziativa di pace. «Secondo me - dice dal palco - non è più il momento delle opinioni. Chi può farlo, adesso deve prendere delle decisioni drastiche. Se continuiamo a dire che è stata la Nato, o che è stato Putin, non otteniamo niente mentre continua a morire della gente che non ha alcuna responsabilità per quello che succede». 

Cosa vorrebbe allora Aspesi? «Mi piacerebbe che ogni Paese d'Europa mandasse centomila cittadini disarmati, che si formasse un plotone di un milione di persone, che andassero davanti ai carri armati, anche se io certo non mi metterei in prima fila!», aggiunge con una battuta.

«Anche la diplomazia - prosegue - non ne sta uscendo bene, con questi orrendi tavoli con il caffè davanti a quelli che discutono, ucraini, russi». In tutto questo, è l'ultima zampata ironica, «non c'è una donna. Le donne mi sono antipatiche ma quando si tratta di cose orrende ci sono solo gli uomini».

La vera opposizione a Putin la fanno le femministe russe. RITA RAPISARDI su Il Domani il 10 marzo 2022.

Tutto fu cancellato da Stalin che ridimensionò le donne a fattrici e forza produttrice, così come ha fatto Putin, così come diceva la preghiera delle Pussy Riot.

la politica di Putin ha tolto diritti e riconoscimenti consolidati: è stata depenalizzata la violenza domestica, impedito l’accesso ai contraccettivi e si vuole rendere l’aborto un servizio a pagamento

“Le femministe sono diventate la prima potenza di opposizione che ha creato un movimento organizzato contro la guerra”, già dalle prime ore, racconta Rossman, si sono organizzate su Telegram per smontare le bugie del Cremlino

Madre di Dio, vergine, caccia via Putin! Il capo del Kgb è il più santo dei santi. Manda chi protesta in prigione. Per non addolorare il santo dei santi le donne devono partorire e amare». Così recitavano le Pussy Riot nella cattedrale di Cristo salvatore a Mosca, con una preghiera punk passata alla storia. Era il 2012.

Un secolo prima le donne – almeno nel cosiddetto occidente – avevano iniziato a ottenere i loro primi diritti. Proprio le femministe russe 105 anni fa, l’8 marzo, avevano dato vita a uno sciopero generale per chiedere la fine della guerra. Oggi è ricordato come l’inizio della Rivoluzione russa di febbraio (per l’uso del calendario giuliano).

Il rovesciamento dello zar, la fine dell’imperialismo e l’avvento del socialismo hanno determinato un’ondata di cambiamenti come mai prima. Le operaie russe si sono organizzate in sindacati di lotta e hanno ottenuto, per prime al mondo, diritti sino ad allora impediti: suffragio femminile, aborto, divorzio e parità salariale. La parità è stata sancita da Lenin attraverso il cosiddetto “bolscevismo femminista” che le vedeva come pari, come “compagne”. Stalin ha cancellato tutto, considerando le donne come fattrici e forza produttrice, così come ha fatto Putin secondo la preghiera delle Pussy Riot.

Il femminismo russo è rimasto silente per decenni, anche per una distinzione di base da quello statunitense, percepito come troppo concentrato sull’empowerment. Ci sono stati pochi segnali negli anni Settanta e Ottanta: «La vera svolta è stata negli ultimi dieci anni», racconta Ella Rossman, di Mosca. Attiva nel movimento femminista russo da otto anni, coordina le azioni di questi giorni. Ora vive a Londra, studia come storica: «Il mio nome puoi usarlo, perché ora sono una coordinatrice esterna e in Russia non posso tornare per i prossimi anni. Almeno fino a quando Putin non scomparirà».

Le femministe sono una delle poche forze politiche di opposizione attive. Le autorità per molto tempo non le hanno percepite come un pericolo o fonte di potere: «Rispetto ad altri gruppi politici siamo state temporaneamente meno colpite dalla repressione statale», dice Rossman. Le idee femministe hanno trovato poco spazio sui media. Ancora oggi queste donne in Russia sono descritte per la maggior parte come “lesbiche strambe e da evitare”. Ma i media indipendenti, Novaja Gazeta in testa, negli ultimi anni hanno iniziato a sviluppare un’agenda femminista, ospitandone molte nelle loro colonne.

Intanto però la politica di Putin ha tolto diritti e riconoscimenti consolidati: è stata depenalizzata la violenza domestica, impedito l’accesso ai contraccettivi e si vuole rendere l’aborto un servizio a pagamento. Non c’è spazio politico per le femministe russe, l’opposizione di fatto non esiste, di conseguenza nessuna voce che si discosti dal volere di Putin. «Siamo pur sempre un’autocrazia, giusto?», dice Rossman. Per questo le femministe hanno iniziato a fare attivismo di comunità: organizzato festival ed eventi educativi per un pubblico ampio. Creato spazi per discutere di uguaglianza, diritti di genere e diritti delle donne.

E ora con questa guerra, non sono da meno. «Le femministe sono diventate la prima potenza di opposizione che ha creato un movimento organizzato contro la guerra». Già dalle prime ore, racconta Rossman, si sono organizzate su Telegram per smontare le bugie del Cremlino: «È una resistenza femminista e civile che al momento coinvolge più di 20mila persone, molte ci appoggiano online da altri paesi europei». C’è un gruppo di coordinamento composto da dieci persone che lavorano in modo anonimo, dentro e fuori dalla Russia.

Vanno per le strade, fanno manifestazioni, picchetti, ogni tipo di azione per incontrare le persone. «All’inizio i media neanche usavano la parola guerra, l’hanno sempre negata, parlavano di operazione speciale. Quando abbiamo capito com’erano in realtà le cose, abbiamo subito iniziato a fare informazione online, ma anche offline, per le strade, a parlare con i cittadini».

Stanno lanciando campagne utilizzando hashtag (per seguirle: #FeministAntiWarResistance e #FeministsAgainstWar). Hanno stampato volantini, migliaia di adesivi che appiccicano per le città, «perché la maggior parte della gente non immagina neppure che ci siano civili uccisi dalle nostre bombe. Lo stesso ministero della Difesa russo ha negato i primi giorni che ci fossero soldati russi uccisi».

Queste donne così invisibili agli occhi del Cremlino, certo in minoranza, con il tempo si sono organizzate. Prima dell’inizio della guerra contro l’Ucraina, Rossman ha contato più di 45 gruppi femministi in Russia, molti collegati tra loro e partner nelle loro azioni. Non solo a Mosca o San Pietroburgo, ma in tutto il territorio: da Kaliningrad a Vladivostok, da Rostov-on-Don a Ulan-Ude e Murmansk, fino al Caucaso.

L’anonimato è la norma: già prima che la guerra, e ora con la scure della propaganda putiniana, rimanere nascoste, pur attive, è fondamentale. Con le recenti direttive che hanno modificato il codice penale, si passa per “traditori della patria” e si rischiano multe e fino a quindici anni di carcere. Se si porta “aiuto alla causa ucraina” o diffondono fake news, cioè le informazioni non gradite al governo centrale. Per le manifestazioni del 6 marzo scorso, le femministe si sono riunite in numerose piazze in tutta la Russia. Decine di attiviste, conferma Rossman e riporta Novaja Gazeta, sono state arrestate e torturate: picchiate e tirate per i capelli.

In questi giorni hanno anche fatto uscire un manifesto delle femministe russe, sotto il nome di Feminist Anti-War Resistance, un invito a tutte le femministe del mondo a sostenerle: «A Putin non sono mai interessate le persone del Luhansk e Donetsk, usa la guerra solo per diffondere i suoi “valori tradizionali” che includono la disuguaglianza di genere, lo sfruttamento delle donne e la repressione statale contro coloro il cui stile di vita, tutto conforme alle ristrette norme del patriarcato», scrivono.

«Putin ha detto che l’idea è quella di smilitarizzazione e denazificazione dell’Ucraina. Ma cosa significa? È pieno di neo nazisti in Russia. Sono quelli che minacciano le femministe ogni giorno», aggiunge Rossman. In patria hanno diffuso online nomi, indirizzi e numeri di telefono delle femministe, che sono state minacciate anche di morte. La polizia in questi giorni si reca nei loro posti di lavoro, nelle case e controlla che non siano attive contro la propaganda di Putin. Le femministe russe si sentono sole, i gruppi di opposizione sono ancora sotto shock, ma iniziano a organizzarsi. Accanto a loro per ora ci sono socialisti e comunisti: «Non stanno liberando nessuno. Non stanno aiutando alcun movimento popolare ucraino», scrivono in un documento diffuso online. RITA RAPISARDI

Fabrizio Cannone per “La Verità” il 9 marzo 2022.

Di femminismo si parla spesso, e a volte anche un po' troppo. Specie prima durante e dopo il mitico 8 marzo, che ogni anno ci tocca celebrare, quasi fosse una religiosa e intoccabile «festa comandata». Certo, checché se ne dica, non esiste in natura un uomo che odi tutte le donne in quanto donne (incluse madri, mogli, nonne, zie, figlie, nipoti e passanti). Ma è anche vero che per il bene della (rosea) metà del cielo si può sempre fare qualcosa di più.

Ma cosa? Finalmente è apparsa un'idea nuova che va ben al di là delle arcaiche quote rosa. Secondo Wer braucht feminismus?, un collettivo di femministe tedesche belle toste, sarebbe giunto il momento storico di portare l'uguaglianza nei cieli. Facendola finita con i missili a forma fallica, e inaugurando così una sorta di parità di genere intergalattica!

«La nostra visione», scrivono sul sito, «è che un giorno la discriminazione di genere non sarà più un problema su questo pianeta». E sugli altri? Intanto però, se «la discriminazione basata sul genere esiste ancora in quasi tutti i settori della vita e del lavoro», ciò vale non solo «sulla terra. Ma anche nello spazio».

Capito? Da qui è nato l'incontro provvidenziale (o astrale) tra le femministe celesti e la dottoressa Lucia Hartmann, astrofisica e direttrice del WBF Aeronautics. La Hartmann, dopo lunghe ricerche, si dichiara convinta che un veicolo spaziale a forma di vulva femminile, sarebbe «un simbolo di maggiore diversità nello spazio» (metti che c'è un alieno non binario di passaggio). Ma si porrebbe anche tecnologicamente «all'avanguardia» e in fin dei conti risulterebbe «più sostenibile». Anche perché, come spiega la scienziata in un video che parla del progetto, il missile come lo consociamo, assomiglia troppo ai «genitali maschili».

E la questione della parità nei cieli è «molto importante», anche per ribadire che «lo spazio è di tutti». Infondo, al di là delle facili ironie, sarebbe qualcosa di profondamente benefico e umanistico. Poiché il progetto della «Vulva spacechip», secondo le femministe teutoniche, «aggiunge un'altra dimensione alla rappresentazione dell'umanità nello spazio». E in tal modo «trasmette al mondo l'idea che ognuno ha un posto nell'universo, indipendentemente dalle caratteristiche fisiche».

Scientificamente, l'équipe guidata dalla dottoressa Hartmann, avrebbe dimostrato, contro i pregiudizi degli astrofisici fallocratici, che «un veicolo spaziale che differisce dalle forme tradizionali è più aerodinamico e genera meno resistenza». Forse grazie a un miracolo della dea madre. E proprio su questa base, il sito delle aero-femministe pubblica un'immagine, un prototipo, di quel che dovrebbe essere la loro navicella spaziale new look.

Intanto, in attesa che la parità di genere prenda quota, è incominciata una terrena raccolta di firme (realmente esistente su change.org/VulvaSpacechip). E secondo le nostre, occorrerebbero «500.000 firme affinché il progetto sia preso in considerazione dalla Agenzia spaziale europea». Per ora le sottoscrizioni sono quasi 400, malgrado le 36.000 visualizzazioni del video. Segno che è meglio volare bassi. Ma vogliamo sperare che il lettore sia sensibile alle discriminazioni di genere tra Terra, Sole e Luna. Chissà magari un marziano solitario e mal intenzionato verso noi terrestri, che sulla via lattea avvistasse la vulva volante.

Giovanni Sallusti per “Libero Quotidiano” l'8 marzo 2022.

Va bene che l'umorismo è anzitutto sentimento del contrario, per stare a Pirandello, ma Luciana Littizzetto che si lancia in analisi geopolitiche è troppo, una scena che non avrebbe immaginato nemmeno il grande drammaturgo.

Intendiamoci Lucianina, come la chiama il suo mentore Fazio(so), anche domenica sera ha fatto il suo, durante il monologo d'ordinanza a "Che tempo che fa": qualche battuta tra il prevedibile e l'innocuamente volgarotto, qualche lacrima facile ma sostanzialmente giusta quando ha letto la sua lettera ai ragazzi al fronte, il consueto compitino. 

Ma è nel momento didattico, come al solito, che scivola il comico, se non è Charlie Chaplin. E infatti lei, volendo entrare diretta nella tragedia ucraina, non ci ha rifilato il Grande Dittatore, ma piuttosto un pistolotto buono per nominare i genitali, e per sostenere la tesi seguente.

La guerra è colpa del dannato fallocentrismo imposto al mondo da quella dannata creatura che è il maschio (bianco caucasico, perdipiù). Partendo infatti dall'assioma che "è un guerra solo di maschi", la Littizzetto ha mostrato la vignetta di una disegnatrice spagnola molto ripresa sui social dalla gente che piace. 

A sinistra, un rifacimento dell'immortale opera di Courbet, "l'origine del mondo", l'organo sessuale femminile. A destra, un corpo in analogia posizione, con una modifica decisiva: trattasi di corpo maschile, e di organo relativo. "Il Walter", lo definisce lei in littizzese, ovvero "l'origine della guerra".

Essì, perché il Walter "rappresenta bene quanto gli uomini siano incapaci di elevarci dallo stadio di gorilla inferocito a essere umano con un minimo di buon senso". Proprio così: qualunque possessore di pene (pardon, di Walter) è in quanto tale ontologicamente e anatomicamente guerrafondaio, ha il male inscritto nell'apparato riproduttivo. 

Putin invade, bombarda e massacra perché maschio, e ogni maschio è potenzialmente un Putin. "Nascere maschi è un po' come essere figli di un boss mafioso", aveva già sentenziato un'altra ideologa politically correct, Michela Murgia.

Essì, perché Lucianina questo fa, replica il Banalmente Corretto (l'avverbio Politicamente sarebbe troppo) in prima serata, dà la stura alla retorica più elementare, quella che riduce una persona al suo sesso, e il sesso maschile alla violenza.

"Al tavolo delle trattative non ci sono donne!", tuona mentre indica una foto del negoziato russo-ucraino, e quello è il problema, non il cortocircuito geopolitico tra la nostalgia dell'impero sovietico di Putin e la debolezza di alcune leadership occidentali.

Hanno tutti il Walter, questi, e in tale innegabile coincidenza corporea sfuma anche la distinzione tra aggressore e aggredito, al massimo resta in piedi (non eretta, per l'amor di Dio) l'ipotesi di un'evirazione collettiva per riportare la pace.

Poi il Paese guida dell'Europa, la Germania, aveva fino a pochissimo fa una leader donna, che con Putin ha trattato più dossier: Angela Merkel. Gli Stati Uniti hanno una vicepresidente donna che non sarà esattamente una comparsa nella cabina della crisi, Kamala Harris.

L'Unione Europea è guidata da una donna, che ha persino annunciato sanzioni durissime allo Zar, Ursula Von der Leyen. Ma questi sono trascurabili elementi di realtà, fastidiosi per chi come Lucianina vuole propinarci il santino dell'ideologia "correttista". 

E infatti la signora fissa l'istantanea dei negoziatori e scuote sconfortata il capo: "Sembra il tavolo degli amici della prostata". Risatine automatiche in studio, poi si fa seria: "Loro sono lì per far vedere chi ha più lungo l'armamento". Insomma, a essere per un attimo triviali e littizzettiani, per lei è una guerra del cazzo, in senso letterale. Il che a noi, per rimanere in tema, pare una cazzata sesquipedale.

GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.

Marta Serafini per il “Corriere della Sera” il 13 luglio 2022.

«Ieri, qui, nell'Oblast di Donetsk abbiamo distrutto 30 carri armati russi». Daniel ha 28 anni. È stato nell'esercito dal 2015 al 2018, come paramedico. Poi, dopo il 24 febbraio, è stato richiamato in servizio. Ma questa volta ha deciso di non nascondersi più. «Sono gay e ho un compagno che è anche lui militare, in marina, che ora si trova negli Stati Uniti per l'addestramento. Non vedo l'ora di riabbracciarlo». 

Occhi chiari e faccia da ragazzino, racconta la sua storia al Corriere senza timore. «Forse è perché sono cresciuto in orfanotrofio, dunque sono abituato alla condivisione. Certo non è facile dirlo apertamente in un ambiente maschile come quello militare. Ma mi sono accorto che comportandomi in modo sincero anche le persone meno tolleranti alla fine si lasciano andare, tanto più se ti vedono combattere al loro fianco tutti i giorni».

Le stesse parole le utilizza Alexander, 23 anni, originario di Kiev, in servizio come carrista e ufficiale medico a Kharkiv nella «zero position», in prima linea. «A marzo sono stato a Irpin, ho visto un'intera famiglia uccisa davanti ai miei occhi senza che potessi fare nulla per loro». 

Anche Alexander è gay e ha deciso di uscire allo scoperto. «Penso che ci sia un gran cambiamento in atto. Soprattutto da quando combattiamo contro il regime di Putin che è omofobico per eccellenza, c'è molta più tolleranza nei nostri confronti», racconta. 

Così, giorno dopo giorno, dopo essersi conquistato il rispetto e il supporto dei suoi commilitoni, Alexander ha deciso di confidarsi. «Non capisco perché io debba nascondermi, tanto più che il mio orientamento sessuale non rappresenta una colpa e faccio il mio lavoro esattamente come gli altri». 

Yania, 26 anni, preferisce non dire in che battaglione presta servizio. «Mi sono unita alle forze armate fin dall'inizio della guerra, nel 2015. Era il mio sogno di bambina». Poi è tornata sul campo di battaglia. 

«Non è facile per le donne, nei nostri confronti ci sono ancora più pregiudizi, tanto più nell'esercito. Ma non mi vergogno assolutamente di quello che sono».

Per Daniel, Alexander e Yania non c'è solo l'orgoglio di combattere per il proprio Paese. Da marzo fanno parte di un gruppo speciale. «Ovviamente non è un reparto ufficiale dell'esercito. Ma con altri colleghi abbiamo deciso di unirci e di far sentire la nostra voce sui social network», sottolineano. È il battaglione degli Unicorni, come dice il simbolo che portano cucito sulla divisa. 

«Il nostro modello di società è inclusivo, certo è un'utopia pensare di essere tutti considerati uguali. Ci sono ancora delle resistenze ma, di base, in Ucraina le persone Lgbt non sono più discriminate come avveniva solo dieci anni fa. E di sicuro viviamo in paradiso rispetto alla Russia di Putin», scandisce Daniel.

A convincere gli unicorni a uscire dall'ombra, la raccolta di firme per la legalizzazione dei matrimoni gay che il presidente Volodymyr Zelensky ora dovrà prendere in considerazione. «Abbiamo raggiunto più di 28 mila adesioni, il che significa che il presidente ora ha 10 giorni per risponderci. E siamo sicuri che qualcosa inizierà a muoversi», dicono gli unicorni. 

Piccoli passi, dunque, che la società ucraina percorre verso la parità totale di genere. Non senza ostacoli. Nel 2013, a Kiev, si è tenuta la prima marcia ufficiale del Pride del Paese, nonostante le proteste degli skinhead che l'anno prima avevano costretto gli organizzatori a cancellare la manifestazione.

Poi, nel 2018, gli attivisti sono stati attaccati durante una manifestazione transgender da militanti di estrema destra. Alla faccia dei rischi però la parata del Pride è cresciuta in popolarità e l'anno scorso nella capitale hanno partecipato più di 7 mila persone. 

Secondo un sondaggio condotto dall'istituto internazionale di sociologia di Kiev a maggio, negli ultimi sei anni il numero di persone che hanno una «visione negativa» della comunità Lgbt è diminuito dal 60,4 per cento al 38,2. Anche grazie al battaglione degli Unicorni, in prima linea sul campo di battaglia e nella società civile.

Oltre le fake news. Com’è davvero la situazione dei diritti Lgbtq in Ucraina. Francesco Lepore su L'Inkiesta il 26 Marzo 2022.

Molte delle notizie diffuse sono di matrice russa e tendono a enfatizzare, o a inventare proprio, un’ostilità di fondo nei confronti di omosessuali e trans. Il quadro in realtà è diverso e, sebbene non sia una situazione ottimale, sono stati fatti molti passi in avanti e la sensibilità sta cambiando.

Quella dei diritti delle persone Lgbt+ in Ucraina è questione che attira sempre più l’attenzione di media e movimenti da quando è iniziata l’invasione russa. Negli ultimi giorni, in particolare, è rimbalzata ovunque la notizia di donne transgender cui sarebbe stato impedito di lasciare il paese dopo essere state bloccate al confine dalla polizia di frontiera e talora sottoposte anche ad umiliazioni perché ritenute maschi. Trattamento – secondo il Guardian, da cui poi sono dipesi tutti i giornali che ne hanno parlato – riservato anche a chi, avendo ottenuto il cambio legale di genere, aveva esibito relativo certificato valido. Ma mai come in questo caso appare d’obbligo il condizionale.

Particolari e valutazioni, ad esempio, risultano espressamente forniti al quotidiano britannico da un cofondatore di Safebow, organizzazione che Lenny Emson, componente del Kyiv Pride, indica a Linkiesta come «filorussa. Non ci fidiamo di nessuna informazione proveniente da loro. Piuttosto posso affermare con certezza che è stato creato un meccanismo che consente alle persone trans di superare il confine grazie anche al supporto delle associazioni. Si tratta di una precisa procedura per avere la documentazione valida per l’espatrio. Alcune persone trans ci sono riuscite, ma restano molte incertezze».

Secondo il giovane attivista FtM (Female to Male, ndr), «non c’è invece alcuna evidenza di donne trans bloccate al confine e rispedite indietro, in quanto ritenute maschi, a combattere. Cosa poco credibile, tanto più che sono così tante le persone disposte a farlo da dover attendere non poco prima d’essere accettate nell’esercito».

Al contrario, «sono molte le persone trans e non binarie ad essere state arruolate in unità di difese territoriali. Ovviamente c’è preoccupazione per la loro situazione. Non abbiamo casi e statistiche: c’è molta segretezza trattandosi dell’esercito. Siamo preoccupati ma anche orgogliosi che abbiano deciso di combattere per il nostro Paese insieme ad altri rappresentanti della comunità Lgbt+. Orgogliosi di avere tali eroi tra di noi».

È indubbio che in Ucraina le persone trans, la cui condizione risulta particolarmente aggravata con la guerra in corso, debbano vedersi riconosciuti ancora non pochi diritti. Ma su di essi, in particolare per quello che attiene al trattamento della disforia o incongruenza di genere, «i media internazionali in tempo di guerra stanno diffondendo una dannosa disinformazione». A dirlo senza mezzi termini è Kyiv Pride, la più grande associazione ucraina, che ha ieri diffuso un dettagliato comunicato sui social. Per meglio capirne contenuto e motivazioni, è necessario fornire alcuni dati.

Se nel 2011 il Codice civile ucraino è stato emendato per consentire la rettifica anagrafica a persone sottopostesi a intervento chirurgico di riassegnazione di genere, dal 2016 è entrato in vigore un nuovo protocollo di trattamento della disforia di genere grazie a un decreto del ministero della Salute, che con altro provvedimento ha anche abrogato le precedenti disposizioni in materia di riconoscimento legale del genere: non più autorizzazione da parte di una Commissione speciale del dicastero, né degenza di 30-45 giorni in ospedale psichiatrico né diagnosi di transessualità.

Redatto in conformità alla decima edizione dell’International Classification of Diseases (ICD), come osserva il dettagliato comunicato del Kyiv Pride, richiede ancora visita e diagnosi psichiatrica» ma, come viene specificato, «una persona non è obbligata a essere ricoverata in istituto psichiatrico. Dipende dalla regione, ma di solito questa convalida dura circa due settimane di test e consultazioni in appuntamenti con uno psichiatra. Ci sono molti medici amichevoli – psichiatri, endocrinologi, chirurghi – che stanno aiutando le persone trans». Inoltre, sulla base di una sentenza dell’agosto del 2016, che disponeva la rettifica anagrafica di nome e genere per due persone trans senza richiedere loro di sottoporsi a intervento chirurgico, e su quella di un passaggio del protocollo vigente, tale obbligo è venuto di fatto a cadere essendo ritenuta bastevole ai fini del trattamento la sola terapia ormonale sostitutiva.

«Una persona – così ancora il comunicato – dovrebbe portare i propri certificati di diagnosi F64.0 (dell’ICD-10: Transessualismo, ndr) e la consultazione endocrinologica al medico di famiglia e ottenere un certificato che le consenta di ricevere documenti con indicazione del genere in cui ci si identifica. Questo processo può essere lungo, ma è del tutto possibile. C’è una grande quantità di persone trans in Ucraina che ha già ottenuto la transizione legale. Prima dell’inizio dell’invasione russa su vasta scala le organizzazioni Lgbt stavano attivamente lavorando per sostenere la rapida implementazione dell’ICD-11 in Ucraina e abbiamo in programma di continuare quest’impegno dopo la vittoria».

Il riferimento è all’ultima edizione dell’International Classification of Diseases che, entrata in vigore il 1° gennaio scorso, era stata fra l’altro oggetto di un proficuo incontro col ministro della Salute Viktor Lyashko in novembre.

C’è inoltre da sottolineare come l’articolo 2¹ del Codice del lavoro, emendato nel 2015, vieti la discriminazione sul lavoro in ragione dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale. Non meraviglia pertanto il duro j’accuse del Kyiv Pride, per il quale «diffondere informazioni errate crea un’immagine falsa e sfigurata dell’Ucraina come un paese con un trattamento terribile delle persone trans, mancanza di organizzazioni trans locali e nessuna crescita nella difesa dei diritti umani. Gli attivisti ucraini stanno parlando ai media da quando è iniziata l’invasione russa, ma per qualche motivo le nostre voci non vengono ascoltate. Forse è più facile ottenere visualizzazioni se si dipinge il Paese invaso come un luogo infernale per le minoranze. Ma diffondere bugie non è utile alle menzionate minoranze».

Non luogo infernale né tantomeno paradisiaco per le persone Lgbt+, l’Ucraina null’altro è per esse se non un Paese che dal 1991 continua a fare notevoli passi in avanti verso la piena tutela e parità di diritti. Tante ancora le istanze rivendicative da portare avanti, tanti ancora i risultati da raggiungere: secondo l’ultima Rainbow Map di Ilga-Europe, annuale monitoraggio della situazione delle persone Lgbt+ nei 48 paesi del Consiglio d’Europa e in Bielorussia, l’Ucraina è infatti al 40° posto e su una scala di riferimento, che – basata sull’esame di specifiche leggi e politiche vigenti – va da 0 a 100%, si attesta al 18,02.

Dato sicuramente non dei migliori, ma poco perspicuo e per nulla pertinente se avulso dal quadro generale e letto, come è mala prassi, isolatamente. Ben al di sotto del Paese invaso da Putin, Lettonia (17,48%), San Marino (13,41%), Polonia (13,22%), Bielorussia (12,48%) e il Principato di Monaco (11,29%) si collocano in ordine dal 41° al 45° posto. Il 46° è detenuto dalla Russia (9,70%), peggio della quale ci sono solo Armenia (7,49%), Turchia (3,83%) e Azerbaijan (2,33%). Si tenga inoltre in conto che l’Italia è al 35° posto con un punteggio di appena 22,33%, immediatamente preceduta dalla Lituania (22,85%). Anche in considerazione dei punti percentuali il Bel Paese può dunque vantare una ben magra precedenza rispetto all’Ucraina, da cui la distanziano unicamente Moldavia (19,96%), Bulgaria (19,74%), Romania (19,17%), Liechtenstein (18,88%).

È vero che le coppie di persone dello stesso sesso non godono di alcuna forma di riconoscimento legale dei loro rapporti a fronte d’una Costituzione, il cui art. 51: «Il matrimonio è basato sul libero consenso tra un uomo e una donna» pone più d’un ostacolo per il raggiungimento delle nozze egualitarie. È vero che anche nello scorso anno si sono registrati numerosi casi di omotransfobia come documentato dal Report 2022 di Ilga-Europe. Al riguardo la gerarchia non solo delle due Chiese ortodosse ucraine, maggioritarie nel Paese, ma anche della Chiesa greco-cattolica, che ha comunque oltre il 9% di fedeli del totale della popolazione credente (83,5%), non contribuisce a rasserenare gli animi. Senza parlare di gruppi di estrema destra che si sono fatti protagonisti lo scorso anno di alcuni episodi di contestazione violenta.

Non ci gira intorno Lenny. Osserva infatti non senza apprensione come «la nostra principale paura sia quella che organizzazioni omotransfobiche, esistenti in Ucraina da alcuni anni, possano diventare più forti. Temiamo soprattutto che queste associazioni utilizzino questo brutto periodo di guerra per intensificare i loro sforzi contro i nostri diritti e costringerci a tornare non visibili. Stiamo già ricevendo commenti negativi e minacce da parte loro sui social media. Seguiamo i loro gruppi e vediamo quello che succede: sono colmi d’odio contro di noi. Alcuni ci incolpano di sostenere la Russia e cercano di indirizzare la negatività presente nella società ucraina contro di noi. Quindi temiamo che la violenza omotransfobica possa crescere». Eppure, lui stesso ricorda le mete finora raggiunte dalla comunità a partire dallo status giuridico riconosciuto alle associazioni, alla piena libertà nell’espletare attivismo, alla celebrazione dei Pride, ogni anno più partecipati.

E non ci sta a una narrazione, fatta propria anche da strati di movimenti Lgbt+ di altri Paesi, che, noncuranti dei dati Ilga come anche della loro diretta testimonianza, porta a dire o a scrivere: «Non è che stiano meglio di altri» con riferimento, innanzitutto, alla Russia. Ma sono ben noti gli effetti devastanti della legge contro la cosiddetta propaganda omosessuale, fortemente voluta dal Cremlino e promulgata da Vladimir Putin il 30 giugno 2013, oppure gli arresti, le torture, le uccisioni di persone omosessuali e trans pianificate da Kadyrov in Cecenia, repubblica della Federazione Russa, per rendersi già conto dell’inaccettabile superficialità di certe valutazioni.

«Stento a credere – così dice al nostro giornale – che si pongano sullo stesso piano Russia e Ucraina. Nell’ultimo Pride c’erano 7.000 persone. Gli agenti di polizia presenti avevano il solo scopo di proteggerci da eventuali aggressioni. In Russia non solo sono impediti i Pride ma anche manifestazioni stanziali, come a San Pietroburgo nel 2019, vengono sciolte violentemente da agenti, che caricano e arrestano i manifestanti. La differenza sostanziale è che l’Ucraina è un Paese libero». L’attivista transgender fa poi notare che quest’anno ricorrerà il 10° anniversario del Kyev Pride: «Purtroppo, data la situazione, sarà pressoché impossibile poter fare la marcia dell’orgoglio. Prima dell’invasione eravamo certi della realizzazione e stavamo già iniziando a preparare il relativo programma. Avevamo pensato di invitare il presidente Zelensky, sempre sensibile alle nostre rivendicazioni, e speravamo comunque nella partecipazione di un suo rappresentante. Non credo che questo possa non solo avvenire ma essere minimamente pensato attualmente in Russia».

L’aperto supporto del presidente dell’Ucraina alla causa Lgbt+ è d’altra parte tale da essere oggetto di scherno e detrazione da parte degli entusiasti sostenitori di Vladimir Putin e della tesi duginiana della guerra ai corrotti costumi occidentali, massimamente espressi dalla «norma della perversione» ossia dell’omosessualità, di cui si è fatto interprete, il 6 marzo scorso, il patriarca di Mosca Kirill.

Se ne può avere una riprova nella delirante dichiarazione dell’ex nunzio apostolico Carlo Maria Viganò che, nell’elogiare il presidente della Federazione Russa e nel ritenerlo vittima di un complotto dell’élite globalista, vera pianificatrice della guerra, parla di Zelensky come attore comico dalla «performance en travesti […] perfettamente coerenti con l’ideologia Lgbtq che viene considerata dai suoi sponsor europei come indispensabile requisito dell’agenda di “riforme” che ogni Paese deve far proprio, assieme alla parità di genere, all’aborto e alla green economy. Non stupisce che Zelensky, membro del World Economic Forum, abbia potuto beneficiare dell’appoggio di Schwab e dei suoi alleati per arrivare al potere e realizzare il Great Reset anche in Ucraina».

Al riguardo Yuri Guaiana, componente della segreteria nazionale di +Europa e senior campaign manager di All Out, ricorda a Linkiesta che «le dichiarazioni di Putin, del suo ideologo rosobruno Aleksandr Dugin e del patriarca di Mosca Kirill I mostrano chiaramente che ciò di cui più hanno paura sono la democrazia, i diritti umani e le libertà individuali che vanno direttamente contro il suo progetto imperialista, aggressivo, violento e repressivo. Dobbiamo riconoscere che oggi gli ucraini stanno difendendo valorosamente anche le nostre libertà».

Per l’attivista, che nel 2017 fu arrestato a Mosca (con altri quattro) mentre tentava di consegnare al procuratore generale due milioni di firme raccolte contro le violenze cecene, «da quando la Russia ha invaso l’Ucraina anche le persone Lgbt+ stanno vivendo un incubo. Molte persone della comunità Lgbt+ si sono arruolate nell’esercito e alcune si sono offerte volontarie per proteggere la popolazione in città. Altre sono in pericolo immediato e devono lasciare il paese. Per sostenere la resilienza e la sicurezza degli ucraini Lgbt+, All Out ha lanciato una raccolta fondi. Anche una piccola donazione è importante e può salvare delle vite».

Gli fa eco Luca Trentini, attivista e coordinatore Sinistra Italiana – Brescia, che sottolinea come «la situazione dei diritti Lgbt+ in Ucraina era in forte evoluzione prima dello scoppio della guerra. Una società non certo accogliente aveva visto aprirsi spazi di libertà. L’approvazione di due ben Strategie nazionali per i diritti umani, i Pride celebrati a Kiev e in molte città, sebbene militarizzati dalla polizia, facevano pensare a un avvicinamento all’Europa sui temi dei diritti civili. Un cammino ancora lento e segnato da fortissime difficoltà, ma tuttavia presente. Lo scoppio della guerra mette seriamente in pericolo tutto».

Il motivo è da ricercarsi nella strategia in atto da tempo che «vede il governo russo e la stretta cerchia di oligarchi vicini a Putin tra i principali finanziatori dei movimenti pro family che in tutto il mondo, Italia compresa, si muovono per avversare l’evoluzione delle libertà civili. È ipotizzabile che sia proprio sui diritti civili (non certo solo Lgbt+) che Putin possa trovare il fondamento ideologico e religioso su cui costruire un blocco politico, sociale ed economico, ancorato ai valori tradizionali da contrapporre al “corrotto” Occidente».

Che questo possa avere una ricaduta in negativo sulla comunità Lgbt+ ucraina è possibile. Ma al momento le varie associazioni hanno altro a cui pensare. Lenny ci racconta che il Kyiv Pride è impegnato «a offrire sostegno diretto a chi ha bisogno attraverso consegna di cibo e di acqua. Abbiamo poi aperto un rifugio qui nella capitale e aiutiamo chi è stato costretto a lasciare i territori pesantemente bombardati. Abbiamo inoltre un gruppo di psicologi, che assicura assistenza quotidianamente con sedute online».

L’attivista, inoltre, spiega come «nel tempo invasione abbiamo già aiutato oltre 200 persone, creando anche una chat sicura per le persone Lgbt+. Chat, dove si può chiedere o dare aiuto oppure condividere preoccupazioni. Abbiamo infine creato un database relativo ai rifugi in tutta Europa, a cui si può chiedere ospitalità o aiuto per il trasporto dal confine». Ma, conclude Lenny, «lavoriamo soprattutto per tenere alto il morale e sostenere chi combatte, perché siamo fiduciosi di poter ricacciare l’invasore». Che è, in ultima analisi, anche il nostro auspicio.

Giulia Taviani per corriere.it il 23 marzo 2022.

Si sentono donne, hanno un aspetto del tutto femminile e la loro comunità le riconosce come tali, ma non il loro passaporto, dove in grassetto risulta ancora il nome maschile, e accanto alla voce genere è incisa ancora la «M».

Due parole che in queste settimane pesano molto a centinaia di donne transgender in fuga dalla guerra in Ucraina. 

Secondo la legge marziale in vigore, i cittadini maschi tra i 18 e i 60 anni sono costretti a restare per prestare servizio militare e difendere l’Ucraina. E tra questi quindi, anche uomini trans certificati o donne trans senza alcun attestato che confermi il cambiamento.

Judis, una donna transgender, intervistata dal Guardian, ha raccontato di aver provato terrore una volta arrivata alla frontiera ucraina: «Le guardie ti spogliano e ti toccano ovunque. Puoi vedere suoi loro volti che si stanno chiedendo “cosa sei?” come se fossi una specie di animale o qualcosa del genere». Alcuni le tiravano indietro i capelli per controllare che non fosse una parrucca. 

Secondo una delle associazioni per i diritti umani transgender del Paese, circa il 90% delle donne trans arrivate al confine, e con solo un passaporto che non le rappresenta, sono state costrette a tornare indietro e imbracciare le armi.

Olena Shevchenko, difensore dei diritti umani e presidente di Insight, una delle poche associazioni pubbliche Lgbtq+ ucraine, denuncia una discriminazione al confine nei confronti dei transgender più in generale: «Sembra che le guardie di frontiera ucraine stiano impedendo anche alle persone trans con un certificato valido, che riflette il loro nuovo genere, di lasciare il Paese, e nessuno sa il perché». È il caso di Judis, una donna trans, a cui è stato impedito di entrare in Polonia, dopo un lungo controllo negli uffici della frontiera, nonostante quella F accanto alla parola genere. 

Molti di questi, per la fretta di abbandonare le proprie abitazioni e città sotto attacco, hanno dimenticato i documenti a casa, molte altre invece non hanno mai scelto di proseguire con la lunga pratica che in Ucraina permetterebbe alle persone transgender di legalizzare il loro nuovo sesso.

Secondo la legge ucraina, infatti, cambiare genere e nome è solo l’ultimo passaggio di un percorso fatto di valutazioni psichiatriche, ricovero in ospedale e molta burocrazia. Nonostante dal 2017 le persone trans siano state legalmente riconosciute, tutto questo spinge molti cittadini a non arrivare in fondo alla pratica e restare con i documenti originali, e quindi non corretti. 

Secondo la International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association, l’Ucraina è al 39esimo posto su 49 paesi europei per il trattamento complessivo riservato alle persone Lgbtq+. Inoltre ,la chiesa cristiano-ortodossa non ammette i matrimoni gay, così come non sono legali per lo Stato, e anzi, considera l’omosessualità un peccato.

L’organizzazione Hplgbt nei giorni scorsi ha denunciato anche la difficoltà di molti cittadini transgender nel trovare medicinali come i trattamenti ormonali, la cui interruzione è estremamente dannosa per la salute, e forniti dalle stesse ong alle persone rimaste nel Paese. Qualcuno nei primi giorni del conflitto è riuscito a scappare, anche senza documenti d’identità, ora invece i controlli si sono intensificati, e con loro anche i tentativi estremi per attraversare il confine, come la corruzione che potrebbe costare loro il carcere. Una paura non troppo grande paragonata a quella di trovarsi sotto il regime omofobo della Russia.

Federica De Vincentis per formiche.net il 12 marzo 2022.

Chissà se il patriarca ortodosso Kirill, quello che ha difeso la guerra di Vladimir Putin contro l’Ucraina perché aiuterebbe a respingere le derive peccaminose e anti-cristiane simboleggiate dal Gay Pride, legge il quotidiano britannico Daily Mail. 

Forse no. Anzi, forse meglio di no. 

Perché il Mail ha raccontato che i sevizi segreti britannici per analizzare la situazione sul terreno stanno tracciando i soldati russi sui social network, anche sull’app per incontri gay Grindr. 

Scrive il giornale: “Putin ha vietato la ‘propaganda’ omosessuale nel 2013, ma l’applicazione è ancora piuttosto diffusa, anche nell’esercito”.

Una fonte del Mail ha dichiarato: “Questi siti erano un tesoro per le nostre spie, le app di incontri in particolare – i soldati e le persone coinvolti nello sforzo militare erano particolarmente imprudenti”. Grazie a ciò, i servizi segreti britannici erano “al corrente dei piani e dell’imminente invasione” e hanno deciso di condividere le informazioni con le autorità ucraine. 

Niente di nuovo. La cosiddetta honey trap è una delle tante tecniche dello spionaggio, tanto che diverse agenzie d’intelligence hanno messo in guardia dalla presenza di spie sulle app di incontri. L’ultima è stata l’Asio in Australia nella sua relazione annuale: “Negli ultimi due anni, migliaia di australiani con accesso a informazioni sensibili sono stati presi di mira da spie straniere utilizzando profili di social media. Queste spie sono abili ad usare internet per i loro sforzi di reclutamento”, ha detto il direttore Mike Burgess.

Marco Respinti per “Libero quotidiano” il 15 marzo 2022.  

«Mi chiedo se le tue sensazioni in questa faccenda siano chiare», dice il demoniaco imperatore galattico al Darth Vader in via di conversione che ne Il ritorno dello Jedi è il protagonista di quel rivolgimento positivo di fronte che J.R.R. Tolkien chiamava «eucatastrofe». E lo stesso si potrebbe dire oggi all'Amministrazione Biden su aiuti, armi e guerra in Ucraina, anche perché quel titolo del franchise di Star Wars ha come sottotesto la Guerra d'indipendenza degli Stati Uniti d'America.

Se infatti la Russia semina morte e terrore in un Paese che ha invaso senz' alcuna ragione valida, e perdendo pure tutte quelle che qualcuno continua a sognare, l'esercito americano addestra le truppe all'uso transgendericamente corretto dei pronomi personali e gli ufficiali al timing perfetto per la riassegnazione chirurgica del sesso ai soldati disforici. Un documento ufficiale spiega per filo e per segno chi, come, dove, quando e perché.

È stato pubblicato in agosto dall'Army Service Central Coordination Cell (cioè il team di esperti creato per consigliare i graduati, sul piano medico e amministrativo, all'accoglienza degli effettivi transgender), è la messa in pratica del cambiamento di mentalità nell'esercito annunciato dall'Amministrazione Biden nel giugno dell'anno scorso ed è stato distribuito ai militari dall'inizio di marzo.

Il portale conservatore d'informazione Washington Free Beacon lo ha ottenuto da una talpa, un alto ufficiale delle Forze Speciali USA a cui è stato ordinato di sottoporsi a quell'addestramento. Sì, perché l'addestramento è assolutamente obbligatorio per tutti e, spiega la talpa, tutti lo debbono compiere entro il 30 settembre. Il documento dettaglia le casistiche con la pedanteria tipica della burocrazia militare e un puntiglio degno di miglior causa, elencando cosa fare con i maschi che si sentano femmine, cosa con le femmine che vivano da maschi, cosa con gli uni o le altre che si dichiarino di un sesso quando sono in uniforme e dell'altro in abiti civili, cosa con quelli in servizio trans permanente effettivo h24.

Perché se un soldato maschio o femmina chiede di essere riconosciuto/a come altrimenti, i superiori debbono concedere a lui o a lei questa prerogativa senza indugio, e pure, al momento giusto, far marcare al milite opportunamente visita affinché gli ufficiali medici valutino con lui/lei l'opportunità anche di un intervento chirurgico. E così, mentre il mondo va in fiamme ai confini dell'Alleanza atlantica che esiste per impedire aggressioni e illibertà, il Pentagono trova il tempo di giocare al dottore alternativo. 

Ma se la riposta occidentale all'azione muscolare di Vladimir Putin è quella di schierare addestratori, consiglieri, agenti e magari persino il tacco 12 sul terreno invece degli stivali chiodati, ogni confronto è perso in partenza. Lasciando che Putin e i putiniani continuino a gongolare nel ruolo di paladini improbabili della dirittura morale.

Le "vere" priorità di Biden: corsi sull'identità di genere per l'esercito. Roberto Vivaldelli il 15 Marzo 2022 su Il Giornale.

Mentre il mondo è minacciato da una possibile escalation con la Russia in Ucraina, l'esercito degli Stati Uniti sta istruendo i suoi soldati sul linguaggio di genere. Anche l'esercito piegato dall'ideologia woke.

Formazione dedicata al linguaggio di genere per gli ufficiali dell'esercito americano. Ebbene sì, mentre il pianeta affronta la minaccia di una terza guerra mondiale in Ucraina e la probabilità di una pericolosissima escalation con Mosca, il Pentagono trova il tempo di istruire i suoi ufficiali sui dogmi dell'ideologia transgender e della correttezza politica, come dimostrano le slide ottenute dal giornale conservatore Washington Free Beacon. Trattasi, come ha confermato una fonte anonima, di una formazione obbligatoria che gli ufficiali devono far frequentare ai loro sottoposti. Un portavoce dell'esercito ha confermato al Free Beacon che le diapositive pubblicate dalla testata americana fanno parte della "formazione obbligatoria" e provengono da un programma ufficiale "usato per addestrare il personale dell'esercito sui recenti cambiamenti alla politica del dipartimento della Difesa" e del "servizio transgender dell'esercito". Tutto il personale dell'esercito, dai soldati ai comandanti e ai supervisori, è tenuto a partecipare alla formazione entro il 30 settembre 2022, secondo il portavoce.

Il programma "transgender" dell'esercito americano

La presentazione rappresenta una sorta di vademecum su come porsi nei confronti dei soldati transgender e delle persone che stanno affrontando un cambio di sesso. "La transizione di genere nell'esercito", si legge nella presentazione, "inizia quando un soldato riceve una diagnosi da un medico militare che indica che la transizione è necessaria dal punto di vista medico". La formazione obbligatoria fa parte della più ampia decisione dell'amministrazione Biden di consentire al "personale transgender e alle persone con disforia di genere" di prestare servizio. Si applica a tutto il personale in servizio attivo, alla Guardia Nazionale e ai soldati di riserva, ai cadetti dell'Accademia militare degli Stati Uniti e ai cadetti del corpo di addestramento degli ufficiali di riserva a contratto.

Nel marzo 2018, l'amministrazione Trump emise un ordine che bandiva le persone transgender dal far parte dell'esercito americano eccetto che per "circostanze limitate". La Casa Bianca, annunciando la decisione del tycoon che fece imbestialire l'opinione pubblica progressista, osservava che mantenere soldati che richiedono un sostanziale trattamento medico "presenta un rischio considerevole per l'efficacia" dell'esercito. Nel gennaio 2021, appena insediato, il presidente dem Joe Biden cancellava il bando dei transgender nelle fila dell'esercito, voluto dal suo predecessore. Ora, tuttavia, come riporta il Washington Free Beacon, poiché l'invasione russa dell'Ucraina minaccia di innescare un conflitto più ampio, esperti militari e addetti ai lavori affermano di essere preoccupati che l'esercito Usa dia la priorità alla cultura woke rispetto alla protezione del popolo americano. Secondo Dakota Wood, un veterano del Corpo dei Marines specializzato in questioni di difesa presso la Heritage Foundation, la formazione obbligatoria utilizza un linguaggio utilizzato principalmente dalla sinistra woke e progressista. Trattasi, secondo l'esperto, di temi controversi promossi dalla sinistra progressista e bocciati dai conservatori.

Conservatori contro i trans nell'esercito

I repubblicani chiedono infatti a Biden di rivedere questa politica promossa dalla sua amministrazione. Come riportato da Fox News, il candidato repubblicano Mitchell Swan, colonnello della Marina in pensione, sta esortando l'esercito americano a invertire la politica che abbraccia l'identità transgender, avvertendo che "accogliere nei ranghi individui con disforia di genere" può "indebolire le prestazioni militari". Swan ha osservato che "prestare servizio nell'esercito non è un diritto", e quindi l'esercito deve mantenere "severi standard di selezione". "Il reclutamento militare deve essere focalizzato sulla prontezza" ha ribadito il colonnello. "I militari non possono permettersi di reclutare un individuo transgender che avrà bisogno di attenzioni mentali e fisiche rispetto a qualcun altro che è pronto a combattere fin dal primo giorno". Difficilmente, tuttavia, Joe Biden ritornerà sui suoi passi, dato che l'isteria woke è uno dei cavalli di battaglia dei liberal Usa.

LE SPIE.

Lorenzo Nicolao per corriere.it il 15 Novembre 2022. 

Pushwoosh si presenta come un’azienda con sede negli Stati Uniti, ma di fatto è una società tecnologica russa, che sviluppa i codici di migliaia di applicazioni per smartphone negli store digitali di Apple e Google. 

Genera non poco imbarazzo l’inchiesta condotta e pubblicata da Reuters. A sua insaputa, l’esercito americano nel suo National Training Center, nel deserto californiano del Mojave, a Fort Irwin, avrebbe utilizzato fino alla primavera scorsa i software di una società legata a Mosca e non di nazionalità americana, prima di rimuoverli una volta accortisi della reale provenienza.

Anche la lobby delle armi e la Uefa

I programmi informatici venivano quotidianamente utilizzati per condurre l’addestramento e preparare i soldati che avrebbero servito il Paese in una delle basi militari più importanti del Paese. Stesso discorso di Fort Irwin anche per gli organi della Cdc (Centers for Disease and Control Prevention, la rete di medicina locale degli Stati Uniti) e per tante altre realtà pubbliche e private americane, come la National Rifle Association, la potente lobby delle armi Usa. Vittime anche in Europa, come la Uefa, la federazione calcistica continentale, e il partito laburista inglese, ignari della reale nazionalità della società. In totale, i codici dell'azienda sono presenti in oltre ottomila app.

Condivisione dati

Secondo quanto ha rivelato Reuters, sulla base di alcuni documenti esaminati, Pushwoosh non ha sede in California, Washington o nel Maryland, come sembrava prima della scoperta e sulla base delle informazioni diffuse attraverso i canali ufficiali e tuttora sugli stessi account social dell’azienda, ma in Siberia, precisamente nella città di Novosibirsk. 

Figura come un’azienda di software che raccoglie e processa dati, dando lavoro a una quarantina di persone. Il suo fatturato nel 2021 ha superato i 143milioni di rubli, l’equivalente di 2,4 milioni di dollari.

I responsabili della società affermano di non avere alcun legame diretto con il Cremlino, per quanto essere registrati in Russia comporti il pagamento delle tasse e il rispetto delle regole vigenti nel Paese, tra le quali quella di dover trasmettere e condividere i dati con le autorità di Mosca. 

Questo deve avvenire anche se le informazioni e i dispositivi sono dislocati in altri Paesi o legati alla geolocalizzazione, l’aspetto che più preoccupa le aziende e le istituzioni occidentali che si affidavano ai software di Pushwoosh. I suoi dipendenti profilano gli utenti delle applicazioni sviluppate e non tutti credono alla dichiarazione dell’azienda attraverso la sua stessa pagina web, secondo la quale non verrebbe raccolto e diffuso alcuna informazione sensibile. 

Max Konev, fondatore di Pushwoosh, oltre al negare qualsiasi malizia o cyberspionaggio, ha aggiunto che «l’origine russa dell’azienda in realtà non era mai stata occultata (per quanto su molti documenti ufficiali di registrazione non risulti) e ha detto di andare fiero delle sue origini russe», rassicurando poi che «ogni dato raccolto viene immagazzinato rigorosamente negli Stati Uniti e in Germania». 

Minaccia internazionale

Gli esperti di cybersecurity hanno subito identificato un potenziale problema di sicurezza pubblica, motivato dal deterioramento dei rapporti dell’Occidente con Mosca, dall’annessione della Crimea nel 2014, ma ancora di più con l’invasione dell’Ucraina dello scorso febbraio. 

La Russia è tra i Paesi campioni nella cybercriminalità e in un passato più o meno recente non è mai stata nascosta la sua influenza in tal senso, perpetrando il cyberspionaggio anche in grandi Paesi strategici e rivali, tra i quali gli stessi Stati Uniti. 

Le sanzioni imposte dopo lo scoppio del conflitto con Kiev non ha condizionato l’attività di molte aziende che rispondono a Mosca, ma sono rimaste nascoste alle autorità attraverso diversi escamotage. 

Google e Apple hanno ribadito l’importanza della privacy e continueranno a lavorare per impedire qualsiasi tipo di violazione, provando a garantire una maggiore trasparenza per le società che sviluppano software e app all’interno dei propri digital store.

Sul caso già si è mossa la Federal Trade Commission, l’agenzia governativa Usa che tutela i consumatori e che preparerà nei prossimi giorni pene e sanzioni nei confronti di Pushwoosh, ma anche del settore tecnologico russo, in caso emergesse una qualche forma di cyberattività illecita nei confronti dei clienti serviti, anche istituzionali. Potrebbe essere un lavoro lungo. Nel database dell’azienda risultano i dati di almeno 2,3 miliardi di device.

Le spie all'ombra della guerra in Ucraina. Che ruolo ha giocato l'intelligence prima e durante la guerra in Ucraina? Pubblichiamo, per gentile concessione dell'autore, un estratto del libro "Spie in Ucraina", in uscita per Ponte alle Grazie. Aldo Giannuli l’8 Novembre 2022 su Il Giornale.

All'inizio della guerra in Ucraina i russi davano per scontata una risposta militare inconsistente da parte degli ucraini, destinati a essere sconfitti in una manciata di giorni, ed erano convinti di essere accolti da una forte simpatia popolare. È evidente che i piani erano basati su un quadro informativo sbagliato, come poi è stato sempre più evidente, legato ad errori della loro intelligence.

Ma anche i servizi occidentali condividevano questa ipotesi di rapida sconfitta ucraina, al punto da suggerire a Zelens’kyj, già il 25 febbraio, di abbandonare Kiev e riparare in Polonia, e le stesse ambasciate occidentali si rifugiarono a Leopoli. Dunque, tanto l’intelligence russa quanto quelle occidentali sono partite dallo stesso quadro concettuale sbagliato, e tutti davano per scontata una rapida vittoria russa. Poi le cose sono andate diversamente. E si capisce senza troppe difficoltà che l’errore veniva da una cattiva analisi di intelligence.

Putin può aver fatto i suoi errori, così come Biden, ma è chiaro che si è trattato di errori basati sul quadro informativo servito dai loro servizi. Infatti, se informazioni e analisi dei servizi fossero state corrette, difficilmente i due capi politici avrebbero operato quelle scelte. Dunque, c’è un’evidenza dei fatti che dice della qualità del lavoro dei servizi.

E poi sono venuti nuovi errori altrettanto ricavabili dall’evidenza dei comportamenti: l’intelligence russa ha sottovalutato le sanzioni occidentali, la partecipazione popolare attiva alla resistenza ucraina, l’isolamento internazionale della Russia in sede diplomatica, e ha fatto alcuni disastrosi errori di comunicazione. Le intelligence occidentali hanno dimostrato di non avere una sufficiente rete informativa in Russia o capacità di penetrazione controinformativa. Pertanto non sanno dire nulla di sensato né sulla possibilità (a nostro avviso, per ora improbabile) di un colpo di Stato che destituisca Putin, né sulle dimensioni del dissenso interno al paese; né, tantomeno, sanno fare previsioni sensate sulle intenzioni della Cina (o, almeno, questo è quello che traspare dal comportamento dell’Amministrazione americana).

Quanto alla salute di Putin, si brancola nel buio e sui giornali si leggono notizie per le quali Putin avrebbe le ore contate e almeno una dozzina di gravi malattie. Forse una manovra di propaganda. Forse. Già queste evidenze parlano di una sostanziale inadeguatezza di tutta la comunità internazionale di intelligence (con l’eccezione di quella ucraina, come vedremo) di cui ci tocca spiegare il perché, ma soprattutto che conseguenze avrà, quel che esige uno studio molto attento.

Certamente ci sono ragioni più prossime ai fatti attuali e, in buona parte, di natura più «tecnica» di cui ci occuperemo nella terza parte di questo libro (l’eccessivo prevalere delle fonti tecniche, le infelici soluzioni organizzative adottate da ciascun servizio, il riflesso delle guerre contro il radicalismo islamico e la tendenza alla militarizzazione dei servizi, le politiche di reclutamento del personale, il problema della corruzione, la tendenza a sottovalutare le dinamiche della complessità e altro). Ma, a parere di chi qui scrive, ci sono altre ragioni più profonde, che hanno lasciato un durevole sedimento culturale.

Iniziamo da una considerazione di partenza: pochi hanno notato che questo è il quarto caso da sessantasei anni in cui la Russia invade un vicino per risolvere una controversia internazionale (o anche solo per riaffermare il suo dominio imperiale su un paese vassallo). Lasciando da parte i casi della guerra alla Finlandia e dell’occupazione della Polonia orientale nel 1939, che fanno parte del ciclo della seconda guerra mondiale, e lasciando da parte il complesso delle guerre caucasiche, che rappresentano casi particolari, dove si intrecciano dinamiche interne e dinamiche internazionali, limitiamoci alle invasioni in periodo di pace. La prima volta fu nel 1956 in Ungheria, con 60.000 morti, poi nel 1968 in Cecoslovacchia, dove morti non ce ne furono, perché i cecoslovacchi scelsero di non opporsi con le armi; accadde poi, ancora, nel 1979, in Afghanistan, dove il conflitto si trascinò per un decennio e produsse molte migliaia di morti (10.000 fra i soli russi). Adesso siamo al quarto caso con l’Ucraina. Trascuriamo, perché irrilevante, il caso dell’invasione del Kazakistan durata solo pochi giorni. Non hanno sparato i tank russi, hanno sparato quelli del governo locale, spalleggiati da quelli russi, ma lasciamo perdere.

È abbastanza per notare una dichiarata propensione russa ad aggredire i vicini che è in perfetta continuità con i comportamenti della Russia zarista e di quella sovietica: questo immenso paese che, nella storia, ha «ingoiato» oltre 100 gruppi etnici su un territorio di oltre 20 milioni di km quadrati (caso unico al mondo) e sempre attraverso lo strumento militare. La Russia era ed è un imperialismo a trazione militare. L’Occidente ha sempre rifiutato di fare i conti con questa realtà. Per cui gli occidentali (in particolare gli americani) hanno ritenuto di trovare la radice di questo comportamento nel regime comunista creato dalla rivoluzione bolscevica e hanno creduto risolto il problema con la fine dell’Urss e delle vestigia comuniste del regime. Ma oggi, in piena epoca «postsovietica», il problema si ripresenta. L’agire attuale dei servizi americani ha avuto alle spalle questo sfondo culturale. L’agire dei servizi russi ha avuto alle spalle la cultura dell’imperialismo a trazione militare che non riconosce in nessun modo il principio di indipendenza nazionale. Di qui la nostra scelta di scavare indietro nel tempo, molto al di là del 24 febbraio 2022.

Estratto dell'articolo di Massimo Basile per la Repubblica l'1 ottobre 2022.

I siti clandestini della Cia disseminati in tutto il mondo erano così segreti che avrebbe potuto scoprirli anche un internauta amatoriale. È la conclusione a cui sono arrivati i ricercatori di Citizen Lab, il dipartimento di sicurezza dell’Università di Toronto, che, dopo aver ricevuto una imbeccata da un giornalista della Reuters, Joel Schectman, hanno smascherato 885 siti web riconducibili agli 007 americani. Per riuscirci non hanno dovuto attingere a sistemi ultra sofisticati: hanno utilizzato materiale a disposizione su internet. (...)

Il caso Hosseini

Il reporter della Reuters, oltre a dare ai ricercatori nuove informazioni, ha raccontato la storia di un "asset" arrestato dalla polizia iraniana e messo in carcere per sette anni, vittima di quel network sulla rete che per Citizen Lab era “insicuro in modo letale”. Era il 2010: l’ingegnere Gholamreza Hosseini stava per imbarcarsi su un volo per Bangkok, quando venne fermato da un addetto alla sicurezza dell’aeroporto internazionale Khomeini di Teheran. Portato nella sala Vip, venne messo contro il muro. Hosseini fece appena in tempo a estrarre dalla tasca alcuni fogli che lo avrebbero portato alla condanna a morte e li ingoiò. Scoprì di essere stato scoperto attraverso i suoi contatti su un sito civetta della Cia. Si è fatto nove anni di carcere. È uscito nel 2019. Con la Cia non ha avuto più nessun rapporto, ma quei nove anni resteranno per sempre nella sua vita.

Il network dei siti della Cia

Ad altri è andata peggio. I nomi non verranno probabilmente mai fuori, ma la “gola profonda” che li ha incastrati era sulla rete: i siti clandestini della Cia e il suo sistema maldestro.

(...) Il network online degli 007 comprendeva centinaia di siti che offrivano, in apparenza, notizie, informazioni sulla salute, il tempo, lo sport, l’intrattenimento, in 29 lingue e 36 Paesi. Tra questi ce n’era uno che si presentava come una pagina tributo al conduttore tv e comico Johnny Carson, storico anchorman di The Tonight Show, trasmesso sulla Nbc. La maggior parte dei siti è rimasta in funzione per nove anni, dal 2004 al 2013. “La nostra speranza - dicono i ricercatori - è che chiunque fosse legato a quei siti non sia più in pericolo, ma vogliamo che la nostra ricerca porti i responsabili di questo comportamento sconsiderato a rispondere dei loro errori”.

(ANSA il 26 agosto 2022.) - Un'inchiesta condotta per dieci mesi dal quotidiano Repubblica insieme al sito investigativo Bellingcat, al settimanale tedesco Der Spiegel e a The Insider ha ricostruito la missione segreta di quella che viene definita "la protagonista della più clamorosa operazione d'intelligence" realizzata dalla Russia in Italia. Lo riportano oggi i siti online degli autori dell'indagine. Si tratta della trentenne Maria Adela Kuhfeldt Rivera, nata in Perù da padre tedesco e inseritasi nei circoli mondani di Napoli per riuscire poi a infiltrarsi tra il personale della base Nato e della VI Flotta statunitense.

"La traccia principale che la collega ai servizi segreti di Mosca - spiega Repubblica - è il passaporto russo usato per entrare in Italia: appartiene alla stessa serie speciale utilizzata dagli 007 del Gru, l'intelligence militare agli ordini del Cremlino". "La nostra inchiesta - afferma il quotidiano - non è riuscita a ricostruire quali informazioni siano state ottenute dalla spia, né se sia stata capace di seminare virus informatici nei telefoni e nei computer dei suoi amici. E' però entrata in contatto con figure chiave della Nato e della Marina statunitense: nessun agente russo era mai riuscito a penetrare così in profondità il vertice dell'Alleanza atlantica". 

Estratto dell’articolo di Floriana Bulfon per “la Repubblica” il 26 agosto 2022. 

[…] […] una donna misteriosa, con un'identità tanto complessa quanto falsa: Maria Adela Kuhfeldt Rivera, nata in Perù da padre tedesco. Una trentenne spigliata che parla sei lingue: ha avviato un'azienda per produrre gioielli, si è inserita nei circoli mondani di Napoli e infine è riuscita a infiltrarsi tra il personale della base Nato e della VI Flotta statunitense: il vertice operativo del potere militare occidentale in Europa.

La traccia principale che la collega ai servizi segreti di Mosca è il passaporto russo usato per entrare in Italia: appartiene alla stessa serie speciale utilizzata dagli 007 del Gru, l'intelligence militare agli ordini del Cremlino […] 

Il suo nome d'altronde era un'invenzione. Nell'agosto 2005 un avvocato di Lima ha chiesto il riconoscimento della cittadinanza peruviana per Maria Adela Kuhfeldt Rivera, producendo un certificato di nascita siglato a Callao il 1° settembre 1978 e un attestato di battesimo della parrocchia di Cristo Liberador. Peccato che all'epoca quella chiesa non esistesse: fu costruita soltanto nove anni dopo. 

[…] Maria Adela inizia il suo percorso lentamente. Stando alle foto pubblicate sui social, tra il 2009 e il 2011 si sposta tra Roma e Malta […] L'11 ottobre 2011 compie una lunga trasferta in treno da Parigi a Mosca attraverso la Bielorussia: il viaggio richiede due giorni e mezzo e lo ripeterà più volte negli anni successivi. Fino al 2012 infatti abita soprattutto nella capitale francese, dove registra una società di gioielleria con il marchio Serein.

[…] In Italia abita in un condominio di Ostia e risiede in una modesta palazzina rosa alla periferia di Valmontone: la carta d'identità rilasciata dal Comune laziale la qualifica come studentessa. Ma a febbraio 2013 registra una società, la Serein Srl, per confezionare gioielli. E nel giro di due anni cambia tutto. La sua ditta apre un laboratorio nel centro orafo il Tarì, a Marcianise, ottenendo l'autorizzazione della Questura. 

Lei si trasferisce a Napoli, in una delle strade più affascinanti di Posillipo, via Manzoni; poi affitta una casa ancora più bella, in via Petrarca, con tanto di terrazza affacciata sul Golfo.

Si impone nella vita cittadina, tra eventi e vernissage. […]

[…] Viene accettata nel Lions Club "Napoli Monte Nuovo", un circolo molto particolare: è stato fondato dagli ufficiali della base Nato di Lago Patria. I soci sono praticamente tutti militari, impiegati e tecnici dell'Alleanza Atlantica o della VI Flotta statunitense […] Maria Adela nel 2015 diventa addirittura segretaria del club. […] 

Quel club è stata la ragnatela perfetta, in cui l'agente del Gru ha agganciato numerosi ufficiali della Nato, imbastendo una vasta rete di rapporti, alcuni di natura sentimentale […] A tutti giustificava la sua cittadinanza russa con una storia romanzesca: era nata in Sud America, figlia di un tedesco e una peruviana. 

Quando non aveva ancora due anni, la madre single l'aveva portata a Mosca per partecipare alle Olimpiadi del 1980. Ma la donna era dovuta rientrare d'urgenza in patria, affidandola a una famiglia di conoscenti sovietici. La madre non è più tornata e Maria Adela è cresciuta nell'Urss, in una situazione difficile: «Durante l'infanzia - raccontava - il patrigno mi ha violentata. Per questo ho lasciato la Russia: il mio sogno è restare in Europa e sposarmi qui».

[…] Le persone che ha avvicinato nei ranghi atlantici e della Us Navy sono tante. Era molto legata all'allora Data Systems Administrator del quartier generale atlantico: la responsabile dei sistemi informatici più sensibili. Ci sono indizi della sua partecipazione ad alcune cerimonie all'interno dei comandi Nato e Usa […] Nel frattempo sposta la sede della società a Milano, a pochi metri dal Duomo: l'ultimo bilancio mette nero su bianco 300mila euro di perdite, probabilmente le spese per la frenetica attività di rappresentanza. 

La nostra inchiesta non è riuscita a ricostruire quali informazioni siano state ottenute dalla spia, né se sia stata capace di seminare virus informatici nei telefoni e nei computer dei suoi amici per spiarli e trafugare dati. 

[…] una lunga analisi nei database russi divulgati negli ultimi anni, usando software per la comparazione dei volti, ha permesso di scoprire il suo vero nome: Olga Kolobova, nata nel 1982. […] ricompare a Mosca alla fine del 2018, quando in poco tempo compra due appartamenti di lusso e un'Audi.  […] Il padre è stato un colonnello che ha ricevuto numerose medaglie "per avere servito la patria all'estero, in Angola, Iraq e Siria”. […]

Adela, una spia russa a Napoli infiltrata nel comando Nato. Una giovane donna sorridente in abito da sera, che alzava il calice al quartier generale della Nato a Napoli è la protagonista della più clamorosa operazione di intelligence realizzata da Mosca nel nostro Paese, come svela un'inchiesta condotta per dieci mesi da Repubblica, Bellingcat, Der Spiegel e The Insider. Floriana Bulfon su La Repubblica il 26 Agosto 2022

La cena di gala nel quartier generale della Nato di Napoli vedeva radunati ai tavoli tutti gli ufficiali più importanti, accompagnati da consorti e ospiti di riguardo. Prima di cominciare, il comandante ha chiesto il silenzio e ha scandito: “Brindiamo all’Alleanza Atlantica!”. Non poteva immaginare che ad alzare il calice insieme a lui ci fosse anche una spia dei servizi segreti russi, una giovane donna sorridente in abito da sera: la protagonista della più clamorosa operazione di intelligence realizzata da Mosca nel nostro Paese.

Spia russa in Italia, l'offensiva del Cremlino. Gianluca Di Feo su La Repubblica il 26 Agosto 2022

L’operazione alla base Nato di Napoli scatta nel 2015, quando il nostro Paese diventa strategico per i piani di Vladimir Putin. Adesso lo è ancora di più

C'è un momento in cui la Storia mondiale cambia e all'improvviso rende strategica l'Italia per i disegni di Vladimir Putin. Tra il 2014 e il 2015 l'occupazione della Crimea e la spedizione militare in Siria spingono l'area di interesse russa nel cuore del Mediterraneo: l'inizio della marcia proseguita con lo sbarco in Libia e la penetrazione verso l'Africa centrale.

Feluche e marinai: l’assalto all’Italia degli agenti segreti di Putin. Giuliano Foschini su La Repubblica il 25 Agosto 2022 

Dal caso del capitano di fregata Biot all'equipaggio dello yacht dello Zar al ruolo dell'ambasciata russa a Roma. Così Mosca infiltra il nostro Paese

Uno su tre. C'è una stima dell'Aisi, il nostro servizio interno, che chiarisce cosa significhi la "operazione Roma" per Mosca e i suoi servizi di spionaggio: un terzo dei funzionari diplomatici nel nostro Paese, 80 almeno dei 240 presenti tra ambasciate, consolati e istituti di cultura, sono in realtà agenti delle tre agenzie di spionaggio di Mosca, Svr, Gru e Fsb.

La rete di spie in Italia che ha aiutato Adela e la telefonata al Gru. Floriana Bulfon su La Repubblica 27 Agosto 2022.  

La donna che ha infiltrato la base Nato di Napoli non agiva da sola. Con lei un gruppo di “dormienti”. La chiamata al capo delle “operazioni illegali” russe il 23 febbraio: il giorno prima dell’attacco a Kiev

Maria Adela non sarebbe stata sola. La spia russa che ha vissuto per quasi un decennio in Italia, infiltrando il comando Nato di Napoli, non sarebbe stata un “lupo solitario” ma parte di “un branco”: figure autonome e indipendenti, pronte però a fare squadra per sostenersi l’un l’altra e risolvere problemi operativi. Agenti che evitano contatti con le ambasciate e i “normali” inviati dei servizi, che trascorrono esistenze insospettabili per anni, spesso in Paesi lontani, e poi si riuniscono per portare a termine la missione: la sceneggiatura della popolare serie tv “The Americans” calata nella realtà della nuova Guerra Fredda. 

Estratto dell'articolo di Floriana Bulfon per “la Repubblica” il 27 agosto 2022.

Adela non sarebbe stata sola. La spia russa che ha vissuto per quasi un decennio in Italia, infiltrando il comando Nato di Napoli, non sarebbe stata un "lupo solitario" ma parte di "un branco": figure autonome e indipendenti, pronte però a fare squadra per sostenersi l'un l'altra e risolvere problemi operativi. Agenti che per non lasciare tracce evitano persino i contatti con i diplomatici e i "normali" inviati dei servizi.

Trascorrono esistenze insospettabili per anni, spesso in Paesi lontani, e poi si riuniscono per portare a termine la missione: la sceneggiatura della popolare serie tv "The Americans" calata nella realtà della nuova Guerra Fredda.

L'inchiesta realizzata da Repubblica con il sito investigativo Bellingcat , il settimanale Der Spiegel e The Insider ha svelato la doppia vita della 007 che è riuscita a penetrare in profondità il quartiere generale atlantico e statunitense.

Nei dieci anni di missione in Europa ha usato l'identità di Maria Adela Kuhfeldt Rivera, ma in realtà si chiama Olga Kolobova: la figlia di un colonnello dell'Armata Rossa, pluridecorato per le sue missioni in Iraq, Siria e Angola ai tempi dell'Urss. Il suo vero nome è stato confermato da un elemento inequivocabile: Olga ha usato sul profilo WhatsApp la stessa foto postata da Maria Adela agli amici italiani.

E il legame con l'intelligence militare è dimostrato dai tabulati del suo cellulare, ottenuti da Bellingcat : lo scorso 23 febbraio ha chiamato il telefono del comandante del Quinto Dipartimento del Gru, l'unità più riservata che ha condotto "i programmi illegali".

Si tratta di una cellula del reparto che ha cercato di avvelenare in Inghilterra Sergej Skipral e ha messo a segno altri omicidi in Occidente: il compito di questo nucleo super-selezionato è quello di inserire "agenti in sonno" nei Paesi della Nato, dove restavano per anni prima di entrare in azione. Come Maria Adela- Olga. (...)

Case a Posillipo, amori e misteri: la Procura accende un faro sulla spia russa Adela. Antonio Di Costanzo e Paolo Popoli su La Repubblica 27 Agosto 2022.  

Un negozio di gioielli nel prestigioso Palazzo Calabritto a Napoli, le serate vip, il racconto del fidanzato: "Scompariva per settimane"

Due case a Posillipo. Entrambe di oltre 120 metri quadrati con vista mozzafiato sul golfo di Napoli. E poi un “atelier” del gioiello aperto nel cuore di Chiaia, il quartiere più glamour della città dove tutti la conoscevano come Maria Adela Kuhfeldt, giovane imprenditrice innamorata di Napoli. In realtà si trattava di una spia al servizio di Mosca, come rivelato da Repubblica, piombata in Campania per infiltrare il comando della Nato.

Spia russa in Italia: ecco com'è nata l'inchiesta da un database bielorusso. Floriana Bulfon su La Repubblica il 27 Agosto 2022. 

Il punto di partenza è stato un archivio condiviso dagli oppositori al regime di Minsk: conteneva la registrazione dei cittadini russi transitati tra Europa e madrepatria. Maria Adela Rivera Kuhfeldt è entrata per ben tredici volte in Bielorussia

La pista che ha permesso di smascherare Maria Adela-Olga, la spia russa che ha agito per un decennio in Italia, è nata alla frontiera bielorussa: la prima traccia di un lavoro che ha portato Repubblica, Bellingcat, Der Spiegel e The Insider a ricostruire in dieci mesi di indagini la straordinaria missione della 007. Il punto di partenza è stato un database fatto arrivare a Bellingcat dagli oppositori al regime di Minsk: la registrazione dei cittadini russi transitati tra Europa e madrepatria, con tutti gli ingressi pure quelli via ferrovia. 

Spia russa a Napoli, l'ex fidanzato: "Spariva per settimane, mi portò a una festa in casa di un americano". Antonio Di Costanzo e Paolo Popoli su La Repubblica il 27 Agosto 2022.

Intervista all'imprenditore del settore orafo che ha avuto una relazione di un anno e mezzo con Olga Kolobova

Alla notizia che Maria Adela Kuhfeldt fosse una spia russa, è rimasto incredulo: "Non ho rapporti con lei dalla fine della nostra relazione, durata circa un anno e mezzo", racconta Alessandro Di Mare, imprenditore nel settore orafo. L'incontro tra i due è nato per motivi di lavoro. 

"Pericolo dai server russi in Svizzera, così Mosca influenza il voto in Italia”. Franco Zantonelli su La Repubblica il 29 Agosto 2022. 

L'allarme degli 007 elvetici: bisogna impedire che da qui parta una cyberguerra in Europa

La Svizzera è diventata una piattaforma privilegiata dai russi per lanciare cyberattacchi nei paesi occidentali, Italia compresa, soprattutto nell'imminenza di appuntamenti elettorali. L'obbiettivo di Mosca, come ha scritto ieri il quotidiano Blick di Zurigo, entrato in possesso di un rapporto confidenziale del SRC, il Servizio di Informazione della Confederazione, è quello di dividere l'Occidente, influenzandone le elezioni.

Kaja Kallas: "Sulle spie vi dico, ascoltate noi baltici, perché sappiamo come operano i russi". Antonello Guerrera su La Repubblica 27 Agosto 2022.  

La premier estone in una intervista con Repubblica spiega che la presunta killer di Daria Dugina non si trova in Estonia: "È un chiaro esempio di disinformazione". Le elezioni in Italia? "Mosca ha sempre cercato di dividerci". E sui visti a turisti russi: "Ecco perché serve un divieto in tutta la Ue, subito"

“Noi estoni abbiamo lanciato l’allarme per anni sullo spionaggio di Mosca in Europa, in vari consessi internazionali. Perché noi i russi li conosciamo bene. Ma diversi Paesi hanno fatto orecchie da mercante…”. Kaja Kallas, 45 anni, premier dell’Estonia, preferisce non fare i nomi dei politici “sordi” ai continui avvertimenti di Tallin e degli altri baltici. Ma dopo l’inchiesta di Repubblica, Bellingcat e Spiegel sull’agente russa del “Gru” “Maria Adela”, che per anni a Napoli ha infiltrato i più alti livelli della Nato, la leader nordica è “ora felice che questo grave problema sia emerso”.

Spia russa, l'ex direttrice di Cosmopolitan: “Al telefono parlammo della guerra, inveì contro l’Ucraina, poi è sparita”. Enrico Franceschini su La Repubblica 27 Agosto 2022.

Marcelle d'Argy Smith: "Per me era come una sorella. I nostri amici si chiedevano da dove prendesse tutti quei soldi".

«Tutti si chiedevano da dove le arrivassero i soldi. E non ho mai incontrato un uomo che non fosse attratto da lei. Era la spia perfetta». Marcelle D’Argy Smith, giornalista inglese, ex-direttrice della rivista Cosmopolitan, è stata per più di dieci anni amica di Maria Adela Kuhfeldt Rivera, la spia russa infiltrata nella base Nato di Napoli.

Adela nella base Nato di Napoli, la reazione dell'ambasciata: "Se vedi 007 russi ovunque leggi Repubblica". Letta: "Inaccettabile". Calenda: "Fastidiosa propaganda". La Repubblica 27 Agosto 2022.  

Le reazioni all'inchiesta condotta per dieci mesi da Repubblica, Bellingcat, Der Spiegel e The Insider. Il sarcasmo della rappresentanza diplomatica. La solidarietà del Pd. Il Copasir: "Le spie russe privilegiano la copertura diplomatica". Della Vedova (Più Europa): "La destra faccia chiarezza su Putin"· 

"Se vedi 007 russi ovunque, forse leggi troppo la Repubblica... ". L'ambasciata russa replica con una vignetta sarcastica pubblicata sui suoi canali social all'inchiesta di Repubblica sulla spia russa nella base Nato di Napoli. Un lavoro di dieci mesi, portato avanti insieme al sito investigativo Bellingcat, al settimanale tedesco Der Spiegel e a The Insider, che ha ricostruito la missione segreta di quella che viene definita "la protagonista della più clamorosa operazione d'intelligence" realizzata dalla Russia in Italia: Maria Adela Kuhfeldt Rivera, nata in Perù da padre tedesco. L'inchiesta racconta un decennio della vita della misteriosa ragazza - tra Parigi, Malta, Roma e poi sotto al Vesuvio - prima che nel 2018 si perdessero le sue tracce.

La copertura diplomatica è storicamente la modalità operativa privilegiata dalle spie russe. Un dato sottolineato dal Copasir nella relazione al Parlamento approvata il 19 agosto, che cita "l'espulsione a inizio aprile 2022 di 30 diplomatici e rappresentanti dell'intelligence russa".

La solidarietà del Pd e di Azione

Per il segretario dem Enrico Letta, le rivelazioni di Repubblica sono "gravissime". "L'ambasciata russa dia risposte invece di reagire nel modo inaccettabile col quale anche oggi si è espressa", ha aggiunto. "È una vignetta che non fa ridere. Anzi, dà molto fastidio. È propaganda pura e semplice. E per noi italiani, inaccettabile". Così Carlo Calenda, leader di Azione.

A sostegno della Repubblica è intervenuto anche l'esponente Pd Filippo Sensi, su Twitter. 

Il Copasir

Scrive il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica: "Dal punto di vista della minaccia spionistica, l'attivismo russo risulta particolarmente penetrante sia in ambito di politica interna che estera, anche in contesti Nati e Ue, del comparto militare e delle imprese italiane nei settori energetico, economico e finanziario" e "la modalità operativa privilegia la copertura diplomatica con lo scopo di permettere una maggiore facilità di avvicinamento di soggetti istituzionali". Il Copasir a questo proposito sottolinea le differenza con la Cina: "I due principali campioni della guerra ibrida" agiscono "in modi diversi ma ugualmente insidiosi". "La Cina - si legge nella relazione - si rivolge, oltre che al tessuto economico, industriale e politico, anche al campo accademico e alla ricerca nel cui contesto sono stati rilevati tentativi di reclutamento di talenti presso le Università anche per il tramite degli Istituti Confucio".

Le reazioni

Per il segretario di Più Europa e sottosegretario agli Esteri, Benedetto Della Vedova, questa vicenda "evidenzia una volta di più quanto sia fondamentale per il futuro dell'Italia fare chiarezza su Putin. La destra, in particolare con Salvini e Berlusconi, resta come minimo ambigua, anche sul sostegno all'Ucraina e sulle sanzioni. +Europa -Putin", scrive su Twitter.

Non è stupito il generale Giorgio Battisti, primo comandante del contingente italiano della missione Isaf in Afghanistan e membro del Comitato Atlantico Italiano. Che commentando l'inchiesta di Repubblica dice all'Adnkronos: "Lo spionaggio è sempre esistito. Certamente colpisce la facilità con cui questa donna si è mossa in Occidente assumendo incarichi e ruoli diversi. D'altra parte, però, la globalizzazione ha facilitato questi casi di spionaggio perché già a una persona qualsiasi basta entrare in Ue per spostarsi liberamente dove vuole. È possibile che la nostra intelligence si sia già mossa da tempo: i nostri servizi sono infatti molto efficienti".

Per Andrea Margelletti, presidente del Cesi (Centro Studi Internazionali), "lo spionaggio sessuale - o “trappola al miele” come si dice nel mondo dell'Intelligence - è una pratica comune tra i servizi per conoscere e individuare i punti deboli di un target o bersaglio da ottenere. Questi possono essere il denaro, l'ego, il rancore o il sesso. Proprio lo strumento sessuale, come ha fatto Adela, viene utilizzato per poter arrivare a certe informazioni. Persone come lei sono addestrate a farlo svolgendo il loro lavoro in modo molto pianificato. Spesso questi rapporti avvengono con uomini o donne sposati perché il ricatto è sempre la migliore arma - dice all'Adnkronos - La Nato sa da sempre che la Russia è un avversario. Rispetto agli anni '50 o '60 siamo tutti molto più esperti: se qualcuno con cui mi sto frequentando mi chiede determinate informazioni piuttosto riservate lo capisco subito e devo immediatamente avvertire i miei superiori e concordare che cosa dire. Non è detto comunque che questa donna abbia necessariamente conseguito i suoi risultati".

Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 26 agosto 2022.

Uno su tre. C'è una stima dell'Aisi, il nostro servizio interno, che chiarisce cosa significhi la "operazione Roma" per Mosca e i suoi servizi di spionaggio: un terzo dei funzionari diplomatici nel nostro paese, 80 almeno dei 240 presenti tra ambasciate, consolati e istituti di cultura, sono in realtà agenti delle tre agenzie di spionaggio di Mosca, Svr, Gru e Fsb. Sulla carta hanno compiti da funzionari amministrativi, agenti commerciali, professori, ma in realtà il loro lavoro è reperire informazioni, creare contatti e girare tutto a Mosca attraverso report analitici con cadenza settimanale o mensile. 

È una storia antica che va avanti da almeno venti anni […] grazie soprattutto al rapporto personale tra Vladimir Putin e Silvio Berlusconi. Per dire: la figlia di Putin, come ha rivelato ieri lo Spiegel , ha girato per anni, prima di finire nella lista nera, liberamente per l'Europa grazie a un visto italiano, matrice ITA031963667.

Quel filo tra l'Italia e Mosca si è però spezzato un anno e mezzo fa, il 30 marzo del 2021, ben prima dell'invasione russa in Ucraina, quando in un parcheggio della periferia di Roma fu arrestato il capitano di fregata Walter Biot, scoperto a passare documenti riservati a spie russe per 2000 euro al mese. […] Draghi era al governo da poco più di un mese, Franco Gabrielli era stato nominato autorità delegata nemmeno due settimane prima e aveva allontanato tutto il sistema di relazioni di intelligence voluto dal presidente Giuseppe Conte. L'arresto di Biot […] è letto come uno spartiacque nei rapporti tra Italia e Russia […]

L’Italia ha accompagnato su un aereo i due russi per i quali lavorava: Aleksej Nemudrov, addetto militare dell'ambasciata, e Dmitrij Ostroukhov, addetto per l'esercito, due personaggi di calibro e spessore all'interno dell'ambasciata. […] Il governo Draghi scelse la linea dell'intransigenza. […]

Russia, Soldatov: "La spia Olga Kolobova cercava informazioni sulle vite private degli ufficiali. Per spiare la Nato, il Gru ha fondi illimitati". Rosalba Castelletti su La Repubblica il 28 agosto 2022.  

Parla il massimo esperto di intelligence russa ricercato dall'Fsb dopo le sue scomode inchieste sulle purghe interne: "L'intelligence militare gioca partite a lungo termine. I risultati dell'operazione che ha coinvolto Olga-Adela potrebbero arrivare tra anni"

"Il servizio d'intelligence militare russo Gru gioca sempre partite a lungo termine. I risultati dell'operazione che ha coinvolto Maria Adela-Olga potrebbero persino arrivare tra anni", mette in guardia Andrej Soldatov, massimo esperto sui servizi d'intelligence russi, commentando l'inchiesta sulla spia russa che ha operato per oltre un decennio in Italia frequentando alti funzionari della Nato a Napoli.

Natogate, il misterioso marito della spia morto a Mosca. Floriana Bulfon su La Repubblica il 31 Agosto 2022. 

Adela sposò Danilo Alfredo Muñoz Pogoreltsev nel 2012 a Valmontone. Ma i familiari, che l'hanno saputo solo ora dall'inchiesta di "Repubblica", fanno riemergere i dubbi sulla scomparsa del giovane dopo "una malattia troppo veloce" 

«Abbiamo saputo del matrimonio con Maria Adela solo dalla vostra inchiesta. È stato uno shock. Mia madre alla fine riflettendo ha detto che diversi aspetti della morte di mio fratello le sono sembrati strani: soprattutto che la malattia fosse stata così veloce». Tra i tanti amori seminati in Italia, la spia russa dalla doppia vita che ha infiltrato i comandi Nato di Napoli ha avuto anche un marito: un matrimonio durato solo un anno, perché l’uomo è misteriosamente morto a Mosca.

Estratto dall'articolo di Floriana Bulfon per “la Repubblica” l'1 settembre 2022.

«Abbiamo saputo del matrimonio con Maria Adela solo dalla vostra inchiesta. È stato uno shock. Mia madre alla fine riflettendo ha detto che diversi aspetti della morte di mio fratello le sono sembrati strani: soprattutto che la malattia fosse stata così veloce». Tra i tanti amori seminati in Italia, la spia russa dalla doppia vita che ha infiltrato i comandi Nato di Napoli ha avuto anche un marito: un matrimonio durato solo un anno, perché l’uomo è misteriosamente morto a Mosca. 

L’inchiesta condotta da Repubblica con Bellingcat, Der Spiegel e The Insider ha ricostruito la vicenda del consorte: Danilo Alfredo Muñoz Pogoreltsev, un trentenne atletico di madre russa e padre italo-ecuadoriano, nato a Mosca e cresciuto alle porte di Quito dove nel 2008 ha aperto una società immobiliare. Due anni dopo, assieme alla madre e alla sorella, crea a Panama l’azienda Solosviet per l’export di fiori, attiva nei Paesi dell’ex Urss.

I suoi amici ignoravano le nozze. E non ne ha parlato neppure alla sorella, Olga Svetlana Muñoz Pogoreltseva, che si trovava in Italia dal 2004. Si è infatti laureata in veterinaria all’Università di Bologna nel 2011. Poi ha preso un master a Londra ed è entrata nel team di ricercatori dell’ateneo di Padova che si occupa di virus e di contagi sugli animali. Nel 2019 si è trasferita all’Università della Florida, dove ha discusso pochi mesi fa il suo dottorato con la professoressa Ilaria Capua, con cui collabora da tempo. 

«Non so molto dei viaggi di mio fratello in Italia – racconta Olga Svetlana a Repubblica- mi è venuto a trovare solo una volta nel 2005. Per me dal 2007 al 2013 ha vissuto a Barcellona. Non ha mai lavorato: era un eterno studente. A Mosca si è laureato in psicologia, poi è andato in Spagna per un master in psicologia applicata al marketing ma ha capito che non era quello che voleva ed è passato a filosofia». [...]

Non si sa come abbia conosciuto la 007, ma nel luglio 2012 i due si sposano nel municipio di Valmontone, non lontano da Roma: le nozze vengono celebrate dal sindaco. Nei mesi successivi l’uomo va più volte a Mosca da solo. Proprio nella capitale russa viene ricoverato e muore nel giro di poche settimane. Maria Adela non c’è. Il certificato ufficiale indica la causa del decesso in “polmonite bilaterale e lupus sistemico”: una sindrome rara nei soggetti giovani. 

«A un certo punto, ha iniziato a lamentarsi e a dire che non si sentiva bene – ricorda la sorella - . Nel febbraio 2013 è andato in Ecuador a trovare nostra madre e lei l’ha trascinato dal medico. Ma i dottori non hanno ben capito cosa avesse: hanno diagnosticato complicazioni da infezione batterica, non lupus. Verso la fine di marzo 2013 è tornato a Mosca perché doveva iniziare a lavorare: era stato finalmente assunto, se non ricordo male, da una società di videogiochi» [...]

Perché Danilo Alfredo e Maria Adela si sono sposati? Un’ipotesi è che la spia volesse ottenere la cittadinanza italiana attraverso le nozze. L’uomo infatti aveva un passaporto italiano, oltre che ecuadoriano e russo. Maria Adela del resto aveva cercato in tutti i modi di procurarsi un passaporto non russo. 

Ancora prima dell’inizio della sua missione, nel 2005, tramite un avvocato aveva tentato di venire riconosciuta come peruviana: la sua identità di copertura - Maria Adela Kuhfeldt Rivera l’accreditava come figlia di una donna peruviana e di un cittadino tedesco.

Ma le autorità di Lima avevano scoperto che il certificato di battesimo della parrocchia di Cristo Liberador era falso. Era datato 1° settembre 1978 e all’epoca quella chiesa non esisteva. L’errore porta le autorità peruviane a respi ngere la domanda e aprire un’indagine penale. E così per giustificare il suo passaporto russo Maria Adela s’è trovata costretta a inventare un racconto rocambolesco: diceva agli amici che la madre l’aveva abbandonata a Mosca durante le Olimpiadi del 1980, all’età di due anni. 

Poi intorno al 2011 in Francia tenta di trovare qualche contatto per farsi naturalizzare tedesca. Ma dall’anno successivo le sue attenzioni si concentrano sull’Italia e arrivano le nozze. Pochi mesi dopo, la spia crea una azienda di gioielli, la Serein, e si trasferisce a Posillipo, inserendosi nella mondanità napoletana e nel Lions Club frequentato dagli ufficiali della Nato e della VI Flotta americana. L’inizio di una clamorosa operazione top secret portata avanti almeno fino al 2018, quando è tornata in patria e ha ripreso il suovero nome: Olga Kolobova. 

Un nuovo giallo intorno alla spia russa Adela: il commercialista milanese e quelle date che non tornano.  Floriana Bulfon su La Repubblica il 6 Settembre 2022.

“Maria Adela” al Vaticano con il suo fidanzato, in una foto da Facebook del 2010 

La 007 moscovita che si era infiltrata nella base Nato di Napoli rientrò definitivamente in patria il 15 settembre del 2018, ma tre documenti ufficiali la danno nel capoluogo lombardo l'anno dopo, per la liquidazione della società. Il noto commercialista Angelo Maria Roversi dice che si tratta di un errore, ma non rivela chi gli presentò la cliente. E sull'origine dei lussi di quest'ultima rimane il mistero

Tra i tanti misteri di Adela c’è un piccolo giallo milanese, che sembrava accreditare una missione ancora più lunga della 007 russa che ha infiltrato i vertici Nato di Napoli. L’inchiesta di Repubblica, Bellingcat, Der Spiegel e The Insider ha ricostruito come la spia avesse lasciato all’improvviso l’Italia e fosse rientrata a Mosca il 15 settembre 2018, poche ore dopo la pubblicazione dei passaporti di altri agenti segreti con numeri di serie molto vicini al suo.

Lo spionaggio russo sulla Nato continua. Una spia russa infiltrata nei circoli Nato di Napoli per seminare virus informatici.  Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Agosto 2022

La più clamorosa operazione di intelligence realizzata da Mosca in Italia svelata da un'inchiesta giornalistica internazionale. La misteriosa agente venuta da Mosca avrebbe lavorato sotto copertura per un decennio

Una spia donna russa con una ragnatela di rapporti tra Parigi, Malta, Roma e poi Napoli, un giro di passaporti falsi per muoversi tra uno stato e l’altro e naturalmente la guerra, non più fredda, tra Russia e Occidente, con tanto di base Nato coinvolta. Un tema attualissimo come lo spionaggio informatico con furto di dati che avrebbe potuto ispirare Ian Fleming, per un nuovo capitolo della saga 007. 

Per fortuna esiste ancora il giornalismo d’inchiesta, con reporter investigatori che ha tentato per mesi di tracciare gli spostamenti della misteriosa spia russa. Eppure è tutto vero e tutto da ricostruire ancora nei dettagli. Alcuni contorni dello spionaggio al servizio di Putin sono però abbastanza chiari ed è anche merito di una lunga inchiesta condotta per dieci mesi dal sito Bellingcat, con il settimanale Der Spiegel, The Insider e con il quotidiano italiano La Repubblica, che nell’edizione di oggi rivela alcuni particolari.  

L’approfondimento si dedica a ricostruire quella che viene rappresentata come la missione segreta di Maria Adela, nome che sarebbe stato inventato, raccontando un decennio della vita della misteriosa ragazza – di stanza tra Parigi, Malta, Roma e poi sotto al Vesuvio – prima che nel 2018 si perdessero le sue tracce.  La missione segreta sarebbe stata condotta per quasi un decennio da una donna tanto misteriosa, quanto con un’identità più falsa che complessa : Maria Adela , nata in Perù da padre tedesco, spigliata trentenne che parla sei lingue, che aveva avviato un’azienda per produrre gioielli, riuscendo ad inserirsi prima nei circoli mondani di Napoli e dopo ad infiltrarsi tra il personale della base Nato e della VI Flotta statunitense: il vertice operativo del potere militare occidentale in Europa.

la prova su Facebook della partecipazione della spia russa agli eventi NATO a Napoli

Maria Adela Kuhfeldt Rivera la giovane donna spia della Russia, avrebbe avuto accesso ai circoli frequentati da ufficiali e militari della base Nato di Napoli. Tra il 2009 e il 2010 la donna si muove tra Francia, Italia e Malta. Ha un permesso di soggiorno come studentessa. Racconta di frequentare una scuola di moda a Roma. Dopo un breve periodo a Parigi, nel 2013 vive a Valmontone (alle porte di Roma) e apre la società Serein srl per la produzione di gioielli. Risulta abitare a Ostia. Nel 2015 l’arrivo a Napoli dove va a vivere in un’abitazione in via Manzoni nel quartiere Posillipo con vista mare e si inserisce nella mondanità cittadina. Nel 2016 apre una concept gallery a Palazzo Calabritto, all’angolo di piazza dei Martiri nel cuore di Napoli ed a fine anno trasferisce la sede della società Serein nel centro di Milano. Diventa segretaria del Lions Club Napoli Monte Nuovo. Il club si trova a Lago Patria, sede della Joint Allied Force della Nato: i soci sono quasi tutti militari o dipendenti del Comando Nato e dell’Us Navy.

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Nel 2018 sparisce nel nulla e torna in Russia senza avvisare neppure il fidanzato. Il motivo? Secondo quanto accertato nell’inchiesta, il giorno prima, 15 settembre, Bellingcat aveva rivelato nomi e numeri di passaporto degli agenti del Gru coinvolti nell’avvelenamento di Sergey Skripal a Londra. Due mesi dopo, Maria Adela spiega sulla sua pagina Facebook i motivi della sua partenza: “5 mesi…. E la verità che devo finalmente rivelare. Stavo provando di nascondermi da me stessa, in qualche momento ci sono riuscita! Adesso i capelli stanno crescendo dopo la chemio, corti corti ma ci sono… Mi manca tutto, però sto provando di respirare. Almeno imparare di farlo… P.s. Grazie a tutte le persone chi in questi 5 mesi non hanno smesso di “bombardarmi” con i messaggi !!!! Love you!!!!”. 

Il suo nome era un’invenzione costruita a tavolino. Nell’agosto 2005 un avvocato di Lima ha chiesto il riconoscimento della cittadinanza peruviana per Maria Adela Kuhfeldt Rivera, producendo un certificato di nascita siglato a Callao il 1° settembre 1978 e un attestato di battesimo della parrocchia di Cristo Liberador. Piccolo particolare in quell’epoca quella chiesa non esisteva: venne costruita soltanto nove anni dopo. Un errore grossolano che induissero le autorità peruviane a respingere la domanda. 

Ma a Mosca non se ne preoccupano pensando probabilmente che nessuno andrà a controllare in Sud America e quindi decidono di far proseguire l’operazione. L’anno successivo, nel 2006, viene emesso un passaporto russo, che la presenta come una tecnica dell’università statale con un indirizzo moscovita di residenza dove i giornalisti del pool investigativo hanno verificato nessuno l’ha mai vista, conosciuta e tantomeno la ricorda. 

La spy-story viene definita come “la più clamorosa operazione di intelligence realizzata da Mosca nel nostro Paese“. L’inchiesta sostiene che “la traccia principale che collega la donna ai servizi segreti di Mosca è il passaporto russo usato per entrare in Italia, appartiene alla stessa serie speciale utilizzata dagli 007 del Gru, l’intelligence militare agli ordini del Cremlino“. cioè quelli che hanno tentato di avvelenare con il gas Novichok Sergey Skripal e il produttore di armi bulgaro Emilian Gebrev. Il 14 settembre 2018 il sito Bellingcat e The Insider hanno smascherato la squadra di killer, pubblicando i loro documenti. E guarda caso proprio il giorno dopo all’improvviso Maria Adela è partita da Napoli con un volo per Mosca, senza mai più farvi ritorno. sentendosi probabilmente “bruciata” come spia. 

Passano mesi ed alla fine 2018, a Mosca ricompare Olga Kolobova, nata nel 1982, di cui in Russia non c’era traccia dal 2005. Olga è la figlia di un colonnello russo, decorato per le missioni di intelligence. Acquista due appartamenti di lusso e una Audi in pochi mesi. La foto del profilo WhatsApp di Olga Kolobova è la stessa di Maria Adela Kuhfeldt Rivera.

La storia della spia di Putin infiltrata nel comando Nato a Napoli. Maria Adela, vero nome Olga Kolobova, era in realtà una spia russa al soldo del Cremlino. La denuncia: "Nessun agente russo era mai riuscito a penetrare così in profondità il vertice della Nato". Federico Giuliani il 26 Agosto 2022 su Il Giornale.

A Napoli la conoscevano come Maria Adela Kuhfeldt Rivera. Trentenne, nata in Perù da padre tedesco, capace di parlare sei lingue, la giovane si era stabilità nel capoluogo campano una decina di anni fa. Qui frequentava con disinvoltura i circoli mondani della città. Al punto di riuscire a infiltrarsi tra il personale della base Nato e della VI Flotta statunitense, ovvero il gotha del potere militare occidentale in Europa. Peccato che Miss Maria Adela, vero nome Olga Kolobova, fosse in realtà una spia russa al soldo del Cremlino. Oggi questa donna è letteralmente evaporata come neve al sole. Quel che è peggio è che nessuno sa quali e quanti segreti sia riuscita a carpire nel corso della sua missione.

Una spia russa nel comando Nato a Napoli

Quella sopra sintetizzata è la clamorosa vicenda ricostruita da un'inchiesta condotta per dieci mesi da un consorsio di testate giornalistiche: il settimanale tedesco Der Spiegel, il sito investigativo Bellingcat, The Insider e il quotidiano italiano Repubblica. Maria Adela è stata definita "la protagonista della più clamorosa operazione d'intelligence" mai realizzata dalla Russia in Italia.

L'indizio principale che collegherebbe la ragazza ai servizi segreti di Mosca sarebbe il passaporto usato per entrare in Italia. Un passaporto russo, a quanto pare appartenente alla stessa serie speciale impiegata anche dagli 007 del Gru, ossia dall'intelligence militare del Cremlino.

Secondo quanto riportato, Maria Adela avrebbe frequentato personale della base Nato e della VI Flotta statunitense. Non sappiamo, tuttavia, se la donna sia stata in grado di diffondere virus informatici negli smartphone e nei pc dei suoi vecchi amici. "Nessun agente russo era mai riuscito a penetrare così in profondità il vertice dell'Alleanza atlantica", hanno sottolineato gli autori dell'inchiesta.

La storia di Adela

Per raccontare la ricostruzione della storia di Adela è utile partire dal fondo. Il 14 settembre 2018, Bellingcat e The Insider pubblicarono alcuni documenti riservati con i quali sostennero di aver smascherato la squadra di killer, presumibilmente connessa al Gru, responsabile di aver cercato di avvelenare con il gas Novichok sia Sergey Skripial che Emilian Gebrev. Ebbene, all'indomani di questa rivelazione Adela sarebbe partita da Napoli in direzione Mosca, senza avvisare nessuno e senza mai più riapparire.

A distanza di quattro anni si sarebbe scoperto che il nome di Maria Adela era inventato, così come la sua biografia. Nell'agosto 2005 un avvocato di Lima avrebbe chiesto il riconoscimento della cittadinanza peruviana per la ragazza, realizzando un certificato di nascita siglato a Callao il primo settembre 1978, oltre ad un attestato di battesimo della parrocchia di Cristo Liberador. All'epoca dei fatti non sarebbe esistita nessuna chiesa del genere (sarebbe nata soltanto nove anni dopo), e dunque le autorità peruviane avrebbero bloccato il procedimento burocratico.

Mosca avrebbe deciso in ogni caso di proseguire con l'operazione, sperando che nessuno controllasse questo cavillo burocratico in un Paese del Sudamerica. Nel 2006 sarebbe arrivato il passaporto russo per Maria Adela, definita una tecnica dell'università statale. Nell'inchiesta si legge che all'indirizzo moscovita di residenza presente sul documento nessuno si ricorda della donna.

L'arrivo in Europa

A quel punto Adela sarebbe entrata in Europa. Nel periodo compreso tra il 2009 e il 2011 la ragazza si sarebbe spostata tra Roma e Malta. Nell'ottobre 2012 avrebbe effettuato una complicata trasferta via treno, a Mosca da Parigi passando attraverso la Bielorussia. Sarebbe stato il primo di tanti viaggi simili che la donna avrebbe ripetuto negli anni a venire. Certo è che, fino al 2012, Adela, si legge nell'inchiesta, abitava a Parigi, dove tra l'altro avrebbe registrato una società di gioielleria con il marchio Serein. A quel punto si sarebbe quindi spostata in Italia, abitando prima a Ostia in una modesta palazzina, poi a Napoli, in una delle vie più esclusive di Posillipo. Da studentessa, come era definita sulla carta d'identità rilasciata dal Comune laziale, avrebbe registrato una società per confezionare gioielli, Serein Srl.

La vita di Adela si sarebbe trasformara. Avrebbe iniziato a partecipare agli eventi più importanti della città, organizzare serate e cene con personaggi più o meno noti. Stando all'inchiesta fatturava poco, eppure spendeva molto più di quanto riusciva sulla carta ad incassare. Ad un certo punto sarebbe riuscita perfino ad entrare nel Lions Club Napoli Monte Nuovo, un circolo fondato dagli ufficiali della base Nato di Lago Patria. I soci sono militari, tecnici o impiegati dell'Alleanza Atlantica o della VI Flotta statunitense. Adela avrebbe dunque utilizzato questo club per tessere una ragnatela con la quale agganciare ufficiali Nato. Con alcuni di loro la donna avrebbe imbastito pure rapporti sentimentali.

In seguito ad un'analisi approfondita, e comparando la foto di un vecchio passaporto, ecco infine la presunta verità dell'inchiesta: Maria Adela sarebbe in realtà Olga Kolobova, nata nel 1982. Suo padre risulterebbe essere un colonnello che, in passato, avrebbe ricevuto mediaglie per aver servito la Russia all'estero. L'immagine sul profilo WhatsApp di Olga, infine, sarebbe la stessa di quella pubblicata da Maria Adela ai tempi di Napoli.

Maria Adela Kuhfeldt Rivera, l'ombra della spia di Putin in Italia. Libero Quotidiano il 26 agosto 2022

"Una presunta spia della Russia, una giovane donna, avrebbe avuto accesso ai circoli frequentati da ufficiali e militari della base Nato di Napoli. A ricostruire la vicenda è il quotidiano la Repubblica nell’edizione di oggi, con una lunga inchiesta condotta per dieci mesi assieme al sito Bellingcat, il settimanale Der Spiegel e The Insider. L’approfondimento si dedica a ricostruire quella che viene rappresentata come la missione segreta di Maria Adela Kuhfeldt Rivera, nome che sarebbe stato inventato, raccontando un decennio della vita della misteriosa ragazza - di stanza tra Parigi, Malta, Roma e poi sotto al Vesuvio - prima che nel 2018 si perdessero le sue tracce. Il quotidiano definisce la vicenda come "la più clamorosa operazione di intelligence realizzata da Mosca nel nostro Paese". (Qui la foto della presunta spia)

L’articolo su Repubblica specifica: "La nostra inchiesta non è riuscita a ricostruire quali informazioni siano state ottenute dalla spia, nè se sia stata capace di seminare virus informatici nei telefoni e nei computer dei suoi amici per spiarli e trafugare dati". L’inchiesta sostiene che "la traccia principale che collega la donna ai servizi segreti di Mosca è il passaporto russo usato per entrare in Italia, appartiene alla stessa serie speciale utilizzata dagli 007 del Gru, l’intelligence militare agli ordini del Cremlino". Ma chi è Adela? Una trentenne cosmopolita e spigliata che parla sei lingue e ha avviato un’azienda per produrre gioielli, poi si è inserita nei circoli mondani di Napoli e infine è riuscita a infiltrarsi tra il personale della base Nato e della VI Flotta statunitense: il vertice operativo del potere militare occidentale in Europa.

"Una moderna Mata Hari, che si è fatta notare per i modi seduttivi e ha lasciato una scia di cuori infranti prima di sparire nel nulla", scrive il quotidiano. La donna "si impone nella vita cittadina tra vernissage ed eventi", inaugura una "concept gallery" alla quale prendono parte in tanti. Riesce a entrare nel Lions Club Napoli Monte nuovo, club «fondato dagli ufficiali della base Nato di Lago Patria, persino il logo ricalca il simbolo marziale della Allied Joint Force. I soci sono praticamente tutti militari, impiegati e tecnici dell’Alleanza Atlantica o della VI Flotta statunitense. Si tratta dei comandi che gestiscono le missioni della Nato e le attività della marina statunitense in Europa. Un club che sarebbe "la ragnatela perfetta in cui l’agente del Gru ha agganciato numerosi ufficiali della Nato, imbastendo una vasta rete di rapporti". "Non sappiamo se fosse riuscita fisicamente a entrare nella base Nato o nel comando Usa ma ci sono indizi robusti della sua presenza durante alcune cerimonie: i balli annuali della Nato, quello del Corpo dei Marines, diverse serate di beneficenza - scrive Repubblica - La nostra inchiesta non è riuscita a ricostruire quali informazioni siano state ottenute dalla spia, né se sia stata capace di seminare virus informatici nei telefoni e nei computer dei suoi amici. È però entrata in contatto con figure chiave della Nato e della Marina Usa: nessun agente russo era mai riuscito a penetrare così in profondità il vertice dell’Alleanza atlantica". "Il 14 settembre 2018 Bellingcat e The Insider hanno smascherato la squadra di killer, pubblicando i loro documenti. E l’indomani Maria Adela è partita all’improvviso da Napoli con un volo per Mosca, senza più riapparire". 

La storia di Maria Adela, la spia russa che ha vissuto a Napoli: “Cuori infranti, frequentava la Nato”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 26 Agosto 2022 

Una inchiesta che “non è riuscita a ricostruire quali informazioni siano state ottenute dalla spia, né se sia stata capace di seminare virus informatici nei telefoni e nei computer dei suoi amici”. Quel che però è emerso è che la donna in questione, che si faceva chiamare Maria Adela Kuhfeldt Rivera, “è entrata in contatto con figure chiave della Nato e della Marina statunitense: nessun agente russo era mai riuscito a penetrare così in profondità il vertice dell’Alleanza atlantica”.

E’, in sintesi, l’esito di un lavoro condotto per dieci mesi dal quotidiano Repubblica insieme al sito investigativo Bellingcat (con sede in Olanda), al settimanale tedesco Der Spiegel e a The Insider per ricostruire la missione segreta di quella che viene definita “la protagonista della più clamorosa operazione d’intelligence” realizzata dalla Russia in Italia.

Si tratta di una donna, Maria Adela Kuhfeldt Rivera – così come si legge sui documenti falsi – nata a Callaio in Perù il primo settembre del 1978 da padre tedesco e inseritasi nei circoli mondani di Napoli per riuscire poi a infiltrarsi tra il personale della base Nato e della VI Flotta statunitense. “La traccia principale che la collega ai servizi segreti di Mosca – viene spiegato dai media protagonisti dell’inchiesta – è il passaporto russo usato per entrare in Italia: appartiene alla stessa serie speciale utilizzata dagli 007 del Gru, l’intelligence militare agli ordini del Cremlino“.

Tra il 2009 e il 2010 la donna si muove tra Francia, Italia e Malta. Ha un permesso di soggiorno come studentessa. Dice di frequentare una scuola di moda a Roma. Dopo un breve periodo a Parigi, nel 2013 risiede a Valmontone (Roma) e apre la società Serein srl per la produzione di gioielli. Risulta abitare a Ostia. Nel 2015 l’arrivo a Napoli dove va a vivere in un’abitazione con vista mare nel quartiere Posillipo e si inserisce nella mondanità cittadina. Diventa segretaria del Lions Club Napoli Monte Nuovo. Il club si trova a Lago Patria, sede della Joint Allied Force della Nato: i soci sono quasi tutti militari o dipendenti del Comando Nato e dell’Us Navy.

Nel 2016 apre una concept gallery a Palazzo Calabritto, nel cuore di Napoli ma a fine anno trasferisce la sede della società Serein nel centro di Milano. A Napoli frequenta assiduamente militari statunitensi e delle altre forze Nato.

La svolta nel 2018 quando sparisce nel nulla (e torna in Russia) senza avvisare neppure il fidanzato. Il motivo? Secondo quanto accertato nell’inchiesta, il giorno prima, 15 settembre, Bellingcat aveva rivelato nomi e numeri di passaporto degli agenti del Gru coinvolti nell’avvelenamento di Sergey Skripal a Londra. Due mesi dopo, Adela sul suo profilo Facebook spiega i motivi della sua partenza: “5 mesi…. E la verità che devo finalmente rivelare. Stavo provando di nascondermi da me stessa, in qualche momento ci sono riuscita! Adesso i capelli stanno crescendo dopo la chemio, corti corti ma ci sono… Mi manca tutto, però sto provando di respirare. Almeno imparare di farlo… P.s. Grazie a tutte le persone chi in questi 5 mesi non hanno smesso di “bombardarmi” con i messaggi !!!! Love you!!!!”.

Pochi mesi dopo, a fine 2018, a Mosca ricompare Olga Kolobova, nata nel 1982, di cui in Russia non c’era traccia dal 2005. Olga è figlia di un colonnello russo, decorato per le missioni di intelligence. Acquista due appartamenti di lusso e una Audi in pochi mesi. La foto del profilo WhatsApp di Olga Kolobova è la stessa di Maria Adela Kuhfeldt Rivera. 

Scrive Repubblica: “Una moderna Mata Hari, che si è fatta notare per i modi seduttivi e ha lasciato una scia di cuori infranti prima di sparire nel nulla”. La donna “si impone nella vita cittadina tra vernissage ed eventi”, inaugura una “concept gallery” alla quale prendono parte in tanti. Riesce a entrare nel Lions Club Napoli Monte nuovo, club “fondato dagli ufficiali della base Nato di Lago Patria, persino il logo ricalca il simbolo marziale della Allied Joint Force. I soci sono praticamente tutti militari, impiegati e tecnici dell’Alleanza Atlantica o della VI Flotta statunitense. Si tratta dei comandi che gestiscono le missioni della Nato e le attività della marina statunitense in Europa”. Un club che “è la ragnatela perfetta in cui l’agente del Gru ha agganciato numerosi ufficiali della Nato, imbastendo una vasta rete di rapporti”.

Poi chiarisce: “Non sappiamo se fosse riuscita fisicamente a entrare nella base Nato o nel comando Usa ma ci sono indizi robusti della sua presenza durante alcune cerimonie: i balli annuali della Nato, quello del Corpo dei Marines, diverse serate di beneficenza”. 

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Mar. Vent. per “il Messaggero” il 20 agosto 2022.

C'è da sbizzarrirsi a immaginare cosa dev'essere successo a Kiev pochi giorni prima dell'invasione, quando nessuno credeva che Putin avrebbe attaccato ma gli agenti dell'Fsb, ex Kgb, da Mosca davano già istruzioni in codice ai loro informatori fin dentro i servizi ucraini anche quelli, eredi del Kgb. La ricostruzione è stata fatta dal Washington Post in un lungo reportage basato su indiscrezioni d'intelligence occidentali e ucraine, e su sfilze di intercettazioni che hanno portato ad arresti (800 collaborazionisti) e interrogatori.

«Buon viaggio!», augurava un ufficiale dei servizi a Mosca a un collega che partiva per Kiev con le forze d'occupazione. Ma le decine di agenti spediti a ridisegnare il regime-fantoccio legato all'ex presidente Yanukovich e all'oligarca Medvedchuk, si sono ritrovati impantanati alle porte della capitale come le colonne ferme dei carri armati. 

«Andate via da Kiev, ma lasciate le chiavi negli appartamenti e quando tornerete sarà tutto diverso», dicevano agli infiltrati a Kiev. A Mosca si facevano preparativi di traslochi con istruzioni per approntare casseforti e sistemazioni comode, interi uffici si sarebbero trasferiti. Dietro c'era un lavoro di mesi e anni. Dal 2019, l'unità dell'Fsb dedicata a disseminare talpe fra i quadri ucraini era cresciuta da 30 a 160 elementi. E forse questo aveva indotto la falsa previsione di un'accoglienza favorevole verso i russi.

Ma niente è andato come doveva andare. Addirittura, all'inizio della guerra un'associazione non governativa ucraina è riuscita a pubblicare grazie a un suo affiliato, Myrotvorets, nome in codice che significa Peacemaker, un elenco di agenti russi con nomi, indirizzi e telefoni. Individuati pure gli appartamenti-base. L'opera più complessa è consistita nello scoprire le talpe. 

Difficile perché, scrive il WP, nei servizi ucraini lavoravano in 27mila, l'insidia poteva essere ovunque, e c'è stato bisogno di assoldare agenti della Cia sotto copertura per andare a stanarli. Inoltre, si fronteggiavano reti filo-russe e filo-Zelensky ramificate nell'alta amministrazione e nel mondo politico e industriale.

E alla fine, invece di venire smantellata la rete dell'attuale governo, è stata sbaragliata quella di Medvedchuk, l'anti-Zelensky rimasto in Ucraina (a differenza di Yanukovich rintanato a Minsk in attesa). In tanti sono dovuti scappare, altri sono stati arrestati. Come Medvedchuk, boccone destinato a uno scambio di prigionieri eccellenti. Il paradosso, osserva il Washington Post, è che a conservare le poltrone sono stati i vertici dei servizi russi, mentre a Kiev Zelensky ha dimesso l'amico d'infanzia capo degli 007 dell'SBU, Ivan Bakanov.

Andrea Marinelli e Guido Olimpio per corriere.it il 19 agosto 2022.

Non sappiamo come finirà la guerra, però sappiamo come è iniziata. Con un errore di valutazione da parte della Russia, a cominciare dalla sua intelligence. Il Washington Post ha dedicato un lungo articolo che conferma quanto trapelato negli scorsi mesi. 

Il Cremlino ha affidato la missione all’FSB e il servizio si è messo al lavoro. Ha aumentato la «sezione Ucraina» portandola a 160 funzionari, ha investito molto denaro mobilitando fonti coltivate da anni. Gli agenti si sono infiltrati per preparare il terreno. Hanno versato soldi nelle tasche degli informatori e di simpatizzanti, ma alcuni di questi hanno intascato il premio senza muovere un dito, altri hanno fornito indicazioni fuorvianti. 

Conclusione: venivano inoltrati a Mosca rapporti rosei, confortanti, erano convinti che l’operazione speciale sarebbe costata poco.

In alcuni casi gli emissari del servizio hanno invitato le loro sponde a preparare appartamenti, le case sicure, che dovevano ospitarli. E, stando a comunicazioni intercettate, sembra anche che avessero chiesto di «lasciare la chiavi» in modo da poterle usare rapidamente. Manco fossero alloggi di vacanze. Presunti segnali di arroganza enfatizzati dalla campagna propagandistica di Kiev. 

Il quotidiano ricorda come siano state due le figure di riferimento per Putin nel teatro ucraino. L’ex presidente Viktor Yanukovich, fuggito in Russia nel 2014, e l’oligarca Viktor Medvedchuk (in seguito arrestato).

Il progetto era quello di imporre un regime fantoccio a Kiev contando su questi ambienti e il bacino filo-russo. Il piano è saltato perché l’avanzata è stata bloccata dalla resistenza (inaspettata dall’Armata e dall’intelligence) mentre il presidente Zelensky è rimasto al suo posto. 

La struttura statale dell’Ucraina ha retto nonostante le previsioni negative americane, così come ha tenuto testa il dispositivo militare. La presunta cavalcata dei tank si è trasformata in una lenta agonia. 

Di nuovo i servizi hanno sbagliato nel presentare il quadro reale. Tuttavia, in quei giorni tumultuosi, team di sabotatori russi sono riusciti a organizzare colpi dietro le linee. È probabile che nella formulazione delle analisi l’FSB abbia ritenuto che l’apparato di sicurezza avversario, gigantesco, malato di corruzione e zeppo di individui disposti a collaborare con Mosca, fosse debole. Invece è sopravvissuto alla tempesta anche se in seguito ha subito epurazioni massicce, a riprova di infedeltà e faide personali.

Nella ricostruzione il giornale chiude sulle mancate conseguenze per i responsabili. Il direttore dell’FSB Alexander Bortnikov è rimasto al suo posto e l’uomo che aveva carta bianca sull’Ucraina, Sergey Beseda, avrebbe conservato la poltrona. Puntualizzazioni in contrasto con versioni trapelate in inverno: una sosteneva che Beseda fosse stato semi-pensionato, un’altra aggiungeva che il dossier era passato al Gru, l’intelligence militare, il «braccio» preferito dal neo-zar. Trattandosi di spie è sempre complicato avere le risposte precise, ancora di più se c’è di mezzo la Russia e il particolare momento. È stato detto e scritto che pochi sapevano della volontà di Putin di attaccare il «vicino», neppure tutti i generali, avvisati solo alla fine. 

Persino il ministro della Difesa Shoigu – ha scritto il Washington Post – aveva affermato in un colloquio con il collega britannico Wallace che l’invasione non ci sarebbe stata. Una bugia bella e buona, in contrasto con quanto aveva raccolto da mesi la Cia, sicura dell’aggressione imminente. 

Le nebbie attorno al conflitto restano fitte. La stessa Ucraina le alimenta per proteggere la propria strategia.

Dal terreno arrivano le «solite» notizie. Nuovi possibili raid, depositi di munizioni saltati per aria a Belgorod (Russia), attacchi alle basi in Crimea, incidenti dovuti alla cattiva manutenzione, missioni di commandos, tiri precisi delle artiglierie, droni-kamikaze, partigiani, sabotaggi, casualità, eventi non sempre decifrabili, annunci, smentite, colonne di fumo, binari divelti. Episodi diversi che finiscono nel medesimo «cesto» a prescindere dall’assunzione di responsabilità. Le news camminano da sole oppure sono sfruttate – non sempre - da Zelensky per dimostrare di avere capacità belliche e mantenere l’iniziativa. Gli ucraini fanno soffrire gli invasori, però, come rammenta un osservatore, ci vuole altro per riconquistare il terreno.

Putin, "gli agenti segreti russi si rifiutano". Il no clamoroso degli 007 allo Zar. Giada Oricchio su Il Tempo il 13 agosto 2022.

I servizi segreti russi dicono no a Vladimir Putin: la vita non vale una paga stellare. Nemmeno pagati a peso d’oro vogliono lavorare nelle zone dell’Ucraina occupate dalle forze armate del Cremlino. Un insider dell'FSB - il Servizio di sicurezza successore del KGB - ha riferito in un forum Telegram ripreso dal Daily Mail on line che “gli agenti dell’intelligence si sono rifiutati di operare nelle aree contese anche se gli stipendi sono da 6 a 8 volte superiori alla norma”.I fedelissimi di Putin, infatti, non riuscirebbero a convincere gli ufficiali del controspionaggio a trasferirsi nell’Ucraina in fiamme. Un problema enorme per il presidente della Federazione russa che ha urgente bisogno di funzionari e militari per far rispettare il dominio nelle due "repubbliche popolari" di Donetsk e Luhansk nell'Ucraina orientale, a Kherson, Zaporizhzhia e Kharkiv. Insomma, altro che tutti gli uomini del Presidente.

Secondo il tabloid britannico: “Gli agenti dell'FSB (il capo è Alexander Bortnikov, fedelissimo di Putin, nda) stanno evitando di essere distaccati in quelle regioni facendo ricorso a certificati medici per sé stessi o per i familiari”. Questa mancanza di lealtà e obbedienza al regime non è altro che la conferma della riluttanza delle truppe e degli 007 a presidiare le aree dove si combatte. Secondo un rapporto interno, numerosi ufficiali sono "esausti" dopo sei mesi di guerra e molti stanno cercando di uscire dal servizio.

Finora l’aperto dissenso dei ranghi sarebbe stato punito con il confinamento nella remota Siberia orientale come atto di dimostrazione per eventuali altri ribelli. Un “ammutinamento” che ha portato Mosca a una mossa disperata: ingaggiare prigionieri non addestrati e civili benestanti, ma invasati, per il dispiegamento in prima linea. Non solo, i capi dei servizi segreti stanno corteggiando anche agenti in pensione o licenziati: “Abbiamo chiamato 200 ex dipendenti, anche quelli congedati per discredito, e solo tre hanno detto che ci avrebbero pensato - ha rivelato la gola profonda al canale Telegram We Can Explain -. Questo nonostante le promesse di enormi pagamenti e benefici. Agli ufficiali sono state offerte circa £ 5.000 al mese per servire nei luoghi occupati. E’ una cifra fino a otto volte la retribuzione normale, molto più delle paghe dei soldati. Per arginare la carenza di personale, saranno arruolate reclute con istruzione secondaria non superiore come richiesto in precedenza e chi non ha mai fatto il servizio militare”. Significa che Putin sta mandando allo sbaraglio il suo popolo: una corrida mortale.

Non solo Mata Hari e Andrée Raymonde, le vite spericolate delle spie. Rete Alice, la miss polacca nel 1930. Il coraggio e le trame oscure. Un saggio ricostruisce le storie delle agenti segrete, che hanno cambiato il mondo. Giuseppe Catozzella su L'Espresso il 9 Agosto 2022

Una spia al posto giusto sostituisce ventimila uomini al fronte, diceva Napoleone. Mappare in presa diretta la geologia dei servizi segreti è impossibile, dal momento che i documenti sono classificati. Ma ciò che veniamo a sapere dal loro progressivo desecretamento è da un lato che in un mondo sempre in bilico su un instabile equilibrio tra pace e guerra è l’azione sotterranea dei servizi di spionaggio a mantenere la pace finché dura o a guidare la guerra poi; e dall’altro che spesso ciò che di ufficiale viene emanato dagli uffici stampa dei governi, anche in tempo di pace, nasconde un fittissimo e sotterraneo lavoro di intelligence che serve a depistare il nemico (ci rendiamo per esempio conto oggi, nel pieno della guerra tra Russia e Ucraina, di come la guerra stessa sia innanzitutto propaganda, e di come riuscire a far passare un’affermazione per vera, nell’infinito gioco caleidoscopico delle propagande incrociate, valga più della presa di una città).

Il lavoro dei servizi segreti guida sotterraneamente quello dei governi, e invisibilmente disegna il mondo in cui ci muoviamo. Più che i film d’azione ad alto budget servono maestri della rappresentazione del mistero per avvicinarsi alla sottile mente inafferrabile e saturnina di una spia. Doppiogiochisti, triplogiochisti, manipolatori. Ci è riuscito Javier Marìas in “Berta Isla” (Einaudi), che racconta la vita della spia Tomàs Nevinson. Riesce magistralmente a rendere il gioco infinito di specchi tra la realtà e la verità anche Hernan Diaz nel recente “Trust” (Feltrinelli). Ma spie tra le spie più occulte sono sempre state le donne, che per ragioni storiche e culturali (condivise non solo nel blocco occidentale ma anche per esempio in Cina o in Vietnam), rimangono più “coperte”, meno osservabili, e per questo più efficaci nell’arte dell’infiltrarsi, del raccogliere informazioni, dell’essere silenziosamente letali. Queste donne, di cui il libro di Gabriele Faggioni, “Spionaggio femminile del Novecento” (Odoya) fa una veloce carrellata, spesso per scelte politiche e ideologiche, altre volte per denaro, condizionano il mondo in cui viviamo. Non esiste solo Mata Hari, la celebre spia tedesca doppiogiochista.

La rete di spionaggio di maggior successo della Prima Guerra Mondiale si chiamava Rete Alice ed era gestita da Louise de Bettignies, che è passata alla storia come “la regina delle spie”. Nata in una famiglia belga di otto figli, frequentò il collegio religioso di Lille.

Allo scoppio della Grande Guerra Luise era in Francia a prestare servizio come governante e lì poté assistere all’occupazione tedesca. Prese subito a occuparsi dei feriti, presto però raggiunse la famiglia rifugiata nella Francia non occupata, portando con sé la posta di diversi rifugiati. La nave fece scalo a Folkestone, e lì il suo inglese fluente e la sua vispa intelligenza furono notati da un funzionario dei servizi segreti britannici. Il maggiore Walter Kirke, responsabile dell'intelligence, a Londra la iscrisse al corso di formazione per agenti segreti e le assegnò il compito di organizzare la rete di intelligence Ramble, con i cittadini belgi già coinvolti nella Resistenza, assistita da Léonie Vanhoutte, un'operaia di Roubaix che aveva già aiutato i soldati alleati ad attraversare il confine. Così, in breve tempo, Louise e Léonie crearono una rete di spionaggio chiamata Rete Alice, la più grande della Grande guerra, di cui facevano parte non solo adulti ma anche giovani e bambini: raccoglievano ogni tipo di informazione sul nemico. La rete ebbe un successo sbalorditivo, e i tedeschi riempirono le strade di posti di blocco per catturare le spie. Louise usava diverse false identità, e ingannava le guardie recitando la parte della donna chiacchierona, riuscendo a passare i confini con i messaggi in codice nascosti tra le pagine di una rivista o arrotolati all'interno dei bastoni degli ombrelli. Nonostante questo la Rete Alice venne scoperta. Léonie fu arrestata all'inizio di settembre del 1915 e pochi giorni dopo la stessa sorte toccò a Louise. Le due donne furono imprigionate a Bruxelles. Nel processo del marzo 1916 Louise fu condannata a morte e Léonie a quindici anni di prigione. L'ambasciata di Spagna riuscì a commutare la pena all'ergastolo, ma trasferita nella colonia penale di Siegburg Louise si ammalò di pleurite e morì in due mesi, a soli trentotto anni. Al termine della guerra fu decorata con la Croce di Guerra e con la Legione d'Onore.

Andrée Raymonde nacque il 18 novembre 1919 in una famiglia operaia a Bécon-les-Bruyères, un sobborgo nordoccidentale di Parigi. Dopo la morte del padre, Andrée interruppe gli studi e andò a lavorare come commessa. Le piaceva andare in bicicletta e la domenica partecipava a gare ciclistiche femminili finché, nell'autunno del 1939, non si trasferì con la madre a Tolone, dove frequentò un corso di formazione come aiuto infermiera presso l'Association des Dames françaises, per assistere i soldati feriti. Dopo l'occupazione tedesca della Francia immortalata nei romanzi di Irène Némirovsky, Andrée decise di aderire alla Resistenza francese.

Collaborò alla rete di fuga creata dal medico belga Albert Guérisse: migliaia di volontari aiutavano soldati non evacuati e aviatori alleati abbattuti a lasciare la Francia e a rientrare nel Regno Unito. Nell’autunno del 1941, però, la Gestapo scoprì il gruppo e molti suoi membri vennero arrestati. Andrée fuggì a Lisbona, dove continuò la propaganda a favore della Francia libera. Poi, nella primavera del 1942, raggiunse il Regno Unito. Dal quartiere generale della Francia Libera, comandata dal generale De Gaulle, venne a conoscenza che il SOE, il servizio segreto britannico, reclutava agenti che collaborassero con la Resistenza francese. Venne arruolata e divenne agente speciale.

La notte del 24 settembre 1942, lei e la sua compagna Lise de Baissac, partite dalla base aerea della RAF a Tempsford, furono le prime agenti della storia a essere paracadutate nella Francia occupata. Lise atterrò nei pressi di Poitiers, Andrée vicino al villaggio di Mer, dove era attesa da una squadra della Resistenza locale. Fu assegnata come corriere per la nuova rete Prosper gestita da Francis Suttill, prima di prendere parte ad alcuni sabotaggi attuati dai maquis, la Resistenza francese. Quando, il 23 giugno del 1943, i Prosper furono scoperti e smantellati dalla polizia segreta tedesca in seguito alla segnalazione di un traditore, Suttill e Andrée vennero arrestati, interrogati e rinchiusi nella prigione di Fresnes. Nel maggio 1944 Andrée e le sue compagne di prigionia Vera Leigh, Sonya Olschanezky e Diana Rowden furono trasferite nel campo di concentramento di Natzweiler-Struthof. Il 6 luglio 1944 alle quattro donne furono praticate iniezioni letali di fenolo al cuore: morirono all’istante tranne Andrée. Riprese conoscenza e con le ultime energie ferì il suo boia. Venne gettata ancora viva nel forno crematorio.

Maria Krystyna Skarbek era di Varsavia, figlia di ricchi conti ebrei. Era bella, bellissima, e si classificò seconda a Miss Polonia 1930. Trasferitasi a Londra con il secondo marito dopo l’occupazione polacca della Germania, chiese di entrare a far parte dell’intelligence britannica. Partì per la prima missione a Varsavia, dove raccoglieva informazioni sulle truppe tedesche e organizzò una rete di corrieri che portavano rapporti di intelligence a Budapest, da dove raggiungevano Londra. Fu lei a scoprire che la Germania aveva stretto un’alleanza militare con il maresciallo Antonescu e con la Romania, e quindi a portare gli Alleati a difendersi con anticipo su quel fronte. Nel gennaio 1941 Krystyna venne arrestata dalla Gestapo insieme al suo amante, l’agente segreto Kowersky, amico d’infanzia ritrovato in Ungheria. Ottenne il rilascio mordendosi la lingua, sputando sangue e dichiarando di essere malata di tubercolosi. Cambiò allora identità in Christine Granville, e raggiunse Sofia nascosta nel bagagliaio di un’auto. Lì consegnò al personale diplomatico britannico microfilm sui preparativi tedeschi di invasione dell’Unione Sovietica.

Fu così che Churchill scoprì il piano della Germania e cambiò le sorti della guerra. Krystyna venne promossa a capitano, una delle pochissime donne nella storia, e alla fine della guerra non tornò in Polonia, governata dal regime comunista, ma andò a Londra, dove finì per trovare solo lavori precari, come quello di hostess sulle navi da crociera. Fu in uno di quei viaggi che conobbe uno steward che si innamorò follemente di lei, non ricambiato, e la uccise con un fendente al cuore. Sono migliaia le donne che hanno lavorato, e che lavorano, come agenti segreti. Anche attorno a noi. Non conosceremo mai le loro verità, ma le nostre vite saranno condizionate dalle loro azioni. 

Il capo della polizia ucraina: «Oltre mille collaboratori di Mosca sotto processo da noi». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 30 Luglio 2022.

Ihor Klymenko: «Qualcosa li ha convinti a imboccare la via del tradimento. Di solito quello che ricevono in cambio è più potere»

Fra le più clamorose, nei giorni scorsi, ci sono state le rimozioni del capo del servizio di sicurezza (Sbu) Ivan Bakanov e del procuratore generale Iryna Venediktova: «Sospesi temporaneamente - ha spiegato il consigliere dell'Ufficio del presidente Andriy Smirnov - per indagini sulle loro eventuali responsabilità nei crimini contro la sicurezza nazionale e nel loro collegamento con i servizi speciali della Federazione Russa».

Ai nomi così importanti e alle ipotesi di alto tradimento pensa direttamente il presidente Volodymyr Zelensky. Ma poi c’è tutto il resto: collaboratori e sabotatori che aiutano il nemico in cambio di potere. Il capo della polizia nazionale ucraina, Ihor Klymenko, offre un caffè e apre la cartelletta che ha davanti.

Quanti sono i procedimenti penali per collaborazionismo?

«Fino a oggi abbiamo contato più di mille casi che riguardano proprio l’articolo del codice penale sulla collaborazione. Di queste 180 persone hanno già ricevuto un avviso di garanzia».

Mille collaborazionisti sono tanti…

«Per me sarebbe tanto anche uno solo, mi creda».

Chi sono queste persone?

«Gente che viveva e lavorava sul territorio del nostro Stato e riceveva benefici sociali. Poi qualcosa li ha convinti a imboccare la via del tradimento. Di solito quello che ricevono in cambio è più potere».

Sono cittadini comuni, funzionari statali, amministratori? Chi?

«Ci sono diversi livelli. La maggior parte dei collaborazionisti sono persone che non hanno coperto nessun incarico come autorità statali o nelle forze dell’ordine. Avevano posizioni lavorative poco qualificate; hanno cercato di aiutare il nemico quando è arrivato nei loro territori. Mi viene in mente il caso di una donna che lavorava come addetta alle pulizie, a Kherson e per aver collaborato col nemico ha ottenuto la carica di amministratrice di una società televisiva-radiofonica».

Gli altri livelli?

«Quello successivo riguarda i dirigenti di piccole imprese o persone in posizioni basse nel servizio amministrativo. Incontrando i russi hanno cercato in cambio di aumentare le loro fortune o rivendicare qualche tipo di leadership fra le autorità statali dei territori occupati. E poi c’è il terzo livello».

Che sarebbe?

«Le persone che in precedenza avevano ricoperto incarichi nelle nostre amministrazioni e negli enti locali oppure nelle forze dell’ordine. Anche se rappresentano una minoranza, gli sforzi maggiori dei servizi speciali russi sono stati rivolti a loro, con offerte di posizioni rilevanti e livelli dirigenziali nelle amministrazioni, nei villaggi, negli uffici dei sindaci».

Un esempio?

«Ad esempio la polizia di Kherson: è gestita attualmente da una persona che aveva lavorato nella milizia ucraina 10 anni fa».

Che cosa fa esattamente un collaboratore?

«Può fare diverse cose. Per esempio segnalare la resistenza ucraina o sostenere il nemico nell’imposizione delle sue regole sulla popolazione. Chi collabora con il nemico non ama il nostro Stato, è veicolo della propaganda, è avvelenato dall’idea e dalla narrazione che il mondo russo impone attraverso i media che controlla nelle regioni occupate».

E’ accusato di collaborazionismo anche l’insegnante che a scuola segue il programma russo?

«Sì. In un articolo della nostra Corte criminale sul collaborazionismo c’è un articolo a parte dedicato proprio all’educazione pro-russia dei nostri ragazzi. Sta succedendo nei territori occupati: c’è chi accetta di insegnare la lingua russa e la storia secondo la prospettiva russa».

In quale regione sono stati aperti più procedimenti penali contro i collaborazionisti?

«Al momento le regioni più interessate sono quelle di Kherson, Luhansk e Zaporizhia. Molti dei procedimenti penali sono stati istruiti a distanza in territori attualmente occupati. Monitoriamo le attività di queste persone in remoto, riceviamo costantemente informazioni sul loro conto, incrociamo i dati e se gli indizi diventano sufficienti apriamo un fascicolo penale. Un esempio viene da Berdiansk, nella regione di Zaporizhia, dove abbiamo a che fare con un procedimento che riguarda un attuale capo delle forze dell’ordine».

Che cosa rischia chi collabora con il nemico?

«Dipende. Rischia fino all’ergastolo se l’attività di collaborazione ha portato a gravi conseguenze associate alla morte di persone».

Sono già stati celebrati processi?

«Abbiamo sentenze per questi crimini ogni settimana».

E poi ci sono i sabotatori.

«Quello è un argomento a parte, però. 1.500 persone sospettate di essere coinvolte in attività di sabotaggio».

Anche nel 2014, con le autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk, ci sono stati passaggi nelle file russe?

«C’è una differenza fondamentale fra allora e adesso. All’epoca quasi l’intero gruppo dei servizi speciali, delle forze dell’ordine e delle autorità è passato al nemico. Erano i ranghi superiori. Adesso vediamo passaggi soltanto nei ranghi inferiori. Vediamo un altro panorama rispetto a quello che succedeva nel 2014 con l’annessione della Crimea o nel Donbas».

Quanti sono gli uomini al suo comando?

«L’Ucraina dispone di 100 mila agenti di polizia».

Andrea Marinelli e Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 20 luglio 2022.

Nonostante le recenti epurazioni ai vertici dei servizi segreti di Kiev, che confermano le infiltrazioni russe all'interno dell'Sbu ( Sluzhba Bespeky Ukrayiny , i servizi di sicurezza), gli Stati Uniti continueranno a condividere intelligence con l'Ucraina. «Siamo in contatto quotidiano con i nostri partner ucraini», ha confermato il portavoce del dipartimento di Stato Ned Price. 

«Non investiamo nelle persone, ma nelle istituzioni». Proprio all'interno delle istituzioni, però, le autorità ucraine hanno individuato traditori e collaborazionisti. È stato lo stesso Volodymyr Zelensky a rivelare che oltre 60 funzionari dei servizi segreti e dell'ufficio del procuratore avrebbero lavorato contro il proprio Paese nei territori occupati dai russi e che, dall'inizio della guerra, sarebbero stati aperti 651 procedimenti legali per tradimento o collaborazionismo: fra questi, probabilmente, si nascondeva la quinta colonna che doveva facilitare la caduta del governo di Kiev in tempi rapidi.

Le spie avrebbero fornito ai russi la posizione esatta degli obiettivi - basi e depositi - e facilitato il tiro dell'artiglieria. Per questo domenica Zelensky ha annunciato la rimozione del capo dell'Sbu Ivan Bakanov e la sospensione della procuratrice generale Iryna Venediktova, entrambi accusati di non aver saputo identificare spie e traditori all'interno delle proprie organizzazioni. Il giorno successivo ha sospeso altri 28 funzionari dei servizi. 

«Vengono da livelli e aree diversi, ma le ragioni sono simili: i risultati non soddisfacenti», ha chiarito Zelensky. Il licenziamento di Bakanov e Venediktova è stato confermato ieri dal parlamento ucraino, che ne ha votato la cessazione dei poteri. Bakanov, in particolare, pagherebbe il fallimento di Kherson, l'unica città conquistata dai russi a ovest del fiume Dnipro: già ad aprile Zelensky aveva degradato il capo dell'Sbu locale, Serhiy Kryvoruchko, accusato di tradimento. Secondo gli analisti, tuttavia, il presidente vorrebbe un maggior controllo sull'esercito e sulle agenzie di sicurezza, ma è possibile che il licenziamento di Bakanov e Venediktova sia stato accelerato dall'insod-disfazione dei partner occidentali verso l'Sbu.

Ucraina, sventato il colpo di Stato. Cosa c'è dietro le purghe di Zelensky: "Oppositori tagliati fuori". Il Tempo il 19 luglio 2022.

Un colpo di Stato in piena regola quello che era in atto in Ucraina, dove il presidente Volodymyr Zelensky negli ultimi giorni ha messo in atto una "purga" senza precedenti rimuovendo giudici e membri dei servizi segreti, con il capo dell'Sbu - i servizi di sicurezza di Kiev - che è stato licenziato e un altro importante esponente arrestato. Il repulisti del capo del governo era partito subito dopo l'invasione del Paese da parte della Russia e si era intensificato nelle ultime settimane. Di fatto, il potere ora è sempre "più saldo nelle mani del presidente Zelensky, sempre meno accessibile ai suoi oppositori politici", riporta Repubblica che parla di un golpe "incompiuto".

Le ultime due "vittime" sono Ivan Bakanov e Iryna Venediktova, rispettivamente  capo dei servizi segreti e procuratrice generale che indaga sui crimini di guerra russi. Sono già 651 i casi aperti contro pubblici ufficiali ritenuti collaborazionisti della Russia. Secondo le accuse, Bakanov, che arriva dallo spettacolo come Zelensky visto che era nella società di produzione Kvartal 95 dell'attuale leader, non era al corrente che una parte dello Stato si è accordata segretamente con l'intelligence russa.  Oleg Kulinich, già responsabile Sbu per la Crimea, è stato arrestato per non aver contrastato l'azione delle forze armate russe.

"C'era un accordo segreto, il governo di Kiev ne è ormai certo e la sfilza di epurazioni ne è la prova", si legge nell'articolo che parla di una "vendetta" di Zelensky nei confronti dei funzionari nominati dal vecchio premier filorusso Yanukovich. L'elenco dei defenestrati è lunghissimo e comprende generali, funzionari dell'esercito, capi della sicurezza interna dello Sbu.

Dalle spie agli informatori: la “quinta colonna” filorussa che minaccia Kiev. Federico Giuliani su Inside Over il 19 luglio 2022.

Che si tratti di inefficienza operativa o di presunta collusione con il nemico, decine di funzionari ucraini sono stati rimossi dalle loro cariche. Tra i nomi più importanti silurati da Volodymyr Zelensky troviamo Ivan Bakanov, capo del Servizio di sicurezza dell’Ucraina, e Irina Venediktova, procuratore generale.

Il presidente ucraino ha presentato al parlamento di Kiev una doppia mozione per valutare la loro destituzione, che sarà decisa durante la prossima sessione plenaria. Sia Bakanov che Venediktova sono stati “sospesi temporaneamente – come ha spiegato il consigliere dell’Ufficio del presidente, Andriy Smirnov – per indagini sulle loro eventuali responsabilità nei crimini contro la sicurezza nazionale e nel loro collegamento con o servizi speciali della Federazione Russa”.

Dopo poche ore, Zelensky ha effettuato un nuovo annuncio, allontanando altri 28 funzionari del servizio di sicurezza, questa volta per “risultati di lavoro insoddisfacenti”. Dal punto di vista giuridico, i licenziamenti di massa sono avvenuti sulla base dell’articolo 47 della Carta disciplinare delle forze armate ucraine. L’articolo è chiaro: un ufficiale o un funzionario può essere rimosso per “mancato esercizio delle funzioni, che ha provocato vittime umane o altre gravi conseguenze” o che ha creato situazioni tali da poter portare a queste conseguenze.

L’ombra del collaborazionismo

Secondo quanto riportato dal New York Times, Zelensky ha preso di mira il “nemico nascosto” di Kiev, ovvero gli ucraini che aiutano la Russia. L’accusa del quotidiano statunitense è sferzante ed emblematica del clima che si sta respirando in Ucraina. Dove le armi occidentali stanno parzialmente arginando l’avanzata di Mosca, ma dove, nel Donbass, le forze del Cremlino continuano nella loro progressiva conquista territoriale.

In ogni caso, nel licenziare Bakanov, il capo dell’intelligence, il presidente ucraino ha fatto emergere un approccio più aggressivo – lo stesso che potrebbe essere impiegato da qui ai prossimi giorni – diretto verso la quinta colonna che starebbe minando lo sforzo bellico dell’Ucraina. Per quinta colonna, va da sé, si intende l’insieme di spie e collaboratori dell’esercito russo radicati nel governo, nelle istituzioni e nella società civile. Tutte queste persone starebbero fornendo un contributo fondamentale alle truppe nemiche.

In particolare, i simpatizzanti russi starebbero segnalando a Mosca le posizioni degli obiettivi ucraini, come guarnigioni o depositi di munizioni. C’è, poi, chi ha dato rifugio agli ufficiali russi e chi ha rimosso gli esplosivi da ponti e infrastrutture strategiche, consentendo alle forze del Cremlino di avanzare. La scorsa domenica, tra voci e indiscrezioni più o meno realistiche, la misura era colma. Zelensky ha effettuato il suo primo rimpasto licenziando Bakanov e Venediktova, spiegando che i due non erano stati abbastanza aggressivi nell’eliminare i traditori.

Caccia alle spie

Zelensky ha fatto quindi sapere che sono state aperte centinaia di indagini per tradimento. Nel mirino di Kiev, ci sono le spie arroccate nelle istituzioni, nelle chiese e nelle agenzie di intelligence, senza dimenticare i cittadini tendenzialmente filorussi presenti nel quadrante orientale del Paese.

Il presidente ucraino ha citato espressamente il servizio di sicurezza nazionale: stiamo parlando di una forza ingombrante, la più grande d’Europa, formata da 27mila dipendenti. Ebbene, i partner occidentali dell’Ucraina ritengono che il servizio abbia troppe aree operative e che sia esposto alla corruzione. Non è finita qui, perché molti dei capi dell’intelligence ucraina si sono diplomati e formati nelle scuole del KGB, e questo lascia aperta per Kiev l’ennesima porta di incertezze sul rischio collaborazionismo in un momento delicatissimo del conflitto.

Zelensky ha affermato che oltre 60 tra pubblici ministri e agenti di intelligence sono rimasti nei territori conquistati dalla Russia e che lì stavano collaborando con Mosca. Ci sono, poi, più di 800 persone sospettate di essere coinvolte in varie azioni di sabotaggio e ricognizione per conto dei russi. La risposta degli ucraini sta nella gestione di 123 gruppi di contro-sabotaggio, per un totale di almeno 1.500 membri incaricati di scovare spie e informatori alleati con il nemico.

Anche perché nelle città e nei villaggi situati nel Donbass, la regione più filorussa dell’Ucraina, le forze di Kiev sono preoccupate per la minaccia rappresentata dai simpatizzanti russi e dalla possibilità che questi possano riferire alle truppe nemiche informazioni militari strategiche. Molti di questi collaborazionisti credono a ciò che fanno e abbracciano la causa russa. Altri, invece, agiscono sulla base di varie promesse di ricoprire, un giorno, posizioni rilevanti nelle future amministrazioni instaurate dalla Russia.

I motivi delle purghe di Kiev: un capo con gli "occhi chiusi" e 60 complici russi tra gli 007. Gian Micalessin il 19 Luglio 2022 su Il Giornale.

Prima era un uomo solo al comando, ora è un uomo solo e basta

Prima era un uomo solo al comando, ora è un uomo solo e basta. Più la guerra si prolunga e più Volodymyr Zelensky fa i conti con le divisioni di un'Ucraina che ha rinnegato Mosca, ma resta prigioniera della reciproca rete di connessioni, legami e infiltrazioni su cui si snoda sia il lavoro delle spie, sia la guerra per il controllo degli apparati di sicurezza interni. Da questo punto di vista la cacciata del capo dei Servizi di sicurezza interna (Sbu) Ivan Bakanov, incapace di prevenire le infiltrazioni russe, e del procuratore generale Iryna Venediktova, inadeguata a finalizzare le accuse di alto tradimento all'ex presidente Petro Poroshenko, rappresentano l'epilogo di una guerra intestina che ha eroso la credibilità di Zelensky. Anche perché Bakanov e la Venediktova rappresentavano il cerchio magico dell'attore-presidente.

Bakanov, amico d'infanzia e socio nelle produzioni televisive è stato, secondo i Pandora Papers, anche l'ideatore della rete di conti bancari con sede nei paradisi fiscali utilizzata da Zelensky per mettere al sicuro i finanziamenti degli oligarchi. Lo scontro in corso dietro le quinte di inchieste giudiziarie e azioni d'intelligence viene allo scoperto il 5 marzo quando un’unità del Dipartimento di Controspionaggio dell'Sbu elimina il «banchiere» ucraino Denys Kireev. Dietro l'assassinio si celano le attività di un Kireev che oltre a lavorare per il Gur, l'intelligence militare di Kiev, mantiene ambigui rapporti con i russi e partecipa ai negoziati con Mosca del 28 febbraio in Bielorussia. Alle ambiguità di Kireev, considerato troppo vicino a Mosca, si aggiungono i retroscena dell'Operazione Speciale. Che, come suggerisce il nome, punta a prendere Kiev sfruttando non la forza militare ma le complicità di centinaia di agenti dell'Sbu. Un intreccio sventato non dall'inesperto Bakanov, ma dagli agenti dell'MI6 inglese. Le «sviste» di Bakanov rappresentano il primo duro colpo alla credibilità del presidente. Non a caso Londra dopo aver scoperto i piani russi, taglia fuori Bakanov e inizia a coordinarsi con Oleksandr Poklad, capo del Controspionaggio dell'Sbu. Ed è proprio Poklad, detto lo «strangolatore» per i metodi poco ortodossi impiegati per reprimere i movimenti filo russi a Dniepro, a ordinare l'eliminazione di Kireev passando sopra la testa di Bakanov. Da quel momento l'autorità dell'ex socio di Zelensky diventa puramente formale. Anche perché all'eliminazione del banchiere-spia sospettato di lavorare per Mosca fanno seguito le indagini e le purghe interne all'Sbu che mostrano altre gravi sviste. Evidenziate dallo stesso Zelensky costretto domenica ad ammettere l'avvio di 651 inchieste sulle complicità con Mosca e l'individuazione di almeno 60 complici russi tra le fila dell'Sbu. Tra questi il Capo della Sicurezza Interna Anriy Maumov, fuggito all'estero prima dell'invasione e Serhiy Kryvoruchko, il generale a Capo del Direttorato Sbu di Kherson che il 24 febbraio ordina ai propri ufficiali di smobilitare la città. Mentre ieri il presidente ha annunciato il licenziamento di 28 funzionari del servizio di sicurezza.

Il tutto mentre il suo sottoposto Igohr Sadokhin segnala al nemico i campi minati e altri ufficiali dell'Sbu impediscono la distruzione del ponte Antonovskiv facilitando l'entrata delle truppe di Mosca e la conquista della città. Ma dietro la decisione di sacrificare Bakanov e Venediktova divampa uno scontro ancor più imbarazzante con i vertici delle forze armate, scoppiato ai primi di luglio quando il capo di Stato Maggiore generale Valery Zaluzhny ha puntato il dito contro il presidente colpevole di aver preteso la difesa ad oltranza di Severodonetsk e Lysychansk. Costata l'inutile sacrificio di migliaia di soldati. 

Collaborazionisti, spie e traditori: Kiev mette nel mirino i delatori ucraini. Federico Giuliani su Inside Over l'8 giugno 2022.

Non solo i colpi di artiglieria, le bombe e i missili. A preoccupare le forze di Kiev sono anche i cittadini ucraini che, per le più svariate ragioni, scelgono di collaborare con il nemico, e cioè con l’esercito russo.

La maggior parte di loro sono spie di professione. Ma, soprattutto nel Donbass, ci sono anche persone comuni, filorussi convinti, e non mancano neppure persone ancora più comuni, spesso costrette, loro malgrado, a cooperare con il nemico per le delicate situazioni in cui si sono ritrovate. Quando le truppe nemiche entrano nella tua regione, ne prendono il controllo e instaurano il loro governo, se non sei riuscito a scappare prima della debacle sei necessariamente costretto ad adattarti.

E adattarsi vuol dire accettare la visione delle nuove auotorità politiche e militari e collaborare con loro. Non soltanto per ricostruire strade, palazzi, aiuole e scuole, ma anche per comunicare i segreti del territorio e delle aree circostanti, a maggior ragione se quelle aree sono ancora controllate dall’esercito ucraino. È così che, nel bel mezzo della guerra in Ucraina, prende forma una figura che, da qui alle prossime settimane, sarà destinata ad essere strategica per le sorti del conflitto, ma finirà pure al centro di mille polemiche: quella degli ucraini definiti “collaborazionisti” dal loro stesso governo.

Spie e traditori

Gli ucraini sopra descritti si trovano a metà tra due fuochi. Da una parte rappresentano una fonte di preziose informazioni per i russi, desiderosi di conoscere gli obiettivi sensibili da colpire e controllare nelle zone limitrofe a quelle già occupate, oppure addirittura all’interno delle stesse; dall’altra sono tuttavia considerati, né più né meno, degli autentici traditori, nonché nemici da neutralizzare.

Mosca ha capito che le aree fin qui ottenute non sempre hanno l’intenzione di volersi adattare. Nel quadrante meridionale è stata segnalata una forte attività partigiana ucraina, unita a contrattacchi chirurgici volti a recuperare i territori perduti. Ecco perché il Cremlino ha bisogno di sapere quali strade pattugliare e dove si trovano le abitazioni di politici, militari e poliziotti locali, e cioè di elementi capaci di organizzare rivolte o resistenze interne. Molti ucraini, dunque, si sono ritrovati a cooperare con il nemico, mentre altri lo hanno fatto senza farsi troppe domande perché convinti filorussi. Certo è che Kiev non può far finta di niente.

La risposta di Kiev

Come ha raccontato Il Corriere della Sera, per Kiev gli ucraini che hanno scelto, più o meno volontariamente, di cooperare con l’esercito russo sono delle spie, dei collaborazionisti da eliminare prima che possano causare gravi danni. L’esercito ucraino deve categoricamente abbattere quelle che sono state soprannominate quinte colonne interne.

La polizia di Kramatorsk, ad esempio, ha diffuso sui social network le immagini dei suoi agenti intenti a catturare un collaborazionista. L’episodio è avvenuto nella non distante città di Sloviansk. Il prigioniero, un pensionato, pare fosse una spia che passava ai russi le posizioni dell’artiglieria ucraina.

Le spie possono essere ovunque, in primis all’interno delle numerose famiglie di filorussi presenti nel Donbass, tanto nelle aree rurali quanto in quelle urbane. La procuratrice generale dello Stato ucraino, Irina Venediktova, ha parlato di oltre 700 casi di alto tradimento aperti. Un numero, questo, che diventa ancora più grande, vicino al raddoppio, se consideriamo i casi di collaborazionismo. In Ucraina, dunque, ci sono almeno 1.500 persone che rischiano lunghissime pene detentive per aver cooperato con l’esercito russo. E questa cifra potrebbe aumentare ancora.

In Ucraina è anche guerra civile: collaborazionisti e partigiani. Medvedev? Gli oligarchi apprezzano l’Occidente. Tony Capuozzo su Il Riformista il 8 Giugno 2022. 

Tra tutte le accuse e gli insulti che ha rivolto a noi Occidentali Medvedev, l’ex presidente, premier della federazione russa, quella che sarebbe stata più appropriata forse, è che noi Occidentali saremmo confusi.

Lo dimostra nel suo piccolo, la questione dei traditori dei collaborazionisti ucraini, sui cui va un servizio di Sky News 24 che ritorna a Bucha e racconta, attraverso un’intervista ad un soldato, della presenza di ucraini che avrebbero fornito ai russi indicazioni sui luoghi da colpire. Il militare sostiene che costoro andrebbero arrestati, individuati e processati, ma è inevitabile andare con la memoria alle scene del massacro di Bucha, quei corpi riversi sulle strade, alcuni dei quali con un fazzoletto bianco al braccio, e tornare a quel rastrellamento del corpo speciale della polizia, quel reparto chiamato Safari, andando alla caccia di sabotatori e di una giustizia più sbrigativa.

La questione dei traditori torna anche in una pagina intera del Corriere della Sera, nella quale sono chiamati collaborazionisti quegli ucraini che forniscono informazioni ai russi, e partigiani coloro che, nei territori occupati dalle truppe russe, boicottano, fanno attentati, ostacolano l’occupazione. I collaborazionisti, sostiene in un’intervista un militare, in passato in certe aree del Donbass occupato erano il 60%, e dunque erano una maggioranza; addirittura una quinta colonna sarebbero stati gli ucraini fedeli a Kiev e ostili alla Russia. E qui si sfiora un qualcosa che è difficile ricordare e che viene spesso dimenticata: che quello in Ucraina, oltre ad essere uno scontro tra due grandi potenze, da una parte la Russia dall’altra gli Stati Uniti con la Nato, è anche una guerra civile che vede contrapposta una parte di ucraini fedeli a Kiev, che vogliono sostenere la loro indipendenza e una minoranza, robusta, di ucraini, che non si sentono più tali ma guardano alla Russia come alla madrepatria.

Non è soltanto una lotta per le democrazia e per la libertà come ci piacerebbe credere. Libertà e democrazia, i due valori occidentali che probabilmente a Medvedev non piacciono. E dell’Occidente, in fondo, almeno agli oligarchi, piacevano valori più prosaici, valori immobiliari, conti bancari, squadre di calcio, ville faraoniche, yacht, lusso e questo forse, dell’Occidente a Medvedev non piace, ma gli oligarchi sembrano apprezzare parecchio. Tony Capuozzo

Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 19 luglio 2022.

Il lungo rosario di licenziamenti, sospensioni e arresti che, dal 24 febbraio, ha sforbiciato i vertici degli apparati statali ucraini disegna la trama di un golpe incompiuto e, insieme, l'ordito di un radicale riassetto del potere. Sempre più saldo nelle mani del presidente Zelensky, sempre meno accessibile ai suoi oppositori politici. 

A precipitare nello sconcerto l'opinione pubblica, ieri, è stato l'allontanamento improvviso di Ivan Bakanov e di Iryna Venediktova. Non due nomi qualsiasi: capo dei servizi segreti (Sbu), il primo; procuratrice generale che indaga sui crimini di guerra russi, in sostanza il magistrato più importante dell'Ucraina, la seconda.

«Li abbiamo solo sospesi, per fare accertamenti sul loro operato», è la spiegazione del governo. In effetti, sessanta dipendenti della procura generale e dello Sbu sono rimasti nelle zone occupate dai russi e i loro fascicoli sono nella pila dei 651 casi aperti contro pubblici ufficiali ritenuti collaborazionisti. Bakanov, che faceva parte di Kvartal 95, la società di produzione di Zelensky, paga per non aver visto arrivare il complotto: alla vigilia dell'invasione, una parte dello Stato si è accordata segretamente con l'intelligence russa, e Bakanov non ne sapeva niente.

Nelle stesse ore in cui veniva sospeso (l'incarico, pro tempore, è stato dato al vice, Vasyl Malyuk), è finito in carcere un suo amico, Oleg Kulinich, fino al marzo 2022 responsabile Sbu per la Crimea, la penisola da cui è partita indisturbata la colonna di carri armati che si è presa Kherson in poche ore, senza neanche il fastidio di dover sparare un colpo. 

La mancata difesa di Kherson, unica città conquistata a ovest del fiume Dnepr e punto strategico per la Crimea (da lì arrivano le riserve idriche), è un tema sensibile. Perché non sono stati fatti brillare i ponti per tagliare l'avanzata nemica? Come hanno fatto i soldati di Mosca a evitare i campi minati? Qualche interrogativo lo solleva anche la storia di Kharkiv, la seconda città del Paese, dove nelle prime ore del conflitto una gran fetta dell'esercito si è rifiutata di combattere, lasciando alle forze di difesa territoriale l'onere improbo di arginare l'ondata russa.

C'era un accordo segreto, il governo di Kiev ne è ormai certo e la sfilza di epurazioni ne è la prova. Il Cremlino aveva avuto rassicurazioni da una parte degli apparati ucraini - ancora pieni di funzionari nominati dal vecchio premier filorusso Yanukovich - che non ci sarebbe stata vera resistenza e che i blindati avrebbero sfilato a piazza Maidan al massimo in tre giorni.

A patto che Zelensky fuggisse dalla capitale. Il presidente, però, non è salito sull'elicottero degli americani, è rimasto al suo posto, e si è vendicato su chi, a suo parere, aveva tradito. Nell'ordine: il generale Serhii Kryvoruchka (capo Sbu a Kherson, gli sono stati tolti i gradi), il suo assistente Igor Sadokin (arrestato a marzo), Gennadii Lahutia (capo dell'amministrazione militare di Kherson, rimosso il 28 giugno), Andriy Naumov (capo della sicurezza interna dello Sbu, arrestato in Serbia), Roman Dudin (capo Sbu di Kharkiv, arrestato il 29 maggio).

Al repulisti, Zelensky ha affiancato però un'operazione di rafforzamento politico. Così va letto lo stop della procuratrice Venediktova, da lei considerato illegale. «Al di là del motivo ufficiale», ragiona con Repubblica Gennady Maksak, analista del think tank Prizm di Kiev, «avevano dubbi sulla sua fedeltà all'ufficio presidenziale e alla lotta di questo contro l'ex presidente Poroshenko».

Venediktova in passato non ha voluto firmare delle carte sull'inchiesta per tradimento a carico di Poroshenko, lasciando l'incombenza al suo vice, Oleksiy Symonenko. Symonenko, in seguito, ha anche fatto trasferire allo Sbu, di fatto insabbiandola, un'indagine per corruzione su Oleg Tatarov, uno degli uomini più vicini a Zelensky nonché vice dell'Ufficio presidenziale. Proprio quel Symonenko che, oggi, è stato messo al posto di Venediktova.

E il «caso Dreyfus» sconvolge ancora la Francia e l’Europa. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Luglio 2022.

«La macchia di cui si copre la Francia non si cancellerà mai»: così si legge nella rubrica di «Monos» in prima pagina sul «Corriere delle Puglie» del 12 luglio 1898. Nel Paese d’Oltralpe è tornato d’attualità il caso Dreyfus, «che da anni commuove profondamente tutto il mondo civile».

Nel 1894 l’ufficiale francese di origine ebraica Alfred Dreyfus fu accusato di tradimento per aver fornito documenti militari segreti ai tedeschi. La vicenda godette di grande attenzione mediatica: la condanna del capitano, unico ufficiale dello Stato maggiore di origine ebraica, rientrava in un contesto antisemita e fortemente nazionalistico. La sua innocenza fu sostenuta da un vasto movimento d’opinione e da una straordinaria mobilitazione di intellettuali: durante il processo furono, in effetti, volontariamente occultate le prove sui veri responsabili dello spionaggio.

«In base a documenti falsi si condanna un uomo a morire di dolore sotto l’onta infame del tradimento e si condanna il più universale noto scrittore francese, che onora il mondo, perché chiede la luce». Nel luglio 1898 Émile Zola è infatti, condannato nel processo per diffamazione in cui è coinvolto per aver pubblicato sul quotidiano francese «L’Aurore», il 13 gennaio 1898, il celebre «J’accuse», la lettera indirizzata al presidente della Repubblica per la riapertura del processo.

«Forse il condannato all’isola del Diavolo potrà essere reo di tradimento – non noi possiamo affermarlo o negarlo – ma il solo dubbio che egli possa essere innocente, e questo dubbio è nell’animo di tutti, il solo pensiero che a lui è stata negata la prova, la difesa è tale un orrore da commuovere profondamente ogni anima onesta», si scrive sul «Corriere».

Il capo del controspionaggio francese Georges Picquart, in possesso di prove che scagionano Dreyfus, darà un contributo decisivo per l’accertamento della verità, ma la strada è ancora molto lunga.

«Non è più il capitano Dreyfus che addolora il mondo, ma il veder così violentemente negata la luce, quella luce che si chiede per solo amore di giustizia, per amore di un principio sacro che non è francese, non è tedesco, non è di alcuna nazione, ma è o dovrebbe essere di ogni paese, dovrebbe essere universale.[...] Dica pure il ministro della guerra che la Francia è libera di far come crede in casa sua, ma non è possibile, né alla Francia né all’universo, impedire che un grido di nobile sdegno si levi dall’anima di chi vede così vergognosamente soffocata la luce. Dreyfus appartiene alla Francia, ma la giustizia appartiene all’umanità; e quella nazione che ad essa violentemente si ribella, segna a caratteri neri un periodo di grande decadenza o di aberrazione nella storia».

Cose strane. Augusto Minzolini il 9 Luglio 2022 su Il Giornale.

Nessuno è amante della dietrologia o si nutre di complottismo, ma le ultime 48 ore hanno mostrato quanto sia fragile l'Occidente nei due emisferi.

Diceva Giulio Andreotti, una personalità politica che si è formata e ha vissuto negli anni della Guerra fredda, a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Nessuno è amante della dietrologia o si nutre di complottismo, ma le ultime 48 ore hanno mostrato quanto sia fragile l'Occidente nei due emisferi. L'Occidente europeo, impegnato ad appoggiare l'Ucraina contro l'aggressione russa, da un momento all'altro si è scoperto debole nei suoi governi di riferimento (lo abbiamo scritto sul Giornale proprio ieri): a Parigi, Berlino e Roma la situazione è delicata; a Londra addirittura è stato silurato Boris Johnson, il grande alleato di Zelensky, per cui il Paese avrà un vertice dimezzato per qualche mese. Una manna per Vladimir Putin. Sempre ieri è stato reso noto un rapporto dell'Fbi e del servizio segreto inglese MI5, che descrive nel Pacifico una situazione da pre-guerra, legata, ovviamente, alle mire espansionistiche di Pechino su Taiwan.

Ebbene, 12 ore dopo, l'ex-premier giapponese Shinzo Abe, uno degli avversari della Cina, il «costruttore» della cosiddetta Nato del Pacifico, l'uomo che più di tutti aveva messo sotto i riflettori la questione Taiwan, il padre politico dell'attuale primo ministro, è stato ucciso durante un comizio. L'assassino è Tetsuya Yamagami, un ex-militare come quel Lee Harvey Oswald che uccise John Kennedy e che, secondo le ultime carte desecretate a Washington alla fine dello scorso anno, incontrò un agente del Kgb prima dell'attentato. Dicono che sia un pazzo, ma è la versione di comodo che si usa quando non si riesce a spiegare o non si vuole spiegare un gesto. L'assassino, però, deve avere un minimo di cervello se è riuscito a costruire con le sue mani un'arma da fuoco camuffata da obiettivo fotografico: un manufatto complicato che ricorda la cinepresa usata dagli inviati di Bin Laden per uccidere il Leone del Panshir, Massud, prima di impadronirsi dell'Afghanistan. Roba da servizi segreti.

Ma, a parte le congetture, la morte di Abe destabilizza il Paese di riferimento degli Stati Uniti nel Pacifico e elimina dalla scena politica un personaggio che ha passato i suoi ultimi anni a dare l'allarme al Giappone e agli alleati sulle vere finalità della politica cinese. Al di là che ci sia un piano dietro a tutto questo o meno, si può constatare che l'obiettivo di indebolire l'Occidente in quella parte del mondo è stato centrato. Così Pechino può affidare la condanna dell'attentato ai «portavoce» dei ministeri competenti, mentre Xi resta in silenzio.

Detto questo, al netto di ogni sospetto, non ci si può nascondere che nell'epoca della guerra ibrida avvengono cose davvero strane. Prima c'è stata una moria di oligarchi russi, casualmente tutti quelli che non condividevano la politica dello Zar. Ora i governi dei Paesi più alleati a Washington, in Europa come nel Pacifico, hanno problemi. E, come un tempo, ora ci sono pure gli attentati eccellenti. Della serie le verità nascoste. Se non c'è un'intelligenza in tutto questo poco ci manca, anche perché, come si dice, un indizio è un indizio, due sono una coincidenza, ma tre sono una prova. Ciò che è avvenuto è un monito all'Occidente a stare in allerta perché il mondo cambia ma non sempre come vorremmo.

Shinzo Abe, servizi segreti e Cina: tutte le piste dietro al suo assassinio. Renato Farina su Libero Quotidiano il 09 luglio 2022

L'agghiacciante assassinio di Shinzo Abe sta passando serenamente come un episodio di tipico stampo giapponese. La persistenza in quella società di oscure sacche di perversioni, dove si mescolano tradizione e follia, sarebbe il bosco predestinato alla nascita di questo fungo velenoso. Nessuna trama. Una faccenda locale, che non c'entra con le onde sismiche che stanno travolgendo l'ordine mondiale. A costo di passare per complottisti, non la beviamo. È vero, tutto cospira a chiudere il caso come un episodio da manuale del vizio giapponese di usare la spada per risolvere le divergenze politiche. La figura dell'attentatore, Tetsuya Yamagami, con le sue dichiarazioni da squilibrato, la confessione teatrale, l'arma del delitto confezionata artigianalmente, eppure la presenza di un arsenale nella sua minuscola dimora nella stessa città di Nara dove si è consumato l'attentato, sembrano costruite su misura per chiudere il caso, confinandolo nella mente di un invasato di miti medievali e sconfitte personali, caso psichiatrico, senza complici.

I primi riscontri ufficiali, e persino quelli informali dei servizi segreti di Tokyo ai colleghi della Nato, di cui sono partner esterni, non si discostano da questo cliché francamente un po' troppo folkloristico per essere convincente. Insomma, saremo dei matti anche noi come Tetsuya Yamagami, il killer, ma costui ha funzionato come un missile molto più intelligente di quelli che vediamo all'opera nello scenario ucraino. Cacio sui maccheroni per le strategie di chi? Seneca è ancora lì a proporci l'eterna domanda: a chi giova? Abe sulla scacchiera era il cavallo che poteva tentare mosse imprevedibili. Nemico aperto della Cina per le sue pretese di egemonia su Asia e Oceania, ma amico di India e in passato della Russia (a suo tempo aveva concesso a Putin aperture simili a quelle di Silvio Berlusconi), guardato come un rompiscatole da Joe Biden, che Abe ad aprile di quest'anno criticò ruvidamente per la sua «ambiguità strategica» in un articolo che ebbe diffusione mondiale (in Italia su Repubblica). È un caso se pochi giorni dopo, non si sa se convintamente o meno, gli Usa gli obbedirono con un certo fastidio per non trovarsi contro l'uomo ancora oggi - anzi ieri! - più influente del Giappone, dalle tante, forse troppe vite.

SEGUITE IL DENARO

Qui formuleremo alcune ipotesi, come dicevano gli investigatori di una volta, senza trascurare alcuna pista esterna o interna. Oltre a Seneca, ci soccorre Giovanni Falcone che diceva: seguite il denaro. Vale per i singoli ma anche per gli Stati e chili comanda. Diciamo subito che due fatti ci hanno iniettato il dubbio a proposito della esagerata evidenza dell'assenza di complotti. Il primo è stato il fiorire su molti siti occidentali dell'aneddotica sui delitti politici in cui quest'ultimo si incastrava millimetricamente come tessera di un mosaico progettato da secoli dal fato. Fino a incorrere in errori madornali per l'esagerazione entusiasmo. Cosi corriere.it arriva a inventarsi un omicidio con tanto di citazione del New York Times, lo precedono o seguono a ruota i siti più disparati (insideover.com). Scrivono e diffondono da via Solferino: «Nel Sol Levante l'assassinio politico per secoli è stato considerato una forma "estrema ma accettabile" di protesta politica. Così scrive il New York Times il 26 febbraio 1936, all'indomani dell'uccisione di Tatsukichi Minobe, docente all'Università Imperiale di Tokyo. La sua colpa? Minobe aveva pubblicamente messo in dubbio lo status di divinità attribuito al Tenno». Una notizia forse esagerata, molto utile a confermare la teoria. 

Piccolo controllo. Pag.10 del NYT del 21 febbraio 1936: «Il liberale giapponese, dr. Minobe, è stato colpito. Il padre della teoria dell'imperatore come "organo dello Stato", che aveva suscitato polemiche, è stato leggermente ferito». Secondo la Treccani, in realtà Minobe morì placidamente dodici anni dopo. Vero è che la spada in Giappone è sempre stata considerata una extrema ratio persino nobile per risolvere conflitti politici. Ma qui gatta ci cova. La seconda spina nel fianco delle certezze arriva da Mosca. Dove la arci-famosa Maria Zakharova, portavoce di Sergej Lavrov, si lascia andare, prima ancora che Abe sia dichiarato morto, a due formule: «crimine mostruoso» e «atto di terrorismo». Anche le parole di Vladimir Putin appaiono tese a suscitare interrogativi sul mandante: «perdita irreparabile» quella di Abe. Che cosa sanno i servizi russi? Oppure più banalmente vale l'adagio popolare «la gallina che canta ha fatto l'uovo»?

MEGLIO DEI SICARI

I pazzi funzionano meglio di killer professionisti, specie se magari individuati, discretamente pilotati, controllati e poi lasciati liberi di agire da forze di sicurezza corrotte o infiltrate... Possibile sia stato lasciato a tal punto alla mercé in un momento di conflitto ormai mondiale dove la vittima si era esposta come non mai. Dal Giappone spiegano che la violenza è rara nelle strade e nei dibattiti pubblici del Giappone di oggi. La stampa locale riferisce: «Nel quartiere di Shibuya, dove vive, Shinzo Abe è stato visto spesso con la moglie e il loro cane, senza alcuna particolare sicurezza. "Lo vedevamo spesso per le strade di Tokyo. Una volta, mia figlia era tra i bambini che portavano il tempio portatile a una festa locale. Distribuiva dolci con sua madre, senza che ci fosse la polizia", ricorda un ex vicino di casa». Poteva sfuggire ai servizi delle super-potenze tanta superficialità? Senza escludere nulla, nemmeno la casualità, notoriamente sempre dalla parte dei cattivi, l'a-chi-giova-di-più chiama in causa la Repubblica popolare cinese, magari attraverso gli specialisti della Corea del Nord, arcinemica di Abe e della sua determinazione a organizzare una capacità di resistenza e di replica alle minacce comuniste cino-coreane assai maggiore dell'attuale premier nipponico, l'alquanto moderato Fumio Kishida. Il quale temeva che il suo antico sponsor Abe gli facesse le scarpe, anzi le pantofole.

"Spia della Cina". Muore in carcere lo scienziato russo. Federico Giuliani il 3 Luglio 2022 su Il Giornale.

Dmitry Kolker, lo scienziato russo di Novosibirsk, era stato arrestato lo scorso giovedì con l'accusa di spionaggio a favore della Cina. Era un malato terminale di cancro ed è stato prelevato direttamente dall'ospedale. 

Era stato arrestato lo scorso 30 giugno per tradimento. Gli ufficiali dell'Fsb, i servizi segreti russi, lo avevano prelevato direttamente dall'ospedale, dove era ricoverato in quanto malato terminale di cancro. Tre giorni più tardi Dmitry Kolker è morto nel carcere di Lefortovo, a Mosca. Poco prima, sempre dalla Russia, e sempre con la stessa accusa di tradimento, le autorità avevano arrestato un altro scienziato, Anatoly Maslov.

La morte di Kolker

Partiamo con Dmitry Kolker. Kolker non era un semplice scienziato. Il suo ruolo parlava chiaro: capo del laboratorio di tecnologie ottiche quantistiche dell'Università statale di Novosibirsk. L'uomo era proprietario di numerosi brevetti nonché responsabile di un centro di ricerca prestigioso. Nel corso della sua carriera aveva inoltre tenuto lezioni in Cina in ambito universitario. Quello che avrebbe dovuto rappresentare un plus per il suo percorso professionale, si sarebbe presto trasformato in una spada di Damocle. Kolker, come ha raccontato sui social network suo figlio Maxim, era stato infatti accusato di "aver fornito alla Repubblica popolare cinese dati contenenti segreti di Stato".

Il figlio ha tuttavia chiarito che le lezioni tenute dal padre oltre la Muraglia erano in lingua russa, su precisa richiesta della "guardia di sicurezza" che accompagnava lo scienziato. In più, a ulteriore tutela, pare che le presentazioni di Kolker fossero state sempre "certificate" dall'Fsb prima di ogni lezione. "Assolutamente tutti i rapporti alle conferenze internazionali sono certificati in dipartimenti speciali, ovvero che non contengono segreti di Stato. Un ufficiale dell'Fsb era con lui ovunque, aveva volato con lui in Cina e gli aveva proibito di parlare in inglese", ha spiegato Maxim. Il 30 giugno scorso, il tribunale distrettuale Sovetsky di Novosibirsk ha arrestato Kolker con l'accusa di tradimento. L'uomo, alle prese con un cancro al pancreas in stato avanzato, è stato prelevato da un letto di ospedale.

Dall'ospedale alla galera

"Hanno preso un uomo un uomo malato, ricoverato in un ospedale privato, che sta praticamente morendo ed è nutrito grazie a un tubo collegato alle sue vene", ha raccontato Maxim Kolker, citato dal Moscow Times. Kolker, ha sottolineato Reuters, era stato arrestato mentre si trovava in ospedale, e da lì portato a Mosca dove avrebbe dovuto affrontare un processo per scoprire il suo destino. I familiari temevano che lo scienziato potesse non sopravvivere alla detenzione preventiva, estesa fino al 29 agosto dal tribunale di Novosibirsk.

Alla fine Kolker è morto in carcere. Nel caso in cui fosse stato riconosciuto colpevole di alto tradimento, avrebbe rischiato una condanna fino a 20 anni di reclusione. Come detto, sempre a Novosibirsk, Mosca ha arrestato un secondo scienziato. Si tratta di Anatoly Maslov, capo scienziato presso un istituto di meccanica teorica e applicata. "Maslov è sospettato di aver fornito (alla Cina ndr) dati coperti da segreto di stato", ha scritto l'agenzia russa Tass, chiarendo che i dati erano legati al settore dell'"ipersonico". L'uomo sarebbe stato arrestato il 28 giugno, nella stessa settimana che sarebbe poi costata la vita a Kolker.

La Russia ha tentato di infiltrarsi con una spia nella Corte internazionale dell’Aja. Andrea Marinelli e Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 17 Giugno 2022.

Il controspionaggio olandese ha arrestato Sergey Vladimirovich Cherkasov, 36 anni: da 12 si faceva chiamare Viktor Muller Ferreira, si è spacciato per brasiliano, ha studiato negli Stati Uniti. Ha tentato di entrare alla Corte dell’Aja dove avrebbe potuto contaminare le prove sui crimini di guerra compiuti dalla Russia in Ucraina. 

Viktor Muller Ferreira per dodici anni ha detto in giro di essere brasiliano, originario di Niteroi. Per non sbagliarsi nel raccontare il suo passato ha redatto un canovaccio da imparare a memoria. Una storia ricca di particolari che propinava quando incontrava qualcuno. 

Solo che non era la sua vera biografia, ma la «leggenda» di una spia. Sì, perché Viktor in realtà si chiama Sergey Vladimirovich Cherkasov, 36 anni, agente del GRU, l’intelligence militare di Mosca. 

Uno degli illegali, uomini mandati in Occidente a vivere in clandestinità sotto falsa identità. 

Il gioco di specchi e finzione del russo è crollato in aprile, nel momento in cui è sbarcato in Olanda per iniziare il lavoro di stagista alla Corte Internazionale dell’Aja, istituzione che si occupa di crimini di guerra. 

Avrebbe dovuto infiltrarsi, ma la missione è andata a vuoto perché il controspionaggio lo aspettava e lo ha rimandato in Brasile dove è finito in prigione. 

Sono stati gli stessi 007 olandesi a rivelare i documenti e il percorso della talpa, probabilmente mandata dai «gestori» moscoviti per scoprire eventuali file relativi agli eccidi in Ucraina.

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina

Nelle paginette scritte da Ferreira-Cherkasov c’è proprio tutto, fin dalle origini. La sua infanzia difficile, i problemi familiari, gli anni della scuola, i professori sgraditi, il ricordo della macchina da cucire della zia che lo ha cresciuto, il soprannome «Gringo» datogli da altri studenti perché pensavano fosse tedesco, la mancanza di denaro, i primi lavori per tirare avanti, la passione per un certo ristorante e quello per una squadra, il debole per un night club e per la musica. 

Non ha tralasciato nulla, ha incluso aspetti innocui e sentimenti. Questo perché doveva essere bravo a mentire, agile nel sottrarsi a domande sul «prima», convincente nel fornire una ricostruzione credibile. Un investimento profondo da parte dell’intelligence, un’operazione durata a lungo, a riprova di come il suo uomo sia riuscito – almeno per un periodo – a passare sotto il radar trascorrendo periodi in Usa e in Europa. 

Viktor ha conseguito un master sulla politica estera statunitense alla prestigiosa John Hopkins University a Washington, ateneo frequentato anche da stranieri e per questo possibile «piscina di arruolamento» da parte degli «scout» dello spionaggio. 

All’atto dell’iscrizione avrebbe però dato un nome leggermente differente. In precedenza è stato al Trinity College di Dublino. Alcuni aspetti sono emersi dai social, infatti il russo aveva un account Twitter e uno su Facebook dove non ha mai postato niente di compromettente. Anche questo è parte dell’inganno: non presentare un’esistenza digitale rischiava di sollevare sospetti. Ma evidentemente Viktor può aver fatto un errore oppure lo hanno segnalato agli olandesi. Il fatto che abbiano in mano il manoscritto autobiografico è un indizio in questo senso. 

Però viene da chiedersi perché sia stato così imprudente da conservarlo. Una stranezza che magari sarà usata dalla Russia per rinforzare la tesi che si tratta di una fake news, di una provocazione. 

Dall’Aja, però, possono ribattere ricordando i precedenti. Nel 2018 l’Olanda ha intercettato un team di hacker russi in possesso di sistemi per introdursi in un’organizzazione che stava indagando su uso di armi chimiche in Siria. 

Da quando è esploso il conflitto la Nato ha intensificato la sorveglianza, ha espulso dozzine di russi, ha ingaggiato un duello con la Russia. Con tre fronti aperti: il rischio di azioni destabilizzanti, i pericoli di sabotaggi agli aiuti per Kiev, le manovre per influenzare le opinioni pubbliche europee. 

In questo contesto il GRU rappresenta l’apparato preferito da Vladimir Putin perché lo considera un esecutore fedele, osa senza badare alle conseguenze, combina l’azione politica a quella militare. 

Da qui una vigilanza continua come conferma l’episodio avvenuto il 13 giugno. Scotland Yard ha fermato arresto un quarantenne nello scalo di Gatwick mentre cercava di lasciare il paese, mossa giustificata dal sospetto che possa trattarsi di una spia di Mosca. 

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 19 maggio 2022. 

I rapporti tra Italia e Russia non sono mai stati così tesi e delicati come negli ultimi giorni. E la cacciata dei nostri diplomatici da Mosca non è il centro della crisi, ma piuttosto un suo epifenomeno: la risposta del Cremlino nei confronti dei paesi europei che avevano allontanato i funzionari di Putin era da tempo annunciata e per questo attesa. Le questioni più calde sono altre. E riguardano tre settori cardine: lo spionaggio, l'economia e l'informazione.

Il punto di partenza, da tenere ben presente, non è l'inizio del conflitto in Ucraina. Ma l'aprile del 2021, nemmeno due mesi dopo l'insediamento di Mario Draghi come presidente del consiglio. Il primo aprile, infatti, i carabinieri in un'operazione congiunta con l'intelligence dell'Aisi arrestano Walter Biot, militare in servizio allo Stato maggiore della Difesa accusato di essere al libro paga dai russi per passare loro informazioni riservate. Biot è arrestato e contemporaneamente vengono espulsi dal nostro paese i due agenti russi che avevano rapporti con lui.

Si tratta di Aleksej Nemudrov e Dmitri Ostroukhov, non esattamente due oscuri ufficiali ma uomini di grande peso e relazione: erano in Italia, ufficialmente, come diplomatici e con l'Italia da anni mantenevano rapporti a tutti i livelli, politici ed economici. Nemudrov era, per dire, il capo della missione "Dalla Russia con Amore", l'uomo cioè che doveva curare la logistica di quella spedizione umanitaria che, sta emergendo oggi, è stato in realtà un tentativo russo per spiare il nostro Paese. Nell'elenco dei partecipanti alla missione - ha raccontato più volte Repubblica - non c'erano infatti soltanto medici o "addetti alle bonifiche".

Ma piuttosto agenti che, per questo, vennero tenuti sotto controllo dalla nostra intelligence e dalle nostre forze di polizia durante l'intero periodo di permanenza in Italia. «Che qualcosa non andasse ce ne siamo accorti subito», hanno spiegato anche davanti al Copasir gli uomini della nostra intelligence, tanto che il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha raccontato di aver rifiutato la disponibilità russa di far arrivare nuovi uomini. La spedizione dunque terminò. Ma, a quel punto, non si fermò l'attenzione italiana sul lavoro di Nemudrov. 

Prima di arrivare in un parcheggio della periferia romana a scoprire Biot che passava loro documenti, i funzionari russi sono stati attenzionati. Ed è emerso un lavoro sistematico di tentate infiltrazioni del nostro tessuto politico ed economico: dai rapporti con un'associazione ligure, a quelli con la "Società cormonese Austria", una onlus che protegge la memoria dei caduti russi in Friuli, Nemudrov e gli altri usavano una serie di coperture in tutto il territorio per avere basi logistiche e poter spiare un paese amico. Il nostro. 

Un'ulteriore certezza su questo tipo di lavoro russo è emersa, recentemente, da altri due elementi. Il primo: a Massa Carrara la Guardia di Finanza ha indagato, fino ad arrivare al sequestro, su uno yacht, tra i più grandi al mondo, lo Scheherazade, riconducibile direttamente a Vladimir Putin. Un mese fa circa le Fiamme Gialle hanno effettuato un sopralluogo e registrato i nomi dell'equipaggio. Il caso ha voluto che ci fossero molte omonimie con agenti segreti russi conosciuti ai nostri servizi. E che nemmeno 24 ore dopo tutte quelle persone siano sparite dall'Italia.

Come mai? «Evidentemente non era personale di servizio dello yacht» dice oggi un investigatore. I marinai non erano dunque marinai. E i giornalisti non erano giornalisti. Si è scoperto, ancora, che due dei cronisti registrati nella delegazione "Dalla Russia con amore" lavoravano con il Cremlino come agenti.

Così come, ha accertato il Copasir, alcuni dei commentatori russi che frequentano trasmissioni televisive italiane non solo lavorano per Mosca ma venivano indicati alle trasmissioni dall'ambasciata russa. Infine, ma non per ultimo la questione economica: troppe aziende stanno aggirando l'embargo con triangolazioni con altre Paesi. E ancora aperta resta la ferita di quella riunione organizzata a fine gennaio dalla Camera di commercio Italo-Russa di Vincenzo Trani alla quale, nonostante il Governo avesse fatto notare l'inopportunità, hanno partecipato anche aziende di Stato. Su tutte l'Enel di Francesco Starace.

Lysander, l'aereo che traghettava le spie. Davide Bartoccini il 28 Aprile 2022 su Il Giornale.

Brutto anatroccolo dell'aviazione ma asso nella manica dei servizi segreti Alleati, il Westland Lysander fu il traghettatore delle spie nell'Europa occupata dai nazisti. Le sue specifiche STOL gli consentivano di infiltrare ed esfiltrare agenti segreti del SOE e non solo.

Poche coordinate, una bussola, una mappa su cui tracciare la rotta da seguire al chiaro di Luna e un orario preciso per il rendez-vous. Piloti temerari, con nervi d'acciaio, e uomini e donne dal sangue freddo pronti a tutto pur di liberare l'Europa dal giogo nazista. Questo serviva agli Alleati nella fase più delicata del Secondo conflitto mondiale. Ma nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza gli squadroni adibiti ai cosiddetti “Special Duties” della Royal Air Force per conto del SOE - lo Special Operations Executive che Churchill adorava chiamare “the Ministry of Ungentlemanly Warfare” - e senza un velivolo strano, radiato dalla prima linea per la sua evidente obsolescenza. Un brutto anatroccolo come il Westland Lysander: l'areo delle spie.

Per traghettare agenti segreti e membri della Resistenza fuori e dentro l'Europa occupata, trasportare apparecchiature radio, materiale "delicato" per operazioni di sabotaggio o recuperare aviatori abbattuti sul territorio nemico , servivano piloti abili e coraggiosi come nessuno. Ma soprattutto servivano velivoli adatti. Mezzi capaci di atterrare e decollare da piste improvvisate, estremamente corte, spesso a malapena individuabili attraverso torce e piccoli fuochi. È così che i Westland Lysander, destinati alla seconda linea dopo l'evacuazione di Dunkerque, trovarono una nuova "vita operativa". Passata a volare avanti e dietro le linee nemiche per condurre missioni clandestine.

A causa del vincolo di segretezza, i Lysander rimasero a lungo relegati alla lunga lista di "fallimenti aeronautici". Ma appena terminato il conflitto e desecretate le notizie relative, fu presto noto il prezioso servizio che avevano fornito allo SOE che aveva formato tre squadroni il 138°, 161° e 357° equipaggiati con Lysander Mk.III appositamente modificati e dipinti con la livrea nera opaca per essere meno visibili nelle loro missioni notturne.

Un brutto e lento anatroccolo

Volavano come “strane anatre” i Lysander, e il loro aspetto, se messi a confronto dei velivoli più performanti e accattivanti come i famigerati Spitfire, poteva suggerire solo il paragone con il brutto anatroccolo che spicca tra i cigni della fiaba di Andersen. Eppure il loro impiego bellico - sebbene sia rimasto a lungo celato dal segreto militare - si rivelò di pari importanza per la vittoria finale. Lo sapevano i “pochi”, davvero pochi piloti dell’aeronautica di Sua Maestà che furano assegnati ai “voli delle spie” al chiaro di luna. Missioni che si svolgevano quasi sempre entro una settimana dalla luna piena, dal momento che la luce riflessa era essenziale per la navigazione senza i sofisticati strumenti dei nostri aerei moderni.

Come detto, il Lysander iniziò ad essere apprezzato per la sua capacità di atterrare e decollare in piste estremamente corte, per la sua eccellente manovrabilità in volo a velocità molto basse - consentita dalle sue particolari ali di legno dotate di slat e flap - e per buona visibilità dall’abitacolo composto da un voluminoso tettuccio che seguiva gran parte della linea della carlinga. Tuttavia, il suo battesimo del fuoco, a causa di queste specifiche messe in confronto con i veloci e bene armati caccia tedeschi, si concluse con un tragico fallimento. Mandati in azione come “osservatori e bombardieri leggeri” tra la primavera e l’estate del 1940, dei 175 Lysander schierati in Francia e Belgio, 118 vennero abbattuti, relegando i “brutti anatroccoli” a compiti di seconda linea.

Questo almeno fino a quando Winston Churchill non decise di fondare lo Special Operations Executive per “infiammare l’Europa” dell’interno. Fu allora che al ministero della Guerra qualcuno si ricordò dei vecchi Lysander: perfetti per essere impiegati oltre le linee nemiche con le necessarie modifiche. L'abitacolo posteriore venne modificato per accogliere due passeggeri al posto del mitragliere che era votato al sacrificio, e una scaletta fissa venne montata sul lato sinistro della carlinga per accelerare la pratica di “imbarco e sbarco” dei passeggeri che andavano infiltrati ed esfiltrati dal territorio nemico: spie, reclutatori, capi della resistenza, commandos ai quali era stata assegnata una missione speciale, piloti abbattuti o atterrati oltre le linee con informazioni importanti da riferire. L’aggiunta di un serbatoio secondario, montato sotto il ventre de velivolo, contribuì a portare gli anatroccoli sempre più distanti nel cuore della fortezza Europa occupata dai nazisti e pullulante di sabotatori. Inizialmente i Lysander, vennero ridipinti di dipinti di nero al fine di rendere difficile la loro identificazione. Ma in un secondo momento apparve chiaro come la sagoma dell’aereo spiccasse eccessivamente sulle nuvole basse; si optò allora per delle gradazioni di grigio nella parte superiore, e si mantenne il nero nella parte inferiore.

La "Fattoria" dei servizi segreti

Numerosi furono gli aeroporti e i campi di volo allestiti dalla RAF nel corso della seconda guerra mondiale, ma i più singolari e segreti erano proprio quelli da cui decollavano i voli delle spie. Come ad esempio quello di Tempsford, nel Bedfordshire ,situato tra un'antica strada romana e la ferrovia di Peterborough. Noto con il soprannome di "Gibraltar Farm” (la fattoria di Gibilterra, ndr) dal momento che venne progettato proprio per assomigliare a una fattoria. 

Dalla fattoria di Tempsford gli aerei assegnati al 138° e 161° Squadron per i compiti speciali, iniziarono ad attraversare la Manica dal 1942 per paracadutare dai capienti quadrimotori Halifax rifornimenti di armi, munizioni, radiotrasmettitori, e quant’altro ai movimenti della resistenza francese: i maquisards. Mentre i piccoli Westland Lysander traghettavano e recuperavano agenti segreti al servizio del SOE come Violette Szabo. I Lysanders operavano anche dall’aeroporto di Newmarket nel Suffolk e successivamente iniziarono a fare scalo nel noto aeroporto di Tangmere per poi attraversare il canale della Manica che aveva impedito l’invasione nazista, per seguire la Loira come principale punto di riferimento nei voli al chiaro di luna. Secondo le informazioni desecretate dopo la guerra, ben furono 101 i passeggeri speciali portati nell’Europa occupata, e 128 quelli in “uscita”. La prima missione dei Lysander fu quella di esfiltrare dall’Italia un ufficiale dell'OSS - il servizio segreto americano. Con il passare del tempo i tedeschi scoprirono che esistevano degli aerei appositamente studiati per portare le spie britanniche e fecero in modo di catturarne uno intatto. Questo accadde nel marzo del 1942, quando il suo pilota non fu in grado di distruggerlo prima di abbandonare il relitto. Fortuna volle - per la parte alleata almeno- che l’aereo, caricato su un camion per essere esaminato, venne travolto da un treno che distrusse insieme al camion il suo prezioso carico.

La tipica missione del Lisandro

Senza alcun equipaggiamento di navigazione diverso da mappa e bussola, i piloti di Lysanders, dopo un breve briefing in basi segrete come la “fattoria di Gibilterra”, prendevano il volo al chiaro di luna nei loro pesanti giubbotti di pelle Irvin - appena dopo la mezzanotte - e seguivano le poche tracce segnate con una matita rossa sulle carte che potevano essere illuminate per pochi istanti con una torcia. La Manica era il primo punto di riferimento, poi sarebbe iniziato il fuoco della contraerea: l’annuncio inequivocabile dell’arrivo in territorio nemico, a indicare a casa si erano avvicinati. Che il rendez-vous a l’ora prestabilita fosse nei pressi di Cherbourg, Clermont-Ferrand o Caen, il pilota avrebbe seguito la bussola schivando i riflettori tedeschi e le raffiche di proiettili traccianti, per atterrare su piccole piste improvvisate e delimitate da quattro o cinque torce (o fuochi) al massimo.

Se il passeggero era un agente da “infiltrare”, poteva capitare indossasse una tuta imbottita per saltare giù dall’aereo senza che questo dovesse fermarsi. Se invece la spia o il membro della resistenza francese - il maquisards di turno - andava prelevato, allora tutto richiedeva più tempo e più sangue freddo. Perché la Gestapo poteva aver scoperto il luogo dell’appuntamento e ordinato un’imboscata per catturare quel passeggero speciale che senza dubbio era giunto per coordinare un’operazione di sabotaggio e indicare dove sarebbero avvenuti gli sbarchi o il lancio di paracadutisti. Qualcuno che forse, messo sotto il torchio della tortura e del “siero della verità”, avrebbe rivelato l’esistenza di una rete spionistica o i nascondigli della resistenza. Per pilotare nel cuore della notte un aeroplano lento e strano, che assomigliava a un brutto anatroccolo nero, nella profondità nel territorio occupato dal nemico, con una spia come passeggero e neanche un'arma che non fosse una rivoltella, ci voleva parecchio fegato. Tanto quanto ce ne volveva a combattere in un duello aereo. Se non di più. Questo è quanto spettava ai traghettatori di spie che volavano sul Lisandro. Adesso lo sappiamo.

Il cimitero delle spie. Report Rai PUNTATA DEL 09/05/2022 di Daniele Autieri

Collaborazione di Federico Marconi

Il 5 aprile scorso, 30 diplomatici russi vengono espulsi dal Ministero degli Esteri perché accusati di condurre operazioni di spionaggio sul suolo italiano.

Il 30 marzo del 2021 il capitano di fregata Walter Biot, in servizio presso il III Reparto dello Stato Maggiore della Difesa, viene arrestato con l’accusa di aver venduto segreti militari della Nato alla Russia. Tra i documenti sequestrati anche il Reperto S, un’analisi della Nato sulle attività destabilizzanti della Russia in Ucraina. Gli uomini del Ros dei Carabinieri lo trovano in macchina con un addetto militare russo di nome Dmitri Ostroukhov, un uomo proveniente dal Gru, il servizio segreto militare di Mosca. Il giorno dopo l’arresto Ostroukhov viene espulso e insieme a lui viene espulso anche l’addetto navale dell’Ambasciata russa in Italia, Aleksej Nemudrov, il numero due dei diplomatici russi nel nostro Paese, l’uomo che aveva gestito la logistica della missione sanitaria russa in Italia del marzo 2020. A un anno di distanza, il 5 aprile scorso, 30 diplomatici russi vengono espulsi dal Ministero degli Esteri perché accusati di condurre operazioni di spionaggio sul suolo italiano. Nel complesso, l’Europa espelle 149 diplomatici della Federazione Russa. Che relazioni ci sono tra le attività dei due uomini espulsi nel caso Biot e i 30 addetti russi definiti dal Presidente del Consiglio Mario Draghi “pseudo-diplomatici”? E che tipo di documenti segreti nell’ambito delle attività dell’Alleanza Atlantica cercavano le spie russe in Italia?

IL CIMITERO DELLE SPIE di Daniele Autieri collaborazione Federico Marconi immagini Chiara D’Ambros, Dario D’India, Tommaso Javidi, Andrea Lilli montaggio Andrea Masella grafiche Michele Ventrone ricerca immagini Paola Gottardi

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Una vicenda che ci riporta indietro nel tempo, ai tempi della guerra fredda quando le ideologie non solo dividevano i vivi ma anche i morti

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO La terra di confine porta ferite visibili anche tra le lapidi. Nel piccolo cimitero di Miren, in Slovenia, una linea rossa segna il punto dove correva il confine imposto dalla cortina di ferro. Da un lato il blocco sovietico, dall’altro quello occidentale. In mezzo un muro che divide i vivi, ma anche i morti.

BARBARA FERLETIC – ABITANTE DI MIREN Qui ci sono mio suocero e mia suocera… e mio suocero è stato tra i primi che è stato seppellito nella parte italiana, e poi ci sono anche i nonni del mio marito lì, lì sono gli altri nonni e qui è lo zio di mio marito.

DANIELE AUTIERI Cioè qui i vostri cari erano divisi in due praticamente…

BARBARA FERLETIC – ABITANTE DI MIREN In due sì.

DANIELE AUTIERI E come faceva, si poteva venire a visitarli?

BARBARA FERLETIC – ABITANTE DI MIREN No … cioè si poteva però era tutto con soldati. C’era il filo spinato. Non so cosa pensare… non è stato bello

DANIELE AUTIERI Un’assurdità

BARBARA FERLETIC Un’assurdità sì.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’Italia è il terreno dove più forte si è consumato lo scontro tra Nato e Federazione Russa. Il 31 marzo del 2021, un anno prima della guerra, e un anno dopo dalla missione dalla “Russia con amore”, è stato arrestato l’ufficiale di Marina Walter Biot. È stato accusato di aver venduto dei segreti della Nato a delle presunte spie russe e rischia l’ergastolo. Biot è accusato in particolare di aver consegnato una scheda sd contenenti 181 foto di documenti secretati. Alcuni in particolare, come il reperto S, erano documenti della Nato, ed erano le note che la Nato aveva inviato sui movimenti destabilizzanti della Russia nei confronti dell’Ucraina. Questa sd è stata consegnata nelle mani di Dmitri Ostroukhov e con lui Aleksej Nemudrov, che è l’uomo che è stato appunto responsabile, l’addetto militare che è stato responsabile della logistica per la missione “Dalla Russia con amore”. Aveva contatti con l’entourage di Savoini come abbiamo detto e adesso viene coinvolto in questa situazione di spionaggio, e per questo lui e Ostroukhov sono stati espulsi dalla Repubblica italiana, un fatto che non ha precedenti nella nostra storia. Il nostro Daniele Autieri

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 4 marzo del 2021 il Segretario Generale della Nato Jens Stoltenberg parla agli studenti del College of Europe di Bruxelles. E li mette in guardia sulle mire della Russia, intenzionata ad allargare la sua sfera di influenza nel Vecchio Continente.

JENS STOLTENBERG – SEGRETARIO GENERALE DELLA NATO Questo tentativo di occupare i confini con forze militari come è stato visto in Ucraina e in Crimea è accaduto solo pochi anni fa quindi il bisogno di prevenire i conflitti nel nostro continente e di difendere l’Europa rimane molto stringente.

DANIELE AUTIERI Tredici giorni dopo, il 17 marzo, il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden rilascia alla ABC un’intervista che diventa subito uno spartiacque nelle relazioni con la Russia.

GIORNALISTA Lei crede che Vladimir Putin sia un killer?

JOE BIDEN Sì, lo penso.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Passano altri tredici giorni e il 30 marzo: Spinaceto, un quartiere alla periferia di Roma, finisce sulle mappe della geopolitica mondiale. L’Italia diventa il terreno dove si consuma lo scontro tra la Nato e la Federazione Russa. Un ufficiale della Marina viene arrestato per spionaggio. Avrebbe passato documenti segreti ai russi in cambio di soldi. Al momento del suo arresto il capitano di fregata della Marina Militare Walter Biot è un ufficiale in servizio presso lo Stato Maggiore della Difesa, III Reparto Direzione Strategica e Politica delle Operazioni, incaricato di gestire flussi di informazioni altamente sensibili e coperte da segreto. Una grana diplomatica internazionale per il nostro Paese che obbliga il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, a riferire alle Commissioni Difesa di Camera e Senato

LORENZO GUERINI – MINISTRO DELLA DIFESA INTERVENTO ALLE COMMISSIONI DIFESA DI CAMERA E SENATO – 8 APRILE 2021 Chi è accusato di tali comportamenti ne risponderà di fronte alla legge, vorrei però dire che ancora una volta che i valori e le esperienze delle nostre forze armate sono altro rispetto a quanto si è evidenziato in questa bruttissima vicenda.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO All’arresto del capitano di fregata si accompagna l’espulsione di due alti funzionari dell’Ambasciata Russa. L’addetto militare Aleksej Nemudrov e il colonnello Dmitri Ostroukhov un altro diplomatico proveniente dal GRU, il servizio segreto militare russo, entrambi impegnati – secondo i nostri servizi di intelligence – a cercare prove di un’intesa tra la Nato e il presidente ucraino Zelensky.

TIBERIO GRAZIANI - PRESIDENTE VISION & GLOBAL TRENDS A quanto risulta erano due diplomatici che si occupavano della questione della difesa, della sicurezza, quindi due addetti alla difesa dell’ambasciata russa in Italia.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Graziani non è solo un esperto di geopolitica, ma è anche uno degli italiani indicati come filo-russi dalla discussa pubblicazione curata dai docenti Olga Bertelsen e Jan Goldman e distribuita dalla Columbia University.

TIBERIO GRAZIANI - PRESIDENTE VISION & GLOBAL TRENDS L’Italia è stata per motivi storici sicuramente un paese schierato nell’ambito occidentale che ha avuto la funzione anche di essere mediatore tra il blocco occidentale e la Russia, però questa funzione l’ha mantenuta anche dopo il collasso dell’Unione Sovietica.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO IL 25 marzo scorso, nella conferenza stampa rilasciata di fronte al tribunale di Roma, l’ambasciatore russo Sergey Razov torna sulla questione dei rapporti diplomatici con l’Italia.

SERGEY RAZOV – AMBASCIATORE DELLA FEDERAZIONE RUSSA IN ITALIA Io ho lavorato con i governi di Letta, Renzi, Gentiloni, adesso con il governo di Draghi. In tutti questi anni io e miei colleghi abbiamo fatto di tutto per costruire i ponti. Adesso con rammarico devo constatare che quello che è stato fatto viene smontato. La prima legge della diplomazia classica è non interferire negli affari interni di un paese e io la seguo precisamente.

DANIELE AUTIERI Due addetti militari sono stati espulsi un anno fa. In quel caso c’era stata un’ingerenza nelle questioni italiane? In quel caso di spionaggio si ricorda…

SERGEY RAZOV – AMBASCIATORE DELLA FEDERAZIONE RUSSA IN ITALIA Non ho capito… Volete analizzare e discutere su tutti gli episodi che si sono verificati in passato? Anche quelli forse un po’ spiacevoli? Le spiegazioni sono state date tramite il canale ufficiale che esiste tra l’Italia e la Russia …

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Aleksej Nemudrov è ben inserito nella rete italiana. Il 22 marzo del 2020 è lui a guidare la task-force russa anti Covid inviata dal Cremlino.

ENRICO BORGHI – DEPUTATO PD - COPASIR Se è per questo ha avuto anche relazioni di altro tipo nel nostro paese…

DANIELE AUTIERI Di che tipo?

ENRICO BORGHI – DEPUTATO PD - COPASIR Rapporti con esponenti politici, ma questo mi sembra abbastanza alla luce del sole.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nemudrov è lo stesso agente che entra in contatto con l’entourage di Gianluca Savoini, l’ex-portavoce di Matteo Salvini fondatore dell’Associazione Lombardia-Russia, coinvolto nell’indagine sui presunti finanziamenti alla Lega discussi ai tavoli dell’hotel Metropol di Mosca.

DANIELE AUTIERI Il Copasir ha definito questa attività dei diplomatici russi nel caso Biot come una sorta di prassi rispetto alle attività spionistiche russe. È così?

ENRICO BORGHI – DEPUTATO PD - COPASIR Sì, è evidente che rientra nell’ambito di una tradizione di quel paese poter utilizzare un servizio di spionaggio appoggiato sulla rete delle ambasciate all’estero quindi la circostanza che in sé comunque è una circostanza grave perché l’espulsione di due diplomatici è una cosa che non è mai capitata nella storia del nostro paese.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Spie nei panni di diplomatici. È questa la motivazione che il 5 aprile scorso porta il ministero degli Esteri ad annunciare l’espulsione di 30 addetti dell’ambasciata in quanto persone non grate. Una misura che porta a 149 il numero dei diplomatici russi espulsi dai paesi dell’Unione europea.

MARIO DRAGHI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO CONFERENZA STAMPA 6 APRILE 2022 L’espulsione dei 30 diplomatici o pseudo-diplomatici russi non ha a che vedere con la poca trasparenza o meno ha a che vedere con analoghe azioni prese da altri paesi europei, quella è stata una risposta coordinata a livello europeo

ENRICO BORGHI – DEPUTATO PD - COPASIR La Russia ha un apparato militare che non risponde al nostro sistema di alleanza, né militare né diplomatico e quindi per definizione bisogna svolgere un’attività di messa in protezione e di sicurezza.

SERGEJ RAZOV – AMBASCIATORE DELLA FEDERAZIONE RUSSA IN ITALIA Rispetto alle circostanze relative alle espulsioni, infondate e ingiustificate, di 30 funzionari dell'Ambasciata russa in Italia. Ad oggi non è stato avanzato nessun fatto, nessuna prova che loro veramente costituivano una minaccia alla sicurezza nazionale italiana.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO I 30 espulsi sono 30 titolari di passaporto diplomatico, che secondo i servizi di intelligence europei avrebbero ripreso le attività di spionaggio dopo l’invasione russa dell’Ucraina e proprio alla ricerca di informazioni segrete sulle attività della Nato. È l’esplosione di un conflitto tra diplomazia e servizi che cova da almeno un anno.

DANIELE AUTIERI Quella vicenda Biot possiamo dire che era un segnale di una rottura delle relazioni diplomatiche che poi si è consumata in queste settimane?

ENRICO BORGHI – DEPUTATO PD - COPASIR Diciamo che è stata l’epifania di una stagione che oggi è sotto gli occhi di tutti.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nel pomeriggio del 30 marzo del 2021 Walter Biot sta facendo la spesa in un anonimo supermercato di Spinaceto, a 20 chilometri dal centro di Roma. Gli uomini del reparto Antiterrorismo del ROS dei carabinieri lo seguono e ne registrano i movimenti. Alle 17:48 il capitano di fregata sale sulla sua macchina e raggiunge un parcheggio poco distante dal grande magazzino. È un luogo silenzioso e deserto. Soprattutto di domenica pomeriggio. Qualche minuto dopo una spia russa apre la portiera e si siede al suo fianco. Sapere cosa la spia russa e l’ufficiale di marina si dicono è impossibile, perché le microspie del ROS sono state messe sull’altra auto della famiglia Biot. Intanto la macchina corre sulla via Pontina fino a raggiungere il quartiere Eur dove si ferma in un secondo parcheggio, tra via delle Ande e viale Africa. Quando gli uomini del ROS intervengono l’ospite è già sceso dalla macchina e si sta allontanando. Dentro la borsa di cuoio che porta con sé, i carabinieri trovano una Micro SD avvolta in un foglietto illustrativo del Crestor, un medicinale utilizzato contro il colesterolo. Dentro la macchina di Biot vengono invece trovate 100 banconote da 50 euro, in tutto 5mila euro, anch’esse avvolte nel foglietto illustrativo dello stesso medicinale.

DANIELE AUTIERI Ci aiuta a ricostruire quella notte del 30 marzo 2021.

CLAUDIA CARBONARA - MOGLIE DI WALTER BIOT Mi ricordo che erano le 19,30 e stavo preparando la cena. A un certo punto mi trovo mio figlio che corre verso di me con dietro i carabinieri. Non capivo cosa fosse successo in quel momento, mi ritrovo tre carabinieri in borghese e due in divisa e mi chiedono che devono fare una perquisizione. Ma per che cosa? Abbiamo fermato suo marito, mi dicono, e dobbiamo perquisire.

DANIELE AUTIERI Le accuse formulate nei confronti di Walter Biot si basano su un presupposto. C’è stato uno scambio: soldi per documenti riservati

AVVOCATO ROBERTO DE VITA – LEGALE DI WALTER BIOT I documenti, i presunti documenti segreti sono stati rinvenuti sulla persona di Dmitri Ostroukhov, l’agente diplomatico russo che è stato fermato nelle vicinanze del luogo dove si trovava Walter Biot. È vero, è stata rinvenuta una somma di denaro nell’autovettura, ma che ci sia stato uno scambio dal punto di vista della cognizione diretta, materiale, questo non è dato sapere.

DANIELE AUTIERI Quel pomeriggio suo marito è stato seguito da spinaceto all’Eur e fermato all’Eur. A lei le aveva detto che cosa andava a fare?

CLAUDIA CARBONARA - MOGLIE DI WALTER BIOT Io sapevo soltanto che mi doveva andare a prendere il tagliandino dell’handicap della macchina che era scaduto e doveva andare al comune di Pomezia a fare il rinnovo.

DANIELE AUTIERI Ma lei questi russi, questo russo che era con lui l’ha mai sentito?

CLAUDIA CARBONARA - MOGLIE DI WALTER BIOT No, assolutamente no.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO L’uomo salito sulla macchina è Dmitri Ostroukhov, un agente dell’Ambasciata registrato presso il ministero degli Affari Esteri. Per via dello status diplomatico non potrebbe essere né fermato né perquisito, ma i carabinieri provvedono al fermo. In questo modo viene acquisita una scheda SD all’interno della quale sono presenti 181 foto, tra queste, diversi documenti classificati come NATO SECRET. Uno su tutti, il cosiddetto Reperto S, conterrebbe messaggi della Nato sulle azioni destabilizzanti di Mosca nei confronti dell’Ucraina. Il problema della segretezza dei documenti viene preso in carico dagli inquirenti che inviano una richiesta di chiarimento allo stato maggiore della Difesa. Ma secondo il capo reparto, Generale Stefano Mannino, il contenuto non può essere divulgato. DANIELE AUTIERI Voi non avete potuto avere accesso alle carte? Cioè alla prova del reato?

AVVOCATO ROBERTO DE VITA – LEGALE DI WALTER BIOT Noi non abbiamo avuto accesso nemmeno a quegli elementi che metterebbero in relazione questi documenti con una condotta di Walter Biot.

DANIELE AUTIERI Perché questi documenti non solo non li avete visti voi ma non li ha visti nemmeno il giudice?

AVVOCATO ROBERTO DE VITA – LEGALE DI WALTER BIOT Certamente.

DANIELE AUTIERI Quindi neanche il pubblico ministero li ha visti?

AVVOCATO ROBERTO DE VITA – LEGALE DI WALTER BIOT Assolutamente no.

ROBERTO DE VITA – LEGALE DI WALTER BIOT Se anche questi elementi sono indisponibili per l’autorità giudiziaria vuol dire che di fatto si sta opponendo il segreto di Stato, ma se si sta opponendo il segreto di Stato, questa è una valutazione della presidenza del consiglio.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 14 marzo del 2022 la questione esplode nel corso della prima udienza del tribunale militare, dove Biot deve rispondere di “procacciamento di notizie segrete a scopo di spionaggio”, “rivelazione di notizie riservate”, “rivelazioni di segreti militari a scopo di spionaggio” e rischia una condanna fino all’ergastolo.

ROBERTO DE VITA – LEGALE DI WALTER BIOT La difesa, l’avvocato Roberto De Vita, l’avvocato Antonio Laudisa, per il comandante Walter Biot chiedono che cotesto eccellentissimo tribunale voglia domandare alla presidenza del Consiglio dei ministri la disponibilità degli atti, valutare se debba essere apposto o meno il segreto di Stato, oppure di rendere disponibili questi documenti a salvaguardia dell’articolo 111 e 24 della costituzione.

ANTONIO SABINO – PROCURATORE MILITARE L’autorità nazionale preposta per la segretezza della presidenza del consiglio dei ministri è stata interessata e ha dichiarato che quei documenti con quelle particolari classifiche, al di là dell’apposizione del segreto di stato, sono assolutamente inviolabili.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Ad oggi nessuno ha potuto visionare quei documenti, né tanto meno il contenuto della scheda SD, ma secondo gli inquirenti, a pesare sulla colpevolezza di Biot, ci sarebbe un video registrato all’interno del III Reparto dello Stato Maggiore della Difesa che riprende il capitano di fregata mentre scatta delle foto con il suo smartphone.

DANIELE AUTIERI Chi è che mette le telecamere negli uffici di Biot?

AVVOCATO ROBERTO DE VITA – LEGALE DI WALTER BIOT Quel che le posso dire è che non c’è mai stato un provvedimento dell’autorità giudiziaria per l’esecuzione di video e audio riprese sulla postazione di Walter Biot. DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Interrogato dagli uomini del Ros il colonnello Marco Zearo, capo dell’ufficio minaccia asimmetrica dello Stato Maggiore della Difesa, dichiara che era stato proprio l’Aisi, il servizio segreto interno, che aveva segnalato un rischio di “dispersione informativa nell’ufficio di Biot”.

DANIELE AUTIERI Cioè lei dice per capire, che i nostri apparati stavano facendo indagini su Biot prima che i giudici lo sapessero…

AVVOCATO ROBERTO DE VITA – LEGALE DI WALTER BIOT Io non so se stessero facendo indagini su Biot, su Ostroukhov, su altri militari, su altri soggetti stranieri, quel che è certo è che risulta che vi sia stata un’attività, ripeto i video, almeno quelli disponibili… nel fascicolo si parla di registrazioni che avrebbero avuto inizio il 16 marzo, l’autorità giudiziaria viene informata a distanza di giorni, mi pare il 26 marzo.

DANIELE AUTIERI Rispetto alle informazioni in vostro possesso i nostri servizi di intelligence erano dietro alle attività di quegli addetti militari già prima di Biot?

ENRICO BORGHI - DEPUTATO PD - MEMBRO COPASIR Quello che le posso dire è che sicuramente i nostri servizi di informazione sono all’altezza del momento che stiamo vivendo e stanno esplicando in maniera attenta e proficua le loro attività a supporto e tutela della sicurezza della Repubblica

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Senza conoscere il contenuto della scheda SD la procura militare e quella ordinaria costruiscono la loro accusa dicendo che l’orario indicato sui file delle foto contenute nella scheda corrisponde al momento in cui le telecamere interne riprendono Biot che scatta con il suo cellulare.

DANIELE AUTIERI Il video che vi è stato messo a disposizione, quello a disposizione della Difesa e che c’è agli atti del processo è un video integrale?

FRANCESCO ZORZI – CONSULENTE TECNICO DELLA DIFESA Attualmente no, nel senso che noi sappiamo che è un’esportazione però analizzando il contenuto di questa esportazione abbiamo ritrovato e rilevato una quantità molto importante di buchi. Di fatto ci sono proprio delle interruzioni di registrazione… ad esempio in questo caso qua è abbastanza evidente, io vedo che ad esempio ho delle interruzioni, ad esempio qui abbiamo circa verso le 11, le 12, altro… le 15 però contestualizzandole nelle varie giornate ho praticamente, un sabato una domenica, ho praticamente la presenza costante di queste interruzioni.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Le interruzioni sulle tracce video esportate dalle telecamere nascoste indicherebbero la presenza di alcune parti mancanti nelle registrazioni che non sono finite nel fascicolo del processo.

DANIELE AUTIERI Su di voi è stata fatta un’indagine approfondita della guardia di finanza per capire se quel presunto scambio di 5mila euro fosse l’unico o ci fosse dell’altro. Per vedere se c’erano dei soldi sui vostri conti correnti, che cosa hanno trovato?

CLAUDIA CARBONARA - MOGLIE DI WALTER BIOT Noi abbiamo solo un conto corrente, abbiamo, basta, in comune… e secondo me hanno trovato i debiti… sicuro.

DANIELE AUTIERI Suo marito è accusato di reati molto gravi, è considerato un traditore della patria…

CLAUDIA CARBONARA - MOGLIE DI WALTER BIOT Impossibile, mio marito ha sempre vissuto per la marina, la regia marina, lui la chiama pure Mamma Marina.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Nessuno ha visto i documenti ritrovati nella scheda che aveva nelle mani la presunta spia Ostrokhov, insomma non l’hanno visti i giudici, nè i pm, né i legali di Biot. Li hanno visti però gli uomini del Ros, che li hanno ritrovati. Li hanno inviati subito allo Stato Maggiore di Difesa che li ha ritenuti “inviolabili”. Però i legali di Biot dicono, “guardate che l’unica opposizione, l’unico segreto che può essere opposto all’autorità giudiziaria è il segreto di Stato e deve pronunciarsi la Presidenza del Consiglio”. Che non è stata consultata su questa vicenda. Ora Biot rischia di essere giudicato e di essere condannato a due ergastoli, perché ci sono ben due tribunali che lo stanno giudicando: quello militare e quello ordinario, della giustizia ordinaria, perché i documenti sono stati suddivisi in quelli politici e in quelli militari. Sulla competenza dovrà esprimersi il Tribunale di Cassazione il prossimo 31 maggio. Poi c’è anche qualche altro mistero. Non si conosce bene il movente, non si conoscono i contenuti dei documenti, non si conosce la data dell’inizio dell’indagine. Abbiamo sentito il legale di Biot dire “guardate che quando è stato immortalato Biot mentre si presume che stava fotografando i documenti segreti della Nato non era stato depositato nessun dispositivo presso la magistratura”; questo autorizzerebbe a pensare che il nostro controspionaggio stesse seguendo le due presunte spie russe già da tempo proprio per limitare la loro azione di approvvigionamento di informazioni sensibili. Questa vicenda ci porta a un piccolo cimitero che è al confine con la Slovenia che diventa all’improvviso il centro di un pellegrinaggio di spie anche perché l’unico caso in Europa di cimitero che conserva le salme dei russi.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nel cimitero militare di Brazzano al confine tra l’Italia e la Slovenia i morti sono tutti uguali. Austriaci, italiani, serbi, russi. Qui sono sepolti i corpi di 111 soldati russi caduti nella Prima Guerra Mondiale. Caso unico in Europa i loro nomi sono ancora lì, incisi sulle lapidi battute dai venti freddi che soffiano da Est.

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA La scritta sopra è … amico e nemico nella morte assieme, uniti, insomma

DANIELE AUTIERI I morti tutti uguali

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Esatto… e sotto c’è KuK, Austria Ungheria, quando invece sarebbe solo Austria sarebbe K-K, Austria Ungheria, KGB vuol dire prigionieri di guerra stazione A. Abbiamo anche degli ignoti, tantissimi ignoti austro-ungarici, mentre i russi son solo due ignoti. Questo Wolovski, Ivan, questo qui è un russo…

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Giovanni Battista Panzera è uno storico di Cormons. Presiede la Società Cormonese Austria impegnata a proteggere la memoria dei caduti in queste terre di confine e da qualche anno è interlocutore dei diplomatici russi che vengono qui per celebrare i loro morti.

DANIELE AUTIERI Voi a un certo punto segnalate questo luogo speciale all’ambasciata russa

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Dopo 15, 20 giorni ci ha chiamato l’addetto culturale dell’ambasciata: siamo interessati così, prenderà contatto con lei una persona che verrà a fare un sopralluogo, infatti sono venuti a fare un sopralluogo due militari in borghese.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Uno dei due uomini inviati dall’ambasciata è Dmitri Ostroukhov, l’uomo che è salito sull’auto di Biot per il presunto scambio di documenti segreti della Nato. Eccolo mentre posa con Panzera di fronte al monumento ai caduti. Panzera stringe rapporti diretti anche con Aleksej Nemudrov, il secondo agente espulso dopo l’arresto di Walter Biot. Ed è lo stesso Nemudrov a ricambiare l’ospitalità dell’associazione invitando lo storico a Villa Abamelek in occasione della giornata dedicata ai soldati russi.

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Il 23 febbraio del 2020, una bellissima cerimonia in cui in fin dei conti c’è stato cinque minuti di discorso dell’addetto militare, l’addetto navale.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nel bel mezzo dell’intervista veniamo raggiunti da due militari dell’Arma dei carabinieri che controllano i nostri documenti e chiedono dettagli sul servizio che stiamo preparando.

CARABINIERE Una cortesia, ci chiedono dal nucleo comando se ci potete dare qualche delucidazione in più, in merito al servizio che state facendo, che canale siete

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Comunque, è informato il sindaco

CARABINIERE … Purtroppo adesso c’è questo periodo di ultra agitazione, qualunque cosa va segnalata, giorno e notte DANIELE AUTIERI Ma per il discorso del cimitero?

CARABINIERE Sì, sì perché c’è il rischio che qualche testa di cocco venga a fare danni.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 22 marzo del 2021, otto giorni prima l’operazione Biot, sono proprio i carabinieri di Gorizia a firmare un’informativa riservata nella quale viene segnalato il rapporto tra Panzera e i russi. Nel documento i militari scrivono: “Da informazioni assunte, parrebbe che i due addetti militari siano in realtà agenti dei servizi di intelligence russi e che il loro intento sia quello di attirare nella loro sfera di azione Panzera per motivi in corso di accertamento”.

DANIELE AUTIERI Quando è venuta fuori quella storia dello spionaggio e dell’espulsione non si è preoccupato come a dire… non è che questi volevano carpire qualcosa anche da me…

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Guardi, noi siamo soltanto, e con testimoni, andati a pranzo, siamo andati in qualche cantina, e basta. Io non so dove dormivano non so cosa facevano, sono venuti tre volte per un giorno alla fine dei conti.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO In una nota inviata alla procura militare il 2 luglio del 2021 i carabinieri del Ros che hanno in carico l’indagine Biot segnalano un altro particolare di assoluta rilevanza: «Quanto riferito dall’arma territoriale di Gorizia fa ritenere verosimile che l’AISI abbia cominciato a reperire informazioni sui rapporti tra Panzera e i rappresentanti russi già prima dell’arresto di Walter Biot».

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Quando sono venuti qua a fare la cerimonia c’era il vice prefetto, c’era il comandante dei carabinieri, c’era il comandante dell’esercito per il Friuli Venezia Giulia, c’era il sindaco, c’erano le autorità. Non so io a un certo punto abbiamo sempre avvisato tutti, ma io di questo non ne voglio sentir parlare perché qua non è terra per queste cose. Che vadano pure da altre parti sappiamo quali sono gli obiettivi non certamente noi, la povera terra del Friuli.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO La tensione diplomatica anticipa sempre lo scontro bellico. Nelle settimane che precedono l’operazione Biot, in Europa esplodono altri casi di spionaggio con l’espulsione di alcuni diplomatici russi. Succede in Austria, Repubblica Ceca, Paesi Bassi e Bulgaria. E prima di abbandonare l’Italia i diplomatici russi lasciano agli amici di Cormons pacchi di mascherine anti-covid. Sono le mascherine portate in Italia dalla missione russa del marzo 2020 la stessa missione che secondo alcuni avrebbe dovuto celare un’operazione di spionaggio ai danni del nostro paese

MOGLIE GIOVANNI BATTISTA PANZERA Queste sono…

DANIELE AUTIERI Ah le mascherine… russe

MOGLIE GIOVANNI BATTISTA PANZERA Le ffp2

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Te la regalo…

MOGLIE GIOVANNI BATTISTA PANZERA Eh, ma era lì fuori aperta.

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Te ne do una chiusa…

MOGLIE GIOVANNI BATTISTA PANZERA Io non so dove le hai messe tu… queste qua proteggono, adoperale che proteggono

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Per Cormons transitano agenti e diplomatici russi coinvolti tanto nella vicenda degli aiuti russi sul Covid quanto nel caso Biot. E dopo l’arresto di Walter Biot, i servizi di intelligence italiani convocano Giovanni Battista Panzera per capirne di più sui russi di Cormons.

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Mi hanno chiesto innanzitutto guardi sappiamo che lei non c’entra… ha conosciuto questo, ha conosciuto quello, ha conosciuto quell’altro …

DANIELE AUTIERI Quindi loro li stavano seguendo…

GIOVANNI BATTISTA PANZERA – PRESIDENTE SOCIETA’ CORMONESE AUSTRIA Certo, certo… soprattutto l’addetto militare, soprattutto, l’addetto militare qua è venuto a Pordenone, ma sapevano tutto… Ho detto, ma scusi una cosa ho detto io: ma per cinquemila euro? Queste cose le risolvevamo tra noi… servizi segreti mi ha detto… si cambiava qualcuno senza dire e via, questa volta c’è stato l’input politico… di far scoppiare il caso!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Si evince che l’AISI, il nostro servizio di sicurezza interna già da tempo, prima che esplodesse il caso Biot stava seguendo i rapporti tra Panzera e le due presunte spie russe. E Panzera rivela anche che ha raccolto come confidenza dall’uomo dei servizi che lo interrogava sui suoi rapporti con i russi, gli dice sostanzialmente che i casi come quelli di Biot in passato si sarebbero risolti internamente, senza un gran clamore, insomma i panni sporchi si lavano in famiglia. Qui invece si è voluto che esplodesse un caso di spionaggio internazionale proprio perché c’è stato un input politico. Bisognava rassicurare gli alleati che la fedeltà italiana alla Nato non era in discussione.

Domenico Quirico per “la Stampa” il 19 aprile 2022.

I tempi cambiano. All'inizio degli Anni 80 Iuri Andropov dichiarava con fierezza che il Kgb svolgeva come sempre il suo compito «nel cammino inarrestabile della rivoluzione mondiale». Mancavano dieci anni appena alla fine dell'Unione Sovietica. Ma non del Kgb. Dal debutto del millennio, e dell'era Putin, il concetto di sicurezza nazionale ha fatto una svolta, consistente, in Russia. 

Leggiamo i manuali: «Garantire la sicurezza della Federazione russa include la salvaguardia dell'eredità culturale, spirituale morale di tutti i popoli russi (stuzzicante dilatazione...). Difendere la cultura di quei popoli, elaborare una politica di Stato che inglobi la sfera della educazione spirituale e morale del popolo».

Dai tempi della Ceka e dei suoi efficienti liquidatori in cappotto di pelle e nagant nella fondina i Servizi sovietici hanno sempre praticato fervidamente l'ateismo militante.

E invece ora...

Marzo 2002, Mosca: il Ventennio sbocciava appena con i suoi fervori mistici e già l'erede del Kgb traslocato nell'acronimo Fsb incontrava dio. Nessuna immagine potrebbe esser più esplicita. C'è il patriarca Alessio II che consacra una chiesa restaurata nel centro come parrocchia dei servizi segreti, affinché ci fosse un luogo adatto ai bisogni spirituali così trascurati in passato degli agenti. 

Osservate bene Nikolai Patrucev, potente direttore dell'Fsb: agita il turibolo e scambia doni con il patriarca a simboleggiare l'unione, ovviamente mistica, tra la Chiesa ortodossa e l'apparato di sicurezza di Stato. Patrucev offre la chiave simbolica della chiesa, in oro massiccio, e una icona di Alessio, santo patrono di Mosca. 

Il patriarca ricambia con una icona di san Nicola, patrono personale del super-spione di Stato, e soprattutto una icona della madonna umilenie. Umilenie in russo è vocabolo molto ricco: richiama immediatamente l'idea della compassione. Ma il patriarca, e il fine Patrucev ne ha colto l'allusione, alludeva a un altro significato: il cambiamento morale di una persona brutale e rozza folgorato da uno spettacolo toccante, ad esempio quello di una madre che allatta il suo bimbo. Una splendida metafora dei tempi nuovi. Smascherare e sopprimere, come nel buon tempo antico, ma lo si faccia con spiritualità.

Pensate all'epoca degli svaghi sanguinari di Iagoda e di Beria, che avevano previsto perfino i gulag dei bambini, o a quella più mite della «schizofrenia a lungo decorso». Il cekista devoto alle icone sarebbe stato inghiottito sveltamente in qualche tundra gelata a tener compagnia a Shalamov e alle «mani bianche», i prigionieri politici del mondo a parte, il gulag. 

Conversioni pubbliche ostentate ed eccellenti sono seguite in questi anni. Per esempio Nikolai Leonov, che per primo nel Kgb intuì più di mezzo secolo fa il potenziale rivoluzionario di un certo Fidel Castro e regalò agli Usa 50 anni di guai. È lo stesso Fsb a segnalare con soddisfazione questo sbocciare della fede.

Un ex direttore delle relazioni pubbliche del Servizio di spionaggio più micidiale della storia, Vassili Staviski, ha pubblicato volumi di poesie mistiche come la raccolta Segreto dell'anima e un libro, lo dice lui, «spirituale e patriottico» rivolto ai bambini russi: titolo incantevole, Accendi una candela, mamma. Alcuni suoi poemi sono stati incisi su cd.

Il nuovo Kgb dunque si è allineato alla dottrina del suo capo Putin, questo imperialismo misticheggiante che dovrebbe affrontare la prova di cambiare gli equilibri del modo pagano, nuovo nome del capitalismo. 

Putin ha conservato i riflessi e la mentalità di quello che si definiva «lo spirito cekista» e il suo fondo criminaloide. Nel suo ripostiglio ideologico ci sono sempre «la spada e la scudo», simboli del Kgb: la prima per colpire all'estero, con spionaggio disinformazione e «operazioni speciali», appunto. Lo scudo per ripulire gli angolini all'interno, controllare a ogni costo della popolazione con il formulario ossessivo con cui marchiare chiunque resista: amico-nemico, fedele-traditore. 

Nella sua biografia peraltro piena di omissis e sparizioni si racconta come fosse appassionato da ragazzo dei film di spionaggio. Che non erano però quelli di 007 al servizio di sua maestà, ma con i James Bond russi che trionfavano sui rivali occidentali. Erano i film di propaganda girati su suggerimento di Andropov, il primo capo della polizia segreta a conquistare completamente il potere. Era la Lubianca a dirigere finalmente lo Stato. Questo Beria realizzato è stato il suo modello. 

La sicurezza spirituale non ha fatto cambiare i vecchi, cari metodi: che si chiamasse Ceka, Ghepeu, Nkvd, Kgb è sempre stato il cuore del potere, con il regime di terrore per stroncare ogni opposizione e la gestione diretta del sistema concentrazionario. Le radici sovietiche sono solide, l'oblio di Dzerzinsky dopo il fallito golpe dell'agosto 1991 è stato breve. Ogni anno viene commemorato con enfasi il 20 dicembre, data di fondazione della Ceka, sei settimane appena dopo il colpo di Stato bolscevico.

C'era già bisogno della spada per liquidare eretici e dissidenti. Anche il ramo che si occupa dell'estero, detto Svr, celebra l'anniversario del sua fondazione il 20 dicembre 1920. Qualche anno fa era in corso la stesura di una monumentale opera in più volumi che doveva riepilogare la storia dello spionaggio estero che «ha adempiuto il suo dovere patriottico verso la patria e il suo popolo in maniera onorevole e disinteressata».

E proprio la guerra in Ucraina sembra aver aperto gravi dubbi sulla sua efficienza. Come generali e ammiragli, lo spionaggio ha commesso errori: per esempio illudendo il Cremlino sulla possibilità che il governo ucraino si sfaldasse nelle prime ore dell'invasione o sulla consistenza dell'esercito di Kiev che neppur troppo segretamente americani e inglesi in questi otto anni hanno armato e addestrato. Cadranno teste.

È la regola dell'Egoarca che non perdona. Nella Sede si può immaginare una allegria da obitorio. Ma attenzione: la specialità di vecchi e nuovo Kgb è sopravvivere, è una pedonaglia che vive sempre trapassi da signori. Fu Andropov, sempre lui, a lanciare l'operazione «sopravvivere» quando si accorse, sdraiato su una speciale sedia di dentista adattata perché potesse muovere il corpo cercando di resistere ai dolori che lo stava uccidendo, che il declino dell'Urss era irrimediabile.

Per esempio aprendo false banche e aziende in Paesi dalla legislazione favorevole. Il Kgb vi trasferì miliardi di dollari con il metodo di acquisti in Urss di petrolio, metalli o legname fatturati a un prezzo più basso del valore. I beni venivano poi venduti al prezzo di mercato e il guadagno occultato. In tempi di sanzioni che nella pentola dei conti pubblici fanno bollire lo spettro della bancarotta il nuovo Kgb mistico potrebbe riscattarsi con i suoi vecchi talenti finanziari. 

Andrea Marinelli e Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2022.  

L'ultimo colpo del taglia-erba è stato lunedì. Parigi ha annunciato l'espulsione di sei diplomatici russi smascherati da un'indagine della Dgsi, i servizi di sicurezza interni. La mezza dozzina si è aggiunta agli oltre 400 «colleghi» rispediti a Mosca dai Paesi dell'Ue - 30 in Italia - perché accusati di essere degli 007 sotto copertura, uno dei tanti fronti della guerra di spionaggio attorno all'Ucraina.

Gli europei hanno accentuato l'azione di contrasto riducendo drasticamente il numero dei russi accreditati nelle ambasciate con ruoli ufficiali: elementi impegnati nella raccolta di informazioni, nel reclutamento, nella campagna di disinformazione. Il Cremlino ha replicato con misure analoghe ma, visto il numero massiccio di espulsioni, l'azione europea può avere un impatto in questa fase critica e costringere Mosca - che può comunque contare sugli «illegali», le spie vere - a rivedere il suo dispositivo.

In questo conflitto, la Cia ha scelto di «andare in pubblico». Nel tentativo di prevenire l'invasione ha diffuso fin dall'autunno quanto aveva raccolto sui preparativi russi e lo ha poi distribuito a livello globale. Tra gli alleati - che non ci hanno creduto - ma anche sulle scrivanie del Cremlino, con l'ormai storica missione del direttore Burns a Mosca. 

Questa mossa oggi è al centro delle analisi: aver rivelato le carte in un modo così plateale può aver compromesso chi ha «avvertito» Langley. Tuttavia è stata anche una dimostrazione di forza, che ha permesso a Washington di essere sempre un passo avanti nella narrazione. Lo stesso approccio è stato usato con la Cina. 

Una volta scattata l'offensiva, l'intelligence civile, la Cia, e quella militare, la Dia, sono passate allo «stato due». È iniziato il monitoraggio intenso degli invasori, garantendo alla resistenza ciò che serviva: le direttrici, le condizioni delle truppe, i guai di rifornimento.

Una cooperazione piena, sorretta dagli apparati elettronici e dai satelliti, che ha coinvolto altri Paesi del patto atlantico e la Svezia. 

C'è, ovviamente, anche una componente realmente segreta: gli specialisti dell'intelligence hanno addestrato gli ucraini fin dal 2015, quindi non sarebbe strano se stessero favorendo missioni dietro le linee, con la presenza di agenti e paramilitari magari in possesso di passaporti di altri Stati. Gli uomini dello zar hanno risposto con la stessa lama.

Kiev ha denunciato le incursioni di infiltrati nelle città, di team pronti a uccidere, a creare problemi. Probabile che Mosca sperasse di disfarsi di Zelensky grazie al cavallo di Troia di «amici» filorussi e generali traditori: due sono stati defenestrati dal governo. È andata diversamente, anche in Patria, dove lo Zar ha fatto arrestare il capo dello spionaggio estero Beseda e il suo vice, poi avrebbe cacciato 100/150 agenti. Il compito più difficile resta comprendere i meccanismi del Cremlino e i «desideri» di Vladimir Putin. 

È uscito tanto, troppo, in questo mese sul presunto isolamento del leader, sulla sua presunta malattia, sulle sue «visioni» strategiche, sull'ipotetico dissenso. Una parte di queste news possono aver fondamento, altre sono messe in giro per fare «confusione», creare dubbi, fare propaganda, spingere i gerarchi a guardarsi con sospetto: sei tu il Giuda? Sono ricostruzioni analoghe a quelle che circolavano su Saddam o Gheddafi, a volte sul nordcoreano Kim. Quasi un copione, non sempre attendibile. 

La guerra delle spie: sul campo restano gli 007 "illegali". Ignazio Riccio il 14 Aprile 2022 su Il Giornale.

Solo in Italia l’intelligence ha smascherato trenta diplomatici sotto copertura e li ha rispediti al mittente.

Oltre alla lotta armata in Ucraina, un’altra guerra, silenziosa, si sta combattendo tra la Russia e i Paesi dell’Unione europea. È la battaglia delle spie infiltrate nella diplomazia ufficial. L’ultima notizia resa pubblica riguarda la Francia che ha deciso di espellere dalla nazione sei 007 russi, scoperti dai servizi segreti transalpini. In totale sono più di quattrocento i diplomatici di Mosca mandati via dai Paesi europei; solo in Italia l’intelligence ha smascherato trenta spie sotto copertura e le ha rispedite al mittente. L’operazione di scrematura è partita già da alcune settimane per evitare che queste persone, agli ordini del presidente della Russia Vladimir Putin, continuassero a raccogliere informazioni utili al Cremlino e a promuovere campagne di disinformazione.

Il "grande tradimento": chi ha voltato le spalle allo Zar

A Mosca si sta facendo la stessa cosa con i diplomatici europei, ma l’impatto maggiore lo stanno subendo proprio i russi, poiché i funzionari espulsi sono davvero tanti. Nonostante l’azione intrapresa dai Paesi dell’Ue, però, Putin può sempre contare sulle spie illegali, quelle che non hanno alcuna copertura e si infiltrano in maniera clandestina nelle varie nazioni d’Europa, insomma i professionisti che questo lavoro lo sanno fare molto meglio di chi si improvvisa 007 per necessità. Di solito questi conflitti rimangono in gran segreto, invece, negli ultimi tempi, si sta parlando tantissimo delle espulsioni dei diplomatici. Anche la Cia, come riporta il Corriere della Sera, non sta facendo mistero delle operazioni di epurazione, denunciando anche il fenomeno delle spie russe.

"Arrestato Surkov". Mistero sull'ex braccio destro di Putin

Anche la Russia ha parlato di 007 occidentali infiltrati a Mosca pronti a compiere azioni violente nei confronti del popolo russo. Putin si sente sempre più accerchiato dato che ha destituito diversi generali del suo esercito ritenuti traditori. Il presidente ha fatto arrestare il capo dello spionaggio estero e avrebbe espulso più di cento agenti segreti. Le notizie messe in giro sulla salute di Putin, sul massiccio dissenso nella sua nazione hanno indispettito lo zar che è passato al contrattacco per evitare di essere stritolato al suo interno con il tradizionale metodo del cavallo di Troia.

Quei "finti profughi": così i russi si infiltrano nei corridoi umanitari. Federico Garau su Il Giornale il 12 aprile 2022.

Si preannunciano ore decisive per quanto riguarda il conflitto attualmente in atto fra Russia ed Ucraina, e da Kiev continuano ad arrivare accuse nei confronti di Mosca e dei suoi soldati, dal drone con sostanze chimiche all'infiltrazione di soldati russi nei corridoi umanitari.

A fornire quest'ultima informazione è il Comando operativo meridionale dell'Esercito Ucraino a Mykolaiv, che nel proprio bollettino ufficiale afferma che alcuni militari russi sotto copertura starebbero utilizzando i corridoi umanitari per arrivare alle posizioni ucraine. "Nella regione di Mykolaiv alcuni soldati russi in abiti civili, a bordo di tre auto, hanno cercato di infiltrarsi tra le posizione ucraine utilizzando i corridoi umanitari", si legge nel comunicato. "Sono arrivati fino alle nostre posizioni ma sono stati individuati, cinque di loro sono stati neutralizzati", conclude la nota scritta.

Non solo. Il vice ministro della Difesa ucraino Hanna Malyar ha dichiato in queste ultime ore che le forze russe potrebbero aver utilizzato "munizioni al fosforo" a Mariupol. Secondo Malyar le autorità ucraine starebbero attualmente indagando su questo caso, ossia sull'uso di armi chimiche da parte dei russi durante l'assedio della città sul Mare d'Azov. Si tratta, in ogni caso, di informazioni ancora non verificate. "C'è una teoria secondo la quale potrebbe trattarsi di munizioni al fosforo, informazioni ufficiali verranno comunicate in seguito", ha affermato il vice ministro. Nelle scorse ore il comandante del reggimento Azov Andriy Biletsky è arrivato a parlare di un drone russo che avrebbe rilasciato una sostanza sconosciuta sui civili di Mariupol, ma Eduard Basurin, portavoce delle milizie del Donetsk, ha negato tutto, dichiarando che non sono state utilizzate armi chimiche sul territorio.

Fra le varie accuse mosse da Kiev, anche quella secondo la quale i servizi segreti russi starebbero pianificando una serie di attentati sulla popolazione per poi far ricadere la colpa sulle forze ucraine. "I servizi speciali russi stanno pianificando una serie di attacchi terroristici per far saltare in aria case, ospedali e scuole, oltre ad attacchi missilistici contro la città di Belgorod o una città in Crimea", ha dichiarato il capo della direzione principale dell'intelligence del ministero della Difesa ucraino Kirill Budanov.

Scatta la purga di massa per l'Ucraina, l'ira di Putin su 150 funzionari dei servizi segreti russi: licenziati o in galera. Il Tempo il 12 aprile 2022.

È in corso un’epurazione di massa "stalinista" dell’intelligence segreta russa dopo che più di 100 agenti sono stati rimossi dal loro lavoro e il capo del dipartimento responsabile per l’Ucraina è stato mandato in prigione. Lo scrive il Times, spiegando che la rabbia per il fallimento dell’invasione ucraina avrebbe spinto il presidente russo Vladimir Putin a licenziare circa 150 ufficiali dell’Fsb, alcuni dei quali sono stati anche arrestati.

Tutti gli espulsi erano dipendenti del Quinto Servizio, una divisione costituita nel 1998, quando Putin era direttore dell’Fsb, per svolgere operazioni nei paesi dell’ex Unione Sovietica con l’obiettivo di mantenerli nell’orbita della Russia. L’ex capo del servizio, Sergei Beseda, 68 anni, è stato mandato nel carcere di Lefortovo a Mosca dopo essere stato messo agli arresti domiciliari il mese scorso. La prigione fu usata dall’Nkvd, il predecessore del Kgb, scrive il Times, per interrogatori e torture durante la Grande Purga di Stalin degli anni ’30. L’epurazione dell’Fsb è stata denunciata da Christo Grozev, direttore esecutivo di Bellingcat, l’organizzazione investigativa che ha smascherato i due avvelenatori di Salisbury nel 2018, che non ha rivelato la fonte delle sue informazioni.

Kiev crea il registro dei traditori: già individuati i primi 100. Nell'elenco anche politici, giudici e media. Redazione Tgcom24 il 12 aprile 2022.

Il governo ucraino ha creato un registro dei traditori, che include politici, giudici, avvocati, membri delle forze dell'ordine e rappresentanti dei media. L'agenzia nazionale ucraina per la prevenzione della corruzione e la Ong Honest Movement hanno già individuato le prime 100 persone che ne fanno parte. Lo riporta l'agenzia di stampa ucraina Ukrinform, riferendo che l'annuncio su Facebook è stato dato dal Consiglio nazionale per le trasmissioni radio-tv.

Chi sono i primi 100 individuati Delle 100 persone individuate, 73 sono politici, 13 sono membri delle forze dell'ordine, 13 rappresentanti dei media e un giudice. A inizio marzo, ricorda sempre Ukrinform, la Verkhovna Rada, cioè il Parlamento ucraino, ha approvato una legge che rende reato il collaborazionismo con Mosca. La procedura per schedare i collaborazionisti sarebbe la seguente: "Prima di aggiungere una persona alla lista, l'Honest Movement controlla il nome e collabora attivamente con le forze dell'ordine e le organizzazioni pubbliche per la verifica le informazioni".

L'invito a chi ha informazioni: "Collaborate" L'elenco si può consultare su internet ed è diviso in quattro categorie: "Politici, giudici e avvocati, media e forze dell'ordine". Sempre l'Honest Movement, si legge ancora su Ukrinform, "continua a cercare collaboratori e incoraggia tutti coloro che hanno informazioni a condividerle".

Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2022.

Tenetevi l'oligarca. La risposta del Cremlino alla proposta di uno scambio tra alcuni prigionieri di guerra e Viktor Medvedchuk, capo dell'opposizione filorussa, è stata respinta al mittente. E non poteva essere altrimenti. 

Se Mosca avesse accettato, avrebbe riconosciuto in modo neppure troppo implicito le ingerenze e il gioco sporco dei quali è accusato il magnate ucraino, arrestato martedì dopo una latitanza cominciata il 28 febbraio, quattro giorni dopo l'inizio della cosiddetta operazione militare speciale, quando era evaso dagli arresti domiciliari dove si trovava ormai da quasi dieci mesi.

L'amicizia conta poco, in tempo di guerra. Persino quella, definita solida, tra Vladimir Putin e l'avvocato e uomo d'affari sessantasettenne, che grazie ai buoni rapporti con il presidente russo ha costruito un impero industriale che va dall'acciaio all'energia, e anche mediatico, con la proprietà di tre canali televisivi chiusi anch' essi da mesi con l'accusa di collusione con il nemico. La foto scattata subito dopo la sua cattura, in manette, pallido e smunto, esibito come un trofeo di caccia, ha fatto il giro del mondo. E non si tratta certo di un bel vedere.

Dopo l'arresto Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si è prima congratulato pubblicamente con il servizio di sicurezza ucraino responsabile della cattura di quello che rimane pur sempre il leader del principale partito di opposizione del suo Paese. «Grandi!» ha scritto sul suo canale Telegram. Poi, sempre sui social, ha subito offerto un baratto «tra questo vostro uomo» e «gli uomini e donne ucraini detenuti dai russi».

Non è certo così che si fanno le trattative serie, ha detto ieri Dmitrij Peskov al Primo canale russo. La voce ufficiale di Putin ha aggiunto che Medvedchuk non ha mai coltivato relazioni segrete con la Russia. «Le sue opinioni a favore della costruzione di relazioni normali, reciprocamente vantaggiose e di partenariato tra i due Paesi, sono ben note. Questa sua posizione è sempre stata aperta. E infatti, avrebbe potuto lasciare il territorio ucraino prima dell'operazione militare speciale. Come possiamo vedere, invece, non l'ha fatto. E il suo arresto dimostra la vera natura del regime di Kiev».

La lista nera Era chiaro che Mosca non avrebbe mosso un dito. Medvedchuk non è un cittadino russo, e quali che fossero le sue intenzioni, non serviva più. Era stato inserito in una apposita lista nera di indesiderati in tempi non sospetti, fin dall'inizio del 2021. 

A quel tempo, rappresentava il principale volto dell'opposizione a Zelensky, in quanto fondatore e leader del partito filorusso For Life, titolare di 43 deputati sui 450 della Rada, il parlamento ucraino, messo al bando il 10 marzo scorso insieme ad altri dieci movimenti ucraini considerati vicini a Putin. All'inizio del conflitto si vociferava che avrebbe potuto fare il capo di un governo fantoccio.

Ma la guerra è andata avanti, gli obiettivi del Cremlino si sono ristretti, e il cambio di regime non sembra più una opzione praticabile. Ormai, era bruciato. Anche lui sapeva di essere fuori dai giochi. Dopo una latitanza trascorsa a Kiev, pare stesse pianificando la fuga in Transnistria. 

L'oligarca, sposato con la popolare giornalista Oksana Marchenko, titolare di un patrimonio personale di oltre 620 milioni di dollari, dodicesimo uomo più ricco d'Ucraina, era fuggito dagli arresti domiciliari dove si trovava dallo scorso 10 maggio. Il provvedimento era stato reiterato quattro volte. Le accuse di alto tradimento nei suoi confronti devono ancora essere formalizzate.

Il suo legame con Mosca lo aveva fatto inserire nella lista delle persone colpite dalle sanzioni. Le autorità croate hanno sequestrato nel porto di Fiume lo yacht Royal Romance, del quale è ritenuto proprietario. Il suo arresto non sarà certo l’ultimo. 

Kiev ha appena approvato un elenco ufficiale di cento «traditori della patria», inserendo in un apposito registro i nomi di 73 politici, 13 giornalisti e quattordici funzionati di Stato, tra giudici e dirigenti delle forze dell'ordine. Rimane da capire il perché di una proposta così avventata da parte di Zelensky. Ma è assai probabile che si tratti di una mossa ad uso interno. I torti e le ragioni rimangono ben distinti. Ma la propaganda di guerra esiste da entrambe le parti. 

"Dormite con la porta chiusa", la Russia promette vendetta per l'arresto di Medvedchuk. Quando Zelensky fece fuori il magnate amico di Putin. Il Tempo il 13 aprile 2022.

Esplode un nuovo caso nella guerra in Ucraina destinato ad alzare ulteriormente la tensione. È quello legato all'arresto da parte di Kiev del politico ucraino filorusso Viktor Medvedchuk, già finito prima dell'invasione russa nel mirino del governo che aveva chiuso le sue televisioni e sequestrato i suoi beni, tra i quali un oleodotto.  Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha mostrato le foto del ricco oligarca in manette ed emergono i dettagli dell'arresto, con il politico che sarebbe stato fermato mentre cercava di raggiungere la Transnistria. Medvedchuk, molto vicino al presidente Vladimir Putn, è stato catturato dai servizi segreti di Kiev (Sbu) in una "operazione speciale". A fine febbraio, era fuggito dagli arresti domiciliari in cui si trovava con l’accusa di alto tradimento per il sostegno fornito ai separatisti del Donbass.

La reazione di Mosca non si è fatta attendere. La Russia ha detto all'Ucraina di "fare attenzione" e rifiutato l'offerta di scambiarlo con prigionieri ucraini. "Quei fanatici che si autodefiniscono le autorità ucraine dicono di voler estorcere la testimonianza di Viktor Medvedchuk, 'rapidamente e in modo equo', condannarlo e poi scambiarlo con prigionieri", ha detto Dmitry Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo secondo quanto riporta Reuters. "Queste persone dovrebbero fare attenzione e chiudere bene le porte di notte per assicurarsi che non diventino le persone che verranno scambiate", ha detto l'ex presidente e uomo di fiducia di Putin.

Il nome di Medvedchuk torna motivo di attrito tra Mosca e Kiev nell'ambito della guerra che infiamma da un mese e mezzo. Nell’inverno del 2021 il governo di Kiev aveva chiuso le televisioni dell'oligarca e sequestrato i suoi beni. "Medvedchuk era il leader del principale partito di opposizione ucraino, da sempre su posizioni filorusse - spiega Marco Imarisio sul Corriere - Nel dicembre del 2020, quando la popolarità dell’attuale presidente presso la popolazione non era certo quella di oggi, il suo «Per la vita» era arrivato a superare la coalizione di governo dei sondaggi grazie alla propaganda dei suoi tre canali nazionali. L’oscuramento fu deciso per «proteggere la sicurezza nazionale». Tre mesi dopo, il magnate fu messo agli arresti domiciliari", è la ricostruzione. 

Kiev arresta Medvedchuk: chi è l'oligarca “marionetta” di Putin che Mosca voleva a capo di un governo fantoccio. La Stampa il 12 aprile 2022.

Per Kiev era il traditore numero uno. Viktor Medvedchuk, deputato e leader dell'opposizione filorussa “Piattaforma di opposizione per la vita”, è stato speciale dell'intelligence ucraina. Sui profili ufficiali delle autorità, la sua foto in tuta mimetica seduto e ammanettato, lo sguardo perso nel vuoto ei capelli arruffati, rimbalza come un trofeo. Perché l'oligarca ucraino di origini russe, considerato vicino a Vladimir Putin, è uno dei simboli dei “nemici interni” del presidente di Volodymyr Zelensky. Di più: è l'uomo che avrebbe voluto rubargli la poltrona. Latita dai primi giorni dell'invasione dopo essere fuggito dagli arresti domiciliari, che stava scontando con l'accusa di alto tradimento per avere sostenuto le forze separatiste nel Donbass, era ritenuto tra i possibili candidati alla guida di un governo fantoccio, se Mosca fosse un conquistare Kiev. Imprenditore attivo in molti campi, tra cui energia e media, sarebbe giunto fino a curare ufficiosamente gli interessi di Putin nel Paese.

La notizia della sua cattura è subito rimbalzata a Mosca, dove il portavoce del Cremlino, D. D. Peskov, si è trincerato dietro un no comment, spiegando di non poter al momento confermare un arresto che per il Cremlino rischia di diventare molto imbarazzante, anche per i possibili segreti strategici e militari custoditi da Medvedchuk. Il suo arresto giunge mentre Kiev conferma di aver stilato un elenco di 100 "traditori" della patria. "L'Agenzia Nazionale per la Prevenzione della Corruzione e l'Ong Honest Movement hanno inserito nel registro 73 politici, 13 funzionari delle forze dell'ordine, 13 media e un giudice".

Il suo arresto giunge mentre Kiev conferma di aver stilato un elenco di 100 "traditori" della patria. "L'Agenzia Nazionale per la Prevenzione della Corruzione e l'Ong Honest Movement hanno inserito nel registro 73 politici, 13 funzionari delle forze dell'ordine, 13 media e un giudice".

"L'Agenzia Nazionale per la Prevenzione della Corruzione e l'Ong Honest Movement hanno inserito nel registro 73 politici, 13 funzionari delle forze dell'ordine, 13 media e un giudice". L'elenco contiene dati sui presunti collaborazionisti di 14 regioni dell'Ucraina , mentre sono già stati aperti 637 procedimenti. Iniziative favorite dalla legge approvata dal Parlamento di Kiev il 3 marzo scorso, dieci giorni dopo l'inizio della guerra, "che criminalizza la collaborazione con l'invasore russo". La procedura per schedare i "traditori", si spiega, prevede varie tappe. "Prima di aggiungere una persona lista, Honest Movement il nome e collabora con le forze dell'ordine e le organizzazioni pubbliche per la verifica le informazioni, poi si aggiunge e la lista si può controllare su internet". Un registro diviso in 4 categorie: politici, giudici e avvocati, media e forze dell'ordine. La stessa ong, poi, "continua a cercare collaboratori e incoraggiare tutti coloro che hanno informazioni su questo a condividerle"

"Degli 007 armati di versi. Così le spie della Stasi si misero a fare poesia". Eleonora Barbieri il 12 Aprile 2022 su Il Giornale.

Lo scrittore ricostruisce le strane "serate liriche" degli agenti nella Ddr, dal '62 al crollo del Muro.

Sono poesie scritte sotto dittatura. Non nel senso di versi scritti da poeti in tempo di dittatura, no: proprio poesie scritte su incitamento della dittatura stessa, elaborate da spie - «organi», cioè occhi, orecchie e bocche e anche mani, spesso, di quella dittatura - che si riunivano in un apposito circolo. L'indirizzo era a Berlino Est, al primo piano della Kulturhaus dell'Adlershof, un complesso paramilitare che, sulle mappe, non era nemmeno segnato, ma dove si trovavano gli uffici del ministero della sicurezza, le forze speciali, il reggimento di guardia. L'idolo del luogo era Feliks Dzerzinskij, il fondatore della Ceka, la polizia segreta sovietica. Gli anni erano quelli della Ddr, fra il 1962 e il crollo del Muro, e i poeti... erano agenti segreti e collaboratori, quelli che frequentavano Il circolo di poesia della Stasi, che Philip Oltermann, giornalista tedesco del Guardian, racconta in un saggio che arriva oggi in libreria per Utet (pagg. 272, euro 18). Per scriverlo, Oltermann ha trascorso cinque anni a scartabellare negli archivi della Stasi e parlato con alcuni dei frequentatori del circolo. Nel volume si possono leggere anche alcuni dei loro versi.

Philip Oltermann, dove li ha trovati?

«In una ristampa di una piccola Antologia del 1984, un libretto rosso con la sovracopertina gialla. La Stasi prendeva la poesia molto sul serio».

Perché decise di istituire un circolo?

«Non ci sono documenti che lo spieghino, ma io ho trovato tre risposte possibili. La prima, la più innocente, è il fatto che istituire un circolo di poesia al lavoro fosse una cosa molto comune, nella Ddr. Così, nel '62-'63, iniziarono le prime serate liriche della Stasi, dapprima in modo irregolare; poi, nel 1982, l'organizzazione divenne più professionale, con incontri mensili di due ore ciascuno e un poeta come insegnante».

Perché?

«Perché la Stasi era scontenta della qualità della poesia prodotta fino ad allora. Il secondo motivo, più sinistro, è che la Stasi cresceva in modo impressionante, a un ritmo molto più elevato delle altre polizie segrete dell'Est Europa, ed era estremamente paranoica, anche nel controllare sé stessa: perciò il circolo era un modo per indagare sui propri membri, in un momento in cui potevano lasciarsi andare o esprimere dei dubbi».

Un controllo sui controllori?

«La Stasi aveva i suoi informatori, che lavoravano all'esterno. Ma chi fa poesia può essere critico, e allora va controllato... Uwe Berger, l'insegnante, compilava dei resoconti su ciascuno».

E il terzo motivo?

«Il circolo poteva essere anche una specie di campo di addestramento per delle spie speciali, in grado di infiltrarsi negli ambienti letterari e poi di scrivere dei rapporti al riguardo. La Stasi aveva una vera paranoia nei confronti della letteratura, e di quella occidentale in particolare: non capiva che cosa la rendesse così attraente per i giovani e sospettava che, sotto qualsiasi opera della creatività, si nascondesse una cospirazione del nemico».

E queste spie operarono davvero?

«Effettivamente, molti dei poeti del circolo diventarono degli informatori nel mondo letterario underground di Berlino Est e di Lipsia. Uno di loro fu Alexander Ruika, il quale però, poi, divenne una voce critica».

Fece emergere il paradosso dell'idea stessa?

«L'idea era del tutto paradossale, eppure connaturata al regime, per il quale la poesia e l'arte in generale erano delle armi, erano propaganda. Ma nella nascita stessa della Ddr c'è un paradosso: la convinzione di fondare uno Stato diverso, che rispetti la cultura e le attribuisca lo stesso peso della politica...»

Che poesie si scrivevano al circolo?

«Quelle di Uwe Berger colpiscono perché sono prive di metafore e fatte di descrizioni. L'idea di Berger era che il cittadino indossasse la sua fede politica sopra i vestiti, che fosse completamente trasparente».

Che altro si faceva?

«Si leggevano i versi composti, si discutevano, si curavano gli aspetti tecnici e di contenuto».

C'era anche un ribelle.

«Gerd Knauer. Nell'Antologia sono rimasto sorpreso di trovare i suoi versi critici: in una poesia mette in luce il paradosso di lavorare per un esercito il cui scopo sia mantenere la pace; in un'altra arriva a imputare la guerra nucleare a Marx... Era davvero controverso».

Considerato che la Ddr aveva creato un «dizionario politico» ad hoc...

«Lo Stato cercava sempre dei modi per controllare il linguaggio; uno di questi fu un Lessico, in cui si trovano definizioni come quella del Muro: barriera antifascista. La relazione con il linguaggio divide ancora oggi l'Est, abituato a un controllo stretto, e l'Ovest della Germania, che ha un rapporto più rilassato, di stampo anglosassone».

Dove si vede questa divisione?

«Per esempio, nell'Est c'è più resistenza al dibattito sulle modifiche antipregiudizio del linguaggio, perché sono passati attraverso l'esperienza di una politica che vuole dettarti le parole e importi come devi scrivere. Così come c'è una sfiducia nei confronti dei media, legata allo scetticismo nei confronti della parola scritta».

La poesia fu davvero un'arma durante la Guerra fredda?

«È un po' una provocazione del libro, però era, anche, la retorica della Stasi, il suo linguaggio».

Ha fallito?

«Direi di sì. Questo circolo non ha prodotto armi o portato ai risultati che i vertici speravano: più duramente si cerca di reprimere la cultura, più se ne perde il controllo».

La censura della Ddr era celebre.

«Sì, ma gli scrittori erano diventati estremamente creativi nell'aggirarla. A volte la letteratura era così criptica, con talmente tanti strati di significato e riferimenti, che i censori si innervosivano: sapevano che c'era qualcosa sotto la superficie che non capivano, ma rimanevano intrappolati nel senso di essa».

La poesia ha sconfitto la Stasi?

«In qualche modo sì, l'ha sconfitta. Perché è troppo difficile da controllare».

Germania, il cancelliere Adenauer faceva spiare illegalmente la Spd. Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 9 Aprile 2022.  

Per oltre dieci anni l’intelligence federale ottenne in anticipo informazioni riservate sui piani e sulle scelte interne dei socialdemocratici. 

Il presidente americano John F. Kennedy con il cancelliere tedesco Konrad Adenauer, ( a destra) a Colonia il 23 giugno 1963.

Konrad Adenauer faceva spiare illegalmente e in modo sistematico i suoi avversari politici. Per oltre dieci anni, il cancelliere che legò la Germania all’Occidente democratico dopo la tragedia del nazismo, usò l’intelligence federale per ottenere in anticipo informazioni riservate sui piani e sulle scelte interne della Spd, il partito socialdemocratico all’opposizione. Adenauer, uno dei padri fondatori dell’Europa, usò due infiltrati nel vertice della socialdemocrazia, di cui soltanto adesso si apprende l’esistenza.

Lo rivela la Süddeutsche Zeitung, citando documenti inediti emersi dagli archivi della Fondazione Konrad-Adenauer ed esaminati nel quadro di una indagine storica indipendente sulla storia del BND, i servizi segreti della Repubblica federale, guidata dallo studioso Klaus-Dietmar Henke.

Nel cuore di un Paese angosciato dalla guerra in Ucraina e di fronte a quella che il cancelliere Scholz ha definito «una svolta epocale», esplode in Germania un «Watergate» in ritardo, che getta nuova luce sugli anni gloriosi e sempre vantati della rinascita democratica post- bellica e del Wirtschaftswunder, il miracolo economico.

Che Adenauer avesse una predilezione per i dossier non è una vera novità. Grazie a due suoi famigerati collaboratori, il sottosegretario Hans Globke e l’uomo dei servizi Reinhard Gehlen, l’anziano cancelliere faceva sorvegliare singoli avversari e accumulare materiale compromettente sul loro conto, a cominciare dal futuro leader della Spd Willy Brandt. Globke fu una delle figure più controverse del governo di Adenauer: sotto il nazismo il giurista aveva infatti partecipato attivamente alla redazione delle leggi razziali di Norimberga, prologo dell’Olocausto degli ebrei in Germania. Quanto a Gehlen, ex generale della Wehrmacht, l’esercito nazista, aveva ricostruito nel Dopoguerra il controspionaggio, che in realtà spiava anche all’interno grazie a una specie di ufficio affari riservati, chiamato Organisation Gehlen, creato dentro il BND.

Nuova è invece la dimensione sistemica del lavoro di spionaggio illegale contro la concorrenza politica, orchestrato da Adenauer. Al centro dell’operazione c’erano Siegfried Ortloff e Siegfried Ziegler, due dirigenti della Spd, il primo membro della direzione nazionale, il secondo capo della Federazione di Starnberg, in Alta Baviera. Ziegler in realtà lavorava per l’Organisation Gehlen e fu lui a stabilire il contatto tra il collaboratore di Adenauer e Ortloff. Era proprio Gehlen il terminale delle informazioni, che poi arrivavano sul tavolo del cancelliere, il quale leggeva tutto e annotava molti commenti in margine alle veline.

Fu così, per esempio che Adenauer venne a sapere in tempo reale quali candidati la Spd si preparava a mettere in campo per la cancelleria o per la carica di Presidente della Repubblica o che l’allora presidente della socialdemocrazia Erich Ollenhauer non si sarebbe più candidato come cancelliere nelle elezioni del 1961. O più banalmente le autocritiche che la direzione fece nel 1957 dopo la sconfitta alle elezioni.

Lo spionaggio illegale di Adenauer va inquadrato nel contesto del dilagante anticomunismo di quegli anni in Germania, che il vecchio cancelliere usò sistematicamente come tema della sua narrazione politica. Nel 1953 Adenauer accusò addirittura i socialdemocratici di ricevere finanziamenti illegali dalla Ddr comunista, accusa che dovette pubblicamente rimangiarsi dopo le elezioni. La paura di un’infiltrazione comunista d’altronde non risparmiava nessuno: lo stesso Ortloff nella direzione socialdemocratica era responsabile proprio della difesa contro eventuali talpe comuniste infiltrate. È un fatto che almeno una infiltrazione ci fu, sia pure più tardi, quella di Günter Guillaume, lo spione della Ddr che dalla fine degli Anni Cinquanta fece tutta la trafila dentro la Spd fino a diventare collaboratore personale di Willy Brandt nel 1972. Due anni dopo, la sua scoperta costrinse Brandt, il cancelliere della Ostpolitik, a dimettersi.

Lo stile autoritario di Adenauer, uomo delle decisioni solitarie, fu oggetto di critiche anche interne alla Cdu già durante gli anni del suo potere. Nel 1949, alla fondazione della Repubblica Federale, il cancelliere rifiutò una grande coalizione con la socialdemocrazia, con l’argomento che era necessaria una forte opposizione. All’evidenza, qualunque cosa facesse la Spd per diventare più forte, quella vecchia volpe Adenauer, che si era forgiato nel fuoco della Repubblica di Weimar, voleva ad ogni costo prepararsi per tempo alla risposta. Peccato che stesse violando la legge.

Roma espelle 30 diplomatici russi, Mosca annuncia “risposta simmetrica”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Aprile 2022.  

Puntuali le minacce russe. Medvedev: "diventerà più economico chiudere le ambasciate, ma poi dovremo guardarci attraverso i mirini". La Germania espelle 40 diplomatici russi, la Francia 35. numerosi altri Paesi europei -tra cui Belgio, Paesi Bassi e Irlanda- hanno annunciato l’espulsione dei diplomatici russi per via dell'invasione in Ucraina. In precedenza, numerosi altri Stati dell'Unione Europea, tra cui Lituania, Lettonia, Estonia, Bulgaria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca, avevano chiesto che i diplomatici russi lasciassero il territorio dei loro Paesi.

L’ambasciatore della Federazione russa è stato convocato questa mattina alla Farnesina “per notificargli la decisione del Governo italiano di espellere trenta diplomatici russi in servizio presso l’ambasciata in quanto ‘personae non gratae’”. Lo ha reso noto il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, a Berlino. “Questa misura, assunta con altri partner europei e atlantici, si è resa necessaria per ragioni legate alla nostra sicurezza nazionale e nel contesto della crisi attuale della crisi conseguente all’ingiustificata aggressione all’Ucraina da parte della Federazione russa”.  

La Russia “espellerà diplomatici italiani” a Mosca, in risposta alla decisione di Roma di dichiarare ‘personae non gratae’ 30 diplomatici dell’ambasciata russa in Italia. Lo ha dichiarato all’AGI la portavoce del ministero degli Esteri della Federazione, Maria Zakharova.

Anche la Danimarca espellerà 15 diplomatici russi per spionaggio, il giorno dopo le analoghe misure intraprese da Francia e Germania. “Abbiamo stabilito che i 15 agenti dei servizi segreti espulsi hanno svolto attività di spionaggio sul suolo danese“, ha detto il ministro degli Esteri Jeppe Kofod ai cronisti, “la Danimarca vuole inviare un segnale chiaro alla Russia: spiare il suolo danese è inaccettabile“.

L’ex presidente russo e vice capo del consiglio di sicurezza Dmitry Medvedev aveva spiegato che il Cremlino risponderà in maniera proporzionale e “simmetrica” all’espulsione dei suoi diplomatici da diversi Paesi occidentali. “Tutti conoscono la risposta: sarà simmetrica e distruttiva delle relazioni bilaterali”, ha detto Medvedev in un post sul suo canale Telegram. “Chi hanno punito? Prima di tutto se stessi.”

Ieri l’ambasciatore russo a Berlino è stato convocato al ministero degli Esteri tedesco, dove è stato informato dell’espulsione di 40 dipendenti della missione diplomatica russa. Anche a Parigi è trapelato che la Francia espellerà dal Paese 35 diplomatici russi. Il 29 marzo, numerosi altri Paesi europei -tra cui Belgio, Paesi Bassi e Irlanda- hanno annunciato l’espulsione dei diplomatici russi per via dell’invasione in Ucraina. In precedenza, numerosi altri Stati dell’Unione Europea, tra cui Lituania, Lettonia, Estonia, Bulgaria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca, avevano chiesto che i diplomatici russi lasciassero il territorio dei loro Paesi.

“Se continua così, sarà opportuno chiudere la porta delle ambasciate occidentali”, ha continuato Medvedev. “Sarà più economico per tutti. E poi finiremo per guardarci l’un l’altro in nessun altro modo che attraverso il mirino delle armi”.  Redazione CdG 1947

Chi sono i 30 diplomatici russi espulsi: dal consigliere all’impiegato, sono «spie di Mosca». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 5 Aprile 2022.  

Sono tutte persone accreditate presso l’ambasciata di Mosca a Roma con incarichi diversi: di questi, almeno 25 sono considerati aggregati ai servizi segreti russi Svr, Fsb e Gru. 

Una decisione «legata alla nostra sicurezza nazionale», ha spiegato il ministro degli Esteri Lugi Di Maio, ma all’origine della maxi-espulsione c’è una scelta politica fatta con altri Paesi europei: un taglio di 30 titolari di passaporto diplomatico (all’incirca il 20 per cento dell’intera rappresentanza moscovita in Italia), che corrispondono ai 40 mandati via dalla Germania, 35 dalla Francia, 25 dalla Spagna, 15 dalla Danimarca e così via. Ma al momento di identificare le «persone non gradite» da rimpatriare entro 72 ore è entrato in campo il controspionaggio affidato all’Aisi, l’Agenzia di informazioni e sicurezza interna che ha stilato un elenco di persone già individuate con certezza (o quasi certezza) come agenti segreti in cerca di informazioni o potenziali reclutatori di spie.

Sono tutte persone accreditate presso l’ambasciata di Mosca a Roma, con incarichi e compiti diversi: primi e secondi segretari, consiglieri, rappresentanti commerciali, addetti militari delle varie Armi, semplici impiegati dediti al disbrigo di pratiche ordinarie. Distribuiti nei tre settori in cui si dividono le attività: difesa, commerciale e amministrativo. Dei 30 nomi, almeno 25 sono considerati aggregati a una delle tre sigle in cui si dividono servizi segreti russi: Svr, Fsb e Gru, che si occupano rispettivamente di spionaggio all’estero, di sicurezza interna e di intelligence militare.

Per loro gli incarichi dichiarati al momento della richesta di accredito presso il ministero degli Esteri italiano sarebbero stati niente più che una copertura; per l’Aisi erano 007 incaricati di muoversi in ambiti istituzionali italiani o di altre rappresentanze diplomatiche (ad esempio le cerimonie uficiali indette per le feste nazionali dei vari Paesi), con l’obiettivo di carpire informazioni o agganciare persone che potessero fornire notizie utili alla causa della Madrepatria. Oppure responsabili o delegati ad attività commerciali che si muovevano nel campo delle imprese, o di settori particolari. Tutte persone individuate da tempo, seguite e monitorate dal controspionaggio che le aveva già catalogate come agenti segreti (nella maggior parte dei casi) e ne stava seguendo le mosse.

Il provvedimento di espulsione, adottato come una sorta di ulteriore sanzione nei confronti del regime di Putin, ha svelato l’attività di controllo, che altrimenti sarebbe continuata sottotraccia. La regola «tecnica» vuole che una volta identificato un diplomatico che svolge il ruolo di spia non lo si comunichi al governo straniero ma si lasci al suo posto: meglio tenersi in casa chi ormai è conosciuto e dal quale si sa che cosa aspettarsi piuttosto che mandarlo via e aprire la strada a una sostituzione porterebbe sul suolo nazionale un’altra persona sulla quale bisognerebbe ricominciare daccapo l’azione di monitoraggio. In questo caso però è prevalsa la scelta politica.

Così come un anno fa, a seguito dell’arresto dell’ufficiale della Marina italiana Walter Biot accusato di aver ceduto ai russi notizie coperte dal segreto militare, furono espulsi i suoi due reclutatori: l’addetto navale e aeronautico dell’ambasciata a Roma, Alexey Nemudrov, e l’impegato di quel’ufficio Dmitri Ostroukhov, sorpreso a ricevere da Biot le fotografie di documenti riservati in cambio di poche migliaio di euro nascoste in una confezione di medicinali. Il processo a Biot è cominciato ed è stato subito rinviato, in attesa che si decida sul conflitto di giurisdizione fra tribunale ordinario e tribunale militare sollevato dalla difesa, ma la presidenza del Consiglio e il ministero della Difesa si sono già costituti pare civile contro l’imputato. Questi sono i casi in cui il lavoro di spionaggio e controspionaggio viene alla luce, ma il più delle volte tutto resta sottotraccia. Anche perché a un’azione diplomatica così forte da un lato corrisponde sempre una reazione dall’altro.

Dopo l’espulsione dei due russi legati al caso Biot, Mosca ha rimpatriato l’addetto militare dell’ambasciata italiana, ed è pressoché certo che a seguito del provvedimento comunicato ieri la Russia faccia altrettanto con una nutrita schiera di rappresentanti italiani e degli altri Paesi europei che hanno decretato gli allontanamenti. Atri tempi rispetto a quando, nemmeno due anni fa, il ministro della Giustizia italiano Alfonso Bonafede rimandò a casa Alexander Korshunov, il manager arrestato a Napoli nel 2019 perché accusato dagli Stati Uniti di spionaggio industriale, negando l’estradizione nello Stato dell’Ohio.

Enrico Franceschini per “la Repubblica” il 6 aprile 2022.

Non sono tutti agenti segreti, i trenta diplomatici russi espulsi dall'Italia, così come i loro colleghi cacciati da altri Paesi europei, per ritorsione contro i massacri di Putin in Ucraina. Ma è risaputo che, sotto incarichi apparentemente innocui, nelle ambasciate si nascondono spie. E gli 007 giocano sempre un ruolo nelle sfide tra grandi potenze: è dei giorni scorsi l'indiscrezione che William Burns, capo della Central Intelligence Agency, l'agenzia di spionaggio americana, si è recato a Mosca e a Kiev subito prima dell'invasione russa, prima per cercare di evitarla, poi per avvertire e aiutare gli ucraini.

Le "guerre di spie", come vengono soprannominate le loro operazioni clandestine, precedono, accompagnano o seguono i conflitti militari, spesso senza che si venga a saperlo: in genere una missione diventa di dominio pubblico soltanto quando fallisce. 

Anche arrestare una spia, del resto, è di solito un'ammissione di fallimento: significa ammettere che nel proprio sistema c'era una falla e che da lì sono usciti danni alla sicurezza nazionale. Nel gioco di specchi di questo mestiere vecchio come il mondo, nato al tempo dei Sumeri, sfruttato da Giulio Cesare per la conquista della Gallia, organizzato professionalmente da Napoleone in poi, niente è come sembra. Mata Hari, la ballerina francese il cui nome diventò sinonimo della femme fatale , fucilata come spia dei tedeschi durante la Prima guerra mondiale, forse venne volontariamente sacrificata dall'Impero austro-ungarico per nascondere l'identità di un'altra ben più pericolosa agente, nome in codice Fraulein Doktor, di cui non si sono mai sapute le generalità.

Ethel e Julius Rosenberg, i coniugi americani finiti sulla sedia elettrica all'inizio della guerra fredda con l'accusa di avere passato all'Unione Sovietica i segreti per fabbricare la prima bomba atomica, diedero probabilmente a Mosca informazioni insignificanti. Viceversa, Klaus Fuchs, uno scienziato tedesco naturalizzato britannico che passò al Cremlino segreti nucleari ben più importanti, fu condannato ad appena 14 anni di carcere, di cui 5 condonati, e scontata la sentenza si trasferì tranquillamente nella Germania Est. 

Talvolta la guerra di spie rischia di farne scoppiare una vera e propria, come nel 1960, quando l'abbattimento di un aereo-spia americano sopra i cieli dell'Urss fece saltare il summit tra Eisenhower e Krusciov che avrebbe dovuto rappacificare le due superpotenze: anche se poi il pilota Gary Powers, condannato a dieci anni di lavori forzati, venne scambiato con il colonnello del Kgb Rudolf Abel sul ponte di Glienicke, a Potsdam, da allora soprannominato "il ponte delle spie" (che è anche il titolo del film diretto da Steven Spielberg sulla vicenda).

Ci sono le cosiddette "spie dormienti", come Anna Chapman detta "la Rossa", la giovane russa seducente che sposò un'inglese per cambiare cognome, si trasferì a New York e lì rimase in attesa di ordini: ma fu beccata prima che le arrivassero. E ci sono le spie che uccidono, come i killer inviati dal Cremlino a cercare di assassinare un ex-agente "traditore" con il gas nervino.

Diplomatici russi espulsi, Feltri contro Di Maio: "Cretini oppure conniventi, il grillino si deve vergognare". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 07 aprile 2022.

Quando il mondo è furibondo come in questo periodo in cui la gente invece di recarsi al tirassegno del luna park per divertirsi, si spara addosso in nome della libertà, trovando spesso la morte, succedono episodi scandalosi e sorprendenti. L'ultimo, in ordine di tempo, è accaduto in Italia e pure in altri Paesi sbronzi quanto il nostro. La Farnesina, per fare rabbia a Putin, promosso a pieni voti macellaio, ha deciso di espellere da Roma la bellezza di 30 diplomatici russi in servizio da anni al ministero degli Esteri. Perché?

Secondo le motivazioni espresse dal governo, costoro sono spie al soldo di Mosca. Provvedimenti analoghi sono stati adottati da altri Stati europei. Certe decisioni evidentemente sono contagiose quale il COVID. 

Scherzi a parte, mi domando stupito: perché mai il ministro di Maio e i suoi collaboratori si sono accorti adesso di avere in casa un esercito di 007 che osservava i fatti nostri per riferirli allo Zar? Come è possibile avere tra i piedi per anni agenti segreti senza muovere un dito, poi all'improvviso, dato che Mosca e Kiev si scannano, rendersi conto che ospitavamo dei fetenti? Delle due, una: o siamo stati cretini per lustri oppure eravamo conniventi con gli spioni fino a ieri. In entrambi i casi dovremmo vergognarci e chiedere scusa ai concittadini. Tra l'altro pure noi abbiamo in zona Cremlino vari funzionari omologhi a quelli russi che abbiamo cacciato, cosicché aspettiamoci che costoro vengano rispediti a Roma a calci nel didietro.

Risultato, i rapporti nostri con Vladimir e il suo entourage sono destinati a inacidirsi ulteriormente e sarà difficile riuscire a ritrovare un minimo di concordia. Non è finita. Posto che a me Putin fa tremare i polsi anche solamente guardandolo in fotografia, mi sfugge il motivo per il quale i suoi cosiddetti oligarchi che hanno acquistato ville e imbarcazioni di lusso in Italia debbano subire il sequestro dei loro beni come se fossero complici di delitti attribuibili al despota invasore dell'Ucraina. Si dà il caso quasi comico che tutto quanto requisito ai suddetti ricconi nella nostra tribolata patria ora tocchi all'esecutivo di Draghi mantenerlo. Fior di milioni di euro buttati al vento per fare dispetto al dittatore. Il quale ovviamente è sempre più irritato.

Ultima nota desolata. Le sanzioni più aspre che infliggiamo all'orso aggressivo di Putin in realtà danneggiano più noi che le emettiamo che non chi le subisce. La responsabilità non è esclusivamente dei politici che ci rappresentano, ma anche nostra che li abbiamo eletti senza valutare la loro pochezza. Il gas non lo estraiamo e il nucleare lo abbiamo bocciato due volte con referendum che hanno reso ridicolo il popolo tifoso dei Verdi. Se d'estate non avremo l'energia per far funzionare i condizionatori, per cui creperemo di caldo, e se il prossimo inverno batteremo i denti causa il freddo, dovremo solo recitare il mea culpa. 

L’allontanamento dei funzionari di Mosca. Perché sono stati espulsi 30 diplomatici russi dall’Italia, erano spie? Claudia Fusani su Il Riformista il 6 Aprile 2022. 

Prima le spie. Poi il gas. Per la chiusura unilaterale dei gasdotti russi non sono attese “decisioni ad horas” riferiscono fonti del Comitato parlamentare per la sicurezza nazionale. Blocco totale invece per carbone, divieto di approdo per i mercantili russi (tranne che per alcune tipologie di merci) e divieto di export per tutti il materiale del comparto elettronico e meccanico. È il quinto pacchetto di sanzioni che avrà oggi il via libera della Commissione europea e su cui l’Italia è perfettamente allineata.

È davanti al Copasir presieduto da Adolfo Urso (Fdi) che Mario Draghi ha aggiornato il Parlamento su vari fronti tutti intrecciati con la guerra in Ucraina e il quadro geopolitico internazionale. Un’audizione durata due ore in cui il premier è sembrato “rilassato” ed “empatico” oltre che dare la massima disponibilità a rispondere su tutto. Il premier ha chiesto al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti Franco Gabrielli di sedere alla sua destra per tutta la durata dell’audizione. Guerra in Ucraina; le atrocità a Bucha e negli altri villaggi e centri abitati via via che vengono riconquistati dalle truppe ucraine; l’espulsione dei diplomatici russi; l’indipendenza energetica che è “questione di sicurezza nazionale” e il conseguente piano di diversificazione: erano tanti i punti all’ordine del giorno e due ore sono il minimo di tempo necessario per approfondire questioni così delicate. È rimasta fuori del tutto invece la missione “dalla Russia con amore” approvata dal governo Conte 2 ai tempi del primo lockdown. Il Comitato proseguirà la audizioni sul caso dei militari russi che, in missione sanitaria, volevano però “bonificare uffici pubblici”. Ma il Copasir non ha bisogno di sentire l’attuale governo.

Draghi è entrato a palazzo San Macuto, sede del Copasir, poco dopo le 11. Poco dopo che il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha informato circa l’espulsione dall’Italia di trenta diplomatici russi “per motivi di sicurezza nazionale”. Draghi ha spiegato l’allontanamento dei funzionari comunicato direttamente all’ambasciatore russo a Roma, «in quanto il loro profilo non è conforme agli standard internazionali di comportamenti diplomatici». Un giro di parole assai vellutato per definire spie i suddetti diplomatici. Del resto il metodo classico di “appoggiare” i servizi segreti russi negli altri paesi è farli diventare diplomatici. E nell’ambiente i loro profili sono più o meno noti. Draghi ha poi spiegato, una volta arrivato a Torino per una tappa di presentazione del Pnrr che l’allontanamento “è stato deciso in accordo con altri partner europei ed atlantici”. Un comunicato della Farnesina ha aggiunto che «il provvedimento si è reso necessario per ragioni legate alla nostra sicurezza nazionale e nel contesto della situazione attuale di crisi conseguente all’ingiustificata aggressione all’Ucraina da parte della Russia».

La guerra sul campo è anche, inevitabilmente una guerra di spie. Sono 149 i diplomatici russi espulsi dall’Europa nelle ultime 48 ore e 260 dall’inizio della guerra. Dopo la decisione, lunedì, di Francia (35) e Germania (40), ieri è arrivata quella di Italia, Danimarca, Svezia, Spagna e dell’Unione europea che hanno espulso decine di diplomatici. Già dall’inizio di marzo molti paesi europei avevano iniziato ad allontanare i rappresentanti di Mosca nei loro paesi. La Lituania ha allontanato l’Ambasciatore russo. La Danimarca 15 diplomatici con l’accusa di svolgere “attività di spionaggio sul suolo danese”, la Svezia ne ha allontanati tre, seguita dalla Spagna che ha deciso di espellere “immediatamente” circa 25 diplomatici russi poiché una “minaccia agli interessi”. Ancora prima (29 marzo), il Belgio ha annunciato l’espulsione entro 15 giorni di 21 persone che lavorano per l’ambasciata e il consolato russi, sospettate di essere coinvolte “in operazioni di spionaggio e influenza che minacciano la sicurezza nazionale”. Il 23 marzo la Polonia ha messo alla porta 45 “spie russe che si spacciano per diplomatici”. Le tensioni diplomatiche con la Russia sono state un crescendo nell’ultimo anno e mezzo. E l’anno scorso, in Europa, Stati Uniti e Nato, è stato segnato da un intensificarsi di casi di spionaggio, espulsioni e tradimenti (in Italia il capitano di fregata Walter Biot) che forse andava letto nel suo insieme con più attenzione.

Le espulsioni hanno provocato una dura reazione da parte del Cremlino che ha accusato l’Europa di assumere “decisioni miopi” e di “assenza di lungimiranza”. Stupisce la reazione della Lega. Matteo Salvini, senza voler entrare nel merito delle espulsioni, ha sottolineato che «le guerre si vincono con la diplomazia e non con le espulsioni».

Davanti al Copasir Mario Draghi ha spiegato la situazione energetica, lo stato degli approvvigionamenti, dello stoccaggio e degli acquisti di gas. Sull’embargo al gas russo i tempi in Europa non sono ancora maturi. L’Italia resta “molto determinata” nel raggiungere il prima possibile l’indipendenza energetica e il premier ha elencato come sta sviluppando la rete di contatti che da oltre un mese palazzo Chigi, la Farnesina e l’Eni stanno portando avanti con diversi paesi produttori di gas: Algeria, Libia, Congo, Azerbaigian, Qatar. Se circa la metà dell’import annuale dalla Russia (30 miliardi di metri cubi) è già stato sostituito, più difficile sarà trovare gli altri 15 miliardi.

Draghi è comunque sembrato determinato – dicono fonti del Copasir – «ad andare avanti sia sulla strada dello stop al gas russo» che sulla richiesta a Bruxelles di mettere un “tetto” al prezzo del gas. La nostra condizione di stoccaggi e approvvigionamenti, ha ribadito il premier, è comunque tale da non dover imporre al momento misure di razionamento. All’esame del Copasir anche l’orrore di Bucha e degli altri villaggi liberati dall’occupazione russa. “Nessun dubbio” sulle atrocità che purtroppo emergeranno ancora col passare dei giorni. Anzi, esistono informazioni che certificano come alcune fosse comuni siano state preparate già intorno alla metà di marzo, tre settimane dopo l’inizio dell’occupazione russa. Il “cessate il fuoco” e la ricerca della pace restano l’obiettivo primario di tutta la nostra azione politica e diplomatica. Ma, ha ribadito il presidente del Consiglio, «le atrocità commesse a Bucha, Irpin e in altre località liberate dall’esercito ucraino scuotono nel profondo i nostri animi di europei e di convinti democratici. Indagini indipendenti devono fare piena luce su quanto accaduto. I crimini di guerra devono essere puniti. Il presidente Putin, le autorità e l’esercito russo dovranno rispondere delle loro azioni».

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

L’azione della Cia in Ucraina: così ha pilotalo le mosse di Kiev. Davide Bartoccini su Inside Over il 28 aprile 2022.

Se fino a poche settimane fa se ne aveva solo il sentore, adesso ne abbiamo la certezza: l’intelligence americana ha aiutato l’Ucraina fornendo “in tempo reale” informazioni che hanno reso meno efficace l’offensiva russa. Così facendo il Pentagono attraverso la Cia, la plurinota agenzia di spionaggio per le attività all’estero degli Stati Uniti, avrebbe salvato i sistemi missilistici antiaerei e dei mezzi da combattimento che hanno contribuito in maniera sostanziale a respingere/arginare l’invasione pianificata dal Cremlino.

Non solo aerei spia occidentali ai confini dello spazio aereo ucraino, pronti ad intercettare ogni comunicazione dei russi. Ne solo l’avvertimento – salvifico – sull’imminente attacco da parte della Federazione Russa che il direttore della Cia William Burns avrebbe impartito al presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy già a gennaio. Ma informazioni dettagliate su “quando e dove” i russi avrebbero attaccato. In questo modo l’intelligence degli Stati Uniti ha dato alle Forze armate ucraine quanto di più importante possa esserci in un conflitto armato: informazioni di valore strategico che sin dall’inizio dell’invasione hanno aiutato i vertici militari di Kiev a prendere decisioni fondamentali nel posizionamento e dei suoi sistemi d’arma più efficaci. Sistemi missilistici, aerei, elicotteri, che agli occhi del Cremlino devono esser apparsi come indistruttibili e moltiplicati, mentre venivano lanciati missili e pianificati bombardamenti su target fantasma. Così la capacità difensiva dell’avversario non mutava in nessun modo.

A rilasciare queste dichiarazioni “insidiose” per i rapporti diplomatici già ai minimi storici tra Mosca e Washington, sono stati degli ex funzionari americani che hanno addirittura spiegato all’emittente Nbc come è stato possibile – attraverso la condivisione di informazioni “quasi in tempo reale” – abbattere un aereo russo che “trasportava centinaia di soldati nei primi giorni della guerra”. Un’azione che avrebbe contribuito – più di ogni altra – a respingere l’attacco pianificato da Mosca. L’obiettivo era raggiungere “un aeroporto vicino Kiev”. Appare così abbastanza evidente si riferissero all’aeroporto di Hostomel. Dove le forze d’intervento rapido ucraine “allertate” da Kiev hanno respinto a più riprese il raid degli spetnaz russi che dovevano aprire la strada ad un distaccamento aviotrasportato con la missione di conquistare gli obiettivi chiave nella capitale ucraina. Sventato questo “colpo di mano”, il piano di Mosca che voleva rovesciare il governo di Zelensky e piegare Kiev in meno una settimana, è fallito. O almeno queste, fino ad oggi, erano le versioni ufficiose che circolavano tra gli analisti militari.

Adesso le fonti della Nbc sembrano aver formalizzato l’accaduto. Rivelando la provenienza di questo informazioni fondamentali per la resistenza dell’Ucraina, ed esplicitando quel che molti sospettavano. Gli ex funzionari hanno riferito di una “condivisione di informazioni di intelligence senza precedenti” con un Paese che sebbene non faccia parte della Nato è considerato un alleato. “Abbiamo continuato a farlo ogni giorno da allora” hanno dichiarato riferendosi alla battaglia per l’aeroporto gli “ex” funzionari dell’intelligence statunitense che devono aver mantenuto uno stretto legame con i loro colleghi “operativi”. Spiegando come i servizi segreti americani abbiano svolto un ruolo cruciale in tutte le operazioni che hanno permesso all’Esercito ucraino di respingere l’invasone da parte di una potenza militare più preparata, numerosa e meglio equipaggiata.

La Cia avrebbe inoltre fornito informazioni utili a proteggere la vita del presidente Zelensky, contribuendo alla sua sicurezza negli spostamenti. Era già stato reso noto che molti sicari della Wagner si erano stabiliti in Ucraina prima dell’invasione con l’ordine di “eliminare” il leader ucraino. Una parte fondamentale nell’operazioni di decapitazione che era stata concertata con l’arrivo dei paracadutisti a Histomel. Questa “cooperazione ha avuto un impatto a livello tattico e strategico”, ha reputato opportuno rivelare il funzionario americano all’emittente televisiva americana. Il supporto di intelligence – al quale stanno prendendo parte attiva anche gli inglesi – si somma al rifornimento di armi sempre più sofisticate e alla condivisione di immagini satellitari che consentono agli ucraini di monitorare gli spostamenti sul campo dei russi, anticipando le loro mosse. Tali sono i “diversi esempi che chiariscono come tutto questo abbia fatto davvero la differenza”.

Ciò che dovrebbe indurre a riflettere il lettore, è quale sia il senso di rivelare queste informazioni all’opinione pubblica internazionale in un momento così delicato. Che vede accrescere nel Cremlino la convinzione che gli Stati Uniti abbaino armato una guerra per procura combattuta dall’Ucraina. E vede diversi paesi dell’Europa continentale – ai quali Washington è vincolata dal trattato del Nord Atlantico (si veda in particolare l’articolo 5) –  impegnati a rifornire armi ai soldati di Kiev che quella guerra la stanno combattendo in prima linea. Lo spettro della Terza guerra mondiale continua ad aggirarsi per l’Europa. La speranza è che i funzionari d’intelligence abbiano già programmato il momento migliore per scacciarlo. E che questo momento arrivi in fretta.

Volodymyr Zelensky, missione della Cia per salvarlo: lui ha rifiutato. Come inizia la guerra in Ucraina. Libero Quotidiano il 03 aprile 2022.

Un ruolo attivo della Cia nella guerra in Ucraina: avrebbe infatti fornito a Kiev informazioni cruciali per contrastare la fase iniziale dell'invasione russa. A metà gennaio, riporta il Corriere della Sera che cita il Wall Street Journal, il direttore William Burns  ha compiuto u na visita segreta a Kiev ed ha passato i dettagli a Volodymyr Zelensky.

La Cia aveva infatti già  raccolto elementi precisi sulle direttrici d’attacco e in particolare sull’assalto all’aeroporto di Gostomel, a nord di Kiev. E la resistenza al momento dell'attacco si è mostrata preparata: i russi e le loro unità hanno avuto perdite pesanti.  Il loro obiettivo era quello di creare una testa di ponte per favorire l’afflusso di rinforzi con aerei e parà. Ma la manovra è saltata. 

Forse Mosca contava su un'azione di una quinta colonna composta da un gruppo di collaborazionisti, obiettivo uccidere Zelensky o costringerlo alla fuga. E non a caso gli Stati Uniti, in quelle ore, offrirono al premier ucraino una via d'uscita per portarlo in salvo. Lui, però, ha rifiutato scegliendo di accettare la sfida e di restare in Ucraina.

Dunque, la Cia sarebbe di fatto "scesa in guerra" contro la Russia. E il viaggio di Burns era una delle tante missioni condotte a partire dall’autunno per mettere in guardia gli alleati su quello che sarebbe accaduto, attività condotte in parallelo con il Pentagono. L'intelligence Usa, dunque, ha avuto un ruolo cruciale per l'addestramento di unità speciali dell'Ucraina, per l'assistenza su come affrontare l'avversario e, ora, con il flusso continuo di dati per anticipare e svelare le mosse dell'armata russa (il tutto con foto satellitari e intercettazioni). Una linea, quella della Cia e degli Stati Uniti, che pone anche degli interrogativi: e se Vladimir Putin lo considerasse un "intervento diretto", ossia una di quelle manovre che come sostenuto dallo zar potrebbe portare l'allargamento del conflitto fino a coinvolgere la Nato?

Anna Guaita per “il Messaggero” il 4 aprile 2022.

Lo scorso novembre il direttore della Cia William Burns andò a Mosca per consegnare un ammonimento a Vladimir Putin: gli Stati Uniti avevano raccolto sufficiente intelligence per capire che il presidente russo stava preparando un'invasione dell'Ucraina, ma se l'invasione fosse avvenuta, la Russia sarebbe stata colpita da sanzioni durissime. La missione di Burns è stata descritta in un lungo reportage del Wall Street Journal che ha ricostruito i vari passi che hanno portato alla guerra nonché quello che il giornale definisce essere stato il «fallimento dell'Occidente» nel trattare in modo adeguato le mire espansionistiche di Putin dalla caduta del muro di Berlino in poi.

Il quotidiano dà però atto a Burns di aver fatto del suo meglio per negoziare con il presidente russo e allo stesso tempo per aiutare l'Ucraina. Il 56enne capo dello spionaggio, scelto per dirigere la Cia da Biden, ha anche un solido passato diplomatico come ambasciatore a Mosca durante la presidenza di George Bush. 

In quel suo viaggio a Mosca Burns non riesce a incontrare Putin, ancora in lockdown nella sua villa sul Mar Nero, ma gli parla attraverso una linea telefonica segreta. La conversazione non va bene: Putin risponde all'ammonimento americano affermando che non considera l'Ucraina un vero paese, e che la giudica ancora parte della Russia.

Tornato a Washington Burns conferma a Biden che il russo sembra intenzionato a invadere, e nei tre mesi che seguono l'Amministrazione fa di tutto per convincere gli alleati europei a creare un fronte unito e a tentare ogni via diplomatica per evitare l'invasione. 

A metà gennaio, quando appare chiaro che Putin è inamovibile, Burns compie un viaggio top-segret a Kiev per incontrare Zelensky e informarlo di tutto quello che l'intelligence americana ha raccolto sui piani russi. Fra le informazioni ce n'è anche una che si rivelerà vitale per gli ucraini e cioè che i russi intendono invadere dalla Bielorussia e impadronirsi dell'aeroporto Antonov, vicino alla capitale, per trasportarvi le truppe via aerea e da lì impadronirsi di Kiev e decapitarne il governo. Le forze ucraine, proprio grazie alle informazioni trasmesse in persona da Burns, si preparano e riescono a far naufragare i piani di Vlad.

Tutti i dubbi sulla lista delle spie diffusa dall’Ucraina. Andrea Muratore su Inside Over il 5 Aprile 2022.

L’Ucraina, nelle scorse giornate, ha diffuso un elenco di poco più di seicento presunti agenti segreti russi che risulterebbero dipendenti del celebre Fsb, organo di sicurezza interno della Federazione, attivi in tutta Europa. Pubblicati sul sito ufficiale dell’intelligence ucraina, i nomi della lista presentano una serie di caratteristiche comuni: nomi e cognomi, luogo e data di nascita, indirizzo, numero di telefono, SIM card a disposizione, numero di targa delle auto di proprietà, riferimenti del passaporto.

Un elenco minuzioso e certosino che mostra però diversi dubbi. In primo luogo, è parso come un atto unilaterale di difficile verifica, dato che anche Reuters ha espresso cautela circa la difficile reperibilità di molti individui le cui generalità potrebbero comunque essere facilmente modificabili. In secondo luogo, nulla è detto circa il ruolo, il grado e le capacità operative degli agenti in questione: si tratta di ufficiali o reclute? Di analisti o di operativi? Di esperti di cyber o di infiltrati in organizzazioni, imprese, legazioni diplomatiche? Di membri dello spionaggio o del controspionaggio? Non è dato sapersi.

Terzo punto sono alcuni dettagli che il generale Umberto Rapetto su InfoSec ha definito poco coincidenti con un’organizzazione strutturata come l’Fsb: “Tutte le persone coinvolte in questo terribile leak risultano residenti alla Lubianka, quartier generale dell’FSB. Difficile valutare l’attendibilità della lista e al momento non ci sarebbero stati commenti o smentite. Sennò che Servizi Segreti sarebbero mai…”, chiosa ironicamente Rapetto “Tra le tante curiosità ce n’è una segnalata da The Times. Uno di questi agenti russi avrebbe un account su Skype dal bizzarro nome “jamesbond007”: un’effettiva anomalia che lascia pensare al fatto che l’ipotesi di un gioco di spie non sia da escludere.

Il flop dell’intelligence russa

Quarto punto chiave è il fatto che il caos sulle spie russe parta proprio nel momento in cui l’Fsb è nel centro del mirino assieme agli altri servizi segreti russi per presunte inefficienze nella gestione della preparazione dell’invasione dell’Ucraina. In un certo senso, la scarsa capacità di coordinamento tra i servizi segreti di Mosca ha contribuito alla resistenza ucraina e questo ha mandato su tutte le furie Vladimir Putin. Non sarebbe quindi da escludere un’opzione false flag che vedrebbe nella pubblicazione dei nomi un leak partito da fonti di Mosca per “bruciare” agenti ritenuti scomodi o favorire, in quest’ottica, un giro di vite da parte del Cremlino. Poche settimane dopo lo scoppio della guerra, del resto, è stata data la notizia dell’arresto di Serghej Beseda e Anatolij Bolyukh, capo e vice del Nono direttorato del Quinto Servizio” dell’Fsb, accusati secondo le fonti russe a nostra disposizione di aver sbagliato tutte le previsioni sulla tenuta di Kiev.

Infine, l’Ucraina ha parlato di spie che sarebbero state coinvolte in “attività criminali” ma non ha specificato in che misura, in che contesto geografico e in che entità le figure in questione si sono rese responsabili di reati.

Dunque la situazione è molto complessa e vista la natura della questione in ballo risulta assai complessa la possibilità di giungere a pareri definitivi sulla vicenda. Possiamo immaginare che ogni opzione sia valida in potenza: vittoria del controspionaggio ucraino, falla della sicurezza dei servizi russi sui nomi degli operativi, manovra partita dall’interno degli apparati. Non dimentichiamo che il torneo delle ombre tra le spie russe è in corso da tempo e che molta tensione attanaglia i servizi dopo un mese difficile di guerra: il complesso caso del tentativo di avvelenamento all‘oligarca-pontiere Roman Abramovich, le insufficienti prestazioni dei servizi negli attacchi cyber, la scarsa previsione della capacità di resistenza ucraina sono tutti elementi di debolezza degli apparati di intelligence di Mosca. Oggi entrati in quella che rischia di risolversi in una “notte dei lunghi coltelli” tra le varie agenzie, in un gioco di scaricabarile all’ombra del Cremlino.

L’intelligence russa è dunque in difficoltà. In un certo senso, a prescindere, il caso Fsb-Ucraina ne testimonia la vulnerabilità. Ma sul fronte operativo, diffondere i nomi decontestualizzati di una serie di agenti non facilmente rintracciabili non sposta la capacità d’azione e non è certo sapere quanti agenti, in tutta Europa, siano stati eccessivamente bruciati. Il confine tra propaganda di guerra, regolamenti interni alla Russia, infowar e realtà effettiva è, ora più che mai, estremamente labile.

Estratto dell’articolo di Mar. Ven. per “il Messaggero” il 2 aprile 2022.  

[…] L'intento del governo di Kiev è pure quello di smantellare possibili reti di fiancheggiatori dell'ex presidente filo-russo Yanukovich, che può tuttora contare su alti funzionari in settori vitali dello Stato e aspetta soltanto il momento di rientrare nella capitale, sostenuto dalle truppe di occupazione, per prendere il posto di Zelensky.

In tutto il Paese, sarebbe stato sventato il tentativo di rovesciare le autorità locali attraverso un'azione coordinata di unità di sabotatori filo-russi. Epurazioni sono avvenute del resto anche in campo russo, con defenestrazioni al vertice sia dei servizi d'Intelligence esterni con competenza sull'area ex Urss, accusati di aver sottovalutato le forze ucraine, sia nella Rosgvardia, la Guardia nazionale creata da Putin e attiva in questi giorni nell'invasione dell'Ucraina.

È di ieri la notizia, rilanciata e confermata dai segugi del sito Bellingcat, anche dell'arresto di un dipendente del gigante del food delivery russo, Yandex Food, che sarebbe riuscito a violare la banca dati del sito di consegna del cibo ripercorrendo gli ordini arrivati addirittura da agenti dei servizi segreti e militari russi direttamente nei loro uffici. In questo modo era possibile, oltre a conoscerne i gusti culinari, recuperare i molto più importanti dati personali, compresi gli indirizzi di casa e le targhe delle automobili, e in alcuni casi il traffico telefonico. Quindi l'attività spionistica.

Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 2 aprile 2022.  

«Non ho tempo adesso di occuparmi dei traditori. Ma presto saranno tutti individuati e puniti». Volodymyr Zelensky li ha chiamati proprio così i due generali silurati nel suo comunicato inusualmente lungo diffuso tardi l'altra sera: «traditori» e per giunta «militari e alti ufficiali che non sanno decidere dove sia la loro patria, che violano il giuramento di fedeltà al popolo ucraino e non difendono la sua libertà e indipendenza».

Sembra un fulmine a ciel sereno nel pathos di patriottica unità contro il nemico comune che da sei settimane ha serrato i ranghi ucraini, anche se in verità la caccia a «spie e traditori» e il clima di sospetti generalizzati non hanno fatto che crescere con il protrarsi della guerra. I due alti ufficiali sono Naumov Andriy Olehovych, ex capo della Sicurezza Interna nazionale, e Kryvoruchko Serhiy Olexandrovych, ex capo dei servizi d'informazione (Usbu) per la regione di Kherson, quest' ultima presa dai russi tre settimane fa, ma dove adesso le truppe ucraine stanno contrattaccando. 

Due «ex» in verità, ma pare che avessero ancora forti influenze sulla macchina bellica.

Durante tutta la giornata i portavoce della presidenza non hanno fornito nessun'altra informazione, non si conoscono le circostanze delle accuse. 

Sia i social che i media nazionali sono estremamente parchi di dettagli, si limitano a riportare la nota ufficiale. Il commento che va per la maggiore è che i due non sarebbero agenti al servizio di Mosca, ma piuttosto ufficiali di vecchio stampo che nella giovinezza avevano servito nell'esercito sovietico prima del crollo dell'Urss e adesso faticano a stare al passo con i ritmi e gli obbiettivi dei nuovi ufficiali cresciuti e addestrati dopo la guerra del Donbass e della Crimea nel 2014, formati dalle accademie britanniche e statunitensi. Va aggiunto che le forze armate ucraine stanno ora passando da una fase iniziale di assetti difensivi ad una molto più dinamica volta a contrattaccare attivamente ed in questa logica vengono eliminati gli ufficiali incapaci di stare al passo.

Ma non è neppure escluso che il problema sia molto più grave e vada inquadrato nel contesto più generale di quella che viene chiamata ovunque «la caccia ai sabotatori».

Il tema l'abbiamo incontrato in tutte le città visitate: da Leopoli, a Kiev e nei villaggi attorno, nelle stazioni ferroviarie e nei punti di interesse nazionale e anche qui a Kharkiv. 

Nasce dalla convinzione generalizzata nella popolazione e tra i quadri dirigenti politici e militari per cui gli elementi più filorussi del Paese potrebbero attivarsi come quinte colonne della forza d'invasione. Praticamente non c'è giornalista locale o straniero che non sia stato fermato, alcune volte anche brutalmente, dai soldati o dai volontari della protezione civile con la richiesta di mostrare i documenti e soprattutto provare di non essere un sabotatore russo.

Spesso siamo stati costretti a cancellare foto e video, che, secondo gli ucraini, una volta messi in rete potrebbero aiutare le artiglierie russe ad individuare gli obiettivi da colpire. Del resto, tali precauzioni nascono da fatti concreti. Durante i primi giorni della battaglia per la capitale, quando le teste di cuoio russe erano attestate all'aeroporto di Hostomel, cellule di combattenti russi erano riuscite a causare il caos a colpi di mitra e bombe a mano quasi sino a Maidan. E i responsabili della Difesa fanno sapere di avere messo fuori combattimento 20 cellule nemiche, oltre a 350 agenti arrestati in tutto il Paese dal 24 febbraio.

Da iltempo.it il 3 aprile 2022.

È stato fermato mentre cercava di lasciare l’Ucraina illegalmente un generale di riserva dei servizi segreti ucraini, l’Sbu. L’alto ufficiale - ha riferito l’ufficio investigativo nazionale - è stato fermato a un valico di frontiera con l’Ungheria dopo aver mostrato ai funzionari documenti falsi che lo definivano non adatto al servizio militare. L’ufficiale, che aveva definito il suo quadro come quello di soldato semplice, è stato arrestato.  

La notizia giunge dopo l’annuncio del presidente Volodymyr Zelensky di aver allontanato dal servizio due generali di brigata della Sbu. «Non ho tempo per trattare con i traditori», ha detto Zelensky, elogiando gli sforzi di altro personale della Sbu durante la guerra.

Davide Arcuri per “il Messaggero” il 3 aprile 2022.  

«Diamo la caccia ai sabotatori russi, ne abbiamo presi 26 dall'inizio dell'invasione ma la minaccia rimane costante». La Special unit investigation della polizia di Kharkiv controlla il territorio cittadino giorno e notte nel tentativo di stanare gli infiltrati russi che da prima dell'invasione si mescolano tra i residenti con un solo obiettivo: facilitare l'invasione delle truppe di Mosca. Abbiamo seguito la Sui durante un venerdì notte di pattugliamento per capire che clima si respira durante il coprifuoco di Kharkiv.

L'oscuramento scatta alle otto di sera, tutte le luci delle abitazioni devono essere spente e i cittadini barricati dentro casa: ogni persona trovata a girare per la città senza autorizzazione speciale da parte dell'esercito sarà considerata una minaccia alla sicurezza dell'Ucraina. Il pattugliamento inizia intorno alle 22, il comandante Andry impartisce le ultime istruzioni ai suoi uomini prima dell'inizio delle operazioni. 

«Abbiamo il totale controllo del territorio cittadino - spiega indossando un passamontagna per proteggere la sua identità - Dobbiamo far rispettare il coprifuoco e le leggi marziali entrate in vigore all'inizio dell'invasione». Ordini impartiti, può iniziare il nostro viaggio nella città fantasma. Un clima spettrale tra strade vuote e buio totale, edifici distrutti dai bombardamenti e il silenzio interrotto soltanto dai colpi d'artiglieria.

La missione è sempre la stessa, scovare i sabotatori che spesso si muovono di notte: «Il loro obiettivo principale è distruggere le nostre infrastrutture strategiche». Reti elettriche, torri di comunicazione, ma anche sistemi del gas che da un momento all'altro smettono di funzionare. Nessun guasto, nessun incidente, ma veri e propri sabotaggi a regola d'arte in grado di mettere in ginocchio queste infrastrutture anche per diverse settimane. E poi ci sono le geolocalizzazioni: «Inviano informazioni al nemico su quello che accade in città: le posizioni dei nostri soldati, delle scuole e delle folle di persone da colpire con i bombardamenti». 

Come in ogni guerra le spie giocano un ruolo fondamentale. Sapere con precisione dove si trova un sindaco, un generale o anche solo un avamposto militare può avere un ruolo strategico determinante. Il comandante Andry racconta che «per marcare gli obiettivi usano dispositivi elettronici, vernici speciali e ovviamente i droni». 

L'unico metodo per le forze speciali è fermare e controllare qualsiasi persona sospetta. Ci spostiamo nell'area a sud di Kharkiv, è passata da poco la mezzanotte, un uomo sospetto si nasconde al passaggio della volante: un segnale inequivocabile per gli agenti della Sui. L'allerta è massima, la squadra si innervosisce subito e scatta l'identificazione. Dopo qualche minuto di tensione passa l'allarme: si tratta di uomo ucraino anziano, in evidente stato d'ebrezza, che viene caricato in macchina e portato in caserma. Passerà la notte in galera per aver violato il coprifuoco. «Per fortuna non ci sono tante persone come lui - commenta Andry - la maggior parte dei cittadini capisce la situazione e rispetta le regole». 

L'IRRUZIONE Passa qualche ora e gli agenti sono chiamati a un nuovo intervento. La Sui fa irruzione in una palazzina a sud di Kharkiv, i condomini hanno segnalato la presenza di sconosciuti nel palazzo e hanno chiamato la polizia, potrebbe essere un covo di sabotatori. Arrivati davanti all'appartamento sospetto i classici tre pugni alla porta: «Polizia, aprite».

Gli agenti caricano tutti contemporaneamente i kalashnikov, è il segnale che stanno per sfondare la porta. La squadra fa irruzione nel monolocale a fucili spiegati: «Tutti a terra». In totale sei ragazzi e tre ragazze vengono arrestati. Nessun sabotatore ma solo una festa tra giovani in barba alle leggi marziali riguardanti il coprifuoco e l'utilizzo di alcolici. «Siamo in guerra e il nostro compito è far rispettare la legge - conclude il capitano - abbiamo dovuto arrestarli».

Estratto dell’articolo di Francesco Semprini per “la Stampa” il 3 aprile 2022.

[…] Nella cabina di regia della «special investigation unit», è raccolto un manipolo di uomini con giubbetti antiproiettile blu e passamontagna. Assieme a loro ci sono alcuni militari, fanno da raccordo con l'esercito per coordinare le operazioni.

«L'attività dei sabotatori è stata rilevante sin dai primi giorni della guerra», spiega uno degli agenti senza volto. 

[…] «Spesso sono i cittadini a darci una mano, le loro segnalazioni sono preziose», racconta uno degli agenti, altre volte sono indicazioni di intelligence o controspionaggio militare, oppure le informazioni ottenute durante gli interrogatori dei prigionieri. […]

Umberto Rapetto per infosec.news il 4 aprile 2022.

Il Direttorato per l’Intelligence del Ministero della Difesa ucraina ha diffuso attraverso Internet i dati personali di oltre seicento ufficiali che risulterebbero in forza al celeberrimo FSB. La lunga lista include nomi e cognomi, luogo e data di nascita, indirizzo, numero di telefono, SIM card a disposizione, numero di targa delle auto di proprietà, riferimenti del passaporto.

Le informazioni sono state rese di dominio universale sul sito web del Servizio Segreto ucraino con l’indicazione “Dipendenti dell’FSB russo coinvolti nelle attività criminali dell’aggressione all’Europa”. Non accontentandosi di aver piazzato online i riferimenti personali dei “nemici”, il Ministero della Difesa ha “linkato” la lista sulla propria pagina Facebook richiamando l’attenzione degli utenti del social network scrivendo “Ogni cittadino europeo dovrebbe conoscere i loro nomi!”. 

E Twitter è stato l’amplificatore “naturale” della rivelazione di una così delicata rubrica. Tutte le persone coinvolte in questo terribile “leak” risultano residenti alla Lubianka, quartier generale dell’FSB. Difficile valutare l’attendibilità della lista e al momento non ci sarebbero stati commenti o smentite. Sennò che Servizi Segreti sarebbero mai…Tra le tante curiosità ce n’è una segnalata da The Times. Uno di questi agenti russi avrebbe un account su Skype dal bizzarro nome “jamesbond007”.

Zelensky, chi sono i due generali traditori fatti saltare dal premier: "Infiltrati per volontà di Putin". Libero Quotidiano l'1 aprile 2022.

I traditori si infiltrano ovunque, anche a Kiev, dove Volodymyr Zelensky ha fatto cadere due teste. Si tratta di Naumov Andriy Olehovych e Serhiy Oleksandrovych. Ad annunciare il "licenziamento" dell'ex capo del dipartimento principale del servizio di sicurezza interno e del fu numero uno del servizio di sicurezza nella regione di Kherson è stato lo stesso presidente ucraino. 

"Secondo l'articolo 48 dello statuto disciplinare delle forze armate dell'Ucraina - si legge nella nota diffusa dal presidente ucraino -, quei militari tra gli alti ufficiali che non hanno deciso dove sia la loro patria, che violano il giuramento militare di fedeltà al popolo ucraino per quanto riguarda la protezione del nostro stato, la sua libertà e l'indipendenza, saranno inevitabilmente privati di alti gradi militari". Prima di loro era stato scoperto Denis Kireev, spia di Vladimir Putin che aveva addirittura partecipato al primo round di negoziati con la Russia. Per lui la "punizione" è stata delle peggiori: la morte. 

I cosiddetti "traditori" infatti tentato di fornire dall'interno dati sensibili al Cremlino. Aiuti arrivano anche dai "sabotatori", ossia coloro che si infiltrano tra i civili ucraini per informare l'esercito del fronte opposto sui sistema di sicurezza messi in atto per fermare i soldati. Gli 007 sono arrivati alla conclusione che molti di loro si erano insediati nei luoghi sensibili già da mesi, magari entrando con ambulanze e vetture impegnate nell'assistenza dei feriti. Per questo Zelensky deve mantenere altissima la guardia e circondarsi solo di pochi fedelissimi. Sempre che questi non siano agenti russi sotto mentite spoglie. 

Russia, la "pesca" degli 007 traditori: come stanno comprando gli agenti segreti. Libero Quotidiano il 26 marzo 2022.

Russia e Stati Uniti stanno giocando anche una partita sul terreno dello spionaggio. Gli Stati Uniti del resto sapevano tutto sulla preparazione dell'invasione dell'Ucraina e Vladimir Putin vuole sapere chi ha passato queste informazioni a Washington. Lo zar avrebbe già silurato alcuni dirigenti del Quinto Dipartimento perché hanno fallito nell'operazione clandestina per neutralizzare Zelensky in modo da favorire un crollo a Kiev. Dopo questo flop, riporta il Corriere della Sera, sono passati a una seconda missione: trovare reclute tra i profughi. Lo spionaggio di Mosca, si legge nell'articolo, "si muove poi sui canali di rifornimento bellico per le truppe di Kiev - nell'ovest dell'Ucraina - e verso i Paesi dell'Alleanza. Per ora sono ombre, tuttavia molti si aspettano atti di sabotaggio".

Ma anche Washington si dà alla pesca grossa. Come ha spiegato sul Wall Street Journal un ex reclutatore della Cia, Douglas London, che per 34 anni ha lavorato al servizio clandestino dell'agenzia, "lo spionaggio è un'industria predatoria, e in questo momento c'è sangue nell'acqua". E l'intelligence americana, grazie agli errori di Putin che spingono la gente a tradire, sta cercando di reclutare spie all'ambasciata russa di Washington.

Per farlo utilizza "inserzioni pubblicitarie sui social in russo e geolocalizzate con grande precisione nell'area della rappresentanza diplomatica di Mosca". Per convincerli a parlare ricordano loro l'episodio di Putin che umilia il capo dell'intelligence Sergey Naryshkin: "Noi siamo pronti ad ascoltare". E lo spot che compare sui telefonini "porta alla pagina del programma di controspionaggio dell'Fbi e si visualizza soltanto nel perimetro dell'ambasciata". 

Da iltempo.it il 31 marzo 2022.

Dopo appena sette mesi dall’inizio del suo mandato, il capo dell’intelligence militare francese, Eric Vidaud, è stato licenziato per aver svolto un lavoro troppo poco efficiente a proposito dell’invasione russa in Ucraina. Secondo i media francesi, a giustificare la decisione sono la «mancanza di conoscenza del soggetto» da parte del generale e i «briefing insufficienti». 

I primi segnali di scontentezza verso l’operato di Vidaud sono apparsi all’inizio di marzo, poco dopo lo scoppio del conflitto, quando il capo di stato maggiore dell’Esercito Thierry Burkhard ha parlato di divergenze tra servizi segreti Usa e francesi riguardo alla possibile scelta del Cremlino di invadere l’Ucraina. 

Secondo Bukhard, mentre gli americani sostenevano a ragione e già da settimane che i russi avrebbero attaccato, l’intelligence francese pensava che la Russia valutasse altre opzioni volte a far cadere il presidente Volodymyr Zelensky, dato che la guerra avrebbe avuto dei costi mostruosi. 

«Il modo in cui hanno agito i servizi segreti americani ha mostrato che l’intelligence tornerà a essere un mezzo importante di comunicazione politica», ha commentato Alexandre Papaemmanuel, professore all’Institut des ètudes politiques (IEP) di Parigi.

Alcune fonti militari vicine al dossier hanno spiegato però che «non si può riassumere questo cambiamento in corsa con la sola situazione ucraina. La decisione riguarda anche la volontà di riorganizzare il servizio».  Vidaud era stato nominato nell’estate del 2021, ma dopo una serie di trattative criticate all’interno della comunità militare. Al suo posto potrebbe arrivare ora il generale Jacques de Montgros.

Le falle dell’intelligence russa in Ucraina. Andrea Muratore su Inside Over il 31 marzo 2022.  

Il “torneo delle ombre” della guerra in Ucraina è anche partita di spie e insidie reciproche tra la Russia e i suoi avversari occidentali, che ha visto per ora Mosca compiere diversi errori nella sfida di intelligence, potenzialmente in grado di pregiudicare diversi obiettivi operativi.

I cinque errori di  Putin in Ucraina

I servizi segreti occidentali, e quelli di Regno Unito e Stati Uniti in primo luogo, hanno fornito sostegno e aiuto all’Ucraina per avvantaggiarsi sotto il profilo operativo e informativo. Dai primi giorni dell’offensiva c’è la consapevolezza che le spie e gli apparati d’intelligence occidentali stanno contribuendo in modo occulto al drastico rallentamento di Mosca fornendo informazioni satellitari dalla base australiana di Pine Bay, geolocalizzando le colonne russe e sfruttando anche l’esposizione di molti comandi militari russi per “guidare” il tiro dei soldati ucraini sugli alti gradi dell’esercito di Vladimir Putin.

Meno è stato detto delle deficitarie condizioni operative in cui si è mossa l’intelligence russa. Divisa innanzitutto dalle rivalità intestine sugli obiettivi da conseguire. A tal proposito l’analista Francis Walsingham su StartMag ha messo in particolar modo sotto la lente d’ingrandimento il fatto che “le analisi fatte dall’SVR (diretto da Sergei Narychkin) sia sul contesto geopolitico ucraino che europeo si sono rivelate sbagliate”, Vladimir Putin non sembrava soddisfatto, come dimostra la messa alla gogna di Naryshkin prima della guerra. Purghe interne hanno colpito il servizio interno, il Fsb, “al cui vertice vi è Alexander Bortnikov”, in seno al quale c’è l’ipotesi di una fronda di figura ostili all’invasione. Il Fsb “ha agito in modo autonomo servendosi delle forze speciali Spetsnaz e dei mercenari della Wagner per catturare senza successo Volodymyr Zelensky”, e assieme al Svr è ritenuto deficitario sul piano dell’analisi di scenario riguardo le capacità di resistenza dell’Ucraina. L’intelligence esterna, il Gru, ha lanciato imponenti cyberattacchi alle infrastrutture critiche ucraine che, col senno di poi non si sono rivelate decisive.

Il “secolo dell’intelligence”

Le Figaro ha posto l’accento sul fatto che “Gru, Fsb e altri servizi non sembrano collaborare” e che ” difficoltà russe nell’individuare obiettivi a terra per i loro lanci di missili sollevano anche dubbi sulla posizione di queste reti di intelligence” schierate dentro e ai confini dell’Ucraina. Di fatto il Fsb si occupa in questa fase di sicurezza interna e controspionaggio, il Gru monitora il sostegno alle manovre, schiera truppe d’élite per raccogliere informazioni da dare ai comandi militari, i pretoriani di Putin della Guardia Nazionale Russa invece preisidano i territori occupati. Ma le intelligence paiono incapace di muoversi divise e colpire unite. Anzi, sembrano pestarsi reciprocamente i piedi.

Il punto di fondo è che il cuore dell’impero resta sempre e comunque il Cremlino. Centrale di propulsione e comando di apparati, forze armate, intelligence. Decisore di ultima istanza della vita e della morte (metaforica) delle carriere degli ufficiali, che inesorabilmente tendono piuttosto a dire a Putin ciò che lo Zar vuole sentirsi dire o sentir emergere dalle principali dinamiche riguardanti la situazione geostrategica. Si crea un meccanismo di selezione che premia, inesorabilmente, i falchi a scapito non tanto delle colombe, quanto piuttosto dei realisti. La marginalizzazione del generale Gerasimov e di Sergej Lavrov nei primi giorni di guerra lo ha plasticamente dimostrato. L’inferiorità tecnologica in campo di signal intelligence rispetto alle controparti occidentali, la cui mano guida le mosse ucraine, ha fatto il resto.

L’intelligence non è stata in grado di dare profondità strategica alle azioni del Cremlino, nota la testata francese. E sui servizi russi spunta anche l’ombra della presenza di talpe e traditori interni. Negli scorsi giorni i servizi ucraini hanno denunciato la presenza di 620 agenti del Fsb che sarebbero responsabili di attività criminali in Europa: l’elenco completo delle spie è stato reso pubblico sul sito web della direzione capo dell’intelligence dell’Ucraina e ha presto fatto il giro dei media. Non è verificabile l’esistenza effettiva di queste persone e ancor meno la loro appartenenza a apparati di sicurezza russi, ma il segnale è chiaro: anche sul controspionaggio Mosca batte in ritirata. E i sospetti di talpe e rivalità interne possono pregiudicarne la futura attività. In un gioco di specchi che rischia di mettere in crisi una base operativa del potere russo in cui Putin appare sia un uomo solo al comando sia un leader che deve stare attento alla stessa capacità di informarlo correttamente dei suoi sottoposti. 

I “sabotatori” nel mirino di Kiev: caccia di spie russe casa per casa. Federico Giuliani su Inside Over il 25 marzo 2022.

Leopoli è uno dei pochi bastioni ucraini ad essere ancora intatti. Certo, i missili russi hanno lambito anche alcune aree della “capitale” occidentale dell’Ucraina, ma niente a che vedere con quanto accaduto a Kiev, Kharkhiv o addirittura Mariupol. L’allerta è comunque alta perché anche qui, di tanto in tanto, sono solite suonare le sirene anti aereo.

A guidare la resistenza della comunità locale troviamo Andrij Sadovyj, sindaco di Lviv (Leopoli in ucraino) che deve fare i conti tanto con le centinaia di migliaia di suoi concittadini riguatisi da queste parti, quanto con l’ombra del nemico. Già, perché le forze russe possono assumere molteplici forme: quelle dei normali militari ma anche quelle di “sabotatori” non meglio identificati pronti a colpire dall’interno della città.

“Nei primi giorni del conflitto ricevevamo 15 mila segnalazioni su possibili sabotatori sul nostro territorio. Targhe sospette, facce sospette, movimenti sospetti. Adesso siamo a circa 1500 segnalazioni”, ha spiegato Sadovyj, come sottolineato da La Stampa. Ma chi sono i misteriosi sabotatori? In una parola: spie al soldo del Cremlino, infiltrati inviati in Ucraina, ben prima dello scoppio delle ostilità, per catturare quanti più dettagli possibili – compresi obiettivi sensibili e notizie delicate – da inoltrare ai generali russi.

L’ombra dei sabotatori

Qualche giorno fa Sadovyj ha scritto su Facebook un lungo post nel quale ha raccontato un episodio avvenuto nella sua Leopoli. Accanto all’immagine raffigurante tre mezzi carbonizzati, con un’evidente lettera Z (simbolo russo in questa guerra) disegnata sulle fiancate, ecco una didascalia emblematica. “Le unità dell’ottantesima brigata d’assalto delle forze armate ucraine hanno distrutto con successo un gruppo nemico di sabotaggio e ricognizione“, ha scritto il primo cittadino di Lviv.

Nella ricostruzione offerta dal sindaco, i sabotatori avrebbero utilizzato vari tipi di trasporto civile per compiere “sabotaggi e provocazioni nelle nostre città e villaggi retrostanti”. “Tuttavia, sono stati individuati e distrutti con successo dai paracadutisti ucraini”, ha concluso, ancora, Sadovyj. Lo scorso 19 marzo, le forze militari ucraine hanno fatto sapere di aver arrestato a Kiev 127 sabotatori, compresi gli appartenenti a 14 gruppi di infiltrati, dall’inizio del conflitto.

A caccia di spie

Dal momento che i cosiddetti sabotatori agiscono nell’ombra, lontano da riflettori e occhi indiscreti, l’esercito ucraino ha deciso di ricorrere alle maniere forti. Le guardie volontarie territoriali sono in azione giorno e notte per stanare le spie. Soltanto nella zona di Leopoli se ne contano poco meno di 22mila. Il loro compito: verificare ogni singola segnalazione fornita dai cittadini e stanare il nemico casa per casa.

Le persone che non sono munite di un accredito firmato dall’esercito ucraino sono guardate con sospetto. Come se non batasse, i sabotatori potrebbero pure avere le sembianze di uno dei numerosi rifugiati accorsi a Lviv. Un sabotatore, hanno spiegato le autorità cittadine, non per forza gira armato. Può anche essere un soggetto impegnato in attività di intelligence in varie forme.

Molti di loro sono già stati catturati. Altri sono nel mirino dei volontari e potrebbero presto essere imprigionati. Anche perché questi fantasmi sono pronti ad agire, non solo a livello di spionaggio, ma anche con gesti ben più pericolosi. Pochi giorni fa gli ufficiali del controspionaggio militare ucraino hanno arrestato a Uzhgorod un gruppo di sabotatori russi che stava pianificando l’assassinio del presidente Volodymyr Zelensky. Ecco perché la caccia alle presunte spie russe continua casa per casa.

"Sono agli ordini di Mosca": il caso delle 45 "spie" scoperte in Europa. Massimo Balsamo su  Il Giornale il 23 marzo 2022.

La Polonia mette nel mirino 45 cittadini russi, presenti nel Paese con la copertura diplomatica ma sospettati di spionaggio. Questo quanto reso noto da Stanislaw Zaryn, portavoce del ministro del coordinatore dei servizi speciali. Per le persone indicate nell’elenco predisposto dall’Agenzia di sicurezza interna è stata richiesta l’espulsione urgente dal Paese.

Secondo quanto ricostruito dalle autorità polacche, i cittadini russi presenti nella lista avrebbero agito nei circoli diplomatici lavorando a tutti gli effetti per conto dell’intelligence del Cremlino. Martedì l’ambasciatore russo in Polonia è stato convocato presso il ministero degli Affari esteri per analizzare la situazione e sono attese novità a stretto giro di posta, come confermato dal portavoce del governo Piotr Muller.

Interpellato dalla stampa locale, Stanislaw Zaryn ha sottolineato che “i servizi segreti russi stanno portando avanti con forza l'offensiva e agiscono in modo aggressivo contro la Polonia”. Un'azione mirata a minacciare gli interessi e la sicurezza di Varsavia, l'analisi del portavoce: un vero e proprio pericolo per la stabilità del Paese e dei partner internazionali. Nell’elenco stilato dalle autorità è presente anche un ufficiale dei servizi del Cremlino.

Un aggiornamento degno di nota nelle ore cruciali della crisi in Ucraina, che arriva qualche giorno dopo l’arresto di un cittadino russo a Varsavia, accusato di aver effettuato delle attività di spionaggio per conto del Servizio di intelligence esterna russo. Sottoposto a custodia cautelare per un periodo di tre mesi, l’uomo ha lavorato in uno degli uffici governativi di Varsavia e avrebbe copiato e trasferito dati agli agenti dell'Svr. “Il materiale raccolto dall’Agenzia per sicurezza interna indica che quest’uomo ha agito per conto dell’intelligence straniera”, il commento di Stanislaw Zaryn riportate dal portale Interia Wydarzenia: “Sono in corso le indagini del caso, non escludiamo ulteriori azioni”.

Non è tardata ad arrivare la risposta della Russia. “Ci sarà una reazione” all’espulsione dei 45 diplomatici dalla Polonia: le parole dell'ambasciatore russo a Varsavia, Sergej Andrejev, dopo la sua convocazione al ministero degli Affari esteri polacco. L’uomo del Cremlino ha evidenziato che ci sarà un principio di reciprocità e verranno espulsi i diplomatici polacchi presenti a Mosca. Andrejev ha aggiunto che il Paese guidato da Mateusz Morawiecki “non darà l’assenso a sostituire” i diplomatici espulsi.

Registrata anche la presa di posizione di Minsk. Le autorità bielorusse hanno annunciato l’espulsione di diversi diplomatici ucraini. Prevista la chiusura del consolato generale a Brest: “L'ambasciata ucraina continuerà a lavorare in Bielorussia nel formato 1+4, cioè l'ambasciatore e quattro membri dello staff”, la conferma del portavoce del ministero degli Esteri bielorusso, Anatoly Glaz.

Andrea Marinelli e Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 22 marzo 2022.

È tutto scritto, dichiarato e diffuso per il pubblico. Quando il 16 marzo la Casa Bianca ha autorizzato nuove forniture belliche in favore dell'Ucraina, all'ultima riga della «lista della spesa» c'erano quattro parole: immagini satellitari e lavoro d'analisi. 

È un'annotazione fugace, riempita però, qualche giorno dopo, dalle dichiarazioni in chiaro di alti funzionari.

La condivisione dell'intelligence con gli ucraini ha assunto caratteristiche «rivoluzionarie» e senza precedenti, ha detto il generale Scott Berrier, direttore della Dia, lo spionaggio militare, durante un'audizione al Congresso. 

Poi è entrato in scena il suo collega, Paul Nakasone, responsabile del Cyber Command e della Nsa, l'agenzia che tutto ascolta: nei miei 35 anni di servizio - ha sottolineato - non ho mai visto una collaborazione migliore nel condividere ciò che sappiamo: l'intelligence americana - spiega - osserva e reagisce rapidamente ai tentativi di fare disinformazione. 

Le imbeccate Usa

«Abbiamo continuamente condiviso informazioni dettagliate con il governo ucraino», aveva detto a inizio marzo Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca. «Queste informazioni hanno permesso loro di capire i piani russi e sviluppare una risposta militare». 

La collaborazione con l'Ucraina, iniziata nel 2015, è diventata nel tempo molto efficace. Le spie statunitensi hanno anticipato da mesi quello che sarebbe poi accaduto, ossia l'invasione: un flusso di informazioni costante, mai visto prima.

Poi, una volta iniziato il conflitto, hanno reagito su più livelli: la ricognizione aerea elettronica e i satelliti hanno raccolto i «segnali» russi, intercettato le comunicazioni, sorvegliato a distanza - ma da vicino, grazie agli strumenti - le mosse dell'Armata. Uno sforzo al quale partecipano velivoli di diversi Paesi, Italia inclusa. 

Quindi hanno passato agli ucraini coordinate precise, avvertimenti, dettagli: secondo alcuni analisti è possibile che numerosi attacchi di precisione condotti dalla resistenza siano avvenuti grazie alle imbeccate preziose arrivate da Washington. «L'ingrediente segreto», ha detto sempre Nakasone, è l'abilità di lavorare fuori dal Paese, di «vedere cosa sta facendo il nostro avversario».

Chissà che i numerosi ufficiali russi caduti al fronte non siano stati centrati dai cecchini locali addestrati in passato dai paramilitari della Cia con un progetto ad hoc iniziato nel 2015. 

La Cnn ha scritto che sarebbe stato anche creato un database dove sono riversate le informazioni più importanti, un archivio digitale al quale i «difensori» hanno un accesso immediato e con una finestra temporale ristretta. Un ruolo importante lo hanno avuto anche le stazioni internet Starlink, i satelliti forniti da Elon Musk che hanno permesso a Kiev di collegarsi in modo stabile alla Rete. 

La raccolta di dati

Il sito The Intercept ha aggiunto che l'intelligence non è grezza, ma già studiata, quindi utilizzabile con maggiore efficacia. Gli Stati Uniti amplificano i dati che gli agenti possono confermare, usando anche un funzionario di collegamento per riferirli agli ucraini, e scartano quelli non confermati.

È un regime sofisticato, che per ora ha permesso a Washington di fornire assistenza evitando di diventare un «combattente attivo» nel conflitto: per questo motivo i droni e gli aerei che effettuano ricognizioni stanno attenti a non entrare nello spazio aereo ucraino. 

A questa missione potrebbe aggiungersi quella sul terreno, affidata a team clandestini. Su questo punto non si possono avere conferme: la linea ufficiale è che non vi sono americani sul terreno, ma sono apparse voci che sostengono il contrario, chiamano in causa forze speciali e le «ombre». 

È il mondo sotterraneo protetto dalle smentite e dalle posizioni di rito che escludono il coinvolgimento diretto. La Storia ha spesso dimostrato quale fosse poi la realtà. 

Da ilmessaggero.it il 19 marzo 2022.

Londra punta il dito contro Mosca per le telefonate beffa ricevute da figure chiave del governo Johnson. Il ministro della Difesa, Ben Wallace, e la ministra degli Interni, Priti Patel, sono stati presi di mira da videochiamate di presunti «impostori russi» che si fingevano il primo ministro ucraino, Denys Smihal, con lo scopo di «sottrarre informazioni» utili.

Il ministro Wallace ha parlato di argomenti cruciali con chi l'aveva contattato prima di rendersi conto che dall'altra parte non c'era Smihal ma qualcuno che tentava di imitarlo. La conversazione fra i due è andata avanti per 8-9 minuti. L'impostore ha fatto diverse domande sulla possibile rinuncia di Kiev ad aderire alla Nato e perfino sui potenziali schieramenti di navi da guerra britanniche nel Mar Nero

Le epurazioni del Cremlino. Le purghe di Putin in Russia, lo Zar colpisce i servizi segreti per il ‘fallimento’ ucraino: arrestato generale dell’Fsb. Carmine Di Niro su Il Riformista l'11 Marzo 2022. 

A Mosca tira una brutta aria tra i fedelissimi di Vladimir Putin. Lo Zar del Cremlino avrebbe infatti iniziato le epurazioni tra gli uomini più vicini, colpendo il Servizio di sicurezza federale (Fsb), i servizi segreti russi eredi del Kgb sovietico.

Una mossa che deriva dalla rabbia del leader moscovita per l’esito della campagna militare in Ucraina, che fino ad oggi è risultata infruttuosa e ben diversa rispetto a quanto prospettato delle forze armate a Putin. Lo Zar, come evidenziato giovedì dal direttore della Cia William Burns, è ormai prigioniero delle sue valutazioni sbagliate sul conflitto in Ucraina, che da ‘guerra lampo’ si è trasformato in un pantano.

Da qui la decisione di far ‘saltare le prime teste’, quelle di Sergei Beseda e del suo vice Bolukh. A scriverlo è il giornalista e scrittore Andrej Soldatov, specializzato in inchieste sui servizi russi, una notizia ripresa anche dal giornalista del Financial Times Max Seddon.

“Putin sembra davvero scontento dell’Fsb in Ucraina: ha attaccato il quinto servizio del dipartimento di intelligence estera dell’Fsb”, ha scritto Soldatov. Beseda, il generale a capo del ‘Quinto Servizio’ dell’Fsb, la ‘filiale’ dei servizi segreti specializzata nei Paesi dell’ex Urss, sarebbe stato posto agli arresti domiciliari assieme a Bolukh, una notizia che per ora ovviamente non trova conferme dal Cremlino.

L’arresto di Beseda e Bolukh viene riferito anche dal media indipendente meduza.io, che rivela come dietro la ‘purga’ ci sarebbe l’accusa nei loro confronti di aver deliberatamente fornito notizie errate sulla situazione in Ucraina e rubato denaro destinato ad arruolare agenti e organizzare operazioni sovversive

Beseda, 68 anni, è un pezzo da novanta dell’Fsb con grande esperienza in Ucraina: fu lui infatti a guidare gli sforzi (falliti) da parte Russa di fermare la rivoluzione di Euromaidan nel 2014, nel tentativo da parte del Cremlino di tenere alla guida del Paese il presidente filo-russo Viktor Yanukovich, in predicato di tornare al governo di Kiev in caso di rovesciamento del potere e caduta dell’attuale presidente Volodymyr Zelensky.

Proprio per il suo ruolo nel tentativo di reprimere la rivolta popolare contro il governo Yanukovich, Beseda fu anche inserito nella lista di persone colpite da sanzioni da parte dell’Unione Europea.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

(ANSA il 10 marzo 2022) - Il presidente cinese Xi Jinping è rimasto "turbato" dall'invasione russa dell'Ucraina anche perché "pare che i suoi servizi non lo abbiano avvertito di cosa sarebbe successo". 

Lo ha detto il direttore della Cia, Bill Burns ,in un'audizione alla commissione intelligence del Senato americano. Secondo Burns il leader cinese teme anche "un danno di immagine per la Cina essendo associata alla brutalità dell'aggressione di Mosca" ed è preoccupato per le "conseguenze economiche in un momento in cui il tasso di crescita dell'economia cinese è il più basso degli ultimi 30 anni

Francesco Bechis per formiche.it il 9 marzo 2022.

Si chiama Elena Branson, ha 61 anni, passaporto russo e americano, e per gli 007 di Joe Biden è una spia al servizio del Cremlino. Inizia così la prima spy-story dal sapore di Guerra Fredda da quando è iniziata l’invasione russa in Ucraina. 

A denunciare l’attività sotto copertura di Branson, al secolo Elena Chernykh, è il procuratore Damian Williams alla Corte Federale di Manhattan.

Martedì sera il ministero della Giustizia ha pubblicato la lunga deposizione di Neil Sommers, agente dell’Fbi, che conferma sotto giuramento: Branson opera da vent’anni come agente segreto dei Servizi russi.

Il nome della donna nell’occhio del ciclone giudiziario non dice nulla ai più. È invece noto al circuito diplomatico e consolare russo negli Stati Uniti. Nel 2012 ha fondato il “Centro russo di New York”, una fondazione con l’obiettivo, recita il sito (dormiente da anni), di “celebrare e condividere l’eredità culturale russa”. Diversa è la descrizione che ne dà l’Fbi: “Un centro di propaganda russo”.

Nel frattempo è stata direttrice di un’altra istituzione legata al governo russo, il “Consiglio della comunità russa negli Stati Uniti”, e in questa carica si è distinta per aver coordinato la campagna di promozione al grido “I love Russia” rivolta alla “gioventù americana”. 

Oggi Branson, che è arrivata negli Stati Uniti nel 1999 e li ha lasciati alla volta di Mosca nell’ottobre 2020 per non farvi più ritorno, è accusata di aver lavorato in America come “agente della Federazione russa e del governo di Mosca” violando il Fara (Foreign Agents Registration Act), la legge che prevede l’obbligo di registrarsi al ministero della Giustizia come agenti al servizio di Paesi stranieri.

Per l’ambasciata russa a Washington, che con Branson ha un rapporto risalente nel tempo, si tratta dell’ennesima “caccia alle streghe” che riporta gli Stati Uniti “all’era del Maccartismo”, si legge in una nota. La testimonianza di Sommers, l’agente che da anni segue le mosse della presunta spia di Mosca, sembra però lasciare pochi dubbi.

Da quindici anni a questa parte la vita newyorkese di Branson è apparentemente quella di una vivace promotrice di attività culturali russe. Cene, serate di gala, incontri e conferenze, inaugurazioni, tutte con il patrocinio (e, svela l’Fbi, migliaia di dollari in fondi) del governo russo. 

Nella lunga lista di inviti di peso spunta anche un tentativo, nell’aprile del 2016, di avere come ospite d’onore l’allora candidato presidenziale Donald Trump e la sua famiglia a un torneo di scacchi internazionale a Manhattan. 

Branson non una lobbista qualunque, ma una faccendiera con entrature di peso nel Cremlino, rivendicate di continuo nelle telefonate e chat con i suoi ospiti russi a New York intercettate dagli 007 americani.

Perfino con Vladimir Putin, il presidente russo, e il suo ministro degli Esteri Sergei Lavrov, invitati a più riprese agli eventi “patriottici” messi in piedi dall’alacre agente russo-americana. 

Come il “Congresso mondiale dei compatrioti che vivono all’’estero”, una kermesse organizzata dal ministero degli Esteri russo che ogni anno richiama a Mosca la diaspora all’estero. 

Per il governo russo è un’attività tutt’altro che secondaria. Non è un caso se nel luglio del 2020, tra gli emendamenti che hanno cambiato volto alla costituzione della Federazione russa cancellando, tra l’altro, il limite dei mandati presidenziali, è stata anche inserita la previsione secondo cui il governo “offre sostegno ai compatrioti che vivono all’estero nell’esercizio dei loro diritti […] e nella preservazione della loro identità culturale”.

Branson, insomma, non è una pedina di secondo piano nell’attività dello “sharp power” russo all’estero, per citare una felice rivisitazione della famosa espressione di Joseph Nye. 

Branson e Butina a Mosca

Non a caso, tra una foto e l’altra con diplomatici e accademici russi, gli archivi del web riportano a galla una lunga intervista su Russa Today rilasciata da Branson a Maria Butina, parlamentare russa espulsa dagli Stati Uniti nel 2018 dopo aver confessato di essere una spia al servizio del Cremlino. 

Ma nella lunga e decorata carriera di faccendiera e attivista (vera o presunta) di Branson a New York, riportata nei dettagli nella deposizione dell’Fbi, spuntano anche realtà della diplomazia e della macchina di influenza del governo russo che sono ben note in Italia. 

È il caso del Rossotrudnichestvo, a Roma più conosciuto con il nome di “Centro russo di scienza e cultura”, l’agenzia governativa per la cooperazione internazionale ospitata sotto le volte di Palazzo Santa Croce e cuore pulsante dei movimenti diplomatici russi nella capitale.

Esclusivo. Il dossier del governo ucraino che nel 2021 predisse la guerra con la Russia (in Pdf).

Il ruolo dei super 007 radicati all’estero. Z.Bartucca e D.Shevchenko su recnews.it il 6 Marzo 2022.

Gli spoiler del Libro Bianco”, con prefazione di Zelensky. La diaspora ucraina e il riconoscimento provvisorio delle Repubbliche di Luhansk e Donetsk e le sanzioni personali contro i funzionari russi si sono già avverati. Perché il governo di Kiev, già allora, ne sapeva più di tutti?

Il “Libro Bianco” – UA 2021

Nel 2021 il “Біла книга” – il libro bianco istituzionale pubblicato dal governo ucraino con prefazione del presidente Volodymir Zelensky – era poco più che un bollettino ufficiale, una dispensa informativa a uso interno. Celebrava la potenza di Kiev, le sue velleità europeiste, i collegamenti con la NATO e l’Unione europea e un servizio di spionaggio tecnologicamente avanzatissimo con tentacoli ovunque, in Patria come all’estero. Una sorta di NSA dell’Est. Nel mezzo, la narrazione di un possibile conflitto con la Russia raccontato nei minimi particolari con straordinarie doti di preveggenza: le presunte cause interpretate da Palazzo Mariinskij, gli agenti provocatori, la diaspora degli ucraini e uno Stato costretto a rinunciare alla sua Ortodossia e alle tradizioni che ricordano i legami con la Russia: “Il mondo di Neanderthal che il regime del Cremlino impone oggi all’umanità” per “fermare il progresso euro-atlantico dell’Ucraina”, secondo il capo degli 007 ucraini Valery Kondratyuk. Settantaquattro pagine che servono anche a dichiarare guerra a Putin proprio nel periodo cruciale in cui Vladimyr Medinsky – ex ministro della Federazione Russa oggi mediatore nel conflitto che si è sviluppato – si sedeva al tavolo con la NATO chiedendo lo stop di ogni intromissione nei territori dell’ex Unione Sovietica. Quelli che per trattato non dovevano mai essere valicati. Un documento che assume tanto più valore dopo il rogo degli archivi operato negli scorsi giorni da parte della SBU, la Sicurezza nazionale ucraina, proprio mentre i mezzi russi iniziavano la smilitarizzazione di alcune città e la presa dei laboratori sperimentali.

“In futuro ci sarà la formazione di un nuovo ordine mondiale”

“Nei prossimi anni, lo sviluppo della situazione nel mondo sarà determinato dalla formazione di un nuovo ordine mondiale. Le conseguenze economiche della pandemia di COVID-19 apriranno la strada all’escalation del conflitto USA-Cina, catalizzeranno attori globali e regionali per la leadership geopolitica, l’accesso alle risorse naturali (energia, acqua potabile, terreni agricoli, ecc.) e stabiliranno anche il controllo sulle principali vie di trasporto e canali di comunicazione”. Si apre con questo scenario il bollettino istituzionale del 2021 del governo ucraino. Non mancano i riferimenti al mondialismo – considerato inevitabile e anzi accettato – e a un conflitto tra Stati Uniti e Cina che, dicono gli analisti oggi, rischia di scoppiare proprio a partire dall’esacerbazione del conflitto tra Russia e Ucraina in forza dell’interventismo ingiustificato della NATO. Il governo di Zelensky già allora, inspiegabilmente, ne sapeva più di tutti. “Nel tempo – scandisce il rapporto – i Paesi europei potrebbero perdere un po’ di attenzione al conflitto russo-ucraino, e alcuni di loro prenderanno provvedimenti per liberalizzare le relazioni con la Russia, ma i Paesi europei vicini perseguiranno una politica amichevole nei confronti dell’Ucraina e sosterranno le sue aspirazioni euro-atlantiche“.

Il dispiegamento di armi e basi NATO al confine dell’Ue?

“Fobie della Russia imposte ai Paesi europei” Singolare è poi l’interpretazione che il governo di Kiev dà del “dispiegamento delle ultime armi d’attacco offensive vicino ai confini dell’Ue” con l’Ucraina. Il riferimento sembra essere alle basi NATO che nell’ultimo decennio si sono andate moltiplicando. Una minaccia ibrida che non ha risparmiato il territorio conteso della Crimea e snodi cruciali come il porto di Odessa, il Mar Nero e il Mar d’Azov. “Fobie” di Putin per il governo di Zelensky, che a pagina 13 definisce la NATO “la principale organizzazione di difesa in Europa”.

“Dalla Russia non sono previste grandi iniziative militari contro i nuovi membri della NATO, ma gli incidenti nell’aria, nel mare e nel cyberspazio continueranno a minacciare l’escalation del conflitto Russia-NATO a causa di scontri non intenzionali. La NATO rimarrà la principale organizzazione di difesa in Europa. L’Alleanza dimostrerà una politica della porta aperta per l’Ucraina e aumenterà la cooperazione con il nostro Paese nel rafforzamento del settore della sicurezza e della difesa. Tuttavia, la Russia cercherà di bloccare tale cooperazione sia provocando una spaccatura nella società ucraina sull’adesione alla NATO sia indebolendo l’unità dell’Alleanza nell’ammettere l’Ucraina nell’Organizzazione. Aumenteranno le minacce legate ai cambiamenti climatici, gli squilibri negli ecosistemi delle singole regioni, che comporteranno un aumento della migrazione globale, l’esacerbazione dell’accesso a cibo di qualità e sicuro e l’acqua potabile”.

“In Russia ci sarà un trasferimento di potere”

Particolare attenzione nel libro bianco è destinata prevedibilmente anche al presidente della Federazione Russa Vladimir Putin, che secondo Kiev si preparerà a lasciare il posto a causa delle presunte condizioni di salute cagionevoli. Il rapporto prevede la destituzione di Putin – non è chiaro con quali mezzi e per mezzo dell’intervento di chi – ma non la fine del “putinismo”. “Il contesto internazionale generale – si legge nel dossier promosso dal governo ucraino e dagli 007 ucraini e stranieri – è sfavorevole alla Russia per diversi fattori, tra cui la vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali americane. La Russia sta cambiando tattica in modo flessibile nella direzione ucraina, ma l’obiettivo strategico rimane lo stesso: impedire un’Ucraina orientata ad Occidente. Così, sullo sfondo di problemi sempre più evidenti con la salute di Putin, la notevole difficoltà per lui di svolgere fisicamente le funzioni pubbliche di Capo di Stato in Russia ha de facto iniziato il periodo di trasferimento del potere. Indipendentemente dall’opzione specifica (“Putin è un presidente permanente”, “Putin è il leader della nazione”, “Putin è un tandem”, “Il successore di Putin”, ecc.), lo scenario di base per il medio termine è di mantenere il modello statale del “Putinismo” in Russia, con o senza Putin“.

Anche le sanzioni personali contro i funzionari russi e il riconoscimento di Luhansk e di Donetsk erano stati previsti: “Serviranno a giungere a una soluzione pacifica, poi ci saranno le elezioni”

Il dossier del governo ucraino del 2021 prevede anche il riconoscimento ufficiale – allora piuttosto lontano – dei territori di Luhansk (LPR, Repubblica popolare di Luhansk) e di Donetsk (DPR, Repubblica popolare di Donetsk). Come si ricorderà, la proclamazione dell’indipendenza del territorio e il trattato di mutuo soccorso tra la Russia e le nuove Repubbliche sono stati suggellati al Cremlino il 21 febbraio di quest’anno, e negli intenti della Federazione Russa avrebbero dovuto fermare parte delle ostilità. Poi però sono arrivate le provocazioni militari che russi e ucraini si attribuiscono a vicenda e i primi attacchi del 24 febbraio. Una situazione composita di cui nel 2021 non si poteva avere ancora contezza, e che nessuno – ad eccezione dello staff di Zelensky che ne scriveva apertamente – in Ucraina poteva immaginare. “Sarà riconosciuto – scrivono gli interessati – lo statuto speciale di questi territori. In sostanza, si tratta della loro sovranità, che prevede una piena sanatoria per funzionari e militanti della “DPR” e della “LPR”, svolgendo elezioni con la partecipazione di rappresentanti delle autoproclamate “repubbliche”. Bisognerà risolvere i problemi ambientali che da oltre 5 anni di ostilità e occupazione sono diventati quasi catastrofici, e ottenere la revoca delle sanzioni occidentali alla Russia nei settori del commercio, della finanza e della tecnologia a causa dei fattori di cui sopra, nonché la revoca delle sanzioni personali contro gli alti funzionari russi. Allo stesso tempo, le intenzioni tattiche della Federazione Russa in merito ai territori occupati degli oblast di Donetsk e Luhansk nel periodo precedente il loro pieno reinserimento in Ucraina, prevedono il riconoscimento (formale o informale) da parte dell’Ucraina delle cosiddette DPR e LPR come soggetti a pieno titolo del processo negoziale per una soluzione pacifica“.

“Nelle nuove Repubbliche si testeranno tecnologie di controllo, nuovi equipaggiamenti militarie e farmaci e vaccini che non hanno superato tutte le fasi di sperimentazione”

Una parte decisamente inquietante riguarda i test che starebbero avvenendo o avverranno sulle popolazioni delle Repubbliche di Luhansk e di Donetsk. Secondo il documento, questi territori sarebbero utilizzati come “territorio dove si testano tecnologie di controllo”. In particolare, lo scenario delineato in fieri riguarda (pagina 23):

“La riduzione della popolazione, il suo ritorno a forme primitive di relazioni economiche”

“Test nei territori temporaneamente occupati di nuovo equipaggiamento militare, che non ha ancora superato tutte le fasi dei test e potrebbe essere imperfetto”

“Test segreti sulla popolazione delle “repubbliche” di nuovi farmaci e vaccini che non hanno superato tutte le fasi di test necessarie”, non è chiaro se da parte ucraina o da parte russa, anche se lo stesso governo ucraino ammette che dal Cremlino si stia lavorando “a una legittimazione delle Repubbliche attraverso l’ottenimento del cessate il fuoco” (pagina 25).

“Armi di distruzione di massa nelle acque antistanti l’Ucraina”

Abbiamo scritto varie volte della volontà di Mosca di “smilitarizzare” i territori ucraini illegittimamente occupati dalla NATO che starebbe caratterizzando quella che il Cremlino definisce “un’operazione militare speciale”. Non una guerra o un’invasione, ma la liberazione dell’Ucraina dai presidi stranieri che si sono installati per trasformare il granaio d’Europa nel deposito di armi nucleari e sperimentali della nuova Europa. La conferma arriva dalla stessa Kiev, che nelle pagine del Libro Bianco – a sorpresa – sferra un attacco contro alcuni organismi internazionali. “E’ stata confermata – scrivono i funzionari ucraini – l’inefficienza delle principali istituzioni di sicurezza (ONU, OSCE) nella risoluzione dei conflitti regionali. Allo stesso tempo, c’è stata una tendenza alla militarizzazione dei territori e delle acque adiacenti al confine ucraino, distruggendo l’attuale sistema di accordi internazionali nel campo della non proliferazione delle armi di distruzione di massa, delle tecnologie sensibili e della conoscenza; maggiore influenza sull’ambiente di sicurezza regionale da parte della Federazione Russa e di altri Paesi che cercano di realizzare le proprie ambizioni, compreso l’uso delle risorse dell’Ucraina (territorio, potenziale scientifico e tecnologico, risorse agricole, idriche, umane e di altro tipo). (…) “In questo contesto, la regione dell’Azov-Mar Nero è considerata da Mosca come un’importante testa di ponte per l’espansione nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e nel continente africano. La militarizzazione della Crimea annessa svolge un ruolo chiave nel modificare l’equilibrio politico-militare nella regione del Mar Nero, in particolare istituendo un sistema per limitare la libertà d’azione della NATO nella regione”. Tutto ciò anche per preservare nel lungo periodo – scrive il governo ucraino – “l’espansione umanitaria del “mondo russo” nello spazio post-sovietico, le sue idee di messianismo ortodosso, l’anti-americanismo e la diffusione di idee euroscettiche”. Un qualcosa che lo staff del presidente Zelensky, dal principio in comunione di intenti con gli Usa di Biden, con Bruxelles e con i vertici della NATO, non può ovviamente tollerare.

I nuovi servizi segreti esteri (SZRU)

L’ultima parte del libro bianco, quella che parla del “Servizio di intelligence straniera dell’Ucraina”, è una delle più discutibili. Tracciamo prima un quadro di insieme: il 17 settembre del 2020 la Verkhovna Rada approva la normativa che regolamenta i nuovi servizi segreti ucraini (SZRU). trasformandoli di fatto in un presidio di organismi che agiscono in territorio extra-ucraino. L’acronimo ricorda quello della CIA, in ucraino ZRU. La legge ha previsto l’introduzione di un’Accademia dei Servizi Segreti dell’Ucraina, con corsi di formazione che possono durare “da un giorno a sei mesi”. Uno sforzo di controllo e di passaggio di informazioni rilevanti che il governo di Zelensky – supportato dalla NATO, dall’UE e di recente dal Fondo Monetario Internazionale con iniezioni cospicue di capitali – supporta con stanziamenti multi-milionari. Nel solo 2021, l’Ucraina ha destinato 4 miliardi di grivne per finanziare il Servizio di Intelligence estera. Il governo chiarisce che anche nel quadriennio 2021-2025 i “fondi dei contribuenti saranno destinati a due aree chiave: il rafforzamento drastico delle agenzie di Intelligence all’estero e il corretto livello di remunerazione dei militari SZRU“, che devono essere “fluenti in diverse lingue straniere“. La legge varata nel 2020 prevede inoltre “nuovi e progressivi standard di protezione per le spie, che avranno anche alloggio, sicurezza sociale e assicurazione sanitaria”. I compiti della SZRU li descrive lo stesso staff di Zelenskij nel dossier che stiamo analizzando, e tra questi c’è “la partecipazione delle istituzioni ucraine all’estero e la sicurezza dei cittadini ucraini inviati all’estero che sono a conoscenza di informazioni che costituiscono un segreto di Stato“. Attività di intromissione nella sovranità degli Stati esteri e di spionaggio, per riassumere. L’Ucraina è inoltre uno dei Paesi di elezione per lo sviluppo dell’Intelligence elettronica e degli strumenti di analisi predittiva, in buono stile Minority Report. “Il Dipartimento di intelligence tecnica e le sue divisioni situate nelle regioni del Paese – è quanto viene chiarito – dispongono di attrezzature uniche, specialisti esperti nel campo dell’intercettazione radio e della crittografia, programmatori di sistemi e analisti. Ciò consente di ottenere regolarmente informazioni riservate di particolare valore di natura politica, economica, scientifica, tecnica e militare-strategica”. (…) “Ai consumatori di informazioni di intelligence – continua il rapporto governativo – vengono forniti dati tempestivi e predittivi su questioni prioritarie, che vengono utilizzati nella preparazione di decisioni importanti, negoziati con partner stranieri“.

 L’introduzione del sistema di controllo presidenziale

Se una legge del genere fosse stata promossa dalla Duma anziché dalla Verkhovna Rada, ne avremmo sentito delle belle. La normativa passata il 17 febbraio di due anni fa, infatti, fa in modo che venga relegato nelle mani del solo Zelenskij, comico prestato alla politica, un controllo praticamente illimitato. Il controllo capillare dell’informazione e i toni propagandistici promossi in Ucraina e all’estero non è che il riflesso di questo nuovo regime. Nel libro bianco che stiamo analizzando viene chiamato “Sistema di controllo presidenziale”, ed è esercitato attraverso la direzione generale del Capo di Stato da parte del Servizio di Intelligence estero. “Questa ripartizione dei poteri di controllo – chiariscono le istituzioni ucraine – corrisponde a standard democratici ed è vicina ai principi di base del controllo e della supervisione delle attività di intelligence secondo gli standard europei“. (…) “SZRU cambiò radicalmente la sua organizzazione e la sua geografia nel 2014 – anno dello scoppio della guerra civile, nda – attribuendo particolare importanza alla cooperazione internazionale con le autorità competenti di Stati esteri e organizzazioni internazionali. Il Servizio ha ufficialmente stabilito e mantiene contatti con 174 agenzie di intelligence, speciali e forze dell’ordine in 84 Paesi“.

Il lavorìo della SZRU per annettere l’Ucraina alla NATO e alla UE

La parte finale del dossier motiva la complessa attività di Intelligence appena delineata, getta una nuova luce sulla macchina della propaganda che si è mossa in perfetta sincronia dopo lo scoppio dei conflitti con la Russia e – se vogliamo – dà ragione alla Federazione Russa e ai suoi timori di intromissione da parte della NATO nei territori dell’ex Unione Sovietica. E’ scritto chiaramente nel Біла книга:

“L’Ucraina sta perseguendo un percorso strategico verso la piena adesione all’Unione Europea e all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO, nda). Pertanto, più attiva e produttiva è la cooperazione della SZRU con le agenzie di intelligence e i servizi speciali della NATO e degli Stati membri dell’UE. La SZRU ha iniziato a implementare attivamente l’esperienza dei Paesi occidentali sviluppati nel campo dell’intelligence. A loro volta, i partner stranieri hanno mostrato grande interesse per le capacità dell’intelligence strategica ucraina. Dopotutto, la SZRU è stata in grado di colmare le lacune nella comprensione degli strumenti e della logica delle azioni ibride della Russia nell’arena internazionale. Nuove forme di cooperazione con i partner occidentali hanno consentito all’Ucraina di ottenere lo status di partner della NATO con capacità potenziate nell’ambito dell’Iniziativa di interoperabilità del partenariato. Oggi, la SZRU partecipa a tutti i formati di cooperazione che l’Alleanza offre ai servizi di intelligence partner. E dal 2018, la SZRU partecipa come osservatore a forum sotto gli auspici dell’Alleanza del Nord Atlantico, che in precedenza si svolgevano esclusivamente con i membri della NATO. La SZRU sta lavorando attivamente per diventare un partecipante a pieno titolo nel sistema di comunicazione a breve termine di intelligence e servizi speciali dell’Alleanza del Nord Atlantico. Abbiamo inoltre in programma di intensificare ed espandere la presenza dell’intelligence ucraina nelle pertinenti strutture collegiali della NATO e dell’UE. La SZRU mantiene intensi contatti con i servizi speciali di alcuni paesi del Medio Oriente e della regione. La SZRU ha stabilito un regolare scambio di informazioni con partner stranieri. Oltre all’enfasi sulle questioni russe, la sfera universale della cooperazione internazionale della SZRU con i servizi di intelligence stranieri è la formazione professionale dei dipendenti in vari settori delle attività di intelligence. La formazione sistematica e l’istruzione in corsi specialistici in centri di formazione specializzati esteri sono diventati parte integrante dello sviluppo professionale del personale del Servizio. Il servizio è aperto per l’attuazione di audaci progetti congiunti in vari settori delle attività di intelligence e ha servizi che si possono offrire ai partner“. 

Zelensky salvato dalle spie. Diana Alfieri su Il Giornale il 05 marzo 2022. 

La caccia grossa al presidente è aperta. Anzi, ai presidenti. Ma mentre per ora l'appello del senatore repubblicano della South Carolina Lindsey Graham a «un Bruto o uno Stauffenberg russo, disposto ad assassinare Putin» sembra essere caduto nel vuoto, il cerchio attorno a Volodymyr Zelensky si sta pericolosamente stringendo. Perché così come i carri armati russi avanzano e assediano l'Ucraina, la sua capitale e la sua popolazione, anche i contractors incaricati da Mosca di eliminare il leader nemico si stanno drammaticamente avvicinando al loro obiettivo. Tanto che Zelensky, sempre più protagonista fisico e morale della resistenza, sarebbe stato sfiorato dalla morte in più di una circostanza.

A darne notizia è stato il quotidiano inglese The Times, secondo il quale Zelensky sarebbe scampato a tre tentativi di omicidio nell'ultima settimana: due da parte dei membri del «Gruppo Wagner», i mercenari inviati in Ucraina con una lista di 24 nominativi da assassinare, e una - sabato scorso, nella periferia di Kiev - da parte di un commando ceceno, che sarebbe stato «neutralizzato». Secondo fonti governative, a far fallire le operazioni con soffiate alle forze di sicurezza ucraine sarebbero stati settori «deviati» del Fsb, il Servizio federale per la sicurezza russo, erede del Kgb. All'interno del quale si sarebbe sviluppata una fronda contraria alla guerra, che svela in anticipo le mosse ai colleghi di Kiev. Uno scenario parso «inquietante» agli stessi servizi russi, anche se è impossibile confermare l'esistenza di «talpe» filo-ucraine alla Lubianka.

Così come, nel bel mezzo di una guerra in cui la controinformazione è bipartisan e ramificata, è impossibile verificare molte cose. Per esempio l'esistenza di quei «forni crematori» con cui - secondo Kiev - gli stessi militari russi si sbarazzerebbero dei loro commilitoni caduti in battaglia per non ammettere le perdite. Altrettanto difficile capire se davvero il frammento di razzo mostrato dal portavoce di Zelensky Serhiy Nykforov sui social sia davvero la prova di un altro attentato fallito: «Colpo mancato», ha infatti scritto Nykyforov, postando la foto di un proiettile russo caduto nel giardino di una delle residenze del presidente a Koncha-Zaspa, a sud di Kiev.

D'altronde, la comunicazione è strategica quanto la logistica o gli armamenti. Per questo da giorni Mosca sta cercando di distruggere la reputazione di Zelensky: nazista, drogato, corrotto, venduto agli Usa e soprattutto vigliacco, pronto ad abbandonare la popolazione per salvarsi. Ieri l'ultimo intervento in tal senso è stato del presidente della Duma russa Vyacheslav Volodin, che su Telegram ha annunciato la fuga di Zelensky in Polonia. La prova? Il fatto che i deputati della Rada ucraina non fossero riusciti ad entrare nella casa di Zelensky a Leopoli. Ovviamente la smentita è stata immediata, con la tv del parlamento ucraino a chiarire che «Zelensky si trova a Kiev con la sua gente. La fuga è un altro falso degli occupanti». A sostegno della tesi che Zelensky sia ancora alla guida del Paese c'è il suo intervento video alle manifestazioni di piazza che si sono svolte in contemporanea in molte città tra cui Francoforte, Praga, Lione, Tbilisi, Vienna, Bratislava e Vilnius. «Non tacete, scendete in piazza e sostenete l'Ucraina» ha detto nel videomessaggio il presidente ucraino ai manifestanti.

Per tutto il giorno lo scambio di accuse fra Mosca e Kiev aveva anche riguardato la catastrofe nucleare sfiorata a Zaporizhzhia, di cui Zelensky ha discusso telefonicamente con i vertici europei: «Solo la Russia ricorre al terrorismo nucleare. L'Europa è stata a un passo dalla sua fine, deve svegliarsi e fermare l'invasione».

(ANSA il 5 marzo 2022) - I servizi segreti ucraini (Sbu) hanno ucciso un componente della squadra negoziale ucraina con l'accusa di tradimento. Secondo fonti del media di Kiev Ukrainska Pravda, l'uomo è stato ucciso durante un tentativo di arresto. La stessa fonte rivela che c'erano "forti prove" che stava divulgando informazioni alla Russia.

La notizia, che non ha avuto ancora una conferma ufficiale, è stata diffusa anche dall'agenzia di stato ucraina Unian che rivela il nome del negoziatore accusato di essere una spia: si tratta di Denis Kireyev. un banchiere di grande esperienza. Secondo queste fonti, i servizi ucraini (Sbu) avevano prove del tradimento di Kireev, comprese sue intercettazioni telefoniche. Dal 2006 al 2008, Kireev ha lavorato presso SCM Finance, dove ha ricoperto la carica di vicedirettore generale. Ha poi lavorato per l'azienda austriaca GROUP SLAV AG Klyuyev. Dal 2006 al 2012 è stato anche componente del Consiglio di Sorveglianza di Ukreximbank. Dal 2010 al 2014, in quota Klyuyev, ha ricoperto la carica di Primo Vice Presidente del Consiglio di Oschadbank.

"Era una spia": e gli 007 ucraini uccidono il negoziatore. Alessandro Ferro il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.

Un negoziatore ucraino, Denys Kireev, è stato ucciso dai servizi segreti ucraini accusato di essere una spia russa: l'uomo aveva partecipato al primo round dei colloqui a Gomel.

I servizi segreti ucraini (Sbu) hanno ucciso un componente della squadra negoziale ucraina con l'accusa di tradimento e di essere una spia dei russi. Secondo fonti dei media di Kiev, l'uomo è rimasto ucciso durante un tentativo di arresto: la stessa fonte, Ukrainska Pravda, rivela che c'erano "forti prove" che stesse divulgando informazioni alla Russia.

"Spia di Mosca"

Il negoziatore ucraino rimasto ucciso e che avrebbe partecipato al primo round di negoziati con la Russia nella città di Gomel, in Bielorossua, sarebbe Denys Kireev: il nome è stato riferito dal deputato Oleksiy Goncharenko sul proprio canale Telegram come riportato dall'agenzia Interfax. Secondo ulteriori informazioni che sta raccogliendo la stampa di tutto il mondo, Kireev sarebbe stato un banchiere di grande esperienza. Come detto, i servizi segreti ucraini avevano raccolto numerose prove del tradimento di Kireev, comprese alcune intercettazioni telefoniche. L'uomo sarebbe stato legato a elementi del governo dell'ex presidente filo-russo Viktor Yanukovich.

L'Ansa fa sapere che dal 2006 al 2008 il negoziatore ha lavorato presso Scm Finance ricoprendo la carica di vicedirettore generale. Successivamente, ha presto il proprio servizio anche per un'azienda austriaca e dal 2006 al 2012 è stato anche componente del Consiglio di Sorveglianza di Ukreximbank, Società per azioni import-export ucraina con sede a Kiev. Dal 2010 al 2014, ha ricoperto la carica di primo Vice Presidente del Consiglio di Oschadbank, Cassa di risparmio statale dell'Ucraina.

"Notizia gravissima"

"È gravissimo. Che gli ucraini sparino ad un loro negoziatore, fa venire i brividi. Allora è proprio vero che occorre andare con i piedi di piombo nel giudicare gli eventi", ha dichiarato in un nota il senatore con doppia tessera Forza Italia e Lega, Francesco Giro. "Denis Kireev è stato colpito dai funzionari dei Servizi di sicurezza ucraini (Sbu). Aveva partecipato al primo round di incontri a Gomel. Al secondo non c'era più", ha aggiunto. Infatti, come ci siamo occupati sul Giornale.it, durante il primo round di colloqui, tra i 5 ucraini ci sarebbe stato anche Kireev mentre il ministro degli Esteri bielorusso Vladimir Makei, padrone di casa, aveva invitato i delegati a "sentirsi al sicuro".

Non si vede benissimo, ma nella foto con i cinque componenti russi seduti al tavolo alla sinistra della foto e i sei componenti ucraini sulla destra, la spia Kireev è l'ultimo in fondo cerchiato in rosso. Si vede a malapena la sua testa calva e il suo sguardo pensieroso: chissà come passava nella sua testa, e in quelli successivi al negoziato, mentre era intento a fare di nascosto il doppio gioco.

Gli 007 ucraini uccidono il banchiere-mediatore "Faceva il doppio gioco". Gian Micalessin il 6 Marzo 2022 su Il Giornale.

Kireyev giustiziato dopo il primo round "Nei negoziati dava informazioni ai russi".

Mosca. Lo chiamavano il banchiere. Ma Denis Kireyev non era solo quello. Altrimenti il 28 febbraio non sarebbe volato nella regione del Gomel, in Bielorussia, per partecipare al primo round di negoziati con i russi assieme al resto della delegazione Ucraina. Altrimenti, ieri, non sarebbe stato ucciso con un colpo alla testa da un commando dell'Unità Alfa, le forze speciali del Sbu, i servizi di sicurezza ucraini. «L'hanno fermato venerdì a Kiev davanti al numero 15 di Bolshaya Zhitomirskaya, l'hanno fatto scendere dalla sua auto blindata - racconta una fonte ucraina del Giornale - e dopo aver fatto stendere a terra le sue guardie del corpo l'hanno costretto a salire su un’auto del Quinto Dipartimento del Sbu. Poco dopo gli hanno sparato alla nuca e hanno lasciato il suo corpo sull'asfalto».

Ma perché uccidere un banchiere che aveva partecipato ai negoziati con i russi? Su questo la fonte de Il Giornale non ha grandi certezze. «Per quanto ne sappiamo è stato accusato di tradimento per aver fornito ai russi informazioni durante i negoziati e per essersi dimostrato troppo incline alla trattativa». Ma a suscitare altre ombre contribuisce il fatto che il suo nome non è mai stato inserito nella lista ufficiale della delegazione ucraina mentre il suo volto compare nella foto ufficiale dei colloqui. Di certo la notizia dell'uccisione del banchiere, sconosciuto in Italia, ma assai noto in Ucraina, è il segnale di una frattura all'interno dei servizi di sicurezza ucraini divisi tra chi vorrebbe una maggior disponibilità al dialogo con Mosca e chi invece come, il presidente Volodymir Zelensky, è indisponibile a qualsiasi cedimento. «Kireyev - spiega un altra fonte ucraina al Giornale - era molto legato a Ivan Bakanov l'uomo che oltre a guidare l'Sbu dal 2019 è anche un amico d'infanzia del presidente Zelensky. Anche per questo si sentiva assai sicuro. Non a caso il primo dipartimento dell'Sbu gli aveva assegnato un'auto blindata e una scorta». Ma dunque chi all'interno dei servizi avrebbe ordinato la sua esecuzione? E per quale motivo?

Per capirlo bisogna andare ai primi di febbraio quando un'inchiesta della televisione ucraina Channel 5 accusa il banchiere di lavorare - con il nome in codice di Khoroshiy - sia per il ministro della Difesa russo sia per l'Fsb, i servizi segreti russi eredi del Kgb. Stando all'emittente, che cita anche le ricerche del blogger Yaroslav Bondar, il banchiere lavorerebbe per Mosca sin dal 2006 e avrebbe fornito molte informazioni sulle armi americane ed inglesi arrivate a Kiev dopo il 2014. Come se non bastasse l'indagine l'accusava di aver mantenuto legami assai sospetti con i fratelli Klyuev, una famiglia di oligarchi fuoriusciti dal paese nel 2014 di cui Kireyev si avrebbe continuato a gestire proprietà ed introiti. Un'attività a dir poco pericolosa visto che l'intelligence britannica aveva identificato Andry Klyuyev come uno dei politici di riferimento del Cremlino. Anche per questo Denis Kireyev sarebbe stato fin dal 2020 al centro di un'inchiesta per spionaggio chiusa però per mancanza di prove.

A riattizzare i sospetti sulla fedeltà del banchiere avrebbe contribuito una sua foto scattata sulla Piazza Rossa il 19 gennaio scorso quando già si parlava di imminente invasione. Quella rivelazione non aveva preoccupato Kireyev, lui contava molto sull'amicizia del capo del Sub - spiega la fonte del Giornale - ma non aveva calcolato che gli alleati occidentali avevano preparato un dossier su di lui. Dopo l'arrivo di quel dossier è stato inserito in una lista di obbiettivi e neanche Bakanov ha potuto più aiutarlo. Probabilmente la decisione di partecipare ai negoziati giocando un ruolo apparso troppo moderato rispetto alle richieste russe gli è costata la vita».

Da corriere.it il 6 marzo 2022.

Chi era Denis Kireev? Era una spia? E, se sì, a chi andava la sua fedeltà? Si infittisce il mistero intorno alla presunta esecuzione dell’uomo politico ucraino che aveva preso parte, in veste di negoziatore, al primo round di negoziati con la Russia a Gomel, in Bielorussa. Poco dopo le 13, i media locali ucraini avevano rilanciato la notizia che fosse morto, ucciso dagli 007 di Kiev perché accusato di aver tradito. Ma in serata l’esercito ucraino ha fatto sapere, su Twitter, che Kireev è stato ucciso «difendendo l’Ucraina». 

Parole che fanno pensare a circostanze del tutto diverse rispetto a quelle inizialmente rilanciate dai media ucraini. «Durante l’esecuzione di compiti speciali, tre spie sono state uccise: Alexei Ivanovich, Chibineev Valery Viktorovich, Denis Borisovich Kireev. Sono morti difendendo l’Ucraina e il loro impegno ci ha avvicinato alla vittoria!»: questo il messaggio diffuso su Twitter dall’account ufficiale dell’esercito ucraino. 

Intanto, in Russia, il presidente della Commissione esteri della Duma, Leonid Slutsky, ha dichiarato che «non ci sono ancora chiare informazioni» sul fatto che Kireev «sia stato effettivamente ucciso». «Kireyev, che una volta era un noto banchiere, è attualmente, per quanto ne so, una persona di fiducia di David Arakhamia, capo della delegazione ucraina ai colloqui e leader del partito di maggioranza della Verkhovna Rada (il parlamento ucraino, ndr)», ha detto Slutsky.

Chi ha ucciso il negoziatore ucraino Denis Kireev? Dietro la morte della spia potrebbe esserci un piano degli 007 russi a Kiev. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 7 marzo 2022.  

Kireev aveva partecipato ai colloqui tra Kiev e Mosca come negoziatore. Era una spia russa oppure un eroe che ha sventato un colpo del nemico? Secondo fonti d’intelligence Mosca voleva sabotare il Paese dall’interno. 

Le vicende di spionaggio non sono mai avare di versioni. La confusione è ancora maggiore in epoca di guerra, come raccontano le storie a seguire. La prima ha coinvolto Denis Kireev, 45 anni, un passato come vice direttore di un gruppo bancario ucraino e poi entrato nei servizi segreti locali. Il 28 febbraio partecipa al round di negoziati in Bielorussia, le foto lo mostrano seduto al tavolo dove si confrontano le due delegazioni. Una presenza importante. 

Sabato 5 marzo ne hanno annunciato la morte. Violenta. Indiscrezioni sostengono che Kireev è stato ucciso dai suoi colleghi che cercavano di arrestarlo, avevano scoperto che faceva il doppio gioco. Un traditore punito in modo rapido. Una tesi ribaltata dal Ministero della Difesa che, invece, lo ha definito un eroe, caduto insieme ad altri due funzionari durante un’operazione: «Sono morti difendendo l’Ucraina, il loro gesto avvicina la vittoria».

Il mistero può nascondere molte cose. Ben prima dell’invasione erano uscite informazioni sull’infiltrazione di unità speciale russa negli apparati di Kiev, difesa inclusa, resa possibile da un piano organizzato da un alto ufficiale collegato al Cremlino. Una connivenza nota — ha scritto un analista britannico —, quasi scontata. Ora la tragica fine di Kireev potrebbe entrare nella battaglia tra 007. Lui che si sacrifica per sventare un colpo oppure l’esatto opposto. Mosca potrebbe diffondere patacche per instillare dubbi nel campo avversario in una fase critica. Serve compattezza perché le minacce interne sono numerose. Reali e presunte.

Fonti di intelligence sostengono che i servizi di Kiev hanno neutralizzato un piano russo per creare la «Repubblica popolare dell’Ucraina» in numerose regioni. L’obiettivo era quello di condurre sabotaggi e omicidi mirati, quindi di occupare edifici pubblici allo scopo di creare seminare caos e aprire un fronte interno. Un diversivo per aumentare le difficoltà dell’esercito. La successiva mossa sarebbe stata l’unione con la Russia, emulando quanto è avvenuto nella parte meridionale del paese. Lo scenario combacia con un rapporto diffuso dall’istituto britannico RUSI che avvertiva su un progetto sovversivo sempre ispirato dai russi ed elaborato da un dirigente molto vicino a Putin. A questo fine erano stati preparati circa 200 uomini, divisi in team, sostenuti da complici locali.

Infine gli intrighi fumosi della Bielorussia. Sono circolate notizie sulle dimissioni del viceministro della Difesa Viktor Gulevich, un gesto di protesta perché contrario ad un intervento diretto dell’esercito in territorio ucraino. Tuttavia sono arrivate le smentite che, però, non cancellano i sospetti di problemi per il regime di Lukashenko e su una presunta resistenza dei suoi generali a partecipare al conflitto.

Marco Ventura per “il Messaggero” il 6 marzo 2022.  

È stato ucciso perché era una spia, ma il giallo è fitto su chi fosse davvero Denis Kireyev, e soprattutto per chi lavorasse: i russi o gli ucraini? Certo è che era un banchiere, già uomo di fiducia di Andriy Klyuyev, imprenditore e braccio destro dell'ex presidente filo-russo Yanukovich, ma poi anche uno dei negoziatori ucraini nel primo round di colloqui coi russi a Gomel, in Bielorussia al confine con l'Ucraina. L'unico che a differenza dei suoi colleghi di Kiev, in mimetica o maglietta, era vestito in giacca e cravatta come gli emissari del Cremlino davanti a lui. Adesso è morto. Per tutto il giorno, ieri, si è pensato che fosse stato ucciso in quanto spia dei russi.

Probabilmente fucilato in strada, ufficialmente perché aveva resistito all'arresto da parte di una unità dei servizi segreti ucraini, lo SBU. La descrizione dei fatti nelle parole di Mario Dubovikova, analista politico indipendente: «Kireyev è stato ucciso nel centro di Kiev. Giustiziato, colpito alla testa all'ingresso del tribunale di Pechersk». 

Avrebbe dovuto rispondere dell'accusa di alto tradimento, per aver passato informazioni a Mosca, fra le prove anche intercettazioni telefoniche. Quindi nella foresta di Gomel, al tavolo dei colloqui si sarebbe dovuto sedere dal lato dei russi. È noto che in guerra, e che guerra è questa con l'assillo delle spie russe e dei gruppi di incursori di Mosca travestiti da ucraini, a maggior ragione vale la regola, che non vige solo nei Paesi ex sovietici ma anche in Occidente, di fucilare chi tradisce. 

LA FOTO Nella foto del primo tavolo negoziale, Kireyev è l'ultimo in fondo sulla destra tra gli ucraini, guarda il fotografo col volto grosso, ovale, stempiato. Il dettaglio della giacca e cravatta fa pensare, ma è solo una suggestione. Kireyev aveva le sue relazioni pericolose con i fratelli Klyuyev. Andrij è un oligarca con un patrimonio di 227 milioni di dollari, palazzi in quel di Vienna, fortissimo nel mercato dell'energia solare e affiliato di Activ Solar GmbH, azienda con sede in Austria che sviluppa centrali fotovoltaiche in Ucraina. È stato segretario del Consiglio di sicurezza e difesa nazionale di Ucraina nel 2012-2014. E ha continuato a operare per il ritorno a Kiev di Yanukovich, che oggi è segnalato a Minsk. 

Per le sue attività anti-ucraine e per reati finanziari è stato sanzionato da Svizzera, Liechtenstein, Unione Europea e Canada. Il legame con Kireyev è evidente dal curriculum del banchiere, dal 2006 al 2008 vicedirettore generale della SCM Finance, poi nell'azienda austriaca di Klyuyev e tra 2006 e 2012. Infine, dal 2010 al 2014, in quota Klyuyev, nel Consiglio di Oschadbank. Difficile capire come Kireyev sia potuto entrare a far parte del gruppo di mediatori ucraini. Inizialmente il suo nome non era presente ed è stato inserito all'ultimo. Ma già nel secondo round era sparito, e chissà che il ritardo nell'arrivo degli ucraini non sia stato conseguenza anche dell'affaire spionistico. 

LE PROVE A riferire dell'uccisione, politici e testate locali. Oleksij Goncharenko, parlamentare, sul suo canale Telegram dice che il controspionaggio aveva le prove del tradimento. Decisivo l'ascolto delle telefonate, direttamente con Mosca. Dopo le conferme di agenzie ucraine e il passa parola tra i parlamentari, la notizia è stata rilanciata da Ria Novosti che cita il deputato ucraino Aleksandr Dubinsky: «Com' è entrato nella composizione della delegazione ucraina per i negoziati con gli occupanti vuoi davvero scoprirlo dall'ufficio del Presidente?». E dalla Duma partono dichiarazioni sul «nazismo» degli ucraini.

LA PSICOSI A Kiev, più ancora che nel resto dell'Ucraina, il carattere «fratricida» della guerra comporta una vera e propria psicosi della spia. E dell'infiltrato. Questo vale anche per personaggi che impropriamente vengono definiti «sabotatori», mentre si tratta realisticamente di incursori russi addestrati per operare dietro le linee del nemico. 

COLPO DI SCENA In serata, il colpo di scena che ribalta le versioni che si sono succedute per tutto il giorno, anche da parte ucraina. In un Tweet, l'esercito ucraino conferma l'uccisione, ma scrive: «Durante l'esecuzione di compiti speciali, tre spie sono state uccise, dipendenti della direzione principale del ministero degli Affari interni: Alexei Ivanovich, Chibineev Valery Viktorovich, Denis Borisovic Kireyev». E ancora: «Sono morti difendendo l'Ucraina e il loro impegno ci ha avvicinato alla vittoria». Denis Kireyev, spia o eroe? Da Mosca, nella notte, l'ultima sorpresa: «Non siamo sicuri che sia morto».

Da "Guerra e pace" fino alla guerra di Putin. Fenomenologia della spia, secondo Tolstoj. Daniele Abbiati il 6 Marzo 2022 su Il Giornale.

Una figura sempre drammatica, che risponde al suo popolo e ai politici.  

Non c'è spia che non venga spiata. La spia viene spiata in quanto sa ciò che (quasi) nessuno deve sapere, e, sapendo questo, può tradire. La spia è come una vedetta che sale in cima all'albero più alto della nave, ma di nascosto. Da lassù vede meglio e più lontano del resto dell'equipaggio, eppure può scegliere di non dire agli altri ciò che ha visto, oppure di descrivere loro uno scenario falso. Soltanto allora, comincia il suo percorso di traditore. Un traditore che, se fallisce, se la deve poi vedere con due giudici: il suo popolo e chi il suo popolo lo amministra, cioè il politico.

L'eliminazione di Denis Kireyev, accusato di tradire l'Ucraina ed eliminato in mezzo a una strada, ha qualcosa di cinematografico, nei tempi e nella forma, di teatralmente scespiriano, nelle zone d'ombra. Anzi, visto che di Russia si tratta, diciamo pure di tolstojano. La nuova edizione di Guerra e pace che stiamo leggendo in questi giorni, in fondo non è molto diversa dalla prima, uscita più di un secolo e mezzo fa. Anche se allora c'era la Russia nel ruolo dell'Ucraina, a maledire il Napoleone-Putin e chi a lui si vendeva, o si sospettava si fosse venduto... L'amministratore di Mosca era il conte Rastòpcin, e a Mosca c'era un tale Vereèagin, accusato di aver diffuso il proclama di Napoleone.

Scrive Tolstoj: «Dov'è? disse (Rastòpcin, ndr) e, mentre lo diceva vide spuntare da dietro l'angolo, in mezzo a due dragoni, un giovane con un lungo collo esile e con la testa rasata a metà, ma che già si ricopriva di capelli. Il giovane indossava un logoro pellicciotto di volpe, rivestito di panno turchino (che un tempo doveva essere assai elegante) e sudici calzoni da carcerato, infilati dentro a stivaloni sporchi e scalcagnati. Alle sue esili, deboli gambe, pendevano pesanti catene che gli impacciavano i passi indecisi».

E, una pagina dopo: «Costui ha tradito il suo zar e la patria, si è consegnato a Bonaparte, è stato l'unico fra tutti i russi a disonorare il nome di russo e ora Mosca va in rovina per colpa sua disse Rastòpcin con voce monotona e stridula; ma qui, improvvisamente, diede una rapida occhiata in giù, a Vereèagin, che restava immobile in quel suo atteggiamento di sottomissione. Come se quella vista lo esasperasse, alzò il braccio e quasi si mise a urlare, rivolgendosi alla folla: Pensate voi a far giustizia, ve lo consegno!».

Ed ecco che un giudice si appella all'altro giudice per fargli emettere la sentenza e fargli comminare la pena. Invece gli ucraini di oggi, cioè i russi di allora, non sono stati chiamati in causa, sono stati spettatori. In Guerra e pace, dopo che la folla ha fatto strame di Vereèagin, Rastòpcin si allontana in carrozza. E medita: «Da quando esiste il mondo e gli uomini si uccidono l'un l'altro, non c'è uomo che non abbia commesso un delitto su un suo simile senza tranquillizzarsi con questo pensiero. Che è, appunto, le bien publique, il supposto bene del resto degli uomini». 

Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 6 marzo 2022.

L'intelligence americana era così sicura che alla fine Putin avrebbe invaso l'Ucraina, che fin dall'inizio di dicembre il Pentagono aveva accelerato le operazioni per armare i militari di Kiev, mettendoli in condizione di difendersi. Guardano la lista delle forniture, si capisce anche come la strategia si basasse sul rallentamento iniziale della prima ondata di attacchi, e poi sulla creazione di una guerriglia urbana di lungo termine. La conferma viene dai documenti declassificati delle consegne effettuate dagli Usa e dai loro alleati, che il Washington Post ha ottenuto e pubblicato.

In più c'è da aggiungere che parecchi veterani delle forze armate americane si stanno offrendo come volontari per combattere al fianco degli ucraini, che potranno aiutare tanto in termini tattici, quanto nell'impiego proprio delle armi che avevano già usato su altri teatri di guerra. Gli Usa si sono impegnati a fornire aiuti bellici di varia natura a Kiev per un miliardo di dollari, di cui 350 milioni autorizzati il 25 febbraio. A loro si sono aggiunti 14 paesi alleati che hanno dato una mano, dalla Germania all'Italia. 

Era noto che al primo posto della lista ci fossero i razzi anti carro Javelin, che sono una delle ragioni per cui l'offensiva russa ha incontrato così tante difficoltà a procedere sul terreno, inclusa la lunga colonna bloccata alle porte della capitale. E i missili Stinger Manpads, che invece hanno preso di mira elicotteri e aerei, complicando l'obiettivo di Mosca di ottenere il dominio dei cieli. Molti analisti militari sono rimasti sorpresi dalla sostanziale assenza dell'aeronautica nella battaglia.

Al principio ritenevano che non fosse entrata in azione in maniera massiccia perché il piano prevedeva la rapida conquista dell'Ucraina e la resa delle forze locali, e quindi non sarebbe servita. Ora però questa versione non regge più, e quindi gli osservatori si chiedono se non ci siano problemi tecnici e logistici che hanno fermato anche l'aviazione, tra cui la mancanza di piloti addestrati al combattimento e l'inadeguatezza dei materiali. L'efficacia degli Stinger è una delle ragioni, perché i caccia russi si sentono minacciati, in particolare quando devono volare di giorno, ma poi di notte non hanno una capacità operativa all'altezza del compito. 

Questo evidenzierebbe un'inferiorità strategica sostanziale, che potrebbe risultare decisiva anche in caso di scontro diretto con la Nato. Perciò il presidente Zelensky ha sollecitato la creazione di una no fly zone, e la consegna dei vecchi Mig e di altri apparecchi dell'era sovietica ancora in dotazione ai paesi Nato che facevano parte del Patto di Varsavia, perché è convinto che i suoi piloti sarebbero in grado di tenere sotto scacco quelli di Putin. Nello stesso tempo, però, il Pentagono non si fa illusioni su quanto a lungo gli ucraini potranno evitare la caduta di Kiev. 

In assenza di un intervento diretto della Nato, queste armi dovevano frenare l'avanzata iniziale, ma poi la vera partita si sarebbe giocata nel lungo termine. Quindi Washington si era già mobilitata per preparare gli ucraini alla guerriglia di insurrezione, che seguirà al completamento dell'occupazione.

Perciò aveva fornito lanciarazzi M141, shotgun M500, lanciagranate Mk-19, armi anti elicottero M134, e anche tute speciali per proteggere i soldati dalle esplosioni ravvicinate, ad esempio quando si tratta di disinnescare le mine. Tutti questi materiali sono pensati soprattutto per i combattimenti urbani, e dimostrano come gli americani si aspettano che questa sia la direzione verso cui andrà il conflitto, anche dopo l'eventuale caduta di Kiev e dello stesso Zelensky. Se è vero, conducendo la sua avanzata di stampo bellico tradizionale contro le grandi città, Putin sta cadendo in una trappola. E il Pentagono ha già fornito agli ucraini le armi e l'addestramento per fargliela pagare nel lungo termine, mentre le sanzioni lo mordono in casa.

La storia segreta di come è iniziata la guerra in Ucraina. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2022.  

A novembre l’intelligence Usa avvisa gli alleati sul piano di Mosca. I tentativi di Washington di far cambiare idea a Putin. Il doppio gioco delle spie. Il ruolo della Cina

Epa

La danza dell’ombra attorno all’Ucraina si è svolta su tre piste.

L’avviso

A metà novembre gli Usa avvisano in modo diretto gli alleati sul piano di invasione, la direttrice della National Intelligence, Avril Haines, si reca in Europa per spiegare. È accolta con scetticismo. Il mese dopo, agli inizi di dicembre, nuovo avvertimento: con comunicazioni e attraverso un articolo del Washington Post che inquadra alla perfezione l’operazione indicando in modo esatto la consistenza delle forze mobilitate. Pensano che l’ora X sarà nei primi giorni dell’anno. I dettagli sono importanti, non bastano a fare breccia. La scelta di svelare le informazioni, così precise, contiene quattro aspetti: è un passo inusuale perché svela a Mosca ciò che sanno a Washington; sottolinea la gravità; dimostra che la Cia ha fonti preziose e di primo livello; è un disperato tentativo di indurre Putin a desistere. 

L’agenzia è diretta da William Burns, diplomatico di carriera con un passato di ambasciatore in Russia. Conosce il dossier. Va personalmente nella capitale russa ai primi di novembre per affrontare la questione e chissà che non abbia calato altre carte per far comprendere agli interlocutori che gli Stati Uniti sono consapevoli di ciò che si sta preparando. Una scena da «Caccia a Ottobre Rosso». Quella del direttore è la quarta visita a partire da luglio di alti funzionari statunitensi, un indizio degli sforzi messi in atto. Sbattono contro le mura del Cremlino. Lo zar è convinto di avere tutto dalla sua, magari — altra rivelazione — vuol far passare le Olimpiadi invernali che si svolgono sui monti cinesi. Ieri il New York Times ha scritto che Pechino avrebbe chiesto il favore, anche se non c’è certezza di questo passaggio. La rivelazione segue un’altra: gli americani avevano sollecitato per mesi l’aiuto della Cina per fermare il disastro e avrebbero persino fornito dei dati. Ma la Repubblica popolare non ha creduto all’allerta.

La raccolta

L’intelligence statunitense, in parallelo, ha continuato la mietitura del raccolto. È cresciuta la sorveglianza dei satelliti e quella elettronica. È possibile che le fonti in terra russa abbiano passato nuovi particolari sull’atteggiamento politico e personale di Putin. A sua volta il servizio segreto russo ha dovuto gestire tre fronti:

1) Gli Usa sanno troppo, chi ha tradito?

2) l’Ucraina è informata, quale sarà la sua reazione?

3) In caso di attacco come risponderà la comunità internazionale? 

Secondo il New York Times Putin, dopo l’offensiva, si sarebbe sfogato contro i collaboratori perché gli avrebbero sottoposto scenari rosei. A sostenerlo una fonte dell’FBI che conosce a sua volta qualcuno nell’entourage del Cremlino. Giro tortuoso che deve proteggere l’identità della gola profonda depistando chi legge ma che è utile per seminare sospetti in casa del nemico. Ancora più ambigua l’arena ucraina. I russi hanno infiltrato il sistema e gli apparati di sicurezza, hanno sponde, dunque dovrebbero giocare come fossero nel loro cortile. Cosa hanno riferito gli amici a Kiev? Ipotesi: entrate pure con le vostre unità, Zelensky scapperà. La «nebbia» ha confuso la vista dello zar? Sono stati intossicati da notizie infondate? I filo-russi non vedevano l’ora di una grande spallata ed hanno assecondato i progetti dell’Orso. Capitò agli americani in Iraq quando si fidarono di improbabili personaggi sciiti. E poi non c’è nulla di più facile di prendere per buona la storia che combacia con i tuoi desideri.

La reazione ucraina

In mezzo si possono essere infilati giochi di 007 mentre persino Zelensky, alla vigilia dell’assalto, non nascondeva irritazione per le news allarmanti lanciate dalla Casa Bianca. Ci credeva o era una tattica contingente? Il suo Capo di Stato Maggiore Valery Zaluzhny, il 18 novembre, ha un colloquio con il generale statunitense Mike Milley, suo omologo, dedicato «alle attività della Russia nella regione». Tre giorni dopo il capo dell’intelligence ucraina Kyrylov Budanov, in un’intervista a Military Times, conferma il rischio di invasione tra la fine di gennaio e i primi giorni di febbraio. L’articolo è condito da una mappa particolareggiata con le possibili direttrici. Sapevano. E lo raccontano a tutti senza essere presi sul serio. Perché gli esperti hanno compreso chiaramente le conseguenze di un simile conflitto – è la spiegazione di un commentatore russo del Russia Council – pensavano che bastassero per impedire la guerra. «Abbiamo sbagliato perché non abbiamo sbagliato» nel prevedere il disastro.

I killer

Una storia avventurosa ha poi raccontato di un’operazione per uccidere proprio Zelensky e affidata ad un nucleo di ceceni. A sventarla la soffiata di un agente russo, quasi a confermare l’arte del doppio gioco, dove non puoi fidarti di nessuno. Sempre che anche questa indiscrezione non sia un tentativo di alimentare dubbi o paranoie. Le due case madre dello spionaggio — Usa e Russia — hanno sempre avuto il grande timore di essere fregati da una spia avversaria che offre di collaborare. Trucco classico. 

I più prudenti — in qualche caso perfino ossessionati — erano gli americani, al punto da respingerli. Nel caso del presidente ucraino è plausibile che Mosca voglia toglierlo di mezzo. Quanto ai sicari il presunto coinvolgimento dei ceceni è «esotico», evoca la loro ben nota risolutezza, tiene conto del ruolo in attività clandestine per conto dei servizi. Al tempo stesso, viste le condizioni attuali, è più facile che sia qualcuno vicino al leader e non uno «straniero». Ad ogni modo mai dire mai. L’intera storia ucraina è piena di sorprese.

Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 4 marzo 2022.

La danza delle ombre attorno all'Ucraina si è svolta su tre piste. A metà novembre gli Usa avvisano in modo diretto gli alleati sul piano di invasione, la direttrice della National Intelligence, Avril Haines, si reca in Europa per spiegare. È accolta con scetticismo. Il mese dopo, agli inizi di dicembre, nuovo avvertimento: con comunicazioni e attraverso un articolo del Washington Post che inquadra alla perfezione l'operazione indicando in modo esatto la consistenza delle forze mobilitate. Pensano che l'ora X sarà nei primi giorni dell'anno. I dettagli sono importanti, non bastano a fare breccia.

La scelta di svelare le informazioni, così precise, contiene quattro aspetti: è un passo inusuale perché svela a Mosca ciò che sanno a Washington; sottolinea la gravità; dimostra che la Cia ha fonti preziose e di primo livello; è un disperato tentativo di indurre Putin a desistere. L'agenzia è diretta da William Burns, diplomatico di carriera con un passato di ambasciatore in Russia. Conosce il dossier. 

Va personalmente nella capitale russa ai primi di novembre per affrontare la questione e chissà che non abbia calato altre carte per far comprendere agli interlocutori che gli Stati Uniti sono consapevoli di ciò che si sta preparando. Una scena da Caccia a Ottobre Rosso. Quella del direttore è la quarta visita a partire da luglio di alti funzionari statunitensi, un indizio degli sforzi messi in atto. Sbattono contro le mura del Cremlino.

Lo zar è convinto di avere tutto dalla sua, magari - altra rivelazione - vuol far passare l'Olimpiade invernale che si svolge sui monti cinesi. Ieri il New York Times ha scritto che Pechino avrebbe chiesto il favore, anche se non c'è certezza di questo passaggio. La rivelazione segue un'altra: gli americani avevano sollecitato per mesi l'aiuto della Cina per fermare il disastro e avrebbero persino fornito dei dati. Ma la Repubblica popolare non ha creduto all'allerta. Gli hackers di Anonymous hanno diffuso un presunto documento russo dove si dice che l'ordine d'attacco era stato previsto per il 18 gennaio, ma poi è stato spostato. Una data vicina a quella segnalata, inizialmente, dagli Stati Uniti.

L'intelligence statunitense, in parallelo, ha continuato la mietitura del raccolto. È cresciuta la sorveglianza dei satelliti e quella elettronica. È possibile che le fonti in terra russa abbiano passato nuovi particolari sull'atteggiamento politico e personale di Putin.

A sua volta il servizio segreto russo ha dovuto gestire tre fronti:

1) Gli Usa sanno troppo, chi ha tradito?

2) l'Ucraina è informata, quale sarà la sua reazione?

3) In caso di attacco come risponderà la comunità internazionale?

Secondo il New York Times Putin, dopo l'offensiva, si sarebbe sfogato contro i collaboratori perché gli avrebbero sottoposto scenari rosei. A sostenerlo una fonte di FBI che conosce a sua volta qualcuno nell'entourage del Cremlino. Giro tortuoso che deve proteggere l'identità della gola profonda depistando chi legge ma che è utile per seminare sospetti in casa del nemico. 

Ancora più ambigua l'arena ucraina. I russi hanno infiltrato gli apparati di sicurezza, dunque dovrebbero giocare come fossero nel loro cortile. Cosa hanno riferito gli amici a Kiev? Ipotesi: entrate pure con le vostre unità, Zelensky scapperà. La «nebbia» ha confuso la vista dello zar? Sono stati intossicati da notizie infondate? I filo-russi non vedevano l'ora di una grande spallata ed hanno assecondato i progetti dell'Orso. Capitò agli americani in Iraq quando si fidarono di improbabili personaggi sciiti.

E poi non c'è nulla di più facile di prendere per buona la storia che combacia con i tuoi desideri. In mezzo si possono essere infilati giochi di 007 mentre persino Zelensky, alla vigilia dell'assalto, non nascondeva irritazione per le news allarmanti lanciate dalla Casa Bianca. Ci credeva o era tattica? Il suo Capo di Stato Maggiore Valery Zaluzhny, il 18 novembre, ha un colloquio con il generale statunitense Mike Milley, suo omologo, dedicato «alle attività della Russia nella regione». 

Tre giorni dopo il capo dell'intelligence ucraina Kyrylov Budanov, in un'intervista a Military Times , conferma il rischio di invasione tra la fine di gennaio e i primi giorni di febbraio. L'articolo è condito da una mappa. Sapevano. E lo raccontano a tutti senza essere presi sul serio. Perché gli esperti hanno compreso chiaramente le conseguenze di un simile conflitto - è la spiegazione di un commentatore russo del Russia Council - pensavano che bastassero per impedire la guerra.

«Abbiamo sbagliato perché non abbiamo sbagliato» nel prevedere il disastro. I killer Una storia avventurosa ha poi raccontato di un'operazione per uccidere proprio Zelensky e affidata ad un nucleo di ceceni. A sventarla la soffiata di un agente russo, quasi a confermare l'arte del doppio gioco, dove non puoi fidarti di nessuno. Sempre che anche questa indiscrezione non sia un tentativo di alimentare dubbi o paranoie. Le due case madre dello spionaggio - Usa e Russia - hanno sempre avuto il grande timore di essere fregati da una spia avversaria che offre di collaborare. Trucco classico.

I più prudenti - in qualche caso perfino ossessionati - erano gli americani, al punto da respingerli. Nel caso del presidente ucraino è plausibile che Mosca voglia toglierlo di mezzo. Quanto ai sicari il coinvolgimento dei ceceni è «esotico», evoca la loro ben nota risolutezza, tiene conto del ruolo in attività clandestine per conto dei servizi. Al tempo stesso, viste le condizioni attuali, è più facile che sia qualcuno vicino al leader e non uno «straniero». Ad ogni modo mai dire mai. L'intera storia ucraina è piena di sorprese. 

Elisa Calessi per liberoquotidiano.it l'1 marzo 2022.

Due documenti depositati in Parlamento – uno quindici giorni fa, l'altro un mese fa - accessibili a chiunque, anticipavano quello che ora sta accadendo in Ucraina. 

Con una precisione di analisi che, letta ora, davanti alle immagini delle bombe su Kiev e dei carri armati russi, fa impressione. Eppure è così. 

Parliamo della relazione annuale redatta dal Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, approvata il 9 febbraio e trasmessa al Parlamento il 10 febbraio, e di una relazione, sempre fatta dal Copasir, sulla "sicurezza energetica nell'attuale fase di transizione ecologica", approvata e trasmessa alle Camere il 13 gennaio 2022.

Entrambe sono il frutto di una serie audizioni svolte con i vertici dei Servizi Segreti oltre che – nel caso della seconda relazione - con operatori del settore energetico. Si aggiunge la circostanza, non da poco, che a presiedere il Copasir è Adolfo Urso, che, da viceministro delle Attività produttive e dello Sviluppo economico, ha avuto modo di approfondire la conoscenza dell'Europa orientale, dai Balcani ai Paesi Baltici. 

Il primo documento, la relazione annuale, dedica un intero capitolo alla Russia (8.2) e uno alla crisi in Ucraina (8.2.1). "L’attivismo della Russia", si legge, "si rivolge soprattutto all’acquisizione di informazioni di carattere politico-strategico, tecnologico e militare.

Oggetto di particolare interesse sono i processi decisionali nei vari settori dell’azione politica tra cui gli affari esteri e quelli interni, la politica energetica, la politica economica e le dialettiche interne alla NATO e all’Unione europea. Le attività portate avanti in questi ambiti sono solitamente negabili e difficilmente attribuibili". 

Si cita, poi, la presenza di personale dei servizi segreti russi nelle squadre mandate in aiuto all'Italia all'inizio della pandemia. Si tracciano, poi, le aree di influenza a cui guarda la Russia: Sahel, Libia. E si conclude con un avvertimento che, letto, ora fa tremare: "La NATO, nella dimensione regionale, e l’Europa si troveranno a confrontarsi con la pervasività cinese: un fronte aperto con la Russia o un’alleanza sino-russa, soprattutto se coinvolgesse la Repubblica islamica dell’Iran, amplificherebbero i rischi per cui, pur in un quadro contraddittorio e complesso, è necessario perseguire lo sforzo di un confronto strategico positivo".

Ma è il capitolo successivo, “La crisi in Ucraina”, ad anticipare con esattezza stupefacente quello che ora stiamo vivendo. "La situazione critica nelle relazioni tra Russia e Ucraina, accentuatasi negli ultimi mesi", si legge, "dimostra preliminarmente come l’Ucraina, per la sua collocazione, riveste un ruolo di rilievo sullo scacchiere geopolitico mondiale, tanto da spingere la Russia ad influenzarne in maniera decisiva ogni prospettiva". 

Si ricorda, poi, come "l’Ucraina è stata, per quasi settant’anni, una pietra angolare negli equilibri di costruzione e sviluppo dell’Unione Sovietica, di cui rappresentava la seconda forza dopo la Russia per numero di abitanti e rendimento economico, e di cui era punto di riferimento per gran parte della produzione agricola e dell’industria militare.

In più, l’Ucraina era sede della base della flotta sovietica del Mar Nero e custodiva numerose testate nucleari. A seguito della dissoluzione dell’URSS, il Paese in questi decenni di indipendenza ha ripetutamente cercato di realizzare un progetto di avvicinamento alle istituzioni europee e alla NATO, entrambe interessate a inglobare Kiev nella propria sfera di influenza. 

I tentativi sono però rimasti sempre frustrati e hanno contribuito, in maniera drammatica, a un conflitto interno nel quale si sono contrapposte due idee antitetiche di Ucraina: da un lato i nazionalisti, europeisti, delle regioni ad Ovest del Paese, promotori di uno Stato definitivamente integrato nell’Occidente; dall’altro la comunità di lingua russa, prevalente nelle regioni orientali e in Crimea, decisa a sostenere la necessità di un legame più forte con Mosca.

In questo contesto, nel 2014, la Russia ha perseguito i propri interessi nazionali, annettendo unilateralmente al territorio russo la Crimea, una regione a maggioranza etnica e linguistica russa. Mosca ha fornito poi un continuo sostegno ai gruppi separatisti del Donbass, scatenando un conflitto armato contro l’esercito ucraino, ancora irrisolto, che ha provocato migliaia di morti". 

Si ricorda, poi, che le "recenti fibrillazioni" potrebbero provocare "contraccolpi" che si rivelano "particolarmente delicati in ordine alla questione energetica che ha assunto un peso centrale negli ultimi mesi in Europa". E si rimanda alla relazione sulla situazione energetica.

Quindi, il passaggio che anticipa, con lucida preveggenza, gli eventi di queste ore: "La mancata autorizzazione della Germania al gasdotto Nord Stream 2, il combinato disposto tra il blocco delle forniture e un’escalation militare in Ucraina potrebbero comportare un ulteriore peggioramento della situazione, che risulterebbe rovinosa anche e soprattutto per l’Italia, che deve a Mosca oltre il 40 per cento delle importazioni.

Nel quadro della peggiore crisi energetica degli ultimi decenni, risulta evidente che la Russia può sfruttare questo tema per esercitare pressioni sull’Unione europea, usando le forniture di gas come strumento di tensione e di guerra asimmetrica. In particolare, l’Europa rischia di essere la principale vittima di questa sorta di guerra fredda del gas, andando incontro a ripercussioni sia di ordine politico-militare – poiché il malaugurato scenario di un conflitto sul confine orientale farebbe depositare sul vecchio continente le scorie dell’ostilità russo-americana – sia di ordine economico a causa dell’incidenza che riveste il gas".

Conclusione: "Gli ultimi sviluppi della crisi ucraina che vedono un dislocamento di una consistente presenza militare russa presso il confine, seppur un attacco su vasta scala sia ritenuto poco probabile, fanno temere un aumento del rischio di incidenti e l’innesco di reazioni. In ogni caso, la possibilità di attacchi di natura ibrida impone di mantenere alto il livello di attenzione, nella piena consapevolezza che l’Italia può e deve svolgere un ruolo di rilievo, di intesa con i partner UE e NATO". 

Il secondo documento (“Relazione sulla sicurezza energetica nella attuale fase di transizione ecologica”) ruota attorno alla "vulnerabilità" politica, oltre che economica, dovuta al fatto di dipendere per l'energia dall'estero.

Si ricorda la "dipendenza dalla Russia" in questo campo, fatto che rende l'Italia, "dal punto di vista degli approvvigionamenti, in una situazione di vulnerabilità". Nel capitolo dedicato al gas si approfondiscono i problemi, e si avverte del "rischio che il sistema subisca fenomeni di blackout", dovuti alla dipendenza dalla Russia. 

"L’approvvigionamento (del gas, n.d.r.)", si legge ancora, "è prevalentemente estero e origina in gran parte dalla Russia (42 per cento dell’approvvigionamento estero), seguono Algeria (14 per cento), Qatar (11 per cento), Norvegia (9 per cento), Libia (8 per cento) e Olanda (2 per cento).

Il sistema di stoccaggio garantisce il bilanciamento giornaliero assicurando la copertura nella stagione invernale e comunque continuità e sicurezza delle forniture. La capacità di stoccaggio è attualmente al 60 per cento, la media europea è del 50 per cento, ed è inferiore alla media degli anni precedenti a causa dell’aumento dei prezzi di questa risorsa".

E anche il capitolo si conclude con un passaggio profetico: "Il conseguimento di una maggiore autonomia nella produzione va osservata anche sotto il profilo del contesto geopolitico in cui si trovano i Paesi dai quali avviene l’approvvigionamento della gran parte del gas naturale che giunge in Italia. Si tratta spesso di aree di instabilità o caratterizzate da tensioni che in taluni casi vedono la gestione della disponibilità di questa risorsa energetica trasformarsi in strumento di pressione nei confronti dei Paesi europei".

Esattamente quello che sta per accadere. Per questo, si suggeriva di puntare a "una maggiore diversificazione nell’approvvigionamento" e a fonti energetiche alternative, compreso il nucleare di nuova generazione.